Francesco Guicciardini
STORIA D'ITALIA
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Lib.1, cap.1
Proposito e fine dell'opera. Prosperità d'Italia intorno al 1490. La
politica di Lorenzo de' Medici ed il desiderio di pace de' príncipi
italiani. La confederazione de' príncipi e l'ambizione de'
veneziani.
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in
Italia, dappoi che l'armi de' franzesi, chiamate da' nostri príncipi
medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla:
materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena
di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte
quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per
l'ira giusta d'Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri
uomini, essere vessati. Dalla cognizione de' quali casi, tanto vari
e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico,
prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli
evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno
mare concitato da' venti, siano sottoposte le cose umane; quanto
siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a' popoli, i
consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo
solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti,
non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e
convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la
salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione,
autori di nuove turbazioni.
Ma le calamità d'Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora
lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l'origine
tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento
negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora piú
liete e piú felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio
romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi
costumi, cominciò, già sono piú di mille anni, di quella grandezza a
declinare alla quale con maravigliosa virtú e fortuna era salito,
non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato
tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si
riposava l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e
gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché,
ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne'
luoghi piú montuosi e piú sterili che nelle pianure e regioni sue
piú fertili, né sottoposta a altro imperio che de' suoi medesimi,
non solo era abbondantissima d'abitatori, di mercatanzie e di
ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti
príncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città,
dalla sedia e maestà della religione, fioriva d'uomini
prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di
ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte
preclara e industriosa; né priva secondo l'uso di quella età di
gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a
tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la
conservavano molte cagioni: ma trall'altre, di consentimento comune,
si attribuiva laude non piccola alla industria e virtú di Lorenzo
de' Medici, cittadino tanto eminente sopra 'l grado privato nella
città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di
quella republica, potente piú per l'opportunità del sito, per gli
ingegni degli uomini e per la prontezza de' danari, che per
grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con
parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a' consigli suoi
Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il
suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l'autorità. E
conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe
molto pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse piú la
sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d'Italia in modo
bilanciate si mantenessino che piú in una che in un'altra parte non
pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza
vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo,
succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della
quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe
certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che
molte volte per l'addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e
alieni da' consigli della pace, e in questo tempo fusse molto
stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale
malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano,
suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto
incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e
soffocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo piú di dieci
anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre
madonna Bona, presa la tutela di lui e con questa occasione ridotte
a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d'arme, il
tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo; né
come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in
fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno
Ferdinando, avendo piú innanzi agli occhi l'utilità presente che
l'antica inclinazione o la indegnazione del figliuolo, benché
giusta, desiderava che Italia non si alterasse; o perché, avendo
provato pochi anni prima, con gravissimo pericolo, l'odio contro a
sé de' baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per la
memoria delle cose passate molti de' sudditi avevano al nome della
casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessino
occasione a' franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perché, per
fare contrapeso alla potenza de' viniziani, formidabile allora a
tutta Italia, conoscesse essere necessaria l'unione sua con gli
altri, e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze. Né a
Lodovico Sforza, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva
piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che
dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano,
e perché gli era piú facile conservare nella tranquillità della pace
che nelle molestie della guerra l'autorità usurpata. E se bene gli
fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso
d'Aragona, nondimeno, essendogli nota la disposizione di Lorenzo de'
Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente aveva
della grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversità degli
animi e antichi odii tra Ferdinando e i viniziani, fusse vano il
temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si riputava
assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a
tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere.
Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i
medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla
pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome
di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e
della republica fiorentina, per difensione de' loro stati; la quale,
cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti,
era stata nell'anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi
tutti i minori potentati d'Italia, rinnovata per venticinque anni:
avendo per fine principalmente di non lasciare diventare piú potenti
i viniziani; i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de'
confederati ma molto minori di tutti insieme, procedevano con
consigli separati da' consigli comuni, e aspettando di crescere
della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a
valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo
imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi
tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa
occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte duca di Milano,
tentorono, sotto colore di difendere la libertà del popolo milanese,
di farsi signori di quello stato; e piú frescamente quando, con
guerra manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono.
Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del senato
viniziano, ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e
fedele: conciossiacosaché, pieni tra se medesimi di emulazione e di
gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l'uno
dell'altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali
a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione:
il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti
maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte
quelle faville che origine di nuovo incendio essere potessino.
Lib.1, cap.2
Morte di Lorenzo de' Medici. Morte di papa innocenzo VIII ed
elezione di Alessandro VI. La politica amichevole di Piero de'
Medici verso Ferdinando d'Aragona ed i primi timori di Lodovico
Sforza.
Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della
tranquillità d'Italia, disposti e contrapesati in modo che non solo
di alterazione presente non si temeva ma né si poteva facilmente
congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi
s'avesse a muovere tanta quiete. Quando, nel mese di aprile
dell'anno mille quattrocento novantadue, sopravenne la morte di
Lorenzo de' Medici; morte acerba a lui per l'età, perché morí non
finiti ancora quarantaquattro anni; acerba alla patria, la quale,
per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte
le cose onorate e eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze
e di tutti quegli beni e ornamenti da' quali suole essere nelle cose
umane la lunga pace accompagnata. Ma e fu morte incomodissima al
resto d'Italia, cosí per l'altre operazioni le quali da lui, per la
sicurtà comune, continuamente si facevano, come perché era mezzo a
moderare e quasi uno freno ne' dispareri e ne' sospetti i quali, per
diverse cagioni, tra Ferdinando e Lodovico Sforza, príncipi di
ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano.
La morte di Lorenzo, preparandosi già ogni dí piú le cose alle
future calamità, seguitò, pochi mesi poi, la morte del pontefice; la
vita del quale, inutile al publico bene per altro, era almeno utile
per questo, che avendo deposte presto l'armi mosse infelicemente,
per gli stimoli di molti baroni del regno di Napoli, nel principio
del suo pontificato, contro a Ferdinando, e voltato poi totalmente
l'animo a oziosi diletti, non aveva piú, né per sé né per i suoi,
pensieri accesi a cose che la felicità d'Italia turbare potessino. A
Innocenzio succedette Roderigo Borgia, di patria valenziano, una
delle città regie di Spagna, antico cardinale, e de' maggiori della
corte di Roma, ma assunto al pontificato per le discordie che erano
tra i cardinali Ascanio Sforza e Giuliano di san Piero a Vincola, ma
molto piú perché, con esempio nuovo in quella età, comperò
palesemente, parte con danari parte con promesse degli uffici e
benefici suoi, che erano amplissimi, molti voti di cardinali: i
quali, disprezzatori dell'evangelico ammaestramento, non si
vergognorono di vendere la facoltà di trafficare col nome della
autorità celeste i sacri tesori, nella piú eccelsa parte del tempio.
Indusse a contrattazione tanto abominevole molti di loro il
cardinale Ascanio, ma non già piú con le persuasioni e co' prieghi
che con lo esempio; perché corrotto dall'appetito infinito delle
ricchezze, pattuí da lui per sé, per prezzo di tanta sceleratezza,
la vicecancelleria, ufficio principale della corte romana, chiese,
castella e il palagio suo di Roma, pieno di mobili di grandissima
valuta. Ma non fuggí, per ciò, né poi il giudicio divino né allora
l'infamia e odio giusto degli uomini, ripieni per questa elezione di
spavento e di orrore, per essere stata celebrata con arti sí brutte;
e non meno perché la natura e le condizioni della persona eletta
erano conosciute in gran parte da molti: e, tra gli altri, è
manifesto che il re di Napoli, benché in publico il dolore conceputo
dissimulasse, significò alla reina sua moglie con lacrime, dalle
quali era solito astenersi eziandio nella morte de' figliuoli,
essere creato uno pontefice che sarebbe perniciosissimo a Italia e a
tutta la republica cristiana: pronostico veramente non indegno della
prudenza di Ferdinando. Perché in Alessandro sesto (cosí volle
essere chiamato il nuovo pontefice) fu solerzia e sagacità
singolare, consiglio eccellente, efficacia a persuadere
maravigliosa, e a tutte le faccende gravi sollecitudine e destrezza
incredibile; ma erano queste virtú avanzate di grande intervallo da'
vizi: costumi oscenissimi, non sincerità non vergogna non verità non
fede non religione, avarizia insaziabile, ambizione immoderata,
crudeltà piú che barbara e ardentissima cupidità di esaltare in
qualunque modo i figliuoli i quali erano molti; e tra questi
qualcuno, acciocché a eseguire i pravi consigli non mancassino pravi
instrumenti, non meno detestabile in parte alcuna del padre.
Tanta variazione feciono per la morte di Innocenzio ottavo le cose
della chiesa. Ma variazione di importanza non minore aveano fatta,
per la morte di Lorenzo de' Medici, le cose di Firenze; ove senza
contradizione alcuna era succeduto, nella grandezza del padre, Piero
maggiore di tre figliuoli, ancora molto giovane, ma né per l'età né
per l'altre sue qualità atto a reggere peso sí grave, né capace di
procedere con quella moderazione con la quale procedendo, e dentro e
fuori, il padre, e sapendosi prudentemente temporeggiare tra'
príncipi collegati, aveva, vivendo, le publiche e le private
condizioni amplificate, e, morendo, lasciata in ciascuno costante
opinione che per opera sua principalmente si fusse la pace d'Italia
conservata. Perché non prima entrato Piero nella amministrazione
della republica che, con consiglio direttamente contrario a'
consigli paterni né comunicato co' cittadini principali, senza i
quali le cose gravi deliberare non si solevano, mosso dalle
persuasioni di Verginio Orsino parente suo (erano la madre e la
moglie di Piero nate della famiglia Orsina), si ristrinse talmente
con Ferdinando e con Alfonso, da' quali Verginio dependeva, che ebbe
Lodovico Sforza causa giusta di temere che qualunque volta gli
Aragonesi volessino nuocergli arebbono per l'autorità di Piero de'
Medici congiunte seco le forze della republica fiorentina. Questa
intelligenza, seme e origine di tutti i mali, se bene da principio
fusse trattata e stabilita molto segretamente, cominciò quasi
incontinente, benché per oscure congetture, a essere sospetta a
Lodovico, principe vigilantissimo e di ingegno molto acuto. Perché
dovendosi, secondo la consuetudine inveterata di tutta la
cristianità, mandare imbasciadori a adorare, come vicario di Cristo
in terra, e a offerire di ubbidire il nuovo pontefice, aveva
Lodovico Sforza, del quale fu proprio ingegnarsi di parere, con
invenzioni non pensate da altri, superiore di prudenza a ciascuno,
consigliato che tutti gli imbasciadori de' collegati entrassino in
uno dí medesimo insieme in Roma, presentassinsi tutti insieme nel
concistorio publico innanzi al pontefice, e che uno di essi orasse
in nome comune, perché da questo, con grandissimo accrescimento
della riputazione di tutti, a tutta Italia si dimostrerebbe essere
tra loro non solo benivolenza e confederazione, ma piú tosto tanta
congiunzione che e' paressino quasi un principe e un corpo medesimo.
Manifestarsi, non solamente col discorso delle ragioni ma non meno
con fresco esempio, l'utilità di questo consiglio; perché, secondo
che si era creduto, il pontefice ultimamente morto, preso argomento
della disunione de' collegati dall'avergli con separati consigli e
in tempi diversi prestato l'ubbidienza, era stato piú pronto ad
assaltare il regno di Napoli. Approvò facilmente Ferdinando il
parere di Lodovico; approvoronlo per l'autorità dell'uno e
dell'altro i fiorentini, non contradicendo ne' consigli publici
Piero de' Medici, benché privatamente gli fusse molestissimo,
perché, essendo uno degli oratori eletti in nome della republica e
avendo deliberato di fare illustre la sua legazione con apparato
molto superbo e quasi regio, si accorgeva che, entrando in Roma e
presentandosi al pontefice insieme con gli altri imbasciadori de'
collegati, non poteva in tanta moltitudine apparire agli occhi degli
uomini lo splendore della pompa sua: la quale vanità giovenile fu
confermata dagli ambiziosi conforti di Gentile vescovo aretino, uno
medesimamente degli eletti imbasciadori; perché aspettandosi a lui,
per la degnità episcopale e per la professione la quale negli studi
che si chiamano d'umanità fatta avea, l'orare in nome de'
fiorentini, si doleva incredibilmente di perdere, per questo modo
insolito e inaspettato, l'occasione di ostentare la sua eloquenza in
cospetto sí onorato e sí solenne. E però Piero, stimolato parte
dalla leggierezza propria parte dall'ambizione di altri, ma non
volendo che a notizia di Lodovico Sforza pervenisse che da sé si
contradicesse al consiglio proposto da lui, richiese il re che,
dimostrando d'avere dappoi considerato che senza molta confusione
non si potrebbeno eseguire questi atti comunemente, confortasse che
ciascuno, seguitando gli esempli passati, procedesse da se medesimo:
nella quale domanda il re, desideroso di compiacergli, ma non tanto
che totalmente ne dispiacesse a Lodovico, gli sodisfece piú
dell'effetto che del modo; conciossiacosaché e' non celò che non per
altra cagione si partiva da quel che prima avea consentito che per
l'instanza fatta da Piero de' Medici. Dimostrò di questa subita
variazione maggiore molestia Lodovico che per se stessa non meritava
l'importanza della cosa, lamentandosi gravemente che, essendo già
nota al pontefice e a tutta la corte di Roma la prima deliberazione
e chi ne fusse stato autore, ora studiosamente si ritrattasse, per
diminuire la sua reputazione. Ma gli dispiacque molto piú che, per
questo minimo e quasi non considerabile accidente, cominciò a
comprendere che Piero de' Medici avesse occultamente intelligenza
con Ferdinando: il che, per le cose che seguitorono, venne a luce
ogni dí piú chiaramente.
Lib.1, cap.3
La vendita dei castelli di Franceschetto Cibo nel Lazio a Verginio
Orsino. L'indignazione del pontefice e gli incitamenti di Lodovico
Sforza. Questi cerca distogliere dall'amicizia per Ferdinando
d'Aragona Piero de' Medici. Confederazione di Lodovico co' veneziani
e col pontefice. Suoi pensieri di maggiormente assicurarsi con armi
straniere.
Possedeva l'Anguillara, Cervetri e alcun'altre piccole castella
vicine a Roma Franceschetto Cibo genovese, figliuolo naturale di
Innocenzio pontefice, il quale andato, dopo la morte del padre,
sotto l'ombra di Piero de' Medici fratello di Maddalena sua moglie,
a abitare in Firenze, non prima arrivò in quella città che,
interponendosene Piero, vendé quelle castella per quarantamila
ducati a Verginio Orsino: cosa consultata principalmente con
Ferdinando, il quale gli prestò occultamente la maggiore parte de'
danari, persuadendosi che a beneficio proprio risultasse quanto piú
la grandezza di Verginio, soldato, aderente e parente suo, intorno a
Roma si distendesse. Perché il re, considerando la potenza de'
pontefici essere instrumento molto opportuno a turbare il regno di
Napoli, antico feudo della chiesa romana, e il quale confina per
lunghissimo spazio col dominio ecclesiastico, e ricordandosi delle
controversie le quali il padre e egli aveano molte volte avute con
loro, e essere sempre parata la materia di nuove contenzioni, per le
giurisdizioni de' confini, per conto de' censi, per le collazioni
de' beneficii, per il ricorso de' baroni, e per molte altre
differenze che spesso nascono tra gli stati vicini né meno spesso
tra il feudatario e il signore del feudo, ebbe sempre per uno de'
saldi fondamenti della sicurtà sua che da sé dependessino o tutti o
parte de' baroni piú potenti del territorio romano: cosa che in
questo tempo piú prontamente facea, perché si credea che appresso al
pontefice avesse a essere grande l'autorità di Lodovico Sforza, per
mezzo del cardinale Ascanio suo fratello. Né lo moveva forse meno,
come molti credettono, il timore che in Alessandro non fusse
ereditaria la cupidità e l'odio di Calisto terzo pontefice, suo zio;
il quale, per desiderio immoderato della grandezza di Pietro Borgia
suo nipote, arebbe, subito che fu morto Alfonso padre di Ferdinando,
se la morte non si fusse interposta a' consigli suoi, mosse l'armi
per spogliarlo del regno di Napoli, ricaduto, secondo affermava,
alla chiesa; non si ricordando (tanto poco può spesso negli uomini
la memoria de' benefici ricevuti) che per opera di Alfonso, ne' cui
regni era nato e cui ministro lungo tempo era stato, aveva ottenuto
l'altre degnità ecclesiastiche e aiuto non piccolo a conseguire il
pontificato. Ma è certamente cosa verissima che non sempre gli
uomini savi discernono o giudicano perfettamente: bisogna che spesso
si dimostrino segni della debolezza dello intelletto umano. Il re,
benché riputato principe di prudenza grande, non considerò quanto
meritasse di essere ripresa quella deliberazione, la quale, non
avendo in qualunque caso altra speranza che di leggierissima
utilità, poteva partorire da altra parte danni gravissimi.
Imperocché la vendita di queste, piccole castella incitò a cose
nuove gli animi di coloro a quali o apparteneva o sarebbe stato
utile attendere alla conservazione della concordia comune. Perché il
pontefice, pretendendo che, per la alienazione fatta senza saputa
sua, fussino, secondo la disposizione delle leggi, alla sedia
apostolica devolute, e parendogli offesa non mediocremente
l'autorità pontificale, considerando oltre a questo quali fussino i
fini di Ferdinando, empié tutta Italia di querele contro a lui,
contro a Piero de' Medici e contro a Verginio; affermando che, per
quanto si distendesse il potere suo, opera alcuna opportuna a
ritenere la degnità e le ragioni di quella sedia non
pretermetterebbe. Ma non manco se ne commosse Lodovico Sforza, al
quale erano sempre sospette l'azioni di Ferdinando; perché,
essendosi vanamente persuaso, il pontefice co' consigli di Ascanio e
suoi aversi a reggere, gli pareva perdita propria ciò che si
diminuisse della grandezza d'Alessandro. Ma soprattutto gli
accresceva la molestia il non si potere piú dubitare che gli
Aragonesi e Piero de' Medici, poi che in opere tali procedevano
unitamente, non avessino contratta insieme strettissima
congiunzione; i disegni de' quali, come pericolosi alle cose sue,
per interrompere, e per tirare a sé tanto piú con questa occasione
l'animo del pontefice, lo incitò quanto piú gli fu possibile alla
conservazione della propria degnità, ricordandogli che si proponesse
innanzi agli occhi non tanto quello che di presente si trattava
quanto quello che importava l'essere stata, ne primi dí del suo
pontificato, disprezzata cosí apertamente da' suoi medesimi vassalli
la maestà dí tanto grado. Non credesse che la cupidità di Verginio o
l'importanza delle castella, non che altra cagione avesse mosso
Ferdinando, ma il volere, con ingiurie che da principio paressino
piccole, tentare la sua pazienza e il suo animo: dopo le quali, se
queste gli fussino comportate, ardirebbe di tentare alla giornata
cose maggiori. Non essere l'ambizione sua diversa da quella degli
altri re napoletani, inimici perpetui della chiesa romana; per ciò
avere moltissime volte quegli re perseguitati con l'armi i
pontefici, occupato piú volte Roma. Non avere questo medesimo re
mandato due volte contro a due pontefici gli eserciti, con la
persona del figliuolo, insino alle mura romane? non avere quasi
sempre esercitato inimicizie aperte co' suoi antecessori? Irritarlo
di presente contro a lui non solo l'esempio degli altri re, non solo
la cupidità sua naturale del dominare, ma di piú il desiderio della
vendetta per la memoria delle offese ricevute da Calisto suo zio.
Avvertisse diligentemente a queste cose, e considerasse che,
tollerando con pazienza le prime ingiurie, onorato solamente con
cerimonie e nomi vani, sarebbe effettualmente dispregiato da
ciascuno e darebbe animo a piú pericolosi disegni; ma
risentendosene, conserverebbe agevolmente la pristina maestà e
grandezza, e la vera venerazione dovuta da tutto il mondo a'
pontefici romani. Aggiunse alle persuasioni offerte efficacissime ma
piú efficaci fatti, perché gli prestò prontissimamente quarantamila
ducati, e condusse seco, a spese comuni ma perché stessino fermi
dove paresse al pontefice, trecento uomini d'arme: e nondimeno,
desideroso di fuggire la necessità di entrare in nuovi travagli,
confortò Ferdinando che disponesse Verginio a mitigare con qualche
onesto modo l'animo del pontefice, accennandogli che altrimenti
gravissimi scandoli da questo lieve principio nascere potrebbono. Ma
piú liberamente e con maggiore efficacia ammuní molte volte Piero
de' Medici che, considerando quanto fusse stato opportuno a
conservare la pace d'Italia che Lorenzo suo padre fusse proceduto
come uomo di mezzo e amico comune tra Ferdinando e lui, volesse piú
tosto seguitare l'esempio domestico, avendo massime a pigliare
l'imitazione da persona stata di tanto valore, che, credendo a
consigli nuovi, dare a altri cagione, anzi piú tosto necessità, di
fare deliberazioni le quali alla fine avessino a essere perniciose a
ciascuno; e che si ricordasse quanto la lunga amicizia tra la casa
Sforzesca e quella de' Medici avesse dato all'una e all'altra
sicurtà e riputazione, e quante offese e ingiurie avesse fatte la
casa di Aragona al padre e a' maggiori suoi e alla republica
fiorentina, e quante volte Ferdinando, e prima Alfonso suo padre,
avessino tentato di occupare, ora con armi ora con insidie, il
dominio di Toscana.
Ma nocevano piú che giovavano questi conforti e ammunizioni, perché
Ferdinando, stimando essergli indegno il cedere a Lodovico e a
Ascanio, dagli stimoli de' quali si persuadeva che la indegnazione
del pontefice procedesse, e spronato da Alfonso suo figliuolo,
confortò secretamente Verginio che non ritardasse a ricevere, per
virtú del contratto, la possessione delle castella, promettendo
difenderlo da qualunque molestia gli fusse fatta; e da altra parte,
governandosi con le naturali sue arti, proponeva col pontefice
diversi modi di composizione, confortando nondimeno Verginio
occultamente a non consentire se non a quegli per i quali,
sodisfacendo al pontefice con qualche somma di danari, avesse a
ritenersi le castella. Onde Verginio, preso animo, ricusò poi piú
volte di quegli partiti i quali Ferdinando, per non irritare tanto
il pontefice, faceva instanza che egli accettasse. Nelle quali
pratiche vedendosi che Piero de' Medici perseverava di seguitare
l'autorità del re, e essere vana ogni diligenza che per rimuovernelo
si facesse, Lodovico Sforza, considerando seco medesimo quanto
importasse che dagli inimici suoi dipendesse quella città, il
temperamento della quale soleva essere il fondamento principale
della sua sicurtà, e perciò parendogli che gli soprastessino molti
pericoli, deliberò alla salute propria con nuovi rimedii provedere;
conciossiaché gli fusse notissimo il desiderio ardente che avevano
gli Aragonesi che e' fusse rimosso dal governo del nipote: il quale
desiderio benché Ferdinando, pieno in tutte le azioni di incredibile
simulazione e dissimulazione, si fusse sforzato di coprire,
nondimeno Alfonso, uomo di natura molto aperta, non si era mai
astenuto di lamentarsi palesemente della oppressione del genero,
dicendo, con maggiore libertà che prudenza, parole ingiuriose e
piene di minaccie. Sapeva oltre a questo Lodovico che Isabella
moglie di Giovan Galeazzo, giovane di virile spirito, non cessava di
stimolare continuamente il padre e l'avolo che, se non gli moveva la
infamia di tanta indegnità del marito e di lei, gli movesse almanco
il pericolo della vita al quale erano esposti, insieme co' propri
figliuoli. Ma quel che piú angustiava l'animo suo era il considerare
essere sommamente esoso il suo nome a tutti i popoli del ducato di
Milano, sí per molte insolite esazioni di danari che avea fatte come
per la compassione che ciascheduno aveva di Giovan Galeazzo
legittimo signore; e benché egli si sforzasse di fare sospetti gli
Aragonesi di cupidità di insignorirsi di quello stato, come se essi
pretendessino appartenersi a loro per l'antiche ragioni del
testamento di Filippo Maria Visconte, il quale aveva instituito
erede Alfonso padre di Ferdinando, e che per facilitare questo
disegno cercassino di privare il nipote del suo governo, nondimeno
non conseguitava con queste arti la moderazione dell'odio conceputo,
né che universalmente non si considerasse a quali sceleratezze
soglia condurre gli uomini la sete pestifera del dominare. Però, poi
che lungamente s'ebbe rivolto nella mente lo stato delle cose e i
pericoli imminenti, posposti tutti gli altri pensieri, indirizzò del
tutto l'animo a cercare nuovi appoggi e congiunzioni; e a questo
dimostrandogli grande opportunità lo sdegno del pontefice contro a
Ferdinando e il desiderio che si credeva che avesse il senato
viniziano che si scompigliasse quella confederazione per la quale
era stata fatta molti anni opposizione a' disegni suoi, propose
all'uno e all'altro di loro di fare insieme, per beneficio comune,
nuova confederazione. Ma nel pontefice prevaleva allo sdegno e a
qualunque altro affetto la cupidità sfrenata della esaltazione de'
figliuoli, i quali amando ardentemente, primo di tutti i pontefici
che per velare in qualche parte la infamia loro solevano chiamargli
nipoti, gli chiamava e mostrava a tutto il mondo come figliuoli; né
se gli presentando per ancora opportunità di dare per altra via
principio allo intento suo, faceva instanza di ottenere per moglie
di uno di loro una delle figliuole naturali di Alfonso, con dote di
qualche stato ricco nel regno napoletano: dalla quale speranza
insino non restò escluso prestò piú gli orecchi che l'animo alla
confederazione proposta da Lodovico; e se in questo desiderio gli
fusse stato corrisposto non si sarebbe, per avventura, la pace
d'Italia cosí presto perturbata. Ma benché Ferdinando non ne fusse
alieno, nondimeno Alfonso, il quale aborriva l'ambizione e il fasto
de' pontefici recusò sempre di consentirvi; e perciò, non
dimostrando che dispiacesse loro il matrimonio ma mettendo
difficoltà nella qualità dello stato dotale, non sodisfacevano ad
Alessandro: per il che egli alterato si risolvé di seguitare i
consigli di Lodovico, incitandolo la cupidità e lo sdegno e in
qualche parte il timore; perché agli stipendi di Ferdinando era non
solo Verginio Orsino, il quale, per gli eccessivi favori che aveva
da' fiorentini e da lui e per il seguito della fazione guelfa, era
allora molto potente in tutto il dominio ecclesiastico, ma ancora
Prospero e Fabrizio principali della famiglia de' Colonnesi; e il
cardinale di san Piero in Vincola, cardinale di somma estimazione,
ritiratosi nella rocca d'Ostia, tenuta da lui come da vescovo
ostiense, per sospetto che il pontefice non insidiasse alla sua
vita, era di inimicissimo di Ferdinando, contro al quale aveva già
concitato prima Sisto pontefice suo zio e poi Innocenzio, amicissimo
diventato. Ma non fu già pronto come si credeva il senato viniziano
a questa confederazione; perché, se bene gli fusse molto grata la
disunione degli altri, lo ritardavano la infedeltà del pontefice,
sospetta già ogni dí piú a ciascuno, e la memoria delle leghe fatte
da loro con Sisto e con Innocenzio suoi prossimi antecessori, perché
dall'una ricevettono molestie assai senza comodo alcuno, e Sisto,
quando piú ardeva la guerra contro al duca di Ferrara, alla quale
prima gli aveva concitati, mutata sentenza, procedé con l'armi
spirituali, e pigliò l'armi temporali insieme col resto d'Italia
contro a loro. Ma superando tutte le difficoltà appresso al senato,
e privatamente con molti de' senatori, la industria e la diligenza
di Lodovico, si contrasse finalmente, del mese di aprile l'anno
mille quattrocento novantatré, tra il pontefice, il senato veneto e
Giovan Galeazzo duca di Milano (espedivansi in nome suo tutte le
deliberazioni di quello stato) nuova confederazione a difensione
comune e a conservazione nominatamente del governo di Lodovico; con
patto che i viniziani e il duca di Milano fussino tenuti a mandare
subito a Roma, per sicurtà dello stato ecclesiastico e del
pontefice, dugento uomini d'arme per ciascuno, e a aiutarlo con
questi, e se bisogno fusse con maggiori forze, all'acquisto delle
castella occupate da Verginio.
Sollevorno questi nuovi consigli non mediocremente gli animi di
tutta Italia, poiché il duca di Milano rimaneva separato da quella
lega, la quale piú di dodici anni aveva mantenuta la sicurtà comune,
imperocché in essa espressamente si proibiva che alcuno de'
confederati facesse nuova collegazione senza consentimento degli
altri: e perciò, vedendosi rotta con ineguale divisione quella
unione in cui consisteva la bilancia delle cose, e ripieni di
sospetto e di sdegno gli animi de' príncipi, che si poteva altro che
credere che in detrimento comune avessino a nascere frutti conformi
a questi semi? Però il duca di Calavria e Piero de' Medici,
giudicando essere piú sicuro alle cose loro il prevenire che
l'essere prevenuti, udirono con grande inclinazione Prospero e
Fabrizio Colonna, i quali, confortati occultamente al medesimo dal
cardinale di San Piero a Vincola, offerivano di occupare
all'improviso Roma con le genti d'arme delle compagnie loro e con
gli uomini della fazione ghibellina, in caso che gli seguitassino le
forze degli Orsini e che il duca si accostasse prima in luogo che,
fra tre dí poi che e' fussino entrati, potesse soccorrergli. Ma
Ferdinando, desideroso non di irritare piú, ma di mitigare l'animo
del pontefice e di ricorreggere quel che insino a quel dí
imprudentemente si era fatto, rifiutati totalmente questi consigli,
i quali giudicava partorirebbono non sicurtà ma travagli e pericoli
molto maggiori, deliberò di fare ogni opera, non piú simulatamente
ma con tutto il cuore, per comporre la differenza delle castella;
persuadendosi che, levata quella cagione di tanta alterazione,
avesse con piccola fatica, anzi quasi per se stessa, Italia nello
stato di prima a ritornarsi. Ma non sempre per il rimuovere delle
cagioni si rimuovono gli effetti i quali da quelle hanno avuto la
prima origine. Perché, come spesso accade che le deliberazioni fatte
per timore paiono, a chi teme, inferiori al pericolo, non si
confidava Lodovico d'avere trovato rimedio bastante alla sicurtà
sua; ma dubitando, per i fini del pontefice e del senato viniziano
diversi da' suoi, non potere fare lungo tempo fondamento nella
confederazione fatta con loro, e che per ciò le cose sue potessino
per vari casi ridursi in molte difficoltà, applicò i pensieri suoi
piú a medicare dalle radici il primo male che innanzi agli occhi se
gli presentava, che a quegli che di poi ne potessino risultare; né
si ricordando quanto sia pernicioso l'usare medicina piú potente che
non comporti la natura della infermità e la complessione dello
infermo, e come se l'entrare in maggiori pericoli fusse rimedio
unico a' presenti pericoli, deliberò, per assicurarsi con le armi
forestiere, poi che e nelle forze proprie e nelle amicizie italiane
non confidava, di tentare ogni cosa per muovere Carlo ottavo re di
Francia ad assaltare il regno di Napoli, il quale per l'antiche
ragioni degli Angioini appartenersegli pretendeva.
Lib.1, cap.4
Il reame di Napoli fino a Ferdinando ed i diritti di successione
della casa d'Angiò. Ambizione di Carlo VIII sul reame e
sollecitazioni di Lodovico Sforza. Disposizione contraria
all'impresa de' grandi del regno di Francia. Patti conclusi fra
Carlo VIII e Lodovico Sforza. Considerazioni dell'autore.
Il reame di Napoli, detto assurdamente nelle investiture e bolle
della chiesa romana, della quale è feudo antichissimo, il regno di
Sicilia di qua dal Faro, fu, come occupato ingiustamente da
Manfredi, figliuolo naturale di Federigo secondo imperadore,
conceduto in feudo insieme con l'isola della Sicilia, sotto titolo
delle Due Sicilie, l'una di qua l'altra di là dal Faro, insino
nell'anno mille dugento sessantaquattro, da Urbano quarto pontefice
romano a Carlo conte di Provenza e di Angiò, fratello di quello
Lodovico re di Francia che, chiaro per la potenza ma piú chiaro per
la santità della vita, meritò di essere ascritto dopo la morte nel
numero de' santi. Il quale avendo con la possanza dell'armi ottenuto
effettualmente quello di che gli era stato conferito il titolo con
l'autorità della giustizia, si continuò dopo la morte sua il regno
di Napoli in Carlo suo figliuolo, chiamato dagli italiani, per
distinguerlo dal padre, Carlo secondo; e dopo lui in Ruberto suo
nipote. Ma essendo dipoi, per la morte di Ruberto senza figliuoli
maschi, succeduta Giovanna figliuola di Carlo duca di Calavria, il
quale giovane era morto innanzi al padre, cominciò presto a essere
dispregiata, non meno per l'infamia de' costumi che per la
imbecillità del sesso, l'autorità della nuova reina. Da che essendo
nate in progresso di tempo varie discordie e guerre, non però tra
altri che tra i discendenti medesimi di Carlo primo, nati di diversi
figliuoli di Carlo secondo, Giovanna, disperando di potersi
altrimenti difendere, adottò per figliuolo Lodovico duca di Angiò,
fratello di Carlo quinto re di Francia, quello a cui, per avere, con
fare piccola esperienza della fortuna, ottenuto molte vittorie,
dettono i franzesi il sopranome di saggio. Il quale Lodovico,
passato in Italia con potentissimo esercito, essendo prima stata
violentemente morta Giovanna e trasferito il regno in Carlo chiamato
di Durazzo, discendente similmente di Carlo primo, morí di febbre in
Puglia, quando era già quasi in possessione della vittoria: in modo
che agli Angioini non pervenne di questa adozione altro che la
contea di Provenza, stata posseduta continuamente da' discendenti di
Carlo primo. Ebbe nondimeno da questo l'origine il diritto, col
quale poi e Lodovico d'Angiò figliuolo del primo Lodovico e in altro
tempo il nipote del medesimo nome, stimolati da' pontefici quando
erano discordi con quegli re, assaltorono spesso, benché con poca
fortuna, il regno di Napoli. Ma a Carlo di Durazzo era succeduto
Ladislao suo figliuolo; il quale essendo mancato, l'anno mille
quattrocento quattordici, senza figliuoli, pervenne la corona a
Giovanna seconda, sua sorella, nome infelice a quel reame e non meno
all'una e all'altra di loro, non differenti né di imprudenza né di
lascivia di costumi. Perché, mettendo Giovanna il governo del regno
nelle mani di quelle persone nelle mani delle quali metteva
impudicamente il corpo suo, si ridusse presto in tante difficoltà
che, vessata dal terzo Lodovico con l'aiuto di Martino quinto
pontefice, fu finalmente costretta, per ultimo sussidio, a adottare
per figliuolo Alfonso re di Aragona e di Sicilia: ma venuta non
molto poi con lui in contenzione, annullata sotto titolo di
ingratitudine l'adozione, adottò per figliuolo e chiamò in soccorso
suo il medesimo Lodovico per la guerra del quale era stata
necessitata di fare la prima adozione; e cacciato con l'armi Alfonso
di tutto il regno, lo conservò mentre visse pacificamente, e morendo
senza figliuoli instituí erede (come fu fama) Renato duca d'Angiò e
conte di Provenza, fratello di Lodovico figliuolo suo adottivo,
morto per avventura l'anno medesimo. Ma dispiacendo a molti de'
baroni del regno la successione di Renato, essendosi divulgato che
'l testamento era stato falsamente fabricato dai napoletani, fu da
una parte de' baroni e de' popoli chiamato Alfonso. Da questo ebbono
origine le guerre tra Alfonso e Renato, le quali molti anni
afflissono sí nobile regno, fatte da loro piú con le forze del reame
medesimo che con le proprie; da questo, per le volontà contrarie,
sorsono le fazioni, non ancora al dí d'oggi al tutto spente, degli
aragonesi e angioini; variando eziandio nel corso del tempo i titoli
e i colori della ragione, perché i pontefici, seguitando piú le sue
cupidità o le necessità de' tempi che la giustizia, le investiture
diversamente concederono. Ma essendo delle guerre tra Alfonso e
Renato rimasto vincitore Alfonso, principe di maggiore potenza e
valore, e morendo poi senza figliuoli legittimi, non fatta memoria
di Giovanni suo fratello e successore ne' regni di Sicilia e di
Aragona, lasciò per testamento il regno di Napoli, come acquistato
da sé e però non appartenente alla corona di Aragona, a Ferdinando
figliuolo suo naturale. Il quale, se bene quasi incontinente dopo la
morte del padre fu assaltato, con le spalle de' principali baroni
del regno, da Giovanni figliuolo di Renato, nondimeno con la
felicità e virtú sua non solamente si difese, ma afflisse in modo
gli avversari che mai piú in vita di Renato, il quale sopravisse piú
anni al figliuolo, ebbe né da contendere con gli Angioini né da
temerne. Morí finalmente Renato, e non avendo figliuoli maschi fece
erede in tutti gli stati e ragioni sue Carlo figliuolo del fratello,
il quale morendo poco di poi senza figliuoli lasciò per testamento
la sua eredità a Luigi undecimo re di Francia; a cui non solo
ricadde come a supremo signore il ducato di Angiò, nel quale, perché
è membro della corona, non succedono le femmine, ma con tutto che 'l
duca dell'Oreno, nato di una figliuola di Renato, asserisse
appartenersi a sé la successione degli altri stati, entrò in
possessione della Provenza; e poteva, per vigore del testamento
medesimo, pretendere essergli applicate le ragioni che gli Angioini
avevano al reame di Napoli: le quali essendo, per la sua morte,
continuate in Carlo ottavo suo figliuolo, incominciò Ferdinando re
di Napoli ad avere potentissimo avversario, e si presentò
grandissima opportunità a chiunque di offenderlo desiderava. Perché
il regno di Francia era in quel tempo piú florido d'uomini, di
gloria d'arme, di potenza, di ricchezze e di autorità in tra gli
altri regni, che forse dopo Carlo magno fusse mai stato; essendosi
ampliato novellamente in ciascuna di quelle tre parti nelle quali,
appresso agli antichi, si divideva tutta la Gallia. Conciossiaché,
non piú che quaranta anni innanzi a questo tempo, sotto Carlo
settimo, re per molte vittorie ottenute con gravissimi pericoli
chiamato benavventurato, si fussino ridotte sotto quello imperio la
Normandia e il ducato di Ghienna, provincie possedute prima dagli
inghilesi; e negli ultimi anni di Luigi undecimo la contea di
Provenza, il ducato di Borgogna e quasi tutta la Piccardia; e dipoi
aggiunto, per nuovo matrimonio, alla potenza di Carlo ottavo il
ducato di Brettagna. Né mancava nell'animo di Carlo inclinazione a
cercare d'acquistare con l'armi il regno di Napoli, come giustamente
appartenente a sé, cominciata per un certo istinto quasi naturale
insino da puerizia e nutrita da' conforti di alcuni che gli erano
molto accetti; i quali empiendolo di pensieri vani gli proponevano
questa essere occasione di avanzare la gloria de' suoi predecessori,
perché, acquistato il reame di Napoli, gli sarebbe agevole il
vincere lo imperio de' turchi. Le quali cose, essendo già note a
molti, dettono speranza a Lodovico Sforza di potere facilmente
persuadergli il suo desiderio; confidandosi oltre a questo non poco
nella introduzione che aveva nella corte di Francia il nome
sforzesco, perché ed egli sempre e prima Galeazzo suo fratello
aveano, con molte dimostrazioni e offici, continuata l'amicizia
cominciata da Francesco Sforza loro padre: il quale, avendo, trenta
anni innanzi, ricevuto in feudo da Luigi undecimo, l'animo del quale
re aborrí sempre le cose d'Italia, la città di Savona e le ragioni
che e' pretendeva avere in Genova, dominata già dal suo padre, non
era giammai da altra parte mancato a lui ne' suoi pericoli né di
consiglio né di aiuto. E nondimeno Lodovico, parendogli pericoloso
l'essere solo a suscitare movimento sí grande, e per trattare la
cosa in Francia con maggiore credito e autorità, cercò, prima, di
persuadere il medesimo al pontefice non meno con gli stimoli
dell'ambizione che dello sdegno; dimostrandogli che, o per favore
de' príncipi italiani o per mezzo dell'armi loro, non poteva né di
vendicarsi contro a Ferdinando né di acquistare stati onorati per i
figliuoli avere speranza alcuna. E avendolo trovato pronto, o per
cupidità di cose nuove o per ottenere dagli Aragonesi, per mezzo del
timore, quei che di concedergli spontaneamente recusavano, mandorono
secretissimamente in Francia uomini confidati a tentare l'animo del
re e di coloro che erano intimi ne' consigli suoi: i quali non se ne
mostrando alieni, Lodovico, dirizzatosi in tutto a questo disegno,
vi mandò, benché spargendo nome d'altre cagioni, scopertamente
imbasciadore Carlo da Barbiano conte di Belgioioso. In quale, poi
che per qualche dí, e con Carlo in privata udienza e separatamente
con tutti i principali, ebbe fatto diligenza di persuadergli,
introdotto finalmente un giorno nel consiglio reale, presente il re,
dove oltre a' ministri regi intervennono tutti i signori e molti
prelati e nobili della corte, parlò, secondo si dice, in questa
sentenza:
- Se alcuno, per qual si voglia cagione, avesse, cristianissimo re,
sospetta la sincerità dell'animo e della fede con la quale Lodovico
Sforza, offerendovi eziandio comodità di danari e aiuto delle sue
genti, vi conforta a muovere l'armi per acquistare il reame di
Napoli, rimoverà facilmente da sé questa male fondata suspicione se
si ridurrà in memoria l'antica divozione avuta in ogni tempo da lui,
da Galeazzo suo fratello e prima da Francesco suo padre, a Luigi
undecimo padre vostro, e poi continuamente al vostro gloriosissimo
nome; e molto piú se e' considererà di questa impresa potere
risultare a Lodovico gravissimi danni senza speranza di alcuna
utilità, e a voi tutto il contrario; al quale uno regno bellissimo
della vittoria perverrebbe, con grandissima gloria e opportunità di
cose maggiori, ma a lui non altro che una giustissima vendetta
contro alle insidie e ingiurie degli Aragonesi: e da altra parte, se
tentata non riuscisse, non per questo diventerebbe minore la vostra
grandezza. Ma chi non sa che Lodovico, fattosi esoso a molti e
divenuto in dispregio di ciascuno, non arebbe in caso tale rimedio
alcuno a' suoi pericoli? E però, come può essere sospetto il
consiglio di colui che ha, in qualunque evento, le condizioni tanto
ineguali e con tanto disavvantaggio dalle vostre? Benché le ragioni
che vi invitano a fare cosí onorata espedizione sono tanto chiare e
potenti per se stesse che non ammettono alcuna dubitazione,
concorrendo amplissimamente tutti i fondamenti i quali nel
deliberare l'imprese principalmente considerare si debbono: la
giustizia della causa, la facilità del vincere, il frutto
grandissimo della vittoria. Perché a tutto il mondo è notissimo
quanto siano efficaci sopra il reame di Napoli le ragioni della casa
d'Angiò, della quale voi siete legittimo erede, e quanto sia giusta
la successione che questa corona pretende a' discendenti di Carlo;
il quale, primo del sangue reale di Francia, ottenne, con l'autorità
de' pontefici romani e con la virtú dell'armi proprie, quel reame.
Ma non è già minore la facilità a conquistarlo che la giustizia.
Perché chi è quello che non sappia quanto sia inferiore di forze e
di autorità il re di Napoli al primo e piú potente re di tutti i
cristiani? quanto sia grande e terribile per tutto il mondo il nome
de' franzesi? e di quanto spavento siano l'armi vostre a tutte le
nazioni? Non assaltorono giammai il reame di Napoli i piccoli duchi
d'Angiò che non lo riducessino in gravissimo pericolo. È fresca la
memoria che Giovanni figliuolo di Renato aveva in mano la vittoria
contro al presente Ferdinando, se non glien'avesse tolta Pio
pontefice, e molto piú Francesco Sforza, che si mosse, come ognuno
sa, per ubbidire a Luigi undecimo vostro padre. Che faranno adunque
ora l'armi e l'autorità di tanto re, essendo massime cresciute le
opportunità e diminuite le difficoltà che ebbono Renato e Giovanni,
poi che sono uniti con voi i príncipi di quegli stati che impedirono
la loro vittoria, e che possono con somma facilità offendere il
regno di Napoli? il papa per terra, per la vicinità dello stato
ecclesiastico; il duca di Milano, per l'opportunità di Genova, a
assaltarlo per mare. Né sarà in Italia chi vi si opponga; perché i
viniziani non vorranno esporsi a spese e a pericoli, né privarsi
della amicizia che lungo tempo co' re di Francia hanno tenuta, per
conservare Ferdinando inimicissimo del nome loro; e i fiorentini non
è credibile che si partino dalla divozione naturale che hanno alla
casa di Francia, e se pure volessino opporsi, di che momento saranno
contro a tanta possanza? Quante volte ha, contro alla volontà di
tutta Italia, passate l'Alpi questa bellicosissima nazione, e
nondimeno, con inestimabile gloria e felicità, riportatone tante
vittorie e trionfi! E quando fu mai il reame di Francia piú felice,
piú glorioso, piú potente che ora? e quando mai gli fu sí facile
l'avere pace stabile con tutti i vicini? le quali cose se per
l'addietro concorse fussino, sarebbe stato pronto, per avventura, il
padre vostro a questa medesima espedizione. Né sono manco
accresciute agli inimici le difficoltà che a voi l'opportunità,
perché è ancora potente in quel reame la parte angioina, sono
gagliarde le dipendenze di tanti príncipi e gentiluomini scacciati
iniquamente pochissimi anni sono, e perché sono state sí aspre le
ingiurie fatte in ogni tempo da Ferdinando a' baroni e a' popoli, a
quegli ancora della fazione aragonese. Tanto è grande la sua
infedeltà, tanto immoderata l'avarizia, tanto orribili e sí spessi
gli esempli della crudeltà sua e di Alfonso suo primogenito, che è
notissimo che tutto il regno, concitato da odio incredibile contro a
loro e nel quale è verde la memoria della liberalità, della bontà,
della magnanimità, dell'umanità, della giustizia de' re franzesi, si
leverà con allegrezza smisurata alla fama della vostra venuta; in
modo che la deliberazione sola del fare la impresa basterà a farvi
vittorioso. Perché come i vostri eserciti aranno passati i monti,
come l'armata marittima sarà congregata nel porto di Genova,
Ferdinando e i figliuoli, spaventati dalla coscienza delle loro
sceleratezze, penseranno piú a fuggirsi che a difendersi. Cosí con
somma facilità arete recuperato al sangue vostro uno regno, che, se
bene non è da agguagliare alla grandezza di Francia, è pure regno
amplissimo e ricchissimo, ma da apprezzare molto piú per il profitto
e per i comodi infiniti che ne perverranno a questo reame: i quali
racconterei tutti, se non fusse notorio che maggiori fini ha la
generosità franzese, che piú degni e piú alti pensieri sono quegli
di sí magnanimo, di sí glorioso re, diritti non allo interesse
proprio ma all'universale grandezza di tutta la republica cristiana.
E a questo che maggiore opportunità? che piú ampia occasione? quale
sito piú comodo, piú atto a fare la guerra contro agli inimici della
nostra religione? Non è piú largo, come ognuno sa, in qualche luogo,
che settanta miglia il mare che è tra il regno di Napoli e la
Grecia: dalla quale provincia, oppressata e lacerata da' turchi, e
che non desidera altro che vedere le bandiere de' cristiani, quanto
è facile l'entrare nelle viscere di quella nazione! percuotere
Costantinopoli, sedia e capo di quello imperio! E a chi appartiene
piú che a voi, potentissimo re, volgere l'animo e i pensieri a
questa santa impresa? per la potenza maravigliosa che Iddio v'ha
data, per il cognome cristianissimo che voi avete, per l'esempio de'
vostri gloriosi predecessori; i quali usciti tante volte armati di
questo regno, ora per liberare la chiesa d'Iddio oppressa da'
tiranni ora per assaltare gli infedeli ora per recuperare il
sepolcro santissimo di Cristo, hanno esaltato insino al cielo il
nome e la maestà de' re di Francia. Con questi consigli, con queste
arti, con queste azioni, con questi fini, diventò magno e imperadore
di Roma quello gloriosissimo Carlo; il cui nome come voi ottenete,
cosí vi si presenta l'occasione d'acquistare la gloria e il cognome.
Ma perché consumo io piú tempo in queste ragioni? come se non sia
piú conveniente e piú secondo l'ordine della natura il rispetto del
conservare che dell'acquistare! Perché chi non sa di quanta infamia
vi sarebbe, invitandovi massime sí grandi occasioni, il tollerare
piú che Ferdinando vi occupi uno regno tale? stato posseduto per
continua successione poco manco di dugento anni da' re del vostro
sangue, e il quale è manifesto giuridicamente aspettarsi a voi? Chi
non sa quanto appartenga alla degnità vostra il recuperarlo? quanto
pietoso il liberare quegli popoli che adorano il glorioso nome
vostro, che di ragione sono vostri sudditi, dalla tirannide
acerbissima de' catelani? È adunque l'impresa giustissima, è
facilissima, è necessaria. È non meno gloriosa e santa, e per se
stessa e perché vi apre la strada alle imprese degne di uno
cristianissimo re di Francia: alle quali non solo gli uomini, ma Dio
è quello, o magnanimo re, che tanto apertamente vi chiama, Dio è
quello che vi mena, con sí grandi e sí manifeste occasioni,
proponendovi, innanzi al principiarla, somma felicità. Imperocché
quale maggiore felicità può avere principe alcuno che le
deliberazioni dalle quali risulta la gloria e la grandezza propria
siano accompagnate da circostanze e conseguenze tali che apparisca
che elle si faccino non meno per beneficio e per salute universale,
e molto piú per l'esaltazione di tutta la republica cristiana? -
Non fu udita con allegro animo questa proposta da' signori grandi di
Francia, e specialmente da coloro che per nobiltà e opinione di
prudenza erano di maggiore autorità; i quali giudicavano non potere
essere altro che guerra piena di molte difficoltà e pericoli,
avendosi a condurre gli eserciti in paese forestiero e tanto lontano
dal regno di Francia, e contro a inimici molto stimati e potenti.
Perché grandissima era per tutto la fama della prudenza di
Ferdinando, né minore quella del valore di Alfonso nella scienza
militare; e si credeva che, avendo regnato Ferdinando trenta anni e
spogliati e distrutti in vari tempi tanti baroni, avesse accumulato
molto tesoro. Consideravano il re essere poco capace a sostenere da
sé solo un pondo sí grave; e, nel maneggio delle guerre e degli
stati, debole il consiglio e l'esperienza di coloro che avevano fede
appresso a lui piú per favore che per ragione. Aggiugnersi la
carestia di danari, de' quali si stimava avesse a bisognarne
grandissima quantità; e doversi ridurre nella memoria ciascuno
l'astuzie e gli artifici degli italiani, e rendersi certo che non
solo agli altri ma né a Lodovico Sforza, notato non che altro in
Italia di poca fede, potesse piacere che in potestà di uno re di
Francia fusse il reame di Napoli. Onde e il vincere sarebbe
difficile, e piú difficile il conservare le cose vinte. Però Luigi
padre di Carlo, principe che aveva sempre seguitato piú la sostanza
che l'apparenza delle cose, non avere mai accettato le speranze
propostegli d'Italia, né tenuto conto delle ragioni pervenutegli del
regno di Napoli, ma sempre affermato che il mandare eserciti di là
da' monti non era altro che cercare di comperare molestie e
pericoli, con infinito tesoro e sangue del reame di Francia. Essere,
volendo procedere a questa espedizione, innanzi a ogni cosa
necessario comporre le controversie co' re vicini: perché con
Ferdinando re di Spagna cagioni di discordie e di sospetti non
mancavano; e con Massimiliano re de' romani e con Filippo arciduca
d'Austria suo figliuolo erano molte non solo emulazioni ma ingiurie;
gli animi de' quali non si potrebbono riconciliare senza concedere a
essi cose dannosissime alla corona di Francia, e non di meno si
riconcilierebbono piú con le dimostrazioni che con gli effetti:
perché quale accordo basterebbe a assicurare che, sopravenendo
all'esercito regio qualche difficoltà in Italia, non assaltassino il
regno di Francia? né doversi sperare che in Enrico settimo re di
Inghilterra non avesse forza maggiore l'odio naturale degli
inghilesi contro a' franzesi che la pace fatta con lui pochi mesi
avanti; perché era manifesto avervelo tirato, piú che altra causa,
il non corrispondere gli apparati del re de' romani alle promesse
con le quali l'avea indotto a porre il campo intorno a Bologna.
Queste e altre simili ragioni si allegavano da' signori grandi,
parte tra loro medesimi parte col re, a dissuadere la nuova guerra:
tra i quali la detestava, piú efficacemente che alcun altro, Iacopo
Gravilla, ammiraglio di Francia, uomo al quale la fama inveterata in
tutto il regno di essere savio conservava l'autorità, benché gli
fusse alquanto stata diminuita la grandezza. E nondimeno si porgeva
in contrario con grande avidità l'orecchio da Carlo: il quale,
giovane d'anni ventidue, e per natura poco intelligente delle azioni
umane, era traportato da ardente cupidità di dominare e da appetito
di gloria, fondato piú tosto in leggiera volontà e quasi impeto che
in maturità di consiglio; e prestando, o per propria inclinazione o
per l'esempio e ammonizioni paterne, poca fede a' signori e a'
nobili del regno, poi che era uscito della tutela di Anna duchessa
di Borbone sua sorella, né udendo piú i consigli dell'ammiraglio e
degli altri i quali erano stati grandi in quel governo, si reggeva
col parere di alcuni uomini di piccola condizione, allevati quasi
tutti a servigio della persona sua; de' quali quegli di piú favore
veementemente ne lo confortavano, parte, come sono venali spesso i
consigli de' príncipi, corrotti da' doni e da promesse fatte dallo
imbasciadore di Lodovico, che non lasciò indietro diligenza o arte
alcuna per farsi propizii quegli che erano di momento a questa
deliberazione, parte mossi dalle speranze propostesi, chi
d'acquistare stati nel regno di Napoli chi di ottenere dal pontefice
degnità e entrate ecclesiastiche. Capo di tutti questi era Stefano
di Vers, di nazione di Linguadoca, di basso legnaggio, ma nutrito
molti anni nella camera del re, e da lui fatto siniscalco di
Belcari. A costui aderiva Guglielmo Brissonetto; il quale, di
mercatante diventato prima generale di Francia e poi vescovo di San
Malò, non solo era preposto all'amministrazione delle entrate regie,
che in Francia dicono sopra le finanze, ma unito con Stefano, e per
sua opera, aveva già grandissima introduzione in tutte le faccende
importanti, benché di governare cose di stato avesse piccolo
intendimento. Aggiugnevansi gli stimoli di Antonello da San Severino
principe di Salerno, e di Bernardino della medesima famiglia
principe di Bisignano, e di molti altri baroni sbanditi del reame di
Napoli; i quali, ricorsi piú anni prima in Francia, avevano
continuamente incitato Carlo a questa impresa, allegando la pessima
disposizione, piú presto disperazione, di tutto il regno, e le
dipendenze e il seguito grande che avere in quello si promettevano.
Stette in questa varietà di pareri sospesa molti giorni la
deliberazione, essendo non solo dubbio agli altri quello che
s'avesse a determinare ma incerto e incostante l'animo di Carlo;
perché, ora stimolandolo la cupidità della gloria e dello imperio
ora raffrenandolo il timore, era talvolta irresoluto, talvolta si
volgeva al contrario di quello che pareva che prima avesse
determinato. Pure ultimatamente, prevalendo la sua pristina
inclinazione e il fato infelicissimo d'Italia a ogni contradizione,
rifiutati del tutto i consigli quieti, fu fatta, ma senza saputa di
altri che del vescovo di San Malò e del siniscalco di Belcari,
convenzione con lo imbasciadore di Lodovico. Della quale stettono
piú mesi occulte le condizioni, ma la somma fu che, passando Carlo
in Italia o mandando esercito per l'acquisto di Napoli, il duca di
Milano fusse tenuto a dargli il passo per il suo stato, a mandare
con le sue genti cinquecento uomini d'arme pagati, permettergli che
a Genova armasse quanti legni volesse, e a prestargli, innanzi
partisse di Francia, dugentomila ducati; e da altra parte il re si
obligò alla difesa del ducato di Milano contro a ciascuno, con
particolare menzione di conservare l'autorità di Lodovico, e a
tenere ferme in Asti, città del duca di Orliens, durante la guerra,
dugento lancie, perché fussino preste a' bisogni di quello stato: e
o allora o non molto dipoi, per una scritta sottoscritta di propria
mano, promesse, ottenuto che avesse il reame di Napoli, concedere a
Lodovico il principato di Taranto.
Non è certo opera perduta o senza premio il considerare la varietà
de' tempi e delle cose del mondo. Francesco Sforza padre di
Lodovico, principe di rara prudenza e valore, inimico degli
Aragonesi per gravissime offese ricevute da Alfonso padre di
Ferdinando, e amico antico degli Angioini, nondimeno, quando
Giovanni figliuolo di Renato, l'anno mille quattrocento
cinquantasette, assaltò il regno di Napoli, aiutò con tanta
prontezza Ferdinando che da lui fu principalmente riconosciuta la
vittoria; mosso non da altro che da parergli troppo pericoloso al
ducato suo di Milano che di uno stato cosí potente in Italia i
franzesi tanto vicini si insignorissino: la quale ragione aveva
prima indotto Filippo Maria Visconte che, abbandonati gli Angioini
favoriti insino a quel dí da lui, liberasse Alfonso suo inimico; il
quale, preso da' genovesi in una battaglia navale presso a Gaeta,
gli era stato condotto, con tutta la nobiltà de' regni suoi,
prigione a Milano. Da altra parte Luigi padre di Carlo, stimolato
spesse volte da molti, e con non leggiere occasioni, alle cose di
Napoli, e chiamato instantemente da' genovesi al dominio della loro
patria stata posseduta da Carlo suo padre, aveva sempre recusato di
mescolarsi in Italia, come cosa piena di spese e difficoltà e
all'ultimo perniciosa al regno di Francia. Ora, variate l'opinioni
degli uomini ma non già forse variate le ragioni delle cose, e
Lodovico chiamava i franzesi di qua da' monti, non temendo da uno
potentissimo re di Francia, se in mano sua fusse il regno di Napoli,
di quello pericolo che il padre suo, valorosissimo nell'armi, aveva
temuto se l'avesse acquistato uno piccolo conte di Provenza; e Carlo
ardeva di desiderio di fare guerre in Italia, preponendo la temerità
di uomini bassi e inesperti al consiglio del padre suo, re di lunga
esperienza e prudente. Certo è che Lodovico fu medesimamente
confortato a tanta deliberazione da Ercole da Esti duca di Ferrara,
suo suocero; il quale, ardendo di desiderio di recuperare il
Polesine di Rovigo, paese contiguo e molto importante alla sicurtà
di Ferrara, statogli occupato da' viniziani, nella guerra dieci anni
innanzi avuta con loro, conosceva essere unica via di poterlo
ricuperare che Italia tutta si turbasse con grandissimi movimenti.
Ma e fu creduto da molti che Ercole, benché col genero simulasse
benivolenza grandissima, nondimeno in secreto l'odiasse
estremamente, perché, essendo in quella guerra tutto 'l resto
d'Italia che aveva prese l'armi per lui molto superiore a viniziani,
Lodovico, il quale già governava lo stato di Milano, mosso da'
propri interessi, costrinse gli altri a fare la pace, con condizione
che a' viniziani rimanesse quel Pulesine; e però, che Ercole, non
potendo con l'armi vendicarsi di tanta ingiuria, cercasse vendicarsi
col dargli pestifero consiglio.
Lib.1, cap.5
Pubbliche dichiarazioni di fiduciosa sicurezza e segrete
preoccupazioni di Ferdinando d'Aragona. Sua azione per allontanare
da sé il pericolo e per riconciliarsi col pontefice e con Lodovico
Sforza. Il re di Francia compone le sue divergenze co' re di Spagna,
col re de' romani e con l'arciduca d'Austria. L'investitura di
Lodovico Sforza a duca di Milano. Ambasciata di Perone di Baccie al
pontefice, al senato veneziano ed a' fiorentini. Piero de' Medici di
fronte alle richieste del re di Francia. Comincia a vacillare la
congiunzione fra il pontefice e Ferdinando d'Aragona.
Ma essendo già incominciata, benché da principio con autori incerti,
a risonare in Italia la fama di quello che oltre a' monti si
trattava, si destorono vari pensieri e discorsi nelle menti degli
uomini: perché a molti, i quali la potenza del regno di Francia, la
prontezza di quella nazione a nuovi movimenti e le divisioni degli
italiani consideravano, pareva cosa di grandissimo momento; altri,
per la età e per le qualità del re, e per la negligenza propria a'
franzesi e per gli impedimenti che hanno le grandi imprese,
giudicavano questo essere piú tosto impeto giovenile che fondato
consiglio, il quale, poi che fusse alquanto ribollito, avesse
leggiermente a risolversi. Né Ferdinando, contro al quale tali cose
si macchinavano, dimostrava d'averne molto timore, allegando essere
impresa durissima: perché, se e' pensassino assaltarlo per mare,
troverebbono lui proveduto d'armata sufficiente a combattere con
loro in alto mare, i porti bene fortificati e tutti in sua potestà,
né essere nel regno barone alcuno che gli potesse ricevere come era
stato ricevuto Giovanni d'Angiò dal principe di Rossano e da altri
grandi; l'espedizione per terra essere incomoda, sospetta a molti e
lontana, avendosi a passare prima per la lunghezza di tutta Italia,
di maniera che ciascuno degli altri arebbe causa particolarmente di
temerne, e forse piú di tutti Lodovico Sforza, benché, volendo
dimostrare che fusse proprio di altri il pericolo comune, simulasse
il contrario, perché, per la vicinità dello stato di Milano alla
Francia, aveva il re maggiore facoltà e verisimilmente maggiore
cupidità di occuparlo. E essendogli il duca di Milano congiuntissimo
di sangue, come potere almeno assicurarsi Lodovico che il re non
avesse in animo liberarlo dalla sua oppressione? avendo massime
pochi anni innanzi affermato palesemente che non comporterebbe che
Giovan Galeazzo suo cugino fusse conculcato sí indegnamente. Non
avere tale condizione le cose aragonesi che la speranza della
debolezza loro dovesse dare a' franzesi ardire d'assaltarle, essendo
egli bene ordinato di molta e fiorita gente d'arme, abbondante di
bellicosi cavalli, di munizioni, di artiglierie e di tutte le
provisioni necessarie alla guerra, e con tanta copia di danari che
senza incomodità potrebbe quanto gli fusse necessario augumentarle;
e oltre a molti peritissimi capitani preposto al governo degli
eserciti e armi sue il duca di Calavria suo primogenito, capitano di
fama grande e di virtú non minore, e esperimentato per molti anni in
tutte le guerre d'Italia. Aggiugnersi alle forze proprie gli aiuti
pronti de' suoi medesimi, perché non essere da dubitare gli mancasse
il soccorso del re di Spagna, suo cugino e fratello della moglie, sí
per il vincolo doppio del parentado come perché gli sarebbe sospetta
la vicinità de' franzesi alla Sicilia. Queste cose si dicevano da
Ferdinando publicamente, magnificando la sua potenza e estenuando
quanto poteva le forze e l'opportunità degli avversarii; ma, come
era re di singolare prudenza e di esperienza grandissima,
intrinsecamente gravissimi pensieri lo tormentavano, avendo fissa
nell'animo la memoria de' travagli avuti, nel principio del regno
suo, da questa nazione. Considerava profondamente dovere avere la
guerra con inimici bellicosissimi e potentissimi, e molto superiori
a sé di cavalleria, di peditato, d'armate marittime, di artiglierie,
di danari e d'uomini ardentissimi a esporsi a ogni pericolo per la
gloria e grandezza del proprio re; a sé, per contrario, sospetta
ogni cosa, pieno il regno quasi tutto o di odio grande contro al
nome aragonese o di inclinazione non mediocre a rebelli suoi, del
resto la maggiore parte cupida per l'ordinario di nuovi re, e nella
quale avesse a potere piú la fortuna che la fede, ed essere maggiore
la riputazione che il nervo delle sue cose; non bastare i danari
accumulati alle spese necessarie per la difesa, e empiendosi per la
guerra ogni cosa di ribellione e di tumulti annichilarsi in uno
momento l'entrate. Avere in Italia molti inimici, niuna amicizia
stabile e fidata; perché chi non era stato offeso, in qualche tempo,
o dalle armi o dalle arti sue? Né di Spagna, secondo l'esempio del
passato e le condizioni di quel regno, potere aspettare altri aiuti
a' suoi pericoli che larghissime promesse e fama grandissima di
apparati ma effetti piccolissimi e tardissimi. Accrescevangli il
timore molte predizioni infelici alla casa sua, venutegli a notizia
in diversi tempi, parte per scritture antiche ritrovate di nuovo
parte per parole d'uomini, incerti spesso del presente ma che si
arrogano certezza del futuro; cose nella prosperità credute poco,
come cominciano a apparire l'avversità credute troppo. Angustiato da
queste considerazioni, e presentandosegli maggiore senza
comparazione la paura che le speranze, conobbe non essere altro
rimedio a tanti pericoli che o il rimuovere, quanto piú presto si
poteva, con qualche concordia, la mente del re di Francia da questi
pensieri o levargli parte de' fondamenti che lo incitavano alla
guerra. Perciò, avendo in Francia imbasciadori, mandativi per
trattare lo sposalizio di Ciarlotta figliuola di don Federigo suo
secondo genito col re di Scozia, il quale, per essere la fanciulla
nata di una sorella della madre di Carlo e allevata nella sua corte,
si maneggiava da lui, dette loro sopra le cose occorrenti nuove
commissioni; e vi deputò, oltre a questi, Cammillo Pandone, statovi
altre volte per lui: affine che, tentando privatamente i principali
con premi e offerte grandi, e proponendo al re, quando altrimenti
non si potesse mitigarlo, condizione di censo e altre sommissioni,
si sforzasse di ottenere da lui la pace. Né solo interpose tutta la
diligenza e autorità sua per comporre la differenza delle castella
comperate da Verginio Orsino, la cui durezza si lamentava essere
stata causa di tutti i disordini, ma ricominciò col pontefice le
pratiche del parentado trattato prima tra loro. Ma il principale suo
studio e diligenza si indirizzò a mitigare e ad assicurare l'animo
di Lodovico Sforza, autore e motore di tutto il male, persuadendosi
che a cosí pericoloso consiglio piú il timore che altra cagione lo
conducesse. E però, anteponendo la sicurtà propria allo interesse
della nipote e alla salute del figliuolo nato di lei, gli offerse,
per diversi mezzi, di riferirsi in tutto alla sua volontà, delle
cose di Giovan Galeazzo e del ducato di Milano: non attendendo al
parere d'Alfonso, il quale, pigliando animo dalla timidità naturale
di Lodovico, né si ricordando che alle deliberazioni precipitose si
conduce non meno agevolmente il timido per la disperazione che si
conduca il temerario per la inconsiderazione, giudicava che
l'aspreggiarlo con spaventi e con minaccie fusse mezzo opportuno a
farlo ritirare da questi nuovi consigli. Composesi finalmente, dopo
varie difficoltà, procedute piú da Verginio che dal pontefice, la
differenza delle castella; intervenendo alla composizione don
Federigo, mandato a questo effetto dal padre a Roma: convennono che
Verginio le ritenesse, ma pagando al pontefice tanta quantità di
danari per quanti l'aveva prima comperate da Franceschetto Cibo.
Conchiusesi insieme lo sposalizio di madama Sances figliuola
naturale di Alfonso in don Giuffré figliuolo minore del pontefice,
inabili tutt'a due per l'età alla consumazione del matrimonio: le
condizioni furono che don Giuffré andasse fra pochi mesi a stare a
Napoli, ricevesse in dote il principato di Squillaci con entrata di
ducati diecimila l'anno, e fusse condotto con cento uomini d'arme
agli stipendi di Ferdinando: donde si confermò l'opinione, avuta da
molti, che quel che aveva trattato in Francia il pontefice fusse
stato trattato principalmente per indurre col timore gli Aragonesi a
queste convenzioni. Tentò di piú Ferdinando di confederarsi con lui
a difesa comune; ma interponendo il pontefice molte difficoltà, non
ottenne altro che una promessa occultissima, per breve, di aiutarlo
a difendere il regno di Napoli, in caso che Ferdinando promettesse a
lui di fare il medesimo dello stato della Chiesa. Le quali cose
espedite, si partirono, licenziate dal papa, del dominio
ecclesiastico le genti d'arme che i viniziani e il duca di Milano
gli aveano mandate in aiuto. Né cominciò Ferdinando con minore
speranza di felice successo a trattare con Lodovico Sforza, il quale
con arte grandissima, ora mostrandosi malcontento della inclinazione
del re di Francia alle cose d'Italia come pericolosa a tutti gli
italiani, ora scusandosi per la necessità la quale, per il feudo di
Genova e per la confederazione antica con la casa di Francia,
l'aveva costretto a udire le richieste fattegli, secondo diceva, da
quel re, ora promettendo, qualche volta a Ferdinando qualche volta
separatamente al pontefice e a Piero de' Medici, di affaticarsi
quanto potesse per raffreddare l'ardore di Carlo, si sforzava di
tenergli addormentati in questa speranza, acciocché, innanzi che le
cose di Francia fussino bene ordinate e stabilite, contro a lui
qualche movimento non si facesse: e gli era creduto piú facilmente
perché la deliberazione di fare passare il re di Francia in Italia
era giudicata sí mal sicura ancora per lui, che non pareva possibile
che finalmente non se n'avesse, considerato il pericolo, a ritirare.
Consumossi tutta la state in queste pratiche, procedendo Lodovico in
modo che, senza dare ombra al re di Francia, né Ferdinando né il
pontefice né i fiorentini delle sue promesse si disperavano né
totalmente vi confidavano. Ma in questo tempo si gittavano in
Francia sollecitamente i fondamenti della nuova espedizione, alla
quale, contro al consiglio di quasi tutti i signori, era ogni dí
maggiore l'ardore del re: il quale, per essere piú espedito, compose
le differenze che aveva con Ferdinando e con Isabella, re e reina di
Spagna, príncipi in quello tempo molto celebrati e gloriosi per la
fama della prudenza loro, per avere ridotti di grandissime
turbolenze in somma tranquillità e ubbidienza i regni suoi, e per
avere nuovamente, con guerra continuata dieci anni, recuperato al
nome di Cristo il reame di Granata, stato posseduto da' mori di
Affrica poco manco di ottocento anni; per la quale vittoria
conseguirono dal pontefice, con grande applauso di tutti i
cristiani, il cognome di re cattolici. Fu espresso in questa
capitolazione, fermata molto solennemente e con giuramenti prestati
in publico dall'una parte e dall'altra ne' templi sacri, che
Ferdinando e Isabella (reggevasi la Spagna in nome comune) né
direttamente né indirettamente gli Aragonesi aiutassino, parentado
nuovo con loro non contraessino, né in modo alcuno per difesa di
Napoli a Carlo si opponessino; le quali obligazioni egli per
ottenere, cominciando dalla perdita certa per speranza di guadagno
incerto, restituí senza alcuno pagamento Perpignano con tutta la
contea di Rossiglione, impegnata molti anni innanzi a Luigi suo
padre da Giovanni re di Aragona padre di Ferdinando: cosa
molestissima a tutto il regno di Francia, perché quella contea,
situata alle radici de' monti Pirenei e però, secondo l'antica
divisione, parte della Gallia, impediva agli spagnuoli l'entrare in
Francia da quella parte. Fece per la medesima cagione Carlo pace con
Massimiliano re de' romani e con Filippo arciduca d'Austria suo
figliuolo, i quali avevano seco gravissime cagioni, antiche e nuove,
di inimicizia, cominciate perché Luigi suo padre, per l'occasione
della morte di Carlo duca di Borgogna e conte di Fiandra e di molti
altri paesi circostanti, aveva occupato il ducato di Borgogna, il
contado di Artois e molte altre terre possedute da lui. Donde
essendo nate gravi guerre tra Luigi e Maria figliuola unica di
Carlo, la quale poco dopo la morte del padre si era maritata a
Massimiliano, era ultimamente, essendo già morta Maria e succeduto
nell'eredità materna Filippo figliuolo comune di Massimiliano e di
lei, fattasi, piú per volontà de' popoli di Fiandra che di
Massimiliano, concordia tra loro; per stabilimento della quale a
Carlo figliuolo di Luigi fu Margherita sorella di Filippo sposata e,
benché fusse di età minore, condotta in Francia: dove poi che fu
stata piú anni, Carlo repudiatala, tolse per moglie Anna, alla
quale, per la morte di Francesco suo padre senza figliuoli maschi,
apparteneva il ducato di Brettagna; con doppia ingiuria di
Massimiliano, privato in uno tempo medesimo del matrimonio della
figliuola e del proprio, perché prima per mezzo di suoi procuratori
aveva sposato Anna. E nondimeno, impotente a sostentare da se stesso
la guerra, ricominciata per cagione di questa ingiuria, né volendo i
popoli di Fiandra, i quali, per essere Filippo pupillo, con
consiglio e autorità propria si reggevano, stare in guerra col regno
di Francia; e vedendo posate l'armi contro a' franzesi da' re di
Spagna e di Inghilterra, consentí alla pace: per la quale Carlo
restituí a Filippo Margherita sua sorella, ritenuta insino a quel dí
in Francia, e insieme le terre del contado di Artois, riservandosi
le fortezze ma con obligazione di restituirle alla fine di quattro
anni; al quale tempo Filippo, divenuto di età maggiore, poteva
validamente confermare l'accordo fatto. Le quali terre, nella pace
fatta dal re Luigi, erano state concordemente riconosciute come per
dote di Margherita predetta.
Stabilissi, per esser renduta al regno di Francia la pace da tutti i
vicini, la deliberazione della guerra di Napoli per l'anno prossimo;
e che in questo mezzo tutte le provisioni necessarie si
preparassino, sollecitate continuamente da Lodovico Sforza. Il quale
(come i pensieri degli uomini di grado in grado si distendono), non
pensando piú solo a assicurarsi nel governo ma sollevato a piú alti
pensieri, aveva nell'animo, con l'occasione de' travagli degli
Aragonesi, trasferire in tutto in sé il ducato di Milano: e per dare
qualche colore di giustizia a tanta ingiustizia, e fermare con
maggiori fondamenti le cose sue a tutti i casi che potessino
intervenire, maritò Bianca Maria sorella di Giovan Galeazzo e sua
nipote a Massimiliano, succeduto nuovamente per la morte di Federico
suo padre nello imperio romano; promettendogli in dote in certi
tempi quattrocentomila ducati in pecunia numerata, e in gioie e in
altri apparati ducati quarantamila. E da altro canto Massimiliano,
seguitando in questo matrimonio piú i danari che il vincolo della
affinità, si obligò di concedere a Lodovico, in pregiudicio di
Giovan Galeazzo nuovo cognato, l'investitura del ducato di Milano,
per sé, per i figliuoli e per i discendenti suoi; come se quello
stato, dopo la morte di Filippo Maria Visconte, fusse di legittimo
duca sempre vacato: promettendo di consegnargli, al tempo
dell'ultimo pagamento, i privilegi, spediti in forma amplissima.
I Visconti, gentiluomini di Milano, nelle parzialità sanguinosissime
che ebbe Italia de' ghibellini e de' guelfi, cacciati finalmente i
guelfi, diventorno (è questo quasi sempre il fine delle discordie
civili), di capi di una parte di Milano, padroni di tutta la città;
nella quale grandezza avendo continuato molti anni, cercorono,
secondo il progresso comune delle tirannidi (perché quello che era
usurpazione paresse ragione), di corroborare prima con legittimi
colori e dipoi di illustrare con amplissimi titoli la loro fortuna.
Però, ottenuto dagli imperadori, de' quali Italia cominciava già a
conoscere piú il nome che la possanza, prima il titolo di capitani
poi di vicari imperiali, all'ultimo Giovan Galeazzo, il quale, per
avere ricevuto la contea di Virtus da Giovanni re di Francia suo
suocero, si chiamava il conte di Virtú, ottenne da Vincislao re de'
romani, per sé e per la sua stirpe mascolina, la degnità di duca di
Milano; nella quale gli succederono, l'uno dopo l'altro, Giovan
Maria e Filippo Maria suoi figliuoli. Ma finita la linea mascolina
per la morte di Filippo, benché egli avesse nel testamento suo
instituito erede Alfonso re d'Aragona e di Napoli, mosso
dall'amicizia grandissima la quale, per la liberazione sua, aveva
contratta seco, e molto piú perché il ducato di Milano, difeso da
principe sí potente, non fusse occupato da' viniziani, i quali già
manifestamente v'aspiravano, nondimanco Francesco Sforza, capitano
in quella età valorosissimo né minore nell'arte della pace che della
guerra, aiutato da molte occasioni che allora concorsono, e non meno
dall'avere stimato piú il regnare che l'osservanza della fede,
occupò con l'armi quel ducato come appartenente a Bianca Maria sua
moglie, figliuola naturale di Filippo; ed è fama che e' potette
ottenerne poi, con non molta quantità di danari, l'investitura da
Federigo imperatore, ma che, confidando di potere con le medesime
arti conservarlo con le quali l'aveva guadagnato, la dispregiò. Cosí
senza investitura continuò Galeazzo suo figliuolo, e continuava
Giovan Galeazzo suo nipote: onde Lodovico, in uno medesimo tempo
scelerato contro al nipote vivo e ingiurioso contro alla memoria del
padre e del fratello morti, affermando non essere stato alcuno di
essi legittimo duca di Milano, se ne fece come di stato devoluto
allo imperio investire da Massimiliano, intitolandosi per questa
ragione non settimo ma quarto duca di Milano. Benché queste cose
alla notizia di pochi, mentre visse il nipote, trapassorono. Soleva
oltre a questo dire, seguitando l'esempio di Ciro fratello minore di
Artoserse re di Persia, e confermandolo con l'autorità di molti
giurisconsulti, che precedeva Galeazzo suo fratello, non per l'età
ma per essere stato il primo figliuolo che fusse nato al padre
comune poi che era diventato duca di Milano: la quale ragione
insieme con la prima, benché taciuto l'esempio di Ciro, fu espressa
ne’ privilegi imperiali; a' quali, per velare, benché con colore
ridicolo, la cupidità di Lodovico, fu in lettere separate aggiunto
non essere consuetudine del sacro imperio concedere alcuno stato a
chi l'avesse prima con l'autorità di altri tenuto, e perciò essere
stati da Massimiliano disprezzati i prieghi fatti da Lodovico per
ottenere l'investitura per Giovan Galeazzo, che aveva prima dal
popolo di Milano quel ducato riconosciuto. Il parentado fatto da
Lodovico accrebbe la speranza a Ferdinando che e' s'avesse a
alienare dalla amicizia del re di Francia, giudicando che l'essersi
aderito e il somministrare a uno emulo, e per tante cagioni inimico,
quantità cosí grande di danari, fusse per generare diffidenza tra
loro, e che Lodovico, preso animo da questa nuova congiunzione,
avesse piú arditamente a discostarsene: la quale speranza Lodovico
nutriva con grandissimo artificio, e nondimeno (tanta era la
sagacità e destrezza sua) sapeva in uno tempo medesimo dare parole a
Ferdinando e agli altri d'Italia, e bene intrattenersi col re de'
romani e con quello di Francia. Sperava similmente Ferdinando che al
senato viniziano, al quale aveva mandato imbasciadori, avesse a
essere molesto che in Italia, dove tenevano il primo luogo di
potenza e di autorità, entrasse uno principe tanto maggiore di loro:
né conforti e speranze da' re di Spagna gli mancavano, i quali
soccorso potente gli promettevano, in caso che con le persuasioni e
con l'autorità non potessino questa impresa interrompere.
Da altra parte si sforzava il re di Francia, poiché aveva rimosso
gl'impedimenti di là da monti, rimuovere le difficoltà e gli
ostacoli che potessino essergli fatti di qua. Però mandò Perone di
Baccie, uomo non imperito delle cose d'Italia, dove era stato sotto
Giovanni d'Angiò; il quale, significata al pontefice, al senato
viniziano e a' fiorentini, la deliberazione fatta dal re di Francia
per recuperare il regno di Napoli, fece instanza con tutti che si
congiugnessino con lui; ma non riportò altro che speranze e risposte
generali, perché, essendo la guerra non prima che per l'anno
prossimo disegnata, ricusava ciascuno di scoprire tanto innanzi la
sua intenzione. Ricercò medesimamente il re gli oratori de'
fiorentini, mandati prima a lui, con consentimento di Ferdinando,
per escusarsi della imputazione si dava loro di essere inclinati
agli Aragonesi, che gli fusse promesso passo e vettovaglia nel
territorio loro all'esercito suo, con pagamento conveniente, e di
mandare con esso cento uomini d'arme, i quali diceva chiedere per
segno che la republica fiorentina seguitasse la sua amicizia: e
benché gli fusse dimostrato non potersi senza grave pericolo fare
tale dichiarazione se prima l'esercito suo non era passato in
Italia, e affermato che di quella città si poteva in ogni caso
promettere quanto conveniva alla osservanza e devozione che sempre
alla corona di Francia portata aveva, nondimeno erano con impeto
franzese stretti a prometterlo, minacciando altrimenti di privargli
del commercio che la nazione fiorentina aveva grandissimo di
mercatanzie in quel reame: i quali consigli, come poi si manifestò,
nascevano da Lodovico Sforza, guida allora e indirizzatore di tutto
quello che per loro con gli italiani si praticava. Affaticossi Piero
de' Medici di persuadere a Ferdinando queste dimande importare sí
poco alla somma della guerra, che e' potrebbe giovargli piú che la
republica e egli si conservassino in fede con Carlo, per la quale
arebbono forse opportunità di essere mezzo a qualche composizione.
Allegava, oltre a questo, il carico grandissimo e l'odio il quale
contro a sé si conciterebbe in Firenze se i mercatanti fiorentini
fussino cacciati di Francia; e convenire alla buona fede, fondamento
principale delle confederazioni, che ciascuno de' confederati
tollerasse pazientemente qualche incomodità perché l'altro non
incorresse in danni molto maggiori. Ma Ferdinando, il quale
considerava quanto si diminuirebbe della riputazione e sicurtà sua
se i fiorentini si separassino da lui, non accettava queste ragioni,
ma si lamentò gravissimamente che la costanza e la fede di Piero
cominciassino cosí presto a non corrispondere a quel che di lui
s'avea promesso; donde Piero, determinato di conservarsi innanzi a
ogni cosa l'amicizia aragonese, fece allungare con varie arti la
risposta da' franzesi instantemente dimandata, rimettendosi in
ultimo che per nuovi oratori si farebbe intendere l'intenzione della
republica.
Nella fine di quest'anno cominciò la congiunzione fatta tra il
pontefice e Ferdinando a vacillare: o perché il pontefice aspirasse,
con introdurre nuove difficoltà, a ottenere da lui cose maggiori o
perché si persuadesse di muoverlo con questo modo a ridurre il
cardinale di San Piero a Vincola all'ubbidienza sua; il quale egli,
offerendo per sicurtà la fede del collegio de' cardinali, di
Ferdinando e de' viniziani, desiderava sommamente che andasse a
Roma, essendogli sospetta molto la sua assenza, per la importanza
della rocca d'Ostia (perché intorno a Roma teneva Ronciglione e
Grottaferrata), per molte dependenze e autorità grande che aveva
nella corte, e finalmente per la natura sua desiderosa di cose nuove
e l'animo pertinace a correre prima ogni pericolo che allentare uno
punto solo delle sue deliberazioni. Scusavasi efficacissimamente
Ferdinando di non potere piegare a questo il Vincola, insospettito
tanto che qualunque sicurtà gli pareva inferiore al pericolo; e si
lamentava della sua mala fortuna col pontefice, che sempre
attribuisse a lui quel che veramente procedeva da altri; cosí avere
creduto che Verginio per i conforti e co' danari suoi avesse
comperato le castella, e nondimeno la compera essere stata fatta
senza sua partecipazione, ma essere bene egli stato quello che aveva
disposto Verginio all'accordo, e che a questo effetto l'aveva
accomodato de' danari che si pagorono in ricompensa delle castella.
Le quali scuse mentre che 'l pontefice non accetta, anzi con acerbe
e quasi minatorie parole si lamenta di Ferdinando, pareva che nella
reconciliazione fatta tra loro non si potesse fare stabile
fondamento.
Lib.1, cap.6
Il re di Francia allontana dal regno gli oratori di Ferdinando
d'Aragona. Morte di Ferdinando. Giudizio dell'autore sul re.
Confederazione fra il pontefice e Alfonso d'Aragona. Tentativi di
riconciliazione di Alfonso con Lodovico Sforza e contegno di questo.
Sollecitazioni degli ambasciatori del re di Francia per ottenere da'
fiorentini assicurazione d'alleanza o, almeno, di benevoli aiuti
all'esercito francese. Richiesta al pontefice d'investitura di Carlo
VIII a re di Napoli. Risposta del pontefice. Risposta del governo di
Firenze agli oratori del re di Francia. Sdegno del re contro Piero.
Neutralità di Venezia.
Incominciò in tale disposizione degli animi, e in tale confusione
delle cose tanto inclinate a nuove perturbazioni, l'anno mille
quattrocento novantaquattro (io piglio il principio secondo l'uso
romano), anno infelicissimo a Italia, e in verità anno principio
degli anni miserabili, perché aperse la porta a innumerabili e
orribili calamità, delle quali si può dire che per diversi accidenti
abbia di poi partecipato una parte grande del mondo. Nel principio
di questo anno, Carlo, alienissimo dalla concordia con Ferdinando,
comandò agli oratori suoi che, come oratori di re inimico, si
partissino subito del reame di Francia; e quasi ne' medesimi dí morí
per uno catarro repentino Ferdinando, soprafatto piú da' dispiaceri
dell'animo che dall'età. Fu re di celebrata industria e prudenza,
con la quale, accompagnata da prospera fortuna, si conservò il
regno, acquistato nuovamente dal padre, contro a molte difficoltà
che nel principio del regnare se gli scopersono, e lo condusse a
maggiore grandezza che forse molti anni innanzi l'avesse posseduto
re alcuno. Buono re, se avesse continuato di regnare con l'arti
medesime con le quali aveva principiato; ma in progresso di tempo, o
presi nuovi costumi per non avere saputo, come quasi tutti i
príncipi, resistere alla violenza della dominazione o, come fu
creduto quasi da tutti, scoperti i naturali, i quali prima con
grande artificio aveva coperti, notato di poca fede e di tanta
crudeltà che i suoi medesimi degna piú presto di nome di immanità la
giudicavano. La morte di Ferdinando si tenne per certo che nocesse
alle cose comuni; perché, oltre che arebbe tentato qualunque rimedio
atto a impedire la passata de' franzesi, non si dubita che piú
difficile sarebbe stato fare che Lodovico Sforza della natura
altiera e poco moderata d'Alfonso s'assicurasse che disporlo a
rinnovare l'amicizia con Ferdinando, sapendo che ne' tempi
precedenti era stato spesso inclinato, per non avere cagione di
controversie con lo stato di Milano, a piegarsi alla sua volontà. E
trall'altre cose è manifesto che, quando Isabella figliuola
d'Alfonso andò a congiugnersi col marito, Lodovico, come la vide,
innamorato di lei, desiderò di ottenerla per moglie dal padre; e a
questo effetto operò, cosí fu allora creduto per tutta Italia, con
incantamenti e con malie, che Giovan Galeazzo fu per molti mesi
impotente alla consumazione del matrimonio. Alla qual cosa
Ferdinando arebbe acconsentito, ma Alfonso repugnò; donde Lodovico,
escluso di questa speranza, presa altra moglie e avutine figliuoli,
voltò tutti i pensieri a trasferire in quegli il ducato di Milano.
Scrivono oltre a questo alcuni che Ferdinando, parato a tollerare
qualunque incomodo e indegnità per fuggire la guerra imminente,
aveva deliberato, come prima lo permettesse la benignità della
stagione, andare in sulle galee sottili per mare a Genova, e di
quivi per terra a Milano per sodisfare a Lodovico in tutto quello
desiderasse, e rimenarne a Napoli la nipote; sperando che, oltre
agli effetti delle cose, questa publica confessione di riconoscere
in tutto da lui la salute avesse a mitigare l'animo suo: perché era
noto quanto egli con sfrenata ambizione ardesse di desiderio di
parere l'àrbitro e quasi l'oracolo di tutta Italia.
Ma Alfonso, subito morto il padre, mandò quattro oratori al
pontefice; il quale, facendo segni di essere alla prima inclinazione
dell'amicizia franzese ritornato, aveva ne' medesimi dí, per una
bolla sottoscritta dal collegio de' cardinali, promesso, a
requisizione del re di Francia, al vescovo di San Malò la degnità
del cardinalato e condotto a' stipendi comuni col duca di Milano
Prospero Colonna, soldato prima del re, e alcuni altri condottieri
di gente d'arme: e nondimeno si rendé facile alla concordia, per le
condizioni grandi le quali Alfonso, desiderosissimo di assicurarsi
di lui e d'obligarlo alla sua difesa, gli propose. Convennono
adunque palesemente che tra loro fusse confederazione a difesa degli
stati, con determinato numero di gente per ciascuno; concedesse il
pontefice a Alfonso l'investitura del regno, con la diminuzione del
censo ottenuta per Ferdinando, durante solo la vita sua, dagli altri
pontefici, e mandasse uno legato apostolico a incoronarlo; creasse
cardinale Lodovico figliuolo di don Enrico fratello naturale
d'Alfonso, il quale fu poi chiamato il cardinale d'Aragona; pagasse
il re incontinente al pontefice ducati trentamila; desse al duca di
Candia stati nel regno d'entrata di dodicimila ducati l'anno e il
primo de' sette uffici principali che vacasse; conducesselo per
tutta la vita del pontefice a' soldi suoi con trecento uomini
d'arme, co' quali fusse tenuto servire parimente l'uno e l'altro di
loro; a don Giuffré, che quasi per pegno della fede paterna andasse
a abitare appresso al suocero, concedesse, oltre alle cose promesse
nella prima convenzione, il protonotariato, uno medesimamente de'
sette uffici; e entrate di benefici del regno a Cesare Borgia
figliuolo del pontefice, promosso poco innanzi dal padre al
cardinalato, avendo, per rimuovere lo impedimento di essere spurio,
a' quali non era solito concedersi tale degnità, fatto con falsi
testimoni provare che era figliuolo legittimo di altri. Promesse di
piú Verginio Orsino, il quale col mandato regio intervenne a questa
capitolazione, che 'l re aiuterebbe il pontefice a ricuperare la
rocca d'Ostia, in caso che il cardinale di San Piero a Vincola di
andare a Roma ricusasse, la quale promessa il re affermava essere
stata fatta senza suo consentimento o saputa; e giudicando che in
tempo tanto pericoloso fusse molto dannoso l'alienarsi quello
cardinale, potente nelle cose di Genova, le quali stimolato da lui
disegnava tentare, e perché forse in agitazione sí grave s'arebbe a
trattare di concili o di materie pregiudiciali alla sedia
apostolica, interpose grandissima diligenza per accordarlo col
pontefice: al quale non sodisfacendo in questa cosa condizione
alcuna se il Vincola non ritornava a Roma, e essendo il cardinale
ostinatissimo a non commettere mai la vita propria alla fede, tali
erano le parole sue, di catelani, restò vana la fatica e il
desiderio d'Alfonso. Perché il cardinale, poi che ebbe simulatamente
dato speranza quasi certa di accettare le condizioni che si
trattavano, si partí all'improvviso una notte, in su uno brigantino
armato, da Ostia, lasciata bene guardata quella rocca; e soprastato
pochi dí a Savona e poi in Avignone, della quale città era legato,
andò finalmente a Lione, dove poco innanzi si era trasferito Carlo,
per fare con piú comodità e maggiore riputazione le provisioni per
la guerra, alla quale già publicava volere andare in persona; e da
lui ricevuto con grandissima festa e onore, si congiunse con gli
altri che la turbazione d'Italia procuravano.
Né mancava Alfonso, essendogli diventato buon maestro il timore, di
continuare con Lodovico Sforza quel che era stato cominciato dal
padre, offerendogli le medesime sodisfazioni; il quale egli, secondo
il costume suo, si ingegnava di pascere con varie speranze, ma
dimostrando essere costretto a procedere con grandissima destrezza e
considerazione acciocché la guerra disegnata contro ad altri non
avesse principio contro a lui. Ma da altra parte non cessava di
sollecitare in Francia le preparazioni; e per farlo con maggiore
efficacia e stabilire meglio tutti i particolari di quel che
s'avesse a ordinare, e acciocché non si ritardasse poi l'esecuzione
delle cose deliberate, vi mandò, dando voce fusse chiamato dal re,
Galeazzo da San Severino marito di una sua figliuola naturale, il
quale era di grandissima fede e favore appresso a lui.
Per i consigli di Lodovico, mandò Carlo al pontefice quattro
oratori, con commissione che nel passare per Firenze facessino
instanza per la dichiarazione di quella republica: Eberardo di
Ubigní capitano di nazione scozzese, il generale di Francia, il
presidente del parlamento di Provenza e il medesimo Perone di Baccie
che l'anno precedente v'avea mandato. I quali, secondo la loro
istruzione ordinata principalmente a Milano, narrorono nell'uno
luogo e nell'altro le ragioni le quali il re di Francia, come
successore della casa di Angiò e per essere mancata la linea di
Carlo primo, pretendeva al reame di Napoli, e la deliberazione di
passare l'anno medesimo personalmente in Italia, non per occupare
cosa alcuna appartenente ad altri ma solo per ottenere quello che
giustamente se gli aspettava; benché per ultimo fine non avesse
tanto il regno di Napoli quanto il potere poi volgere l'armi contro
a' turchi, per accrescimento e esaltazione del nome cristiano.
Esposono a Firenze quanto il re si confidava di quella città, stata
riedificata da Carlo magno e favorita sempre dai re suoi
progenitori, e frescamente da Luigi suo padre, nella guerra la
quale, sí ingiustamente, fu fatta loro da Sisto pontefice, da
Ferdinando prossimamente morto e da Alfonso presente re. Ridusseno
alla memoria i comodi grandissimi i quali, per il commercio delle
mercatanzie, nella nazione fiorentina del reame di Francia
pervenivano, dove era bene veduta e carezzata non altrimenti che se
fusse del sangue franzese; col quale esempio, del regno di Napoli,
quando fusse signoreggiato da lui, i medesimi benefici e utilità
sperare potevano: cosí come dagli Aragonesi giammai altro che danni
e ingiurie ricevute non avevano: ricercando volessino fare qualche
segno di essere congiunti seco a questa impresa; e quando pure per
qualche giusta causa impediti fussino, concedessino almanco passo e
vettovaglia per il dominio loro, a spese dell'esercito franzese.
Queste cose trattorono con la republica. A Piero de' Medici
privatamente ricordorono molti benefici e onori fatti da Luigi
undecimo al padre e a' maggiori suoi: avere ne' tempi difficili
fatto molte dimostrazioni per conservazione della grandezza d'essi,
onorato, in testimonio di benivolenza, le insegne loro con le
insegne proprie della casa di Francia; e da altro canto Ferdinando,
non contento d'avergli apertamente perseguitati con l'armi, essersi
sceleratamente mescolato nelle congiure civili, nelle quali era
stato ammazzato Giuliano suo zio e ferito gravemente Lorenzo suo
padre. Al pontefice, ricordato gli antichi meriti e la continua
divozione della casa di Francia verso la sedia apostolica, delle
quali cose erano piene tutte le memorie antiche e moderne, la
contumacia e spesse inubbidienze degli Aragonesi, domandorono la
investitura del regno di Napoli nella persona di Carlo, come
giuridicamente dovutagli; proponendo molte speranze e facendo molte
offerte quando fusse propizio a questa impresa, la quale non meno
per le persuasioni e autorità sua che per altra cagione era stata
deliberata. Alla quale domanda rispose il pontefice che, essendo la
investitura di quello reame conceduta da tanti suoi antecessori
successivamente a tre re della casa di Aragona, perché nella
investitura fatta a Ferdinando nominatamente si comprendeva Alfonso,
non era conveniente concederla a Carlo, insino a tanto che per via
di giustizia non fusse dichiarato che egli avesse migliori ragioni;
alle quali la investitura fatta a Alfonso pregiudicato non avere,
perché, per questa considerazione, vi era stato specificato che ella
s'intendesse senza pregiudicio di persona. Ricordò il regno di
Napoli essere di dominio diretto della sedia apostolica, l'autorità
della quale non si persuadeva che il re, contro allo instituto de'
suoi maggiori, che sempre ne erano stati precipui difensori, volesse
violare, come violerebbe assaltandolo di fatto. Convenire piú alla
sua degnità e bontà, pretendendovi ragione, cercarla per via della
giustizia, la quale, come signore del feudo e solo giudice di questa
causa, si offeriva parato ad amministrargli; né dovere uno re
cristianissimo ricercare altro da uno pontefice romano, l'ufficio
del quale era proibire, non fomentare, le violenze e le guerre tra i
príncipi cristiani. Dimostrò, quando bene volesse fare altrimenti,
molte difficoltà e pericoli, per la vicinità di Alfonso e de'
fiorentini, l'unione de' quali seguitava tutta la Toscana, e per la
dependenza dal re di tanti baroni, gli stati de' quali insino in
sulle porte di Roma si distendevano; e si sforzò nondimeno di non
tagliare loro interamente la speranza, con tutto che in se medesimo
di non partire dalla confederazione fatta con Alfonso determinato
avesse.
A Firenze era grande la inclinazione inverso la casa di Francia, per
il commercio di tanti fiorentini in quello reame, per l'opinione
inveterata, benché falsa, che Carlo magno avesse riedificata quella
città, distrutta da Totila re de' goti; per la congiunzione
grandissima avuta per lunghissimo tempo da' maggiori loro, come da
guelfi, con Carlo primo re di Napoli e con molti de' suoi
discendenti, protettori della parte guelfa in Italia; per la memoria
delle guerre che prima Alfonso vecchio e dipoi, l'anno mille
quattrocento settantotto, Ferdinando, mandatovi in persona Alfonso
suo figliuolo, aveva fatte a quella città: per le quali cagioni
tutto 'l popolo desiderava che 'l passo si concedesse. Ma non meno
lo desideravano i cittadini piú savi e di maggiore autorità nella
republica, i quali essere somma imprudenza riputavano il tirare nel
dominio fiorentino, per le differenze di altri, una guerra di tanto
pericolo, opponendosi a uno esercito potentissimo e alla persona del
re di Francia; il quale entrava in Italia co' favori dello stato di
Milano e, se non consentendo, almanco non contradicendo il senato
viniziano. Confermavano il consiglio loro con l'autorità di Cosimo
de' Medici, stato stimato nell'età sua uno de' piú savi uomini
d'Italia; il quale nella guerra tra Giovanni d'Angiò e Ferdinando,
benché a Ferdinando aderissino il pontefice e il duca di Milano,
aveva sempre consigliato che quella città non si opponesse a
Giovanni. Riducevano in memoria l'esempio di Lorenzo padre di Piero,
il quale in ogni romore della ritornata degli Angioini aveva sempre
avuto il medesimo parere; le parole usate spesso da lui, spaventato
dalla potenza de' franzesi poi che questo re medesimo aveva ottenuto
la Brettagna: apparecchiarsi grandissimi mali agli italiani se il re
di Francia conoscesse le forze proprie. Ma Piero de' Medici,
misurando piú le cose con la volontà che con la prudenza e prestando
troppa fede a se stesso, e persuadendosi che questo moto s'avesse a
risolvere piú tosto in romori che in effetti, confortato al medesimo
da qualcuno de' ministri suoi corrotto, secondo si disse, da' doni
di Alfonso, deliberò pertinacemente di continuare nell'amicizia
aragonese: il che bisognava che, per la grandezza sua, tutti gli
altri cittadini finalmente acconsentissino. Ho autori da non
disprezzare che Piero, non contento della autorità la quale aveva il
padre ottenuta nella republica, benché tale che secondo la
disposizione sua i magistrati si creavano, da' quali le cose di
maggiore momento non senza il parere suo si deliberavano, aspirasse
a piú assoluta potestà e a titolo di principe; non misurando
saviamente le condizioni della città, la quale, essendo allora
potente e molto ricca, e nutrita, già per piú secoli, con apparenza
di republica, e i cittadini maggiori soliti a partecipare nel
governo piú presto simili a compagni che a sudditi, non pareva che
senza violenza grande avesse a tollerare tanta e sí subita
mutazione: e perciò, che Piero, conoscendo che a sostentare questa
sua cupidità bisognavano estraordinari fondamenti, era, per farsi
uno appoggio potente alla conservazione del nuovo principato,
immoderatamente ristrettosi con gli Aragonesi e determinato di
correre con loro la medesima fortuna. E accadde per avventura che,
pochi dí innanzi che gli oratori franzesi arrivassino in Firenze,
erano venute a luce alcune pratiche, le quali Lorenzo e Giovanni de'
Medici, giovani ricchissimi e congiuntissimi a Piero di sangue,
alienatisi, per cause che ebbono origine giovenile, da lui, avevano,
per mezzo di Cosimo Rucellai fratello cugino di Piero, tenute con
Lodovico Sforza, e per introduzione sua col re di Francia, le quali
tendevano direttamente contro alla grandezza di Piero; per il che,
ritenuti da' magistrati, furono con leggierissima punizione rilegati
nelle loro ville, perché la maturità de' cittadini, benché non senza
molta difficoltà, indusse Piero a consentire che contro al sangue
proprio non si usasse il giudicio severo delle leggi: ma avendolo
certificato questo accidente che Lodovico Sforza era intento a
procurare la sua ruina, stimò essere tanto piú necessitato a
perseverare nella prima deliberazione. Fu adunque risposto agli
oratori con ornate e reverenti parole ma senza la conclusione
desiderata da loro, dimostrando da una parte la naturale divozione
de' fiorentini alla casa di Francia e il desiderio immenso di
sodisfare a cosí glorioso re, dall'altra gli impedimenti: perché
niuna cosa era piú indegna de' príncipi e delle republiche che non
osservare la fede promessa, la quale senza maculare espressamente
non potevano consentire alle sue dimande; conciossiacosaché ancora
non fusse finita la confederazione la quale, per l'autorità del re
Luigi suo padre, era stata fatta con Ferdinando, con patto che dopo
la morte sua si distendesse ad Alfonso, e con espressa condizione di
essere non solo obligati alla difesa del regno di Napoli ma a
proibire il passo per il territorio loro a chi andasse a offenderlo.
Ricevere somma molestia di non potere deliberare altrimenti, ma
sperare che 'l re, sapientissimo e giustissimo, conosciuta la loro
ottima disposizione, attribuirebbe quel che non si prometteva agli
impedimenti, tanto giusti. Da questa risposta sdegnato, il re fece
partire subito di Francia gl'imbasciadori de' fiorentini e scacciò
da Lione, secondo il consiglio di Lodovico Sforza, non gli altri
mercatanti ma i ministri solo del banco di Piero de' Medici,
acciocché a Firenze si interpretasse lui riconoscere questa ingiuria
dalla particolarità di Piero non dalla universalità de' cittadini.
Cosí dividendosi tutti gli altri potentati italiani, quali in favore
del re di Francia quali in contrario, soli i viniziani deliberavano,
standosi neutrali, aspettare oziosamente l'esito di queste cose; o
perché non fusse loro molesto che Italia si perturbasse, sperando
per le guerre lunghe degli altri potersi ampliare l'imperio veneto,
o perché, non temendo per la grandezza loro dovere essere facilmente
preda del vincitore, giudicassino imprudente consiglio il fare
proprie senza evidente necessità le guerre d'altri: benché e
Ferdinando non cessasse continuamente di stimolargli e che il re di
Francia, l'anno dinanzi e in questo tempo medesimo, v'avesse mandato
imbasciadori, i quali avevano esposto che tra la casa di Francia e
quella republica non era stata altro che amicizia e benivolenza e da
ogni banda amorevoli e benigni uffici, dove fusse stata l'occasione;
la quale disposizione il re desideroso di augumentare, pregava
quello sapientissimo senato che all'impresa sua volesse dare
consiglio e favore. Alla quale esposizione avevano prudente e
brevemente risposto: quel re cristianissimo essere re di tanta
sapienza e avere appresso a sé tanto grave e maturo consiglio, che
troppo presumerebbe di se medesimo chiunque ardisse consigliarlo;
soggiugnendo che al senato viniziano sarebbono gratissime tutte le
sue prosperità, per l'osservanza avuta sempre a quella corona: e
perciò essergli molestissimo di non potere co' fatti corrispondere
alla prontezza dell'animo, perché per il sospetto nel quale gli
teneva continuamente il gran turco, che aveva cupidità e opportunità
grandissima di offendergli, la necessità gli costrigneva a tenere
sempre guardate con grandissima spesa tante isole e tante terre
marittime vicine a lui, e ad astenersi sopratutto da implicarsi in
guerre con altri.
Lib.1, cap.7
I preparativi del re di Francia per la spedizione contro il reame di
Napoli e quelli di Alfonso per la difesa del reame. Aperte
manifestazioni d'inimicizia di Alfonso verso Lodovico Sforza. Piani
di guerra e progetti di Alfonso. Il papa, con l'aiuto di Alfonso,
prende la rocca di Ostia, tenuta dalle genti del card. della Rovere.
Lodovico Sforza, affermando al papa e a Piero de' Medici la sua
inclinazione alla pace, li rende indecisi negli aiuti ad Alfonso.
Accordi per la comune difesa fra il pontefice e il re di Napoli.
Condotta e propositi de' Colonnesi.
Ma molto piú che le orazioni degli imbasciadori e le risposte fatte
loro importavano le preparazioni marittime e terrestri le quali già
per tutto si facevano. Perché Carlo aveva mandato Pietro di Orfé,
suo grande scudiere, a Genova, la quale città il duca di Milano, con
le spalle della fazione Adorna e di Giovan Luigi dal Fiesco,
signoreggiava, a mettere in ordine una potente armata di navi grosse
e di galee sottili; e faceva oltre a questo armare altri legni ne'
porti di Villafranca e di Marsilia: onde era divulgato nella sua
corte disegnarsi da lui di entrare nel reame di Napoli per mare,
come già contro a Ferdinando aveva fatto Giovanni figliuolo di
Renato. E in Francia benché molti credessino che, per l'incapacità
del re e per le piccole condizioni di quegli che ne lo confortavano
e per la carestia de' danari, avessino finalmente questi apparati a
diventare vani; nondimeno per l'ardore del re, il quale nuovamente,
con consiglio de' suoi piú intimi, aveva assunto il titolo di re di
Jerusalem e delle due Sicilie (era questo allora il titolo de' re
napoletani), si attendeva ferventemente alle provisioni della
guerra, raccogliendo danari, riordinando le genti d'arme e
ristrignendo i consigli con Galeazzo da San Severino, nel petto del
quale tutti i segreti e tutte le deliberazioni di Lodovico Sforza si
rinchiudevano. E da altra parte Alfonso, il quale non aveva mai
pretermesso di prepararsi per terra e per mare, giudicando non
essere piú tempo a lasciarsi ingannare dalle speranze date da
Lodovico e dovere piú giovare lo spaventarlo e il molestarlo che
l'affaticarsi per assicurarlo e mitigarlo, comandò all'oratore
milanese che si partisse da Napoli, richiamò quello che per lui
risedeva a Milano, e fece prendere la possessione e sequestrare
l'entrate del ducato di Bari, stato posseduto da Lodovico molti anni
per donazione fattagli da Ferdinando. Né contento a queste piú
presto dimostrazioni di aperta inimicizia che offese, voltò tutto
l'animo ad alienare dal duca di Milano la città di Genova; cosa
nelle agitazioni presenti di grandissima importanza, perché per la
mutazione di quella città si acquistava grandissima facilità di
perturbare contro a Lodovico il governo di Milano, e il re di
Francia si privava della opportunità di molestare per mare il regno
di Napoli. Però, convenutosi secretamente con Pagolo Fregoso
cardinale, che era già stato doge di Genova, e il quale era
seguitato da molti della medesima famiglia, e con Obietto dal
Fiesco, capi tutt'a due di seguito grande in quella città e nelle
sue riviere, e con alcuni degli Adorni, tutti per diverse cagioni
fuorusciti di Genova, deliberò di tentare con armata potente di
rimettergli dentro, solito a dire che con le prevenzioni e con le
diversioni si vincevano le guerre. Deliberò medesimamente di andare
con valido esercito personalmente in Romagna, per passare subito nel
territorio di Parma; dove, chiamando il nome di Giovan Galeazzo e
alzando le sue bandiere, sperava che i popoli del ducato di Milano
contro a Lodovico tumultuassino. E quando bene in queste cose
trovasse difficoltà, giudicava essere utilissimo che la guerra si
incominciasse in luogo lontano dal suo reame; stimando alla somma
del tutto importare assai che i franzesi fussino sopragiunti in
Lombardia dalla vernata, come quello che, esperimentato solamente
nelle guerre d'Italia, nelle quali gli eserciti, aspettando la
maturità dell'erbe per nutrimento de' cavalli, non solevano uscire
alla campagna prima che alla fine del mese di aprile, presupponeva
che, per fuggire l'asprezza di quella stagione, sarebbono
necessitati fermarsi nel paese amico insino alla primavera; e
sperava che in questa dilazione potesse facilmente nascere qualche
occasione alla sua salute. Mandò ancora imbasciadori in
Costantinopoli, a dimandare aiuto, come in pericolo comune, a
Baiseto ottomano principe de' turchi, per quello che della
intenzione di Carlo di passare in Grecia, vinto che avesse lui, si
divulgava; il quale pericolo sapeva non essere da Baiseto
disprezzato, perché, per la memoria delle espedizioni fatte ne'
tempi passati in Asia contro agli infedeli dalla nazione franzese,
non era piccolo il timore che i turchi avevano delle armi loro.
Le quali cose mentre che da ogni parte si sollecitano, il papa mandò
le genti sue a Ostia, sotto il governo di Niccola Orsino conte di
Pitigliano, porgendogli aiuto Alfonso per terra e per mare; e avendo
presa senza difficoltà la terra e cominciato a percuotere con
l'artiglierie la rocca, il castellano, per interposizione di
Fabrizio Colonna e consentendo Giovanni della Rovere prefetto di
Roma fratello del cardinale di San Piero in Vincola, dopo non molti
dí la dette, con patto che il pontefice non perseguitasse, né con le
censure né con l'armi, il cardinale né il prefetto, se non gli
fussino date da loro nuove cagioni; e a Fabrizio, in cui mano il
cardinale aveva lasciato Grottaferrata, fu permesso che, pagando al
papa diecimila ducati, continuasse di possederla con le medesime
ragioni.
Ma Lodovico Sforza, al quale il cardinale aveva, quando passò da
Savona, manifestato quel che occultamente, per consiglio e mezzo
suo, trattava Alfonso co' fuorusciti di Genova, dimostrato a Carlo
quanto grande impedimento ne risulterebbe a' disegni suoi, lo
indusse a ordinare di mandare a Genova dumila svizzeri e a fare
passare subito in Italia trecento lancie, acciocché sotto il governo
di Obigní, il quale, ritornato da Roma, si era per comandamento del
re fermato a Milano, fussino pronte e ad assicurare la Lombardia e a
passare piú avanti se la necessità o l'occasione lo ricercassino;
congiugnendosi con loro cinquecento uomini d'arme italiani, condotti
nel tempo medesimo agli stipendi del re sotto Giovanfrancesco da San
Severino conte di Gaiazzo, Galeotto Pico conte della Mirandola e
Ridolfo da Gonzaga, e cinquecento altri i quali era obligato a
dargli il duca di Milano. E nondimeno Lodovico, non pretermettendo
le solite arti, non cessava di confermare al pontefice e a Piero de'
Medici la disposizione sua alla quiete e sicurtà d'Italia, dando ora
una speranza ora un'altra che presto dimostrazione evidente
n'apparirebbe. Non può quasi essere che quello che molto
efficacemente si afferma non faccia qualche ambiguità, eziandio
negli animi determinati a credere il contrario: però, se bene alle
promesse sue non fusse piú prestata fede, non era perciò che per
quelle in qualche parte non s'allentassino le imprese deliberate.
Perché al pontefice e a Piero de' Medici sarebbe sommamente piaciuto
il tentare le cose di Genova, ma perché per questo lo stato di
Milano direttamente si offendeva, il papa, richiesto da Alfonso
delle galee e di unire seco in Romagna le sue genti, concedeva che
le genti si unissino per la difesa comune in Romagna ma non già che
passassino piú avanti, e delle galee faceva difficoltà, allegando
non essere ancora tempo a mettere Lodovico in tanta disperazione; e
i fiorentini, richiesti di dare ricetto e rinfrescamento all'armata
regia nel porto di Livorno, stavano sospesi per il medesimo rispetto
e perché, essendosi scusati dalle dimande fatte dal re di Francia
sotto pretesto della confederazione fatta con Ferdinando,
malvolentieri si disponevano, insino che la necessità gli
costrignesse, a fare piú oltre che per virtú di quella fussino
tenuti.
Ma non comportando piú le cose maggiore dilazione, finalmente
l'armata, sotto don Federigo ammiraglio del mare, partí da Napoli; e
Alfonso in persona raccolse l'esercito suo nell'Abruzzi per passare
in Romagna. Ma gli parve necessario, innanzi procedesse piú oltre,
di essere a parlamento col pontefice, desideroso del medesimo, per
stabilire tutto quello che fusse da fare per la salute comune: però,
il terzodecimo dí di luglio, si convennono insieme a Vicovaro terra
di Verginio Orsino, dove dimorati tre dí si partirono molto
concordi. Deliberossi in questo parlamento, per consiglio del
pontefice, che la persona del re non passasse piú avanti, ma che
dello esercito suo, quale il re affermava essere poco manco di cento
squadre d'uomini d'arme, contando venti uomini d'arme per squadra, e
piú di tremila tra balestrieri e cavalli leggieri, si fermasse seco
una parte ne confini dell'Abruzzi, verso le Celle e Tagliacozzo, per
sicurtà dello stato ecclesiastico e del suo; e che Verginio
rimanesse in terra di Roma per fare contrapeso a' Colonnesi, per il
sospetto de' quali stessino fermi in Roma dugento uomini d'arme del
papa e una parte de' cavalli leggieri del re; e che in Romagna
andasse, con settanta squadre, col resto della cavalleria leggiera e
con la maggiore parte delle genti ecclesiastiche, date solo per
difesa, Ferdinando duca di Calavria (era questo il titolo de'
primogeniti de' re di Napoli), giovane di alta speranza, menando
seco, come moderatori della sua gioventú, Giovaniacopo da Triulzi
governatore delle genti regie e il conte di Pitigliano, il quale dal
soldo del papa era passato al soldo del re, capitani di esperienza e
di riputazione: e pareva molto a proposito, avendosi a passare in
Lombardia, la persona di Ferdinando, perché era congiunto di stretto
e doppio parentado a Giovan Galeazzo, marito d'Isabella sua sorella
e figliuolo di Galeazzo fratello di Ippolita, la quale era stata
madre di Ferdinando. Ma una delle piú importanti cose che tra il
pontefice e Alfonso si trattassino fu sopra i Colonnesi, perché per
segni manifesti si comprendeva che aspiravano a nuovi consigli:
imperocché, essendo stati Prospero e Fabrizio agli stipendi del re
morto e da lui ottenuto stati e onorate condizioni, non solamente,
morto lui, Prospero, dopo molte promesse fatte ad Alfonso di
ricondursi seco, si era condotto, per opera del cardinale Ascanio, a
comune col pontefice e col duca di Milano, né voluto poi consentire
che tutta la sua condotta nel pontefice, che ne lo ricercava, si
riducesse; ma Fabrizio, il quale aveva continuato negli stipendi di
Alfonso, vedendo lo sdegno del papa e del re contro a Prospero,
faceva difficoltà di andare col duca di Calavria in Romagna se prima
con qualche modo conveniente non si stabilivano e assicuravano le
cose di Prospero e di tutta la famiglia de' Colonnesi. Questo era il
colore delle loro difficoltà, ma in segreto, amendue tirati
dall'amicizia che avevano grande con Ascanio, il quale, partitosi
pochi dí innanzi di Roma per sospetto del papa, si era ridotto nelle
loro terre, e da speranza di maggiori premi, e molto piú per
dispiacere che 'l primo luogo con Alfonso e piú ampia partecipazione
delle sue prosperità fusse di Verginio Orsino, capo della fazione
avversa, si erano condotti agli stipendi del re di Francia: il che
per tenere occulto, insino a tanto giudicassino di potere
sicuramente dichiararsi soldati suoi, simulando desiderio di
convenire col pontefice e con Alfonso, i quali faceano instanza che
Prospero, pigliando la medesima condotta da loro, perché altrimenti
non potevano essere sicuri di lui, lasciasse i soldi del duca di
Milano, trattavano continuamente con loro, ma per non conchiudere
movevano ora una ora un'altra difficoltà nelle condizioni che erano
proposte. Nella quale pratica era tra Alessandro e Alfonso diversità
di volontà: perché Alessandro, desideroso di spogliargli delle
castella le quali in terra di Roma possedevano, aveva cara
l'occasione di assaltargli; e Alfonso, non avendo altro fine che di
assicurarsi, non inclinava alla guerra se non per ultimo rimedio, ma
non ardiva di opporsi alla sua cupidità. Però deliberorno di
costrignergli con l'armi, e si stabilí con che forze e con che
ordine; ma fatta prima esperienza se fra pochi dí si potessino
comporre le cose loro.
Lib.1, cap.8
La spedizione dell'armata di Alfonso d'Aragona contro Genova;
tentativi contro la riviera di levante e loro fallimento. La
spedizione dell'esercito di Alfonso in Romagna e le prime difficoltà
incontrate. Piero de' Medici fa unire truppe soldate da' fiorentini
all'esercito aragonese. Azione del pontefice e di Alfonso presso il
senato veneziano, presso i re di Spagna e presso Baiset. Nuovi
intrighi di Lodovico Sforza.
Trattavansi queste e molte altre cose da ogni parte; ma finalmente
dette principio alla guerra d'Italia l'andata di don Federigo alla
impresa di Genova, con armata senza dubbio maggiore e meglio
proveduta che già molti anni innanzi avesse corso per il mare
Tirreno armata alcuna; perché ebbe trentacinque galee sottili,
diciotto navi e piú altri legni minori, molte artiglierie, e tremila
fanti da porre in terra. Per i quali apparati, e per avere seco i
fuorusciti, si era mossa da Napoli con grande speranza della
vittoria; ma la tardità della partita sua, causata dalle difficoltà
che hanno comunemente i moti grandi, e in qualche parte dalle
speranze artificiose date da Lodovico Sforza, e dipoi l'essere
soprastata, per soldare insino al numero di quattromila fanti, ne
porti de' sanesi, aveva fatto difficile quel che tentato uno mese
prima sarebbe stato molto facile. Perché avendo gli avversari avuto
tempo di fare potente provisione, era già entrato in Genova il baglí
di Digiuno con dumila svizzeri soldati dal re di Francia, e già in
ordine molte delle navi e delle galee le quali in quel porto si
armavano; arrivatavi similmente una parte de' legni armati a
Marsilia; e Lodovico, non perdonando a spesa alcuna, v'avea mandato
Guasparri da San Severino detto il Fracassa e Antonio Maria suo
fratello con molti fanti; e per aiutarsi non meno della benivolenza
de' genovesi medesimi che delle forze forestiere, stabilito, con
doni con provisioni con danari con promesse e con vari premi l'animo
di Giovan Luigi dal Fiesco fratello di Obietto, degli Adorni e di
molti altri gentiluomini e popolari, importanti a tenere ferma alla
sua divozione quella città; e da altra parte chiamato a Milano, da
Genova e delle terre delle riviere, molti seguaci de' fuorusciti. A
questi provedimenti, potenti per se stessi, aggiunse molto di
riputazione e di fermezza la persona di Luigi duca di Orliens, il
quale, ne' medesimi dí che l'armata aragonese si scoperse nel mare
di Genova, entrò per commissione del re di Francia in quella città,
avendo prima parlato in Alessandria sopra le cose comuni con
Lodovico Sforza; il quale (come sono piene di oscure tenebre le cose
de' mortali) l'aveva ricevuto lietamente e con grande onore, ma come
pari, non sapendo quanto presto in potestà di lui avesse a essere
costituito lo stato e la vita sua. Queste cose furono cagione che
gli aragonesi, che prima avevano disegnato di presentarsi con
l'armata nel porto di Genova, sperando che i seguaci de' fuorusciti
facessino qualche sollevazione, mutato consiglio, deliberorno
d'assaltare le riviere; e dopo qualche varietà di opinione, in quale
riviera o di levante o di ponente fusse da cominciare, seguitato il
parere di Obietto, che si prometteva molto degli uomini della
riviera di levante, si dirizzorno alla terra di Portovenere; alla
quale terra, perché da Genova vi erano stati mandati quattrocento
fanti e gli animi degli abitatori confermati da Gianluigi dal Fiesco
che era venuto alla Spezie, dettono piú ore invano la battaglia, in
modo che, perduta la speranza di espugnarla, si ritirorno nel porto
di Livorno per rinfrescarsi di vettovaglie e accrescere il numero
de' fanti; perché intendendo le terre della riviera essere bene
provedute, giudicavano necessarie forze maggiori. Dove don Federigo,
avuta notizia l'armata franzese, inferiore alla sua di galee ma
superiore di navi, prepararsi per uscire del porto di Genova,
rimandò a Napoli le navi sue, per potere con la celerità delle galee
piú espeditamente dagl'inimici discostarsi, quando unite le navi e
le galee andassino ad assaltarlo; restandogli nondimeno la speranza
di opprimergli se le galee dalle navi, o per caso o per volontà, si
separassino.
Camminava in questo tempo medesimo con l'esercito terrestre il duca
di Calavria verso Romagna, con intenzione di passare poi, secondo le
prime deliberazioni, in Lombardia; ma per avere il transito libero
né lasciarsi impedimenti alle spalle, era necessario congiugnersi lo
stato di Bologna e le città d'Imola e di Furlí; perché Cesena, città
suddita immediatamente al pontefice, e la città di Faenza suddita a
Astore de' Manfredi, piccolo fanciullo, soldato e che si reggeva
sotto la protezione de' fiorentini, erano per dare spontaneamente
tutte le comodità all'esercito aragonese. Dominava Furlí e Imola,
con titolo di vicario della Chiesa, Ottaviano figliuolo di Ieronimo
da Riario, ma sotto la tutela e il governo di Caterina Sforza sua
madre: con la quale avevano trattato, già piú mesi, il pontefice e
Alfonso di condurre Ottaviano a' soldi comuni, con obligazione che
comprendesse gli stati suoi; ma restava la cosa imperfetta, parte
per difficoltà interposte da lei per ottenere migliori condizioni,
parte perché i fiorentini, persistendo nella prima deliberazione di
non eccedere contro al re di Francia le obligazioni le quali avevano
con Alfonso, non si risolvevano di concorrere a questa condotta,
alla quale era necessario il consenso loro, perché il pontefice e il
re ricusavano di sostenere soli questa spesa, e molto piú perché
Caterina negava di mettere in pericolo quelle città se insieme con
gli altri i fiorentini alla difesa degli stati del figliuolo non si
obligavano. Rimosse queste difficoltà il parlamento che ebbe
Ferdinando, mentre che per la via della Marecchia conduce l'esercito
in Romagna, con Piero de' Medici, al Borgo a San Sepolcro, perché
nel primo congresso gli offerse, per commissione d'Alfonso suo
padre, che usasse e sé e quell'esercito a ogni intento suo, delle
cose di Firenze di Siena e di Faenza; donde diventata ardente in
Piero la prima caldezza, ritornato a Firenze, volle, benché
dissuadendolo i cittadini piú savi, che si prestasse il consenso a
quella condotta, perché con somma instanza n'era stato pregato da
Ferdinando: la quale essendosi fatta a spese comuni del pontefice
d'Alfonso e de' fiorentini, si congiunsono, pochi dí poi, la città
di Bologna, conducendo nel medesimo modo Giovanni Bentivogli, sotto
la cui autorità e arbitrio si governava; al quale promesse il
pontefice, aggiugnendovisi la fede del re e di Piero de' Medici, di
creare cardinale Antonio Galeazzo suo figliuolo, allora protonotario
apostolico. Dettono queste condotte riputazione grande all'esercito
di Ferdinando, ma molto maggiore l'arebbono data se con questi
successi fusse entrato prima in Romagna; ma la tardità di muoversi
del regno e la sollecitudine di Lodovico Sforza aveva fatto che non
prima arrivò Ferdinando a Cesena che Obigní e il conte di Gaiazzo,
governatore delle genti sforzesche, con parte dello esercito
destinato a opporsi agli aragonesi essendo passati senza ostacolo
per il bolognese, entrorono nel contado d'Imola. Perciò, interrotte
a Ferdinando le prime speranze di passare in Lombardia, fu
necessario fermare la guerra in Romagna: dove, seguitando l'altre
città la parte aragonese, Ravenna e Cervia, città suddite a'
viniziani, non aderivano a alcuno; e quel piccolo paese il quale,
contiguo al fiume del Po, teneva il duca di Ferrara non mancava di
qualunque comodità alle genti franzesi e sforzesche.
Ma né per le difficoltà riscontrate nella impresa di Genova né per
lo impedimento sopravenuto in Romagna la temerità di Piero de'
Medici si raffrenava. Il quale essendosi con secreta convenzione,
fatta senza saputa della republica col pontefice e con Alfonso,
obligato a opporsi scopertamente al re di Francia, non solo aveva
consentito che l'armata napoletana avesse ricetto e rinfrescamento
nel porto di Livorno e comodità di soldare fanti per tutto il
dominio fiorentino, ma non potendo piú contenersi dentro a termine
alcuno, operò che Annibale Bentivoglio figliuolo di Giovanni, il
quale era soldato de' fiorentini, con la compagnia sua, e la
compagnia di Astore de' Manfredi, si unissino con l'esercito di
Ferdinando, subito che entrò nel contado di Furlí; al quale fece
inoltre mandare mille fanti e artiglierie. Simile disposizione
appariva continuamente nel pontefice: il quale, oltre alle
provisioni dell'armi, non contento d'avere con uno breve esortato
prima Carlo a non passare in Italia e a procedere per la via della
giustizia e non con l'armi, gli comandò poi per un altro breve le
cose medesime sotto pena delle censure ecclesiastiche; e per il
vescovo di Calagorra nunzio suo in Vinegia, dove al medesimo effetto
erano gli oratori di Alfonso, e benché non con dimande cosí scoperte
quelli de' fiorentini, stimolò molto il senato viniziano che, per
beneficio comune d'Italia, s'opponesse con l'armi al re di Francia,
o almeno a Lodovico Sforza vivamente facesse intendere avere
molestia di questa innovazione: ma il senato, facendo rispondere per
il doge non essere ufficio di savio principe tirare la guerra nella
casa propria per rimuoverla della casa di altri, non consentí di
fare, né con dimostrazioni né con effetti, opera alcuna che potesse
dispiacere a niuna delle parti. E perché il re di Spagna, ricercato
instantemente dal pontefice e da Alfonso, prometteva di mandare la
sua armata con molta gente in Sicilia, per soccorrere quando
bisognasse il regno di Napoli, ma si scusava non potere essere sí
presta per la difficoltà che aveva di danari; il pontefice, oltre a
certa quantità mandatagli da Alfonso, consentí che e' potesse
convertire in quest'uso i danari riscossi con l'autorità della sedia
apostolica, sotto nome della crociata, in Ispagna, che spendere
contro ad altri che contro agli inimici della fede cristiana non si
potevano. A' quali opprimere tanto alieno era il pensiero loro che
Alfonso, oltre a altri uomini mandati prima al gran turco, vi mandò
di nuovo Cammillo Pandone; con cui andò, mandato secretamente dal
pontefice, Giorgio Bucciardo genovese, che altre volte papa
Innocenzio v'avea mandato: i quali, onorati da Baiseto
eccessivamente e espediti quasi subito, riportorono promesse grandi
di aiuti; le quali, benché confermate poco poi da uno imbasciadore
mandato da Baiseto a Napoli, o per la distanza de' luoghi o per
essere difficile la confidenza tra i turchi e i cristiani, effetto
alcuno non partorirono.
Nel quale tempo Alfonso e Piero de' Medici, non essendo prosperi i
successi dell'armi né per mare né per terra, si ingegnorono di
ingannare Lodovico Sforza con l'astuzie e arti sue; ma non già con
migliore evento della industria che delle forze. È stata opinione di
molti che a Lodovico, per la considerazione del pericolo proprio,
fusse molesto che 'l re di Francia acquistasse il regno di Napoli,
ma che il disegno suo fusse, poiché avesse fatto sé duca di Milano e
fatto passare l'esercito franzese in Toscana, interporsi a qualche
concordia; per la quale, riconoscendosi Alfonso tributario della
corona di Francia, con assicurare il re dell'osservanza, e smembrate
forse da' fiorentini le terre le quali tenevano nella Lunigiana, il
re se ne ritornasse in Francia: e cosí, restando sbattuti i
fiorentini e diminuito il re di Napoli di forze e d'autorità, egli,
diventato duca di Milano, avesse conseguito tanto che gli bastasse a
essere sicuro, senza incorrere ne' pericoli imminenti dalla vittoria
de' franzesi. Avere sperato che Carlo, sopravenendone massime la
vernata, avesse a trovare qualche difficoltà la quale il corso della
vittoria gli ritenesse; e attesa la impazienza naturale de'
franzesi, l'essere il re male proveduto di danari, e la volontà di
molti de' suoi aliena da questa impresa, si potesse facilmente
trovare mezzo di concordia. Quel che di tale cosa sia la verità,
certo è che, se bene nel principio Lodovico si fusse per separare
Piero de' Medici dagli Aragonesi grandemente affaticato, cominciò
poi occultissimamente a confortarlo a perseverare nella sua
sentenza, promettendogli di operare o che 'l re di Francia non
passerebbe o che, passando, ritornerebbe presto, e innanzi che
avesse tentato cosa alcuna di qua da' monti: né cessava, per mezzo
dello oratore suo risedente in Firenze, fare seco spesso, questa
instanza, o perché cosí fusse veramente la sua intenzione o perché,
determinato già alla rovina di Piero, desiderasse che e' procedesse
tant'oltre contro al re che non gli restasse luogo di
reconciliazione. Deliberato adunque Piero, con saputa d'Alfonso, di
fare noto questo andamento al re di Francia, chiamò uno dí a casa
sua, sotto colore di essere indisposto della persona, lo
imbasciadore milanese, avendo prima ascoso quello del re, che era in
Firenze, in luogo donde comodamente i ragionamenti loro udire
potesse. Quivi Piero, repetute con parole distese le persuasioni e
le promesse di Lodovico, e che per l'autorità sua era stato
pertinace a non consentire le dimande di Carlo, si lamentò
gravemente che egli con tanta instanza sollecitasse la sua passata,
conchiudendo che, poi che i fatti non corrispondevano alle parole,
era necessitato a risolversi di non si ristrignere in tanto
pericolo. Rispondeva il milanese non dovere Piero dubitare della
fede di Lodovico, se non per altro perché almeno era similmente a
lui pernicioso che Carlo pigliasse Napoli, confortandolo
efficacemente a perseverare nella medesima sentenza, perché
partendosene sarebbe cagione di ridurre se stesso e Italia tutta in
servitú. Del quale ragionamento l'oratore franzese dette subito
notizia al suo re, affermando che era tradito da Lodovico: e
nondimeno non partorí questa astuzia l'effetto il quale il re
Alfonso e Piero avevano sperato; anzi, rivelato dai franzesi
medesimi a Lodovico, rendé piú ardente lo sdegno e l'odio conceputo
prima contro a Piero, e la sollecitudine di stimolare il re di
Francia che non consumasse piú il tempo inutilmente.
Lib.1, cap.9
Paurosi prodigi e terrore in Italia per la venuta de' francesi.
Improvvisa incertezza del re di Francia per l'opposizione della
corte alla spedizione in Italia. Incitamenti del cardinale di San
Pietro in Vincoli. Il passaggio delle Alpi pel Monginevra e
l'entrata in Asti di Carlo VIII. Suo ritratto fisico e morale.
E già non solo le preparazioni fatte per terra e per mare ma il
consentimento de' cieli e degli uomini pronunziavano a Italia le
future calamità. Perché quegli che fanno professione d'avere, o per
scienza o per afflatto divino, notizia delle cose future,
affermavano con una voce medesima apparecchiarsi maggiori e piú
spesse mutazioni, accidenti piú strani e piú orrendi che già per
molti secoli si fussino veduti in parte alcuna del mondo. Né con
minore terrore degli uomini risonava per tutto la fama essere
apparite, in varie parti d'Italia, cose aliene dall'uso della natura
e de' cieli. In Puglia, di notte, tre soli in mezzo 'l cielo ma
nubiloso all'intorno e con orribili folgori e tuoni; nel territorio
di Arezzo, passati visibilmente molti dí per l'aria infiniti uomini
armati in su grossissimi cavalli, e con terribile strepito di suoni
di trombe e di tamburi; avere in molti luoghi d'Italia sudato
manifestamente le immagini e le statue sacre; nati per tutto molti
mostri d'uomini e d'altri animali; molte altre cose sopra l'ordine
della natura essere accadute in diverse parti: onde di incredibile
timore si riempievano i popoli, spaventati già prima per la fama
della potenza de' franzesi, della ferocia di quella nazione, con la
quale (come erano piene l'istorie) aveva già corso e depredato quasi
tutta Italia, saccheggiata e desolata con ferro e con fuoco la città
di Roma, soggiogato nell'Asia molte provincie; né essere quasi parte
alcuna del mondo che in diversi tempi non fusse stata percossa
dall'armi loro. Dava solamente agli uomini ammirazione che in tanti
prodigi non si dimostrasse la stella cometa, la quale gli antichi
reputavano certissimo messaggiere della mutazione de' regni e degli
stati.
Ma a' segni celesti, predizioni, pronostichi e prodigi accresceva
ogni dí piú la fede l'appropinquarsi degli effetti; perché Carlo,
continuando nel suo proposito, era venuto a Vienna città del
Dalfinato, non potendo rimuoverlo dal passare personalmente in
Italia né i prieghi di tutto il regno né la carestia di danari, che
era tale che e' non ebbe modo a provedere a' presenti bisogni se non
con lo impegnare, per non molta quantità di danari, certe gioie
prestategli dal duca di Savoia, dalla marchesana di Monferrato e da
altri signori della corte. Perché la pecunia che aveva raccolta
prima, delle entrate di Francia, e quella che gli era stata prestata
da Lodovico, n'aveva spesa parte nelle armate di mare, nelle quali
si collocava da principio speranza grande della vittoria, parte,
innanzi si movesse da Lione, donata inconsideratamente a varie
persone; né essendo allora i príncipi pronti a estorquere danari da'
popoli, come dipoi, conculcando il rispetto di Dio e degli uomini,
ha insegnato l'avarizia e le immoderate cupidità, non gli era facile
l'accumularne di nuovo. Tanto piccoli furono gli ordini e i
fondamenti di muovere una guerra cosí grave! guidandolo piú la
temerità e l'impeto che la prudenza e il consiglio. Ma come spesso
accade che, quando si viene a dare principio all'esecuzione delle
cose nuove, grandi e difficili, benché già deliberate, si
rappresentano pure all'intelletto degli uomini le ragioni le quali
si possono considerare in contrario; essendo il re in procinto di
partirsi, anzi camminando già verso i monti le genti d'arme, sorse
uno grave mormorío per tutta la corte, mettendo in considerazione
chi le difficoltà ordinarie di tanta impresa, chi il pericolo della
infedeltà degli italiani, e sopra tutti gli altri di Lodovico
Sforza, ricordando l'avviso venuto da Firenze delle sue fraudi (e
per avventura tardavano ad arrivare certi danari che s'aspettavano
da lui): in modo che non solo contradicevano audacemente (come
interviene quando pare che 'l consiglio si confermi dall'evento
delle cose) quegli che avevano sempre dannata questa impresa; ma
alcuni di coloro che ne erano stati principali confortatori, e tra
gli altri il vescovo di San Malò, cominciorno non mediocremente a
vacillare: e ultimatamente, pervenuto agli orecchi del re questo
romore, fece movimento tale in tutta la corte e nella mente sua
medesima, e tale inclinazione di non procedere piú oltre, che subito
comandò che le genti si fermassino; e perciò molti signori i quali
già erano in cammino publicandosi essere deliberato che piú non si
passasse in Italia, se ne ritornorono alla corte. E andava (come si
crede) innanzi facilmente questa mutazione, se 'l cardinale di San
Piero a Vincola, fatale instrumento, e allora e prima e poi, de'
mali d'Italia, non avesse con l'autorità e veemenza sua riscaldato
gli spiriti quasi addiacciati, e ridirizzato l'animo del re alla
deliberazione di prima; riducendogli non solo in memoria le ragioni
le quali a sí gloriosa espedizione eccitato l'aveano, ma
proponendogli innanzi agli occhi con gravissimi stimoli la infamia
la quale per tutto il mondo dalla leggiera mutazione di cosí onorato
consiglio gli perverrebbe. E per che cagione avere adunque, con la
restituzione delle terre del contado d'Artois, indebolito da quella
parte le frontiere del regno suo? per che cagione, con tanto
dispiacere non meno della nobiltà che de' popoli, avere aperto al re
di Spagna, dandogli la contea di Rossiglione, una delle porte di
Francia? Solere consentire simili cose gli altri re o per liberarsi
da urgentissimi pericoli o per conseguirne grandissime utilità. Ma
quale necessità, quale pericolo avere mosso lui? quale premio
aspettarne? quale frutto risultargliene se non l'avere comperato con
carissimo prezzo una vergogna molto maggiore? Che accidenti essere
nati, che difficoltà sopravenute, che pericoli scopertisi, dopo
l'avere publicato la impresa per tutto il mondo? e non piú tosto
crescere manifestamente ognora la speranza della vittoria? essendo
già restati vani i fondamenti in su i quali gli inimici aveano posta
tutta la speranza della difesa: perché e l'armata aragonese,
rifuggita vituperosamente, dopo avere data invano la battaglia a
Portovenere, nel porto di Livorno, non potere fare piú frutto alcuno
contro a Genova, difesa da tanti soldati e da armata piú potente di
quella; e l'esercito di terra, fermatosi in Romagna per la
resistenza di piccolo numero di franzesi, non avere ardire di
passare piú innanzi. Che farebbono come corresse la fama per tutta
Italia che il re con tanto esercito avesse passato i monti? che
tumulti si susciterebbono per tutto? In che sbigottimento si
ridurrebbe il pontefice come dal proprio palagio vedesse l'armi de'
Colonnesi in sulle porte di Roma? in che spavento Piero de' Medici,
avendo inimico il sangue suo medesimo, la città devotissima del nome
franzese e cupidissima di recuperare la libertà oppressa da lui? Non
potere cosa alcuna ritenere l'impeto del re insino a' confini del
regno di Napoli, dove accostandosi sarebbono i medesimi tumulti e
spaventi, né altro per tutto che o fuga o ribellione. Temere forse
che avessino a mancargli i danari? i quali, come si sentisse lo
strepito dell'armi sue, il tuono orribile di quelle impetuose
artiglierie, gli sarebbono portati a gara da tutti gli italiani; e
se pure alcuno si mettesse a resistere, le spoglie le prede le
ricchezze de' vinti gli nutrirebbono l'esercito: perché in Italia,
assuefatta per molti anni piú alle immagini delle guerre che alle
guerre vere, non era nervo da sostenere il furore franzese. Però,
quale timore quale confusione quali sogni quali ombre vane essere
entrate, nel petto suo? Dove essere perduta sí presto la sua
magnanimità? dove quella ferocia con la quale, quattro dí prima, si
vantava di vincere tutta Italia unita insieme? Considerasse non
essere piú in potestà propria i consigli suoi; troppo oltre essere
andate le cose, per l'alienazione delle terre, per gl'imbasciadori
uditi mandati e scacciati, per tante spese fatte, per tanti
apparati, per la publicazione fatta per tutto, per essere già
condotta la sua persona quasi in sull'Alpe. Strignerlo la necessità,
quando bene la impresa fusse pericolosissima, a seguitarla; poi che
tra la gloria e l'infamia, tra il vituperio e i trionfi, tra
l'essere o il piú stimato re o il piú dispregiato di tutto il mondo,
non gli restava piú mezzo alcuno. Che dunque dovere fare a una
vittoria, a uno trionfo già preparato e manifesto?
Queste cose, dette in sostanza dal cardinale ma, secondo la sua
natura, piú con sensi efficaci e con gesti impetuosi e accesi che
con ornato di parole, commossono tanto l'animo del re che, non uditi
piú se non quegli che lo confortavano alla guerra, partí il medesimo
dí da Vienna, accompagnato da tutti i signori e capitani del reame
di Francia, eccetto il duca di Borbone, al quale commesse in luogo
suo l'amministrazione di tutto il regno, e l'ammiraglio e pochi
altri deputati al governo e alla guardia delle provincie piú
importanti; e passando in Italia per la montagna di Monginevra,
molto piú agevole a passare che quella del Monsanese, e per la quale
passò anticamente ma con incredibile difficoltà Annibale
cartaginese, entrò in Asti il dí nono di settembre dell'anno mille
quattrocento novantaquattro, conducendo seco in Italia i semi di
innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti, e variazione di
quasi tutte le cose: perché dalla passata sua non solo ebbono
principio mutazioni di stati, sovversioni di regni, desolazioni di
paesi, eccidi di città, crudelissime uccisioni, ma eziandio nuovi
abiti, nuovi costumi, nuovi e sanguinosi modi di guerreggiare,
infermità insino a quel dí non conosciute; e si disordinorono di
maniera gli instrumenti della quiete e concordia italiana che, non
si essendo mai poi potuta riordinare, hanno avuto facoltà altre
nazioni straniere e eserciti barbari di conculcarla miserabilmente e
devastarla. E per maggiore infelicità, acciocché per il valore del
vincitore non si diminuisseno le nostre vergogne, quello per la
venuta del quale si causorno tanti mali, se bene dotato sí
amplamente de' beni della fortuna, spogliato di quasi tutte le doti
della natura e dell'animo.
Perché certo è che Carlo, insino da puerizia, fu di complessione
molto debole e di corpo non sano, di statura piccolo, di aspetto, se
tu gli levi il vigore e la degnità degli occhi, bruttissimo, e
l'altre membra proporzionate in modo che e' pareva quasi piú simile
a mostro che a uomo: né solo senza alcuna notizia delle buone arti
ma appena gli furno cogniti i caratteri delle lettere; animo cupido
di imperare ma abile piú a ogn'altra cosa, perché aggirato sempre
da' suoi non riteneva con loro né maestà né autorità; alieno da
tutte le fatiche e faccende, e in quelle alle quali pure attendeva
povero di prudenza e di giudicio. Già, se alcuna cosa pareva in lui
degna di laude, risguardata intrinsicamente, era piú lontana dalla
virtú che dal vizio. Inclinazione alla gloria ma piú presto con
impeto che con consiglio, liberalità ma inconsiderata e senza misura
o distinzione, immutabile talvolta nelle deliberazioni ma spesso piú
ostinazione mal fondata che costanza; e quello che molti chiamavano
bontà meritava piú convenientemente nome di freddezza e di
remissione di animo.
Lib.1, cap.10
L'armata aragonese di nuovo contro Genova. Sconfitta di Obietto dal
Fiesco a Rapallo. Rinuncia di don Federigo d'Aragona ad ogni altra
impresa d'importanza contro le riviere.
Ma il dí medesimo che il re arrivò nella città di Asti, cominciando
a dimostrarsigli con lietissimo augurio la benignità della fortuna,
gli sopravennono da Genova desideratissime novelle. Perché don
Federigo, poiché ritiratosi da Portovenere nel porto di Livorno ebbe
rinfrescata l'armata e soldato nuovi fanti, ritornato nella medesima
riviera, pose in terra Obietto dal Fiesco con tremila fanti; il
quale, occupata senza difficoltà la terra di Rapalle, distante da
Genova venti miglia, cominciò a infestare il paese circostante; il
quale principio non essendo di piccola importanza, perché nelle cose
di quella città è, per la infezione delle parti, pericolosissimo
ogni quantunque minimo movimento, non parve a quegli di dentro da
comportare che per gli inimici si facesse maggiore progresso. Però,
lasciata una parte delle genti alla guardia della città, si mossono
col resto, per terra, alla volta di Rapalle i fratelli Sanseverini e
Giovanni Adorno, fratello di Agostino governatore di Genova, co'
fanti italiani, e il duca di Orliens con mille svizzeri in sulla
armata di mare nella quale erano diciotto galee, sei galeoni e nove
navi grosse; i quali, unitisi tutti presso a Rapalle, assaltorono
con impeto grande gli inimici che avevano fatto testa al ponte che è
tra 'l borgo di Rapalle e uno stretto piano il quale si distende
insino al mare. Combatteva per gli aragonesi oltre alle forze
proprie il vantaggio del sito, per l'asprezza del quale piú che per
altra munizione sono forti i luoghi del paese; e perciò il principio
dell'assalto non si dimostrava felice per gli inimici, e già i
svizzeri, essendo in luogo inabile a spiegare la loro ordinanza,
cominciavano quasi a ritirarsi: ma concorrevano tumultuosamente da
ogni banda molti paesani seguaci degli Adorni, i quali tra quegli
sassi e monti asprissimi sono attissimi a combattere; e essendo
oltre a questo nel tempo medesimo infestati gli aragonesi per fianco
dall'artiglierie dell'armata franzese, accostatasi al lito quanto
poteva, cominciorono a sostenere difficilmente l'impressione degli
inimici; e essendo già spuntati dal ponte, sopragiunsono avvisi a
Obietto, in favore del quale i suoi partigiani non si erano mossi,
appropinquarsi Gianluigi dal Fiesco con molti fanti: per il che,
dubitando di non essere assaltati dalle spalle, si messono in fuga,
e Obietto il primo, secondo l'uso de' fuorusciti, per la via della
montagna; restando, parte nel combattere parte nel fuggire, morti di
loro piú di cento uomini, uccisione senza dubbio non piccola secondo
le maniere del guerreggiare le quali a quello tempo in Italia si
esercitavano. Furono medesimamente fatti molti prigioni, tra i quali
Giulio Orsino, che, soldato del re, avea con quaranta uomini d'arme
e alcuni balestrieri a cavallo seguitata l'armata, e Fregosino
figliuolo del cardinale Fregoso e Orlandino della medesima famiglia.
Assicurò al tutto questa vittoria le cose di Genova: perché don
Federigo, il quale, subito che ebbe posti i fanti in terra, si era,
per non essere costretto a combattere nel golfo di Rapalle con
l'armata inimica, allargato in alto mare, disperandosi di potere
fare per allora piú frutto alcuno, ritirò un'altra volta l'armata
nel porto di Livorno: e benché quivi di nuovi fanti si provedesse, e
disegni vari avesse di assaltare qualche altro luogo delle riviere,
nondimeno, come per i princípi avversi delle imprese si perde e
l'animo e la riputazione, non tentò piú cosa alcuna di momento;
lasciando giusta cagione a Lodovico Sforza di gloriarsi che aveva
con la industria e consigli suoi scherniti gli avversari, perché non
altro avere salvato le cose di Genova che la tardità della mossa
loro, procurata con l'arti sue e con le speranze vane che aveva
date.
Lib.1, cap.11
L'esercito di Carlo VIII. Perfezione delle artiglierie francesi.
Altre ragioni che rendevano formidabile l'esercito francese.
Diversità fra le milizie italiane e l'esercito di Carlo.
Ma a Carlo era andato subito in Asti Lodovico Sforza e Beatrice sua
moglie, con grandissima pompa e onoratissima compagnia di molte
donne nobili e di forma eccellente del ducato di Milano, e insieme
Ercole duca di Ferrara: dove trattandosi delle cose comuni, fu
deliberato che il piú presto che si poteva si movesse l'esercito. E
acciocché questo piú sollecitamente si facesse, Lodovico, che non
mediocremente temeva che sopravenendo i tempi aspri non si
fermassino per quella vernata nelle terre del ducato di Milano,
prestò di nuovo danari al re, il quale n'aveva necessità non
mediocre: e nondimeno, scoprendosegli quel male che i nostri
chiamano vaiuolo, soggiornò in Asti circa a uno mese, distribuito
l'esercito in quella città e nelle terre circostanti. Il numero del
quale, per quel che io ritraggo, nella diversità di molti, per piú
vero, fu, oltre ai dugento gentiluomini della guardia del re,
computati i svizzeri i quali prima col baglí di Digiuno erano andati
a Genova, e quella gente che sotto Obigní militava in Romagna,
uomini d'arme mille secento, de' quali ciascuno ha secondo l'uso
franzese due arcieri, in modo che sei cavalli sotto ogni lancia
(questo nome hanno i loro uomini d'arme) si comprendono; seimila
fanti svizzeri; seimila fanti del regno suo, de' quali la metà erano
della provincia di Guascogna, dotata meglio, secondo il giudicio de'
franzesi, di fanti atti alla guerra che alcuna altra parte di
Francia: e per unirsi con questo esercito erano state condotte per
mare a Genova quantità grande di artiglierie da battere le muraglie
e da usare in campagna, ma di tale sorte che giammai aveva veduto
Italia le simiglianti.
Questa peste, trovata molti anni innanzi in Germania, fu condotta la
prima volta in Italia da' viniziani, nella guerra che circa l'anno
della salute mille trecent'ottanta ebbono i genovesi con loro; nella
quale i viniziani, vinti nel mare e afflitti per la perdita di
Chioggia, ricevevano qualunque condizione avesse voluta il vincitore
se a tanto preclara occasione non fusse mancato moderato consiglio.
Il nome delle maggiori era bombarde, le quali, sparsa dipoi questa
invenzione per tutta Italia, si adoperavano nelle oppugnazioni delle
terre; alcune di ferro alcune di bronzo, ma grossissime in modo che
per la macchina grande e per la imperizia degli uomini e attitudine
mala degli instrumenti, tardissimamente e con grandissima difficoltà
si conducevano, piantavansi alle terre co' medesimi impedimenti, e
piantate, era dall'uno colpo all'altro tanto intervallo che con
piccolissimo frutto, a comparazione di quello che seguitò da poi,
molto tempo consumavano; donde i difensori de' luoghi oppugnati
avevano spazio di potere oziosamente fare di dentro ripari e
fortificazioni: e nondimeno, per la violenza del salnitro col quale
si fa la polvere, datogli il fuoco, volavano con sí orribile tuono e
impeto stupendo per l'aria le palle, che questo instrumento faceva,
eziandio innanzi che avesse maggiore perfezione, ridicoli tutti gli
instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con
tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi.
Ma i franzesi, fabricando pezzi molto piú espediti né d'altro che di
bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove
prima di pietra e senza comparazione piú grosse e di peso gravissimo
s'usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi,
come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale
d'uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi
sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie
erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall'un
colpo all'altro piccolissimo intervallo di tempo, sí spesso e con
impeto sí veemente percotevano che quello che prima in Italia fare
in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva:
usando ancora questo piú tosto diabolico che umano instrumento non
meno alla campagna che a combattere le terre, e co' medesimi cannoni
e con altri pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro
proporzione, con la medesima destrezza e celerità.
Facevano tali artiglierie molto formidabile a tutta Italia
l'esercito di Carlo; formidabile, oltre a questo, non per il numero
ma per il valore de' soldati. Perché essendo le genti d'arme quasi
tutte di sudditi del re, e non di plebe ma di gentiluomini, i quali
non meramente ad arbitrio de' capitani si mettevano o rimovevano, e
pagate non da loro ma da i ministri regi aveano le compagnie non
solo i numeri interi ma la gente fiorita e bene in ordine di cavalli
e d'armi, non essendo per la povertà impotenti a provedersene, e
facendo ciascuno a gara di servire meglio, cosí per lo istinto
dell'onore, il quale nutrisce ne' petti degli uomini l'essere nati
nobilmente, come perché dell'opere valorose potevano sperare premi,
e fuora della milizia e nella milizia, ordinata in modo che per piú
gradi si saliva insino al capitanato. I medesimi stimoli avevano i
capitani, quasi tutti baroni e signori o almanco di sangue molto
nobile, e quasi tutti sudditi del regno di Francia; i quali,
terminata la quantità della sua compagnia, perché, secondo il
costume di quel reame, a niuno si dava condotta piú di cento lancie,
non avevano altro intento che meritare laude appresso al suo re,
donde non aveano luogo tra loro né la instabilità di mutare padrone,
o per ambizione o per avarizia, né le concorrenze con gli altri
capitani per avanzargli con maggiore condotta. Cose tutte contrarie
nella milizia italiana, dove molti degli uomini d'arme, o contadini
o plebei, e sudditi a altro principe, e in tutto dipendenti dai
capitani co' quali convenivano dello stipendio, e in arbitrio de'
quali era mettergli e pagargli, non aveano, né per natura né per
accidente, stimolo estraordinario al bene servire; e i capitani,
rarissime volte sudditi di chi gli conduceva e che spesso aveano
interessi e fini diversi, pieni tra loro di emulazione e di odii, né
avendo prefisso termine alle condotte e interamente padroni delle
compagnie, né tenevano il numero de' soldati che erano loro pagati,
né contenti delle condizioni, oneste mettevano in ogni occasione
ingorde taglie a’ padroni; e instabili al medesimo servigio
passavano spesso a nuovi stipendi, sforzandogli qualche volta
l'ambizione o l'avarizia o altri interessi a essere non solo
instabili ma infedeli. Né si vedeva minore diversità tra i fanti
italiani e quegli che erano con Carlo: perché gl'italiani non
combattevano in squadrone fermo e ordinato ma sparsi per la
campagna, ritirandosi il piú delle volte a i vantaggi degli argini e
de' fossi; ma i svizzeri, nazione bellicosissima, e la quale con
lunga milizia e con molte preclarissime vittorie aveva rinnovata la
fama antica della ferocia, si presentavano a combattere con schiere
squadre, ordinate e distinte a certo numero per fila, né uscendo mai
della sua ordinanza si opponevano agli inimici a modo di un muro,
stabili e quasi invitti, dove combattessino in luogo largo da potere
distendere il loro squadrone: e con la medesima disciplina e
ordinanza, benché non con la medesima virtú, combattevano i fanti
franzesi e guasconi.
Lib.1, cap.12
I Colonnesi, occupata la rocca di Ostia, si dichiarano apertamente
per il re di Francia. Scarsa fortuna dell'esercito aragonese in
Romagna.
Ma mentre che 'l re impedito dalla infermità si stava in Asti,
nacque nel paese di Roma nuovo tumulto; perché i Colonnesi, i quali,
benché Alfonso avesse accettate tutte le dimande immoderate che
avevano fatte, si erano, subito che Obigní fu entrato con le genti
franzesi in Romagna, deposta la simulazione, dichiarati soldati del
re di Francia, occuporno la rocca d'Ostia, per trattato tenuto da
alcuni fanti spagnuoli che v'erano a guardia. Costrinse questo caso
il pontefice a querelarsi della ingiuria franzese con tutti i
príncipi cristiani, e specialmente co' re di Spagna e col senato
viniziano, al quale, benché invano, domandò aiuto, per l'obligo
della confederazione contratta l'anno precedente insieme; e
voltatosi con animo costante alle provisioni della guerra, citati
Prospero e Fabrizio, a' quali fece poi spianare le case che avevano
in Roma, e unite le genti sue e parte di quelle d'Alfonso sotto
Verginio, in sul fiume del Teverone appresso a Tivoli, le mandò in
sulle terre de' Colonnesi, i quali non avevano altre genti che
dugento uomini d'arme e mille fanti. Ma dubitando poi il pontefice
che l'armata franzese, la quale era fama dovere andare da Genova al
soccorso d'Ostia, non avesse ricetto a Nettunno, porto de'
Colonnesi, Alfonso, raccolte a Terracina tutte le genti che il
pontefice ed egli avevano in quelle parti, vi pose il campo,
sperando di espugnarlo agevolmente; ma difendendolo i Colonnesi
francamente, e essendo passata senza opposizione nelle terre loro la
compagnia di Cammillo Vitelli da Città di Castello e de' fratelli,
soldati di nuovo dal re di Francia, il pontefice richiamò a Roma
parte delle sue genti che erano in Romagna con Ferdinando.
Le cose del quale non continuavano di procedere con quella
prosperità la quale pareva che si fusse dimostrata da principio.
Perché arrivato a Villafranca tra Furlí e Faenza, e di quivi
prendendo il cammino per la strada maestra verso Imola, l'esercito
inimico, che era alloggiato appresso a Villafranca, essendo
inferiore di forze, si ritirò tra la selva di Lugo e Colombara
presso al fossato del Genivolo, alloggiamento per natura molto
forte, luogo d'Ercole da Esti, del dominio del quale aveva le
vettovaglie; onde tolta a Ferdinando, per la fortezza del sito, la
facoltà d'assaltargli senza gravissimo pericolo, partito da Imola,
andò ad alloggiare a Toscanella appresso a Castel San Piero nel
territorio bolognese; perché desiderando di combattere, cercava, con
la dimostrazione di andare verso Bologna, mettere gli inimici, per
non gli lasciare libero l'andare innanzi, in necessità di condursi
in alloggiamenti non tanto forti: ma essi dopo qualche dí,
approssimatisi a Imola, si fermorono in sul fiume del Santerno tra
Lugo e Santa Agata, avendo alle spalle il fiume del Po, e in
alloggiamento molto fortificato. Alloggiò Ferdinando, il dí
seguente, vicino a loro a sei miglia, in sul fiume medesimo appresso
a Mordano e Bubano, e l'altro dí con l'esercito ordinato in
battaglia si presentò vicino a uno miglio; ma poi che per spazio di
qualche ora gli ebbe aspettati indarno nella pianura, comodissima
per la sua larghezza a combattere, essendo di manifesto pericolo
l'assaltargli a quello alloggiamento, andò ad alloggiare a Barbiano
villa di Cotignuola, non piú verso la montagna, come insino ad
allora aveva fatto, ma per fianco agli inimici; avendo sempre il
medesimo intento di costrignergli, se avesse potuto, a uscire degli
alloggiamenti cosí forti. Era paruto che insino a questo dí le cose
del duca di Calavria fussino procedute con maggiore riputazione,
perché e gli inimici avevano apertamente ricusato il combattere,
difendendosi piú con la fortezza degli alloggiamenti che con la
virtú dell'armi, e in qualche riscontro fatto tra i cavalli leggieri
erano piú tosto gli aragonesi rimasti superiori; ma essendo poi
continuamente augumentato l'esercito franzese e sforzesco, per il
sopravenire delle genti che da principio erano restate indietro,
cominciò a variarsi lo stato della guerra. Perché il duca,
raffrenato l'ardore suo dai consigli de' capitani che gli erano
appresso, per non si commettere se non con vantaggio alla fortuna,
si ritirò a Santa Agata, terra del duca di Ferrara; dove, essendo
diminuito di fanti e in mezzo delle terre ferraresi, e partita già
quella parte delle genti d'arme della Chiesa la quale aveva rivocata
il pontefice, attendeva a fortificarsi; ma soprasedutovi pochi dí,
avuta notizia aspettarsi di nuovo nel campo degl'inimici dugento
lancie e mille fanti svizzeri mandati dal re di Francia subito che
e' fu arrivato in Asti, si ritirò nella cerca di Faenza, luogo
tralle mura di quella città e uno fosso, il quale lontano circa uno
miglio della terra e circondandola tutta rende quel sito molto
forte; per la ritirata del quale gli inimici venneno
nell'alloggiamento, abbandonato da lui, di Santa Agata. Dimostrossi
certamente animoso l'uno esercito e l'altro quando vedde l'inimico
inferiore, ma quando le cose erano quasi pareggiate, ciascuno
fuggiva il tentare la fortuna; perché (quel che rarissime volte
accade che uno medesimo consiglio piaccia a due eserciti inimici)
pareva a' franzesi e agli sforzeschi ottenere l'intento per il quale
si erano mossi di Lombardia se impedivano che gli aragonesi non
passassino piú innanzi, e il re Alfonso, riputando acquisto non
piccolo che i progressi degli inimici insino alla vernata si
ritardassino, aveva commesso espressamente al figliolo e ordinato a
Gianiacopo da Triulzi e al conte di Pitigliano che non mettessino
senza grande occasione in potestà della fortuna il regno di Napoli,
che era perduto se quell'esercito si perdeva.
Lib.1, cap.13
Visita di Carlo VIII a Giovan Galeazzo Sforza infermo nel castello
di Pavia. Notizia a Carlo giunto a Piacenza della morte di Giovan
Galeazzo. Lodovico Sforza assume i titoli e le insegne del ducato di
Milano. Sospetti e voci intorno alla morte di Giovan Galeazzo. Il re
di Francia dopo nuove incertezze delibera di continuare l'impresa.
Ma non bastavano questi rimedi alla sua salute, perché Carlo, non
ritenendo l'impeto suo né la stagione del tempo né alcun'altra
difficoltà, subito che ebbe recuperata la sanità, mosse l'esercito.
Giaceva nel castello di Pavia, oppresso di gravissima infermità,
Giovan Galeazzo duca di Milano suo fratello cugino (erano il re e
egli nati di due sorelle figliuole di [Lodovico secondo] duca di
Savoia); il quale il re, passando per quella città e alloggiato nel
medesimo castello, andò benignissimamente a visitare. Le parole
furono generali per la presenza di Lodovico, dimostrando molestia
del suo male, e confortandolo a attendere con buona speranza alla
recuperazione della salute; ma l'affetto dell'animo non fu senza
grande compassione cosí del re come di tutti coloro che erano con
lui, tenendo ciascuno per certo la vita dello infelice giovane
dovere, per le insidie del zio, essere brevissima. E si accrebbe
molto piú per la presenza di Isabella sua moglie; la quale, ansia
non solo della salute del marito e di uno piccolo figliuolo che
aveva di lui, ma mestissima oltre a questo per il pericolo del padre
e degli altri suoi, si gittò molto miserabilmente, nel cospetto di
tutti, a' piedi del re, raccomandandogli con infinite lacrime il
padre e la casa sua di Aragona: alla quale il re, benché mosso
dall'età e dalla forma dimostrasse averne compassione, nondimeno,
non si potendo per cagione cosí leggiera fermare un movimento sí
grande, rispose che essendo condotta la impresa tanto innanzi era
necessitato a continuarla.
Da Pavia andò il re a Piacenza, dove essendosi fermato sopravenne la
morte di Giovan Galeazzo, per la quale Lodovico che l'avea seguíto
ritornò con grandissima celerità a Milano. Dove da' principali del
consiglio ducale, subornati da lui, fu proposto che, per la
grandezza di quello stato e per i tempi difficili i quali in Italia
si preparavano, sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di
Giovan Galeazzo di età d'anni cinque succedesse al padre, ma essere
necessario avere uno duca che fusse grande di prudenza e d'autorità;
e però doversi, dispensando, per la salute publica e per la
necessità, alla disposizione della legge, come permettono le leggi
medesime, costrignere Lodovico a consentire che in sé si trasferisse
per beneficio universale la degnità del ducato, peso gravissimo in
tempi tali: col quale colore, cedendo l'onestà all'ambizione, benché
simulasse fare qualche resistenza, assunse la mattina seguente i
titoli e le insegne del ducato di Milano; protestato prima
segretamente riceverle come appartenenti a sé per l'investitura del
re de' romani.
Fu publicato da molti la morte di Giovan Galeazzo essere proceduta
da coito immoderato, nondimeno si credette universalmente per tutta
Italia che e' fusse morto non per infermità naturale né per
incontinenza, ma di veleno; e Teodoro da Pavia, uno de' medici regi,
il quale era presente quando Carlo lo visitò, affermò averne veduto
segni manifestissimi. Né fu alcuno che dubitasse che se era stato
veleno non gli fusse stato dato per opera del zio, come quello che,
non contento di essere con assoluta autorità governatore del ducato
di Milano e avido, secondo l'appetito comune degli uomini grandi, di
farsi piú illustre co' titoli e con gli onori, e molto piú per
giudicare che alla sicurtà sua e alla successione de' figliuoli
fusse necessaria la morte del principe legittimo, avesse voluto
trasferire e stabilire in sé la potestà e il nome ducale; dalla
quale cupidità fusse a cosí scelerata opera stata sforzata la sua
natura, mansueta per l'ordinario e aborrente dal sangue. E fu
creduto quasi da tutti questa essere stata sua intenzione insino
quando cominciò a trattare che i franzesi passassino in Italia,
parendogli opportunissima occasione di metterla a effetto in tempo
nel quale, per essere il re di Francia con tanto esercito in quello
stato, avesse a mancare a ciascuno l'animo di risentirsi di tanta
sceleratezza. Credettono altri questo essere stato nuovo pensiero,
nato per timore che 'l re, come sono subiti i consigli de' franzesi,
non procedesse precipitosamente a liberare Giovan Galeazzo da tanta
soggezione, movendolo o il parentado e la compassione della età o il
parergli piú sicuro per sé che quello stato fusse nella potestà del
cugino che di Lodovico; la fede del quale non mancavano persone
grandi appresso a lui che continuamente si sforzassino fargli
sospetta. Ma l'avere Lodovico procurata l'anno precedente
l'investitura, e fatto poco innanzi alla morte del nipote espedirne
sollecitamente i privilegi imperiali, arguisce piú presto
deliberazione premeditata e in tutto volontaria che subita e quasi
spinta dal pericolo presente.
Soprastette alcuni dí Carlo in Piacenza non senza inclinazione di
ritornarsene di là da' monti, perché la carestia de' danari e il non
si scoprire per Italia cosa alcuna nuova in suo favore lo rendevano
dubbio del successo; e non meno il sospetto conceputo del nuovo
duca, del quale era fama, che se bene quando partí da lui gli avesse
promesso di ritornare, che piú non ritornerebbe. Né è fuora del
verisimile che, essendo quasi incognita appresso agli oltramontani
la sceleratezza di usare contro agli uomini i veleni, frequente in
molte parti d'Italia, Carlo e tutta la corte, oltre al sospettare
della fede, avesse in orrore il nome suo; anzi si riputasse
gravemente ingiuriato che Lodovico, per potere fare senza pericolo
una opera cosí abominevole, avesse la sua venuta in Italia
procurata. Deliberossi pure finalmente l'andare innanzi, come
continuamente sollecitava Lodovico, promettendo di ritornare al re
fra pochi giorni; perché e il soprasedere del re in Lombardia, né
meno il ritornarsene precipitosamente in Francia, era del tutto
contrario alla sua intenzione.
Lib.1, cap.14
Incitamenti di Lorenzo e di Giovanni de' Medici a Carlo VIII perché
s'accosti a Firenze. Aumenta lo sdegno di Carlo contro Piero de'
Medici. L'esercito francese passa l'Appennino. Gli svizzeri di Carlo
prendono Fivizzano compiendo stragi. Le fortezze di Serezana e di
Serezanello. Malumore in Firenze contro Piero de' Medici. Questi
consegna fortezze de' fiorentini a Carlo. L'esercito aragonese si
ritira dalla Romagna e la flotta dal porto di Livorno.
Al re, il dí medesimo che si mosse da Piacenza, venneno Lorenzo e
Giovanni de' Medici; i quali, fuggiti occultamente delle loro ville,
facevano instanza che 'l re si accostasse a Firenze, promettendo
molto della volontà del popolo fiorentino inverso la casa di
Francia, e non meno dell'odio contro a Piero de' Medici. Contro al
quale era, per nuove cagioni, augumentato non poco lo sdegno del re:
perché avendo mandato da Asti uno imbasciadore a Firenze a proporre
molte offerte se gli consentivano il passo e in futuro si astenevano
dall'aiutare Alfonso, e in caso perseverassino nella prima
deliberazione, molte minaccie; e avendogli, per fare maggiore
terrore, commesso che se subito non si determinavano si partisse;
gli era stato, cercando scusa del differire, risposto che, per
essere i cittadini principali del governo, come in quella stagione è
costume de' fiorentini, alle loro ville, non potevano dargli
risposta certa cosí subito, ma che per uno imbasciadore proprio
farebbono presto intendere al re la mente loro.
Non era mai stato nel consiglio reale messo in disputazione che
fusse piú tosto da dirizzarsi con l'esercito per il cammino il
quale, per la Toscana e per il territorio di Roma, conduce diritto a
Napoli che per quello che, per la Romagna e per la Marca, passato il
fiume del Tronto, entra nell'Abruzzi; non perché non confidassino di
cacciare le genti aragonesi, le quali con difficoltà resistevano a
Obigní, ma perché pareva cosa indegna della grandezza di tanto re e
della gloria delle armi sue, essendosi il pontefice e i fiorentini
dichiarati contro a lui, dare causa agli uomini di pensare che egli
sfuggisse quel cammino perché si diffidasse di sforzargli; e perché
si stimava pericoloso il fare la guerra nel reame di Napoli
lasciandosi alle spalle inimica la Toscana e lo stato ecclesiastico:
e si deliberò di passare l'Apennino piú tosto per la montagna di
Parma, come Lodovico Sforza, desideroso di insignorirsi di Pisa,
aveva insino in Asti consigliato, che per il cammino diritto di
Bologna. Però l'antiguardia, della quale era capitano Giliberto
monsignore di Mompensieri della famiglia di Borbone, del sangue de'
re di Francia, seguitandola il re col resto dell'esercito, passò a
Pontriemoli, terra appartenente al ducato di Milano, posta al piè
dello Apennino in sul fiume della Magra; il quale fiume divide il
paese di Genova, chiamato anticamente Liguria, dalla Toscana. Da
Pontriemoli entrò Mompensieri nel paese della Lunigiana, della quale
una parte ubbidiva a' fiorentini, alcune castella erano de'
genovesi, il resto de' marchesi Malespini; i quali, sotto la
protezione chi del duca di Milano chi de' fiorentini chi de'
genovesi, i loro piccoli stati mantenevano. Unironsi seco in quegli
confini i svizzeri che erano stati alla difesa di Genova, e
l'artiglierie venute per mare a Genova e dipoi alla Spezie; e
accostatosi a Fivizano, castello de' fiorentini, dove gli condusse
Gabriello Malaspina marchese di Fosdinuovo loro raccomandato, lo
presono per forza e saccheggiorno, ammazzando tutti i soldati
forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa nuova e
di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a
vedere guerre piú presto belle di pompa e di apparati, e quasi
simili a spettacoli, che pericolose e sanguinose.
Facevano i fiorentini la resistenza principale in Serezana, piccola
città stata da loro molto fortificata; ma non l'avevano proveduta
contro a inimico cosí potente come sarebbe stato necessario, perché
non v'avevano messo capitano di guerra d'autorità né molti soldati,
e quegli già ripieni di viltà per la fama sola dello approssimarsi
l'esercito franzese: e nondimeno non si riputava di facile
espugnazione, massimamente la fortezza; e molto piú Serezanello,
rocca molto munita, edificata in sul monte sopra Serezana. Né poteva
dimorare l'esercito in questi luoghi molti dí, perché quel paese
sterile e stretto, rinchiuso tra 'l mare e il monte, non bastava a
nutrire tanta moltitudine; né potendo venirvi vettovaglie se non di
luoghi lontani, non potevano essere a tempo al bisogno presente. Da
che parea che le cose del re potessino facilmente ridursi in non
piccole angustie; perché, se bene non gli potesse essere vietato
che, lasciatasi indietro la terra o la fortezza di Serezana e
Serezanello, assaltasse Pisa, o per il contado di Lucca, la quale
città per mezzo del duca di Milano aveva occultamente deliberato di
riceverlo, entrasse in altra parte del dominio fiorentino, nondimeno
malvolentieri si riduceva a questa deliberazione, parendogli che se
non espugnava la prima terra che se gli era opposta, si diminuisse
tanto della sua riputazione che tutti gli altri piglierebbono
facilmente animo a fare il medesimo. Ma era destinato che, o per
beneficio della fortuna o per ordinazione di altra piú alta potestà
(se però queste scuse meritano le imprudenze e le colpe degli
uomini), a tale impedimento sopravenisse rimedio subito: imperocché
in Piero de' Medici non fu né maggiore animo né maggiore costanza
nelle avversità che fusse stata o moderazione o prudenza nelle
prosperità.
Era continuamente moltiplicato il dispiacere che la città di Firenze
aveva da principio ricevuto dall'opposizione che si faceva al re,
non tanto per essere stati di nuovo sbandeggiati i mercatanti
fiorentini di tutto il reame di Francia quanto per il timore della
potenza de' franzesi, cresciuto eccessivamente come si intese
l'esercito avere cominciato a passare l'Apennino, e dipoi la
crudeltà usata nella occupazione di Fivizano. E però da ciascuno era
palesemente detestata la temerità di Piero de' Medici, che senza
necessità, e credendo piú a se medesimo e al consiglio di ministri
temerari e arroganti ne' tempi della pace, inutili ne' tempi
pericolosi, che a' cittadini amici paterni, da' quali era stato
saviamente consigliato, avesse con tanta inconsiderazione provocato
l'armi d'un re di Francia, potentissimo e aiutato dal duca di
Milano; essendo massime egli imperito delle cose della guerra, e
Pisa, città d'animo inimico, non fortificata e poco proveduta di
soldati e di munizioni, e cosí tutto il resto del dominio fiorentino
mal preparato a difendersi da tanto impeto, né si dimostrando degli
aragonesi, per i quali erano esposti a tanto pericolo, altro che 'l
duca di Calavria, impegnato con le sue genti in Romagna per la
opposizione solo di una piccola parte dell'esercito franzese; e
perciò la patria loro, abbandonata da ognuno, restare in odio
smisurato e in preda manifesta di chi aveva con tanta instanza
cercato di non avere necessità di nuocere loro. Questa disposizione,
già quasi di tutta la città, era accesa da molti cittadini nobili a'
quali sommamente dispiaceva il governo presente, e che una famiglia
sola s'avesse arrogato la potestà di tutta la republica; e questi,
augumentando il timore di coloro che da se stessi temevano e dando
ardire a coloro che cose nuove desideravano, avevano in modo
sollevato gli animi del popolo che già cominciava molto a temersi
che la città facesse tumultuazione; incitando ancora piú gli uomini
la superbia e il procedere immoderato di Piero, discostatosi in
molte cose dai costumi civili e dalla mansuetudine de' suoi
maggiori: donde quasi insino da puerizia era stato sempre odioso
all'universalità de' cittadini, e in modo che è certissimo che il
padre Lorenzo, contemplando la sua natura, si era spesso lamentato
con gli amici piú intimi che l'imprudenza e arroganza del figliuolo
partorirebbe la ruina della sua casa. Spaventato adunque Piero dal
pericolo il quale prima aveva temerariamente disprezzato,
mancandogli i sussidi promessi dal pontefice e da Alfonso, occupati
per la perdita d'Ostia, per l'oppugnazione di Nettunno e per il
timore dell'armata franzese, si risolvé precipitosamente d'andare a
cercare dagl'inimici quella salute la quale piú non sperava dagli
amici; seguitando, come pareva a lui, l'esempio del padre, il quale,
essendo l'anno mille quattrocento settantanove, per la guerra fatta
a' fiorentini da Sisto pontefice e da Ferdinando re di Napoli,
ridotto in gravissimo pericolo, andato a Napoli a Ferdinando, ne
riportò a Firenze la pace publica e la sicurtà privata. Ma è senza
dubbio molto pericoloso il governarsi con gli esempli se non
concorrono, non solo in generale ma in tutti i particolari, le
medesime ragioni, se le cose non sono regolate con la medesima
prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v'ha la
parte sua la medesima fortuna. Con questa determinazione partito da
Firenze, ebbe, innanzi che arrivasse al re, avviso che i cavalli di
Pagolo Orsino e trecento fanti mandati da' fiorentini per entrare in
Serezana erano stati rotti da alcuni cavalli de' franzesi corsi di
qua dalla Magra, e restati la maggiore parte o morti o prigioni.
Aspettò a Pietrasanta il salvocondotto regio, dove andorno per
condurlo sicuro il vescovo di San Malò e alcun'altri signori della
corte; dai quali accompagnato entrò in Serezana il dí medesimo che
il re col resto dell'esercito si uní con l'antiguardia, la quale
accampata a Serezanello batteva quella rocca, ma non con tale
progresso che avessino speranza di espugnarla. Introdotto innanzi al
re, e da lui raccolto benignamente piú con la fronte che con
l'animo, mitigò non poco della sua indegnazione col consentire a
tutte le sue dimande, che furono alte e immoderate: che le fortezze
di Pietrasanta e di Serezana e Serezanello, terre che da quella
parte erano come chiave del dominio fiorentino, e le fortezze di
Pisa e del porto di Livorno, membri importantissimi del loro stato,
si deponessino in mano del re; il quale per uno scritto di mano
propria s'obligasse a restituirle come prima avesse acquistato il
regno di Napoli: procurasse Piero che i fiorentini gli prestassino
dugentomila ducati, e gli ricevesse il re in confederazione e sotto
la sua protezione: delle quali cose, promesse con semplici parole,
si differisse a espedirne le scritture in Firenze, per la quale
città il re intendeva di passare. Ma non si differí già la
consegnazione delle fortezze, perché Piero gli fece subito
consegnare quelle di Serezana, di Pietrasanta e di Serezanello, e
pochi dí poi fu per ordine suo fatto il medesimo di quelle di Pisa e
di Livorno; maravigliandosi grandemente tutti i franzesi che Piero
cosí facilmente avesse consentito a cose di tanta importanza, perché
il re senza dubbio arebbe convenuto con molto minori condizioni. Né
pare in questo luogo da pretermettere quel che argutamente rispose a
Piero de' Medici Lodovico Sforza, che arrivò il dí seguente
all'esercito: perché scusandosi Piero che, essendo andatogli
incontro per onorarlo, l'avere Lodovico fallito la strada era stato
cagione che la sua andata fusse stata vana, rispose molto
prontamente: - Vero è che uno di noi ha fallito la strada, ma sarete
forse voi stato quello. - Quasi rimproverandogli che per non avere
prestata fede a' consigli suoi fusse caduto in tante difficoltà e
pericoli. Benché i successi seguenti dimostrorno avere fallito il
cammino diritto ciascuno di loro, ma con maggiore infamia e
infelicità di colui il quale, collocato in maggiore grandezza,
faceva professione di essere con la prudenza sua la guida di tutti
gli altri.
La deliberazione di Piero non solo assicurò il re delle cose della
Toscana ma gli rimosse del tutto gli ostacoli della Romagna, dove
già declinavano molto gli aragonesi. Perché (come è difficile a chi
appena difende se stesso dagli imminenti pericoli provedere nel
tempo medesimo a' pericoli degli altri), mentre che Ferdinando sta
sicuro nel forte alloggiamento della cerca di Faenza, gli inimici
ritornati nel contado d'Imola, poiché con parte dell'esercito ebbono
assaltato il castello di Bubano, ma invano, perché per il piccolo
circuito bastava poca gente a difenderlo, e per la bassezza del
luogo il paese era inondato dall'acque, preseno per forza il
castello di Mordano, con tutto che assai forte e proveduto
copiosamente di soldati per difenderlo; ma fu tale l'impeto
dell'artiglierie, tale la ferocia dell'assalto de' franzesi che,
benché nel passare i fossi pieni di acqua non pochi d'essi
v'annegassino, quegli di dentro non potettono resistere: contro a'
quali talmente in ogni età, in ogni sesso, incrudelirono che
empierono tutta la Romagna di grandissimo terrore. Per il quale caso
Caterina Sforza disperata d'avere soccorso s'accordò, per fuggire il
pericolo presente, co' franzesi, promettendo all'esercito loro ogni
comodità degli stati sottoposti al figliuolo. Donde Ferdinando,
insospettito della volontà de' faventini e parendogli pericoloso lo
stare in mezzo d'Imola e di Furlí, tanto piú essendogli già nota
l'andata di Piero de' Medici a Serezana, si ritirò alle mura di
Cesena, dimostrando tanto timore che per non passare appresso a
Furlí condusse l'esercito per i poggi, via piú lunga e difficile,
accanto a Castrocaro castello de' fiorentini; e pochi dí poi, come
ebbe inteso l'accordo fatto da Piero de' Medici, per il quale
partirono da lui le genti de' fiorentini, si dirizzò al cammino di
Roma. E nel tempo medesimo don Federigo, partito del porto di
Livorno, si ritirò con l'armata verso il regno di Napoli; dove
cominciavano a essere necessarie ad Alfonso per la difesa propria
quelle armi le quali aveva mandate con tanta speranza ad assaltare
gli stati d'altri, procedendo non meno infelicemente in quelle parti
le cose sue. Perché, non gli succedendo la oppugnazione tentata di
Nettunno avea ridotto l'esercito a Terracina, e l'armata franzese,
della quale erano capitani il principe di Salerno e monsignore di
Serenon, si era scoperta sopra Ostia: benché, publicando di non
volere offendere lo stato della Chiesa, non poneva gente in terra né
faceva segno alcuno di inimicizia col pontefice, con tutto che 'l re
avesse pochi dí innanzi recusato di udire Francesco Piccoluomini
cardinale di Siena mandatogli legato da lui.
Lib.1, cap.15
Piú vivo sdegno de' fiorentini contro Piero de' Medici per i patti
conclusi col re di Francia. Lodovico Sforza ottiene l'investitura di
Genova. Si impedisce a Piero de' Medici di entrare nel palazzo della
signoria. Tumulto del popolo e fuga di Piero da Firenze. La
precedente potenza della casa de' Medici in Firenze. I pisani si
rivendicano in libertà col consenso di Carlo VIII. Contrari consigli
del cardinale di San Piero in Vincoli ai pisani.
Ma pervenuta a Firenze la notizia delle convenzioni fatte da Piero
de' Medici, con tanta diminuzione del dominio loro e con sí grave e
ignominiosa ferita della republica, si concitò in tutta la città
ardentissima indegnazione; commovendogli oltre a tanta perdita
l'avere Piero, con esempio nuovo né mai usato da' suoi maggiori,
alienato, senza consiglio de' cittadini, senza decreto de'
magistrati, una parte tanto notabile del dominio fiorentino: perciò
e le querele erano acerbissime contro a lui e per tutto si udivano
voci di cittadini che stimolavano l'un l'altro a recuperare la
libertà; non avendo ardire quegli che con la volontà aderivano a
Piero di opporsi, né con le parole né con le forze, a tanta
inclinazione. Ma non avendo facoltà di difendere Pisa e Livorno, se
bene non si confidassino di rimuovere il re dalla volontà d'avere
quelle fortezze, nondimeno, per separare i consigli della republica
da' consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal
privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti
imbasciadori, di quegli che erano malcontenti della grandezza de'
Medici; e perciò Piero, conoscendo questo essere principio di
mutazione dello stato, per provedere alle cose sue innanzi nascesse
maggiore disordine, si partí dal re, sotto colore di andare a dare
perfezione a quello gli aveva promesso. Nel quale tempo e Carlo
partí da Serezana per andare a Pisa, e Lodovico Sforza, ottenuto,
con pagare certa quantità di danari, che la investitura di Genova,
conceduta dal re pochi anni innanzi a Giovan Galeazzo per lui e per
i discendenti, si trasferisse in sé e ne' discendenti suoi, se ne
ritornò a Milano; ma con l'animo turbato contro a Carlo, per avere
negato di lasciare a guardia sua, secondo diceva essergli stato
promesso, Pietrasanta e Serezana: le quali terre, per farsi scala
alla ardentissima cupidità che aveva di Pisa, domandava, come tolte
ingiustamente, pochissimi anni innanzi, da' fiorentini a' genovesi.
Ritornato Piero de' Medici a Firenze trovò la maggiore parte de'
magistrati alienata da lui e sospesi gli animi degli amici di piú
momento, perché contro al consiglio loro aveva tutte le cose
imprudentemente governate; e il popolo in tanta sollevazione che
volendo egli il dí seguente, che fu il dí nono di novembre, entrare
nel palagio nel quale risedeva la signoria, magistrato sommo della
republica, gli fu proibito da alcuni magistrati che armati
guardavano la porta, de' quali fu il principale Jacopo de' Nerli,
giovane nobile e ricco. Il che divulgato per la città, il popolo
subito tumultuosamente pigliò l'armi concitato con maggiore impeto
perché Paolo Orsini co' suoi uomini d'arme, chiamato da Piero,
s'approssimava: donde egli, che già alle sue case ritornato era,
perduto d'animo e di consiglio, e inteso che la signoria l'aveva
dichiarato rebelle, si fuggí con grandissima celerità di Firenze,
seguitandolo Giovanni cardinale della Chiesa romana e Giuliano suoi
fratelli, a' quali similmente furono imposte le pene ordinate contro
a i rebelli; e se ne andò a Bologna. Ove Giovanni Bentivogli,
desiderando in altrui quel vigore di animo il quale non rappresentò
poi nelle sue avversità, mordacemente nel primo congresso lo riprese
che, in pregiudicio non solo proprio ma non meno per rispetto
dell'esempio di tutti quegli che opprimevano la libertà delle loro
patrie, avesse cosí vilmente e senza la morte di uno uomo solo
abbandonata tanta grandezza. In questo modo, per la temerità di uno
giovane, cadde per allora la famiglia de' Medici di quella potenza
la quale, sotto nome e con dimostrazioni quasi civili, aveva,
sessanta anni continui, ottenuta in Firenze: cominciata in Cosimo
suo bisavolo, cittadino di singolare prudenza e di ricchezze
inestimabili e però celebratissimo per tutte le parti della Europa,
e molto piú perché con ammirabile magnificenza e con animo veramente
regio, avendo piú rispetto alla eternità del nome suo che alla
comodità de' discendenti, spese piú di quattrocentomila ducati in
fabriche di chiese di monasteri e d'altri superbissimi edifici, non
solo nella patria ma in molte parti del mondo; del quale Lorenzo
nipote, grande di ingegno e di eccellente consiglio, né di
generosità dell'animo minore dell'avolo, e nel governo della
republica di piú assoluta autorità, benché inferiore assai di
ricchezze e di vita molto piú breve, fu in grande estimazione per
tutta Italia e appresso a molti príncipi forestieri, la quale dopo
la morte si convertí in memoria molto chiara, parendo che insieme
con la sua vita la concordia e la felicità d'Italia fussino mancate.
Ma il dí medesimo nel quale si mutò lo stato di Firenze, essendo
Carlo nella città di Pisa, i pisani ricorsono a lui popolarmente a
domandare la libertà, querelandosi gravemente delle ingiurie le
quali dicevano ricevere da' fiorentini; e affermandogli alcuni de'
suoi, che erano presenti, essere domanda giusta perché i fiorentini
gli dominavano acerbamente, il re, non considerando quello che
importasse questa richiesta e che era contraria alle cose trattate
in Serezana, rispose subito essere contento: alla quale risposta il
popolo pisano, pigliate l'armi e gittate per terra de' luoghi
publici le insegne de' fiorentini, si vendicò cupidissimamente in
libertà. E nondimeno il re, contrario a se medesimo né sapendo che
cose si concedesse, volle che vi restassino gli ufficiali de'
fiorentini a esercitare la solita giurisdizione; e da altra parte
lasciò la cittadella vecchia in mano de' pisani, ritenendo per sé la
nuova che era di importanza molto maggiore. Potette apparire in
questi accidenti di Pisa e di Firenze quel che è confermato per
proverbio comune, che gli uomini, quando si approssimano i loro
infortuni, pérdono principalmente la prudenza, con la quale arebbono
potuto impedire le cose destinate: perché e i fiorentini
sospettosissimi in ogni tempo della fede de' pisani, aspettando una
guerra di tanto pericolo, non chiamorono a Firenze i cittadini
principali di Pisa, come per assicurarsene solevano fare, di numero
grande, in ogni leggiero accidente; né Piero de' Medici,
appropinquandosi tante difficoltà, armò di fanti forestieri la
piazza e il palagio publico, come in sospetti molto minori si era
fatto molte altre volte: le quali provisioni arebbono fatto
impedimento grande a queste mutazioni. Ma in quanto alle cose di
Pisa, è manifesto che a' pisani, inimicissimi per natura del nome
fiorentino, dette animo principalmente a questo moto l'autorità di
Lodovico Sforza, il quale aveva tenuto prima pratiche occulte a
questo effetto con alcuni cittadini pisani sbanditi per delitti
privati; e il dí medesimo Galeazzo da San Severino, il quale da lui
era stato lasciato appresso al re, concitò il popolo a questa
tumultuazione, mediante la quale Lodovico si persuadeva il dominio
di Pisa avergli presto a pervenire, non sapendo tale cosa dovere,
dopo non molto tempo, essere cagione di tutte le sue miserie. Ma è
medesimamente manifesto che, comunicando la notte dinanzi alcuni
pisani quel che avevano nell'animo di fare al cardinale di San Piero
in Vincola, egli, il quale insino a quel dí non era forse mai stato
autore di quieti consigli, gli confortò con gravi parole che
considerassino non solamente la superficie e i princi*pi delle cose
ma piú intrinsecamente quel che potessino in processo di tempo
partorire. Essere desiderabile e preziosa cosa la libertà, e tale
che meriti di sottomettersi a ogni pericolo quando, almeno in
qualche parte, s'ha speranza verisimile di sostentarla. Ma Pisa,
città spogliata di popolo e di ricchezze, non avere facoltà di
difendersi dalla potenza de' fiorentini; e essere fallace consiglio
il promettersi che l'autorità del re di Francia avesse a
conservargli; perché quando bene non potessino piú in lui i danari
de' fiorentini, come verisimilmente potrebbono, atteso massime le
cose trattate a Serezana, non avere sempre i franzesi a stare in
Italia, perché per gli esempli de' tempi passati si poteva
facilmente giudicare il futuro; e essere grande imprudenza
l'obligarsi a un pericolo perpetuo sotto fondamenti non perpetui, e
per speranze incertissime pigliare con inimici tanto piú potenti la
guerra certa, nella quale non si potevano promettere gli aiuti
d'altri perché dependevano dall'altrui volontà e, quel che era piú,
da accidenti molto vari; e quando bene gli ottenessino, non per
questo fuggirebbono ma sarebbono piú gravi le calamità della guerra,
vessandogli nel tempo medesimo i soldati degli inimici e
aggravandogli i soldati degli amici, tanto piú acerbe a tollerare
quanto conoscerebbono non combattere per la libertà propria ma per
l'imperio alieno, permutando servitú a servitú; perché niuno
principe vorrebbe implicarsi, se non per dominargli, ne' travagli e
nelle spese d'una guerra, la quale, per le ricchezze e per la
vicinità de' fiorentini, che mentre che avessino spirito non
cesserebbono mai di molestargli, sostenere se non con grandissime
difficoltà non si potrebbe.
Lib.1, cap.16
Carlo VIII in marcia verso Firenze si ferma a Signa con intenzioni
ostili. Precauzioni de' fiorentini e nascosti preparativi di difesa.
Entrata di Carlo in Firenze. Eccessive esigenze di Carlo ed
eccitazione degli animi de' fiorentini. Piero de' Medici, invitato
da Carlo, si consiglia co' veneziani che lo confortano a non
muoversi da Venezia. Sdegnose parole di Pier Capponi a Carlo e patti
conclusi fra questo e i fiorentini.
Fermossi dipoi Carlo a Signa, luogo propinquo a Firenze a sette
miglia, per aspettare, innanzi che entrasse in quella città, che
alquanto fusse cessato il tumulto del popolo fiorentino, il quale
non aveva deposte l'armi prese il dí che era stato cacciato Piero
de' Medici; e per dare tempo a Obigní, il quale, per entrare con
maggiore spavento in Firenze, aveva mandato a chiamare, con ordine
che lasciasse l'artiglierie a Castrocaro e licenziasse dagli
stipendi suoi i cinquecento uomini d'arme italiani che erano seco in
Romagna e insieme le genti d'arme del duca di Milano, in modo che
de' soldati sforzeschi non lo seguitò altri che 'l conte di Gaiazzo
con trecento cavalli leggieri: e per molti indizi si comprendeva
essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore delle
armi a cedergli il dominio assoluto della città; né egli sapeva
dissimularlo con gli imbasciadori medesimi i quali piú volte andorno
a Signa per risolvere seco il modo dello entrare in Firenze, e per
dare perfezione alla concordia che si trattava. Non è dubbio che 'l
re, per l'opposizione che gli era stata fatta, aveva contro al nome
fiorentino grandissimo sdegno e odio conceputo; e ancora che e'
fusse manifesto non essere proceduta dalla volontà della republica,
e che la città se ne fusse seco diligentissimamente giustificata
nondimeno non ne restava con l'animo purgato; indotto, come si
crede, da molti de' suoi, i quali giudicavano non dovere
pretermettersi l'opportunità di insignorirsene, o mossi da avarizia
non volevano perdere l'occasione di saccheggiare sí ricca città: e
era vociferazione per tutto l'esercito che per l'esempio degli altri
si dovesse abbruciare, poiché primi in Italia di opporsi alla
potenza di Francia presunto avevano. Né mancava tra i principali del
suo consiglio chi alla restituzione di Piero de' Medici lo
confortasse, e specialmente Filippo monsignore di Brescia, fratello
del duca di Savoia, indotto da amicizie private e da promesse; in
modo che, o prevalendo la persuasione di questi, benché il vescovo
di San Malò consigliasse il contrario, o sperando con questo terrore
fare inclinare piú i fiorentini alla sua volontà, o per avere
occasione di prendere piú facilmente in sul fatto quello partito che
piú gli piacesse, scrisse una lettera a Piero e gli fece scrivere da
Filippo monsignore, confortandolo ad accostarsi a Firenze, perché
per l'amicizia stata tra i padri loro e per il buono animo
dimostratogli da lui nella consegnazione delle fortezze, era
deliberato di reintegrarlo nella pristina autorità. Le quali lettere
non lo trovorono, come il re aveva creduto, in Bologna, perché
Piero, mosso dalla asprezza delle parole di Giovanni Bentivogli e
dubitando non essere perseguitato dal duca di Milano e forse dal re
di Francia, era per sua infelicità andato a Vinegia; dove gli furno
mandate dal cardinale suo fratello, il quale era restato a Bologna.
In Firenze si dubitava molto della mente del re, ma non vedendo con
quali forze o con quale speranza gli potessino resistere, avevano
eletto per manco pericoloso il riceverlo nella città, sperando pure
d'avere in qualche modo a placarlo; e nondimeno, per essere
proveduti a ogni caso, avevano ordinato che molti cittadini si
empiessino le case occultamente d'uomini del dominio fiorentino, e
che i condottieri i quali militavano agli stipendi della republica
entrassino, dissimulando la cagione, con molti de' loro soldati in
Firenze, e che ciascuno nella città e ne' luoghi circostanti stesse
attento per pigliare l'armi al suono della campana maggiore del
publico palagio. Entrò dipoi il re con l'esercito, con grandissima
pompa e apparato, fatto con sommo studio e magnificenza cosí dalla
sua corte come dalla città; e entrò, in segno di vittoria, armato
egli e il suo cavallo, con la lancia in sulla coscia: dove si
ristrinse subito la pratica dell'accordo, ma con molte difficoltà.
Perché, oltre al favore immoderato prestato da alcuni de' suoi a
Piero de' Medici e le dimande intollerabili che si faceano di
danari, Carlo scopertamente il dominio di Firenze dimandava,
allegando che, per esservi entrato in quel modo armato, l'aveva,
secondo gli ordini militari del regno di Francia, legittimamente
guadagnato; dalla quale domanda benché finalmente si partisse,
voleva nondimeno lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba
lunga, (cosí chiamano in Francia i dottori e le persone togate), con
tale autorità che, secondo gli instituti franzesi, arebbe potuto
pretendere essersegli attribuita in perpetuo non piccola
giurisdizione; e pel contrario i fiorentini erano ostinatissimi a
conservare intera, non ostante qualunque pericolo, la propria
libertà: donde, trattando insieme con opinioni tanto diverse, si
accendevano continuamente gli animi di ciascuna delle parti. E
nondimeno niuno era pronto a terminare le differenze con l'armi,
perché il popolo di Firenze, dato per lunga consuetudine alle
mercatanzie e non agli esercizi militari, temeva grandemente, avendo
intra le proprie mura uno potentissimo re con tanto esercito, pieno
di nazioni incognite e feroci; e a' franzesi faceva molto timore
l'essere il popolo grandissimo e l'avere dimostrato, in quegli dí
che fu mutato il governo, segni maggiori d'audacia che prima non
sarebbe stato creduto, e la fama publica che, al suono della campana
grossa, quantità d'uomini innumerabile di tutto il paese circostante
concorresse. Nella quale comune paura levandosi spesso romori vani,
ciascuna delle parti per sua sicurtà tumultuosamente pigliava
l'armi, ma niuna assaltava l'altra o provocava.
Riuscí vano al re il fondamento di Piero de' Medici, perché Piero,
sospeso tra la speranza datagli e il timore di non essere dato in
preda agli avversari, domandò sopra le lettere del re consiglio al
senato viniziano. Niuna cosa è certamente piú necessaria nelle
deliberazioni ardue, niuna da altra parte piú pericolosa, che 'l
domandare consiglio; né è dubbio che manco è necessario agli uomini
prudenti il consiglio che agli imprudenti; e nondimeno, che molto
piú utilità riportano i savi del consigliarsi. Perché chi è quello
di prudenza tanto perfetta che consideri sempre e conosca ogni cosa
da se stesso? e nelle ragioni contrarie discerna sempre la migliore
parte? Ma che certezza ha chi domanda il consiglio d'essere
fedelmente consigliato? Perché chi dà il consiglio, se non è molto
fedele o affezionato a chi 'l domanda, non solo mosso da notabile
interesse ma per ogni suo piccolo comodo, per ogni leggiera
sodisfazione, dirizza spesso il consiglio a quel fine che piú gli
torna a proposito o di che piú si compiace; e essendo questi fini il
piú delle volte incogniti a chi cerca d'essere consigliato, non
s'accorge, se non è prudente, della infedeltà del consiglio. Cosí
intervenne a Piero de' Medici, perché i viniziani, giudicando che
l'andata sua faciliterebbe a Carlo il ridurre le cose di Firenze a'
suoi disegni, il che per lo interesse proprio sarebbe stato loro
molestissimo, e però consigliando piú tosto se medesimi che Piero,
efficacissimamente lo confortorno a non si mettere in potestà del
re, il quale da lui si teneva ingiuriato; e per dargli maggiore
cagione di seguitare il consiglio loro gli offersono d'abbracciare
le cose sue e di prestargli, quando il tempo lo comportasse, ogni
favore a rimetterlo nella patria: né contenti di questo, per
assicurarsi che allora di Vinegia non si partisse, gli posono, se è
stato vero quel che poi si divulgò, segretissime guardie.
Ma in questo mezzo erano in Firenze da ogni parte esacerbati gli
animi e quasi trascorsi a manifesta contenzione, non volendo il re
dall'ultime sue domande declinare, né i fiorentini a somma di danari
intollerabile obligarsi, né giurisdizione o preminenza alcuna nel
loro stato consentirgli. Le quali difficoltà, quasi inesplicabili se
non con l'armi, sviluppò la virtú di Piero Capponi, uno di quattro
cittadini diputati a trattare col re, uomo di ingegno e d'animo
grande, e in Firenze molto stimato per queste qualità, e per essere
nato di famiglia onorata e disceso di persone che avevano potuto
assai nella republica. Perché essendo un dí egli e i compagni suoi
alla presenza del re, e leggendosi da uno secretario regio i
capitoli immoderati i quali per ultimo per la parte sua si
proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario
quella scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo
con voce concitata:
- Poiché si domandano cose sí disoneste, voi sonerete le vostre
trombe e noi soneremo le nostre campane. - Volendo espressamente
inferire che le differenze si deciderebbono con l'armi; e col
medesimo impeto, andandogli dietro i compagni, si partí subito della
camera. Certo è che le parole di questo cittadino, noto prima a
Carlo e a tutta la corte perché pochi mesi innanzi era stato in
Francia imbasciadore de' fiorentini, messono in tutti tale spavento,
non credendo massime che tanta audacia fusse in lui senza cagione,
che richiamatolo, e lasciate le dimande alle quali si ricusava di
consentire, si convennono insieme il re e i fiorentini in questa
sentenza: che rimesse tutte le ingiurie precedenti, la città di
Firenze fusse amica, confederata e in protezione perpetua della
corona di Francia: che in mano del re, per sicurtà sua, rimanessino
la città di Pisa, la terra di Livorno, con tutte le loro fortezze:
le quali fusse obligato a restituire senza alcuna spesa a fiorentini
subito che avesse finito l'impresa del regno di Napoli, intendendosi
finita ogni volta che avesse conquistata la città di Napoli o
composto le cose con pace o con tregua di due anni o che per
qualunque causa la persona sua d'Italia si partisse, e che i
castellani giurassino di presente di restituirle ne' casi
sopradetti, e in questo mezzo il dominio, la giurisdizione, il
governo, l'entrate delle terre fussino de' fiorentini, secondo il
solito; e che le cose medesime si facessino di Pietrasanta, di
Serezana e di Serezanello, ma che, per pretendere i genovesi d'avere
ragione in queste, fusse lecito al re procurare di terminare le
differenze loro o per concordia o per giustizia, ma che non l'avendo
terminate nel soprascritto tempo, le restituisse a' fiorentini: che
'l re potesse lasciare in Firenze due imbasciadori, senza intervento
de' quali, durante la detta impresa, non si trattasse cosa alcuna
appartenente a quella; né potessino nel tempo medesimo eleggere
senza sua partecipazione capitano generale delle genti loro:
restituissinsi subito tutte l'altre terre tolte o ribellatesi da'
fiorentini, a' quali fusse lecito recuperarle con l'armi in caso
recusassino di ricevergli: donassino al re per sussidio della sua
impresa ducati cinquantamila fra quindici dí, quarantamila per tutto
marzo e trentamila per tutto giugno prossimi: fusse perdonato a'
pisani il delitto della ribellione e gli altri delitti commessi poi:
liberassinsi Piero de' Medici e i fratelli dal bando e dalla
confiscazione, ma non potesse accostarsi Piero per cento miglia a i
confini del dominio fiorentino, il che si faceva per privarlo della
facoltà di stare a Roma, né i fratelli per cento miglia alla città
di Firenze. Questi furono gli articoli piú importanti della
capitolazione tra il re e i fiorentini; la quale, oltre all'essere
stipulata legittimamente, fu con grandissima cerimonia publicata
nella chiesa maggiore intra gli offici divini; dove il re
personalmente, a richiesta del quale fu fatto questo, e i magistrati
della città, promessono l'osservanza con giuramento solenne,
prestato in sull'altare principale, presente la corte e tutto il
popolo fiorentino. E due dí poi partí Carlo di Firenze, dove era
dimorato dieci dí, e andò a Siena; la quale città, confederata col
re di Napoli e co' fiorentini, aveva seguitato la loro autorità,
insino a tanto che l'andata di Piero de' Medici a Serezana gli
costrinse a pensare da se stessi alla propria salute.
Lib.1, cap.17
Carlo VIII da Siena, di governo libero ma turbata dalle fazioni,
s'incammina verso Roma. Timori del senato veneziano e del duca di
Milano per i buoni successi di Carlo. Titubanze del pontefice mentre
l'esercito francese s'avvicina a Roma. Sottili accordi fra gli
Orsini e il re di Francia. Entrata di Carlo in Roma. Patti e
riconciliazione fra il pontefice e Carlo.
La città di Siena, città popolosa e di territorio molto fertile, e
la quale otteneva in Toscana, già lungo tempo, il primo luogo di
potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo
che conosceva piú presto il nome della libertà che gli effetti,
perché distratta in molte fazioni o membri di cittadini, chiamati
appresso a loro ordini, ubbidiva a quella parte la quale secondo gli
accidenti de' tempi e i favori de' potentati forestieri era piú
potente che l'altre; e allora vi prevaleva l'ordine del Monte de'
nove. In Siena dimorato pochissimi dí, e lasciatavi gente a guardia,
perché per essere quella città inclinata insino a' tempi antichi
alla divozione dello imperio gli era sospetta, si indirizzò al
cammino di Roma; insolente piú l'un dí che l'altro per i successi
molto maggiori che non erano giammai state le speranze, e, essendo i
tempi benigni e sereni assai piú che non comportava la stagione,
deliberato di continuare senza intermissione questa prosperità,
terribile non solo agli inimici manifesti ma a quegli o che erano
stati congiunti seco o i quali non l'avevano provocato in cosa
alcuna. Perché, e il senato viniziano e il duca di Milano, impauriti
di tanto successo, dubitando, massime per le fortezze ritenute de'
fiorentini e per la guardia lasciata in Siena, che i pensieri suoi
non terminassino nello acquisto di Napoli, incominciorno per ovviare
al pericolo comune a trattare di fare insieme nuova confederazione;
e gli arebbono data piú tosto perfezione se le cose di Roma avessino
fatto quella resistenza che fu sperato da molti.
Perché la intenzione del duca di Calavria, col quale s'erano unite
presso a Roma le genti del pontefice e Verginio Orsino col resto
dell'esercito aragonese, fu di fermarsi a Viterbo per impedire a
Carlo il passare piú innanzi; invitandolo oltre a molte cagioni
l'opportunità del luogo, circondato dalle terre della Chiesa e
propinquo agli stati degli Orsini. Ma tumultuando già tutto 'l paese
di Roma, per le scorrerie che i Colonnesi facevano di là dal fiume
del Tevere e per gl'impedimenti che per mezzo d'Ostia si davano alle
vettovaglie, le quali solevano condursi a Roma per mare, non ebbe
ardire di fermarvisi: dubitando oltre a questo della mente del
pontefice, perché, insino quando intese la variazione di Piero de'
Medici, aveva cominciato a udire le domande franzesi, per le quali
andò allora a Roma a parlargli il cardinale Ascanio, essendo andato
prima per sicurtà sua il cardinale di Valenza a Marino, terra de'
Colonnesi; e benché Ascanio si partisse senza certa risoluzione,
perché nel petto d'Alessandro la diffidenza della mente di Carlo e
il timore delle sue forze insieme combattevano, nondimeno come Carlo
fu partito di Firenze si ritornò di nuovo a' ragionamenti
dell'accordo, per i quali il pontefice mandò a lui i vescovi di
Concordia e di Terni e maestro Graziano suo confessore, trattando di
comporre insieme le cose sue e quelle del re Alfonso. Ma era diversa
la intenzione di Carlo, risoluto di non concordare se non col
pontefice solo: però mandò a lui.. monsignore della Tramoglia e...
di Gannai presidente del parlamento di..., e vi andorno per la
medesima cagione il cardinale Ascanio e Prospero Colonna; i quali
non prima arrivati che Alessandro, quale si fusse la causa, mutato
proposito, messe subito il duca di Calavria con tutto l'esercito in
Roma, e fatti ritenere Ascanio e Prospero gli fece custodire nella
Mole d'Adriano detta già il Castello di Crescenzio, oggi Castello
Sant'Angelo, dimandando loro la restituzione d'Ostia: nel quale
tumulto furono dalle genti aragonesi fatti prigioni gli oratori
franzesi, ma questi il pontefice fece subito liberare, né molti dí
poi fece il medesimo d'Ascanio e di Prospero, costringendogli
nondimeno a partirsi da Roma subitamente. Mandò dipoi al re, il
quale si era fermato a Nepi, Federigo da San Severino cardinale,
cominciando a trattare solamente delle cose proprie; e nondimeno con
l'animo molto ambiguo: perché ora di fermarsi alla difesa di Roma
deliberava, e però permetteva che Ferdinando e i capitani
attendessino ne' luoghi piú deboli a fortificarla; ora parendogli
cosa difficile il sostenerla, per essere le vettovaglie marittime da
quegli che erano in Ostia interrotte e per il numero infinito di
forestieri pieni di varie volontà e per la diversità delle fazioni
tra i romani, inclinava a partirsi di Roma, e però aveva voluto che
nel collegio ciascuno de' cardinali gli promettesse per scrittura di
mano propria di seguitarlo; ora, spaventato dalle difficoltà e da'
pericoli imminenti a qualunque di queste deliberazioni, voltava
l'animo all'accordo. Nelle quali ambiguità mentre che sta sospeso i
franzesi correvano di qua dal Tevere tutto il paese, occupando ora
una terra ora un'altra, perché non si trovava piú luogo niuno che
resistesse, niuno piú che non cedesse all'impeto loro; seguitando
l'esempio degli altri insino a quegli che avevano cagioni
grandissime di opporsi, insino a Verginio Orsino, astretto con tanti
vincoli di fede d'obligazione e d'onore alla casa d'Aragona,
capitano generale dell'esercito regio, gran conestabile del regno di
Napoli, congiunto a Alfonso con parentado molto stretto, perché a
Gian Giordano suo figliuolo era maritata una figliuola naturale di
Ferdinando re morto, e che da loro aveva ricevuto stati nel reame
tanti favori. Dimenticatosi di tutte queste cose, né meno
dimenticatosi che dagli interessi suoi le calamità aragonesi avevano
avuto la prima origine, consentí, con ammirazione de' franzesi non
assueti a queste sottili distinzioni de' soldati d'Italia, che
restando agli stipendi del re di Napoli la sua persona, i figliuoli
convenissino col re di Francia; obligandosi dargli, nello stato
teneva nel dominio della Chiesa, ricetto passo e vettovaglie, e
dipositare Campagnano e certe altre terre in mano del cardinale
Gurgense, che promettesse restituirle subito che l'esercito fusse
uscito dal territorio romano: e nel medesimo modo convennono
congiuntamente il conte di Pitigliano e gli altri della famiglia
Orsina. Il quale accordo come fu fatto, Carlo andò da Nepi a
Bracciano, terra principale di Verginio, e a Ostia mandò Luigi
monsignore di Ligní e Ivo monsignore di Allegri con cinquecento
lancie e con dumila svizzeri, acciocché passando il Tevere e uniti
coi Colonnesi che correvano per tutto, si sforzassino d'entrare in
Roma; i quali per mezzo de' romani della fazione loro speravano a
ogni modo di conseguirlo, con tutto che per i tempi diventati
sinistri le difficoltà fussino accresciute. Già Civitavecchia,
Corneto e finalmente quasi tutto il territorio di Roma era ridotto
alla divozione franzese; già tutta la corte, già tutto il popolo
romano, in grandissima sollevazione e terrore, chiamavano
ardentemente la concordia: però il pontefice, ridotto in
pericolosissimo frangente e vedendo mancare continuamente i
fondamenti del difendersi, non si riteneva per altro che per la
memoria di essere stato de' primi a incitare il re alle cose di
Napoli, e dipoi, senza essergliene stata data cagione alcuna, avere
con l'autorità co' consigli e con l'armi fattagli pertinace
resistenza; onde meritamente dubitava dovere essere del medesimo
valore la fede che e' ricevesse dal re che quella che il re aveva
ricevuta da lui. Accresceva il terrore il vedergli appresso con
autorità non piccola il cardinale di San Piero in Vincola e molti
altri cardinali inimici suoi; per le persuasioni de' quali, per il
nome cristianissimo de' re di Francia, per la fama inveterata della
religione di quella nazione, e per l'espettazione, che è sempre
maggiore, di quegli che sono noti per nome solo, temeva che 'l re
non voltasse l'animo a riformare, come già cominciava a divulgarsi,
le cose della Chiesa: pensiero a lui sopra modo terribile, che si
ricordava con quanta infamia fusse asceso al pontificato, e averlo
continuamente amministrato con costumi e con arti non disformi da
principio tanto brutto. Alleggerissi questo sospetto per la
diligenza e efficaci promesse del re, il quale desiderando sopra
ogni cosa accelerare l'andata sua al regno di Napoli, e però non
pretermettendo opera alcuna per rimuoversi l'impedimento del
pontefice, gli mandò di nuovo imbasciadori il siniscalco di Belcari,
il marisciallo di Gies e il medesimo presidente di Gannai: i quali,
sforzandosi di persuadergli non essere l'intenzione del re di
mescolarsi in quello che apparteneva all'autorità pontificale né
domandargli se non quanto fusse necessario alla sicurtà del passare
innanzi, feciono instanza che e' consentisse al re l'entrare in
Roma; affermando questo essere sommamente desiderato da lui, non
perché e' non fusse in sua potestà l'entrarvi con l'armi ma per non
essere necessitato di mancare a lui di quella riverenza la quale
avevano a' pontefici romani portata sempre i suoi maggiori; e che,
subito che il re fusse entrato in Roma, le differenze state tra loro
si convertirebbono in sincerissima benivolenza e congiunzione. Dure
condizioni parevano al pontefice spogliarsi innanzi a ogni cosa
degli aiuti degli amici, e rimettendosi totalmente in potestà dello
inimico riceverlo prima in Roma che stabilire seco le cose sue; ma
finalmente, giudicando che di tutti i pericoli questo fusse il
minore, consentite queste dimande, fece partire di Roma il duca di
Calavria col suo esercito, ma ottenuto prima per lui salvocondotto
da Carlo perché sicuramente potesse passare per tutto lo stato
ecclesiastico. Ma Ferdinando, avendolo magnanimamente rifiutato,
uscí di Roma per la porta di San Sebastiano, l'ultimo dí dell'anno
mille quattrocento novantaquattro, nell'ora propria che per la porta
di Santa Maria del popolo vi entrava con l'esercito franzese il re,
armato, con la lancia in sulla coscia, come era entrato in Firenze;
e nel tempo medesimo il pontefice, pieno di incredibile timore e
ansietà, si era ritirato in Castel Sant'Angelo, non accompagnato da
altri cardinali che da Batista Orsino e da Ulivieri Caraffa
napoletano. Ma il Vincola, Ascanio, i cardinali Colonnese e Savello
e molt'altri non cessavano di fare instanza col re, che rimosso di
quella sedia uno pontefice pieno di tanti vizi e abominevole a tutto
'l mondo se ne eleggesse un altro, dimostrandogli non essere meno
glorioso al nome suo liberare dalla tirannide d'uno papa scelerato
la Chiesa d'Iddio che fusse stato a Pipino e a Carlo magno suoi
antecessori liberare i pontefici di santa vita dalle persecuzioni di
coloro che ingiustamente gli opprimevano. Ricordavangli questa
deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtà sua che
desiderabile per la gloria: perché, come potrebbe mai confidarsi
nelle promesse di Alessandro, uomo per natura pieno di fraude,
insaziabile nelle cupidità, sfacciatissimo in tutte le sue azioni e,
come aveva dimostrato l'esperienza, di ardentissimo odio contro al
nome franzese? né che ora si riconciliava spontaneamente ma sforzato
dalla necessità e dal timore? Per i conforti de' quali e perché il
pontefice, nelle condizioni che si trattavano, recusava di concedere
a Carlo Castel Sant'Angelo per assicurarlo di quello gli
promettesse, furono due volte cavate l'artiglierie del palagio di
San Marco, nel quale Carlo alloggiava, per piantarle intorno al
castello. Ma né il re aveva per sua natura inclinazione a offendere
il pontefice, e nel consiglio suo piú intimo potevano quegli i quali
Alessandro con doni e con speranze s'aveva fatti benevoli. Però
finalmente convennono: che tra 'l pontefice e il re fusse amicizia
perpetua e confederazione per la difesa comune: che al re per sua
sicurezza si dessino, per tenerle insino all'acquisto del reame di
Napoli, le rocche di Civitavecchia, di Terracina e di Spuleto;
benché questa non gli fu poi consegnata: non riconoscesse il
pontefice offesa o ingiuria alcuna contro a cardinali, né contro a'
baroni sudditi della Chiesa, i quali aveano seguitato le parti del
re: investisselo il pontefice del regno di Napoli: concedessegli
Gemin ottomanno fratello di Baiset, il quale dopo la morte di Maumet
padre comune, perseguitato da Baiset (secondo la consuetudine
efferata degli ottomanni, i quali stabiliscono la successione nel
principato col sangue de' fratelli e di tutti i piú prossimi) e
perciò rifuggito a Rodi e di quivi condotto in Francia, era
finalmente stato messo in potestà di Innocenzio pontefice; donde
Baiset, usando l'avarizia de' vicari di Cristo per instrumento a
tenere in pace lo imperio inimico alla fede cristiana, pagava
ciascun anno, sotto nome delle spese che si facevano in alimentarlo
e custodirlo, ducati quarantamila a' pontefici, acciocché fussino
manco pronti a liberarlo o a concederlo a altri príncipi contro a
sé. Fece instanza Carlo d'averlo per facilitarsi col mezzo suo
l'impresa contro a' turchi, la quale, enfiato da vane adulazioni de'
suoi, pensava, vinti che avesse gli aragonesi, di incominciare. E
perché gli ultimi quarantamila ducati mandati dal turco erano stati
tolti a Sinigaglia dal prefetto di Roma, che il pontefice e la pena
e la restituzione di essi gli rimettesse. A queste cose si aggiunse
che 'l cardinale di Valenza seguitasse, come legato apostolico, tre
mesi, il re, ma in verità per statico delle promesse paterne.
Fermata la concordia, il pontefice ritornò al palagio pontificale in
Vaticano; e da poi, con la pompa e cerimonie consuete a ricevere i
re grandi, ricevé il re nella chiesa di San Piero; il quale,
avendogli, secondo il costume antico, genuflesso baciati i piedi e
dipoi ammesso a baciargli il volto, intervenne un altro giorno alla
messa pontificale, sedendo il primo dopo il primo vescovo cardinale;
e secondo il rito antico dette al papa, celebrante la messa, l'acqua
alle mani. Delle quali cerimonie il pontefice, perché si
conservassino nella memoria de' posteri, fece fare pittura in una
loggia del Castello di Santo Angelo. Publicò di piú a instanza sua
cardinali il vescovo di San Malò e il vescovo di Umans della casa di
Luzimborgo, né omesse dimostrazione alcuna d'essersi seco
sinceramente e fedelmente reconciliato.
Lib.1, cap.18
Favore delle popolazioni del reame di Napoli per i francesi. Alfonso
d'Aragona abbandona l'autorità di re a favore del figliuolo
Ferdinando e fugge a Mazari in Sicilia. Ferocia dei francesi al
Monte di San Giovanni.
Dimorò Carlo in Roma circa uno mese, non avendo per ciò cessato di
mandare gente a' confini del regno napoletano: nel quale già ogni
cosa tumultuava in modo che l'Aquila e quasi tutto l'Abruzzi aveva,
prima che 'l re partisse di Roma, alzate le sue bandiere, e Fabrizio
Colonna aveva occupato i contadi d'Albi e di Tagliacozzo; né era
molto piú quieto il resto del reame. Perché subito che Ferdinando fu
partito da Roma cominciorono i frutti dell'odio che i popoli
portavano ad Alfonso ad apparire, aggiugnendosi la memoria di molte
acerbità usate da Ferdinando suo padre; donde, esclamando con
grandissimo ardore delle iniquità de' governi passati e della
crudeltà e superbia d'Alfonso, il desiderio della venuta de'
franzesi palesemente dimostravano; in modo che le reliquie antiche
della fazione angioina, benché congiunte con la memoria e col
seguito di tanti baroni stati scacciati e incarcerati in vari tempi
da Ferdinando, cosa per sé di somma considerazione e potente
instrumento ad alterare, facevano in questo tempo, a comparazione
dell'altre cagioni, piccolo momento: tanto senza questi stimoli era
concitata e ardente la disposizione di tutto il regno contro ad
Alfonso. Il quale, intesa che ebbe la partita del figliuolo da Roma,
entrò in tanto terrore che, dimenticatosi della fama e gloria grande
la quale con lunga esperienza aveva acquistato in molte guerre
d'Italia, e disperato di potere resistere a questa fatale tempesta,
deliberò di abbandonare il regno, rinunziando il nome e l'autorità
reale a Ferdinando, e avendo forse qualche speranza che rimosso con
lui l'odio sí smisurato, e fatto re uno giovane di somma
espettazione, il quale non aveva offeso alcuno e quanto a sé era in
assai grazia appresso a ciascuno, allenterebbe per avventura ne'
sudditi il desiderio de' franzesi: il quale consiglio, se forse
anticipato arebbe fatto qualche frutto, differito a tempo che le
cose non solo erano in veemente movimento ma già cominciate a
precipitare, non bastava piú a fermare tanta rovina. È fama eziandio
(se però è lecito tali cose non del tutto disprezzare) che lo
spirito di Ferdinando apparí tre volte in diverse notti a Iacopo
primo cerusico della corte, e che prima con mansuete parole dipoi
con molte minaccie gli impose dicesse ad Alfonso, in suo nome, che
non sperasse di potere resistere al re di Francia, perché era
destinato che la progenie sua, travagliata da infiniti casi e
privata finalmente di sí preclaro regno, si estinguesse. Esserne
cagione molte enormità usate da loro, ma sopra tutte quella che, per
le persuasioni fattegli da lui quando tornava da Pozzuolo, nella
chiesa di San Lionardo in Chiaia appresso a Napoli aveva commessa:
né avendo espresso altrimenti i particolari, stimorono gli uomini
che Alfonso l'avesse in quel luogo persuaso a fare morire
occultamente molti baroni, i quali lungo tempo erano stati
incarcerati. Quel che di questo sia la verità, certo è che Alfonso,
tormentato dalla coscienza propria, non trovando né dí né notte
requie nell'animo, e rappresentandosegli nel sonno l'ombre di quegli
signori morti, e il popolo per pigliare supplicio di lui
tumultuosamente concitarsi, conferito quel che aveva deliberato
solamente con la reina sua matrigna, né voluto, a' prieghi suoi,
comunicarlo né col fratello né col figliuolo, né soprastare pure due
o tre dí soli per finire l'anno intero del suo regno, si partí con
quattro galee sottili cariche di molte robe preziose; dimostrando
nel partire tanto spavento che pareva fusse già circondato da'
franzesi, e voltandosi paurosamente a ogni strepito come temendo che
gli fussino congiurati contro il cielo e gli elementi; e si fuggí a
Mazari terra in Sicilia, statagli prima donata da Ferdinando re di
Spagna.
Ebbe il re di Francia, all'ora medesima che si partiva di Roma,
avviso della sua fuga. Il quale come fu arrivato a Velletri, il
cardinale di Valenza fuggí occultamente da lui: della quale cosa
benché il padre facesse gravi querele, offerendo d'assicurare il re
in qualunque modo volesse, si credette fusse stato per suo
comandamento, come quello che voleva fusse in sua facoltà
l'osservare o no le convenzioni fatte con lui. Da Velletri andò
l'antiguardia a Montefortino, terra posta nella campagna della
Chiesa e suddita a Iacopo Conte barone romano; il quale, condotto
prima agli stipendi di Carlo, si era di poi, potendo piú in lui
l'odio de' Colonnesi che l'onore proprio, condotto con Alfonso: il
quale castello battuto dall'artiglierie, benché fortissimo di sito,
presono i franzesi in pochissime ore, ammazzando tutti quegli che
v'erano dentro eccetto tre suoi figliuoli con alcuni altri che
rifuggiti nella fortezza, come veddono dirizzarvisi l'artiglierie,
s'arrenderono prigioni. Andò dipoi l'esercito al Monte di San
Giovanni, terra del marchese di Pescara, posta in su i confini del
regno nella medesima campagna, la quale forte di sito e di munizione
non era meno munita di difensori, perché vi erano dentro trecento
fanti forestieri e cinquecento degli abitatori dispostissimi a ogni
pericolo, in modo si giudicava non si dovesse espugnare se non in
ispazio di molti dí. Ma i franzesi avendolo battuto con
l'artiglierie poche ore, gli dettono, presente il re che vi era
venuto da Veroli, con tanta ferocia la battaglia che, superate tutte
le difficoltà, l'espugnorono per forza il dí medesimo: dove, per il
furore loro naturale e per indurre con questo esempio gli altri a
non ardire di resistere, commessono grandissima uccisione; e dopo
avervi esercitato ogn'altra specie di barbara ferità incrudelirono
contro agli edifici col fuoco. Il quale modo di guerreggiare, non
usato molti secoli in Italia, empié tutto il regno di grandissimo
terrore, perché nelle vittorie, in qualunque modo acquistate,
l'ultimo dove soleva procedere la crudeltà de' vincitori era
spogliare e poi liberare i soldati vinti, saccheggiare le terre
prese per forza e fare prigioni gli abitatori perché pagassino le
taglie, perdonando sempre alla vita degli uomini i quali non fussino
stati ammazzati nello ardore del combattere.
Lib.1, cap.19
Le truppe aragonesi si ritirano a Capua. Gianiacopo da Triulzio,
durante l'assenza di Ferdinando, stringe accordi per la resa con
Carlo VIII. Parole di Ferdinando ai napoletani. Partenza di
Ferdinando da Napoli. Verginio Orsini e il conte di Pitigliano fatti
prigioni dai francesi. Entrata di Carlo in Napoli.
Questa fu quanta resistenza e fatica avesse il re di Francia nel
conquisto d'un regno sí nobile e sí magnifico, nella difesa del
quale non si dimostrò né virtú né animo né consiglio, non cupidità
d'onore non potenza non fede. Perché il duca di Calavria, il quale
dopo la partita da Roma si era ritirato in su i confini del reame,
poiché richiamato a Napoli per la fuga del padre ebbe assunto, con
le solennità ma non già con la pompa né con la letizia consuete,
l'autorità e il titolo reale, raccolto l'esercito, nel quale erano
cinquanta squadre di cavalli e seimila fanti di gente eletta e sotto
capitani de' piú stimati d'Italia, si fermò a San Germano per
proibire che gli inimici non passassino piú innanzi, invitandolo
l'opportunità del luogo, cinto da una parte di montagne alte e
aspre, dall'altra di paese paludoso e pieno di acque, e a fronte il
fiume del Garigliano (dicevanlo gli antichi Liri), benché in quel
luogo non sí grosso che qualche volta non si guadi; donde per la
strettezza del passo è detto meritamente San Germano essere una
delle chiavi delle porte del regno di Napoli: e mandò similmente
gente in sulla montagna vicina, alla guardia del passo di Cancelle.
Ma già l'esercito suo, incominciato a impaurire del nome solo de'
franzesi, non dimostrava piú vigore alcuno, e i capitani, parte
pensando a salvare se medesimi e gli stati propri, come quegli i
quali della difesa del regno si diffidavano, parte desiderosi di
cose nuove, cominciavano a vacillare non meno di fede che di animo;
né si stava senza timore, essendo il reame tutto in grandissima
sollevazione, che alle spalle qualche pericoloso disordine non
nascesse. Però soprafatto il consiglio dalla viltà, come espugnato
il Monte di San Giovanni intesono avvicinarsi il marisciallo di Gies
col quale erano trecento lancie e una parte de' fanti, si levorno
vituperosamente da San Germano, e con tanto timore che lasciorno
abbandonati per il cammino otto pezzi di grossa artiglieria, e si
ridussono in Capua: la quale città il nuovo re, confidandosi
nell'amore de' capuani verso la casa d'Aragona e nella fortezza del
sito, per avere a fronte il fiume Volturno che è quivi molto
profondo, sperava difendere; e nel tempo medesimo, non distraendo le
sue forze in altri luoghi, tenere Napoli e Gaeta. Seguitavano dietro
a lui di mano in mano i franzesi ma sparsi e disordinati, facendosi
innanzi piú tosto a uso di cammino che di guerra, andando ciascuno
dove gli paresse dietro all'occasione di predare, senza ordine senza
bandiere senza comandamento de' capitani, e alloggiando il piú delle
volte una parte di loro, alla notte, ne' luoghi donde la mattina
erano diloggiati gli aragonesi.
Ma né a Capua si dimostrò maggiore virtú o fortuna. Perché, poi che
Ferdinando v'ebbe alloggiato l'esercito, il quale dopo la ritirata
da San Germano era molto diminuito di numero, inteso per lettere
della reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano,
sollevazione tale che non vi andando lui si susciterebbe qualche
tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia, per rimediare con la
presenza sua a questo pericolo; avendo promesso di ritornare a Capua
il dí seguente. Ma Gianiacopo da Triulzi, al quale commesse la cura
di quella città, aveva già occultamente chiesto al re di Francia uno
araldo per avere facoltà di andare sicuro a lui; il quale come fu
arrivato, il Triulzio con alcuni gentiluomini capuani andò a Calvi,
dove il dí medesimo era entrato il re, non ostante che per molti
altri della terra, disposti a osservare la fede a Ferdinando, con
altiere parole contradetto gli fusse. A Calvi subito introdotto
innanzi al re, cosí armato come era andato, parlò in nome de'
capuani e de' soldati: che vedendo mancate le forze di difendersi a
Ferdinando, al quale mentre vi era stata speranza alcuna avevano
servito fedelmente, deliberavano di seguitare la fortuna sua quando
fussino accettati con oneste condizioni; aggiugnendo che non si
diffidava di condurre a lui la persona di Ferdinando, purché volesse
riconoscerlo come sarebbe conveniente. Alle quali cose il re rispose
con gratissime parole accettando l'offerte de' capuani e de'
soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e' sapesse non
avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a
ricevere stati e onori nel regno di Francia. È dubbio quel che
inducesse a tanta trasgressione Gianiacopo da Triulzi, capitano
valoroso e solito a fare professione d'onore. Affermava egli di
essere andato con volontà di Ferdinando per tentare di comporre le
cose sue col re di Francia, dalla quale speranza essendo del tutto
escluso, e manifesto non si potere piú difendere con l'armi il regno
di Napoli, gli era paruto non solo lecito ma laudabile provedere in
uno tempo medesimo alla salute de' capuani e de' soldati. Ma
altrimenti sentirono gli uomini comunemente, perché si credette
averlo mosso il desiderare la vittoria del re di Francia, sperando
che occupato il regno di Napoli avesse a volgere l'animo al ducato
di Milano; nella quale città essendo egli nato di nobilissima
famiglia, né gli parendo avere appresso a Lodovico Sforza, o per il
favore immoderato de' Sanseverini o per altro rispetto, luogo pari
alle virtú e meriti suoi, si era totalmente alienato da lui: per la
quale cagione molti avevano sospettato che prima, in Romagna, avesse
confortato Ferdinando a procedere piú cautamente che forse qualche
volta non consigliavano l'occasioni.
Ma in Capua, già innanzi al ritorno del Triulzio, ogni cosa aveva
fatto mutazione: andato a sacco l'alloggiamento e i cavalli di
Ferdinando, le genti d'armi cominciate a disperdersi in vari luoghi,
e Verginio e il conte di Pitigliano con le compagnie loro ritiratisi
a Nola, città posseduta dal conte per donazione degli Aragonesi,
avendo prima mandato a chiedere per sé e per le genti salvocondotto
da Carlo. Ritornava al termine promesso Ferdinando, avendo, col dare
speranza della difesa di Capua, quietati secondo il tempo gli animi
de' napoletani, né sapendo quel che dopo la partita sua fusse
accaduto. Era già vicino a due miglia quando, intendendosi il
ritorno suo, tutto il popolo per non lo ricevere si levò in arme,
mandatigli di consiglio comune incontro alcuni della nobiltà a
significargli che non venisse piú innanzi, perché la città,
vedendosi abbandonata da lui, andato il Triulzio governatore delle
sue genti al re di Francia, saccheggiato da' soldati propri
l'alloggiamento suo e i cavalli, partitisi Verginio e il conte di
Pitigliano, dissoluto quasi tutto l'esercito, era stata necessitata
per la salute propria di cedere al vincitore. Donde Ferdinando,
poiché insino con le lacrime ebbe fatta invano instanza di essere
ammesso, se ne ritornò a Napoli, certo che tutto 'l regno
seguiterebbe l'esempio de' capuani: dal quale mossa la città
d'Aversa, posta tra Capua e Napoli, mandò subito imbasciadori a
darsi a Carlo. E trattando questo medesimo già manifestamente i
napoletani, deliberato l'infelice re di non repugnare all'impeto
tanto repentino della fortuna, convocati in sulla piazza del
Castelnuovo, abitazione reale, molti gentiluomini e popolari, usò
con loro queste parole: - Io posso chiamare in testimonio Dio e
tutti quegli a' quali sono stati noti per il passato i concetti
miei, che io mai per cagione alcuna tanto desiderai di pervenire
alla corona quanto per dimostrare a tutto il mondo gli acerbi
governi del padre e dell'avolo mio essermi sommamente dispiaciuti, e
per riguadagnare con le buone opere quello amore del quale essi per
le loro acerbità si erano privati. Non ha permesso l'infelicità
della casa nostra che io possa ricôrre questo frutto molto piú
onorato che l'essere re, perché il regnare depende spesso dalla
fortuna ma l'essere re che si proponga per unico fine la salute e la
felicità de' popoli suoi depende solamente da se medesimo e dalla
propria virtú. Sono le cose nostre ridotte in angustissimo luogo, e
potremo piú presto lamentarci noi d'avere perduto il reame per la
infedeltà e poco valore de' capitani e eserciti nostri che non
potranno gloriarsi gl'inimici d'averlo acquistato per propria virtú;
e nondimeno non saremmo privi del tutto di speranza se ancora
qualche poco di tempo ci sostenessimo, perché e da' re di Spagna e
da tutti i príncipi d'Italia si prepara potente soccorso, essendosi
aperti gli occhi di coloro i quali non avevano prima considerato lo
incendio, il quale abbrucia il reame nostro, dovere, se non vi
proveggono, aggiugnere similmente agli stati loro; e almeno a me non
mancherebbe l'animo di terminare insieme il regno e la vita con
quella gloria che si conviene a uno re giovane, disceso per sí lunga
successione di tanti re, e all'espettazione che insino a ora avete
tutti avuta di me. Ma perché queste cose non si possono tentare
senza mettere la patria comune in gravissimi pericoli, sono piú
tosto contento di cedere alla fortuna, di tenere occulta la mia
virtú, che per sforzarmi di non perdere il mio regno essere cagione
di effetti contrari a quel fine per il quale avevo desiderato di
essere re. Consiglio e conforto voi che mandiate a prendere accordo
col re di Francia, e perché possiate farlo senza macula dell'onore
vostro, v'assolvo liberamente dall'omaggio e dal giuramento che
pochi dí sono mi faceste; e vi ricordo che con l'ubbidienza e con la
prontezza del riceverlo vi sforziate di mitigare la superbia
naturale de' franzesi. Se i costumi barbari vi faranno venire in
odio l'imperio loro e desiderare il ritorno mio io sarò in luogo da
potere aiutare la vostra volontà, pronto a esporre sempre la propria
vita per voi a ogni pericolo; ma se lo imperio loro vi riuscirà
benigno, da me non riceverà giammai questa città né questo reame
travaglio alcuno. Consolerannosi per il vostro bene le miserie mie,
e molto piú mi consolerà se io saprò che in voi resti qualche
memoria che io, né primogenito regio né re, non ingiuriai mai
persona; che in me non si vidde mai segno alcuno di avarizia, segno
alcuno di crudeltà; che a me non hanno nociuto i miei peccati ma
quegli de' padri miei; che io sono deliberato di non essere mai
cagione che, o per conservare il regno o per recuperarlo, abbia a
patire alcuno di questo reame; che piú mi dispiace il perdere la
facoltà di emendare i falli del padre e dello avolo che il perdere
l'autorità e lo stato reale. Benché esule e spogliato della patria e
del regno mio, mi riputerò non al tutto infelice se in voi resterà
memoria di queste cose, e una ferma credenza che io sarei stato re
piú presto simile ad Alfonso vecchio mio proavo che a Ferdinando e a
questo ultimo Alfonso. -
Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta
compassione, anzi certo è che a molti commossono le lagrime; ma era
tanto esoso in tutto il popolo e quasi in tutta la nobiltà il nome
de' due ultimi re, tanto il desiderio de' franzesi, che per questo
non si fermò in parte alcuna il tumulto, ma subito che esso fu
ritirato nel castello, il popolo cominciò a saccheggiare le stalle
sue, che erano in sulla piazza: la quale indegnità non potendo egli
sopportare, accompagnato da pochi corse fuori con generosità grande
a proibirlo; e potette tanto nella città già ribellata la maestà del
nome reale che ciascuno, fermato l'impeto, si discostò dalle stalle.
Ma ritornato nel castello, e facendo abbruciare e sommergere le navi
le quali erano nel porto, poi che altrimenti non poteva privarne
gl'inimici, incominciò per qualche segno a sospettare che i fanti
tedeschi, che in numero cinquecento stavano alla guardia del
castello, pensassino di farlo prigione: però con subito consiglio
donò loro le robe che in quello si conservavano. Le quali mentre che
attendono a dividere, egli, avendo prima liberati di carcere,
eccetto il principe di Rossano e il conte di Popoli, tutti i baroni
avanzati alla crudeltà del padre e dell'avolo, uscito del castello
per la porta del soccorso, montò in sulle galee sottili che
l'aspettavano nel porto, e con lui don Federigo e la reina vecchia,
moglie già dell'avolo, con Giovanna sua figliuola; e seguitato da
pochissimi de' suoi navigò all'isola d'Ischia, detta dagli antichi
Enaria, vicina a Napoli a trenta miglia: replicando spesso con alta
voce, mentre che aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il
versetto del salmo del profeta che contiene essere vane le vigilie
di coloro che custodiscono la città la quale da Dio non è custodita.
Ma non se gli rappresentando oramai altro che difficoltà, ebbe a
fare in Ischia esperienza della sua virtú, e della ingratitudine e
infedeltà che si scuopre contro a coloro i quali sono percossi dalla
fortuna; perché non volendo il castellano della rocca riceverlo se
non con uno compagno solo, egli come fu dentro se gli gittò addosso
con tanto impeto che con la ferocia e con la memoria dell'autorità
regia, spaventò in modo gli altri che in potestà sua ridusse subito
il castellano e la rocca.
Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto,
come a uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de' vincitori, e
con tanta viltà che dugento cavalli della compagnia di Ligní andati
a Nola, dove con quattrocento uomini d'arme si erano ridotti
Verginio e il conte di Pitigliano, gli feceno senza ostacolo alcuno
prigioni; perché essi, parte confidandosi nel salvocondotto il quale
avevano avviso da i suoi essere stato conceduto dal re, parte menati
dal medesimo terrore dal quale erano menati tutti gli altri, senza
contrasto s'arrenderono; donde furno condotti prigioni alla rocca di
Mondracone, e messe in preda tutte le genti loro.
Avevano in questo mezzo trovato Carlo in Aversa gl'imbasciadori
napoletani mandati a dargli quella città. A' quali avendo conceduto
con somma liberalità molti privilegi e esenzioni, entrò il dí
seguente, che fu il vigesimo primo di febbraio in Napoli, ricevuto
con tanto plauso e allegrezza d'ognuno che vanamente si tenterebbe
di esprimerlo, concorrendo con esultazione incredibile ogni sesso
ogni età ogni condizione ogni qualità ogni fazione d'uomini, come se
fusse stato padre e primo fondatore di quella città; né manco degli
altri, quegli che, o essi o i maggiori loro, erano stati esaltati o
beneficati dalla casa d'Aragona. Con la quale celebrità andato a
visitare la chiesa maggiore, fu dipoi, perché Castelnuovo si teneva
per gl'inimici, condotto a alloggiare in Castelcapuano, già
abitazione antica de' re franzesi: avendo con maraviglioso corso di
inaudita felicità, sopra l'esempio ancora di Giulio Cesare, prima
vinto che veduto; e con tanta facilità che e' non fusse necessario
in questa espedizione né spiegare mai uno padiglione né rompere mai
pure una lancia, e fussino tanto superflue molte delle sue
provisioni che l'armata marittima, preparata con gravissima spesa,
conquassata dalla violenza del mare e traportata nell'isola di
Corsica, tardò tanto ad accostarsi a' liti del reame che prima il re
era già entrato in Napoli. Cosí per le discordie domestiche, per le
quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de' nostri príncipi,
si alienò, con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e
con gravissimo pericolo e ignominia di tutti, una preclara e potente
parte d'Italia dallo imperio degli italiani allo imperio di gente
oltramontana. Perché Ferdinando vecchio, se bene nato in Ispagna,
nondimeno, perché insino dalla prima gioventú era stato, o re o
figliuolo di re, continuamente in Italia, e perché non aveva
principato in altra provincia, e i figliuoli e i nipoti, tutti nati
e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati italiani.
Lib.2, cap.1
I pisani avversi al dominio de' fiorentini chiedono aiuti a Siena a
Lucca a Venezia e a Lodovico Sforza. Aspirazione di questo al
dominio di Pisa. Burgundio Lolo, pisano, denuncia a Carlo in Roma il
malgoverno de' fiorentini nella sua città. Risponde in difesa de'
fiorentini Francesco Soderini. Subdola condotta di Carlo verso i
fiorentini. Aiuti del duca di Milano a' pisani.
Mentre che queste cose si facevano in Roma e nel reame napoletano,
crescevano in altra parte d'Italia le faville d'uno piccolo fuoco,
destinato a partorire alla fine grandissimo incendio in danno di
molti, ma principalmente contro a colui che per troppa cupidità di
dominare l'avesse suscitato e nutrito. Perché, ancoraché il re di
Francia si fusse convenuto in Firenze, che tenendo lui Pisa insino
all'acquisto di Napoli, la giurisdizione e l'entrate appartenessino
a' fiorentini, nondimeno, partendosi da Firenze, non aveva lasciato
provisione, o posto ordine alcuno, per la osservanza di tale
promessa; in modo che i pisani, a' quali inclinava il favore del
commissario e de' soldati lasciati dal re alla guardia di quella
città, deliberati di non ritornare piú sotto il dominio fiorentino,
avevano cacciati gli ufficiali e tutti i fiorentini che v'erano
rimasti, alcuni n'aveano incarcerati, occupate le robe e tutti i
beni loro, e confermata totalmente con le dimostrazioni e con
l'opere la ribellione. Nella quale per potere perseverare non solo
mandorono imbasciadori al re, da poi che fu partito da Firenze, che
difendessino la causa loro, ma disposti a fare ogni opera per
ottenere aiuto da ciascuno, ne mandorono, incontinente che furno
ribellati, a Siena e a Lucca; le quali città, essendo inimicissime
al nome fiorentino, non potevano con animi piú allegri la pisana
ribellione avere udito, e perciò insieme gli proveddono di qualche
quantità di danari, e i sanesi vi mandorono subito alcuni cavalli.
Tentorono medesimamente i pisani, mandati oratori a Vinegia, l'animo
di quel senato; dal quale, benché ricevuti benignamente, non
riportorono speranza alcuna. Ma il principale fondamento facevano
nel duca di Milano, perché non dubitavano che, sí come era stato
autore della loro ribellione, sarebbe disposto a mantenergli; il
quale, benché a' fiorentini dimostrasse altrimenti, attese in
segreto a mettere loro animo con molti conforti e offerte, e
persuase occultamente a' genovesi che provedessino i pisani d'armi e
di munizioni, e che mandassino uno commissario in Pisa e trecento
fanti. I quali, per la inimicizia grande che avevano co' fiorentini,
nata dal dispiacere che ebbono dell'acquisto di Pisa, e quando poi
comperorono, a tempo di Tommaso Fregoso loro doge, il porto di
Livorno il quale essi possedevano, e accresciuta ultimatamente
quando i fiorentini tolsono loro Pietrasanta e Serezana, non solo
furono pronti a queste cose ma avevano già occupata la maggiore
parte delle terre le quali i fiorentini nella Lunigiana possedevano,
e già sotto pretesto d'una lettera regia, ottenuta per la
restituzione di certi beni confiscati, nelle cose di Pietrasanta si
intromettevano. Delle quali azioni querelandosi i fiorentini a
Milano, il duca rispondeva non essere in sua potestà, secondo i
capitoli che aveva co' genovesi, di proibirle, e sforzandosi di
sodisfare loro con le parole e dando varie speranze, non cessava
d'operare co' fatti tutto il contrario; come quello che sperava, non
si recuperando Pisa per i fiorentini, avere facilmente a ridurla
sotto il suo dominio, il che per la qualità della città e per
l'opportunità del sito ardentissimamente desiderava: cupidità non
nuova in lui ma incominciata insino quando, cacciato da Milano poco
dopo la morte di Galeazzo suo fratello, per sospetto che ebbe di lui
madonna Bona madre e tutrice del piccolo duca, vi stette confinato
molti mesi. Stimolavalo oltre a questo la memoria che Pisa, innanzi
venisse in potestà de' fiorentini, era stata dominata da Giovan
Galeazzo Visconte primo duca di Milano; per il che e stimava
essergli glorioso recuperare quel che era stato posseduto da' suoi
maggiori e gli pareva potervi pretendere colore di ragione, come se
a Giovan Galeazzo non fusse stato lecito lasciare per testamento, in
pregiudicio de' duchi di Milano suoi successori, a Gabrielmaria suo
figliuolo naturale Pisa, acquistata da sé ma con le pecunie e con le
forze del ducato di Milano. Né contenti i pisani d'avere levato la
città dalla ubbidienza de' fiorentini attendevano a occupare le
terre del contado di Pisa; le quali quasi tutte seguitando, come
quasi sempre fanno i contadi, l'autorità della città, riceverono ne'
primi dí della ribellione i loro commissari, non si opponendo da
principio i fiorentini, occupati, insino non composono col re, in
pensieri piú gravi, e aspettando, dopo la partita sua di Firenze,
che il re, obligato con sí publico e solenne giuramento, vi
provedesse. Ma poiché da lui si differiva il rimedio, mandatavi
gente, recuperorno, parte per forza parte per accordo, tutto quello
che era stato occupato, eccetto Cascina, Buti e Vicopisano: nelle
quali terre i pisani, non essendo potenti a resistere per tutto,
avevano ristrette le forze loro.
Né a Carlo in secreto era molesto il procedere de' pisani, la causa
de' quali aveva fautori scopertamente molti de' suoi, indotti alcuni
da pietà, per la impressione già fatta in quella corte che e'
fussino stati dominati acerbamente, altri per opporsi al cardinale
di San Malò il quale si dimostrava favorevole a' fiorentini; e sopra
tutti il siniscalco di Belcari, corrotto con danari da' pisani ma
molto piú perché, malcontento dell'essersi augumentata troppo la
grandezza del cardinale, cominciava, secondo le variazioni delle
corti, a essere discordante da lui, per la medesima ambizione per la
quale, per avere compagnia a sbattere gli altri, l'aveva prima
fomentato: e questi, non avendo rispetto a quello che convenisse
all'onore e alla fede di tanto re, dimostravano essergli piú utile
tenere i fiorentini in questa necessità e conservare Pisa in quello
stato, almeno insino a tanto che avesse acquistato il regno di
Napoli. Le persuasioni de' quali prevalendo appresso a lui, e però
sforzandosi di nutrire l'una parte e l'altra con speranze varie,
introdusse, mentre era in Roma, gl'imbasciadori de' fiorentini a
udire in presenza sua le querele che gli facevano i pisani; per i
quali parlò Burgundio Lolo cittadino di Pisa, avvocato concistoriale
nella corte di Roma, lamentandosi acerbissimamente, i pisani essere
stati tenuti, ottantotto anni, in sí iniqua e atroce servitú che
quella città, la quale aveva già con molte nobilissime vittorie
disteso lo imperio suo insino nelle parti dell'Oriente, e la quale
era stata delle piú potenti e piú gloriose città di tutta Italia,
fusse, per la crudeltà e avarizia de' fiorentini, condotta
all'ultima desolazione. Essere Pisa quasi vota d'abitatori, perché
la maggiore parte de' cittadini, non potendo tollerare sí aspro
giogo, l'aveva spontaneamente abbandonata; il consiglio de' quali
essere stato prudentissimo, avere dimostrato le miserie di coloro i
quali v'aveva ritenuti l'amore della patria, perché per l'acerbe
esazioni del publico e per le rapine insolenti de' privati
fiorentini erano rimasti spogliati di quasi tutte le sostanze; né
avere piú modo alcuno di sostentarsi, perché con inaudita empietà e
ingiustizia si proibiva loro il fare mercatanzie, l'esercitare arti
di alcuna sorte eccetto le meccaniche, non essere ammessi a qualità
alcuna d'uffici o d'amministrazioni nel dominio fiorentino, eziandio
di quelle le quali alle persone straniere si concedevano. Già
incrudelirsi da' fiorentini contro alla salute e le vite loro;
avendo, per spegnere in tutto le reliquie de' pisani, fatto
intermettere la cura di mantenere gli argini e i fossi del contado
di Pisa, conservata sempre dai pisani antichi con esattissima
diligenza, perché altrimenti era impossibile che per la bassezza del
paese, offeso immoderatamente dalle acque, ogn'anno non fussino
sottoposti a gravissime infermità. Per queste cagioni cadere per
tutto in terra le chiese e i palagi e tanti nobili edifici publichi
e privati, edificati con magnificenza e bellezza inestimabile da'
maggiori loro. Non essere vergogna alle città preclare se dopo il
corso di molti secoli cadevano finalmente in servitú, perché era
fatale che tutte le cose del mondo fussino sottoposte alla
corruzione; ma la memoria della nobiltà e della grandezza loro
dovere piú presto generare nella mente de' vincitori compassione che
accrescere acerbità e asprezza, massime che ciascuno aveva a
considerare, potere anzi dovere, a qualche tempo, accadere a sé quel
medesimo fine che è destinato che accaggia a tutte le città e a
tutti gl'imperi. Non restare a' pisani piú cosa alcuna dove potesse
distendersi piú la empietà e appetito insaziabile de' fiorentini, ed
essere impossibile sopportare piú tante miserie; e perciò avere
tutti unitamente determinato d'abbandonare prima la patria,
d'abbandonare prima la vita, che ritornare sotto sí iniquo, sotto sí
empio dominio. Pregare il re con le lacrime, le quali egli
s'immaginasse essere lacrime abbondantissime di tutto il popolo
pisano prostrato miserabilmente innanzi a' suoi piedi, che si
ricordasse con quanta pietà e giustizia avesse restituita a' pisani
la libertà usurpata ingiustissimamente; che, come costante e
magnanimo principe, conservasse il beneficio fatto loro, eleggendo
piú tosto d'avere il nome di padre e di liberatore di quella città
che, rimettendogli in tanto pestifera servitú, diventare ministro
della rapacità e della immanità de' fiorentini. Alle quali
accusazioni con non minore veemenza rispose Francesco Soderini
vescovo di Volterra, il quale fu poi cardinale, uno degli oratori
de' fiorentini, dimostrando il titolo della sua republica essere
giustissimo, perché avevano, insino nell'anno mille quattrocento
quattro, comperato Pisa da Gabriel Maria Visconte legittimo signore;
dal quale non prima stati messi in possessione, i pisani avernegli
violentemente spogliati ; e però essere stato necessario
cercare di ricuperarla con lunga guerra, della quale non era stato
manco felice il fine che fusse stata giusta la cagione, né manco
gloriosa la pietà de' fiorentini che la vittoria: conciossiaché,
avendo avuta occasione di lasciare morire per se stessi i pisani
consumati dalla fame, avessino, per rendere loro gli spiriti ridotti
all'ultime estremità, nell'entrare con l'esercito in Pisa, condotto
seco maggiore quantità di vettovaglia che d'armi. Non avere in tempo
alcuno la città di Pisa ottenuto grandezza in terra ferma, anzi, non
avendo mai, non ch'altro, potuto dominare Lucca città tanto vicina,
essere stata sempre rinchiusa in angustissimo territorio; e la
potenza marittima essere stata breve, perché per giusto giudicio di
Dio, concitato per molte loro iniquità e scelerate operazioni, e per
le lunghe discordie civili e inimicizie tra essi medesimi, era,
molt'anni prima che fusse venduta a' fiorentini, caduta d'ogni
grandezza e di ricchezze e d'abitatori, e diventata tanto debole che
e' fusse riuscito a ser Iacopo d'Appiano, notaio ignobile del
contado di Pisa, di farsene signore, e dopo averla dominata piú anni
lasciarla ereditaria a' figliuoli. Né importare il dominio di Pisa
a'fiorentini se non per l'opportunità del sito e per la comodità del
mare, perché l'entrate le quali se ne traevano erano di piccola
considerazione, essendo le esazioni sí leggiere che di poco
sopravanzavano alle spese che per necessità vi si facevano; con
tutto che la piú parte si riscotesse da' mercatanti forestieri, e
per beneficio del porto di Livorno. Né essere, circa le mercatanzie
arti e uffici, legati i pisani con altre leggi che fussino legate
l'altre città suddite de' fiorentini; le quali, confessando essere
governate con imperio moderato e mansueto, non desideravano mutare
signore, perché non avevano quella alterigia e ostinazione la quale
era naturale a' pisani, né anche quella perfidia che in loro era
tanto notoria che fusse celebrata per antichissimo proverbio di
tutta la Toscana. E se quando i fiorentini acquistorono Pisa molti
pisani spontaneamente e subito se ne partirono, essere proceduto
dalla superbia loro, impaziente ad accomodare l'animo alle forze
proprie e alla fortuna, non per colpa de' fiorentini, i quali gli
avevano retti con giustizia e con mansuetudine, e trattati talmente
che sotto loro non era Pisa diminuita né di ricchezze né d'uomini;
anzi avere con grandissima spesa ricuperato da' genovesi il porto di
Livorno, senza il quale porto quella città era restata abbandonata
d'ogni comodità ed emolumento: e con l'introdurvi lo studio publico
di tutte le scienze e con molt'altri modi, ed eziandio col fare
continuare diligentemente la cura de' fossi, essersi sempre sforzati
di farla frequente d'abitatori. La verità delle quali cose era sí
manifesta che con false lamentazioni e calunnie oscurare non si
poteva. Essere permesso a ciascuno il desiderare di pervenire a
migliore fortuna, ma dovere anche ciascuno pazientemente tollerare
quello che la sorte sua gli ha dato; altrimenti confondersi tutte le
signorie e tutti gl'imperi, se a ciascuno che è suddito fusse lecito
il cercare di diventare libero. Né riputare necessario a' fiorentini
l'affaticarsi per persuadere a Carlo, cristianissimo re di Francia,
quel che appartenesse a lui di fare; perché, essendo re
sapientissimo e giustissimo, si rendevano certi non si lascerebbe
sollevare da querele e calunnie tanto vane e si ricorderebbe da se
stesso quel ch'avesse promesso innanzi che l'esercito suo fusse
ricevuto in Pisa, quel che sí solennemente avesse giurato in
Firenze; considerando che quanto un re è piú potente e maggiore
tanto gli è piú glorioso l'usare la sua potenza per conservazione
della giustizia e della fede.
Appariva manifestamente che da Carlo erano con piú benigni orecchi
uditi i pisani, e che per beneficio loro desiderava che, durante la
guerra di Napoli, l'offese tra tutte due le parti si sospendessino,
o che i fiorentini consentissino che il contado tutto si tenesse da
lui, affermando che, acquistato che avesse Napoli, metterebbe subito
a esecuzione le cose convenute in Firenze; il che i fiorentini,
essendo già sospette loro tutte le parole del re, costantemente
recusavano, ricercandolo con grande instanza dell'osservanza delle
promesse. A' quali per mostrare di sodisfare, ma veramente per fare
opera d'avere da loro innanzi al tempo debito i settantamila ducati
promessigli, mandò, nel tempo medesimo partí da Roma, il cardinale
di San Malò a Firenze, simulando co' fiorentini di mandarlo per
sodisfare alle dimande loro; ma in segreto gli ordinò che,
pascendogli di speranza insino che gli dessino i danari, lasciasse
finalmente le cose nel grado medesimo: della quale fraude se bene i
fiorentini avessino non piccola dubitazione, nondimeno gli pagorono
quarantamila ducati, de' quali il termine era propinquo; ed egli,
ricevuto che gli ebbe, andato a Pisa, promettendo di restituire i
fiorentini nella possessione della città, se ne ritornò senza avere
fatto effetto alcuno; scusandosi d'avere trovati i pisani sí
pertinaci che l'autorità non era stata sufficiente a disporgli, né
avere potuto costrignergli, perché dal re non aveva ricevuta questa
commissione, né a sé, che era sacerdote, essere stato conveniente
pigliare deliberazione alcuna della quale avesse a nascere effusione
di sangue cristiano. Forní nondimeno di nuove guardie la cittadella
nuova, e arebbe fornito la vecchia se glien'avessino consentito i
pisani: i quali crescevano ogni dí d'animo e di forze, perché il
duca di Milano, giudicando essere necessario che in Pisa fusse
maggiore presidio e un condottiere di qualche esperienza e valore,
v'aveva, benché coprendosi, con le solite arti, del nome de'
genovesi, mandato Lucio Malvezzo con nuove genti. Né recusando
occasione alcuna di fomentare le molestie de' fiorentini, acciocché
fussino piú impediti a offendere i pisani, condusse Iacopo d'Appiano
signore di Piombino e Giovanni Savello, a comune co' sanesi, per
dare loro animo a sostenere Montepulciano; la quale terra essendosi
nuovamente ribellata da' fiorentini a' sanesi, era stata accettata
da loro senza rispetto della confederazione che avevano insieme.
Lib.2, cap.2
Discorso di Paolantonio Soderini intorno all'ordinamento interno di
Firenze. Discorso di Guidantonio Vespucci sul medesimo argomento.
Autorità di Gerolamo Savonarola in Firenze. Ordinamento della
repubblica.
Né erano in questo tempo i fiorentini in minore ansietà e travaglio
per le cose intestine; perché, per riordinare il governo della
republica, avevano, subito dopo la partita da Firenze del re, nel
parlamento, che secondo gli antichi costumi loro è una congregazione
della università de' cittadini in sulla piazza del palagio publico,
i quali con voci scoperte deliberano sopra le cose proposte dal
sommo magistrato, costituita una specie di reggimento che, sotto
nome di governo popolare, tendeva in molte parti piú alla potenza di
pochi che a partecipazione universale. La qual cosa essendo molesta
a molti che s'avevano proposta nell'animo maggiore larghezza, e
concorrendo al medesimo privata ambizione di qualche principale
cittadino, era stato necessario trattare di nuovo della forma del
governo. Della quale consultandosi un giorno tra i magistrati
principali e gli uomini di maggiore riputazione, Pagol'Antonio
Soderini, cittadino savio e molto stimato, parlò, secondo che si
dice, cosí:
- E' sarebbe certamente, prestantissimi cittadini, molto facile a
dimostrare che, ancora che da coloro che hanno scritto delle cose
civili il governo popolare sia manco lodato che quello di uno
principe e che il governo degli ottimati, nondimeno, che per essere
il desiderio della libertà desiderio antico e quasi naturale in
questa città, e le condizioni de' cittadini proporzionate
all'egualità, fondamento molto necessario de' governi popolari,
debba essere da noi preferito senza alcuno dubbio a tutti gli altri:
ma sarebbe superflua questa disputa, poi che in tutte le consulte di
questi dí si è sempre con universale consentimento determinato che
la città sia governata col nome e con l'autorità del popolo. Ma la
diversità de' pareri nasce, che alcuni nell'ordinazione del
parlamento si sono accostati volentieri a quelle forme di republica
con le quali si reggeva questa città innanzi che la libertà sua
fusse oppressa dalla famiglia de' Medici; altri, nel numero de'
quali confesso di essere io, giudicando il governo cosí ordinato
avere in molte cose piú tosto nome che effetti di governo popolare,
e spaventati dagli accidenti che da simili governi spesse volte
resultorono, desiderano una forma piú perfetta, e per la quale si
conservi la concordia e la sicurtà de' cittadini, cosa che né
secondo le ragioni né secondo l'esperienza del passato si può
sperare in questa città se non sotto uno governo dependente in tutto
dalla potestà del popolo ma che sia ordinato e regolato debitamente:
il che consiste principalmente in due fondamenti. Il primo è che
tutti i magistrati e uffici, cosí per la città come per il dominio,
siano distribuiti, tempo per tempo, da uno consiglio universale di
tutti quegli che secondo le leggi nostre sono abili a partecipare
del governo; senza l'approvazione del quale consiglio leggi nuove
non si possino deliberare. Cosí non essendo in potestà di privati
cittadini, né d'alcuna particolare cospirazione o intelligenza, il
distribuire le degnità e le autorità, non ne sarà escluso alcuno né
per passione né a beneplacito d'altri, ma si distribuiranno secondo
le virtú e secondo i meriti degli uomini; e però bisognerà che
ciascuno si sforzi, con le virtú co' costumi buoni col giovare al
publico e al privato, aprirsi la via agli onori; bisognerà che
ciascuno s'astenga da' vizi, dal nuocere ad altri, e finalmente da
tutte le cose odiose nelle città bene instituite: né sarà in potestà
d'uno o di pochi, con nuove leggi o con l'autorità d'un magistrato,
introdurre altro governo, non si potendo alterare questo se non di
volontà del consiglio universale. Il secondo fondamento principale è
che le deliberazioni importanti, cioè quelle che appartengano alla
pace e alla guerra, alla esaminazione di leggi nuove, e generalmente
tutte le cose necessarie alla amministrazione d'una città e dominio
tale, si trattino da' magistrati preposti particolarmente a questa
cura, e da uno consiglio piú scelto di cittadini esperimentati e
prudenti che si deputi dal consiglio popolare; perché non cadendo
nello intelletto d'ognuno la cognizione di queste faccende, bisogna
sieno governate da quegli che n'hanno la capacità; e ricercando
spesso prestezza o secreto, non si possono né consultare né
deliberare con la moltitudine. Né è necessario alla conservazione
della libertà che le cose tali si trattino in numeri molto larghi,
perché la libertà rimane sicura ogni volta che la distribuzione de'
magistrati e la deliberazione delle leggi nuove dependino dal
consentimento universale. Proveduto adunque a queste due cose, resta
ordinato il governo veramente popolare, fondata la libertà della
città, stabilita la forma laudabile e durabile della republica.
Perché molte altre cose, che tendono a fare il governo del quale si
parla piú perfetto, è piú a proposito differire ad altro tempo, per
non confondere tanto in questi princípi le menti degli uomini,
sospettosi per la memoria della tirannide passata, e i quali, non
assuefatti a trattare governi liberi, non possono conoscere
interamente quello che sia necessario ordinare alla conservazione
della libertà: e sono cose che, per non essere tanto sostanziali, si
differiscono sicuramente a piú comodo tempo e a migliore occasione.
Ameranno ogni dí piú i cittadini questa forma di republica, ed
essendo per la esperienza ogni dí piú capaci della verità,
desidereranno che il governo continuamente sia limato e condotto
alla intera perfezione: e in questo mezzo si sostenterà mediante i
due fondamenti sopradetti. I quali quanto sia facile ordinare, e
quanto frutto partorischino, non solo si può dimostrare con molte
ragioni ma eziandio apparisce chiarissimamente per l'esempio. Perché
il reggimento de' viniziani, se bene è proprio de' gentil'uomini,
non sono però i gentil'uomini altro che cittadini privati, e tanti
in numero e di sí diverse condizioni e qualità che egli non si può
negare che e' non partecipi molto del governo popolare, e che da noi
non possa essere imitato in molte parti; e nondimeno è fondato
principalmente in su queste due basi, in sulle quali quella
republica, conservata per tanti secoli insieme con la libertà
l'unione e la concordia civile, è salita in tanta gloria e
grandezza. Né è proceduta dal sito, come molti credono, l'unione de'
viniziani, perché e in quel sito potrebbono essere, e sono state
qualche volta, discordie e sedizioni, ma dall'essere la forma del
governo sí bene ordinata e bene proporzionata a se medesima che per
necessità produce effetti sí preziosi e ammirabili. Né ci debbono
manco muovere gli esempli nostri che gli alieni, ma considerandogli
per il contrario: perché il non avere mai la città nostra avuto
forma di governo simile a questo è stato causa che sempre le cose
nostre sono state sottoposte a sí spesse mutazioni, ora conculcate
dalla violenza delle tirannidi ora lacerate dalla discordia
ambiziosa e avara di pochi ora conquassate dalla licenza sfrenata
della moltitudine; e dove le città furono edificate per la quiete e
felice vita degli abitatori, i frutti de' nostri governi le nostre
felicità i nostri riposi sono stati le confiscazioni de' nostri
beni, gli esili, le decapitazioni de' nostri infelici cittadini. Non
è il governo introdotto nel parlamento diverso da quegli che altre
volte sono stati in questa città, i quali sono stati pieni di
discordie e di calamità, e dopo infiniti travagli publici e privati
hanno finalmente partorito le tirannidi; perché, non per altro che
per queste cagioni oppresse, appresso a nostri antichi, la libertà
il duca di Atene, non per altro l'oppresse ne' tempi seguenti Cosimo
de' Medici. Né si debbe averne ammirazione: perché, come la
distribuzione de' magistrati e la deliberazione delle leggi non
hanno bisogno quotidianamente del consenso comune ma dependono
dall'arbitrio di numero minore, allora, intenti i cittadini non piú
al beneficio publico ma a cupidità e fini privati, sorgono le sette
e le cospirazioni particolari, alle quali sono congiunte le
divisioni di tutta la città, peste e morte certissima di tutte le
republiche e di tutti gli imperi. Quanto è adunque maggiore prudenza
fuggire quelle forme di governo le quali, con le ragioni e con
l'esempio di noi medesimi, possiamo conoscere perniciose! e
accostarsi a quelle le quali, con le ragioni e con l'esempio
d'altri, possiamo conoscere salutifere e felici! Perché io dirò
pure, sforzato dalla verità, questa parola: che nella città nostra,
sempre, un governo ordinato in modo che pochi cittadini vi abbino
immoderata autorità sarà un governo di pochi tiranni; i quali
saranno tanto piú pestiferi d'un tiranno solo quanto il male è
maggiore e nuoce piú quanto piú è moltiplicato, e, se non altro, non
si può, per la diversità de' pareri e per l'ambizione e per le varie
cupidità degli uomini, sperarvi concordia lunga: e la discordia,
perniciosissima in ogni tempo, sarebbe piú perniciosa in questo, nel
quale voi avete mandato in esilio un cittadino tanto potente, nel
quale voi siete privati d'una parte tanto importante del vostro
stato, nel quale Italia, avendo nelle viscere eserciti forestieri, è
tutta in gravissimi pericoli. Rare volte, e forse non mai, è stato
assolutamente in potestà di tutta la città ordinare se medesima ad
arbitrio suo: la quale potestà poiché la benignità di Dio v'ha
conceduta, non vogliate, nocendo sommamente a voi stessi e oscurando
in eterno il nome della prudenza fiorentina, perdere l'occasione di
fondare un reggimento libero, e sí bene ordinato che non solo,
mentre che e' durerà, faccia felici voi ma possiate promettervene la
perpetuità; e cosí lasciare ereditario a' figliuoli e a' discendenti
vostri tale tesoro e tale felicità, che giammai né noi né i passati
nostri l'hanno posseduta o conosciuta. -
Queste furono le parole di Pagolantonio. Ma in contrario Guidantonio
Vespucci, giurisconsulto famoso e uomo di ingegno e destrezza
singolare, parlò cosí:
- Se il governo ordinato, prestantissimi cittadini, nella forma
proposta da Paolantonio Soderini producesse sí facilmente i frutti
che si desiderano, come facilmente si disegnano, arebbe certamente
il gusto molto corrotto chi altro governo nella patria nostra
desiderasse. Sarebbe perniciosissimo cittadino chi non amasse
sommamente una forma di republica nella quale le virtú i meriti e il
valore degli uomini fussino sopra tutte l'altre cose riconosciuti e
onorati. Ma io non conosco già come si possa sperare che uno
reggimento collocato totalmente nella potestà del popolo abbia a
essere pieno di tanti beni. Perché io so pure che la ragione
insegna, che l'esperienza lo dimostra e l'autorità de' valent'uomini
lo conferma, che in tanta moltitudine non si truova tale prudenza
tale esperienza tale ordine per il quale promettere ci possiamo che
i savi abbino a essere anteposti agli ignoranti, i buoni a' cattivi,
gli esperimentati a quegli che non hanno mai maneggiato faccenda
alcuna. Perché, come da uno giudice incapace e imperito non si
possono aspettare sentenze rette cosí da uno popolo che è pieno di
confusione e di ignoranza non si può aspettare, se non per caso,
elezione o deliberazione prudente o ragionevole. E quello che ne'
governi publici gli uomini savi, né intenti ad alcuno altro negozio,
possono appena discernere noi crediamo che una moltitudine inesperta
imperita composta di tante varietà d'ingegni di condizioni e di
costumi, e tutta dedita alle sue particolari faccende, possa
distinguere e conoscere? Senza che, la persuasione immoderata che
ciascuno arà di se medesimo gli desterà tutti alla cupidità degli
onori, né basterà agli uomini nel governo popolare godere i frutti
onesti della libertà, ché aspireranno tutti a gradi principali, e a
intervenire nelle deliberazioni delle cose piú importanti e piú
difficili; perché in noi manco che in alcuna altra città regna la
modestia del cedere a chi piú sa, a chi piú merita. Ma persuadendoci
che di ragione tutti, in tutte le cose, dobbiamo essere eguali, si
confonderanno, quando sarà in facoltà della moltitudine, i luoghi
della virtú e del valore; e questa cupidità distesa nella maggiore
parte farà potere piú quegli che manco sapranno o manco meriteranno,
perché essendo molto piú numero aranno piú possanza, in uno stato
ordinato in modo che i pareri s'annoverino non si pesino. Donde che
certezza arete voi che, contenti della forma la quale introdurrete
al presente, non disordinino presto i modi, prudentemente pensati,
con nuove invenzioni e con leggi imprudenti? alle quali gli uomini
savi non potranno resistere. E queste cose sono in ogni tempo
pericolose in un governo tale, ma saranno molto piú ora, perché è
natura degli uomini, quando si partono da uno estremo nel quale sono
stati tenuti violentemente, correre volonterosamente, senza fermarsi
nel mezzo, all'altro estremo. Cosí chi esce da una tirannide, se non
è ritenuto, si precipita a una sfrenata licenza; la quale anche si
può giustamente chiamare tirannide, perché e un popolo è simile a un
tiranno quando dà a chi non merita, quando toglie a chi merita,
quando confonde i gradi e le distinzioni delle persone; ed è forse
tanto piú pestifera la sua tirannide quanto è piú pericolosa
l'ignoranza, perché non ha né peso né misura né legge che la
malignità, che pure si regge con qualche regola con qualche freno
con qualche termine. Né vi muova l'esempio de' viniziani, perché in
loro e il sito fa qualche momento e la forma del governo inveterata
fa molto, e le cose vi sono ordinate in modo che le deliberazioni
importanti sono piú in potestà di pochi che di molti; e gl'ingegni
loro, non essendo per natura forse cosí acuti come sono gli ingegni
nostri, sono molto piú facili a quietarsi e a contentarsi. Né si
regge il governo viniziano solamente con quegli due fondamenti i
quali sono stati considerati, ma alla perfezione e stabilità sua
importa molto lo esservi uno doge perpetuo, e molte altre
ordinazioni, le quali chi volesse introdurre in questa republica
arebbe infiniti contradittori; perché la città nostra non nasce al
presente, né ha ora la prima volta la sua instituzione. Però,
repugnando spesso alla utilità comune gli abiti inveterati, e
sospettando gli uomini che sotto colore della conservazione della
libertà si cerchi di suscitare nuova tirannide, non sono per
giovargli facilmente i consigli sani; cosí come in uno corpo infetto
e abbondante di pravi umori non giovano le medicine come in uno
corpo purificato. Per le quali cagioni, e per la natura delle cose
umane, che comunemente declinano al peggio, è da temere che quello
che sarà in questo principio ordinato imperfettamente, in progresso
di tempo in tutto si disordini, piú che da sperare che o col tempo o
con le occasioni si riduca alla perfezione. Ma non abbiamo noi gli
esempli nostri senza cercare di quegli d'altri? ché mai il popolo ha
assolutamente governata questa città che ella non si sia piena di
discordie, che ella non si sia in tutto conquassata, e finalmente
che lo stato non abbia presto avuto mutazione: e se pure vogliamo
ricercare per gli esempli d'altri, perché non ci ricordiamo noi che
il governo totalmente popolare fece in Roma tanti tumulti che se non
fusse stata la scienza e la prontezza militare sarebbe stata breve
la vita di quella republica? perché non ci ricordiamo noi che Atene,
floridissima e potentissima città, non per altro perdé l'imperio
suo, e poi cadde in servitú di suoi cittadini e di forestieri, che
per disporsi le cose gravi con le deliberazioni della moltitudine?
Ma io non veggo per quale cagione si possa dire che nel modo
introdotto nel parlamento non si ritruovi interamente la libertà,
perché ogni cosa è riferita alla disposizione de' magistrati, i
quali non sono perpetui ma si scambiano, né sono eletti da pochi:
anzi, approvati da molti, hanno, secondo l'antica consuetudine della
città, a essere rimessi ad arbitrio della sorte: però, come possono
essere distribuiti per sette o per volontà di cittadini particolari?
Aremo bene maggiore certezza che le faccende piú importanti saranno
esaminate e indiritte dagli uomini piú savi piú pratichi e piú
gravi, i quali le governeranno con altro ordine con altro segreto
con altra maturità che non farebbe il popolo, incapace delle cose, e
talvolta, quando manco bisogna, profusissimo nello spendere,
talvolta ne' maggiori bisogni tanto stretto che spesso, per
piccolissimo risparmio, incorre in gravissime spese e pericoli. È
importantissima, come ha detto Pagolantonio, la infermità d'Italia,
e particolarmente quella della patria nostra: però che imprudenza
sarebbe, quando bisognano i medici piú periti e piú esperti,
rimettersi in quegli che hanno minore perizia ed esperienza. E da
considerare in ultimo che in maggiore quiete manterrete il popolo
vostro, piú facilmente lo condurrete alle deliberazioni salutifere a
se stesso e al bene universale, dandogli moderata parte e autorità;
perché rimettendo a suo arbitrio assolutamente ogni cosa, sarà
pericolo non diventi insolente, e troppo difficile e ritroso a’
consigli de' vostri savi e affezionati cittadini. -
Arebbe ne' consigli, ne' quali non interveniva numero molto grande
di cittadini, potuto piú quella sentenza che tendeva alla forma non
tanto larga del governo se nella deliberazione degli uomini non
fusse stata mescolata l'autorità divina, per la bocca di Ieronimo
Savonarola da Ferrara, frate dell'ordine de' predicatori. Costui,
avendo esposto publicamente il verbo di Dio piú anni continui in
Firenze, e aggiunta a singolare dottrina grandissima fama di
santità, aveva appresso alla maggiore parte del popolo vendicatosi
nome e credito di profeta; perché, nel tempo che in Italia non
appariva segno alcuno se non di grandissima tranquillità, avea nelle
sue predicazioni predetto molte volte la venuta d'eserciti
forestieri in Italia, con tanto spavento degli uomini che e' non
resisterebbono loro né mura né eserciti: affermando non predire
questo e molte altre cose, le quali continuamente prediceva, per
discorso umano né per scienza di scritture ma semplicemente per
divina revelazione. E aveva accennato ancora qualche cosa della
mutazione dello stato di Firenze; e in questo tempo, detestando
publicamente la forma deliberata nel parlamento, affermava la
volontà di Dio essere che e' s'ordinasse uno governo assolutamente
popolare, e in modo che non avesse a essere in potestà di pochi
cittadini alterare né la sicurtà né la libertà degli altri: talmente
che, congiunta la riverenza di tanto nome al desiderio di molti, non
potettono quegli che sentivano altrimenti resistere a tanta
inclinazione. E però, essendosi ventilata questa materia in molte
consulte, fu finalmente determinato che e' si facesse uno consiglio
di tutti i cittadini, non vi intervenendo, come in molte parti
d'Italia si divulgò, la feccia della plebe ma solamente coloro che
per le leggi antiche della città erano abili a partecipare del
governo; nel qual consiglio non s'avesse a trattare o a disporre
altro che eleggere tutti i magistrati per la città e per il dominio,
e confermare i provedimenti de' danari, e tutte le leggi ordinate
prima ne' magistrati e negli altri consigli piú stretti. E acciocché
si levassino l'occasioni delle discordie civili, e si assicurassino
piú gli animi di ciascuno, fu per publico decreto proibito,
seguitando in questo l'esempio degli ateniesi, che de' delitti e
delle trasgressioni commesse per il passato circa le cose dello
stato non si potesse riconoscere. In su' quali fondamenti si sarebbe
forse costituito un governo ben regolato e stabile se si fussino,
nel tempo medesimo, introdotti tutti quegli ordini che caddono,
insino allora, in considerazione degli uomini prudenti: ma non si
potendo queste cose deliberare senza consenso di molti, i quali per
la memoria delle cose passate erano pieni di sospetto, fu giudicato
che per allora si costituisse il consiglio grande, come fondamento
della nuova libertà; rimettendo, a fare quel che mancava,
all'occasione de' tempi e quando l'utilità publica fusse, mediante
la esperienza, conosciuta da quegli che non erano capaci di
conoscerla mediante la ragione e il giudicio.
Lib.2, cap.3
Carlo VIII s'impadronisce di Castelnuovo di Castel dell'Uovo e della
rocca di Gaeta. Prima della resa di Castel dell'Uovo chiama a sé don
Federigo d'Aragona e fa proposte di stati nel regno di Francia a
favore di Ferdinando. Risposta di Federigo. Ferdinando da Ischia
dove s'era ritirato si reca in Sicilia. Morte di Gemin ottomanno,
fratello del gran turco, consegnato a Carlo da Alessandro VI.
Travagliavano in maniera tale le cose di Toscana. Ma in questo mezzo
il re di Francia, acquistato che ebbe Napoli, attendeva, per dare
perfezione alla vittoria, a due cose principalmente: l'una, a
espugnare Castelnuovo e Castel dell'Uovo, fortezze di Napoli le
quali si tenevano ancora per Ferdinando, perché con piccola
difficoltà aveva ottenuta la Torre di San Vincenzio, edificata per
guardia del porto; l'altra, a ridurre a ubbidienza sua tutto il
reame: nelle quali cose la fortuna la medesima benignità gli
dimostrava. Perché Castelnuovo, abitazione de' re, posto in sul lito
del mare, per la viltà e avarizia de' cinquecento tedeschi che
v'erano a guardia, fatta leggiera difesa, s'arrendé, con condizione
che n'uscissino salvi, con tutta la roba che essi medesimi potessino
portarne; nel quale essendo copia grandissima di vettovaglie, Carlo,
senza considerazione di quello che potesse succedere, le donò ad
alcuni de' suoi; e Castel dell'Uovo, il quale, fondato dentro al
mare in su un masso già contiguo alla terra, ma separatone
anticamente per opera di Lucullo, si congiugne con uno stretto ponte
al lito poco lontano da Napoli, battuto continuamente
dall'artiglierie franzesi, benché potessino offendere la muraglia ma
non il vivo del masso, si convenne dopo non molti dí d'arrendersi,
in caso che fra otto dí non fusse soccorso. E a' capitani e alle
genti d'arme, mandate in diverse parti del reame, andavano incontro,
parecchie giornate, i baroni e i sindichi delle comunità, facendo a
gara tra loro d'essere i primi a ricevergli, e con tanta o
inclinazione o terrore di ciascuno che i castellani delle fortezze
quasi tutti senza resistenza le dettono; e la rocca di Gaeta, che
era bene proveduta, combattuta leggiermente, s'arrendé a
discrezione. In modo che in pochissimi dí, con inestimabile
facilità, tutto il regno si ridusse in potestà di Carlo: eccetto
l'isola d'Ischia, e le fortezze di Brindisi e di Galipoli in Puglia,
e in Calavria la fortezza di Reggio, città posta in sulla punta
d'Italia all'incontro di Sicilia, tenendosi la città per Carlo; e la
Turpia e la Mantia le quali da principio rizzorono le bandiere di
Francia, ma recusando di stare in dominio d'altri che del re, il
quale l'aveva donate ad alcuni de' suoi, mutato consiglio
ritornorono al primo signore. E il medesimo fece poco dipoi la città
di Brindisi, alla quale non avendo Carlo mandato gente, anzi per
negligenza non solo non espediti ma appena uditi i sindici suoi
mandati a Napoli per capitolare, ebbono quegli che erano per
Ferdinando nelle fortezze facoltà di ritirare spontaneamente la
città alla divozione aragonese: per il quale esempio la città di
Otranto che aveva chiamato il nome di Francia, non v'andando alcuno
a riceverla, non continuò nella medesima disposizione.
Andorono, da Alfonso Davalo marchese di Pescara in fuora, il quale,
lasciato in Castelnuovo da Ferdinando, l'aveva, come si accorse
della inclinazione de' tedeschi ad arrendersi, seguitato, e due o
tre altri che per avere Carlo donati gli stati loro s'erano fuggiti
in Sicilia, tutti i signori e baroni del reame a fare omaggio al
nuovo re. Il quale, desideroso di stabilire totalmente per via di
concordia sí grande acquisto, aveva, innanzi che ottenesse Castel
dell'Uovo, chiamato a sé sotto salvocondotto don Federigo, il quale
per essere dimorato piú anni nella corte del padre, e per la
congiunzione del parentado avuta col re, era grato a tutti i signori
franzesi; al quale offerse di dare a Ferdinando, in caso rilasciasse
quello che gli restava nel reame, stati ed entrate grandi in
Francia, e a lui dare ricompenso abbondante di tutto quello vi
possedeva. Ma essendo nota a don Federigo la deliberazione del
nipote, di non accettare partito alcuno se non restandogli la
Calavria, rispose con gravi parole: che poi che Dio la fortuna e la
volontà di tutti gli uomini erano concorse a dargli il reame di
Napoli, che Ferdinando, non volendo fare resistenza a questa fatale
disposizione, né riputandosi vergogna il cedere a un tanto re,
voleva non manco che gli altri stare a sua ubbidienza e divozione,
pure che da lui gli fusse conceduta qualche parte del reame,
accennando della Calavria, nella quale stando, non come re ma come
uno de' suoi baroni, potesse adorare la clemenza e la magnanimità
del re di Francia; al cui servigio sperava d'avere qualche volta
occasione di dimostrare quella virtú che la mala fortuna gli aveva
vietato di potere per la salute di se medesimo esercitare. Questo
consiglio non potere essere a Carlo di maggiore gloria, e simile a'
consigli di quegli re memorabili appresso all'antichità, i quali con
tali opere aveano fatto immortale il nome loro e conseguito appresso
a' popoli gli onori divini; ma non essere consiglio manco sicuro che
glorioso, perché, ridotto Ferdinando alla sua divozione, arebbe il
regno stabilito, né arebbe a temere della mutazione della fortuna,
della quale era proprio, ogni volta che le vittorie non
s'assicuravano con moderazione e con prudenza, maculare con qualche
caso inopinato la gloria guadagnata.
Ma parendo a Carlo che il concedere parte alcuna del reame al suo
competitore mettesse tutto il resto in manifestissimo pericolo, don
Federigo si partí discorde da lui; e Ferdinando, poiché furono
arrendute le castella, se n'andò con quattordici galee sottili male
armate, con le quali s'era partito da Napoli, in Sicilia, per essere
parato a ogni occasione, lasciato a guardia della rocca d'Ischia
Inico Davalo fratello d'Alfonso, uomini amendue di virtú e di fede
egregia verso il suo signore. Ma Carlo, per privare gl'inimici di
quello ricettacolo, molto opportuno a turbare il reame, vi mandò
l'armata, che finalmente era arrivata nel porto di Napoli; la quale,
trovata la terra abbandonata, non combatté la rocca, disperandosi
per la fortezza sua di poterla ottenere: però deliberò il re far
venire altri legni di Provenza e da Genova per pigliare Ischia, e
assicurare il mare infestato qualche volta da Ferdinando. Ma non era
pari alla fortuna la diligenza o il consiglio, governandosi tutte le
cose freddamente e con grandissima negligenza e confusione: perché i
franzesi, diventati per tanta prosperità piú insolenti che 'l
solito, lasciando portare al caso le cose di momento, non
attendevano ad altro che al festeggiare e a' piaceri; e quegli che
erano grandi appresso al re, a cavare privatamente della vittoria
piú frutto potevano, senza considerazione alcuna della degnità o
dell'utilità del suo principe.
Nel qual tempo morí in Napoli Gemin ottomanno, con sommo dispiacere
di Carlo, perché lo reputava grandissimo fondamento alla guerra la
quale aveva in animo di fare contro allo imperio de' turchi; e si
credette, molto costantemente, che la sua morte fusse proceduta da
veleno, datogli a tempo terminato dal pontefice, o perché avendolo
conceduto contro alla sua volontà, e per questo privatosi de'
quarantamila ducati che ciascuno anno gli pagava Baiset suo
fratello, pigliasse per consolazione dello sdegno che chi ne l'aveva
privato non ricevesse di lui comodità, o per invidia che e' portasse
alla gloria di Carlo; e forse temendo che avendo prosperi successi
contro agl'infedeli volgesse poi i pensieri suoi, come, benché per
interessi privati, era stimolato continuamente da molti, a riformare
le cose della Chiesa: le quali, allontanatesi totalmente dagli
antichi costumi, facevano ogni dí minore l'autorità della cristiana
religione, tenendo per certo ciascuno che avesse a declinare molto
piú nel suo pontificato; il quale, acquistato con pessime arti, non
fu forse giammai, alla memoria degli uomini, amministrato con
peggiori. Né mancò chi credesse, perché la natura facinorosa del
pontefice faceva credibile in lui qualunque iniquità, che Baiset,
come intese il re di Francia prepararsi a passare in Italia,
l'avesse, per mezzo di Giorgio Bucciardo, corrotto con danari a
privare Gemin della vita. Ma non cessando per la sua morte Carlo, il
quale piú con prontezza d'animo che con prudenza e consiglio
procedeva, di pensare alla guerra contro a' turchi, mandò in Grecia
l'arcivescovo di Durazzo di nazione albanese, perché gli dava
speranza di suscitare, per mezzo di certi fuorusciti, qualche
movimento in quella provincia. Ma nuovi accidenti lo costrinsono a
volgere l'animo a nuovi pensieri.
Lib.2, cap.4
Preoccupazioni e timori di Lodovico Sforza e di Venezia per la nuova
condizione politica d'Italia. Preoccupazioni del pontefice e di
Massimiliano. Confederazione tra il pontefice il re de' romani i re
di Spagna i veneziani e il duca di Milano. Carlo VIII continua a non
tener fede ai patti concordati co' fiorentini. Principia il
malcontento nei sudditi del reame di Napoli contro i francesi.
E detto di sopra che la cupidità d'usurpare il ducato di Milano, e
la paura che aveva degli Aragonesi e di Piero de' Medici, indussono
Lodovico Sforza a procurare che 'l re di Francia passasse in Italia;
per la venuta del quale, poiché ebbe ottenuto il suo ambizioso
desiderio, e che gli Aragonesi furono ridotti in tante angustie che
con difficoltà poteano la propria salute sostentare, cominciò a
presentarsigli innanzi agli occhi il secondo timore molto piú
potente e molto piú giusto che 'l primo, cioè la servitú imminente a
sé e a tutti gli italiani se alla potenza del re di Francia il reame
di Napoli s'aggiugnesse. Però aveva desiderato che Carlo trovasse
nel dominio de' fiorentini maggiore difficoltà; e veduto essergli
stato facilissimo il congiugnersi quella republica, e che con la
medesima facilità aveva superato l'opposizione del pontefice, e che
senza intoppo alcuno entrava nel regno di Napoli, gli pareva ogni dí
tanto maggiore il suo pericolo quanto riusciva maggiore e piú facile
il corso della vittoria de' franzesi. Il medesimo timore cominciava
a occupare l'animo del senato viniziano; il quale, essendo
perseverato nella prima deliberazione di conservarsi neutrale, si
era con tanta circospezione astenuto non solo da i fatti ma da tutte
le dimostrazioni che lo potessino fare sospetto di maggiore
inclinazione all'una parte che all'altra che, avendo eletti
imbasciadori al re di Francia Antonio Loredano e Domenico Trivisano,
non però prima che quando intese che aveva passato i monti, aveva
tardato tanto a mandargli che 'l re prima di loro era arrivato in
Firenze. Ma vedendo poi l'impeto di tanta prosperità, e che il re
come un folgore, senza resistenza alcuna, per tutta Italia
discorreva, cominciò a riputare pericolo proprio il danno alieno e a
temere che alla ruina degli altri avesse a essere congiunta la sua;
e massime che l'avere Carlo occupata Pisa e l'altre fortezze de'
fiorentini, lasciata guardia in Siena e fatto poi il medesimo nello
stato della Chiesa, pareva segno pensasse piú oltre che solamente al
regno napoletano. Però prontamente prestò gli orecchi alle
persuasioni di Lodovico Sforza; il quale, subito che a Carlo
cederono i fiorentini, aveva cominciato a confortare che insieme con
lui rimediassino a' pericoli comuni. E si crede che se Carlo, o in
terra di Roma o nell'entrata del regno di Napoli, avesse riscontrato
in qualche difficoltà, arebbono prese l'armi congiuntamente contro a
lui. Ma la vittoria succeduta con tanta celerità prevenne tutte le
cose che si trattavano per impedirla. E già Carlo, insospettito
degli andamenti di Lodovico, avea, dopo l'acquisto di Napoli,
condotto Gian Iacopo da Triulzio con cento lancie e con onorata
provisione, e congiuntisi con molte promesse il cardinale Fregoso e
Obietto dal Fiesco; questi per instrumenti potenti a travagliare le
cose di Genova, quello per essere capo della parte guelfa in Milano
e avere l'animo alienissimo da Lodovico: al quale similmente
recusava di dare il principato di Taranto, allegando non essere
obligato se non quando avesse conquistato tutto il reame. Le quali
cose essendo molestissime a Lodovico, fece ritenere dodici galee che
per il re si armavano a Genova, e proibí che alcuni legni per lui
non vi si armassino; da che il re si lamentò essere proceduto che e'
non avesse tentato di nuovo con maggiore apparato di espugnare
Ischia.
Crescendo adunque da ogni parte continuamente i sospetti e gli
sdegni, e avendo l'acquisto tanto súbito di Napoli rappresentato al
senato viniziano e al duca di Milano il pericolo maggiore e piú
propinquo, furono necessitati a non differire di mettere in
esecuzione i loro pensieri: alla quale deliberazione gli faceva
procedere con maggiore animo la compagnia potente che avevano;
perché al medesimo non era manco pronto il pontefice, impaurito
sopramodo de' franzesi; né manco pronto Massimiliano Cesare, al
quale, per molte cagioni che aveva di inimicizia con la corona di
Francia e per le ingiurie gravissime ricevute da Carlo, furono in
ogni tempo piú che a tutti gli altri molestissime le prosperità
franzesi. Ma quegli ne' quali i viniziani e Lodovico maggiore e piú
fermo fondamento facevano erano Ferdinando e Isabella re e reina di
Spagna; i quali essendosi poco innanzi, non per altro effetto che
per riavere da lui la contea di Rossiglione, obligati a Carlo a non
gli impedire l'acquisto di Napoli, s'avevano astutamente insino ad
allora lasciata libera la facoltà di fare il contrario: perché (se è
vero quel che essi publicorono) fu apposta ne' capitoli fatti per
quella restituzione una clausula di non essere tenuti a cosa alcuna
che il pregiudicio della Chiesa concernesse; con la quale eccezione
inferivano che se 'l pontefice, per l'interesse del suo feudo, gli
ricercasse ad aiutare il regno di Napoli, era in potestà loro il
farlo senza contravenire alla fede data e alle promesse. Aggiunsono
poi che, per i medesimi capitoli, era proibito loro l'opporsi a
Carlo in caso constasse quel reame appartenersi a lui
giuridicamente. Ma quale sia di queste cose la verità, certo è che
subito che ebbono recuperate quelle terre non solo cominciorno a
dare speranza agli Aragonesi di aiutargli, e a fare occultamente
instanza col pontefice che non abbandonasse la causa loro, ma avendo
nel principio confortato il re di Francia, con moderate parole e
come amatori della gloria sua e mossi dal zelo della religione, a
voltare piú tosto l'armi contro agl'infedeli che contro a'
cristiani, continuavano nel confortarlo al medesimo, ma con maggiore
efficacia e con parole piú sospette quanto piú procedeva innanzi
quella espedizione: le quali perché avessino piú autorità, e per
nutrire con maggiore speranza il pontefice e gli Aragonesi, e
nondimeno da altra parte spargendo fama di pensare solamente alla
custodia della Sicilia, preparavano di mandarvi per mare una armata,
che vi arrivò dopo la perdita di Napoli; benché con apparato,
secondo il costume loro, maggiore nelle dimostrazioni che negli
effetti, perché non condusse piú che ottocento giannettari e mille
fanti spagnuoli. Con queste simulazioni erano proceduti insino a
tanto che l'avere i Colonnesi occupata Ostia, e le minaccie che dal
re di Francia si facevano contro al pontefice, dettono loro piú
onesta occasione di mandare fuora quel che aveano conceputo
nell'animo: la quale abbracciando prontamente, feciono da Antonio
Fonsecca loro imbasciadore protestare apertamente al re, quando era
in Firenze, che secondo l'ufficio di príncipi cristiani
piglierebbono la difensione del pontefice e del regno napoletano,
feudo della Chiesa romana; e già avendo cominciato a trattare co'
viniziani e col duca di Milano di collegarsi, intesa che ebbono la
fuga degli Aragonesi, gli sollecitavano con grandissima instanza a
intendersi con loro, per la sicurtà comune, contro a' franzesi. Però
finalmente, del mese di aprile, nella città di Vinegia, dove erano
gli imbasciadori di tutti questi príncipi, fu contratta
confederazione tra il pontefice il re de' romani i re di Spagna i
viniziani e il duca di Milano; il titolo e la publicazione della
quale fu solamente a difesa degli stati uno dell'altro, riserbando
luogo a chiunque volesse entrarvi con le condizioni convenienti. Ma
giudicando tutti necessario di operare che 'l re di Francia non
tenesse il reame di Napoli, fu ne' capitoli piú secreti convenuto:
che le genti spagnuole venute in Sicilia aiutassino Ferdinando di
Aragona alla recuperazione di quel reame, il quale con speranza
grande della volontà de' popoli trattava di entrare nella Calavria,
e che i viniziani nel tempo medesimo assaltassino con l'armata loro
i luoghi marittimi; sforzassesi il duca di Milano, per impedire se
di Francia venisse nuovo soccorso, di occupare la città di Asti,
nella quale con piccole forze era rimasto il duca di Orliens; e che
a' re de' romani e di Spagna fusse data dagli altri confederati
certa quantità di danari, acciocché ciascuno di loro rompesse con
potente esercito la guerra nel regno di Francia.
Desiderorno oltre a queste cose i confederati che tutta Italia fusse
unita in una medesima volontà, e perciò feceno instanza che i
fiorentini e il duca di Ferrara entrassino nella medesima
confederazione. Ricusò il duca, richiestone innanzi che la lega si
publicasse, di pigliare l'armi contro al re; e da altra parte, con
cautela italiana, consentí che don Alfonso suo primogenito si
conducesse col duca di Milano con cento cinquanta uomini d'arme, con
titolo di luogotenente delle sue genti. Diversa era la causa de'
fiorentini, invitati alla confederazione con offerte grandi, e che
aveano giustissime cagioni di alienarsi dal re: perché, publicata
che fu la lega, Lodovico Sforza offerse loro in nome di tutti i
confederati, in caso vi entrassino, tutte le forze loro per
resistere al re, se ritornando da Napoli tentasse di offendergli, e
di aiutargli come prima si potesse alla recuperazione di Pisa e di
Livorno; e da altra parte il re, disprezzate le promesse fatte in
Firenze, né da principio gli aveva reintegrati nella possessione
delle terre né dopo l'acquisto di Napoli restituite le fortezze,
posponendo la fede propria e il giuramento al consiglio di coloro
che, favorendo la causa de' pisani, persuadevano che i fiorentini,
subito che ne fussino reintegrati, si unirebbono con gli altri
italiani; a' quali si opponeva freddamente il cardinale di San Malò,
benché avesse ricevuti molti danari, per non venire per causa loro
in controversia con gli altri grandi. Né solo in questa ma in molte
altre cose aveva dimostrato il re non tenere conto né della fede né
di quello che gli potesse, in tempo tale, importare l'aderenza de'
fiorentini; in modo che, querelandosi gli oratori loro della
ribellione di Montepulciano, e facendo instanza che, come era
tenuto, costrignesse i sanesi a restituirlo, rispose, quasi
deridendo: - Che poss'io fare se i sudditi vostri per essere male
trattati si ribellano? E nondimeno i fiorentini, non si lasciando
traportare dallo sdegno contro alla propria utilità, deliberorno di
non udire le richieste de' collegati; sí per non provocare di nuovo
contro a sé, nel ritorno del re, l'armi franzesi, come perché
potevano sperare piú la restituzione di quelle terre da chi l'aveva
in mano; e perché confidavano poco in queste promesse, sapendo di
essere esosi a' viniziani per l'opposizioni fatte in diversi tempi
alle imprese loro, e conoscendosi manifestamente che Lodovico Sforza
v'aspirava per sé.
Nel quale tempo era già la riputazione de' franzesi cominciata a
diminuire molto nel regno di Napoli, perché occupati da' piaceri, e
governandosi a caso, non avevano atteso a cacciare gli aragonesi di
quegli pochi luoghi che si tenevano per loro, come, se avessino
seguitato il favore della fortuna, sarebbe succeduto facilmente. Ma
molto piú era diminuita la grazia: perché se bene a' popoli il re
molto liberale e benigno dimostrato si fusse, concedendo per tutto
il reame tanti privilegi ed esenzioni che ascendevano ciascuno anno
a piú di dugentomila ducati, nondimeno non erano state l'altre cose
indirizzate con quell'ordine e prudenza che si doveva; perché egli,
alieno dalle fatiche e dall'udire le querele e i desideri degli
uomini, lasciava totalmente il peso delle faccende a' suoi, i quali,
parte per incapacità parte per avarizia, confusono tutte le cose:
perché la nobiltà non fu raccolta né con umanità né con premi,
difficoltà grandissima a entrare nelle camere e udienze del re, non
fatta distinzione da uomo a uomo, non riconosciuti se non a caso i
meriti delle persone, non confermati gli animi di coloro che
naturalmente erano alieni dalla casa d'Aragona, interposte molte
difficoltà e lunghezze alla restituzione degli stati e de' beni
della fazione angioina e degli altri baroni che erano stati
scacciati da Ferdinando vecchio, fatte le grazie e i favori a chi
gli procurava con doni e con mezzi straordinari, a molti tolto senza
ragione a molti dato senza cagione, distribuiti quasi tutti gli
uffici e i beni di molti ne' franzesi, donate con grandissimo
dispiacere loro quasi tutte le terre di dominio (cosí chiamano
quelle che sono solite a ubbidire immediatamente a' re), e la
maggiore parte a' franzesi; cose tanto piú moleste a' sudditi quanto
piú erano assuefatti a' governi prudenti e ordinati de' re
aragonesi, e quanto piú del nuovo re promesso s'aveano. Aggiugnevasi
il fasto naturale de' franzesi, accresciuto per la facilità della
vittoria, per la quale tanto di se stessi conceputo aveano che
teneano tutti gl'italiani in niuna estimazione; la insolenza e
impeto loro nell'alloggiare, non manco in Napoli che nell'altre
parti del regno dove erano distribuite le genti d'arme, le quali per
tutto facevano pessimi trattamenti: in modo che l'ardente desiderio
che avevano avuto gli uomini di loro era già convertito in ardente
odio; e per contrario, in luogo dell'odio contro agli Aragonesi era
sottentrata la compassione di Ferdinando, l'espettazione avutasi
sempre generalmente della sua virtú, la memoria di quel dí che con
tanta mansuetudine e costanza avea, innanzi si partisse, parlato a'
napoletani. Donde e quella città e quasi tutto il reame non con
minore desiderio aspettavano occasione di potere richiamare gli
Aragonesi che pochissimi mesi innanzi avessino desiderato la loro
distruzione. Anzi già cominciava a essere grato il nome tanto odioso
d'Alfonso, chiamando giusta severità quella che, insino quando
vivente il padre attendeva alle cose domestiche del regno, solevano
chiamare crudeltà, e sincerità d'animo veridico quella che molt'anni
avevano chiamata superbia e alterezza. Tale è la natura de' popoli,
inclinata a sperare piú di quel che si debbe e a tollerare manco di
quel ch'è necessario, e ad avere sempre in fastidio le cose
presenti; e specialmente degli abitatori del regno di Napoli, i
quali tra tutti i popoli d'Italia sono notati di instabilità e di
cupidità di cose nuove.
Lib.2, cap.5
Deliberazioni di Carlo VIII per la confederazione degli stati
italiani. Carlo prima della partenza da Napoli distribuisce le
cariche e gli uffici. Ardore del re e della corte di ritornare in
Francia. Trattative fra Carlo e il pontefice per l'investitura del
regno di Napoli. Carlo dopo aver assunto il titolo e le insegne
reali parte da Napoli. Gli Orsini chiedono invano d'esser lasciati
in libertà. Il pontefice per evitare d'incontrarsi con Carlo si reca
a Orvieto e, quindi, a Perugia. Nuovi tentativi de' fiorentini di
riavere le fortezze. Carlo prende, ma per breve tempo, in protezione
Siena.
Aveva il re, insino innanzi si facesse la nuova lega, quasi
stabilito di ritornarsene presto in Francia; mosso piú da leggiera
cupidità e dal desiderio ardente di tutta la corte che da prudente
considerazione, perché nel reame restavano indecise innumerabili e
importanti faccende di príncipi e di stati, né avea la vittoria
avuta perfezione, non essendo conquistato tutto il regno. Ma inteso
che ebbe essere fatta contro a sé confederazione di tanti príncipi,
commosso molto di animo, consultava co' suoi quel che in tanto
accidente fusse da fare; affermandosi verissimamente per ciascuno
essere già molte età che tra i cristiani non si era fatta unione
tanto potente. Per consiglio de' quali fu principalmente deliberato
che si accelerasse la partita, dubitando che quanto piú si
soprastava tanto piú si accrescessino le difficoltà, perché si
darebbe tempo a' collegati di fare preparazioni maggiori (e già era
fama che per ordine loro passerebbe in Italia numero grande di
tedeschi, e si cominciava a vociferare della persona di Cesare); che
'l re provedesse che di Francia passassino con prestezza in Asti
nuove genti, per conservare quella città e per necessitare il duca
di Milano ad attendere a difendere le cose proprie, e perché fussino
pronte a passare piú innanzi quando il re giudicasse che cosí fusse
necessario. E fu nel medesimo consiglio deliberato di affaticarsi
con ogni diligenza e con offerte grandissime per separare il
pontefice dagli altri collegati, e per disporlo a concedere [a
Carlo] la investitura del regno di Napoli; la quale benché a Roma
avesse convenuto di concedere assolutamente, avea insino a quel dí
ricusato di concedere, eziandio con dichiarazione che per questa
concessione non si facesse pregiudicio alle ragioni degli altri. Né
in tanto grave deliberazione, e tra sí importanti pensieri, cadde la
memoria delle cose di Pisa; perché desiderando, per molti rispetti,
che in potestà sua fusse il disporne, e dubitando che dal popolo
pisano non gli fusse con l'aiuto de' collegati tolta la cittadella,
vi mandò per mare, insieme con gli imbasciadori pisani che erano
appresso a lui, seicento fanti di quegli del regno suo. I quali,
come arrivorono in Pisa, presa la medesima affezione che avevano
presa gli altri lasciati in quella città, e mossi da cupidità di
rubare, andorono con le genti de' pisani, da' quali ebbono danari, a
campo al castello di Librafatta; dove i pisani, de' quali era
capitano Lucio Malvezzo, essendosi accampati non molti dí prima,
preso animo per avere i fiorentini mandata una parte delle genti
verso Montepulciano, inteso dipoi approssimarsi gl'inimici si erano
levati innanzi dí: ma ritornativi di nuovo con questo presidio
franzese l'espugnorono in pochi dí; essendo stato l'esercito
fiorentino, il quale ritornava per soccorrerla, impedito dalla
grossezza dell'acque a passare il fiume del Serchio, né avendo avuto
ardire di pigliare il cammino allato alle mura di Lucca, per la
disposizione del popolo lucchese, concitato molto in favore della
libertà de' pisani. Con le genti de' quali, dopo l'acquisto di
Librafatta, scorsono i franzesi, che si riserborono Librafatta, per
tutto il contado di Pisa, come inimici manifesti de' fiorentini; a'
quali, quando si querelavano, non rispondeva altro Carlo se non che,
come fusse arrivato in Toscana, osserverebbe loro le cose promesse,
confortandogli che questa breve dilazione senza molestia
tollerassino.
Ma non era a Carlo sí facile la deliberazione del partirsi com'era
pronto il desiderio, perché non aveva tanto esercito che, diviso in
due parti, potesse senza pericolo contro alla opposizione de'
confederati condurlo in Asti, e che fusse bastante a difendere, in
tanti movimenti che si preparavano, facilmente il regno di Napoli.
Nelle quali difficoltà fu costretto, e perché il regno non rimanesse
spogliato di difensori diminuire delle provisioni opportune alla sua
salute, e per non mettere se in pericolo sí manifesto non vi
lasciare quel potente presidio che sarebbe stato di bisogno. Però
deliberò lasciarvi la metà de' svizzeri e una parte de' fanti
franzesi, ottocento lancie franzesi, e circa a cinquecento uomini
d'arme italiani, condotti a' soldi suoi parte sotto il preletto di
Roma parte sotto Prospero e Fabrizio Colonna e Antonello Savello,
tutti capitani beneficati da lui nella distribuzione che fece di
quasi tutte le terre e stati del regno; e massimamente i Colonnesi,
perché a Fabrizio aveva conceduto i contadi d'Albi e di Tagliacozzo,
posseduti prima da Verginio Orsino, e a Prospero il ducato di
Traietto e la città di Fondi con molte castella, che erano della
famiglia Gaetana, e Montefortino con altre terre circostanti, tolte
alla famiglia de' Conti: con le quali genti pensava che in ogni
bisogno si unissino le forze di quegli baroni i quali, per la
sicurtà propria, erano necessitati di desiderare la sua grandezza, e
sopra tutti del principe di Salerno, restituito da lui all'ufficio
dell'ammiraglio, e del principe di Bisignano. Luogotenente generale
di tutto il regno diputò Giliberto di Mompensieri, capitano piú
stimato per la grandezza sua e per essere del sangue reale che per
proprio valore; e diputò oltre a lui vari capitani in molte parti
del regno, a' quali tutti aveva donato stati ed entrate: e di questi
furono i principali Obigní al governo della Calavria, fatto da lui
gran conestabile; a Gaeta il siniscalco di Belcari, al quale aveva
dato l'ufficio del gran camarlingo; nell'Abruzzi Graziano di Guerra,
valoroso e riputato capitano. A queste genti promesse di mandare
danari e presto soccorso, ma non lasciò altra provisione che
l'assegnamento di quegli che giornalmente si riscotessino
dell'entrate del regno. Il quale già vacillava, cominciando a
risorgere in molti luoghi il nome aragonese: perché Ferdinando era,
ne' dí medesimi che 'l re voleva partire da Napoli, smontato in
Calavria, accompagnato dagli spagnuoli venuti in sull'armata
nell'isola di Sicilia; a cui concorseno subito molti degli uomini
del paese, e se gli arrendé incontinente la città di Reggio, la
fortezza della quale si era sempre tenuta in nome suo; e nel tempo
medesimo si scoperse ne' liti di Puglia l'armata viniziana, della
quale era capitano Antonio Grimanno, uomo in quella republica di
grande autorità. Ma non per questo, né per molti altri segni
dell'alterazione futura, si rimosse o pure si ritardò in parte
alcuna la deliberazione del partirsi; perché, oltre a quello a che
gli persuadeva forse la necessità, era incredibile l'ardore che il
re e tutta la corte avevano di ritornarsene in Francia: come se il
caso che era stato bastante a fare acquistare tanta vittoria fusse
bastante a farla conservare. Nel quale tempo si tenevano per
Ferdinando l'isola d'Ischia e l'isole di Lipari, membro, benché
propinque alla Sicilia, del regno di Napoli, Reggio recuperato
nuovamente; e nella medesima Calavria, Terranuova e la fortezza, con
alcun'altre fortezze e luoghi circostanti; Brindisi, dove si era
fermato don Federigo, Galipoli, la Mantia e la Turpia.
Ma innanzi che 'l re partisse si trattorono tra il pontefice e lui
varie cose, non senza speranza di concordia; per le quali andò dal
pontefice al re, e dipoi ritornò a Roma, il cardinale di San
Dionigi, e dal re a lui Franzi monsignore: perché il re desiderava
sommamente la investitura del regno di Napoli; desiderava che il
pontefice, se non voleva essere congiunto seco, almeno non aderisse
cogli inimici suoi, e che si contentasse di riceverlo in Roma come
amico. Alle quali cose benché il pontefice da principio prestasse
orecchi, nondimeno, avendo l'animo alieno da confidarsi di lui, e
perciò non volendo separarsi da' collegati, né concedergli la
investitura, non la reputando mezzo sufficiente a fare fedele
reconciliazione, interponeva all'altre dimande varie difficoltà; e a
quella della investitura, benché il re si riducesse ad accettarla
senza pregiudicio delle ragioni d'altri, rispondeva volere che prima
si vedesse giuridicamente a chi di ragione apparteneva: e da altra
parte, desiderando di proibire con l'armi che 'l re non entrasse in
Roma, ricercò il senato viniziano e il duca di Milano che gli
mandassino aiuto; i quali gli mandorono mille cavalli leggieri e
dumila fanti, e promessono mandargli mille uomini d'arme; con le
quali genti aggiunte alle forze sue sperava potere resistere. Ma,
parendo poi loro troppo pericoloso il discostare tanto le genti
dagli stati propri, né avendo ancora in ordine tutto l'esercito
disegnato, ed essendo parte delle genti occupate alla impresa di
Asti, e riducendosi oltre a ciò in memoria la infedeltà del
pontefice, e l'avere, quando passò Carlo, chiamato in Roma con
l'esercito Ferdinando e poi fattolo partire, mutato consiglio,
cominciorono a persuadergli che piú tosto si riducesse in luogo
sicuro che, per sforzarsi di difendere Roma, esporre la sua persona
a sí grave pericolo; atteso che quando bene il re entrasse in Roma
se ne partirebbe subito, senza lasciarvi gente alcuna. Le quali cose
accrebbono la speranza del re di potere venire seco a qualche
composizione.
Partí adunque il re da Napoli il vigesimo dí di maggio; ma perché
prima non aveva assunto con le cerimonie consuete il titolo e le
insegne reali, pochi dí innanzi si partisse ricevé solennemente
nella chiesa catedrale, con grandissima pompa e celebrità secondo il
costume de' re napoletani, le insegne reali, e gli onori e i
giuramenti consueti prestarsi a' nuovi re; orando in nome del popolo
di Napoli Giovanni Ioviano Pontano. Alle laudi del quale, molto
chiarissime per eccellenza di dottrina e di azioni civili e di
costumi, détte quest'atto non piccola nota; perché essendo stato
lungamente segretario de' re aragonesi e appresso a loro in
grandissima autorità, precettore ancora nelle lettere e maestro
d'Alfonso, parve che, o per servare le parti proprie degli oratori o
per farsi piú grato a' franzesi, si distendesse troppo nella
vituperazione di quegli re, da' quali era sí grandemente stato
esaltato: tanto è qualche volta difficile osservare in se stesso
quella moderazione e quegli precetti co' quali egli, ripieno di
tanta erudizione, scrivendo delle virtú morali, e facendosi, per
l'universalità dello ingegno suo in ogni specie di dottrina,
maraviglioso a ciascuno, aveva ammaestrato tutti gli uomini.
Andorono con Carlo ottocento lancie franzesi e dugento gentil'uomini
della sua guardia, il Triulzio con cento lancie tremila fanti
svizzeri mille franzesi e mille guasconi; e con ordine che in
Toscana seco si unissino Cammillo Vitelli e i fratelli con dugento
cinquanta uomini d'arme, e che l'armata di mare se ne ritornasse
verso Livorno.
Seguitorono il re, non con altra guardia che data la fede di non
partirsi senza licenza, Verginio Orsino e il conte di Pitigliano. La
causa de' quali, perché si querelavano non essere stati fatti
giustamente prigioni, era stata prima commessa al consiglio reale;
innanzi al quale avevano allegato che al tempo che s'arrenderono era
già stato agli uomini mandati da loro non solo conceduto per la
bocca propria del re il salvocondotto, ma eziandio ridotto in
scrittura e sottoscritto dalla sua mano; e che avendone ricevuto
avviso da' suoi che aspettavano l'espedizione de' secretari,
avevano, sotto questa fidanza, al primo araldo che andò a Nola,
alzato le bandiere del re, e al primo capitano, il quale aveva seco
pochissimi cavalli, consegnato le chiavi: non ostante che, avendo
con loro piú di quattrocento uomini d'arme, avessino facilmente
potuto resistere. Raccontavano l'antica divozione della famiglia
degli Orsini, la quale avendo sempre tenuta la parte guelfa, aveano,
e loro e chiunque era mai nato o nascerebbe di quella casa, scolpito
nel cuore il nome e il segno della corona di Francia. Da questo
essere proceduto l'avere con tanta prontezza ricevuto il re negli
stati loro di terra di Roma. E perciò non convenire né essere
giusto, né attesa la fede data dal re né attese l'opere loro, che e'
fussino ritenuti prigioni. Ma non meno prontamente si rispondeva per
la parte di Ligní, dalle cui genti erano stati presi a Nola: il
salvocondotto, benché deliberato e sottoscritto dal re, non
intendersi perfettamente conceduto insino a tanto non fusse
corroborato col sigillo regio e con le soscrizioni de' secretari, e
dipoi consegnato alla parte. Questo essere in tutte le concessioni e
patenti il costume antichissimo di tutte le corti, acciocché si
potesse moderare quel che dalla bocca del principe, o per la
moltiplicità de' pensieri e delle faccende o per non essere stato
informato pienamente delle cose, inconsideratamente fusse caduto. Né
avere questa fidanza mosso gli Orsini ad arrendersi a sí piccolo
numero di gente ma la necessità e il timore, perché non rimaneva
loro facoltà né di difendersi né di fuggirsi, essendo già tutto 'l
paese circostante occupato dall'armi de' vincitori; ed essere falso
quel che aveano allegato de' meriti loro, i quali quando fussino
affermati da altri doverebbono essi medesimi per l'onore proprio
negare, perché era manifestissimo a tutto il mondo che, non per
volontà ma per fuggire il pericolo, partendosi nell'avversità dagli
Aragonesi da' quali nelle prosperità aveano ricevuti grandissimi
benefici, apersono al re le terre loro. Dunque, essendo agli
stipendi degli inimici e di animo alienissimo dal nome franzese, né
avendo ricevuta perfettamente sicurtà alcuna, essere stati per
giusta ragione di guerra fatti prigioni. Queste cose si dicevano
contro agli Orsini, le quali essendo sostentate dalla potenza di
Ligní e dall'autorità de' Colonnesi, i quali per l'antiche
emulazioni e diversità delle fazioni apertamente gli impugnavano,
non era stata mai data sentenza ma deliberato che seguitassino il
re: benché data speranza di liberargli, come fusse arrivato in Asti.
Ma il pontefice, benché per l'averlo i collegati confortato a
partirsi, non fusse stato senza inclinazione di riconciliarsi con
Carlo, col quale continuamente trattava, nondimeno, prevalendo
finalmente il sospetto conceputo di lui, con tutto che al re avesse
dato qualche speranza di aspettarvelo, due dí innanzi che egli
entrasse in Roma, accompagnato dal collegio de' cardinali e da
dugento uomini d'arme mille cavalli leggieri e tremila fanti, e
messo sufficiente presidio in Castel Santo Angelo se ne andò a
Orvieto; lasciato legato in Roma il cardinale di Santa Anastasia a
ricevere e onorare il re; il quale, entrato per Trastevere per
sfuggire Castel Santo Angelo, andò ad alloggiare nel borgo,
rifiutato l'alloggiamento offertogli per commissione del pontefice
nel palagio di Vaticano. Da Orvieto il pontefice, come intese il re
approssimarsi a Viterbo, benché gli avesse di nuovo data speranza di
convenire seco in qualche luogo comodo tra Viterbo e Orvieto, se ne
andò a Perugia, con intenzione, se Carlo si dirizzava a quel
cammino, di andare ad Ancona, per potere con la comodità del mare
ridursi in luogo totalmente sicuro. E nondimeno il re, benché
sdegnato molto con lui, rilasciò le fortezze di Civitavecchia e di
Terracina, riserbandosi Ostia, la quale, alla partita sua d'Italia,
lasciò in potestà del cardinale di San Piero a Vincola vescovo
ostiense: passò medesimamente per il paese della Chiesa come per
paese amico; eccetto che l'antiguardia, ricusando gli uomini di
Toscanella di alloggiarla nella terra, entratavi dentro per forza,
la messe a sacco con uccisione di molti.
Dimorò poi il re, senza alcuna cagione, sei giorni in Siena, non
considerando, né per se stesso né per essergli instantemente
ricordato dal cardinale di San Piero in Vincola e dal Triulzio,
quanto fusse pernicioso il dare tanto tempo agli inimici di
provedersi, e di unire le forze loro. Né ricompensò perciò la
perdita del tempo con l'utilità delle deliberazioni. Perché in Siena
si trattò la restituzione delle fortezze de' fiorentini, dal re alla
partita sua di Napoli efficacemente promessa, e poi nel cammino piú
volte confermata; per la quale i fiorentini, oltre a essere parati a
pagargli trentamila ducati che restavano della somma convenuta in
Firenze, offerivano di prestargliene settantamila, e mandare seco
insino in Asti Francesco Secco loro condottiere con trecento uomini
d'arme e dumila fanti: in modo che la necessità che aveva il re di
danari, l'essergli molto utile l'augumentare l'esercito suo, il
rispetto della fede e del giuramento reale, indusse quasi tutti
quegli del consiglio a confortare efficacemente la restituzione,
riservandosi Pietrasanta e Serezana, quasi come instrumento a
volgere alla divozione sua piú agevolmente l'animo de’ genovesi. Ma
era destinato che in Italia rimanesse accesa la materia di nuove
calamità. Ligní, giovane e inesperto, ma che era nato d'una sorella
della madre del re e molto favorito da lui, mosso o da leggierezza o
da sdegno che i fiorentini si fussino accostati al cardinale di San
Malò, impedí questa deliberazione, non allegando altra ragione che
la compassione de' pisani, e disprezzando gli aiuti de' fiorentini,
per essere (come diceva) l'esercito franzese potente a battere tutte
le genti di guerra italiane unite insieme; e a Ligní acconsentiva
monsignore di Pienes, perché sperava ch'il re gli concedesse il
dominio di Pisa e di Livorno.
Trattossi ancora in Siena del governo di quella città; perché molti
degli ordini del popolo e de' riformatori, per deprimere la potenza
dell'ordine del Monte de' nove, instavano che, introdotta una forma
nuova di governo, e levata la guardia tenuta dal Monte de' nove al
palagio publico, vi restasse una guardia di franzesi sotto la cura
di Ligní: la quale offerta benché nel consiglio regio, come cosa
poco durabile e impertinente al tempo presente, rifiutata fusse,
nondimeno Ligní, il quale vanamente disegnava di farsene signore,
ottenne che Carlo pigliasse in protezione con certi capitoli quella
città, obligandosi alla difesa di tutto lo stato possedevano;
eccetto che di Montepulciano, del quale disse non volere né per i
fiorentini né per i sanesi intromettersi; e la comunità di Siena,
con tutto che di questo non si facesse menzione nella capitolazione,
elesse, con consentimento di Carlo, Ligní per suo capitano,
promettendogli ventimila ducati per ciascun anno, con obligazione di
tenervi un luogotenente con trecento fanti per guardia della piazza:
che vi lasciò di quegli che erano con l'esercito franzese. La vanità
delle quali deliberazioni presto apparí, perché non molto dipoi
l'ordine de' nove, vendicatasi con l'armi la solita autorità, cacciò
di Siena la guardia, e licenziò monsignore di Lilla che Carlo
v'aveva lasciato per suo imbasciadore.
Lib.2, cap.6
I preparativi de' collegati contro i francesi. Intimazioni e minacce
di Lodovico Sforza al duca d'Orliens che si fortifica in Asti. Il
duca d'Orliens occupa Novara. Fazione di Vigevano.
Ma già le cose di Lombardia non mediocremente travagliavano; perché
da' viniziani e da Lodovico Sforza, il quale aveva ne' medesimi dí
ricevuto da Cesare con grandissima solennità i privilegi della
investitura del ducato di Milano, e prestato, agli imbasciadori che
gli aveano portati, publicamente l'omaggio e il giuramento della
fedeltà, si facevano grandissime provisioni per impedire a Carlo la
facoltà di ritornarsene in Francia, o almeno per assicurare il
ducato di Milano, per il quale egli aveva ad attraversare per tanto
spazio di paese: e a questo effetto, avendo ciascun di loro
riordinato le sue genti, avevano, parte a comune parte in proprio,
condotto di nuovo molti uomini d'arme, e dopo varie difficoltà
ottenuto che Giovanni Bentivogli, preso lo stipendio comune da loro,
aderisse alla lega, con la città di Bologna. Armava ancora a Genova
Lodovico, per sicurtà di quella città, dieci galee a spese sue
proprie, e quattro navi grosse a spese comuni del papa de' viniziani
e sue; e intanto, per eseguire quello che era obligato per i
capitoli della confederazione, alla espugnazione di Asti, aveva
mandato a soldare in Germania dumila fanti, e voltato a quella
espedizione Galeazzo da San Severino con settecento uomini d'arme e
tremila fanti: promettendosene con tanta speranza la vittoria che,
come era per natura molto insolente nelle prosperità, per schernire
il duca d'Orliens, mandò a ricercarlo che in futuro non usurpasse
piú il titolo di duca di Milano, il quale titolo avea dopo la morte
di Filippo Maria Visconte assunto Carlo suo padre; non permettesse
che nuove genti franzesi passassino in Italia; facesse ritornare
quelle che erano in Asti di là da' monti; e che per sicurtà
dell'osservanza di queste cose depositasse Asti in mano di Galeazzo
da San Severino, del quale il suo re poteva confidare non meno di
lui, avendo l'anno dinanzi in Francia ammessolo nella confraternita
e ordine suo di San Michele: magnificando, oltre a questo, con la
medesima iattanza le forze sue, le provisioni de' collegati per
opporsi al re in Italia, e gli apparati che faceano il re de' romani
e i re di Spagna per muovere la guerra di là da' monti. Ma poco
moveva Orliens la vanità di queste minaccie. Il quale, subito che
aveva avuto notizia trattarsi di fare la nuova confederazione, aveva
atteso a fortificare Asti, e con grande instanza sollecitato che di
Francia venissino nuove genti; le quali, essendo state dimandate dal
re che venissino in soccorso proprio, cominciavano con prestezza a
passare i monti: e perciò Orliens, non temendo degli inimici, uscito
alla campagna, prese nel marchesato di Saluzzo la terra e la rocca
di Gualfinara, posseduta da Antonio Maria da San Severino; donde
Galeazzo, che prima aveva prese alcune piccole castella, si ritirò
con l'esercito ad Anon, terra del ducato di Milano vicina ad Asti,
non avendo né speranza di potere offendere né timore di essere
offeso. Ma la natura di Lodovico, inclinatissima a implicarsi
prontamente in imprese che ricercavano grandissime spese, e per
contrario alienissima, benché nelle maggiori necessità, dallo
spendere, fu cagione di mettere lo stato suo in gravissimi pericoli;
perché per la scarsità de' pagamenti erano venuti pochissimi de'
fanti alamanni, e per la medesima strettezza le genti che erano con
Galeazzo ogni giorno diminuivano: e per contrario, sopravenendo
continuamente gli aiuti di Francia, i quali, per essere chiamati al
soccorso della persona del re, passavano con grande prontezza, il
duca d'Orliens aveva già insieme trecento lancie tremila fanti
svizzeri e tremila guasconi: e benché da Carlo gli fusse stato
precisamente comandato che, astenendosi da ogni impresa, stesse
preparato a potere, quando fusse chiamato, farsegli incontro,
nondimeno, come è difficile il resistere agli interessi propri,
deliberò di accettare l'occasione d'occupare la città di Novara,
nella quale offerivano di metterlo due Opizini Caza, l'uno
cognominato nero l'altro cognominato bianco, gentil'uomini di quella
città; a' quali era molto odioso il duca di Milano, perché a loro e
a molti altri novaresi aveva, con false calunnie e con giudici
ingiusti, usurpato certi condotti di acque e possessioni. Però
Orliens, composta la cosa con loro, accompagnato da Lodovico
marchese di Saluzzo, passato di notte il fiume del Po al ponte a
Stura, giurisdizione del marchese di Monferrato, fu con le sue genti
da' congiurati, senza alcuna resistenza, ricevuto in Novara, donde
avendo subito fatto scorrere parte delle sue genti insino a
Vigevano, si crede che se con tutto l'esercito fusse sollecitamente
andato verso Milano si sarebbono suscitati grandissimi movimenti:
perché, intesa la perdita di Novara, si veddono molto sollevati a
cose nuove gli animi de' milanesi; e Lodovico, non manco timido
nell'avversità che immoderato nelle prosperità (come quasi sempre è
congiunta in uno medesimo subietto la insolenza con la timidità),
dimostrava con inutili lagrime la sua viltà; né le genti che erano
con Galeazzo, nelle quali sole consisteva la sua difesa, restate
indietro, si dimostravano in luogo alcuno.
Ma non essendo sempre note a' capitani le condizioni e i disordini
degli inimici, si perdono spesso nelle guerre bellissime occasioni:
né anche pareva verisimile che contro a uno principe tanto potente
potesse succedere sí subita mutazione. Orliens, per stabilire
l'acquisto di Novara, si fermò all'espugnazione della rocca, la
quale il quinto dí convenne d'arrendersi se infra uno dí non fusse
soccorsa; per il quale intervallo di tempo ebbe spazio il
Sanseverino di ridursi con le sue genti in Vigevano, e il duca, che
per riconciliarsi gli animi de' popoli aveva, per bando publico,
levati molti dazi che prima aveva imposti, di accrescere l'esercito.
E nondimeno Orliens, accostatosi con le sue genti alle mura di
Vigevano, presentò la battaglia agli inimici; i quali erano in tanto
terrore che ebbono inclinazione d'abbandonare Vigevano, e passare il
fiume del Tesino per il ponte che v'avevano fatto in sulle barche.
Ma ritiratosi Orliens a Trecas, poi che essi recusavano di
combattere, cominciorono le cose di Lodovico Sforza a prosperare,
sopravenendo continuamente all'esercito suo cavalli e fanti, perché
i viniziani, contenti che a loro rimanesse quasi tutto il peso di
opporsi a Carlo, consentirono che Lodovico richiamasse parte delle
genti che avea mandate in parmigiano, e gli mandorono oltre a ciò
quattrocento stradiotti; talmente che a Orliens fu tolta la facoltà
di passare piú innanzi, e avendo fatto correre di nuovo cinquecento
cavalli insino a Vigevano, uscendo fuora ad assaltargli i cavalli
degli inimici, riceverono quegli di Orliens grave danno. Andò dipoi
il Sanseverino, già superiore di forze, a presentargli la battaglia
a Trecas; e ultimamente, raccolto tutto l'esercito, nel quale oltre
a soldati italiani erano arrivati mille cavalli e dumila fanti
tedeschi, alloggiò appresso a un miglio a Novara, ove Orliens si era
con tutte le genti ritirato.
Lib.2, cap.7
A Poggibonsi Gerolamo Savonarola incita inutilmente Carlo VIII a
restituire le terre ai fiorentini. Contrastanti promesse del re ai
pisani ed ai fiorentini. Carlo manda parte delle truppe contro
Genova. Saccheggio di Pontremoli.
La nuova della ribellione di Novara sollecitò Carlo, che era a
Siena, ad accelerare il cammino; e perciò, per fuggire qualunque
occasione che lo potesse ritardare, avendo notizia che i fiorentini,
ammuniti da' pericoli passati e insospettiti perché Piero de' Medici
lo seguitava, benché ordinassino di riceverlo in Firenze con
grandissimi onori, empievano per sicurtà loro la città d'armi e di
genti, passò a Pisa per il dominio fiorentino, lasciata la città di
Firenze alla mano destra. Al quale si fece incontro, nella terra di
Poggibonzi, Ieronimo Savonarola, e interponendo, come era solito,
nelle parole sue l'autorità e il nome divino, lo confortò con
grandissima efficacia a restituire le terre a' fiorentini;
aggiugnendo alle persuasioni gravissime minaccie, che se e' non
osservava quel che con tanta solennità, toccando con mano gli
evangeli e quasi innanzi agli occhi di Dio, avea giurato, sarebbe
presto punito da Dio rigidamente. Fecegli il re, secondo la sua
incostanza, quivi, e il dí seguente in Castelfiorentino, varie
risposte: ora promettendo di restituirle come fusse arrivato in
Pisa, ora allegando in contrario della fede data, perché affermava
di avere, innanzi al giuramento prestato in Firenze, promesso a'
pisani di conservargli in libertà; e nondimeno dando continuamente
agli oratori de' fiorentini speranza della restituzione, come a Pisa
fusse arrivato. In Pisa fu di nuovo questa materia proposta nel
consiglio reale; perché accrescendosi ogni dí piú la fama degli
apparati e dell'unirsi appresso a Parma le forze de' collegati, si
cominciavano pure a considerare le difficoltà del passare per
Lombardia, e però erano desiderati da molti i danari e gli aiuti
offerti da' fiorentini. Ma a questa deliberazione furono contrari i
medesimi che in Siena l'avevano contradetta, allegando che, se pure
avessino, per l'opposizione degli inimici, qualche disordine o
qualche difficoltà di passare per Lombardia, era meglio d'avere in
sua potestà quella città, dove potrebbono ritirarsi, che lasciarla
in mano de' fiorentini; i quali, come avessino ricuperate quelle
terre, non sarebbono di maggiore fede che fussino stati gli altri
italiani: soggiugnendo che, per la sicurtà del reame di Napoli, era
molto opportuno il tenere il porto di Livorno; perché succedendo al
re il disegno di mutare lo stato di Genova, come era da sperare,
sarebbe padrone di quasi tutte le marine, dal porto di Marsilia
insino al porto di Napoli. Potevano certamente nell'animo del re,
poco capace di eleggere la piú sana parte, qualche cosa queste
ragioni: ma molto piú potenti furono i prieghi e le lagrime de'
pisani, i quali popolarmente, insieme con le donne e co' piccoli
fanciulli, ora prostrati innanzi a' suoi piedi ora raccomandandosi a
ciascuno, benché minimo, della corte e de' soldati, con pianti
grandissimi e con urla miserabili deploravano le loro future
calamità, l'odio insaziabile de' fiorentini, la desolazione ultima
di quella patria, la quale non arebbe causa di lamentarsi d'altro
che d'avergli il re conceduta la libertà e promesso di
conservargliene; perché questo, credendo essi la parola del re
cristianissimo di Francia essere parola ferma e stabile, aveva dato
loro animo di provocarsi tanto piú l'inimicizia de' fiorentini. Co'
quali pianti ed esclamazioni commossono talmente insino a' privati
uomini d'arme, insino agli arcieri dell'esercito e molti ancora de'
svizzeri, che andati in grandissimo numero e con tumulto grande
innanzi al re, parlando in nome di tutti Salazart uno de' suoi
pensionari, lo pregorono ardentemente che, per l'onore della persona
sua propria, per la gloria della corona di Francia, per consolazione
di tanti suoi servidori parati a mettere a ogn'ora la vita per lui,
e che lo consigliavano con maggiore fede che quegli che erano
corrotti da' danari de' fiorentini, non togliesse a' pisani il
beneficio che egli stesso aveva loro fatto; offerendogli che, se per
bisogno di danari si conduceva a deliberazione di tanta infamia,
pigliasse piú presto le collane e argenti loro, e ritenesse i soldi
e le pensioni che ricevevano da lui. E procedette tanto oltre questo
impeto de' soldati che uno arciere privato ebbe ardire di minacciare
il cardinale di San Malò, e alcuni altri dissono altiere parole al
marisciallo di Gies e al presidente di Gannai, i quali era noto che
consigliavano questa restituzione: in modo che 'l re, confuso da
tanta varietà de' suoi, lasciò la cosa sospesa, tanto lontano da
alcuna certa resoluzione che, in questo tempo medesimo, promettesse
di nuovo a' pisani di non gli rimettere giammai in potestà de'
fiorentini e agli oratori fiorentini, che aspettavano a Lucca,
facesse intendere che quello che per giuste cagioni non faceva al
presente farebbe subito che e' fusse arrivato in Asti; e però non
mancassino di fare che la loro republica gli mandasse in quel luogo
imbasciadori.
Partí da Pisa, mutato il castellano e lasciata la guardia necessaria
nella cittadella, e il medesimo fece nelle fortezze dell'altre
terre. Ed essendo acceso per se stesso da incredibile cupidità
all'acquisto di Genova, e stimolato da' cardinali San Piero a
Vincola e Fregoso e da Obietto del Fiesco e dagli altri fuorusciti,
i quali gli davano speranza di facile mutazione, mandò da Serezana
con loro a quella impresa, contra 'l parere di tutto il consiglio,
che biasimava il diminuire le forze dell'esercito, Filippo
monsignore con cento venti lancie e con cinquecento fanti, che
nuovamente per mare erano venuti di Francia; e con ordine che le
genti d'arme de' Vitelli, che per essere rimaste indietro non
potevano essere a tempo a unirsi seco, gli seguitassino, e che
alcuni altri fuorusciti con genti date dal duca di Savoia entrassino
nella riviera di ponente, e che l'armata di mare, ridotta a sette
galee due galeoni e due fuste, della quale era capitano Miolans,
andasse a fare spalle alle genti di terra. Era intanto
l'avanguardia, guidata dal marisciallo di Gies, arrivata a
Pontriemoli; la qual terra, licenziati trecento fanti forestieri che
vi erano a guardia, si arrendé subito per i conforti del Triulzio,
con patto di non ricevere offesa né nelle persone né nella roba: ma
vana fu la fede data da' capitani, perché i svizzeri, entrativi
impetuosamente dentro, per vendicarsi che quando l'esercito passò
nella Lunigiana vi erano stati, per certa quistione nata a caso,
uccisi dagli uomini di Pontriemoli circa quaranta di loro,
saccheggiorono e abbruciorono la terra, ammazzati crudelmente tutti
gli abitatori.
Lib.2, cap.8
L'esercito francese e quello dei collegati di fronte, a Fornovo.
Dubbi e dispareri nell'esercito de' collegati. Incertezze in quello
di Carlo.
Nel qual tempo si raccoglieva sollecitamente nel territorio di Parma
l'esercito de' collegati, in numero di dumila cinquecento uomini
d'arme ottomila fanti e piú di dumila cavalli leggieri, la maggiore
parte albanesi e delle provincie circostanti di Grecia; i quali,
condotti in Italia da' viniziani, ritenendo il nome medesimo che
hanno nella patria, sono chiamati stradiotti. Del quale esercito il
nervo principale erano le genti de' viniziani, perché quelle del
duca di Milano, avendo egli voltate quasi tutte le sue forze a
Novara, non ascendevano alla quarta parte di tutto l'esercito. Alle
genti venete, tra le quali militavano molti condottieri di chiaro
nome, era preposto sotto titolo di governatore generale Francesco da
Gonzaga, marchese di Mantua, molto giovane, nel quale, per essere
stimato animoso e cupido di gloria, la espettazione superava l'età;
e con lui proveditori due de' principali del senato, Luca Pisano e
Marchionne Trivisano. I soldati sforzeschi comandava, sotto il
medesimo titolo di governatore, il conte di Gaiazzo, confidato molto
al duca ma che, non pareggiando nell'armi la gloria di Ruberto da
Sanseverino suo padre, aveva acquistato nome piú di capitano cauto
che di ardito; e con lui commissario Francesco Bernardino Visconte,
principale della parte ghibellina in Milano, e perciò opposito a
Gianiacopo da Triulzi. Tra' quali capitani e altri principali
dell'esercito consultandosi se e' fusse da andare ad alloggiare a
Fornuovo, villa di poche case alle radici della montagna, fu
deliberato, per la strettezza del luogo, e forse (secondo
divulgorono) per dare facoltà agli inimici di scendere alla pianura,
di alloggiare alla badia della Ghiaruola, distante da Fornuovo tre
miglia: la quale deliberazione dette luogo di alloggiare a Fornuovo
all'avanguardia franzese, che avea passata la montagna molto innanzi
al resto dell'esercito, ritardato per lo impedimento
dell'artiglieria grossa, la quale con grandissima difficoltà si
conduceva per quella montagna aspra dello Apennino; e sarebbe stata
condotta con difficoltà molto maggiore se i svizzeri, cupidi di
scancellare l'offesa fatta all'onore del re nel sacco di
Pontriemoli, non si fussino con grandissima prontezza affaticati a
farla passare. Arrivata l'avanguardia a Fornuovo, il marisciallo di
Gies mandò uno trombetta nel campo italiano a domandare il passo per
l'esercito in nome del re, il quale, senza offendere alcuno e
ricevendo le vettovaglie a prezzi convenienti, voleva passare per
ritornarsene in Francia; e nel tempo medesimo fece correre alcuni
de' suoi cavalli per prendere notizia degli inimici e del paese, i
quali furono messi in fuga da certi stradiotti che mandò loro
incontro Francesco da Gonzaga: in sulla quale occasione, se le genti
italiane si fussino mosse insino all'alloggiamento de' franzesi, si
crede che arebbono rotta facilmente l'antiguardia, e rotta questa
non poteva piú farsi innanzi l'esercito regio. La quale occasione
non era ancora fuggita il dí seguente, benché il marisciallo,
conosciuto il pericolo, avesse ritirato i suoi in luogo piú alto; ma
non ebbono i capitani italiani ardire d'andare ad assaltargli,
spaventati dalla fortezza del sito dove s'erano ridotti, e dal
credere che l'antiguardia fusse piú grossa, e forse piú vicino il
resto dell'esercito. Ed è certo che, in questo dí, non erano ancora
finite di raccorsi insieme tutte le genti viniziane; le quali
avevano tardato tanto a unirsi tutte nell'alloggiamento della
Ghiaruola che è manifesto che se Carlo non avesse soggiornato tanto
per il cammino, come in Siena in Pisa e in molti luoghi soggiornò,
senza bisogno, sarebbe passato innanzi senza impedimento o contrasto
alcuno. Il quale, unito alla fine con l'antiguardia, alloggiò il dí
prossimo con tutto l'esercito a Fornuovo.
Non aveano creduto mai i príncipi confederati che il re, con
esercito tanto minore, ardisse di passare per il cammino diritto
l'Apennino; e però si erano da principio persuasi che egli, lasciata
la piú parte delle genti a Pisa, se n'andrebbe col resto in
sull'armata marittima in Francia: e dipoi inteso che pure seguitava
il cammino per terra, avevano creduto che egli, per non si
appropinquare al loro esercito, disegnasse di passare la montagna
per la via del borgo di Valditaro e del monte di Centocroce, monte
molto aspro e difficile, per condursi nel tortonese, con speranza
d'avere a essere rincontrato dal duca d'Orliens nelle circostanze
d'Alessandria. Ma come si vedde certamente che egli si dirizzava a
Fornuovo, l'esercito italiano, che prima, per i conforti di tanti
capitani e per la fama del piccolo numero degl'inimici, era molto
inanimito, rimesse qualche parte del suo vigore, considerando il
valore delle lancie franzesi, la virtú de' svizzeri a' quali senza
comparazione la fanteria italiana era tenuta inferiore, il maneggio
espedito dell'artiglierie, e, quel che muove assai gli uomini quando
hanno fatto contraria impressione, l'ardire inaspettato de' franzesi
d'approssimarsi loro con tanto minore numero di gente. Per le quali
considerazioni raffreddati eziandio gli animi de' capitani, era
stato messo in consulta tra loro quel che s'avesse a rispondere al
trombetto mandato dal marisciallo; parendo, da una parte, molto
pericoloso il rimettere a discrezione della fortuna lo stato di
tutta Italia, dall'altra, che e' fusse con grande infamia della
milizia italiana dimostrare di non avere animo d'opporsi
all'esercito franzese, che tanto inferiore di numero ardiva di
passare innanzi agli occhi loro. Nella quale consulta essendo
diversi i pareri de' capitani, dopo molte dispute determinorono
finalmente dare della domanda del re avviso a Milano, per eseguire
quello che quivi concordemente dal duca e dagli oratori de'
confederati fusse determinato. Tra' quali consultandosi, il duca e
l'oratore veneto che erano piú propinqui al pericolo concorsono
nella medesima sentenza: che all'inimico, quando voleva andarsene,
non si doveva chiudere la strada, ma piú presto, secondo il vulgato
proverbio, fabbricargli il ponte d'argento; altrimenti essere
pericolo che la timidità, come si poteva comprovare con infiniti
esempli, convertita in disperazione, non si aprisse il cammino con
molto sangue di quegli che poco prudentemente se gli opponevano, Ma
l'oratore de' re di Spagna, desiderando che senza pericolo de' suoi
re si facesse esperienza della fortuna, instette efficacemente, e
quasi protestando, che non si lasciassino passare, né si perdesse
l'occasione di rompere quell'esercito, il quale se si salvava
restavano le cose d'Italia ne' medesimi anzi in maggiori pericoli
che prima; perché tenendo il re di Francia Asti e Novara, ubbidiva
a' comandamenti suoi tutto il Piemonte, e avendo alle spalle il
reame di Francia, reame tanto potente e tanto ricco, i svizzeri
vicini e disposti ad andare a' soldi suoi in quel numero volesse, e
trovandosi accresciuto di riputazione e d'animo, se l'esercito della
lega, tanto superiore al suo, gli desse cosí vilmente la strada,
attenderebbe a travagliare Italia con maggiore ferocità: e che a'
suoi re sarebbe quasi necessario fare nuove deliberazioni,
conoscendo che gl'italiani o non volevano o non avevano animo di
combattere co' franzesi. Nondimeno, prevalendo in questo consiglio
la piú sicura opinione, determinarono scriverne a Vinegia, dove
sarebbe stato il medesimo parere.
Ma già si consultava indarno: perché i capitani dell'esercito,
poiché ebbono scritto a Milano, considerando essere difficile che le
risposte arrivassino a tempo, e quanto restasse disonorata la
milizia italiana se si lasciasse libero il transito a' franzesi,
licenziato il trombetto senza risposta certa, deliberorono come gli
inimici camminavano d'assaltargli; concorrendo in questa sentenza i
proveditori viniziani, ma piú prontamente il Trivisano che il
collega. Da altra parte si facevano innanzi i franzesi, pieni di
arroganza e d'audacia, come quegli che, non avendo trovato insino ad
allora in Italia riscontro alcuno, si persuadevano che l'esercito
inimico non s'avesse a opporre, e quando pure s'opponesse avere
senza fatica a metterlo in fuga: tanto poco conto tenevano dell'armi
italiane. Nondimeno, quando cominciando a calare la montagna
scopersono l'esercito alloggiato con numero infinito di tende e di
padiglioni, e in alloggiamento sí largo che, secondo il costume
d'Italia, poteva dentro a quello mettersi tutto in battaglia,
considerando il numero degli inimici sí grande, e che se non
avessino avuto volontà di combattere non si sarebbono condotti in
luogo tanto vicino, cominciò a raffreddarsi in modo tanta arroganza
che arebbono avuto per nuova felice che gli italiani si fussino
contentati di lasciargli passare; e tanto piú che, avendo Carlo
scritto al duca d'Orliens che si facesse innanzi per incontrarlo, e
che il terzo dí di luglio si trovasse con piú genti potesse a
Piacenza, e da lui avuto risposta che non mancherebbe d'esservi al
tempo ordinatogli, ebbe poi nuovo avviso dal duca medesimo che
l'esercito sforzesco opposto a lui, nel quale erano novecento uomini
d'arme mille dugento cavalli leggieri e cinquemila fanti, era sí
potente che senza manifestissimo pericolo non poteva farsi innanzi,
essendo massime necessitato a lasciare parte della sua gente alla
guardia di Novara e d'Asti. Però il re, necessitato a fare nuovi
pensieri, commesse a Filippo monsignore di Argenton, il quale,
essendo stato poco innanzi imbasciadore per lui appresso al senato
viniziano, aveva nel partirsi da Vinegia offerto al Pisano e al
Trivisano, già diputati proveditori, d'affaticarsi per disporre
l'animo del re alla pace, che mandasse un trombetto a detti
proveditori, significando per una lettera d'avere desiderio per
beneficio comune di parlare con loro; i quali accettorono di
ritrovarsi seco, la mattina seguente, in luogo comodo tra l'uno e
l'altro esercito. Ma Carlo, o perché in quello alloggiamento patisse
di vettovaglie o per altra cagione, mutato proposito, deliberò di
non aspettare quivi l'effetto di questo ragionamento.
Lib.2, cap.9
Le posizioni de' due eserciti. La battaglia di Fornovo e le sue
vicende; il pericolo corso dal re di Francia. Tanto i veneziani
quanto i francesi si attribuiscono la vittoria. Confutazione di voci
diffusesi intorno al contegno di Lodovico Sforza. Carlo giunge ad
Asti senza perdite per quanto incalzato da truppe nemiche. Il
fallimento del tentativo dei francesi contro Genova.
Era la fronte degli alloggiamenti dell'uno e dell'altro esercito
distante manco di tre miglia, distendendosi in sulla ripa destra del
fiume del Taro, benché piú presto torrente che fiume, il quale
nascendo nella montagna dello Apennino, poi che ha corso alquanto
per una piccola valle ristretta da due colline, si distende nella
pianura larga di Lombardia insino al fiume del Po. In sulla destra
di queste due colline, scendendo insino alla ripa del fiume,
alloggiava l'esercito de' collegati, fermatosi, per consiglio de'
capitani, piú presto da questa parte che dalla ripa sinistra onde
aveva a essere il cammino degli inimici, per non lasciare loro
facoltà di volgersi a Parma; della quale città, per la diversità
delle fazioni, non stava il duca di Milano senza sospetto,
accresciuto perché il re si era fatto concedere da' fiorentini
insino in Asti Francesco Secco, la cui figliuola era maritata nella
famiglia de' Torelli, famiglia nobile e potente nel territorio di
Parma. Ed era l'alloggiamento de' collegati fortificato con fossi e
con ripari, e abbondante d'artiglierie: innanzi al quale i franzesi,
volendo ridursi nello astigiano, e però passando il Taro accanto a
Fornuovo, erano necessitati di passare, non restando in mezzo tra
loro altro che 'l fiume. Stette tutta la notte l'esercito franzese
con non mediocre travaglio, perché per la diligenza degli italiani,
che facevano correre gli stradiotti insino in sullo alloggiamento,
si gridava spesso all'arme nel campo loro, che tutto si sollevava a
ogni strepito, e perché sopravenne una repentina e grandissima
pioggia mescolata con spaventosi folgori e tuoni e con molte
orribili saette, la quale pareva che facesse pronostico di qualche
tristissimo accidente; cosa che commoveva molto piú loro che
l'esercito italiano, non solo perché, essendo in mezzo delle
montagne e degli inimici, e in luogo dove avendo qualche sinistro
non restava loro speranza alcuna di salvarsi, erano ridotti in molto
maggiore difficoltà, e perciò avevano giusta cagione d'avere
maggiore terrore, ma ancora perché pareva piú verisimile che i
minacci del cielo, non soliti a dimostrarsi se non per cose grandi,
accennassino piú presto a quella parte dove si ritrovava la persona
d'un re di tanta degnità e potenza.
La mattina seguente, che fu il dí sesto di luglio, cominciò a l'alba
a passare il fiume l'esercito franzese, precedendo la maggior parte
dell'artiglierie seguitate dall'antiguardia; nella quale il re,
credendo che contro a quella avesse a volgersi l'impeto principale
degl'inimici, aveva messo trecento cinquanta lancie franzesi,
Gianiacopo da Triulzio con le sue cento lancie, e tremila svizzeri
che erano il nervo e la speranza di quello esercito, e con questi a
piede Engiliberto fratello del duca di Cleves e il baglí di Digiuno
che gli aveva condotti: a' quali aggiunse il re a piede trecento
arcieri e alcuni balestrieri a cavallo delle sue guardie, e quasi
tutti gli altri fanti che aveva seco. Dietro all'avanguardia
seguitava la battaglia, in mezzo della quale era la persona del re
armato di tutte armi in su uno feroce corsiere; e appresso a lui,
per reggere col consiglio e con l'autorità sua questa parte
dell'esercito, monsignore della Tramoglia, capitano molto famoso nel
regno di Francia. Dietro a questi seguitava la retroguardia condotta
dal conte di Fois, e nell'ultimo luogo i carriaggi. E nondimeno il
re, non avendo l'animo alieno dalla concordia, sollecitò, nel tempo
medesimo che il campo cominciò a muoversi, Argentone che andasse a
trattare co' proveditori veneti; ma essendo già, per la levata sua,
tutto in arme l'esercito italiano e deliberati i capitani di
combattere, non lasciava piú la brevità del tempo e la propinquità
degli eserciti né spazio né comodità di parlare insieme: e già
cominciavano a scaramucciare da ogni parte i cavalli leggieri, già a
tirare da ogni parte orribilmente l'artiglierie, e già gli italiani,
usciti tutti degli alloggiamenti, distendevano i loro squadroni
preparati alla battaglia in sulla ripa del fiume. Per le quali cose
non intermettendo i franzesi di camminare, parte in sul greto del
fiume, parte, perché nella stretta pianura non si potevano spiegare
l'ordinanze, per la spiaggia della collina, ed essendo già la
avanguardia condotta al dirimpetto dell'alloggiamento degli inimici,
il marchese di Mantova, con uno squadrone di seicento uomini d'arme
de' piú fioriti dell'esercito e con una grossa banda di stradiotti e
d'altri cavalli leggieri e con cinquemila fanti, passò il fiume
dietro alla retroguardia de' franzesi; avendo lasciato in sulla ripa
di là Antonio da Montefeltro, figliuolo naturale di Federigo già
duca d'Urbino, con uno grosso squadrone, per passare, quando fusse
chiamato, a rinfrescare la prima battaglia; e avendo oltre a ciò
ordinato che, come si era cominciato a combattere, un'altra parte
della cavalleria leggiera percotesse negli inimici per fianco, e che
il resto degli stradiotti, passando il fiume a Fornuovo, assaltasse
i carriaggi de' franzesi: i quali, o per mancamento di gente o per
consiglio (come fu fama) del Triulzio, erano restati senza guardia,
esposti a qualunque volesse predargli. Da altra parte, passò il Taro
con quattrocento uomini d'arme, tra' quali era la compagnia di don
Alfonso da Esti, venuta in campo, perché cosí volle il padre, senza
la sua persona, e con dumila fanti il conte di Gaiazzo, per
assaltare l'antiguardia franzese; lasciato similmente in sulla ripa
di là Annibale Bentivoglio con dugento uomini d'arme, per soccorrere
quando fusse chiamato: e a guardia degli alloggiamenti restorono due
grosse compagnie di gente d'arme e mille fanti, perché i proveditori
viniziani volleno riserbarsi intero, per tutti i casi, qualche
sussidio. Ma vedendo il re venire sí grande sforzo addosso al
retroguardo, contro a quello che si erano persuasi i suoi capitani,
voltate le spalle all'avanguardia, cominciò ad accostarsi con la
battaglia al retroguardo, sollecitando egli, con uno squadrone
innanzi agli altri, tanto il camminare che quando l'assalto
incominciò si ritrovò essere nella fronte de' suoi tra' primi
combattitori. Hanno alcuni fatto memoria che non senza disordine
passorono il fiume le genti del marchese, per l'altezza delle ripe e
per gli impedimenti degli alberi e degli sterpi e virgulti, da'
quali sono vestite comunemente le ripe de' torrenti; e aggiungono
altri che i fanti suoi, per questa difficoltà e per l'acque del
fiume ingrossate per la pioggia notturna, arrivorono alla battaglia
piú tardi, e che tutti non vi si condussono ma ne restorono non
pochi di là dal fiume. Ma come si sia, certo è che l'assalto del
marchese fu molto furioso e feroce, e che gli fu corrisposto con
simigliante ferocia e valore: entrando da ogni parte nel fatto
d'arme gli squadroni alla mescolata e non secondo il costume delle
guerre d'Italia, che era di combattere una squadra contro a un'altra
e in luogo di quella che fusse stracca o che cominciasse a ritirarsi
scambiarne un'altra, non facendo se non all'ultimo uno squadrone
grosso di piú squadre: in modo che 'l piú delle volte i fatti
d'arme, ne' quali sempre si faceva pochissima uccisione, duravano
quasi un giorno intero, e spesso si spiccavano cacciati dalla notte
senza vittoria certa d'alcuna delle parti. Rotte le lancie, nello
scontro delle quali caddono in terra da ogni parte molti uomini
d'arme, molti cavalli, cominciò ciascuno a adoperare con la medesima
ferocia le mazze ferrate gli stocchi e l'altre armi corte,
combattendo co' calci co' morsi con gli urti i cavalli non meno che
gli uomini; dimostrandosi certamente nel principio molto egregia la
virtú degli italiani, per la fierezza massime del marchese, il
quale, seguitato da una valorosa compagnia di giovani gentiluomini e
di lancie spezzate (sono questi soldati eletti tenuti fuora delle
compagnie ordinarie a provisione), e offerendosi prontissimamente a
tutti i pericoli, non lasciava indietro cosa alcuna, che a capitano
animosissimo appartenesse. Sostenevano valorosamente sí feroce
impeto i franzesi, ma essendo oppressati da moltitudine tanto
maggiore cominciavano già quasi manifestamente a piegarsi, non senza
pericolo del re, appresso al quale pochi passi fu fatto prigione,
benché combattesse fieramente, il bastardo di Borbone: per il caso
del quale sperando il marchese avere il medesimo successo contro
alla persona del re, condotto improvidamente in luogo di tanto
pericolo senza quella guardia e ordine che conveniva a principe sí
grande, faceva con molti de' suoi grandissimo sforzo di
accostarsegli. Contro a' quali il re, avendo intorno a sé pochi de'
suoi, dimostrando grande ardire si difendeva nobilmente, piú per la
ferocia del cavallo che per l'aiuto loro. Né gli mancorono in tanto
pericolo quelli consigli che sogliono, nelle cose difficili, essere
ridotti alla memoria dal timore perché vedendosi quasi abbandonato
da' suoi, voltatosi agli aiuti celesti, fece voto a san Dionigi e a
san Martino, reputati protettori particolari del reame di Francia,
che se passava salvo con l'esercito nel Piemonte andrebbe, subito
che fusse ritornato di là da' monti, a visitare con grandissimi doni
le chiese dedicate al nome loro, l'una appresso a Parigi l'altra a
Torsi; e che ciascuno anno farebbe, con solennissime feste e
sacrifici, testimonianza della grazia ricevuta per opera loro: i
quali voti come ebbe fatti, ripreso maggiore vigore, cominciò piú
animosamente a combattere sopra le forze e sopra la sua
complessione. Ma già il pericolo del re aveva infiammato talmente
quegli che erano manco lontani che, correndo tutti a coprire con le
persone proprie la persona reale, ritenevano pure indietro gli
italiani; e sopravenendo in questo tempo la battaglia sua che era
restata indietro, uno squadrone di quella urtò ferocemente gli
inimici per fianco, da che si raffrenò assai l'impeto loro. E si
aggiunse che Ridolfo da Gonzaga, zio del marchese di Mantova,
condottiere di grande esperienza, mentre che i suoi confortando e
dove apparisse principio di disordine riordinando, e ora in qua ora
in là andando, fa l'ufficio di egregio capitano, avendo per sorte
alzato l'elmetto, ferito da uno franzese con uno stocco nella faccia
e caduto a terra del cavallo, non potendo in tanta confusione e
tumulto e nella moltitudine sí stretta di ferocissimi cavalli
aiutarlo i suoi, anzi cadendogli addosso altri uomini e altri
cavalli, piú tosto soffocato nella calca che per l'armi degli
inimici perdé la vita: caso certamente indegno di lui, perché e ne'
consigli del dí dinanzi e la mattina medesima, giudicando imprudenza
il mettere, senza necessità, tanto in potestà della fortuna, avea
contro alla volontà del nipote consigliato che si fuggisse il
combattere. Cosí variandosi con diversi accidenti la battaglia, né
si scoprendo piú per gli italiani che per i franzesi vantaggio
alcuno, era piú che mai dubbio chi dovesse essere vincitore; e però,
pareggiata quasi la speranza e il timore, si combatteva da ogni
parte con ardore incredibile, riputando ciascheduno che nella sua
mano destra e nella sua fortezza fusse collocata la vittoria.
Accendeva gli animi de' franzesi la presenza e il pericolo del re,
perché non altrimenti, appresso a quella nazione, per inveterata
consuetudine, è venerabile la maestà de' re che si adori il nome
divino, l'essere in luogo che con la vittoria sola potevano sperare
la loro salute; accendeva gli animi degli italiani la cupidità della
preda, la ferocia e l'esempio del marchese, l'avere cominciato a
combattere con prospero successo, il numero grande del loro esercito
per il quale aspettavano soccorso da molti de' suoi; cosa che non
speravano i franzesi, perché le genti loro o erano mescolate tutte
nel fatto d'arme o veramente aspettavano a ogn'ora di essere
assaltate dagli inimici. Ma è grandissima (come ognuno sa) in tutte
l'azioni umane la potestà della fortuna, maggiore nelle cose
militari che in qualunque altra, ma inestimabile immensa infinita
ne' fatti d'arme; dove uno comandamento male inteso, dove una
ordinazione male eseguita, dove una temerità, una voce vana, insino
d'uno piccolo soldato, traporta spesso la vittoria a coloro che già
parevano vinti; dove improvisamente nascono innumerabili accidenti i
quali è impossibile che siano antiveduti o governati con consiglio
del capitano. Però in tanta dubietà, non dimenticatasi del costume
suo, operò quello che per ancora non operava né la virtú degli
uomini né la forza dell'armi. Perché avendo gli stradiotti, mandati
ad assaltare i carriaggi de' franzesi, cominciato senza difficoltà a
mettergli in preda, e attendendo a condurre chi muli chi cavalli chi
altri arnesi di là dal fiume, non solo quell'altra parte degli
stradiotti che era destinata a percuotere i franzesi per fianco, ma
quegli ancora che già erano entrati nel fatto d'arme, vedendo i
compagni suoi ritornarsene agli alloggiamenti carichi di spoglie,
incitati dalla cupidità del guadagno, si voltorono a rubare i
carriaggi; l'esempio de' quali seguitando i cavalli e i fanti,
uscivano per la medesima cagione a schiere della battaglia: donde
mancando agli italiani non solo il soccorso ordinato ma inoltre
diminuendosi con tanto disordine il numero de' combattenti, né
movendosi Antonio da Montefeltro, perché, per la morte di Ridolfo da
Gonzaga che aveva la cura, quando fusse il tempo, di chiamarlo,
niuno lo chiamava, cominciorno a pigliare tanto di campo i franzesi
che niuna cosa piú sostentava gli italiani, che già manifestamente
declinavano, che 'l valore del marchese; il quale combattendo
fortissimamente sosteneva ancora l'impeto degli inimici, accendendo
i suoi, ora con l'esempio suo ora con voci caldissime, a volere piú
tosto essere privati della vita che dell'onore. Ma non era piú
possibile che pochi resistessino a molti; e già moltiplicando
addosso a loro da ogni parte i combattitori, mortine già una gran
parte e feritine molti, massime di quegli della compagnia propria
del marchese, furno necessitati tutti a mettersi in fuga per
ripassare il fiume: il quale per l'acqua piovuta la notte, e che con
grandine e tuoni piovve grandissima mentre si combatteva, era
cresciuto in modo che dette difficoltà assai a chi fu costretto a
ripassarlo. Seguitornogli i franzesi impetuosamente insino al fiume,
non attendendo se non ad ammazzare con molto furore coloro che
fuggivano senza farne alcuno prigione, e senza attendere alle
spoglie e al guadagno; anzi si udivano per la campagna spesse voci
di chi gridava: - Ricordatevi, compagnoni, di Guineguaste. - È
Guineguaste una villa in Piccardia presso a Terroana, dove, negli
ultimi anni del regno di Luigi undecimo, l'esercito franzese, già
quasi vincitore in una giornata tra loro e Massimiliano re de'
romani, disordinato per avere cominciato a rubare, fu messo in fuga.
Ma nel tempo medesimo che da questa parte dell'esercito con tanta
virtú e ferocia si combatteva, l'avanguardia franzese, contro alla
quale il conte di Gaiazzo mosse una parte de' cavalli, si presentava
alla battaglia con tanto impeto che, impauriti, vedendo massime non
essere seguitati da' suoi, si disordinorono quasi per loro medesimi,
in modo che essendo già morti alcuni di loro, tra i quali Giovanni
Piccinino e Galeazzo da Coreggio, ritornorono con fuga manifesta al
grosso squadrone. Ma il marisciallo di Gies, vedendo che oltre allo
squadrone del conte era in sulla ripa di là dal fiume un altro
colonnello di uomini di arme ordinato alla battaglia, non permesse
a' suoi che gli seguitassino: consiglio che dapoi ne' discorsi degli
uomini fu da molti riputato prudente, da molti, che consideravano
forse meno la ragione che l'evento, piú presto vile che circospetto;
perché non si dubita che se gli avesse seguitati, il conte col suo
colonnello voltava le spalle, empiendo di tale spavento tutto 'l
resto delle genti rimaste di là dal fiume che sarebbe stato quasi
impossibile a ritenerle che non fuggissino. Perché il marchese di
Mantova, il quale, fuggendo gli altri, ripassò con una parte de'
suoi di là dal fiume, piú stretto e ordinato che e' potette, le
trovò in modo sollevate che, cominciando ognuno a pensare di salvare
sé e le sue robe, già la strada maestra per la quale si va da
Piacenza a Parma era piena d'uomini di cavalli e di carriaggi che si
ritiravano a Parma: il quale tumulto si fermò in parte con la
presenza e autorità sua, perché mettendogli insieme andò riordinando
le cose. Ma le fermò molto piú la giunta del conte di Pitigliano, il
quale, in tanta confusione dell'una parte e dell'altra, presa
l'occasione se ne fuggí nel campo italiano, dove confortando, ed
efficacemente affermando che in maggiore disordine e spavento si
trovavano gl'inimici, confermò e assicurò assai gli animi loro. Anzi
fu affermato quasi comunemente che, se non fussino state le parole
sue, che o allora o almeno la notte seguente, si levava con
grandissimo terrore tutto l'esercito. Ritirati gli italiani nel
campo loro, da coloro in fuora che menati (come interviene ne' casi
simili) dalla confusione e dal tumulto, e spaventati dalle acque
grosse del fiume, erano fuggiti dispersi in vari luoghi, molti de'
quali scontrandosi nelle genti franzesi sparse per la campagna,
furono ammazzati da loro, il re co' suoi andò a unirsi
all'antiguardia, che non si era mossa del luogo suo; dove consigliò
co' capitani se e' fusse da passare subito il fiume per assaltare
agli alloggiamenti suoi l'esercito inimico, e fu consigliato dal
Triulzio e da Cammillo Vitelli, il quale, mandata la compagnia sua
dietro a coloro che andavano all'impresa di Genova, avea con pochi
cavalli seguitato il re per ritrovarsi al fatto d'arme, che si
assaltassino: il che piú efficacemente di tutti confortava Francesco
Secco, dimostrando che la strada che si vedeva da lontano era piena
d'uomini e di cavalli, che denotava o che fuggissino verso Parma o
che, avendo incominciato a fuggire, se ne tornassino al campo. Ma
era pure non piccola la difficoltà di passare il fiume, e la gente,
che parte avea combattuto parte stata armata in sulla campagna,
affaticata in modo che per consiglio de' capitani franzesi fu
deliberato che s'alloggiasse. Cosí andorno ad alloggiare alla villa
del Medesano in sulla collina, distante non molto piú d'uno miglio
dal luogo nel quale si era combattuto; ove fu fatto l'alloggiamento
senza divisione o ordine alcuno, e con non piccola incomodità,
perché molti carriaggi erano stati rubati dagli inimici.
Questa fu la battaglia fatta tra gl'italiani e franzesi in sul fiume
del Taro, memorabile perché fu la prima che, da lunghissimo tempo in
qua, si combattesse con uccisione e con sangue, in Italia; perché
innanzi a questa morivano pochissimi uomini in uno fatto d'arme. Ma
in questa, se bene dalla parte de' franzesi ne morirono meno di
dugento uomini, degli italiani furno morti piú di trecento uomini
d'arme, e tanti altri che ascesono al numero di tremila uomini; tra'
quali Rinuccio da Farnese, condottiere de' viniziani, e molti
gentiluomini di condizione: e rimase in terra per morto, percosso di
una mazza ferrata in su l'elmetto, Bernardino dal Montone,
condottiere medesimamente de' viniziani, ma chiaro piú per la fama
di Braccio dal Montone suo avolo, uno de' primi illustratori della
milizia italiana, che per propria fortuna o virtú. E fu piú
maravigliosa agli italiani tanta uccisione perché la battaglia non
durò piú di una ora, e perché, combattendosi da ogni parte con la
fortezza propria e con l'armi, s'adoperorno poco l'artiglierie.
Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a sé la lama della vittoria
e dell'onore di questo giorno. Gl'italiani, per essere stati salvi i
loro alloggiamenti e carriaggi, e per il contrario l'averne i
franzesi perduti molti e tra gli altri parte de' padiglioni propri
del re; gloriandosi, oltre a questo, che arebbono sconfitti
gl'inimici se una parte delle genti loro, destinata a entrare nella
battaglia, non si fusse voltata a rubare; il che essere stato vero
non negavano i franzesi. E in modo si sforzorono i viniziani
d'attribuirsi questa gloria che, per comandamento publico, se ne
fece per tutto il dominio loro, e in Vinegia principalmente, fuochi
e altri segni d'allegrezza; né seguitorono nel tempo avvenire piú
negligentemente l'esempio publico i privati, perché nel sepolcro di
Marchionne Trivisano, nella chiesa de' frati minori, furno alla sua
morte scritte queste parole: - che in sul fiume del Taro combatté
con Carlo re di Francia prosperamente. - E nondimeno, il
consentimento universale aggiudicò la palma a' franzesi: per il
numero de' morti tanto differente, e perché scacciorono gl'inimici
di là dal fiume, e perché restò loro libero il passare innanzi, che
era la contenzione per la quale proceduto si era al combattere.
Soggiornò il dí seguente il re nel medesimo alloggiamento, e in
questo dí si seguitò, per mezzo del medesimo Argenton, qualche
parlamento con gl'inimici: e però si fece tregua insino alla notte:
desiderando, da una parte, il re la sicurtà del passare, perché,
sapendo che molti dell'esercito italiano non avevano combattuto e
vedendo stargli fermi nel medesimo alloggiamento, gli pareva il
cammino di tante giornate per il ducato di Milano pericoloso, con
gl'inimici alla coda; e da altra parte, non si sapeva risolvere, per
il debole consiglio il quale, disprezzati i consigli migliori, usava
spesso nelle sue deliberazioni. Simile incertitudine era negli animi
degli italiani: i quali, benché da principio fussino molto
spaventati, si erano rassicurati tanto che la sera medesima della
giornata ebbono qualche ragionamento, proposto e confortato molto
dal conte di Pitigliano, d'assaltare la notte il campo franzese,
alloggiato con molto disagio e senza fortezza alcuna
d'alloggiamento: pure, contradicendo molti degli altri, fu come
troppo pericoloso posto da parte questo consiglio.
Sparsesi allora fama per tutta Italia che le genti di Lodovico
Sforza, per ordine suo secreto, non avevano voluto combattere,
perché essendo sí potente esercito de' viniziani nel suo stato non
avesse forse manco in orrore la vittoria loro che de' franzesi, i
quali desiderasse che non restassino né vinti né vincitori, e che,
per essere piú sicuro in ogni evento, volesse conservare intere le
forze sue; il che s'affermava essere stato causa che l'esercito
italiano non avesse conseguita la vittoria: la quale opinione fu
fomentata dal marchese di Mantova, e dagli altri condottieri de'
viniziani per dare maggiore riputazione a se medesimi, e accettata
volentieri da tutti quegli che desideravano che la gloria della
milizia italiana si accrescesse. Ma io udi' già da persona
gravissima, e che allora era a Milano in grado tale che aveva
notizia intera delle cose, confutare efficacemente questo romore,
perché avendo Lodovico voltate quasi tutte le forze sue all'assedio
di Novara, non aveva tante genti in sul Taro che fussino di molto
momento alla vittoria; la quale arebbe ottenuta l'esercito de'
confederati se non gli avessino nociuto piú i disordini propri che
il non avere maggiore numero di gente, massime che molte delle
viniziane non entrorono nella battaglia. E se bene il conte di
Gaiazzo mandò contro agli inimici una parte sola, e quella
freddamente, potette procedere perché era tanto gagliarda
l'antiguardia franzese che e' conobbe essere di molto pericolo il
commettersi alla fortuna; e in lui, per l'ordinario, arebbono dato
piú ammirazione l'azioni animose che le sicure. E nondimeno non
furono al tutto inutili le genti sforzesche, perché, ancora che non
combattessino, ritennono l'antiguardia franzese che non soccorresse
dove il re, con la minore e molto piú debole parte dello esercito,
sosteneva con gravissimo pericolo tutto il peso della giornata. Né è
questa opinione confermata, se io non mi inganno, piú dall'autorità
che dalla ragione. Perché, come è verisimile che se in Lodovico
Sforza fusse stata questa intenzione, non avesse piú presto ordinato
a' capitani suoi che dissuadessino l'opporsi al transito de'
franzesi? conciossiaché, se il re avesse ottenuta la vittoria non
sarebbono state piú salve che l'altre le genti sue, tanto propinque
agli inimici, ancora che non si fussino mescolate nella battaglia; e
con che discorso, con che considerazione, con che esperienza delle
cose, si poteva promettere che, combattendosi, avesse a essere tanto
pari la fortuna che il re di Francia non avesse a essere né vinto,
né vincitore? Né contro al consiglio de' suoi si sarebbe combattuto,
perché le genti viniziane, mandate in quello stato solamente per
sicurtà e salute sua, non arebbono discrepato dalla volontà de' suoi
capitani.
Levossi Carlo con l'esercito, la seguente mattina innanzi giorno,
senza sonare trombette, per occultare il piú poteva la sua partita;
né fu per quel dí seguitato dall'esercito de' collegati, impedito,
quando bene avesse voluto seguitarlo, dall'acque del fiume,
ingrossato tanto la notte per nuova pioggia che non si potette, per
una grande parte del dí, passarlo. Solamente, declinando già il
sole, passò, non senza pericolo per l'impeto dell'acque, il conte di
Gaiazzo con dugento cavalli leggieri; co' quali seguitando le
vestigie de' franzesi, che camminavano per la strada diritta verso
Piacenza, dette loro, massime il prossimo dí, molti impedimenti e
incomodità: e nondimeno essi, benché stracchi, seguitorono, senza
disordine alcuno e senza perdere un uomo solo, il suo cammino;
perché le vettovaglie erano assai abbondantemente somministrate
dalle terre vicine, parte per paura di non essere danneggiate parte
per opera del Triulzio, il quale, cavalcando innanzi a questo
effetto, co' cavalli leggieri, moveva gli uomini ora co' minacci ora
con l'autorità sua, grande in quello stato appresso a tutti ma
grandissima appresso a' guelfi; né l'esercito della lega, mossosi il
dí seguente alla partita de' franzesi, e poco disposto, massime i
proveditori viniziani, a rimettersi piú in arbitrio della fortuna,
s'accostò loro mai tanto che n'avessino uno minimo disturbo. Anzi,
essendo il secondo dí alloggiati in sul fiume della Trebbia poco di
là da Piacenza, ed essendo, per piú comodità dell'alloggiare restate
tra il fiume e la città di Piacenza dugento lancie i svizzeri e
quasi tutta l'artiglieria, la notte il fiume per le pioggie crebbe
tanto che, nonostante l'estrema diligenza fatta da loro, fu
impossibile che o fanti o cavalli passassino se non dopo molte ore
del dí, né questo senza difficoltà benché l'acqua fusse cominciata a
diminuire: nondimeno non furono assaltati né dall'esercito inimico
che era lontano, né dal conte di Gaiazzo, che era entrato in
Piacenza per sospetto che e' non vi si facesse qualche movimento:
sospetto non al tutto senza cagione, perché si crede che se Carlo,
seguitando il consiglio del Triulzio, avesse spiegate le bandiere e
fatto chiamare il nome di Francesco, piccolo figliuolo di Giovan
Galeazzo, sarebbe nata in quello ducato facilmente qualche
mutazione; tanto era grato il nome di colui che avevano per
legittimo signore e odioso quello dell'usurpatore, e di momento il
credito e l'amicizie del Triulzio. Ma il re, essendo intento
solamente al passare innanzi, non voluto udire pratica alcuna,
seguitò con celerità il suo cammino; con non piccolo mancamento, da'
primi dí in fuora, di vettovaglie, perché di mano in mano trovava le
terre meglio guardate, avendo Lodovico Sforza distribuiti, parte in
Tortona, sotto Guasparri da San Severino cognominato il Fracassa,
parte in Alessandria, molti cavalli e mille dugento fanti tedeschi
levati dal campo di Novara; ed essendo i franzesi, poi che ebbono
passata la Trebbia, stati sempre infestati alla coda dal conte di
Gaiazzo, che aveva aggiunto a' suoi cavalli leggieri cinquecento
fanti tedeschi che erano alla guardia di Piacenza: non avendo potuto
ottenere che gli fussino mandati dall'esercito tutto il resto de'
cavalli leggieri e quattrocento uomini d'arme, perché i proveditori
viniziani, ammuniti dal pericolo corso in sul fiume del Taro, non
vollono consentirlo. Pure i franzesi, avendo quando furno vicini ad
Alessandria preso il cammino piú alto verso la montagna, dove ha
meno acqua il fiume del Tanaro, si condusseno senza perdita d'uomini
o altro danno, in otto alloggiamenti, alle mura d'Asti; nella quale
città entrato il re alloggiò la gente di guerra in campagna, con
intenzione di accrescere il suo esercito, e fermarsi tanto in Italia
che avesse soccorso Novara; e il campo della lega che l'aveva
seguitato insino in tortonese, disperato di potergli piú nuocere,
s'andò a unire con la gente sforzesca intorno a quella città: la
quale pativa già molto di vettovaglie, perché dal duca di Orliens e
da' suoi non era stata usata diligenza alcuna di provederla, come,
per essere il paese molto fertile, arebbono potuto fare
abbondantissimamente; anzi, non considerando il pericolo se non
quando era passata la facoltà del rimedio, avevano atteso a
consumare senza risparmio quelle che vi erano.
Ritornorono, quasi ne' medesimi dí, a Carlo i cardinali e i capitani
i quali, con infelice evento, avevano tentato le cose di Genova.
Perché l'armata, presa che ebbe, nella prima giunta, la terra della
Spezie, s'indirizzò a Rapalle, il qual luogo facilmente occupò; ma
uscita del porto di Genova una armata di otto galee sottili di una
caracca e di due barche biscaine, pose di notte in terra settecento
fanti, i quali senza difficoltà presono il borgo di Rapalle con la
guardia de' franzesi che v'era dentro; e accostatasi poi all'armata
franzese che s'era ritirata nel golfo, dopo lungo combattere presono
e abbruciorono tutti i legni, restando prigioni il capitano, e fatti
piú famosi con questa vittoria quegli luoghi medesimi ne' quali
l'anno precedente erano stati rotti gli aragonesi. Né fu questa
avversità de' franzesi ristorata da quegli che erano andati per
terra: perché, condotti per la riviera orientale insino in val di
Bisagna e a' borghi di Genova, trovandosi ingannati dalla speranza
che avevano conceputa che in Genova si facesse tumulto, e intesa la
perdita dell'armata, passorno quasi fuggendo per la via de' monti,
via molto aspra e difficile, in valle di Pozzeveri, che è all'altra
parte della città; donde, con tutto che di paesani e di genti
mandate in loro favore dal duca di Savoia molto ingrossati fussino,
s'indirizzorono con la medesima celerità verso il Piemonte: né è
dubbio che se quegli di dentro non si fussino astenuti da uscire
fuora, per sospetto che la parte Fregosa non facesse novità, che gli
arebbono interamente rotti e messi in fuga. Per il quale disordine,
i cavalli de' Vitelli che si erano condotti a Chiavari, inteso il
successo di coloro co' quali andavano a unirsi, se ne ritornorono
tumultuosamente né senza pericolo a Serezana; e dalla Spezie in
fuora, l'altre terre della riviera ch'erano state occupate da'
fuorusciti richiamorono subito i genovesi: come similmente fece
nella riviera di ponente la città di Ventimiglia, che ne' medesimi
dí era stata occupata da Pol Battista Fregoso e da alcuni altri
fuorusciti.
Lib.2, cap.10
Vicende di guerra tra francesi e ispano - aragonesi nel reame di
Napoli. Ritorno di Ferdinando d'Aragona in Napoli. Terre che si
ribellano ai francesi. I veneziani occupano alcuni punti delle
Puglie. La resa di Castelnuovo a Ferdinando. Patti di resa di Castel
dell'Uovo. Morte di Alfonso d'Aragona.
Travagliavasi in questo tempo medesimo, ma con fortuna piú varia,
non meno nel reame di Napoli che nelle parti di Lombardia; perché
Ferdinando attendeva, poi che ebbe preso Reggio, alla recuperazione
de' luoghi circostanti, avendo seco circa seimila uomini, tra quegli
che e del paese e di Sicilia volontariamente lo seguitavano, e i
cavalli e fanti spagnuoli de' quali era capitano Consalvo Ernandes
di casa d'Aghilar, di patria cordovese, uomo di molto valore ed
esercitato lungamente nelle guerre di Granata: il quale, nel
principio della venuta sua in Italia, cognominato dalla iattanza
spagnuola il gran capitano per significare con questo titolo la
suprema potestà sopra loro, meritò, per le preclare vittorie che
ebbe poi, che per consentimento universale gli fusse confermato e
perpetuato questo sopranome, per significazione di virtú grande e di
grande eccellenza nella disciplina militare. A questo esercito, il
quale aveva già sollevato non piccola parte del paese, si fece
incontro, appresso a Seminara terra vicina al mare, Obigní con le
genti d'arme franzesi, che erano rimaste alla guardia della
Calavria, e con cavalli e fanti avuti da' signori del paese i quali
seguitavano il nome del re di Francia; ed essendo venuti alla
battaglia, prevalse la virtú de' soldati di ordinanza ed esercitati
all'imperizia degli uomini poco esperti, perché non solo gli
italiani e siciliani, raccolti tumultuariamente da Ferdinando, ma
eziandio gli spagnuoli erano gente nuova e con poca esperienza della
guerra: e nondimeno si combatté per alquanto spazio di tempo
ferocemente, perché la virtú e l'autorità de' capitani, che non
mancavano d'ufficio alcuno appartenente a loro, sosteneva quegli che
per ogn'altro conto erano inferiori. E sopra gli altri Ferdinando,
combattendo come si conveniva al suo valore, ed essendogli stato
ammazzato il cavallo sotto, sarebbe senza dubbio restato o morto o
prigione se Giovanni di Capua fratello del duca di Termini, il
quale, insino da puerizia suo paggio, era stato nel fiore della età
molto amato da lui, smontato del suo cavallo non avesse fatto
salirvi sopra lui, e con esempio molto memorabile di preclarissima
fede e amore esposta la propria vita, perché fu subito ammazzato,
per salvare quella del suo signore.
Fuggí Consalvo a traverso de' monti a Reggio, Ferdinando a Palma,
che è in sul mare vicina a Seminara; dove montato in sull'armata si
ridusse a Messina, cresciutagli per le cose avverse la volontà e
l'animo di tentare di nuovo la fortuna; conciossiaché non solo gli
fusse noto il desiderio che tutta la città di Napoli aveva di lui,
ma ancora da molti de' principali della nobiltà e del popolo fusse
occultamente chiamato. Però temendo che la dilazione e la fama della
rotta avuta in Calavria non raffreddasse questa disposizione,
raccolti, oltre alle galee che aveva condotte d'Ischia e quelle
quattro con le quali s'era partito da Napoli Alfonso suo padre, i
legni dell'armata venuta di Spagna, e quanti piú potette raccorne
dalle città e da' baroni di Sicilia, si mosse del porto di Messina,
non lo ritardando il non avere uomini da armargli, come quello che,
non avendo forze convenienti a tanta impresa, era necessitato
d'aiutarsi non meno con le dimostrazioni che con la sostanza delle
cose. Partí adunque di Sicilia con sessanta legni di gaggia e con
venti altri legni minori, e con lui Ricaiensio catelano, capitano
dell'armata spagnuola, uomo nelle cose navali di grande virtú ed
esperienza; ma con tanti pochi uomini da combattere che nella
maggiore parte non erano quasi altri che i destinati al servigio del
navigare. In questo modo erano piccole le forze sue, ma grande per
lui il favore e la volontà de' popoli. Perciò arrivato alla spiaggia
di Salerno, subito Salerno la costa di Malfi e la Cava alzorno le
sue bandiere. Volteggiò di poi due giorni sopra a Napoli,
aspettando, ma indarno, che nella terra si facesse qualche tumulto,
perché i franzesi, prese presto l'armi e messe buone guardie ne'
luoghi opportuni, repressono la ribellione che già bolliva; e
arebbono rimediato a tutti i loro pericoli se avessino arditamente
seguitato il consiglio di alcuni di loro i quali, congetturando i
legni aragonesi essere male forniti di combattenti, confortavano
Mompensieri che, ripiena l'armata franzese, che era nel porto, di
soldati e d'uomini atti a combattere, assaltasse con essa
gl'inimici. Ma Ferdinando, il terzo dí, disperato che nella città si
facesse alterazione, si allargò in mare per ritirarsi a Ischia: onde
i congiurati, considerando che per essere la congiurazione quasi
scoperta era diventata causa propria la causa di Ferdinando,
ristrettisi insieme e deliberati di fare della necessità virtú,
mandorono segretamente uno battello a richiamarlo; pregandolo che,
per dare piú facilità e animo a chi voleva levarsi in suo favore,
mettesse in terra o tutta o parte della sua gente. Però di nuovo
ritornato sopra a Napoli, il dí seguente a quello nel quale fu fatta
la giornata in sulla ripa del fiume del Taro, si accostò al lito con
l'armata, per porre in terra alla Maddalena, luogo propinquo a
Napoli a uno miglio, dove entra in mare il picciolo piú presto rio
che fiumicello chiamato Sebeto, incognito a ciascuno se non gli
avessino dato nome i versi de' poeti napoletani. Il che vedendo
Mompensieri, non manco pronto a procedere con audacia quando era
necessario il timore che fusse stato pronto a procedere con timore
quando era necessaria, il dí dinanzi, l'audacia, uscí fuora della
città con quasi tutti i soldati per vietargli lo scendere in terra:
il che fu cagione che avendo i napoletani tale opportunità quale
appena arebbono saputa desiderare si levorono subito in arme, fatto
il principio di sonare a martello dalla chiesa del Carmino vicina
alle mura della città, e successivamente seguitando tutte l'altre, e
occupate le porte, cominciorono scopertamente a chiamare il nome di
Ferdinando. Spaventò questo subito tumulto i franzesi in modo che,
non parendo loro sicuro lo stare in mezzo tra la città già ribellata
e le genti inimiche, e manco sperando di potere per quella via donde
erano usciti ritornarvi, deliberorno, attorniando le mura della
città (cammino lungo montuoso e molto difficile), entrare in Napoli
per la porta contigua a Castelnuovo. Ma Ferdinando, in questo mezzo
entrato in Napoli, e messo con alcuni de' suoi a cavallo da'
napoletani, cavalcò per tutta la terra con incredibile allegrezza di
ciascuno; ricevendolo la moltitudine con grandissime grida, né si
saziando le donne di coprirlo dalle finestre di fiori e d'acque
odorifere, anzi molte delle piú nobili correvano nella strada ad
abbracciarlo e ad asciugargli dal volto il sudore.
E nondimeno non si intermettevano per questo le cose necessarie alla
difesa, perché 'l marchese di Pescara, insieme co' soldati che erano
entrati con Ferdinando e con la gioventú napoletana, attendeva a
sbarrare e a fortificare le bocche delle vie donde i franzesi
potessino assaltare da Castelnuovo la terra. I quali, poiché furono
ridotti in sulla piazza del castello, feciono ogni sforzo per
rientrare nello abitato della città; ma essendo molestati con
balestre e artiglierie minute, e trovata a tutti i capi delle strade
sufficiente difesa, sopravenendone la notte, si ritirorono nel
castello, lasciati i cavalli, che furono tra utili e inutili poco
manco di dumila, in sulla piazza, perché nel castello non era né
capacità di ricevergli né facoltà di nutrirgli. Rinchiusonvisi
dentro, con Mompensieri, Ivo d'Allegri riputato capitano e Antonello
principe di Salerno, e molt'altri franzesi e italiani di non piccola
condizione; e benché per qualche dí facessino spesse scaramuccie in
sulla piazza e intorno al porto, e traessino alla città con
l'artiglierie, nondimeno, ributtati sempre dagl'inimici, restorno
esclusi di speranza di potere da se stessi recuperare quella città.
Seguitorono subito l'esempio di Napoli Capua, Aversa, la rocca di
Mondragone e molte altre terre circostanti, e si voltò la maggiore
parte del reame a nuovi pensieri: tra' quali il popolo di Gaeta,
avendo prese l'armi con maggiore animo che forze, per essere
comparite innanzi al porto alcune galee di Ferdinando, fu con molta
uccisione superato da' franzesi che v'erano a guardia, i quali con
l'impeto della vittoria saccheggiorono tutta la terra. E nel tempo
medesimo l'armata viniziana accostatasi a Monopoli, città di Puglia,
e posti in terra gli stradiotti e molti fanti, gli dette la
battaglia per terra e per mare; nella quale Pietro Bembo, padrone di
una galea viniziana, fu morto da quelli di dentro di uno colpo
d'artiglieria. Prese finalmente la città per forza, e la rocca gli
fu data per timore dal castellano franzese che vi era dentro; e di
poi ebbe per accordo Pulignano.
Ma Ferdinando era intento ad acquistare Castelnuovo e Castel
dell'Uovo, sperando che presto avessino ad arrendersi per la fame,
perché a proporzione del numero degli uomini che vi era dentro vi
era piccola provisione di vettovaglie; e attendendo continuamente a
occupare i luoghi circostanti al castello, si sforzava di mettergli
del continuo in maggiore strettezza. Perché i franzesi, non potendo
stare sicura nel porto l'armata loro, che era di cinque navi quattro
galee sottili una galeotta e uno galeone, l'aveano ritirata tra la
Torre di San Vincenzio, Castel dell'Uovo e Pizzifalcone che si
tenevano per loro, e tenendo le parti dietro a Castelnuovo, dove
erano i giardini reali, si distendevano insino a Cappella; e
fortificato il monasterio della Croce, correvano insino a Pié di
Grotta e San Martino. Contro a' quali Ferdinando, avendo presa e
messa in fortezza la cavalleria e fatte vie coperte per la
Incoronata, occupò il monte di Sant'Ermo e dipoi il poggio di
Pizzifalcone, tenendosi per i franzesi la fortezza posta in sulla
sommità; alla quale per levare il soccorso, perché pigliandola
arebbono potuto infestare di luogo eminente l'armata degli inimici,
assaltorno le genti di Ferdinando il monasterio della Croce, ma
ricevuto nell'accostarsi danno grande dall'artiglierie, disperati di
ottenerlo per forza, si voltorono a ottenerlo per trattato, infelice
a chi ne fu autore. Perché avendo uno moro che vi era dentro
promesso fraudolentemente al marchese di Pescara, stato già suo
padrone, di metterlo dentro, e perciò condottolo una notte in su una
scala di legno appoggiata alle mura del monasterio a parlare seco,
per stabilire l'ora e il modo di entrare la notte medesima, fu quivi
con trattato doppio ammazzato con una freccia di una balestra che
gli passò la gola. Né fu alle cose di Ferdinando poco importante la
mutazione, prima di Prospero e poi di Fabbrizio Colonna; i quali,
benché durante l'obligazione della condotta col re di Francia,
passorono, quasi subito che ebbe recuperato Napoli, agli stipendi
suoi, scusandosi non gli essere stati fatti a' tempi debiti i
pagamenti promessi, e che Verginio Orsino e il conte di Pitigliano
erano stati, con poco rispetto de' meriti loro, molto carezzati dal
re: ragione che a molti parve inferiore alla grandezza de' benefici
ricevuti da lui. Ma chi sa se quello che ragionevolmente doveva
essere il freno a ritenergli fusse lo stimolo a fargli fare il
contrario: perché quanto erano maggiori i premi che possedevano
tanto fu, per avventura, piú potente in loro, poiché vedevano
cominciare già a declinare le cose franzesi, la cupidità del
conservargli. Ristretto in questo modo il castello, e serrato il
mare da' navili di Ferdinando, cresceva continuamente il mancamento
delle vettovaglie; e si sostentava solo con la speranza d'avere
soccorso per mare, di Francia; perché Carlo, subito che era giunto
in Asti, mandato Perone di Baccie, aveva fatto partire, dal porto di
Villafranca appresso a Nizza, un'armata marittima che portava dumila
tra guasconi e svizzeri e provedimento di vettovaglie; fattone
capitano monsignore di Arbano, uomo bellicoso ma non esperimentato
nel mare. La quale, condottasi insino all'isola di Ponzo, avendo
scoperta all'intorno l'armata di Ferdinando che aveva trenta vele e
due navi grosse genovesi, subito si messe in fuga; e seguitata
insino all'isola dell'Elba, avendo perduta una navetta biscaina, si
rifuggí con tanto spavento nel porto di Livorno che e' non fu in
potestà del capitano ritenere che la piú parte de' fanti non
scendessino in terra, e dipoi contro alla volontà sua andassino in
Pisa. Per la ritirata di questa armata, Mompensieri e gli altri,
stretti dalla carestia delle vettovaglie, patteggiorno di dare a
Ferdinando il castello, dove erano stati assediati già tre mesi, e
di andarsene in Provenza, se infra trenta dí non fussino soccorsi,
salvo la roba e le persone di tutti quegli che v'erano dentro; e per
l'osservanza dettono statichi Ivo di Allegri e tre altri a
Ferdinando. Ma non si poteva, in tempo sí breve, sperare soccorso
alcuno se non dalle genti medesime che erano nel regno. Però
monsignore di Persí, uno de' capitani regi, avendo seco i svizzeri e
una parte delle lancie franzesi, e accompagnato dal principe di
Bisignano e da molti altri baroni, si mosse verso Napoli. La venuta
del quale presentendo Ferdinando, mandò loro incontro a Eboli il
conte di Matalona, con uno esercito la maggiore parte tumultuario,
raccolto di confidati e d'amici: il quale, benché molto maggiore di
numero, riscontratosi con gli inimici al lago Pizzolo vicino a
Eboli, subito come si accostorono si messe in fuga senza combattere,
restando nel fuggire prigione Venanzio figliuolo di Giulio da Varano
signore di Camerino: ma perché non furono seguitati molto da'
franzesi, si ridussono, ricevuto pochissimo danno, a Nola e dipoi a
Napoli. Seguitorono i vincitori l'impresa del soccorrere le
castella, e con tanta riputazione per la vittoria acquistata, che
Ferdinando ebbe inclinazione d'abbandonare un'altra volta Napoli. Ma
ripreso animo per i conforti de' napoletani, mossi non meno dal
timore proprio, causato dalla memoria della ribellione, che
dall'amore di Ferdinando, si fermò a Cappella; e per proibire che
gli inimici non si accostassino al castello, finita una tagliata
grande già cominciata dal monte di Santo Ermo insino a Castello
dell'Uovo, providde di artiglierie e di fanti tutti i poggi insino a
Cappella e sopra a Cappella: in modo che, con tutto che i franzesi,
i quali erano venuti per la via di Salerno a Nocera per la Cava e
per il monte di Pié di Grotta, si conducessino in Chiaia presso a
Napoli, nondimeno essendo ogni cosa bene difesa, e dimostrandosi
valorosamente Ferdinando e molestandogli molto l'artiglierie,
massimamente quelle che erano piantate in sul poggio di
Pizzifalcone, il qual poggio è imminente a Castel dell'Uovo, e dove
già furono le delicatezze e le suntuosità tanto famose di Lucullo,
non potettono passare piú innanzi né accostarsi a Cappella, né
avendo facoltà di soggiornarvi, perché la natura, benignissima a
quella costiera di tutte l'altre amenità, gli ha dinegato l'acque
dolci, furono costretti a ritirarsi piú presto che non arebbono
fatto, lasciati nel levarsi due o tre pezzi d'artiglieria e parte
delle vettovaglie condotte per mettere nelle castella, e se ne
andorono verso Nola: a' quali per opporsi, Ferdinando, lasciato
assediato il castello, si fermò con le sue genti nel piano di Palma
presso a Sarni. Ma Mompensieri, privato per la partita loro di ogni
speranza di essere soccorso, lasciati in Castelnuovo trecento
uomini, numero proporzionato non meno alla scarsità delle
vettovaglie che alla difesa, e lasciato guardato Castel dell'Uovo,
montato di notte, insieme con gli altri che erano dumila cinquecento
soldati, in su' legni della sua armata, se ne andò a Salerno: non
senza gravissime querele di Ferdinando, il quale pretendeva non gli
essere stato lecito, pendente il termine dello arrendersi, partirsi
con quelle genti di Castelnuovo se nel tempo medesimo non gli
consegnava quello e Castel dell'Uovo; e perciò non fu senza
inclinazione, seguitando il rigore de' patti, di vendicarsi, col
sangue degli statichi, di questa ingiuria e del mancamento di
Mompensieri, perché al termine convenuto non furono arrendute le
castella. Ma passato il tempo circa a uno mese, quegli che erano
rimasti in Castelnuovo, non potendo piú resistere alla fame, si
arrenderono con condizione che fussino liberati gli statichi; e
quasi ne' dí medesimi patteggiorno, per la medesima cagione, quegli
che erano in Castel dell'Uovo, di arrendersi il primo dí della
prossima quadragesima, se prima non fussino soccorsi.
Morí quasi circa a questo tempo a Messina Alfonso di Aragona, nel
quale, asceso al regno napoletano, si era convertita in somma
infamia e infelicità quella gloria e fortuna per la quale, mentre
era duca di Calavria, fu molto illustrato per tutto il nome suo. È
fama che poco innanzi alla morte avea fatto instanza col figliuolo
di ritornare a Napoli, ove l'odio già avuto contro a lui era quasi
convertito in benivolenza; e si dice che Ferdinando, potendo piú in
lui, come è costume degli uomini, la cupidità del regnare che la
riverenza paterna, non meno mordacemente che argutamente gli
rispose, che aspettasse insino a tanto che da sé gli fusse
consolidato talmente il regno che egli non avesse un'altra volta a
fuggirsene. E per corroborare Ferdinando le cose sue con piú stretta
congiunzione col re di Spagna, tolse per moglie, con la dispensa del
pontefice, Giovanna sua zia, nata di Ferdinando suo avolo e di
Giovanna sorella del prelato re.
Lib.2, cap.11
Le milizie de' veneziani e di Lodovico Sforza assediano Novara.
Carlo VIII assolda nuovi svizzeri. Timori e provvedimenti de'
collegati per gli appoggi della duchessa di Savoia a Carlo.
Intimazione del pontefice a Carlo ed ironica risposta di questo.
Patti conclusi tra Carlo e i fiorentini.
Ma mentre che l'assedio si teneva con vari progressi, come è detto,
intorno alle castella di Napoli, l'assedio di Novara si riduceva in
grande strettezza; perché e il duca di Milano v'aveva intorno
potente esercito, e i viniziani l'avevano soccorso con tanta
prontezza che rare volte è memoria che in impresa alcuna
perdonassino manco allo spendere: in modo che, in breve tempo, si
ritrovorono nel campo de' collegati tremila uomini d'arme tremila
cavalli leggieri mille cavalli tedeschi e cinquemila fanti italiani.
Ma quello in che consisteva la fortezza principale dell'esercito
erano diecimila lanzechenech (cosí chiamano volgarmente i fanti
tedeschi), soldati dal duca di Milano, la maggiore parte, per
opporgli a' svizzeri; perché, non che altro, non sosteneva il nome
loro la fanteria italiana, diminuita maravigliosamente di
riputazione e di ardire dopo la venuta de' franzesi. Governavangli
molti valorosi capitani, tra i quali era di maggiore nome Giorgio di
Pietrapanta nativo d'Austria; il quale, essendo pochi anni innanzi
soldato di Massimiliano re de' romani, aveva, con laude grande,
tolto in Piccardia la terra di Santo Omero al re di Francia. Né solo
era stato sollecito il senato viniziano a mandare molta gente a
quello assedio ma ancora, per dare maggiore animo a' suoi soldati,
aveva di governatore fatto capitano generale del loro esercito il
marchese di Mantova, onorando la fortezza dimostrata da lui nel
fatto d'arme del Taro; e con esempio molto grato e degno d'eterna
laude, non solo accresciuto le condotte a quegli che s'erano portati
valentemente, ma a' figliuoli di molti de' morti nella battaglia
date provisioni e vari premi, e statuito le doti alle figliuole.
Attendevasi con questo esercito sí potente allo assedio, perché era
il consiglio de' collegati, i quali di questo si riferivano
principalmente alla volontà di Lodovico Sforza, di non tentare, se
non erano necessitati la fortuna della battaglia col re di Francia,
ma fortificandosi allo intorno di Novara, ne' luoghi opportuni,
proibire che vettovaglie non v'entrassino, sperando che, per
esservene dentro piccola quantità e bisognarvene assai, non si
potesse molti giorni sostenere: perché, oltre al popolo della città
e i paesani che v'erano rifuggiti, v'aveva il duca d'Orliens, tra
franzesi e svizzeri, piú di settemila uomini di gente molto eletta.
Però Galeazzo da San Severino con l'esercito duchesco, deposto
eziandio ogni pensiero della oppugnazione della città poi che era
tanto copiosa di difensori, era alloggiato alle Mugne, luogo in
sulla strada maestra molto opportuno a impedire le provisioni che
venissino da Vercelli; e il marchese di Mantova con le genti
viniziane, avendo in sulla giunta sua preso per forza alcune terre
circostanti, e pochi dí poi il castello di Brione che era di qualche
importanza, aveva fornito Camariano e Bolgari, luoghi tra Novara e
Vercelli: e per impedire piú comodamente le vettovaglie avevano
distribuito l'esercito in molti luoghi intorno a Novara, e
fortificato gli alloggiamenti di tutti.
Da altra parte il re di Francia, per essere piú propinquo a Novara,
s'era da Asti trasferito a Turino; e ancora che spesso andasse
insino a Chieri, preso dall'amore d'una gentildonna che vi abitava,
non si intermettevano per questo le provisioni della guerra,
sollecitando continuamente le genti che passavano di Francia, con
intenzione di mettere in sulla campagna dumila lancie franzesi. Ma
con non minore studio s'attendeva a sollecitare la venuta di
diecimila svizzeri, a soldare i quali era stato mandato il baglí di
Digiuno; disegnando, subito che e' fussino arrivati allo esercito,
fare lo sforzo possibile per soccorrere Novara, ma senza quegli non
avendo ardire di tentare cosa alcuna memorabile. Perché il regno di
Francia, potentissimo in questo tempo di cavalleria e instruttissimo
di copia grande d'artiglierie e di grandissima perizia di
maneggiarle, era debolissimo di fanteria propria; perché ritenute
l'armi e gli esercizi militari solo nella nobiltà, era mancata nella
plebe e negli uomini popolari l'antica ferocia di quella nazione,
per avere lungamente cessato dalle guerre e datisi all'arti e a'
guadagni della pace: conciossiaché molti de' re passati, temendo
dell'impeto de' popoli, per l'esempio di varie congiurazioni e
rebellioni che erano accadute in quel reame, avevano atteso a
disarmargli e alienargli dagli esercizi militari. E però i franzesi,
non confidando piú della virtú de' fanti propri, si conducevano
timidamente alla guerra se nell'esercito loro non era qualche banda
di svizzeri. La quale nazione, in ogni tempo indomita e feroce,
aveva circa venti anni innanzi augumentato molto la sua riputazione;
perché essendo assaltati con potentissimo esercito da Carlo duca di
Borgogna, quello che per la potenza e per la fierezza sua era al
regno di Francia e a tutti i vicini di grandissimo terrore, gli
avevano in pochi mesi dato tre rotte e nell'ultima, o mentre
combatteva o nella fuga (perché fu oscuro il modo della sua morte)
privatolo della vita. Per la virtú loro adunque, e perché con essi
non avevano i franzesi emulazione o differenza alcuna, né per propri
interessi causa di sospettarne, come avevano de' tedeschi, non
conducevano altri fanti forestieri che svizzeri, e usavano in tutte
le guerre gravi l'opera loro; e in questo tempo piú volentieri che
negli altri, per conoscere che il soccorrere Novara, circondata da
tanto esercito e contro a tanti fanti tedeschi, che guerreggiavano
con la medesima disciplina che i svizzeri, era cosa difficile e
piena di pericoli.
È posta in mezzo tra Turino e Novara la città di Vercelli, membro
già del ducato di Milano ma conceduta da Filippo Maria Visconte,
nelle lunghe guerre che ebbe co' viniziani e co' fiorentini, ad
Amideo duca di Savoia, perché s'alienasse da loro; nella quale città
non era ancora entrata gente d'alcuna delle parti, perché la
duchessa, madre e tutrice del piccolo duca di Savoia, e d'animo
totalmente franzese, non aveva voluto scoprirsi per il re insino che
non fusse piú potente, dando in questo mezzo parole grate e speranza
al duca di Milano. Ma come il re, ingrossato già di gente, si
trasferí a Turino città del medesimo ducato, consentí che in
Vercelli entrassino de' suoi soldati; donde e a lui, per
l'opportunità di quel luogo, era accresciuta la speranza di potere,
come fussino arrivati tutti suoi sussidi, soccorrere Novara, e i
confederati cominciavano a starne con non piccola dubitazione. E
però, per stabilire con maggiore maturità come in queste difficoltà
si avesse a procedere, andò all'esercito Lodovico Sforza, e con lui
Beatrice sua moglie che gli era assiduamente compagna non manco alle
cose gravi che alle dilettevoli; alla presenza del quale, e, come fu
fama, per consiglio suo principalmente, fu dopo molte disputazioni
conchiuso unitamente da' capitani: che per maggiore sicurtà di tutti
l'esercito veneto si unisse con lo sforzesco alle Mugne, lasciando
sufficiente guardia in tutti i luoghi vicini a Novara che fussino
opportuni all'ossidione: che Bolgari s'abbandonasse, perché essendo
vicino tre miglia a Vercelli, era necessario, se i franzesi vi
fussino andati potenti per espugnarlo, o lasciarlo ignominiosamente
perdere o, contro alle deliberazioni già fatte, andare a soccorrerlo
con tutto l'esercito: che in Camariano, distante per tre miglia
all'alloggiamento delle Mugne, si accrescesse il presidio; e che,
fortificato il campo tutto con fossi e con ripari e con copia grande
d'artiglierie, si pigliassino giornalmente l'altre deliberazioni
secondo che insegnassino gli andamenti degl'inimici; non omettendo
di dare il guasto e tagliare tutti gli alberi insino quasi alle mura
di Novara, per dare incomodo e agli uomini e al saccomanno de'
cavalli, de' quali nella città era grande moltitudine.
Queste cose deliberate, e fatta la mostra generale di tutto
l'esercito, Lodovico Sforza se ne tornò a Milano, per fare piú
prontamente le provisioni che di dí in dí fussino necessarie. E per
favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali le forze
temporali, operorono, i viniziani ed egli, che 'l pontefice mandasse
uno de' suoi mazzieri a Carlo, a comandargli che fra dieci dí si
partisse d'Italia con tutto l'esercito, e fra altro termine breve
levasse le genti sue del regno di Napoli; altrimenti, che sotto
quelle pene spirituali con le quali minaccia la Chiesa comparisse a
Roma innanzi a lui personalmente; rimedio tentato altre volte dagli
antichi pontefici, perché, secondo che si legge, non con altre armi
che queste Adriano, primo di quel nome, costrinse Desiderio re de'
longobardi, che con esercito potente andava a perturbare Roma, a
ritirarsi da Terni, dove già era pervenuto, a Pavia. Ma mancata la
riverenza e la maestà che dalla santità della vita loro ne' petti
degli uomini nascevano, era ridicolo sperare da costumi e esempli
tanto contrari gli effetti medesimi. Però Carlo, deridendo la vanità
di questo comandamento, rispose che, non avendo il pontefice voluto
quando tornava da Napoli aspettarlo in Roma, dove era andato per
baciargli divotamente i piedi, si maravigliava che al presente ne
facesse tanta instanza: ma che per ubbidirlo attendeva ad aprirsi la
strada, e lo pregava che, acciocché invano non pigliasse questa
incomodità, fusse contento d'aspettarvelo.
Conchiuse in questo tempo il Carlo, in Turino, con gli imbasciadori
de' fiorentini nuovi capitoli, non senza molta contradizione di
quegli medesimi che altre volte gli avevano impugnati: a' quali
dette maggiore occasione di contradire, che, avendo i fiorentini,
dopo l'avere ricuperato l'altre castella delle colline di Pisa
perdute nella ritornata di Carlo, posto il campo a Ponte di Sacco, e
ottenutolo per accordo salve le persone de' soldati, erano stati
contro alla fede data ammazzati nell'uscire quasi tutti i fanti
guasconi che v'erano co' pisani, e usate contro a' morti molte
crudeltà. Il che, se bene fusse avvenuto contro alla volontà de'
commissari fiorentini, i quali con difficoltà grande ne salvorono
una parte, ma per opera d'alcuni soldati, i quali stati prima
prigioni dell'esercito franzese erano stati trattati molto
acerbamente, nondimeno nella corte del re questo caso,
interpretandosi dagli avversari loro per segno manifesto di animo
inimicissimo al nome di tutti i franzesi, accrebbe difficoltà alla
pratica dell'accordo: il quale pure finalmente si conchiuse,
prevalendo a ogn'altro rispetto non la memoria delle promesse e del
giuramento prestato solennemente ma la necessità urgente di danari e
del soccorrere alle cose del regno di Napoli. Convennesi adunque in
questa sentenza: che senza alcuna dilazione fussino restituite a'
fiorentini tutte le fortezze e le terre che erano in mano di Carlo,
con condizione che e' fussino obligati di dare infra due anni
prossimi, quando cosí piacesse al re, e ricevendone conveniente
ricompenso, Pietrasanta e Serezana a' genovesi, in caso venissino
alla ubbidienza del re; sotto la quale speranza gl'imbasciadori de'
fiorentini pagassino subito i trentamila ducati della capitolazione
fatta in Firenze, ma ricevendo gioie in pegno per sicurtà del
riavergli in caso non si restituissino per qualunque cagione le
terre loro: che fatta la restituzione, prestassino al re sotto
l'obligazione de' generali del reame di Francia (è questo il nome di
quattro ministri regi che ricevono l'entrate di tutto il regno)
settantamila ducati, pagandogli per lui alle genti che erano nel
regno di Napoli, e intra gli altri una parte a' Colonnesi in caso
non fussino accordati con Ferdinando; di che al re, benché avesse
già dell'accordo di Prospero qualche indizio, non era pervenuta
ancora la intera certezza: che non avendo guerra in Toscana,
mandassino nel reame, in aiuto dell'esercito franzese, dugento
cinquanta uomini d'arme; e in caso che avessino guerra in Toscana,
ma non altra che quella di Montepulciano, fussino obligati a
mandargli ad accompagnare insino nel regno le genti de' Vitelli, che
erano nel contado pisano, ma non fussino obligati a tenervegli piú
oltre che tutto il mese di ottobre: che a' pisani fussino perdonati
tutti i delitti commessi, e data certa forma alla restituzione delle
robe tolte, e fatte alcune abilità appartenenti all'arti e agli
esercizi: e che per sicurtà dell'osservanza si dessino per statichi
sei de' principali cittadini di Firenze, a elezione del re, per
dimorare certo tempo nella sua corte. Il quale accordo conchiuso, e
pagati col pegno delle gioie i trentamila ducati, che furono subito
mandati per levare i svizzeri, furono espedite le lettere e i
comandamenti regi a' castellani delle fortezze, che le restituissino
immediate a' fiorentini.
Lib.2, cap.12
Condizioni difficili de' francesi in Novara. Segrete pratiche di
concordia fra il re di Francia e il duca di Milano. Patti di pace
proposti al re di Francia e discussione di essi nel consiglio del
re. Carlo VIII, fatta la pace col duca di Milano, ritorna in
Francia.
Ma le cose dentro a Novara diventavano ogni dí piú dure e piú
difficili, con tutto che la virtú de' soldati fusse grande, e
grandissima, per la memoria della ribellione, l'ostinazione de'
novaresi a difendersi; perché erano già diminuite le vettovaglie
talmente che la gente cominciava a patire molto de' cibi necessari:
e benché Orliens, poiché si vidde ristretto, avesse mandate fuora le
bocche inutili, non era tanto rimedio che bastasse; anzi de' soldati
franzesi e de' svizzeri, poco abili a tollerare queste incomodità,
incominciavano a infermarsene ogni dí molti. Onde Orliens, oppresso
anche egli di febbre quartana, con messi spessi e lettere
sollecitava Carlo a non prolungare il soccorso; il quale, non
essendo ancora insieme tante genti che fussino abbastanza, non
poteva essere sí presto che alla necessità sua cosí urgente
sodisfacesse. Tentorono nondimeno i franzesi piú volte di mettere di
notte in Novara vettovaglia, condotta da grosse scorte di cavalli e
di fanti, ma scoperti sempre dagl'inimici furno costretti a
ritirarsi, e qualche volta con danno non piccolo di coloro la
conducevano. E per chiudere da ogni parte a quegli di dentro la via
delle vettovaglie, il marchese di Mantova assaltò il monasterio di
San Francesco propinquo alle mura di Novara, ed espugnatolo vi messe
in guardia dugento uomini d'arme e tremila fanti tedeschi: donde gli
eserciti si sgravorono di molte fatiche, restando assicurata la
strada per la quale si conducevano le loro vettovaglie e serrata la
via della porta di verso il monte di Biandrana, che era la via piú
facile a entrare in Novara. Espugnò di piú il dí seguente il
bastione fatto da' franzesi alla punta del borgo di San Nazaro, e la
notte prossima tutto il borgo e l'altro bastione contiguo alla
porta; nel quale messe la guardia, e fortificò il borgo: dove il
conte di Pitigliano, che era stato condotto da' viniziani con titolo
di governatore, ferito d'uno archibuso appresso alla cintura, stette
in grave pericolo di morte. Per i quali progressi il duca d'Orliens,
diffidandosi di potere piú difendere gli altri borghi, i quali
quando si ritirò in Novara aveva fortificati, fattovi mettere fuoco,
la notte seguente ridusse tutti i suoi alla guardia solamente della
città, sostentandosi nella estremità della fame con la speranza del
soccorso, che gli cresceva; perché essendo pure cominciati ad
arrivare i svizzeri, l'esercito franzese, passato il fiume della
Sesia, era uscito ad alloggiare in campagna un miglio fuora di
Vercelli, e messa guardia in Bolgari aspettava il resto de'
svizzeri, credendosi che come fussino arrivati si andrebbe
subitamente a soccorrere Novara: cosa piena di molte difficoltà,
perché le genti italiane erano alloggiate in forte sito e con
gagliardi ripari, e il cammino da Vercelli a Novara era cammino
copioso d'acque, e difficile per i fossi molto larghi e profondi de'
quali è pieno il paese; e tra Bolgari, guardato da' franzesi, e
l'alloggiamento degli italiani era Camariano, guardato da essi. Per
le quali difficoltà non appariva nell'animo del re né degli altri
molta prontezza. E nondimeno, se tutto il numero de' svizzeri fusse
arrivato piú presto, arebbono tentata la fortuna della battaglia:
l'evento della quale non poteva essere se non molto dubbio per
ciascuna delle parti. E però, conoscendosi il pericolo da tutti, non
mancavano continuamente tra il re di Francia e il duca di Milano
secrete pratiche di concordia; benché con poca speranza, per la
diffidenza grande che era tra loro, e perché l'uno e l'altro, per
mantenersi in maggiore riputazione, dimostrava di non averne
desiderio.
Ma il caso aperse uno altro mezzo piú espedito a tanta conclusione.
Perché essendo in quegli medesimi dí morta la marchesana di
Monferrato, e trattandosi di chi dovesse pigliare il governo di un
piccolo figliuolo che aveva lasciato, al quale governo aspiravano il
marchese di Saluzzo e Costantino fratello della marchesana morta,
uno degli antichi signori di Macedonia, occupata molti anni innanzi
da Maumeth ottomanno, il re, desideroso della quiete di quello
stato, mandò, per ordinarlo secondo il consenso de' sudditi,
Argenton a Casale Cervagio; dove essendo similmente andato, per
condolersi della medesima morte, un maestro di casa del marchese di
Mantova, nacque, tra questi due, ragionamento del beneficio che
riporterebbe ciascuna delle parti della pace; il quale ragionamento
procedé tanto avanti che, avendo Argenton, per conforto suo scritto
sopra il medesimo a' proveditori viniziani, ripetendo le cose
cominciate a trattare con loro insino in sul Taro, essi prestando
orecchi e comunicando co' capitani del duca di Milano, finalmente
tutti concordi mandorono a ricercare il re, il quale era venuto a
Vercelli, che deputasse alcuni de' suoi, acciocché in qualche luogo
comodo si conducessino a parlamento con quegli i quali sarebbono
deputati da loro: il che avendo il re consentito, si congregorno il
dí seguente, tra Bolgari e Camariano, per i viniziani il marchese di
Mantova e Bernardo Contarino proveditore de' loro stradiotti, per il
duca di Milano Francesco Bernardino Visconte, e per il re di Francia
il cardinale di San Malò, il principe d'Oranges, il quale passato
nuovamente di qua da' monti aveva per commissione del re la cura
principale di tutto l'esercito, il marisciallo di Gies, Pienes e
Argenton. I quali essendosi convenuti insieme piú volte; e inoltre
andati, in diversi dí, alcuni di essi, dall'uno esercito all'altro,
si ristrignevano principalmente le differenze alla città di Novara:
perché il re, non ponendo difficoltà nell'effetto della restituzione
ma nel modo, per minore offesa dell'onore proprio faceva instanza
che, in nome del re de' romani, diretto signore del ducato di
Milano, si dipositasse in mano d'uno di quegli capitani tedeschi che
erano nel campo italiano; ma i collegati instavano si rilasciasse
liberamente. Né si potendo questa e l'altre difficoltà che
accadevano risolvere cosí presto come arebbono avuto di bisogno
quegli che erano in Novara, ridotti tanto allo estremo che già per
la fame, e per le infermità causate da quella, vi erano morti circa
dumila uomini della gente di Orliens, fu fatto tregua per otto dí;
dando facoltà a lui e al marchese di Saluzzo di andare con piccola
compagnia a Vercelli, ma con promessa di ritornare dentro con la
medesima compagnia se la pace non si facesse: per sicurtà del quale,
avendo a passare per le forze degli inimici, il marchese di Mantova
andò a una torre presso a Bolgari, in potestà del conte di Fois. Né
arebbeno i soldati, i quali restorono in Novara, lasciatolo partire
se da lui non avessino avuta la fede che, fra tre dí, o vi
ritornerebbe o che essi arebbono per opera sua facoltà d'uscirsene;
e dal marisciallo di Gies, che era andato a Novara per condurlo
fuora, un suo nipote per statico: perché erano consumati non solo i
cibi consueti al vitto umano ma eziandio gli immondi, da' quali gli
uomini in tanta estremità non si erano astenuti. Ma come il duca
d'Orliens fu arrivato al re si prolungò la tregua per pochi dí, con
patto che tutta la gente sua uscisse di Novara, lasciando la terra
in potestà del popolo, sotto giuramento di non la dare ad alcuna
delle parti senza il consentimento comune; e che nella rocca
rimanessino per Orliens trenta fanti, a' quali fusse dal campo
italiano giornalmente mandata la vettovaglia. Cosí uscirono di
Novara tutti i soldati, accompagnati, insino che furono in luogo
sicuro dal marchese di Mantova e da Galeazzo da San Severino, ma
tanto indeboliti e consumati dalla fame che non pochi di loro
morirono appena arrivati a Vercelli e gli altri restorno inutili a
adoperarsi in questa guerra. E in quegli dí medesimi arrivò il baglí
di Digiuno col resto de' svizzeri; de' quali se bene non n'avesse
dimandati piú che diecimila, non aveva potuto proibire che alla fama
de' danari del re di Francia non concorressino quasi popolarmente,
in modo che ascendevano al numero di ventimila: de' quali la metà si
congiunse col campo che era appresso a Vercelli, l'altra metà si
fermò discosto dieci miglia, non si giudicando totalmente sicuro che
tanta quantità di quella nazione stesse insieme nel medesimo
esercito. La cui venuta se fusse stata qualche dí prima arebbe
facilmente interrotte le pratiche dell'accordo, perché nell'esercito
del re erano, oltre a questi, ottomila fanti franzesi, dumila
svizzeri di quegli che erano stati a Napoli, e le compagnie di mille
ottocento lancie; ma essendo la materia tanto avanti, e già
abbandonata Novara, non si intermessono i ragionamenti; con tutto
che il duca di Orliens facesse opera efficace in contrario, e che
nella sua sentenza molti altri concorressino. E perciò erano ogni dí
i deputati nel campo italiano a praticare col duca di Milano,
ritornatovi nuovamente per trattare da se medesimo cosa di tanta
importanza, benché in presenza continuamente degli imbasciadori de'
collegati; e finalmente i deputati ritornorono al re, riportando,
per ultima conclusione di quello in che si poteva convenire: che tra
il re di Francia e il duca di Milano fusse perpetua pace e amicizia,
non derogando per questo il duca all'altre sue confederazioni;
consentendo che la terra di Novara gli fusse restituita dal popolo e
rilasciatagli la rocca da' fanti, e si restituissino la Spezie e gli
altri luoghi occupati da ciascheduna delle parti: che al re fusse
lecito armare a Genova, suo feudo, quanti legni volesse, e servirsi
di tutte le comodità di quella città, eccetto che in favore
degl'inimici di quello stato; e che per sicurtà di questo i genovesi
gli dessino certi statichi: che 'l duca di Milano gli facesse
restituire i legni perduti a Rapallo e le dodici galee ritenute a
Genova, e gli armasse di presente a spese proprie due caracche
grosse genovesi, le quali, insieme con quattro altre armate in nome
suo, disegnava di mandare al soccorso del regno di Napoli; e che
l'anno futuro fusse tenuto a dargliene tre nel modo medesimo:
concedesse passo alle genti che 'l re mandasse per terra al medesimo
soccorso, ma non passando per lo stato suo piú che dugento lancie
per volta; e in caso che il re ritornasse a quella impresa
personalmente dovesse il duca seguitarlo con certo numero di genti:
avessino i viniziani facoltà d'entrare fra due mesi in questa pace,
ed entrandovi ritirassino l'armata loro del regno di Napoli né
potessino dare soccorso alcuno a Ferdinando; il che quando non
osservassino, se il re volesse muovere loro la guerra fusse obligato
il duca ad aiutarlo, per il quale si acquistasse tutto quello che si
pigliasse dello stato de' viniziani: pagasse il duca, per tutto
marzo prossimo, ducati cinquantamila a Orliens per le spese fatte a
Novara; e de' danari prestati al re quando passò in Italia lo
liberasse d'ottantamila ducati, gli altri, ma con termine piú lungo,
gli fussino restituiti: fusse assoluto dal bando avuto dal duca, e
rendutogli i suoi beni, il Triulzio; e il bastardo di Borbone preso
nella giornata del Taro, e Miolans che era stato preso a Rapalle e
tutti gli altri prigioni, fussino liberati: che il duca facesse
partire di Pisa il Fracassa il quale poco innanzi v'aveva mandato, e
tutte le genti sue e de' genovesi; né potesse impedire la
recuperazione delle terre a' fiorentini: deponesse infra un mese il
castelletto di Genova nelle mani del duca di Ferrara, che chiamato,
per questo, dall'uno e dall'altro era venuto nel campo italiano; il
quale l'avesse a guardare due anni a spese comuni, obligandosi con
giuramento di consegnarlo, eziandio durante il tempo predetto, al re
di Francia in caso che 'l duca di Milano non gli osservasse le
promesse; il quale, conchiusa che fusse la pace, avesse a dare
subito statichi al re per sicurtà di deporre al tempo convenuto il
castelletto. Queste condizioni, riferite al re dai suoi che
l'avevano trattate, furono da lui proposte nel suo consiglio; nel
quale, variando gli animi di molti, monsignore della Tramoglia parlò
in questa sentenza:
- Se nella presente deliberazione non si trattasse, magnanimo re, se
non d'accrescere con opere valorose nuova gloria alla corona di
Francia, io mi moverei per avventura piú lentamente a confortare che
la persona vostra reale si esponesse a nuovi pericoli; ancora che
l'esempio di voi medesimo vi dovesse consigliare in contrario,
perché non mosso da altro che dalla cupidità della gloria
deliberaste, contro a' consigli e contro a' prieghi di quasi tutto
il vostro reame, di passare l'anno precedente in Italia al conquisto
del regno di Napoli: ove avendo con tanta fama e onore avuto sí
prospero successo la impresa vostra, è cosa manifestissima che oggi
non viene solo in consulta se s'ha a rifiutare l'occasione
d'acquistare onori e gloria nuova, ma se s'ha a deliberarsi di
disprezzare e di lasciare perdere quella che con sí gravi spese e
con tanti pericoli avete conseguita, e convertire l'onore acquistato
in grandissima ignominia, ed essere voi quello che riprendiate e
condanniate le deliberazioni fatte da voi medesimo. Perché poteva la
Maestà Vostra senza alcuno carico suo starsene in Francia, né poteva
quello che al presente sarà attribuito da tutto il mondo a somma
timidità e viltà essere allora attribuito ad altro che a negligenza,
o alla età occupata ne' piaceri. Poteva la Maestà Vostra, subito che
fu giunta in Asti, con molto minore vergogna sua ritornarsene in
Francia, dimostrando che a lei le cose di Novara non attenessino; ma
ora, poiché fermata qui con l'esercito suo ha publicato d'essersi
fermata per liberare dallo assedio Novara e, per questo, fatto
venire di Francia tanta nobiltà, e con intollerabile spesa condotti
tanti svizzeri, chi può dubitare che, non la liberando, la gloria
vostra e del vostro reame non si converta in eterna infamia? Ma ci
sono piú potenti o (se ne' petti magnanimi de' re non può essere
maggiore né piú ardente stimolo che la cupidità della fama e de la
gloria) almanco piú necessarie ragioni: perché la ritirata nostra in
Francia, consentendo per accordo la perdita di Novara, non vuole
dire altro che la perdita di tutto il regno di Napoli, che la
distruzione di tanti capitani, di tanta nobiltà franzese, rimasta
sotto la speranza vostra, sotto la fede data da voi di presto
soccorrergli, alla difesa di quel reame; i quali resteranno
disperati del soccorso come intenderanno che voi, trovandovi in
sulle frontiere d'Italia con tanto esercito, con tante forze,
cediate agl'inimici. Dependono in grande parte, come ognuno sa,
dalla riputazione i successi delle guerre; la quale quando declina,
declina insieme la virtú de' soldati diminuisce la fede de' popoli
annichilansi l'entrate deputate a sostenere la guerra, e per
contrario cresce l'animo degl'inimici alienansi i dubbii e
augumentansi in infinito tutte le difficoltà. Però mancando, con
nuova sí infelice, all'esercito nostro il suo vigore, e diventando
maggiori le forze e la riputazione degl'inimici, chi dubita che
presto sentiremo la ribellione di tutto il regno di Napoli? presto
la disfazione del nostro esercito? e che quella impresa, cominciata
e proseguita con tanta gloria, non ci arà partorito altro frutto che
danno e infamia inestimabile? Perché chi si persuade che questa pace
si faccia con buona fede dimostra di considerare poco le condizioni
delle cose presenti, dimostra di conoscere poco la natura di coloro
co' quali si tratta; essendo facile a comprendere che, come aremo
voltate le spalle all'Italia, non ci sarà osservata cosa alcuna di
quelle che si capitolano, e che in cambio di darci gli aiuti
promessi sarà mandato soccorso a Ferdinando; e quelle genti medesime
che si glorieranno d'averci fatto vilmente fuggire d'Italia andranno
a Napoli ad arricchirsi delle spoglie de' nostri. La quale ignominia
io tollererei piú facilmente se per alcuna probabile cagione si
potesse dubitare della vittoria. Ma come può nascere in alcuno
questo sospetto che, considerando la grandezza del nostro esercito,
l'opportunità che abbiamo del paese circostante, si ricordi che,
stracchi della lunghezza del cammino, assediati delle vettovaglie,
pochissimi di numero e in mezzo di tutto il paese inimico,
combattemmo sí ferocemente contro a grossissimo esercito in sul
fiume del Taro? il quale fiume corse quel dí con grande impeto, piú
grosso di sangue degli inimici che d'acqua propria; aprimmoci col
ferro la strada, e vittoriosi cavalcammo otto giorni per il ducato
di Milano, che tutto ci era contrario? Abbiamo al presente il doppio
piú cavalleria e tanti piú fanti franzesi che allora non avevamo, e
in cambio di tremila svizzeri n'abbiamo ora ventiduemila:
gl'inimici, se bene augumentati di fanti tedeschi, si può dire che a
comparazione nostra siano poco augumentati, perché la cavalleria
loro è quasi la medesima, sono i medesimi capitani; e battuti una
volta con tanto danno da noi, ritorneranno con grande spavento a
combattere. E forse i premi della vittoria sono sí piccoli che
abbino a essere vilipesi da noi? e non piú presto tali che debbiamo
cercare di conseguirgli con qualunque pericolo? Perché non si
combatte solamente la conservazione di tanta gloria acquistata, la
conservazione del regno di Napoli, la salute di tanti vostri
capitani e di tanta nobiltà, ma sarà posto in mezzo della campagna
lo imperio di tutta Italia; la quale, vincendo qui, sarà per tutto
preda della vittoria nostra: perché, che altre genti che altri
eserciti restano agli inimici? nel campo de' quali sono tutte l'armi
tutti i capitani che hanno potuto mettere insieme. Un fosso che noi
passiamo, un riparo che noi spuntiamo, ci mette in seno cose sí
grandi: lo imperio e le ricchezze di tutta Italia, la facoltà di
vendicarci di tante ingiurie. I quali due stimoli, soliti ad
accendere gli uomini pusillanimi e ignavi, se non moveranno la
nazione nostra bellicosa e feroce potremo dire certamente esserci
mancata piú presto la virtú che la fortuna; la quale ci ha arrecato
occasione di guadagnare in sí piccolo campo, in sí poche ore, premi
tanto grandi e tanto degni che né piú grandi né piú degni n'aremmo
saputo noi medesimi desiderare. -
Ma in contrario il principe di Oranges parlò cosí:
- Se le cose nostre, cristianissimo re, non fussino ridotte in tanta
strettezza di tempo, ma fussino in grado che ci dessino spazio
d'accompagnare le forze con la prudenza e con la industria, e non ci
necessitassino, se vogliamo perseverare nell'armi, a procedere
impetuosamente e contro a tutti i precetti dell'arte militare, sarei
ancora io uno di quegli che consiglierei che si rifiutasse
l'accordo; perché in verità molte ragioni ci confortano a non
l'accettare, non si potendo negare che il continuare la guerra
sarebbe molto onorevole e molto a proposito delle cose nostre di
Napoli. Ma i termini ne' quali è ridotta Novara e la rocca, dove non
è da vivere pure per un giorno, ci costringono, se la vogliamo
soccorrere, ad assaltare gl'inimici subitamente; e quando pure,
lasciandola perdere, pensiamo a trasferire in altra parte dello
stato di Milano la guerra, la stagione del verno che si appropinqua,
molto incomoda a guerreggiare in questi luoghi bassi e pieni di
acqua, la qualità del nostro esercito il quale, per la natura e
moltitudine sí grande de' svizzeri, se non sarà adoperato presto
potrebbe essere piú pernicioso a noi che agl'inimici, la carestia
grandissima de' danari per la quale è impossibile il mantenerci qui
lungamente, ci necessitano, non accettando l'accordo, a cercare di
terminare presto la guerra: il che non si può fare altrimenti che
andando a dirittura a combattere con gl'inimici. La qual cosa, per
le condizioni loro e del paese, è tanto pericolosa che e' non si
potrà dire che il procedere in questo modo non sia somma temerità e
imprudenza: perché l'alloggiamento loro è tanto forte per natura e
per arte, avendo avuto tempo sí lungo a ripararlo e a fortificarlo,
i luoghi circostanti, che gli hanno messo in guardia sono sí
opportuni alla difesa loro e sí bene muniti, il paese per la
fortezza de' fossi e per l'impedimento dell'acque è sí difficile a
cavalcare, che chi disegna d'andare distesamente a trovargli, e non
d'accostarsi loro di passo in passo con le comodità e co' vantaggi e
(come si dice) guadagnando il paese e gli alloggiamenti opportuni a
palmo a palmo, non cerca altro che avventurarsi con grandissimo e
quasi certissimo pericolo. Perché con quale discorso, con quale
ragione di guerra, con quale esempio di eccellenti capitani, si
debbe egli impetuosamente assaltare un esercito sí grosso che sia in
uno alloggiamento sí forte, e sí copioso d'artiglierie? Bisogna, chi
vuole procedere altrimenti che a caso, cercare di diloggiargli del
forte loro, col prendere qualche alloggiamento che gli soprafaccia o
con l'impedire loro le vettovaglie; delle quali cose non veggo se ne
possa sperare alcuna se non procedendo maturamente e con lunghezza
di tempo, il quale ciascuno conosce che abilità abbiamo di
aspettare: senza che, la cavalleria nostra non è né di quel numero
né di quel vigore che molti forse si persuadono, essendone, come
ognuno sa, ammalati molti, molti ancora, e con licenza e senza
licenza, ritornatisene in Francia, e la maggiore parte di quegli che
restano, stracchi per la lunga milizia, sono piú desiderosi
d'andarsene che di combattere; e il numero grande de' svizzeri, che
è il nervo principale del nostro esercito, ci è forse cosí nocivo
come sarebbe inutile il piccolo numero. Perché chi è quello che,
esperto della natura e de' costumi di quella nazione e che sappia
quanto sia difficile, quando sono tanti insieme, il maneggiargli, ci
assicuri che non faccino qualche pericoloso tumulto, massime
procedendo le cose con lunghezza? nella quale, per cagione de'
pagamenti ne' quali sono insaziabili, e per altri accidenti, possono
nascere mille occasioni di alterargli. Cosí restiamo incerti se gli
aiuti loro ci abbino a essere medicina o veleno; e in questa
incertitudine come possiamo noi fermare i nostri consigli? come
possiamo noi risolverci a deliberazione alcuna animosa e grande?
Nessuno dubita che piú onorevole sarebbe, piú sicura per la difesa
del regno di Napoli, la vittoria che l'accordo; ma in tutte le
azioni umane, e nelle guerre massimamente, bisogna spesso accomodare
il consiglio alla necessità, né, per desiderio di ottenere quella
parte che è troppo difficile e quasi impossibile, esporre il tutto a
manifestissimo pericolo; né è manco ufficio del valoroso capitano
fare operazione di savio che d'animoso. Né è stata l'impresa di
Novara principalmente impresa vostra, né appartiene se non per
indiretto a voi che non pretendete diritto al ducato di Milano; né
fu la partita vostra da Napoli per fermarsi a fare la guerra nel
Piemonte ma per ritornare in Francia, a fine di riordinarvi di
danari e di genti, da potere piú gagliardamente soccorrere il regno
di Napoli: il quale, in questo mezzo, col soccorso dell'armata
partita da Nizza, con le genti vitellesche con gli aiuti e co'
danari de' fiorentini, si intratterrà tanto che potrà facilmente
aspettare le potenti provisioni che, ricondotto in Francia, voi
farete. Non sono già io di quegli che affermi che il duca di Milano
osserverà questa capitolazione; ma essendovi da lui e da' genovesi
dati gli ostaggi, e depositando il castelletto secondo la forma de'
capitoli, n'arete pure qualche arra e qualche pegno. Né sarebbe però
da maravigliarsi molto che egli, per non avere a essere sempre il
primo percosso da voi, desiderasse la pace; né hanno per sua natura
le leghe, dove intervengono molti, tale fermezza o tale concordia
che non si possa sperare d'averne a raffreddare o a disunire dagli
altri qualcuno: ne' quali ogni piccola apertura che noi facessimo,
ogni piccolo spiraglio che ci apparisse, aremmo la vittoria facile e
sicura. Io finalmente vi conforto, re cristianissimo, all'accordo,
non perché per se stesso sia utile o laudabile ma perché appartiene
a' príncipi savi, nelle deliberazioni difficili e moleste, approvare
per facile e desiderabile quella che sia necessaria o che sia manco
di tutte l'altre ripiena di difficoltà e di dispiacere. -
Ripigliò il duca d'Orliens le parole del principe di Oranges, e con
tanta acerbità che, trascorrendo l'uno e l'altro impetuosamente
dalle parole calde alle ingiuriose, Orliens, presenti tutti, lo
smentí; e nondimeno la inclinazione della maggiore parte del
consiglio e quasi di tutto l'esercito era che s'accettasse la pace,
potendo tanto in tutti, e non meno nel re che negli altri, la
cupidità del ritornarsene in Francia che impediva il conoscere il
pericolo del regno di Napoli, e quanto fusse ignominioso il lasciare
perdere innanzi agli occhi propri Novara, e la partita d'Italia con
condizioni, per la incertitudine della osservanza, cosí inique: la
quale deliberazione fu con tanta caldezza favorita dal principe di
Oranges che molti dubitorono che a requisizione del re de' romani,
al quale era deditissimo, non riguardasse meno all'interesse del
duca di Milano che a quello del re di Francia. Ed era grande
appresso a Carlo la sua autorità, parte per lo ingegno e valore suo,
parte perché facilmente da' príncipi sono riputati savi quegli
consigli che si conformano piú alla loro inclinazione. Fu adunque
stipulata la pace, la quale non prima giurata dal duca di Milano, il
re, tutto intento al ritorno di Francia, se ne andò subito a Turino;
sollecitato anche al partirsi da Vercelli perché quella parte de'
svizzeri che era nel campo suo, per assicurarsi d'avere lo stipendio
per tre mesi interi, come dicevano avere sempre osservato seco Luigi
undecimo, con tutto che e' non fusse stato loro promesso, e che non
avessino militato tanto tempo per lui, trattavano di ritenere o il
re o i principali della sua corte: dal quale pericolo benché
liberatosi con la súbita partita, nondimeno, avendo essi fatto
prigioni il baglí di Digiuno e gli altri capi che gli avevano
condotti fu alla fine necessitato d'assicurargli, con statichi e con
promesse, della dimanda la quale facevano. Da Turino il re,
desideroso di stabilire la pace fatta, mandò al duca di Milano il
marisciallo di Gies il presidente di Gannai e Argenton, per indurlo
a parlamento seco, il che egli dimostrava di desiderare ma dubitare
di qualche fraude; e o per questo sospetto, o forse studiosamente
interponendo difficoltà per non ingelosire gli animi de' collegati,
o per ambizione di condurvisi come non inferiore al re di Francia,
proponeva di fare l'abboccamento in mezzo di qualche riviera, in
sulla quale, essendo stabilito un ponte o con le barche o con altra
materia, restasse tra loro uno steccato forte di legname: nel qual
modo si erano altre volte abboccati insieme i re di Francia e di
Inghilterra, e altri príncipi grandi di ponente. Il che essendo
ricusato dal re come cosa indegna di sé, e avendo ricevuto da lui
gli statichi, mandò Perone di Baccie a Genova, per ricevere le due
caracche promessegli e per armarne a spese proprie quattro altre,
per soccorrere le castella di Napoli; le quali era già certificato
non avere ricevuto il soccorso dell'armata mandata da Nizza, e
perciò avere convenuto di arrendersi se fra trenta dí non fussino
soccorse: disegnando mettervi su tremila svizzeri, e congiugnerle
con l'armata ritiratasi a Livorno e con alcuni altri legni che
s'aspettavano di Provenza, i quali senza le navi grosse genovesi non
sarebbono stati bastanti a questo soccorso, essendo già ripieno il
porto di Napoli di grossa armata; perché, oltre a' legni condottivi
da Ferdinando, vi avevano i viniziani mandate venti galee e quattro
navi di quella che aveva espugnato Monopoli. Mandò ancora il re
Argenton a Vinegia per ricercargli che entrassino nella pace; e
dipoi prese il cammino di Francia, con tanta celerità e ardore, egli
e tutta la corte, d'esservi presto che, non che altro, non volesse
soprasedere in Italia pochi dí per aspettare che i genovesi gli
dessino gli statichi promessi, come senza dubbio non si partendo
cosí presto fatto arebbono: e cosí, alla fine d'ottobre dell'anno
mille quattrocento novantacinque, si ritornò di là da' monti, simile
piú tosto, non ostante le vittorie ottenute, a vinto che a
vincitore; lasciato in Asti, la quale città simulò d'avere comperata
dal duca d'Orliens, governatore Gianiacopo da Triulzi con
cinquecento lancie franzesi, le quali quasi tutte, fra pochi dí, di
propria autorità lo seguitorono; né avendo lasciato al soccorso del
regno di Napoli altra provisione che l'ordine delle navi che si
armavano a Genova e in Provenza, e l'assegnamento degli aiuti e de'
danari promessigli da' fiorentini.
Lib.2, cap.13
Manifestazione del male detto da' francesi: “di Napoli”, e dagli
italiani: “francese”. Suo luogo d'origine e sua diffusione.
Né pare, dopo la narrazione dell'altre cose, indegno di memoria che,
essendo in questo tempo fatale a Italia che le calamità sue avessino
origine dalla passata de' franzesi, o almeno a loro fussino
attribuite, che allora ebbe principio quella infermità che, chiamata
da' franzesi il male di Napoli, fu detta comunemente dagli italiani
le bolle o il male franzese; perché, pervenuta in essi mentre erano
a Napoli, fu da loro, nel ritornarsene in Francia, diffusa per tutta
Italia: la quale infermità o del tutto nuova o incognita insino a
questa età nel nostro emisperio, se non nelle sue remotissime e
ultime parti, fu massime per molti anni tanto orribile che, come di
gravissima calamità, merita se ne faccia menzione. perché
scoprendosi o con bolle bruttissime, le quali spesse volte
diventavano piaghe incurabili, o con dolori intensissimi nelle
giunture e ne' nervi per tutto il corpo, né usandosi per i medici,
inesperti di tale infermità, rimedi appropriati ma spesso rimedi
direttamente contrari e che molto la facevano inacerbire, privò
della vita molti uomini di ciascuno sesso e età, molti diventati
d'aspetto deformissimi restorono inutili e sottoposti a cruciati
quasi perpetui; anzi la maggiore parte di coloro che pareva si
liberassino ritornavano in breve spazio di tempo nella medesima
miseria; benché, dopo il corso di molti anni, o mitigato lo influsso
celeste che l'aveva prodotta cosí acerba, o essendosi per la lunga
esperienza imparati i rimedi opportuni a curarla, sia diventata
molto manco maligna; essendosi anche per se stessa trasmutata in piú
specie diverse dalla prima. Calamità della quale certamente gli
uomini della nostra età si potrebbono piú giustamente querelare se
pervenisse in essi senza colpa propria: perché è approvato, per
consentimento di tutti quegli che hanno diligentemente osservata la
proprietà di questo male, che o non mai o molto difficilmente
perviene in alcuno se non per contagione del coito. Ma è conveniente
rimuovere questa ignominia dal nome franzese, perché si manifestò
poi che tale infermità era stata traportata di Spagna a Napoli, né
propria di quella nazione ma condotta quivi di quelle isole le
quali, come in altro luogo piú opportunamente si dirà, cominciorono,
per la navigazione di Cristofano Colombo genovese, a manifestarsi,
quasi in questi anni medesimi, al nostro emisperio. Nelle quali
isole, nondimeno, questo male ha prontissimo, per benignità della
natura, il rimedio; perché beendo solamente del succo d'un legno
nobilissimo per molte doti memorabili, che quivi nasce,
facilissimamente se ne liberano.
Lib.3, cap.1
Lodi generali al senato veneziano ed al duca di Milano per aver essi
liberato l'Italia dai francesi. Lodovico Sforza mantiene fede solo
ad alcune delle condizioni di pace. Fa spogliare delle scritture
riguardanti i patti conclusi con Carlo VIII l'oratore fiorentino.
Ambizione de' veneziani e dello Sforza al dominio di Pisa.
Restituzione della terra e delle fortezze di Livorno ai fiorentini.
Entraghes malgrado le lettere del re non consegna Pisa ai fiorentini
ed impedisce che essi se ne impadroniscano.
La ritornata poco onorata del re di Francia di là da' monti, benché
proceduta piú da imprudenza o da disordini che da debolezza di forze
o da timore, lasciò negli animi degli uomini speranza non mediocre
che Italia, percossa da infortunio tanto grave, avesse presto a
rimanere del tutto libera dallo imperio insolente de' franzesi; onde
risonavano per tutto le laudi del senato viniziano e del duca di
Milano che, prese l'armi, con savia e animosa deliberazione,
avessino vietato che sí preclara parte del mondo non cadesse in
servitú di forestieri: i quali se, acciecati dalle cupidità
particolari, non avessino, eziandio con danno e infamia propria,
corrotto il bene universale, non si dubita che Italia reintegrata
co' consigli e le forze loro nel pristino splendore, sarebbe stata
per molti anni sicura dall'impeto delle nazioni oltramontane. Ma
l'ambizione, la quale non permesse che alcuno di loro stesse
contento a' termini debiti, fu cagione di rimettere presto Italia in
nuove turbazioni, e che non si godesse il frutto della vittoria che
ebbono poi contro all'esercito franzese, che era rimasto nel regno
di Napoli; la quale vittoria la negligenza e i consigli imprudenti
del re lasciorono loro facilmente conseguire, essendo il soccorso
disegnato da lui, quando si partí d'Italia, restato vano, perché né
le provisioni dell'armata né gli aiuti promessi da' fiorentini
ebbono effetto.
Non era Lodovico Sforza condisceso con sincera fede alla pace con
Carlo, perché ricordandosi, come è natura di chi offende, delle
ingiurie che gli avea fatte si persuadeva non potere piú sicuramente
commettersi alla sua fede, ma il desiderio di ricuperare Novara e di
liberare dalla guerra lo stato proprio l'avevano indotto a
promettere quello che non aveva in animo di osservare. Né si dubitò
che alla pace fatta con questa simulazione fusse intervenuto il
consentimento del senato viniziano, desideroso d'alleggerirsi senza
infamia sua della spesa smisurata la quale per la loro republica si
sosteneva intorno a Novara. E nondimeno Lodovico, per non si partire
subito cosí impudentemente, ma con qualche colore, dalla
capitolazione, adempié quello che e' non poteva negare che fusse in
arbitrio suo: dette gli statichi, fece liberare i prigioni pagando
del suo proprio le taglie loro, restituí i legni presi a Rapalle,
rimosse di Pisa il Fracassa, il quale non poteva dissimulare che
fusse stipendiario suo; e infra 'l mese convenuto ne' capitoli,
consegnò il castelletto di Genova al duca di Ferrara, che andò in
persona a riceverlo. Ma da altra parte lasciò in Pisa Luzio Malvezzo
con non piccolo numero di gente, come soldato de' genovesi; permesse
che andassino nel regno di Napoli due caracche che a Genova s'erano
armate per Ferdinando, scusandosi che, per averle egli soldate
innanzi si conchiudesse la pace, non si consentiva a Genova il
negargliene; impedí occultamente che i genovesi gli dessino gli
ostaggi; e, quello che fu di maggiore momento alla perdita delle
castella di Napoli, poi che 'l re ebbe finito d'armare le quattro
navi, ed egli proveduto alle due alle quali era tenuto, operò che i
genovesi dimostrando timore ricusassino ch'elle si armassino di
soldati del re, se prima non ricevevano da lui sufficiente sicurtà
di non se le appropriare, né di tentare con esse di mutare il
governo di Genova: delle quali cavillazioni facendo il re per uomini
propri querela a Lodovico, ora rispondeva avere promesso di dare le
navi ma non obligatosi che le si potessino fornire di gente
franzese, ora che il dominio che aveva di Genova non era assoluto,
ma limitato con tali condizioni che in potestà sua non era il
costringergli a fare tutto quello che gli paresse, e specialmente le
cose che essi pretendessino essere pericolose allo stato e alla
città propria; le quali escusazioni per corroborare piú, operò che
il pontefice comandasse a' genovesi e a lui, sotto pena delle
censure, che non lasciassino cavare di Genova legni di alcuna sorte
al re di Francia. Onde restò vano questo soccorso, aspettato con
sommo desiderio da' franzesi che erano nel reame di Napoli. Come
similmente restorono vani i danari e gli aiuti promessi da'
fiorentini. Perché dopo l'accordo fatto a Turino essendo partito
subito con tutte le espedizioni necessarie Guidantonio Vespucci, uno
degli oratori che erano intervenuti a conchiuderlo, e passando senza
sospetto per il ducato di Milano perché la republica fiorentina non
si era dichiarata inimica di alcuno, fu per commissione del duca
ritenuto in Alessandria, toltegli tutte le scritture, ed egli
condotto a Milano; dove intesa la capitolazione e le promesse de'
fiorentini, fu deliberato da' viniziani e dal duca essere bene di
non lasciare perire i pisani, i quali, subito che il re di Francia
era partito da Pisa, avevano per nuovi imbasciadori raccomandate a
Vinegia e a Milano le cose loro: movendosi amendue, con consenso del
pontefice e degli oratori degli altri confederati, sotto pretesto di
impedire i danari e le genti che i fiorentini doveano, riavendo Pisa
e l'altre terre, mandare nel regno di Napoli: e perché, essendo
congiunti al re di Francia, potrebbono, diventati piú potenti per la
recuperazione di quella città e liberatisi da quello impedimento,
nuocere in molti modi alla salute d'Italia.
Ma si movevano principalmente per la cupidità d'insignorirsi di
Pisa; alla quale preda, disegnata molto prima da Lodovico,
incominciavano medesimamente a volgere gli occhi i viniziani, come
quegli che, per essere dissoluta l'antica unione degli altri
potentati e indebolita una parte di coloro che solevano opporsegli,
abbracciavano già co' pensieri e con le speranze la monarchia
d'Italia: alla quale cosa pareva che fusse molto opportuno il
possedere Pisa, per cominciare con la comodità del porto suo, in
quale si giudicava che difficilmente potessino, non avendo Pisa,
conservarsi lungo tempo i fiorentini, a distendersi nel mare di
sotto, e per fermare con la comodità della città un piede di non
piccola importanza in Toscana. Nondimeno erano stati piú pronti gli
aiuti del duca di Milano; il quale, intrattenendosi nel tempo
medesimo con varie pratiche co' fiorentini, aveva ordinato che
Fracassa, sotto colore di faccende private, perché avea possessioni
in quello contado, andasse a Pisa, e che i genovesi vi mandassino di
nuovo fanti: attendendo in questo mezzo i viniziani a confortare i
pisani con promesse di mandare loro aiuto, per il che avevano
mandato a Genova uno secretario a soldare fanti e a confortare i
genovesi a non abbandonare i pisani; ma il mandargli a Pisa
eseguivano lentamente, perché, mentre che la cittadella era tenuta
per il re e, molto piú, mentre che il re era in Italia, non
giudicavano essere da fare molto fondamento in quelle cose.
E da altra parte i fiorentini, intese le nuove convenzioni fatte
dagli oratori loro col re a Turino, avevano augumentato l'esercito
loro, per potere, subito che arrivassino l'espedizioni regie,
costrignere i pisani a ricevergli: le quali mentre ritardano, per
l'arrestamento fatto del loro imbasciadore, preso il castello di
Palaia, poseno il campo a Vico Pisano. L'oppugnazione del qual
castello riuscí vana: parte perché i capitani, o con cattivo
consiglio o perché giudicassino non avere gente sufficiente a porre
il campo dalla parte di verso Pisa, massime avendovi i pisani fatto
uno bastione in luogo rilevato assai vicino alla terra,
s'accamporono dalla banda di sotto verso Bientina, luogo poco
opportuno a nuocere a Vico, e dove stando restava aperto il cammino
da Pisa e da Cascina agli assediati; parte perché Pagolo Vitelli con
la compagnia sua e de' fratelli, ricevuti tremila ducati da' pisani,
v'entrò alla difesa, dicendo avere lettere dal re e comandamento dal
generale di Linguadoca, fratello del cardinale di San Malò, il quale
infermo era rimasto a Pietrasanta, di difendere, insino che altro
non gli fusse ordinato, Pisa e il suo contado: ed era certamente
cosa maravigliosa che in uno tempo medesimo i pisani fussino difesi
dalle genti del re di Francia e aiutati similmente da quelle del
duca di Milano e nutriti di speranze da' viniziani, con tutto che e
quel senato e il duca fussino in manifesta guerra col re. Per il
soccorso delle genti de' Vitelli si difese facilmente Vico Pisano, e
con danno non piccolo del campo de' fiorentini, il quale alloggiava
in luogo sí scoperto che era molto offeso dall'artiglierie state
condotte in Vico da' pisani; in modo che, dopo esservi dimorato
molti dí, fu necessario che i capitani disonoratamente se ne
levassino. Ma essendo arrivate poi l'espedizioni regie, le quali
duplicate erano state mandate occultamente per diverse vie, furno
subito restituite a' fiorentini la terra e le fortezze di Livorno e
del porto, da Saliente luogotenente di monsignore di Beumonte, al
quale il re l'aveva date a guardia; e monsignore di Lilla, deputato
commissario a ricevere da' fiorentini la ratificazione dell'accordo
fatto a Turino e a fare eseguire la restituzione, cominciò a
trattare con Entraghes, castellano della cittadella di Pisa e delle
rocche di Pietrasanta e di Mutrone, per stabilire seco il dí e il
modo del consegnarle.
Ma Entraghes, indotto o dalla medesima inclinazione che ebbono in
Pisa tutti i franzesi o da secrete commissioni che avesse da Ligní,
sotto 'l cui nome e come dependente da lui era, quando il re partí
da Pisa, stato proposto a questa guardia, o stimolato dall'amore
portava a una fanciulla figliuola di Luca del Lante cittadino
pisano, perché non è credibile lo movessino solamente i danari, de'
quali poteva sperare di ricevere maggiore quantità da' fiorentini,
cominciò a interporre varie difficoltà; ora dando interpretazione
fuora del vero senso alle patenti regie, ora affermando d'avere
avuto da principio comandamento di non le restituire se non riceveva
contrasegni occulti da Ligní: sopra le quali cose essendosi
disputato qualche dí, fu necessario a' fiorentini fare nuova
instanza col re, il quale ancora era a Vercelli, che facesse
provisione a questo disordine, nato con tanta offesa della degnità e
utilità propria. Dimostrò il re molestia grande della disubbidienza
d'Entraghes, però non senza indegnazione comandò a Ligní che lo
costrignesse a ubbidire; con intenzione di mandare, con questo
ordine e con nuove patenti, e con lettere efficaci del duca
d'Orliens del quale esso era suddito, un uomo d'autorità: ma potendo
piú la pertinacia di Ligní e i favori suoi che il poco consiglio del
re, fu prolungata l'espedizione per qualche dí, e alla fine mandato
con essa non un uomo d'autorità ma Lanciaimpugno privato gentiluomo;
col quale andò Cammillo Vitelli, per condurre nel reame di Napoli,
con parte de' danari che avevano a sborsare i fiorentini, le genti
sue, le quali, subito che arrivorono le patenti regie, s'erano unite
con l'esercito loro. Non partorí questa espedizione frutto maggiore
che avesse partorito la prima, benché 'l castellano avesse già
ricevuto dumila ducati da' fiorentini per sostentare, insino alla
risposta del re, i fanti che erano alla guardia della cittadella, e
che a Cammillo fussino stati pagati tremila ducati perché aveva
impedito che, altrimenti, le lettere regie si presentassino. Perché
il castellano, il quale, secondo che si credé, aveva ricevute per
altra via occultamente da Ligní commissioni contrarie, dopo
cavillazione di molti dí, giudicando che i fiorentini, per essere in
Pisa oltre agli uomini della terra e del contado mille fanti
forestieri, non fussino bastanti a sforzare il borgo di San Marco,
congiunto alla porta fiorentina contigua alla cittadella, alla
fronte del quale aveano prima, di suo consentimento, lavorato uno
bastione molto grande, e cosí potersi da sé conseguire l'effetto
medesimo senza privarsi di tutte l'escusazioni appresso al re, fece
intendere a' commissari fiorentini che si presentassino con
l'esercito alla porta predetta, il che non potevano fare se non
espugnavano il borgo, perché se i pisani non volessino mettergli
dentro d'accordo, gli sforzerebbe ad abbandonarla, essendo
sottoposta quella porta all'artiglierie della cittadella, in modo
che contro alla volontà di chi v'era dentro non si poteva difendere.
Però andativi con grande apparato, e con grande ardire e accesa
disposizione di tutto il campo, che alloggiava a San Rimedio luogo
vicino al borgo, assaltorono con tale valore da tre bande il
bastione, della disposizione del quale e de' ripari aveano
informazione da Pagolo Vitelli, che molto presto messono in fuga
quegli che lo difendevano; e seguitandogli entrorono alla mescolata
con essi nel borgo, per un ponte levatoio che si congiugneva col
bastione, ammazzando e facendo prigioni molti di loro. Né è dubbio
che col medesimo impeto e senza avere aiuto dalla cittadella
arebbono nel tempo medesimo, per la porta dove già erano entrati
alcuni de' loro uomini d'arme, acquistata Pisa, perché i pisani
messi in fuga niuna resistenza faceano; ma il castellano, vedendo le
cose riuscire a fine contrario di quello che aveva disegnato,
cominciò a tirare con l'artiglierie alle genti de' fiorentini: dal
quale improviso accidente sbigottiti i commissari e i condottieri,
essendo già dall'artiglierie stati morti e feriti molti soldati,
tra' quali Pagolo Vitelli ferito in una gamba, disperati di potere
con l'opposizione della cittadella pigliare in quel dí Pisa, fatto
sonare a raccolta, feciono ritirare le genti, restando in potestà
loro il borgo acquistato, benché fra pochi giorni fussino
necessitati di abbandonarlo, perché battuti continuamente
dall'artiglierie della cittadella danno grandissimo vi ricevevano; e
si ritirorno verso Cascina, attendendo che provisioni facesse piú il
re contro a sí manifesta contumacia de' suoi medesimi.
Lib.3, cap.2
Difficoltà create a' fiorentini da' potentati della lega. Lotta di
fazioni in Perugia e nell'Umbria. Vani tentativi di Piero de' Medici
per avere aiuti sufficienti ad entrare in Firenze. Verginio Orsino
passa al soldo del re di Francia.
Le quali mentre che s'aspettano, non mancavano da altre parti a'
fiorentini nuovi e pericolosi travagli, suscitati principalmente da'
potentati della lega. I quali, a fine di interrompere l'acquisto di
Pisa e di costrignergli a separarsi dalla confederazione del re di
Francia, confortorono Piero de' Medici che con l'aiuto di Verginio
Orsino, il quale fuggito del campo de' franzesi il dí del fatto
d'arme del Taro era tornato a Bracciano, tentasse di ritornare in
Firenze; cosa facile a persuadere all'uno e all'altro, perché a
Verginio era molto a proposito, in qualunque evento fusse per avere
questo conato, raccorre co' danari d'altri i suoi antichi soldati e
partigiani e rimettersi in sulla riputazione dell'armi; e a Piero,
secondo il costume de' fuorusciti, non mancavano varie speranze, per
gli amici che aveva in Firenze, ove anche intendeva dispiacere a
molti de' nobili il governo popolare, e per gli aderenti e seguaci
assai che per la inveterata grandezza della famiglia sua avea in
tutto il dominio fiorentino. Credettesi che questo disegno avesse
avuto origine a Milano, perché Verginio quando fuggí da' franzesi
era andato subito a visitare il duca, ma si stabilí poi in Roma, ove
fu trattato molti dí appresso al pontefice dall'oratore veneto e dal
cardinale Ascanio, il quale procedeva per commissione di Lodovico
suo fratello. E furono i fondamenti e le speranze di questa impresa
che, oltre alle genti che metterebbe insieme Verginio de' suoi
antichi soldati, e con diecimila ducati i quali Piero de' Medici
aveva raccolti del suo proprio e dagli amici, Giovanni Bentivoglio,
soldato de' viniziani e del duca di Milano, rompesse nel tempo
medesimo la guerra da' confini di Bologna, e che Caterina Sforza, i
figliuoli della quale erano agli stipendi del duca di Milano, desse
dalle città di Imola e di Furlí, che confinano co' fiorentini,
qualche molestia; e si promettevano non vanamente avere disposti al
desiderio loro i sanesi, accesi dall'odio inveterato contro a'
fiorentini e dalla cupidità di conservarsi Montepulciano, la quale
terra non si confidavano di potere sostenere da loro medesimi.
Perché, avendo pochi mesi innanzi, con le forze proprie e con le
genti del signore di Piombino e di Giovanni Savello soldati
comunemente dal duca di Milano e da essi, tentato d'insignorirsi del
passo della palude delle Chiane, il quale da quella banda era
confine tra i fiorentini e loro per lungo tratto, e a questo effetto
cominciato a lavorare appresso al ponte a Valiano uno bastione, per
battere una torre de' fiorentini posta in sulla punta del ponte di
verso Montepulciano, era riuscito tutto il contrario; perché i
fiorentini, commossi dal pericolo della perdita di questo ponte, che
gli privava della facoltà di molestare Montepulciano, e dava adito
agli inimici d'entrare ne' territori di Cortona e d'Arezzo e degli
altri luoghi che dall'altra parte della Chiana appartengono al
dominio loro, mandatovi potente soccorso sforzorono il bastione
cominciato da' sanesi, e per stabilirsi totalmente il passo
fabricorno appresso al ponte, ma di là dalla Chiana, un bastione
capacissimo d'alloggiarvi molta gente: con l'opportunità del quale,
scorrendo insino alle porte di Montepulciano, infestavano
medesimamente tutte le terre che i sanesi tenevano da quella parte.
E a questo successo s'era aggiunto che, poco poi che fu passato il
re di Francia, avevano rotto appresso a Montepulciano le genti de'
sanesi e fatto prigione Giovanni Savello loro capitano. Speravano
inoltre Verginio e Piero de' Medici d'ottenere ricetto e qualche
comodità da' perugini: non solo perché i Baglioni, i quali con
l'armi e col seguito de' partigiani dominavano quasi quella città,
erano congiunti a Verginio, seguitando ciascuno di loro il nome
della fazione guelfa, e perché con Lorenzo padre di Piero, e poi con
Piero mentre era in Firenze, avevano tenuto strettissima amicizia e
stati favoriti sempre contro a' movimenti degl'inimici, ma ancora
perché, essendo sottoposti alla Chiesa, benché piú nelle
dimostrazioni che negli effetti, si credeva che in questo che non
apparteneva principalmente allo stato loro avessino a cedere alla
volontà del pontefice, aggiugnendovisi massimamente l'autorità de'
viniziani e del duca di Milano.
Partiti adunque con queste speranze Verginio e Piero de' Medici di
terra di Roma, persuadendosi che i fiorentini, divisi tra loro
medesimi e assaltati col nome de' confederati da tutti i vicini,
potessino con fatica resistere, poi che ebbono soggiornato qualche
dí tra Terni e Todi e in quelle circostanze, dove Verginio
attendendo ad abbassare per tutto la fazione ghibellina traeva da'
guelfi danari e aiuto di genti, si pose a campo in favore de'
perugini a Gualdo, terra posseduta dalla comunità di Fuligno ma
venduta prima per seimila ducati dal pontefice a' perugini, accesi
non tanto dal desiderio di possederla quanto dalla contenzione delle
parti, per le quali tutte le terre circostanti si trovavano allora
in grandissimi movimenti. Perché pochi dí innanzi gli Oddi,
fuorusciti di Perugia e capi della parte avversa a' Baglioni,
aiutati da quegli di Fuligno di Ascesi e d'altri luoghi vicini che
seguitavano la parte ghibellina, erano entrati in Corciano, luogo
forte vicino a Perugia a cinque miglia, con trecento cavalli e
cinquecento fanti; per il quale accidente essendo sollevato tutto il
paese, perché Spoleto Camerino e gli altri luoghi guelfi erano
favorevoli a' Baglioni, gli Oddi pochi dí dopo entrorono una notte
furtivamente in Perugia, e con tanto spavento de' Baglioni che già
perduta la speranza del difendersi cominciavano a mettersi in fuga:
e nondimeno perderono, per uno inopinato e minimo caso, quella
vittoria che non poteva torre piú loro la possanza degl'inimici.
Perché essendo già pervenuti senza ostacolo a una delle bocche della
piazza principale, e volendo uno di loro, che a questo effetto aveva
portato una scure, spezzare una catena, la quale secondo l'uso delle
città faziose attraversava la strada, impedito a distendere le
braccia da' suoi medesimi che calcati gli erano intorno, gridò con
alta voce: - addietro, addietro - acciocché allargandosi gli dessino
facoltà di adoperarsi; la quale voce, replicata di mano in mano da
chi lo seguitava e intesa dagli altri come incitamento a fuggire,
mésse senza altro scontro o impedimento in fuga tutta la gente, non
sapendo alcuno da chi cacciati o per quale cagione si fuggissino:
dal quale disordine preso animo e rimessisi insieme gli avversari,
ammazzatine nella fuga molti di loro, e preso Troilo Savello, il
quale per la medesima affezione della parte era stato mandato in
aiuto degli Oddi dal cardinale Savello, seguitorno gli altri insino
a Corciano, e lo recuperorno con l'impeto medesimo; né saziati per
la morte di quegli che erano stati uccisi nel fuggire ne impiccorono
in Perugia molti degli altri, con la crudeltà che tra loro medesimi
usano i parziali. Da' quali tumulti essendo nate molte uccisioni
nelle terre vicine per conto delle parti, sollecite ne' tempi
sospetti a sollevarsi, o per sete d'ammazzare gl'inimici o per paura
di non essere prevenuti da loro, i perugini concitati contro a'
fulignati avevano mandato il campo a Gualdo; dove avendo data la
battaglia invano, diffidatisi di poterlo ottenere con le loro forze,
accettorono gli aiuti di Verginio, il quale si offerse loro
acciocché al nome della guerra e delle prede concorressino piú
facilmente i soldati. E nondimeno, stimolati da lui e da Piero de'
Medici di aiutare scopertamente la impresa loro, o almeno di
concedere qualche pezzo d'artiglieria e il ricetto per le genti loro
a Castiglione del Lago, che confina col territorio di Cortona, e
comodità di vettovaglie per l'esercito, non consentivano alcuna di
queste dimande, ancora che delle cose medesime facesse instanza
grandissima in nome del duca di Milano il cardinale Ascanio, e il
pontefice con brevi veementi e minatori lo comandasse; perché
essendo stati, dopo l'occupazione di Corciano, aiutati da'
fiorentini con qualche somma di danari, i quali di piú avevano a
Guido e a Ridolfo principali della casa de' Baglioni costituita
annua provisione, e condotto a' suoi stipendi Giampagolo figliuolo
di Ridolfo, si erano ristretti con loro: alieni oltre a questo dalla
congiunzione del pontefice, perché temevano che il favore suo fusse
inclinato agli avversari, o che per occasione delle loro divisioni
aspirasse a rimettere in tutto quella città sotto l'ubbidienza della
Chiesa.
Nel quale tempo Pagolo Orsino, che con sessanta uomini d'arme della
compagnia vecchia di Verginio era stato molti dí a Montepulciano e
dipoi trasferitosi a Castello della Pieve, teneva per ordine di
Piero de' Medici trattato nella città di Cortona; con intenzione di
metterlo a effetto come le genti di Verginio, il numero e la bontà
delle quali non corrispondeva a' primi disegni, s'accostassino:
nella quale dilazione essendosi scoperto il trattato che si teneva,
per mezzo d'uno sbandito di bassa condizione, cominciorono a mancare
parte de' loro fondamenti, e da altra parte a dimostrarsi maggiori
ostacoli. Perché i fiorentini, solleciti a provedere a' pericoli,
lasciati nel contado di Pisa trecento uomini d'arme e dumila fanti,
avevano mandati ad alloggiare presso a Cortona dugento uomini d'arme
e mille fanti sotto il governo del conte Rinuccio da Marciano loro
condottiere; e perché le genti de' sanesi non potessino unirsi con
Verginio, come tra loro si era trattato, avevano mandato al Poggio
Imperiale che è a' confini del sanese, sotto il governo di
Guidobaldo da Montefeltro duca d'Urbino, condotto poco innanzi da
loro, trecento uomini d'arme e mille cinquecento fanti, e aggiuntivi
molti de' fuorusciti di Siena per tenere quella città in maggiore
terrore. Ma Verginio, poiché ebbe dato piú battaglie a Gualdo, dove
fu ferito d'un archibuso Carlo figliuolo suo naturale, ricevuti,
come si credette, in secreto danari da' fulignati, ne levò il campo
senza menzione alcuna dello interesse de' perugini; e andò ad
alloggiare alle Tavernelle e dipoi al Panicale nel contado di
Perugia, facendo nuova instanza che si dichiarassino contro a'
fiorentini: il che non solo gli fu negato, anzi, per la mala
sodisfazione che avevano delle cose di Gualdo, costretto quasi con
minaccie a uscirsi del territorio loro. Però, essendo prima Piero ed
egli andati con quattrocento cavalli all'Orsaia villa propinqua a
Cortona, sperando che in quella città, la quale per non essere
danneggiata da' soldati non aveva voluto ricevere dentro le genti
d'arme de' fiorentini, si facesse qualche movimento, poiché veddeno
ogni cosa quieta passorono le Chiane, con trecento uomini d'arme e
tremila fanti, ma la piú parte gente male in ordine per essere stati
raccolti con pochi danari; e si ridusseno nel sanese presso a
Montepulciano, tra Chianciano, Torrita e Asinalunga: dove
soprastettono molti dí senza fare fazione alcuna, eccetto che
qualche preda e correrie, perché le genti de' fiorentini, passate le
Chiane al ponte a Valiano, si erano messe all'opposito nel Monte a
Sansovino e negli altri luoghi circostanti. Né da Bologna, secondo
la intenzione che era stata loro data, si faceva movimento alcuno;
perché il Bentivoglio, determinato di non si implicare per gli
interessi d'altri in guerra con una republica potente e vicina,
ancoraché consentisse farsi molte dimostrazioni da Giuliano de'
Medici, il quale venuto a Bologna cercava di sollevare gli amici che
essi erano soliti di avere nelle montagne del bolognese, non volle
muovere l'armi, non ostante gli stimoli de' collegati, interponendo
varie dilazioni e allegando varie scuse. Anzi tra i collegati
medesimi non era totalmente la medesima volontà: perché al duca di
Milano era grato che i fiorentini avessino travagli tali che gli
rendessino manco potenti alle cose di Pisa; ma non gli sarebbe stato
grato che Piero de' Medici, offeso da lui sí gravemente, ritornasse
in Firenze, se bene egli, per dimostrare di volere per l'avvenire
dependere del tutto dalla sua autorità, avesse mandato a Milano il
cardinale suo fratello; e i viniziani non volevano abbracciare soli
questa guerra: aggiugnendosi oltre a questo l'essere intenti, il
duca e loro, alle provisioni per cacciare i franzesi del reame di
Napoli. Perciò mancando a Piero e a Verginio non solo le speranze le
quali s'avevano proposte ma ancora i danari per sostentare le genti,
diminuiti assai di fanti e di cavalli, si ritirorono al Bagno a
Rapolano nel contado di Chiusi, città suddita a' sanesi. Dove fra
pochi dí, tirando Verginio il suo fato, arrivorono Cammillo Vitelli
e monsignore di Gemel, mandati dal re di Francia per condurlo a'
soldi suoi e menarlo nel reame di Napoli; dove il re, intesa
l'alienazione de' Colonnesi, desiderava di servirsene: il quale
partito, non ostante la contradizione di molti de' suoi, che lo
consigliavano o che si conducesse co' confederati, che ne lo
ricercavano con grande instanza, o che ritornasse al servigio
aragonese, fu accettato da lui; o perché sperasse di ricuperare piú
facilmente con questo mezzo i contadi di Albi e di Tagliacozzo, o
perché, ricordandosi delle cose intervenute nella perdita del regno
e vedendo essere grande appresso a Ferdinando l'autorità de'
Colonnesi suoi avversari, si diffidasse di potere piú ritornare seco
nell'antica fede e grandezza, o pure lo movesse, secondo che
affermava egli, la mala sodisfazione che aveva de' príncipi
confederati per avergli mancato delle promesse fattegli al favore di
Piero de' Medici. Fu adunque condotto con secento uomini d'arme per
lui e per gli altri di casa Orsina, ma nondimeno con obligo di
mandare Carlo suo figliuolo in Francia per sicurtà del re (questi
sono i frutti di chi ha già fatta sospetta la fede propria); e
ricevuti i danari, attendeva a prepararsi per andare insieme co'
Vitelli nel regno.
Lib.3, cap.3
Nuove vicende della lotta tra francesi ed aragonesi nel reame di
Napoli. La fortuna francese declina in Calabria. Carlo VIII consuma
in divertimenti il tempo a Lione. Ricusa proposte fatte avanzare da'
veneziani per decidere le cose del reame di Napoli.
Dove, e innanzi alla perdita delle castella e poi, si era con vari
accidenti, in vari luoghi, continuamente travagliato e travagliava.
Perché avendo da principio fatta testa Ferdinando nel piano di
Sarni, i franzesi ritiratisi da Pié di Grotta si erano fermati a
Nocera, vicini agli inimici a quattro miglia; dove essendo le forze
dell'uno e l'altro esercito assai del pari consumavano il tempo
inutilmente a scaramucciare, non facendosi cosa alcuna memorabile:
eccetto che, essendo stati condotti con trattato doppio per entrare
nel castello di Gifone, vicino alla terra di Sanseverino, circa a
settecento cavalli e fanti di Ferdinando, vi rimasono quasi tutti o
morti o prigioni; ma essendo sopravenute in aiuto di Ferdinando le
genti del pontefice, i franzesi diventati inferiori si discostorono
da Nocera: onde quella terra insieme con la sua fortezza fu presa da
Ferdinando, con uccisione grande de' seguaci de' franzesi. Aveva in
questo tempo Mompensieri atteso a provedere le genti, uscite seco di
Castelnuovo, di cavalli e d'altre cose necessarie alla guerra; le
quali riordinate, unito con gli altri venne ad Ariano, terra molto
abbondante di vettovaglie: e Ferdinando da altra parte, essendo meno
potente degli inimici, si fermò a Montefoscoli; per temporeggiarsi,
senza tentare la fortuna, insino a tanto che da' confederati avesse
maggiore soccorso. Prese Mompensieri la terra e dipoi la fortezza di
San Severino, e arebbe fatti senza dubbio maggiori progressi se non
l'avesse impedito la difficoltà de' danari; perché non essendogliene
mandati di Francia, né avendo facoltà di cavarne del regno, e perciò
non potendo pagare i soldati, e stando per questa cagione l'esercito
malcontento e massimamente i svizzeri, non faceva effetti pari alle
forze che avea. Consumoronsi con queste azioni, per l'uno e l'altro
esercito, circa a tre mesi. Nel quale tempo e nella Puglia
guerreggiava con gli aiuti del paese don Federico, con cui era don
Cesare d'Aragona, essendogli oppositi i baroni e i popoli che
seguitavano la parte franzese; e nell'Abruzzi Graziano di Guerra,
molestato dal conte di Popoli e da altri baroni aderenti a
Ferdinando, si difendeva con valore grande; e il prefetto di Roma,
che dal re aveva la condotta di dugento uomini d'arme, molestava
dagli stati suoi le terre di Montecasino e il paese circostante. Ma
piú importanti erano le cose della Calavria, dove era declinata
alquanto la prosperità de' franzesi, essendo ammalato Obigní di
lunga infermità, la quale gli interroppe il corso della vittoria.
Con tutto che quasi tutta la Calavria e il Principato fussino a
divozione del re di Francia, Consalvo, rimesse insieme le genti
spagnuole e i paesani amici degli aragonesi, i quali per l'acquisto
di Napoli erano augumentati, aveva prese alcune terre, e manteneva
vivo in quella provincia il nome di Ferdinando: dove per i franzesi
erano le medesime difficoltà, per mancamento di danari, che nello
esercito. Nondimeno essendosi ribellata da loro la città di Cosenza,
la recuperorno e saccheggiorno. Né in tante necessità e pericoli de'
suoi provisione alcuna di Francia compariva: perché il re, fermatosi
a Lione, attendeva a giostre a torniamenti e a piaceri, deposti i
pensieri delle guerre; affermando sempre di volere di nuovo
attendere alle cose d'Italia ma non ne dimostrando co' fatti memoria
alcuna. E nondimeno, avendogli riportato Argentone da Vinegia che il
senato viniziano aveva risposto non pretendere d'avere inimicizia
seco, non avendo pigliate l'armi se non dopo l'occupazione di
Novara, né per altro che per la difesa del duca di Milano loro
collegato, e però giudicare essere superfluo il riconfermare
l'amicizia antica con nuova pace, e che da altra parte gli aveva
fatto offerire per terze persone di indurre Ferdinando a dargli di
presente qualche somma di danari e costituirgli censo di
cinquantamila ducati l'anno, lasciandogli per sicurtà in mano
Taranto per certo tempo, il re, come se avesse il soccorso preparato
e potente, ricusò di prestarvi orecchi: con tutto che, oltre alle
difficoltà d'Italia, non fusse a' confini della Francia senza
molestia; perché Ferdinando re di Spagna, venuto personalmente a
Perpignano, aveva fatto correre delle sue genti in Linguadoca,
facendo prede e danni assai e continuando con dimostrazione di
maggiore moto; ed era morto nuovamente il delfino di Francia, unico
figliuolo del re: tutte cose da farlo piú facilmente, se in lui
fusse stata capacità di determinarsi alla pace o alla guerra,
inclinare a qualche concordia.
Lib.3, cap.4
Intimazione del re di Francia al castellano di Pisa d'osservare gli
ordini suoi riguardo alla consegna della fortezza. Il castellano
consegna la fortezza a' pisani. I pisani distruggono la fortezza e
si rivolgono al re de' romani e a diversi stati d'Italia per aiuti.
I pisani si pongono sotto la protezione de' veneziani. Il senato li
riceve in protezione. Esaltazione in Milano della sapienza e
dell'ingegno di Lodovico Sforza. Per opera di questo le fortezze di
Serezana e Serezanello son consegnate a' genovesi anziché a'
fiorentini.
Nella fine di questo anno si terminorono le cose della cittadella di
Pisa. Perché il re, intesa la ostinazione del castellano, vi aveva
ultimatamente mandato, con comandamenti minatori e aspri non solo a
lui ma a tutti i franzesi che vi erano dentro, Gemel, e non molto
poi Bonò cognato del castellano, acciocché dimostratagli per persona
confidente la facoltà che aveva di cancellare con l'ubbidienza gli
errori commessi, e da altra parte i pregiudici ne' quali
incorrerebbe perseverando nella disubbidienza, si disponesse piú
facilmente a eseguire i comandamenti del re; e nondimeno egli,
continuando nella contumacia medesima, disprezzò le parole di Gemel:
il quale vi soprasedé pochissimi dí, per la commissione che aveva
dal re d'andare con Cammillo Vitelli a Verginio. Né la venuta di
Bonò, il quale ritardò molti dí perché per ordine del duca di Milano
fu ritenuto a Serezana, rimosse il castellano dalla sua ostinazione;
anzi tirato Bonò nella sentenza sua, si convenne co' pisani,
interponendosi tra loro Luzio Malvezzi in nome del duca: per virtú
della quale convenzione consegnò a' pisani, il primo dí dell'anno
mille quattrocento novantasei, la cittadella di Pisa, ricevuti da
loro per sé dodicimila ducati e ottomila per distribuire a' soldati
che vi erano dentro; de' quali danari, non essendo i pisani potenti
a pagargli, n'ebbono quattromila da' viniziani quattromila da i
genovesi e lucchesi e quattromila dal duca di Milano: il quale nel
tempo medesimo, governandosi con le sue arti, benché poco credute,
trattava simulatamente di ristrignersi co' fiorentini in ferma
amicizia e intelligenza, ed era già restato d'accordo con gli
oratori loro delle condizioni. Non pareva per ragione alcuna
verisimile che né Ligní né Entraghes né alcuno altro avessino usata
tanta trasgressione senza volontà del re, essendo massime in non
piccolo detrimento suo; perché la città di Pisa, se bene Entraghes
avesse capitolato che restasse suddita della corona di Francia,
rimaneva manifestamente a divozione de' confederati, e per non avere
effetto la restituzione si privavano i franzesi che erano nel regno
di Napoli del soccorso molto necessario delle genti e de' danari
promessi nella capitolazione di Turino. E nondimeno i fiorentini, i
quali con somma diligenza osservorono i progressi di tutte queste
cose, ancoraché da principio molto ne dubitassino, restorono
finalmente in credenza che tutto fusse proceduto contro alla volontà
del re: cosa da parere incredibile a ciascuno che non sapesse quale
fusse la sua natura e le condizioni dello ingegno e de' costumi
suoi, e la piccola autorità che egli riteneva co' suoi medesimi, e
quanto si ardisca contro a uno principe che sia diventato
contennendo.
I pisani, entrati nella cittadella, la distrusseno subito
popolarmente insino da' fondamenti; e conoscendo di non avere forze
sufficienti a difendersi per se stessi, mandorono in un tempo
medesimo imbasciadori al papa al re de' romani a' viniziani al duca
di Milano a' genovesi a' sanesi e a' lucchesi, dimandando soccorso
da tutti, ma con maggiore instanza da' viniziani e dal duca di
Milano; nel quale aveano avuto prima inclinazione di trasferire
liberamente il dominio di quella città, parendo loro d'essere
costretti di non avere per fine principale tanto la conservazione
della libertà quanto il fuggire la necessità di ritornare in potestà
de' fiorentini, e sperando in lui piú che in alcuno altro, per
avergli incitati alla rebellione, per la vicinità, e perché, non
avendo dagli altri collegati riportato altro che speranze, avevano
ottenuti da lui pronti sussidi. Ma il duca, benché ne ardesse di
desiderio, era stato sospeso ad accettarla per non sdegnare gli
altri confederati, nel consiglio de' quali si erano cominciate a
trattare le cose de' pisani come causa comune; ora confortandogli a
differire ora proponendo che la dedizione si facesse piú tosto
palesemente in nome de' Sanseverini, per iscoprirla effettualmente
per sé quando giudicasse il tempo opportuno: pure, partito che fu
d'Italia il re di Francia, parendogli alleggerito il bisogno che
aveva de' collegati, deliberò d'accettarla. Ma era ne' pisani
cominciata a raffreddarsi questa inclinazione, per la speranza
grande che già aveano di essere aiutati dal senato viniziano; ed era
anche dimostrato loro da altri potere piú facilmente conservarsi con
l'aiuto di molti che restrignendosi a uno solo, e proposta con
questo modo maggiore speranza di mantenere la libertà: le quali
considerazioni potendo piú poiché ebbono ottenuta la cittadella, si
sforzavano di aiutarsi co' favori di ciascuno. Alla quale intenzione
era molto opportuna la disposizione degli stati d'Italia: perché i
genovesi per odio de' fiorentini, i sanesi e i lucchesi per odio e
per timore, erano per porgergli sempre qualche sussidio, e per farlo
piú ordinatamente trattavano di convenirsi con obligazioni
determinate a questo effetto; e i viniziani e il duca di Milano, per
la cupidità di insignorirsene, non erano per comportare che e'
ritornassino sotto il dominio fiorentino; e giovava loro appresso al
pontefice e gli oratori de' re di Spagna il desiderio della bassezza
de' fiorentini, come troppo inclinati alle cose franzesi. Però uditi
in ciascuno luogo benignamente, e ottenuta da Cesare per privilegio
la confermazione della libertà, riportorono da Vinegia e da Milano
quelle medesime promesse di conservargli in libertà che avevano
prima, di comune consentimento, fatte loro, per aiutargli a
liberarsi da' franzesi; e il pontefice, in nome e di consenso di
tutti i potentati della lega, gli confortò, per un breve, al
medesimo, promettendo che da tutti sarebbono difesi potentemente: ma
il soccorso efficace fu da' viniziani e dal duca di Milano, questo
augumentandovi le genti che prima v'aveva, quegli mandandovene non
piccola quantità. Nella quale cosa se avessino tutt'a due
continuato, non arebbono avuto i pisani necessità di aderire piú
all'uno che all'altro di loro, donde si sarebbe forse piú facilmente
conservata la concordia comune. Ma accadde presto che il duca,
alienissimo sempre dallo spendere e inclinato da natura a procedere
con simulazioni e con arte, né parendogli che per allora potesse
pervenire in lui il dominio di Pisa, cominciando a somministrare
parcamente le cose che dimandavano i pisani, dette loro occasione di
inclinare piú l'animo a' viniziani, i quali senza risparmio alcuno
gli provedevano. Onde procedette che, non molti mesi poi che i
franzesi avevano lasciata la cittadella, il senato viniziano,
pregatone con somma instanza da' pisani, deliberò di accettare la
città di Pisa in protezione, piú tosto confortandonegli che
dimostrando essergli molesto Lodovico Sforza, ma senza comunicarne
con gli altri confederati, benché da principio gli avessino
confortati a mandarvi gente: i quali, ne' tempi seguenti, allegorono
essere restati disobligati dalla promessa fatta a' pisani
d'aiutargli, poi che senza consenso loro avevano convenuto
particolarmente co' viniziani.
È certissimo che né il desiderio di conservare ad altri la libertà,
la quale nella propria patria tanto amano, né il rispetto della
salute comune, come allora e dappoi con magnifiche parole
predicorono, ma la cupidità sola di acquistare il dominio di Pisa,
fu cagione che i viniziani facessino questa deliberazione; per la
quale non dubitavano dovere in breve tempo adempiere il desiderio
loro con volontà de' pisani medesimi, i quali eleggerebbono
volentieri di stare sotto l'imperio veneto per assicurarsi in
perpetuo di non avere a ritornare nella servitú de' fiorentini. E
nondimeno questa cosa fu piú volte disputata nel senato lungamente,
ritardandosi la inclinazione quasi comune per l'autorità di alcuni
senatori de' piú vecchi e di maggiore riputazione, che molto
efficacemente contradicevano; affermando che 'l farsi propria la
difesa di Pisa era cosa piena di molte difficoltà, per essere quella
città distante molto per terra da' loro confini e molto piú distante
per mare, non potendo essi andarvi se non per ricetti e porti di
altri, e con lunga circuizione di tutti a due i mari da' quali è
cinta Italia; e però non si potere senza gravissime spese difendere
dalle molestie continue de' fiorentini. Essere verissimo che quello
acquisto sarebbe molto opportuno allo imperio veneto, ma doversi
prima considerare le difficoltà del conservarlo, e molto piú le
condizioni de' tempi presenti e che effetti potesse partorire questa
deliberazione: perché essendo tutta Italia naturalmente sospettosa
della grandezza loro, non potrebbe se non estremamente dispiacere a
tutti uno augumento tale, il che facilmente partorirebbe maggiori e
piú pericolosi accidenti che molti per avventura non pensavano;
ingannandosi non mediocremente coloro che si persuadevano che gli
altri potentati avessino oziosamente a comportare che allo imperio
veneto, formidabile a tutti gli italiani, si aggiugnesse
l'opportunità sí grande del dominio di Pisa; i quali se bene non
erano potenti come per il passato a vietarlo con le forze proprie,
avevano da altra parte, poi che agli oltramontani era stata
insegnata la strada del passare in Italia, maggiore occasione di
opporsi loro col ricorrere agli aiuti forestieri; a' quali non
essere dubbio che prontamente ricorrerebbono e per odio e per
timore, essendo vizio comune degli uomini volere piú tosto servire
agli strani che cedere a' suoi medesimi. E come potersi credere che
'l duca di Milano, solito a permettere tanto di sé ora alla cupidità
e alla speranza ora al timore, e movendolo al presente non meno lo
sdegno che l'emulazione che ne' viniziani si trasferisse quella
preda che avea con tante arti procurata per sé, non fusse piú presto
per conturbare di nuovo Italia che sopportare che Pisa fusse
occupata da loro? E benché con le parole e consigli suoi dimostrasse
altrimenti, potersi molto agevolmente comprendere non essere questa
la verità del cuore suo ma insidie, e per fini non sinceri
artificiosi consigli: in compagnia del quale essere prudenza il
sostentare quella città, se non per altro, per interrompere che i
pisani non si dessino a lui; ma farsi propria questa causa e tirare
addosso a sé tanta invidia e tanto peso non essere savio consiglio.
Doversi considerare quanto fussino contrari questi pensieri
dall'opere nelle quali si erano affaticati tanti mesi, e
continuamente s'affaticavano; perché non altre cagioni avere mosso
quel senato a pigliare l'armi, con tante spese e pericoli, che 'l
desiderio d'assicurare sé e tutta Italia, da' barbari: a che avendo
con sí gloriosi successi dato principio, e nondimeno essendo appena
il re di Francia ripassato di là da' monti, e tenendosi ancora per
cui con uno esercito potente la maggiore parte del regno di Napoli,
che imprudenza che infamia sarebbe, quando era il tempo di stabilire
la libertà e la sicurtà d'Italia, spargere semi di nuovi travagli!
che potrebbeno facilitare al re di Francia il ritornarvi, o al re
de' romani l'entrarvi, che forse, come era noto a ciascuno, non
avea, per quello che pretendeva contro allo stato loro, maggiore e
piú ardente desiderio di questo. Non essere la republica veneta in
grado che fusse costretta ad abbracciare consigli pericolosi o farsi
incontro alle occasioni immature, anzi niuno in Italia potere piú
aspettare l'opportunità de' tempi e la maturità delle occasioni.
Perché le deliberazioni precipitose o dubbie convenivano a chi aveva
difficili o sinistre condizioni, o a chi stimolato dalla ambizione e
dalla cupidità di fare illustre il nome suo temeva non gli mancasse
il tempo, non a quella republica, che collocata in tanta potenza
degnità e autorità era temuta e invidiata da tutto 'l resto
d'Italia, e la quale essendo a rispetto de' re e degli altri
príncipi quasi immortale e perpetua, ed essendo sempre il medesimo
nome del senato viniziano, non aveva cagione di affrettare innanzi
al tempo le sue deliberazioni; e appartenere piú alla sapienza e
gravità di quel senato, considerando, come era proprio degli uomini
veramente prudenti, i pericoli che si ascondevano sotto queste
speranze e cupidità, e piú i fini che i princípi delle cose,
rifiutati i consigli temerari, astenersi, cosí nell'occasione di
Pisa come nell'altre che s'offerivano, da spaventare e irritare gli
animi degli altri, almeno insino a tanto che Italia fusse meglio
assicurata da' pericoli e sospetti degli oltramontani; e avvertire
sopratutto di non dare causa che di nuovo vi entrassino, perché
l'esperienza aveva dimostrato, in pochissimi mesi, che tutta Italia
quando non era oppressa da nazioni straniere seguitava quasi sempre
l'autorità del senato viniziano, ma quando erano barbari in Italia,
in cambio di essere seguitato e temuto dagli altri, bisognava che
insieme con gli altri temesse le forze forestiere.
Queste e simili ragioni erano, oltre alla cupidità del numero
maggiore, superate ancora dalle persuasioni di Agostino Barbarico
doge di quella città, la cui autorità era divenuta sí grande che,
eccedendo la riverenza de' dogi passati, meritava piú tosto nome di
potenza che di autorità; perché, oltre all'essere stato con felici
successi in quella degnità molti anni e l'avere molte preclare doti
e ornamenti, aveva, procedendo artificiosamente, conseguito che
molti senatori che volentieri si opponevano a quegli che, per la
fama d'essere prudenti per la lunga esperienza e per l'avere
ottenute le degnità supreme, erano nella republica di maggiore
estimazione, congiuntisi a lui, seguitavano comunemente, piú tosto a
uso di setta che con gravità o integrità senatoria, i suoi consigli.
Il quale, cupidissimo di lasciare, con l'ampliazione dello imperio,
chiarissima la memoria del suo nome, né terminando l'appetito della
gloria l'essersi sotto il suo principato l'isola di Cipri, mancati i
re della famiglia Lusignana, aggiunta al dominio viniziano, era
molto inclinato che si accettasse qualunque occasione di accrescere
il loro stato. Però, opponendosi a coloro che nella causa pisana
consigliavano il contrario, dimostrava con efficacissime parole
quanto fusse utile e opportuno a quel senato l'acquistare Pisa, e
quanto importante il reprimere con questo mezzo l'audacia de'
fiorentini; per opera de' quali aveano, nella morte di Filippo Maria
Visconte, perduta l'occasione di insignorirsi del ducato di Milano,
e che per la prontezza de' danari avevano, nella guerra di Ferrara e
nelle altre imprese, nociuto piú loro che alcun altro de' potentati
maggiori. Ricordava quanto rare fussino sí belle occasioni, con
quanta infamia si perdessino, e quanto pungenti stimoli di penitenza
seguitassino chi non l'abbracciava: non essere le condizioni
d'Italia tali che gli altri potentati potessino per se stessi
opporsegli; e manco essere da temere che per questa o indegnazione o
timore ricorressino al re di Francia, perché né il duca di Milano
che l'aveva tanto ingiuriato ardirebbe mai di confidarsene, né
muovere l'animo del pontefice questi pensieri, né potere piú il re
di Napoli, quando bene avesse ricuperato il regno suo, udire il nome
franzese. Né l'entrare loro in Pisa, benché molesto agli altri,
essere accidente sí impetuoso, né tanto propinquo il pericolo, che
per questo s'avessino gli altri potentati a precipitare a' rimedi
che s'usano nell'ultime disperazioni; perché nelle infermità lente
non si accelerano le medicine pericolose, pensando gli uomini non
dovere mancare tempo a usarle: e se in questa debolezza e disunione
degli altri d'Italia essi per timidità rifiutassino tanta occasione,
aspettarsi vanamente di poterlo fare con maggiore sicurtà quando gli
altri potentati fussino ritornati nel pristino vigore e assicurati
dal timore degli oltramontani. Doversi, per rimedio del troppo
timore, considerare che l'azioni mondane erano sottoposte tutte a
molti pericoli, ma conoscere gli uomini savi che non sempre viene
innanzi tutto quello di male che può accadere, perché, per beneficio
o della fortuna o del caso, molti pericoli diventano vani, molti
sfuggirsene con la prudenza e con la industria; e perciò non doversi
confondere, come molti poco consideratori della proprietà de' nomi e
della sostanza delle cose affermano, la timidità con la prudenza, né
riputare savi coloro che, presupponendo per certi tutti i pericoli
che sono dubbi e però temendo di tutti, regolano, come se tutti
avessino certamente a succedere, le loro deliberazioni. Anzi non
potersi in maniera alcuna chiamare prudenti o savi coloro che temono
del futuro piú che non si debbe. Convenirsi molto piú questo nome e
questa laude agli uomini animosi, imperocché conoscendo e
considerando i pericoli, e per questo differenti da' temerari che
non gli conoscono e non gli considerano, discorrono nondimeno quanto
spesso gli uomini, ora per caso ora per virtú, si liberano da molte
difficoltà: dunque, nel deliberare, non chiamando meno in consiglio
la speranza che la viltà, né presupponendo per certi gli eventi
incerti, non cosí facilmente come quegli altri l'occasioni utili e
onorate rifiutano. Però, proponendosi innanzi agli occhi la
debolezza e la disunione degli altri italiani, la potenza e la
fortuna grande della republica viniziana, la magnanimità e gli
esempli gloriosi de' padri loro, accettassino con franco animo la
protezione de' pisani, per la quale perverrebbe loro effettualmente
la signoria di quella città, uno senza dubbio degli scaglioni
opportunissimi a salire alla monarchia di tutta Italia.
Ricevette adunque il senato per publico decreto in protezione i
pisani, promettendo espressamente di difendere la loro libertà. La
quale deliberazione non fu da principio considerata dal duca di
Milano quanto sarebbe stato conveniente, perché non essendo escluso
per questo di potervi tenere delle sue genti gli era grato avere
compagni allo spendere, e disegnando per avarizia diminuire del
numero de' soldati che vi teneva non riputava alieno dal beneficio
suo che Pisa, in uno tempo medesimo, fusse cagione di spese gravi a'
viniziani e a' fiorentini; persuadendosi oltre a ciò che i pisani,
per la grandezza e per la vicinità dello stato suo e per la memoria
dell'opere fatte da lui per la loro liberazione, gli fussino tanto
dediti che avessino sempre a preporlo a tutti gli altri. Accresceva
questi disegni e speranze fallaci la persuasione, nella quale poco
ricordandosi della varietà delle cose umane si nutriva da se stesso,
d'avere quasi sotto i piedi la fortuna, della quale affermava
publicamente essere figliuolo: tanto era invanito de' prosperi
successi, ed enfiato che per opera e per i consigli suoi fusse
passato il re di Francia in Italia, attribuendo a sé l'essere suto
privato Piero de' Medici, poco ossequente alla sua volontà, dello
stato di Firenze, la ribellione de' pisani da' fiorentini, e
l'essere stati cacciati del regno di Napoli gli Aragonesi suoi
inimici; e che poi, avendo mutata sentenza, fusse per i consigli e
autorità sua proceduta la congiunzione di tanti potentati contro a
Carlo, la ritornata di Ferdinando nel regno di Napoli, e la partita
del re di Francia d'Italia con condizioni indegne di tanta
grandezza; e che insino nel capitano che aveva in custodia la
cittadella di Pisa avesse potuto piú la sua o industria o autorità
che la volontà e i comandamenti del proprio re. Con le quali regole
misurando il futuro, e giudicando la prudenza e lo ingegno di tutti
gli altri essere molto inferiore alla prudenza e ingegno suo, si
prometteva d'avere a indirizzare sempre ad arbitrio suo le cose
d'Italia e di potere con la sua industria circonvenire ciascuno: la
quale vana impressione non dissimulandosi né per lui né per i suoi,
né con parole né con dimostrazioni, anzi essendogli grato che cosí
fusse creduto e detto da tutti, risonava Milano il dí e la notte di
voci vane, e si celebrava per ciascuno, con versi latini e volgari e
con publiche orazioni e adulazioni, la sapienza ammirabile di
Lodovico Sforza, dalla quale dependeva la pace e la guerra d'Italia;
esaltando insino al cielo il nome suo e il cognome del Moro: il
quale cognome, impostogli insino da gioventú, perché era di colore
bruno e per l'opinione che già si divulgava della sua astuzia,
ritenne volentieri mentre durò lo imperio suo.
Né fu minore l'autorità del Moro nelle altre fortezze de' fiorentini
che fusse stata in quella di Pisa, parendo che ad arbitrio suo si
governassino in Italia non meno gli inimici che gli amici. Perché se
bene il re udite le querele gravissime fattegli dagli imbasciadori
de' fiorentini se ne fusse commosso gravemente, e perché almanco
fussino restituite loro l'altre avesse mandato, con nuove
commissioni e con lettere di Ligní, Ruberto di Veste suo cameriere,
nondimeno, non essendo appresso agli altri in maggiore prezzo
l'autorità sua che ella fusse appresso a se medesimo, fu tanta
l'audacia di Ligní, il quale a molti affermava non procedere cosí
senza volontà del re, che per le commissioni sue, aggiunte alla mala
volontà de' castellani, furono poco stimati i comandamenti regi.
Però il bastardo di Bienna, il quale per ordine e sotto nome di
Ligní teneva la guardia di Serezana, poiché ebbe condottevi le genti
e i commissari de' fiorentini per riceverne la possessione, la
consegnò per prezzo di venticinquemila ducati a' genovesi; e il
medesimo fece, ricevuta certa somma di danari, il castellano di
Serezanello: essendone stato autore e mezzano il Moro. Il quale,
opposto a' fiorentini, benché sotto nome de' genovesi, il Fracassa
con cento cavalli e quattrocento fanti, impedí che e' non
ricuperassino tutte le altre terre che avevano perdute in Lunigiana;
delle quali, con l'occasione delle genti mandate per ricevere
Serezana, avevano recuperato una parte. E poco dipoi Entraghes,
sotto la custodia del quale erano anche le fortezze di Pietrasanta e
di Mutrone, e in cui mano era similmente venuta Librafatta,
ritenutasi questa, la quale non molti mesi poi concedette a' pisani,
vendé quelle per ventiseimila ducati a' lucchesi, come precisamente
ordinò il duca di Milano: il quale aveva prima desiderato che le
conseguissino i genovesi, ma mutata poi sentenza elesse gratificarne
i lucchesi, acciocché avessino cagione d'aiutare piú prontamente i
pisani, e per congiugnersigli piú mediante questo beneficio. Le
quali cose significate in Francia, con tutto che 'l re se ne
dimostrasse alterato con Ligní e facesse sbandire Entraghes di tutto
il reame, nondimeno ritornando Bonò, che oltre a essere stato
partecipe de' danari de' pisani aveva trattato in Genova la vendita
di Serezana, furono accettate le sue giustificazioni; e raccolto
gratamente uno imbasciadore de' pisani, mandato insieme con lui a
persuadere di volere essere sudditi fedeli della corona di Francia,
e a prestare il giuramento della fedeltà: benché non molto poi,
apparendo vane le sue commissioni, fusse licenziato. Né a Ligní fu
imposta altra pena che, per segno di escluderlo dal favore regio,
toltagli la facoltà di dormire, secondo che era consueto, nella
camera del re, alla quale fu presto restituito; rimanendo in
contumacia solamente, benché per non molto lungo tempo, Entraghes:
potendo in queste cose, oltre alla natura del re e gli altri mezzi e
favori, la persuasione, non falsa, che i fiorentini fussino
necessitati a non si separare da lui; perché essendo manifesta per
tutto la cupidità de' viniziani e del duca di Milano, si teneva per
certo che e' non arebbono consentito che essi fussino reintegrati di
Pisa, quando bene avessino acconsentito di collegarsi con loro alla
difesa d'Italia. Alla quale cosa cercavano di indurgli cogli
spaventi e co' minacci, non tentando però per allora altro contro a
loro, ma bastandogli, con le genti che avevano messe in Pisa,
mantenere viva quella città e non gli lasciare perdere interamente
il contado.
Lib.3, cap.5
Ferdinando d'Aragona minacciato dalla venuta di nuove truppe
nemiche. Aiuti de' veneziani e degli altri confederati a Ferdinando.
Nuove vicende della guerra. Equilibrio delle forze avversarie.
Perché il pericolo del regno di Napoli da ogn'altra cura gli
divertiva: atteso che Verginio, raccolti al Bagno a Rapolano e poi
nel perugino, dove dimorò qualche giorno, molti soldati, andava con
gli altri della casa Orsina verso lo Abruzzi; e al medesimo cammino
andavano con la compagnia loro Cammillo e Pagolo Vitelli. A' quali
denegando di dare vettovaglie il castello di Montelione fu da loro
messo a sacco; da che spaventate l'altre terre della Chiesa donde
avevano a passare, non si ritenendo per i gravi comandamenti fatti
in contrario dal pontefice, concedevano loro per tutto alloggiamento
e vettovaglie. Per il che, e molto piú perché si affermava che di
Francia veniva per mare nuovo soccorso, parendo che le cose franzesi
fussino per ricevere nel reame di Napoli grande augumento, né
potendo Ferdinando, il quale era senza danari e con molte
difficoltà, sostenere senza maggiori aiuti tanto peso, fu costretto
di pensare per la difesa sua a nuovi rimedi.
Non avevano gli altri potentati da principio compreso Ferdinando
nella loro confederazione; e ancora che, da poi che ebbe ricuperato
Napoli, i re di Spagna avessino fatto instanza che e' vi fusse
ammesso, i viniziani l'avevano recusato, persuadendosi le sue
necessità essere mezzo atto al disegno che già facevano che in
potestà loro pervenisse una parte di quel reame. Però Ferdinando,
privato d'ogn'altra speranza, perché di Spagna non aspettava nuovi
sussidi né volevano gli altri collegati sottomettersi a tanta spesa,
convenne col senato viniziano, promettendo l'osservanza per ciascuna
delle parti il pontefice e gli oratori de' re di Spagna in nome de'
suoi re, che i viniziani mandassino nel regno in soccorso suo il
marchese di Mantova loro capitano, con settecento uomini d'arme
cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, e vi mantenessino
l'armata di mare la quale allora vi avevano, ma con patto di potere
rivocare questi sussidi ogni volta che per difesa propria n'avessino
di bisogno; e gli prestassino per le necessità presenti quindicimila
ducati: e perché fussino assicurati di recuperare le spese
farebbono, che Ferdinando consegnasse loro Otranto, Brindisi e
Trani, e consentisse ritenessino Monopoli e Pulignano che avevano
ancora in mano, ma con condizione di dovergli restituire quando ne
fussino rimborsati; ma non potessino allegare che, o per conto della
guerra o della guardia o delle fortificazioni che vi facessino,
passassino la somma di dugentomila ducati. I quali porti, per essere
nel mare di sopra, e perciò molto opportuni a Vinegia, accrescevano
assai la loro grandezza: la quale, non avendo piú chi se gli
opponesse, né essendo uditi piú, dopo la protezione accettata de'
pisani, i consigli di coloro che arebbono voluto che a' venti che sí
prosperi si dimostravano le vele piú lentamente si spiegassino,
cominciava a distendersi per tutte le parti d'Italia; perché, oltre
alle cose del regno di Napoli e di Toscana, avevano di nuovo
condotto Astore signore di Faenza e accettata la protezione del suo
stato, il quale era molto accomodato a tenere in timore i
fiorentini, la città di Bologna e tutto il resto di Romagna. A
questi aiuti particolari de' viniziani si aggiugnevano altri aiuti
de' confederati, perché il pontefice i viniziani e il duca di Milano
mandavano in soccorso di Ferdinando alcune altre genti d'arme,
soldate comunemente; benché il duca, non partitosi ancora in tutto
dalla simulazione di non contrafare allo accordo di Vercelli, non
ostante che per consiglio suo si indirizzasse la maggiore parte di
queste cose, ricusando che nelle condotte o in altre apparenze si
usasse il nome suo, si era convenuto di pagare occultamente ciascuno
mese per il soccorso del reame diecimila ducati.
L'andata degli Orsini e de' Vitelli fermò le cose dello Abruzzi, le
quali erano in manifesto movimento contro a' franzesi, essendosi già
ribellato Teramo e Civita di Chieti, e dubitandosi che l'Aquila,
città principale di quella regione, non facesse il medesimo; la
quale avendo eglino confermata nella divozione franzese, e avendo
recuperato per accordo Teramo e saccheggiata Giulianuova, quasi
tutto l'Abruzzi seguitava il nome de' franzesi: in modo che le cose
di Ferdinando parevano per tutto il regno in manifesta declinazione.
Perché la Calavria quasi tutta era in potestà di Obigní, con tutto
che la sua lunga infermità, per la quale s'era fermato in Ghiarace,
desse comodità a Consalvo di tenere, con le genti spagnuole e con le
forze di alcuni signori del paese, accesa la guerra in quella
provincia; Gaeta con molte terre circostanti ubbidiva a' franzesi;
il prefetto di Roma con la compagnia sua e con le forze del suo
stato, recuperate le castella di Montecasino, infestava Terra di
Lavoro da quella banda; e Mompensieri, con tutto che molto lo
impedisse a usare le forze sue il mancamento de' danari, costrigneva
Ferdinando a rinchiudersi ne' luoghi forti, oppressato dalla
medesima necessità di danari e di molte altre provisioni, ma fondato
interamente in sulla speranza del soccorso viniziano; il quale,
perché la convenzione tra loro era stata fatta poco innanzi, non
poteva essere cosí presto come sarebbe stato di bisogno. Tentò
Mompensieri di occupare per trattato Benevento, ma Ferdinando
avutone sospetto vi entrò subitamente con le sue genti. Accostoronsi
i franzesi a Benevento, alloggiando al ponte a Finocchio, e avendo
preso Fenezano, Apice e molte terre circostanti. Ne' quali luoghi
mancando loro le vettovaglie, e approssimandosi il tempo di
riscuotere la dogana delle pecore della Puglia, entrata delle piú
importanti del reame di Napoli, perché era solita ascendere ciascuno
anno a ottantamila ducati, che tutti si riscotevano nello spazio
quasi di uno mese, Mompensieri, per privare gli inimici di questa
comodità e non meno per l'estremo bisogno delle sue genti, si voltò
al cammino di Puglia, della quale regione una parte si teneva per sé
un'altra ne tenevano gli inimici; né molto dietro a lui Ferdinando,
intento a impedire piú presto, con qualche arte o diligenza, i
progressi degli inimici che a combattere, insino a tanto che i
soccorsi suoi non arrivassino. Nel quale tempo giunse a Gaeta
un'armata franzese di quindici legni grossi e sette minori, in sulla
quale si erano imbarcati a Savona ottocento fanti tedeschi condotti
delle terre del duca di Ghelleri, e quelli svizzeri e guasconi che
prima il re aveva ordinato che fussino portati in sulle navi grosse
che si doveano armare a Genova; alla quale armata l'armata di
Ferdinando, che era sopra a Gaeta per impedire che non vi entrassino
vettovaglie, essendo per mancamento di danari male proveduta delle
cose necessarie, avea dato luogo: in modo che, essendo entrata nel
porto sicuramente, i fanti posti in terra presono Itri e altre terre
circostanti, e fatte per il paese molte prede speravano di ottenere
Sessa, per opera di Giovambatista Caracciolo che prometteva di
mettergli occultamente dentro; ma don Federigo, il quale essendosi
ridotto con le genti che lo seguivano intorno a Taranto era poi
stato mandato da Ferdinando al governo di Napoli, avutane notizia,
entratovi subito, fece prigioni il vescovo e certi altri consci del
trattato.
Ma in Puglia, ove era ridotta la somma della guerra, procedevano le
cose con varia fortuna; perché l'uno e l'altro esercito,
distribuitosi per l'asprezza del tempo per le terre, né alcuno in
una sola, per la incapacità d'esse, ma in piú, attendeva con
correrie e cavalcate grosse a predare i bestiami, usando piú tosto
industria e celerità che virtú d'arme. In Foggia si era fermato
Ferdinando con parte delle sue genti, messe le altre parte in Troia
e parte in Nocera: ove intendendo che, tra San Severo, nella quale
terra alloggiava con trecento uomini d'arme Verginio Orsino, venuto
a unirsi con Mompensieri, e la terra di Porcina ove era Mariano
Savello con cento uomini d'arme, si era ridotta quantità quasi
infinita di pecore e di altre bestie, si mosse con secento uomini
d'arme ottocento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti, e
arrivato, all'alba del dí, innanzi a San Severo, fermatosi quivi con
gli uomini d'arme per resistere a Verginio se si movesse, fece
correre i cavalli leggieri, che allargandosi per tutto il paese
predorno circa sessantamila bestie; ed essendo uscito fuora della
Porcina Mariano Savello a molestargli lo costrinsono a ritirarsi,
perduti trenta uomini d'arme. Questo danno e la vergogna ricevuta fu
cagione che Mompensieri, raccolte tutte le sue genti, andò verso
Foggia per recuperare la preda e l'onore perduto: dove,
succedendogli piú di quello che da principio aveva disegnato,
scontrò tra Nocera e Troia ottocento fanti tedeschi, venuti prima
per mare a' soldi di Ferdinando, i quali partitisi da Troia, dove
era il loro alloggiamento, andavano, piú per propria temerità che
per comandamento del re, e contro al consiglio di Fabrizio Colonna
che alloggiava medesimamente a Troia, per unirsi a Foggia con
Ferdinando; i quali, non potendo salvarsi né con la fuga né con
l'armi, né volendo arrendersi, furono combattendo tutti ammazzati,
non lasciata perciò la vittoria senza sangue agli inimici.
Presentossi poi Mompensieri con l'esercito ordinato a combattere
innanzi a Foggia, ma non lasciando Ferdinando uscire fuori altri che
i cavalli leggieri, andorono ad alloggiare al bosco della
Incoronata, dove stati due dí con difficoltà di vettovaglie, e
riavuta la maggiore parte delle bestie predate, di nuovo tornorno
innanzi a Foggia, e alloggiati quivi una notte ritornorno il dí
prossimo a San Severo, non avendo condotta tutta la preda riavuta,
perché nel ritornarsene ne fu tolta loro una parte da' cavalli
leggieri di Ferdinando. Cosí, disperdendosi le bestie, cavò l'una
parte e l'altra delle entrate della dogana piccolissima utilità.
Andorno pochi dí poi i franzesi, cacciati dalla penuria delle
vettovaglie, a Campobasso che si teneva per loro, dal quale luogo
presono per forza la Coglionessa o vero Grigonisa, terra vicina,
dove da' svizzeri, contro alla volontà de' capitani, fu usata
crudeltà tale che se bene si empiesse il paese di spavento alienò da
loro gli animi di molti: e Ferdinando, attendendo a difendere il
meglio poteva le cose sue e aspettando la venuta del marchese di
Mantova, riordinava intanto le genti, con sedicimila ducati che gli
aveva mandati il pontefice e con quegli che aveva potuti raccorre da
sé. Nel qual tempo si unirono con Mompensieri i svizzeri, e gli
altri fanti che erano venuti per mare a Gaeta; e da altra parte il
marchese di Mantua, entrato nel regno e venuto a Capua per la via di
San Germano, avendo per il cammino prese, parte per forza parte per
accordo, molte terre benché di piccola importanza, si uní, circa il
principio di giugno, col re a Nocera; dove don Cesare d'Aragona
condusse le genti che erano state intorno a Taranto. Cosí ridotte in
luoghi vicini quasi tutte le forze de' franzesi e di Ferdinando,
superiori le franzesi di fanti l'italiane di cavalli, pareva molto
dubbio l'evento delle cose, non si potendo discernere a quale delle
due parti fusse per inclinare la vittoria.
Lib.3, cap.6
Carlo VIII, anche per sollecitazioni di altri, torna a pensare alle
cose d'Italia. Deliberazioni del consiglio regio e preparativi per
una nuova spedizione in Italia. Timori e azione politica di Lodovico
Sforza. Indugi frapposti alla spedizione dal cardinale di San Malò.
Scarsi aiuti mandati da Carlo in Italia.
Nella quale incertitudine mentre che si sta, il re di Francia, da
altra parte, trattava delle provisioni di soccorrere i suoi. Perché,
come ebbe intesa la perdita delle castella di Napoli, e che per non
essere state restituite le fortezze a' fiorentini mancavano alle sue
genti i danari e i soccorsi loro, svegliato dalla negligenza con la
quale pareva fusse ritornato in Francia, cominciò di nuovo a voltare
l'animo alle cose d'Italia; e per essere piú espedito da tutto
quello che lo potesse ritenere, e per potere, dimostrandosi grato
de' benefici ricevuti ne' suoi pericoli, ricorrere di nuovo piú
confidentemente all'aiuto celeste, andò in poste a Torsi e poi a
Parigi per sodisfare a' voti fatti da sé, il dí della giornata di
Fornuovo, a san Martino e a san Dionigi; donde ritornato con la
medesima diligenza a Lione, si riscaldava ogni dí piú in questo
pensiero; al quale era per se stesso inclinatissimo, attribuendosi a
grandissima gloria l'avere acquistato un reame tale, e primo di
tutti i re di Francia dopo molti secoli avere personalmente
rinnovata in Italia la memoria dell'armi e delle vittorie franzesi;
e persuadendosi che le difficoltà le quali aveva avute nel ritornare
da Napoli fussino procedute piú da' disordini suoi che dalla potenza
o dalla virtú degl'italiani, il nome de' quali non era piú, nelle
cose della guerra, appresso a franzesi in alcuna estimazione. E
l'accendevano ancora gli stimoli degli oratori de' fiorentini, del
cardinale di San Piero in Vincola e di Gian Iacopo da Triulzi,
ritornato per questa cagione alla corte; in compagnia de' quali
facevano la medesima instanza Vitellozzo e Carlo Orsino e dipoi il
conte di Montorio, mandato per il medesimo effetto da' baroni che
seguitavano le parti franzesi nel regno di Napoli; e ultimatamente
vi andò da Gaeta per mare il siniscalco di Belcari, il quale
dimostrava speranza grande di vittoria in caso che senza piú
dilazione si mandasse il soccorso e, per contrario, che le cose di
quel reame essendo abbandonate non potevano sostenersi lungamente; e
oltre a questi una parte de' signori grandi, stati prima alieni
dalle imprese d'Italia, confortavano il medesimo, per la ignominia
che del lasciare perdere l'acquisto fatto risultava alla corona di
Francia, e molto piú per il danno che tanta nobiltà franzese si
perdesse nel reame di Napoli. Né si raffrenavano questi concetti per
i movimenti i quali si dimostravano per i re di Spagna dalla parte
di Perpignano, perché essendo apparati maggiori in nome che in
fatti, e le forze di quegli re piú potenti alla difesa de' regni
propri che all'offesa de' regni d'altri, si giudicava sufficiente
rimedio l'avere mandate a Nerbona e nell'altre terre che sono alle
frontiere di Spagna molte genti d'arme, non senza compagnia
sufficiente di svizzeri.
Però convocati dal re nel consiglio tutti i signori e tutte le
persone notabili che si trovavano nella corte, fu deliberato che con
piú celerità che si potesse tornasse in Asti il Triulzio con titolo
di luogotenente regio e con lui ottocento lancie dumila svizzeri e
dumila guasconi, e che poco dopo lui passasse i monti con altre
genti il duca di Orliens, e finalmente con tutte l'altre provisioni
la persona del re; il quale passando potente, non si dubitava che
aderirebbono alla volontà sua gli stati del duca di Savoia e de'
marchesi di Monferrato e di Saluzzo, opportuni molto a fare la
guerra contro al ducato di Milano; e che, dal cantone di Berna
infuora, il quale aveva promesso al duca di Milano di non lo
offendere, tutti i cantoni de' svizzeri andrebbono agli stipendi
suoi con grandissima prontezza. Le quali deliberazioni procederono
con maggiore consentimento per l'ardore del re; il quale, innanzi
che entrasse nel consiglio, avea pregato strettamente il duca di
Borbone che con efficaci parole dimostrasse essere necessario il
fare potentissimamente la guerra, e poi nel consiglio, ribattuto con
la medesima caldezza l'ammiraglio, il quale seguitato da pochi
aveva, non tanto contradicendo direttamente quanto proponendo molte
difficoltà, cercato di intepidire per indiretto gli animi degli
altri: e affermava il re palesemente che in potestà sua non era di
fare altra deliberazione, perché la volontà di Dio lo costrigneva a
ritornare in Italia personalmente. Fu deliberato nel medesimo
consiglio che trenta navi, tra le quali una caracca grossissima
detta la Normanda e un'altra caracca grossa della religione di Rodi,
passassino dalla costa del mare Oceano ne' porti di Provenza, dove
si armassino trenta tra galee sottili e galeoni, per mettere con sí
grossa armata nel reame di Napoli soccorso grandissimo di gente di
vettovaglie di munizioni e di danari; e nondimeno che, non
aspettando che questa fusse in ordine, si mandasse subito qualche
navile carico di gente e di vettovaglie. Oltre a tutte le quali cose
fu ordinato che a Milano andasse Rigault maestro di casa del re:
perché il duca, benché non avesse dato le due caracche né permesso
l'armarsi per il re a Genova, e restituito solamente i legni presi a
Rapalle ma non le dodici galee state tenute nel porto di Genova, si
era sforzato di scusarsi con la inubbidienza de' genovesi, e tenuto
continuamente con varie pratiche uomini suoi appresso al re; al
quale aveva di nuovo mandato Antonio Maria Palavicino, affermando
che era disposto a osservare l'accordo fatto, dimandando gli fusse
prorogato il tempo di pagare al duca d'Orliens i cinquantamila
ducati promessi in quella concordia. Dalle quali arti benché
riportasse piccolo frutto, essendo notissima al re la mente sua, sí
per l'altre azioni sí perché, per lettere e istruzioni sue che erano
state intercette, era venuto a luce essere da lui stimolati
continuamente il re de' romani e i re di Spagna a muovere la guerra
in Francia, nondimeno, sperandosi che forse il timore lo indurrebbe
a quello da che era aliena la volontà, fu commesso a Rigault che,
non disputando della inosservanza passata, gli significasse in
potestà sua essere di cancellare la memoria dell'offese cominciando
a osservare, rendendo le galee concedendo le caracche e permettendo
l'armare a Genova; e gli soggiugnesse la deliberazione della passata
del re, la quale sarebbe con gravissimo suo danno se, mentre gli era
offerta la facoltà, non ritornasse a quella amicizia la quale il re
si persuadeva che egli piú tosto per sospetti vani che per altra
cagione avesse imprudentemente disprezzata.
Già la fama degli apparati che si facevano, trapassata in Italia,
aveva dato molta alterazione a' collegati; e sopra tutti Lodovico
Sforza, essendo il primo esposto all'impeto degl'inimici, si
ritrovava in grandissima ansietà, inteso massime che, dopo la
partita di Rigault dalla corte, il re con parole e dimostrazioni
molto brusche aveva licenziato tutti gli agenti suoi. Per il che,
rivoltandosi nella mente la grandezza del pericolo, e che tutti i
travagli della guerra si riducevano nel suo stato, si sarebbe
facilmente accomodato alle richieste del re se non l'avesse ritenuto
il sospetto, per la coscienza dell'offese fattegli, per le quali era
generata da ogni parte tale diffidenza, che e' fusse piú difficile
trovare mezzo di sicurtà per ciascuno che convenire negli articoli
delle differenze; perché togliendosi alla sicurezza dell'uno quel
che si consentisse per assicurare l'altro, niuno voleva rimettere
nella fede di altri quel che l'altro recusava di rimettere nella
sua. Cosí stringendolo la necessità a prendere quel consiglio che
gli era piú molesto, per cercare almeno d'allungare i pericoli,
continuò con Rigault l'arti medesime che aveva usate insino allora;
affermando molto efficacemente che farebbe ubbidire i genovesi ogni
volta che il re desse nella città di Avignone sicurtà sufficiente
per la restituzione delle navi, e che ciascuna delle parti
promettesse, dando ostaggi per l'osservanza, che cose nuove in
pregiudicio dell'altra non si tentassino: la quale pratica,
continuata molti dí, ebbe finalmente, per varie cavillazioni e
difficoltà che si interponevano, l'effetto medesimo che avevano
avuto l'altre. Ma Lodovico non consumando questo tempo inutilmente
mandò, mentre pendevano questi ragionamenti, uomini al re de' romani
per indurlo a passare in Italia con l'aiuto suo e de' viniziani; e a
Vinegia mandò imbasciadori a ricercargli che per provedere al
pericolo comune concorressino a questa spesa, e che mandassino verso
Alessandria i sussidi che fussino necessari per opporsi a' franzesi:
il che da loro fu offerto di fare prontissimamente. Ma non mostrorno
già la medesima facilità nella passata del re de' romani, poco amico
alla loro republica, rispetto a quello possedevano in terra ferma
appartenente allo imperio e alla casa di Austria; né si contentavano
che a spese comuni si conducesse in Italia un esercito che in tutto
dependesse da Lodovico: nondimeno, continuando Lodovico di farne
instanza perché, oltre all'altre ragioni che lo movevano, le forze
sole de' viniziani nello stato di Milano gli erano sospette,
dubitando quel senato che egli, il quale sapevano essere grandemente
impaurito, non si precipitasse a riconciliarsi col re di Francia,
prestò finalmente il suo consentimento, e mandò per la cagione
medesima a Cesare imbasciadori. Temevano ancora i viniziani e il
duca che i fiorentini, come il re avesse passato i monti, non
facessino nella riviera di Genova qualche movimento; però
ricercorono Giovanni Bentivogli che con trecento uomini d'arme, co'
quali era condotto da' confederati, assaltasse da' confini di
Bologna i fiorentini, promettendogli che nel tempo medesimo
sarebbono molestati da' sanesi e dalle genti che erano in Pisa, e
offerendogli di obligarsi, in caso che occupasse la città di
Pistoia, a conservarvelo: di che benché il Bentivoglio desse loro
speranza, nondimeno, avendone l'animo molto lontano, e temendo non
poco della venuta de' franzesi, mandò occultamente al re a scusarsi
delle cose passate per la necessità del sito nel quale è posta
Bologna, e a offerire di volere dependere da lui, e di astenersi per
rispetto suo da molestare i fiorentini.
Ma non bastava la volontà del re, benché ardentissima, a mettere a
esecuzione le cose deliberate, con tutto che l'onore proprio e i
pericoli del regno di Napoli ricercassino prestissima espedizione;
perché il cardinale di San Malò, in cui mano era oltre al maneggio
delle pecunie la somma di tutto il governo, benché apertamente non
contradicesse, differiva tanto, con allungare i pagamenti necessari,
tutte l'espedizioni che provisione alcuna a effetto non si
conduceva; mosso, o per parergli migliore mezzo a perpetuare la sua
grandezza, non facendo spesa alcuna che non appartenesse o
all'utilità presente o a' piaceri del re, non avere cagione di
proporre ogni dí difficoltà di cose e necessità di danari, o perché,
come molti dubitavano, corrotto da premi e da speranze, avesse
secreta intelligenza o col pontefice o col duca di Milano: né a
questo rimediavano i conforti e i comandamenti del re, pieni qualche
volta di sdegno e di parole ingiuriose, perché conoscendo quale
fusse la sua natura gli sodisfaceva con promesse contrarie agli
effetti. E cosí, cominciata a ritardarsi per opera sua la esecuzione
delle cose disegnate, si turborono quasi in tutto per uno accidente
inaspettato che sopravenne. Imperocché alla fine del mese di maggio
il re, quando ciascuno aspettava che non molto poi si movesse per
passare in Italia, deliberò di andare a Parigi: allegando che,
secondo il costume degli antichi re, voleva innanzi si partisse di
Francia pigliare licenza con le cerimonie consuete da san Dionigi e,
nel passare da Torsi, da san Martino; e che avendo disposto di
passare in Italia abbondantissimo di danari, per non si ridurre
nelle necessità nelle quali era stato l'anno dinanzi, bisognava che
inducesse l'altre città di Francia ad accomodarlo di danari con
l'esempio della città di Parigi, dalla quale non otterrebbe essere
accomodato se non vi andasse personalmente; e che approssimandosi in
là, farebbe piú sollecite a cavalcare le genti d'arme che si
movevano di Normandia e di Piccardia: affermando che innanzi alla
partita sua spedirebbe il duca d'Orliens, e che in termine di un
mese sarebbe ritornato a Lione. Ma si credette che la piú vera e
principale cagione fusse l'essere egli innamorato in camera della
reina, la quale poco avanti era andata a Torsi con la sua corte. Né
potettono i consigli de' suoi né gli stretti prieghi, e quasi
lagrime, degl'italiani rimuoverlo da questa deliberazione; i quali
gli dimostravano quanto fusse dannoso il perdere il tempo opportuno
alla guerra, massime in tanta necessità de' suoi nel regno
napoletano, e quanto fusse perniciosa la fama che volerebbe per
Italia che e' si fusse allontanato quando doveva approssimarsi:
variarsi per ogni piccolo accidente, per ogni leggiero romore, la
riputazione delle imprese; ed essere molto difficile il ricuperarla
quando è cominciata a declinare, quando bene si facessino poi
effetti molto maggiori di quegli che gli uomini prima si erano
promessi. I quali ricordi disprezzando, ed essendo soprastato un
mese di piú a Lione, si mosse a quel cammino, non avendo espedito
altrimenti il duca d'Orliens ma solo mandato in Asti con non molta
gente il Triulzio, non tanto per le preparazioni della guerra quanto
per stabilire nella sua divozione Filippo monsignore, succeduto
nuovamente, per la morte del piccolo duca suo nipote, nella ducea di
Savoia. Né si fece, innanzi alla partita sua, per le cose del regno
altra provisione che di mandare con vettovaglie sei navi a Gaeta,
dando speranza che presto le seguiterebbe l'armata grossa; e di
provedere per mezzo di mercatanti a Firenze, benché tardi,
quarantamila ducati per fargli pagare a Mompensieri: perché i
svizzeri e i tedeschi avevano protestato che, non essendo pagati
innanzi alla fine di giugno, passerebbono nel campo degli inimici.
Rimasono a Lione il duca d'Orliens, il cardinale di San Malò e tutto
il consiglio, con commissione di accelerare le provisioni: alle
quali se il cardinale era proceduto lentamente in presenza del re,
procedeva molto piú lentamente essendo assente.
Lib.3, cap.7
Nuove vicende della guerra nel reame di Napoli. Declina di nuovo la
fortuna de' francesi. Vittoria di Consalvo in Calabria. Resa di
Atella. Continui progressi degli aragonesi. Morte di Ferdinando e
successione di Federico. Continuano gli indugi nella spedizione
francese in Italia.
Ma non potevano le cose del reame di Napoli aspettare la tardità di
questi rimedi, essendo ridotta la guerra in termine, per gli
eserciti congregati da ogni banda e per molte difficoltà che da
tutt'a due le parti si scoprivano, che era necessario che senza piú
dilazione si terminasse la guerra. Aveva Ferdinando, poiché ebbe
unite seco le genti viniziane, presa la terra di Castelfranco; dove
si unirno seco con dugento uomini d'arme Giovanni Sforza signore di
Pesero e Giovanni da Gonzaga fratello del marchese di Mantova
condottieri de' confederati, in modo che in tutto erano nel campo
suo mille dugento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri e
quattromila fanti; e i franzesi nel tempo medesimo si erano
accampati a Circello, propinquo a dieci miglia a Benevento. Appresso
a' quali accostatosi Ferdinando a quattro miglia, si pose a campo a
Frangete di Monteforte; il quale luogo perché era bene proveduto non
presono al primo assalto. Levoronsi i franzesi da Circello per
soccorrerlo ma non arrivorono a tempo, essendosi per timore del
secondo assalto arrenduti, lasciata la terra a discrezione, i fanti
tedeschi che lo guardavano: la qual cosa parendo avversa a' franzesi
sarebbe stata cagione della loro felicità se, o per imprudenza o per
mala fortuna, non avessino perduta tanta occasione. Perché (cosí
confessa quasi ciascuno) arebbeno quel dí facilmente rotto
l'esercito inimico: perché, occupata la maggiore parte nel sacco di
Frangete, non attendeva a' comandamenti de' capitani; i quali,
vedendo che già tra i franzesi e l'alloggiamento loro non era in
mezzo altro che una valle, si sforzavano con grandissima diligenza
di mettergli insieme. Conobbe Mompensieri sí grande occasione,
conobbela Verginio Orsino; de' quali l'uno comandava, l'altro,
dimostrando la vittoria certa, pieno di lagrime pregava, che non
tardassino a passare la valle mentre che nell'alloggiamento italiano
era piena ogni cosa di confusione e di tumulto, mentre che i
soldati, attendendo parte a rubare parte a portare via le cose
rubate, non udivano l'imperio de' capitani. Ma Persí, uno de'
principali, dopo Mompensieri, dell'esercito, mosso o da leggierezza
giovenile o, come piú si credette, da invidia della sua gloria,
allegando il disavvantaggio del passare la valle salendo sotto i
piedi quasi degli inimici, e il sito forte del loro alloggiamento, e
confortando scopertamente i soldati a non combattere, impedí cosí
salutifero consiglio; e si crede che istigati da lui, i svizzeri e i
tedeschi, domandando danari, tumultuorono. Però Mompensieri,
costretto a ritirarsi, ritornò intorno a Circelle; ove dandosi il dí
seguente la battaglia, Camillo Vitelli, mentre che allato alle mura
fa egregiamente l'ufficio di capitano e di soldato, percosso nella
testa da uno sasso terminò la vita sua: per il quale caso i
franzesi, non espugnato Circelle, ne levorono il campo e se ne
andorno verso Arriano; disposti nondimeno i capitani a tentare, se
n'avessino avuta occasione, la fortuna della giornata. Al quale
consiglio era in tutto contrario il consiglio dell'esercito
aragonese; stando massime fermi, specialmente i proveditori
viniziani, in questa sentenza perché, sapendo che gli inimici
cominciavano a patire di vettovaglie e che erano senza danari, e
vedendosi procedere in lungo i soccorsi di Francia, speravano che
giornalmente avessino a crescere i sinistri e le incomodità loro, e
che in altre parti del regno avessino medesimamente ad avere
maggiori molestie, perché nello Abruzzi, dove nuovamente Annibale
figliuolo naturale del signore di Camerino, andato volontariamente a
servire Ferdinando con quattrocento cavalli a spese proprie, avea
rotto il marchese di Bitonto, si aspettava con trecento uomini
d'arme il duca di Urbino, condotto di nuovo da' collegati: la
fortuna de' quali e le condizioni maggiori egli seguitando, aveva
abbandonato la condotta de' fiorentini, alla quale era obligato
ancora per piú di uno anno, scusandosi che per essere feudatario
della Chiesa non poteva non ubbidire a' comandamenti del pontefice.
Però, andando Graziano di Guerra per opporsegli, assaltato nel piano
di Sermona dal conte di Celano e dal conte di Popoli con trecento
cavalli e con tremila fanti paesani, gli messe in fuga.
Ma con la perdita della occasione del vincere intorno a Frangete era
cominciata a declinare manifestamente la fortuna de' franzesi,
concorrendo in uno tempo medesimo quasi infinite difficoltà; inopia
estrema di danari carestia di vettovaglie odio de' popoli discordia
de' capitani disubbidienza de' soldati e la partita di molti dal
campo, parte per necessità parte per volontà, perché né del reame
aveano avuto facoltà di cavare se non pochi danari, né di Francia
erano stati di quantità alcuna proveduti, essendo stata troppo tarda
la provisione de' quarantamila ducati mandati a Firenze; di maniera
non potevano, per questo e per la vicinità di molte terre sostentate
dalla propinquità degli inimici, fare i provedimenti necessari per
avere le vettovaglie; e l'esercito era pieno di disordini, essendo
indeboliti gli animi de' soldati, e i svizzeri e i tedeschi
dimandando ogni dí tumultuosamente di essere pagati, e nocendo molto
a tutte le deliberazioni la contradizione continua di Persí a
Mompensieri. Costrinse la necessità il principe di Bisignano a
partirsi con le sue genti, per andare alla guardia del proprio
stato, per timore delle genti di Consalvo; e molti de' soldati del
paese alla giornata si sfilavano, perché oltre al non avere ricevuti
mai danari erano maltrattati da' franzesi e da' svizzeri nella
divisione delle prede e nella distribuzione delle vettovaglie. Per
le quali difficoltà, e sopratutto per la strettezza del vivere, era
l'esercito franzese necessitato ritirarsi a poco a poco di uno luogo
in uno altro, il che diminuiva grandemente la riputazione sua
appresso a' popoli; e benché gli inimici gli andassino continuamente
seguitando non perciò speravano d'avere facoltà di combattere, come
sopratutto Mompensieri e Verginio desideravano, perché per non
essere sforzati a combattere alloggiavano sempre in luoghi forti e
ove non potessino essere impedite le sue comodità. Co' quali andando
a unirsi Filippo Rosso condottiere de' viniziani, con la sua
compagnia di cento uomini d'arme, era stato rotto dalle genti del
prefetto di Roma. Finalmente, essendo i franzesi alloggiati sotto
Montecalvoli e Casalarbore presso ad Arriano, Ferdinando,
accostatosi loro per tanto spazio quanto è il tiro di una balestra
ma alloggiando sempre in sito forte, gli ridusse in necessità grande
di vettovaglie, e gli privò medesimamente dell'uso dell'acqua. Donde
deliberati di andarsene in Puglia, dove speravano avere comodità di
vettovaglie, e temendo, nella propinquità degl'inimici, delle
difficoltà che facilmente sopravengono agli eserciti che si
ritirano, levatisi tacitamente al principio della notte,
camminorono, innanzi si fermassino, venticinque miglia. Seguitògli
la mattina Ferdinando, ma disperandosi di potere aggiugnergli si
accampò a Giesualdo; la quale terra, avendo già sostenuto
quattordici mesi l'assedio di... famosissimo capitano, fu da lui
espugnata in uno giorno solo: cosa che ingannò molto i franzesi,
perché avendo deliberato di fermarsi in Venosa, terra forte di sito
e molto abbondante di vettovaglie, la credenza che ebbono che
Ferdinando non cosí presto pigliasse Giesualdo fu cagione che
perdessino tempo in Atella, la quale terra aveano presa e la
saccheggiavano; onde innanzi partissino, sopragiunti da Ferdinando,
che preso Giesualdo accelerò il cammino, benché battessino una parte
de' suoi trascorsa innanzi al campo, non potendo ridursi a Venosa
vicina a otto miglia, si fermorono in Atella, con intenzione di
aspettare se da parte alcuna venisse soccorso, e sperando, per la
vicinità di Venosa e di molte altre terre circostanti che si
tenevano per loro, poterne ricevere comodità di vettovaglie.
Accampovvisi subito Ferdinando, intento tutto a impedirle loro,
poiché vedeva presente la speranza di ottenere la vittoria senza
pericolo e senza sangue, e perciò attendendo a fare all'intorno
molte tagliate e a insignorirsi delle terre vicine. Ma le difficoltà
de' franzesi gli rendevano ogni dí le cose piú facili. Perché i
fanti tedeschi, non avendo, poi che furono levati del suo paese,
ricevuto pagamento se non per due mesi, ed essendo passati tutti i
termini invano aspettati, se n'andorono nel campo di Ferdinando;
onde crescendo a lui la facoltà di infestare piú gli inimici e di
piú distendervisi, vi si conducevano piú difficilmente le
vettovaglie che venivano da Venosa e dall'altre terre circostanti.
Né in Atella era tanto da vivere che bastasse a sostentare molti dí
i franzesi, perché vi era piccola quantità di grano; e avendo gli
aragonesi rovinato uno molino, il quale era in sul fiume che corre
propinquo alle mura, pativano anche di macinato: non si alleggerendo
le incomodità presenti per la speranza del futuro; poi che da parte
alcuna non appariva segno di soccorso.
Ma l'avversità che sopravenne in Calavria messe in ultima ruina le
cose loro. Perché avendo Consalvo, per l'occasione della infermità
lunga di Obigní per la quale molti de' suoi erano andati
all'esercito di Mompensieri, preso piú terre in quella provincia, si
era ultimatamente, con gli spagnuoli e con molti soldati del paese,
fermato a Castrovillole; dove avendo notizia che a Laino erano il
conte di Meleto e Alberigo da San Severino e molti altri baroni con
numero di gente quasi pari, e che ingrossando continuamente,
disegnavano, come fussino piú potenti, d'andare ad assaltarlo,
deliberò di prevenire, sperando di opprimergli incauti per la
sicurtà che avevano dal sito del loro alloggiamento, perché il
castello di Laino è posto in sul fiume [Sapri] che divide la
Calavria dal Principato, e il borgo è dall'altra parte del fiume;
nel quale alloggiando erano guardati dal castello contro a chi
venisse ad assaltargli per il cammino diritto, e tra Laino e
Castrovillole erano Murano e alcun'altre terre del principe di
Bisignano che si tenevano per loro. Ma Consalvo, con diverso
consiglio, partí con tutta la sua gente da Castrovillole poco
innanzi alla notte, e uscendo della strada diritta prese il cammino
largo, ancora che molto piú lungo e difficile perché s'avevano a
passare alcune montagne, e condotto in sul fiume avviò la fanteria
alla via del ponte che è tra 'l castello di Laino e il borgo; il
qual ponte, per la medesima sicurtà, era guardato negligentemente:
egli con la cavalleria, passato il fiume a guazzo due miglia piú
alto, arrivò innanzi dí al borgo, e trovato gli inimici senza scolte
e senza guardia gli ruppe in uno momento, pigliando undici baroni e
quasi tutta la gente, perché fuggendo inverso il castello
percotevano nella fanteria che aveva già occupato il passo del
ponte. Da questa onorata opera, la quale fu la prima delle vittorie
che ebbe Consalvo nel regno di Napoli, ricuperate alcune altre terre
di Calavria, e augumentate le forze, andò con seimila uomini a
unirsi col campo che era intorno ad Atella; al quale erano arrivati,
pochi dí innanzi, cento uomini d'arme del duca di Candia soldato de'
confederati, perché egli col resto della compagnia era rimasto in
terra di Roma.
Per la venuta di Consalvo si strinse piú l'assedio, perché Atella fu
circondata da tre parti, ponendosi da una le genti aragonesi
dall'altra le viniziane e dalla terza le spagnuole; donde
s'impedivano le vettovaglie che vi venivano, correndo massime per
tutto gli stradiotti de' viniziani, i quali presono molti franzesi
che ne conducevano da Venosa; né avevano piú quegli di dentro
facoltà di andare al saccomanno se non a ore straordinarie e con
grosse scorte: il che anche fu tolto del tutto loro, perché essendo
uscito in sul mezzo dí Paolo Vitelli con cento uomini d'arme, tirato
dal marchese di Mantova in uno aguato, ne perdé parte. Cosí perdute
tutte le comodità, si ridussono in ultimo in tanta strettezza che
non potevano, eziandio con le scorte, usare per i cavalli l'acqua
del fiume, e dentro mancava l'acqua necessaria alle persone; in modo
che, vinti da tanti mali e abbandonati d'ogni speranza, avendo già
sopportato l'assedio trentadue dí, necessitati ad arrendersi,
impetrato salvocondotto, mandorono Persí, Bartolomeo d'Alviano e uno
de' capitani svizzeri a parlare a Ferdinando, col quale venneno in
queste convenzioni: che l'offese si levassino tra le parti per
trenta dí, non potendo nel detto tempo partirsi d'Atella alcuno
degli assediati; a' quali fusse dí per dí conceduta dagli aragonesi
la vettovaglia necessaria: fusse lecito a Mompensieri significare al
suo re l'accordo fatto, e non avendo soccorso fra trenta dí,
lasciasse Atella e tutto quello che nel regno di Napoli era in sua
potestà, con tutte l'artiglierie che v'erano dentro, salve le
persone e le robe de' soldati; con le quali fusse libero a ciascuno
di andarsene, o per terra o per mare, in Francia; e agli Orsini e
agli altri soldati italiani, di ritornarsene con le sue genti dove
volessino fuora del regno: che a' baroni e agli altri che avevano
seguitata la parte del re di Francia fusse, in caso che andassino
fra quindici dí a Ferdinando, rimessa ogni pena e restituito tutto
quello possedevano quando si principiò la guerra. Il quale termine
poi che fu passato, Mompensieri con tutti i franzesi e con molti
svizzeri e gli Orsini furno condotti a Castello a mare di Stabbia:
disputandosi se Mompensieri, come luogotenente generale del re e
superiore a tutti gli altri, fusse obligato a fare restituire, come
allegava Ferdinando, tutto quello che nel reame di Napoli si
possedeva in nome del re di Francia; perché Mompensieri pretendeva
non essere tenuto se non a quello che era in potestà sua di
restituire, e che l'autorità sua non si distendeva a comandare a'
capitani e a' castellani, che nella Calavria nell'Abruzzi a Gaeta, e
in molte altre terre e fortezze, l'aveano ricevute in custodia dal
re e non da lui. Sopra che poi che si fu disputato alcuni dí, furono
condotti a Baia, simulando Ferdinando di volergli lasciare partire:
dove, sotto colore che ancora non fussino a ordine i legni per
imbarcargli, furno sopratenuti tanto, che sparsi tra Baia e
Pozzuolo, per la mala aria e per molte incomodità, cominciorno a
infermarsi; talmente che e Mompensieri morí, e del resto della sua
gente, che erano piú di cinquemila uomini, ne mancorno tanti che
appena se ne condusseno cinquecento salvi in Francia. Verginio e
Paolo Orsini, a requisizione del pontefice già deliberato di tôrre
gli stati a quella famiglia, furono rinchiusi in Castello dell'Uovo,
e le loro genti, guidate da Giangiordano figliuolo di Verginio e da
Bartolomeo d'Alviano, furono per ordine del medesimo svaligiate
nell'Abruzzi dal duca d'Urbino; e Giangiordano e l'Alviano, i quali
prima per comandamento di Ferdinando, lasciate le genti nel cammino,
erano ritornati a Napoli, furno incarcerati; benché l'Alviano, o per
industria sua o per secreto consentimento di Ferdinando, da cui era
stato molto amato, ebbe facoltà di fuggirsi.
Dopo la vittoria di Atella Ferdinando, dividendo per la
recuperazione del resto del regno l'esercito in varie parti, mandò a
campo a Gaeta don Federico e Prospero Colonna; e nell'Abruzzi, ove
già l'Aquila era ritornata alla divozione aragonese, Fabrizio
Colonna: egli, presa per forza la rocca di Sanseverino, e fatto per
terrore degli altri decapitare il castellano e il figliuolo, andò a
campo a Salerno; ove il principe di Bisignano, andato a parlargli,
accordò per sé per il principe di Salerno per il conte di Capaccio e
per alcuni altri baroni, con condizione di possedere i loro stati ma
che Ferdinando, per sua sicurtà, tenesse per certo tempo le
fortezze: il quale accordo fatto, andorno a Napoli. Né fu nello
Abruzzi fatta molta difesa, perché Graziano di Guerra, che vi era
con ottocento cavalli, non avendo piú facoltà di difendersi, si
ridusse a Gaeta. In Calavria, della quale la maggiore parte si
teneva per i franzesi, ritornò Consalvo; dove benché da Obigní fusse
fatta qualche resistenza, nondimeno, ultimatamente ridotto in
Groppoli, ed essendo perdute Manfredonia e Cosenza, stata prima
saccheggiata da' franzesi, privato d'ogni speranza, consentí di
lasciare tutta la Calavria, e gli fu conceduto il ritornarsene per
terra in Francia. Certo è che molte di queste cose procederono per
la negligenza e imprudenza de' franzesi: perché Manfredonia, ancora
che fusse forte e posta in paese abbondante da potersi facilmente
provedere di vettovaglie, e che 'l re v'avesse lasciato al governo
Gabriello da Montefalcone, avuto da lui in concetto d'uomo valoroso,
nondimeno dopo breve assedio fu costretto ad arrendersi per la fame;
altri, potendosi difendere, si arrenderono o per viltà o per l'animo
debole a sostenere le incomodità degli assedi; alcuni castellani,
trovate le rocche bene provedute, avevano nel principio vendute le
vettovaglie, in modo che presentandosi gli inimici erano necessitati
ad arrendersi subito. Dalle quali cose perdé, nel reame di Napoli,
il nome franzese quella riputazione che gli aveva data la virtú di
colui che lasciato da Giovanni d'Angiò a guardia di Castel
dell'Uovo, lo tenne dopo la vittoria di Ferdinando molti anni,
insino a tanto che l'essere consumati del tutto gli alimenti lo
costrinse ad arrendersi.
Cosí non mancando quasi altro alla recuperazione di tutto il regno
che Taranto e Gaeta e alcune terre tenute da Carlo de Sanguine, e il
monte di Santo Angelo, donde don Giuliano dell'Oreno infestava con
somma laude i paesi circostanti, Ferdinando, collocato in somma
gloria e in speranza grande di avere a essere pari alla grandezza
de' suoi maggiori, andato a Somma, terra posta nelle radici del
monte Vesevo, dove era la reina sua moglie, o per le fatiche passate
o per disordini nuovi infermò sí gravemente che, portato già quasi
senza speranza di salute a Napoli, finí fra pochi dí la vita sua,
non finito l'anno dalla morte d'Alfonso suo padre: lasciato, per la
vittoria acquistata, e per la nobiltà dell'animo e per molte virtú
regie le quali in lui non mediocremente risplendevano, non solo in
tutto il suo regno ma eziandio per tutta Italia, grandissima
opinione del suo valore. Morí senza figliuoli, e però gli succedette
don Federigo suo zio, avendo quel reame veduto in tre anni cinque
re. Al quale, venuto subito dall'assedio di Gaeta, la reina vecchia
sua matrigna consegnò Castelnuovo; benché per molti si dubitasse non
lo volesse ritenere per Ferdinando re di Spagna, suo fratello. Nel
quale accidente si dimostrò egregia verso Federigo non solo la
volontà del popolo di Napoli ma eziandio de' príncipi di Salerno e
di Bisignano e del conte di Capaccio; i quali in Napoli furono i
primi che chiamorono il nome suo e, allo scendere suo di nave, i
primi che, fattisigli incontro, lo salutorno come re: contenti molto
piú di lui che del re morto, per la mansuetudine del suo ingegno, e
perché già era nata non piccola suspizione che Ferdinando avesse in
animo, come prima fussino stabilite meglio le cose sue, di
perseguitare ardentemente tutti coloro che in modo alcuno si fussino
dimostrati fautori de' franzesi. Donde Federigo, per
riconciliarsegli interamente, restituí a tutti liberamente le loro
fortezze.
Ma non riscaldorono già questi disordini, succeduti con tanta
ignominia e tanto danno, né l'animo né gli apparati del re di
Francia. Il quale, non si sapendo sviluppare da' piaceri,
soprastette quattro mesi a ritornare a Lione; e benché da lui fusse
molto spesso in questo tempo fatta instanza a' suoi che erano
rimasti a Lione che si sollecitassino le provisioni marittime e
terrestri, e che già il duca d'Orliens si fusse preparato a
partirsi, nondimeno, per le medesime arti del cardinale di San Malò,
le genti d'arme, espedite tardi de' pagamenti, camminavano verso
Italia lentamente, e l'armata, che s'aveva a unire a Marsilia, sí
oziosamente si ordinava che i collegati ebbono tempo di mandare,
prima a Villafranca, porto amplissimo appresso a Nizza, dipoi insino
alle Pomiche di Marsilia, un'armata, la quale a spese comuni avevano
unita in Genova, per impedire che legni franzesi non andassino nel
reame, e alla tardità causata principalmente dal cardinale di San
Malò si dubitava non si aggiugnesse qualche cagione piú occulta,
nutrita con molta diligenza e arte nel petto del re da quegli i
quali, per varie cagioni, si sforzavano di rimuovere l'animo suo
dalle cose d'Italia. Perché si sospettava che per se medesimo avesse
dispiacere della grandezza del duca d'Orliens, al quale per la
vittoria sarebbe pervenuto il ducato di Milano; e gli era oltre a
questo persuaso non essere sicuro il partirsi di Francia se prima
non facesse qualche composizione co' re di Spagna: i quali,
dimostrando desiderio di riconciliarsi seco, gli avevano mandato
imbasciadori a proporre tregua e altri modi di concordia.
Consigliavanlo ancora molti che aspettasse il parto propinquo della
reina, perché non conveniva alla prudenza sua, né all'amore che e'
doveva portare a' popoli suoi, esporre la persona propria a tanti
pericoli se prima non avesse un figliuolo al quale appartenesse
tanta successione: ragione che diventò piú potente per il parto
della reina, perché fra pochi dí morí il figliuolo maschio che di
lei era nato. Cosí, parte per la negligenza e poco consiglio del re,
parte per le difficoltà artificiosamente interposte da altri, si
differirno tanto le provisioni che ne seguitò la distruzione delle
sue genti con la perdita totale del regno di Napoli: e sarebbe
succeduto il medesimo de' confederati suoi d'Italia se per se stessi
non avessino costantemente difese le cose proprie.
Lib.3, cap.8
Colloqui e accordi di Lodovico Sforza con Massimiliano Cesare.
Massimiliano Cesare in Italia. Fedeltà de' fiorentini ai francesi e
consigli politici del Savonarola. Vicende della guerra de'
fiorentini per riconquistare Pisa. Morte di Piero Capponi. Maggiori
aiuti de' veneziani a Pisa e minore fiducia de' pisani in Lodovico
Sforza.
È detto di sopra che, per paura degli apparati franzesi, si era
cominciato, piú per sodisfazione di Lodovico Sforza che de'
viniziani, a trattare di fare passare Massimiliano Cesare in Italia;
col quale, mentre durava il medesimo timore, fu convenuto che i
viniziani e Lodovico gli dessino per tre mesi ventimila ducati
ciascuno mese perché menasse seco un certo numero di cavalli e di
fanti. La quale convenzione come fu fatta, Lodovico, accompagnato
dagli oratori de' collegati, andò a Manzo, luogo di là dalle Alpi a'
confini di Germania, ad abboccarsi seco; nel quale luogo avendo
parlato lungamente, ed essendosi il medesimo dí ritirato di qua
dall'Alpi a Bormi, terra del ducato di Milano, Cesare il dí
seguente, sotto specie di andare cacciando, si trasferí nel luogo
medesimo: ne' quali colloqui di due dí avendo Cesare stabilito con
loro il tempo e il modo del passare, se ne tornò in Germania per
sollecitare l'esecuzione di quel che s'era deliberato. Ma
raffreddando intanto il romore delle preparazioni franzesi, in modo
che a questo effetto non pareva piú necessario il farlo passare,
Lodovico disegnò di servirsi, ad ambizione, di quello che prima
aveva procurato per propria sicurtà. Però continuando di
sollecitarlo a passare, né volendo i viniziani concorrere a
promettergli trentamila ducati, i quali dimandava oltre a' primi
sessantamila che gli erano stati promessi, si obligò egli a questa
dimanda; tanto che finalmente passò Cesare in Italia, poco innanzi
alla morte di Ferdinando: la quale intesa quando era già vicino a
Milano, ebbe qualche pensiero di favorire che il regno di Napoli
pervenisse in Giovanni figliuolo unico del re di Spagna, suo genero;
ma essendogli dimostrato da Lodovico che questo, essendo molesto a
tutta Italia, disunirebbe i confederati e conseguentemente
faciliterebbe i disegni del re di Francia, non solo se ne astenne ma
favorí con lettere la successione di Federigo.
La passata sua in Italia fu con pochissimo numero di gente, dando
voce che prestamente passerebbe insino alla somma la quale era
obligato di menare; e si fermò a Vigevano. Ove in presenza di
Lodovico e del cardinale di Santa Croce, mandatogli legato dal
pontefice, e degli altri oratori de' collegati, fu ragionato che
andasse nel Piemonte, per pigliare Asti e separare dal re di Francia
il duca di Savoia e il marchese di Monferrato: i quali, come membri
dependenti dallo imperio, ricercò che andassino a parlare seco in
qualche terra del Piemonte; ma essendo le forze sue da disprezzare
né corrispondendo gli effetti all'autorità del nome imperiale, né
alcuno di essi consentí di andare a lui, né dell'impresa d'Asti
v'era speranza che avesse a succedere prosperamente. Fece similmente
instanza che andasse a lui il duca di Ferrara, il quale sotto nome
di feudatario dello imperio possedeva le città di Modona e di
Reggio, offerendogli per sicurtà sua la fede di Lodovico suo genero;
il quale ricusò di andarvi, allegando cosí convenire all'onore suo,
per tenere ancora in diposito il castelletto di Genova. Però
Lodovico, il quale stimolato dalla sua antica cupidità e dal
dispiacere che Pisa, tanto desiderata da sé, cadesse con pericolo di
tutta Italia in potestà de' viniziani desiderava sommamente di
interrompere questa cosa, confortò Cesare che andasse a quella
città; persuadendosi, con discorso pieno di fallacie, che i
fiorentini, impotenti a resistere a lui e alle forze de' collegati,
si rimoverebbono per necessità dalla congiunzione del re di Francia,
né potrebbono ricusare di dare arbitrio a Cesare che, se non per
concordia almeno per via di giustizia, terminasse le differenze loro
co' pisani; e che in sua mano si deponesse Pisa con tutto il
contado: alle quali cose egli sperava con l'autorità sua di fare
consentire i pisani, e che i viniziani, concorrendovi massime la
volontà di tutti gli altri confederati, non si opporrebbono a una
conclusione la quale si dimostrava con tanto beneficio comune e
onestissima per sua natura. Perché, essendo Pisa anticamente terra
di imperio, pareva non appartenesse ad altri che a Cesare la
cognizione delle ragioni di quegli che vi pretendevano; e deposta
Pisa in mano di Cesare, sperava Lodovico, con danari e con
l'autorità che aveva con lui, che facilmente glien'avesse a
concedere. Questo parere, proposto nel consiglio sotto colore che,
poi che al presente cessava il timore della guerra [de'] franzesi,
era da usare la venuta di Cesare per indurre i fiorentini a unirsi
con gli altri confederati contro al re di Francia, piaceva a Cesare,
malcontento che la venuta sua in Italia non partorisse effetto
alcuno, e perché, avendo, per i concetti suoi vastissimi, e non meno
per i suoi disordini e smisurata prodigalità, sempre necessità di
danari, sperava che Pisa avesse a essere instrumento di cavarne, o
da' fiorentini o da altri, grandissima quantità. Ma fu medesimamente
approvato da tutti i confederati, come cosa molto utile alla sicurtà
d'Italia; non contradicendo anche l'oratore veneto, perché quello
senato se bene si accorgeva a che fine tendessino i pensieri di
Lodovico si confidava facilmente d'interrompergli, e sperava che per
l'andata di Cesare potesse facilmente acquistarsi a' pisani il porto
di Livorno, il quale unito a Pisa pareva che privasse d'ogni
speranza i fiorentini di potere giammai piú ricuperare quella città.
Avevano prima i collegati fatto molte volte instanza a' fiorentini
che s'unissino con loro e, nel tempo che piú temevano della passata
de' franzesi, data speranza di obligarsi a operare talmente che Pisa
ritornasse sotto il dominio loro; ma essendo sospetta a' fiorentini
la cupidità de' viniziani e di Lodovico, né volendo leggiermente
alienarsi dal re di Francia, non avevano udito con molta prontezza
queste offerte. Movevagli inoltre la speranza d'avere, per la
passata del re, a recuperare Pietrasanta e Serezana, le quali terre
non potevano sperare di ottenere da' confederati; e molto piú
perché, facendo giudicio piú da' meriti loro e da quello che
tolleravano per il re che dalla sua natura o consuetudine, si
persuadevano d'avere a conseguire, per mezzo della sua vittoria, non
solo Pisa ma quasi tutto il resto di Toscana: nutriti in questa
persuasione dalle parole di Ieronimo Savonarola, il quale
continuamente prediceva molte felicità e ampliazioni di imperio,
destinate dopo molti travagli a quella republica, e grandissimi mali
che accadrebbono alla corte romana e a tutti gli altri potentati
d'Italia; al quale benché non mancassino de' contradittori,
nondimeno dalla maggiore parte del popolo gli era prestata fede
grande, e molti de' principali cittadini, chi per bontà chi per
ambizione chi per timore, gli aderivano. In modo che essendo i
fiorentini disposti a continuare nell'amicizia del re di Francia,
non pareva senza ragione che i confederati tentassino di ridurgli
con la forza a quello da che con la volontà erano alieni; e si
giudicava impresa non difficile, perché erano odiati da tutti i
vicini, non potevano sperare aiuto dal re di Francia,
conciossiacosaché avendo abbandonato la salute de' suoi medesimi era
credibile avesse a dimenticarsi quella degli altri, e le spese
gravissime con la diminuzione dell'entrate, sopportate già tre anni,
gli avevano talmente esausti che non si credeva potessino tollerare
lunghi travagli.
Perché e questo anno medesimo avevano continuata sempre la guerra
co' pisani: nella quale erano stati vari gli accidenti, e memorabili
piú per la perizia dell'armi dimostrata in molte opere militari da
ciascuna delle parti, e per l'ostinazione con la quale le cose si
trattavano, che per la grandezza degli eserciti o per la qualità de'
luoghi intorno a quali si combatteva, che erano castella ignobili e
in sé di piccolo momento. Perché avendo le genti de' fiorentini,
poco poi che la cittadella fu data a' pisani e innanzi che a Pisa
sopravenissino gli aiuti de' viniziani, preso il castello di Buti e
accampatisi a Calci, e innanzi lo pigliassino, per assicurarsi delle
vettovaglie, cominciato a fabricare un bastione in sul monte della
Dolorosa, furono i fanti che vi erano a guardia, per la negligenza
loro, rotti dalle genti de' pisani; e poco dipoi, essendo Francesco
Secco con molti cavalli alloggiato nel borgo di Buti, acciocché le
vettovaglie potessino andare sicuramente a Ercole Bentivogli, il
quale con la fanteria de' fiorentini era intorno alla piccola
fortezza del monte della Verrucola, assaltato allo improviso da
fanti usciti di Pisa, ed essendo in luogo difficile a adoperarsi i
cavalli, ne perdé non piccola parte. Per i quali successi parendo
piú prospere le cose de' pisani, e con speranza di procedere a
maggiore prosperità perché già cominciavano ad arrivare gli aiuti
de' viniziani, Ercole Bentivoglio che alloggiava nel castello di
Bientina, inteso che Giampaolo Manfrone condottiere de' viniziani
era con la prima parte delle genti loro arrivato a Vico Pisano,
vicino a Bientina a due miglia, simulando timore, e ora uscendo in
campagna ora, come si scoprivano le genti venete, ritirandosi in
Bientina, poiché lo vedde ripieno d'audacia e di inconsiderazione,
lo condusse con grande astuzia un giorno in un aguato, dove lo ruppe
con perdita della piú parte de' fanti e de' cavalli, seguitandolo
insino alle mura di Vico Pisano: ma perché la vittoria non fusse del
tutto lieta, quando volleno ritirarsi, Francesco Secco, il quale
quella mattina si era unito con Ercole, fu morto da uno archibuso.
Sopravenneno poi l'altre genti de' viniziani, tra' quali erano
ottocento stradiotti e con loro Giustiniano Morosino proveditore;
per il che essendo i pisani molto superiori, Ercole Bentivoglio,
peritissimo del sito del paese, non volendo mettersi in pericolo né
abbandonare del tutto la campagna, alloggiò in luogo fortissimo tra
il castello di Pontadera e il fiume dell'Era, con l'opportunità del
quale alloggiamento raffrenò assai l'impeto degli inimici: i quali
in tutto questo tempo non presono altro che il castello di Buti,
ottenendolo a discrezione; e attendevano a predare tutto il paese
co' loro stradiotti, de' quali trecento che avevano fatta una
cavalcata in Val d'Era furono rotti da genti mandate loro dietro da
Ercole. Ed erano i fiorentini nel tempo medesimo infestati da'
sanesi; i quali, presa l'occasione de' travagli che avevano nel
contado di Pisa e stimolati da' collegati, mandorono il signore di
Piombino e Giovanni Savello a campo al bastione del ponte a Valiano;
ma intendendo sopravenire il soccorso guidato da Renuccio da
Marciano si ritirorono tumultuosamente, lasciatavi parte
dell'artiglierie. Per il che i fiorentini, assicurate le cose da
quella banda, voltorono Renuccio con le genti in quel di Pisa; in
modo che, essendo quasi pareggiate le forze, si ridusse la guerra
alle castella delle colline: le quali per essere affezionate a'
pisani, procedevano piú tosto le cose con disavvantaggio de'
fiorentini. E accadde anche che i pisani, entrati per trattato nel
castello di Ponte di Sacco, svaligiorono una compagnia d'uomini
d'arme e feceno prigione Lodovico da Marciano, benché per sospetto
delle genti de' fiorentini che erano vicine subito l'abbandonassino;
e per impadronirsi meglio delle colline, importanti molto per le
vettovaglie che di quivi a Pisa si conducevano e perché
interrompevano a' fiorentini il commercio del porto di Livorno,
fortificorono la piú parte di quelle castella; delle quali fu, per
accidente estraordinario, nobilitato Soiano. Perché, essendovi
andato il campo de' fiorentini con intenzione d'espugnarlo il dí
medesimo, e però avendo fatto guastare tutti i passi del fiume della
Cascina e messo in sulla riva le genti d'arme in battaglia,
acciocché gli inimici non potessino soccorrerlo, mentre che Piero
Capponi, commissario de' fiorentini, procura di fare piantare
l'artiglieria, percosso da uno degli archibusi della terra nella
testa, perdé la vita subitamente; fine, per la ignobilità del luogo
e per la piccola importanza della cosa, non conveniente alla sua
virtú. Donde il campo si levò senza tentare altro; essendo anche in
questo tempo stati necessitati i fiorentini a mandare gente in
Lunigiana, al soccorso della rocca della Verrucola, molestata da'
marchesi Malaspini con l'aiuto de' genovesi; donde facilmente gli
scacciorono.
Erano state per qualche mese potenti le forze de' pisani, perché
oltre agli uomini della terra e del contado, diventati già per lungo
uso bellicosi, v'avevano i viniziani e il duca di Milano molti
cavalli e fanti; benché assai piú numero fussino quegli de'
viniziani. Cominciorono poi a diminuirsi, per non avere i debiti
pagamenti, le genti tenutevi dal duca; e però i viniziani vi
mandorono di nuovo cento uomini d'arme e sei galee sottili con
provisione di frumenti, non perdonando a spesa alcuna necessaria
alla sicurtà di quella città e opportuna a tirare a sé la
benivolenza de' pisani. I quali si alienavano ogni dí piú con gli
animi dalla divozione del duca di Milano, infastiditi e dalla
strettezza sua allo spendere e provedergli e dalle sue variazioni;
perché ora si dimostrava ardente nelle cose loro ora procedeva
freddamente; talmente che, quasi insospettiti della sua volontà,
attribuivano a lui che 'l Bentivoglio, secondo la commissione avuta
da' collegati, non fusse cavalcato a' danni de' fiorentini; massime
che si sapeva essergli mancato da lui in grande parte dei pagamenti,
o per avarizia o perché gli fussino grate le molestie ma non la
totale oppressione de' fiorentini. Per le quali operazioni aveva
gittato da se medesimo nelle cose di Pisa i fondamenti contrari alla
propria intenzione, e al fine per il quale era autore che si
deliberasse nel consiglio de' collegati l'andata di Cesare a Pisa.
Lib.3, cap.9
Massimiliano Cesare chiede a' fiorentini che sia a lui rimessa la
questione con Pisa. I veneziani mandano nuove genti a Pisa. Risposta
de' fiorentini a Massimiliano Cesare. Colloquio de' legati
fiorentini col duca di Milano.
La quale poi che fu deliberata, Cesare mandò due imbasciadori a
Firenze, a significare che alla impresa, quale aveva in animo di
fare potentemente contro agl'infedeli, aveva giudicato necessario
passare in Italia per pacificarla e assicurarla; e per questa
cagione ricercava i fiorentini che si dichiarassino insieme con gli
altri confederati alla difensione d'Italia, e quando pure avessino
l'animo diverso da questo, che manifestassino la loro intenzione.
Volere, per la cagione medesima e per quello che si apparteneva alla
autorità imperiale, conoscere le differenze tra loro e i pisani; e
però desiderare che insino a tanto fussino udite da lui le ragioni
di tutti si sospendessino l'offese, come era certo che farebbono i
pisani, a' quali aveva comandato il medesimo; affermando con umane
parole essere parato ad amministrare giustizia indifferentemente.
Alla quale esposizione, commendato con parole onorevoli il proposito
di Cesare e dimostrato d'avere fede grandissima nella sua bontà, fu
risposto che per imbasciadori, quali subito gli manderebbono,
farebbono intendere particolarmente la mente loro.
Ma in questo tempo i viniziani, per non lasciare a Cesare o al duca
di Milano facoltà di occupare Pisa, vi mandorono di nuovo, con
consentimento de' pisani, Annibale Bentivoglio loro condottiere con
cento cinquanta uomini d'arme, e poco poi nuovi stradiotti e mille
fanti; significando al duca avervegli mandati perché la loro
republica, amatrice delle città libere, voleva aiutare i pisani alla
recuperazione del contado loro: con l'aiuto delle quali genti i
pisani finirono di recuperare quasi tutte le castella delle colline.
Per i quali benefici e per la prontezza de' viniziani nelle dimande
loro che erano molte, ora di gente ora di danari ora di vettovaglie
e di munizioni, era la volontà de' pisani diventata tanto conforme a
quella de' viniziani che, trasportata in essi quella confidenza e
amore che e' solevano avere nel duca di Milano, desideravano
sommamente che quel senato continuasse nella difesa loro; e
nondimeno sollecitavano la venuta di Cesare, sperando, con le genti
che erano in Pisa e con quelle menava seco, avere facilmente a
conseguire Livorno.
Da altra parte i fiorentini, che oltre all'altre difficoltà erano
stretti in quel tempo da gravissima carestia, stavano con molto
timore, vedendosi soli a resistere alla potenza di tanti príncipi;
perché in Italia non era alcuno che gli aiutasse, e per lettere
degli oratori che avevano in Francia erano stati certificati che dal
re, al quale avevano fatto grandissima instanza d'essere in tanti
pericoli soccorsi almeno di qualche quantità di danari, non si
poteva sperare sussidio alcuno. Solamente cessava loro la molestia
di Piero de' Medici, perché il consiglio de' collegati fu di non
usare in questo moto il nome e il favore suo, avendo per esperienza
compreso che i fiorentini per questo timore diventavano piú uniti
alla conservazione della propria libertà. Né cessava Lodovico
Sforza, sotto specie d'essere geloso della salute loro e malcontento
della grandezza de' viniziani, di confortargli efficacemente a
rimettersi in Cesare, dimostrando molti pericoli e spaventi, e
proponendo non restare altro modo a trarre di Pisa i viniziani;
donde seguiterebbe subito la loro reintegrazione, come cosa molto
necessaria alla quiete d'Italia, e desiderata per questa cagione da'
re di Spagna e da tutti gli altri confederati. E nondimeno i
fiorentini, né mossi dalla vanità di queste insidiose lusinghe né
spaventati da tante difficoltà e pericoli, deliberorono di non fare
con Cesare dichiarazione alcuna, né rimettere in suo arbitrio le
ragioni loro se prima non erano restituiti alla possessione di Pisa;
perché non confidavano né della volontà né della autorità sua,
essendo noto che non avendo da se stesso né forze né danari
procedeva come pareva al duca di Milano, né si vedendo ne' viniziani
disposizione o necessità di lasciare Pisa: però con franco animo
attendevano a fortificare e provedere quanto potevano Livorno, e a
ristrignere insieme tutte le genti loro nel contado di Pisa. E
nondimeno, per non si dimostrare alieni dalla concordia e sforzarsi
di mitigare l'animo di Cesare, gli mandorono imbasciadori, essendo
egli già arrivato a Genova, per rispondere a quello che avevano
esposto gli oratori suoi in Firenze: la commissione de' quali fu di
persuadergli non essere necessario di procedere ad alcuna
dichiarazione, perché per la divozione che si portava al nome suo si
poteva promettere della republica fiorentina tutto quello
desiderasse; ricordare che al proposito santissimo che egli aveva di
quietare Italia niuna cosa era piú opportuna che il restituire
subito Pisa a' fiorentini, perché da questa radice nascevano tutte
le loro deliberazioni che erano moleste a lui e a' confederati, e
perché Pisa era cagione che qualcun altro aspirasse allo imperio
d'Italia e perciò procurasse di tenerla in continui travagli; con le
quali parole, benché non si esprimesse altrimenti, erano significati
i viniziani; né convenire alla sua giustizia che chi era stato
spogliato violentemente fusse, contro alla disposizione delle leggi
imperiali, astretto a fare compromesso delle sue ragioni se prima
non era reintegrato nella sua possessione: conchiudendo che, avendo
da lui questo principio, la republica fiorentina, non gli restando
causa di desiderare altro che la pace con ciascuno, farebbe tutte
quelle dichiarazioni che a lui paressino convenienti; e confidandosi
pienamente della sua giustizia rimetterebbe in lui prontamente la
cognizione delle sue ragioni. La quale risposta non sodisfacendo a
Cesare, desideroso che innanzi a ogni cosa entrassino nella lega,
ricevendo la parola da lui della reintegrazione alla possessione di
Pisa infra uno termine conveniente, non ebbono, dopo molte
discussioni, da lui altra risposta se non che, in sul molo di
Genova, quando già entrava in mare, rispose loro che dal legato del
pontefice che era in Genova intenderebbono la sua volontà: dal quale
rimessi al duca, che da Tortona, insino dove aveva accompagnato
Cesare, era ritornato a Milano, andorono a quella città. E avendo
già dimandata l'udienza, sopragiunseno commissioni da Firenze, dove
si era saputo il progresso della loro legazione, che senza cercare
altra risposta se ne tornassino alla patria: però venuti all'ora
deputata innanzi al duca, convertirono la dimanda della risposta in
significargli che, ritornandosene a Firenze, non avevano ricusato
d'allungare il cammino per fargli, innanzi che uscissino del suo
stato, riverenza, come conveniva all'amicizia che teneva seco la
loro republica.
Aveva il duca, presupponendo che avessino a dimandargli la
risposta, per ostentare, come faceva spesso, la sua eloquenza e le
sue arti e prendersi piacere dell'altrui calamità, convocato tutti
gli oratori de' collegati e tutto il suo consiglio; ma restando
maravigliato e confuso di questa proposta, né potendo celare il suo
dispiacere, gli dimandò che risposta avessino avuta da Cesare. Alla
quale dimanda, replicando essi che, secondo le leggi della loro
republica, non potevano con altro principe trattare le sue
commissioni che con quello al quale erano destinati imbasciadori,
rispose tutto turbato: - Dunque, se noi vi daremo la risposta per la
quale sappiamo che Cesare v'ha rimesso a noi, non la vorrete udire?
- Soggiunseno non essere vietato loro l'udire né potere vietare che
altri non parlasse. Replicò: - Siamo contenti di darvela, ma non si
può fare questo se non esponete a noi quello che esponeste a lui. -
E replicando gli oratori non potere, per le medesime ragioni, ed
essere superfluo, perché era necessario che Cesare avesse
significata la loro proposta a quegli a' quali aveva commesso che in
nome suo facessino la risposta, non potendo egli né con parole né
con gesti dissimulare lo sdegno, licenziò e gli oratori e tutti
coloro che aveva congregati: ricevuta in sé parte di quella
derisione che aveva voluta fare agli altri.
Lib.3, cap.10
Felice sbarco a Livorno di granaglie per i fiorentini. Contraria
fortuna di Massimiliano Cesare nel tentativo d'impadronirsi di
Livorno. Massimiliano Cesare con pochissima dignità del nome
imperiale abbandona la Toscana e l'Italia e si ritira in Germania.
Lodovico Sforza ritira le sue genti da Pisa.
Cesare in questo mezzo, partito del porto di Genova con sei galee
che i viniziani avevano nel mare di Pisa, e con molti legni de'
genovesi abbondanti d'artiglieria ma non d'uomini da combattere,
perché non v'erano altro che mille fanti tedeschi, navigò insino al
porto della Spezie e di quivi andò per terra a Pisa; ove raccolti
cinquecento cavalli e mille altri fanti tedeschi che avevano fatto
il cammino per terra, deliberò con queste genti e con quelle del
duca di Milano e con parte delle viniziane andare a campo a Livorno,
con intenzione di assaltarlo per terra e per mare, e che l'altre
genti de' viniziani andassino a Ponte di Sacco, acciocché il campo
de' fiorentini, che non era molto potente, non potesse o molestare i
pisani o dare soccorso a Livorno. Ma niuna impresa spaventava i
fiorentini meno che quella di Livorno, proveduto sufficientemente di
gente e d'artiglierie, e ove aspettavano di dí in dí soccorso di
Provenza; perché non molto prima, per accrescere le forze sue con la
riputazione nella quale allora erano in Italia l'armi de' franzesi,
avevano con consentimento del re di Francia soldato monsignore di
Albigion, uno de' suoi capitani con cento lancie e mille fanti tra
svizzeri e guasconi, acciocché per mare passassino a Livorno, in su
certe navi che per ordine loro erano state caricate di grani per
sollevare la carestia che ne era per tutto il dominio fiorentino. La
quale deliberazione, fatta con altri pensieri e ad altri fini che
per difendersi da Cesare, se bene ebbe molte difficoltà, perché e
Albigion con la sua compagnia già condotto alle navi ricusò
d'entrare in mare e de' fanti se ne imbarcorono solamente seicento,
nondimeno fu tanto favorita dalla fortuna che né maggiore né piú
opportuna provisione si sarebbe potuta desiderare;
conciossiacosaché, il dí medesimo che uno commissario pisano,
mandato innanzi da Cesare con molti fanti e cavalli per fare ponti e
spianare le vie per l'esercito che aveva a venire, si presentò a
Livorno, i legni di Provenza, che erano cinque navi e alcuni
galeoni, e con essi una nave grossa di Normandia, la quale il re
mandava per rinfrescare Gaeta di vettovaglie e di gente, si
scopersono sopra Livorno, co' venti tanto prosperi che, non se gli
opponendo l'armata di Cesare perché fu costretta dal tempo ad
allargarsi sopra la Meloria (scoglio famoso, perché già appresso a
quello furono in una battaglia navale afflitte in perpetuo da'
genovesi le forze de' pisani), entrorono nel porto senza ricevere
alcuno danno; eccetto che uno galeone carico di grano, separato dal
resto dell'armata, fu preso dagl'inimici. Détte questo soccorso, sí
opportuno, grande ardire a quegli che erano in Livorno, e confermò
grandemente l'animo de' fiorentini, parendo loro che l'essere giunto
cosí a tempo fusse segno che dove in favore loro mancassino le forze
umane avesse a supplire l'aiuto divino: come molte volte in quegli
dí, nel maggiore terrore degli altri, aveva, predicando al popolo,
affermato il Savonarola.
Ma non cessò per questo il re de' romani d'andare col campo a
Livorno: dove mandati per terra cinquecento uomini d'arme e mille
cavalli leggieri e quattromila fanti, egli andò in sulle galee
insino alla bocca dello Stagno che è tra Pisa e Livorno. E avendo
assegnata l'oppugnazione d'una parte della terra al conte di
Gaiazzo, che era stato mandato con lui dal duca di Milano, e postosi
egli dall'altra, benché il primo dí s'accampasse con molta
difficoltà per la molestia grande datagli dall'artiglierie di
Livorno, cominciò, come colui che desiderava, la prima cosa,
insignorirsi del porto, accostate le genti innanzi dí dalla banda
della Fontana, a battere con molti cannoni il Magnano, il quale
quegli di dentro avevano fortificato, e rovinato, come veddeno porre
il campo da quella parte, il Palazzotto e la torre dal lato di mare,
come cosa da non potersi guardare e abile a fare perdere la torre
nuova; e nel medesimo tempo, per battere dalla parte di mare, aveva
fatto appressare al porto l'armata sua, perché le navi franzesi,
poiché ebbono poste in terra le genti e scaricato parte de' grani,
essendo finiti i noli loro, non ostante i prieghi fatti in
contrario, si erano partite per ritornare in Provenza, e la normanda
per seguitare il cammino suo verso Gaeta. L'oppugnazione fatta al
Magnano, per combattere poi la terra eziandio per mare, riusciva di
poco frutto, per esservi munito in modo che l'artiglierie poco
offendevano, e quegli di dentro spesso uscivano fuora a
scaramucciare. Ma era destinato che la speranza cominciata col
favore de' venti avesse col beneficio pure de' venti la sua
perfezione; perché levatosi uno temporale gagliardo conquassò in
modo l'armata che la nave grimalda genovese, che aveva portata la
persona di Cesare, combattuta lungamente da' venti, andò a traverso,
dirimpetto alla rocca nuova di Livorno, con tutti gli uomini e
artiglierie che vi erano sopra, e il medesimo feceno alla punta di
verso Santo Iacopo due galee venete; e gli altri legni dispersi in
vari luoghi patirno tanto che non furno piú utili per la impresa
presente: per il quale caso ricuperorono quegli di dentro il
galeone, venuto prima in potestà degl'inimici.
Per il naufragio dell'armata ritornò Cesare a Pisa; dove, dopo molte
consulte, diffidandosi per tutti di potere piú pigliare Livorno, si
deliberò di levarne il campo e fare la guerra da altra parte. Però
Cesare andò a Vico Pisano, e fatto ordinare uno ponte sopra Arno tra
Cascina e Vico e uno sopra il Cilecchio, quando si credeva dovesse
passare, partitosi allo improviso se ne ritornò per terra verso
Milano; non avendo fatto altro progresso in Toscana che avere
saccheggiato, quattrocento cavalli de' suoi, Borgheri castello
ignobile nella Maremma di Pisa. Scusava questa subita partita per
accrescersegli continuamente le difficoltà, non si sodisfacendo alle
sue spesse dimande di nuovi danari, né consentendo i proveditori
veneti che la maggiore parte delle genti loro uscisse piú di Pisa
per sospetto conceputo di lui, né gli avevano i viniziani pagato
interamente la porzione de' sessantamila ducati; onde, lodandosi
molto del duca di Milano, si lamentava gravemente di loro. A Pavia,
dove egli si trasferí, fu fatta nuova consulta; e benché avesse
publicato volere tornarsene in Germania, consentiva di soprastare in
Italia tutta la vernata con mille cavalli e dumila fanti, in caso
che ogni mese se gli pagassino ventiduemila fiorini di Reno; della
quale cosa mentre che s'aspetta risposta da Vinegia andò in
Lomellina, nel tempo che era aspettato a Milano: essendogli, come
ne' tempi seguenti dimostrorno meglio i suoi progressi, fatale di
non entrare in quella città. Di Lomellina, mutato consiglio, tornò a
Cusago propinquo a sei miglia a Milano, donde inopinatamente, senza
saputa del duca e degli oratori che vi erano, se n'andò a Como; e
quivi inteso, mentre desinava, che il legato del papa, al quale
aveva mandato a dire che non lo seguitasse, era arrivato, levatosi
da mensa, andò a imbarcarsi con tanta celerità che appena il legato
ebbe spazio di parlargli poche parole alla barca; al quale rispose
essere necessitato di andare in Germania ma che prestamente
ritornerebbe. E nondimeno, poiché per il lago di Como fu condotto a
Bellasio, avendo inteso che i viniziani consentivano a quello che si
era trattato a Pavia, détte di nuovo speranza di ritornare a Milano;
ma pochissimi giorni poi, procedendo con la sua naturale varietà,
lasciata una parte de' suoi cavalli e de' fanti, se ne andò in
Germania: avendo, con pochissima degnità del nome imperiale,
dimostrata la sua debolezza a Italia, che già lungo tempo non aveva
veduti imperadori armati.
Per la partita sua Lodovico Sforza, disperato di potere piú, se non
venivano nuovi accidenti, tirare Pisa a sé né cavarla di mano de'
viniziani, ne levò tutte le genti sue, pigliando per parte di
consolazione del suo dispiacere che i viniziani restassino soli
implicati nella guerra co' fiorentini; da che si persuadeva che la
stracchezza dell'uno e dell'altro potesse col tempo porgergli
qualche desiderata occasione. Per la partita delle quali genti i
fiorentini, restati piú potenti nel contado di Pisa che gli inimici,
recuperorono tutte le castella delle colline; e perciò i viniziani,
essendo costretti per impedire i loro progressi a fare nuove
provisioni, aggiunsono a quelle che vi erano tante genti che in
tutto v'aveano quattrocento uomini d'arme settecento cavalli
leggieri e piú di dumila fanti.
Lib.3, cap.11
Resa di Taranto a' veneziani. Il re di Francia progetta
d'impadronirsi di Genova. Il pontefice dichiara confiscati gli stati
degli Orsini. Guerra con gli Orsini e patti che la concludono. Presa
di Ostia. Consalvo accolto trionfalmente in Roma e dal pontefice.
Risolveronsi in questo mezzo nel reame di Napoli quasi tutte le
reliquie della guerra de' franzesi: perché la città di Taranto con
le fortezze, oppressata dalla fame, si arrendé a viniziani che
l'avevano assediata con la loro armata, i quali dopo averla ritenuta
molti dí, ed essendo già nato sospetto che se la volessino
appropriare, la restituirono finalmente a Federigo, instandone assai
il pontefice e i re di Spagna; ed essendosi inteso a Gaeta che la
nave normanda, avendo combattuto sopra Porto Ercole con alcune navi
de' genovesi che aveva incontrate, seguitando dipoi il suo cammino,
vinta dalla tempesta del mare era andata a traverso, i franzesi che
erano in quella città, alla quale il nuovo re era tornato a campo,
ancora che, secondo che era la fama, avessino provisione da
sostenersi qualche mese, giudicando che alla fine il re loro non
sarebbe piú sollecito a soccorrergli che e' fusse stato a soccorrere
tanta nobiltà e tante terre che si tenevano per lui, accordorono con
Federigo per mezzo di Obigní, il quale per alcune difficoltà nate
nella consegnazione delle fortezze di Calavria non era ancora
partito da Napoli, di lasciare la terra e la fortezza, avendo
facoltà di andarne salvi per mare in Francia con tutte le robe loro.
Per il quale accordo essendo il re di Francia alleggierito de'
pensieri di soccorrere il reame, e da altra parte acceso dagli
stimoli del danno e dell'infamia, deliberò di assaltare Genova,
sperando nella parte che v'aveva Batistino Fregoso, stato già doge
di quella città, e nel seguito che aveva il cardinale di San Piero
in Vincola in Savona sua patria e in quelle riviere; e pareva gli
aggiugnesse opportunità l'essere in questo tempo discordi Gianluigi
dal Fiesco e gli Adorni, e universalmente i genovesi malcontenti del
duca di Milano per essere stato autore che nella vendita di
Pietrasanta i lucchesi fussino stati preferiti a loro e perché,
avendo poi promesso di farla ritornare nelle loro mani e usata a
questo, per mitigare lo sdegno conceputo, l'autorità de' viniziani,
gli aveva pasciuti molti mesi di vane speranze. Il timore di questa
deliberazione del re costrinse Lodovico, il quale per le cose di
Pisa era quasi alienato da' viniziani, a unirsi di nuovo con loro, e
a mandare a Genova quegli cavalli e fanti tedeschi che Cesare aveva
lasciati in Italia: a' quali se non fusse sopravenuta questa
necessità non sarebbe stata fatta alcuna provisione.
Le quali cose mentre che si trattano, il pontefice, parendogli di
avere opportunità grande d'occupare gli stati degli Orsini poiché i
capi di quella famiglia erano ritenuti a Napoli, pronunziò nel
concistorio, Verginio e gli altri, rebelli, e confiscò gli stati
loro, per essere andati, contro a' suoi comandamenti, agli stipendi
de' franzesi; il che fatto, assaltò, nel principio dell'anno mille
quattrocento novantasette, le terre loro, avendo ordinato che i
Colonnesi, da piú luoghi dove confinano con gli Orsini, facessino il
medesimo. Fu questa impresa confortata assai dal cardinale Ascanio
per l'antica amicizia sua co' Colonnesi e dissensione con gli
Orsini, e consentita dal duca di Milano; ma molesta a' viniziani i
quali desideravano di farsi benevola quella famiglia; e nondimeno,
non potendo con giustificazione alcuna impedire che il pontefice
proseguisse le sue ragioni, né essendo utile l'alienarselo in tempo
tale, consentirono che il duca d'Urbino soldato comune andasse a
unirsi con le genti della Chiesa, delle quali era capitano generale
il duca di Candia e legato il cardinale di Luna pavese, cardinale
dependente in tutto da Ascanio. E il re Federigo vi mandò in aiuto
suo Fabrizio Colonna. Questo esercito, poi che se gli furono
arrendute Campagnano e l'Anguillara e molte altre castella, andò a
campo a Trivignano; la quale terra, difesasi per qualche dí
francamente, si dette a discrezione: ma mentre si difendeva,
Bartolomeo d'Alviano uscito di Bracciano roppe, otto miglia appresso
a Roma, quattrocento cavalli che conducevano artiglierie nel campo
ecclesiastico; e un altro dí, essendo corso presso alla Croce a
Montemari, mancò poco che non pigliasse il cardinale di Valenza, il
quale, uscito di Roma a cacciare, fuggendo si salvò. Preso
Trivignano, andò il campo all'Isola, e battuta con l'artiglierie una
parte della rocca la conseguí per accordo. E si ridusse finalmente
tutta la guerra intorno a Bracciano; dove era collocata tutta la
speranza della difesa degli Orsini, perché il luogo, prima forte,
era stato bene munito e riparato, e fortificato il borgo, alla
fronte del quale avevano fatto un bastione; e dentro, difensori a
sufficienza sotto il governo dello Alviano: che, giovane ancora ma
di ingegno feroce e di celerità incredibile, ed esercitato nelle
armi, dava di sé quella speranza alla quale non furono nel tempo
seguente inferiori le sue azioni. Né il pontefice cessava di
accrescere ogni dí il suo esercito, al quale aveva di nuovo aggiunto
ottocento fanti tedeschi, di quegli che avevano militato nel reame
di Napoli. Combattessi per molti dí da ogni parte con grande
contenzione, avendo quegli di fuora piantate da piú luoghi
l'artiglierie né mancando quegli di dentro di provedere e riparare
per tutto con somma diligenza e franchezza: furono nondimeno, dopo
non molti dí, costretti ad abbandonare il borgo; il quale preso, gli
ecclesiastici dettono un assalto feroce alla terra, ma benché
avessino già poste le bandiere in sulle mura furono sforzati a
ritirarsi con molto danno: nella quale battaglia fu ferito Antonello
Savello. Dimostrorono quegli di dentro la medesima virtú in uno
altro assalto, ributtando con maggiore danno gli inimici, de' quali
furono tra morti e feriti piú di dugento; con laude grandissima
dell'Alviano a cui s'attribuiva principalmente la gloria di questa
difesa, perché e dentro era prontissimo a tutte le fazioni
necessarie e fuori con spessi assalti teneva in quasi continua
molestia, e di dí e di notte, l'esercito degli inimici. Accrebbe le
laudi sue perché, avendo ordinato che certi cavalli leggieri
corressino da Cervetri, che si teneva per gli Orsini, un dí insino
in sul campo, uscito fuora per l'occasione di questo tumulto, messe
in fuga i fanti che guardavano l'artiglieria, della quale condusse
alcuni pezzi minori in Bracciano. E nondimeno, battuti e travagliati
il dí e la notte, cominciavano a sostentarsi principalmente con la
speranza del soccorso; perché Carlo Orsino e Vitellozzo, congiunto
per il vincolo della fazione guelfa a gli Orsini, i quali, ricevuti
danari dal re di Francia per riordinare le compagnie loro dissipate
nel regno di Napoli, erano passati in Italia in su' legni venuti di
Provenza a Livorno, si preparavano per soccorrere a tanto pericolo.
Però Carlo, andato a Soriano, attendeva a raccorre i soldati antichi
e gli amici e partigiani degli Orsini; e Vitellozzo faceva a Città
di Castello il medesimo de' suoi soldati e de' fanti del paese, i
quali come ebbe uniti, con dugento uomini d'arme e mille ottocento
fanti de' suoi, e con artiglieria in sulle carrette, all'uso
franzese, si congiunse a Soriano con Carlo. Per il che i capitani
ecclesiastici, giudicando pericoloso, se e' procedessino piú
innanzi, il trovarsi in mezzo tra loro e quegli che erano in
Bracciano, e per non lasciare in preda tutto il paese circostante
nel quale avevano già saccheggiate alcune castella, levato il campo
da Bracciano e ridotte l'artiglierie grosse nell'Anguillara, si
indirizzorono contro degli inimici; co' quali incontratisi tra
Soriano e Bassano il combatterono insieme per piú ore ferocemente,
ma finalmente gli ecclesiastici, benché nel principio del combattere
fusse preso da' Colonnesi Franciotto Orsino, furono messi in fuga,
tolti loro i carriaggi tolta l'artiglieria, e tra morti e presi piú
di cinquecento uomini; tra' quali restorono prigioni il duca
d'Urbino Giampiero da Gonzaga conte di Nugolara, e molti altri
uomini di condizione; e il duca di Candia, ferito leggiermente nel
volto, e con lui il legato apostolico e Fabrizio Colonna, fuggendo,
si salvorno in Ronciglione. Riportò la laude principale di questa
vittoria Vitellozzo, perché la fanteria da Città di Castello, stata
disciplinata innanzi da' fratelli e da lui al modo delle ordinanze
oltramontane, fu questo dí aiutata grandemente dall'industria sua;
perché avendogli armati di lancie piú lunghe circa un braccio di
quello che era l'usanza comune, ebbono tanto vantaggio quando da lui
furono condotte a urtarsi co' fanti degl'inimici che, offendendo
loro senza essere offesi, per la lunghezza delle lancie, gli messono
in fuga facilmente; e con tanto maggiore onore quanto nella
battaglia contraria erano ottocento fanti tedeschi, della quale
nazione avevano i fanti italiani sempre, dopo la passata del re
Carlo, avuto grandissimo terrore. Dopo questa vittoria cominciorono
i vincitori a correre senza ostacolo per tutto il paese di qua dal
Tevere, e dipoi passata una parte delle genti di là dal fiume sotto
Monte Ritondo, correvano per quella strada che sola era restata
sicura. Per i quali pericoli il pontefice, soldando di nuovo molta
gente, chiamò del regno di Napoli in soccorso suo Consalvo e
Prospero Colonna. E nondimeno, pochi dí poi, interponendosi con
grande studio gli oratori de' viniziani per beneficio degli Orsini,
e lo spagnuolo per timore che da questo principio non nascesse nelle
cose della lega maggiore disordine, fu fatta pace; con inclinazione
molto pronta cosí del pontefice, alienissimo per natura dallo
spendere, come degli Orsini, i quali, non avendo danari ed essendo
abbandonati da ciascuno, conoscevano essere necessario che alla fine
cedessino alla potenza del pontefice. La somma de' patti fu: che
agli Orsini fusse lecito continuare insino alla fine nella condotta
del re di Francia, nella quale era espresso che e' non fussino
tenuti a pigliare l'armi contro alla Chiesa: riavessino tutte le
terre perdute in questa guerra ma pagando al pontefice cinquantamila
ducati, trentamila subito, che da Federigo fussino liberati
Giangiordano e Pagolo Orsini, perché Verginio era pochi dí innanzi
morto in Castel dell'Uovo, o di febbre o come alcuni credettono di
veleno, e gli altri ventimila si pagassino infra otto mesi, ma
depositando in mano de' cardinali [Ascanio] e di Sanseverino
l'Anguillara e Cervetri, per l'osservanza del pagamento:
liberassinsi i prigioni fatti nella giornata di Soriano, eccetto il
duca d'Urbino; della liberazione del quale, benché s'affaticassino
gli oratori de' collegati, il pontefice non fece instanza, perché
sapeva gli Orsini non avere facoltà di provedere a' danari, i quali
si trattava pagassino, se non mediante la taglia di quel duca; la
quale fu poco poi concordata in quarantamila ducati, e aggiuntovi
che non prima fusse liberato che Pagolo Vitelli, il quale quando si
arrendé Atella era restato prigione del marchese di Mantova,
conseguisse senza pagare alcuna cosa la sua liberazione.
Espedito il pontefice poco onorevolmente della guerra degli Orsini,
dati danari alle genti che conduceva Consalvo, e unite seco le sue,
lo mandò all'impresa d'Ostia che si teneva ancora in nome del
cardinale di San Piero in Vincola, dove appena furono piantate
l'artiglierie che il castellano si arrendé a Consalvo a discrezione.
Avuta Ostia, Consalvo quasi trionfante entrò in Roma, con cento
uomini d'arme dugento cavalli leggieri e mille cinquecento fanti,
tutti soldati spagnuoli, menandosi innanzi il castellano come
prigione, il quale poco poi liberò; e incontrato da molti prelati,
dalla famiglia del pontefice e di tutti i cardinali, concorrendo
tutto il popolo e tutta la corte, cupidissimi di vedere un capitano
il nome del quale risonava già chiarissimamente per tutta Italia, fu
condotto al papa residente in concistorio; il quale, ricevutolo con
grandissimo onore, gli donò la rosa, solita a donarsi ogni anno da'
pontefici, in testimonianza del suo valore. Ritornò poi a unirsi col
re Federigo: il quale, assaltato lo stato del prefetto di Roma,
aveva preso tutte le terre che, tolte nell'acquisto del regno al
marchese di Pescara, gli erano state donate dal re di Francia; e
presa Sora e Arci, ma non le rocche, era a campo a Rocca Guglielma,
avendo per accordo conseguito lo stato del conte d'Uliveto, già,
innanzi vendesse quello ducato al prefetto, duca di Sora. E
nondimeno in queste prosperità non mancavano a Federigo molte
molestie; non solo dagli amici, perché Consalvo teneva in nome de'
suoi re una parte della Calavria, ma eziandio dagli inimici
riconciliati. Perché essendo stato una sera, uscendo di Castenuovo
di Napoli, ferito gravemente da uno certo greco il principe di
Bisignano, entrò tanto terrore nel principe di Salerno che questo
non fusse stato fatto per ordine del re, in vendetta dell'offese
passate, che subito, non dissimulando la causa del sospetto, se
n'andò da Napoli a Salerno; e benché il re mandasse in potestà sua
il greco, che era in carcere, per giustificarlo, che egli (come era
la verità) l'aveva ferito per ingiuria ricevuta molti anni innanzi
da lui nella persona della sua moglie, nondimeno, come nell'antiche
e gravi inimicizie è difficile stabilire fedele reconciliazione,
perché è impedita o dal sospetto o dalla cupidità della vendetta,
non si potette mai piú il principe disporre a fidarsi di lui. Il che
dando speranza che nel regno si avessino a fare nuove sollevazioni,
a' franzesi, i quali ancora tenevano il monte di Sant'Angelo e
alcuni altri luoghi forti, era cagione di fargli perseverare piú
costantemente al difendersi.
Lib.3, cap.12
Carlo VIII tratta la tregua co' re di Spagna e manda milizie contro
il territorio di Genova e contro il ducato di Milano, occupando
alcune terre. Infelice esito dell'impresa e probabili cause
dell'insuccesso. Patti della tregua fra il re di Francia e i re di
Spagna. I francesi perdono in Italia quasi tutte le terre
recentemente occupate. I fiorentini occupati nella riconquista di
Pisa accettano malvolentieri la tregua.
Maggiori pericoli si dimostravano in questo tempo in Lombardia per i
movimenti de' franzesi, assicurati per allora da' minacci degli
spagnuoli, perché essendo stati tra loro piú tosto leggieri assalti
e dimostrazioni di guerra che alcuna cosa notabile, eccetto che da'
franzesi fu presa in brevissimo tempo e abbruciata la terra di Sals,
si era introdotta tra quei re pratica di concordia; e per dare
maggiore facilità a trattarla, levate tra loro l'offese per due
mesi. Per la quale occasione Carlo, potendo attendere piú
speditamente alle cose di Genova e di Savona, avendo mandato in Asti
insino al numero di mille lancie e tremila svizzeri e numero pari di
guasconi, commesse al Triulzio, luogotenente suo in Italia, che
aiutasse Batistino e il Vincola; disegnando oltre a questi mandare
dietro con grosso esercito il duca d'Orliens a fare in nome proprio
l'impresa del ducato di Milano: e per facilitare quella di Genova
mandò a' fiorentini Ottaviano Fregoso a ricercargli che nel tempo
medesimo assaltassino la Lunigiana e la riviera di levante, e ordinò
che Pol Batista Fregoso con sei galee turbasse la riviera di
ponente.
Cominciò questo movimento con tanto terrore del duca di Milano, il
quale da se stesso non era preparato abbastanza, né aveva ancora gli
aiuti che gli avevano promessi i viniziani, che se fusse stato
continuato co' mezzi debiti arebbe partorito qualche effetto
importante; e piú facilmente nel ducato di Milano che a Genova,
perché a Genova, essendosi per opera di Lodovico riconciliati
Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, avevano soldati molti fanti e
messa in ordine un'armata per mare, a spese de' viniziani e di
Lodovico: con la quale si congiunseno sei galee mandate da Federigo,
perché il pontefice, ritenendo il nome di confederato piú ne'
consigli e nelle dimostrazioni che nelle opere, non volle in questi
pericoli concorrere a spesa alcuna, né per terra né per mare. I
progressi di questa espedizione furono che Batistino e con lui il
Triulzio andorno a Novi, della quale terra Batistino, statone prima
spogliato dal duca di Milano, riteneva la fortezza; per la venuta
de' quali il conte di Gaiazzo, che vi era a guardia con sessanta
uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti,
diffidandosi poterla difendere si ritirò a Serravalle. Per
l'acquisto di Novi si augumentò non poco la riputazione de'
fuorusciti, perché oltre a essere terra capace di molta gente
impedisce il transito da Milano a Genova; e per il sito nel quale è
posta è molto opportuna a offendere i luoghi circostanti. Occupò
dipoi Batistino altre terre vicine a Novi; e nel tempo medesimo il
cardinale con dugento lancie e tremila fanti, presa Ventimiglia,
s'accostò a Savona, ma non facendo quegli di dentro movimento
alcuno, e inteso che Giovanni Adorno s'approssimava con molti fanti,
si ritirò allo Altare, terra del marchese di Monferrato, distante
otto miglia da Savona. Di maggiore momento fu il principio che si
fece per il Triulzio. Il quale, desideroso di dare occasione che la
guerra si accendesse nel ducato di Milano, ancora che la commissione
del re fusse che prima s'attendesse alle cose di Genova e di Savona,
prese il Bosco, castello importante nel contado d'Alessandria, sotto
pretesto che, per sicurtà delle genti che erano andate nella
riviera, fusse necessario impedire a quegli del duca di Milano la
facoltà di condursi da Alessandria in quello di Genova; e nondimeno,
per non contrafare manifestamente al comandamento del re, non
procedé piú avanti, perdendo grandissima occasione; perché il paese
circostante era tutto, per l'occupazione del Bosco, in grandissima
sollevazione, altri per timore altri per cupidità di cose nuove, non
essendo per il duca da quella parte piú di cinquecento uomini d'arme
e seimila fanti, e cominciando Galeazzo Sanseverino, il quale era in
Alessandria, [dove] medesimamente si ritirò il conte di Gaiazzo, a
diffidarsi di poterla difendere senza maggiori forze: e già
Lodovico, non manco timido in questa avversità che per natura fusse
in tutte l'altre, ricercava il duca di Ferrara che interponesse tra
il re di Francia e lui qualche concordia. Ma il soprasedere del
Triulzio tra 'l Bosco e Novi dette tempo a Lodovico di provedersi, e
a' viniziani, i quali concorrendo prontissimamente alla sua difesa
avevano prima mandato a Genova mille cinquecento fanti, di mandare
in Alessandria molti uomini d'arme e cavalli leggieri; e
ultimatamente commessono al conte di Pitigliano, capo delle loro
genti, perché il marchese di Mantova si era rimosso dagli stipendi
veneti, che con la maggiore parte andasse in aiuto di quello stato.
Cosí raffreddando le cose cominciate con grande speranza, Batistino,
non fatto a Genova frutto alcuno, perché la città per le provisioni
fatte stette quieta, ritornò a unirsi col Triulzio, allegando essere
riusciti vani i disegni suoi perché da' fiorentini non era stata
assaltata la riviera di levante; i quali non avevano giudicato
prudente consiglio lo implicarsi nella guerra se prima le cose de'
franzesi non si dimostravano piú prospere e piú potenti. Andò
medesimamente il Vincola a unirsi col Triulzio, non avendo fatto
altro che prese alcune terre del marchese del Finale, perché si era
scoperto alla difesa di Savona. Unite le genti franzesi feceno
alcune scorrerie verso il Castellaccio, terra vicina al Bosco, stata
già fortificata da' capitani del duca; e augumentandosi
continuamente l'esercito de' collegati che faceva la massa ad
Alessandria, e per contrario cominciando a mancare a' franzesi
danari e vettovaglie, né essendo gli altri capitani bene pazienti a
ubbidire al Triulzio, fu costretto, lasciata guardia in Novi e nel
Bosco, a ritirarsi con l'esercito appresso ad Asti.
Credesi che a questa impresa nocesse, come si vede molte volte
intervenire, la divisione fatta delle genti in piú parti, e che se
tutti si fussino nel principio dirizzati a Genova arebbono forse
avuto migliore successo; perché, oltre alla inclinazione delle
fazioni e lo sdegno nato per causa di Pietrasanta, parte de' cavalli
e de' fanti tedeschi che il duca di Milano v'aveva mandati,
soprastativi pochi dí, se ne erano tornati all'improviso in
Germania. Può essere ancora che da quegli medesimi ministri da'
quali, l'anno dinanzi, era stata impedita la passata del re in
Italia e il soccorso del regno di Napoli, fussino usate l'arti
medesime di impedire la impresa presente con la difficoltà delle
provisioni; e tanto piú che era fama che 'l duca di Milano, il quale
a' sudditi suoi faceva gravi esazioni, donasse assai al duca di
Borbone e ad altri di quegli che potevano appresso al re: la quale
infamia si distendeva non meno al cardinale di San Malò. Ma come si
sia, certo è che il duca d'Orliens, destinato a passare in Asti e
sollecitatone molto dal re, fece tutte le preparazioni necessarie a
tale andata ma ritardò, o perché non confidasse nelle provisioni che
si facevano o perché, come molti interpretavano, partisse
malvolentieri del regno di Francia, essendo il re continuamente
indisposto della persona, e in caso della sua morte senza figliuoli
appartenendo a lui la successione della corona.
Ma il re, non gli essendo riuscita la speranza della mutazione di
Genova e di Savona, ristrinse le pratiche cominciate co' re di
Spagna, ritardate per una sola difficoltà: che il re di Francia,
desiderando di restare espedito alle imprese di qua da' monti,
recusava che nella tregua che si trattava si comprendessino le cose
d'Italia; e i re di Spagna, dimostrando di non fare difficoltà di
consentire alla sua volontà per altro che per rispetto del loro
onore, facevano instanza che vi si comprendessino, perché, essendo
la intenzione comune fare la tregua perché con maggiore facilità si
trattasse la pace, potrebbono con maggiore onestà partirsi dalla
confederazione che avevano con gli italiani. Alla qual cosa, poiché
furono andati dall'una parte all'altra piú volte imbasciadori,
prevalendo finalmente, come quasi sempre, l'arti spagnuole,
contrassono tregua per sé e per i sudditi e dependenti suoi, e per
quegli ancora che qualunque d'essi nominasse; la quale tregua,
cominciando tra loro il quinto dí di marzo ma tra i nominati
cinquanta dí poi, durasse per tutto il mese d'ottobre prossimo.
Nominò ciascuno di essi quegli potentati e stati italiani che erano
confederati e aderenti suoi, e i re di Spagna nominorno di piú il re
Federigo e i pisani. Convenneno oltre a questo di mandare a
Mompolieri uomini propri per trattare la pace dove potessino
intervenire gli oratori degli altri collegati; e in questa pratica
davano i re di Spagna speranza di potere con qualche giustificata
occasione congiugnersi col re di Francia contro agli italiani,
proponendo, insino allora, partiti di dividersi il regno di Napoli.
La quale tregua benché fatta senza partecipazione de' collegati
d'Italia fu nondimeno grata a tutti, e specialmente al duca di
Milano, desiderosissimo che la guerra si rimovesse del suo dominio.
Ma essendo restata libera in Italia la facoltà dell'offendersi
insino al vigesimo quinto dí di aprile, il Triulzio e Batistino, e
con loro Serenon, ritornati con cinquemila uomini nella riviera di
ponente, assaltorono la terra d'Albinga, la quale benché avessino al
primo assalto quasi tutta occupata, nondimeno disordinatisi
nell'entrarvi ne furno cacciati da poco numero degli inimici.
Entrorno dipoi nel marchesato del Finale per dare cagione
all'esercito italiano d'andare a soccorrerlo, sperando d'avere
occasione di condurgli alla giornata; il che non succedendo non
feceno piú cosa di momento, essendo massime accresciuta la discordia
de' capitani e mancando ogni dí piú, per la tregua fatta, i
pagamenti. Nel qual tempo i collegati avevano, da Novi in fuora,
recuperato le terre prima perdute; e Novi finalmente, con tutto che
il conte di Gaiazzo andatovi a campo ne fusse stato ributtato,
ottenneno per accordo: né restò, de' luoghi acquistati, in potere
de' franzesi altro che alcune piccole terre prese nel marchesato del
Finale. Ne' quali travagli il duca di Savoia, infestato da tutte le
parti con offerte grandi, e il marchese di Monferrato, il governo
del quale era stato dal re de' romani confermato in Costantino di
Macedonia, non si dichiarorono né per il re di Francia né per i
confederati.
Non si era in questo anno fatta cosa di momento tra i fiorentini e i
pisani, benché continuamente si proseguisse la guerra, se non che
essendo andati i pisani, sotto Giampaolo Manfrone con quattrocento
cavalli leggieri e con mille cinquecento fanti, per ricuperare il
bastione fatto da loro al Ponte a Stagno, il quale avevano perduto
quando Cesare si partí da Livorno, il conte Renuccio avutone notizia
andò con molti cavalli a soccorrerlo, per la via di Livorno, non
pensando i pisani dovere essere assaltati se non per la via del
Pontadera; e avendogli sopragiunti che già combattevano il bastione,
gli messe in fuga facilmente, pigliandone molti. Ma si posorono, per
la tregua fatta, similmente l'armi tra loro; benché malvolentieri
fusse accettata da' fiorentini, perché giudicavano essere inutile
alle cose loro il dare spazio a' pisani di respirare, e perché, non
ostante la tregua, per sospetto di Piero de' Medici che
continuamente qualche cosa macchinava, e per il timore delle genti
viniziane che erano in Pisa, la necessità gli costrigneva a
continuare le spese medesime.
Lib.3, cap.13
Il duca di Milano propone a' collegati di cedere Pisa a' fiorentini
per staccarli dal re di Francia. Fallimento della proposta.
Condizioni interne di Firenze. Vano tentativo di Piero de' Medici di
rientrare in Firenze. Turpitudini e tragedie nella famiglia del
pontefice. La condanna de' compromessi nel tentativo di Piero de'
Medici.
Cosí essendo per tutto fermate l'armi o già in procinto di fermarsi,
il duca di Milano, benché ne' prossimi pericoli avesse dimostrato
grandissima sodisfazione del senato viniziano per i pronti aiuti
ricevuti da quello, esaltando publicamente con magnifiche parole la
virtú e la potenza veneta, e commendando la providenza di Giovan
Galeazzo primo duca di Milano che avesse commesso alla fede di
quello senato l'esecuzione del suo testamento, nondimeno non potendo
tollerare che la preda di Pisa, levata e seguitata da lui con tanta
fatica e con tante arti, restasse a loro, come appariva
manifestamente avere a essere, e però tentando di conseguire col
consiglio quello che non poteva ottenere con le forze, operò che 'l
pontefice e gli oratori de' re di Spagna, a' quali tutti era molesta
tanta grandezza de' viniziani, proponessino che, per levare d'Italia
ogni fondamento a' franzesi e per ridurla tutta in concordia,
sarebbe necessario indurre i fiorentini a entrare nella lega comune
col reintegrargli di Pisa, poiché altrimenti indurre non vi si
potevano; perché stando separati dagli altri non cessavano di
stimolare il re di Francia a passare in Italia e, in caso passasse,
potevano co' danari e con le genti loro, essendo massime situati nel
mezzo d'Italia, fare effetti di non piccola importanza. Ma questa
proposta fu dall'oratore viniziano contradetta come molto perniciosa
alla salute comune, allegando la inclinazione de' fiorentini al re
di Francia essere tale che, eziandio con questo beneficio, non era
da confidarsi di loro se non davano sicurtà bastante di osservare
quello promettessino, e in cose di tanto momento nessuna sicurtà
bastare se non il deporre Livorno in mano de' collegati: cosa
proposta artificiosamente da lui, perché, sapendo che mai
consentirebbono di deporre luogo sí importante allo stato loro, gli
restasse facoltà maggiore di contradire; il che essendo dipoi
succeduto come pensava, s'oppose con tale caldezza che, non avendo
il pontefice e l'oratore del duca di Milano ardire di contradirgli
per non gli alienare dalla loro congiunzione, non si seguitò questo
ragionamento; e si cominciò per il pontefice e i viniziani nuovo
disegno per divertire con violenza i fiorentini dalla amicizia
franzese: dando animo a chi pensava di offendergli le male
condizioni di quella città, nella quale era tra' cittadini non
piccola divisione causata dalla forma del governo.
Perché quando fu fondata da principio l'autorità popolare non erano
stati mescolati quegli temperamenti che, insieme con l'assicurare
co' modi debiti la libertà, impedissino che la republica non fusse
disordinata dalla imperizia e dalla licenza della moltitudine. Però,
essendo in minore prezzo i cittadini di maggiore condizione che non
pareva conveniente, e sospetta da altra parte al popolo la loro
ambizione, e intervenendo spesso nelle deliberazioni importanti
molti che n'erano poco capaci, e scambiandosi di due mesi in due
mesi il supremo magistrato al quale si referiva la somma delle cose
piú ardue, si governava la republica con molta confusione.
Aggiugnevasi l'autorità grande del Savonarola, gli uditori del quale
si erano ristretti quasi in tacita intelligenza, ed essendo tra loro
molti cittadini di onorate qualità, e prevalendo ancora di numero a
quegli che erano di contraria opinione, pareva che i magistrati e
gli onori publici si distribuissino molto piú ne' suoi seguaci che
negli altri; e per questo essendosi manifestamente divisa la città,
l'una parte con l'altra ne' consigli publici si urtava, non si
curando gli uomini, come accade nelle città divise, di impedire il
bene comune per sbattere la riputazione degli avversari. Faceva piú
pericolosi questi disordini, che oltre a' lunghi travagli e gravi
spese tollerate da quella città v'era quell'anno carestia
grandissima, per il che si poteva presumere che la plebe affamata
desiderasse cose nuove.
La quale mala disposizione détte speranza a Piero de' Medici,
incitato oltre a queste occasioni da alcuni cittadini, di potere
facilmente ottenere il desiderio suo. Però ristretti i suoi consigli
con Federigo cardinale da San Severino, antico amico suo, e con
l'Alviano, e stimolato occultamente da' viniziani, a' quali pareva
che per i travagli de' fiorentini si stabilissino le cose di Pisa,
deliberò di tentare di entrare furtivamente in Firenze; massime poi
che fu avvisato essere stato creato gonfaloniere di giustizia, che
era capo del magistrato supremo, Bernardo del Nero, uomo di gravità
e d'autorità grande e stato lungamente amico paterno e suo, ed
essere eletti al medesimo magistrato alcuni altri i quali, per le
dependenze vecchie, credeva che avessino inclinazione alla sua
grandezza. Assentí a questo disegno il pontefice, desideroso di
separare i fiorentini dal re di Francia con le ingiurie poi che era
stato impedito di separargli co' benefici; né contradisse il duca di
Milano, non gli parendo potere fare fondamento o intelligenza
stabile con quella città per i disordini del presente governo, se
bene da altra parte non gli piacesse il ritorno di Piero, sí per
l'offese fattegli come perché dubitava non avesse a dipendere troppo
dall'autorità de' viniziani. Raccolti adunque Piero quanti danari
potette da se medesimo e con l'aiuto degli amici, e si credette che
qualche piccola quantità gli fusse somministrata da' viniziani, andò
a Siena, e dietro a lui l'Alviano con cavalli e con fanti, facendo
il cammino sempre di notte e fuora di strada acciocché l'andata sua
fusse occultissima a' fiorentini. A Siena, per favore di Giacoppo e
di Pandolfo Petrucci, cittadini principali di quel governo e amici
paterni e suoi, ebbe secretamente altre genti; in modo che con
seicento cavalli e quattrocento fanti eletti si partí, due dí poi
che era cominciata la tregua, nella quale non si comprendevano i
sanesi, verso Firenze, con speranza che, arrivandovi quasi improviso
in sul fare del dí, avesse facilmente, o per disordine o per tumulto
il quale sperava aversi a levare in suo favore, a entrarvi: il quale
disegno non sarebbe forse riuscito vano se la fortuna non avesse
supplito alla negligenza de' suoi avversari. Perché essendo al
principio della notte alloggiato alle Tavernelle, che sono alcune
case in sulla strada maestra, con pensiero di camminare la maggior
parte della notte, una pioggia che sopravenne molto grande gli dette
tale impedimento che e' non potette presentarsi a Firenze se non
molte ore poi che era levato il sole; il quale indugio dette tempo a
quegli che facevano professione di essergli particolari inimici,
perché la plebe e quasi tutto il resto de' cittadini stava ad
aspettare quietamente l'esito della cosa, di prendere l'armi con gli
amici e seguaci loro, e ordinare che da' magistrati fussino chiamati
e ritenuti nel palagio publico i cittadini sospetti, e farsi forti
alla porta che va a Siena; alla quale, pregato da loro, andò
medesimamente Pagolo Vitelli, che ritornando da Mantova era, per
sorte, la sera precedente, giunto in Firenze: di modo non si movendo
cosa alcuna nella città, né Piero potente a sforzare la porta alla
quale s'era accostato per un tiro d'arco, poi che vi fu dimorato
quattro ore, temendo che con pericolo suo non sopravenissino le
genti d'arme de' fiorentini, le quali pensava, come era vero, che
fussino state chiamate di quel di Pisa, se ne ritornò a Siena. Donde
l'Alviano partitosi, e introdotto in Todi da' guelfi, saccheggiò
quasi tutte le case de' ghibellini e ammazzò cinquantatré de' primi
di quella parte; il quale esempio seguitando Antonello Savello,
entrato in Terni, e i Gatteschi col favore de' Colonnesi entrati in
Viterbo, feceno simiglianti mali nell'un luogo e nell'altro, e nel
paese circostante contro a' guelfi: non provedendo a tanti disordini
dello stato ecclesiastico il pontefice, aborrente dallo spendere in
cose simili, e perché, prendendo per sua natura piccola molestia
delle calamità degli altri, non si turbava di quelle cose che gli
offendevano l'onore pure che l'utilità o i piaceri non si
impedissino.
Ma non potette già fuggire gli infortuni domestici, i quali
perturborono la casa sua con esempli tragici, e con libidini e
crudeltà orribili, eziandio in ogni barbara regione. Perché avendo,
insino da principio del suo pontificato, disegnato di volgere tutta
la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il
cardinale di Valenza il quale, d'animo totalmente alieno dalla
professione sacerdotale, aspirava all'esercizio dell'armi, non
potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato dal fratello,
e impaziente oltre a questo che egli avesse piú parte di lui
nell'amore di madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla
libidine e dalla ambizione (ministri potenti a ogni grande
sceleratezza), lo fece, una notte che e' cavalcava solo per Roma,
ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente. Era
medesimamente fama (se però è degna di credersi tanta enormità) che
nell'amore di madonna Lucrezia concorressino non solamente i due
fratelli ma eziandio il padre medesimo: il quale avendola, come fu
fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato inferiore al
suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non
comportando d'avere anche il marito per rivale, dissolvé il
matrimonio già consumato; avendo fatto, innanzi a giudici delegati
da lui, provare con false testimonianze, e dipoi confermare per
sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito.
Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia,
ardente quanto mai fusse stato padre alcuno nell'amore de'
figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della fortuna, perché
è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in
tutte le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che
nel concistorio, poiché ebbe con grandissima commozione d'animo e
con lacrime deplorata gravemente la sua miseria, e accusato molte
delle proprie azioni e il modo del vivere che insino a quel dí aveva
tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con
altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de'
cardinali a riformare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla
quale cosa avendo data opera qualche dí, e cominciando a
manifestarsi l'autore della morte del figliuolo, la quale nel
principio si era dubitato che non fusse proceduta per opera o del
cardinale Ascanio o degli Orsini, deposta prima la buona intenzione
e poi le lagrime, ritornò piú sfrenatamente che mai a quegli
pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dí aveva consumato
la sua età.
Nacqueno in questo tempo dal movimento fatto per Piero de' Medici
nuovi travagli in Firenze, perché poco dipoi venne a luce la
intelligenza che egli v'aveva, per il che furono incarcerati molti
cittadini nobili e alcuni altri si fuggirono; e poiché
legittimamente fu verificato l'ordine della congiura, furono
condannati alla morte non solo Niccolò Ridolfi, Lorenzo Tornabuoni,
Giannozzo Pucci e Giovanni Cambi, che l'avevano sollecitato a
venire, e Lorenzo a questo effetto accomodatolo di danari, ma
eziandio Bernardo del Nero, non imputato d'altro che d'avere saputa
questa pratica e non l'avere rivelata: il quale errore, che per sé è
punito in pena capitale dagli statuti fiorentini e dalla
interpretazione data dalla maggiore parte de' giurisconsulti alle
leggi comuni, fece piú grave in lui l'essere stato, quando Piero
venne a Firenze, gonfaloniere, come se fusse stato maggiormente
obligato a fare uffizio piú di persona publica che di privata. Ma
avendo i parenti de' condannati appellato dalla sentenza al
consiglio grande del popolo, per vigore d'una legge che s'era fatta
quando fu ordinato il governo popolare, ristrettisi quegli che erano
stati autori della condannazione, per sospetto che la compassione
dell'età e della nobiltà e la moltitudine de' parenti non
mitigassino negli animi del popolo la severità del giudicio,
ottenneno che in numero minore di cittadini si mettesse in consulta
se era da permettere il proseguire l'appellazione o proibirlo; dove
prevalendo l'autorità e il numero di quegli che dicevano essere cosa
pericolosa e facile a generare sedizione, e che le leggi medesime
concedevano che per fuggire i tumulti potessino essere le leggi in
caso simile dispensate, furono impetuosamente, e quasi per forza e
con minaccie, costretti alcuni di quegli che sedevano nel supremo
magistrato a consentire che, non ostante l'appello interposto, si
facesse la notte medesima l'esecuzione: riscaldandosi a questo molto
piú che gli altri i fautori del Savonarola, non senza infamia sua
che non avesse dissuaso, a quegli massime che lo seguitavano, il
violare una legge proposta, pochi anni innanzi, da lui come molto
salutare e quasi necessaria alla conservazione della libertà.
Lib.3, cap.14
Federico d'Aragona ricupera altre terre. Conclusione della tregua
fra i re di Spagna e Carlo VIII. Morte di Filippo duca di Savoia. Il
duca di Ferrara consegna il castello di Genova a Lodovico Sforza.
Continui dubbi e negligenza del re di Francia e conseguenze che ne
derivano per le cose d'Italia. Si torna a discutere fra i collegati
italiani dell'opportunità di cedere Pisa a Firenze. Obiezione e
opposizione de' veneziani.
In questo anno medesimo Federigo re di Napoli, ottenuta la
investitura del regno dal pontefice e fatta solennemente la sua
incoronazione, recuperò per accordo il monte di Santo Angelo, che
era stato valorosamente difeso da don Giuliano dell'Oreno lasciatovi
dal re di Francia, e Civita con alcune altre terre tenute da Carlo
de Sanguine; e cacciato, finita che fu la tregua, totalmente del
regno il prefetto di Roma, si voltò a fare il simile del principe di
Salerno: il quale finalmente, assediato nella rocca di Diano e
abbandonato da tutti, ebbe facoltà di partirsi salvo con le sue
robe; lasciata quella parte dello stato che ancora non aveva perduta
in mano del principe di Bisignano, con condizione di darla a
Federigo, subito che intendesse egli essere condotto salvo in
Sinigaglia.
Nella fine di questo anno, essendo prima interrotta per le dimande
immoderate de' re di Spagna la dieta che da Mompolieri era stata
trasferita a Nerbona, si ritornò tra quegli re a nuove pratiche;
militando pure la medesima difficoltà, perché il re di Francia era
determinato di non acconsentire piú ad accordo alcuno nel quale si
comprendesse Italia; e a' re di Spagna pareva grave lasciargli
libero il campo di soggiogarla e pure desideravano non avere guerra
con lui di là da' monti, guerra a loro di molta molestia e senza
speranza di profitto. Finalmente si conchiuse tregua tra essi, per
durare insino a tanto fusse disdetta e due mesi dappoi; né vi fu
compreso alcuno de' potentati d'Italia. A' quali i re di Spagna
significorono la tregua fatta, allegando avere cosí potuto farla
senza saputa de' collegati come era stato lecito al duca di Milano
fare senza saputa loro la pace di Vercelli; e che, avendo rotto,
quando fu fatta la lega, la guerra in Francia e continuatala molti
mesi, né essendo stati pagati loro i danari promessi da'
confederati, ancora che avessino giusta cagione di non osservare piú
a chi gli aveva mancato, avevano nondimeno molte volte fatto
intendere che, volendo pagare loro cento cinquantamila ducati, che
se gli dovevano per la guerra che avevano fatta, erano contenti
accettargli per conto di quello farebbono in futuro, con
deliberazione di entrare in Francia con potentissimo esercito; ma
che non avendo i confederati corrisposto sopra queste dimande né
alla fede né al beneficio comune, e vedendo che la lega fatta per la
libertà d'Italia si convertiva in usurparla e opprimerla,
conciossiaché i viniziani, non contenti che in sua potestà fussino
pervenuti tanti porti del reame di Napoli, avevano senza ragione
alcuna occupato Pisa, era paruto loro onesto, poiché gli altri
disordinavano le cose comuni, provedere alle proprie con la tregua;
ma fatta in modo che si potesse dire piú presto ammunizione che
volontà di partirsi dalla lega, perché era in potestà loro sempre di
dissolverla disdicendola: come farebbono quando vedessino altra
intenzione e altre provisioni ne' potentati italiani al beneficio
comune. E nondimeno non potetteno gustare quegli re interamente la
dolcezza della quiete, per la morte di Giovanni principe di Spagna,
unico figliuolo maschio di tutti e due.
Morí in questi tempi medesimi, lasciato uno piccolo figliuolo
Filippo duca di Savoia; il quale dopo lunga sospensione pareva che
finalmente avesse inclinato a' collegati, che gli avevano promesso
dare ciascuno anno ventimila ducati: e nondimeno la fede sua era sí
dubbia appresso a tutti che ancora essi, in caso che il re di
Francia facesse potente impresa, non si promettessino molto di lui.
Nella fine dell'anno medesimo il duca di Ferrara, passati già i due
anni che aveva ricevuto in diposito il castello di Genova, lo
restituí a Lodovico suo genero; avendo prima dimandato al re di
Francia che secondo i capitoli di Vercelli gli restituisse la metà
delle spese fatte in quella guardia. Le quali il re consentiva di
pagare dandogli il duca il castelletto, come diceva essere tenuto
per l'inosservanza del duca di Milano; a che rispondendo egli questa
non essere liquidata, e che a costituire il duca di Milano in
contumacia sarebbe stata necessaria la interpellazione, offeriva il
re di deporle, acciocché innanzi al pagamento si vedesse di ragione
se era tenuto a consegnargliene. Ma appresso a Ercole fu piú potente
la instanza fatta in contrario da' viniziani e dal genero, movendolo
non solo i prieghi e le lusinghe di Lodovico, che pochi dí innanzi
aveva dato l'arcivescovado di Milano a Ippolito cardinale suo
figliuolo, ma molto piú perché era pericoloso provocarsi la
inimicizia di vicini tanto potenti, in tempo che quotidianamente
diminuiva la speranza della passata de' franzesi; e però, avendo
richiamato della corte di Francia don Ferrando suo figliolo,
restituí a Lodovico il castelletto, sodisfatto prima da lui delle
spese fatte nel guardarlo, eziandio per la porzione che toccava a
pagare al re: donde i viniziani, per mostrarsegli obligati,
condussono il medesimo don Ferrando agli stipendi loro con cento
uomini d'arme.
La quale restituzione, fatta poco giustificatamente, benché alla
riputazione del re in Italia importasse molto, nondimeno non
dimostrò di risentirsene come sarebbe stato conveniente; anzi avendo
mandato Ercole uno imbasciadore a lui a scusarsi che, per essere lo
stato suo contiguo a' viniziani e al duca di Milano che avevano
mandato a denunziargli quasi la guerra, era stato costretto a
ubbidire alla necessità, l'udí con la medesima negligenza che se
avesse trattato di cose leggiere, come quello che, oltre al
procedere quasi a caso in tutte le sue azioni, continuava nelle
consuete angustie e difficoltà. Perché era in lui ardentissima come
prima la inclinazione del passare in Italia, e aveva, piú che avesse
avuto mai, potentissime occasioni: la tregua fatta co' re di Spagna,
l'avere i svizzeri confermata seco di nuovo la confederazione e
l'essere nate tra' collegati molte cause di disunione; ma lo
impediva con varie arti la maggior parte di quegli che erano intorno
a lui, proponendogli, alcuni di loro, piaceri, alcuni confortandolo
al fare la impresa ma con apparato sí potente per terra e per mare e
con tanta provisione di danari che era necessario si interponesse
lungo spazio di tempo, altri servendosi d'ogni difficoltà e
occasione; né mancando il cardinale di San Malò di usare la solita
lunghezza nelle espedizioni de' danari: in modo che non solo il
tempo di passare in Italia era piú incerto che mai ma si lasciavano
oltre a ciò cadere le cose già quasi condotte alla perfezione.
Perché i fiorentini, stimolandolo continuamente a passare, erano
convenuti seco, cominciata che fusse la guerra da lui, di muovere
l'armi loro da altra parte, e a questo effetto concordati che Obigní
con cento cinquanta lancie franzesi, cento pagate dal re e cinquanta
pagate da loro, passasse per mare in Toscana per essere capo dello
esercito loro; e il marchese di Mantova, stato rimosso
disonorevolmente, quando vincitore ritornò del reame di Napoli,
dagli stipendi de' viniziani per sospetto che e' trattasse di
condursi col re di Francia, trattava ora veramente di ricevere soldo
da lui, e il nuovo duca di Savoia si era confermato nella aderenza
sua; prometteva il Bentivoglio, passato che e' fusse in Italia, di
seguitare l'autorità sua; e il pontefice, stando ambiguo del
congiugnersi seco come continuamente si trattava, aveva determinato
almeno di non se gli opporre. Ma la tardità e la negligenza usata
dal re raffreddava gli animi di ciascuno, perché né in Italia per
congregarsi in Asti passavano le genti secondo le promesse fatte da
lui, non si dava espedizione alla condotta di Obigní, né mandava
danari per pagare gli Orsini e Vitelli soldati suoi: cosa, avendosi
a fare la guerra, molto importante. Donde essendo i Vitelli per
condursi co' viniziani, i fiorentini, non avuto tempo di
avvisarnelo, gli condussono per uno anno a comune per il re e per
loro; la qual cosa fu lodata da lui, ma né ratificò né provedde al
pagamento per la sua porzione; anzi mandò Gemel a ricercargli che
gli prestassino per la impresa cento cinquantamila ducati.
Finalmente facendo, come spesso soleva, della volontà sua quella di
altri, partitosi quasi allo improviso da Lione, se ne andò a Torsi e
poi ad Ambuosa, con le consuete promesse di ritornare presto a
Lione. Per le quali cose mancando la speranza a tutti quegli che in
Italia seguitavano la parte sua, Batistino Fregoso si riconciliò col
duca di Milano.
Il quale, preso animo da questi progressi, scopriva ogni dí piú la
mala volontà che aveva per le cose di Pisa contro a' viniziani;
stimolando il pontefice e i re di Spagna a introdurre di nuovo, ma
con maggiore efficacia, il ragionamento della restituzione di quella
città. Per la quale pratica i fiorentini, cosí confortati da lui,
mandorono, nel principio dell'anno mille quattrocento novantotto, a
Roma uno imbasciadore, ma con commissione che procedesse con tale
circospezione che il pontefice e gli altri potessino comprendere che
in caso che Pisa fusse renduta loro si unirebbono con gli altri alla
difesa d'Italia contro a' franzesi, e nondimeno che il re di
Francia, se l'effetto non seguisse, non avesse causa di prendere
sospetto di loro. Continuossi questo ragionamento in Roma molti
giorni, facendo instanza apertamente il pontefice e gli oratori de'
re di Spagna e del duca di Milano e quello del re di Napoli con lo
imbasciadore viniziano, essere necessario per sicurtà comune unire
con questo mezzo i fiorentini contro a' franzesi, e dovere il suo
senato consentirvi insieme con gli altri, acciocché, estirpate le
radici di tutti gli scandoli, non restasse piú alcuno in Italia che
avesse cagione di chiamarvi gli oltramontani; l'unione della quale
quando si impedisse per questo rispetto, si darebbe forse materia a
gli altri di fare nuovi pensieri, da' quali in pregiudicio di tutti
nascerebbe qualche importante alterazione. Ma era al tutto diversa
la deliberazione del senato viniziano. Il quale, pretendendo alla
sua cupidità vari colori, e accorgendosi da chi principalmente
procedesse tanta instanza, rispondeva per mezzo del medesimo oratore
lamentandosi gravissimamente, tale cosa non essere mossa dal
rispetto del bene universale ma da maligna inclinazione che avea
qualcuno de' collegati contro a loro, perché essendo i fiorentini
congiuntissimi d'animo a' franzesi, e persuadendosi di avere per il
ritorno loro in Italia a occupare la maggiore parte di Toscana, non
era dubbio non bastare il reintegrargli di Pisa a rimuovergli da
questa inclinazione, anzi essere cosa molto pericolosa il renderla
loro, perché quanto piú fussino potenti tanto piú alla sicurtà
d'Italia nocerebbono. Trattarsi in questa restituzione dell'onore e
della fede di tutti ma principalmente della loro republica; perché
avendo i confederati promesso tutti d'accordo a' pisani d'aiutargli
a difendere la libertà e dipoi, perché ciascuno degli altri spendeva
malvolentieri per il bene publico, lasciato il peso a loro soli, né
essi ricusato a questo effetto alcuna spesa o travaglio, essere con
troppo loro disonore l'abbandonarla, e mancare della fede data, la
quale se gli altri non stimavano, essi, soliti sempre a osservarla
non volevano in modo alcuno violare. Essere molestissimo al senato
viniziano che, senza rispetto alcuno, fussino imputati dagli altri
di quello che con consentimento comune avevano cominciato e per
interesse comune avevano continuato, e che con tanta ingratitudine
fussino lapidati delle buone opere; né meritare questa retribuzione
le spese intollerabili che avevano fatte in questa impresa e in
tante altre, e tanti travagli e pericoli sostenuti da loro dappoi
che era stata fatta la lega: le quali cose erano state di natura che
e' potevano arditamente dire che per opera loro si fusse salvata
Italia, perché né in sul fiume del Taro si era combattuto con altre
armi, né con altre armi recuperato il reame di Napoli, che con le
loro. E quale esercito avere costretto Novara ad arrendersi? quale
avere necessitato il re di Francia ad andarsene di là da' monti?
quali forze essersegli opposte nel Piemonte, qualunque volta avea
fatto pruova di ritornare? Né si potere già negare che queste azioni
non fussino principalmente procedute dal desiderio che avevano della
salute d'Italia, perché né erano mai stati i primi esposti a'
pericoli, né per cagione loro nati disordini i quali fussino
debitori di ricorreggere: perché né aveano chiamato il re di Francia
in Italia né accompagnatolo poi che era stato condotto di qua da'
monti, né per risparmiare i danari propri lasciato cadere in
pericolo le cose comuni; anzi essere stato spesse volte di bisogno
che 'l senato veneto rimediasse a' disordini nati per colpa d'altri
in detrimento di tutti. Le quali opere se non erano conosciute o se
sí presto erano poste in oblivione, non volere perciò, seguitando
l'esempio poco scusabile degli altri, maculare né la fede né la
degnità della loro republica; essendo massime congiunta nella
conservazione della libertà de' pisani la sicurtà e il beneficio di
tutta Italia.
Lib.3, cap.15
Morte di Carlo VIII e sue conseguenze. Decadenza dell'autorità del
Savonarola in Firenze. Suo conflitto col pontefice. Suo supplizio.
Le quali cose mentre che con aperta disunione si trattano tra i
collegati, nuovo accidente che sopravenne partorí effetti molto
diversi da' pensieri degli uomini; perché la notte innanzi
all'ottavo dí d'aprile morí il re Carlo in Ambuosa, per accidente di
gocciola, detto da' fisici apoplessia, sopravenuto mentre stava a
vedere giocare alla palla, tanto potente che nel medesimo luogo finí
tra poche ore la vita, con la quale aveva con maggiore impeto che
virtú turbato il mondo, ed era pericoloso non lo turbasse di nuovo.
Perché si credeva per molti che, per l'ardente disposizione che
aveva di ritornare in Italia, arebbe pure una volta, o per propria
cognizione o per suggestione di quegli che emulavano alla grandezza
del cardinale di San Malò, rimosse le difficoltà che gli erano
interposte: in modo che, se bene in Italia, secondo le sue
variazioni, qualche volta augumentasse qualche volta diminuisse
l'opinione della sua passata, non era però che non se ne stesse in
continua sospensione; e perciò il pontefice, stimolato dalla
cupidità d'esaltare i figliuoli, aveva già cominciato a trattare
secretamente cose nuove con lui; e si divulgò poi, o vero o falso
che fusse, che il duca di Milano, per non stare in continuo timore,
aveva fatto il medesimo. Pervenne, perché Carlo morí senza
figliuoli, il regno di Francia a Luigi duca di Orliens, piú prossimo
di sangue per linea mascolina che alcun altro; al quale, come fu
morto il re, concorse subito a Bles, dove allora era, la guardia
reale e tutta la corte, e poi di mano in mano tutti i signori del
regno, salutandolo e riconoscendolo per re: con tutto che per alcuno
tacitamente si mormorasse che, secondo gli ordini antichi di quel
reame, era diventato inabile alla degnità della corona, contro alla
quale avea nella guerra di Brettagna pigliate l'armi.
Ma il dí seguente a quello nel quale terminò la vita di Carlo, dí
celebrato da' cristiani per la solennità delle Palme, terminò in
Firenze l'autorità del Savonarola. Il quale, essendo molto prima
stato accusato al pontefice che scandalosamente predicasse contro a'
costumi del clero e della corte romana, che in Firenze nutrisse
discordie, che la dottrina sua non fusse al tutto cattolica, era per
questo stato chiamato con piú brevi apostolici a Roma; il che avendo
ricusato con allegare diverse escusazioni, era finalmente, l'anno
precedente, stato dal pontefice separato con le censure dal
consorzio della Chiesa. Per la quale sentenza poiché si fu astenuto
per qualche mese dal predicare, arebbe, se si fusse astenuto piú
lungamente, ottenuta con non molta difficoltà l'assoluzione, perché
il pontefice, tenendo per se stesso poco conto di lui, si era mosso
a procedergli contro piú per le suggestioni e stimoli degli
avversari che per altra cagione: ma parendogli che dal silenzio
declinasse cosí la sua riputazione, o si interrompesse il fine per
il quale si moveva, come si era principalmente augumentato dalla
veemenza del predicare, disprezzati i comandamenti del pontefice,
ritornò di nuovo publicamente al medesimo uffizio; affermando le
censure promulgate contro a lui, come contrarie alla divina volontà
e come nocive al bene comune, essere ingiuste e invalide, e mordendo
con grandissima veemenza il papa e tutta la corte. Da che essendo
nata sollevazione grande, perché i suoi avversari, l'autorità de'
quali ogni dí nel popolo diventava maggiore, detestavano questa
inubbidienza, riprendendo che per la sua temerità si alterasse
l'animo del pontefice, in tempo massimamente che trattandosi da lui
con gli altri collegati della restituzione di Pisa era conveniente
fare ogni opera per confermarlo in questa inclinazione, e da altra
parte lo difendevano i suoi fautori, allegando non doversi per i
rispetti umani turbare le opere divine né consentire che sotto
questi colori i pontefici cominciassino a intromettersi nelle cose
della loro republica, si stette molti dí in questa contenzione:
tanto che sdegnandosi maravigliosamente il pontefice, e fulminando
con nuovi brevi e con minaccie di censure contro a tutta la città,
fu finalmente comandatogli da' magistrati che desistesse dal
predicare; a' quali avendo egli ubbidito, facevano nondimeno molti
de' suoi frati in diverse chiese il medesimo. Ma non essendo minore
la divisione tra' religiosi che tra' laici, non cessavano i frati
degli altri ordini di predicare ferventemente contro a lui; e
proroppono alla fine in tanto ardore che uno de' frati aderenti al
Savonarola e uno de' frati minori si convennono di entrare, in
presenza di tutto il popolo, nel fuoco, acciocché salvandosi o
abbruciando quello del Savonarola restasse certo ciascuno se egli
era o profeta o ingannatore: imperocché prima aveva molte volte
predicando affermato che per segno della verità delle sue predizioni
otterrebbe, quando fusse di bisogno, grazia da Dio di passare senza
lesione per mezzo del fuoco. E nondimeno, essendogli molesto che il
ragionamento del farne di presente esperienza fusse stato mosso
senza saputa sua, tentò con destrezza di interromperlo; ma essendo
la cosa per se stessa andata molto innanzi, e sollecitata da alcuni
cittadini che desideravano che la città si liberasse da tanta
molestia, fu necessario finalmente procedere piú oltre. E però
essendo, il dí deputato, venuti i due frati, accompagnandogli tutti
i suoi religiosi, in sulla piazza che è innanzi al palagio publico,
ove era concorso non solo tutto il popolo fiorentino ma molti delle
città vicine, pervenne a notizia de' frati minori il Savonarola
avere ordinato che il suo frate, quando entrava nel fuoco, portasse
in mano il Sacramento; alla qual cosa cominciando a reclamare, e
allegando che con questo modo si cercava di mettere in pericolo
l'autorità della fede cristiana, la quale negli animi degli imperiti
declinerebbe molto se quella ostia abbruciasse, e perseverando pure
il Savonarola, che era presente, nella sua sentenza, nata tra loro
discordia, non si procedette a farne esperienza: per la qual cosa
declinò tanto del suo credito che 'l dí seguente, nato a caso certo
tumulto, gli avversari suoi, prese l'armi e aggiunta all'armi loro
l'autorità del sommo magistrato, espugnato il monasterio di San
Marco dove abitava, lo condusseno insieme con due de' suoi frati
nelle carceri publiche. Nel quale tumulto i parenti di coloro che
l'anno passato erano stati decapitati ammazzorno Francesco Valori,
cittadino molto grande e primo de' fautori del Savonarola, perché
l'autorità sua era sopra tutti gli altri stata cagione che e'
fussino stati privati della facoltà di ricorrere al giudicio del
consiglio popolare. Fu dipoi esaminato con tormenti, benché non
molto gravi, il Savonarola, e in sugli esamini publicato uno
processo; il quale, rimovendo tutte le calunnie che gli erano state
date, o di avarizia o di costumi inonesti o d'avere tenuto pratiche
occulte con príncipi, conteneva le cose predette da lui essere state
predette non per rivelazione divina ma per opinione propria fondata
in sulla dottrina e osservazione della scrittura sacra, né essersi
mosso per fine maligno o per cupidità d'acquistare con questo mezzo
grandezza ecclesiastica, ma bene avere desiderato che per opera sua
si convocasse il concilio universale, nel quale si riformassino i
costumi corrotti del clero, e lo stato della Chiesa di Dio, tanto
trascorso, si riducesse in piú similitudine che fusse possibile a'
tempi che furono prossimi a' tempi degli apostoli: la quale gloria,
di dare perfezione a tanta e sí salutare opera, avere stimato molto
piú che 'l conseguire il pontificato, perché quello non poteva
succedere se non per mezzo di eccellentissima dottrina e virtú, e di
singolare riverenza che gli avessino tutti gli uomini, ma il
pontificato ottenersi spesso o con male arti o per beneficio di
fortuna. Sopra il quale processo, confermato da lui in presenza di
molti religiosi, eziandio del suo ordine, ma con parole, se è vero
quel che poi divulgorono i suoi seguaci, concise e da potere
ricevere diverse interpretazioni, gli furono, per sentenza del
generale di San Domenico e del vescovo Romolino, che fu poi
cardinale di Surrento, commissari deputati dal pontefice, insieme
con gli altri due frati, aboliti con le cerimonie instituite dalla
Chiesa romana gli ordini sacri e lasciato in potestà della corte
secolare; dalla quale furono impiccati e abbruciati: concorrendo
allo spettacolo della degradazione e del supplicio non minore
moltitudine d'uomini che il dí destinato a fare l'esperimento di
entrare nel fuoco fusse concorsa nel luogo medesimo,
all'espettazione del miracolo promesso da lui. La quale morte,
sopportata con animo costante ma senza esprimere parola alcuna che
significasse o il delitto o la innocenza, non spense la varietà de'
giudici e delle passioni degli uomini; perché molti lo reputorono
ingannatore, molti per contrario credettono o che la confessione che
si publicò fusse stata falsamente fabricata o che nella complessione
sua, molto delicata, avesse potuto piú la forza de' tormenti che la
verità: scusando questa fragilità con l'esempio del principe degli
apostoli, il quale, non incarcerato né astretto da' tormenti o da
forza alcuna estraordinaria ma a semplici parole di ancille e di
servi, negò di essere discepolo di quello maestro nel quale aveva
veduto tanti santi precetti e miracoli.
Lib.4, cap.1
Diritti del nuovo re di Francia al ducato di Milano e suo desiderio
di rivendicarli. Disposizione d'animo de' principi e de' governi
italiani verso il nuovo re. I veneziani, il pontefice e i fiorentini
mandano al re ambasciatori. Il re li accoglie lietamente ed inizia
subito trattative con essi.
Liberò la morte di Carlo re di Francia Italia dal timore de'
pericoli imminenti dalla potenza de' franzesi, perché non si credeva
che Luigi duodecimo nuovo re avesse, nel principio del suo regno, a
implicarsi in guerre di qua da' monti. Ma non rimasono già gli animi
degli uomini consideratori delle cose future liberi dal sospetto che
il male differito non diventasse, in progresso di tempo, piú
importante e maggiore, essendo pervenuto a tanto imperio uno re
maturo d'anni esperimentato in molte guerre ordinato nello spendere
e, senza comparazione, piú dependente da se stesso che non era stato
l'antecessore; e al quale non solo appartenevano, come a re di
Francia, le medesime ragioni al regno di Napoli ma ancora pretendeva
che per ragioni proprie se gli appartenesse il ducato di Milano, per
la successione di madama Valentina sua avola, la quale da Giovan
Galeazzo Visconte suo padre, nanzi che di vicario imperiale
ottenesse il titolo di duca di Milano, era stata maritata a Luigi
duca d'Orliens fratello di Carlo sesto re di Francia, aggiugnendo
alla dote, che fu la città e contado d'Asti e quantità grandissima
di danari, espressa convenzione che mancando in qualunque tempo la
linea sua mascolina succedesse nel ducato di Milano Valentina o,
morta lei, i discendenti piú prossimi. La quale convenzione, per se
stessa invalida, fu, se è vero quello che asseriscono i franzesi,
vacante allora la sedia imperiale, confermata con l'autorità
pontificale: perché i pontefici romani, fondandosi in sulle leggi
fatte da loro medesimi, pretendono appartenersi a sé
l'amministrazione dello imperio vacante. E però, essendo poi per la
morte di Filippo Maria Visconte mancati i discendenti maschi di
Giovan Galeazzo, cominciò Carlo duca di Orliens, figliuolo di
Valentina, a pretendere alla successione di quello ducato; al quale
(come l'ambizione de' príncipi è pronta ad abbracciare ogni
apparente colore) pretendevano nel tempo medesimo e Federigo
imperadore, come a stato che, estinta la linea nominata nella
investitura fatta da Vincislao re de' romani a Giovan Galeazzo,
fusse ricaduto allo imperio, e Alfonso re di Aragona e di Napoli,
stato instituito erede nel testamento di Filippo. Ma essendo state
piú potenti l'armi l'arti e la felicità di Francesco Sforza, il
quale, per accompagnare l'armi con qualche apparenza di ragione,
allegava dovere succedere Bianca sua moglie, figliuola unica ma
naturale di Filippo, Carlo d'Orliens il quale, nelle guerre tra
gl'inghilesi e i franzesi fatto prigione nella giornata di
Dangicort, era dimorato venticinque anni prigione in Inghilterra,
non potette per la povertà e per la mala fortuna sua tentare da se
medesimo di ottenerla, né da Luigi undecimo re di Francia, benché
congiuntissimo di sangue, impetrare mai aiuto alcuno; perché quel
re, essendo stato nel principio del suo regnare molto infestato da'
signori grandi del reame di Francia, i quali sotto titolo del bene
publico gli congiurorno contro per interessi e sdegni privati,
riputò sempre che per la bassezza de' potenti la sicurtà e la
grandezza sua si confermasse. Per la quale ragione Luigi d'Orliens
figliuolo di Carlo non potette, con tutto che fusse suo genero,
impetrare da lui favore alcuno; e morto il suocero, non volendo
tollerare che nel governo di Carlo ottavo, allora pupillo, gli fusse
anteposta Anna duchessa di Borbone, sorella del re, suscitate con
piccola fortuna in Francia cose nuove, passò, con fortuna minore, in
Brettagna; perché, congiunto a quegli che non volevano che Carlo,
per mezzo del matrimonio di Anna, erede, per la morte di Francesco
suo padre senza figliuoli maschi, di quel ducato, conseguisse la
Brettagna, anzi aspirando occultamente al medesimo matrimonio, fu
preso nella giornata che tra' franzesi e i brettoni fu commessa
appresso a Santo Albino in Brettagna, e, condotto in Francia, stette
incarcerato due anni: in modo che, mancandogli la facoltà e, poi che
per grazia regia fu liberato di prigione, gli aiuti di Carlo, non
tentò quella impresa se non quando, per l'occasione di essere per
commissione del re rimaso in Asti, entrò con poco successo in
Novara. Ma diventato re di Francia, niuno desiderio ebbe piú ardente
che d'acquistare, come cosa ereditaria, il ducato di Milano: nel
quale desiderio nutritosi insino da puerizia, vi si era acceso molto
piú perché, per le cose succedute a Novara e per le dimostrazioni
insolenti che quando era in Asti gli erano state usate, aveva odio
non mediocre contro a Lodovico Sforza. Però, pochi dí dopo la morte
del re Carlo, con deliberazione stabilita nel suo consiglio, si
intitolò non solamente re di Francia e, per rispetto del reame di
Napoli, re di Ierusalem e dell'una e l'altra Sicilia, ma ancora duca
di Milano; e per fare noto a ciascuno quale fusse la inclinazione
sua alle cose d'Italia scrisse subito lettere congratulatorie della
sua assunzione al pontefice a' viniziani a' fiorentini, e mandò
uomini propri a dare speranza di nuove imprese, dimostrando
espressamente d'avere nell'animo d'acquistare il ducato di Milano.
Alla quale cosa se gli presentava opportunità non piccola, - avendo
la morte di Carlo causate negli italiani inclinazioni molto diverse
dalle passate: perché il pontefice, stimolato dagli interessi
propri, i quali conosceva non potere saziare stando quieta Italia,
desiderava che le cose di nuovo si turbassino; e i viniziani,
cessato il timore che per le ingiurie fatte a Carlo avevano avuto di
lui, non erano d'animo alieno da confidarsi del nuovo re. La quale
disposizione era per augumentarsi ogni dí piú, perché Lodovico
Sforza, se bene conoscesse dovere avere piú duro e piú implacabile
inimico, nutrendosi con la speranza con la quale si nutriva
similmente Federigo d'Aragona che e' non potesse cosí presto
attendere alle cose di qua da' monti, e impedito dallo sdegno
presente a discernere il pericolo futuro non era per astenersi da
opporsi loro nelle cose di Pisa. Soli i fiorentini cominciavano a
discostarsi con l'animo dell'amicizia franzese: perché se bene il
nuovo re fusse stato prima loro fautore, ora, pervenuto alla corona,
non aveva con essi vincolo alcuno, né per fede data né per benefici
ricevuti, come aveva avuto l'antecessore, per le capitolazioni fatte
in Firenze e in Asti, e per l'avere voluto piú presto sottoporsi a
molti affanni e pericoli che abbandonare la sua congiunzione; e la
discordia che continuamente cresceva tra i viniziani e il duca di
Milano era cagione che, essendo cessato il timore avuto delle forze
de' collegati, e sperando piú nel favore propinquo e certo di
Lombardia che ne' soccorsi lontani e incerti di Francia, avevano
cagione di stimare manco quella amicizia.
Nella quale diversa disposizione degli animi furono medesimamente
diversi gli andamenti. Perché dal senato viniziano fu mandato subito
a lui uno segretario che avevano appresso al duca di Savoia; e per
gittare con questi princípi i fondamenti da stabilire seco quella
amicizia che alla giornata ricercassino le occorrenze comuni, furono
eletti tre oratori che andassino a rallegrarsi della sua
successione, e a scusare che quello che avevano fatto contro a Carlo
non era proceduto da altro che da sospetto, nato poiché per molti
segni compresono che, non contento al regno di Napoli, distendeva
già i pensieri suoi all'occupazione di tutta Italia: e il pontefice,
disposto di trasferire Cesare suo figliuolo dal cardinalato a
grandezza secolare, alzato l'animo a maggiori pensieri e mandatigli
subito imbasciadori, disegnò di vendergli le grazie spirituali,
ricevendone per prezzo stati temporali; perché sapeva il re
desiderare ardentemente di ripudiare Giovanna sua moglie, sterile e
mostruosa e che quasi violentemente gli era stata data da Luigi
undecimo, suo padre, né avere minore desiderio di pigliare per
moglie Anna restata vedova per la morte del re passato, non tanto
per le reliquie dell'antica inclinazione che insino innanzi alla
giornata di Santo Albino era stata tra loro, quanto per conseguire
con questo matrimonio il ducato di Brettagna, ducato grande e molto
opportuno al reame di Francia; le quali cose ottenere senza
l'autorità pontificale non si potevano: né i fiorentini mancorono di
mandargli imbasciadori, per l'antico instituto di quella città con
la corona di Francia, e per riconfermare seco i meriti loro e le
obligazioni del re passato; sollecitati molto a questo medesimo dal
duca di Milano, acciocché per mezzo loro si difficultassino le
pratiche de' viniziani, avendosi dall'una e dall'altra republica a
trattare delle cose di Pisa, e perché acquistando fede o autorità
alcuna potessino usarla, con qualche occasione, a trattare concordia
tra lui e il re di Francia, il che egli sommamente desiderava. I
quali tutti furono lietamente raccolti dal re, e dato subitamente
principio a trattare con ciascuno: benché gli fusse fisso nell'animo
di non muovere cosa alcuna in Italia se prima non avesse assicurato
il regno di Francia, per mezzo di nuove congiunzioni co' príncipi
vicini.
Lib.4, cap.2
Lodovico Sforza delibera d'aiutare con l'armi i fiorentini a
ricuperare Pisa. Rotta de' fiorentini nella valle di S. Regolo.
Richieste d'aiuto a Lodovico Sforza. Lotta in terra di Roma tra
Colonnesi ed Orsini e sua composizione. Lodovico Sforza aiuta
scopertamente i fiorentini ed invano incita ad agire similmente il
pontefice. Il duca di Milano s'adopera ad allontanare da' pisani
quanti li sostengono.
Ma era fatale che lo incendio di Pisa, stato suscitato e nutrito dal
duca di Milano per appetito immoderato di dominare, avesse
finalmente ad abbruciare l'autore. Perché egli, e per l'emulazione e
per il pericolo che dalla troppa grandezza de' viniziani vedeva
soprastare a sé e agli altri d'Italia, non poteva pazientemente
comportare che 'l frutto delle sue arti e fatiche fusse ricolto da
loro; e avendo l'occasione della disposizione de' fiorentini,
ostinati a non cessare per qualunque accidente dalle offese de'
pisani, e parendogli per la caduta del Savonarola, e per la morte di
Francesco Valori, che aveva tenuto le parti contrarie a lui, potere
piú confidare di quella città che non aveva fatto per il passato,
deliberò d'aiutare i fiorentini alla recuperazione di Pisa con
l'armi, poiché le pratiche e l'autorità sua e degli altri non era
stata bastante: persuadendosi vanamente o che, innanzi che dal re di
Francia potesse essere fatto movimento alcuno, Pisa sarebbe, o per
forza o per concordia, ridotta in potestà de' fiorentini o veramente
che il senato viniziano, ritenuto da quella prudenza che non aveva
potuto in se medesimo, non avesse mai, per sdegni e per cagioni anco
importanti, a desiderare che con pericolo comune ritornassino l'armi
franzesi in Italia, le quali si era tanto affaticato per cacciarne.
La quale imprudentissima deliberazione uno disordine che contro a'
fiorentini succedette nel contado di Pisa gli fece accelerare.
Perché avendo avuto notizia le genti loro, che erano al Pontadera,
che circa settecento cavalli e fanti usciti di Pisa ritornavano con
una grossa preda, fatta nella Maremma di Volterra, andorono quasi
tutti, guidati dal conte Renuccio e da Guglielmo de' Pazzi
commissario fiorentino, a tagliare loro la strada per ricuperarla; e
avendogli riscontrati nella valle di Santo Regolo gli avevano messi
in disordine e riavuta la maggiore parte della preda, quando
sopragiunsono centocinquanta uomini d'arme, che per soccorrere i
suoi erano partiti di Pisa poi che avevano inteso la mossa delle
genti de' fiorentini: i quali, trovatigli stracchi e parte
disordinati nel rubare, non potendo l'autorità del conte Renuccio
ridurre i suoi uomini d'arme a fare testa, dopo essere stata fatta
da' fanti qualche difesa, gli messono in fuga, morti molti fanti,
presi molti de' capi e la maggiore parte de' cavalli; in modo che
non senza difficoltà il commissario e il conte si salvorono in Santo
Regolo, dando, come si fa nelle cose avverse, imputazione l'uno
all'altro del disordine seguito. Afflisse questa rotta i fiorentini,
i quali, per provedere subito al pericolo, né potendo armarsi sí
presto d'altri soldati, ed essendo in mala riputazione e con la
compagnia svaligiata il conte Renuccio, che era governatore generale
delle genti loro, deliberorno di voltare a Pisa i Vitelli che erano
nel contado d'Arezzo: ma furno necessitati concedere a Paolo il
titolo di capitano generale del loro esercito. Costrinsegli ancora
questo caso a ricercare con grande instanza aiuto dal duca di
Milano: e tanto piú che, subito dopo la rotta, avevano supplicato al
re di Francia che, per rimuovere con le forze e con l'autorità i
loro pericoli, mandasse trecento lancie in Toscana, ratificasse la
condotta, fatta vivente Carlo, de' Vitelli, provedendo per la
porzione sua al pagamento, e confortasse i viniziani ad astenersi da
offendergli; delle quali cose, perché il re non voleva farsi odioso
o sospetto a' viniziani né muovere in Italia cosa alcuna se non
quando volesse cominciare la guerra contro allo stato di Milano,
avevano riportato parole grate senza effetti. Ma il duca non fu
lento in questo bisogno, dubitando che i viniziani non pigliassino,
con l'occasione della vittoria, tanto campo che fusse poi troppo
difficile a reprimergli: e però, data a' fiorentini ferma intenzione
di soccorrergli, volle prima risolvere con loro che provisioni
fussino necessarie non solo a difendersi ma a condurre a fine
l'impresa di Pisa.
Alla quale, perché per quell'anno non si temeva di moto alcuno del
re di Francia, erano volti gli occhi di tutta Italia, quieta allora
da ogni altra perturbazione: conciossiacosaché, se bene in terra di
Roma si fussino prese l'armi tra i Colonnesi e gli Orsini, era la
prudenza di loro medesimi stata presto superiore agli odii e alle
inimicizie. L'origine fu che i Colonnesi e i Savelli, mossi dalla
occupazione, fatta da Iacopo Conte di Torremattia, avevano assaltate
le terre della famiglia de' Conti; e da altra parte gli Orsini, per
la congiunzione delle fazioni, aveano prese l'armi in favore loro:
di maniera che, essendosi occupate per l'una parte e per l'altra piú
castella, combatterono finalmente insieme con tutte le forze a piè
di Monticelli nel contado di Tivoli; dove dopo lunga e valorosa
battaglia, stimolandogli non meno la passione ardente delle parti
che la gloria e l'interesse degli stati, gli Orsini, che aveano
dumila fanti e ottocento cavalli, furono messi in fuga, perderono le
bandiere e restò prigione Carlo Orsino; e dalla parte de' Colonnesi
fu ferito Antonello Savello assai chiaro condottiere, che ne morí
pochi dí poi. Dopo il quale successo, il pontefice, mostrando
essergli molesta la turbazione del paese propinquo a Roma, si
interpose alla concordia: la quale mentre che con non troppo buona
fede si tratta da lui, secondo la sua duplicità, gli Orsini,
raccolte nuove forze, andorono a campo a Palombara terra principale
de' Savelli; e si preparavano per andare a soccorrerla i Colonnesi,
che dopo la vittoria avevano occupate molte castella de' Conti. Ma
accortasi l'una parte e l'altra che 'l pontefice, dando animo ora a'
Colonnesi ora agli Orsini, nutriva la guerra, per potere alla fine
quando fussino consumati opprimergli tutti, si ridussono senza
interposizione d'altri a parlamento insieme a Tivoli, dove il dí
medesimo conchiusono l'accordo: per il quale fu liberato Carlo
Orsino, restituite a ciascuno le terre tolte in questa contenzione,
e la differenza de' contadi d'Albi e di Tagliacozzo rimessa nel re
Federigo, del quale erano soldati i Colonnesi.
Posato presto questo movimento, né mescolandosi altre armi in Italia
che nel contado di Pisa, il duca di Milano, benché da principio
avesse deliberato di non dare aiuto scopertamente a' fiorentini ma
sovvenirgli occultamente con danari, traportato ogni dí piú dallo
sdegno e dal dispiacere, né astenendosi da parole insolenti e
minatorie contro a' viniziani, determinò di dimostrarsi senza
rispetto. Però negò il passo alle genti loro, le quali per la via di
Parma e di Pontriemoli andavano a Pisa, necessitandole a passare per
il paese del duca di Ferrara, cammino piú lungo e piú difficile;
operò che Cesare comandò a tutti gli oratori che erano appresso a
lui, eccetto quello de' re di Spagna, che si partissino, e che dopo
pochi dí gli richiamò tutti eccetto il viniziano; mandò a'
fiorentini trecento balestrieri, e concorse con loro alla condotta
di trecento uomini d'arme, parte sotto il signore di Piombino parte
sotto Gian Paolo Baglione; e in piú volte prestò loro piú di
trentamila ducati, offerendo continuamente, quando fusse di bisogno,
maggiori aiuti. Fece oltre a queste cose instanza col pontefice che,
ricercato da' fiorentini, porgesse qualche sussidio. Il quale,
dimostrando di conoscere che lo stabilirsi in Pisa i viniziani era
pernicioso allo stato della Chiesa, promesse mandare loro cento
uomini d'arme e tre galee sottili, le quali sotto il capitano
Villamarina erano a' soldi suoi, per impedire che per mare non
entrassino in Pisa vettovaglie; nondimeno, poiché con varie scuse
ebbe differito il mandargli, lo negò alla fine apertamente, perché
ogni dí piú, rimovendosi dagli altri pensieri, si risolveva a
ristrignersi col re di Francia, sperando di conseguire per mezzo suo
non premi mediocri e usitati ma il reame di Napoli: essendo spesso
proprio degli uomini farsi facile con la voglia e con la speranza
quello che con la ragione conoscono essere difficile. Ed era quasi
fatale che in lui fussino origine a cose nuove le repulse de'
parentadi avute da' re d'Aragona. Perché, innanzi che totalmente
deliberasse di unirsi col re di Francia, aveva dimandato che al
cardinale di Valenza, parato a rinunziare alla prima occasione al
cardinalato, il re Federigo concedesse per moglie la figliuola, e in
dote il principato di Taranto; persuadendosi che se il figliuolo,
grande d'ingegno e d'animo, si insignorisse di uno membro tanto
importante di quel reame, potesse facilmente, avendo in matrimonio
una figliuola regia, avere occasione, con le forze e con le ragioni
della Chiesa, di spogliare del regno il suocero, debole di forze ed
esausto di danari, e dal quale erano alieni gli animi di molti de'
baroni. La qual cosa benché fusse caldamente favorita dal duca di
Milano, dimostrando a Federigo, con ragioni efficaci e poi con
parole aspre, per mezzo di Marchesino Stanga, il quale mandò per
questo a Roma e a Napoli imbasciadore, con quanto suo pericolo il
pontefice, escluso di tale desiderio, precipiterebbe a congiugnersi
col re di Francia, e ricordandogli quanta imprudenza e pusillanimità
fusse, dove si trattava della salute del tutto, avere in
considerazione la indegnità e non sapere sforzare se medesimo ad
anteporre la conservazione dello stato alla propria volontà,
nondimeno Federigo ricusò sempre ostinatamente: confessando che la
alienazione del papa era per mettere in pericolo il suo reame, ma
che conosceva anche che 'l dare la figliuola, col principato di
Taranto, al cardinale di Valenza lo metteva in pericolo; e però de'
due pericoli volere piú presto sottoporsi a quello nel quale si
incorrerebbe piú onorevolmente, e che non nascerebbe da alcuna sua
azione. Donde il papa, avendo voltato in tutto l'animo a unirsi col
re di Francia, e desiderando che il medesimo facessino i viniziani,
s'astenne per non gli offendere da favorire con l'armi i fiorentini.
I quali, inanimiti per gli aiuti sí pronti del duca di Milano e per
la fama della virtú di Paolo Vitelli, non erano per pretermettere
cosa alcuna, se bene l'impresa fusse riputata difficile: perché,
oltre al numero l'esperienza e l'animo de' cittadini e contadini
pisani, aveano in Pisa i viniziani quattrocento uomini d'arme e
ottocento stradiotti e piú di dumila fanti, ed erano disposti a
mandarvi forze maggiori; non essendo manco pronti degli altri, per
l'onore publico, a sostenere i pisani coloro che da principio
avevano contradetto che si accettassino in protezione. La
deliberazione fatta con consiglio comune di Lodovico Sforza e de'
fiorentini fu di augumentare talmente l'esercito che e' fusse
potente a espugnare le terre del contado di Pisa, e di fare ogni
opera perché tutti i vicini desistessino da dare favore a' pisani o
da molestare, per ordine de' viniziani, da altre parti i fiorentini.
Però, avendo Lodovico, prima che deliberasse di scoprirsi, condotto
con dugento uomini d'arme a comune co' viniziani Giovanni
Bentivogli, operò tanto che l'obligò, con lo stato di Bologna, a sé
solo; e per confermarlo tanto piú, i fiorentini condussono
Alessandro suo figliuolo. E perché, se i viniziani, che avevano in
protezione il signore di Faenza, facessino dalla parte di Romagna
qualche insulto, vi trovassino resistenza, condussono i fiorentini
con cento cinquanta uomini d'arme Ottaviano da Riario signore
d'Imola e di Furlí, che si reggeva ad arbitrio di Caterina Sforza
sua madre; la quale seguitava senza rispetto alcuno le parti di
Lodovico e de' fiorentini, mossa da piú cagioni ma specialmente per
essersi maritata occultamente a Giovanni de' Medici, il quale il
duca di Milano, non contento del governo popolare, desiderava di
fare, insieme col fratello, grande in Firenze. Procurò medesimamente
Lodovico co' lucchesi, co' quali aveva grandissima autorità, che non
favorissino piú i pisani come sempre avevano fatto; il che se bene
non osservorono in tutto, se ne astenneno assai per suo rispetto.
Restavano i genovesi e i sanesi, inimici antichi de' fiorentini e
tra' quali militavano le cagioni delle controversie, con questi per
Montepulciano, con quegli per le cose di Lunigiana; e de' sanesi era
da temere che acciecati dall'odio non dessino, come in altri tempi
molte volte con danno proprio avevano fatto, comodità a ciascuno di
turbare, per il loro stato, i fiorentini; e con tutto che a'
genovesi, per l'antiche inimicizie, fusse molesto che i viniziani si
confermassino in Pisa, nondimeno (come in quella città suole essere
piccola cura del beneficio publico) comportavano a' pisani e a'
legni de' viniziani il commercio delle loro riviere, per l'utilità
che ne perveniva in molti privati, onde i pisani ricevevano
grandissime comodità: però, per consiglio di Lodovico, furono da'
fiorentini mandati a Genova e a Siena imbasciadori, per trattare per
mezzo suo di comporre le controversie. Ma le pratiche co' genovesi
non partorirono frutto alcuno, perché domandavano la cessione libera
delle ragioni di Serezana, senza dare altro ricompenso che una
semplice promessa di vietare a' pisani le comodità del paese loro; e
a' fiorentini pareva la perdita sí certa e, a rispetto di questa, il
guadagno sí piccolo e sí dubbio che ricusorono di comperare con
questo prezzo la loro amicizia.
Lib.4, cap.3
I fiorentini riprendono piú attivamente la guerra contro Pisa.
Fallite trattative fra i fiorentini e i veneziani riguardo a Pisa. I
veneziani tentano inutilmente d'avere l'appoggio di Siena. Siena
s'accorda con Firenze. Vani tentativi delle milizie veneziane di
passare dalla Romagna in Toscana.
Ma mentre che queste cose in vari luoghi si trattano, l'esercito
fiorentino, potente piú di cavalli che di fanti, uscí alla campagna
sotto il nuovo capitano; e perciò i pisani, i quali dopo la vittoria
di Santo Regolo avevano a piacimento loro scorso con gli stradiotti
tutto il paese, si levorno da Ponte di Sacco, dove ultimatamente si
erano accampati; e Paolo Vitelli, presa Calcinaia, soprastando ad
aspettare provisione di piú fanti, messe un dí uno aguato presso a
Cascina, dove si erano ridotte le genti viniziane, che, governate da
Marco da Martinengo, non avevano né ubbidienza né ordine, per il
quale ammazzò molti stradiotti e Giovanni Gradanico condottiere di
genti d'arme, e fu fatto prigione Franco capo di stradiotti con
cento cavalli. Per questo accidente le genti de' viniziani, non si
assicurando piú di stare a Cascina, si ritirorono nel borgo di San
Marco, aspettando che da Vinegia venissino nuove genti. Ma Paolo
Vitelli, poiché fu proveduto di fanti, avendo fatto con le spianate
segno di volere assaltare Cascina, e cosí credendo i pisani, passato
all'improviso il fiume d'Arno, pose il campo al castello di Buti;
avendo prima mandato tremila fanti a occupare i poggi vicini, e
condottevi con copia grande di guastatori l'artiglierie per la via
del monte, con maravigliosa difficoltà per l'asprezza del cammino.
Prese Buti per forza, il secondo dí poi che ebbe piantate
l'artiglierie. Fu eletta da Paolo questa impresa perché, giudicando
che Pisa, nella quale era ostinazione inestimabile cosí nel popolo
come ne' contadini che vi si erano ridotti dentro, e che già tutti
per il lungo uso erano diventati sufficienti nella guerra, fusse
impossibile a pigliare per forza, essendovi potenti gli aiuti de'
viniziani e la città per se stessa molto forte di muraglia, ebbe per
migliore consiglio attendere a consumarla che a sforzarla e,
trasferendo la guerra in quella parte del paese che è dalla mano
destra del fiume d'Arno, cercare di pigliare quegli luoghi e farsi
padrone di quegli siti da' quali potesse essere impedito il soccorso
che vi andasse per terra di paese forestiero; e però fatto, dopo
l'espugnazione di Buti, uno bastione in sui monti che sono sopra a
San Giovanni della Vena, andò a campo al bastione che presso a Vico
Pisano avevano fatto i pisani, conducendovi con la medesima
difficoltà l'artiglierie; e preso nel medesimo tempo tutto il
Valdicalci e fatto sopra Vico, in luogo detto Pietradolorosa, un
altro bastione per impedire che non vi entrasse soccorso alcuno,
teneva oltre a questo assediata la fortezza della Verrucola. E
perché i pisani, dubitando non fusse assaltata Librafatta e
Valdiserchio, fussino manco arditi a discostarsi da Pisa, era il
conte Renuccio fermatosi con altre genti in Valdinievole. E
nondimeno, quattrocento fanti usciti di Pisa roppeno i fanti che
negligentemente alloggiavano nella chiesa di San Michele per
l'assedio della Verrucola. Ma Paolo, acquistato che ebbe il
bastione, il quale si arrendé con facoltà di ridurre l'artiglierie a
Vico Pisano, pose il campo a Vico Pisano, non da quella parte dove,
quando egli vi era alla difesa, l'avevano posto i fiorentini ma di
verso San Giovanni della Vena, donde si impediva il venirvi soccorso
da Pisa; e avendo gittato in terra con l'artiglierie non piccola
parte delle mura, quegli di dentro, disperandosi d'essere soccorsi,
si arrenderono, salvo l'avere e le persone: spaventati da
perseverare ostinatamente insino all'ultimo perché Paolo, quando
espugnò Buti, aveva, per mettere terrore negli altri, fatto tagliare
le mani a tre bombardieri tedeschi che vi erano dentro e usata la
vittoria crudelmente. Preso Vico, ebbe subito occasione di un'altra
prosperità. Perché le genti che erano in Pisa, sperando essere
facile l'espugnare allo improviso il bastione di Pietradolorosa, vi
si presentorono innanzi giorno con dugento cavalli leggieri e molti
fanti, ma trovandovi resistenza maggiore di quello che si erano
persuasi, vi perderono piú tempo che non avevano disegnato; in modo
che essendosi, mentre davano l'assalto, scoperto Paolo in su quegli
monti, il quale con una parte dell'esercito andava a soccorrerlo,
ritirandosi verso Pisa scontrorno nella pianura verso Calci
Vitellozzo, venuto in quello luogo con un'altra parte delle genti
per impedire loro il ritorno: col quale mentre combatteno,
sopravenendo Paolo, si messono in fuga, perduti molti cavalli e la
maggiore parte de' fanti.
Ma in questo mezzo i fiorentini, avendo qualche indizio dal duca di
Ferrara e da altri che i viniziani avevano inclinazione alla
concordia, ma che vi si indurrebbono piú facilmente se, come pareva
convenirsi alla degnità di tanta republica, si procedesse con loro
con le dimostrazioni non come con eguali ma come con maggiori,
mandorono, per tentare la loro disposizione, imbasciadori a Vinegia
Guidantonio Vespucci e Bernardo Rucellai, due de' piú onorati
cittadini della loro republica: la qual cosa si erano astenuti di
fare insino a questo tempo, parte per non offendere l'animo del re
Carlo parte perché, mentre si conobbono impotenti a opprimere i
pisani, avevano giudicato dovere essere inutili i prieghi non
accompagnati né con la riputazione né con le forze; ma ora che
l'armi loro erano potenti in campagna, e il duca di Milano scoperto
totalmente contro a' viniziani, non erano senza speranza d'avere a
trovare qualche modo di onesta composizione. Però gl'imbasciadori,
ricevuti onoratamente, introdotti al doge e al collegio, poi che
ebbono scusato il non vi essere andati prima imbasciadori, per
diversi rispetti nati dalla qualità de' tempi e da' vari accidenti
della loro città, dimandorono liberamente che si astenessino dalla
difesa di Pisa; dimostrando confidarsi di ottenere questa dimanda,
perché la republica fiorentina non aveva dato loro causa di
offenderla, e perché avendo il senato viniziano avuto sempre fama di
giustissimo non vedevano dovesse partirsi dalla giustizia, la quale,
essendo la base e il fondamento di tutte le virtú, era conveniente
che a ogni altro rispetto fusse anteposta. Alla quale proposta
rispose il doge essere la verità che da' fiorentini non avevano
ricevuta in questi tempi ingiuria alcuna, né essere il senato
entrato alla difesa di Pisa per desiderio di offendergli ma perché,
avendo i fiorentini soli in Italia seguitata la parte franzese, il
rispetto dell'utilità comune aveva indotto tutti i potenti della
lega a dare la fede a' pisani di aiutargli a difendere la libertà; e
che se gli altri si dimenticavano della fede data non volevano essi,
contro al costume della loro republica, imitargli in cosa tanto
indegna: ma che se si proponesse qualche modo mediante il quale si
conservasse a' pisani la libertà, dimostrerebbeno a tutto il mondo
che né cupidità particolare né rispetto alcuno dello interesse
proprio era cagione di fargli perseverare nella difesa di Pisa.
Disputossi poi per qualche dí quale potesse essere il modo da
sodisfare all'una parte e all'altra; né volendo o i viniziani o gli
oratori fiorentini proporne alcuno, furno contenti che lo
imbasciadore de' re di Spagna, che gli confortava alla concordia, si
interponesse tra loro: il quale avendo proposto che i pisani
ritornassino alla divozione de' fiorentini non come sudditi ma per
raccomandati, e con quelle medesime capitolazioni che erano state
concedute alla città di Pistoia, come cosa media tra la servitú e la
libertà, risposeno i viniziani non conoscere parte alcuna di libertà
in una città nella quale le fortezze e l'amministrazione della
giustizia fussino in potestà d'altri. Donde gli oratori fiorentini,
non sperando di ottenere cosa alcuna, si partirono da Vinegia assai
certi che i viniziani non abbandonerebbono se non per necessità la
difesa di Pisa, dove continuamente mandavano gente.
Perché né da principio erano stati con molto timore dell'impresa de'
fiorentini, considerando che per non si essere cominciata al
principio della primavera non potevano stare molto tempo in
campagna, essendo il paese di Pisa per la bassezza sua molto
sottoposto all'acque; e perché, avendo soldato di nuovo sotto il
duca d'Urbino, al quale detteno il titolo di governatore, e sotto
alcuni altri condottieri cinquecento uomini d'arme, e avendo diverse
intelligenze, avevano determinato, per divertire i fiorentini
dall'offese de' pisani, di rompere la guerra in altro luogo;
disegnando dipoi di fare muovere Piero de' Medici: per conforto del
quale soldorono con dugento uomini d'arme Carlo Orsino e Bartolomeo
d'Alviano. Né furono senza speranza di indurre Giovanni Bentivogli a
consentire che la guerra si rompesse a' fiorentini dalla parte di
Bologna. Perché il duca di Milano, sdegnato che nella condotta di
Annibale suo figliuolo gli avesse anteposti i viniziani, e
ricordandosi, per questa offesa nuova, delle ingiurie vecchie
ricevute, secondo diceva, da lui quando Ferdinando duca di Calavria
passò in Romagna, aveva tolto certe castella possedute per causa
dotale da Alessandro suo figliuolo nel ducato di Milano; né si
asteneva da aspreggiarlo con ogni dimostrazione: ma avendo pure
finalmente, per intercessione de' fiorentini, restituite quelle
castella, fu interrotto il disegno fatto di rompere la guerra da
quella parte. Però si sforzorono i viniziani di disporre i sanesi a
concedere che e' movessino l'armi per il territorio loro; e dava
speranza di ottenerlo, oltre all'ordinaria disposizione contro a'
fiorentini, la divisione che era in Siena tra' cittadini. Perché
avendosi Pandolfo Petrucci con lo ingegno e astuzia sua arrogata
autorità grande, Niccolò Borghesi suo suocero e la famiglia de'
Belanti, a' quali era molesta la sua potenza, desideravano si
concedesse il passo al duca d'Urbino e agli Orsini, i quali con
quattrocento uomini d'arme dumila fanti e quattrocento stradiotti si
erano fermati, per commissione de' viniziani alla Fratta nel contado
di Perugia; e allegavano che il fare tregua co' fiorentini, come
faceva instanza il duca di Milano e come confortava Pandolfo, non
era altro che dare loro comodità di espedire le cose di Pisa, le
quali spedite, sarebbono tanto piú potenti a offendergli: però
doversi, traendo frutto delle occasioni, come appartiene agli uomini
prudenti, stare costanti in non fare con loro altro accordo che
pace, ricevendo la cessione delle ragioni di Montepulciano; la quale
cessione sapevano i fiorentini essere ostinati a non volere fare,
donde di necessità si inferiva il consentire a' viniziani, appresso
a' quali avendo essi occupato il primo luogo della grazia, speravano
facilmente abbassare l'autorità di Pandolfo. Il quale, essendosi per
i conforti del duca di Milano fatto autore della opinione contraria,
non ebbe piccola difficoltà a sostenere il suo parere; perché nel
popolo poteva naturalmente l'odio de' fiorentini, ed era molto
apparente la persuasione di potere con questo terrore ottenere la
cessione di Montepulciano: la quale cupidità accompagnata dall'odio
aveva piú forza che la considerazione, allegata da Pandolfo, de'
travagli che seguiterebbono la guerra accostandola alla casa
propria, e de' pericoli ne' quali col tempo gli condurrebbe la
grandezza de' viniziani in Toscana. Di che diceva non essere
necessario cercare gli esempli di altri: perché era fresca la
memoria che l'essersi, l'anno mille quattrocento settantotto,
aderiti a Ferdinando re di Napoli contro a' fiorentini, gli
conduceva totalmente in servitú se Ferdinando, per la occupazione
che Maumeth ottomanno fece nel regno di Napoli della città di
Otranto, non fusse stato costretto a rivocare la persona di Alfonso
suo figliuolo e le sue genti da Siena; senza che, per l'istorie loro
potevano avere notizia che la medesima cupidità di offendere i
fiorentini per mezzo del conte di Virtú, e lo sdegno conceputo per
conto del medesimo Montepulciano, era stato cagione che da se stessi
gli avessino sottomessa la propria patria. Le quali ragioni, benché
vere, non essendo bastanti a reprimere l'ardore e gli affetti loro,
non stava senza pericolo che dagli avversari suoi non si suscitasse
qualche tumulto. Se non che egli, prevenendo, tirò allo improviso in
Siena molti amici suoi del contado, e operò che nel tempo medesimo i
fiorentini mandorono al Poggio Imperiale trecento uomini d'arme e
mille fanti; con la riputazione delle quali forze raffrenato
l'ardire degli avversari, ottenne che si facesse tregua per cinque
anni co' fiorentini: i quali, preponendo il timore de' pericoli
presenti al rispetto della dignità, si obligorono a disfare una
parte del ponte a Valiano e a fare gittare in terra il bastione
tanto molesto a' sanesi; concedendo oltre a questo che i sanesi, fra
certo tempo, potessino edificare qualunque fortezza volessino tra il
letto delle Chiane e la terra di Montepulciano. Per il quale accordo
diventato maggiore Pandolfo, poté poco poi fare ammazzare il
suocero, che troppo arditamente attraversava i suoi disegni; e tolto
via questo emulo e spaventati gli altri, confermarsi ogni dí piú
nella tirannide.
Privati per questa concordia i viniziani della speranza di
divertire, per la via di Siena, i fiorentini dalla impresa contro a'
pisani, né avendo potuto ottenere da' perugini di muovere l'armi per
il territorio loro, deliberorono di turbargli dalla parte di
Romagna; sperando di occupare facilmente, col favore e aderenze
vecchie che vi aveva Piero de' Medici, i luoghi tenuti da loro nello
Apennino. Però, ottenuto dal piccolo signore di Faenza il passo per
la valle di Lamone, con una parte delle genti che avevano in
Romagna, con le quali si congiunseno Piero e Giuliano de' Medici,
occuporono il borgo di Marradi posto in su lo Apennino, da quella
parte che guarda verso Romagna; dove non ebbono resistenza perché
Dionigi di Naldo, uomo della medesima valle, soldato con trecento
fanti da' fiorentini perché insieme co' paesani lo difendesse, menò
seco sí pochi fanti che non ebbe ardire di fermarvisi: e si
accamporono alla rocca di Castiglione, che è in luogo eminente sopra
al borgo predetto, sperando di ottenerla, se non per altro modo, per
il mancamento che sapevano esservi di molte cose e specialmente
d'acqua; e ottenendola rimaneva libera la facoltà di passare nel
Mugello, paese vicino a Firenze. Ma alle piccole provisioni che vi
erano dentro supplí la costanza del castellano, e al mancamento
dell'acqua l'aiuto del cielo: perché una notte piovve tanto che,
ripieni tutti i vasi e citerne, restorono liberi da questa
difficoltà; e in questo mezzo il conte Renuccio, col signore di
Piombino e alcuni piccoli condottieri, accostatosi per la via di
Mugello in luogo propinquo agli inimici, gli costrinse a ritirarsi
quasi fuggendo, perché facendo fondamento nella prestezza non erano
andati a quella impresa molto potenti; e già il conte di Gaiazzo,
mandato dal duca di Milano a Cotignuola con trecento uomini d'arme e
mille fanti, e il Fracassa soldato del medesimo duca, che con cento
uomini d'arme era a Furlí, si ordinavano per andare loro alle
spalle. Però, volendo evitare questo pericolo, andorono a unirsi col
duca d'Urbino, che si era partito del perugino, e con l'altre genti
de' viniziani, le quali tutte insieme erano alloggiate tra Ravenna e
Furlí, con poca speranza di alcuno progresso; essendo, oltre alle
forze de' fiorentini, in Romagna cinquecento uomini d'arme
cinquecento balestrieri e mille fanti del duca di Milano, e
importando molto l'ostacolo d'Imola e di Furlí.
Lib.4, cap.4
Paolo Vitelli toglie nuove terre a' pisani. Il marchese di Mantova
passa dagli stipendi di Lodovico Sforza a quelli dei veneziani, e
quindi sdegnato per la lentezza di questi ritorna col duca di
Milano. L'Alviano occupa Bibbiena. I fiorentini per difendere il
Casentino ritirano milizie dal contado di Pisa. I fiorentini
riconquistano terre del Casentino. Maggiore stanchezza a Venezia per
la guerra di Pisa e tentativi di accordi.
Ma in questo mezzo Pagolo Vitelli, poiché dopo lo acquisto di Vico
Pisano ebbe, per mancamento delle provisioni necessarie, soggiornato
qualche dí, continuando nella medesima intenzione di impedire a'
pisani la facilità del soccorso, si era indirizzato alla impresa di
Librafatta; e per accostarvisi da quella parte della terra che era
piú debole, e fuggire le molestie che potessino essere date allo
esercito impedito da artiglierie e carriaggi, lasciata la via che
per i monti scende nel piano di Pisa e quella che per il piano di
Lucca gira alle radici del monte, fatta con moltitudine grande di
guastatori una nuova via per i monti, ed espugnato per il cammino,
il dí medesimo, il bastione di Montemaggiore fatto da' pisani in
sulla sommità del monte, scese sicurissimamente nel piano di
Librafatta. Alla quale accostatosi il dí seguente, e necessitati
facilmente ad arrendersi i fanti messi a guardia di Potito e
Castelvecchio, due torri distanti l'una dopo l'altra per piccolo
spazio da Librafatta, piantò dalla seconda torre e da altri luoghi
l'artiglierie contro alla terra, bene proveduta e guardata perché vi
erano dugento fanti de' viniziani; da' quali luoghi battendo la
muraglia da alto e da basso, sperò il primo dí di espugnarla: ma
essendo per avventura ruinato uno arco della muraglia, quello
ruinando, la notte, alzò quattro braccia il riparo cominciatovi; in
modo che Paolo, avendo tentato invano tre dí di salirvi con le
scale, cominciò del successo non mediocremente a dubitare, ricevendo
l'esercito molti danni da una artiglieria di dentro che tirava per
una bombardiera bassa. Ma fu la industria e virtú sua aiutata dal
beneficio della fortuna, senza il favore della quale sono spesso
fallaci i consigli de' capitani; perché da uno colpo d'artiglieria
di quelle del campo fu rotta quella bombarda e ammazzato uno de'
migliori bombardieri che fusse dentro, e passò la palla per tutta la
terra. Dal qual caso spaventati, perché per l'artiglieria piantata
alla seconda torre difficilmente potevano affacciarsi, si
arrenderono il quarto dí, e poco poi la rocca, aspettati pochi colpi
d'artiglieria, fece il medesimo. Acquistata Librafatta, attese a
fare alcuni bastioni in sui monti vicini; ma sopra tutti uno forte e
capace di molti uomini sopra Santa Maria in Castello, chiamato, dal
monte in sul quale fu posto, il bastione della Ventura, il quale
scorreva tutto il paese circostante, e dove è fama esserne
anticamente stato fabricato un altro da Castruccio lucchese,
capitano nobilissimo de' tempi suoi, acciocché, guardandosi questo e
Librafatta, restassino impedite le comodità che, per la via di Lucca
e di Pietrasanta, potessino andare a Pisa.
Ma non cessavano i viniziani di pensare a ogni rimedio per
sollevare, ora per via di soccorso ora con diversione, quella città;
della qual cosa potere fare accrebbono loro speranza le difficoltà
che nacqueno tra il duca di Milano e il marchese di Mantova,
condottosi di nuovo col duca. Il quale, per non privare del titolo
di capitano generale delle sue genti Galeazzo da San Severino,
maggiore appresso a lui per favore che per virtú, aveva promesso al
marchese di dargli infra tre mesi titolo di capitano suo generale, a
comune o con Cesare o col pontefice o col re Federigo o co'
fiorentini; il che non avendo eseguito nel termine promesso, perché
medesimamente a questo Galeazzo repugnava, e aggiugnendosi
difficoltà per cagione de' pagamenti, il marchese voltò l'animo a
ritornare agli stipendi de' viniziani, i quali trattavano di
mandarlo con trecento uomini d'arme a soccorrere Pisa: il che
presentendo Lodovico lo dichiarò, con consentimento di Galeazzo,
capitano suo e di Cesare. Ma già il marchese andato a Vinegia, e
dimostrata al senato grandissima confidenza di entrare in Pisa
nonostante l'opposizione delle genti de' fiorentini, si era
ricondotto con loro; e ricevuta parte de' denari e ritornato a
Mantova attendeva a mettersi in ordine, e sarebbe entrato presto in
cammino se i viniziani avessino usata la medesima celerità nello
espedirlo che avevano usata nel condurlo: alla quale cosa
cominciorno a procedere lentamente perché, essendo stata di nuovo
data loro speranza di entrare, per mezzo di uno trattato tenuto da
certi seguaci antichi de' Medici, in Bibbiena, castello del
Casentino, giudicavano che, per la difficoltà del passare a Pisa,
fusse piú utile attendere alla diversione che al soccorso. Dalla
quale tardità il marchese sdegnato, di nuovo si ricondusse con
Lodovico con trecento uomini d'arme e con cento cavalli leggieri,
con titolo di capitano generale cesareo e suo; ritenendo a conto
degli stipendi vecchi i danari avuti da loro.
Non era stata senza qualche sospetto de' fiorentini la pratica di
questo trattato, anzi, oltre a molte notizie avutene generalmente,
ne avevano non molti dí innanzi ricevuto avviso piú particolare da
Bologna. Ma sono inutili i consigli diligenti e prudenti quando
l'esecuzione procede con negligenza e imprudenza. Il commissario, il
quale per assicurarsi da questo pericolo subito vi mandorono, poi
che ebbe ritenuti quegli de' quali si aveva maggiore sospetto e che
erano consci della cosa, prestata imprudentemente fede alle parole
loro, gli rilasciò; e nell'altre azioni fu sí poco diligente che
fece facile il disegno all'Alviano, deputato alla esecuzione di
questo trattato. Perché avendo mandati innanzi alcuni cavalli in
abito di viandanti, i quali, dopo avere cavalcato tutta la notte,
giunti in sul fare del dí alla porta l'occuporono senza difficoltà,
non avendo il commissario postavi guardia alcuna, né almeno
proveduto che la si aprisse piú tardi che non era consueto aprirsi
ne' tempi non sospetti, dietro a questi sopravenneno di mano in mano
altri cavalli, che avevano per il cammino data voce di essere gente
de' Vitelli; e levatisi in loro favore i congiurati, si insignorirno
presto di tutta la terra. E il medesimo dí vi arrivò l'Alviano, il
quale, benché con poca gente, come per sua natura spingeva con
incredibile celerità sempre innanzi le occasioni, andò subito ad
assaltare Poppi castello principale di tutta quella valle: ma
trovatavi resistenza si fermò a occupare i luoghi vicini a Bibbiena,
benché piccoli e di piccola importanza.
È il paese di Casentino, per mezzo del quale discorre il fiume
d'Arno, paese stretto sterile e montuoso, situato a piè dell'alpi
dell'Apennino, cariche allora, per essere il principio della
vernata, di neve, ma passo opportuno ad andare verso Firenze, se
all'Alviano fusse succeduto felicemente l'assalto di Poppi, né meno
opportuno a entrare nel contado di Arezzo e nel Valdarno, paesi che
per essere pieni di grosse terre e castella erano molto importanti
allo stato de' fiorentini. I quali, non negligenti in tanto
pericolo, fatta subito provisione in tutti i luoghi dove era di
bisogno, oppressono uno trattato che si teneva in Arezzo; e stimando
piú che altro lo impedire che i viniziani non mandassino nel
Casentino nuove genti, levato di quel di Pisa il conte Renuccio lo
mandorono subito a occupare i passi dell'Apennino, tra Valdibagno e
la Pieve a Santo Stefano: e nondimeno non potettono proibire che il
duca d'Urbino, Carlo Orsino e altri condottieri non passassino; i
quali, avendo in quella valle settecento uomini d'arme e seimila
fanti e tra questi qualche numero di fanti tedeschi, occuporono da
pochi luoghi in fuora tutto il Casentino, e di nuovo tentorono, ma
invano, di pigliare Poppi. Però furono necessitati i fiorentini,
secondo che era stato lo intento proprio de' viniziani, a volgervi
del contado di Pisa Pagolo Vitelli con le sue genti, lasciando con
guardia sufficiente le terre importanti e il bastione della Ventura:
per la giunta del quale nel Casentino i capitani viniziani, che si
erano mossi per accamparsi il dí medesimo intorno a Pratovecchio, si
ritirorono.
Venuto Pagolo Vitelli nel Casentino e unitosi seco il Fracassa,
mandato dal duca di Milano con cinquecento uomini d'arme e
cinquecento fanti in favore de' fiorentini, ridusse presto in molte
difficoltà gli inimici, sparsi in molti luoghi per la strettezza
degli alloggiamenti e perché, per lasciarsi aperta la strada
dell'entrare e dell'uscire del Casentino, erano necessitati guardare
i passi della Vernia di Chiusi, e di Montalone, luoghi alti in su
l'alpi; e rinchiusi, in tempo asprissimo, in quella valle, non
aveano speranza di fare piú, né quivi né in altra parte, progresso
alcuno: perché in Arezzo si era fermato con dugento uomini d'arme il
conte Renuccio; e nel Casentino, poiché non era riuscito da
principio l'occupare Poppi, né faceva momento alcuno il nome de'
Medici avendo inimici gli uomini del paese, nel quale si possono
difficilmente adoperare i cavalli, avevano innanzi alla venuta de'
Vitelli ricevuto già molti danni da' paesani. E però, intesa la
venuta loro e del Fracassa, rimandata di là dall'alpi una parte de'
carriaggi e dell'artiglierie, ristrinsono insieme, quanto comportava
la natura de' luoghi, le genti loro. Contro a' quali il Vitello
deliberò servare la sua consuetudine, che era piú tosto, per
ottenere piú sicuramente la vittoria, non avere rispetto né a
lunghezza di tempo né al pigliare molte fatiche, né volere, per
risparmiare la spesa, procedere senza molte provisioni, che, per
acquistare la gloria di vincere con facilità e acceleratamente,
mettere in pericolo insieme col suo esercito l'evento della cosa.
Perciò fu nel Casentino il consiglio suo non andare subito a ferire
i luoghi piú forti ma sforzarsi di fare da principio abbandonare
agli inimici i piú deboli, e chiudere i passi dell'alpi e gli altri
passi del paese con guardie con bastioni con tagliate di strade e
altre fortificazioni, acciocché non potessino essere soccorsi da
nuove forze né avessino facoltà di aiutare da un luogo quegli che
erano nell'altro; sperando, con questo procedere, avere occasione di
opprimerne molti, e che 'l numero maggiore che era in Bibbiena, se
non per altro, per le incomodità de' cavalli e per mancamento di
vettovaglie si consumerebbe. Col quale consiglio avendo recuperato
alcuni luoghi vicini a Bibbiena, poco importanti per se stessi ma
opportuni alla intenzione con la quale aveva presupposto di vincere
la guerra, e facendo ogni dí maggiore progresso, svaligiò molti
uomini d'arme alloggiati in certe piccole terre vicine a Bibbiena; e
per impedire il cammino alle genti de' viniziani che per soccorrere
i suoi si congregavano di là dalle alpi, attese a occupare tutti i
luoghi che sono attorno al monte della Vernia, e a fare tagliate a
tutti i passi circostanti: di maniera che, crescendo continuamente
le difficoltà degli inimici e la carestia del vivere, molti di loro
alla sfilata si partivano; i quali quasi sempre, per l'asprezza de'
passi, erano o da' paesani o da' soldati svaligiati.
Questi erano i progressi dell'armi tra i viniziani e i fiorentini: e
in questo tempo medesimo, con tutto che gli imbasciadori fiorentini
si fussino senza speranza alcuna di concordia partiti da Vinegia,
nondimeno si teneva a Ferrara nuova pratica di composizione,
proposta dal duca di Ferrara per opera de' viniziani; perché già
molti e di maggiore autorità di quel senato, stracchi dalla guerra
che si sostentava con gravi spese e con molte difficoltà, e perduta
la speranza di avere maggiori successi nel Casentino, desideravano
liberarsi dalle molestie della difesa di Pisa, pure che si trovasse
modo che con onesto colore potessino rimuoversene.
Lib.4, cap.5
Accordi fra il pontefice e il re di Francia. Il re di Francia fa e
conferma trattati coi re di Spagna, d'Inghilterra, con Cesare e
coll'arciduca e cerca l'alleanza de' veneziani e de' fiorentini.
Ma mentre che in Italia sono per le cose di Pisa questi travagli,
non cessava il nuovo re di Francia di andarsi ordinando per
assaltare l'anno seguente lo stato di Milano, con speranza d'avere
seco congiunti i viniziani; i quali, infiammati da odio incredibile
contro al duca di Milano, trattavano strettamente col re. Ma piú
strettamente trattavano insieme il re e il pontefice. Il quale,
escluso del parentado di Federigo, e continuando la medesima
cupidità del regno di Napoli, voltato tutto l'animo alle speranze
franzesi, cercava di ottenere da quel re per il cardinale di Valenza
Ciarlotta figliuola di Federigo, che non ricevuto ancora marito
continuava di nutrirsi nella corte di Francia. Di che avendogli data
speranza il re, in arbitrio del quale pareva che fusse il maritarla,
il cardinale entrato una mattina in concistorio supplicò al padre e
agli altri cardinali che, atteso il non avere avuto mai l'animo
inclinato alla professione sacerdotale, gli concedessino facoltà di
lasciare la degnità e l'abito, per seguitare quello esercizio al
quale era tirato da' fati. E cosí, preso l'abito secolare, si
preparava ad andare presto in Francia; avendo già il pontefice
promesso al re la facoltà di fare con l'autorità apostolica il
divorzio con la moglie, e il re da altra parte obligatosi ad
aiutarlo, come prima avesse acquistato lo stato di Milano, a ridurre
alla ubbidienza della sedia apostolica le città possedute da' vicari
di Romagna, e a pagargli di presente trentamila ducati, sotto colore
di essere necessitato tenere per sua custodia maggiori forze, come
se il congiugnersi col re fusse per muovere molti in Italia a
cercare insidiosamente di opprimerlo: per esecuzione delle quali
convenzioni, e il re cominciò a pagare i danari e il pontefice
commesse la causa del divorzio al vescovo di Setta suo nunzio e a
[gli arcivescovi di Parigi e di Roano]. Nel quale giudicio, per suoi
procuratori, contradiceva da principio la moglie del re; ma
finalmente, avendo non meno a sospetto i giudici che la potenza
dello avversario, si convenne con lui di cedere alla lite, ricevendo
per sostentazione della sua vita la ducea di Berrí con trentamila
franchi di entrata: e cosí, confermato il divorzio per sentenza de'
giudici, non si aspettava, per la dispensa e consumazione del nuovo
matrimonio, altro che la venuta di Cesare Borgia; diventato già, di
cardinale e di arcivescovo di Valenza, soldato e duca Valentino,
perché il re gli aveva data la condotta di cento lancie e ventimila
franchi di provisione, e concedutogli, con titolo di duca, Valenza
città del Dalfinato con ventimila franchi di entrata. Il quale,
imbarcatosi a Ostia in su' navili mandatigli dal re, si condusse
alla fine dell'anno alla corte, dove entrò con pompa e con fasto
incredibile, ricevuto dal re onoratissimamente; e portò seco il
cappello del cardinalato a Giorgio di Ambuosa arcivescovo di Roano,
il quale, stato primo partecipe de' pericoli e della mala fortuna
del re, era appresso a lui di somma autorità. E nondimeno nel
principio non era grato il procedere suo, perché, seguitando il
consiglio paterno, negava d'avere portato seco la bolla della
dispensa, sperando che il desiderio dell'ottenerla avesse a fare il
re piú facile a' disegni suoi che non farebbe la memoria di averla
ricevuta. Ma essendo al re rivelata secretissimamente dal vescovo di
Setta la verità, egli, parendogli che in quanto a Dio bastasse
l'essere stata espedita la bolla, senza piú domandarla, consumò
apertamente il matrimonio con la nuova moglie: il che fu causa che
il duca Valentino, non potendo piú ritenergli la bolla, e avendo poi
risaputo essere stata manifestata questa cosa dal vescovo di Setta,
lo fece in altro tempo morire occultamente di veleno.
Né era meno sollecito il re a quietarsi co' príncipi vicini. Però
fece pace co' re di Spagna; i quali, deponendo i pensieri delle cose
d'Italia, non solo richiamorono tutti gl'imbasciadori che vi
tenevano, eccetto quello che risedeva appresso al pontefice, ma
feceno ritornare Consalvo con tutte le genti loro in Ispagna,
rilasciate a Federigo tutte le terre di Calavria che insino a quel
dí aveva tenute. Maggiore difficoltà era nella concordia col re de'
romani, il quale, con l'occasione di alcune sollevazioni nate nel
paese, era entrato nella Borgogna, aiutato a questo effetto di non
piccola somma di danari dal duca di Milano, che si persuadeva o che
la guerra di Cesare divertirebbe il re di Francia dalle imprese
d'Italia o che, facendosi concordia tra loro, vi sarebbe compreso,
come da Cesare aveva certissime promesse; ma dopo lunghe pratiche e
agitazioni il re fece nuova pace con l'arciduca rendendogli le terre
del contado di Artois, la qual cosa perché avesse effetto, in
beneficio del figliuolo, consentí il re de' romani di fare tregua
con lui per piú mesi, senza menzione del duca di Milano, col quale
pareva in questo tempo sdegnato, perché non aveva sempre sodisfatto
alle domande sue infinite di danari. Aveva oltre a queste cose il re
confermata la pace fatta dallo antecessore suo col re d'Inghilterra:
e rifiutando tutte le pratiche che gli erano state proposte di
ricevere a qualche composizione il duca di Milano, che con
grandissime offerte e usando grandissime corruttele si sforzava di
indurvelo, cercava di congiugnere seco in uno tempo medesimo i
viniziani e i fiorentini; e però faceva grandissima instanza che,
levate l'offese contro a' pisani, i viniziani dipositassino Pisa in
sua mano, e perché i fiorentini vi consentissino offeriva
secretamente di restituirla loro fra breve tempo. La quale pratica,
piena di molte difficoltà e concorrendovi diversi fini e interessi,
fu per molti mesi trattata variamente. Perché i fiorentini, essendo
necessario che in tal caso si collegassino col re di Francia, e
dubitando per la memoria delle promesse non osservate dal re Carlo
che 'l medesimo non intervenisse al presente, non convenivano tra
loro in uno medesimo parere; perché la città agitata tra l'ambizione
de' cittadini maggiori e la licenza del governo popolare, e
accostatasi per la guerra di Pisa al duca di Milano, era intra se
medesima divisa in modo che con difficoltà le cose di momento si
deliberavano concordemente, avendo massime alcuni de' principali
cittadini desiderio della vittoria del re di Francia altri in
contrario inclinando al duca di Milano: e i viniziani, quando bene
fussino risolute tutte l'altre difficoltà dello accordarsi col re,
erano deliberati di non consentire al diposito, sperando che, e nel
ristoro delle spese fatte per sostenere Pisa e nel lasciare la
difesa di Pisa con minore suo disonore, arebbono migliori condizioni
nella pratica che si teneva a Ferrara; la quale da Lodovico Sforza
era caldamente sollecitata, per timore che, conchiudendosi in
Francia il diposito, non si unissino col re amendue queste
republiche e per la speranza che, componendosi questa controversia
in Italia, i viniziani avessino a deporre i pensieri di offenderlo.
Per il quale rispetto e al re di Francia dispiaceva la pratica di
Ferrara e il pontefice, per trarre profitto degli affanni d'altri,
cercava indirettamente di perturbarla; perché essendo appresso al re
in tutte le cose d'Italia in grandissima autorità, sperava in
qualche modo, se il diposito nel re andava innanzi, avervi
partecipazione.
Lib.4, cap.6
Discussione a Venezia nel consiglio de' pregati intorno all'invito
d'alleanza del re di Francia contro Lodovico Sforza. Deliberazioni
prese da' veneziani. Conclusione della confederazione fra il re di
Francia ed i veneziani.
Ma a Vinegia, in questo tempo medesimo, si consultava se,
rimovendosi il re dalla dimanda del diposito alla quale aveano
deliberato non consentire, dovessino collegarsi seco a offesa del
duca di Milano, come egli con grandissima instanza ricercava,
offerendo di consentire che, in premio della vittoria, conseguissino
la città di Cremona e tutta la Ghiaradadda: la quale cosa benché da
tutti fusse sommamente desiderata, nondimeno a molti pareva
deliberazione di tanto momento, e tanto pericolosa allo stato loro
la potenza del re di Francia in Italia, che nel consiglio de'
pregati, che appresso a loro ottiene il luogo del senato, se ne
facevano varie disputazioni. Nel quale essendo uno giorno convocati
per farne l'ultima determinazione [Antonio Grimanno], uomo di grande
autorità, parlò in questa sentenza:
- Quando io considero, prestantissimi senatori, la grandezza de'
benefizi fatti a Lodovico Sforza dalla nostra republica, la quale in
questi anni prossimi gli ha conservato tante volte lo stato, e per
contrario quanta sia la ingratitudine usata da lui, e le ingiurie
gravissime che ci ha fatte per costrignerci ad abbandonare la difesa
di Pisa, alla quale prima ci aveva confortati e stimolati, non posso
persuadermi che non si conosca per ciascuno essere necessario fare
ogni opera possibile per vendicarcene. Perché quale infamia potrebbe
essere maggiore che, tollerando pazientemente tante ingiurie,
mostrarci a tutto il mondo dissimili dalla generosità de' nostri
maggiori? i quali, qualunque volta provocati da offese benché
leggiere, non ricusorono mai di mettersi a pericolo per conservare
la dignità del nome viniziano; e ragionevolmente, perché le
deliberazioni delle republiche non ricercano rispetti abietti e
privati, né che tutte le cose si riferischino all'utilità, ma fini
eccelsi e magnanimi per i quali si augumenti lo splendore loro e si
conservi la riputazione, la quale nessuna cosa piú spegne che il
cadere nel concetto degli uomini di non avere animo o possanza di
risentirsi delle ingiurie, né di essere pronto a vendicarsi: cosa
sommamente necessaria, non tanto per il piacere della vendetta
quanto perché la penitenza di chi ti ha offeso sia tale esempio agli
altri che non ardischino provocarti. Cosí viene in conseguenza
congiunta la gloria con l'utilità, e le deliberazioni generose e
magnanime riescono anche piene di comodità e di profitto; cosí una
molestia ne leva molte, e spesso una sola e breve fatica ti libera
da molte e lunghissime. Benché se noi consideriamo lo stato delle
cose d'Italia, la disposizione di molti príncipi contro a noi, e le
insidie le quali continuamente si ordinano per Lodovico Sforza,
conosceremo che non manco la necessità presente che gli altri
rispetti ci conduce a questa deliberazione. Perché egli, stimolato
dalla sua naturale ambizione e dall'odio che ha contro a questo
eccellentissimo senato, non vegghia non attende ad altro che a
disporre gli animi di tutti gli italiani, che a concitarci contro il
re de' romani e la nazione tedesca: anzi già comincia per il
medesimo effetto a tenere pratiche col turco. Già vedete per opera
sua con quante difficoltà, e quasi senza speranza, si sostenga la
difesa di Pisa e la guerra nel Casentino, la quale se si continua
incorriamo in gravissimi disordini e pericoli, se si abbandona senza
fare altro fondamento alle cose nostre è con tanta diminuzione di
riputazione che si accresce troppo l'animo di chi ha volontà di
opprimerci: e sapete quanto è piú facile opprimere chi ha già
cominciato a declinare che chi ancora si mantiene nel colmo della
sua riputazione. Delle quali cose apparirebbono chiarissimamente gli
effetti, e si sentirebbe presto lo stato nostro essere pieno di
tumulti e di strepiti di guerra, se il timore che noi non ci
congiugniamo col re di Francia non tenesse sospeso Lodovico: timore
che non può lungamente tenerlo sospeso. Perché chi è quello che non
conosca che il re, escluso dalla speranza della nostra
confederazione, o si implicherà in imprese di là da' monti o, vinto
dalle arti di Lodovico dalle corruttele e mezzi potentissimi che ha
nella sua corte, farà qualche composizione con lui? Strigneci
adunque a unirci col re di Francia la necessità di mantenere
l'antica degnità e gloria nostra, ma molto piú il pericolo imminente
e gravissimo che non si può fuggire con altro modo. E in questo ci
si dimostra molto propizia la fortuna, poiché ci fa ricercare da uno
tanto re di quel che aremmo a ricercarlo noi; offerendoci piú oltre
sí grandi e sí onorati premi della vittoria, per i quali può questo
senato proporsi alla giornata grandissime speranze, fabbricare ne'
suoi concetti grandissimi disegni, ottenendosi massime con tanta
facilità; perché chi dubita che da Lodovico Sforza non potrà essere
a due potenze sí grandi e sí vicine fatta alcuna resistenza? Dalla
quale deliberazione, se io non mi inganno, non debbe già rimuoverci
il timore che la vicinità del re di Francia, acquistato che arà il
ducato di Milano, ci diventi pericolosa e formidabile. Perché chi
considera bene conoscerà che molte cose che ora ci sono contrarie
allora ci saranno favorevoli; conciossiaché uno augumento tale di
quel re insospettirà gli animi di tutta Italia, irriterà il re de'
romani e la nazione germanica per la emulazione e per lo sdegno che
sia occupato da lui uno membro sí nobile dello imperio; in modo che
quegli che noi temiamo che ora non siano congiunti con Lodovico a
offenderci desidereranno allora, per l'interesse proprio, di
conservarci e di essere congiunti con noi; ed essendo grande per
tutto la riputazione del nostro dominio, grande la fama delle nostre
ricchezze, e maggiore l'opinione, confermata con sí spessi e
illustri esempli, della nostra unione e costanza alla conservazione
del nostro stato, non ardirà il re di Francia di assaltarci se non
congiunto con molti, o almeno col re de' romani: l'unione de' quali
è per molte cagioni sottoposta a tante difficoltà che è cosa vana il
prenderne o speranza o timore. Né la pace che ora spera d'ottenere
da' príncipi vicini di là da' monti sarà perpetua, ma la invidia le
inimicizie il timore del suo augumento desterà tutti quegli che
hanno seco odio o emulazione. E è cosa notissima quanto i franzesi
siano piú pronti ad acquistare che prudenti a conservare quanto per
l'impeto e insolenza loro diventino presto esosi a' sudditi. Però,
acquistato che aranno Milano, aranno piú tosto necessità di
attendere a conservarlo che comodità di pensare a nuovi disegni;
perché uno imperio nuovo non bene ordinato né prudentemente
governato aggrava, piú presto che e' faccia piú potente, chi
l'acquista: di che quale esempio è piú fresco e piú illustre che
l'esempio della vittoria del re passato? contro al quale si convertí
in sommo odio il desiderio incredibile con che era stato ricevuto
nel reame di Napoli. Non è adunque né sí certo né tale il pericolo,
che ci può dopo qualche tempo pervenire della vittoria del re di
Francia, che per fuggirlo abbiamo a volere stare in uno pericolo
presente e di grandissimo momento; e il rifiutare, per timore di
pericoli futuri e incerti, sí ricca parte e sí opportuna del ducato
di Milano non si potrebbe attribuire ad altro che a pusillanimità e
abiezione di animo, vituperabile negli uomini privati non che in una
republica piú potente e piú gloriosa che, dalla romana in fuora, sia
stata giammai in parte alcuna del mondo. Sono rare e fallaci
l'occasioni sí grandi, ed è prudenza e magnanimità, quando si
offeriscono, l'accettarle e, per contrario, sommamente reprensibile
il perderle; e la troppa curiosa sapienza e troppo consideratrice
del futuro è spesso vituperabile, perché le cose del mondo sono
sottoposte a tanti e sí vari accidenti che rare volte succede per
l'avvenire quel che gli uomini eziandio savi si hanno immaginato
avere a essere; e chi lascia il bene presente per timore del
pericolo futuro, quando non sia pericolo molto certo e propinquo, si
truova spesso, con dispiacere e infamia sua, avere perduto
l'occasioni piene di utilità e di gloria, per paura di quegli
pericoli che poi diventano vani. Per le quali ragioni il parere mio
sarebbe che si accettasse la confederazione contro al duca di
Milano, perché ci arreca sicurtà presente, estimazione appresso a
tutti i potentati, e acquisto tanto grande che altre volte
cercheremmo, e con travagli e spese intollerabili, di poterlo
ottenere, sí per la importanza sua come perché sarà l'adito e la
porta di augumentare maravigliosamente la gloria e lo imperio di
questa potentissima republica. -
Fu udito con grande attenzione e con gli orecchi molto favorevoli
l'autore di questa sentenza, e lodata da molti in lui la generosità
dell'animo suo e lo amore verso la patria. Ma in contrario parlò
[Marchionne Trivisano]:
- E' non si può negare, sapientissimi senatori, che le ingiurie
fatte da Lodovico Sforza alla nostra republica non sieno gravissime,
e con grande offesa della nostra degnità; nondimeno, quanto le sono
maggiori e quanto piú ci commuovono tanto piú è proprio ufficio
della prudenza moderare lo sdegno giusto con la maturità del
giudicio e con la considerazione dell'utilità e interesse publico,
perché il temperare se medesimo e vincere le proprie cupidità ha
tanto piú laude quanto è piú raro il saperlo fare, e quanto sono piú
giuste le cagioni dalle quali è concitato lo sdegno e l'appetito
degli uomini. Però appartiene a questo senato, il quale appresso a
tutte le nazioni ha nome sí chiaro di sapienza, e che prossimamente
ha fatto professione di liberatore d'Italia da' franzesi, proporsi
innanzi agli occhi la infamia che gli risulterà se ora sarà cagione
di fargli ritornare; e molto piú il pericolo che del continuo ci
sarà imminente se il ducato di Milano perverrà in potere del re di
Francia: il quale pericolo chi non considera da se stesso si riduca
in memoria quanto terrore ci dette l'acquisto che fece, il re Carlo,
di Napoli, dal quale non ci riputammo mai sicuri se se non quando
fummo congiurati contro a lui con quasi tutti i príncipi cristiani.
E nondimeno, che comparazione dall'uno pericolo all'altro! Perché
quello re, privato di quasi tutte le virtú regie, era principe quasi
ridicolo, e il regno di Napoli tanto lontano dalla Francia teneva in
modo divulse le forze sue che quasi indeboliva piú che accresceva la
sua potenza, e quello acquisto, per il timore degli stati loro tanto
contigui, gli faceva inimicissimi il papa e i re di Spagna; de'
quali ora l'uno si sa che ha diversi fini e che gli altri,
infastiditi delle cose d'Italia, non sono per implicarvisi senza
grandissima necessità: ma questo nuovo re, per la virtú propria, è
molto piú da temere che da sprezzare, e lo stato di Milano è tanto
congiunto col reame di Francia che, per la comodità di soccorrerlo,
non si potrà sperare di cacciarnelo se non commovendo tutto il
mondo. E però noi, vicini a sí maravigliosa potenza, staremo nel
tempo della pace in gravissima spesa e sospetto, e in tempo di
guerra saremo tanto esposti alle offese sue che sarà difficillimo il
difenderci. E certamente, io non udivo senza ammirazione che, chi ha
parlato innanzi a me, da una parte non temeva di uno re di Francia
signore del ducato di Milano, dall'altra si dimostrava in tanto
spavento di Lodovico Sforza, principe molto inferiore di forze a
noi, e che con la timidità e avarizia ha messo sempre in grave
pericolo le imprese sue. Spaventavanlo gli aiuti che arebbe da
altri, come se fusse facile il fare, in tante diversità di animi e
di volontà e in tanta varietà di condizioni, tale unione, o come se
non fusse da temere molto piú una potenza grande unita tutta insieme
che la potenza di molti; la quale come ha i movimenti diversi cosí
ha diverse e discordanti l'operazioni. Confidava che in coloro i
quali, per odio e per varie cagioni, desiderano la nostra
declinazione si troverebbe quella prudenza da vincere gli sdegni e
le cupidità che noi non troviamo in noi medesimi a raffrenare questi
ambiziosi pensieri. Né io so perché debbiamo prometterci che nel re
de' romani e in quella nazione possa piú l'emulazione e lo sdegno
antico e nuovo contro al re di Francia, se acquisterà Milano, che
l'odio inveterato che hanno contro a noi che tegniamo tante terre
appartenenti alla casa d'Austria e allo imperio; né so perché il re
de' romani si congiugnerà piú volentieri con noi contro al re di
Francia che con lui contro a noi: anzi è piú verisimile l'unione de'
barbari, inimici eterni del nome italiano, e a una preda piú facile;
perché unito con lui potrà piú sperare vittoria di noi che unito con
noi non potrà sperare di lui. Senza che, l'azioni sue nella lega
passata, e quando venne in Italia, furono tali che io non so per che
causa s'abbia tanto a desiderare di averlo congiunto seco. Hacci
ingiuriato Lodovico gravissimamente, nessuno lo nega, ma non è
prudenza mettere, per fare vendetta, le cose proprie in pericolo sí
grave, né è vergogna aspettare a vendicarsi gli accidenti e
l'occasioni che può aspettare una republica; anzi è molto vituperoso
lasciarsi innanzi al tempo traportare dallo sdegno, e nelle cose
degli stati è somma infamia quando la imprudenza è accompagnata dal
danno. Non si dirà che queste ragioni ci muovino a una impresa sí
temeraria, ma si giudicherà per ciascuno che noi siamo tirati dalla
cupidità d'avere Cremona; però da ciascuno sarà desiderata la
sapienza e la gravità antica di questo senato, ciascuno si
maraviglierà che noi incorriamo in quella medesima temerità nella
quale ci maravigliammo tanto noi che fusse incorso Lodovico Sforza,
di avere condotto il re di Francia in Italia. L'acquisto è grande e
opportuno a molte cose, ma considerisi se sia maggiore perdita
l'avere uno re di Francia signore dello stato di Milano: considerisi
quanto sia maggiore la nostra potenza e riputazione, o quando siamo
i principali d'Italia o quando in Italia è uno principe tanto
maggiore e tanto vicino a noi. Con Lodovico Sforza abbiamo altre
volte avuto e discordia e concordia, cosí può tra noi e lui accadere
ogni dí, e la difficoltà di Pisa non è tale che non si possa trovare
qualche rimedio, né merita che per questo ci mettiamo in tanto
precipizio; ma co' franzesi vicini aremo sempre discordia perché
regneranno sempre le medesime cagioni: la diversità degli animi tra
barbari e italiani, la superbia de' franzesi, l'odio col quale i
príncipi perseguitano sempre, per natura, le republiche e la
ambizione che hanno i piú potenti di opprimere continuamente i meno
potenti. E però non solo non mi invita l'acquisto di Cremona, anzi
mi spaventa, perché arà tanto piú occasione e stimoli a offenderci,
e sarà tanto piú concitato da' milanesi che non potranno tollerare
l'alienazione di Cremona da quello ducato; e la medesima cagione
irriterà la nazione tedesca e il re de' romani, perché medesimamente
Cremona e la Ghiaradadda è membro della giurisdizione dello imperio.
Non sarebbe almanco biasimata tanto la nostra ambizione, né
cercheremmo con nuovi acquisti farci ogni dí nuovi inimici, e piú
sospetti a ciascuno: per il che bisognerà finalmente o che noi
diventiamo superiori a tutti o che noi siamo battuti da tutti; e
quale sia piú per succedere è facile a considerare a chi non ha
diletto di ingannarsi da se medesimo. La sapienza e la maturità di
questo senato è stata conosciuta e predicata per tutta Italia e per
tutto il mondo molte volte; non vogliate macularla con sí temeraria
e sí pericolosa deliberazione. Lasciarsi traportare dagli sdegni
contro all'utilità propria è leggerezza, stimare piú i pericoli
piccoli che i grandissimi è imprudenza; le quali due cose essendo
alienissime dalla sapienza e gravità di questo senato, io non posso
se non persuadermi che la conclusione che si farà sarà moderata e
circospetta, secondo la vostra consuetudine. -
Non potette tanto questa sentenza, sostentata da sí potenti ragioni
e dalla autorità di molti che erano de' principali e de' piú savi
del senato, che non potesse molto piú la sentenza contraria,
concitata dall'odio e dalla cupidità del dominare, veementi autori
di qualunque pericolosa deliberazione; perché era smisurato l'odio
negli animi di ciascuno contro a Lodovico Sforza conceputo, né
minore il desiderio di aggiugnere allo imperio veneto la città di
Cremona col suo contado e con tutta la Ghiaradadda; aggiunta stimata
assai, perché ciascuno anno se ne traevano di entrata almeno
centomila ducati, e molto piú per l'opportunità; conciossiaché,
abbracciando con questo augumento quasi tutto il fiume dell'Oglio,
distendevano i loro confini insino in sul Po e ampliavangli per
lungo spazio in sul fiume di Adda, e appressandosi a quindici miglia
alla città di Milano e alquanto piú alle città di Piacenza e di
Parma, pareva loro quasi aprirsi la strada a occupare tutto il
ducato di Milano, qualunque volta il re di Francia avesse o nuovi
pensieri o potenti difficoltà di là da' monti. Il che potere
succedere, innanzi che passasse molto tempo, dava speranza la natura
de' franzesi, piú atti ad acquistare che a mantenere; l'essere quasi
perpetua la loro republica e nel regno di Francia accadere spesso,
per la morte de' re, variazione di pensieri e di governi; la
difficoltà di conservarsi la benivolenza de' sudditi, per la
diversità del sangue e de' costumi franzesi con gl'italiani. Però,
confermata col voto de' piú questa sentenza, commessono agli oratori
loro che erano appresso al re che conchiudessino con le condizioni
offerte questa confederazione, ogni volta che in essa delle cose di
Pisa non si trattasse.
La quale eccezione turbò non mediocremente l'animo del re, perché
sperava col mezzo del diposito unire alla impresa sua i viniziani e
i fiorentini; e sapendo che già i viniziani erano inclinati a
rimuoversi per accordo dalla difesa di Pisa, gli pareva conveniente
che piú presto dovessino farlo in modo che si accrescesse facilità
alla vittoria dello stato di Milano, poiché aveva a ridondare a
beneficio comune, che, per avere alquanto migliori condizioni nella
concordia, essere cagione che i fiorentini restassino congiunti con
Lodovico Sforza: per il mezzo del quale sapendo tenersi la pratica
di Ferrara, aveva non piccola dubitazione che, conchiudendosi per
sua opera, né i viniziani né i fiorentini alla fine fussino con lui.
Però, parendogli poco prudente quella deliberazione per la quale
restasse in dubbio dell'una e dell'altra republica, e sdegnato della
diffidenza che si dimostrava di lui, si inclinò a fare piú presto la
pace, che continuamente si trattava, col re de' romani, con
condizione che all'uno fusse libero fare la guerra contro a Lodovico
Sforza, all'altro il farla contro a' viniziani. Fece adunque
rispondere, da' deputati che trattavano in nome suo con gli oratori
viniziani, non volere convenire con loro se insieme non si dava
perfezione al diposito trattato di Pisa, e a quegli de' fiorentini
disse egli medesimo che stessino sicuri che non concorderebbe mai
co' viniziani in altra forma. Ma non lo lasciorono stare fermo in
questo proposito il duca Valentino con gli altri agenti del
pontefice, e il cardinale di San Piero a Vincola, Gianiacopo da
Triulzi e tutti quegli italiani che per gli interessi propri lo
incitavano alla guerra: i quali, con molte ed efficaci ragioni, gli
persuaseno che, per la potenza de' viniziani e per l'opportunità che
avevano a offendere il ducato di Milano, non poteva essere piú
pernicioso consiglio che privarsi de' loro aiuti per timore di non
perdere quegli de' fiorentini, i quali, per i travagli loro e perché
erano lontani a quello stato, potevano essergli di poco profitto; e
che questo facilmente causerebbe che Lodovico Sforza, rimovendosi,
per riconciliarsi co' viniziani, dal favore de' fiorentini, il che
era stato causa di tutte le discordie tra loro, si riunirebbe con
essi. Donde che difficoltà fussino per nascere, essendo congiunti i
viniziani e Lodovico, dimostrarsi, se non per altro, per la
esperienza degli anni passati; perché se bene nella lega fatta
contro a Carlo fusse concorso il nome di tanti re, nondimeno le
forze solamente de' viniziani e di Lodovico avergli tolto Novara, e
difeso sempre contro a lui il ducato di Milano. Ricordavangli essere
fallace e pericoloso consiglio il fare fondamento in su l'unione con
Massimiliano, nel quale si erano, insino a quel dí, veduti i disegni
assai maggiori che la facoltà o la prudenza del colorirgli; e quando
pure fusse per avere successi piú prosperi che per l'addietro,
doversi considerare quanto fusse a proposito l'augumento di uno
inimico perpetuo e sí acerbo alla corona di Francia. Con le quali
ragioni commosseno in modo il re che, mutata sentenza, consentí che
senza parlare piú delle cose di Pisa si conchiudesse la
confederazione co' viniziani: nella quale fu convenuto che nel tempo
medesimo che egli assaltasse con potente esercito il ducato di
Milano essi, da altra banda, facessino, di verso i loro confini, il
medesimo; e che guadagnandosi per lui tutto il resto del ducato,
Cremona con tutta la Ghiaradadda, eccettuata però la riva di Adda
per quaranta braccia, si acquistasse a' viniziani; e che acquistato
che avesse il re il ducato di Milano, i viniziani fussino obligati,
per certo tempo e con determinato numero di cavalli e di fanti, a
difenderlo; e da altra parte il re fusse tenuto al medesimo per
Cremona e quello possedevano in Lombardia e insino agli stagni
viniziani. La quale convenzione fu contratta con tanto segreto che a
Lodovico Sforza stette occulto per piú mesi se fusse fatta tra loro
solo confederazione a difesa, come da principio era stato
solennemente publicato nella corte di Francia e a Vinegia, o se pure
vi fussino capitoli concernenti l'offesa sua; né il papa medesimo,
che era tanto congiunto col re, potette se non tardi averne
certezza.
Lib.4, cap.7
Vicende della guerra fra veneziani e fiorentini nel Casentino.
Ercole d'Este in Venezia si pronunzia sul compromesso fra veneziani
e fiorentini riguardo a Pisa. Malcontento pel compromesso in Venezia
e lamentele degli oratori pisani. Aggiunte al compromesso
all'insaputa de' fiorentini. Venezia delibera di ritirare le milizie
da Pisa. A Pisa si delibera di tentare ogni cosa pur di non tornare
soggetti a Firenze.
Fatta la lega co' viniziani, il re, senza fare piú menzione di Pisa,
propose a' fiorentini condizioni molto diverse dalle prime: per la
quale cagione e per le molestie che riceveano da' viniziani, erano
tanto piú necessitati ad accostarsi al duca di Milano, con gli aiuti
del quale le cose loro prosperavano continuamente nel Casentino.
Dove gli inimici, danneggiati spesso da' soldati e da' paesani, e
combattendo con la difficoltà delle vettovaglie e specialmente di
sostentare i cavalli, si erano ristretti in Bibbiena e in
alcun'altre piccole terre; non intermettendo però la diligenza di
tenere i passi dello Apennino, per avere aperta la via del soccorso
e la facoltà, quando pure fussino necessitati, di abbandonare con
minore danno il Casentino: però a guardia del passo di Montalone si
era fermato Carlo Orsino con le sue genti d'arme e con cento fanti;
e piú basso, quello della Vernia si guardava dall'Alviano. E da
altra parte Pagolo Vitelli, procedendo maturamente secondo il
consueto suo, poiché gli ebbe ridotti in sí pochi luoghi, si
sforzava di costrignergli a partirsi dal passo di Montalone, con
intenzione di mettere poi in necessità di fare il medesimo coloro
che guardavano il passo della Vernia; acciocché le genti viniziane,
ristrette in Bibbiena sola e circondate per tutto dagl'inimici e da'
monti, o fussino vinte facilmente o si consumassino per loro
medesime; essendo massime molto diminuite, perché, oltre a quegli
che erano stati ora qua ora là svaligiati, se ne erano, per la
incomodità delle vettovaglie e difficoltà di sicuri alloggiamenti,
partiti in piú volte piú di mille cinquecento cavalli e moltissimi
fanti: de' quali, assaltati nel passare dell'alpi da' paesani, la
maggiore parte aveva ricevuto gravissimo danno. Costrinseno alla
fine queste difficoltà Carlo Orsino ad abbandonare co' suoi il passo
di Montalone, non senza pericolo di essere rotti, perché, sapendosi
non potervi piú dimorare, molti de' soldati de' fiorentini e degli
uomini del paese, che stavano vigilanti a questa occasione, gli
assaltorono nel cammino: ma essi, avendo già preso il vantaggio de'
passi, benché perdessino parte de' carriaggi, si difeseno, e con
danno non piccolo di quegli che disordinatamente gli seguitavano.
L'esempio di Carlo Orsino fu, per le medesime necessità, seguitato
da quegli che erano alla Vernia e a Chiusi, che abbandonati que'
passi si ritirorono in Bibbiena, ove si fermorono il duca d'Urbino,
l'Alviano, Astore Baglione, Piero Marcello proveditore viniziano e
Giuliano de' Medici; riservatisi per guardia di quella terra, che
sola tenevano in Casentino, sessanta cavalli e settecento fanti. Né
gli sostentava altro che la speranza del soccorso, il quale i
viniziani preparavano giudicando che, in quanto alla conservazione
dell'onore e molto piú a farsi migliori le condizioni dell'accordo,
importasse non poco il non abbandonare totalmente la impresa del
Casentino: e però il conte di Pitigliano raccoglieva a Ravenna con
gran prestezza le genti disegnate a soccorrerla, sollecitandolo le
spesse querele del duca d'Urbino e degli altri; i quali,
significando cominciare a mancare loro le vettovaglie, protestavano
essere ridotti a mancamento tale di vivere che bisognerebbe che per
salvarsi facessino presto patti con gli inimici. E per contrario,
arebbono desiderato il duca di Milano e i capitani che erano nel
Casentino prevenire il soccorso con la espugnazione di Bibbiena, e
però dimandavano che si aggiugnessino quattromila fanti a quegli che
erano nel campo; ma repugnavano al desiderio loro molte difficoltà,
perché in paese freddo e alpestre i tempi che erano asprissimi
impedivano assai l'azioni militari, e i fiorentini non erano molto
pronti a questa provisione, parte per essere molto stracchi per le
gravi e lunghe spese fatte e che continuamente facevano, parte
perché nella città, per altre cagioni poco concorde, si era scoperta
nuova dissensione; essendo alcuni de' cittadini fautori di Pagolo
Vitelli, altri inclinati a esaltare il conte Renuccio, antico e
fedele condottiere di quella republica e che aveva in Firenze
parenti di autorità: il quale, caduto per l'avversità che ebbe a
Santo Regolo della speranza del primo luogo, malvolentieri tollerava
vederlo trasferito a Pagolo; e trovandosi con la compagnia sua in
Casentino, non era pronto a quelle imprese dalle quali potesse
accrescersi la riputazione di chi arebbe desiderato deprimere.
Diventavano maggiori queste difficoltà per la natura di Pagolo,
vantaggioso ne' pagamenti, difficile co' commissari fiorentini, e
che spesso nella deliberazione ed espedizione delle cose si arrogava
piú autorità che non parea conveniente. E, pure allora, avea senza
saputa de' commissari conceduto al duca d'Urbino, ammalato,
salvocondotto di partirsi sicuramente del Casentino; sotto la
fidanza del quale salvocondotto si era partito oltre a lui Giuliano
de' Medici, con grave dispiacere de' fiorentini, che si persuadevano
che, se al duca si fusse difficultato il partirsi, che il desiderio
di andare a ricuperare nello stato suo la sanità l'arebbe costretto
a concordare di levare le genti di Bibbiena; e si dolevano
similmente che a Giuliano, ribelle prima e che era venuto con l'armi
contro alla patria, fusse stata fatta senza saputa loro tale
abilità. Toglievano queste cose fede in Firenze a' consigli e alle
dimande di Pagolo: e molto piú che la guerra non procedeva con molta
sua riputazione appresso al popolo, perché e qualche fazione
importante era stata fatta piú da' paesani che da' soldati e perché,
per l'opinione grande che avevano del suo valore, si erano promessi
molto prima la vittoria degli inimici; attribuendo, come è natura
de' popoli, a non volere quello che si doveva attribuire piú presto
a non potere, per l'asprezza de' tempi e per il mancamento delle
provisioni. E però, tardandosi di fare l'augumento de' quattromila
fanti, ebbe tempo il conte di Pitigliano di venire a Castello
d'Elci, castello del ducato d'Urbino vicino a' confini de'
fiorentini, ove prima erano Carlo Orsino e Piero de' Medici, e ove
si faceva la massa di tutte le genti per passare l'Apennino; le
quali si ordinavano, come piú atte alla fortezza e alla penuria del
paese, piú copiose assai di fanteria che di uomini d'arme, e questi
piú presto con leggiera che con grave armadura. Fu questo l'ultimo
sforzo che feciono i viniziani per le cose del Casentino. Il quale
per interrompere, Pagolo Vitelli, lasciato leggieri assedio intorno
a Bibbiena e la guardia necessaria a' passi opportuni, andò col
resto delle genti alla Pieve a Santo Stefano, terra de' fiorentini
situata al piede dell'alpi, per opporsi agli inimici nello scendere
di quelle. Ma il conte di Pitigliano, avendo innanzi a sé l'alpi
cariche di neve, e a piè dell'alpi l'opposizione potente e la
strettezza de' passi, difficili, quando si ha ostacolo, non che
altro ne' tempi benigni, a superare, non ardí mai di tentare di
passare; con tutto che con gravi querele ne fusse molto stimolato
dal senato viniziano, piú veemente, secondo diceva egli, a morderlo
che sollecito a provederlo: e se bene gli fussino proposti disegni
di qualche diversione, e già in Valdibagno fusse data qualche
molestia alle terre de' fiorentini, non fece, per questo, momento
alcuno.
Ma quanto piú procedevano fredde l'opere della guerra tanto piú
riscaldavano le pratiche dello accordo, desiderato per diversi
rispetti dall'una parte e dall'altra, ma non meno desiderato e
sollecitato dal duca di Milano; il quale, spaventato per la lega
fatta tra il re di Francia e i viniziani, sperava che, succedendo
questa concordia, i viniziani desidererebbono manco la passata de'
franzesi, e persuadendosi di piú che, sodisfatti in questo caso
della volontà e opere sue, avessino, almeno in qualche parte, a
mitigare l'indegnazione conceputa contro a sé. Però, interponendosi
tra loro appresso a Ercole da Esti suo suocero, costrigneva i
fiorentini a cedere a qualche desiderio de' viniziani, non tanto con
l'autorità, perché appresso a loro, accortisi del suo disegno,
cominciava già a essere sospetta la sua interposizione, quanto con
lo accennare che, non si facendo la concordia, sarebbe necessitato,
per il timore che aveva del re di Francia, rimuovere se non tutte
almeno parte delle sue genti da' loro favori. Trattossi molti mesi
questa cosa a Ferrara, e interponendosi varie difficoltà, fu
ricercato Ercole da' viniziani che per facilitare l'espedizione
andasse personalmente a Vinegia: di che egli faceva qualche
difficoltà, ma molto maggiore i fiorentini perché sapevano i
viniziani desiderare che in Ercole si facesse compromesso, dalla
qual cosa essi erano molto alieni; ma fu tanta la instanza di
Lodovico Sforza che finalmente Ercole si dispose ad andarvi, e i
fiorentini a mandare insieme con lui Giovambatista Ridolfi e
Pagol'Antonio Soderini, due de' principali e de' piú prudenti
cittadini della loro republica. A Vinegia fu la prima disputazione
se Ercole avesse, con autorità d'arbitro, a finire la controversia
o, come amico comune interponendosi tra le parti, a cercare di
comporle, come insino allora si era proceduto a Ferrara e ridotti a
non molta difficoltà gli articoli principali e piú importanti.
Questo desideravano i fiorentini, conoscendo che Ercole, in quello
che avesse a dipendere dall'arbitrio suo, terrebbe piú conto della
grandezza de' viniziani che di loro, e che riducendosi a pronunziare
il lodo in Vinegia sarebbe necessitato tanto piú ad avere loro
maggiore rispetto, e quel che non facesse per se medesimo lo
indurrebbe a fare il duca di Milano, poiché tanto desiderava che i
viniziani conoscessino essere in questo negozio utili loro le sue
operazioni; e se bene molte difficoltà fussino quasi risolute a
Ferrara, pure, e nell'ultima loro perfezione e in molti particolari,
non restava piccola la potestà dell'arbitro; senza che,
compromettendosi in lui, era in sua facoltà partirsi da quello che
prima era stato trattato. Da altra parte i viniziani aveano
deliberato, se non si faceva il compromesso, di non procedere piú
oltre: non tanto per promettersi piú dello arbitrio che non si
promettevano i fiorentini, quanto perché questa materia aveva tra
loro medesimi molte difficoltà. Conciossiaché tutti, stracchi dalle
spese gravissime con piccola speranza di frutto, desiderassino la
concordia, ma i piú giovani massime e i piú feroci del senato non la
volessino se a' pisani non si conservava interamente la libertà, e
se non rimaneva loro almeno quella parte del contado che e'
possedevano quando furono ricevuti in protezione; per la quale
opinione allegavano molte ragioni, ma quella principalmente che,
essendosi con publico decreto promesso allora a' pisani di
conservargli in libertà, non si poteva mancarne senza maculare
sommamente lo splendore della republica: alcuni altri, rendendosi
manco difficili nelle altre cose, erano immoderati nella quantità
delle spese le quali ricercavano che, abbandonando Pisa, fussino
loro rifatte da' fiorentini. Ma in contrario era il parere di quasi
tutti i senatori piú savi e di maggiore autorità: i quali, stracchi
di tante spese, e disperati totalmente della difesa di Bibbiena e di
potere piú senza grandissimo travaglio sostenere le cose di Pisa,
per le difficoltà che avevano trovate e nel mandarvi soccorso e nel
fare diversione, essendo riuscita maggiore la resistenza de'
fiorentini che da principio non si erano persuasi, considerando
oltre a questo che, benché la impresa contro al duca di Milano fusse
giudicata dovere essere facile, nondimeno che, non essendo il re di
Francia pacificato col re de' romani e sottoposto a vari impedimenti
che potevano sopravenirgli di là da' monti, potrebbe essere per
molti casi ritardato a muovere la guerra e, quando pure la movesse,
che nelle cose belliche possono nascere di dí in dí molte e
inopinate difficoltà e pericoli, ma sopratutto spaventati dagli
apparati grandi, terrestri e marittimi, che si diceva fare Baiseth
ottomanno per assaltargli nella Grecia, si risolvevano essere
necessario consentire piú presto, poi che altrimenti non si poteva,
che l'onestà cedesse in qualche parte all'utilità che, per mantenere
pertinacemente la fede data, perseverare in tante molestie. E perché
erano certi che con grandissima difficoltà sarebbeno consentite ne'
loro consigli quelle conclusioni alle quali, insino dal principio,
conoscevano essere necessario declinare, avevano prudentemente,
quando si cominciò a trattare a Ferrara, procurato che dal consiglio
de' pregati fusse data amplissima autorità sopra le cose di Pisa e
dello accordo co' fiorentini al consiglio de' dieci, nel quale
consiglio, molto minore di numero, intervengono tutti gli uomini di
piú gravità e autorità, che erano la maggiore parte di quegli
medesimi che desideravano questa concordia: e ora, condotta la
pratica a Vinegia, non si confidando di disporre il consiglio de'
pregati a consentire agli articoli trattati a Ferrara, e conoscendo
che il consentirgli da per sé il consiglio de' dieci sarebbe di
molto carico a chi vi intervenisse, instavano che si facesse il
compromesso, sperando che del giudicio che ne nascesse si
risentirebbono piú gli uomini contro all'arbitro che contro a loro,
e che piú facilmente avesse a essere ratificato quello che già fusse
lodato che consentito quando si trattasse per via di concordia con
la parte. Però, dopo disputa di qualche dí, minacciando il duca di
Milano i fiorentini, che ricusavano di compromettere, di levare
subito di Toscana tutte le genti sue, fu fatto il compromesso per
otto dí, libero e assoluto, in Ercole duca di Ferrara. Il quale,
dopo molta discussione, pronunziò, il sesto dí di aprile: che fra
otto dí prossimi si levassino l'offese tra i viniziani e i
fiorentini, e che il dí della festività prossima di santo Marco
tutte le genti e aiuti di ciascuna delle parti si partissino e
ritornassino agli stati propri, e che i viniziani il dí medesimo
levassino di Pisa e del suo contado tutte le genti che v'avevano, e
abbandonassino Bibbiena e tutti gli altri luoghi che occupavano de'
fiorentini, i quali perdonassino agli uomini di Bibbiena i falli
commessi; e che per ristoro delle spese fatte, quali affermavano i
viniziani ascendere a ottocentomila ducati, fussino obligati i
fiorentini a pagare loro, insino in dodici anni, quindicimila ducati
per anno: che a' pisani fusse conceduta venia di tutti i delitti
fatti, facoltà di esercitare per mare e per terra ogni qualità di
arti e di mercatanzie: stessino in custodia loro le fortezze di Pisa
e de' luoghi che il dí del lodo dato possedevano, ma con patto che
de' pisani si eleggessino le guardie, o d'altronde, di persone non
sospette a' fiorentini, e fussino pagate delle entrate che
caverebbono di Pisa i fiorentini, non accrescendo né il numero degli
uomini né la spesa consueta a tenersi innanzi alla rebellione:
rovinassinsi, se cosí paresse a' pisani, tutte le fortezze del
contado proprio di Pisa state ricuperate da' fiorentini mentre che i
viniziani avevano la loro protezione: che in Pisa le prime instanze
de' giudici civili fussino giudicate da uno podestà forestiere,
eletto da' pisani di luogo non sospetto a' fiorentini; e il capitano
eletto da' fiorentini non conoscesse se non delle cause delle
appellazioni né potesse procedere, in caso alcuno criminale dove si
trattasse di sangue d'esilio o di confiscazione, senza il consiglio
di uno assessore, eletto da Ercole o da' suoi successori, di cinque
dottori di legge che del dominio suo gli fussino proposti da'
pisani: restituissinsi a' padroni i beni mobili e immobili occupati
da ogni parte, intendendosi ciascuno assoluto da' frutti presi; e in
tutte l'altre cose lasciate illese le ragioni de' fiorentini in Pisa
e nel suo territorio, e proibito a' pisani che circa le fortezze e
qualunque altra cosa non macchinassino contro alla republica
fiorentina.
Publicato il lodo in Vinegia, si levorono per tutta la città e nella
nobiltà, contro a Ercole e contro a' principali che avevano
maneggiato questa pratica, molte querele; biasimandosi per la
maggiore parte che a' pisani si mancasse, con grandissima infamia
della republica, della fede promessa, e lamentandosi che delle spese
fatte nella guerra non fusse stata avuta la considerazione
conveniente. Le quali querele accendevano assai i loro oratori, che
innanzi al lodo dato stati tenuti artificiosamente da' viniziani in
speranza che indubitatamente resterebbono con piena libertà e che
sarebbe aggiudicato loro non solo il resto del contado ma forse il
porto di Livorno, si risentivano tanto piú quanto piú gli effetti
riuscivano contrari a quello che si erano persuasi; lamentandosi che
le promesse della conservazione della libertà fatte loro tante volte
da quel senato, sotto la fede del quale avevano disprezzato
l’amicizia di tutti gli altri potentati e rifiutato piú volte
condizioni molto migliori offerte da' fiorentini, fussino sí
indegnamente violate, né proveduto anche alla loro sicurtà se non
con apparenze vane. Perché, come potevano essere sicuri che i
fiorentini, rimettendo in Pisa i magistrati, e ritornandovi con la
restituzione del commercio i mercatanti e sudditi loro, e da altra
parte partendosene per andare alle proprie abitazioni e culture i
contadini che erano stati membro grande della difesa di quella
città, non pigliassino con qualche fraude il dominio assoluto? il
che potrebbono fare con grandissima facilità, e massime restando in
potere loro la guardia delle porte. E che sicurtà essere avere le
fortezze in mano, se quegli che le guardavano avevano a essere
pagati da' fiorentini, né fusse lecito in tanto sospetto tenervi
guardia maggiore di quella che soleva tenersi ne' tempi tranquilli e
sicuri? Essere medesimamente vana la perdonanza delle cose commesse,
poi che si concedeva a' fiorentini facoltà di distruggergli per via
della ragione e de' giudíci, perché le mercatanzie e gli altri beni
mobili tolti nel tempo della ribellione ascendevano a tanta valuta
che non solo occuperebbeno le loro sostanze ma né sarebbeno sicure
dalle carceri le persone. Le quali querele per estinguere, i
principali del senato operorno che il dí seguente, benché fusse
spirato il termine del compromesso, Ercole, il quale intesa tanta
indegnazione di quasi tutta la città temeva di se medesimo,
aggiugnesse al lodo dato, senza saputa degli oratori fiorentini,
dichiarazione che sotto nome delle fortezze si intendessino le porte
della città di Pisa e dell'altre terre che avevano le fortezze, per
la guardia delle quali, e per i salari del podestà e dell'assessore,
fusse assegnata a' pisani certa parte delle entrate di Pisa; e che i
luoghi non sospetti de' quali si faceva menzione nel lodo fussino lo
stato della Chiesa, di Mantova, di Ferrara e di Bologna, esclusine
però gli stipendiari di altri; e che alla restituzione de' beni
mobili fusse imposto perpetuo silenzio: fusse in potestà de' pisani
nominare l'assessore, di qualunque luogo non sospetto: non
procedesse il capitano in alcuna causa criminale benché minima senza
l'assessore: fussino i pisani trattati bene da' fiorentini, secondo
l'uso delle altre città nobili d'Italia; né potessino essere poste
loro nuove gravezze. La quale dichiarazione non fu procurata perché
i viniziani desiderassino che la fusse osservata ma per raffreddare
l'ardore degli oratori pisani, e per giustificarsi nel consiglio de'
pregati che se non si era ottenuta la libertà de' pisani si era
almanco proveduto tanto alla sicurtà e bene essere loro che non si
potrebbe dire fussino dati in preda o abbandonati. Nel quale
consiglio, dopo molte dispute, prevalendo pure la considerazione
delle condizioni de' tempi e delle difficoltà del sostenere i
pisani, e sopratutto il timore dell'armi del turco, fu deliberato
che il lodo con espresso consentimento non si ratificasse ma, quel
che è piú efficace in tutte le cose, si mettesse a esecuzione co'
fatti, levando fra gli otto dí l'offese e rimovendo le genti di
Toscana al tempo determinato, con intenzione di piú non
intromettersene: piú tosto, per sospetto che Pisa non cadesse in
potestà del duca di Milano, cominciavano molti del senato a
desiderare che la ricuperassino i fiorentini.
Né in Firenze, inteso che fu il tenore del lodo dato, si dimostrò
minore movimento di animi; aggravandosi di avere a rifare parte
delle spese a chi gli aveva ingiustamente molestati, e molto piú non
parendo loro conseguire altro che il nome nudo del dominio, poiché
le fortezze avevano a essere guardate per i pisani e che
l'amministrazione della giustizia criminale, uno de' membri
principali alla conservazione degli stati, non aveva a essere libera
de' loro magistrati: nondimeno, sforzandogli a ratificare i medesimi
protesti del duca di Milano che gli avevano indotti a compromettere,
e sperando di avere in progresso di breve tempo, con la industria e
con l'usare umanità a' pisani, a ridurre le cose a migliore forma,
ratificorno espressamente il lodo dato; ma non l'addizioni, non
ancora pervenute a notizia loro. Maggiore fu la indegnazione e
l'ambiguità de' pisani: i quali, concitati maravigliosamente contro
al nome viniziano e insospettiti di maggiore fraude, subito che
ebbono inteso quel che si conteneva nel lodo, rimossono le genti
loro dalla guardia delle fortezze di Pisa e delle porte né vollono
che piú alloggiassino nella città, e stetteno in dubitazione grande
molti dí se accettavano le condizioni del lodo o no; piegandogli da
una parte il timore, poiché si vedevano abbandonati da tutti, da
altra tenendogli fermi l'odio de' fiorentini, e molto piú la
disperazione di avere a trovare perdono per la grandezza delle
offese fatte e per essere stati cagione di infinite spese e danni
loro, e di avergli messo piú volte in pericolo della propria
libertà. Nella quale ambiguità benché il duca di Milano gli
confortasse a cedere, offerendo di essere mezzo co' fiorentini a
vantaggiare le condizioni del lodo, nondimeno, per tentare se in lui
fusse piú l'antica cupidità e disposti in tal caso a darsegli
liberamente, gli mandorono imbasciadori; e finalmente, dopo lunghi
pensieri e agitazioni, determinorono di tentare prima ogni cosa
estrema che tornare sotto il dominio de' fiorentini: e a questo
furono occultamente confortati da' genovesi da' lucchesi e da
Pandolfo Petrucci. Né stettono i fiorentini senza sospetto che 'l
duca di Milano, benché la verità fusse in contrario, non gli avesse
confortati al medesimo: tanto poco si aspetta sincerità o opere
fedeli da chi è venuto in concetto degli uomini di essere solito a
governarsi con duplicità e con artifici. Ma a' fiorentini, esclusi
dalla speranza di ottenere Pisa per accordo, parve avere occasione
opportuna di espugnare quella città; però, fatto ritornare nel
contado di Pisa Pagolo Vitelli, sollecitavano con diligenza grande
le provisioni richieste da lui.
Lib.4, cap.8
Il re di Francia si prepara alla spedizione contro Lodovico Sforza.
I fiorentini sollecitati dal re di Francia e da Lodovico deliberano
di non aderire né all'una né all'altra parte e di attendere alla
riconquista di Pisa. Milizie francesi si raccolgono in Asti e
milizie veneziane a Brescia. Preparativi di difesa di Lodovico
Sforza.
Le quali mentre che si sollecitano, crescevano continuamente i
pericoli di Lodovico Sforza. Perché né la interposizione sua
all'accordo aveva in parte alcuna placati gli animi de' viniziani,
costanti nel desiderio della sua distruzione, per l'odio e per la
speranza del guadagno; né Massimiliano era cosí pronto alla guerra
contro al re di Francia come era sollecito a dimandargli spesso
danari, anzi, contro alle promesse molte volte fattegli, prolungò la
tregua sua col re per tutto il mese d'agosto prossimo, e
togliendogli in uno tempo medesimo la speranza che gli avesse a
giovare piú il soccorso suo di quello che gli avesse giovato la
diversione, unito con la lega de' svevi, roppe guerra a' svizzeri,
dichiaratigli ribelli dello imperio, per varie differenze che erano
tra loro: la quale, continuata da ogni banda con grande impeto, ebbe
vari progressi e grande uccisione dall'una parte e dall'altra; in
modo che Lodovico era certo non potere piú, in caso gli bisognasse,
ottenere aiuto da lui se non terminasse prima questa guerra o con
vittoria o con accordo; e nondimeno, promettendogli Massimiliano che
mai converrebbe né col re di Francia né co' svizzeri senza
includervi lui, era costretto, per non se lo alienare, porgergli
spesso nuovi danari. La quale occasione conoscendo il re di Francia,
e quanto importasse l'avere congiunti seco i viniziani e il
pontefice, disprezzati i conforti di molti, che lo consigliavano
che, per essere re nuovo e poco abbondante di pecunia, differisse
all'anno seguente la guerra contro al ducato di Milano, e sperando
dovere ottenere in spazio di pochi mesi la vittoria e però non
essergli necessaria quantità grande di danari, apertamente si
preparava; porgendo secretamente, per tenere occupato Massimiliano,
qualche somma di danari a' svizzeri. E perciò il duca di Milano,
vedendo manifestamente approssimarsi la guerra, si sforzava con
grandissima diligenza e sollecitudine di non rimanere solo in tanti
pericoli; perché e di trovare mezzo di concordia col re e di
convenire piú co' viniziani totalmente si diffidava, né trovava ne'
re di Spagna, ricercati instantemente da lui, pensiero alcuno della
sua salute. Però, tentando in un tempo medesimo gli animi di tutti
gli altri, mandò Galeazzo Visconte a Massimiliano e a' svizzeri per
interporsi a ridurgli a concordia; e sapendo che al pontefice non
riusciva il pensiero del matrimonio di Ciarlotta per Cesare Borgia
suo figliuolo, perché la fanciulla, o mossa dall'amore e dalla
autorità paterna o vero confortatane occultamente dal re di Francia,
benché esso dimostrasse di affaticarsi in contrario, ricusava
ostinatamente di volerlo per marito se insieme non si componevano le
cose di Federigo suo padre, il quale offeriva al re di Francia
tributo annuo e ampie condizioni, ebbe speranza Lodovico di
alienarlo dalle cose oltramontane, e gli fece grandissima instanza
di tirarlo in confederazione seco, nella quale prometteva che oltre
al re Federico entrerebbono i fiorentini: offerendo che da lui e
dagli altri confederati gli sarebbe dato aiuto contro a' vicari
della Chiesa, e donata quantità grande di danari per comprare
qualche stato onorato per il figliuolo. Le quali offerte, benché da
principio fussino udite simulatamente da Alessandro, si scoperseno
presto vane; perché egli, sperando dalla compagnia del re di Francia
premi molto maggiori che quegli era per conseguire se Italia di
nuovo non si empieva di eserciti oltramontani, consentí che il
figliuolo, escluso già del matrimonio di Ciarlotta, si congiugnesse
con una figliuola di monsignore di Alibret, il quale per essere del
sangue reale e per la grandezza de' suoi stati non era inferiore ad
alcuno de' signori di tutto il reame di Francia. Né cessò Lodovico,
certificato ogni dí piú della mala disposizione de' viniziani, di
stimolare secretamente contro a loro con uomini propri, concorrendo
al medesimo il re Federigo, il principe de' turchi, il quale già per
se medesimo faceva potentissimi apparati; persuadendosi che
assaltati da lui non darebbeno molestia allo stato di Milano. Ed
essendogli note le preparazioni che facevano i fiorentini per
espugnare Pisa, si sforzò, con offerire loro quello aiuto sapessino
desiderare, di obligargli alla difesa sua con trecento uomini d'arme
e dumila fanti, espugnata che avessino Pisa. E da altra parte, il re
di Francia gli ricercava che gli promettessino di accomodarlo di
cinquecento uomini d'arme per uno anno; obligandosi, acquistato che
avesse lo stato di Milano, aiutargli per uno anno con mille lancie
alle imprese loro, e promettendo non fare accordo alcuno con
Lodovico se nel medesimo tempo non fussino reintegrati di Pisa e
dell'altre terre, e che il pontefice e i viniziani prometterebbono
difendergli se innanzi all'acquisto di Milano fussino molestati da
alcuno.
Nelle quali contrarie dimande era ne' fiorentini molta
irresoluzione, cosí per la difficoltà della materia come per la
divisione degli animi. Perché non ricercando Lodovico gli aiuti loro
se non in caso che avessino ricuperato Pisa, era molto piú presente
e piú certo il soccorso suo che quello che prometteva il re di
Francia, riputato in quanto alle cose di Pisa di poco frutto;
perché, per l'occasione di essere allora quella città abbandonata da
ciascuno, erano voltati tutti i pensieri loro a conseguirla in
quella state: e moveva oltre a questo non poco gli animi di molti la
memoria che l'avergli ne' loro pericoli aiutato Lodovico fusse stato
cagione che 'l senato viniziano si fusse confederato col re di
Francia alle offese sue; e molto piú gli moveva il timore che per lo
sdegno di essere negate le sue dimande non impedisse loro
l'espugnare Pisa, il che con non molta difficoltà arebbe potuto
fare. Ma in contrario, giudicandosi che egli non potesse resistere
al re di Francia e a' viniziani, pareva pericolosa deliberazione
inimicarsi con uno re le cui armi si dubitava che dopo non molti
mesi avessino a correre per tutta Italia; e la memoria de' benefici
ricevuti da Lodovico nella guerra contro a' viniziani, per i quali
diceva con verità avere avuta origine i suoi pericoli, era
facilmente cancellata dalla memoria che per opera sua fusse prima
proceduta la ribellione di Pisa, che egli, desideroso di
insignorirsene, gli avesse sostentati e fatto sostentare da altri
per molti mesi e perseguitato in quel tempo i fiorentini con molte
ingiurie, in modo che maggiori erano state l'offese che i favori: a'
quali non era anche condisceso se non per non potere tollerare che i
viniziani gli avessino tolto quello che già con la speranza e con
l'ambizione riputava proprio ne' concetti suoi. E veniva in
considerazione che, dichiarandosi per Lodovico, il re potrebbe
similmente, per mezzo del pontefice e de' viniziani confederati
suoi, impedire la recuperazione di Pisa. Però deliberorno in ultimo
di non muoversi in favore né del re di Francia né del duca di
Milano, e in questo mezzo fare la impresa di Pisa, alla quale
pensavano bastare le forze proprie; e nondimeno, per non dare a
Lodovico cagione di interromperla, usando seco le sue arti, tenerlo
in piú speranza potessino. E però, dopo avere differito molti dí a
dargli risposta, mandorno uno segretario publico a fargli intendere
che la intenzione della republica era, in quanto all'effetto, la
medesima che la sua, ma essere qualche discrepanza nel modo: perché
erano determinati, recuperato che avessino Pisa, di non gli mancare
degli aiuti dimandati, ma conoscere molto pernicioso il farne seco
espressa convenzione, perché non si potendo nelle città libere tali
cose espedire senza consentimento di molti non potevano essere
segrete, e palesandosi darebbeno occasione al re di Francia di fare
che il pontefice e i viniziani soccorressino i pisani; donde la
promessa sarebbe nociva a loro e a lui inutile, perché non
espugnando Pisa non sarebbono obligati né potrebbono aiutarlo. Però
giudicare che e' bastasse la fede che si dava a parole col
consentimento de' cittadini principali, dall'autorità de' quali
tutte le deliberazioni publiche dependevano; né recusare per altra
cagione il convenirne seco per scrittura; offerendo finalmente, per
maggiore dichiarazione dell'animo loro, che se da lui si dimostrasse
qualche modo da potere, fuggendo tanto danno, sodisfare al desiderio
suo sarebbeno parati a eseguirlo. Per la quale risposta, benché
acuta e piena di artificio, e perché non accettavano l'offerte degli
aiuti suoi, conobbe Lodovico non potere avere speranza certa delle
genti loro: accorgendosi che da ogni parte gli mancavano le
speranze. Perché il soccorso promessogli continuamente dal re de'
romani era incerto molto per la varietà della natura sua e per lo
impedimento della guerra co' svizzeri; e se bene Federigo prometteva
mandargli quattrocento uomini d'arme e mille cinquecento fanti sotto
Prospero Colonna, dubitava non tanto della volontà, perché la difesa
del ducato di Milano era anche a beneficio suo, quanto della
impotenza e lentezza sua; ed Ercole da Esti suo suocero, ricercato
di aiuto da lui, gli aveva, rimproverandogli quasi l'antica ingiuria
che per opera sua fusse rimasto a' viniziani il Pulesine di Rovigo,
risposto dispiacergli l'essere impedito ad aiutarlo, perché essendo
i confini de' viniziani tanto vicini alle porte di Ferrara era
necessitato attendere a guardare la casa propria.
Perdute adunque tutte le speranze che non dependevano da se
medesimo, attendeva sollecitamente a fortificare, Anon, Novara e
Alessandria della Paglia, terre esposte a primi movimenti del re di
Francia; con deliberazione d'opporre all'impeto suo Galeazzo da San
Severino con la maggiore parte delle sue forze, e il resto sotto il
marchese di Mantova opporre a' viniziani: benché non molto poi, o
per imprudenza o per avarizia o perché a' consigli celesti non si
possa resistere, disordinò da sé proprio questo sussidio. Perché,
avendosi cominciato vanamente a persuadere che i viniziani, a' quali
Baiseth ottomanno avea per terra e per mare con apparato stupendo
rotta la guerra, necessitati a difendere contro a tanto inimico le
cose proprie, non l'avessino a molestare, e desiderando sodisfare a
Galeazzo da San Severino, impaziente che 'l marchese lo precedesse
di titolo, cominciò a muovergli difficoltà ricusando di pagargli
certo residuo di stipendi vecchi e ricercando da lui giuramenti e
cauzioni insolite dell'osservanza della fede; e benché poi, vedendo
che i viniziani mandavano continuamente gente nel bresciano, per
essere parati a muovere la guerra nel tempo medesimo che i franzesi
la movessino, cercasse per mezzo del duca di Ferrara, suocero comune
di riconciliarselo, le difficoltà non si risolverono sí presto che
piú presto non sopravenissino i pericoli. I quali apparivano ogni dí
maggiori: perché nel Piemonte, ove il duca di Savoia si era di nuovo
congiunto al re, passavano continuamente genti che si fermavano
intorno ad Asti; e le speranze del duca sempre diminuivano perché il
re Federico, o per impossibilità o per negligenza, tardava a mandare
gli aiuti promessi, e qualche speranza che gli restava che i
fiorentini, espugnata che avessino Pisa, gli manderebbono in
soccorso Pagolo Vitelli, della virtú del quale teneva tutta Italia
grandissimo conto, fu dalla diligenza del re di Francia interrotta;
perché, con aspre parole e quasi minaccie usate agli oratori loro,
ottenne che la republica secretamente gli promesse per scrittura di
non dare al duca aiuto alcuno, senza ricevere di questo in
ricompenso da sé promessa alcuna. Però Lodovico, lasciata a' confini
de' viniziani sotto il conte di Gaiazzo leggiera difesa, mandò
Galeazzo da San Severino di là dal fiume del Po, con mille seicento
uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri diecimila fanti
italiani e cinquecento fanti tedeschi; ma piú con intenzione di
attendere alla difesa delle terre che di resistere nella campagna,
perché giudicava che l'allungare gli fusse utile per molte cagioni,
e specialmente perché di dí in dí sperava la conclusione
dell'accordo trattato in nome suo dal Visconte tra Massimiliano e le
leghe de' svizzeri, il quale subito che avesse avuto perfezione gli
erano promessi aiuti potenti da lui, ma altrimenti non solo non ne
poteva sperare ma gli era difficile il soldare fanti in quelle
parti, perché i moti che vi erano grandissimi tiravano gli uomini
del paese a quella guerra.
Lib.4, cap.9
Conquista di diverse terre del ducato di Milano da parte dei
francesi. Lodovico Sforza incita i sudditi alla resistenza. La
perdita di Alessandria. Pavia s'accorda coi francesi e i veneziani
fanno scorrerie fino a Lodi. Tumulti in Milano. Lodovico si rifugia
in Germania. Il re di Francia a Milano.
Né si fece da parte alcuna altro effetto di guerra che leggiere
correrie, insino a tanto che ebbono passato i monti le genti
destinate alla guerra, sotto Luigi di Ligní, Eberardo di Obigní e
Gianiacopo da Triulzi: perché il re, se bene veniva a Lione
spargendo fama di volere, quando cosí ricercasse il bisogno, passare
in Italia, intendeva di governarla per mezzo de' capitani. Ma unito
che fu insieme tutto l'esercito de' franzesi, nel quale furono mille
seicento lancie cinquemila svizzeri quattromila fanti guasconi e
quattromila d'altre parti di Francia, i capitani il terzodecimo dí
di agosto posono il campo alla rocca di Arazzo posta in su la ripa
del Tanaro; nella quale benché fussino cinquecento fanti la preseno
in brevissimo spazio, dandosi causa di tanta prestezza allo impeto
dell'artiglierie, ma non meno alla viltà de' difensori. Presa la
rocca di Arazzo, andorno a campo ad Anon, castello in su la strada
maestra tra Asti e Alessandria e in su la ripa del Tanaro opposita
ad Arazzo, forte di sito, e che era stato per qualche mese innanzi
molto fortificato dal duca di Milano; e benché il Sanseverino, che
alloggiava appresso ad Alessandria in campagna, intesa la perdita di
Arazzo, avesse desiderato mandarvi nuovi fanti e migliori, perché
settecento che ve ne aveva messi prima erano di gente nuova e non
esperta alla guerra, non potette metterlo a esecuzione perché i
franzesi, per impedire che non vi andasse soccorso, aveano, di
consentimento del marchese di Monferrato signore di quel luogo,
messa gente nella terra di Filizano posta tra Alessandria e Anon.
Però, non facendo quegli che erano in Anon migliore esperienza di
quello che si aspettava, i franzesi, battuto prima il borgo e poi la
terra da quattro parti, la espugnorono in due dí; e dipoi
espugnorono la fortezza, ammazzando tutti i fanti che vi erano
rifuggiti. Dal quale successo, piú repentino di quello che si era
creduto, spaventato il Sanseverino si ritirò con tutte le genti in
Alessandria; scusando il suo timore col dire di avere fanteria
inutile, e che i popoli dimostravano animo poco stabile nella
divozione di Lodovico. Da che i franzesi tanto piú inanimiti si
accostorno a quattro miglia ad Alessandria, e nel tempo medesimo
presono Valenza, dove erano molti soldati e artiglierie, per opera
di Donato Raffagnino milanese, castellano, corrotto dalle promesse
del Triulzio, dal quale introdotti per la fortezza nella terra,
presono e ammazzorono tutti i soldati, e tra questi restò prigione
Ottaviano fratello naturale del Sanseverino; e fu cosa notabile che
questo medesimo castellano aveva, venti anni innanzi, mancando di
fede a madonna Bona e al piccolo duca Giovanni Galeazzo, dato a
Lodovico Sforza una porta di Tortona, in quel medesimo dí che
introdusse i franzesi in Valenza. E discorrendo dipoi per il paese
come uno folgore, si arrendé loro senza difficoltà Basignano,
Voghiera, Castelnuovo e Ponte Corone, e il medesimo fece, pochi dí
poi, la città e la rocca di Tortona; dalla quale si ritirò di là da
Po, senza aspettare assalto alcuno, Antonmaria Palavicino che vi era
a guardia.
L'avviso delle quali cose andato a Milano, Lodovico Sforza,
vedendosi ridotto in tante angustie e che tanto impetuosamente
andava in precipizio lo stato suo, perduto, come si fa nelle
avversità sí súbite, non meno l'animo che il consiglio, ricorreva a
quegli rimedi a' quali solendo ricorrere gli uomini nelle cose
afflitte e quasi ridotte a ultima disperazione, fanno piú presto
palese a ciascuno la grandezza del pericolo che ne conseguitino
frutto alcuno. Fece descrivere nella città di Milano tutti gli
uomini abili a portare arme; e convocato il popolo, al quale era in
odio grande il nome suo per molte esazioni che aveva fatte, lo
liberò da una parte delle gravezze, soggiugnendo con caldissime
parole che se pareva che qualche volta fussino stati troppo
aggravati, non l'attribuisseno gli uomini alla natura sua, né a
cupidità che avesse mai avuto di accumulare tesoro; ma i tempi e i
pericoli d'Italia, prima per la grandezza de' viniziani dipoi per la
passata del re Carlo, averlo costretto a fare questo, per potere
tenere in pace e in sicurtà quello stato e potere resistere a chi
volesse assaltarlo: avendo giudicato non potere fare maggiore
beneficio alla patria e a' popoli suoi che provedere non fussino
molestati dalle guerre. E che questo fusse stato consiglio di
inestimabile utilità averlo i frutti che se ne erano ricolti
chiarissimamente dimostrato, perché tanti anni sotto il governo suo
erano stati in somma pace e tranquillità, per la quale si era
grandemente augumentata la magnificenza le ricchezze e lo splendore
di quella città: di che fare fede manifestissima gli edifici le
pompe e tanti ornamenti, e la moltiplicazione quasi infinita
dell'arti e degli abitatori, nelle quali cose la città e il ducato
di Milano non solo non cedevano ma erano superiori a qualunque altra
città e regione d'Italia. Ricordassinsi di essere stati governati da
sé senza alcuna crudeltà, e con quanta mansuetudine e benignità
avesse udito sempre ciascuno, e che solo tra tutti i príncipi di
quella età, senza perdonare a fatica o travaglio del corpo, aveva
per se medesimo, ne' dí deputati all'udienze publiche, amministrato
a tutti giustizia sommaria e indifferente. Ricordassinsi de' meriti
e della benivolenza del suo padre, che gli aveva governati piú
presto come figliuoli che come sudditi; e proponessinsi innanzi agli
occhi quanto sarebbe acerbo lo imperio superbo e insolente de'
franzesi, i quali per la vicinità di quello stato al reame di
Francia ne farebbono, se lo occupassino, come altre volte aveva di
tutta Lombardia fatto quella nazione, sedia ferma e perpetua de'
popoli suoi, cacciatine gli antichi abitatori. Però pregargli che,
alienando l'animo da i costumi barbari e inumani, si disponessino a
difendere insieme la patria e la propria salute. Né doversi dubitare
che, se si sforzassino di sostenere per brevissimo tempo i primi
pericoli, sarebbe facile il resistere, essendo i franzesi piú
impetuosi nello assaltare che costanti nel perseverare; e perché
egli senza dilazione aspettava potenti aiuti dal re de' romani, il
quale, già composte le cose co' svizzeri, si preparava per
soccorrerlo in persona; e che erano in cammino le genti le quali il
re di Napoli gli mandava con Prospero Colonna; e credere che il
marchese di Mantova, essendo risolute seco tutte le difficoltà,
fusse già con trecento uomini d'arme entrato nel cremonese: alle
quali cose aggiugnendosi la prontezza e la fede del popolo suo, si
renderebbe sicurissimo degli inimici, quando bene oltre a quello
esercito fusse congiunta insieme tutta la possanza di Francia. Le
quali parole, udite con maggiore attenzione che frutto, non
giovorono piú che si giovassino l'armi opposte a' franzesi.
Per il timore de' quali, stimando manco il pericolo imminente da'
viniziani, che avevano mossa la guerra in Ghiaradadda e presa la
terra di Caravaggio e le altre vicine a Adda, rivocò il conte di
Gaiazzo con la piú parte delle genti mandate a quella difesa, e le
fece andare a Pavia, perché si unissino con Galeazzo per la difesa
di Alessandria. Ma già da ogni banda si accelerava la sua ruina,
perché il conte di Gaiazzo si era accordato prima secretamente col
re di Francia; potendo piú in lui lo sdegno che Galeazzo, fratello
minore di età e minore eziandio nello esercizio militare, gli fusse
anteposto nel capitanato dello esercito e in tutti gli onori e
favori che la memoria di innumerabili benefici ricevuti, egli e i
fratelli, da Lodovico. Affermano alcuni che qualche mese innanzi era
penetrato agli orecchi suoi avviso di questa fraude, in sul quale,
stato alquanto tacito sopra di sé, avere finalmente sospirando
risposto a chi gliene aveva significato, non potersi persuadere una
tanta ingratitudine; e se pure era vero, non sapere finalmente come
avere a provedervi, né di chi piú si avesse a confidare poiché i piú
intrinsechi e piú beneficati lo tradivano: affermando non riputare
minore o manco perniciosa calamità privarsi per sospetto vano, della
opera delle persone fedeli ché, per incauta credulità, commettersi
alla fede di quegli i quali meritavano di essere sospetti. Ma mentre
che 'l conte di Gaiazzo fa il ponte su 'l Po per unirsi col fratello
e artificiosamente ne manda in lungo l'esecuzione, mentre che fatto
il ponte differisce di passare, essendo già l'esercito franzese
stato due giorni intorno ad Alessandria e battendola con
l'artiglierie, Galeazzo, con cui erano mille dugento uomini d'arme
mille dugento cavalli leggieri e tremila fanti, la notte del terzo
dí, non conferiti i suoi pensieri ad alcuno degli altri capitani
eccetto che a Lucio Malvezzo, accompagnato da una parte de' cavalli
leggieri, fuggí occultamente di Alessandria, dimostrando, con
grandissimo suo vituperio ma non con minore infamia della prudenza
di Lodovico, a tutto il mondo quanta differenza sia da maneggiare
uno corsiere e correre nelle giostre e ne' torniamenti grosse
lancie, ne' quali esercizi avanzava ogn'altro italiano, a essere
capitano di uno esercito; e con quanto danno proprio si ingannano i
príncipi che, nel fare elezione delle persone alle quali commettono
le faccende grandi, hanno piú in considerazione il favore di chi
eleggono che la virtú. Ma come la partita di Galeazzo fu nota per
Alessandria, tutto il resto della gente cominciò tumultuosamente chi
a fuggire chi ad ascondersi; con la quale occasione entratovi in sul
fare del dí l'esercito franzese, non solo messe in preda i soldati
che vi restavano ma con la licenza militare saccheggiò tutta la
città. È fama che Galeazzo avea ricevuto lettere, scritte col nome e
col suggello di Lodovico Sforza, che gli comandavano che per essere
nato certo movimento in Milano si ritirasse là subito con tutte le
genti; e alcuno dubitò poi che non fussino state fabricate
falsamente dal conte di Gaiazzo, per facilitare con questa arte la
vittoria de' franzesi: le quali lettere Galeazzo era poi solito a
mostrare per sua giustificazione, come se per quelle gli fusse stato
commesso, non che conducesse lo esercito salvo e in caso conoscesse
poterlo fare, ma che temerariamente l'abbandonasse. Ma questo non è
tanto certo quanto è certo a ciascuno che, se in Galeazzo fusse
stato o consiglio di capitano o animo militare, arebbe potuto
facilmente difendere Alessandria e la maggiore parte delle cose di
là da Po, con le genti che aveva, anzi arebbe forse avuto qualche
prospero successo: perché avendo, pochi dí innanzi, passato il fiume
della Bornia una parte dello esercito franzese e, per essere
sopravenute grosse pioggie, trovandosi rinchiusa tra i fiumi della
Bornia e del Tanaro, non bastò l'animo a Galeazzo di assaltargli, se
bene gli fusse significato che alcuni de' suoi cavalli leggieri,
usciti di Alessandria per il ponte che in sul Tanaro congiugne il
borgo alla città e andati inverso di loro, avessino quasi messo in
fuga la prima squadra.
La perdita di Alessandria spaventò tutto il resto del ducato di
Milano, oppresso a ogn'ora di nuove calamità: perché e i franzesi
passato Po erano andati a campo a Mortara, donde Pavia si era
accordata con loro, e le genti de' viniziani, presa la rocca di
Caravaggio e passato in su uno ponte di barche il fiume di Adda,
avevano corso insino a Lodi; e già quasi tutte l'altre terre
tumultuavano. Né in Milano era minore confusione o terrore che
altrove, perché tutta la città sollevata aveva preso l'armi: e con
tanto poca riverenza verso il suo signore che, uscendo da lui del
castello, nel mezzo del dí, Antonio da Landriano generale suo
tesoriere, fu nella strada publica, o per inimicizie particolari o
per ordine di chi desiderava cose nuove, ammazzato. Per il qual
caso, Lodovico entrato in gravissimo spavento della sua persona, e
privato d'ogni speranza di resistere, deliberò, lasciando bene
guardato il castello di Milano, di andarsene co' figliuoli in
Germania, per fuggire il pericolo presente e per sollecitare,
secondo diceva, Massimiliano a venire a' suoi favori; il quale o
aveva già conchiuso o aveva per ferma la concordia co' svizzeri.
Fatta questa deliberazione, fece subito partire i figliuoli
accompagnati dal cardinale Ascanio, che pochi dí innanzi era venuto
da Roma per soccorrere quanto poteva le cose del fratello, e dal
cardinale di San Severino: e insieme con loro mandò il tesoro,
diminuito molto da quello che soleva essere: perché è manifesto che
otto anni innanzi, avendo Lodovico per ostentare la sua potenza
mostratolo agli imbasciadori e a molti altri, si era trovato
ascendere tra danari e vasi di argento e di oro, senza le gioie che
erano molte, alla quantità di uno milione e mezzo di ducati; ma in
questo tempo, secondo l'opinione degli uomini, passava di poco
dugentomila. Partiti i figliuoli, deputò, benché ne fusse
sconfortato da tutti i suoi, alla guardia del castello di Milano
Bernardino da Corte pavese, che allora ne era castellano, antico
allievo suo, anteponendo la fede di costui a quella del fratello
Ascanio che se gli era offerto di pigliarne la cura, e vi lasciò
tremila fanti sotto capitani fidati, e provisione di vettovaglie di
munizione e di danari bastante a difenderlo per molti mesi: e
risoluto nelle cose di Genova fidarsi d'Agostino Adorno, allora
governatore, e di Giovanni suo fratello, a cui era congiunta in
matrimonio una sorella de' Sanseverini, mandò loro i contrasegni del
castelletto. A' Buonromei gentiluomini di Milano restituí Anghiera,
Arona e altre terre in sul Lago Maggiore, che aveva loro occupate, e
a Isabella di Aragona, moglie già del duca Giovan Galeazzo, fece a
conto delle sue doti donazione del ducato di Bari e del principato
di Rossano per trentamila ducati, ancora che ella non gli avesse
voluto concedere il piccolo figliuolo di Giovan Galeazzo, il quale
egli desiderava che co' figliuoli suoi andasse in Germania. E
poiché, ordinate queste cose, fu dimorato quanto gli parve potere
dimorare sicuramente, reggendosi già la terra per se stessa, partí
con molte lagrime, il secondo dí di settembre, per andare in
Germania, accompagnato dal cardinale da Esti e da Galeazzo
Sanseverino e, per assicurarsi il cammino, da Lucio Malvezzo e da
non piccolo numero di uomini d'arme e di fanti. Né era appena uscito
del castello che il conte di Gaiazzo, sforzandosi di coprire con
qualche colore la sua perfidia, fattosegli incontro gli disse che,
poiché egli abbandonava lo stato suo, pretendeva restare libero
della condotta che aveva da lui, e potere prendere di sé qualunque
partito gli piacesse; e immediate poi scoperse il nome e l'insegne
di soldato del re di Francia, andando a' soldi suoi con la medesima
compagnia che aveva messa insieme e conservata co' danari di
Lodovico. Il quale da Como, dove lasciò la fortezza in potestà del
popolo, se ne andò per il lago insino a Bellagio; e di poi smontato
in terra passò da Bormio e per quegli luoghi dove già, nel tempo che
era collocato in tanta gloria e felicità, aveva ricevuto
Massimiliano, quando piú presto come capitano suo e de' viniziani
che come re de' romani passò in Italia. Fu perseguitato tra Como e
Bormio dalle genti franzesi e dalla compagnia del conte di Gaiazzo;
da' quali luoghi, lasciata guardia nella fortezza di Tiranno, che fu
pochi dí poi occupata da' grigioni, si indirizzò verso Spruch, dove
intendeva essere la persona di Cesare.
Dopo la partita di Lodovico i milanesi, mandati subitamente
imbasciadori a' capitani approssimatisi già con l'esercito a sei
miglia alla città, consentirono di ricevergli liberamente;
riservando il capitolare alla venuta del re, dal quale, procedendo
solamente con la misura dell'utilità propria, speravano immoderate
grazie ed esenzioni; e il medesimo feceno senza dilazione tutte
l'altre terre del ducato di Milano. Volle e la città di Cremona,
essendo circondata dalle genti de' viniziani, lo imperio de' quali
abborriva, fare il medesimo; ma non volendo il re rompere la
capitolazione fatta co' viniziani, fu necessitata arrendersi a loro.
Seguitò Genova la medesima inclinazione, facendo a gara il popolo
gli Adorni e Gianluigi dal Fiesco di essere gli autori principali di
darla al re. E perché contro a Lodovico si dimostrasse non solo una
rovina sí repentina e sí grande, avendo in venti dí perduto sí
nobile e sí potente stato, ma ancora tutti gli esempli di
ingratitudine, il castellano di Milano, eletto da lui per il piú
confidato tra tutti i suoi, senza aspettare né uno colpo di
artiglieria né alcuna specie di assalto, dette, il duodecimo dí
dalla partita sua, al re di Francia il castello che era tenuto
inespugnabile, ricevuta in premio di tanta perfidia quantità grande
di danari la condotta di cento lancie provisione perpetua e molte
altre grazie e privilegi, ma con tanta infamia e con tanto odio,
eziandio appresso a' franzesi, che, rifiutato da ognuno come di
fiera pestifera e abominevole il suo commercio, e schernito per
tutto dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla
vergogna e dalla coscienza (potentissimo e certissimo flagello di
chi fa male), passò non molto poi per dolore all'altra vita.
Parteciporno di questa infamia i capitani che con lui erano rimasti
nel castello, e sopra gli altri Filippino dal Fiesco; il quale,
allievo del duca e lasciatovi da lui per molto fedele, in cambio di
confortare il castellano a tenersi, acciecato da grandissime
promesse lo confortò al contrario, e insieme con Antonio Maria
Palavicino, che interveniva in nome del re, trattò la dedizione. Ma
come il re ebbe a Lione le nuove di tanta vittoria, succeduta molto
piú presto di quello aveva sperato, passò subito con celerità grande
a Milano; dove ricevuto con grandissima letizia concedé la esenzione
di molti dazi: benché il popolo, intemperante ne' desideri suoi,
avendo fatto concetto di avere a essere esente in tutto, non
rimanesse con molta sodisfazione. Fece molte donazioni di entrate a
molti gentiluomini dello stato di Milano; tra' quali riconoscendo i
meriti di Gianiacopo da Triulzi, gli concedette Vigevano e molte
altre cose.
Lib.4, cap.10
I fiorentini padroni di tutto il contado di Pisa. I fiorentini danno
l'assalto alla città che si trova in grave pericolo d'esser presa,
senonché Paolo Vitelli fa sospendere l'azione. Malattie fra le
milizie fiorentine. Il Vitelli leva il campo da Pisa; fatto prigione
e condotto a Firenze è decapitato. Capi principali di condanna del
Vitelli.
Ma nel tempo medesimo che dal re di Francia si movevano l'armi
contro al ducato di Milano, Pagolo Vitelli, raccolte le genti e le
provisioni de' fiorentini, per potere piú facilmente attendere alla
espugnazione di Pisa, pose il campo alla terra di Cascina; la quale,
se bene fusse proveduta sufficientemente di difensori e delle altre
cose necessarie, e similmente munita di fossi e di ripari, ottenne,
dappoi che furono piantate l'artiglierie, in ventisei ore: perché
essendo cominciati a impaurire gli uomini della terra, per il
progresso grande che per l'essere le mura deboli aveano fatto
l'artiglierie, i soldati forestieri che vi erano dentro,
prevenendogli, si arrenderono, patteggiata solamente la salvezza
delle persone e robe proprie, e lasciati loro e i commissari e
soldati pisani in arbitrio libero de' vincitori. Arrenderonsi dipoi,
alla richiesta di uno trombetto solo, la torre edificata per la
guardia della foce di Arno, e il bastione dello Stagno abbandonato
da' pisani, in modo che per i pisani non si teneva altro in tutto il
contado che la fortezza della Verrucola e la piccola torre
d'Asciano, non molestate dagli inimici per la incomodità d'avere,
volendo espugnarle, a passare Arno, e perché, essendo contigue a
Pisa, potevano facilmente essere soccorse, e perché non importava
alla somma delle cose il perdervi tempo.
Rimaneva adunque sola l'espugnazione di Pisa, impresa, da coloro che
discorrevano prudentemente, non reputata se non difficile per la
fortezza della città e per il numero virtú e ostinazione degli
uomini che vi erano dentro: perché se bene in Pisa non erano soldati
forestieri, eccetto Gurlino da Ravenna e pochi altri, i quali,
venutivi agli stipendi de' viniziani, vi erano volontariamente
rimasti dopo la partita delle loro genti, vi era copioso il numero
de' cittadini e de' contadini, né minore di qualità che di quantità;
perché per l'esperienza continua di cinque anni erano quasi tutti
divenuti atti alla guerra, e con proposito sí ostinato di non
ritornare sotto il dominio de' fiorentini che arebbono riputata
minore qualunque altra gravissima avversità. Non aveano le mura
della città fossi innanzi a sé, ma [erano] molto grosse e di pietra
di antica struttura, talmente conglutinata, per la proprietà delle
calcine che si fanno in quel paese, che per la loro solidità
resistendo piú che comunemente non fanno l'altre muraglie alle
artiglierie, davano, innanzi che le fussino gittate in terra, molto
spazio, a coloro che erano dentro, di riparare. E nondimeno i
fiorentini deliberorno d'assaltarla, confortati al medesimo da
Pagolo Vitelli e da Rinuccio da Marciano, i quali davano speranza
grande di espugnarla in quindici giorni. E perciò, avendo messi
insieme diecimila fanti e molti cavalli, e fatti secondo la
richiesta del capitano abbondantissimi provedimenti, egli, l'ultimo
dí di luglio, vi pose il campo, non, come era ricordato da molti e
come faceano instanza i fiorentini, da quella parte d'Arno che
proibiva il soccorso che vi venisse di verso Lucca ma dall'altra
parte del fiume, di riscontro alla fortezza di Stampace; o perché
gli paresse facilitarsi assai la vittoria se espugnava quella
fortezza, o per maggiore comodità delle vettovaglie che si
conducevano dalle castella delle colline, o perché avesse avuto
notizia che i pisani, non credendo che mai s'accampasse da quella
parte, non v'aveano cominciato, come dall'altra parte facevano,
riparo alcuno. Cominciossi a battere la rocca di Stampace e la
muraglia, dalla mano destra e sinistra per lunghissimo tratto, con
venti pezzi grossi d'artiglieria, cioè da Santo Antonio a Stampace e
dipoi insino alla porta che si dice a mare, posta in sulla riva
d'Arno. E per contrario i pisani, non intermettendo dí e notte di
lavorare, e insieme con loro le donne non meno pertinaci e animose a
questo che gli uomini, feciono in pochissimi dí all'opposito della
muraglia che si batteva, uno riparo di grossezza e altezza notabile
e uno fosso molto profondo; non gli spaventando che mentre che
lavoravano ne erano feriti e morti molti dalle artiglierie, o per
proprio colpo o per reverberazione, la quale peste offendeva
similmente i soldati del campo, percossi talmente dalle artiglierie
di dentro, massime da una passavolante piantata in sulla torre di
San Marco, che erano necessitati, per tutto il campo, o di alzare il
terreno per ripararsi o alloggiare nelle fosse. Procedessi piú dí
con questi modi; e benché fusse già gittato in terra grande spazio
di muraglia da Santo Antonio a Stampace, e ridotta quella fortezza
in termini che il capitano sperava di potere senza molta difficoltà
ottenerla, nondimeno per farsi la vittoria piú facile si continuava
il battere da Stampace insino alla porta a mare, scaramucciandosi in
questo mezzo spesso tra la muraglia battuta e il riparo, tanto
lontano dalle mura che Stampace restava tutta fuora del riparo: in
una delle quali scaramuccie fu ferito il conte Renuccio di uno
archibuso. Ed era il consiglio del capitano, come avesse occupata
Stampace, piantare l'artiglierie in su quella e in sulla muraglia
battuta, donde offendendosi per fianco tutta quella parte che
difendevano i pisani, sperava quasi certa la vittoria; e nel tempo
medesimo fare cadere verso il riparo, acciocché riempiendosi il
fosso fusse piú facile a' soldati la salita, una alia di muro tra
Stampace e il riparo, la quale, tagliata prima con gli scarpelli, si
sosteneva co' puntelli di legname. Da altra parte i pisani, che si
governavano nella difesa secondo il consiglio di Gurlino, aveano
fatte di verso Santo Antonio alcune case matte nel fosso per
impedire agli inimici, in caso vi scendessino, il riempierlo, e
distese su per i ripari verso Santo Antonio molte artiglierie, e
alloggiati i fanti loro a piè del riparo, acciocché, riducendosi le
cose allo stretto, si opponessino con le proprie persone agli
inimici. Finalmente Pagolo Vitelli, il decimo dí poi che si era
accampato, non volendo differire piú a pigliare Stampace,
presentatavi la mattina in sull'alba la battaglia, benché i soldati
fussino offesi dalle artiglierie della cittadella vecchia, la prese
piú prestamente e con maggiore facilità che non aveva sperato e con
tanto spavento de' pisani che abbandonati i ripari si mettevano per
tutta la città in fuga; e molti, tra' quali Piero Gambacorta
cittadino nobile, con quaranta balestrieri a cavallo che militavano
sotto lui, si fuggirono di Pisa; e se ne sarebbono fuggiti molti piú
se da' magistrati non fusse stata fatta resistenza alle porte: in
modo che è manifesto che se si procedeva innanzi si otteneva quella
mattina la vittoria, con grandissima gloria del capitano; al quale
sarebbe stato felicissimo quel dí che fu origine delle sue calamità.
Perché, non conoscendo egli, secondo che poi si scusava, l'occasione
che insperatamente se gli presentò, né avendo ordinato di dare quel
dí la battaglia con tutto il campo, né ad altro che a quella torre,
non solo non mandò le genti ad assaltare il riparo, ove non arebbeno
trovato resistenza, ma fece ritornare indietro la maggiore parte de'
fanti, che inteso l'acquisto di Stampace, desiderosi di saccheggiare
la città, correvano tumultuosamente per entrarvi; e in quel tanto i
pisani, volando la fama per la città che gli inimici non seguitavano
la vittoria, e concitati da' pianti e dalle grida miserabili delle
donne, che gli confortavano a eleggere piú presto la morte che la
conservazione della vita sotto il giogo de' fiorentini, cominciarono
a ritornare alla guardia de' ripari. A' quali essendo ritornato
Gurlino, e considerando che dal rivellino che aveva Stampace verso
la terra era una via che andava verso la porta a mare, la quale
aveano prima ripiena di terra e di legname e fortificata verso il
campo, ma non proveduto all'altra via verso Stampace, fece subito
riparare e riempiere da quel lato; e fatto uno terrato, con
artiglierie che tiravano per fianco, impediva l'entrare da quella
parte. Acquistata Stampace, Paolo vi fece tirare in alto falconetti
e passavolanti, i quali tiravano per tutta Pisa ma non offendevano i
ripari, i quali, benché fussino offesi dalle artiglierie piantate da
basso, non però gli abbandonavano i pisani, e nel tempo medesimo si
batteva la casa matta verso Santo Antonio e la porta a mare e le
difese: né cessava Pagolo Vitelli di sforzarsi di riempiere il fosso
con fascine, per facilitarsi il pigliare il riparo. Contro alle
quali cose i pisani, in sussidio de' quali erano la notte seguente
stati mandati da Lucca trecento fanti, cresciuti di animo, gittavano
fuochi lavorati nel fosso; e ponendo sommo studio di necessitare
quegli del campo ad abbandonare la torre di Stampace, vi voltorono
uno grossissimo passavolante detto il bufolo, a pochi colpi del
quale ottennono che si levasse l'artiglieria piantata in alto:
contro al quale benché Pagolo voltasse alcuni passavolanti, da'
quali fu sboccato, non cessando però di trarre, lacerò di maniera in
piú dí la torre che Pagolo fu alla fine costretto di levare
l'artiglieria e abbandonarla. Né fu altro il successo del muro
tagliato: perché, avendo similmente i pisani puntellato dalla parte
di dentro per farlo cadere di verso il fosso, quando Pagolo volle
farlo cadere stette immobile. Non privò questo caso il capitano
della speranza di avere a ottenere finalmente la vittoria; la quale
cercando, secondo la natura sua, di acquistare piú sicuramente e con
minore danno dell'esercito che si poteva, con tutto che in piú
luoghi fussino in terra già piú di cinquecento braccia di muraglia,
attendeva continuamente ad ampliare la batteria, a sforzarsi di
riempiere i fossi della terra e a fortificare la torre di Stampace,
per piantarvi di nuovo artiglieria e potere battere per fianco i
ripari grandi che avevano fatto i pisani: sforzandosi, con tutta la
perizia e arte sua, d'acquistare al continuo maggiore opportunità
per dare piú sicuramente la battaglia generale e ordinata. La quale,
benché già avesse condotto le cose in grado che qualunque volta si
desse sperasse molto la vittoria, differiva volentieri di dare,
perché tanto piú si diminuisse il danno dello esercito e si avesse
maggiore certezza di ottenerla: con tutto che i commissari de'
fiorentini, a' quali ogni minima dilazione era molestissima, e
riscaldati con lettere e messi continui da Firenze, non cessasseno
di stimolarlo che con l'accelerare prevenisse agl'impedimenti che a
ogn'ora potrebbeno nascere. Il quale consiglio di Pagolo, forse piú
prudente e piú secondo la disciplina militare, ebbe contraria la
fortuna. Perché essendo il paese di Pisa, che è pieno di stagni e di
paludi tra la marina vicina e la città, sottoposto in quella
stagione dell'anno a pestiferi venti, e specialmente da quella parte
onde era alloggiato il campo, sopravenneno in due dí nello esercito
infinite infermità; per le quali, quando Pagolo volle dare la
battaglia, che fu il vigesimo quarto dí di agosto, si accorse essere
fatto inutile tanto numero di genti, ché quegli che erano sani non
bastavano a darla: il quale disordine benché i fiorentini ed egli,
oppresso come gli altri da infermità, si ingegnassino di ristorare
col soldare nuovi fanti, nondimeno la influenza prevaleva talmente
che era ogni dí molto maggiore la diminuzione che il supplemento.
Però, disperato in ultimo di potere piú conseguire la vittoria e
dubitando di qualche danno, deliberò levare il campo; contradicendo
molto i fiorentini, perché desideravano che, messa nella fortezza di
Stampace sufficiente guardia, si fermasse con l'esercito appresso a
Pisa. La qual cosa disprezzata da lui, perché la rocca di Stampace,
conquassata prima molto dalle artiglierie sue e poi da quelle de'
pisani, non si poteva difendere, abbandonatala, ridusse il quarto dí
di settembre tutto il campo alla via della marina; e diffidandosi di
potere condurre per terra l'artiglieria a Cascina, perché dalle
pioggie erano soffocate le strade, la imbarcò alla foce d'Arno
perché si conducesse a Livorno: ma mostrandosi in ogni cosa avversa
la fortuna, se ne sommerse una parte, che fu non molto dipoi
ricuperata da' pisani, che nel tempo medesimo ripreseno la torre che
è a guardia della foce. Per i quali accidenti si augumentò tanto la
sinistra opinione che il popolo fiorentino aveva già conceputa di
Pagolo che, pochi dí poi, chiamato in Cascina da' commissari, sotto
specie di ordinare la distribuzione delle genti alle stanze, fu da
loro, per comandamento del magistrato supremo della città, fatto
prigione; donde mandato a Firenze e, la notte medesima che vi
arrivò, esaminato aspramente con tormenti, fu il seguente dí per
comandamento del medesimo magistrato decapitato. E mancò poco che
nel medesimo infortunio non incorresse insieme con lui il fratello,
il quale i commissari mandorono in quello istante a pigliare: ma
Vitellozzo, cosí ammalato come era di infermità contratta intorno a
Pisa, mentre che simulando volere ubbidire esce del letto, mentre
che mette tempo in mezzo per vestirsi, salito, per l'aiuto di alcuno
de' suoi che vi concorseno, in su uno cavallo, si rifuggí in Pisa,
ricevuto con grandissima letizia da' pisani.
Furono i capi principali della condannazione contro a Pagolo: che
dalla volontà sua fusse proceduto il non acquistare Pisa, avendo
avuto facoltà di pigliarla il dí che fu presa la rocca di Stampace;
che per la medesima cagione avesse differito tanto il dare la
battaglia; avere udito piú volte uomini venuti a lui di Pisa, né mai
comunicato co' commissari le imbasciate loro; e levato da campo
contro al comandamento publico, e abbandonata Stampace, avere
invitato qualcuno degli altri condottieri a occupare in compagnia
sua Cascina, Vico Pisano e l'artiglierie, per potere ne' pagamenti e
nelle altre condizioni maneggiare come gli paresse i fiorentini: che
in Casentino avesse tenuto pratiche occulte co' Medici, e nel tempo
medesimo trattato e quasi conchiuso di condursi co' viniziani
(benché per cominciare a servirgli subito che fusse finita la
condotta sua co' fiorentini, la quale era già quasi alla fine), il
che non avere avuto perfezione perché i viniziani, fatto l'accordo
co' fiorentini, recusorono di condurlo; e che per queste cagioni
avesse dato il salvo condotto al duca di Urbino e a Giuliano de'
Medici. Sopra le quali cose esaminato non confessò particolare
alcuno che l'aggravasse; e nondimeno non fu esaminato piú
lungamente, perché per timore che il re di Francia, già venuto a
Milano, non dimandasse la sua liberazione, fu accelerato il
supplizio. Né alcuni de' suoi ministri, che dopo la morte sua furono
con maggiore comodità esaminati, confessorono altro che essere in
lui molto mala sodisfazione de' fiorentini, per il favore dato in
concorrenza sua al conte Renuccio, per la difficoltà di spedire le
provisioni che dimandava e qualche volta le cose sue particolari, e
per quello che volgarmente si parlava in Firenze in carico suo.
Donde, benché in alcuni restasse opinione che e' non fusse proceduto
sinceramente, come se aspirasse a farsi signore di Pisa e a occupare
qualche altra parte del dominio fiorentino, nel quale nutriva molte
intelligenze e amicizie, nondimeno nella maggiore parte è stata
opinione contraria, persuadendosi che egli desiderasse sommamente la
espugnazione di Pisa, per l'interesse della gloria, primo capitale
de' capitani di guerra, che ottenendo quella impresa gli perveniva
grandissima.
Lib.4, cap.11
Omaggi di príncipi italiani al re di Francia in Milano. Patti
conclusi non senza difficoltà tra il re di Francia e i fiorentini.
Ma al re venuto a Milano erano concorsi, parte in persona parte per
imbasciadori, dal re Federigo in fuori, tutti i potentati d'Italia;
chi per congratularsi solamente della vittoria, chi per giustificare
le imputazioni avute di essere stato piú inclinato a Lodovico Sforza
che a lui, chi per stabilire seco in futuro le cose sue; i quali
tutti raccolse benignamente, e con tutti fece composizioni ma
diverse secondo la diversità delle condizioni e secondo quello che
poteva disegnare di profittarsene. Accettò in protezione il marchese
di Mantova, al quale dette la condotta di cento lancie, l'ordine di
San Michele e onorata provisione: accettò similmente in protezione
il duca di Ferrara; l'uno e l'altro de' quali era andato a lui
personalmente, ma questo non senza spesa e difficoltà, perché, poi
che ebbe consegnato a Lodovico Sforza il castelletto di Genova, era
sempre stato tenuto d'animo alieno dalle cose franzesi: accettò
oltre a questi in protezione, ma ricevuti danari da lui, Giovanni
Bentivogli, che v'avea mandato Annibale suo figliuolo.
Ma con maggiore spesa e difficoltà si composeno le cose de'
fiorentini. A' quali, dimenticati i meriti loro e quello che per
seguitare l'amicizia franzese avevano patito a tempo del re passato,
era avversa quasi tutta la corte, non si accettando le ragioni che,
per non si provocare contro nelle cose di Pisa Lodovico Sforza, gli
aveano necessitati a stare neutrali: perché ne' petti de' franzesi
poteva ancora la impressione fatta quando il re Carlo concedé la
libertà a' pisani; anzi appresso a' capitani e agli uomini militari
era cresciuta l'affezione, per la fama ampliata per tutto che e'
fussino uomini valorosi nell'armi. Noceva oltre a questo a'
fiorentini l'autorità di Gianiacopo da Triulzio il quale, aspirando
al dominio di Pisa, favoriva la causa de' pisani, desiderosi di
ricevere per signore lui e ogn'altro che avesse potuto difendergli
da' fiorentini. I quali erano lacerati medesimamente, per tutta la
corte, della morte di Pagolo Vitelli, come se senza cagione avessino
decapitato uno capitano di tanto valore e al quale la corona di
Francia aveva obligazione, perché il fratello era stato ammazzato ed
egli fatto prigione mentre che erano nel regno di Napoli agli
stipendi del re Carlo. Ma potendo finalmente piú nell'animo del re
l'utilità propria che le cose vane, fu fatta composizione per la
quale il re, ricevutigli in protezione, si obligò a difendergli
contro a ciascuno con seicento lancie e quattromila fanti; e i
fiorentini, reciprocamente, alla difesa degli stati suoi d'Italia
con quattrocento uomini d'arme e tremila fanti: che il re fusse
obligato servirgli, a loro richiesta, di quelle lancie e artiglierie
bisognassino per la ricuperazione di Pisa e delle terre occupate da'
sanesi e da' lucchesi, ma non già di quelle che tenevano i genovesi;
e non essendogli richieste prima queste genti, fusse obligato,
quando mandasse esercito alla impresa di Napoli, voltarle tutte o
parte a questa espedizione; e che ricuperato che avessino Pisa, e
non altrimenti, fussino tenuti dargli, per l'acquisto di Napoli,
cinquecento uomini d'arme e cinquantamila ducati per pagarne
cinquemila svizzeri per tre mesi; e che a lui restituissino
trentaseimila ducati che aveva loro prestati Lodovico Sforza,
defalcandone a dichiarazione di Gianiacopo da Triulzi quel che
avessino pagato o speso per lui: conducessino per capitano generale
delle loro genti il prefetto di Roma fratello del cardinale di San
Piero a Vincola, a instanza del quale fu fatta questa dimanda.
Lib.4, cap.12
Aiuti dati dal re di Francia al Valentino per rivendicare i diritti
della Chiesa sulle terre di Romagna. Come la Chiesa istituita da
principio meramente per l'amministrazione spirituale sia pervenuta
agli stati e agli imperi mondani. Condizioni delle terre di Romagna
e inizi dell'impresa del Valentino. Il Valentino ottiene Imola.
Vicende della guerra fra i veneziani e i turchi.
Né dormiva in tanta opportunità l'ambizione del pontefice; il quale
instando per l'osservazione delle promesse, il re concedette contro
a' vicari di Romagna al duca Valentino, venuto con lui di Francia,
trecento lancie sotto Ivo d'Allegri a spese proprie e quattromila
svizzeri, ma questi a spese del pontefice, sotto il baglí di
Digiuno. Per la dichiarazione della qual cosa, e di molt'altre
succedute ne' tempi seguenti, ricerca la materia che si faccia
menzione che ragioni abbia la Chiesa sopra le terre di Romagna e
sopra molte altre, le quali o ha in vari tempi possedute o ora
possiede: e in che modo, instituita da principio meramente per la
amministrazione spirituale, sia pervenuta agli stati e agli imperi
mondani; e similmente che si narri, come cosa connessa, che
congiunzioni e contenzioni sieno state, per queste e altre cagioni,
in diversi tempi tra i pontefici e gli imperadori.
I pontefici romani, de' quali il primo fu l'apostolo Piero, fondata
da Giesú Cristo l'autorità loro nelle cose spirituali, grandi di
carità d'umiltà di pazienza di spirito e di miracoli, furono ne'
loro princípi non solo al tutto spogliati di potenza temporale ma,
perseguitati da quella, stettono per molti anni oscuri e quasi
incogniti; non si manifestando il nome loro per alcuna cosa piú che
per i supplici, i quali, insieme con quegli che gli seguivano, quasi
quotidianamente sostenevano: perché se bene, per la moltitudine
innumerabile e per le diverse nazioni e professioni che erano in
Roma, fussino qualche volta poco attesi i progressi loro, e alcuni
degli imperadori non gli perseguitassino se non quanto pareva che
l'azioni loro publiche non potessino essere con silenzio trapassate,
nondimeno alcuni altri, o per crudeltà o per l'amore agli dii
propri, gli perseguitorono atrocemente, come introduttori di nuove
superstizioni e distruttori della vera religione. Nel quale stato,
chiarissimi per la volontaria povertà, per la santità della vita e
per i martiri, continuorono insino a Silvestro pontefice; a tempo
del quale essendo venuto alla fede cristiana Costantino imperadore,
mosso da' costumi santissimi e da' miracoli che in quegli che il
nome di Cristo seguitavano continuamente si vedevano, rimasono i
pontefici sicuri de' pericoli ne' quali erano stati circa a trecento
anni, e liberi di esercitare publicamente il culto divino e i riti
cristiani: onde per la riverenza de' costumi loro, per i precetti
santi che contiene in sé la nostra religione, e per la prontezza che
è negli uomini a seguitare, o per ambizione, il piú delle volte, o
per timore, l'esempio del suo principe, cominciò ad ampliarsi per
tutto maravigliosamente il nome cristiano, e insieme a diminuire la
povertà de' cherici. Perché Costantino avendo edificato a Roma la
chiesa di San Giovanni in Laterano, la chiesa di San Piero in
Vaticano, quella di San Paolo e molte altre in diversi luoghi, le
dotò non solo di ricchi vasi e ornamenti ma ancora (perché si
potessino conservare e rinnovare, e per le fabriche e sostentazione
di quegli che vi esercitavano il culto divino) di possessioni e di
altre entrate; e successivamente molti, ne' tempi che seguitorono,
persuadendosi con le elemosine e co' legati alle chiese farsi facile
l'acquisto del regno celeste, o fabricavano e dotavano altre chiese
o alle già edificate dispensavano parte delle ricchezze loro. Anzi,
o per legge o per inveterata consuetudine, seguitando l'esempio del
Testamento vecchio, ciascuno, de' frutti de' beni propri, pagava
alle chiese la decima parte: eccitandosi a queste cose gli uomini
con grande ardore, perché da principio i cherici, da quello in fuora
che era necessario per il moderatissimo vitto loro, tutto il
rimanente, parte nelle fabriche e paramenti delle chiese parte in
opere pietose e caritative, distribuivano. Né essendo entrata ancora
ne' petti loro la superbia e l'ambizione, era riconosciuto
universalmente da' cristiani per superiore di tutte le chiese e di
tutta l'amministrazione spirituale il vescovo di Roma, come
successore dello apostolo Piero, e perché quella città, per la sua
antica degnità e grandezza, riteneva, come capo dell'altre, il nome
e la maestà dello imperio, e perché da quella si era diffusa la fede
cristiana nella maggiore parte della Europa, e perché Costantino,
battezzato da Silvestro, tale autorità volentieri in lui e ne' suoi
successori avea riconosciuta. È fama, oltre a queste cose, che
Costantino, costretto dagli accidenti delle provincie orientali a
trasferire la sedia dello imperio nella città di Bisanzio, chiamata
dal suo nome Costantinopoli, donò a' pontefici il dominio di Roma e
di molte altre città e regioni d'Italia: la quale fama, benché
diligentemente nutricata da' pontefici che succederono e per
l'autorità loro creduta da molti, è dagli autori piú probabili
riprovata, e molto piú dalle cose stesse; perché è manifestissimo
che allora, e lungo tempo dipoi, fu amministrata Roma e tutta Italia
come suddita allo imperio, e dai magistrati deputati dagli
imperadori. Né manca chi redarguisca (sí profonda è spesso nelle
cose tanto antiche la oscurità) tutto quello che si dice di
Costantino e di Silvestro, affermando essi essere stati in diversi
tempi. Ma niuno nega che la traslazione della sedia dello imperio a
Costantinopoli fu la prima origine della potenza de' pontefici,
perché indebolendo in progresso di tempo l'autorità degli imperadori
in Italia, per la continua assenza loro e per le difficoltà che
ebbono nello Oriente, il popolo romano, discostandosi dagli
imperadori e però tanto piú deferendo a' pontefici, cominciò a
prestare loro non subiezione ma spontaneamente uno certo ossequio:
benché queste cose non si dimostrorono se non lentamente, per le
inondazioni dei goti de' vandali e di altre barbare nazioni che
sopravennono in Italia; dalle quali presa e saccheggiata piú volte
Roma, era in quanto alle cose temporali oscuro e abietto il nome de'
pontefici, e piccolissima in Italia l'autorità degli imperadori,
poiché con tanta ignominia la lasciavano in preda de' barbari. Tra
le quali nazioni, essendo stato l'impeto dell'altre quasi come uno
torrente, continuò per settanta anni la potenza de' goti, gente di
nome e di professione cristiana e uscita dalla prima origine sua
delle parti di Dacia e di Tartaria. La quale essendo finalmente
stata cacciata d'Italia dall'armi degli imperadori, cominciò di
nuovo Italia a governarsi per magistrati greci, de' quali quello che
era superiore a tutti, detto con greco vocabolo esarco, risedeva a
Ravenna, città antichissima e allora molto ricca e molto frequente
per la fertilità del paese e perché, dopo l'augumento grande che
ebbe per l'armata potente tenuta continuamente da Cesare Augusto e
da altri imperadori nel porto quasi congiuntogli, e che ora non
apparisce, di Classe, era stata abitata da molti capitani, e poi per
lungo tempo da Teoderico re de' goti e da i suoi successori; i
quali, avendo a sospetto la potenza degli imperadori, aveano eletta
quella piú tosto che Roma per sedia del regno loro, per
l'opportunità del suo mare piú propinquo a Costantinopoli: la quale
opportunità, benché per contraria ragione, seguitando gli esarchi,
fermatisi quivi, deputavano al governo di Roma e delle altre città
d'Italia magistrati particolari, sotto titolo di duchi. Da questo
ebbe origine il nome dello esarcato di Ravenna sotto il quale nome
si comprendeva tutto quello che, non avendo duchi particolari,
ubbidiva immediatamente allo esarco. Nel quale tempo i pontefici
romani, privati in tutto di potenza temporale, e allentata, per la
dissimilitudine de' costumi loro già cominciati a trascorrere, la
reverenza spirituale, stavano quasi come subietti agli imperadori;
senza la confermazione de' quali o de' loro esarchi, benché eletti
dal clero e dal popolo romano, non ardivano di esercitare o di
accettare il pontificato: anzi gli episcopi costantinopolitano e
ravennate (perché comunemente la sedia della religione séguita la
potenza dello imperio e delle armi) disputavano spesso della
superiorità con l'episcopo romano. Ma si mutò non molto poi lo stato
delle cose, perché i longobardi, gente ferocissima, entrati in
Italia, occuporono la Gallia Cisalpina, la quale dallo imperio loro
prese il nome di Lombardia, Ravenna con tutto l'esarcato e molte
altre parti d'Italia; e si disteseno l'armi loro insino nella marca
anconitana e a Spuleto e a Benevento, ne' quali due luoghi creorono
duchi particolari: non provedendo a queste cose, parte per la
ignavia loro parte per le difficoltà che avevano in Asia, gli
imperadori. Dagli aiuti de' quali Roma abbandonata, né essendo piú
il magistrato degli esarchi in Italia, cominciò a reggersi co'
consigli e con l'autorità de' pontefici. I quali, dopo molto tempo,
essendo insieme co' romani oppressati da' longobardi, ricorsono
finalmente agli aiuti di Pipino re di Francia; il quale, passato con
potente esercito in Italia, avendovi i longobardi dominato già piú
di dugento anni, cacciatigli di una parte del loro imperio, donò,
come diventate sue per ragione di guerra, al pontefice e alla Chiesa
romana non solo Urbino, Fano, Agobbio e molte terre vicine a Roma ma
eziandio Ravenna col suo esarcato, sotto il quale dicono includersi
tutto quello che si contiene da' confini di Piacenza, contigui al
territorio di Pavia, insino ad Arimini, tra il fiume del Po il monte
Apennino gli stagni, ovvero palude de' viniziani, e il mare
Adriatico, e di piú Arimini insino al fiume della Foglia, detto
allora Isauro. Ma dopo la morte di Pipino, molestando di nuovo i
longobardi i pontefici e quel che era stato donato loro, Carlo suo
figliuolo, quello che poi per le vittorie grandissime che ebbe fu
meritamente cognominato magno, distrutto del tutto lo imperio loro,
confermò la donazione fatta alla Chiesa romana dal padre; e approvò
l'essersi, mentre guerreggiava co' longobardi, date al pontefice la
marca di Ancona e il ducato di Spuleto, il quale comprendeva la
città dell'Aquila e una parte dello Abruzzi. Affermansi queste cose
per certe: alle quali aggiungono alcuni scrittori ecclesiastici
Carlo avere donato alla Chiesa la Liguria insino al fiume del Varo,
ultimo confine d'Italia, Mantova e tutto quello che i Longobardi
possedevano nel Friuli e in Istria; e il medesimo scrive alcuno
altro, dell'isola di Corsica e di tutto il territorio che si
contiene tra le città di Luni e di Parma. Per i quali meriti i re di
Francia, celebrati ed esaltati da' pontefici conseguitorono il
titolo di re cristianissimi; e dipoi, l'anno ottocentesimo della
nostra salute, Leone pontefice insieme col popolo romano, non con
altra autorità il pontefice che come capo di quello popolo, elessono
il medesimo Carlo per imperadore romano, separando eziandio nel nome
questa parte dello imperio dagli imperadori che abitavano a
Costantinopoli, come se Roma e le provincie occidentali, non difese
da loro, avessino bisogno di essere difese da proprio principe. Per
la quale divisione non furno privati gli imperadori
costantinopolitani né dell'isola di Sicilia né di quella parte
d'Italia la quale, discorrendo da Napoli a Manfredonia, è terminata
dal mare; perché erano state continuamente sotto quegli imperadori.
Né si derogò per queste cose alla consuetudine che la elezione de'
pontefici fusse confermata dagli imperadori romani, in nome de'
quali si governava la città di Roma; anzi i pontefici nelle bolle
ne' privilegi e nelle concessioni loro esprimevano con queste parole
formali il tempo della scrittura: “Imperante il tale imperadore
signore nostro”. Nella quale, non grave, o soggezione o dependenza
continuorono insino a tanto che i successi delle cose non dettono
loro animo a reggersi per se stessi. Ma essendo cominciata a
indebolire la potenza degli imperadori, prima per le discordie nate
tra i discendenti medesimi di Carlo magno, mentre che in loro
risedeva la degnità imperiale e dipoi per l'essere stata trasportata
ne' príncipi tedeschi, non potenti come erano stati, per la
grandezza del regno di Francia, i successori di Carlo, i pontefici e
il popolo romano, da' magistrati del quale cominciò Roma, benché
tumultuosamente, a governarsi, derogando in tutte le cose quanto
potevano alla giurisdizione degli imperadori, statuirono per legge
che non piú la elezione de' pontefici avesse a essere confermata da
loro; il che per molti anni si osservò diversamente, secondo che per
la variazione delle cose sorgeva o declinava piú la potenza
imperiale. La quale essendo accresciuta poiché lo imperio pervenne
negli Ottoni di Sassonia, Gregorio, medesimamente di Sassonia,
eletto pontefice per favore di Ottone terzo, che era presente, mosso
dall'amore della propria nazione e sdegnato per le persecuzioni
ricevute da' romani, trasferí per suo decreto nella nazione
germanica la facoltà di eleggere gli imperadori romani, in quella
forma che insino alla età nostra si osserva; vietando agli eletti,
per riservare a' pontefici qualche preeminenza, di non usare il
titolo di imperadori o di Augusti se prima non ricevevano da'
pontefici la corona dello imperio (donde è introdotto il venire a
Roma a incoronarsi), e di non usare prima altro titolo che di re de'
romani e di Cesari. Ma mancati poi gli Ottoni, e diminuita la
potenza degli imperadori perché lo imperio non si continuava
ereditario in re grandi, Roma apertamente si sottrasse dalla
obedienza loro, e molte città, quando imperava Corrado svevo, si
ribellorono; e i pontefici, attendendo ad ampliare la propria
autorità, dominavano quasi Roma, benché spesso per la insolenza e
per le discordie del popolo vi avessino molte difficoltà: il quale
per reprimere avevano già, per favore di Enrico secondo imperadore
che era a Roma, trasferito per legge ne' cardinali soli l'autorità
di creare il pontefice. Alla grandezza de' quali succedette nuovo
augumento, perché avendo i normanni, de' quali il primo fu Guglielmo
cognominato Ferrabracchio, usurpata allo imperio costantinopolitano
la Puglia e la Calavria, Ruberto Guiscardo, uno di essi, o per
fortificarsi con questo colore di ragione o per essere piú potente a
difendersi contro a quegli imperadori o per altra cagione,
restituito Benevento come di ragione ecclesiastica, riconobbe il
ducato di Puglia e di Calavria in feudo della Chiesa romana; il cui
esempio seguitando Ruggieri, uno de' suoi successori, e avendo
scacciato del ducato di Puglia e di Calavria Guglielmo della
medesima famiglia e occupata poi la Sicilia, riconobbe, circa l'anno
mille cento trenta, queste provincie in feudo dalla Chiesa sotto
titolo di re di ambedue le Sicilie, l'una di là l'altra di qua dal
Faro: non ricusando i pontefici di fomentare, per la ambizione e
utilità propria, l'altrui usurpazione e violenza. Con le quali
ragioni pretendendo sempre piú oltre (come non mai si ferma la
cupidità umana) cominciorono i pontefici a privare di quegli regni
alcuni de' re contumaci a' loro comandamenti e a concedergli ad
altri; nel quale modo pervennono in Enrico figliuolo di Federigo
Barbarossa e da Enrico in Federico secondo suo figliuolo, tutt'a tre
successivamente imperadori romani.
Ma essendo Federigo diventato acerrimo persecutore della Chiesa, e
suscitate a' tempi suoi in Italia le fazioni guelfa e ghibellina,
dell'una delle quali era capo il pontefice dell'altra lo imperadore,
il pontefice, morto Federigo, concedette la investitura di questi
regni a Carlo conte d'Angiò e di Provenza, del quale di sopra è
stata fatta menzione, con censo di oncie seimila d'oro per ciascuno
anno, e con condizione che per l'avvenire alcuno di quegli re non
potesse accettare lo imperio romano; la quale condizione è stata poi
sempre specificata nelle investiture; benché il regno dell'isola di
Sicilia, occupato dai re di Aragona, si separò, dopo pochi anni, nel
censo e nella recognizione del feudo, dalla ubbidienza della Chiesa.
Ha anche ottenuto la fama, benché non tanto certa quanto sono le
cose precedenti, che molto prima la contessa Matelda, principessa in
Italia molto potente, donò alla Chiesa quella parte della Toscana la
quale, terminata dal torrente di Pescia e dal castello di San
Quirico nel contado di Siena da una parte, e dall'altra dal mare di
sotto e dal fiume del Tevere, è oggi detta il patrimonio di San
Piero; e aggiungono altri che dalla medesima contessa fu donata alla
Chiesa la città di Ferrara. Non sono certe queste ultime cose: ma è
ancora piú dubbio quello che è stato scritto da qualcuno, che
Aritperto re de' longobardi, fiorendo il regno loro, gli donò l'Alpi
Coccie, nelle quali dicono includersi Genova e tutto quello che si
contiene da Genova insino a' confini della Provenza; e che
Liutprando, re della medesima nazione, gli donò la Sabina, paese
propinquo a Roma, Narni e Ancona con certe altre terre. Cosí
variando lo stato delle cose, furono similmente varie le condizioni
de' pontefici con gli imperadori, perché, essendo stati perseguitati
per molte età dagli imperadori e dipoi liberati, per la conversione
di Costantino, da questo terrore, si riposorono, ma attendendo
solamente alle cose spirituali, e poco meno che interamente sudditi,
per molti anni, sotto l'ombra loro; vissono dipoi lunghissimo tempo
in basso stato e separati totalmente dal commercio loro, per la
grandezza de' longobardi in Italia. Ma dipoi, pervenuti per
beneficio de' re di Francia a potenza temporale, stettono
congiuntissimi con gli imperadori e dependendo con allegro animo
dalla loro autorità, mentre che la degnità imperiale si continuò ne'
discendenti di Carlo magno, e per la memoria de' benefici dati e
ricevuti e per rispetto della grandezza imperiale. La quale poi
declinando, separatisi in tutto dalla amicizia loro, cominciorono a
fare professione che la degnità pontificale avesse piú tosto a
ricevere che a dare le leggi alla imperiale: e perciò, avendo sopra
tutte l'altre cose in orrore il ritornare nell'antica subiezione, e
che essi non tentassino di riconoscere in Roma e altrove le antiche
ragioni dello imperio, come alcuni di loro o di maggiore potenza o
di spirito piú elevato si sforzavano di fare, si opponevano
scopertamente con le armi alla potenza loro; accompagnati da quegli
tiranni che, sotto nome di príncipi, e da quelle città che,
vendicatesi in libertà, non riconoscevano piú l'autorità dello
imperio. Da questo nacque che i pontefici, attribuendosi ogni dí
piú, e convertendo il terrore dell'armi spirituali alle cose
temporali, e interpretando che come vicari di Cristo in terra erano
superiori agli imperadori, e che a loro in molti casi apparteneva la
cura dello stato terreno, privavano alcuna volta gli imperadori
della degnità imperiale, suscitando gli elettori a eleggere degli
altri in luogo de' privati; e da altra parte gli imperadori o
eleggevano o procuravano che si eleggessino nuovi pontefici. Da
queste controversie nacque, essendo indebolito molto lo stato della
Chiesa, né meno per la dimora della corte romana per settanta anni
nella città di Avignone, e per lo scisma che al ritorno de'
pontefici succedette in Italia, che nelle città sottoposte alla
Chiesa, e specialmente in quelle di Romagna, molti cittadini potenti
occuporno nelle patrie proprie la tirannide; i quali i pontefici o
perseguitavano o, non essendo potenti a opprimergli, le concedevano
in feudo a quegli medesimi, o suscitando altri capi gli investivano.
Cosí cominciorono le città di Romagna ad avere signori particolari,
sotto titolo, la maggiore parte, di vicari ecclesiastici. Cosí
Ferrara, data dal pontefice in governo ad Azzo da Esti, fu conceduta
poi in titolo di vicariato, ed esaltata in progresso di tempo quella
famiglia a titoli piú illustri; cosí Bologna, occupata da Giovanni
Visconte arcivescovo di Milano, gli fu poi conceduta in vicariato
dal pontefice: e per le medesime cagioni, in molte terre della marca
di Ancona, del patrimonio di San Piero e della Umbria, ora detta il
ducato, sorsono, o contro alla volontà o con consentimento quasi
sforzato de' pontefici, molti signori particolari. Le quali
variazioni essendo similmente sopravenute in Lombardia alle città
dello imperio, accadde talvolta che, secondo la varietà delle cose,
i vicari di Romagna e di altre terre ecclesiastiche, allontanatisi
apertamente dal nome della Chiesa, riconoscevano in feudo quelle
città dagli imperadori; come, qualche volta, riconoscevano in feudo
da' pontefici quegli che occupavano, in Lombardia, Milano Mantova e
altre terre imperiali. E in questi tempi Roma, benché ritenendo in
nome il dominio della Chiesa, si reggeva quasi per se stessa. E
ancora che, nel principio che i pontefici romani ritornorno di
Avignone in Italia, fussino ubbiditi come signori, nondimeno poco
poi i romani, creato il magistrato de' banderesi, ricaddono nella
antica contumacia; donde ritenendovi i pontefici piccolissima
autorità cominciorono a non vi abitare, insino a tanto che i romani,
impoveriti e caduti in gravissimi disordini per l'assenza della
corte, e approssimandosi l'anno del mille quattrocento, nel quale
speravano, se a Roma fusse il pontefice, dovervi essere per il
giubileo grandissimo concorso di tutta la cristianità, supplicorono
con umilissimi prieghi a Bonifazio pontefice che vi ritornasse,
offerendo di levare via il magistrato de' banderesi e di
sottomettersi in tutto alla ubbidienza sua. Con le quali condizioni
tornato a Roma, intenti i romani a' guadagni di quello anno, preso
assolutamente lo imperio della città, fortificò e messe la guardia
in Castel Sant'Angelo: i successori del quale, insino a Eugenio,
benché v'avessino spesso molte difficoltà, nondimeno, fermato poi
pienamente il dominio loro, i pontefici seguenti hanno senza alcuna
controversia signoreggiata ad arbitrio suo quella città. Con questi
fondamenti e con questi mezzi esaltati alla potenza terrena, deposta
a poco a poco la memoria della salute dell'anime e de' precetti
divini, e voltati tutti i pensieri loro alla grandezza mondana, né
usando piú l'autorità spirituale se non per instrumento e ministerio
della temporale, cominciorono a parere piú tosto príncipi secolari
che pontefici. Cominciorono a essere le cure e i negozi loro non piú
la santità della vita, non piú l'augumento della religione, non piú
il zelo e la carità verso il prossimo, ma eserciti, ma guerre contro
a' cristiani, trattando co' pensieri e con le mani sanguinose i
sacrifici, ma accumulazione di tesoro, nuove leggi nuove arti nuove
insidie per raccorre da ogni parte danari; usare a questo fine senza
rispetto l'armi spirituali, vendere a questo fine senza vergogna le
cose sacre e le profane. Le ricchezze diffuse in loro e in tutta la
corte seguitorono le pompe il lusso e i costumi inonesti, le
libidini e i piaceri abominevoli; nessuna cura a' successori,
nessuno pensiero della maestà perpetua del pontificato, ma, in luogo
di questo, desiderio ambizioso e pestifero di esaltare non solamente
a ricchezze immoderate ma a principati, a regni, i figliuoli i
nipoti e congiunti loro; non distribuendo piú le degnità e gli
emolumenti negli uomini benemeriti e virtuosi, ma, quasi sempre, o
vendendosi al prezzo maggiore o dissipandosi in persone opportune
all'ambizione all'avarizia o alle vergognose voluttà. Per le quali
operazioni perduta del tutto ne' cuori degli uomini la riverenza
pontificale, si sostenta nondimeno in parte l'autorità per il nome e
per la maestà, tanto potente ed efficace, della religione, e aiutata
molto dalla facoltà che hanno di gratificare a' príncipi grandi e a
quegli che sono potenti appresso a loro, per mezzo delle degnità e
delle altre concessioni ecclesiastiche. Donde, conoscendosi essere
in sommo rispetto degli uomini, e che a chi piglia l'armi contro a
loro risulta grave infamia e spesso opposizione di altri príncipi e,
in ogni evento, piccolo guadagno, e che vincitori esercitano la
vittoria ad arbitrio loro, vinti conseguiscono che condizione
vogliono, e stimolandogli la cupidità di sollevare i congiunti suoi
di gradi privati a principati, sono stati da molto tempo in qua
spessissime volte lo instrumento di suscitare guerre e incendi nuovi
in Italia.
Ma ritornando al principale proposito nostro, dal quale il dolore
giustissimo del danno publico m'aveva, piú ardentemente che non
conviene alla legge dell'istoria, traportato, le città di Romagna,
vessate come l'altre suddite alla Chiesa da questi accidenti, si
reggevano, già molti anni, in quanto all'effetto, quasi come
separate dal dominio ecclesiastico; perché alcuni de' vicari non
pagavano il censo debito in recognizione della superiorità, altri lo
pagavano con difficoltà e spesso fuora di tempo, ma tutti
indistintamente senza licenza de' pontefici si conducevano agli
stipendi di altri príncipi, non eccettuando di non essere tenuti a
servirgli contro alla Chiesa, e ricevendo obligazione da loro di
difendergli eziandio contro all'autorità e l'armi de' pontefici: da'
quali erano ricevuti cupidamente, per potersi valere delle armi e
delle opportunità degli stati loro, né meno per impedire che non si
accrescesse la potenza de' pontefici. Ma in questo tempo erano
possedute da' viniziani in Romagna le città di Ravenna e di Cervia,
delle quali avevano molti anni innanzi spogliati quegli della
famiglia da Polenta, divenuti prima, di cittadini privati di
Ravenna, tiranni della loro patria e poi vicari; Faenza Furlí Imola
e Rimini erano dominate da vicari particolari; Cesena, signoreggiata
lungamente dalla famiglia de' Malatesti, morendo non molti anni
innanzi senza figliuoli Domenico ultimo vicario di quella città, era
ritornata sotto l'imperio della Chiesa. Perciò il pontefice,
pretendendo che quelle città fussino per diverse cause devolute alla
sedia apostolica e volere reintegrarla nelle sue antiche
giurisdizioni, ma con intenzione veramente di attribuirle a Cesare
suo figliuolo, avea convenuto col re di Francia che, acquistato che
avesse il ducato di Milano, gli desse aiuto a ottenere solamente
quelle che erano possedute da' vicari, e oltre a queste la città di
Pesero della quale era vicario Giovanni Sforza già suo genero;
perché la grandezza de' viniziani non permetteva che contro a loro
si distendessino questi pensieri: i quali né si distendevano, per
allora, a quelle piccole terre che, contigue al fiume del Po, erano
tenute dal duca di Ferrara. Ottenute adunque il Valentino le genti
dal re, e aggiunte a quelle le genti della Chiesa, entrato in
Romagna, ottenne subito la città d'Imola per accordo, negli ultimi
dí dell'anno mille quattrocento novantanove.
Nel quale anno Italia, conquassata da tanti movimenti, aveva
similmente sentite le armi de' turchi; perché, avendo Baiseth
ottomanno assaltato per mare con potente armata i luoghi che in
Grecia tenevano i viniziani, mandò per terra seimila cavalli a
predare la regione del Frioli; i quali, trovato il paese non
guardato né sospettando di tale accidente, corsono predando e
ardendo insino a Liquenza; e avendo fatto quantità innumerabile di
prigioni, quando, ritornandosene, giunsono alla ripa del fiume del
Tigliavento, per camminare piú espediti, riserbatasi quella parte
quale stimorono potere condurre seco, ammazzorono crudelissimamente
tutti gli altri. Né procedendo anche prosperamente le cose in
Grecia, Antonio Grimanno, capitano generale dell'armata opposta da'
viniziani alla armata del turco, accusato che non avesse usata
l'occasione di vincere gli inimici che uscivano del porto della
Sapienza, e un'altra volta alla bocca del golfo di Lepanto, datogli
il successore, fu citato a Vinegia, e commessa la cognizione al
consiglio de' pregati; nel quale fu trattata molti mesi con
grandissima espettazione, difendendolo da una parte l'autorità e
grandezza sua, dall'altra perseguitandolo con molti argomenti e
testimoni gli accusatori. Finalmente, parendo che fusse per
prevalere la causa sua, o per l'autorità dell'uomo e moltitudine de'
parenti o perché in quello consiglio, nel quale intervengono molti
uomini prudenti, non si considerassino tanto i romori publici e le
calunnie non bene provate quanto si desiderasse di intendere
maturamente la verità della cosa, fu questa cognizione per il
magistrato degli avocadori del comune trasferita al giudicio del
consiglio maggiore: dove, o cessando i favori o avendovi piú luogo
la leggerezza della moltitudine che la maturità senatoria, fu, non
però prima che nell'anno seguente, alla fine rilegato a esilio
perpetuo nell'isola di Ossaro.
Lib.4, cap.13
Il giubileo. Il Valentino prende Forlí. Ritorno del re in Francia:
cause di malcontento in Milano. Lodovico Sforza riconquista il
ducato e cerca con scarsa fortuna alleati ed aiuti. Lodovico Sforza
ottiene Novara.
Ebbe movimenti cosí grandi l'anno mille quattrocento novantanove, ma
non fu meno vario e memorabile l'anno mille cinquecento; nobile
ancora per la remissione plenaria del giubileo. Il quale, instituito
da principio da' pontefici che si celebrasse, secondo l'esempio del
Testamento vecchio, ogni cento anni, non per delettazione o per
pompa, come erano appresso a' romani i giuochi secolari, ma per
salute dell'anime (perché in esso, secondo la pietosa credenza del
popolo cristiano, si aboliscono pienamente tutti i delitti a coloro
che, riconoscendo con vera penitenza i falli commessi, visitano le
chiese dedicate in Roma a' príncipi degli apostoli), fu poi
instituito che si celebrasse ogni cinquanta anni, e in ultimo
ridotto a venticinque anni; e nondimeno, per la memoria della sua
prima origine, è celebrato con molto maggiore frequenza nell'anno
centesimo che negli altri.
Nel principio di questo anno il Valentino ottenne senza resistenza
la città di Furlí; perché quella madonna, mandati i figliuoli e la
roba piú preziosa a Firenze, abbandonate l'altre cose le quali era
impotente a sostenere, si ridusse solamente a difendere la
cittadella e la rocca di Furlí, provedute copiosamente d'uomini e
d'artiglierie. Ma essendo tra tanti difensori ripieni d'animo
femminile ella sola di animo virile, furono presto, per la viltà de'
capitani che v'erano dentro, espugnate dal Valentino. Il quale,
considerando piú in lei il valore che il sesso, la mandò prigione a
Roma, dove fu custodita in Castel Santo Angelo: benché passato di
poco uno anno, per intercessione di Ivo di Allegri, ottenne la
liberazione.
Ottenuto che ebbe il Valentino Imola e Furlí, procedeva
all'espedizione dell'altre terre; ma l'interroppono nuovi accidenti
che improvisamente sopravennono. Perché il re, poiché ebbe dato alle
cose acquistate quello ordine che piú gli parve opportuno,
lasciatovi sufficiente presidio, e prorogata, con inclusione
eziandio del ducato di Milano e di tutto quello teneva in Italia,
per insino a maggio prossimo, la tregua col re de' romani, se ne
ritornò in Francia; ove condusse il piccolo figliuolo di Giovan
Galeazzo, datogli imprudentemente dalla madre, il quale dedicò a
vita monastica; e nel ducato di Milano lasciò governatore generale
Gianiacopo da Triulzi, in cui per il valore e per i meriti suoi, e
per l'inimicizia con Lodovico Sforza, sommamente confidava. Ma non
rimase già fedele disposizione ne' popoli di quello stato; parte
perché a molti dispiacevano le maniere e i costumi de' franzesi,
parte perché nel re non avevano trovato quella liberalità, né
ottenuta l'esenzione di tutti i dazi, come la moltitudine si era
imprudentemente persuasa. E importava molto che a tutta la fazione
ghibellina, potentissima nella città di Milano e nell'altre terre,
era molto molesto che al governo fusse preposto Gianiacopo capo
della fazione guelfa; la quale mala disposizione era molto
accresciuta da lui, che di natura fazioso e di animo altiero e
inquieto favoreggiava con l'autorità del magistrato, molto piú che
non era conveniente, quegli della sua parte; e alienò, oltre a
questo, molto da lui gli animi della plebe, che nella piazza del
macello ammazzò di sua mano alcuni beccai, che con la temerità degli
altri plebei, ricusando di pagare i dazi da' quali non erano esenti,
si opponevano con l'armi a' ministri deputati alle esazioni delle
entrate. Per le quali cagioni dalla maggiore parte della nobiltà e
da tutta la plebe, cupidissima per sua natura di cose nuove, era
desiderato il ritorno di Lodovico, e chiamato già con parole e voci
non occulte il suo nome.
Il quale essendosi insieme col cardinale Ascanio presentato a
Cesare, e con grande umanità veduti e raccolti, avevano trovato in
lui ottimo animo e dispiacere grandissimo delle loro calamità,
promettendo a ogni ora di muoversi in persona con forze potenti alla
recuperazione del loro stato, perché aveva composto in tutto la
guerra co' svizzeri: ma queste speranze, per la varietà della natura
sua e per essere consueto a confondere l'uno con l'altro de' suoi
concetti mal fondati, si scoprivano ogni dí piú vane; anzi
oppressato dalle sue solite necessità non cessava di richiedergli
spesso di danari. Però Lodovico e Ascanio, non sperando piú negli
aiuti suoi ed essendo continuamente sollecitati da molti
gentiluomini di Milano, soldati ottomila svizzeri e cinquecento
uomini d'arme borgognoni, si risolverono di fare la impresa da loro
medesimi. Il quale moto presentendo il Triulzio, ricercò subito il
senato viniziano che accostasse le genti sue al fiume dell'Adda, e a
Ivo d'Allegri significò essere necessario che, partendosi dal
Valentino, ritornasse con le genti d'arme franzesi e co' svizzeri
con grandissima celerità a Milano; e per reprimere il primo impeto
degli inimici mandò una parte delle genti a Como, non lo lasciando
il sospetto che aveva del popolo milanese voltarvi tutte le forze
sue. Ma la sollecitudine de' fratelli Sforzeschi superò tutta la
diligenza degli altri; perché, non aspettate tutte le genti che
aveano soldate ma dato ordine che di mano in mano gli seguitassino,
passorno con somma prestezza i monti, e saliti in sulle barche che
erano nel lago di Como si accostorno a quella città: la quale,
ritirandosi i franzesi per avere conosciuta la disposizione de'
comaschi, subito gli ricevette. La perdita di Como significata a
Milano generò tale sollevazione nel popolo, e quasi in tutti i
principali della fazione ghibellina, che già non si astenevano da
tumultuare; in modo che il Triulzio, non vedendo alle cose del re
rimedio alcuno, si ridusse subitamente nel castello, e la notte
seguente, insieme con le genti d'arme che si erano ritirate nel
barco che è contiguo al castello, se ne andò verso Noara,
seguitandogli nel ritirarsi i popoli tumultuosamente insino al fiume
del Tesino; e lasciate in Novara quattrocento lancie si fermò con
l'altre a Mortara, pensando lui e gli altri capitani piú a
recuperare il ducato, venendo di Francia nuovo soccorso, che a
difenderlo. Entrò dopo la partita de' franzesi in Milano prima il
cardinale Ascanio e di poi Lodovico; avendolo, dal castello in
fuora, ricuperato con la medesima facilità con la quale l'aveano
perduto, e dimostrandosi maggiore desiderio e letizia del popolo
milanese nel suo ritorno che non si era dimostrato nella partita. La
quale disposizione essendo similmente negli altri popoli, le città
di Pavia e di Parma richiamorono senza dilazione il nome di
Lodovico; e arebbono Lodi e Piacenza fatto il medesimo se le genti
viniziane, venute prima in sul fiume di Adda, non vi fussino entrate
subitamente. Alessandria e quasi tutte le terre di là da Po, essendo
piú lontane a Milano e piú vicine ad Asti, città del re, non feceno
mutazione, aspettando di consigliarsi piú maturamente secondo i
progressi delle cose.
Recuperato che ebbe Lodovico Milano non perdé tempo alcuno a soldare
quantità grande di fanti italiani e quanti piú uomini d'arme poteva
avere, e a stimolare con prieghi con offerte e con varie speranze
tutti quegli da' quali sperava di essere aiutato in tanta necessità.
Perciò mandò a Cesare, a significare il principio prospero, il
cardinale di San Severino, supplicandolo che gli mandasse genti e
artiglierie; e desiderando di non avere inimico il senato viniziano,
ordinò che il cardinale Ascanio mandasse subito a Vinegia il vescovo
di [Cremona], a offerire la volontà pronta del fratello ad accettare
qualunque condizione sapessino desiderare: ma vanamente, perché il
senato deliberò non si partire dalla confederazione che aveano col
re. Ricusorono i genovesi, benché pregati instantemente da Lodovico,
di ritornare sotto il dominio suo; né i fiorentini vollono udire la
sua richiesta della restituzione de' danari ricevuti in prestanza da
lui. Solo il marchese di Mantova mandò in aiuto suo il fratello con
certa quantità di gente d'arme, e vi concorsono i signori della
Mirandola di Carpi e di Coreggio, e i sanesi gli mandorono piccola
somma di danari; sussidi quasi disprezzabili in tanti pericoli: come
similmente furno di piccolo momento quegli di Filippo Rosso e de'
Vermineschi, i padri de' quali benché fussino stati spogliati da lui
dell'antico dominio loro, i Rossi di San Secondo di Torchiara e di
molte altre castella del parmigiano, quegli dal Verme della città di
Bobio e d'altri luoghi circostanti nella montagna di Piacenza,
nondimeno Filippo, partendosi senza licenza dagli stipendi veneti,
andò a recuperare le terre sue, e ottenutele si uní con l'esercito
di Lodovico; il medesimo feceno quei dal Verme, per ricuperare l'uno
e gli altri con questa occasione la grazia sua.
Ma Lodovico, avendo raccolti oltre a' cavalli borgognoni mille
cinquecento uomini d'arme e aggiunti a' svizzeri moltissimi fanti
italiani, lasciato il cardinale Ascanio a Milano all'assedio del
castello, passato il Tesino e ottenuta per accordo la terra e la
fortezza di Vigevano, pose il campo a Novara; eletta piú tosto
questa impresa che il tentare la oppugnazione di Mortara, o perché i
franzesi si erano in Mortara molto fortificati o perché stimasse
appartenere piú alla riputazione e alla somma della guerra
l'acquisto di Novara, città celebre e molto abbondante, o perché,
recuperata Novara, la penuria delle vettovaglie avesse a mettere in
necessità i franzesi che erano a Mortara di abbandonarla, o per
impedire che non venisse a Noara Ivo d'Allegri, ritornato di
Romagna. Perché avendo, mentre che col duca Valentino andava alla
impresa di Pesero, ricevuto gli avvisi del Triulzio, partitosi
subitamente con tutta la cavalleria e co' svizzeri, e intesa
appresso a Parma la ribellione di Milano, seguitando con grandissima
velocità il cammino, e convenuto co' parmigiani e co' piacentini di
non gli offendere e che non si opponessino al passare suo, giunto a
Tortona, incitato da' guelfi di quella città ardenti di cupidità di
vendicarsi de' ghibellini, i quali ritornati alla divozione di
Lodovico gli aveano cacciati, entratovi dentro la saccheggiò tutta;
lamentandosi e chiamando invano i guelfi la fede sua che,
fedelissimi e servidori del re, fussino non altrimenti trattati che
i perfidi inimici. Da Tortona si fermò in Alessandria, perché i
svizzeri venuti seco, mossi o dal non essere pagati o da altra
fraude, passorno nell'esercito del duca di Milano. Il quale,
trovandosi piú potente che gli inimici, accelerava con sommo studio
di battere con l'artiglierie Novara, per espugnarla innanzi che i
franzesi, i quali aspettavano soccorso dal re, fussino potenti a
opporsegli in sulla campagna: la quale cosa gli riuscí felicemente,
perché i franzesi che erano in Novara, perduta la speranza del
difendersi, convennono di dargli la città, avuta la fede da lui di
potersene andare salvi con tutte le robe sue; la quale osservando
costantemente, gli fece accompagnare insino a Vercelli, ancora che,
per importare molto alla vittoria la uccisione di quelle genti,
fusse confortato a romperla da molti, che allegavano che, se era
lecito, secondo l'autorità e gli esempli d'uomini grandi, violare la
fede per acquistare stato, doveva essere molto piú lecito il
violarla per conservarlo. Acquistata la terra di Novara si fermò
alla espugnazione della fortezza; ma si crede che se andava verso
Mortara, che le genti franzesi, non essendo molto concordi il
Triulzio e Ligní, si sarebbono ritirate di là dal Po.
Lib.4, cap.14
Solleciti preparativi del re di Francia per riprendere il ducato di
Milano. Gli svizzeri al soldo di Lodovico Sforza s'accordano con
quelli del re di Francia e consegnano Novara. Lodovico Sforza
prigione dei francesi. Anche il card. Ascanio tradito da un parente
ed amico cade prigione. Gli svizzeri occupano la terra di
Bellinzona. Fine di Lodovico Sforza e giudizio dell'autore su di
lui. Il card. Ascanio nella torre di Borges.
Ma mentre che Lodovico attendeva sollecitamente a queste cose non
era stata minore la diligenza e la sollecitudine del re. Il quale,
come ebbe sentita la ribellione di Milano, ardente di sdegno e di
vergogna, mandò subito in Italia la Tramoglia con secento lancie,
mandò a soldare quantità grande di svizzeri; e perché con maggiore
prestezza si provedesse alle cose necessarie, deputato il cardinale
di Roano luogotenente suo di qua da' monti, lo fece incontinente
passare in Asti; di modo che, espedite queste cose con maravigliosa
celerità, si trovorono al principio di aprile insieme in Italia
mille cinquecento lancie diecimila fanti svizzeri e semila de'
sudditi del re sotto la Tramoglia il Triulzio e Ligní. Le quali
genti, unite insieme a Mortara, si appressorono a Novara,
confidandosi non meno nella fraude che nelle forze; perché i
capitani svizzeri che erano con Lodovico, benché nella espugnazione
di Novara avessino dimostrata fede e virtú, si erano, per mezzo de'
capitani svizzeri che erano nell'esercito de' franzesi, convenuti
occultamente con loro: della qual cosa cominciando per alcune
congetture Lodovico a sospettare, sollecitava che quattrocento
cavalli e ottomila fanti che si ordinavano a Milano si unissino
seco. Cominciorono a tumultuare in Novara i svizzeri, istigati da'
capitani, pigliando per occasione che 'l dí destinato al pagamento
non si numeravano i danari per l'impotenza del duca: il quale,
correndo subito al tumulto, con benignissime parole e con tali
prieghi che generavano non mediocre compassione, donati ancora loro
tutti i suoi argenti, gli fece stare pazienti ad aspettare che da
Milano venissino i danari. Ma i capitani loro temerno che, se col
duca si univano le genti che si preparavano a Milano, si impedisse
il mettere a esecuzione il tradimento disegnato; e perciò l'esercito
franzese, secondo l'ordine dato, messosi in arme, si accostò innanzi
dí alle mura di Novara, attorniandone una gran parte, e mandati
alcuni cavalli tra la città e il fiume del Tesino, per tôrre al duca
e agli altri la facoltà di fuggirsi verso Milano. Il quale,
sospettando ogn'ora piú del suo male, volle uscire coll'esercito di
Novara per combattere con gli inimici, avendo già mandati fuora i
cavalli leggieri e i borgognoni a cominciare la battaglia; alla
quale cosa gli fu apertamente contradetto da' capitani de' svizzeri,
allegando che senza licenza de' suoi signori non volevano venire
alle mani co' parenti e co' fratelli propri e con gli altri della
sua nazione: co' quali poco dipoi mescolatisi, come se fussino di
uno esercito medesimo, dissono volersi partire subito per andarsene
alle loro case. Né potendo il duca, né co' prieghi né con le lacrime
né con infinite promesse, piegare la barbara perfidia, si raccomandò
loro efficacemente che almeno conducessino lui in luogo sicuro; ma
perché erano convenuti co' capitani franzesi di partirsi e non
menarlo seco, negato di concedergli la sua dimanda, consentirno si
mescolasse tra essi in abito di uno de' loro fanti, per stare alla
fortuna, se non fusse riconosciuto, di salvarsi. La quale condizione
accettata da lui per ultima necessità non fu sufficiente alla sua
salute, perché, camminando essi in ordinanza per mezzo dell'esercito
franzese, fu, per la diligente investigazione di coloro che erano
preposti a questa cura, o insegnato dai medesimi svizzeri,
riconosciuto, mentre che mescolato nello squadrone camminava a
piede, vestito e armato come svizzero, e subitamente ritenuto per
prigione: spettacolo sí miserabile che commosse le lagrime insino a
molti degli inimici. Furono oltre a lui fatti prigioni Galeazzo da
San Severino, e il Fracassa e Antonio Maria suoi fratelli, mescolati
nell'abito medesimo tra' svizzeri; e i soldati italiani svaligiati e
presi, parte in Novara parte fuggendo verso il Tesino; perché i
franzesi, per non irritare quelle nazioni, lasciorno partire a
salvamento i cavalli borgognoni e i fanti tedeschi.
Preso il duca e dissipato l'esercito, non vi essendo piú alcuno
ostacolo, e piena ogni cosa di fuga e di terrore, il cardinale
Ascanio, il quale avea già inviate le genti raccolte a Milano verso
il campo, sentita tanta rovina, si partí subito da Milano per
ridursi in luogo sicuro, seguitandolo molti della nobiltà ghibellina
che, essendosi scoperti immoderatamente per Lodovico, disperavano
d'ottenere venia da' franzesi. Ma essendo destinato che nelle
calamità de' due fratelli si mescolasse con la mala fortuna la
fraude, si fermò la notte prossima, per ricrearsi alquanto della
fatica ricevuta per la celerità del camminare, a Rivolta nel
piacentino, castello di Currado Lando gentiluomo di quella città,
congiuntogli di parentado e di lunga amicizia; il quale, mutato
l'animo con la fortuna, mandati subito a Piacenza a chiamare Carlo
Orsino e Sonzino Benzone soldati de' viniziani, lo dette loro nelle
mani, e insieme Ermes Sforza fratello del duca Giovan Galeazzo
morto, e una parte de' gentiluomini venuti con lui; perché gli
altri, con piú utile consiglio, non vi si essendo voluti fermare la
notte, erano passati piú avanti. Fu condotto subitamente Ascanio
prigione a Vinegia; ma il re, stimando per la sicurtà del ducato di
Milano quanto era conveniente l'averlo in sua potestà, ricercò senza
indugio il senato viniziano, usando eziandio, come lo vedde stare
sospeso, protesti e minaccie, che gliene desse, allegando
appartenersegli per essere stato preso nel paese sottoposto a sé: la
quale richiesta benché paresse molto acerba e indegnissima del nome
viniziano, nondimeno per fuggire il furore dell'armi sue lo
consentí, e insieme di tutti i milanesi che erano stati presi con
lui. Anzi, essendosi fermati nelle terre di Ghiaradadda Batista
Visconte e altri nobili milanesi fuggiti da Milano per la medesima
cagione, e avendo ottenuto salvocondotto di potervi stare sicuri,
con espressione nominatamente de' franzesi, furono per il medesimo
timore necessitati a dargli in potestà del re: tanto in questo tempo
potette piú nel senato viniziano il terrore dell'armi de' franzesi
che il rispetto della degnità della republica.
Ma la città di Milano, abbandonata d'ogni speranza, mandò subito
imbasciadori al cardinale di Roano a supplicare venia, il quale la
ricevé in grazia e perdonò in nome del re la ribellione, ma
componendogli a pagare trecentomila ducati; benché il re ne rimesse
poi loro la maggiore parte: e col medesimo esempio perdonò Roano
all'altre città che si erano ribellate, e le compose in danari
secondo la possibilità e qualità loro. Cosí finita felicemente la
impresa e licenziate le genti, i fanti di quattro cantoni de'
svizzeri che sono piú vicini che gli altri alla terra di Bellinzone,
posta nelle montagne, nel ritornare a casa l'occuporono
furtivamente. Il qual luogo il re arebbe potuto da principio riavere
da loro con non molta quantità di danari; ma come spesso per sua
natura perdeva, per risparmiare piccola quantità di danari,
occasioni di cose grandi, ricusando di farlo, succederono poi tempi
e accidenti che, molte volte, l'arebbe volentieri, pagandone
grandissima quantità, ricomperato da loro: perché è passo molto
importante a proibire a' svizzeri lo scendere nello stato di Milano.
Fu Lodovico Sforza condotto a Lione, dove allora era il re, e
introdotto in quella città in sul mezzodí, concorrendo infinita
moltitudine a vedere uno principe, poco fa di tanta grandezza e
maestà e per la sua felicità invidiato da molti, ora caduto in tanta
miseria; donde, non ottenuta grazia di essere, come sommamente
desiderava, intromesso al cospetto del re, fu dopo due dí menato
nella torre di Locces, nella quale stette circa dieci anni, e insino
alla fine della vita, prigione: rinchiudendosi in una angusta
carcere i pensieri e l'ambizione di colui che prima appena capivano
i termini di tutta Italia. Principe certamente eccellentissimo per
eloquenza per ingegno e per molti ornamenti dell'animo e della
natura, e degno di ottenere nome di mansueto e di clemente, se non
avesse imbrattata questa laude la infamia per la morte del nipote;
ma da altra parte di ingegno vano e pieno di pensieri inquieti e
ambiziosi, e disprezzatore delle sue promesse e della sua fede; e
tanto presumendo del sapere di se medesimo che, ricevendo somma
molestia che e' fusse celebrata la prudenza e il consiglio degli
altri, si persuadesse di potere con la industria e arti sue volgere
dovunque gli paresse i concetti di ciascuno.
Seguitollo non molto poi il cardinale Ascanio; il quale, ricevuto
con maggiore umanità e onore, e visitato benignamente dal cardinale
di Roano, fu mandato in carcere piú onorata, perché fu messo nella
torre di Borges, stata prigione pochi anni innanzi del medesimo re
che ora lo incarcerava: tanto è varia e miserabile la sorte umana, e
tanto incerte a ognuno ne' tempi futuri le proprie condizioni.
Lib.5, cap.1
Preoccupazioni di Massimiliano per i successi del re di Francia. Il
re dà aiuti a' fiorentini per la riconquista di Pisa. Le milizie
francesi ricevono Pietrasanta da' lucchesi. L'esercito francese dopo
una sola azione contro Pisa tumultua e si scioglie; i pisani
espugnano Librafatta. Turbamento del re di Francia per l'accaduto; i
fiorentini rifiutano nuove offerte del re; peggioramento delle
condizioni de' fiorentini.
Dalla vittoria tanto piena e tanto prospera del ducato di Milano era
augumentata di maniera l'ambizione e l'ardire del re di Francia che
arebbe facilmente, la state medesima, assaltato il reame di Napoli
se non l'avesse ritenuto il timore de' movimenti de' tedeschi.
Perché se bene l'anno dinanzi avesse ottenuta la tregua da
Massimiliano Cesare con inclusione dello stato di Milano, nondimeno
quel re, considerando meglio quanto per la alienazione di uno feudo
tale si diminuisse la maestà dello imperio, e specialmente la
ignominia che ne perveniva a lui, d'avere lasciato, quasi sotto la
sua protezione e sotto le speranze dategli e dopo tanti danari
ricevuti da lui, spogliarne Lodovico Sforza, non avea piú voluto
udire gli imbasciadori né del re di Francia né de' viniziani, come
occupatori delle giurisdizioni imperiali; e acceso ultimatamente
molto piú per la cattività miserabile de' due fratelli, ridestandosi
nell'animo suo l'antiche emulazioni e la memoria delle ingiurie
fatte in diversi tempi a sé e a' suoi predecessori da' re di Francia
e dalla republica viniziana, congregava spesse diete per concitare
gli elettori e gli altri príncipi tedeschi a risentirsi con l'armi
di tanta ingiuria, fatta non meno alla nazione germanica, della
quale era propria la degnità imperiale, che a sé: anzi dimostrava il
pericolo che il re di Francia, presumendo ogni dí piú per tanta
pazienza de' príncipi dello imperio, e insuperbito per tanto favore
della fortuna, non indirizzasse l'animo a procurare con qualche modo
indiretto che la corona imperiale ritornasse, come altre volte era
stata, ne' re di Francia; alla qualcosa arebbe il consentimento del
pontefice, parte per necessità, non potendo resistere alla potenza
sua, parte per la cupidità che aveva della grandezza del figliuolo.
Le quali cose furono cagione che il re, incerto che fine avessino ad
avere queste pratiche, differisse ad altro tempo i pensieri della
guerra di Napoli: e perciò, non essendo occupate ad altra impresa le
genti sue, fu contento, benché non senza molta difficoltà e
dubitazione, di concedere le genti dimandate da' fiorentini per la
recuperazione di Pisa e di Pietrasanta, perché in contrario faceano
instanza grande i pisani, e insieme con loro i genovesi i sanesi e i
lucchesi, offerendo pagare al re al presente centomila ducati in
caso che Pisa Pietrasanta e Montepulciano rimanessino libere dalle
molestie de' fiorentini, e aggiugnerne cinquantamila in perpetuo
ciascuno anno se per l'autorità sua conseguivano i pisani le
fortezze del porto di Livorno e tutto il contado di Pisa. Alle quali
cose pareva che, per la cupidità de' danari, fusse inclinato non
poco l'animo del re; nondimeno, come era solito di fare nelle cose
gravi, rimesse al cardinale di Roano, che era a Milano, questa
deliberazione: appresso al quale, oltre a' sopradetti, intercedevano
per i pisani Gianiacopo da Triulzi e Gianluigi dal Fiesco,
desideroso ciascuno di farsi signore di Pisa, offerendo di pagare al
re, perché lo permettesse, non piccola somma di danari, e
dimostrando appartenere alla sicurtà sua tenere deboli, quando
n'avea l'occasione, i fiorentini e gli altri potentati d'Italia. Ma
nel cardinale potette piú il rispetto della fede del re e i meriti
freschi de' fiorentini, i quali aveano aiutato il re prontamente
nella recuperazione del ducato di Milano, convertendo a sua
richiesta le genti, le quali in tal caso erano obligati di dargli,
in pagamento di danari. Però fu deliberato che a' fiorentini si
dessino per la recuperazione di Pisa, e con promissione del
cardinale che nel passare restituirebbono Pietrasanta e Mutrone,
secento lancie pagate dal re, e a spese loro proprie cinquemila
svizzeri sotto il baglí di Digiuno, e certo numero di guasconi, e
tutta l'artiglieria e le munizioni necessarie a quella impresa; e vi
si aggiunsono, contro alla volontà del re e de' fiorentini, secondo
il costume loro, dumila altri svizzeri. Delle quali genti deputò
capitano Beumonte, dimandatogli da' fiorentini, perché per essere
stato pronto a restituire loro Livorno confidavano molto in lui, non
considerando che nel capitano dell'esercito, se bene è necessaria la
fede è necessaria l'autorità e la perizia delle cose belliche:
benché il re, con piú sano e piú utile consiglio, avesse destinato
Allegri, capitano molto piú perito nella guerra, e al quale, per
essere di sangue piú nobile e di maggiore riputazione, sarebbe stata
piú pronta l'ubbidienza dello esercito.
Ma si cominciorono prestamente a scoprire le molestie e le
difficoltà che accompagnavano gli aiuti de' franzesi: perché,
essendo cominciato a correre il pagamento de' fanti il primo dí di
maggio, dimororno tutto il mese in Lombardia per gli interessi
propri del re, desideroso, con l'occasione del transito di questo
esercito, di trarre danari dal marchese di Mantova e da' signori di
Carpi, di Coreggio e della Mirandola, per pena degli aiuti dati a
Lodovico Sforza; in modo che i fiorentini, cominciati a insospettire
di questo indugio, e parendo oltre a ciò darsi a' pisani troppo
tempo di ripararsi e provedersi, ebbono inclinazione di abbandonare
la impresa. Pure, pretermettendo malvolentieri tale occasione, data
la seconda paga, attendevano a sollecitare il farsi innanzi.
Finalmente, essendosi signori di Carpi, della Mirandola e di
Coreggio, intercedendo per loro il duca di Ferrara, composti di
pagare ventimila ducati, né potendo perdere tempo a sforzare il
marchese di Mantova, il quale da una parte si fortificava, da altra,
allegando la impotenza di pagare danari, mandati imbasciadori al re,
lo supplicava della venia, andorno a campo a Montechierucoli,
castello de' Torelli in parmigiano, i quali aveano aiutato Lodovico
Sforza; non tanto mossi dal desiderio di punire loro quanto per
minacciare, con lo approssimarsi a Bologna, Giovanni Bentivogli, per
i favori similmente prestati a Lodovico Sforza: il quale, per
fuggire il pericolo, compose di pagare quarantamila ducati; e il re
l'accettò di nuovo nella sua protezione insieme con la città di
Bologna, ma con espressa limitazione di non pregiudicare alle
ragioni che vi aveva la Chiesa. Accordata Bologna e preso per forza
Montechierucoli, tornorno le genti indietro a passare l'Apennino per
la via di Pontriemoli; ed entrati in Lunigiana, avendo piú rispetto
agli appetiti e comodi loro che all'onesto, tolseno, a instanza de'
Fregosi, ad Alberigo Malaspina raccomandato de' fiorentini il
castello di Massa e l'altre terre sue. E passati piú innanzi, i
lucchesi (benché reclamando la plebe, ne fussino tra se stessi in
gravi tumulti) consegnorono a Beumonte Pietrasanta, in nome del re;
il quale, lasciata guardia nella fortezza, non rimosse della terra
gli ufficiali loro, perché il cardinale di Roano, disprezzando in
questo le promesse fatte a' fiorentini, ricevuta da' lucchesi certa
quantità di danari, gli avea accettati nella protezione del re,
convenendo che il re tenesse Pietrasanta in diposito insino a tanto
che 'l re avesse dichiarato a chi di ragione si appartenesse.
Ma in questo tempo i pisani, ostinati a difendersi, avevano avuto da
Vitellozzo, col quale erano per l'inimicizia comune co' fiorentini
in grandissima congiunzione, alcuni ingegneri per indirizzare le
loro fortificazioni; alle quali lavoravano popolarmente gli uomini e
le donne. E nondimeno, non pretermettendo di intrattenere con le
solite arti i franzesi, avevano nel consiglio di tutto il popolo
sottomessa la città al re; della quale dedizione mandorono
instrumenti publici non solo a Beumonte ma eziandio a Filippo di
Ravesten, governatore regio in Genova, che temerariamente l'accettò
in nome del re. E avendo Beumonte mandato in Pisa uno araldo a
dimandare la terra, gli risposono non avere maggiore desiderio che
vivere sudditi del re di Francia, e però essere paratissimi a
darsegli, pure che promettesse di non gli mettere sotto il dominio
de' fiorentini; sforzandosi, e con le lagrime delle donne e con ogni
arte, di fare impressione all'araldo di essere osservantissimi e
divotissimi della corona di Francia dalla quale aveano ricevuta la
libertà. Ma Beumonte, avendo esclusi gli imbasciadori pisani mandati
a lui con la medesima offerta, pose il penultimo dí di giugno il
campo a quella città, tra la porta alle Piagge e la porta Calcesana,
dirimpetto al cantone detto il Barbagianni; e avendo la notte
medesima battuto con grande impeto, e continuato di battere insino
alla maggiore parte del dí seguente, gittorono in terra, per la
bontà dell'artiglieria loro, circa sessanta braccia della muraglia.
E come ebbono cessato di tirare, corsono subito i fanti e i cavalli,
mescolati senza ordine o disciplina alcuna, per dare la battaglia;
non avendo pensato in che modo avessino a superare uno fosso
profondo, fatto da' pisani tra il muro battuto e il riparo che era
lavorato di dentro; di maniera che, come lo scopersono, spaventati
dalla sua larghezza e profondità, consumorono il resto del dí piú
presto spettatori della difficoltà che assaltatori. Dopo il quale dí
diminuí sempre la speranza della vittoria: parte perché avevano i
franzesi, per la qualità de' ripari e per l'ostinazione de'
difensori perduto l'ardire; parte perché, per le arti usate, si era
ridesta l'antica inclinazione avuta da quella nazione a' pisani, in
modo che, cominciando a parlare e a dimesticarsi con quegli di
dentro, che continuavano la medesima offerta di darsi al re, pure
che non ritornassino sotto il giogo de' fiorentini, ed entrando
sicuramente molti di loro in Pisa e uscendone come di terra d'amici,
difendevano per tutto il campo e appresso a' capitani la causa de'
pisani; confortandogli similmente molti di loro a difendersi. E a
questo, oltre a' franzesi, detteno animo assai Francesco da Triulzi
luogotenente della compagnia di Gianiacopo e Galeazzo Palavicino che
con la compagnia sua era nel campo franzese. Con l'occasione de'
quali disordini entrò in Pisa, dalla parte di verso il mare,
permettendolo quegli di fuori, Tarlatino da Città di Castello
insieme con alcuni soldati esperimentati alla guerra, mandato da
Vitellozzo in aiuto de' pisani; uomo allora non conosciuto ma che
dipoi, fatto capitano da loro, perseverò insino all'ultimo con non
piccola lode nella difesa di quella città. A queste inclinazioni,
comuni cosí a' fanti come a' cavalli, succederono molti disordini,
perché, desiderando di avere occasione di levarsi dalla impresa,
cominciorono a saccheggiare le vettovaglie che si conducevano al
campo; a' quali disordini non bastando a provedere l'autorità del
capitano, moltiplicorno ogni dí tanto che finalmente i fanti
guasconi tumultuosamente si partirno dall'esercito; l'esempio de'
quali seguitorno tutti gli altri. E nel partirsi, alcuni fanti
tedeschi, venuti per ordine del re da Roma, feciono prigione Luca
degli Albizi commissario fiorentino, con allegare che altra volta,
stati in servigio de' fiorentini a Livorno, non erano stati pagati.
Partironsi subito i svizzeri e gli altri fanti, ma le genti d'arme
si fermorono propinque a Pisa, dove soprastate pochi dí, non
aspettato di intendere la volontà del re, se ne tornorono in
Lombardia: lasciato in grave disordine le cose de' fiorentini,
perché, per potere supplire al pagamento de' svizzeri e de'
guasconi, avevano licenziato tutti i loro fanti. La quale occasione
conoscendo i pisani andorono a campo a Librafatta, la quale
facilmente espugnorno, non meno per l'imprudenza degli inimici che
per le forze proprie; perché dandovi la battaglia, ed essendo
concorsi dove si combatteva tutti i fanti che vi erano dentro,
alcuni di quelli di fuora salirno con le scale nel piú alto luogo
della fortezza che non era guardata, da che spaventati i fanti si
arrenderono; e dipoi subitamente accampatisi al bastione della
Ventura, mentre vi davano la battaglia, i fanti, o per viltà o per
fraude di San Brandano conestabile de' fiorentini, di nazione
lucchese, che vi era dentro, s'arrenderono. L'acquisto de' quali
luoghi fu molto utile a' pisani, perché rimasono allargati e liberi
dalla parte di verso Lucca.
Turbò questo successo delle cose di Pisa piú che non sarebbe
credibile l'animo del re, conoscendo quanto ne rimanesse diminuita
la riputazione del suo esercito, né potendo tollerare che all'armi
de' franzesi, che avevano con tanto spavento d'ognuno corso per
tutta Italia, avesse fatto resistenza una città sola, non difesa da
altri che dal popolo proprio e ove non era alcuno capitano di guerra
famoso; e come spesso fanno gli uomini nelle cose che sono loro
moleste, si ingegnava, ingannando se stesso, di credere che il non
avere i fiorentini fatte le debite provisioni di vettovaglie di
guastatori e di munizioni, come affermavano i suoi per scarico
proprio, fusse stato causa che e' non avessino ottenuta la vittoria,
e che all'esercito fusse mancata ogn'altra cosa che la virtú:
lamentandosi oltre a ciò che dall'avergli fatto instanza
imprudentemente i fiorentini che mandasse le genti piú tosto sotto
Beumonte che sotto Allegri erano proceduti molti disordini. E da
altra parte, desiderando di recuperare l'estimazione perduta, mandò
Corcú suo cameriere a Firenze non tanto per informarsi se le cose
referite da' capitani erano vere quanto per ricercare i fiorentini
che, non perdendo la speranza d'avere per l'avvenire migliore
successo, consentissino che le sue genti d'arme ritornassino ad
alloggiare nel contado di Pisa, per tenere la vernata seguente
infestata continuamente quella città, e con intenzione, come
apparisse la primavera, di ritornare con esercito giusto e meglio
ordinato di capitani e di ubbidienza a oppugnarla; la quale offerta
fu rifiutata da' fiorentini, disperati di potere coll'armi de'
franzesi ottenere migliori effetti; onde diventorno continuamente
peggiori le condizioni loro, perché, divulgandosi il re essere
alienato da essi, cominciorno i genovesi i sanesi e i lucchesi a
sovvenire i pisani scopertamente con genti e con danari e a pigliare
animo qualunque desiderava di offendergli. Onde crescevano eziandio
in Firenze le divisioni de' cittadini, in modo che non solo non
erano bastanti a ricuperare le cose perdute ma né anche provedevano
a' disordini del loro dominio; perché essendosi levate in arme in
Pistoia le parti Panciatica e Cancelliera, e procedendo tra loro
nella città e nel contado a grandissimi incendi e uccisioni, quasi a
modo di guerra ordinata e con aiuti forestieri, non vi facevano
alcuna provisione, con ignominia grande della republica.
Lib.5, cap.2
Accordi fra il pontefice ed il re di Francia; progressi del
Valentino in Romagna. Insuccesso del Valentino contro Faenza per
l'eroica resistenza del popolo. Il giubileo del 1500 e gli aiuti di
danaro del pontefice al Valentino.
Procedeano in questo tempo prosperamente le cose di Cesare Borgia:
perché se bene il re, mal sodisfatto del pontefice per non l'avere
aiutato nella ricuperazione del ducato di Milano, avesse tardato a
dargli aiuto a proseguire la impresa cominciata contro a' vicari di
Romagna, nondimeno lo indusse finalmente in altra sentenza il
desiderio di conservarsi benevolo il pontefice per il timore che
avea de' movimenti di Germania, non trovando mezzo alcuno di
concordia con Cesare, e molto piú l'autorità del cardinale di Roano
per la cupidità di ottenere la legazione del regno di Francia.
Promesse adunque il pontefice al re di aiutarlo, con le genti e con
la persona del figliuolo, quando volesse fare l'impresa del regno di
Napoli, e concedette al cardinale di Roano per [diciotto] mesi la
legazione del regno di Francia; concessione che, per essere cosa
nuova, e perché divertiva ancora che non vi fusse compresa la
Brettagna, molte faccende e molti guadagni dalla corte di Roma, fu
riputata cosa molto grande: e da altra parte il re mandò in aiuto
suo, sotto Allegri, trecento lancie e dumila fanti, significando a
ciascuno che riputerebbe per propria ingiuria se alcuno si opponesse
alla impresa del pontefice. Con la quale reputazione, e con le forze
proprie che erano settecento uomini d'arme e seimila fanti, entrato
il Valentino in Romagna, prese senza resistenza alcuna le città di
Pesero e di Rimini, fuggendosene i suoi signori; e dipoi si voltò
verso Faenza, non difesa da altri che dal popolo medesimo: perché
non solo Giovanni Bentivogli, avolo materno di Astore piccolo
fanciullo, si asteneva, per non irritare l'armi del pontefice e del
figliuolo e per il comandamento avuto dal re, dal porgergli aiuto, e
i fiorentini e il duca di Ferrara per le medesime cagioni facevano
il medesimo, ma ancora i viniziani, obligati alla sua difesa, gli
intimorono, perché cosí furono ricercati dal re, di avere rinunziato
alla protezione che avevano di lui, come similmente aveano fatto
prima per la medesima cagione a Pandolfo Malatesta signore di
Rimini; anzi, per maggiore dimostrazione di essere favorevoli alle
cose del pontefice, creorono in questo tempo medesimo il duca
Valentino loro gentiluomo, dimostrazione solita farsi da quella
republica o per recognizione di benefici ricevuti o per segno di
stretta benivolenza.
Aveva il Valentino condotto a' soldi suoi Dionigi di Naldo da
Bersighella, uomo di seguito grande in Valdilamona, per opera del
quale occupò senza difficoltà la terra di Bersighella e quasi tutta
la valle; e avendo espugnata la rocca vecchia conseguí la nuova per
accordo dal castellano, e sperò, per trattato tenuto dal medesimo
Dionigi col castellano di Faenza, uomo della valle medesima e che
lungamente avea governato lo stato di Astore, entrare nella rocca di
quella città; ma venuto il trattato a luce, fu fatto prigione da'
faventini. I quali, né sbigottiti per essere abbandonati da ciascuno
né per la perdita molto importante della valle, avevano deliberato
di correre ogni pericolo per conservarsi nella soggezione della
famiglia de' Manfredi, dalla quale erano stati moltissimi anni
signoreggiati; e però avevano atteso con grandissima sollecitudine
alla fortificazione della terra. Dalla quale disposizione il
Valentino non potendo rimuovergli né con promesse né con minaccie,
si accampò alle mura della città tra i fiumi di Lamone e di Marzano,
e piantò l'artiglierie a quella parte che è verso Furlí, la quale,
benché circondata di mura, volgarmente si chiama il borgo, ove i
faventini avevano fatto uno gagliardo bastione; e battuto che ebbe a
sufficienza, massime al portone che è tra 'l borgo e la terra, dette
il quinto dí la battaglia, dalla quale difendendosi valorosamente
ridusse i suoi agli alloggiamenti con molto danno, tra' quali restò
morto Onorio Savello. Né erano quieti gli altri dí, essendo
infestato continuamente l'esercito dalle artiglierie di dentro, e
perché gli uomini della terra, se bene non aveano se non
piccolissimo numero di soldati forestieri, uscivano spesso
ferocemente a scaramucciare. Ma sopra tutte l'altre cose, ancora che
non fusse finito il mese di novembre, se gli opponeva l'acerbità del
tempo, asprissimo sopra quella stagione, perché erano nevi
grandissime e freddi intollerabili, per i quali si impedivano quasi
del tutto le fatiche militari e l'alloggiare sotto 'l cielo
scoperto; avendo i faventini, innanzi che 'l campo si accostasse
alle mura, abbruciate tutte le case e tagliati tutti gli alberi
propinqui alla città. Dalle quali difficoltà necessitato il
Valentino, levato il campo il decimo dí, distribuí le genti alle
stanze per le terre vicine: pieno di sommo dolore che, avendo, oltre
alle forze franzesi, uno esercito molto fiorito di capitani e
soldati italiani, perché vi erano Pagolo e Giulio Orsini,
Vitellozzo, e Giampagolo Baglioni, con molti uomini eletti, e
avendosi promesso, co' suoi concetti smisurati, che né mari né monti
gli avessino a resistere, gli fusse oscurata la fama de' princípi
della sua milizia da uno popolo vivuto in lunga pace, e che in quel
tempo non aveva altro capo che un fanciullo; giurando efficacemente
e con molti sospiri che, come prima la stagione lo comportasse,
tornerebbe alla medesima impresa, con animo deliberato di riportarne
o la vittoria o la morte.
Nel qual tempo Alessandro suo padre, acciocché tutte le opere
proprie corrispondessino a uno medesimo fine, avendo questo anno
medesimo creati, con grandissima infamia, dodici cardinali non de'
piú benemeriti ma di quegli che gli offersono prezzo maggiore, per
non pretermettere specie alcuna di guadagno, spargeva per tutta
Italia e per le provincie forestiere il giubileo, celebrato in Roma
con concorso grande, massimamente delle nazioni oltramontane; dando
facoltà di conseguirlo a ciascuno che, non andato a Roma, porgesse
qualche quantità di danari: i quali tutti, insieme con gli altri che
in qualunque modo poteva cavare de' tesori spirituali e del dominio
temporale della Chiesa, somministrava al Valentino. Il quale,
fermatosi a Furlí, preparava le cose necessarie all'oppugnazione per
l'anno futuro: né con minore prontezza attendevano i faventini alla
fortificazione della città.
Lib.5, cap.3
Tregua tra Massimiliano e il re di Francia. Il re di Francia ed il
re di Spagna si accordano segretamente per la conquista e la
spartizione del reame di Napoli. Il re di Francia comincia
scopertamente i preparativi per l'impresa.
Queste cose si feciono l'anno mille cinquecento. Ma molto piú
importanti cose si ordinavano per l'anno mille cinquecent'uno dal re
di Francia: alle quali per essere piú espedito aveva sempre
procurato di fare concordia col re de' romani, per la quale oltre a
ottenere da lui l'investitura del ducato di Milano gli fusse lecito
assaltare il regno di Napoli; usando in questo il mezzo
dell'arciduca suo figliuolo, inclinato alla pace perché i popoli
suoi, per non interrompere il commercio delle mercatanzie,
malvolentieri guerreggiavano co' franzesi, e perché il re che non
aveva figliuoli maschi proponeva di dare Claudia sua figliuola per
moglie a Carlo figliuolo dell'arciduca, e per dota, quando fussino
di età abile a consumare il matrimonio, perché l'uno e l'altro erano
minori di tre anni, il ducato di Milano. Per la cui intercessione,
non si potendo cosí prestamente risolvere molte difficoltà che
intervenivano nella pratica della pace, ottenne, nel principio
dell'anno mille cinquecent'uno, tregua per molti mesi da
Massimiliano, dandogli per ottenerla certa quantità di danari. Nella
quale non fu fatta menzione alcuna del re di Napoli; con tutto che
Massimiliano, avendo ricevuto da lui quarantamila ducati, e
obligazione di pagargli, accadendo il bisogno, quindicimila ducati
ogni mese, gli avesse promesso di non fare accordo alcuno senza
includervelo, e di rompere la guerra, se fusse necessario il fare
diversione, nello stato di Milano. Perciò rimanendo il re di Francia
sicuro per allora de' movimenti di Germania, e sperando di ottenere,
innanzi passasse molto tempo, per mezzo del medesimo arciduca, la
investitura e la pace, voltò tutti i suoi pensieri alla impresa del
regno di Napoli. Alla quale temendo non se gli opponessino i re di
Spagna, e dubitando che a quelli re non si unissino, per timore
della sua grandezza, i viniziani e forse il pontefice, rinnovò con
loro le pratiche, cominciate a tempo del re Carlo, della divisione
di quel reame, al quale Ferdinando re di Spagna pretendeva
similmente avere ragione. Perché se bene Alfonso re di Aragona
l'avesse acquistato per ragioni separate dalla corona di Aragona, e
però come di cosa propria ne avesse disposto in Ferdinando figliuolo
suo naturale, nondimeno in Giovanni suo fratello che gli succedette
nel regno di Aragona, e in Ferdinando figliuolo di Giovanni, era
stata insino allora querela tacita che, avendolo Alfonso conquistato
con l'armi e co' danari del reame di Aragona, apparteneva
legittimamente a quella corona: la quale querela aveva Ferdinando
coperta con astuzia e pazienza spagnuola, non solo non
pretermettendo con Ferdinando re di Napoli, e poi con gli altri che
succederono di lui, gli uffici debiti tra parenti ma eziandio
augumentandogli con vincolo di nuova affinità, perché a Ferdinando
di Napoli dette per moglie Giovanna sua sorella e consentí poi che
Giovanna figliuola di quella si maritasse a Ferdinando giovane; e
nondimeno non aveva però conseguito che la cupidità sua non fusse,
molto tempo prima, stata nota a' re napoletani. Concorrendo adunque
in Ferdinando e nel re di Francia la medesima inclinazione, l'uno
per rimuoversi gli ostacoli e le difficoltà, l'altro per acquistare
parte di quello che lungamente aveva desiderato, poiché a conseguire
il tutto non appariva alcuna occasione, si convenneno di assaltare
in uno tempo medesimo il reame di Napoli, il quale tra loro si
dividesse in questo modo: che al re di Francia toccasse la città di
Napoli con tutta la Terra di Lavoro e la provincia dello Abruzzi, e
a Ferdinando le provincie di Puglia e di Calavria; e che ciascuno si
conquistasse da se stesso la sua parte, non essendo l'altro obligato
ad aiutarlo ma solamente a non impedirlo. E sopra tutto convenneno
che questa concordia si tenesse segretissima, insino a tanto che
l'esercito che il re di Francia mandasse a quella impresa fusse
arrivato a Roma: al qual tempo gli imbasciadori di amendue,
allegando essersi fatta per beneficio della cristianità questa
convenzione e per assaltare gli infedeli, unitamente ricercassino al
pontefice che concedesse la investitura secondo la divisione
convenuta tra loro; investendo Ferdinando sotto titolo di duca di
Puglia e di Calavria e il re di Francia sotto titolo non piú di
Sicilia ma di re di Ierusalem e di Napoli. Il quale titolo del regno
ierosolimitano, pervenuto una volta in Federigo secondo, imperadore
romano e re di Napoli, per dote della sua moglie figliuola di
Giovanni re di Ierusalem, in nome ma non in effetto, era stato
continuamente usato da' re seguenti; benché in uno tempo medesimo se
l'avessino, per diverse ragioni, non meno cupidamente appropriato i
re di Cipri della famiglia Lusignana: tanto sono avidi i príncipi di
abbracciare colori da potere con apparente onestà vessare, benché
spesso indebitamente, gli stati posseduti da altri. La quale
capitolazione tra i due re come fu fatta, il re di Francia cominciò
scopertamente a preparare l'esercito.
Lib.5, cap.4
Dopo aver inflitte nuove e gravi perdite agli assalitori i faentini
si arrendono al Valentino. Sdegno del re di Francia verso i
fiorentini e intenzioni avverse a Firenze del Valentino. Accordi fra
il Bentivoglio e il Valentino. Il Valentino abbandona il territorio
fiorentino per unirsi alle milizie francesi in marcia verso Napoli.
Il quale mentre che si prepara, il Valentino, che ne' primi dí
dell'anno, accostatosi di notte con quantità grande di scale al
borgo di Faenza e avendovi secondo si credeva intelligenza, avea
invano tentato di occuparlo, non avendo piú speranza nella fraude,
prese pochi dí poi Russi e l'altre terre di quel contado; e
ultimatamente vi ritornò col campo nel principio della primavera,
ponendosi di verso la rocca; e da quella parte battuta la muraglia,
fece dare mescolatamente la battaglia dalle genti franzesi e dagli
spagnuoli che erano a' soldi suoi. I quali essendosi presentati con
disordine, si ritirorono senza fare frutto alcuno; ma in capo di tre
dí ne fece dare un'altra con le forze di tutto il campo, della quale
il primo assalto toccò a Vitellozzo e agli Orsini, che scelto il
fiore de' loro soldati assaltorno con grande virtú e con grande
ordine, spingendosi tanto innanzi che talvolta ebbono speranza di
ottenere. Ma non era minore il valore di quegli di dentro e
gagliarda la riparazione fatta da loro, in modo che trovandosi gli
assaltatori avere innanzi a sé uno fosso grande, ed essendo battuti
per fianco da molta artiglieria, furono costretti a ritirarsi; e vi
restò morto di loro Ferrando da Farnese e molti uomini di conto, e
numero grande di feriti. E nondimeno i faventini, avendo ricevuto
danno non piccolo in questo assalto, cominciorono talmente a
considerare come alla fine, abbandonati da ciascuno, potessino
contro a tanto esercito sostenersi, e con quanto danno e male
condizioni verrebbono o espugnati per forza o costretti per l'ultima
necessità a darsi in potestà del vincitore, che, raffreddato tanto
ardore e sottentrando la paura, si arrenderono, pochi dí poi, al
Valentino; salvo l'avere e le persone, e pattuita la libertà di
Astore suo signore, e che gli fusse lecito di andare dove gli
paresse, rimanendogli salva l'entrata delle proprie possessioni. Le
quali cose Valentino, quanto agli uomini di Faenza, osservò
fedelmente: ma Astore, che era minore di diciotto anni e di forma
eccellente, cedendo l'età e la innocenza alla perfidia e crudeltà
del vincitore, fu, sotto specie di volere rimanesse nella sua corte,
ritenuto appresso a lui, con onorevoli dimostrazioni; ma non molto
tempo poi condotto a Roma, saziata prima (secondo si disse) la
libidine di qualcuno, fu occultamente insieme con uno suo fratello
naturale privato della vita.
Acquistato che ebbe il Valentino Faenza si mosse verso Bologna,
avendo in animo non solo di occupare quella città ma di molestare
dipoi i fiorentini; i quali erano in molta declinazione, essendosi
allo sdegno primo del re di Francia aggiunte nuove cagioni.
Conciossiaché, affaticati dalle gravi spese che aveano fatte e che
continuamente erano necessitati di fare, per la guerra co' pisani e
per il sospetto che aveano delle forze del pontefice e del
Valentino, non pagavano al re, con tutto che ne facesse grande
instanza, il residuo de' danari prestati loro dal duca di Milano, né
quegli che e' pretendeva dovere avere per conto de' svizzeri mandati
contro a Pisa; perché avendo i fiorentini negato di pagare loro,
secondo che a Milano aveano convenuto col cardinale di Roano, una
paga per ritornarsene alla patria, perché si erano partiti molti dí
prima che avessino finito di servire lo stipendio ricevuto, il re,
per conservarsi benevola quella nazione, l'aveva pagata del suo
proprio: e gli dimandava con grande acerbità di parole, non
ammettendo scusa alcuna della impotenza loro. Alle quali cose faceva
piú difficile il provedere la discordia civile, nata da' disordini
del governo popolare, nel quale, non essendo alcuno che avesse cura
ferma delle cose, e molti de' cittadini principali sospetti, o come
amici de' Medici o come desiderosi di altra forma di governo, si
reggevano piú con confusione che con consiglio. Onde non facendo
provisione alle dimande del re, anzi lasciate passare senza effetto
le dilazioni impetrate da lui, l'aveano acceso in gravissima
indegnazione; dimandando, oltre a questo, che si preparassino a
dargli i danari e gli aiuti promessi per la impresa di Napoli,
perché se bene, secondo le convenzioni, non si doveano se non dopo
la recuperazione di Pisa, doversi in quanto a lui avere per
recuperata, poiché per colpa loro era proceduto il non ottenerla:
movendolo o la cupidità de' danari, de' quali era per natura molto
amatore, o lo sdegno che ne' tempi conceduti loro non gli aveano
pagati o l'essergli persuaso che, per i disordini del governo e per
i molti amici che v'aveano i Medici, non poteva nelle occorrenze sue
fare fondamento alcuno in quella città. E per condurgli con
l'asprezza e con l'acerbità a quello a che non gli conduceva
l'autorità usava publicamente sinistri termini allo imbasciadore che
aveano appresso a lui, affermando non essere piú tenuto alla loro
protezione, perché avendo essi mancato di adempiere la capitolazione
fatta a Milano, poiché non gli avevano pagati a' tempi promessi i
danari convenuti in quella, non era obligato a osservarla loro: per
il che, essendo per istigazione del pontefice andato alla corte sua
Giuliano de' Medici, a supplicarlo, in nome suo e de' fratelli,
della restituzione alla patria, promettendogli quantità grandissima
di danari, l'avea udito gratissimamente, trattando con esso
assiduamente sopra il loro ritorno. E perciò il Valentino, preso
animo da queste cose, e stimolato da Vitellozzo e dagli Orsini
soldati suoi e inimicissimi de' fiorentini, quello per la ingiuria
della morte del fratello questi per la congiunzione che aveano co'
Medici, aveva prima mandato in aiuto de' pisani Liverotto da Fermo
con cento cavalli leggieri, e dopo l'acquisto di Faenza deliberato
di molestargli: con tutto che da loro il padre ed egli non avessino
ricevuto offese ma piú tosto grazie e comodità; perché a richiesta
loro aveano rinunziato alla protezione degli stati de' Riari, alla
quale erano obligati, e consentito che allo esercito suo andassino
vettovaglie, continuamente, del dominio fiorentino.
Partito adunque di Romagna con questa deliberazione, dichiarato già
dal pontefice dopo l'acquisto di Faenza, con approvazione del
concistorio, duca di Romagna, e ottenutane l'investitura, entrò con
l'esercito nel territorio di Bologna, con grandissima speranza di
occuparla. Ma il dí medesimo che alloggiò a Castel San Piero, terra
posta quasi ne' confini tra Imola e Bologna, ricevé comandamento dal
re di Francia di non procedere né alla occupazione di Bologna né a
cacciarne Giovanni Bentivogli, perché allegava essere obligato alla
protezione e della città e di lui; e quella eccezione espressa
nell'accettazione della protezione, di non pregiudicare alle ragioni
della Chiesa, doversi intendere di quelle ragioni e preminenze che
allora vi possedeva la Chiesa, perché intendendosi indistintamente e
non secondo il suono delle parole, come pretendeva il pontefice,
sarebbe stata cosa vana e di niuno momento a' bolognesi e a'
Bentivogli il ricevergli nella sua protezione. Però il Valentino,
deposto per allora, con gravissima querela del pontefice e sua, la
speranza conceputa, convenne col Bentivoglio, per mezzo di Pagolo
Orsino, che gli concedesse passo e vettovaglia per il bolognese,
pagassegli ogni anno novemila ducati, servisselo di certo numero di
uomini d'arme e di fanti per andare in Toscana, e gli lasciasse la
terra di Castel Bolognese, che, posta tra Imola e Faenza, è
giurisdizione di Bologna; che da lui fu donata a Pagolo Orsini. Il
quale accordo come fu fatto, il Bentivoglio, o per sospetto che
avesse da sé proprio o perché, secondo che fu fama, il Valentino,
per concitargli maggiore odio in quella città, gli avesse rivelato
essere stato invitato ad accostarsi a Bologna dalla famiglia de'
Mariscotti, famiglia potente di clientele e partigiani, e che per
questo e per l'insolenza loro gli era molto sospetta, fece ammazzare
quasi tutti quegli di loro che erano in Bologna; usando per ministri
di questa crudeltà, insieme con Ermes suo figliuolo, molti giovani
nobili, acciò che per la memoria di avere imbrattate le mani nel
sangue de' Mariscotti fussino, essendo divenuti inimici di quella
famiglia, costretti a desiderare la conservazione dello stato suo.
Non seguitorno piú oltre il Valentino le genti franzesi, perché
aspettavano di unirsi con l'esercito regio, il quale in numero di
mille lancie e di diecimila fanti andava sotto Obigní alla impresa
di Napoli. Ma il Valentino si dirizzò per il bolognese verso il
dominio fiorentino con settecento uomini d'arme e cinquemila fanti
di gente molto eletta, e di piú con cento uomini d'arme e dumila
fanti che sotto il protonotario suo figliuolo gli dette il
Bentivoglio; e avendo mandato a chiedere a' fiorentini passo e
vettovaglia per il loro dominio, andò innanzi non aspettata la
risposta, dando agli imbasciadori che gli erano stati mandati da'
fiorentini benigne parole, insino che ebbe passato lo Apennino. Ma
come fu condotto a Barberino, mutata la benignità in asprezza,
dimandò facessino confederazione seco, conducessinlo con quel numero
di genti d'arme e con quelle condizioni che convenissino al grado
suo, e che mutato il governo presente ne costituissino un altro nel
quale piú potesse confidare; e pigliava animo a queste dimande non
tanto per la potenza sua, non avendo seco maggiore esercito né
artiglieria da battere terre, quanto per le male condizioni de'
fiorentini, avendo poca gente d'arme, né altri fanti che i paesani
che giornalmente comandavano, e in Firenze timore sospetto e
disunione assai, per essere nel campo suo Vitellozzo e gli Orsini, e
perché per ordine suo Piero de' Medici si era fermato a Logliano nel
bolognese, e il popolo pieno di gelosia che i cittadini potenti non
avessino procurata la sua venuta per ordinare uno governo a loro
sodisfazione. Ma in Valentino non era desiderio di rimettere Piero
de' Medici, perché non giudicava a suo proposito la grandezza degli
Orsini e di Vitellozzo, co' quali sapeva che Piero ritornato nella
patria sarebbe stato congiuntissimo. E ho, oltre a questo, udito da
uomini degni di fede che nell'animo suo era fissa la memoria di uno
antico sdegno conceputo contro a lui, insino quando arcivescovo di
Pampalona, non promosso ancora il padre al pontificato, dava opera
alle leggi canoniche nello studio pisano: perché essendo andato a
Firenze per parlargli sopra uno caso criminale di uno suo familiare,
poiché per piú ore ebbe aspettato invano d'avere udienza da lui,
occupato o in negozi o in piaceri, si era ritornato a Pisa senza
avergli parlato, riputandosi disprezzato e non mediocremente
ingiuriato. E nondimeno, per compiacere a' Vitelli e agli Orsini,
simulava altrimenti; e molto piú per accrescere il terrore e la
disunione de' fiorentini, mediante la quale sperava o ottenere da
loro migliori condizioni o potere avere occasione di occupare
qualche terra importante di quel dominio. Ma presentendo già che lo
insulto suo era molesto al re di Francia, condotto che fu a Campi,
presso a sei miglia a Firenze, fece convenzione con loro in questa
sentenza: che tra la republica fiorentina e lui fusse confederazione
a difesa degli stati, essendo proibito l'aiutare i ribelli l'uno
dell'altro, e nominatamente al Valentino i pisani; perdonassino i
fiorentini tutti i delitti fatti per qualunque nella venuta sua, né
se gli opponessino in difesa del signore di Piombino, il quale era
sotto la loro protezione; conducessinlo agli stipendi loro per tre
anni con trecento uomini d'arme, e con soldo di trentaseimila ducati
per ciascuno anno, li quali fusse tenuto mandare in aiuto loro
qualunque volta n'avessino di bisogno o per difesa propria o per
offesa d'altri. Il quale accordo fatto, andò a Signa, facendo
piccole giornate, e dimorando in ogni alloggiamento qualche dí e
danneggiando con incendi e con prede il paese non manco che se fusse
stato scoperto inimico, dimandava, secondo l'uso de' pagamenti che
si fanno alle genti d'arme, la quarta parte de' danari che si
dovevano in uno anno, e di essere accomodato di artiglierie per
condurle contro a Piombino: una delle quali dimande ricusavano
apertamente i fiorentini perché non vi erano obligati, l'altra
differivano perché erano in animo di non osservare le promesse fatte
per forza, e per avvisi che aveano ricevuti dallo oratore loro che
era appresso al re di Francia speravano essere, con l'autorità sua,
liberati da questa molestia. La quale speranza non riuscí vana,
perché al re era stato grato che il Valentino gli minacciasse ma non
che gli assaltasse; e o gli sarebbe stata molesta la mutazione del
governo presente o, se pure avesse desiderata altra forma di
reggimento in Firenze, gli sarebbe dispiaciuto fusse stato
introdotto con altre forze o con altra autorità che con la sua: e
però, come gli pervenne la notizia che 'l Valentino era entrato nel
dominio fiorentino, gli comandò che ne uscisse subitamente, e a
Obigní, che era già in Lombardia con l'esercito, che, in caso non
ubbidisse, andasse con tutte le forze a farlo partire. Per il che
Valentino, non avuto il quartiere, si dirizzò verso Piombino; e
ordinò che i pisani, i quali per opera di Vitellozzo, mandato a Pisa
da lui per condurre allo esercito artiglierie, erano andati a campo
alle Ripomarancie castello de' fiorentini, se ne levassino. Entrato
nel territorio di Piombino, prese Sughereto, Scarlino e l'isole
dell'Elba e di Pianosa; e lasciate ne' luoghi occupati genti
sufficienti a difenderli e a molestare continuamente Piombino, se ne
andò con l'altre in terra di Roma, per seguitare all'impresa di
Napoli l'esercito del re: del quale una parte condotta da Obigní era
per la via di Castrocaro entrata in Toscana, l'altra per la
Lunigiana; contenendo tutto l'esercito, quando era unito, mille
lancie quattromila svizzeri e seimila altri tra fanti franzesi e
guasconi, e, secondo il solito loro, provisione grande
d'artiglierie. E fu cosa notabile che quella parte che venne per la
Lunigiana passò amichevolmente per la città di Pisa, con grandissima
letizia cosí de' franzesi come de' pisani. E nel tempo medesimo
partiva di Provenza per la medesima impresa, sotto Ravesten
governatore di Genova, l'armata marittima, con tre caracche genovesi
e sedici altre navi e molti legni minori carichi di molti fanti.
Lib.5, cap.5
Federigo d'Aragona si prepara alla difesa. Gli ambasciatori di
Francia e di Spagna notificano al pontefice gli accordi conclusi:
impressione in Italia. Federigo delibera di tentare la sorte delle
armi. I francesi occupano Capua; patti fra Federigo e i francesi.
Sventure della famiglia di Federigo. Federigo in Francia. Il duca di
Calabria in Ispagna.
Contro a' quali movimenti il re Federigo, non sapendo che l'armi
spagnuole fussino sotto specie di amicizia preparate contro a lui,
sollecitava Consalvo Ferrando, il quale con la armata de' re di
Spagna era, sotto simulazione di dargli aiuto, fermatosi in Sicilia,
che venisse a Gaeta; avendogli messe in mano alcune terre di
Calavria, dimandate da lui per farsi piú facile l'acquisto della sua
parte, ma sotto colore di volerle per sicurtà delle sue genti. E
sperava Federigo, congiunto che fusse Consalvo con l'esercito suo,
il quale, parte d'uomini soldati da sé parte che da' Colonnesi si
soldavano a Marino, disegnava che fusse di settecento uomini d'arme
seicento cavalli leggieri e seimila fanti, avere esercito potente a
resistere, senza essere necessitato a rinchiudersi per le terre, a'
franzesi: con tutto gli mancassino gli aiuti sperati dal principe
de' turchi, al quale aveva con grandissima instanza dimandato
soccorso, dimostrandogli dalla vittoria del re presente quel
medesimo anzi maggiore pericolo di quello che aveva temuto dalla
vittoria del re passato. E per assicurarsi dalle fraudi, essendogli
accusati il principe di Bisignano e il conte di Meleto d'avere
occulte pratiche col conte di Caiazzo, che era con l'esercito
franzese, gli aveva fatti incarcerare. Con le quali speranze, avendo
perciò prima mandato Ferdinando suo primogenito, ancora fanciullo, a
Taranto, piú per sicurtà sua, se caso avverso succedesse, che per
difesa di quella città, si fermò con l'esercito a San Germano; ove
aspettando gli aiuti spagnuoli e le genti che gli conducevano i
Colonnesi, sperava d'avere con piú felice successo a difendere
l'entrata del regno che non aveva, nella venuta di Carlo, fatto
Ferdinando suo nipote.
Nel quale stato delle cose era certamente Italia ripiena di
incredibile sospensione, giudicandosi per ciascuno che questa
impresa avesse a essere principio di gravissime calamità; perché né
l'esercito preparato dal re di Francia pareva sí potente che dovesse
facilmente superare le forze unite di Federigo e di Consalvo, e si
giudicava che cominciando a irritarsi gli animi di re sí potenti
avesse l'una parte e l'altra a continuare la guerra con maggiori
forze, onde facilmente potessino sorgere per tutta Italia, per le
varie inclinazioni degli altri potentati, gravi e pericolosi
movimenti. Ma si dimostrorno vani questi discorsi subito che
l'esercito franzese fu giunto in terra di Roma. Perché gli oratori
franzesi e spagnuoli, entrati insieme nel concistorio, notificorono
al pontefice e a' cardinali la lega e la divisione fatta tra' loro
re, per potere attendere, come dicevano, all'espedizione contro agli
inimici della religione cristiana; dimandandone la investitura
secondo il tenore della convenzione che avevano fatta, che fu senza
dilazione conceduta dal pontefice. E perciò, non si dubitando piú
quale avesse a essere il fine di questa guerra e convertito il
timore degli uomini in somma ammirazione, era molto desiderata da
ciascuno la prudenza del re di Francia, che avesse piú tosto voluto
che la metà di quel reame cadesse nelle mani del re di Spagna e
messo in Italia, dove prima era solo arbitro delle cose, uno re
emulo suo, al quale potessino ricorrere tutti gli inimici e
malcontenti di lui e congiunto oltre a questo al re de' romani con
interessi molto stretti, che comportare che Federigo restasse nel
tutto, riconoscendolo da lui e pagandogliene tributo, come per vari
mezzi aveva cercato di ottenere. Ma non era nel concetto universale
meno desiderata la integrità e la fede di Ferdinando,
maravigliandosi tutti gli uomini che, per cupidità di ottenere
quella parte del reame, si fusse congiurato contro a uno re del
sangue suo, e che per potere piú facilmente sovvertirlo l'avesse
sempre pasciuto di promissioni false di aiutarlo; e oscurato lo
splendore del titolo di re cattolico (il quale titolo egli e la
reina Elisabetta avevano, pochi anni innanzi, conseguito dal
pontefice), e quella gloria con la quale era stato esaltato insino
al cielo il nome loro, di avere, non meno per zelo della religione
che per proprio interesse, cacciato i mori del reame di Granata.
Alle quali calunnie, date all'uno e all'altro re, non si rispondeva,
in nome del re di Francia, se non che la possanza franzese era
bastante a dare rimedio, quando fusse il tempo, a tutti i disordini;
ma in nome di Ferdinando si diceva che se bene da Federigo gli fusse
stata data giusta cagione di muoversi contro a lui, per sapere che
egli molto prima aveva tenuto pratiche secrete col re di Francia in
suo pregiudicio, nondimeno non averlo mosso questo ma la
considerazione che, avendo quel re deliberato di fare a ogni modo la
impresa del reame di Napoli, si riduceva in necessità o di
difenderlo o di abbandonarlo. Pigliando la difesa, era principio di
incendio sí grave che sarebbe stato molto pernicioso alla republica
cristiana, e massimamente trovandosi l'armi de' turchi sí potenti
contro a' viniziani per terra e per mare; abbandonandolo, conoscere
che il regno suo di Sicilia restava in grave pericolo e, senza
questo, risultare in danno suo notabile che il re di Francia
occupasse il regno di Napoli appartenente a sé giuridicamente, e che
gli poteva anche pervenire con nuove ragioni in caso mancasse la
linea di Federigo. Però in queste difficoltà avere eletto la via
della divisione, con speranza che per i cattivi governi de' franzesi
gli potrebbe in breve tempo pervenire medesimamente la parte loro:
il che quando succedesse, secondo che lo consigliasse il rispetto
dell'utilità publica, alla quale sempre piú che allo interesse
proprio aveva riguardato, o lo riterrebbe per sé o lo restituirebbe
a Federigo; anzi piú presto a' figliuoli, perché non negava d'avere
quasi in orrore il nome suo, per quello che e' sapeva che, insino
innanzi che il re di Francia pigliasse il ducato di Milano, aveva
trattato co' turchi.
La nuova della concordia di questi re spaventò in modo Federigo che,
ancora che Consalvo, mostrando di disprezzare quello che si era
publicato a Roma, gli promettesse con la medesima efficacia di
andare al soccorso suo, si partí dalle prime deliberazioni; e
ritirato da San Germano verso Capua, aspettava le genti che per
ordine suo avevano soldate i Colonnesi: i quali, lasciata guardata
Amelia e Rocca di Papa, abbandonorono tutto il resto di quello
tenevano in terra di Roma, perché il pontefice, con consentimento
del re di Francia, aveva mosso l'armi per occupare gli stati loro.
Nelle quali difficoltà, avendo pure Consalvo, come intese l'esercito
franzese avere passato Roma, scoperte le sue commissioni e mandato a
Napoli sei galee per levarne le due reine vecchie, sorella l'una
l'altra nipote del suo re, consigliava Prospero Colonna che Federigo
ritenesse quelle galee, e unite tutte le forze sue si opponesse in
sulla campagna agli inimici; perché nel tentare la fortuna poteva
pure essere qualche speranza di vittoria, essendo incertissimi piú
che di tutte l'altre azioni degli uomini gli eventi delle battaglie,
ma in qualunque altro modo essere certissimo che e' non aveva
facoltà alcuna di resistere a due potentissimi re che l'assaltavano
in diverse parti del reame; nondimeno Federigo, giudicando anche di
piccolissima speranza questo consiglio, deliberò di ridursi alla
guardia delle terre. Però essendo, già innanzi che Obigní uscisse di
Roma, ribellato San Germano e altri luoghi vicini, determinò di fare
la prima difesa nella città di Capua; nella quale, con trecento
uomini d'arme alcuni cavalli leggieri e tremila fanti, messe
Fabrizio Colonna, e con lui Rinuccio da Marciano condotto nuovamente
agli stipendi suoi. A guardia di Napoli lasciò Prospero Colonna, ed
egli col resto delle genti si fermò ad Aversa.
Ma Obigní, partito di Roma, fece nel passare innanzi abbruciare
Marino, Cavi e certe altre terre de' Colonnesi, sdegnato perché
Fabrizio aveva fatto in Roma ammazzare i messi di alcuni baroni del
regno seguaci della parte franzese, che erano andati a convenire con
lui. Dirizzossi poi a Montefortino, dove si pensava che Giulio
Colonna facesse resistenza; ma avendolo abbandonato con poca laude,
Obigní procedendo piú oltre occupò tutte le terre circostanti alla
via di Capua insino al Volturno, il quale non si potendo guadare
presso a Capua, andò con lo esercito a passarlo piú alto verso la
montagna: il che inteso per Federigo si ritirò in Napoli,
abbandonata Aversa; la quale città, insieme con Nola e molti altri
luoghi, si dette a' franzesi. Lo sforzo de' quali si ridusse
totalmente intorno a Capua, dove si accamporono parte di qua parte
di là dal fiume, dalla banda di sopra dove il fiume comincia a
passare accanto alla terra; e avendola battuta da ogni parte
gagliardamente, detteno uno assalto molto feroce, il quale benché
non riuscisse prospero, anzi si ritirassino dalle mura con molto
danno, nondimeno, non essendo stato senza grave pericolo di quegli
di dentro, cominciorono gli animi de' capitani e de' soldati a
inclinarsi all'accordo, massime vedendo sollevazione grande nel
popolo della città e negli uomini del paese, ché ve ne era rifuggito
grandissimo numero. Ma avendo, l'ottavo dí poi che era stato posto
il campo, cominciato a parlare, da uno bastione, sopra le condizioni
dello arrendersi, Fabrizio Colonna col conte di Gaiazzo, la mala
guardia di quegli di dentro, come spesso è intervenuto nella
speranza propinqua degli accordi, dette occasione agli inimici di
entrarvi; i quali, per la cupidità di rubare e per lo sdegno del
danno ricevuto quando dettono l'assalto, la saccheggiorno tutta con
molta uccisione, ritenendo prigioni quelli che avanzorono alla loro
crudeltà. Ma non fu minore la empietà efferatissima contro alle
donne, che d'ogni qualità, eziandio le consecrate alla religione,
furno miserabile preda della libidine e della avarizia de'
vincitori; molte delle quali furono poi per minimo prezzo vendute a
Roma: ed è fama che in Capua alcune, spaventandole manco la morte
che la perdita dell'onore, si gittorno chi ne' pozzi chi nel fiume.
Divulgossi, oltre all'altre sceleratezze degne di eterna infamia,
che essendone rifuggite in una torre molte che avevano scampato il
primo impeto, il duca Valentino, il quale con titolo di luogotenente
del re seguitava l'esercito, non con altre genti che co' suoi
gentiluomini e con la sua guardia, le volle vedere tutte, e
consideratele diligentemente ne ritenne quaranta delle piú belle.
Rimasono prigioni Fabrizio Colonna don Ugo di Cardona e tutti gli
altri capitani e uomini di condizione, tra' quali Renuccio da
Marciano, che il dí che si dette l'assalto era stato ferito da una
freccia di balestra; ed essendo in mano d'uomini del Valentino
sopravisse due dí, non senza sospetto di morte procurata. Con la
perdita di Capua fu troncata ogni speranza di potere piú difendere
cosa alcuna. Arrendessi senza dilazione Gaeta; ed essendo Obigní
venuto con l'esercito ad Aversa, Federigo, abbandonata la città di
Napoli, la quale si accordò subito con condizione di pagare
sessantamila ducati a' vincitori, si ritirò in Castelnuovo; e pochi
dí poi convenne con Obigní di consegnargli fra sei dí tutte le terre
e le fortezze che si tenevano per lui, della parte la quale, secondo
la divisione fatta, apparteneva al re di Francia, ritenendosi
solamente l'isola di Ischia per sei mesi: nel quale spazio di tempo
gli fusse lecito di andare in qualunque luogo gli paresse eccetto
che per il regno di Napoli, e di mandare a Taranto cento uomini
d'arme; potesse cavare qualunque cosa di Castelnuovo e di Castel
dell'Uovo, eccetto che l'artiglierie che vi rimasono del re Carlo;
fusse data venia a ciascuno delle cose fatte dappoi che Carlo
acquistò Napoli, e i cardinali Colonna e di Aragona godessino
l'entrate ecclesiastiche che avevano nel regno.
Ma nella rocca di Ischia certamente si veddono accumulate, con
miserabile spettacolo, tutte le infelicità della progenie di
Ferdinando vecchio. Perché oltre a Federigo, spogliato nuovamente di
regno sí preclaro, ansio ancora piú della sorte di tanti figliuoli
piccoli e del primogenito rinchiuso in Taranto che della propria,
era nella rocca Beatrice sua sorella; la quale, poiché dopo la morte
di Mattia famosissimo re di Ungheria, suo marito, ebbe promessa di
matrimonio da Uladislao re di Boemia per indurla a dargli aiuto a
conseguire quello regno, era stata da lui poiché ebbe ottenuto il
desiderio suo ingratamente repudiata, e celebrato con dispensazione
di Alessandro pontefice un altro matrimonio. Eravi ancora Isabella
già duchessa di Milano, non meno infelice di tutti gli altri,
essendo stata, quasi in uno tempo medesimo, privata del marito,
dello stato e dell'unico suo figliuolo.
Né è forse da pretermettere una cosa grandissima, tanto piú rara
quanto è piú raro a' tempi nostri l'amore de' figliuoli verso il
padre: e questo è che essendo andato a Pozzuolo per vedere il
sepolcro paterno [uno] figliuolo di Giliberto di Mompensieri,
commosso da gravissimo dolore, poi che ebbe sparse infinite lacrime
cadde morto in sul sepolcro medesimo.
Ma Federigo, risoluto per l'odio estremo che e' portava al re di
Spagna di rifuggire piú tosto nelle braccia del re di Francia, mandò
al re a dimandargli salvocondotto; e ottenutolo, lasciati tutti i
suoi nella rocca d'Ischia, dove rimasono anche Prospero e Fabrizio
Colonna, che pagata la taglia era stato liberato da' franzesi, e
lasciata l'isola, come prima era, sotto il governo del marchese del
Guasto e della contessa di Francavilla, e mandate parte delle sue
genti alla difesa di Taranto, se ne andò con cinque galee sottili in
Francia: consiglio certamente infelice, perché se fusse stato in
luogo libero arebbe forse, nelle guerre che poi nacqueno tra i due
re, avuto molte occasioni di ritornare nel suo reame. Ma eleggendo
la vita piú quieta, e forse sperando questa essere la via migliore,
accettò dal re il partito di rimanere in Francia, dandogli il re la
ducea d'Angiò e tanta provisione che ascendeva l'anno a trentamila
ducati; e comandò a quegli che aveva lasciati al governo d'Ischia
che la dessino al re di Francia; i quali, recusando di ubbidire, la
ritenneno lungamente, benché sotto le insegne di Federigo.
Era nel tempo medesimo passato Consalvo in Calavria; dove, benché
quasi tutto il paese desiderasse piú presto il dominio de' franzesi,
nondimeno, non avendo chi gli difendesse, tutte le terre lo
riceverono volontariamente, eccetto Manfredonia e Taranto. Ma avuta
Manfredonia e la fortezza per assedio, si ridusse col campo intorno
a Taranto, dove era maggiore difficoltà; ma l'ottenne finalmente per
accordo, perché il conte di Potenza, sotto la cui custodia era stato
dato dal padre il piccolo duca di Calavria, e fra Lionardo
napoletano cavaliere di Rodi governatore di Taranto, non vedendo
speranza di potere piú difendersi, convennono di dargli la città e
la rocca se in tempo di quattro mesi non fussino soccorsi: ricevuto
da lui giuramento solennemente in su la ostia consegrata di lasciare
libero il duca di Calavria, il quale aveva segreto ordine dal padre
di andarsene, quando piú non si potesse resistere alla fortuna, a
ritrovarlo in Francia. Ma né il timore di Dio né il rispetto della
estimazione degli uomini potette piú che lo interesse dello stato:
perché Consalvo, giudicando che in molti tempi potrebbe importare
assai il non essere in potestà de' re di Spagna la sua persona,
sprezzato il giuramento, non gli dette facoltà di partirsi, ma come
prima potette lo mandò bene accompagnato in Ispagna; dove dal re
raccolto benignamente fu tenuto appresso a lui, nelle dimostrazioni
estrinseche, con onori quasi regi.
Lib.5, cap.6
Il Valentino prende Piombino. Matrimonio di Lucrezia Borgia con
Alfonso d'Este. Il re di Francia tratta la pace con Massimiliano.
Trattative del re di Francia coi governi della Toscana. Trattative
fra Massimiliano e il cardinale di Roano a Trento. Morte del doge
Agostino Barbarigo. Rinnovata la confederazione col re di Francia i
fiorentini riprendono la guerra contro Pisa.
Procedevano in questi tempi medesimi le cose del pontefice con la
consueta prosperità: perché aveva acquistato con grandissima
facilità tutto lo stato che i Colonnesi e i Savelli tenevano in
terra di Roma, del quale donò una parte agli Orsini; e il Valentino,
continuando la impresa sua contro a Piombino, vi mandò Vitellozzo e
Giovampagolo Baglioni con nuove genti, per la venuta de' quali
spaventato Jacopo da Appiano che ne era signore, lasciata guardata
la fortezza e la terra, se ne andò per mare in Francia, per tentare
di ottenere dal re, il quale molto prima l'aveva ricevuto nella sua
protezione, che per rispetto dell'onore proprio non lo lasciasse
perire. Alla qual cosa il re, non velando con artificio alcuno la
infamia sua, rispose molto liberamente avere promesso al pontefice
di non se gli opporre, né potersegli opporre senza fare detrimento a
se medesimo. Ma in questo mezzo la terra, per opera di Pandolfo
Petrucci, si arrendé al Valentino; e il medesimo fece poco dipoi la
fortezza. Congiunse ancora il pontefice Lucrezia sua figliuola,
stata già destinata a tre altri mariti, e allora vedova per la morte
di Gismondo principe di Biselli e già figliuolo naturale di Alfonso
re di Napoli, il quale era stato ammazzato dal duca Valentino, ad
Alfonso primogenito d'Ercole da Esti con dota di centomila ducati in
pecunia numerata e con molti donamenti di grandissimo valore. Al
quale matrimonio, molto indegno della famiglia da Esti, solita a
fare parentadi nobilissimi, e perché Lucrezia era spuria e coperta
di molte infamie, acconsentirono Ercole e Alfonso perché il re di
Francia, desideroso di sodisfare in tutte le cose al pontefice, ne
fece estrema instanza; e gli mosse oltre a ciò il desiderio di
assicurarsi con questo mezzo (se però contro a tanta perfidia era
bastante sicurtà alcuna) dall'armi e dall'ambizione del Valentino:
il quale, potente di danari e di autorità della sedia apostolica e
per il favore che aveva dal re di Francia, era già formidabile a una
grande parte d'Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano
termine e freno alcuno.
Continuava in questi tempi medesimi con grandissima sollecitudine il
re di Francia di trattare la pace con Massimiliano Cesare, non solo
per speranza di sollevarsi da spese e da sospetti, e ottenere da lui
la investitura molto desiderata del ducato di Milano, ma eziandio
per avere facoltà di offendere i viniziani; movendolo il sapere che
a loro erano moleste le sue prosperità, e il persuadersi che
secretamente si fussino affaticati per interrompere la pace tra
Cesare e lui. Ma lo moveva piú la cupidità che, per se stesso e per
gli stimoli de' milanesi, aveva di recuperare Cremona e la
Ghiaradadda, cose state poco innanzi concedute loro da esso
medesimo, e Brescia Bergamo e Crema, state già del ducato di Milano,
e occupate da' viniziani nelle guerre che ebbeno con Filippo Maria
Visconte. E per trattare piú da presso queste cose, e per fare le
provisioni necessarie alla impresa di Napoli, aveva mandato molto
prima a Milano il cardinale di Roano, la cui lingua e autorità era
la lingua e l'autorità propria del re, il quale vi era dimorato piú
mesi non avendo ancora potuto, per le spesse variazioni del re de'
romani, fermare seco cosa alcuna.
Per mezzo del cardinale, trattorono i fiorentini in questo tempo di
essere di nuovo ricevuti nella protezione del re, ma senza effetto,
perché proponeva condizioni molto difficili; anzi dimostrando
d'avere totalmente l'animo alieno da loro e pretendendo, il re, non
essere piú obligato alle convenzioni fatte a Milano, fece consegnare
a' lucchesi, accettati di nuovo in protezione, Pietrasanta e
Mutrone, come cose per antiche ragioni appartenenti a quella città:
ma ricevuti da loro, come signore di Genova, ventiquattromila
ducati, perché i lucchesi possessori anticamente di Pietrasanta
l'aveano, per certe necessità, impegnata per tanta quantità a'
genovesi, da' quali era poi per forza d'armi pervenuta ne'
fiorentini. Trattò ancora co' sanesi co' lucchesi e co' pisani di
unirgli insieme per rimettere i Medici in Firenze, disegnando che il
re conseguisse da ciascuno non piccola somma di danari: le quali
pratiche benché si conducessino insino quasi alla stipulazione,
nondimeno non ebbeno effetto perché non erano tutti pronti a pagare
la quantità de' danari dimandata, e perché si conosceva essere piú
facilità a valersi de' fiorentini.
Sopravenne finalmente speranza piú certa dal re de' romani, e però
il cardinale andò a convenirsi [con lui] a Trento dove trattorono
molte cose concernenti di stabilire il matrimonio di Claudia
figliuola del re di Francia e di Carlo primogenito dello arciduca,
con la concessione all'uno e l'altro di loro della investitura del
ducato di Milano. Trattossi similmente di muovere guerra a'
viniziani, per ricuperare ciascuno quello che pretendeva essergli
occupato da loro; e di convocare uno concilio universale per
riordinare le cose della Chiesa, non solo, come dicevano, nelle
membra ma eziandio nel capo: e a questo simulava di consentire il re
de' romani per dare speranza di conseguire il pontificato al
cardinale di Roano, il quale ardentemente vi aspirava; avendone il
suo re, per l'interesse della grandezza propria, non minore cupidità
di lui. Acconsentivasi ancora per la parte del re di Francia, nella
inclusione degli aderenti e confederati suoi, la clausula “salve le
ragioni dello imperio”; per la quale si permetteva a Massimiliano il
riconoscerle eziandio contro a quegli che fussino o ora nominati dal
re o prima accettati sotto la sua protezione. Rimaneva solamente la
difficoltà principale nella investitura, perché Cesare recusava di
concederla a' figliuoli maschi, se alcuni ne nascessino, del re; e
vi era qualche difficoltà sopra la restituzione de' fuorusciti del
ducato di Milano, la quale dimandata instantemente da Cesare non era
consentita dal re, perché erano molti e persone di seguito e di
autorità: benché astretto da' prieghi del medesimo non recusasse di
liberare Ascanio Sforza, e desse speranza di fare il medesimo di
Lodovico Sforza, assegnandogli provisione di ventimila ducati
l'anno, co' quali onestamente vivesse nel regno di Francia. Sopra le
quali difficoltà non essendo interamente concordi ma con speranza di
introdurre qualche forma conveniente, e perciò prolungata di nuovo
la tregua, ritornò il cardinale in Francia, presupponendosi quasi
per certo che le cose trattate avessino ad avere presto perfezione:
la quale [speranza] si augumentò, perché non molto poi l'arciduca,
dovendo andare in Ispagna per ricevere da' popoli, nella persona sua
e di Giovanna sua moglie figliuola primogenita di quegli re, il
giuramento, come destinati alla successione, fatto con la moglie il
cammino per terra, si convenne a Bles col re di Francia; dove
ricevuto con grandissimo onore rimasono insieme concordi del
matrimonio de' figliuoli.
In questo anno medesimo morí Augustino Barbarico doge de' viniziani,
avendo esercitato molto felicemente il suo principato, e con tale
autorità che pareva che in molte cose avesse trapassato il grado de'
suoi antecessori. Però, limitata con leggi nuove la potestà de'
successori, fu eletto in suo luogo Leonardo Loredano; non sentendo,
per la forma molto eccellente del governo loro, le cose publiche, né
per la morte del principe né per la elezione del nuovo, variazione
alcuna.
Erano state in questo anno medesimo, fuora dell'uso degli anni
precedenti, assai quiete l'armi tra' fiorentini e i pisani; perché i
fiorentini, non essendo piú sotto la protezione del re di Francia e
stando in continuo sospetto del pontefice e del Valentino, avevano
piú atteso a guardare le cose proprie che a offendergli; e i pisani,
impotenti da se stessi a travagliargli, non potevano farlo con aiuto
d'altri, perché niuno si moveva se non per sostenergli quando erano
in pericolo di perdersi. Ma nell'anno mille cinquecento due
ritornorono a movimenti consueti, perché i fiorentini, quasi nel
principio del detto anno, convennono di nuovo col re di Francia,
superate tutte le difficoltà piú per beneficio della fortuna che per
benignità del re o per altre cagioni. Conciossiacosaché essendo il
re de' romani entrato, dopo la partita del cardinale di Roano da
lui, in nuovi disegni, e recusando di concedere al re la investitura
del ducato di Milano eziandio per le figliuole femmine, aveva
mandato in Italia oratori Ermes Sforza, liberato di carcere dal re
di Francia per la intercessione della reina de' romani sua sorella,
e il proposto di Brissina, a trattare, col pontefice e con gli altri
potentati, della passata sua per pigliare la corona dello imperio: i
quali, dimorati alquanti dí in Firenze, avevano ottenuto che la
città gli promettesse aiuto di cento uomini d'arme e di trentamila
ducati quando fusse entrato in Italia: e però il re, sospettando che
i fiorentini disperati dell'amicizia sua non volgessino l'animo alle
cose di Massimiliano, partendosi dalle dimande immoderate che aveva
fatte, si ridusse a piú tollerabili condizioni. La somma delle quali
fu: che il re, ricevendogli in protezione, fusse obligato, per tre
anni prossimi, a difendergli con l'armi a spese proprie contro a
ciascuno che o direttamente o indirettamente gli molestasse nello
stato e dominio che in quel tempo possedevano; che i fiorentini gli
pagassino ne' detti tre anni, ogn'anno la terza parte,
centoventimila ducati; intendessinsi annullate tutte l'altre
capitolazioni fatte tra loro e gli oblighi dependenti da quelle; che
a' fiorentini fusse lecito procedere con l'armi contro a' pisani, e
contro a tutti gli altri occupatori delle terre loro. Dalla quale
confederazione avendo preso animo, deliberorono dare il guasto de'
grani e delle biade al contado di Pisa, per ridurre i pisani a
ubbidienza con la lunghezza del tempo e con la fame, poiché le
espugnazioni erano state tentate infelicemente. Questo consiglio era
stato il primo anno della loro ribellione proposto da qualche savio
cittadino, confortando che con questi modi piú certi, benché piú
lunghi, si cercasse di affliggere e consumare i pisani, con minore
spesa e pericolo; perché nelle condizioni tanto perturbate d'Italia,
conservandosi i danari potrebbeno aiutarsene a molte occasioni, ma
cercando di sforzargli sarebbe impresa difficile per essere quella
città forte di muraglie e piena di abitatori ostinati a difenderla,
e perché, qualunque volta la fusse in pericolo di perdersi, tutti
quegli che desideravano che la non si perdesse gli darebbeno aiuto;
in modo che le spese sarebbeno grandi e la speranza piccola, anzi
con pericolo evidente di suscitarsi gravi travagli: il quale
consiglio, rifiutato da principio come dannoso, fu conosciuto utile
dopo il corso di piú anni, ma in tempo che per ottenerne la vittoria
si era già spesa quantità grande di danari e sostenuti molti
pericoli. Dato il guasto, sperando che per rispetto della protezione
del re nessuno si avesse a muovere, mandorno il campo a Vico Pisano:
perché la terra, pochi dí innanzi, per tradimento di alcuni soldati
che vi erano dentro, era stata tolta loro da' pisani, e il
castellano della rocca, non aspettato il soccorso che sarebbe
arrivato in poche ore, l'avea con grandissima viltà data loro. Né
dubitavano ottenerne la vittoria facilmente, sapendo non essere
dentro vettovaglie bastanti a sostentargli per quindici dí, e
confidando di impedire che non ve ne entrasse perché, fabricati
bastioni in su' monti e in piú luoghi, aveano occupati tutti i
passi. E nel tempo medesimo, avendo notizia che Fracassa, il quale
povero e senza soldo stava nel mantovano, andava per entrare in Pisa
con pochi cavalli, in nome e con lettere, benché quasi mendicate, di
Massimiliano, detteno ordine che in quel di Barga fusse assaltato
nel passare: dove, benché rifuggito in una chiesa vicina nel
territorio del duca di Ferrara, fu da quegli che lo seguitavano
fatto prigione.
Lib.5, cap.7
Cause di discordia e principio di guerra tra francesi e spagnuoli
nel reame di Napoli. Nuove milizie inviate dal re di Francia.
Queste cose si moveano in Toscana, non apparendo ancora quel che
fuori dell'espettazione degli uomini aveano a partorire. Ma maggiori
e molto piú pericolosi movimenti, e da' quali avevano a procedere
importantissimi effetti, cominciavano a scoprirsi nel reame di
Napoli, per le discordie che insino nell'anno precedente erano nate
tra' capitani franzesi e spagnuoli: le quali ebbono origine perché,
essendo nella divisione fatta tra i due re aggiudicata all'uno la
Terra di Lavoro e l'Abruzzi all'altro la Puglia e la Calavria, non
furono espressi bene nella divisione i confini e i limiti delle
provincie, donde ciascuno cominciò a pretendere che a sé
appartenesse quella parte che è detta il Capitanato; dando occasione
a questa disputazione l'essere stata variata la denominazione antica
delle provincie da Alfonso di Aragona primo re di Napoli di quel
nome, il quale, avendo rispetto a facilitare le esazioni delle
entrate, divise tutto il reame in sei provincie principali, cioè in
Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calavria, Puglia e Abruzzi;
delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè in Terra di
Otranto, Terra di Bari e Capitanato. Il quale Capitanato essendo
contiguo all'Abruzzi, e diviso dal resto della Puglia dal fiume di
Lofanto già detto Aufido, pretendevano i franzesi (i quali non
avendo in considerazione la denominazione moderna avevano, nel
dividere, avuto rispetto alla antica) o che il Capitanato non si
comprendesse sotto alcuna delle quattro provincie divise o che piú
tosto fusse parte dell'Abruzzi che della Puglia; movendogli non
tanto quello che in sé importasse il paese quanto perché, non
possedendo il Capitanato, non apparteneva a loro parte alcuna
dell'entrate della dogana delle pecore, membro importante
dell'entrate del regno, e perché, essendo privato l'Abruzzi e Terra
di Lavoro de' frumenti che nascono nel Capitanato, potevano ne'
tempi sterili esserne facilmente quelle provincie ridotte in
grandissima estremità, qualunque volta dagli spagnuoli fusse
proibito loro il trarne della Puglia e della Sicilia: ma in
contrario si allegava non potere il Capitanato appartenere a'
franzesi, perché l'Abruzzi terminato ne' luoghi alti non si distende
nelle pianure, e perché nelle differenze de' nomi e de' confini
delle provincie si attende sempre all'uso presente. Sopra la quale
altercazione erano stati contenti, l'anno dinanzi, di partire in
parti eguali l'entrata della dogana; ma il seguente anno, non
contenti alla medesima divisione, ne aveva ciascuno occupato il piú
che aveva potuto. E si erano aggiunte poi nuove contenzioni,
nutricate insino allora (cosí era la fama) piú per volontà de'
capitani che per consentimento de' re: perché gli spagnuoli
pretendevano che il Principato e Basilicata si includesse in
Calavria, che si divide in due parti, Calavria citra e Calavria
ultra cioè l'una di sopra l'altra di sotto, e che Val di Benevento
che tenevano i franzesi fusse parte di Puglia; e però mandorono
ufficiali a tenere la giustizia alla Tripalda vicina a due miglia ad
Avellino, ove dimoravano gli ufficiali de' franzesi. I quali
princípi di manifesta dissensione essendo molesti a' baroni
principali del regno, si intromesseno tra Consalvo Ernandes e Luigi
d'Ormignacca duca di Nemors viceré del re di Francia; ed essendo
venuti, per opera loro, Luigi a Melfi e Consalvo a Atella, terra del
principe di Melfi, dopo pratiche di qualche mese, nelle quali anche
i due capitani parlorno insieme, non trovandosi tra loro forma di
concordia, convennono aspettare la determinazione de' loro re, e che
in questo mezzo non si innovasse cosa alcuna. Ma il viceré franzese,
insuperbito perché era molto superiore di forze, avendo pochi dí poi
fatta altra deliberazione, protestò la guerra a Consalvo in caso non
rilasciasse subito il Capitanato, e dipoi immediate fece correre le
genti sue alla Tripalda; dalla quale incursione, che fu fatta il
decimonono dí del mese di giugno, ebbe principio la guerra: la quale
continuamente proseguendo, cominciò senza rispetto a occupare per
forza, nel Capitanato e altrove, le terre che si tenevano per gli
spagnuoli. Le quali cose non solamente non furono emendate dal suo
re ma, avendo già notizia che il re di Spagna era determinato a non
gli cedere il Capitanato, voltato con tutto l'animo alla guerra, gli
mandò in soccorso per mare dumila svizzeri, e fece condurre agli
stipendi suoi i príncipi di Salerno e di Bisignano e alcuni altri
de' principali baroni. Venne oltre a questo il re a Lione, per
potere di luogo piú propinquo fare le provisioni necessarie
all'acquisto di tutto il reame, al quale, non contento de' luoghi
della differenza, già manifestamente aspirava, e con intenzione di
passare, se bisognasse, in Italia.
Lib.5, cap.8
Ribellione di Arezzo a' fiorentini. I fiorentini sospettano della
complicità del pontefice e del Valentino. Il re di Francia manda
aiuti ai fiorentini e fa intimazioni perché non siano offesi.
Ma a questo fare piú prestamente lo costrinseno nuovi tumulti che
sopravennono in Toscana, concitati da Vitellozzo, con saputa di
Giampaolo Baglione e degli Orsini e con consiglio e autorità
principalmente di Pandolfo Petrucci, desiderosi tutti che Piero de'
Medici ritornasse nello stato di Firenze. Ebbe la cosa origine in
questo modo: che essendo pervenuto a notizia di Guglielmo de' Pazzi,
commissario fiorentino in Arezzo, che alcuni cittadini aretini si
erano convenuti con Vitellozzo di fare ribellare a' fiorentini
quella città, egli, non credendo che l'animo di tutti fusse corrotto
e persuadendosi che la autorità del nome publico supplisse al
mancamento delle forze, non aspettato di fare provisione sufficiente
a opprimere i congiurati e chi gli volesse resistere, come in breve
spazio di tempo poteva fare, fece subito incarcerare due de'
consapevoli; per il che il popolo sollevato dagli altri congiurati,
e per l'ordinario di sinistro animo contro al nome fiorentino,
tumultuando ricuperò i due prigioni e fece prigione il commissario e
gli altri ufficiali, e gridando per tutto Arezzo il nome della
libertà si scoperse in manifesta ribellione; rimanendo sola la
cittadella a divozione de' fiorentini, nella quale, nel principio
del tumulto, si era rifuggito Cosimo vescovo di quella città,
figliuolo del commissario. E dopo questo mandorno subitamente gli
aretini a chiamare Vitellozzo, non contento che innanzi al tempo
determinato da lui co' congiurati fusse succeduto questo accidente,
perché non aveva ancora in ordine le provisioni disegnate per
resistere alle genti de' fiorentini se, come era verisimile, fussino
venute per entrare in Arezzo per la fortezza: per il quale timore,
benché subito andasse ad Arezzo con la compagnia sua delle genti
d'arme e con molti fanti comandati da Città di Castello, e che
Giampaolo Baglioni gliene mandasse da Perugia e Pandolfo Petrucci
gli porgesse segretamente qualche somma di danari, nondimeno,
lasciatevi quelle genti, e dato ordine che attendessino a chiudere
sollecitamente la cittadella acciocché di quella non si potesse
entrare nella città, se ne ritornò a Città di Castello, sotto colore
di andarvi per ritornare presto in Arezzo con maggiore provisione.
Ma in Firenze, per quegli a' quali apparteneva il fare deliberazione
per provedervi, non fu da principio considerato sufficientemente
quanto importasse questo accidente. Perché avendo i cittadini
principali, col consiglio de' quali solevano deliberarsi le cose
importanti della republica, consigliato che subito le genti che
erano a campo a Vico Pisano, in tal numero che movendosi con
celerità non arebbeno avuto resistenza potente, si voltassino ad
Arezzo, molti imperiti che risedevano ne' maggiori magistrati,
vociferando questo essere caso leggiero e da potersi medicare con le
forze degli altri sudditi vicini a quella città ma dimostrarsi il
pericolo molto maggiore da coloro i quali, d'animo alieno dal
presente governo, desideravano che Vico Pisano non si pigliasse,
acciocché non si potesse quell'anno attendere alla ricuperazione di
Pisa, differirono tanto il muovere delle genti che Vitellozzo,
ripreso animo dalla loro tardità e già accresciuto di forze, ritornò
in Arezzo; ove dopo lui andorno con altre genti Giampagolo Baglione
e Fabio figliuolo di Pagolo Orsini, e il cardinale e Piero de'
Medici. E avuto da Siena munizione per l'artiglieria cominciorno a
battere la cittadella, nella quale, secondo l'uso di molti, piú
solleciti a edificare nuove fortezze che diligenti a conservare le
edificate, era mancamento di vettovaglie e dell'altre cose
necessarie a difenderla; e oltre a questo la serrorono con fossi e
argini dal lato di fuora, per proibire che non vi entrasse soccorso:
in modo che quegli di dentro, mancando loro le cose necessarie, e
sapendo che le genti de' fiorentini guidate da Ercole Bentivogli,
venute finalmente a Quarata castello vicino ad Arezzo, non ardivano
farsi piú innanzi, disperati di avere soccorso, per necessità si
arrenderono, il quartodecimo dí dal dí della ribellione con patto
che, salvi gli altri, il vescovo con otto eletti dagli aretini
rimanessino prigioni, per permutargli con alcuni de' loro cittadini
che erano stati incarcerati in Firenze. Disfeciono gli aretini
popolarmente la cittadella; e le genti fiorentine, temendo che
Vitellozzo e Giampagolo, già piú potenti di loro, non andassino ad
assaltargli, si ritirorono a Montevarchi, lasciata facoltà agli
inimici di pigliare tutte le terre circostanti. Credesi che questo
assalto fusse fatto senza partecipazione del pontefice e del
Valentino, a' quali sarebbe stato molesto il ritorno di Piero de'
Medici in Firenze per la congiunzione sua con Vitellozzo e con gli
Orsini, i quali aveano già nell'animo, ma occultamente, di
opprimere; e nondimeno, avendo sempre dato loro speranza del
contrario, consentirono che Vitellozzo, Giampagolo e Fabio, soldati
suoi, proseguissino questa impresa: anzi non dissimulorono poi
d'avere ricevuto della ribellione di Arezzo sommo piacere, sperando
dalle molestie de' fiorentini potere facilmente succedere o che essi
acquistassino qualche parte del dominio loro o costrignerli in
beneficio proprio a qualche dura condizione. Ma a' fiorentini era
difficile credere che essi non ne fussino stati autori; e però,
spaventati tanto piú e confidando poco ne' rimedi che potessino fare
da se medesimi, perché avevano per la mala disposizione della città
poco numero di genti d'arme a' soldi loro, né era possibile
provedersene tanto presto quanto sarebbe in pericolo cosí subito
stato necessario, ricorsono con estrema diligenza agli aiuti del re
di Francia, ricordandogli non solo quello che apparteneva all'onore
suo, per essere egli obligatosi sí frescamente alla loro protezione,
ma eziandio il pericolo imminente al ducato di Milano se il
pontefice e il Valentino, per opera de' quali non era dubbio essere
stato fatto questo movimento, riducessino in loro arbitrio le cose
di Toscana. Trovarsi molto potenti in su l'armi e con esercito
fiorito di capitani e di soldati eletti, e già apparire
manifestamente che a saziare la loro infinita ambizione non era
bastante né la Romagna né la Toscana ma essersi proposti fini vasti
e smisurati; e poi che avevano offeso l'onore del re, assaltando
quegli che erano sotto la sua protezione, costrignerli ora la
necessità a pensare non meno alla sicurtà propria e a tôrre a lui la
facoltà di vendicarsi di tanta ingiuria.
Commossono molto il re queste ragioni, già prima cominciato a
infastidire della insolenza e ambizione del pontefice e del
figliuolo; e, considerando essere cominciata nel regno di Napoli la
guerra tra lui e i re di Spagna, interrotta la concordia trattata
con Massimiliano, né potersi per molte cagioni confidare de'
viniziani, cominciò a dubitare che lo insulto di Toscana non avesse,
con occulto consiglio d'altri contro a sé, fini maggiori: nella
quale dubitazione lo confermorono molto le lettere di Carlo di
Ambuosa signore di Ciamonte, nipote del cardinale di Roano e
luogotenente suo in tutto il ducato di Milano, il quale insospettito
di questa novità lo confortava che al pericolo proprio
sollecitamente provedesse. Però, deliberato di accelerare il passare
in Italia e di non interporre tempo alcuno a sostenere le cose de'
fiorentini, commesse al medesimo monsignore di Ciamonte che subito
mandasse quattrocento lancie in soccorso loro: e mandò subito in
poste Normandia suo araldo a comandare non solamente a Vitellozzo a
Giampagolo a Pandolfo e agli Orsini ma similmente al duca Valentino,
che desistessino dalle offese de' fiorentini, e del medesimo fece
egli stesso grande instanza con l'oratore del pontefice, e minacciò
con parole molto ingiuriose Giuliano de' Medici e gli agenti per
Pandolfo e per Vitellozzo che erano nella sua corte.
Lib.5, cap.9
Il Valentino s'impadronisce del ducato di Urbino. Vitellozzo Vitelli
occupa alcune terre de' fiorentini. Timori del Baglione di
Vitellozzo del Petrucci e degli Orsini per il procedere del
Valentino. Vitellozzo cede Arezzo a' francesi che la consegnano ai
fiorentini. Il gonfaloniere di giustizia a vita in Firenze.
Ma in questo tempo il Valentino, che dopo il caso di Arezzo era
uscito con l'esercito di Roma, simulando di volere attendere alla
espugnazione di Camerino, ove aveva prima mandato a dare il guasto e
a tenerlo assediato il duca di Gravina e Liverotto da Fermo con
parte delle sue genti, ma in verità intento ad acquistare con
insidie il ducato di Urbino, poiché ebbe raccolto il resto dello
esercito ne' confini di Perugia, dimandò a Guidobaldo duca di Urbino
artiglierie e aiuto di genti; il che gli fu conceduto facilmente,
perché a principe che avea l'armi tanto vicine non era sicuro il
negare, e perché avendo prima composte col pontefice alcune
differenze de' censi non avea cagione di temerne: e cosí, rendutolo
manco sufficiente a difendersi partito subito da Nocera, e
camminando con tanta celerità che non che altro non dette nel
cammino spazio alle sue genti di cibarsi, si condusse il dí medesimo
a Cagli, città del ducato di Urbino. La quale subita sua venuta, e
il trovarsi sproveduti, spaventò tanto ciascuno che il duca con
Francesco Maria dalla Rovere prefetto di Roma suo nipote, avuto con
difficoltà spazio di salvarsi, se ne fuggirono: di maniera che,
dalla rocca di San Leo e di Maiuolo in fuora, conseguí in poche ore
tutto quello stato, con grandissimo dolore e terrore di Pandolfo
Petrucci di Vitellozzo e degli Orsini, i quali per il male d'altri
cominciavano chiaramente a conoscere il pericolo proprio.
Acquistato il ducato di Urbino furono vari i suoi pensieri, o di
volgersi a ultimare la impresa di Camerino o di assaltare
scopertamente i fiorentini, alla qual cosa sarebbe stato inclinato
con tutto l'animo se non l'avesse ritenuto il comandamento già avuto
dal re, e l'essere certificato che 'l re, non ostante qualunque
opera fatta dal pontefice perché non si opponesse a questi moti,
mandava le genti d'arme in favore de' fiorentini, disposto in tutto
a difendergli, e, quel che piú lo moveva, che il re passava
personalmente in Italia. Nella quale ambiguità mentre che sta,
fermatosi in Urbino per prendere giornalmente consiglio da quel che
succedeva, si trattavano nel tempo medesimo per il pontefice e per
lui varie cose co' fiorentini, sperando indurgli a qualche loro
desiderio; e da altra parte permetteva che continuamente de' suoi
soldati andassino nel campo di Vitellozzo. Il quale, avendo insieme
ottocento cavalli e tremila fanti e, perché le cose procedessino con
maggiore estimazione, chiamando l'esercito suo esercito
ecclesiastico, aveva, dopo che si era arrenduta la cittadella di
Arezzo, occupato il Monte a San Sovino, Castiglione Aretino e la
città di Cortona, con tutte l'altre terre e castella di Valdichiana;
delle quali niuna aveva aspettato l'assalto, non vedendo pronti gli
aiuti de' fiorentini, e perché essendo il tempo della ricolta non
volevano perdere le loro entrate, e si scusavano non per questo
ribellarsi da' fiorentini, poiché nello esercito era Piero de'
Medici per la restituzione del quale si publicava essere fatta
questa impresa. Né è dubbio, che se dopo l'acquisto di Cortona
Vitellozzo fusse sollecitamente entrato nel Casentino, che in
potestà sua sarebbe stato di andare insino alle mura di Firenze, non
vi essendo ancora giunte le genti de' franzesi, e dissipata la
maggiore parte delle fanterie de' fiorentini perché, essendo quasi
tutte delle terre perdute, se ne erano ritornate alle case loro. Ma
la cupidità di acquistare per sé il Borgo a San Sepolcro, terra
propinqua a Città di Castello (benché per velarla allegasse non
essere sicuro lasciarsi dietro alle spalle terra alcuna degli
inimici), impedí il migliore consiglio; e però si voltò ad Anghiari,
la quale terra, poiché, sola in questa costanza, ebbe aspettato che
vi fussino piantate l'artiglierie, impotente del tutto a difendersi,
si arrendé con alcuni soldati che vi erano, senza alcuna eccezione,
all'arbitrio suo. Avuto Anghiari, ottenne subito il Borgo a San
Sepolcro per accordo, e dipoi ritornò verso il Casentino; e giunto
alla villa di Rassina, mandò uno trombetto a dimandare la terra di
Poppi, nella quale, forte di sito, erano dentro pochi soldati.
Ma la riputazione dell'armi franzesi operò quel che ancora non erano
bastanti a operare le forze loro. Perché essendo già condotte presso
a Firenze sotto il capitano Imbalt dugento lancie, non avendo ardire
per mancamento di fanti di accostarsi agli inimici, erano andate a
castel San Giovanni nel Valdarno con intenzione che in quel luogo si
unissino tutte le genti; ma Vitellozzo, come ebbe intesa la mossa
loro verso il Valdarno, temendo per l'assenza sua alle cose di
Arezzo, si ritirò con grandissima prestezza dalla Vernia alla
collina di Ciciliano presso a due miglia a Quarata, e dipoi fattosi
piú innanzi tre miglia, per mostrare animo e assicurare Rondine e
altri luoghi circostanti, si pose in forte alloggiamento a canto a
Rondine, lasciati alcuni fanti a guardia di Gargonsa e di Civitella,
che erano le porte onde le genti de' fiorentini potevano entrare nel
paese. Le quali, essendo arrivate già sotto il capitano Lancre
dugento altre lancie, si congregavano tra Montevarchi e Laterina,
con intenzione, come avessino messo insieme tremila fanti, di andare
ad alloggiarsi appresso a Vitellozzo in su qualche colle eminente;
il che egli non volendo aspettare, perché né arebbe potuto dimorarvi
né levarsene senza grandissimo pericolo, si ritirò alle mura di
Arezzo. Ma essendo usciti i franzesi con tutto l'esercito in
campagna e postisi a fronte di Quarata, si ritirò dentro in Arezzo;
e ancora che sempre avesse detto di volere fare in quella città una
difesa memorabile, fu necessitato, sopravenendo nuovi casi, a fare
nuovi pensieri. Perché Giampaolo Baglione si era ritirato in Perugia
con le sue genti, temendo per l'esempio di Urbino delle cose
proprie: per il quale esempio, né meno per quello che succedette di
Camerino, erano molto confusi gli animi di Vitellozzo di Pandolfo
Petrucci e degli Orsini; perché il Valentino, mentre trattava
accordo con Giulio da Varano signore di Camerino, conseguitò con
inganni quella città, ed essendo Giulio con due figliuoli venuto in
potestà sua, gli fece, con la medesima immanità che usava contro
agli altri, strangolare.
Ma quel che a Vitellozzo e agli altri dava maggiore terrore era che
'l re di Francia, arrivato già in Asti, mandava Luigi della
Tramoglia in Toscana con dugento lancie e con molte artiglierie; il
quale già condotto a Parma aspettava quivi tremila svizzeri mandati
dal re per la recuperazione d'Arezzo, a spese de' fiorentini. Perché
il re, commosso maravigliosamente contro al pontefice, aveva
nell'animo di spogliare Valentino della Romagna e degli altri stati
i quali aveva occupati; e a questo effetto avendo chiamati a sé
tutti quegli che o temevano della potenza sua o erano stati offesi
da lui, affermava volervi andare in persona, dicendo publicamente
con grande ardore che era impresa sí pietosa e sí santa che né piú
pietosa né piú santa sarebbe la impresa contro a' turchi: disegnando
oltre a questo, nel tempo medesimo, cacciare di Siena Pandolfo
Petrucci, perché a Lodovico Sforza quando ritornò a Milano avea
mandato danari, e dipoi sempre fatto aperta professione di aderire a
Cesare. Ma il pontefice e il Valentino, conoscendo non potere
resistere a sí grave tempesta, si aiutavano con le loro arti;
scusando il movimento d'Arezzo essere stato fatto da Vitellozzo
senza saputa loro, né essere stati di autorità bastante a ritirarlo
né a fare che gli Orsini e Giampagolo Baglione, benché soldati suoi,
mossi dagli interessi propri, si astenessino da dargli aiuto. Anzi,
per mitigare piú l'animo del re, aveva Valentino mandato a
minacciare Vitellozzo che se non abbandonava subito Arezzo e l'altre
terre de' fiorentini gli andrebbe contro con le sue genti. Per le
quali cose spaventato Vitellozzo, e temendo che, come accade quasi
sempre, riconciliatisi tra loro i piú potenti, lo sdegno del re non
si volgesse contro a sé, manco potente, chiamato in Arezzo il
capitano Imbalt, invano contradicendo i fiorentini i quali volevano
che le terre perdute fussino restituite loro subito liberamente,
convenne: che Vitellozzo, partendosi incontinente con le sue genti,
consegnasse Arezzo e tutte l'altre terre a' capitani franzesi per
tenerle in nome del re, insino a tanto che il cardinale Orsino che
andava al re avesse parlato con lui; e che in questo mezzo non
entrasse in Arezzo altra gente che uno de' capitani franzesi con
quaranta cavalli, per sicurtà del quale, e non meno della osservanza
delle promesse, Vitellozzo desse a Imbalt due suoi nipoti per
statichi. Ma fatto l'accordo se ne andò subito con tutte le genti e
artiglierie che erano in Arezzo, lasciando libera a' franzesi la
possessione di tutte le terre; le quali per commissione del re
furono subito restituite a' fiorentini, verificandosi quel che,
mentre si trattava la concordia, aveva, non senza derisione, alle
querele loro risposto Imbalt: non sapere dove si consistesse lo
ingegno tanto celebrato de' fiorentini, che non conoscessino che,
per assicurarsi subito della vittoria senza difficoltà e senza
spesa, e per fuggire il pericolo de' disordini i quali per la natura
de' franzesi potrebbono nascere per mancamento delle vettovaglie o
per altre cagioni, aveano da desiderare che Arezzo in qualunque modo
venisse in mano del re; il quale non sarebbe obligato a attendere
piú che gli paresse le promesse fatte da' suoi capitani a
Vitellozzo.
E cosí, essendo liberati con facilità grande, benché con non piccola
spesa, da sí grave e improviso assalto, dirizzorono l'animo a
riordinare il governo della republica, per la confusione e per i
disordini del quale essere nato tanto pericolo era per l'esperienza
manifesto già insino alla moltitudine; perché per la spessa
mutazione de' magistrati, e per essere il nome de' pochi sospetto al
popolo, non erano né persone publiche né particolari che tenessino
cura assidua delle cose. Ma perché la città quasi tutta aborriva la
tirannide e alla moltitudine era sospettissima l'autorità degli
ottimati, né era possibile ordinare con una medesima deliberazione
la forma perfetta del governo, non si potendo convincere gli uomini
incapaci solamente con le ragioni, fu deliberato di introdurre per
allora di nuovo una cosa sola, cioè che il gonfaloniere della
giustizia, capo della signoria e che insieme con quella si creava
per tempo di due mesi, si eleggesse in futuro per tutta la vita sua,
acciò che con pensieri perpetui vegghiasse e procurasse le cose
publiche in modo che per essere neglette non cadessino piú in tanti
pericoli. E si sperò che, con l'autorità che gli darebbe la qualità
della sua persona e l'avere a stare perpetuo in tanta degnità,
acquisterebbe tale fede appresso al popolo che facilmente potrebbe
riordinare alla giornata l'altre parti del governo; e mettendo in
qualche onesto grado i cittadini di maggiore condizione,
costituirebbe uno mezzo tra se medesimo e la moltitudine, per il
quale, temperandosi la imperizia e la licenza popolare e
raffrenandosi chi succedesse a lui in quella degnità, se volesse
arrogarsi troppo, si stabilirebbe uno reggimento prudente e onorato,
con molte circostanze da tenere concorde la città. Dopo la quale
deliberazione fu nel consiglio maggiore, con concorso e consenso
grande de' cittadini, eletto gonfaloniere Piero Soderini, uomo di
matura età di sufficienti ricchezze di stirpe nobile e di fama di
essere integro e continente, e che nelle cose publiche si era molto
affaticato, ed era senza figliuoli, il che, per non dare occasione a
chi fusse eletto di pensare a cose maggiori, era assai considerato.
Lib.5, cap.10
Omaggi di príncipi e di governi al re di Francia in Asti. Il re di
Francia, contro l'aspettazione di tutti, riceve onorevolmente a
Milano il Valentino. Vicende della guerra nel reame di Napoli. Il re
delibera inopportunamente di ritornare in Francia. Sorpresa per gli
accordi conclusi fra il re ed il Valentino.
Ma, per ritornare alle cose comuni, al re di Francia come fu giunto
in Asti concorsono, secondo il consueto, tutti i príncipi e tutte le
città libere di Italia, chi in persona chi per imbasciadori; tra'
quali il duca di Ferrara e il marchese di Mantova, benché questo né
confidato né molto accetto, e Batista cardinale Orsino, andatovi
contro alla volontà del pontefice per giustificare i suoi e
Vitellozzo delle cose di Arezzo, e per incitare il re contro al
pontefice e al Valentino; contro a' quali, atteso l'ardore
dimostrato prima dal re, si aspettava con sommo desiderio di tutta
Italia che l'armi franzesi si movessino. Ma l'esperienza dimostra
essere verissimo che rare volte succede quel che è desiderato da
molti; perché dipendendo comunemente gli effetti delle azioni umane
dalla volontà di pochi, ed essendo l'intenzioni e i fini di questi
quasi sempre molto diversi dall'intenzioni e da' fini de' molti,
possono difficilmente succedere le cose altrimenti che secondo la
intenzione di coloro che danno loro il moto. Cosí intervenne in
questo caso, nel quale gli interessi e fini particolari indussono il
re a deliberazione contraria al desiderio universale. Mosse il re
non tanto la diligenza del pontefice, il quale non cessò mai,
mandandogli spesso uomini propri, di cercare di mitigare l'animo
suo, quanto il consiglio del cardinale di Roano, desideroso, come
sempre era stato, di conservare l'amicizia tra il pontefice e il re;
inducendolo a questo forse, oltre all'utilità del re, in qualche
parte l'utilità particolare: perché e dal pontefice gli fu prorogata
la legazione di Francia per diciotto mesi, e perché, attendendo
sollecitamente a farsi fondamenti per ascendere al pontificato,
voleva potere ottenere da lui promozione di parenti e dependenti da
sé al cardinalato. E giudicava servirgli alla medesima intenzione
l'avere fama di amatore e di protettore dello stato ecclesiastico.
Concorrevano le condizioni de' tempi presenti a indurre piú
facilmente il re in questa sentenza. Conciossiaché e di Cesare
avesse sospetto, il quale non quietando l'animo aveva mandato di
nuovo a Trento molti cavalli e certo numero di fanti, e faceva
offerte grandi al pontefice per essere aiutato da lui a passare in
Italia per la corona dello imperio; ed era ogni suo moto in maggiore
considerazione perché sapeva il re essere molesto a' viniziani che
in mano sua fusse il ducato di Milano e il regno di Napoli.
Aggiugnevasi l'essere in discordia co' quattro cantoni de' svizzeri
che dimandavano la cessione delle ragioni di Bellinzone e che oltre
a questo desse loro Vallevoltolina, Scafusa, e altre cose
immoderate; minacciando altrimenti di accordarsi con Massimiliano.
Le quali difficoltà faceva piú gravi l'essere allora escluso di ogni
speranza di composizione col re di Spagna; perché se bene quel re
gli avea proposta la restituzione del re Federico a quello reame, e
perciò egli l'avesse condotto seco in Italia, e si fusse anche
trattato di fare tregua per certo tempo ritenendo ciascuno quello
possedeva, nondimeno l'una e l'altra pratica ebbe tante difficoltà
che il re di Francia, con grandissima indegnazione, licenziò gli
oratori spagnuoli dalla sua corte. Per le quali cagioni, avendogli
il pontefice ultimatamente mandato Troccies cameriere suo
confidatissimo, e promettendogli Valentino ed egli di aiutarlo
quanto potessino nella guerra napoletana, si dispose di continuare
nell'amicizia del pontefice; e però, come Troccies fu ritornato a
Roma, il Valentino, in sulla relazione fatta da lui, montato
secretamente in sulle poste andò al re, che era venuto a Milano: da
cui, contro all'espettazione e con gravissimo dispiacere di tutti,
fu ricevuto con eccessive carezze e onori. Onde, non gli essendo piú
necessarie le genti che aveva in Toscana, le richiamò in Lombardia;
avendo prima ricevuto nella sua protezione i sanesi e Pandolfo
Petrucci, con condizione che, parte di presente parte in certi
tempi, gli pagassino quarantamila ducati. -
Raffreddoronsi poi prestamente i movimenti di Massimiliano, in modo
che al re rimaneva quasi solo il pensiero delle cose di Napoli. E
queste pareva che succedessino insino allora prosperamente, e si
sperava per l'avvenire maggiore prosperità, avendovi il re, subito
che giunse in Italia, mandati di nuovo per mare dumila svizzeri e
piú di dumila guasconi; i quali uniti col viceré, che già aveva,
eccetto Manfredonia e Santo Angelo, occupato tutto il Capitanato, si
accamporono a Canosa, guardata da Pietro Navarra con seicento fanti
spagnuoli: il quale, poiché per molti dí si fu difeso egregiamente,
commettendogli Consalvo, perché non si perdessino quegli fanti, che
non aspettasse gli ultimi pericoli, arrendé la terra a' franzesi,
salve le robe e le persone. Donde, non si tenendo piú né in Puglia
né in Calavria né nel Capitanato terra alcuna per gli spagnuoli
eccetto le sopradette, e Barletta, Dati, Andria, Galipoli, Taranto,
Cosenza, Ghiarace, Seminara e poche altre vicine al mare, e
trovandosi molto inferiori di gente, Consalvo si ridusse con
l'esercito in Barletta, senza danari, con poca vettovaglia e
carestia di munizioni; benché a questo fu alquanto sollevato per
tacito consenso del senato viniziano, il quale non proibí che in
Vinegia facesse comperare molti salnitri: di che querelandosi il re
di Francia, rispondevano essere stato fatto senza saputa loro da
mercatanti privati, e che in Vinegia, città libera, non era stato
mai vietato ad alcuno che non esercitasse le sue negoziazioni e i
suoi commerci.
Presa Canosa, i capitani franzesi, allegando che per molte cagioni,
massime per carestia di acqua, non si poteva fermarsi con tutto
l'esercito intorno a Barletta (benché, come molti affermano, contro
al consiglio e i protesti di Obigní) deliberorno che le genti, le
quali era fama che fussino mille dugento lancie e diecimila fanti
tra italiani e oltramontani, rimanendone una parte ad assedio largo
intorno a Barletta, l'altre attendessino alla recuperazione del
resto del reame: cosa che, come molti hanno creduto, aggiunta alla
negligenza de' franzesi, dette alle cose loro grandissimo nocumento.
Dopo la quale deliberazione il viceré si insignorí di tutta la
Puglia, eccetto Taranto Otranto e Galipoli; benché scorrendo insino
in sulle porte di Taranto fu morto di uno colpo di artiglieria
monsignore della Banda, capitano di quaranta lancie. Dopo il quale
successo ritornò all'assedio di Barletta. E nel tempo medesimo
Obigní, entrato in Calavria con l'altra parte dell'esercito, prese e
saccheggiò la città di Cosenza, rimanendo la rocca in potere degli
spagnuoli; e dipoi, essendosi uniti tutti gli spagnuoli di quella
provincia con altre genti venute di Sicilia, venuto con loro alle
mani gli ruppe. Queste prosperità, o sopravenute tutte o già nel
corso di succedere mentre che il re era in Italia, non solo lo
feceno negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali
continuando sollecitamente arebbe facilmente cacciato gli inimici di
tutto il regno, ma gli rimossono ogni dubitazione di ritornarsene in
Francia; tanto piú che già sperava d'ottenere, come poco dipoi
ottenne, tregua lunga dal re de' romani.
Ma nella partita sua di Italia cominciò, con somma ammirazione
universale, a venire a luce quel che aveva trattato col duca
Valentino; il quale, ammessagli la giustificazione delle cose di
Arezzo, non solo avea ricevuto in grazia ma, ricevuta promissione e
fede dal pontefice e da lui di aiutarlo, quando gli fusse di
bisogno, nella guerra del regno di Napoli, gli aveva all'incontro
promesso di concedergli trecento lancie per aiutarlo ad acquistare,
in nome della Chiesa, Bologna e opprimere Giampaolo Baglioni e
Vitellozzo: movendolo a favorire cosí immoderatamente la grandezza
del pontefice o perché imprudentemente si persuadesse averselo a
fare con tanti benefici sinceramente amico, e, stante questa
congiunzione, niuno dovere ardire di tentare contro a lui in Italia
cose nuove, o perché non tanto confidasse della sua amicizia quanto
temesse della inimicizia. E si aggiugneva che contro a Giampaolo,
Vitellozzo e gli Orsini aveva sdegno particolare, perché tutti
aveano disprezzato i comandamenti suoi di levarsi dalle offese de'
fiorentini; e Vitellozzo specialmente avea recusato l'artiglierie
occupate in Arezzo, e oltre a questo, avendogli dimandato
salvocondotto per andare sicuramente a lui e ottenutolo, aveva poi
recusato di andarvi. Né reputava il re essere inutile alle cose sue
che i capitani italiani fussino oppressi: senza che, o per l'astuzia
del pontefice e del Valentino o per persuasioni di altri, avea
cominciato a temere che questi medesimi e gli Orsini non aderissino
finalmente e seguitassino gli stipendii de' re di Spagna.
Lib.5, cap.11
Timori di príncipi e di governi per il ritorno del Valentino in
Romagna. Giustifica tali timori il contegno del re di Francia
specialmente verso il Bentivoglio. Inutili rimostranze di Venezia al
re. Confederazione contro il Valentino. Arti del pontefice e del
Valentino per disunire i collegati. Colloquio del Valentino con
Paolo Orsini. Accordi fra il Valentino e Paolo Orsini e fra il
Valentino e il Bentivoglio. Le genti del Valentino prendono
Sinigaglia. Vitellozzo Vitelli e Liverotto da Fermo fatti
strangolare dal Valentino. Lodovico e Federico de' Pichi spogliano
del potere il fratello Giovan Francesco.
Ritornò adunque il Valentino, licenziato in Asti dal re, in Romagna,
con tutto che prima avesse dato speranza, a quegli che temeano di
lui, di condurlo seco per sicurtà comune in Francia. La cui
ritornata commosse non solamente gli animi di coloro contro a' quali
si indirizzava il suo primo impeto ma eziandio di molti altri:
perché il medesimo timore avevano Pandolfo Petrucci e gli Orsini,
congiunti quasi nella medesima causa con Vitellozzo e con Giampaolo
Baglione; e al duca di Ferrara dava maggiore spavento la perfidia e
l'ambizione sua e del padre che non dava confidenza il parentado; e
i fiorentini, ancora che avessino ricuperato le terre col favore del
re, stavano con molto timore trovandosi poco proveduti di gente
d'arme, perché il re, non confidandosi interamente del marchese di
Mantova per la dependenza che avea avuta, quando temeva le sue armi,
con lo imperadore, benché a Milano l'avesse ricevuto in grazia, non
aveva consentito lo conducessino per loro capitano generale; e
conoscevano [per] molti segni che avessino la consueta volontà
contro a di loro, e specialmente perché, per tenergli in continuo
sospetto, ricettavano ne' luoghi vicini tutti i fuorusciti di Arezzo
e di quell'altre terre.
Accresceva il timore di tutti questi il considerare quanto con
l'armi co' danari e con l'autorità fussino potenti tali inimici,
quanto in tutte le cose loro si dimostrasse propizia la fortuna, e
che per tanti acquisti non si era moderata in parte alcuna la loro
cupidità, anzi, come se al fuoco fussino somministrati continuamente
nuovi alimenti, era diventata immoderata e infinita. Temevasi che
essi, conoscendo quanto rispetto avesse loro il re di Francia, non
pigliassino animo a tentare qualunque cosa, eziandio contro alla sua
volontà; e già dicevano il padre e il figliuolo, palesemente,
pentirsi de' troppi rispetti e dubitazioni che avevano avute nelle
cose d'Arezzo, affermando che 'l re, secondo la natura de' franzesi,
e i mezzi potenti che avevano nella sua corte, tollererebbe sempre
le cose fatte benché gli fussino moleste. Né assicurava alcuno di
questi che temevano, l'essere il re obligato alla sua protezione;
perché erano freschi gli esempli che aveva permesso che sotto quella
fusse spogliato il signore di Piombino, né risentitosi che il
medesimo fusse accaduto al duca d'Urbino, accettatovi da lui quando
mandò l'esercito a Napoli, perché dette in servigio suo cinquanta
uomini d'arme. Ma piú presente e piú tremendo era l'esempio di
Giovanni Bentivogli; perché, con tutto che il re avesse ne' prossimi
anni comandato al Valentino che non molestasse Bologna, allegando
che le obligazioni che aveva col pontefice non si intendevano se non
per le preeminenze e autorità le quali, nel tempo che si
confederorno insieme, vi possedeva la Chiesa, nondimeno in questo
tempo, ricercandolo il Bentivoglio di aiuto per le preparazioni che
si facevano contro a lui, variando la interpretazione delle parole
secondo la varietà de' fini suoi, e commentando le capitolazioni
fatte piú tosto come giurisconsulto che come re, rispondeva che la
protezione per la quale si era obligato a difenderlo non impediva la
impresa del pontefice se non per la persona e beni suoi particolari;
perché, se bene le parole erano generali, vi era specificato che la
si intendesse senza pregiudicio delle ragioni della Chiesa, alla
quale niuno negava appartenere la città di Bologna; e perché nella
confederazione che aveva fatta col pontefice, anteriore di tempo a
tutte quelle che aveva fatte in Italia, si era obligato, in
qualunque convenzione facesse per l'avvenire con altri, eccettuare
sempre ch'elle non si intendessino in pregiudicio delle ragioni
della Chiesa. Nella quale deliberazione perseverò in modo senza
vergogna che, confortandolo a cosí fare il cardinale di Roano,
contro al parere di tutti gli altri del suo consiglio, mandò a
Bologna uno uomo proprio a intimare che, essendo quella città
appartenente alla Chiesa, non poteva mancare di non favorire la
impresa del pontefice, e che per virtú della sua protezione sarebbe
lecito a' Bentivogli abitare privatamente in Bologna e godersi le
loro sostanze.
Né solamente a tutti questi, ma insino a' viniziani, cominciava a
essere sospetta tanta prosperità del duca Valentino; sdegnati
eziandio che pochi mesi innanzi, dimostrando essere in piccola
estimazione appresso a lui l'autorità di quel senato, aveva fatto
rapire la moglie di Giovambattista Caracciolo capitano generale
delle loro fanterie, la quale, andando da Urbino a congiugnersi col
marito, passava per la Romagna. Però, per dare causa al re di
procedere piú moderatamente a' suoi favori, dimostrando di muoversi
come amici e gelosi dell'onore suo, gli ricordorono per gli oratori
loro, con parole degne della gravità di tanta republica, che
considerasse di quanto carico gli fusse il dare tanto favore al
Valentino, e quanto poco convenisse allo splendore della casa di
Francia e al cognome tanto glorioso di re cristianissimo favorire
uno tiranno tale, distruttore de' popoli e delle provincie e
sitibondo sí immoderatamente del sangue umano, ed esempio a tutto il
mondo di orribile immanità e perfidia; dal quale, come da publico
ladrone, erano stati ammazzati sí crudelmente sotto la fede tanti
nobili e signori, e che non si astenendo ancora dal sangue de'
fratelli e de' congiunti, ora con ferro ora con veleno, avesse
incrudelito nelle età miserabili eziandio alla barbarie de' turchi.
Alle quali parole il re, confermandosi forse piú nella sentenza sua
per la intercessione de' viniziani, rispondeva non volere né dovere
impedire il pontefice che non disponesse ad arbitrio suo delle terre
che appartenevano alla Chiesa. In modo che, astenendosi gli altri
per rispetto suo da opporsi all'armi del Valentino, quegli che erano
già prossimi allo incendio deliberorono provedervi per loro
medesimi. Però gli Orsini, Vitellozzo, Giampagolo Baglione e
Liverotto da Fermo, con tutto che come soldati del Valentino, il
quale simulava di volere muovere l'armi solamente contro a Bologna,
avessino ricevuto di nuovo danari da lui, ritirorno le genti delle
loro condotte in luoghi sicuri, con intenzione di unirsi insieme per
la difesa comune. Alla qual cosa gli fece accelerare la perdita
della fortezza di Santo Leo, la quale per trattato di uno del paese,
proposto quivi a certa muraglia, ritornò in potestà di Guido duca di
Urbino; e da questo principio, richiamandolo quasi tutti i popoli di
quello stato, egli, andato da Vinegia, dove era rifuggito, per mare
a Sinigaglia, ricuperò subito, dalle fortezze in fuora, tutto il
ducato.
Congregornosi adunque alla Magione, in quel di Perugia, il cardinale
Orsino (il quale dopo la partita del re, temendo di ritornare a
Roma, si era stato a Monteritondo), Pagolo Orsino, Vitellozzo,
Giampagolo Baglione e Liverotto da Fermo, e per Giovanni Bentivogli
Ermes suo figliuolo, e in nome de' sanesi Antonio da Venafro
ministro confidentissimo di Pandolfo Petrucci; dove, discorsi i
pericoli loro sí evidenti, e l'opportunità che avevano per la
ribellione dello stato d'Urbino e perché al Valentino abbandonato da
loro restavano pochissime genti, feciono confederazione a difesa
comune e a offesa di Valentino e a soccorso del duca d'Urbino,
obligandosi a mettere tra tutti in campo settecento uomini d'arme e
novemila fanti, con patto che il Bentivoglio rompesse la guerra nel
territorio d'Imola, e gli altri con maggiore sforzo procedessino
verso Rimini e verso Pesero. Nella quale confederazione, avendo
grandissimo rispetto a non irritare l'animo del re di Francia, e
sperando che forse non gli sarebbe molesto che il Valentino fusse
travagliato con l'armi di altri, espressono volere essere obligati a
muoversi prontamente con le persone proprie e con le genti a sua
requisizione contro a ciascuno; e per la medesima cagione non
ammessono in questa unione i Colonnesi, ancora che tanto inimici e
perseguitati dal pontefice. Ricercorono oltre a questo il favore de'
viniziani e de' fiorentini, offerendo a questi la restituzione di
Pisa, la quale dicevano essere in arbitrio di Pandolfo Petrucci per
la autorità che avea co' pisani; ma i viniziani stetteno sospesi
aspettando di vedere prima la inclinazione del re di Francia, e i
fiorentini ancora, per la medesima cagione e perché avendo l'una
parte e l'altra per inimici temevano della vittoria di ciascuno.
Sopravenne questo accidente improviso al duca Valentino, in tempo
che tutto attento a occupare gli stati altrui niente meno pensava
che all'essere assaltati gli stati suoi. Ma non perduto per la
grandezza del pericolo né l'animo né 'l consiglio, e confidando
sommamente, come diceva, nella sua prospera fortuna, attese con
somma industria e prudenza a' rimedi opportuni. Principalmente
trovandosi quasi disarmato, mandò senza dilazione a domandare con
grande instanza aiuto al re di Francia, ricordandogli quanto in ogni
caso potesse valersi piú del pontefice e di lui che degli inimici
suoi, e quanto poco potesse confidarsi di Vitellozzo e di Pandolfo,
che era principale capo e consultore di tutti gli altri, e che prima
aveva aiutato il duca di Milano contro a lui e dipoi sempre avuta
dependenza dal re de' romani; e nondimeno attendeva sollecitamente a
provedersi di nuove genti, non dimenticando però né 'l padre né egli
l'insidie e l'arti fraudolente: perché il pontefice, ora scusando le
cose palesi ora negando le dubbie, cercava con grandissima diligenza
di mitigare l'animo del cardinale Orsino, per mezzo di Giulio suo
fratello; e il Valentino, con varie lusinghe e promesse, si
ingegnava di placare e assicurare ora l'uno ora l'altro di essi,
cosí per fargli piú negligenti alle provisioni come per speranza che
queste pratiche separate avessino a generare tra loro sospetto e
disunione; deliberato, insino non avesse esercito potente, non si
partire da Imola ma attendere a guardare l'altre terre, non dando
soccorso alcuno al ducato d'Urbino. Per il che comandò a don Ugo di
Cardona e don Michele uomini suoi, che erano in quegli confini con
cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti,
che si ritirassino a Rimini: il che non eseguirono, per l'occasione
che si presentò loro di ricuperare e saccheggiare la Pergola e
Fossombrone, dove furono introdotti da' castellani delle fortezze.
Ma l'effetto dimostrò quanto sarebbe stato piú utile seguitare la
deliberazione del duca; perché andando verso Cagli scontrorono
appresso a Fossombrone Pagolo e il duca di Gravina, tutti due della
famiglia Orsina, co' quali erano seicento fanti di Vitellozzo, ed
essendo venuti alle mani restorno rotti quegli di Valentino con
morte di molti e molti prigioni; tra' quali fu morto Bartolomeo da
Capranica capitano di settanta uomini d'arme, e preso don Ugo di
Cardona. Rifuggissi don Michele a Fano, onde per commissione di
Valentino si ritirò a Pesero, lasciata Fano, come terra piú fedele,
in potestà del popolo, poi che non avea tante forze che potesse
difenderle amendue. E in questi dí medesimi le genti de' bolognesi,
che erano alloggiate a Castel San Piero, corseno a Doccia luogo
vicino a Imola: e si riducevano certamente le cose del Valentino in
molto pericolo se i collegati avessino usato piú prestezza a
offenderlo.
Ma mentre che loro, o per non essere a ordine con le genti convenute
nella dieta o tenuti sospesi dalle pratiche della concordia,
guardano nel volto l'uno l'altro, cominciò a passare l'occasione che
prima si era dimostrata favorevole; perché il re di Francia aveva
commesso a Ciamonte che mandasse quattrocento lancie al Valentino, e
si ingegnasse con tutti i modi possibili dare riputazione alle cose
sue: il che come fu inteso da' collegati, trovandosi molto confusi,
cominciò ciascuno a pensare alle cose proprie. Però il cardinale
Orsino continuava le pratiche cominciate col pontefice, e Antonio da
Venafro mandato da Pandolfo Petrucci andò a Imola a trattare col
Valentino; col quale trattava medesimamente Giovanni Bentivogli,
avendo nel tempo medesimo mandato Carlo degli Ingrati oratore al
pontefice e fatte restituire le cose predate a Doccia. Le quali
pratiche essendo con sommo artificio aiutate e nutrite dal
Valentino, e giudicando Pagolo Orsino dovere essere mezzo opportuno
a disporre gli altri, simulando di confidare molto in lui, lo chiamò
a Imola: per sicurtà del quale il cardinale Borgia andò nelle terre
degli Orsini. Con Pagolo usò il Valentino dolcissime parole,
lamentandosi non tanto di lui e degli altri, che avendolo insino a
quel dí servito con tanta fede si fussino per sospetti vani alienati
sí leggiermente da sé, quanto della imprudenza propria, non avendo
saputo procedere di maniera che avesse data loro causa di non
ammettere queste vane dubitazioni; ma sperare che questa diffidenza,
nata al tutto senza cagione, in luogo di inimicizia partorirebbe tra
sé e loro perpetua e indissolubile congiunzione: perché ed essi già
si dovevano accorgere che non potevano opprimerlo, poiché il re di
Francia era tanto disposto a sostenere la sua grandezza, ed egli da
altra parte, avendo meglio aperti gli occhi per la esperienza di
questo moto, confessava ingenuamente di conoscere che dai consigli e
dal valore dell'armi loro era proceduta tutta la sua felicità e
riputazione. Però, desiderosissimo di ritornare nell'antica fede con
loro, essere parato ad assicurargli in qualunque modo volessino, e a
finire, purché con qualche sua degnità, le controversie co'
bolognesi ad arbitrio loro. Aggiunse, a quello che apparteneva a
tutti, dimostrazione d'avere confidenza grandissima in Pagolo,
empiendolo di speranze e di promesse per sé proprio, e con tanto
artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva
per lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo di
ingegno.
Le quali cose mentre che si trattavano, il popolo di Camerino
richiamò Giovanmaria da Varano figliuolo del signore passato, che
era all'Aquila, e Vitellozzo, con grave querela sua e di Pagolo
Orsino, prese la rocca di Fossombrone; ed essendo similmente perduta
la fortezza d'Urbino e poi quelle di Cagli e di Agobbio, non gli
rimaneva in quello stato altro che Santa Agata, oltre ad avere
perduto tutto il contado di Fano. E nondimeno Pagolo, continuando la
pratica cominciata, poiché piú volte per dare forma alle cose de'
Bentivogli parenti suoi (era la figliuola maritata a Ermes figliuolo
di Giovanni) fu andato da Imola a Bologna, convenne seco in questa
sentenza, ma con condizione se la convenzione fusse approvata dal
cardinale Orsino, all'autorità del quale quasi tutti gli altri si
riferivano. Cancellassinsi gli odii conceputi e la memoria di tutte
le ingiurie passate; confermassinsi a' collegati l'antiche condotte,
con obligazione di andare come soldati del Valentino alla
recuperazione del ducato di Urbino e degli altri stati ribellati, ma
per sicurtà loro non fussino obligati ad andare a servirlo
personalmente se non uno per volta, né il cardinale Orsino obligato
a stare in corte di Roma; e che delle cose di Bologna si facesse
compromesso libero nel duca Valentino nel cardinale Orsino e in
Pandolfo Petrucci. Con la quale conclusione essendo andato Pagolo
Orsino, fatto, ogni dí piú, capacissimo della buona intenzione di
Valentino, a trovare gli altri per indurgli a ratificare, il
Bentivoglio, non gli parendo né sicuro né onorevole né ragionevole
che le cose sue in arbitrio d'altrui rimanessino, mandato il
protonotario suo figliuolo a Imola e ricevuti uomini dal Valentino,
conchiuse accordo col pontefice e con lui; al quale piú facilmente
condiscesono perché comprendevano che il re di Francia, considerando
meglio o la infamia o quel che importasse che la città di Bologna
fusse in potestà loro, e però rimosso dalla prima deliberazione, non
era piú per comportare che l'ottenessino. Le condizioni furno: lega
perpetua tra il Valentino da una parte e i Bentivogli insieme con la
comunità di Bologna dall'altra; avesse il Valentino da' bolognesi
condotta di cento uomini d'arme per otto anni, che si convertiva in
pagamento di dodicimila ducati l'anno; obligati i bolognesi a
servirlo di cento uomini d'arme e di cento balestrieri a cavallo, ma
solamente per uno anno prossimo; e che il re di Francia e i
fiorentini promettessino l'osservanza per l'una parte e per l'altra;
e che per maggiore stabilità della pace si maritasse al figliuolo di
Annibale la sorella del vescovo di Enna nipote del pontefice. Né
cessava perciò Valentino di sollecitare la venuta delle genti
franzesi e di tremila svizzeri condotti a suo soldo, sotto specie di
usarle non piú contro a' collegati ma per la ricuperazione del
ducato di Urbino e di Camerino: perché i collegati si erano già
risoluti a ratificare l'accordo fatto, essendo stato tirato in
questa sentenza il cardinale Orsino, che era allo Spedaletto in
quello di Siena, dalle persuasioni di Pagolo e confortatone molto da
Pandolfo Petrucci; a che, benché dopo lunga contradizione,
consentirono Vitellozzo e Giampagolo Baglione a' quali era
sospettissima la fede del Valentino. Dopo la ratificazione de' quali
avendo medesimamente ratificato il pontefice, il duca d'Urbino,
benché dal popolo che gli prometteva volere morire per la
conservazione sua fusse pregato di non partirsi, nondimeno temendo
piú dell'armi militari che non confidava delle voci popolari,
ritornandosene a Vinegia, dette luogo all'impeto degli inimici,
avendo prima fatte rovinare tutte le fortezze di quello stato
eccetto che quelle di Santo Leo e di Maiuolo; e i popoli, essendovi
andato per commissione del Valentino i popoli Antonio dal Monte a
Sansovino, che fu poi cardinale, con facoltà di concedere loro
venia, ritornorono d'accordo sotto il suo giogo: il che fece anche
la città di Camerino, perché il signore se ne fuggí nel reame di
Napoli, impaurito perché Vitellozzo e gli altri, levate le genti
loro del contado di Fano, si preparavano per andare come soldati di
Valentino a quella impresa. Nel quale tempo il pontefice mandò il
campo a Palombara, ricuperata da' Savelli insieme con Senzano e
altre loro castella, nell'occasione dell'armi mosse da questi altri.
Ma il duca Valentino, volendo mettere a fine i suoi occulti
pensieri, andò da Imola a Cesena; dove non quasi arrivato che le
lancie franzesi, venute non molti dí prima, si partirno subitamente
da lui, rivocate da Ciamonte, non per commissione del re ma o, come
si affermava, per indegnazione particolare nata tra lui e il
Valentino o pure perché cosí fusse stato procurato da lui, per
essere manco formidabile a quegli i quali sommamente desiderava di
assicurare. A Cesena attese a riordinare le genti sue, maggiori in
numero che non era la fama, perché industriosamente aveva fatto
poche condotte grosse ma soldato, e continuamente soldava, molte
lancie spezzate e gentiluomini particolari: e nel medesimo tempo
Vitellozzo e gli Orsini, andati per suo comandamento a campo a
Sinigaglia, ottenneno la terra e la rocca; onde la prefettessa
sorella del duca d'Urbino si fuggí, abbandonata da ciascuno, non
ostante che il figliuolo pupillo fusse sotto la protezione del re di
Francia, il quale si scusava di non la aiutare perché si era aderita
alla lega fatta alla Magione. Presa Sinigaglia, Valentino andò a
Fano; dove poi che fu soprastato qualche dí per mettere insieme
tutte le genti sue, fece intendere a Vitellozzo e agli Orsini che il
dí seguente voleva andare ad alloggiare in Sinigaglia, e però che
allargassino fuori della terra i soldati che erano con loro, i quali
alloggiavano dentro: il che subitamente eseguirono, alloggiando le
fanterie ne' borghi della città e le genti d'arme distribuendo per
il contado. Venne il dí ordinato Valentino a Sinigaglia, al quale si
feciono incontro Pagolo Orsino e il duca di Gravina, Vitellozzo e
Liverotto da Fermo, e da lui raccolti con grandissime carezze
l'accompagnorono insino alla porta della città, innanzi alla quale
si erano fermate tutte le genti del Valentino in ordinanza. Nel qual
luogo volendo essi licenziarsi da lui, per ridursi agli
alloggiamenti loro che erano di fuora, insospettiti già per vedere
che avea maggiore gente di quella che credevano avesse, gli ricercò
venissino dentro perché aveva di bisogno di ragionare con loro; il
che non potendo ricusare, benché con l'animo già quasi indovino del
futuro male, lo seguitorno nel suo alloggiamento, e con lui ritirati
in una camera, dopo poche parole, perché, sotto scusa di volere
pigliare altre vesti, si partí presto da loro, furono da genti che
sopravenneno nella camera fatti tutti a quattro prigioni; e in uno
tempo medesimo mandati a svaligiare i loro soldati. E il dí
seguente, che fu l'ultimo dí di dicembre, acciò che l'anno mille
cinquecento due terminasse in questa tragedia, riservando gli altri
in prigione, fece strangolare in una camera Vitellozzo e Liverotto:
de' quali l'uno non aveva potuto fuggire il fato di casa sua, di
morire di morte violenta, come erano morti tutti gli altri suoi
fratelli, in tempo che avevano già nell'armi grande esperienza e
riputazione, e successivamente l'uno dopo l'altro, secondo l'ordine
della età, Giovanni di uno colpo di artiglieria nel campo che
Innocenzio pontefice mandò contro alla città di Osimo, Cammillo
soldato de' franzesi di uno sasso intorno a Cercelle, e Pagolo
decapitato in Firenze; ma di Liverotto non potette negare alcuno che
non avesse fine condegno delle sceleratezze sue, essendo molto
giusto che e' morisse per tradimento chi poco innanzi aveva per
tradimento ammazzato crudelissimamente in Fermo, per farsi grande in
quella città, Giovanni Frangiani suo zio con molti altri de'
cittadini principali di quella terra, avendogli nella casa sua
propria condotti a uno convito.
Non accadde in questo anno altra cosa memorabile, eccetto che
Lodovico e Federico della famiglia de' Pichi conti della Mirandola,
essendo stati prima cacciati da Giovanfrancesco loro fratello, e
pretendendo avervi, con tutto che fusse maggiore di età, le medesime
ragioni che lui, ottenute genti in aiuto loro dal duca di Ferrara,
di una sorella naturale del quale erano nati, e da Gianiacopo da
Triulzi suocero di Lodovico ne cacciorono per forza il fratello:
cosa non tanto degna di memoria per se stessa quanto perché poi,
negli anni seguenti, le controversie tra questi fratelli produssono
effetti di qualche momento.
Lib.5, cap.12
Gli Orsini prigioni del pontefice; morte sospetta del cardinale
Orsini. Intimazione del Valentino ai senesi e risposta di questi.
Interessamento del re di Francia alle cose di Toscana. Il Valentino
nel Lazio contro gli Orsini. Nuove terre occupate dal Valentino.
Séguita l'anno mille cinquecento tre, pieno se mai niuno de'
precedenti di cose memorabili e di gravissimi accidenti; al quale
dette principio la perfidia e la empietà del principe della
cristiana religione, ignaro di quel che avesse, questo anno
medesimo, a succedere a sé e alle cose sue. Perché avendo il
Valentino, con somma celerità come erano convenuti tra loro,
significato al pontefice quanto felice fine avessino conseguito a
Sinigaglia le insidie sue, egli, tenuto l'avviso segretissimo e
procurato che per altre vie non potesse penetrare ad altri, chiamò
subito sotto colore di altre faccende nel palagio di Vaticano il
cardinale Orsino, il quale, fidandosi dello accordo fatto e della
fede di chi era noto a tutto il mondo che mai non aveva avuto fede,
tirato piú dal fato che dalla ragione era pochi dí innanzi andato a
Roma; e arrivato in palazzo fu subito fatto prigione: e nel tempo
medesimo presi alle loro case Rinaldo Orsino arcivescovo di Firenze,
il protonotario Orsino, l'abate d'Alviano fratello di Bartolomeo, e
Iacopo da Santa Croce gentiluomo romano de' principali di quella
fazione. I quali come furono condotti in Castello Santo Agnolo, il
pontefice mandò il principe di Squillaci suo figliuolo a pigliare la
possessione delle terre di Pagolo e degli altri, e con lui il
protonotario e Iacopo da Santa Croce perché le facessino consegnare;
i quali furono dipoi rimessi sotto la medesima custodia. E aveva il
pontefice motteggiato con arguzia spagnuola sopra quello che aveva
fatto il figliuolo, dicendo che essendo stati Pagolo Orsino e gli
altri i primi a mancargli della fede, perché si erano obligati di
andare a lui uno per volta e vi erano andati tutti insieme, non era
stato meno lecito a lui mancare a loro. Stette circa venti dí
prigione il cardinale, pretendendo il pontefice alla incarcerazione
di uno cardinale sí antico e di tale età e autorità varie cagioni; e
finalmente, sparsa voce che fusse ammalato, morí in palazzo, come si
credette certissimamente, di veleno: la quale opinione il pontefice
per alleggierire, ancora che fusse assueto a non curarsi delle
infamie, volle che di giorno fusse portato scoperto alla sepoltura,
accompagnato dalla sua famiglia e di tutti i cardinali. E gli altri
prigioni furono, non molto dipoi, data sicurtà di rappresentarsi,
liberati.
Ma Valentino, non volendo essere stato scelerato senza premio, si
partí senza indugio da Sinigaglia e si dirizzò a Città di Castello;
e trovata quella città abbandonata da quegli che vi restavano della
famiglia de' Vitelli, i quali intesa la morte di Vitellozzo si erano
fuggiti, continuò il cammino verso Perugia; onde fuggí Giampagolo,
il quale, destinato a piú tardo ma a maggiore supplizio, era per
sospetto stato piú cauto che gli altri a andare a Sinigaglia. Lasciò
l'una e l'altra città sotto il nome della Chiesa, avendo rimesso in
Perugia Carlo Baglione gli Oddi e tutti gli altri inimici di
Giampagolo; e volendo con sí grande occasione tentare di
insignorirsi di Siena, seguitandolo alcuni fuorusciti di quella
città andò con l'esercito, nel quale erano arrivati di nuovo gli
aiuti promessi dal Bentivoglio, a Castel della Pieve; dove intesa la
cattura del cardinale Orsino, fece strangolare il duca di Gravina e
Pagolo Orsini, e mandò imbasciadori a Siena a ricercare che
cacciassino Pandolfo Petrucci, come inimico suo e turbatore della
quiete di Toscana, promettendo che, cacciato che fusse lui, se ne
andrebbe con l'esercito in terra di Roma senza molestare altrimenti
i loro confini: e da altra parte il pontefice ed egli, ardenti di
desiderio che Pandolfo, cosí come era stato compagno di quegli altri
nella vita fusse eziandio compagno nella morte, si ingegnavano di
addormentarlo con le medesime arti con le quali avevano addormentati
tutti gli altri, scrivendogli brevi e lettere molto umane, e
mandandogli per messi propri imbasciate piene di affezione e di
dolcezza. Ma il sospetto entrato nel popolo di Siena che non
tendessino a occupare quella città faceva piú difficile il disegno
loro contro a Pandolfo, perché molti cittadini, malcontenti per
l'ordinario di lui, si riducevano a volere piú tosto temporeggiarsi
sotto la tirannide di uno cittadino che cadere in servitú
forestiera; in modo che di là non gli era dato nel principio
risposta alcuna per la quale potesse sperare della partita di
Pandolfo: ed egli nondimeno, continuando nella medesima simulazione
di non volere altro che questo, procedeva avanti nel territorio
loro, ed era già arrivato a Pienza, e Chiusi e l'altre terre vicine
arrendutesegli d'accordo. Donde crescendo in Siena il timore, e
cominciandosi a spargere nel popolo ed eziandio tra alcuni de'
principali non essere conveniente che, per mantenere la potenza di
uno cittadino, si mettesse tutta la città in sí grave pericolo,
Pandolfo deliberò di fare con buona grazia di tutti quello che
dubitava non avere a fare alla fine con odio universale, e con
maggiore pericolo e danno proprio; e però, con consentimento suo, fu
significato in nome publico al Valentino essere contenti compiacerlo
della dimanda fatta, pure che si partisse con le sue genti de'
terreni loro: la quale risoluzione, ancoraché il pontefice ed egli
avessino aspirato a maggiore disegno, fu accettata, per la
difficoltà conoscevano di espugnare Siena, terra grossa, forte di
sito, nella quale erano Giampagolo Baglioni e molti soldati; e dove
il popolo, quando fusse restato certificato che Valentino avesse
altro fine che la partita di Pandolfo, sarebbe stato unito a
resistergli. Aggiunsesi che al pontefice parve, per la sicurtà
propria, necessario che il figliuolo riducesse l'esercito in terra
di Roma, dove non si stava senza sospetto di qualche movimento:
perché a Pitigliano si erano ridotti Giulio e alcuni degli Orsini, e
in Cervetri erano con molti cavalli Fabio e Organtino Orsini; e
Muzio Colonna, partito del reame di Napoli, era entrato in Palombara
in soccorso de' Savelli, i quali avevano fatto di nuovo intelligenza
e parentado con gli Orsini. Ma perdé piú l'uno e l'altro di loro la
speranza di occupare Siena, perché già si comprendeva che al re di
Francia, benché da principio ne fusse stato molto ambiguo, era
molesta questa impresa come quello che, se bene avesse desiderato
che fussino battuti Vitellozzo e gli altri confederati, gli pareva
pure che la totale loro ruina, con l'aggiunta di tanti stati,
facesse troppo potenti il pontefice e Valentino; ed essendo la città
di Siena e Pandolfo sotto la sua protezione, e non appartenente alla
Chiesa ma allo imperio, gli pareva potere molto giustificatamente
opporsi a questo acquisto. Ebbeno anche speranza che per la partita
di Pandolfo il governo di quella città rimanesse in qualche
confusione, e per questo potersegli in progresso di tempo presentare
occasione da colorire il disegno loro.
Partí adunque Pandolfo da Siena, ma lasciatavi la medesima guardia e
la medesima autorità negli amici e dipendenti da lui, in modo non
appariva fatta mutazione del governo; e il Valentino si dirizzò
verso Roma, per andare alla distruzione degli Orsini. I quali,
insieme co' Savelli, avevano preso il Ponte a Lamentano e correvano
per tutto il paese; ma si raffrenorono per la giunta di Valentino,
il quale assaltò subito lo stato di Giangiordano, non avendo
rispetto che egli, che non si era dimostrato contro a lui, avesse la
condotta l'ordine di San Michele e la protezione del re di Francia e
fusse allora nel reame di Napoli a' servigi suoi: di che si
giustificava il pontefice col re, non muoversi per cupidità di
spogliarlo del suo stato ma perché, essendo tante ingiurie e offese
tra lui e la famiglia Orsina, non poteva averlo sicuramente sí
propinquo; però essere contento di dargli in ricompenso il
principato di Squillaci e altre terre equivalenti. E nondimeno il
re, non accettando queste ragioni, si risentí molto di tale insulto,
non tanto perché in lui potesse piú che il solito il rispetto della
protezione quanto perché, non continuando piú nella prima prosperità
le cose sue nel regno di Napoli, cominciava avere a sospetto
l'ardire e la insolenza del pontefice e di Valentino; ritornandogli
in memoria l'assalto dell'anno passato di Toscana, e quel che poi,
contro alla sua protezione, nelle cose di Siena tentato avevano, e
considerando che quanto piú avevano ottenuto, e per l'avvenire
otterrebbono da lui, tanto era diventata e per diventare sempre
maggiore la loro cupidità: e però mandò con aspra imbasciata a
comandare a Valentino che desistesse da molestare lo stato di
Giangiordano, il quale per vie incognite, non senza grave pericolo,
s'era condotto a Bracciano. E parendogli necessario assicurarsi che
le cose di Toscana non facessino qualche variazione, inteso massime
che in Siena appariva principio di discordia civile, cominciò per
consiglio de' fiorentini a trattare che Pandolfo Petrucci, il quale
si era fermato in Pisa, tornasse in Siena, e che tra fiorentini
sanesi e bolognesi si facesse unione a difesa comune, restituendosi,
per levare tutte le cause della dissensione, a' fiorentini
Montepulciano; e che ciascuno di questi si provedesse, secondo la
sua possibilità, di genti d'arme per difesa comune, acciocché si
interrompesse al pontefice e al Valentino la facoltà di distendersi
piú in Toscana. Avea in questo mezzo il Valentino preso con parte
delle sue genti Vicovaro, dove erano per Giangiordano secento fanti;
ma avuto il comandamento del re, levatosi, con molto sdegno del
pontefice e suo, dalla impresa di Bracciano, andò a porre il campo a
Ceri; ove con Giovanni Orsino signore di quel luogo era Renzo suo
figliuolo, e Giulio e Franciotto della medesima famiglia; e nel
tempo medesimo il padre procedeva per via di giustizia contro a
tutta la casa degli Orsini, eccettuato Giangiordano e il conte di
Pitigliano, il quale i viniziani non volevano comportare che fusse
molestato.
È Ceri terra antichissima e per la fortezza del sito suo molto
celebrata, perché è posta in su uno masso anzi piú presto in su uno
poggio tutto d'un sasso intero; però da' romani, quando rotti da'
franzesi al fiume di Allia, oggi detto [Caminate], si disperorono di
potere difendere Roma, vi furno mandate, come in luogo sicurissimo,
le vergini vestali e i simulacri piú secreti e piú venerandi degli
dei, con molte altre cose sacre e religiose; e per la medesima
cagione non fu ne' tempi seguenti violata dalla ferocia de' barbari,
quando per la declinazione dello imperio romano inondorno con tanto
impeto tutta Italia. E per questo, e per esservi copia di valorosi
difensori, riusciva a Valentino impresa difficile; il quale per
espugnarla né diligenza né industria pretermetteva, aiutandosi,
oltre a molte altre macchine belliche, per superare l'altezza delle
mura, con gatti e con vari instrumenti di legname. Dove mentre che
sta, Francesco da Narni, mandato a Siena dal re di Francia,
significò la mente regia essere che Pandolfo ritornasse; dal quale
aveva prima ricevuto promessa di perseverare nella divozione del re
e per sua sicurtà mandargli in Francia il figliuolo maggiore,
pagargli quello di che rimaneva debitore per la convenzione de'
quarantamila ducati e restituire a fiorentini Montepulciano: il che
inteso in Siena, fu piccola difficoltà al ritorno suo, aggiugnendosi
alla riputazione del nome del re il favore scoperto de' fiorentini e
la disposizione de' cittadini amici suoi; i quali, avendo anticipato
di pigliare l'armi la notte innanzi al dí destinato alla venuta sua,
feciono stare fermi tutti quegli che sentivano altrimenti.
Succedette questo con grandissimo dispiacere del pontefice: le cose
del quale, per altro, felicemente procedevano, perché se gli erano
arrendute Palombara e l'altre terre de' Savelli, e quegli che erano
in Ceri, vessati dí e notte in molti modi e con molti assalti,
finalmente si arrenderono, con patto che a Giovanni signore della
terra fusse pagata dal pontefice certa quantità di danari, e lui e
tutti gli altri fussino lasciati andare salvi a Pitigliano; le quali
cose, fuora della consuetudine del papa e contro all'espettazione
universale, furono osservate sinceramente.
Lib.5, cap.13
Vicende della guerra franco spagnola nel reame di Napoli. Arrivo di
nuovi aiuti spagnoli. Insuccessi de' francesi. La disfida di
Barletta e la gloriosa vittoria degli italiani.
Non procedevano già con simile prosperità le cose de' franzesi nel
regno di Napoli, avendo insino nel principio di questo anno
cominciato a difficultarsi. Imperocché, essendo il conte di Meleto
con gente de' príncipi di Salerno e di Bisignano a campo a
Terranuova, passò da Messina in Calavria don Ugo di Cardona con
ottocento fanti spagnuoli, i quali stati a' soldi di Valentino aveva
condotti da Roma, e con cento cavalli e ottocento fanti tra
siciliani e calavresi; e giunto a Seminara si mosse verso
Terranuova, per soccorrerla: il che intendendo il conte di Meleto,
levatosi da Terranuova, andò per incontrargli. Camminavano gli
spagnuoli per una pianura ristretta tra la montagna e una fiumana
che mena pochissima acqua ma che si congiugne alla strada con uno
argine; e i franzesi, superiori di numero, allo incontro,
camminavano di sotto al fiume, desiderosi di tirargli nel luogo
largo; ma vedendogli procedere stretti e in ferma ordinanza,
dubitando che se non tagliavano loro la strada non si conducessino
salvi a Terranuova, passorno per assaltargli di là dal fiume: dove,
prevalendo la virtú de' fanti spagnuoli esercitati nella guerra e
nocendo molto a' franzesi il disavvantaggio dell'argine, furono
rotti. Né molto poi arrivorono di Spagna a Messina, per mare,
dugento uomini d'arme dugento giannettieri e dumila fanti guidati da
Manuello di Benavida: col quale passò allora in Italia Antonio de
Leva, che salito poi di privato soldato, per tutti i gradi militari,
al capitanato generale, acquistò in Italia molte vittorie. I quali,
passati da Messina a Reggio di Calavria, preso non molto prima dagli
spagnuoli, essendo allora Obigní in altra parte della Calavria che
quasi tutta si teneva per lui, andorno ad alloggiare a Losarno
propinquo a cinque miglia a Calimera, nella quale terra due dí
innanzi era entrato Ambricort con trenta lancie e il conte di Meleto
con mille fanti: e presentativisi la mattina seguente in sul fare
del dí, dove non erano porte ma solamente la sbarra, prese e morte
prima le sentinelle, la espugnorono al secondo assalto, benché
francamente si difendessino: dove restò morto il capitano Spirito,
Ambricort prigione; e il conte di Meleto rifuggito nella rocca si
salvò, perché i vincitori si ritirorno subitamente a Terranuova,
temendo di Obigní, che con trecento lancie tremila fanti forestieri
e dumila del paese si approssimava. Dopo il quale accidente, essendo
Obigní fermatosi a Pollistrine castello propinquo, gli spagnuoli,
mancando loro le vettovaglie, si partirno una notte occultamente per
andare a Ghiarace; ma seguitati dalla gente di Obigní insino alla
montata d'una difficile montagna, perderno sessanta uomini d'arme e
molti fanti: benché de' franzesi vi morí, per essersi messo troppo
innanzi, Grugní, uomo stimato assai da loro e che guidava la
compagnia stata del conte di Gaiazzo, il quale poco dopo la
espugnazione di Capua era morto di morte naturale.
Sopravenne in questo tempo di Spagna in Sicilia un'altra armata, che
condusse dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e duemila
fanti, che n'era capitano Porto Carrera; il quale essendo morto a
Reggio, dove era passato con le genti, rimase la cura a don Ferrando
d'Andrada suo luogotenente. Per la giunta de' quali ripreso animo
gli spagnuoli che s'erano ridotti a Ghiarace, ritornati a
Terranuova, si fortificorno nella parte della terra contigua alla
fortezza tenuta per loro, che è al capo d'una valle, alla qual valle
si congiugne il resto della terra; temendo e non invano della venuta
di Obigní, perché egli, venuto subito da Pollistrine, alloggiò in
quella parte che non era occupata dagli spagnuoli: fortificandosi
ciascuno, e mettendo le sbarre dal canto suo. Ma intendendo poi
Obigní che gli spagnuoli, che erano smontati a Reggio, s'accostavano
per unirsi con gli altri, si ritirò a Losarno; e gli inimici,
seguitando la comodità delle vettovaglie, si poseno tutti insieme a
Seminara.
Ma mentre che nella Calavria le cose in questa maniera procedevano,
il viceré franzese, ritornato verso Barletta e fermatosi a Matera,
aveva distribuito le genti in piú luoghi circostanti, attendendo a
impedire che non vi entrassino vettovaglie, e sperando che per la
peste e carestia che era in Barletta gli spagnuoli non potessino piú
dimorarvi, né ridursi a Trani dove erano le difficoltà medesime. Ma
era maravigliosa in tante incomodità e pericoli la perseveranza
loro, confermata dalla virtú e dalla diligenza di Consalvo; il
quale, ora dando speranza della venuta presta di dumila fanti
tedeschi, a soldare i quali aveva mandato Ottaviano Colonna in
Germania, e di altri soccorsi, ora spargendo fama di volere
ritirarsi per mare a Taranto, gli sostentava; ancora molto piú con
lo esempio, tollerando in se medesimo con allegro animo tutte le
fatiche e tutta la strettezza del vivere e di tutte le cose
necessarie; alle quali cose sopportare persuadeva gli altri con le
parole. In tale stato essendo ridotta la guerra, cominciorono, per
la negligenza e per gli insolenti portamenti de' franzesi, a essere
superiori quegli che insino a quel dí erano stati inferiori: perché
gli uomini di Castellaneta, terra vicina a Barletta, disperati per i
danni e ingiurie che pativano da cinquanta lancie franzesi che
v'alloggiavano, prese popolarmente l'armi gli svaligiorno; e pochi
dí poi Consalvo, avendo notizia che monsignore della Palissa, il
quale con cento lancie e trecento fanti alloggiava nella terra di
Rubos distante da Barletta dodici miglia, faceva guardie negligenti,
uscito una notte di Barletta e condottosi a Rubos, e piantate con
grandissima celerità l'artiglierie, le quali per essere il cammino
piano aveva facilmente condotte seco, l'assaltò con tale impeto che
i franzesi, i quali aspettavano ogn'altra cosa, spaventati dallo
assalto improviso, fatta debole difesa, si perderono, rimanendo
insieme con gli altri la Palissa prigione; e il dí medesimo se ne
ritornò Consalvo a Barletta, senza pericolo di ricevere nel
ritirarsi, da Nemors, il quale pochi dí innanzi era venuto a Canosa,
danno alcuno, perché le genti sue, alloggiate, per tenere Barletta
assediata da piú lati e forse per maggiore loro comodità, in vari
luoghi, non potevano essere a tempo a congregarsi. E si aggiunse
che, come scrivono alcuni, cento cinquanta lancie de' franzesi,
mandate per pigliare certi danari che si conducevano da Trani a
Barletta, furono rotte da genti le quali per assicurare i danari
erano state mandate da Consalvo.
Seguitò appresso a questi un altro accidente che diminuí assai
l'ardire de' franzesi, non potendo attribuire alla malignità della
fortuna quello che era stato opera propria della virtú. Perché
essendo, sopra la recuperazione di certi soldati che erano stati
presi in Rubos, andato un trombetto a Barletta per trattare di
riscuotergli, furono dette contro a' franzesi da alcuni uomini
d'arme italiani certe parole che, riportate dal trombetto nel campo
franzese e da quegli fatto risposta agli italiani, acceseno tanto
ciascuno di loro che, per sostenere l'onore della propria nazione,
si convenneno che in campo sicuro, a battaglia finita, combattessino
insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini d'arme
italiani; e il luogo del combattere fu statuito in una campagna tra
Barletta, Andria e Quadrato, dove si conducessino accompagnati da
determinato numero di gente: nondimeno, per assicurarsi dalle
insidie, ciascuno de' capitani con la maggiore parte dell'esercito
accompagnò i suoi insino a mezzo il cammino: confortandogli che,
essendo stati scelti di tutto l'esercito, corrispondessino con
l'animo e con l'opere alla espettazione conceputa, che era tale che
nelle loro mani e nel loro valore si fusse con comune consentimento
di tutti collocato l'onore di sí nobili nazioni. Ricordava il viceré
franzese a' suoi, questi essere quegli medesimi italiani che non
avendo ardire di sostenere il nome de' franzesi, avevano, senza fare
mai esperienza della sua virtú, dato loro sempre la via quante volte
dall'Alpi avevano corso insino all'ultima punta d'Italia; né ora
accendergli nuova generosità d'animo o nuovo vigore, ma trovandosi
agli stipendi degli spagnuoli e sottoposti a' loro comandamenti non
avere potuto contradire alla volontà d'essi, i quali, assueti a
combattere non con virtú ma con insidie e con fraudi, si facevano
volentieri oziosi riguardatori degli altrui pericoli: ma come gli
italiani fussino condotti in sul campo, e si vedessino a fronte
l'armi e la ferocia di coloro da' quali erano stati sempre battuti,
ritornati al consueto timore, o non ardirebbono combattere o
combattendo timidamente sarebbeno facile preda loro, non essendo
sufficiente scudo contro al ferro de' vincitori il fondamento fatto
in su le parole e braverie vane degli spagnuoli. Da altra parte
Consalvo infiammava con non meno pungenti stimoli gli italiani,
riducendo in memoria gli antichi onori di quella nazione e la gloria
dell'armi loro, con le quali già tutto il mondo domato avevano:
essere ora in potestà di questi pochi, non inferiori alla virtú de'
loro maggiori, fare manifesto a ciascuno che se Italia, vincitrice
di tutti gli altri, era da pochi anni in qua stata corsa da eserciti
forestieri esserne stata cagione non altro che la imprudenza de'
suoi príncipi, i quali per ambizione discordanti fra loro medesimi,
per battere l'un l'altro, l'armi straniere chiamate avevano: non
avere i franzesi ottenuto in Italia vittoria alcuna per vera virtú,
ma o aiutati dal consiglio e dall'armi degli italiani o per essere
stato ceduto alle loro artiglierie; con lo spavento delle quali, per
essere stata cosa nuova in Italia, non per il timore delle loro
armi, essergli stata data la strada: avere ora occasione di
combattere col ferro e con la virtú delle proprie persone;
trovandosi presenti a sí glorioso spettacolo le principali nazioni
de' cristiani, e tanta nobiltà de' suoi medesimi, i quali, cosí
dall'una parte come dall'altra, avere estremo desiderio della
vittoria loro. Ricordassinsi essere stati tutti allievi de' piú
famosi capitani d'Italia, nutriti continuamente sotto l'armi, e
avere ciascuno d'essi fatto in vari luoghi onorevoli esperienze
della sua virtú: e però, o essere destinata a questi la palma di
rimettere il nome italiano in quella gloria nella quale era stato
non solo a tempo de' loro maggiori ma ve l'avevano veduto essi
medesimi o, non si conseguendo per queste mani tanto onore, aversi a
disperare che Italia potesse rimanere in altro grado che di
ignominiosa e perpetua servitú. Né erano minori gli stimoli che
dagli altri capitani e da' soldati particolari dell'uno e dell'altro
esercito erano dati a ciascuno di loro, accendendogli a essere
simili di se medesimi, a esaltare con la propria virtú lo splendore
e la gloria della sua nazione. Co' quali conforti condotti al campo,
pieni ciascuno d'animo e di ardore, essendo l'una delle parti
fermatasi da una banda dello steccato opposita al luogo dove s'era
fermata l'altra parte, come fu dato il segno, corseno ferocemente a
scontrarsi con le lancie: nel quale scontro non essendo apparito
vantaggio alcuno, messo con grandissima animosità e impeto mano
all'altre armi, dimostrava ciascuno di loro egregiamente la sua
virtú: confessandosi tacitamente per tutti gli spettatori che di
tutti gli eserciti non potevano essere eletti soldati piú valorosi,
né piú degni a fare sí glorioso paragone. Ma essendosi già
combattuto per non piccolo spazio e coperta la terra di molti pezzi
d'armadure e di molto sangue di feriti da ogni parte, e ambiguo
ancora l'evento della battaglia, risguardati con grandissimo
silenzio, ma quasi con non minore ansietà e travaglio d'animo che
avessino loro, da' circostanti, accadde che Guglielmo Albimonte, uno
degli italiani, fu gittato da cavallo da uno franzese; il quale
mentre che ferocemente gli corre col cavallo addosso per ammazzarlo,
Francesco Salamone correndo al pericolo del compagno ammazzò con uno
grandissimo colpo il franzese, che intento a opprimere l'Albimonte
da lui non si guardava; e di poi insieme con l'Albimonte che s'era
sollevato, e col Miale che era in terra ferito, presi in mano spiedi
che a questo effetto portati avevano, ammazzorono piú cavalli
degl'inimici: donde i franzesi, cominciati a restare inferiori,
furono chi da uno chi da un altro degli italiani fatti tutti
prigioni. I quali, raccolti con grandissima letizia da' suoi, e
rincontrando poi Consalvo che gli aspettava a mezzo il cammino,
ricevuti con incredibile festa e onore, ringraziandogli ciascuno
come restitutori della gloria italiana, entrorono come trionfanti,
conducendosi i prigioni innanzi, in Barletta; rimbombando l'aria di
suono di trombe e di tamburi, di tuoni d'artiglierie e di plauso e
grida militari: degni che ogni italiano procuri, quanto è in sé, che
i nomi loro trapassino alla posterità mediante lo instrumento delle
lettere. Furono adunque Ettore Fieramosca capuano, Giovanni
Capoccio, Giovanni Bracalone e Ettore Giovenale romani, Marco
Corellario da Napoli, Mariano da Sarni, Romanello da Furlí, Lodovico
Aminale da Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte
siciliani, Miale da Troia, e il Riccio e Fanfulla parmigiani;
nutriti tutti nell'armi, o sotto i re d'Aragona o sotto i Colonnesi.
Ed è cosa incredibile quanto animo togliesse questo abbattimento
all'esercito franzese e quanto n'accrescesse allo esercito
spagnuolo, facendo ciascheduno presagio, da questa esperienza di
pochi, del fine universale di tutta la guerra.
Lib.5, cap.14
Gli svizzeri occupano Lucherna e la Murata. Lotta che ne consegue
fra svizzeri e francesi. Accordi fra gli svizzeri ed i francesi.
Era in questo tempo medesimo il re di Francia molestato in Lombardia
da' svizzeri, fatto il principio non da tutta la nazione ma dai tre
cantoni occupatori di Bellinzone; i quali, volendo indurlo a
consentire che quella terra fusse loro propria, assaltorono Lucherna
e la Murata, muro di lunghezza grande in sul Lago maggiore presso a
Lucherna, per il quale si proibisce lo scendere di quelle montagne
alla pianura se non per una porta che sola è in quel muro: e benché
nel principio non l'ottenessino, per la difesa de' franzesi che vi
stavano a guardia, e che Ciamonte, il quale con ottocento lancie e
tremila fanti s'era fermato a Varese e a Galera, sperasse ch'ella
s'avesse a difendere, nondimeno cresciuti poi i svizzeri di numero,
perché ebbono soccorso da' grigioni, dopo molti assalti dati invano,
saliti una parte di loro in su uno aspro monte che soprafà la
Murata, costrinsono a levarsene coloro che la guardavano; e preso
poi il borgo di Lucherna ma non la rocca, ogni dí augumentavano,
perché gli altri nove cantoni, se bene da principio avessino offerte
genti al re per la confederazione che avevano con lui, cominciorono
poi a dare soccorso a' tre cantoni, allegando non potere mancare
d'aiutare i loro compagni e fratelli, ed esserne tenuti per le leghe
antiche che erano tra loro, anteriori alle obligazioni che avevano
con tutti gli altri. E mentre che già in numero quindicimila sono
intorno alla rocca, non potendo i franzesi soccorrerla per la
strettezza de' passi e per le diligenti guardie vi facevano,
attendevano a predare il paese circostante; e sdegnati che il
castellano di Musocco, terra di Gianiacopo da Triulzi, recusava di
prestare loro l'artiglierie per battere la rocca di Lucherna,
saccheggiorono la terra di Musocco, non molestando la rocca perché
era inespugnabile. Da altra parte i franzesi, facendo stima non
piccola di questo moto, e avendo raccolte tutte le forze che aveano
in Lombardia e ottenuti aiuti da Bologna da Ferrara e da Mantova,
ricercorono viniziani de' sussidi debiti per la difesa dello stato
di Milano; i quali avendogli promessi prontamente, gli espedirono sí
lentamente che non furono necessari: e attendeva Ciamonte, avendo
bene provedute le fortezze che erano ne' luoghi montuosi, a tenere
le genti alla pianura, sperando che i svizzeri, che non ardivano per
non avere né cavalli né artiglierie scendere ne' luoghi aperti, si
straccherebbono per la difficoltà delle vettovaglie, e perché erano
senza danari e senza speranza di fare effetto alcuno importante. Nel
quale stato essendo i svizzeri dimorati molti dí, e crescendo la
penuria delle vettovaglie, perché i franzesi, armati molti legni,
aveano sommerse molte barche che conducevano vettovaglie a' svizzeri
e impedivano che per il lago non ne potessino avere, e cominciando a
disunirsi tra loro, perché la impresa non atteneva se non ai cantoni
che possedevano Bellinzone, corrotti ancora i capitani da' danari
de' franzesi, furono alla fine contenti di ritirarsi, restituite, da
Musocco infuora come cosa non appartenente al re, tutte le terre
occupate in questa espedizione, e ottenuta dal re promessa di non
molestare Bellinzone fra certo tempo. Tanto erano i franzesi alieni
da volere l'inimicizia de' svizzeri che non si vergognavano, non
solamente in questo tempo che avevano guerra co' re di Spagna
temevano del re de' romani e avevano sospetti i viniziani ma
eziandio in ogni altro tempo, comperare l'amicizia di quella
nazione, con pagare provisioni annue in publico e in privato e fare
accordi con loro con indegne condizioni; movendogli, oltre al non
confidare della virtú de' fanti propri, il conoscere che con
disavvantaggio grande si fa la guerra con chi non ha che perdere.
Lib.5, cap.15
Patti di pace stabiliti fra il re di Francia e l'arciduca Filippo
come procuratore dei re di Spagna. La guerra continua nel reame di
Napoli. Sfortuna delle armi francesi. Francesi e spagnoli a
Cerignola. La sconfitta de' francesi. Consalvo a Napoli.
Cosí liberato il re di Francia dalla guerra de' svizzeri, non aveva
nel tempo medesimo minore speranza di liberarsi dalla guerra che era
nel reame di Napoli: perché, dopo molte pratiche di pace tenute
vanamente tra l'uno e l'altro re, volendosene ritornare di Spagna in
Fiandra Filippo arciduca di Austria e principe di Fiandra, deliberò,
benché contro a molti prieghi de' suoceri, ritornarsene per terra;
da' quali ottenne ampia facoltà e libero mandato di fare la pace col
re di Francia, stata molto, mentre che era in Ispagna, procurata da
lui, ma accompagnandolo due loro imbasciadori, senza la
partecipazione de' quali non voleva cosa alcuna né conchiudere né
trattare. È incredibile con quanta magnificenza e onore fusse per
ordine del re ricevuto per tutto il regno di Francia, non solo per
desiderare di farselo propizio nella pratica dell'accordo ma per
conciliarsi per ogni tempo l'animo di quel principe, giovane e in
espettazione di somma potenza, perché era il piú prossimo alla
successione dello imperio romano e de' reami di Spagna con tutte le
dependenze loro; e con la medesima liberalità furono raccolti e
fatti molti donativi a quegli che erano grandi appresso a lui: alle
quali dimostrazioni corrispose con magnanimità reale Filippo; perché
avendo il re, oltre alla fede datagli che e' potesse passare per
Francia sicuramente, mandato per sua sicurtà a stare in Fiandra,
tanto che e' fusse passato, alcuni de' primi signori del reame,
Filippo, come e' fu entrato in Francia, per dimostrare di confidarsi
in tutto della sua fede, ordinò che gli statichi fussino liberati.
Né a queste dimostrazioni di amicizia tanto grandi succederono, per
quanto fu in loro, effetti minori; perché convenutisi a Bles, dopo
discussione di qualche dí, conchiuseno la pace con queste
condizioni: che il reame tutto di Napoli si possedesse secondo la
prima divisione, ma lasciando in diposito a Filippo le provincie per
la differenza delle quali si era venuto all'armi, e che di presente
Carlo figliuolo suo e Claudia figliuola del re, tra' quali si
stabiliva lo sposalizio altre volte trattato, s'intitolassino re di
Napoli e duchi di Puglia e di Calavria; che la parte che toccava al
re di Spagna fusse in futuro governata dall'arciduca, quella del re
di Francia da chi deputasse il re, ma tenendosi l'una e l'altra
sotto nome de' due fanciulli, a' quali quando consumavano il
matrimonio il re consegnasse, per dota della figliuola, la sua
porzione. La quale pace fu solennemente publicata nella chiesa
maggiore di Bles, e confermata con giuramento del re, e di Filippo
come procuratore de' re suoi suoceri: pace certamente, se avesse
avuto effetto, di momento grandissimo, perché non solo si posavano
l'armi tra re tanto potenti ma dietro a questa sarebbe seguitata la
pace tra il re de' romani e il re di Francia; onde contro a'
viniziani nascevano nuovi pensieri, e il pontefice, sospetto a tutti
e in pessimo concetto di ciascuno, non rimaneva senza timore di
concili e d'altri disegni a depressione della sua autorità. Ma
avendo subito il re e Filippo mandato nel regno di Napoli a intimare
la pace fatta, e a comandare a' capitani che insino a tanto venisse
la ratificazione de' re di Spagna, possedendo come possedevano,
s'astenessino dalle offese, offersesi il capitano franzese di
ubbidire al suo re, ma lo spagnuolo, o perché piú sperasse nella
vittoria o perché l'autorità sola di Filippo non gli bastasse,
rispose che insino non avesse il medesimo comandamento da' suoi re
non poteva omettere di fare la guerra: alla continuazione della
quale gli dava maggiore animo, che il re di Francia, sperando prima
nelle pratiche e poi nella conclusione della pace e presupponendo
per certo quel che ancora era incerto, aveva non solamente
raffreddato l'altre provisioni ma sopratenuto tremila fanti che
prima aveva ordinato che a Genova s'imbarcassino, e trecento lancie,
destinate che sotto Persí andassino a quella impresa; e per
contrario, a Barletta erano arrivati i duemila fanti tedeschi i
quali, soldati con favore del re de' romani e imbarcatisi a Triesti,
erano con grave querela del re di Francia passati sicuramente per il
golfo de' viniziani. E però il duca di Nemors, non potendo
promettersi la sospensione dell'armi e indebolito per i danni
ricevuti poco innanzi, per essere sufficiente, se l'occasione lo
invitasse o la necessità lo costrignesse, a combattere con
gl'inimici, mandò a chiamare tutte le genti franzesi che erano
divise in vari luoghi, da quelle in fuori che sotto Obigní
militavano in Calavria; e tutti gli aiuti de' signori del regno: ma
ebbe nel raccorle avversa la fortuna. Perché avendo il duca d'Atri e
Luigi d'Ars, uno de' capitani franzesi che avevano le genti loro
sparse in Terra di Otranto, deliberato d'andare insieme a unirsi col
viceré, perché presentivano che Pietro Navarra con molti fanti
spagnuoli era in luogo da potere loro nuocere se fussino andati
separati, accadde che Luigi d'Ars, avendo avuta opportunità di
condursi sicuro da se stesso, partí senza curarsi del pericolo del
duca d'Atri; al quale, rimasto solo, essendo pervenuta notizia che
Pietro Navarra si era mosso verso Matera per andare a unirsi con
Consalvo, si messe ancora esso in cammino con la sua gente. Ma non
bastano i consigli umani a resistere alla fortuna: perché avendo gli
uomini di Rutiliano terra in quello di Bari, i quali in quegli
medesimi dí si erano ribellati dai franzesi, chiamato Pietro
Navarra, e però egli volgendosi dal cammino cominciato di Matera
verso Rutiliano, si scontrò nel duca d'Atri; il quale, spaventato di
questo accidente, stette sospeso di quello che avessi a fare, pure,
non essendo sicura in tutto la ritirata e confidandosi che se bene
era inferiore di numero di fanti aveva piú cavalli, e stimando che
la fanteria spagnuola per avere la notte fatto lungo cammino fusse
stracca, appiccò la battaglia; nella quale essendosi da ogni parte
combattuto valentemente, fu alla fine rotta la gente sua, morto
Giovann'Antonio suo zio ed egli fatto prigione. E, come pare ch'il
piú delle volte le avversità non vadino sole, quattro galee
franzesi, delle quali era capitano Pregianni Provenzale cavaliere di
Rodi, sorseno nel porto d'Otranto, con licenza dell'offiziale
viniziano, che promesse non patirebbe fussino molestate dall'armata
di Spagna, la quale sotto Villamarina volteggiava ne' luoghi vicini;
ma essendo poco dipoi entrata nel porto medesimo, Pregianni
inferiore di forze, temendo non l'investissino, acciò che almanco il
danno suo non fusse con guadagno degli inimici, liberata la ciurma e
messe in fondo le galee, salvò sé e i suoi per la via di terra.
Aveva il re di Francia commesso a' suoi capitani che standosi in su
le difese fuggissino il venire alle mani, perché arebbono presto o
lo stabilimento della pace o soccorso grande. Ma era difficile,
essendo potenti e vicini tutti gli eserciti, raffrenare la caldezza
de' franzesi e fargli stare pazienti a menare la guerra in lungo;
anzi era destinato che, senza differire piú, si decidesse la somma
delle cose. Di che nacque il principio in Calavria: perché, uniti
che furono gli spagnuoli a Seminara, Obigní, raccolte tutte le genti
sue e quelle de' signori che seguitavano la parte franzese, alloggiò
le fanterie nella terra di Gioia vicina a tre miglia a Seminara, e
la cavalleria a Losarno lontano tre miglia da Gioia; e fortificatosi
con quattro pezzi d'artiglieria in su la riva del fiume in sul quale
è posta Gioia, stava preparato per opporsi agl'inimici se e'
tentassino di passare il fiume. Ma gli spagnuoli, fatto pensiero
diverso dal suo, il dí che deliberorono passare, mossono per la
strada diritta la vanguardia, condotta da Manuel di Benavida, alla
via del fiume, il quale giunto alla riva cominciò a parlare con
Obigní, che aveva condotto tutto l'esercito suo in su la riva
opposita; e in detto tempo la retroguardia spagnuola, seguitata
dalla battaglia, si volse per altro cammino a passare il fiume un
miglio e mezzo di sopra a Gioia. Del qual tratto accorgendosi Obigní
si mosse con grande celerità e senza artiglieria, per giugnergli
innanzi che tutti avessino passato: ma erano già passati tutti; e
ordinatisi, benché senza artiglierie, in ferma e stretta battaglia
si mossono contro a' franzesi, i quali, accelerando il cammino e
avendo, come dicono alcuni, molto minore numero di fanti, andavano
disordinati; in modo che presto gli roppeno, innanzi che passasse il
fiume l'antiguardia spagnuola. Nel quale conflitto restò prigione
Ambricort con alcuni altri capitani franzesi e il duca di Somma con
molti baroni del regno; e Obigní, benché fuggisse nella rocca di
Angitola, rinchiusovi dentro, fu costretto ad arrendersi prigione,
rotto e preso in quegli luoghi medesimi dove pochi anni innanzi
aveva con tanta gloria superato e rotto il re Ferdinando e Consalvo:
tanto è poco costante la prosperità della fortuna. Né a lui, che fu
de' piú eccellenti capitani che Carlo conducesse in Italia, e di
ingegno libero e nobile, aveva nociuto altro che il procedere con
troppa caldezza alla speranza della vittoria. La qual cosa medesima
nocette in Puglia al viceré, traportato forse a maggiore caldezza
per avere intesa la rotta ricevuta in Calavria; perché Consalvo,
essendogli incognita la vittoria de' suoi, né potendo piú per la
fame e per la peste perseverare in Barletta, se ne partí, lasciatavi
poca guardia, e si dirizzò alla Cirignola, terra lontana dieci
miglia e quasi in triangolo tra Canosa, dove era il viceré, e
Barletta.
Era già stato disputato prima nel consiglio del viceré se era da
cercare o da fuggire l'occasione della giornata, e molti de'
capitani avevano detta questa sentenza, che essendo gli spagnuoli
accresciuti di gente e i suoi diminuiti, e cominciati a invilire per
i disordini succeduti prima a Rubos e a Castellaneta e poi in Terra
di Otranto e ultimatamente in Calavria, non fusse da commettersi
alla fortuna ma, ritirandosi in Melfi o in qualche altra terra
grossa e abbondante, aspettare che di Francia venisse o nuovo
soccorso o lo stabilimento della pace; al quale modo di
temporeggiarsi astrignergli anche il comandamento ricevuto
nuovamente dal re: ma aveva questo consiglio avuto molti
contradittori, a' quali pareva pericoloso l'aspettare che l'esercito
vincitore di Calavria si unisse con Consalvo, o si voltasse a
qualche impresa importante, dove non troverebbono chi resistesse.
Ricordavansi che frutto avesse partorito l'avere eletto, l'esercito
di Mompensieri, piú tosto il ritirarsi nelle terre che 'l
combattere, e gli esempli passati gli ammonivano di quello che de'
soccorsi lunghi e incerti di Francia sperare potessino; e se,
essendo le cose ambigue, né Consalvo aveva consentito di levare le
offese né i re di Spagna accettata la pace, tanto manco essere per
farlo ora che erano in tanta speranza della vittoria. Non essere
l'esercito loro inferiore di forze e di virtú a quello degl'inimici,
né doversi arguire da' disordini ricevuti per propria negligenza a
quello esperimento che col ferro e col valore dell'animo, non con
l'astuzia o con gli inganni, si farebbe in campagna aperta; ed
essere piú sicuro e piú glorioso partito fare, con speranza almanco
eguale, esperienza della fortuna che, fuggendola e lasciandosi a
poco a poco consumare, concedere agl'inimici la vittoria senza
sangue e senza pericolo; e i comandamenti del re, che era lontano,
doversi piú presto per ricordi che per precetti ripigliare, i quali
erano fatti prudentemente se fussino stati seguitati da Obigní, ma
essendo variato per quel disordine lo stato della guerra essere
necessario che medesimamente le deliberazioni si variassino. Era
prevaluta nel consiglio questa sentenza; e però, come ebbono notizia
dalle spie che le genti spagnuole, o tutte o parte, erano uscite di
Barletta, prese similmente Nemors il cammino verso la Cirignola,
cammino all'uno e all'altro esercito molto incomodo; perché, per
essere quegli paesi sterilissimi d'acqua, e la state sopravenuta
molto piú tosto che non suole essere al principio di maggio, è fama
che quel dí ne perirono nel camminare, di sete, molti di ciascuna
delle parti: né sapevano i franzesi se quel che si era mosso era
tutto o parte dello esercito spagnuolo, perché Fabrizio Colonna co'
cavalli leggieri non lasciava penetrare a loro notizia alcuna, e le
lancie ritte degli uomini d'arme, e i gambi de' finocchi che in quel
paese sono altissimi, impedivano loro la vista. Arrivorono prima gli
spagnuoli alla Cirignola, che si guardava per i franzesi; e
ponendosi ad alloggiare tra certe vigne, allargorono per consiglio
di Prospero Colonna un fosso che era alla fronte del loro
alloggiamento. Sopragiunseno poi i franzesi mentre che
l'alloggiamento si faceva, ed essendo già vicina la notte stettono
dubbi o d'appiccare subito il fatto d'arme o di differire la
battaglia al dí seguente; e consigliavano Ivo d'Allegri e il
principe di Melfi che si indugiasse al dí seguente, nel qual dí
speravano che gli spagnuoli, necessitati dal mancamento delle
vettovaglie, avessino a muoversi, onde fuggirsi oltre alla
propinquità della notte il disavvantaggio di assaltargli nel proprio
alloggiamento, non sapendo massimamente la disposizione di quello;
ma, disprezzando impetuosamente Nemors il consiglio piú salutifero,
assaltorono gli spagnuoli con furore grande; combattendo con la
medesima ferocità i svizzeri. Ed essendosi, o per caso o per altro,
attaccato il fuoco alla munizione degli spagnuoli, Consalvo,
abbracciato l'augurio, con franco animo gridò: - Noi abbiamo vinto;
Iddio ci annunzia manifestamente la vittoria, dandoci segno che non
ci bisogna piú adoperare l'artiglieria. -
Varia è la fama del progresso della battaglia. I franzesi
publicorono, le genti loro avere nel primo congresso rotta la
fanteria spagnuola, arrivati alla artiglieria avere arsa la polvere
ed essersene insignoriti; ma che, sopravenuta la notte, le genti
d'arme avevano percosso per errore nella fanteria propria, per il
quale disordine gli spagnuoli essersi rifatti. Ma dagli altri fu
publicato che, per la difficoltà di passare il fosso, i franzesi
cominciando ad avvilupparsi tra loro medesimi si messeno in fuga,
non meno per disordine proprio che per virtú degl'inimici; essendo
massime spaventati per la morte di Nemors, il quale combattendo
ferocemente tra i primi, e riscaldando i suoi a passare il fosso,
cadde percosso d'uno scoppio. Altri, piú particolarmente, che
Nemors, disperato di spuntare il fosso, volendo girare la gente al
fianco del campo per fare pruova d'entrare da quella banda, fece
gridare: - a dietro, a dietro, - la qual voce a chi non sapeva la
cagione dava segno di fuggire; e la morte sua, che essendo nel primo
squadrone nel medesimo tempo sopravenne, voltò tutto l'esercito in
fuga manifesta. Rimuovono alcuni altri dal viceré la infamia d'avere
contro al consiglio degli altri combattuto, anzi la trasferiscono in
Allegri che, essendo inclinato il viceré a non combattere quel dí,
riprendendolo di timidità lo indusse a contrario consiglio. Durò la
battaglia per brevissimo spazio; e ancora che gli spagnuoli, passato
il fosso, gli seguitassino, ne fu, per essere già notte oscura,
presi e morti pochissimi, specialmente di uomini a cavallo; tra'
quali fu morto monsignore di Ciandeu: il resto, perduti i carriaggi
perduta l'artiglieria, si salvò con la fuga, spargendosi i capitani
e i soldati in varie parti. È fama che, essendo già cacciati per
tutto gli inimici, che Consalvo, non vedendo in luogo alcuno
Prospero Colonna ne dimandava con instanza, dubitava non fusse stato
ammazzato nel fatto d'arme; e che Fabrizio, volendo tassarlo di
timidità, ridendo gli rispose non essere da temere che Prospero
fusse entrato in luogo pericoloso. Acquistossi questa vittoria otto
dí dopo la rotta di Obigní; e l'una e l'altra in venerdí, giorno
osservato per felice dagli spagnuoli.
Feciono i franzesi, come furono raccolti dalla fuga, vari disegni, o
di unirsi con le reliquie dello esercito in qualche luogo opportuno
a impedire a' vincitori l'andare a Napoli o di fermarsi alla difesa
di Napoli; nondimeno, come nelle cose avverse diventano ogni dí
maggiori il timore e le difficoltà di chi è stato vinto, niuno di
questi partiti si messe a esecuzione, perché e in altri luoghi
aveano difficoltà di fermarsi, e Napoli giudicavano non potere
difendere per la carestia delle vettovaglie: alla quale per
provedere aveano prima i franzesi fatto comperare a Roma quantità
grande di frumenti, ma il popolo romano impedí non si traessino, o
per conservare Roma abbondante o per suggestione occulta (come molti
credettono) del pontefice. Però Allegri, il principe di Salerno e
molti altri baroni si ritirorno tra Gaeta e Traietto, ove si
raccolse dietro al nome loro la maggiore parte delle reliquie
dell'esercito. Ottenuta Consalvo tanta vittoria, non allentando il
favore della fortuna, si dirizzò con l'esercito a Napoli; e passando
da Melfi offerse al principe la facoltà di ritenersi il suo stato in
caso volesse seguitare la divozione spagnuola: il quale, accettando
piú tosto d'essere lasciato partire con la moglie e co' figliuoli,
andò a congiugnersi con Luigi d'Ars che s'era fermato a Venosa.
Avuto Melfi, seguitò Consalvo il cammino a Napoli; ove come cominciò
ad accostarsi, i franzesi che v'erano dentro si ritirorno in
Castelnuovo, e i napoletani abbandonati, il quartodecimo dí di
maggio, riceverono Consalvo: come feceno, nel tempo medesimo, Aversa
e Capua.
Lib.6, cap.1
Lamentele del re di Francia per la inosservanza de' patti conclusi
con l'arciduca Filippo; politica ambigua de' re di Spagna.
Preparativi di guerra del re di Francia. Espugnazione di Castelnuovo
da parte degli spagnuoli. Consalvo s'avvia verso Gaeta. Pietro
Navarra prende Castel dell'Uovo. Altre vicende della guerra.
Pervenute al re di Francia le novelle di tanto danno, in tempo che
piú poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della
guerra, commosso gravissimamente per la perdita di uno reame tanto
nobile, per la ruina degli eserciti suoi ne' quali era tanta nobiltà
e tanti uomini valorosi, per i pericoli ne' quali rimanevano l'altre
cose che in Italia possedeva, né meno per riputarsi grandissimo
disonore di essere vinto da' re di Spagna senza dubbio meno potenti
di lui, e sdegnato sommamente di essere stato ingannato sotto la
speranza della pace, deliberava di attendere con tutte le forze sue
a recuperare l'onore e il regno perduto e vendicarsi con l'armi di
tanta ingiuria. Ma innanzi procedesse piú oltre si lamentò
efficacissimamente con l'arciduca, che ancora non era partito da
Bles, dimandandogli facesse quella provisione che era conveniente se
voleva conservare la sua fede e il suo onore: il quale, essendo
senza colpa, ricercava con grandissima instanza i suoceri del
rimedio, dolendosi sopra modo che queste cose fussino cosí
succedute, con tanta sua infamia, nel cospetto di tutto il mondo. I
quali, innanzi alla vittoria, avevano con varie scuse differito di
mandare la ratificazione della pace, allegando ora non trovarsi
tutt'a due in uno luogo medesimo, come era necessario avendo a fare
congiuntamente le espedizioni, ora di essere occupati molto in altri
negozi; come quegli che erano mal sodisfatti della pace, o perché il
genero avesse trapassato le loro commissioni o perché, dopo la
partita sua di Spagna, avessino conceputo maggiore speranza dello
evento della guerra, o perché fusse paruto loro molto strano ch'egli
avesse convertita in se medesimo la parte loro del reame e senza
avere certezza alcuna, per l'età tanto tenera degli sposi, che
avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo: e nondimeno non
negando, anzi sempre dando speranza di ratificare ma differendo, si
avevano riservato libero, piú tempo potevano, il pigliare consiglio
secondo i successi delle cose. Ma intesa la vittoria de' suoi,
deliberati di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il
dichiarare all'arciduca la loro intenzione, perché quanto piú tempo
ne stesse ambiguo il re di Francia tanto tardasse a fare nuove
provisioni per soccorrere Gaeta e l'altre terre che gli restavano.
Ma stretti finalmente dal genero, determinato di non partire
altrimenti da Bles, vi mandorono nuovi imbasciadori; i quali, dopo
avere trattato qualche giorno, manifestorono finalmente non essere
la intenzione de' loro re di ratificare quella pace, la quale non
era stata fatta in modo che fusse per loro né onorevole né sicura:
anzi, venuti in controversia con l'arciduca, gli dicevano essersi i
suoceri maravigliati assai che egli nelle condizioni della pace la
volontà loro trapassata avesse; perché, benché per onore suo il
mandato fusse stato libero e amplissimo, che egli si aveva a
riferire alle istruzioni, che erano state limitate. Alle quali cose
rispondeva Filippo non essere state manco libere le istruzioni che
il mandato; anzi, avergli alla partita sua efficacemente detto,
l'uno e l'altro de' suoceri, che desideravano e volevano la pace per
mezzo suo, e avergli giurato, in sul libro dello evangelio e in su
l'immagine di Cristo crocifisso, che osserverebbono tutto quello che
da lui si conchiudesse; e nondimeno non avere voluto usare sí ampia
e sí libera facoltà se non con partecipazione de' due uomini che
seco mandati avevano. Proposeno gli oratori con le medesime arti
nuove pratiche di concordia, mostrandosi inclinati a restituire il
regno al re Federigo; ma conoscendosi essere cose non solo vane ma
insidiose, perché tendevano ad alienare dal re di Francia l'animo di
Filippo intento a conseguire quel reame per il figliuolo, il re
proprio, in publica udienza, fece loro risposta, denegando volere
prestare orecchi in modo alcuno a nuovi ragionamenti se prima non
ratificavano la pace fatta e facevano segni che fussino dispiaciuti
loro i disordini seguiti; aggiugnendo parergli cosa non solo
maravigliosa ma detestanda e abominevole che quegli re, che tanto
d'avere acquistato il titolo di cattolici si gloriavano, tenessino
sí poco conto dell'onore proprio, della fede data, del giuramento e
della religione, né avessino rispetto alcuno all'arciduca, principe
di tanta grandezza nobiltà e virtú, e figliuolo ed erede loro: con
la quale risposta avendo il dí medesimo fattigli partire dalla
corte, si volse con tutto l'animo alle provisioni della guerra;
disegnando farle maggiori, e per terra e per mare, che già gran
tempo fa fussino state fatte per alcuno re di quel reame. Deliberò
adunque di mandare grandissimo esercito e potentissima armata
marittima nel regno di Napoli; e perché in questo mezzo non si
perdesse Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza, per
mare, soccorso di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per
impedire che di Spagna non vi andasse soccorso, il che era stato
causa di tutti i disordini, assaltare con due eserciti per terra il
regno di Spagna, mandandone uno nel contado di Rossiglione, che è
contiguo al mare Mediterraneo, l'altro verso Fonterabia e gli altri
luoghi circostanti posti in sul mare Oceano; e con una armata
marittima molestare, nel tempo medesimo, la costiera di Catalogna e
di Valenza. Le quali espedizioni mentre che con grandissima
sollecitudine si preparano, Consalvo, intento alla espugnazione
delle castella di Napoli, piantò l'artiglierie contro a Castelnuovo
alle radici del monte di San Martino, onde di luogo rilevato si
batteva il muro della cittadella, la quale situata di verso il detto
monte era di mura antiche fondate quasi sopra terra; e nel tempo
medesimo Pietro Navarra faceva una mina per ruinare le mura della
cittadella; e similmente si battevano le mura del castello dalla
Torre di San Vincenzio, stata presa pochi dí prima da Consalvo. Era
allora Castelnuovo in forma diversa dalla presente, perché ora,
levata via la cittadella, comincia dove erano le mura di quella un
circuito nuovo di mura che si distende per la piazza del castello
insino alla marina; il quale circuito, principiato da Federigo e
alzato da lui insino al bastione, fabbricato di muraglia forte e
bene fondata, è molto difficile a minare, per essere contraminato
bene per tutto e perché la sommità dell'acqua è molto vicina alla
superficie della terra. Ed era il disegno di Consalvo, presa che
avesse la cittadella, accostandosi alla scarpa del muro del
castello, sforzarsi di rovinarlo con nuove mine; ma dalla temerità o
dalla mala fortuna de' franzesi gli fu presentata maggiore
occasione. Perché, poi che alla mina condotta alla sua perfezione fu
fatto dare il fuoco da Pietro Navarra, aperse l'impeto della polvere
il muro della cittadella; e nel tempo medesimo i fanti spagnuoli che
stavano in battaglia aspettando questo, parte per la rottura del
muro parte salendo con le scale da piú bande, entrorono dentro: e da
altra parte i franzesi, usciti del castello, per non gli lasciare
fermare nella cittadella andorono incontro a loro: dalle forze de'
quali in poco tempo soprafatti, ritirandosi nel rivellino, gli
spagnuoli alla mescolata con loro vi entrorono dentro, e spingendosi
col medesimo impeto alla via della porta, dove non era allora il
nuovo torrione il quale fece poi fabbricare Consalvo, accrebbono ne'
franzesi, già inviliti, tanto il terrore che in meno d'una mezza
ora, perduto al tutto l'animo, detteno il castello con le robe,
delle quali vi era rifuggita quantità grandissima, e persone loro, a
discrezione: ove restò prigione il conte di Montorio e molti altri
signori. E riuscí questo acquisto piú opportuno, perché il dí
seguente arrivò per soccorrerlo, da Genova, una armata di sei navi
grosse e di molti altri legni carichi di vettovaglie d'armi e di
munizioni, e con dumila fanti. In su l'approssimarsi della quale,
l'armata spagnuola che era nel porto di Napoli si ritirò a Ischia;
dove, intesa che ebbe la perdita di Castelnuovo, la seguitò l'armata
franzese: ma avendo la spagnuola, per non essere sforzata a
combattere, affondato innanzi a sé certe barche, poiché s'ebbono
tirato qualche colpo d'artiglieria, l'una andò a Gaeta, l'altra
assicuratasi per la partita sua ritornò al molo di Napoli.
Espugnato Castelnuovo, Consalvo intento allo acquisto di tutto il
reame, non aspettato l'esercito di Calavria, il quale per levarsi
tutti gli impedimenti del venire innanzi s'era fermato a conquistare
la valle d'Ariano, mandò Prospero Colonna nello Abruzzi; ed egli,
lasciato Pietro Navarra alla espugnazione di Castel dell'Uovo, si
dirizzò col resto dello esercito a Gaeta: nella espugnazione della
quale consisteva la perfezione della vittoria, perché la speranza e
la disperazione de' franzesi dependeva totalmente dalla salvazione o
dalla perdita di quella città, forte, marittima, e che ha porto
tanto capace e sí opportuno alle armate mandate da Genova e di
Provenza. Né erano perciò i franzesi ristretti in Gaeta sola, ma
oltre a' luoghi circostanti che si tenevano per loro tenevano nello
Abruzzi l'Aquila la Rocca d'Evandro e molte altre terre: e Luigi
d'Ars, raccolti molti cavalli e fanti e fattosi forte col principe
di Melfi in Venosa, molestava tutto il paese vicino; e Rossano,
Matalona e molte altre terre forti, che erano di baroni della parte
angioina, si conservavano costantemente alla divozione del re di
Francia.
Faceva in questo tempo Pietro Navarra certe barche coperte, con le
quali, accostatosi al muro di Castel dell'Uovo piú sicuramente, fece
la mina dalla parte che guarda Pizzifalcone, non s'accorgendo quegli
che erano dentro dell'opera sua; per la quale, dato il fuoco, balzò
con grande impeto in aria una parte del masso insieme con gli uomini
che vi erano sopra; per il qual caso spaventati gli altri fu subito
presa la fortezza, con tanta riputazione di Pietro Navarra e con
tanto terrore degli uomini che (come sono piú spaventevoli i modi
nuovi dell'offese perché non sono ancora escogitati i modi delle
difese) si credeva che alle sue mine muraglia o fortezza alcuna
resistere piú non potesse. Ed era certamente cosa molto orribile che
con la forza della polvere d'artiglieria, messa nella cava o
veramente nella mina, si gittassino in terra grandissime muraglie.
La quale specie d'espugnazione era stata la prima volta usata in
Italia da' genovesi, co' quali, secondo che affermano alcuni,
militava per fante privato Pietro Navarra, quando l'anno mille
quattrocento ottantasette s'accamporono alla rocca di Serezanello
tenuta da' fiorentini; ove con una cava fatta in simile modo
aperseno parte della muraglia; ma non conquistando la rocca, per non
essere la mina penetrata tanto sotto i fondamenti del muro quanto
era necessario, non fu seguitato per allora l'esempio di questa
cosa.
Ma approssimandosi Consalvo a Gaeta, Allegri, che aveva distribuito
quattrocento lancie e quattromila fanti, di quegli che s'erano
salvati della rotta, tra Gaeta, Fondi, Itri, Traietto e Rocca
Guglielma, gli ritirò tutti in Gaeta; e vi entrorno insieme i
príncipi di Salerno e di Bisignano il duca di Traietto il conte di
Consa e molti baroni del regno, che prima si erano uniti con lui.
Dopo la ritirata de' quali, Consalvo, insignoritosi di tutte quelle
terre e della rocca di San Germano, alloggiò col campo nel borgo di
Gaeta, col quale, poco poi, avendo presa la valle d'Ariano, si uní
l'esercito di Calavria; e piantate le artiglierie batté con impeto
grande dalla parte del porto e dalla parte del monte detto
volgarmente il Monte di Orlando, congiunto e supereminente alla
città, e il quale, cinto dipoi di mura da lui, era stato allora con
ripari e con bastioni di terra fortificato da' franzesi: e avendo
tentato invano, con due assalti non ordinati, di entrarvi, s'astenne
finalmente di dare la battaglia ordinata, il dí che avevano
determinato di darla, riputando la espugnazione difficile per il
numero e virtú de' difensori, e considerando che quando bene
l'esercito suo fusse per forza entrato nel monte si riduceva in
maggior pericolo, perché sarebbe stato esposto alle artiglierie
piantate nel monasterio e altri luoghi rilevati che erano in sul
monte. Continuava nondimeno di battere con l'artiglierie e molestare
la terra: stretta similmente dalla parte del mare, perché innanzi al
porto erano diciotto galee spagnuole, delle quali era capitano don
Ramondo di Cardona. Ma pochi dí poi arrivò una armata di sei
caracche grosse genovesi sei altre navi e sette galee, carica di
vettovaglie e di molti fanti, in sulla quale era il marchese di
Saluzzo, mandato, per la morte del duca di Nemors, per nuovo viceré
dal re di Francia, sollecito quanto era possibile alla conservazione
di Gaeta, e perciò, parte in su questi legni parte in su altri che
giunsono poco poi, vi mandò in pochi dí mille fanti corsi e tremila
guasconi: per la venuta della quale armata l'armata spagnuola fu
costretta a ritirarsi a Napoli; e Consalvo, disperando di potere
farvi piú frutto alcuno, ridusse le genti a Mola di Gaeta e al
Castellone, donde teneva Gaeta come assediata di largo assedio;
avendovi perduto, parte nello scaramucciare parte nel ritirarsi,
molti uomini, tra' quali fu ammazzato dall'artiglieria di dentro don
Ugo di Cardona. Ma gli succedevano nel tempo medesimo prosperamente
tutte le altre cose del regno: perché Prospero Colonna aveva preso
la Rocca d'Evandro e l'Aquila, e tutte l'altre terre dello Abruzzi
ridotte alla divozione spagnuola; e la Calavria quasi tutta la
medesima ubbidienza seguitava, per l'accordo che nuovamente aveva
fatto il conte di Capaccio con loro; né vi rimaneva altro che
Rossano e Santa Severina, ove era assediato il principe di Rossano.
Lib.6, cap.2
Successi de' fiorentini nella guerra contro Pisa. Trattative del
Valentino coi pisani e sua ambizione al dominio della Toscana.
Politica ambigua del pontefice e del Valentino verso il re di
Francia. Aspirazione del pontefice e del Valentino agli stati di
Giangiordano Orsini.
Nel qual tempo non erano l'altre parti d'Italia vacue totalmente di
sospetti e di fatiche. Perché i fiorentini, insino innanzi alle
percosse che i franzesi ebbono nel reame, temendo le forze e
gl'inganni del pontefice e del Valentino, avevano oltre a essersi
proveduti d'altre armi condotto a' soldi loro e per governare tutte
le loro genti, benché senza titolo, il baglí d'Occan capitano
riputato nella guerra, con cinquanta lancie franzesi; persuadendosi
che, per essere uomo del re di Francia e menando con volontà del re
le cinquanta lancie che aveva da lui in condotta, quegli de' quali
temevano avessino a procedere con piú rispetto, e che oltre a questo
in ogni bisogno loro avessino a essere piú pronti gli aiuti regi:
alla giunta del quale, raccolte insieme tutte le genti, tagliorono
la seconda volta le biade de' pisani; non però per tutto il paese,
perché l'entrare nel Valdiserchio non era senza pericolo, essendo
quella valle situata tra monti e acque e in mezzo tra Lucca e Pisa.
Espedito di dare il guasto, andò il campo a Vico Pisano, il quale si
ottenne senza difficoltà: perché il baglí, minacciando cento fanti
franzesi che v'erano dentro che e' sarebbono puniti come inimici del
re e promettendo loro il soldo di uno mese, fu operatore che se
n'uscissino; per la partita de' quali furono costretti quegli di
Vico Pisano arrendersi liberamente. Preso Vico, si circondò subito
la Verrucola dove erano pochi difensori, perché non vi entrasse
nuova gente; e condottevi di poi per quegli monti aspri con
difficoltà grande l'artiglierie, quegli di dentro aspettati pochi
colpi s'arrenderono, salvo l'avere e le persone. È il sito del monte
della Verrucola, nella sommità del quale era stata fabbricata una
piccola fortezza, nelle guerre lunghe che si fanno nel contado di
Pisa, di molta importanza; perché, vicino a Pisa a cinque miglia,
non solo è opportuno a infestare il paese circostante, e insino in
sulle porte di quella città, ma ancora a scoprire tutte le cavalcate
e genti che n'escono; e il quale, in questa guerra, e da Paolo
Vitelli e da altri era invano piú volte stato tentato. Ma la
confidenza che i pisani aveano avuta che avesse a difendere Vico
Pisano, senza l'acquisto del quale non potevano i fiorentini
mettersi a campo alla Verrucola, era stata cagione che non l'aveano
proveduta sufficientemente. Spaventò molto i pisani la perdita della
Verrucola; e nondimeno, ancora che e' ricevessino tanti danni,
avessino pochissimi soldati forestieri mancamento di danari carestia
di vettovaglie, non si piegavano a ritornare all'ubbidienza de'
fiorentini, mossi principalmente dalla disperazione di ottenere
venia per la coscienza dell'offese gravissime fatte loro. La quale
disposizione era necessario che conservassino, con grandissima
diligenza e infinite arti, coloro che nel governo erano di maggiore
autorità; perché pure a' contadini, senza i quali non erano
sufficienti a difendersi, pareva grave il perdere le sue ricolte:
perciò attendevano a nutrirgli con varie speranze, e insieme quegli
del popolo che vivevano piú delle arti della pace che della guerra;
con lettere finte e con diverse invenzioni mostrando (e le cose vere
alle false mescolando, e ciò che in Italia di nuovo succedeva a
proposito loro interpretando) che ora questo ora quell'altro
principe in aiuto loro si moverebbono. Né erano però in queste
estremità senza qualche aiuto e soccorso da' genovesi e da' lucchesi
antichi inimici del nome fiorentino, e similmente da Pandolfo
Petrucci poco grato de' benefici ricevuti; ma, quello che importava
piú, erano eziandio nutriti, con qualche aiuto occulto ma con molto
maggiori speranze, dal Valentino. Il quale, avendo lungamente avuto
desiderio di insignorirsi di quella città, offertagli da' pisani
medesimi, ma astenutosene per non offendere l'animo del re di
Francia, ora, preso ardire dalle avversità sue nel regno di Napoli,
trattava, con consentimento paterno, con gli imbasciadori pisani, i
quali per questo erano stati mandati a Roma, di accettarne il
dominio, distendendo, oltre a questo, i pensieri suoi a occupare
tutta Toscana. Della qual cosa benché i fiorentini e i sanesi
avessino grandissima sospezione, nondimeno, essendo impedito il bene
universale dagli interessi particolari, non si tirava innanzi
l'unione proposta dal re di Francia tra i fiorentini, bolognesi e
sanesi; perché i fiorentini ricusavano di farla senza la
restituzione di Montepulciano, come da principio era stato trattato
e promesso, e Pandolfo Petrucci, avendone l'animo alieno benché le
parole sonassino in contrario, allegava che il restituirlo gli
conciterebbe tanto odio del popolo sanese che e' sarebbe necessitato
a partirsi di nuovo di quella città, e però essere piú beneficio
comune differire qualche poco per farlo con migliore occasione che,
per restituirlo di presente, facilitare al Valentino l'occupare
Siena; e cosí non negando ma prolungando si ingegnava che i
fiorentini accettassino la speranza per effetto: le quali scuse,
rifiutate da essi, erano per opera di Francesco da Narni, fermatosi
per comandamento del re in Siena, accettate e credute nella corte di
Francia.
Ma non era l'intenzione del pontefice e di Valentino di mettere mano
a queste imprese se non quanto dessino loro animo i progressi
dell'esercito che si preparava dal re di Francia, e secondo che da
essi fusse deliberato dell'aderirsi piú all'uno re che all'altro:
sopra che si facevano per essi in questo tempo vari pensieri,
differendo quanto potevano il dichiarare la mente sua, non
inclinata, se non quanto il timore fusse per costrignergli, al re di
Francia, perché l'esperienza veduta nelle cose di Bologna e di
Toscana gli privava di speranza di fare col favore suo maggiori
acquisti. Perciò avevano cominciato, innanzi alla vittoria degli
spagnuoli, ad alienarsi con la volontà ogni dí piú da lui, e dopo la
vittoria, preso maggiore animo, non avevano piú il rispetto solito
alla volontà e autorità sua; e ancora che avessino, subito dopo le
rotte de' franzesi, affermato di volere seguitare la parte del re di
Francia e fatto dimostrazione di soldare genti per mandarle ne
reame, nondimeno tirati dalla cupidità di nuovi acquisti, né potendo
levare gli occhi né rimuovere l'animo dalla Toscana, ricercandogli
il re che si dichiarassino apertamente per lui, rispondeva il
pontefice con tale ambiguità che ogni dí diventava piú sospetto, il
figliuolo ed egli; la simulazione e dissimulazione de' quali era
tanto nota nella corte di Roma che n'era nato comune proverbio che
'l papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva
mai quello che faceva. Né era ancora finita la contenzione loro con
Giangiordano. Perché se bene il Valentino, temendo la indegnazione
del re, si fusse, quando ricevé il comandamento suo, astenuto da
molestarlo, nondimeno il pontefice, dimostrandone dispiacenza
grandissima, non avea mai cessato di fare instanza col re che o gli
concedesse l'acquistare con l'armi tutti gli stati di Giangiordano o
costrignesse lui a riceverne ricompenso, dimostrando muoverlo a
questo non l'ambizione ma giustissimo timore della sua vicinità,
perché, essendosi trovato nelle scritture del cardinale Orsino uno
foglio bianco sottoscritto di mano propria di Giangiordano, arguiva
che nelle cose trattate alla Magione avea avuto contro a sé la
medesima volontà e intelligenza che gli altri Orsini. Nella qual
cosa il re, avendo per fine piú l'utilità che l'onestà, avea
proceduto diversamente secondo la diversità de' tempi, ora
dimostrandosi favorevole come prima a Giangiordano ora inclinato a
sodisfare in qualche modo al pontefice. Però, avendo Giangiordano
ricusato di deporre Bracciano in mano dell'oratore franzese che
risedeva a Roma, dimandò il re che questa controversia fusse rimessa
in sé, con patto che Giangiordano si trasferisse fra due mesi in
Francia né si innovasse insino alla sua determinazione cosa alcuna;
alla qual cosa acconsentí Giangiordano per necessità, perché avea
sperato per i meriti paterni e suoi dovere essere in tutto liberato
da questa molestia, e il pontefice piú per timore che per altro,
essendo stata fatta la domanda nel tempo che l'arciduca in nome de'
re di Spagna contrasse la pace. Ma mutata per la vittoria degli
spagnuoli la condizione delle cose, il papa, vedendo il bisogno che
il re aveva di lui, dimandava tutti gli stati suoi, offerendo quella
ricompensa che fusse dichiarata dal re; il quale aveva, per la
medesima cagione, indotto Giangiordano, benché malvolentieri, a
consentirvi e a promettere di dargli, per sicurtà d'eseguire quel
che il re dichiarasse, il figliuolo: perché la intenzione sua era
non dare questi stati al pontefice se nel tempo medesimo non si
congiugneva nella guerra napoletana apertamente con lui. Ma avendo
recusato quegli di Pitigliano, dove il figliuolo era, di darlo a
monsignore di Trans oratore del re, il quale era andato a Portercole
per riceverlo, Giangiordano medesimo, che era ritornato, andò a
Portercole a offerire all'oratore la propria persona; il quale
accettatolo, impudentemente lo fece mettere in su una nave; benché,
subito che 'l re n'ebbe notizia, comandò fusse liberato.
Lib.6, cap.3
Forze del re di Francia in Italia. Sospetti del re per la politica
sempre ambigua del pontefice e del Valentino.
Acceleravano intanto le provisioni ordinate per usarle di qua e di
là da' monti. Perché in Ghienna erano andati, per rompere la guerra
verso Fonterabia, monsignore di Alibret e il marisciallo di Gies con
quattrocento lancie e cinquemila fanti tra svizzeri e guasconi; e
nella Linguadoca, per muovere la guerra nella contea di Rossiglione,
il marisciallo Ruis brettone con ottocento lancie e ottomila fanti,
parte svizzeri parte franzesi; e nel tempo medesimo si moveva
l'armata per infestare la costa di Catalogna e del regno di Valenza.
E in Italia aveva espedito il re per capitano generale dell'esercito
monsignore della Tramoglia, a cui allora per consentimento di tutti
si dava il primo luogo, nell'armi, di tutto il reame di Francia; e
aveva mandato il baglí di Digiuno a fare muovere ottomila svizzeri;
e le genti d'arme e l'altre fanterie sollecitavano di camminare: non
essendo però l'esercito tanto potente come da principio aveva
disegnato, non perché fusse raffreddato l'ardore del re, né perché
lo ritenesse o la impotenza o il desiderio di spendere meno, ma
perché si conducesse nel regno di Napoli, come era giudicato molto
utile, con maggiore celerità, e in parte perché Allegri,
significandogli lo stato delle cose di là, aveva affermato essere
piú gagliarde le reliquie dello esercito che in fatto non erano e
piú ferme le terre e i baroni che ancora si tenevano a sua
divozione, e perché aveva ricercato aiuto di gente da tutti quegli
che in Italia gli aderivano; onde i fiorentini gli concederono il
baglí d'Occan con le cinquanta lancie pagate da loro e cento
cinquanta altri uomini d'arme, cento uomini d'arme per uno dettono
il duca di Ferrara i bolognesi e il marchese di Mantova, il quale
chiamato dal re v'andava in persona, e cento altri i sanesi. Le
quali genti, aggiunte a ottocento lancie e cinquemila guasconi che
conduceva in Italia la Tramoglia, e agli ottomila svizzeri che si
aspettavano e a' soldati che erano in Gaeta, facevano il numero di
mille ottocento lancie tra franzesi e italiane, e di piú di
diciottomila fanti; oltre a' quali si era mossa l'armata marittima
molto potente, sotto monsignore di... : di maniera che si confessava
per ciascuno non essere memoria che alcuno re di Francia, computato
le forze preparate per terra e per mare e di qua e di là da' monti,
avesse mai fatto piú potente e maggiore preparazione.
Ma non era riputato sicuro che l'esercito regio passasse Roma se
prima il re non era sicuro del pontefice e del Valentino, avendo
causa giustissima di sospettarne per molte ragioni e per molti
indizi, e perché per lettere intercette molto prima di Valentino a
Consalvo si era compreso essere stato trattato tra loro che se
Consalvo espugnava Gaeta, assicurato in caso tale delle cose del
regno, passasse innanzi con l'esercito, occupasse Pisa il Valentino,
e che uniti insieme Consalvo ed egli assaltassino la Toscana: e
perciò il re, passato già l'esercito in Lombardia, faceva instanza
grandissima che e' dichiarassino per ultimo la mente loro. I quali
se bene udivano e trattavano con tutti, nondimeno giudicando essere
il tempo comodo a fare mercatanzia de' travagli degli altri, aveano
maggiore inclinazione a congiugnersi con gli spagnuoli; ma gli
riteneva il pericolo manifesto che l'esercito franzese non
cominciasse ad assaltare gli stati loro, e cosí, che avessino a
cominciare a sentire danni e molestie donde disegnavano di
conseguire premi ed esaltazione: nella quale ambiguità permettevano
che ciascuna delle parti soldasse scopertamente fanti in Roma,
differendo il piú potevano a dichiararsi. Ma essendo finalmente
ricercatine strettamente dal re, offerivano che il Valentino si
unirebbe con l'esercito suo con cinquecento uomini d'arme e dumila
fanti, consentendogli il re non solamente le terre di Giangiordano
ma eziandio l'acquisto di Siena; e nondimeno quando s'approssimavano
alla conclusione variavano dalle cose trattate, introducendo nuove
difficoltà, come quegli che per potere, secondo la loro
consuetudine, pigliare consiglio dagli eventi delle cose, erano
alieni dal dichiararsi. Però fu introdotta un'altra pratica, per la
quale il pontefice, proponendo di non volere dichiararsi per alcuna
delle parti per conservarsi padre comune, consentiva dare allo
esercito franzese passo per il dominio della Chiesa, e prometteva
durante la guerra nel regno di Napoli non molestare né i fiorentini
né i sanesi né i bolognesi; le quali condizioni sarebbeno state
finalmente, perché l'esercito passasse senza maggiore indugio nel
reame, accettate dal re, ancora che conoscesse non essere questo
partito né con onore né con sicurtà sua e di quegli che da lui in
Italia dependevano: perché certezza alcuna non aveva che, se a' suoi
nel reame sinistro alcuno sopravenisse, che il pontefice e il
Valentino non se gli scoprissino contro; ed era oltre a questo mal
sicuro che, uscite che fussino le genti sue di terra di Roma, essi,
tenuto poco conto della fede, non assaltassino la Toscana, la quale
per la sua disunione e per gli aiuti dati al re restava debole e
quasi disarmata. E che avessino a tentare o questa o altra impresa
era verisimile, poiché d'avere a conseguire di tanta occasione
guadagni immoderati presupposto s'aveano.
Lib.6, cap.4
Morte del pontefice; malattia del Valentino; giubilo di Roma per la
morte del pontefice. Il Valentino si riconcilia con i Colonnesi.
Torbidi in Roma. Ritorno di signori spodestati in terre dello stato
pontificio e del Valentino. Accordi del Valentino col re di Francia.
Il conclave e l'elezione di Pio III.
Ma ecco che nel colmo piú alto delle maggiori speranze (come sono
vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna
appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da'
caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e
incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dí
seguente, che fu il decimo ottavo dí d'agosto, è portato morto
secondo l'uso de' pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato
e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col
vigore dell'età e per avere usato subito medicine potenti e
appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e
grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse
proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama piú comune,
l'ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino,
destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano
cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è
cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua
non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl'inimici o per
assicurarsi de' sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di
spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e
altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai
ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo
Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e
alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati
utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il
Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e
avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa,
con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il
pontefice innanzi a l'ora della cena, e, vinto dalla sete e da'
caldi smisurati ch'erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché
non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli
fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino piú prezioso,
dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale,
sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del
medesimo vino. Concorse al corpo morto d'Alessandro in San Piero con
incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi
d'alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata
ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile
crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo
senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato
tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e
quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventú insino all'ultimo dí
della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo piú
di quello desiderava. Esempio potente a confondere l'arroganza di
coloro i quali, presumendosi di scorgere con la debolezza degli
occhi umani la profondità de' giudíci divini, affermano ciò che di
prospero o di avverso avviene agli uomini procedere o da' meriti o
da' demeriti loro: come se tutto dí non apparisse molti buoni essere
vessati ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati
indebitamente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse
alla giustizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale,
non ristretta a' termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro
luogo, con larga mano, con premi e con supplíci sempiterni,
riconosce i giusti dagli ingiusti.
Ma Valentino, ammalato gravemente in palazzo, ridusse intorno a sé
tutte le sue genti; e avendo prima sempre pensato di fare, alla
morte del padre, parte col terrore delle sue armi parte col favore
de' cardinali spagnuoli, che erano undici, eleggere uno pontefice ad
arbitrio suo, aveva al presente molto maggiore difficoltà che prima
non s'era immaginato a questo e a tutti gli altri disegni, per la
sua pericolosissima infermità: per il che si querelava con
grandissima indegnazione che, avendo pensato molte volte in altri
tempi a tutti gli accidenti che nella morte del padre potessino
sopravenire, e a tutti pensato i rimedi, non gli era mai caduto
nella mente potere accadere che nel tempo medesimo avesse egli a
essere impedito da sí pericolosa infermità. Però, bisognandogli
accomodare i consigli suoi non a disegni fatti prima ma alla
necessità sopravenuta, parendogli non potere sostenere in un tempo
medesimo l'inimicizia de' Colonnesi e degli Orsini e temendo non si
unissino insieme contro a lui, si risolvé a fidarsi piú presto di
quegli i quali aveva offesi solamente nello stato che di quegli i
quali aveva offesi nello stato e nel sangue; e per questo,
riconciliatosi prestamente co' Colonnesi e colla famiglia della
Valle seguace della medesima fazione, e invitandogli a tornare negli
stati propri, restituí loro le fortezze, le quali con spesa grande
erano state fortificate e ampliate da Alessandro. Ma non bastava
questo né alla sicurtà sua né a quietare la città di Roma, ove ogni
cosa era piena di sospetti e di tumulti. Perché Prospero Colonna era
venutovi e tutta la parte colonnese avea prese l'armi; e Fabio
Orsino, venuto alle case loro in Montegiordano, aveva con turba
grande di partigiani degli Orsini abbruciati alcuni fondachi e case
di mercatanti e cortigiani spagnuoli (contro al nome della quale
nazione erano concitati gli animi quasi di ciascuno, per la memoria
delle insolenze che avevano usate nel pontificato d'Alessandro), e
sitibondo del sangue del Valentino congregava molti soldati
forestieri, e sollecitava Bartolomeo d'Alviano, che allora era agli
stipendi de' veneziani, che venisse a vendicarsi, insieme con gli
altri della famiglia loro, di tante ingiurie. Il Borgo e i Prati
erano pieni di gente del Valentino; e i cardinali, giudicando non
potere sicuramente congregarsi nel palazzo pontificale, si
congregavano nel convento della chiesa della Minerva: nel qual
luogo, fuora del costume antico, si cominciorono, ma piú tardi che
'l consueto, a fare le esequie d'Alessandro. Temevasi della venuta
di Consalvo a Roma, massimamente perché Prospero Colonna avea
lasciato a Marino certo numero di soldati spagnuoli, e perché per la
riconciliazione del Valentino co' Colonnesi si era creduto che egli
avesse convenuto di seguitare la parte spagnuola. Ma molto piú si
temeva che non vi venisse l'esercito franzese, proceduto insino a
quel dí lentamente perché i consigli publici de' svizzeri,
spaventati per gl'infelici successi avuti da quella nazione nel
regno di Napoli, erano stati molto sospesi innanzi concedessino a'
ministri del re che soldassino de' fanti loro, e ricusando per la
medesima cagione quasi tutti i capitani e fanti eletti di andarvi,
erano stati soldati piú tardamente e dipoi stati lenti nel
camminare. Ma per la morte del pontefice l'esercito, governato dal
marchese di Mantova con titolo di luogotenente del re, e in
compagnia sua, quanto all'effetto ma non in nome, dal baglí di Occan
e da Sandricort (perché la Tramoglia ammalato s'era fermato a Parma)
non aspettati i svizzeri, s'era condotto nel territorio di Siena con
intenzione di andare a Roma, perché cosí avea commesso il re, ed
eziandio che andasse a Ostia l'armata di mare che era a Gaeta, per
impedire (secondo dicevano) se Consalvo volesse andare con
l'esercito a Roma per costrignere i cardinali a eleggere ad arbitrio
suo il nuovo pontefice. Soggiornorono nondimeno qualche dí tra
Buonconvento e Viterbo, perché avendo, per le turbolenze di Roma, i
mercatanti fatto difficoltà d'accettare le lettere di cambio mandate
di Francia, i svizzeri condotti in quel di Siena recusavano, se
prima non erano pagati, passare piú avanti.
Nel qual tempo non erano minori i tumulti nel territorio di Roma, e
in molti altri luoghi dello stato della Chiesa e del Valentino.
Perché gli Orsini e tutti i baroni romani ritornavano agli stati
loro; i Vitelli erano tornati in Città di Castello; e Giampaolo
Baglione aveva, sotto speranza d'un trattato, assaltato Perugia, e
benché messo in fuga dagli inimici fusse stato costretto a
partirsene, nondimeno tornatovi di nuovo con molta gente e con gli
aiuti scoperti de' fiorentini, datovi uno assalto gagliardo, v'entrò
dentro, non senza qualche uccisione degli inimici e de' suoi. Aveva
e la terra di Piombino pigliato l'armi, e benché i sanesi si
sforzassino di occuparla vi ritornò, col favore de' fiorentini, il
vecchio signore. Il medesimo facevano negli stati loro il duca
d'Urbino, i signori di Pesero, di Camerino e di Sinigaglia.
Solamente la Romagna, benché non stesse senza sospetto de'
viniziani, i quali a Ravenna molta gente riducevano, stava quieta,
e inclinata alla divozione del Valentino; avendo per esperienza
conosciuto quanto fusse piú stato tollerabile a quella regione il
servire tutta insieme sotto un principe solo e potente che quando
ciascuna di quelle città stava sotto un signore particolare, il
quale né per la sua debolezza gli potesse difendere né per la
povertà beneficare, piú tosto, non gli bastando le sue piccole
entrate a sostentarsi, fusse costretto a opprimergli. Ricordavansi
ancora gli uomini che, per l'autorità e grandezza sua e per
l'amministrazione sincera della giustizia, era stato tranquillo quel
paese da' tumulti delle parti, da' quali prima soleva essere vessato
continuamente con spesse uccisioni d'uomini. Con le quali opere
s'avea fatti benevoli gli animi de' popoli; e similmente co'
benefici fatti a molti di loro, distribuendo soldi nelle persone
armigere, uffici, per le terre sue e della Chiesa, nelle togate, e
aiutando le ecclesiastiche nelle cose beneficiali appresso al padre:
onde né l'esempio degli altri, che tutti si ribellavano, né la
memoria degli antichi signori gli alienava dal Valentino. Il quale
benché fusse oppressato da tante difficoltà, pure e gli spagnuoli e
i franzesi facevano instanza grande, con molte promesse e offerte,
di congiugnerselo: perché oltre al valersi delle sue genti speravano
di guadagnare i voti de' cardinali spagnuoli per la futura elezione.
Ma egli, benché per la reconciliazione fatta co' Colonnesi si fusse
creduto che si fusse aderito agli spagnuoli, nondimeno non l'avendo
indotto a quella altro che il timore che non si unissino con gli
Orsini, e allora, secondo affermava, dichiarato di non volere essere
tenuto a cosa alcuna contro al re di Francia, deliberò di seguitare
la parte sua; perché, e in Roma, ove aveva sí vicino l'esercito, e
negli altri suoi stati, poteva piú e nuocergli e giovargli che non
potevano gli spagnuoli. Però, il primo dí di settembre, convenne col
cardinale di San Severino e con monsignore di Trans oratore regio
contraenti in nome del re, promettendo le genti sue all'impresa di
Napoli, e a ogn'altra impresa contro a ciascuno eccetto che contro
alla Chiesa; e da altra parte gli agenti predetti obligorno il re
alla sua protezione con tutti gli stati possedeva, e ad aiutarlo
alla recuperazione di quegli che aveva perduti. Dette oltre a questo
il Valentino speranza di voltare i voti della maggiore parte de'
cardinali spagnuoli al favore del cardinale di Roano; il quale,
pieno di grandissima speranza d'avere a ottenere il pontificato con
l'autorità co' danari e con l'armi del suo re, subito dopo la morte
del pontefice si era partito di Francia per venire a Roma, menando
seco oltre al cardinale di Aragona il cardinale Ascanio; il quale,
cavato due anni innanzi della torre di Borges, era poi stato
intrattenuto onoratamente nella corte e carezzato molto da Roano,
sperando che nella prima vacazione del pontificato gli avesse a
giovare molto l'antica riputazione e l'amicizie e dependenze grandi
che egli soleva avere nella corte romana: fondamenti non molto
saldi, perché né il Valentino poteva disporre totalmente de'
cardinali spagnuoli, intenti piú, secondo l'uso degli uomini,
all'utilità propria che alla remunerazione de' benefici ricevuti dal
padre e da lui, e perché molti di loro, avendo rispetto a non
offendere l'animo de' suoi re, non sarebbono trascorsi a eleggere in
pontefice uno cardinale franzese; né Ascanio, se avesse potuto,
arebbe consentito che Roano conseguitasse il pontificato, a perpetua
depressione ed estinzione d'ogni speranza che avanzava a sé e alla
casa sua.
Non si era dato ancora principio alla elezione del nuovo pontefice;
non solo per essersi cominciate a celebrare piú tardi che 'l solito
l'esequie del morto, innanzi alla fine delle quali, che durano nove
dí, non entrano, secondo la consuetudine antica, i cardinali nel
conclave, ma perché, per levare l'occasioni e i pericoli dello
scisma in tanta confusione delle cose e in sí importante divisione
de' príncipi, avevano i cardinali presenti consentito che si desse
tempo a venire a' cardinali assenti: i quali benché fussino venuti,
teneva sospeso il collegio il sospetto che l'elezione non avesse a
essere libera, rispetto alle genti del Valentino e perché l'esercito
franzese, ridotto finalmente tutto tra Nepi e l'Isola e che voleva
distendersi insino a Roma, recusava di passare il fiume del Tevere
se prima non si creava il nuovo pontefice, o per timore che la parte
avversa non isforzasse il collegio a eleggere a modo suo o perché il
cardinale di Roano volesse cosí, per piú sicurtà sua e per speranza
di favorirsene al pontificato. Le quali cose, dopo molte
contenzioni, recusando il collegio di volere altrimenti entrare nel
conclave, pigliorono forma: perché il cardinale di Roano dette a
tutto il collegio la fede sua che l'esercito franzese non passerebbe
Nepi e l'Isola, e il Valentino consentí d'andarsene a Nepi e poi a
Civita Castellana, mandati nel campo franzese dugento uomini d'arme
e trecento cavalli leggieri sotto Lodovico dalla Mirandola e
Alessandro da Triulzi; e il collegio, ordinati molti fanti per la
guardia di Roma, dette autorità a tre prelati preposti alla custodia
del conclave d'aprirlo se sentissino alcuno tumulto, acciò che,
restando qualunque de' cardinali libero d'andare dove gli paresse,
ciascuno perdesse la speranza di sforzargli. Entrorno finalmente i
cardinali nel conclave, trentotto in numero; ove la disunione,
solita in altri tempi a partorire dilazione, fu causa che
accelerando creassino fra pochi dí il nuovo pontefice. Perché, non
concordi della persona che avessino a eleggere, per l'altre loro
cupidità e principalmente per la contenzione che era tra i cardinali
dependenti dal re di Francia e i cardinali spagnuoli o dependenti
da' re di Spagna, ma spaventati dal pericolo proprio, essendo le
cose di Roma in tanti sospetti e tumulti, e dalla considerazione
degli accidenti che, in tempi tanto difficili, sopravenire per la
vacazione della sedia potevano, si inclinorono, consentendovi ancora
il cardinale di Roano, al quale ogni dí piú mancava la speranza di
essere eletto, a eleggere in pontefice Francesco Piccoluomini
cardinale di Siena; il quale, perché era vecchio e allora infermo,
ciascuno presupponeva dovere in brevissimo tempo terminare i suoi
dí: cardinale certamente di intera fama, e giudicato per l'altre sue
condizioni non indegno di tanto grado. Il quale, per rinnovare la
memoria di Pio secondo, suo zio, e da cui era stato promosso alla
degnità del cardinalato, assunse il nome di Pio terzo.
Lib.6, cap.5
Torbidi in Roma per l'inimicizia fra il Valentino e gli Orsini. Gli
Orsini al soldo degli spagnoli. Contegno di Giampaolo Baglioni verso
il re di Francia. Pace fra gli Orsini e i Colonnesi. Il Valentino
assalito dagli Orsini si rifugia in Vaticano e, quindi, in Castel
Sant'Angelo. Morte di Pio III ed elezione di Giulio II.
Creato il pontefice, l'esercito franzese, non avendo piú causa di
soprastare, indirizzandosi al cammino prima destinato, passò subito
il fiume del Tevere; e nondimeno, né per la creazione del pontefice
né per la partita dell'esercito, si quietavano i movimenti di Roma.
Perché aspettandovisi l'Alviano e Giampaolo Baglione, che congiunti
nel perugino facevano genti, il Valentino, oppresso ancora da grave
infermità, temendo della venuta loro, era con centocinquanta uomini
d'arme altrettanti cavalli leggieri e ottocento fanti ritornato in
Roma, avendogli conceduto il salvocondotto il pontefice, il quale
sperò potere piú facilmente fermare le cose con qualche
composizione; ma essendo tra le medesime mura il Valentino e gli
Orsini accesi da sete giustissima del suo sangue, e accumulando
continuamente nuove genti, perché, se bene avevano dimandato contro
a lui espedita giustizia al pontefice e al collegio de' cardinali,
facevano il fondamento principale di vendicarsi in sull'armi, almeno
come prima fussino giunti Giampagolo Baglione e l'Alviano, Roma e il
Borgo, dove alloggiava il Valentino, quasi continuamente
tumultuavano.
La quale contenzione non solamente turbava il popolo romano e la
corte ma nocé, come si crede, molto alle cose franzesi. Perché
preparandosi gli Orsini per andare, espediti che fussino delle cose
del Valentino, agli stipendi o del re di Francia o de' re di Spagna,
e giudicandosi dovere essere di non piccolo momento alla vittoria
della guerra l'armi loro, erano invitati con ampie condizioni da
ciascuna delle parti; ma essendo naturalmente piú studiosi del nome
franzese, il cardinale di Roano condusse, in nome del suo re, Giulio
Orsino, il quale contrasse seco in nome di tutta la casa, eccettuato
l'Alviano a cui fu riserbato luogo con onorate condizioni. Ma si
turbò ogni cosa per la venuta sua, perché se bene nel principio
rimanesse quasi concorde col medesimo cardinale, nondimeno,
ristrettosi quasi in uno momento con l'oratore spagnuolo, condusse
co' suoi re sé e tutta la famiglia Orsina, eccetto Giangiordano, con
cinquecento uomini d'arme e provisione di sessantamila ducati
ciascuno anno. Alla quale deliberazione lo indusse principalmente,
secondo che esso, creduto in questo da molti, costantemente
affermava, lo sdegno che 'l cardinale, acceso piú che mai dalla
cupidità del pontificato, favorisse il Valentino per la speranza di
conseguire per mezzo suo la maggiore parte de' voti de' cardinali
spagnuoli: benché il cardinale, scaricando la colpa che si dava a sé
con imputazione di altri, dimostrasse di persuadersi esserne stati
autori i viniziani, i quali, per desiderio che 'l re di Francia non
ottenesse il reame di Napoli, non solo a questo effetto avessino
consentito che egli si partisse da' soldi loro, promettendo, secondo
si diceva, di riservargli il luogo medesimo, ma ancora avessino,
perché il principio de' pagamenti fusse piú pronto, prestato
all'oratore spagnuolo quindicimila ducati; il che se bene non era al
tutto certo, non si poteva almeno negare lo imbasciadore viniziano
essersi interposto manifestamente in questa pratica. Altri
affermavano esserne stata cagione l'avere ottenute piú ampie
condizioni dagli spagnuoli, perché si obligorono a dare stati nel
regno di Napoli a lui e agli altri della casa, ed entrate
ecclesiastiche al fratello e, quel che da lui era stimato molto, a
concedergli, finita che fusse la guerra, sussidio di dumila fanti
spagnuoli, per la impresa la quale aveva in animo di fare contro a'
fiorentini in favore di Piero de' Medici.
Credettesi che Giampaolo Baglioni, che era venuto a Roma insieme con
l'Alviano, cosí come, seguitando l'esempio suo, trattava in uno
tempo medesimo di condursi co' franzesi e con gli spagnuoli lo
seguitasse similmente nella deliberazione. Ma il cardinale di Roano,
attonito della alienazione degli Orsini, per la quale si conosceva
essere ridotte in dubbio le speranze prima quasi certe de' franzesi,
lo condusse subito, concedendogli qualunque condizione dimandò, agli
stipendi del suo re con cento cinquanta uomini d'arme, benché sotto
nome de' fiorentini, perché cosí volle Giampagolo per essere piú
sicuro di ricevere a tempi debiti i pagamenti: i quali si aveano a
compensare in quello che dovevano al re per virtú delle loro
convenzioni. E nondimeno Giampagolo, ritornato a Perugia per mettere
in ordine le genti, e ricevuti ducati quattordicimila, governandosi
piú secondo i successi delle cose comuni o secondo le passioni e
interessi suoi che secondo quello che conviene all'onore e alla fede
de' soldati, e differendo l'andare all'esercito franzese con varie
scuse, non si mosse da Perugia; il che il cardinale di Roano
interpretò essere proceduto perché Giampaolo, imitando la fede poco
sincera de' capitani d'Italia, avesse, insino quando fu condotto,
promesso a Bartolomeo d'Alviano e agli spagnuoli di cosí fare.
Con la condotta degli Orsini si congiunse la pace tra loro e i
Colonnesi, stipulata nell'ora medesima nella abitazione dell'oratore
spagnuolo, nel quale e nell'oratore viniziano rimessono
concordemente tutte le differenze. Per l'unione de' quali il
Valentino impaurito, avendo deliberato di partirsi di Roma e già
movendosi per andare a Bracciano, perché Giangiordano Orsino aveva
data la fede al cardinale di Roano di condurvelo sicuro, Giampaolo e
gli Orsini, disposti di assaltarlo, non avendo potuto per il ponte
di Castel Sant'Angelo entrare nel Borgo, usciti di Roma e condotti
con lungo circuito alla porta del Torrone, la quale era chiusa,
l'abbruciorono, ed entrati dentro cominciorono a combattere con
alcuni cavalli del Valentino; e benché in aiuto suo concorressino
molti soldati franzesi i quali non erano partiti ancora di Roma,
nondimeno essendo maggiori le forze e grande l'impeto degli inimici,
e facendo le genti sue, il numero delle quali era prima molto
diminuito, segno di abbandonarlo, fu costretto insieme col principe
di Squillaci e alcuni de' cardinali spagnuoli rifuggirsi nel palagio
di Vaticano; donde si ritirò subito in Castel Sant'Angelo, ricevuta
con consenso del pontefice la fede dal castellano, il quale era quel
medesimo che a tempo del pontefice passato, di lasciarnelo, ogni
volta volesse, partire salvo: e le sue genti tutte si dispersono. Fu
ferito in questo tumulto, benché leggiermente, il baglí di Occan, e
il cardinale di Roano ebbe quello giorno molto timore di se
medesimo.
Rimossa per questo accidente la materia degli scandoli si rimossono
medesimamente di Roma i tumulti, di maniera che quietamente si
cominciò a dare opera alla elezione del nuovo pontefice: perché Pio,
non ingannando la speranza conceputa nella sua creazione da'
cardinali, era, ventisei dí dopo l'elezione, passato a vita
migliore. Dopo la morte del quale essendosi differito dal collegio
de' cardinali alquanti dí l'entrare in conclave, perché vollono che
prima uscissino di Roma gli Orsini, rimastivi per fare il numero
delle genti della condotta loro, si stabilí fuori del conclave la
elezione; perché il cardinale di San Piero a Vincola, potente di
amici di riputazione e di ricchezze, aveva tirati a sé i voti di
tanti cardinali che, non avendo ardire di opporsegli quegli che
erano di contraria sentenza, entrando in conclave già papa certo e
stabilito, fu, con esempio incognito prima alla memoria degli
uomini, senza che altrimenti si chiudesse il conclave, la notte
medesima, che fu la notte dell'ultimo dí di ottobre, assunto al
pontificato. Il quale, o risguardando al nome suo primo di Giuliano
o, come fu la fama, per significare la grandezza de' suoi concetti o
per non cedere, eziandio nella eccellenza del nome, ad Alessandro,
assunse il nome di Giulio; secondo, tra tutti i pontefici passati,
di tale nome. Grande fu certamente la maraviglia universale che il
pontificato fusse stato deferito, con tanta concordia, a uno
cardinale il quale era notissimo essere di natura molto difficile e
formidabile a ciascuno; e il quale, inquietissimo in ogni tempo e
che aveva consumato la età in continui travagli, aveva per necessità
offeso molti ed esercitato odii e inimicizie con molti uomini
grandi. Ma apparirono da altra parte manifestamente le cagioni per
le quali, superate tutte le difficoltà, fu esaltato a tanto grado.
Perché, per essere stato lungamente cardinale molto potente, e per
la magnificenza con la quale aveva sempre trapassato tutti gli altri
e per la grandezza rarissima del suo animo, non solo aveva amici
assai ma autorità molto inveterata nella corte, e otteneva nome di
essere precipuo difensore della degnità e libertà ecclesiastica. Ma
molto piú ve lo promossono le promissioni immoderate e infinite
fatte da lui a cardinali a príncipi a baroni e a ciascuno che gli
potesse essere utile a questo negozio, di quanto seppono dimandare.
Ed ebbe oltre a ciò facoltà di distribuire danari e molti benefici e
degnità ecclesiastiche, cosí delle sue proprie come di quelle di
altri, perché alla fama della sua liberalità molti concorrevano
spontaneamente a offerirgli che usasse a proposito suo i danari il
nome gli uffici e i benefici loro; né fu considerato per alcuno
essere molto maggiori le sue promesse di quello che poi, pontefice,
potesse o dovesse osservare, perché aveva lungamente avuto nome tale
d'uomo libero e veridico che Alessandro sesto, inimico suo tanto
acerbo, mordendolo nell'altre cose, confessava lui essere uomo
verace: la quale laude egli, sapendo che niuno piú facilmente
inganna gli altri che chi è solito e ha fama di mai non gli
ingannare, non tenne conto, per conseguire il pontificato, di
maculare. Assentí a questa elezione il cardinale di Roano, perché,
disperando di potere ottenere il pontificato per sé, sperò che, per
le dependenze passate, avesse a essere amico del suo re come insino
allora era stato riputato. Assentivvi il cardinale Ascanio
riconciliato prima con lui, deposta la memoria delle antiche
contenzioni che avevano avute insieme quando, cardinali tutt'a due
innanzi al pontificato di Alessandro, seguitavano la corte romana;
perché conoscendo, meglio che non aveva fatto il cardinale di Roano,
la sua natura, sperò che diventato pontefice avesse ad avere la
inquietudine medesima o maggiore di quella che aveva avuta in minore
fortuna, e concetti tali che gli potrebbono aprire la via a
ricuperare il ducato di Milano. Assentironvi similmente, se bene
prima n'avessino l'animo alienissimo, i cardinali spagnuoli: perché,
vedendo concorrervi tanti altri e perciò temendo non essere
sufficienti a interrompere la sua elezione, giudicorono essere piú
sicuro il mitigarlo consentendo che esasperarlo negando, e
confidando in qualche parte nelle promesse grandi che ottennono da
lui; e indotti dalle persuasioni e da' prieghi del Valentino,
ridotto in tale calamità che era necessitato a seguitare qualunque
pericoloso consiglio, e ingannato non meno che gli altri dalle
speranze sue; perché gli promesse di collocare la figliuola in
matrimonio a Francesco Maria della Rovere prefetto di Roma, suo
nipote, confermargli il capitanato delle armi della Chiesa e, quello
che importava piú, aiutarlo a recuperare gli stati di Romagna, i
quali già tutti, dalle fortezze in fuora, si erano alienati dalla
ubbidienza sua.
Lib.6, cap.6
L'azione dei veneziani in Romagna. La questione di Faenza fra il
pontefice ed i veneziani. Faenza si dà ai veneziani. Il Valentino in
potere del pontefice. Conferma della legazione pontificia in Francia
al card. di Roano.
Le cose della quale provincia, piena di molte novità e mutazioni,
tormentavano con vari pensieri l'animo del pontefice, conoscendosi
per allora impotente a disporla ad arbitrio suo, e con difficoltà
potendo tollerare che la grandezza de' viniziani vi si ampliasse.
Perché, come in Romagna si era inteso la fuga del Valentino in
Castel Santo Agnolo e l'essersi dissipate le genti che erano seco,
quelle città che prima cupidamente l'avevano aspettato, perduta la
speranza della sua venuta, cominciorno a prendere diversi partiti.
Cesena era tornata alla divozione antica della Chiesa; Imola,
essendo stato il castellano della rocca per opera di alcuni
principali cittadini ammazzato, stava sospesa, desiderando alcuni il
dominio della Chiesa altri desiderando di ritornare sotto i Riari
primi signori. La città di Furlí, stata posseduta lungamente dagli
Ordelaffi innanzi che per concessione di Sisto pontefice pervenisse
ne' Riari, aveva richiamato Antonio della medesima famiglia; il
quale, avendo prima tentato di entrarvi con favore de' viniziani ma
dipoi temendo che essi, per occuparla per sé, non usassino il nome
suo, ricorrendo a' fiorentini vi era ritornato con aiuto loro. In
Pesero era ritornato Giovanni Sforza, in Rimini Pandolfo Malatesta;
l'uno e l'altro chiamati dal popolo: ma Dionigi di Naldo, soldato
antico del Valentino, richiesto dal castellano di Rimini andò in
soccorso suo; però, essendosene fuggito Pandolfo, la città ritornò
sotto il nome del Valentino. Faenza sola era perseverata nella
divozione sua piú lungamente; ma privata alla fine della speranza
del suo ritorno, rivolgendosi alle reliquie de' Manfredi suoi
antichi signori, chiamò Astore, giovane di quella famiglia ma
naturale, perché non vi erano de' legittimi. Ma i viniziani,
aspirando al dominio di tutta la Romagna, avevano, subito dopo la
morte di Alessandro, mandati a Ravenna molti soldati, co' quali una
notte all'improviso assaltorono con grande impeto la città di
Cesena; il popolo della quale difendendosi virilmente, essi, che
erano andativi senza artiglierie e sperando piú nel furto che nella
forza, si ritornorono nel contado di Ravenna, intenti a tutte le
cose che potessino dare loro occasione di distendersi in quella
provincia. La quale si presentò loro prontamente, per la discordia
tra Dionigi di Naldo e i faventini: perché essendo molestissimo a
Dionigi che i faventini ritornassino sotto i Manfredi, da' quali si
era ribellato quando il Valentino assaltò quella città, chiamati i
viniziani, dette loro le fortezze di Valdilamone che erano guardate
da lui; i quali poco dipoi messono nella rocca di Faenza trecento
fanti, introdottivi dal castellano corrotto con danari. Occuporono
similmente, nel tempo medesimo, il castello di Furlimpopolo e molte
altre castella della Romagna, e mandorono una parte delle loro genti
a pigliare la città di Fano; ma il popolo costantemente si difese
per la Chiesa. Furono ancora introdotti in Arimini con volontà del
popolo, avendo prima convenuto con Pandolfo Malatesta di dargli in
ricompenso la terra di Cittadella nel territorio padovano,
provisione annua e condotta perpetua di gente d'arme; e si voltorono
dipoi con sommo studio alla oppugnazione di Faenza, perché i
faventini, non spaventati per la perdita della rocca (la quale
perché è edificata in luogo basso, e perché subito con uno fosso
profondo avevano separata dalla città, poteva poco nuocergli),
resistevano virilmente, affezionati al nome de' Manfredi, e sdegnati
che dagli uomini di Valdilamone avesse a essere promesso ad altri il
dominio di Faenza. Ma impotenti a difendersi da loro medesimi,
perché i viniziani sotto Cristoforo Moro proveditore avevano
accostato l'esercito e l'artiglierie alla terra e occupato i luoghi
piú importanti del contado, ricercavano aiuto da Giulio già assunto
al pontificato: al quale era molestissima questa audacia, ma essendo
nuovo in quella sedia e senza forze e senza danari, né sperando
aiuto né dal re di Francia né di Spagna, occupati in maggiori
pensieri, e perché recusava di congiugnersi con alcuno di loro, non
poteva provedervi se non con l'autorità del nome pontificale. La
quale per fare esperienza quanto valesse appresso al senato
viniziano, insieme col rispetto della amicizia tenuta lungo tempo da
lui con quella republica, mandò il vescovo di Tivoli a Vinegia a
lamentarsi che, essendo Faenza città della Chiesa, non si
astenessino di fare questo disonore a uno pontefice il quale,
innanzi che ascendesse a quel grado, era stato sempre congiuntissimo
con la loro republica, e dal quale, salito ora a maggiore fortuna,
potevano sperare frutti abbondantissimi della antica benivolenza.
È credibile che nel senato non mancassino di quegli medesimi che
avevano già dissuaso lo implicarsi nelle cose di Pisa, il ricevere
in pegno i porti del reame di Napoli e il dividere col re di Francia
il ducato di Milano, i quali considerassino quel che potesse
partorire il diventare ogni dí molto piú esosi e sospetti a molti, e
aggiugnere all'altre inimicizie quella de' pontefici; ma essendo
stati i consigli ambiziosi favoriti da successi tanto felici, e però
spiegate tutte le vele al vento sí prospero della fortuna, non erano
udite le parole di quegli che consigliavano il contrario. Però, fu
con grande unione risposto allo imbasciadore del pontefice avere
sempre quel senato sommamente desiderato che il cardinale di San
Piero in Vincola ascendesse al pontificato, per l'amicizia
lunghissima confermata con offici e benefici innumerabili dati e
ricevuti da ciascuna delle parti, né essere da dubitare che colui
che avevano tanto osservato quando era cardinale non osservassino
ora molto piú quando era pontefice; ma non conoscere già in quello
che offendessino la sua degnità abbracciando l'occasione, la quale
se gli era offerta, di avere Faenza, perché quella città non
solamente non era posseduta dalla Chiesa ma la Chiesa medesima si
era spontaneamente spogliata di tutte le sue ragioni, avendone nel
concistorio trasferito nel duca Valentino sí pienamente il dominio.
Ricordargli che, eziandio innanzi a questa concessione, non avevano
alla memoria degli uomini posseduto mai i pontefici Faenza, anzi di
tempo in tempo l'avevano conceduta a nuovi vicari, non vi
riconoscendo altra superiorità che il censo; il quale offerivano
prontamente di pagare, in caso vi fussino obligati: né già i
faventini desiderare il dominio della Chiesa anzi, aborrendolo,
avere insino all'estremo adorato il nome del Valentino, e mancata di
questo ogni speranza essersi precipitati a chiamare i bastardi della
famiglia de' Manfredi. Supplicarlo finalmente che, pontefice,
volesse conservare verso il senato viniziano il medesimo amore che
aveva avuto quando era cardinale.
Arebbe il pontefice, poi che fu certificato dell'animo de' viniziani
mandato il duca Valentino in Romagna, il quale raccolto da lui,
subito che ascese al pontificato, con grande onore e dimostrazione
di benivolenza, alloggiava nel palagio pontificale, ma se ne
astenne, dubitando che l'andata sua la quale da principio sarebbe
stata grata a tutti i popoli non fusse ora molto odiosa, poiché già
tutti si erano ribellati da lui. Restava solamente a' faventini il
ricorso de' fiorentini: i quali, malcontenti che una città tanto
vicina pervenisse in potestà de' viniziani, vi avevano da principio
mandato dugento fanti e nutritigli con grande speranza di mandarvi
altre genti, per dare loro animo a sostenersi tanto che il pontefice
avesse tempo a soccorrergli; ma vedendo che il pontefice non era
disposto a pigliare l'armi, e che né l'autorità del re di Francia,
il quale aveva da principio confortato i viniziani a non molestare
gli stati del Valentino, era bastante a raffrenargli, non volendo
soli implicarsi in guerra con inimici tanto potenti, s'astennono dal
mandare loro maggiori aiuti. Però i faventini, esclusi di ogni
speranza, e avendo già l'esercito viniziano, il quale era alloggiato
alla chiesa della Osservanza, cominciato a battere con l'artiglierie
le mura della città, commossi ancora per essersi scoperto uno
trattato e presi alcuni che avevano congiurato di mettere dentro i
viniziani, dettono loro la città; i quali si convennono di dare ad
Astore certa sovvenzione, benché piccola, per la sua vita. Avuta
Faenza, i viniziani arebbono occupato facilmente Imola e Furlí, ma
per non irritare piú il pontefice, che maravigliosamente si
risentiva, mandate le genti alle stanze deliberorono per allora non
procedere piú oltre: avendo occupato in Romagna, oltre a Faenza e
Arimini co' suoi contadi, Montefiore, Santarcangelo, Verrucchio,
Gattea, Savignano, Meldola, Porto Cesenatico, Russi e, del
territorio d'Imola, Tosignano, Solaruolo e Montebattaglia. Tenevansi
per il Valentino in Romagna solamente le rocche di Furlí di Cesena
di Furlimpopolo e di Bertinoro, le quali egli, con tutto che molto
desiderasse di andare in Romagna, arebbe, perché non fussino
occupate da' viniziani, consentito di darle in custodia al
pontefice, con obligazione di riaverle da lui quando fussino
assicurate; ma il pontefice, non essendo ancora superata dalla forza
della dominazione l'antica sua sincerità, aveva recusato, dicendo
non volere spontaneamente accettare l'occasioni che lo invitassino a
mancargli della fede. Finalmente, per opporsi in qualche modo a'
progressi de' viniziani, molestissimi per il pericolo dello stato
ecclesiastico al pontefice, desideroso oltre a questo che il
Valentino si partisse da Roma, fu convenuto con lui (interponendosi
in questa convenzione oltre al nome del pontefice il nome del
collegio de' cardinali) che 'l Valentino per mare se n'andasse alla
Spezie e di quivi, per terra, a Ferrara e dipoi a Imola, ove si
conducessino cento uomini d'arme e cento cinquanta cavalli leggieri
che ancora seguitavano le sue bandiere. Con la quale resoluzione
essendo andato a Ostia per imbarcarsi, il pontefice, pentitosi di
non avere accettato le fortezze e già disposto, in qualunque modo
potesse averle, a ritenerle per sé, mandò a lui i cardinali di
Volterra e di Surrento, a persuadergli che per ovviare che quelle
terre non andassino in mano de' viniziani fusse contento deporle in
lui, sotto la medesima promessa che si era trattata in Roma: ma
recusando il Valentino di farlo, il pontefice sdegnato lo fece
ritenere in sulle galee in sulle quali era già montato, e dipoi con
onesto modo menare alla Magliana, donde, giubilando tutta la corte e
tutta Roma della sua retenzione, fu condotto in palazzo, ma onorato
e carezzato, benché con diligente guardia, perché il pontefice,
temendo che i castellani, disperati della salute sua, non vendessino
le fortezze a' viniziani, cercava d'avere da lui i contrasegni con
umanità e con piacevolezza. Cosí la potenza del duca Valentino,
cresciuta quasi subitamente non manco con la crudeltà e con le
fraudi che con l'armi e con la potenza della Chiesa, terminò con piú
subita ruina; esperimentando in se medesimo di quegli inganni co'
quali il padre ed egli avevano tormentati tanti altri. Né ebbono
migliore fortuna le sue genti, che condotte in quel di Perugia, con
speranza che da' fiorentini e altri fusse fatto loro salvocondotto,
scoprendosi alle spalle le genti de' Baglioni de' Vitelli e de'
sanesi, si ridusseno, per salvarsi, in sul paese de' fiorentini;
dove essendosi distese tra Castiglione e Cortona, e ridotte al
numero di quattrocento cavalli e pochi fanti, furono per ordine de'
fiorentini svaligiate, e fatto prigione don Michele che le guidava.
Il quale fu poi da loro conceduto al pontefice, che lo dimandò con
somma instanza, avendo in odio tutti i ministri di quel pontificato,
per essere egli stato fidatissimo ministro ed esecutore di tutte le
sceleratezze del Valentino; benché (come per natura si mitigava
facilmente verso coloro contro a' quali era in potestà sua lo
incrudelire) non molto dipoi lo liberasse.
Partissi in questo tempo da Roma il cardinale di Roano per
ritornarsene in Francia, ottenuta da Giulio, piú per non avere avuto
ardire di dinegarla che per libera volontà, la confermazione della
legazione di quel reame; ma non lo seguitò già il cardinale Ascanio,
con tutto che quando partí di Francia avesse promesso al re con
giuramento di ritornarvi: dal quale giuramento si era prima fatto
occultamente assolvere dal pontefice. Ma l'esempio dell'essere stata
la sua credulità schernita dal cardinale Ascanio non fece il
cardinale di Roano piú cauto nelle cose di Pandolfo. Il quale,
ricevutolo in Siena con grandissimo onore e insinuatosegli con
grande astuzia e con artificiosi consigli, e promettendogli la
restituzione di Montepulciano a' fiorentini, gli persuase tanto
della sua fede e della devozione verso il re che 'l cardinale, come
fu in Francia, oltre all'affermare non avere trovato in tutta Italia
uomo piú saggio di Pandolfo, fu operatore che 'l re concedesse che
Borghese suo figliuolo, mandato in Francia per sicurtà
dell'osservanza delle promesse paterne, se ne ritornasse a Siena. -
Lib.6, cap.7
Sfortuna dei francesi nella guerra contro la Spagna. Cessazione
delle operazioni alla frontiera franco spagnola. La lotta al
Garigliano. Infermità nell'esercito francese e discordia fra i
capitani. Sconfitta dei francesi; resa di Gaeta. Le cause della
sconfitta francese.
Queste furono le mutazioni che succederono in Italia per la morte
del pontefice. Ma in questi tempi medesimi l'imprese cominciate con
tanta speranza dal re di Francia di là da' monti erano ridotte in
molta difficoltà. Perché l'esercito andato a' confini di Guascogna,
per mancamento di danari e per poco governo di chi lo comandava, si
era prestamente risoluto; e l'armata di mare, avendo scorso con
piccolo frutto per i mari di Spagna, si era ritirata nel porto di
Marsilia. E l'esercito andato verso Perpignano, ne' progressi del
quale il re molto confidava essendo continuamente bene proveduto di
tutte le cose necessarie, si era posto a campo a Sals, fortezza
vicina a Nerbona posta a' piedi de' monti Pirenei nel contado di
Rossiglione, la quale essendo bene difesa faceva gagliarda
resistenza; e ancoraché da' franzesi fusse valorosamente combattuta,
e usate tutte le diligenze di battere le mura con l'artiglierie e di
rovinarle con le mine, nondimeno non potettono mai ottenerla: anzi,
essendosi congregato per soccorrerla grandissimo esercito di tutti i
regni di Spagna a Perpignano, ove era venuta la persona del re, e
unitesi a questo esercito, per la resoluzione de' franzesi che erano
stati mandati verso Fonterabia, le genti che erano andate a
difendere quella frontiera, e tutti insieme movendosi per assaltare
l'esercito franzese, i capitani conoscendosi inferiori si ritirorno
col campo verso Nerbona, essendo già stati intorno a Sals circa
quaranta dí. Dietro a' quali entrorno gli spagnuoli ne' confini del
re di Francia; e prese alcune terre di piccola importanza, essendo i
franzesi fermatisi a Nerbona stativi pochi dí, si ritirorono ne'
terreni loro per comandamento del suo re, che avendo conseguito quel
che è il proprio fine di chi è assaltato nutriva malvolentieri la
guerra di là da' monti, conscio che i suoi regni potentissimi a
difendersi dal re di Francia erano deboli a offenderlo: né molti dí
poi, interponendosene il re Federigo, feciono insieme tregua per
cinque mesi, per le cose oltramontane solamente. Perché Federigo,
essendogli data intenzione dal re di Spagna di consentire alla
restituzione sua nel regno di Napoli, e sperando che il medesimo
avesse a consentire il re di Francia, appresso al quale, indotta a
compassione, si affaticava molto per lui la reina di Francia, aveva
introdotto tra loro pratiche di pace: per le quali, mentre che
ardeva la guerra in Italia, andorno in Francia imbasciadori del re
di Spagna, governandosi con tanto artificio che Federigo si
persuadeva che la difficoltà della sua restituzione, contradetta
estremamente da' baroni della parte angioina, consistesse
principalmente nel re di Francia.
Essendo adunque ridotte tutte le guerre de' due re nel regno di
Napoli, erano volti a quella parte gli occhi e i pensieri di
ciascuno. Perché i franzesi, partiti da Roma e passati per le terre
di Valmontone e de' Colonnesi, per le quali furono concedute loro
volontariamente le vettovaglie, camminavano per la campagna
ecclesiastica inverso San Germano; ove Consalvo, messa guardia in
Roccasecca e in Montecasino, si era fermato, non con intenzione di
tentare la fortuna ma di proibire che non passassino piú innanzi, il
che per la fortezza del sito sperava agevolmente potere fare.
Arrivati i franzesi a Pontecorvo e a Cepperano, si uní con loro il
marchese di Saluzzo con le genti di Gaeta; avendo prima, per
l'occasione della partita di Consalvo, ricuperato il ducato di
Traietto e il contado di Fondi insino al fiume del Garigliano. Fu la
prima fatica dello esercito franzese la oppugnazione di Roccasecca;
dalla quale, dato che v'ebbono invano uno assalto, si levorono, ma
divenutine in tanto dispregio che publicamente si affermava,
nell'esercito spagnuolo, quel giorno avere assicurato il reame di
Napoli da' franzesi. I quali per questo, diffidandosi di spuntare
gli inimici dal passo di San Germano, deliberorno voltarsi al
cammino della marina; e perciò, poiché furono stati due dí fermi in
Aquino, preso da loro, lasciati settecento fanti in Rocca Guglielma,
ritornati indietro a Pontecorvo, andorno per la via di Fondi ad
alloggiare alla torre posta in su il passo del fiume del Garigliano,
nel quale luogo è fama essere già stata la città antichissima di
Minturne: alloggiamento non solo opportuno per gittare il ponte e
passare il fiume, come era la loro intenzione, ma comodissimo in
caso fussino necessitati a soggiornarvi, imperocché avevano Gaeta e
l'armata di mare alle spalle, Traietto, Itri, Fondi e tutto il paese
insino al Garigliano a sua divozione. Riputavasi che nel passare
l'esercito franzese il fiume consistesse momento grande alla
vittoria, perché, essendo Consalvo tanto inferiore di forze che non
poteva opporsi in sulla campagna aperta, rimaneva libero a' franzesi
il cammino insino alle mura di Napoli; alle quali si sarebbe
medesimamente accostata l'armata, che non aveva opposizione alcuna
per mare. Perciò Consalvo, partitosi da San Germano, era venuto
dall'altra parte del Garigliano, per opporsi con tutte le forze sue
perché i franzesi non passassino: confidandosi di poterlo proibire,
per il disavvantaggio e difficoltà che hanno gli eserciti nel
passare, quando gli inimici si oppongono, i fiumi che non si
guadano. Ma, come spesso accade, riuscí piú facile quello che prima
si riputava piú difficile, e per contrario piú difficile quel che da
tutti era stimato dovere essere piú facile: perché i franzesi,
ancora che gli spagnuoli si sforzassino di vietarlo, gittato il
ponte, guadagnorono il passo del fiume per forza delle artiglierie,
piantate parte in sulla ripa dove alloggiavano, piú alta alquanto
che la ripa opposita, parte in sulle barche levate dalla armata e
condotte contro al corso dell'acqua. Ma avendo il dí seguente
cominciato a passare si opposeno loro gli spagnuoli, e assaltando
quegli che già erano passati, con grande animosità, gli rimessono
sino a mezzo il ponte; e arebbeno seguitatigli piú oltre se dal
furore delle artiglierie non fussino stati costretti a ritirarsi.
Morí in questo assalto dalla parte de' franzesi il luogotenente del
baglí di Digiuno, e dell'esercito spagnuolo Fabio figliuolo di
Pagolo Orsino, giovane tra i soldati italiani di non piccola
espettazione. Fu fama che se i franzesi, quando cominciorono a
passare, fussino proceduti innanzi virilmente, che sarebbono rimasti
quel dí superiori; ma mentre che procedono lentamente e con
dimostrazione di timidità non solo perderono l'occasione della
vittoria di quel giorno ma si debilitorono in gran parte la speranza
del futuro, perché dopo quel dí le cose andorono sempre per loro
poco felicemente; e già tra' capitani era piú presto confusione che
concordia e, secondo il costume de' soldati franzesi verso i
capitani italiani, poca obedienza al marchese di Mantova
luogotenente regio: in modo che egli, o per questa cagione o perché
veramente fusse, come allegava, ammalato, o perché dalla esperienza
fatta prima a Roccasecca e poi il dí che si tentò di passare il
ponte avesse perduto la speranza della vittoria, si partí dello
esercito; lasciato di sé nel re di Francia concetto maggiore di fede
che di animo o di governo nell'esercizio militare. Dopo la partita
del quale, i capitani franzesi, che erano i principali il marchese
di Saluzzo il baglí di Occan e Sandricort, fatto prima alla testa
del ponte di là dal fiume uno riparo con le carrette, vi fabricorno
uno bastione capace di molti uomini, per il quale non potevano gli
inimici assaltargli quando passavano il ponte.
Ma gli ritardavano a procedere piú oltre altre difficoltà, causate
parte per colpa loro parte per la virtú e tolleranza degli inimici
parte per l'iniquità della fortuna. Perché Consalvo, intento a
impedirgli piú con l'occasione della vernata e del sito del paese
che con le forze, si era fermato a Cintura, casale posto in luogo
alquanto eminente lontano dal fiume un miglio poco piú; e la
fanteria e l'altre genti alloggiate all'intorno, ma con molta
incomodità perché, alloggiando in luogo solitario e dove sono
rarissime le case e le capanne de' contadini e de' pastori, non vi
era quasi coperto alcuno, e il terreno, per la bassezza naturale di
quella pianura e perché i tempi erano molti piovosi, pieno di acqua
e di fango: però i soldati che non avevano luogo di alloggiare ne
siti piú alti, conducendo quantità grande di fascine, si sforzavano
coprire con esse il terreno dove alloggiavano. Per le quali
difficoltà e perché l'esercito era mal pagato, e per avere i
franzesi guadagnato del tutto il passo del fiume, fu consiglio di
alcuni capitani di ritirarsi a Capua, acciò che le genti patissino
manco, e per levarsi dal pericolo in che pareva che si stesse
continuamente essendo inferiori di gente agli inimici. Il quale
consiglio fu magnanimamente rifiutato da Consalvo, con quella voce
memorabile: desiderare piú tosto di avere, al presente, la sua
sepoltura un palmo di terreno piú avanti che, col ritirarsi indietro
poche braccia, allungare la vita cento anni; e cosí resistendo alle
difficoltà con la costanza dello animo, ed essendosi fortificato con
uno fosso profondo e con due bastioni fatti alla fronte dello
alloggiamento dello esercito, si manteneva opposito a' franzesi. I
quali, benché avessino fatto il bastione, non tentavano di muoversi
perché, essendo il paese tutto inondato per le pioggie e per l'acque
del fiume (è questo luogo chiamato da Tito Livio, per la vicinità di
Sessa, l'acque sinuessane, e forse sono le paludi di Minturne nelle
quali C. Mario fuggendo Silla si occultò), non potevano procedere
innanzi se non per via stretta, piena di fango altissimo e dove era
sfondato tutto il terreno, né senza pericolo di essere assaltati per
fianco dalla fanteria spedita degli spagnuoli che alloggiava molto
vicina. Ed erano per sorte quella vernata i tempi freddissimi e
asprissimi e con nevi e pioggie quasi continue, molto piú che non
era il solito di quello paese e di quella stagione, onde pareva che
la fortuna e il cielo fussino congiurati contro a' franzesi: i
quali, soprasedendo, non solo consumavano il tempo inutilmente ma
ricevevano dalla dilazione, per la natura loro, quasi quel medesimo
nocumento che dal veleno che opera lentamente ricevono i corpi
umani. Perché se bene alloggiavano con minore incomodità che non
alloggiavano gli spagnuoli, perché le reliquie di uno teatro antico,
alle quali avevano congiunti molti coperti di legname, e le case e
l'osterie vicine ne coprivano una parte, e il luogo intorno alla
torre essendo alquanto piú alto che il piano di Sessa era manco
offeso dalle acque, e si era anche la maggiore parte della
cavalleria ridotta in Traietto e nelle terre circostanti, nondimeno,
non resistendo per natura i corpi de' franzesi e de' svizzeri alle
fatiche lunghe e alle incomodità come resistono i corpi degli
spagnuoli, raffreddava continuamente l'impeto e la caldezza degli
animi loro. E si augumentavano queste difficoltà per la avarizia de'
ministri proposti dal re sopra le vettovaglie e sopra i pagamenti
de' soldati; i quali, intenti al guadagno proprio né pretermettendo
alcuna specie di fraude, lasciavano diminuire il numero, né tenevano
il campo abbondante di vettovaglie. Per le quali cagioni già molte
infermità sopravenivano nell'esercito: e il numero de' soldati,
benché a' pagamenti fusse quasi il medesimo, era in quanto allo
effetto molto minore, essendosi anche delle genti italiane risoluta
per se stessa qualche parte. I quali disordini faceva maggiori la
discordia de' capitani, per la quale non si governava l'esercito né
con lo ordine né con la obbedienza conveniente. Cosí i franzesi,
impediti dall'asprezza della vernata, soggiornavano oziosamente in
sulla ripa del Garigliano; non si facendo, né per gli inimici né per
loro, fazione alcuna eccetto che leggiere battaglie, non importanti
alla somma delle cose, nelle quali pareva che quasi sempre
prevalessino gli spagnuoli. E accadde anche, in questi dí medesimi,
che i fanti i quali erano stati lasciati da' franzesi alla guardia
di Rocca Guglielma, non potendo sostenere le molestie che dalle
genti che guardavano Roccasecca e le terre circostanti
quotidianamente sostenevano e però ritornandosene all'esercito,
furono nel cammino rotti da quelle.
Ma essendo sute già molti dí le cose in quello stato, sopragiunsono
all'esercito spagnuolo con le compagnie loro Bartolomeo da Alviano e
gli altri Orsini: per la venuta de' quali essendo accresciute le
forze di Consalvo, in modo che aveva nello esercito novecento uomini
d'arme mille cavalli leggieri e novemila fanti spagnuoli, cominciò a
pensare non di stare piú alla difesa ma di offendere gl'inimici;
dandogli maggiore animo il sapere che i franzesi, superiori molto di
cavalli ma non di fanti, si erano tanto sparsi per le terre vicine
che già gli alloggiamenti loro occupavano poco manco che dieci
miglia di paese, in modo che intorno alla torre del Garigliano erano
rimasti il marchese di Saluzzo viceré e gli altri capitani
principali con la minore parte dello esercito, e quella, benché vi
fusse sopravenuta copia di vettovaglie, ampliandovisi ogni dí piú le
infermità, per le quali erano morti molti e tra gli altri il baglí
di Occan, diminuiva continuamente. Però deliberando di tentare di
passare il fiume furtivamente, il che succedendo non si dubitava
della vittoria, dette la cura allo Alviano, autore, secondo dicono
alcuni, di questo consiglio, che fabricasse il ponte secretamente.
Per ordine del quale essendo stato con molto silenzio fabricato, in
uno casale appresso a Sessa, uno ponte in sulle barche, condottolo
di notte al Garigliano e gittatolo al passo di Suio, quattro miglia
sopra il ponte de' franzesi, dove per loro non si teneva guardia
alcuna, subito che il ponte fu gittato, che fu la notte del vigesimo
settimo dí di dicembre, passò tutto l'esercito, e in esso la persona
di Consalvo; i quali la notte medesima alloggiorono nella terra di
Suio contigua al fiume, occupata da' primi che passorono. E la
mattina seguente, dí pure di venerdí, felice agli spagnuoli, avendo
ordinato Consalvo che il retroguardo che era alloggiato tra la rocca
di Mondragone e Carinoli, quattro miglia di sotto al ponte de'
franzesi, andasse ad assaltare il ponte loro, si dirizzò con la
vanguardia guidata dall'Alviano e con la battaglia, che erano
passate seco, a seguitare i franzesi. I quali, avendo la notte
medesima avuto notizia che gli spagnuoli, gittato il ponte, già
passavano, occupati da grandissimo terrore, come quegli che avendo
deliberato di non tentare insino sopravenisse benigna stagione piú
cosa alcuna, e persuadendosi che negli inimici fusse la medesima
negligenza e ignavia, si commossono tanto piú per questo ardire e
accidente improviso; e però, se bene, piú presto trepidando, come si
fa ne' casi subiti, che consigliando o deliberando, il viceré, al
quale molti levatisi da Traietto e de' luoghi circostanti dove erano
sparsi, si riducevano, avesse per proibire il passo inviato Allegri
con alcuni fanti e cavalli verso Suio, nondimeno, occortisi che
erano tardi, ed essendo superiore in ogni discorso e considerazione
il timore, si levorono tumultuosamente a mezzanotte dalla torre del
Garigliano per ritirarsi a Gaeta, lasciatavi la maggiore parte delle
munizioni e nove pezzi grossi d'artiglieria, e insieme rimanendovi i
feriti e moltitudine grande di ammalati. Ma Consalvo, intesa la
levata loro, seguitandogli con l'esercito, spinse innanzi Prospero
Colonna co' cavalli leggieri, acciò che essendo travagliati da loro
fussino costretti a camminare piú lentamente. I quali essendo giunti
alle spalle di essi, alla fronte di Scandi, cominciorono insieme a
scaramucciare, non intermettendo i franzesi di camminare e nondimeno
fermandosi spesso, per non si disordinare, a' ponti e a' passi
forti; donde dopo essersi alquanto sostenuti si ritiravano, sempre
con ricevere qualche danno: ed era l'ordine del procedere loro,
l'artiglierie innanzi a tutti, la fanteria dipoi e in ultimo luogo i
cavalli, de' quali quegli che erano gli ultimi combattevano
continuamente con gl'inimici. Cosí essendo proceduti, ora fermandosi
ora leggiermente combattendo, insino al ponte che è innanzi a Mola
di Gaeta, la necessità costrinse il viceré a fare fermare una parte
delle sue genti d'arme in su quel passo, per dare spazio di
discostarsi alle sue artiglierie; le quali, non potendo procedere
con la celerità con la quale procedevano le genti, già cominciavano
a mescolarsi con loro. Però appiccata in quello luogo una battaglia
grande, sopragiunse poco dipoi il retroguardo spagnuolo, che passato
il fiume senza resistenza alcuna, con le barche medesime del ponte
che era stato rotto da' franzesi, camminava verso Gaeta per la
strada diritta; essendo Consalvo, col resto dell'esercito, andato
sempre per la costiera. Combattessi al ponte di Mola per alquanto
spazio di tempo ferocemente; sostenendosi i franzesi, benché pieni
di molto timore, principalmente per la fortezza del sito, e
assaltandogli gli spagnuoli, a' quali già pareva essere in
possessione della vittoria, molto impetuosamente. Finalmente i
franzesi non potendo piú resistere, e temendo non fusse tagliata
loro la strada da una parte delle genti la quale Consalvo aveva
mandata per la costiera a questo effetto, cominciorono con disordine
a ritirarsi; e seguitandogli continuamente gli inimici, arrivati al
capo di due vie, delle quali l'una va a Itri l'altra a Gaeta, si
messono in manifesta fuga; restandone morti molti, tra' quali
Bernardino Adorno luogotenente di cinquanta lancie, lasciate
l'artiglierie con tutti i cavalli del suo servigio, che erano stati
condotti di Francia, piú di mille; e restandone molti prigioni: gli
altri fuggirono in Gaeta, seguitati vittoriosamente insino alle
porte di quella città. E nel tempo medesimo Fabrizio Colonna,
mandato da Consalvo, poiché ebbe passato il fiume, con cinquecento
cavalli e mille fanti alla volta di Ponte Corvo e delle Frace, col
favore della maggior parte delle castella e degli uomini del paese,
svaligiò le compagnie di Lodovico della Mirandola e di Alessandro da
Triulzi. Furono, oltre a questi, presi e spogliati per il paese
molti di quegli i quali, alloggiati a Fondi a Itri e ne' luoghi
circostanti, inteso essersi gittato il ponte dagli spagnuoli, non
erano andati a unirsi con l'esercito alla torre del Garigliano ma
per salvarsi avevano, sparsi, preso tumultuosamente il cammino in
diversi luoghi. Maggiore infortunio ebbono Piero de' Medici, che
seguitava il campo de' franzesi, e alcuni altri gentiluomini; i
quali, essendo nella levata dello esercito dal Garigliano saliti in
su una barca, con quattro pezzi di artiglieria per condurgli a
Gaeta, per troppo peso e perché ebbono i venti contrari, alla foce
del fiume andata sotto la barca, annegorono tutti. Alloggiò la notte
seguente Consalvo con l'esercito a Castellone e a Mola; e
accostatosi il dí seguente a Gaeta, ove oltre a' capitani franzesi
erano rifuggiti i príncipi di Salerno e di Bisignano, occupò subito
il borgo e il monte che era stato abbandonato da' franzesi. I quali,
benché in Gaeta fusse gente bastante a difenderla e a sufficienza
vettovaglie, e il luogo opportuno a essere con l'armate di mare
soccorso, nondimeno inviliti, né disposti a tollerare il tedio dello
aspettare gli aiuti incerti, voltorono subito l'animo ad accordarsi;
e perciò, essendo di consentimento degli altri andati a trattare con
Consalvo il baglí di Digiuno, Santa Colomba e Teodoro da Triulzi,
convennono, il primo dí dell'anno mille cinquecento quattro, di
consegnare Gaeta e la fortezza a Consalvo, avendo facoltà d'uscire
con le robe loro salvi, per terra e per mare, fuora del reame di
Napoli, e che Obigní e gli altri prigioni fussino da ogni parte
liberati; ma questo non fu sí chiaramente capitolato che non avesse
Consalvo occasione di disputare che, per virtú di tale convenzione,
non si intendevano liberati i baroni del regno napoletano.
Questa è la rotta che ebbe l'esercito del re di Francia appresso al
fiume del Garigliano, in sulla ripa del quale era stato fermo circa
cinquanta dí; causata non meno da' disordini propri che dalla virtú
degli inimici; e rotta molto memorabile, perché ne seguitò la
perdita totale di sí nobile e potente reame e la stabilità dello
imperio degli spagnuoli; e piú memorabile ancora, perché essendovi
entrati i franzesi molto superiori di forze agli inimici, e
abbondantissimi di tutte le provisioni terrestri e marittime che
sono necessarie alla guerra, furono debellati con tanta facilità, e
senza sangue e pericolo alcuno de' vincitori; e perché, con tutto
che pochi ne morissino per il ferro degli inimici, fu per vari
accidenti piccolissimo il numero di quegli che si salvorno di tanto
esercito. Conciossiacosaché de' fanti i quali nella fuga salvorono
le persone loro, e di quegli ancora che fatto l'accordo si partirono
per terra da Gaeta, ne morí una parte per la strada consumati da'
freddi e dalle infermità; e quegli di loro che giunsono a Roma vivi
vi si condussono la piú parte ignudi e miserabili, donde molti ne
morirono per gli spedali, e la notte, per il freddo e per la fame,
per le piazze e per le strade. E quel che ne fusse cagione, o il
fato avverso a' franzesi (né meno avverso alla nobiltà che alla
gente plebea) o le infermità contratte per le incomodità sostenute
intorno al Garigliano, molti di quegli che, fatto che fu l'accordo,
si erano per mare partiti da Gaeta, ove lasciorno la maggiore parte
de' loro cavalli, morirono o in cammino o subito che furono arrivati
in Francia: tra' quali fu il marchese di Saluzzo, Sandricort e il
baglí della Montagna e molti gentiluomini. Fu considerato che, oltre
a quello che si poteva attribuire alla discordia e al poco governo
de' capitani franzesi e alla asprezza de' tempi, e il non essere i
franzesi e i svizzeri abili quanto gli spagnuoli a tollerare con
l'animo il tedio della lunghezza delle cose né col corpo le
incomodità e le fatiche, due cose principalmente aveano impedita al
re di Francia la vittoria. L'una, la lunga dimora che fece
l'esercito, per la morte del pontefice, in terra di Roma, dalla
quale fu causato che prima sopravenne la vernata, e che prima
Consalvo condusse agli stipendi suoi gli Orsini, che essi entrassino
nel regno; perché non si dubita che se vi fussino entrati nella
stagione benigna sarebbe stato necessitato Consalvo, allora molto
inferiore di forze né favorito dalla rigidità de' tempi, abbandonata
la maggiore parte del reame, a ritirarsi in pochi luoghi forti:
l'altra, l'avarizia de' commissari regi, i quali fraudando il re ne'
pagamenti de' soldati, e disordinando per la medesima intenzione le
vettovaglie, furono non piccola cagione della diminuzione di quello
esercito; perché il re aveva con grandissima prontezza fatta
provisione tale di tutte le cose necessarie che è certo che al tempo
della rotta erano in Roma, per ordine suo, quantità grande di danari
e apparato grande di vettovaglie; e se bene all'ultimo, per le
moltissime querele de' capitani e di tutto l'esercito, vi fusse
maggiore larghezza del vivere, nondimeno prima ve ne era stata
strettezza tale che questo disordine, aggiunto all'altre incomodità,
era stato cagione di tante infermità e della partita di molta gente
e dell'essersi molti distesi ne' luoghi circostanti: dalle quali
cose finalmente procedette la ruina dello esercito. Perché come alla
sostentazione di uno corpo non basta solamente il bene essere del
capo ma è necessario che gli altri membri faccino lo ufficio suo,
cosí non basta che il principe sia senza colpa delle cose se ne'
ministri suoi non è proporzionatamente la debita diligenza e virtú.
Lib.6, cap.8
Pace fra i veneziani ed i turchi; soddisfazione degli uni e degli
altri; patti dell'accordo.
Nell'anno medesimo che queste cose tanto gravi in Italia succederono
si fece la pace tra Baiseth otomanno e i viniziani, la quale da
ciascuna delle parti fu abbracciata cupidamente. Perché Baiseth,
principe di ingegno mansueto e molto dissimile alla ferocia del
padre, e dedito alle lettere e agli studi de' libri sacri della sua
religione, aveva per natura l'animo alienissimo dalle armi: però,
avendo cominciata la guerra con potentissimi apparati terrestri e
marittimi, e occupato ne' primi due anni, nella Morea, Naupatto
(oggi è detto Lepanto), Modone, Corone e Giunco, non l'aveva
continuata poi con la medesima caldezza; movendolo forse, oltre al
desiderio della quiete, il sospetto che o i pericoli propri o
l'amore della religione non concitassino contro a lui i príncipi
cristiani: perché e il pontefice Alessandro aveva mandato alcune
galee sottili in aiuto de' viniziani, e insieme con loro aveva
sollevato con danari Uladislao re di Boemia e di Ungheria a muovere
la guerra ne' confini de' turchi; e i re di Francia e di Spagna
mandorono ciascuno di loro, ma non nel tempo medesimo, l'armata sua
a congiugnersi con quella da' viniziani. Ma piú cupidamente ancora
fu accettata la pace de' viniziani, a' quali si interrompeva per la
guerra, con gravissimo detrimento publico e privato, il commercio
delle mercatanzie le quali dagli uomini loro si esercitavano in
molte parti di levante; e perché, essendo la città di Vinegia
consueta a trarre ciascuno anno delle terre suddite a' turchi copia
grandissima di frumento, dava loro non piccole difficoltà l'essere
privati di tale comodità; ma molto piú perché, soliti ad accrescere
lo imperio loro nelle guerre con gli altri príncipi, niuna cosa
avevano piú in orrore che la potenza degli otomanni, da' quali
qualunque volta avevano avuta guerra insieme erano stati battuti:
perché e Amurato avolo di Baiseth aveva occupato la città di
Tessalonica, oggi Salonich, appartenente al dominio veneto, e poi
Maumeth suo padre, avendo avuto sedici anni continua guerra con
essi, tolse loro l'isola di Negroponte, una parte grande del
Peloponneso oggi detta la Morea, Scudri e molte altre terre in
Macedonia e in Albania. In modo che, sostenendo la guerra co' turchi
con gravissime difficoltà e spese smisurate e senza speranza di
conseguirne frutto alcuno, e oltre a questo temendo tanto piú di non
essere assaltati nel tempo medesimo dagli altri príncipi cristiani,
erano sempre desiderosissimi di avere la pace con loro. Fu lecito a
Baiseth, per le condizioni dell'accordo, ritenersi tutto quello che
aveva occupato; e i viniziani, ritenendosi l'isola di Cefalonia
anticamente detta Leucade, furno costretti a restituirgli l'isola di
Nerito, oggi denominata Santa Maura.
Lib.6, cap.9
Commercio de' portoghesi coll'Oriente e danno derivatone a'
veneziani. Cristoforo Colombo e la scoperta delle nuove terre a
occidente. Errori degli antichi rivelati dalle nuove scoperte.
Ma non aveva dato tanta molestia a' viniziani la guerra de' turchi
quanta molestia e detrimento dette l'essere stato intercetto dal re
di Portogallo il commercio delle spezierie, le quali i mercanti e i
legni loro conducendo da Alessandria, città nobilissima, a Vinegia,
spargevano con grandissimo guadagno per tutte le provincie della
cristianità. La quale cosa, essendo stata delle piú memorabili che
da molti secoli in qua siano accadute nel mondo, e avendo, per il
danno che ne ricevé la città di Vinegia, qualche connessità con le
cose italiane, non è al tutto fuora del proposito farne alquanto
distesamente memoria.
Coloro i quali speculando, con ingegno e considerazioni
maravigliose, il moto e la disposizione del cielo n'hanno dato
notizia a' posteri, figurorno che, per la rotondità del cielo,
discorra dall'occidente all'oriente una linea distante in ogni sua
parte egualmente dal polo settentrionale e dal polo meridionale,
detta da loro linea equinoziale perché quando il sole è sotto sono
allora eguali il dí e la notte; la longitudine della quale linea
divisono con la immaginazione in trecento sessanta parti, le quali
chiamorono gradi; cosí come il circuito del cielo per mezzo de' poli
è medesimamente gradi trecento sessanta. Dietro alla norma data da
questi, i cosmografi, misurando e dividendo la terra, figurorono in
terra una linea equinoziale che cade perpendicolarmente sotto la
linea celeste figurata dagli astrologi; dividendo similmente quella
e il circuito della terra con una linea cadente perpendicolarmente
sotto i poli, in latitudine di gradi trecento sessanta: di maniera
che dal polo nostro al polo meridionale posono distanza di gradi
cent'ottanta, e da ciascuno de' poli alla linea equinoziale gradi
novanta. Queste cose furono dette in generale da' cosmografi. Ma
quanto al particolare dell'abitato della terra, data quella notizia
che aveano di una parte della terra che è sotto al nostro emisperio,
si persuasono che quella parte della terra che è sotto alla torrida
zona, figurata in cielo dagli astrologi (nella quale zona si
contiene la linea equinoziale) come piú prossima al sole, fusse per
la calidità sua inabitabile, e che dal nostro emisperio non si
potesse procedere alle terre che sono sotto la torrida zona né a
quelle che di là da essa verso il polo meridionale consistono; le
quali Tolemeo, per confessione di tutti principe de' cosmografi,
chiamava terre e mari incogniti. Onde ed esso e gli altri
presupposono che chi dal nostro emisperio volesse passare al seno
arabico e al seno persico, o a quelle parti della India che prima
feciono note agli uomini nostri le vittorie di Alessandro magno,
fusse costretto andarvi o per terra, o approssimato che si fusse per
il mare Mediterraneo quanto poteva a essi, fare per terra il
rimanente del cammino. Queste opinioni e presuppositi essere stati
falsi ha dimostrato a' tempi nostri la navigazione de' portogallesi.
Perché avendo cominciato, già molti anni sono, i re di Portogallo a
costeggiare, per cupidità di guadagni mercantili, l'Africa, e
condottisi a poco a poco insino all'isole del Cavoverde dette dagli
antichi, secondo l'opinione di molti, l'isole [Esperide], e che sono
gradi [quattordici distanti dallo equinoziale verso il polo artico],
preso di mano in mano maggiore animo, venuti con lungo circuito
navigando verso il mezzodí al capo di Buona Speranza, promontorio
piú distante che alcun altro della Affrica dalla linea equinoziale,
e il quale dista da quello gradi [trentotto], e da quello volgendosi
allo oriente, hanno navigato per l'oceano insino al seno arabico e
al seno persico; ne' quali luoghi i mercatanti di Alessandria
solevano comperare le spezierie, parte nate quivi ma che la maggiore
parte vi sono condotte da [le isole Molucche] e altre parti della
India, e di poi per terra, per cammino lungo e pieno di incomodità e
di molte spese, condurle in Alessandria, e quivi venderle a'
mercatanti viniziani; i quali condottele a Vinegia ne fornivano
tutta la cristianità, ritornandone loro grandissimi guadagni: perché
avendo soli in mano le spezierie costituivano i prezzi ad arbitrio
loro, e co' medesimi legni co' quali le levavano di Alessandria vi
conducevano moltissime mercatanzie, e i medesimi legni i quali
portavano in Francia in Fiandra in Inghilterra e negli altri luoghi
le spezierie tornavano medesimamente a Vinegia carichi di altre
mercatanzie: la quale negoziazione augumentava medesimamente molto
l'entrate della republica, per le gabelle e passaggi. Ma i
portogallesi, condottisi per mare da Lisbona, città regia di
Portogallo, in quelle parti remote, e fatto amicizia nel seno
persico co’ re di Caligut e di altre terre vicine, e dipoi di mano
in mano penetrati ne' luoghi piú intimi e edificate in progresso di
tempo fortezze ne' luoghi opportuni, e con alcune città del paese
confederatisi altre fattesi con l'armi suddite, hanno trasferito in
sé quel commercio di comperare le spezierie che prima solevano avere
i mercatanti di Alessandria; e conducendole per mare in Portogallo
le mandano poi, eziandio per mare, in quegli luoghi medesimi ne'
quali le mandavano prima i viniziani. Navigazione certamente
maravigliosa e di spazio di miglia [sedicimila], per mari al tutto
incogniti, sotto altre stelle sotto altri cieli; con altri
instrumenti, perché passata la linea equinoziale non hanno piú per
guida la tramontana, e rimangono privati dell'uso della calamita; né
potendo per tanto cammino toccare se non a terre non conosciute,
diverse di lingua di religione e di costumi, e del tutto barbare e
inimicissime de' forestieri: e nondimeno, non ostante tante
difficoltà, s'hanno fatta in progresso di tempo questa navigazione
tanto familiare che, ove prima consumavano a condurvisi [dieci] mesi
di tempo, la finiscono oggi comunemente, con pericoli molto minori,
in [sei] mesi.
Ma piú maravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnuoli,
cominciata l'anno mille quattrocento novanta..., per invenzione di
Cristoforo Colombo genovese. Il quale, avendo molte volte navigato
per il mare Oceano, e congetturando per l'osservazione di certi
venti quel che poi veramente gli succedette, impetrati dai re di
Spagna certi legni e navigando verso l'occidente, scoperse, in capo
di [trentatré] dí, nell'ultime estremità del nostro emisperio,
alcune isole, delle quali prima niuna notizia s'aveva; felici per il
sito del cielo per la fertilità della terra e perché, da certe
popolazioni fierissime infuora che si cibano de' corpi umani, quasi
tutti gli abitatori, semplicissimi di costumi e contenti di quel che
produce la benignità della natura, non sono tormentati né da
avarizia né da ambizione; ma infelicissime perché, non avendo gli
uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di
artifici non armi non arte di guerra non scienza non esperienza
alcuna delle cose, sono, quasi non altrimenti che animali mansueti,
facilissima preda di chiunque gli assalta. Onde allettati gli
spagnuoli dalla facilità dell'occuparle e dalla ricchezza della
preda, perché in esse sono state trovate vene abbondantissime d'oro,
cominciorno molti di loro come in domicilio proprio ad abitarvi. E
penetrato Cristoforo Colombo piú oltre, e dopo lui Amerigo Vespucci
fiorentino e successivamente molti altri, hanno scoperte altre isole
e grandissimi paesi di terra ferma; e in alcuni di essi, benché in
quasi tutti il contrario e nell'edificare publicamente e
privatamente, e nel vestire e nel conversare, costumi e pulitezza
civile, ma tutte genti imbelli e facili a essere predate: ma tanto
spazio di paesi nuovi che sono - senza comparazione maggiore spazio
che l'abitato che prima era a notizia nostra. Ne' quali
distendendosi con nuove genti e con nuove navigazioni gli spagnuoli,
e ora cavando oro e argento delle vene che sono in molti luoghi e
dell'arene de' fiumi, ora comperandone per prezzo di cose vilissime
dagli abitatori, ora rubando il già accumulato, n'hanno condotto
nella Spagna infinita quantità; navigandovi privatamente, benché con
licenza del re e a spese proprie, molti, ma dandone ciascuno al re
la quinta parte di tutto quello che o cavava o altrimenti gli
perveniva nelle mani. Anzi è proceduto tanto oltre l'ardire degli
spagnuoli che alcune navi, essendosi distese verso il mezzodí
[cinquantatré] gradi sempre lungo la costa di terra ferma, e dipoi
entrati in uno stretto mare e da quello per amplissimo pelago
navigando nello oriente, e dipoi ritornando per la navigazione che
fanno i portogallesi, hanno, come apparisce manifestissimamente,
circuito tutta la terra. Degni, e i portogallesi e gli spagnuoli e
precipuamente Colombo, inventore di questa piú maravigliosa e piú
pericolosa navigazione, che con eterne laudi sia celebrata la
perizia la industria l'ardire la vigilanza e le fatiche loro, per le
quali è venuta al secolo nostro notizia di cose tanto grandi e tanto
inopinate. Ma piú degno di essere celebrato il proposito loro se a
tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata
dell'oro e delle ricchezze ma la cupidità o di dare a se stessi e
agli altri questa notizia o di propagare la fede cristiana: benché
questo sia in qualche parte proceduto per conseguenza, perché in
molti luoghi sono stati convertiti alla nostra religione gli
abitatori.
Per queste navigazioni si è manifestato essersi nella cognizione
della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla
linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come
medesimamente, contro all'opinione loro, si è per navigazione di
altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a' poli, sotto le
quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati,
rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi
manifestato quel che alcuni degli antichi credevano, altri
riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti
da loro gli antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte
cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a
ciò, qualche anzietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a
interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta
la terra uscí il suono loro e ne' confini del mondo le parole loro,
significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli
apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla
verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né
trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di
essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi
tempi o che questa parte sí vasta del mondo sia mai piú stata
scoperta o trovata da uomini del nostro emisperio.
Lib.6, cap.10
Dolore e cruccio del re e della corte di Francia pel cattivo esito
della campagna in Italia. Timori de' partigiani dei francesi;
inazione di Consalvo. Fuga del Valentino presso Consalvo e sua
prigionia in Ispagna. Tregua tra il re di Francia e i re di Spagna.
Rapine di soldati spagnuoli nel reame di Napoli.
Ma ritornando al proposito della nostra narrazione, e alle cose che
dopo l'essersi arrenduta agli spagnuoli Gaeta nell'anno mille
cinquecento quattro succederono, le novelle della rotta ricevuta al
Garigliano, e di tanti disordini che appresso seguitorono, empierono
di lagrime e di pianti quasi tutto il regno di Francia, per la
moltitudine de' morti e specialmente per la perdita di tanta
nobiltà; donde la corte tutta, con gli abiti e con molti altri segni
di dolore, appariva piena di mestizia e di afflizione; e si
sentivano per tutto il reame le voci degli uomini e delle donne che
maladivano quel dí nel quale prima entrò ne' cuori de' suoi re, non
contenti di tanto impero che possedevano, la sfortunata cupidità di
acquistare stati in Italia. Ma sopra tutto era tormentato l'animo
del re per la disperazione d'avere piú a ricuperare uno regno sí
nobile, e per tanta diminuzione della estimazione e autorità sua:
ricordavasi delle magnifiche parole le quali aveva dette tante volte
contro al re di Spagna, e quanto si fusse vanamente promesso degli
apparati fatti per assaltarlo da tante bande; ma accresceva il
dolore e la indegnazione sua il considerare che, essendo state fatte
da sé con somma diligenza e senza risparmio alcuno tante provisioni,
e avendo guerra con inimici poverissimi e bisognosi di ogni cosa,
fusse stato per la avarizia e per le fraudi de' ministri suoi sí
ignominiosamente superato. E però, esclamando insino al cielo,
affermava con efficacissimi giuramenti che, poiché era con tanta
negligenza e perfidia servito da' suoi medesimi, che giammai
commetterebbe piú guerra alcuna a' suoi capitani ma andrebbe
personalmente a tutte le imprese. Ma lo tormentava e cruciava ancora
piú il conoscere quanto, per la perdita di uno tale esercito e per
la morte di tanti capitani e di tanta nobiltà, fussino indebolite le
forze sue; in modo che, se o da Massimiliano fusse stato fatto
qualche movimento nel ducato di Milano o se l'esercito spagnuolo
uscito del reame di Napoli fusse passato piú innanzi, diffidava esso
medesimo sommamente di potere difendere quello stato, massime
congiugnendosi ad alcuno di questi Ascanio Sforza lo imperio del
quale era desiderato ardentemente da tutti i popoli.
Ma del re de' Romani non si maravigliò alcuno che non si destasse a
tanta opportunità, essendo lo inveterato costume suo scambiare il
piú delle volte i tempi e le occasioni. Ma di Consalvo si persuadeva
ciascuno il contrario: donde stavano quelli che in Italia aderivano
a' franzesi in grandissimo terrore che egli, con la speranza che
all'esercito vincitore non avessino a mancare danari né occasioni,
senza dilazione seguitasse la vittoria, per sovvertire lo stato di
Milano e mutare in cammino le cose di Toscana: il che se avesse
fatto si credeva fermamente che il re di Francia, esausto di danari
e sbattuto d'animo, arebbe senza fare alcuna resistenza ceduto a
questa tempesta; essendo massime l'animo delle sue genti alienissimo
dal passare in Italia e avendo quelle che tornorono da Gaeta passato
i monti, sprezzati i comandamenti regi che furono presentati loro a
Genova. E si vedeva chiaramente che il re, senza pensiero alcuno
alle armi, era tutto intento a trattare concordia con Massimiliano;
né meno intento a continuare le pratiche co' re di Spagna, per le
quali, non intermesse nell'ardore della guerra, erano stati sempre,
e ancora erano, oratori spagnuoli nella sua corte. Ma Consalvo, che
da qui innanzi chiameremo piú spesso il gran capitano, poiché con
vittorie sí gloriose si aveva confermato il cognome datogli dalla
iattanza spagnuola, non usò tanta occasione: o perché, trovandosi al
tutto senza danari e debitore dell'esercito suo di molte paghe, gli
fusse impossibile muovere con speranze di guadagni futuri o di
pagamenti lontani le genti sue, che dimandavano danari e
alloggiamenti, o perché fusse necessitato procedere secondo la
volontà de' suoi re o perché non gli paresse bene sicuro, se prima
non cacciava gli inimici di tutto il regno di Napoli, levarne
l'esercito; perché Luigi d'Ars uno de' capitani franzesi, il quale
dopo la giornata fatta alla Cirignola si era, con reliquie tali
delle genti rotte che non erano in tutto da disprezzare, fermato a
Venosa, e il quale mentre che gli eserciti stavano in sulle ripe del
Garigliano aveva occupato Troia e San Severo, teneva sollevata tutta
la Puglia; e alcuni de' baroni angioini ritiratisi agli stati loro
si difendevano, seguitando scopertamente il nome del re di Francia:
e si aggiunse che poco dopo la vittoria si ammalò di pericolosa
infermità; per la quale non potendo andare in alcuna espedizione
personalmente, mandò con parte delle genti l'Alviano a debellare
Luigi d'Ars.
Per la quale sua o deliberazione o necessità di non seguitare per
allora, fuora del reame di Napoli, la vittoria restavano l'altre
cose d'Italia piú presto in sospetto che in travaglio: perché i
viniziani stavano, secondo l'usanza loro, sospesi ad aspettare
l'esito delle cose; e a' fiorentini pareva acquistare assai se, nel
tempo che totalmente disperavano del soccorso del re di Francia, non
fussino assaltati dal gran capitano; e il pontefice, differendo ad
altro tempo i suoi vasti pensieri, si affaticava perché il Valentino
gli concedesse le fortezze di Furlí di Cesena e di Bertinoro, che
sole per lui si tenevano nella Romagna, perché Antonio degli
Ordelaffi aveva, pochi dí innanzi, ottenuta con premi quella di
Forlimpopolo dal castellano. Consentí Valentino dare al pontefice i
contrasegni di quella di Cesena: con i quali andato Pietro d'Oviedo
spagnuolo per riceverla in nome del pontefice, il castellano,
dicendo essergli disonore ubidire al padrone suo mentre che era
prigione, e meritare di essere punito chi avesse presunto di fargli
tale richiesta, l'aveva fatto impiccare. Donde il pontefice, escluso
dalla speranza di poterle ottenere senza la liberazione del
Valentino, convenne seco (della quale convenzione fu espedita per
maggiore sicurtà una bolla nel concistoro) che il Valentino fusse
posto nella rocca di Ostia, in assoluta potestà di Bernardino
Carvagial spagnuolo, cardinale di Santa Croce, di liberarlo ogni
volta che avesse restituito al pontefice le fortezze di Cesena e di
Bertinoro e che della rocca di Furlí avesse consegnati i
contrassegni al pontefice, e data sicurtà di banchi in Roma per
quindicimila ducati; perché quel castellano prometteva di
restituirla ricevuti che avesse i contrassegni e la quantità
predetta, per sodisfazione delle spese le quali affermava d'avere
fatte. Ma altra era la mente del pontefice; il quale, benché non
volesse rompere palesemente la fede data, avea in animo di
prolungare la sua liberazione, o per timore che, liberato, operasse
che 'l castellano di Furlí negasse di dare la rocca o per la memoria
delle ingiurie ricevute dal padre e da lui o per l'odio che
ragionevolmente gli portava ciascuno. Della qual cosa sospettando il
Valentino, ricercò secretamente il gran capitano che gli desse
salvocondotto di potere sicuramente andare a Napoli, e che gli
mandasse due galee per levarlo da Ostia; le quali cose essendo
consentite da Consalvo, il cardinale di Santa Croce, che avea il
medesimo sospetto, subito che ebbe notizia che oltre alla sicurtà
data in Roma de' quindicimila ducati i castellani di Cesena e di
Bertinoro aveano consegnato le fortezze, gli dette senza saputa del
pontefice facoltà di partirsi. Il quale, non aspettate le galee che
doveva mandargli il gran capitano, se ne andò occultamente per terra
a Nettunno, onde in su una piccola barchetta si condusse alla rocca
di Mondracone, e di quivi per terra a Napoli; ricevuto da Consalvo
lietamente e con grande onore. In Napoli, stando spesso a segreti
ragionamenti con Consalvo, lo ricercò che gli desse comodità di
andare a Pisa, proponendogli che, fermandosi in quella città, ne
risulterebbe grandissimo beneficio alle cose de' suoi re: il che
dimostrando Consalvo di approvare, e offerendogli le galee per
portarlo, e dandogli facoltà di soldare nel reame i fanti che e'
disegnava di condurre seco, lo nutrí in questa speranza insino a
tanto che ebbe risposta da' suoi re conforme a quello che avea
disegnato di fare; consultando ciascuno dí con lui sopra le cose di
Pisa e di Toscana, e offerendosi l'Alviano di assaltare nel tempo
medesimo i fiorentini, per il desiderio che avea della restituzione
de' Medici in Firenze. Ma essendo preparate già le galee e i fanti
per partire il dí seguente, il Valentino, poiché la sera ebbe
parlato lungamente con Consalvo, e da lui con dimostrazione grande
di amore avuto licenza e abbracciato nel partirsi, procedendo con
quella simulazione medesima che si diceva avere usata già contro a
Iacopo Piccinino Ferdinando vecchio d'Aragona, subito che uscí della
camera fu per comandamento suo ritenuto nel castello, e mandato
all'ora medesima alla casa dove alloggiava a tôrre il salvocondotto
che, innanzi partisse da Ostia, gli avea fatto; con tutto che
allegasse che, avendogli comandato i suoi re che lo facesse
prigione, prevaleva il comandamento loro al suo salvocondotto,
perché la sicurtà data di propria autorità dal ministro non era
valida piú che si fusse la volontà del signore. Soggiugnendo oltre a
questo essere stata cosa necessaria il ritenerlo, perché, non
contento di tante iniquità che per l'addietro aveva commesse,
procurava di alterare per l'avvenire gli stati d'altri, macchinare
cose nuove seminare scandoli e fare nascere in Italia incendi
perniciosi. E poco dipoi lo mandò in su una galea sottile prigione
in Ispagna, non servito da altri de' suoi che da uno paggio, ove fu
incarcerato nella rocca di Medina del Campo.
Fecesi circa a questi tempi medesima tregua per terra e [per] mare,
cosí per le cose d'Italia come di là da' monti, tra 'l re di Francia
e i re di Spagna; alla quale, desiderata molto dal re di Francia,
acconsentirno volentieri i re di Spagna perché giudicorno essere
meglio stabilire per questo mezzo, con maggiore sicurtà e quiete,
l'acquisto fatto che per mezzo di nuove guerre; le quali essendo
piene di molestia e di spese hanno spesse volte fine diverso dalle
speranze. Le condizioni furono che ciascuno ritenesse quello
possedeva: fusse libero per tutti i regni e stati di ciascuna delle
parti il commercio a' sudditi loro, eccetto che nel reame di Napoli:
con la quale eccezione ottenne per via indiretta il gran capitano
quel che gli era proibito direttamente, perché nelle frontiere de'
luoghi tenute da' franzesi, che erano solamente in Calavria Rossano,
in Terra d'Otranto Oira e in Puglia Venosa, Conversano e
Casteldelmonte, pose genti che proibissino che alcuno o de' soldati
o degli uomini di quelle terre non conversassino in luogo alcuno
posseduto dagli spagnuoli; la quale cosa gli ridusse prestamente in
tale strettezza che vedendo Luigi d'Ars e gli altri soldati e baroni
di quelle terre che gli uomini, non potendo tollerare tante
incomodità, deliberavano d'arrendersi agli spagnuoli, se ne
partirono. E nondimeno il reame di Napoli, benché per tutto ne
fussino stati cacciati gli inimici, non godeva i frutti della pace.
Perché i soldati spagnuoli, creditori già delle paghe di piú di uno
anno, non contenti che 'l gran capitano, perché si sostentassino
insino che avesse proveduto a' danari, gli aveva alloggiati in
diversi luoghi ne' quali vivevano a spese de' popoli, ma prestate
indiscretissimamente ad arbitrio loro (al che i soldati hanno dato
nome di alloggiamento a discrezione), rotti i freni dell'ubbidienza
erano, con grandissimo dispiacere del gran capitano, entrati in
Capua e in Castell'a mare, onde recusando di partirsi se non si
numeravano loro gli stipendi già corsi, né a questo, perché
importavano quantità grandissima di danari, potendo provedersi senza
aggravare eccessivamente il reame esausto per le lunghe guerre e
consumato, erano miserabili le condizioni degli uomini, non essendo
meno grave la medicina che la infermità che si cercava di curare:
cose tanto piú moleste quanto piú erano nuove e fuora degli esempli
passati. Perché se bene dopo i tempi antichi, ne' quali la
disciplina militare s'amministrava severamente, i soldati erano
stati sempre licenziosi e gravi a' popoli, nondimeno, non
disordinate ancora in tutto le cose, vivevano in gran parte de'
soldi loro né passava a termini intollerabili la loro licenza. Ma
gli spagnuoli primi in Italia cominciorno a vivere totalmente delle
sostanze de' popoli, dando cagione e forse necessità a tanta licenza
l'essere dai suoi re, per l'impotenza loro, male pagati: dal quale
principio ampliandosi la corruttela, perché l'imitazione del male
supera sempre l'esempio come per il contrario l'imitazione del bene
è sempre inferiore, cominciorno poi e gli spagnuoli medesimi e non
meno gli italiani a fare, o siano pagati o non pagati, il medesimo;
talmente che con somma infamia della milizia odierna, non sono piú
sicure dalla sceleratezza de' soldati le robe degli amici che degli
inimici.
Lib.6, cap.11
Il pontefice ottiene Forlí. Vicende della guerra di Firenze contro
Pisa. Vani tentativi de' fiorentini di ridurre con la benevolenza
l'inimicizia de' contadini pisani. Richieste d'aiuto de' pisani a
Genova.
La tregua fatta tra i re di Francia e di Spagna, con opinione che
non molto di poi avesse a seguitare la pace, e in qualche parte la
cattura del Valentino quietorono del tutto le cose della Romagna.
Perché essendo prima Imola venuta per volontà de' capi di quella
città in potestà del pontefice, né senza volontà del cardinale di
San Giorgio nutrito da lui con vana speranza di restituirla a' Riari
suoi nipoti; ed essendo, in quegli dí, per la morte d'Antonio degli
Ordelaffi, entrato in Furlí Lodovico suo fratello naturale, sarebbe
quella città venuta in mano de' viniziani, a' quali Lodovico
conoscendosi impotente a tenerla l'offeriva, ma le condizioni de'
tempi gli spaventorno da accettarla per non accrescere maggiore
indegnazione nel pontefice: il quale non avendo chi se gli opponesse
ottenne la terra, fuggendosene Lodovico, e finalmente, pagati i
quindicimila ducati, la cittadella; la quale il castellano, fedele
al Valentino, non consentí mai di dargli se prima per uomini propri
mandati a Napoli non ebbe certezza della sua incarcerazione.
Cosí essendosi fermate le guerre per tutte l'altre parti d'Italia,
non cessorono per ciò, al principio di quella state, secondo il
consueto, l'armi de' fiorentini contro a' pisani. I quali, avendo
condotti di nuovo a' soldi loro Giampagolo Baglione e alcuni
capitani di genti d'arme Colonnesi e Savelli, e unite maggiori forze
che 'l solito, gli mandorno a guastare le ricolte de' pisani;
procedendo a questo con maggiore animo, perché non dubitavano dovere
essere impediti dagli spagnuoli, non solo perché i re di Spagna non
aveano nominati i pisani nella tregua, nella quale era stato lecito
a ciascuno de' re nominare gli amici e aderenti suoi, ma perché il
gran capitano, dopo la vittoria ottenuta contro a' franzesi, se bene
prima avesse dato molte speranze a' pisani, era proceduto con
termini mansueti co' fiorentini, sperando potergli forse succedere
con queste arti il separargli dal re di Francia, e con tutto che da
poi fusse escluso da questa speranza nondimeno, non volendo col
provocargli dare loro causa che maggiormente si precipitassino a
tutte le volontà di quel re, avea per mezzo di Prospero Colonna
fatta, benché non altrimenti che con semplici parole, quasi una
tacita intelligenza con loro che se accadesse che 'l re di Francia
assaltasse di nuovo il reame di Napoli non l'aiutassino, e da altra
parte che da lui non fusse dato aiuto a' pisani se non in caso che i
fiorentini mandassino l'esercito con l'artiglierie alla espugnazione
di quella città, la quale desiderava non recuperassino mentre che
seguitavano l'amicizia del re di Francia. Distesesi l'esercito de'
fiorentini non solo a dare il guasto in quelle parti del contado di
Pisa nelle quali per l'addietro si era dato ma ancora in San Rossore
e in Barbericina, dipoi in Valdiserchio e in Val d'Osoli, luoghi
congiunti a Pisa; dove quando l'esercito era stato meno potente non
si era potuto andare senza pericolo: il quale come fu dato, andati a
campo a Librafatta ove era piccolo presidio, costrinsono in pochi dí
quelli che vi erano dentro ad arrendersi liberamente. Né si dubita
che quello anno i pisani sarebbono stati costretti per la fame a
ricevere il giogo de' fiorentini se non fussino suti sostentati da'
vicini, e massimamente da' genovesi e da' lucchesi (perché Pandolfo
Petrucci, prontissimo a confortare gli altri e larghissimo al
promettere di concorrere alle spese, era tardissimo agli effetti):
co' danari de' quali Rinieri della Sassetta soldato del gran
capitano, ottenuta licenza da lui, e alcuni altri condottieri
condussono per mare dugento cavalli; e i genovesi vi mandorno uno
commissario con mille fanti; e il Bardella da Porto Venere, corsale
famoso nel mare Tirreno, e che pagato da' predetti avea titolo di
capitano de' pisani, metteva in Pisa continuamente, con uno galeone
e alcuni brigantini, vettovaglie. Onde i fiorentini, giudicando
necessario che oltre alle molestie che si davano per terra si
proibisse loro l'uso del mare, soldorno tre galee sottili del re
Federigo che erano in Provenza: con le quali come don Dimas
Ricaiensio capitano loro si approssimò a Livorno il Bardella si
discostò, con tutto che alcuna volta, presa l'occasione de' venti,
conducesse qualche barca carica di vettovaglie alla foce d'Arno,
onde facilmente entravano in Pisa. La quale nel tempo medesimo si
molestava per terra: perché l'esercito fiorentino presa che ebbe
Librafatta, distribuitosi in campagna in piú parti di quello
contado, si ingegnava di proibire la coltivazione delle terre per
l'anno futuro, e di impedire che per la via di Lucca e del mare non
vi entrassino vettovaglie; e dando alla fine della state il guasto
a' migli e altre biade simili, delle quali quel paese produce
copiosamente. Né stracchi i fiorentini da tante spese, né giudicando
impossibile cosa alcuna che desse loro speranza di pervenire al fine
desiderato, si ingegnorono con nuovo modo di offendere i pisani,
tentando di fare passare il fiume d'Arno, che corre per Pisa dalla
torre della Fagiana vicina a Pisa a [cinque] miglia, per alveo
nuovo, nello stagno che è tra Pisa e Livorno: onde si toglieva la
facoltà di condurre cosa alcuna dal mare per il fiume d'Arno a Pisa;
né avendo l'acque, che piovevano per il paese circostante, esito,
per la bassezza sua, di condursi alla marina, rimaneva quella città
quasi come in mezzo di una palude; né per la difficoltà di passare
Arno arebbeno per l'avvenire potuto correre i pisani per le colline,
interrompendo il commercio da Livorno a Firenze; e acciò che quella
parte di Pisa per la quale entrava e usciva il fiume non rimanesse
aperta agli insulti degli inimici sarebbeno stati i pisani
necessitati a fortificarla. Ma questa opera, cominciata con
grandissima speranza e seguitata con spesa molto maggiore, riuscí
vana: perché, come il piú delle volte accade che simili cose, benché
con le misure abbino la dimostrazione quasi palpabile, si ripruovano
con l'esperienza (paragone certissimo quanto sia distante il mettere
in disegno dal mettere in atto), oltre a molte difficoltà non prima
considerate, causate dal corso del fiume, e perché avendo voluto
ristrignerlo abbassava da se medesimo rodendo l'alveo suo, apparí il
letto dello stagno nel quale aveva a entrare, contro a quello che
aveano promesso molti ingegnieri e periti di acque, essere piú alto
che il letto di Arno. E dimostrandosi, oltre a quello che per
l'ardente desiderio di ottenere Pisa si aspettava, la malignità
della fortuna contro a' fiorentini, essendo andate le galee soldate
da loro a Villafranca per pigliare una nave de' pisani carica di
grani, nel ritornarsene, combattute da' venti appresso a Rapalle,
furno costrette a dare in terra; salvandosi con fatica il capitano e
gli uomini che le guidavano.
Aggiunsono i fiorentini alla esperienza dell'armi e del terrore, per
non lasciare intentata cosa alcuna, l'esperienza della benignità e
della grazia; perché con nuova legge statuirono che qualunque
cittadino o contadino pisano andasse fra certo tempo ad abitare alle
sue possessioni o alle sue case conseguisse venia di tutte le cose
commesse, con la restituzione de' suoi beni. Per la quale abilità
pochi sinceramente uscirno di Pisa, ma molti, quasi tutti persone
inutili, con volontà degli altri se ne partirono, alleggerendo in
uno tempo medesimo la carestia che premeva la città, e conseguendo
comodità di potere in futuro con quelle entrate aiutare quegli che
vi erano rimasti, come occultamente facevano.
Diminuirno per queste cose in qualche parte le necessità de' pisani,
ma non perciò tanto che per la somma povertà e per la carestia non
fussino in grandissime angustie; ma avendo ogni altra cosa meno in
orrore che 'l nome de' fiorentini, se bene qualche volta titubassino
gli animi de' contadini, deliberavano patire, prima che arrendersi,
qualunque estremità. Perciò offersono di darsi a' genovesi, co'
quali aveano combattuto tante volte dello imperio e della salute, e
da' quali la potenza loro era stata afflitta anticamente. Proposono
questa cosa i lucchesi e Pandolfo Petrucci, desiderando, per fuggire
quotidianamente spese e molestie, obligare i genovesi a difendere
Pisa, e offerendo, perché piú facilmente vi consentissino, sostenere
per tre anni qualche parte delle spese. Alla qual cosa benché molti
in Genova repugnassino, e specialmente Giovanluigi dal Fiesco,
accettando la città, feceno instanza che 'l re di Francia, senza la
volontà del quale non erano liberi di prendere tale deliberazione,
lo concedesse; dimostrandogli quanto fusse pericoloso che i pisani,
esclusi da questa quasi unica speranza, si dessino a' re di Spagna,
onde con grandissimo suo pregiudicio e Genova starebbe in continua
molestia e pericolo, e la Toscana, quasi tutta, sarebbe necessitata
a seguitare le parti di Spagna: le quali cagioni benché da principio
movessino tanto il re che quasi cedesse alla loro dimanda,
nondimeno, essendo dipoi considerato nel suo consiglio che,
cominciando i genovesi a implicarsi per se medesimi in guerre e in
confederazioni con altri potentati e in cupidità di accrescere
imperio, sarebbe cagione che, alzandosi continuamente co' pensieri a
cose maggiori, aspirerebbono dopo non molto ad assoluta libertà,
denegò loro espressamente l'accettare il dominio de' pisani; ma non
vietando, con tutte le querele gravissime co' fiorentini, che
perseverassino di aiutargli.
Lib.6, cap.12
Il re di Francia, per le difficoltà della conclusione della pace,
licenzia gli ambasciatori spagnuoli. Patti conclusi dal re di
Francia con Massimiliano e con l'arciduca. Morte di Federigo
d'Aragona. Morte di Elisabetta di Castiglia: disposizioni del suo
testamento.
Trattavasi in questo tempo medesimo strettamente la pace tra il re
di Francia e i re di Spagna; i quali simulatamente proponevano che
il regno si restituisse al re Federigo o al duca di Calavria suo
figliuolo, a' quali il re di Francia cedesse le sue ragioni, e che
al duca si maritasse la reina vedova nipote di quel re, che era già
stata moglie di Ferdinando giovane d'Aragona. Né era dubbio il re di
Francia essere alienato tanto con l'animo dalle cose del regno di
Napoli che per sé arebbe accettato qualunque forma di pace, ma nel
partito proposto lo ritenevano due difficoltà: l'una, benché piú
leggiera, che pure si vergognava abbandonare i baroni che per avere
seguitato la parte sua erano privati de' loro stati, a' quali erano
proposte condizioni dure e difficili; l'altra, che piú lo moveva,
che, dubitando che se i re di Spagna avendo altrimenti nell'animo
proponessino a qualche fine con le solite arti questa restituzione,
temeva che, consentendovi, la cosa non avesse effetto, e nondimeno
alienarsi l'animo dello arciduca, il quale, desiderando di avere il
regno di Napoli per il figliuolo, faceva instanza che la pace fatta
altre volte da sé andasse innanzi. Però rispondeva generalmente,
desiderarsi da sé la pace ma essergli disonorevole cedere le ragioni
che aveva in quel regno a uno aragonese; e da altra parte continuava
le pratiche antiche col re de' romani e con l'arciduca: le quali
come fu quasi certo dovere avere effetto, per non le interrompere
con la pratica incerta de' re di Spagna, dimostrando per maggiore
suo onore muoversi per le difficoltà che toccavano a' baroni,
chiamati a sé gli imbasciadori spagnuoli, e sedendo nella sedia
reale presente tutta la corte, con cerimonie solenni e solite usarsi
rare volte, si lamentò che quei re con le parole mostravano
desiderio della pace dalla quale erano colla intenzione molto
distanti; e perciò, non essendo cosa degna da re consumare il tempo
in pratiche vane, essere piú conveniente che si partissino del regno
di Francia.
Dopo la partita de' quali vennono oratori di Massimiliano e dello
arciduca per dare perfezione alle cose trattate; nelle quali, perché
si indirizzavano a maggiori fini, interveniva il vescovo di
Sisteron, nunzio residente ordinariamente in quella corte per il
pontefice, e il marchese del Finale mandato propriamente da lui per
questa negoziazione: la quale essendo molte altre volte stata
ventilata, e dimostrandosi l'utilità molto grande a tutti questi
príncipi, ebbe facilmente conclusione che il matrimonio, trattato
prima, di Claudia figliuola del re di Francia con Carlo primogenito
dello arciduca avesse effetto; aggiugnendo, per maggiore
corroborazione, che fusse confermato col giuramento e con la
soscrizione del re di Francia, di Francesco monsignore d'Angolem, il
quale, non nascendo al re figliuoli maschi, era il piú prossimo alla
successione, e di molti altri signori principali del regno di
Francia: che annullate per giuste e oneste cagioni tutte le
investiture dello stato di Milano concedute insino a quel dí,
Massimiliano ne concedesse la investitura al re di Francia per sé e
per i figliuoli maschi, in caso n'avesse, e non avendo maschi fusse
per favore del matrimonio predetto conceduta a Claudia e a Carlo, e
morendo Carlo innanzi al matrimonio consumato fusse conceduta a
Claudia e al secondogenito dell'arciduca, in caso ch'ella si
maritasse a lui: che tra il pontefice il re de' romani e il re di
Francia e l'arciduca si intendesse fatta confederazione a difesa
comune e a offesa de' viniziani, per recuperare le cose che
occupavano di tutti: che Cesare passasse in Italia personalmente
contro a' viniziani, e poi potesse passare a Roma per la corona
dell'imperio: che per la investitura, il re di Francia, come ne
fusse espedito il privilegio, pagasse a lui sessantamila fiorini di
Reno e sessantamila altri fra sei mesi; e ciascuno anno, nella festa
della Natività del Signore, un paio di sproni d'oro: che a' re di
Spagna fusse lasciato luogo di entrarvi infra quattro mesi, ma non
dichiarato se, in caso non vi entrassino, fusse lecito al re di
Francia di assaltare il regno di Napoli: che il re di Francia non
aiutasse piú il conte palatino, il quale, stimolato da lui e
sostentato dalla speranza de' soccorsi suoi, era in guerra grave col
re de' romani: esclusi i viniziani, benché gli oratori loro fussino
dal re sempre molto gratamente uditi e che 'l cardinale [di Roano],
per liberargli di ogni sospetto, promettesse continuamente, con
molto efficaci parole e giuramenti, che mai il suo re contraverrebbe
alla confederazione che aveva con loro. Queste cose si contennono
nelle scritture stipulate solennemente; oltre alle quali si trattò
che Cesare e il re convenissino insieme in quel luogo che altre
volte si determinasse, promettendo il re che allora libererebbe di
carcere Lodovico Sforza, dandogli onesto modo di vivere nel regno di
Francia; la salute del quale si vergognava pure Cesare di non
procurare, ricordandosi quanto per le promesse fattegli e per la
speranza avuta vanamente in lui si fusse accelerata la sua rovina.
Però, e quando il cardinale di Roano andò a trovarlo a Trento aveva
operato che gli fusse rimesso molto della strettezza con la quale
prima era tenuto, e ora faceva instanza che liberamente potesse
stare nella corte del re o in quella parte di Francia che al re piú
sodisfacesse. Promesse ancora il re, a instanza sua, la restituzione
de' fuorusciti del ducato di Milano, sopra la quale erano state
nella pratica di Trento molte difficoltà. La quale capitolazione,
essendo tanto utile per lo arciduca e per Massimiliano, si credeva
che, non ostante le spesse sue mutazioni, avesse a andare innanzi;
essendovi compreso il pontefice, ed essendo grata al re di Francia,
non tanto per cupidità che avesse allora di nuove imprese quanto per
desiderio di ottenere la investitura di Milano, e di assicurarsi di
non essere molestato da Cesare e dal figliuolo.
Morí quasi ne' dí medesimi il re Federigo a Tors, privato al tutto
di speranza d'avere piú per accordo a recuperare il regno di Napoli:
benché prima ingannato, come è cosa naturale degli uomini, dal
desiderio si fusse persuaso essere piú inclinato a questo il re di
Spagna che il re di Francia, non considerando essere vano sperare
nel secolo nostro sí magnanima restituzione di uno tanto regno,
essendone stati esempli sí rari eziandio ne' tempi antichi disposti
molto piú che i tempi presenti agli atti virtuosi e generosi, né
pensando essere alieno da ogni verisimile che chi aveva usato tante
insidie per occuparne la metà volesse, ora che l'aveva conseguito
tutto, privarsene: ma nel maneggio delle cose si era accorto non
essere minore difficoltà nell'uno che nell'altro, anzi doversi piú
disperare che chi possedeva restituisse che chi non possedeva
consentisse.
Nella fine di questo anno medesimo morí Elisabeth reina di Spagna,
donna d'onestissimi costumi e in concetto grandissimo, ne' regni
suoi, di magnanimità e di prudenza: alla quale apparteneva
propriamente il regno di Castiglia, parte molto maggiore e piú
potente di Spagna, pervenutagli ereditaria per la morte di Enrico
suo fratello, ma non senza sangue e senza guerra. Perché se bene era
stato creduto lungamente che Enrico fusse per natura impotente al
coito, e che perciò non potesse essere sua figliuola la
[Beltramigia], partorita dalla sua moglie e nutrita molti anni da
lui per figliuola, e che per questa cagione Elisabeth, vivente
Enrico, fusse stata riconosciuta per principessa di Castiglia,
titolo di chi è piú prossimo alla successione, nondimeno levandosi
alla morte sua in favore della Beltramigia molti signori della
Castiglia, e aiutandola con l'armi il re di Portogallo suo
congiunto, venute finalmente le parti, appresso a..., alla
battaglia, fu approvata dal successo della giornata per piú giusta
la causa d'Elisabeth: conducendo l'esercito Ferdinando d'Aragona suo
marito, nato ancora esso della casa de' re di Castiglia e congiunto
a Elisabeth in terzo grado di consanguinità; e il quale essendo poi
succeduto, per la morte di Giovanni suo padre, nel regno di Aragona,
si intitolavano re e reina di Spagna. Perché, essendo unito al regno
d'Aragona quello di Valenza e il contado di Catalogna, era sotto
l'imperio loro tutta la provincia di Spagna la quale si contiene tra
i monti Pirenei, il mare Oceano e il mare Mediterraneo, e sotto 'l
cui titolo, per essere stata occupata anticamente da molti re mori,
si comprende, come ciascuno di essi faceva uno titolo da per sé, il
titolo di molti regni; eccettuato nondimeno il regno di Granata che,
allora posseduto da' mori, fu dipoi gloriosamente ridotto da loro
sotto lo imperio di Castiglia, e il piccolo regno di Portogallo e
quello di Navarra molto minore, che avevano re particolari. Ma
essendo il regno di Aragona, con la Sicilia, la Sardigna e l'altre
isole appartenenti a quello, proprio di Ferdinando, si reggeva da
lui solo, non vi si mescolando il nome o l'autorità della reina.
Altrimenti si procedeva in Castiglia, perché essendo quel regno
ereditario di Elisabeth e dotale di Ferdinando si amministrava col
nome con le dimostrazioni e con gli effetti comunemente, non si
eseguendo cosa alcuna se non deliberata ordinata e sottoscritta da
tutt'a due; comune era il titolo di re di Spagna, comunemente gli
imbasciadori si spedivano, comunemente gli eserciti s'ordinavano, le
guerre comunemente s'amministravano, né l'uno piú che l'altro si
arrogava della autorità e del governo di quello reame. Ma per la
morte di Elisabeth senza figliuoli maschi apparteneva la successione
di Castiglia, per le leggi di quel regno, che attendendo piú alla
prossimità che al sesso non escludono le femmine, a Giovanna
figliuola comune di Ferdinando e di lei, moglie dell'arciduca:
perché la figliuola maggiore di tutte, che era stata congiunta a
Emanuel re di Portogallo, e uno piccolo fanciullo nato di quella
erano molto prima passati all'altra vita. Onde Ferdinando, non
aspettando piú a lui, finito il matrimonio, l'amministrazione del
regno dotale, aveva a ritornare al piccolo regno suo di Aragona,
piccolo a comparazione del regno di Castiglia per la strettezza del
paese e dell'entrate e perché i re aragonesi, non avendo assoluta
l'autorità regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle
costituzioni e alle consuetudini di quelle provincie, molto limitate
contro alla potestà de' re. Ma Elisabeth, quando fu vicina alla
morte, nel testamento dispose che Ferdinando mentre viveva fusse
governatore di Castiglia; mossa o perché, essendo sempre vivuta
congiuntissima con lui, desiderava si conservasse nella pristina
grandezza o perché, secondo diceva, conosceva essere piú utile a'
suoi popoli il continuare sotto il governo prudente di Ferdinando,
né meno al genero e alla figliuola; a' quali, poiché alla fine
aveano similmente a succedere a Ferdinando, sarebbe beneficio non
piccolo che insino a tanto che Filippo, nato e nutrito in Fiandra
ove le cose si governano diversamente, pervenisse a piú matura età e
a maggiore cognizione delle leggi delle consuetudini delle nature e
de' costumi di Spagna, fussino conservati loro sotto pacifico e
ordinato governo tutti i regni, mantenendosi in questo mezzo come
uno corpo medesimo la Castiglia e l'Aragona.
Lib.6, cap.13
Prime controversie fra il pontefice e Venezia per le terre di
Romagna. Pubblicazione delle convenzioni fra Massimiliano e
l'arciduca, e il re di Francia. Vicende della guerra de' fiorentini
contro Pisa: fazione al ponte a Cappellese. Giampaolo Baglione
abbandona il soldo de' fiorentini.
La morte della reina partorí poi nuovi accidenti in Spagna; ma in
quanto alle cose d'Italia, come di sotto si dirà, piú tranquilla
disposizione e occasione di nuova pace. Continuossi nell'anno mille
cinquecento cinque la medesima quiete che era stata nell'anno
dinanzi, e tale che, se non l'avessino qualche poco perturbata gli
accidenti che nacquono per rispetto de' fiorentini e de' pisani, si
sarebbe questo anno cessato totalmente da' movimenti delle armi,
essendo una parte de' potentati desiderosa della pace; gli altri piú
inclinati alla guerra, impediti per varie cagioni. Perché al re di
Spagna, che cosí continuava per ancora il titolo suo, occupato ne'
pensieri che gli succedevano per la morte della reina, bastava
conservarsi per mezzo della tregua fatta il regno napoletano; e il
re di Francia stava coll'animo molto sospeso, perché Cesare,
seguitando in questo come nell'altre cose la sua natura, non aveva
mai ratificato la pace fatta; e il pontefice, desideroso di cose
nuove, non ardiva né poteva muoversi se non accompagnato dall'armi
di príncipi potenti; e a' viniziani non pareva piccola grazia se in
tante cose trattate contro a loro, e in tanto mala disposizione del
pontefice, non fussino molestati dagli altri. L'animo del quale per
mitigare aveano, piú mesi innanzi, offertogli di lasciare Rimini e
tutto quello che dopo la morte di Alessandro pontefice aveano
occupato in Romagna, purché consentisse che ritenessino Faenza col
suo territorio; mossi dal timore che aveano del re di Francia e
perché Cesare, ricercatone da Giulio, mandato uno imbasciadore a
Vinegia, gli avea confortati che restituisseno le terre della
Chiesa: ma avendo il pontefice, secondo la costanza del suo animo e
la natura libera di esprimere i suoi concetti, risposto che non
consentirebbe ritenessino una piccola torre ma che sperava di
recuperare innanzi alla sua morte Ravenna e Cervia, le quali città
non meno ingiustamente che Faenza possedevano, non si era proceduto
piú oltre. Ma nel principio di questo anno, essendo divenuto
maggiore il timore, offersono per mezzo del duca d'Urbino, amico
comune, di restituire quel che aveano occupato che non fusse de'
contadi di Faenza e di Rimini, se il pontefice, che sempre avea
negato di ammettere gli oratori loro a prestare l'ubbidienza,
consentisse ora di ammettergli. Alla quale dimanda benché il
pontefice stesse alquanto renitente, parendogli cosa aliena dalla
sua degnità né conveniente a tante querele e minaccie che avea
fatte, nondimeno astretto dalle molestie de' furlivesi degli imolesi
e de' cesenati, che privati della maggiore parte de' loro contadi
tolleravano grande incomodità, né vedendo per altra via il rimedio
propinquo, poiché le cose tra Cesare e il re di Francia procedevano
con tanta lunghezza, finalmente acconsentí a quel che in quanto agli
effetti era guadagno senza perdita, poiché né con parole né con
scritture non avea a obligarsi a cosa alcuna. Andorno adunque, ma
restituite prima le terre predette, otto imbasciadori de' principali
del senato, eletti insino al principio della sua creazione, numero
maggiore che mai avesse destinato quella republica ad alcuno
pontefice che non fusse stato viniziano; i quali, prestata
l'ubbidienza con le cerimonie consuete, non riportorono per ciò a
Vinegia segno alcuno né di maggiore facilità né d'animo piú benigno
del pontefice.
Mandò in questo tempo il re di Francia, desideroso di dare
perfezione alle cose trattate, il cardinale di Roano ad Agunod terra
della Germania inferiore; nella quale, occupata nuovamente al conte
palatino, l'aspettavano Cesare e l'arciduca. Alla venuta del quale
si publicorno e giurorno solennemente le convenzioni fatte, e il
cardinale pagò a Cesare la metà de' danari promessi per la
investitura, de' quali doveva ricevere l'altra metà come prima fusse
passato in Italia; e nondimeno e allora accennava e poco di poi
dichiarò non potervi passare, l'anno presente, per l'occupazioni che
avea nella Germania: onde tanto piú cessavano i sospetti delle
guerre, perché senza il re de' romani non avea il re di Francia
inclinazione a tentare cose nuove.
Rimanevano accesi solamente in Italia i travagli quasi perpetui tra
i fiorentini e i pisani. Tra' quali, procedendosi con guerra lunga
né a impresa alcuna determinata ma secondo l'occasioni che ora
all'una ora all'altra parte si dimostravano, accadde che uscí di
Cascina, nella qual terra i fiorentini facevano la sedia della
guerra, Luca Savello e alcun'altri condottieri e conestabili de'
fiorentini, con quattrocento cavalli e con molti fanti, per condurre
vettovaglie a Librafatta e per andare a predare certe bestie de'
pisani che erano di là dal fiume del Serchio in sul lucchese; non
tanto per la cupidità della preda quanto per desiderio di tirare i
pisani a combattere, confidandosi, per essere piú forti di loro in
campagna, di rompergli: e avendo messe le vettovaglie in Librafatta
e fatta la preda disegnata, ritornavano indietro lentamente per la
medesima via, per dare tempo a' pisani di venire ad assaltargli.
Uscí, ricevuto avviso della preda fatta, subito di Pisa Tarlatino
capitano della guerra ma, per la prestezza del muoversi, con non piú
che con quindici uomini d'arme quaranta cavalli leggieri e sessanta
fanti, dato ordine che gli altri lo seguitassino; e avendo notizia
che alcuni de' cavalli de' fiorentini erano corsi insino a San
Iacopo appresso a Pisa andò verso loro: i quali si ritirorono per
unirsi con l'altre genti le quali si erano fermate al ponte a
Cappellese in sul fiume dell'Osole, vicino a Pisa a [tre] miglia,
aspettando quivi le bestie predate e i muli co' quali aveano
condotta la vettovaglia, che venivano dietro; ed essendo tutti di là
dal ponte, il quale i primi fanti aveano occupato e muniti gli
argini e i fossi. Aveagli Tarlatino seguitati insino appresso al
ponte, né si accorse prima essersi fermate in quel luogo tutte le
genti degli inimici che era condotto tanto innanzi che senza
manifesto pericolo non poteva tornare indietro. [Però] deliberò di
assaltare il ponte; dimostrato a' suoi che quello a che la necessità
gli costrigneva non era senza speranza grande di potere vincere:
perché nel luogo stretto ove pochi potevano combattere non poteva
loro nuocere il numero maggiore degli inimici, in modo che quando
bene non potessino passare il ponte, si difenderebbono facilmente
tanto che sarebbe a tempo di soccorrergli il popolo di Pisa, il
quale avea mandato a sollecitare; ma che passando il ponte sarebbe
facilissima la vittoria, perché, essendo stretta la strada di là dal
fiume che corre tra 'l ponte e il monte, la moltitudine degli
inimici interrotta da' somieri e dalle bestie predate si
disordinerebbe agevolmente da se medesima, ridotta in luogo impedito
e a combattere e a fuggire. Succederono i fatti secondo le parole.
Egli primo, spronato furiosamente il cavallo, assaltò il ponte, ma
costretto a discostarsi, fece un altro il medesimo e dipoi il terzo;
al quale essendo stato ferito il cavallo, il capitano ritornato con
impeto grande ad aiutarlo passò, con la forza dell'armi e con la
ferocia del cavallo, di là dal ponte, dandogli luogo i fanti che lo
difendevano. Feciono il medesimo quattro altri de' suoi cavalli. I
quali tutti mentre che di là dal ponte combattono co' fanti degli
inimici in uno stretto prato, alcuni fanti de' pisani passato il
fiume con l'acqua insino alle spalle, e da altra parte passando per
il ponte, già abbandonato, senza ostacolo i cavalli, e cominciando a
giugnere l'altra gente che sparsa e senza ordine veniva da Pisa, ed
essendo i soldati de' fiorentini ridotti in luogo stretto e confusi
tra loro medesimi e ripieni di grandissima viltà (piú ancora gli
uomini d'arme che i fanti), né avendo capitano di autorità che gli
ritenesse o riordinasse, si messono in manifesta fuga, lasciando la
vittoria quegli che molto piú potenti di forze camminavano
ordinatamente in battaglia a quegli che in pochissimo numero erano
venuti alla sfilata, con intenzione piú presto di appresentarsi che
di combattere; restando tra morti presi e feriti molti capitani di
fanti e persone di condizione: e quegli che fuggirono furono la piú
parte svaligiati nella fuga da' contadini del paese di Lucca.
Disordinoronsi per questa rotta molto nel contado di Pisa le cose
de' fiorentini; perché essendo rimasti in Cascina pochi cavalli non
potettono proibire per molti dí che i pisani insuperbiti per la
vittoria non corressino e predassino tutto il paese. E quello che
importò piú, entrato per questo caso Pandolfo Petrucci in isperanza
che facilmente si potesse interrompere che i fiorentini non dessino
quella state il guasto a' pisani, i quali combattendo con le solite
difficoltà erano, benché molto parcamente, aiutati da' genovesi e
da' lucchesi, perché i sanesi somministravano loro piú consigli che
danari o vettovaglie, procurò che Giampaolo Baglioni, del quale i
fiorentini per essere stati causa principale del suo ritorno in
Perugia confidavano molto, durante la condotta sua recusò di
continuare ne' soldi loro, allegando che essendo a' medesimi
stipendi Marcantonio e Muzio Colonna, e Luca e Iacopo Savello, che
tutti insieme aveano maggiore numero di soldati che non avea egli,
non vi stava senza pericolo per la diversità delle fazioni: e perché
avessino piú breve spazio di tempo a provedersi ritardò quanto
potette prima che totalmente scoprisse il suo pensiero. E perché
alla escusazione sua fusse prestata maggiore fede, promesse a'
fiorentini di non pigliare l'armi contro a loro: di che perché
fussino meglio sicuri lasciò, come per pegno, a' soldi loro
Malatesta suo figliuolo di molto tenera età, con quindici uomini
d'arme. Egli, per non rimanere del tutto senza condotta, si condusse
con settanta uomini d'arme co' sanesi: i quali perché erano inabili
a sopportare tanta spesa, i lucchesi partecipi di questo consiglio
soldorno con settanta uomini d'arme Troilo Savello, soldato prima
de' sanesi.
Lib.6, cap.14
Timori de' fiorentini per accordi fra Pandolfo Petrucci Giampaolo
Baglione e Bartolomeo d'Alviano. I fiorentini ricorrono al re di
Francia, che pone condizioni troppo gravose. Il gran capitano ordina
di non offendere i fiorentini. L'Alviano contro i fiorentini. I
fiorentini comandati da Ercole Bentivoglio sconfiggono le genti
dell'Alviano.
Per la partita improvisa di Giampaolo e per il danno ricevuto al
ponte a Cappellese, i fiorentini, rimasti con poca gente, non
dettono per quello anno il guasto a' pisani: anzi erano necessitati
a pensare rimedio a maggiori pericoli. Perché essendosi svegliato in
Pandolfo e in Giampaolo l'antico umore, trattavano secretamente col
cardinale de' Medici di turbare lo stato de' fiorentini; facendo il
fondamento principale in Bartolomeo d'Alviano, il quale
dimostrandosi discorde col gran capitano, venuto in terra di Roma,
riduceva a sé con varie speranze e promesse molti soldati. I quali
consigli si dubitava non penetrassino insino al cardinale Ascanio,
con ordine, succedendo felicemente le cose di Toscana, di assaltare,
con le forze unite de' fiorentini e degli altri che assentivano a
questo movimento, il ducato di Milano, sperando che assaltato
facesse facilmente mutazione, per le poche genti d'arme che vi erano
de' franzesi, perché fuora erano moltissimi nobili, per la
inclinazione de' popoli al nome sforzesco, e perché il re di
Francia, essendosi per grave infermità sopravenutagli ridotto tanto
allo stremo che per molte ore fu disperata totalmente la sua salute,
se bene dipoi si fusse alquanto discostato dal punto della morte,
pareva in modo condizionato che poco si sperava della sua vita. E
quegli che consideravano piú intrinsecamente sospettavano che
Ascanio, il quale era in questi tempi frequentato molto in Roma
dallo oratore viniziano, avesse occulta intelligenza non solo col
gran capitano ma ancora co' viniziani; i quali sarebbono stati piú
pronti che per il passato e con maggiore confidenza all'offesa de'
franzesi, perché il re di Francia, essendo venuto in nuovi sospetti
e diffidenze col re de' romani e col figliuolo, e considerando, dopo
la morte della reina di Spagna, quanta sarebbe la grandezza
dell'arciduca, alienatosi apertamente da loro, aiutava contro
all'arciduca il duca di Ghelleri acerrimo inimico suo, e inclinava a
fare particolare intelligenza col re di Spagna. Ma (come sono
fallaci i pensieri degli uomini e caduche le speranze) mentre che
tali cose si trattano, il re di Francia del quale era quasi
disperata la vita andava continuamente recuperando la salute, e
Ascanio morí all'improviso di peste in Roma. Per la morte del quale
essendo cessato il pericolo dello stato di Milano, non si
interroppono perciò del tutto i disegni del molestare i fiorentini:
per i quali si convennono insieme al Piegai, castello tra i confini
de' perugini e de' sanesi, Pandolfo Petrucci Giampaolo Baglione e
Bartolomeo d'Alviano, non piú con speranza di essere potenti a
rimettere i Medici in Firenze ma perché l'Alviano, entrando in Pisa
con volontà de' pisani, molestasse per sicurtà di quella città i
confini de' fiorentini; con intenzione di procedere piú oltre
secondo l'opportunità dell'occasioni. Le quali preparazioni
cominciando a venire a luce, temevano i fiorentini della volontà del
gran capitano, essendo certi che la condotta dell'Alviano col re di
Spagna continuava insino al novembre prossimo, e perché non si
credeva che senza suo consentimento Pandolfo Petrucci tentasse cose
nuove; il quale, non avendo mai voluto pagare i danari promessi al
re di Francia e circonvenutolo spesso con varie arti, totalmente dal
re di Spagna dependeva. E accrebbe il sospetto de' fiorentini, che
temendo il signore di Piombino, il quale era sotto la protezione del
re di Spagna, di non essere assaltato da' genovesi, Consalvo, per
sicurtà sua avea mandato a Piombino, sotto Nugno del Campo, mille
fanti spagnuoli, e nel canale tre navi due galee e alcuni altri
legni; le quali forze condotte in luogo tanto vicino a' fiorentini
davano loro causa di temere che non si unissino con l'Alviano, come
esso affermava essergli stato promesso. Ma la verità era che, avendo
il re di Spagna dopo la tregua fatta col re di Francia, per
diminuire le spese, commesso, insieme con la limitazione delle
condotte degli altri, che la ricondotta dell'Alviano si riducesse a
cento lancie, egli sdegnato non solo negava di ricondursi ma
affermava essere libero dalla condotta prima, perché non gli erano
pagati gli stipendi corsi e perché il gran capitano avea ricusato di
osservargli la promessa fatta di concedergli, dopo la vittoria di
Napoli, dumila fanti per usargli contro a' fiorentini in favore de'
Medici. Ed era naturalmente il cervello dell'Alviano cupido di cose
nuove e impaziente della quiete.
Ricercorono i fiorentini, per difendersi da questo assalto, il re di
Francia, obligato per i capitoli della protezione a difendergli con
quattrocento lancie, che ne mandasse dugento in aiuto loro; il
quale, mosso piú dalla cupidità de' danari che da' prieghi o dalla
compassione degli antichi collegati, rispose non volere dare loro
soccorso alcuno se prima non gli numeravano trentamila ducati
dovutigli per l'obligo della protezione; e benché i fiorentini,
allegando essere aggravati da infinite spese necessarie alla loro
difesa, lo supplicassino di alcuna dilazione, perseverò
ostinatamente nella medesima sentenza: di maniera che piú giovò alla
salute loro chi era sospetto e ingiuriato che chi era confidente e
beneficato. Conciossiaché 'l gran capitano, desideroso che non si
turbasse la quiete d'Italia, o per non interrompere le pratiche
della pace cominciate di nuovo tra i due re o perché già, per
l'occasione della morte della reina e i semi della discordia futura
tra il suocero e il genero, avesse qualche pensiero d'appropriarsi
il reame di Napoli, non solo faceva ogni diligenza per indurre
l'Alviano alla ricondotta (il quale, per comandamento avuto dal papa
che o licenziasse le genti o uscisse del territorio della Chiesa,
era venuto a Pitigliano) ma gli aveva, come a feudatario e come a
soldato del suo re, comandato che non procedesse piú innanzi, sotto
pena di privazione degli stati che aveva nel reame, d'entrata di
settemila ducati; e a' pisani, ricevuti non molto prima da lui
secretamente nella protezione del suo re, e al signore di Piombino
aveva significato che non lo ricevessino; e offerto a' fiorentini
essere contento che usassino per la difesa loro i fanti suoi che
erano in Piombino, i quali voleva che stessino sotto l'ubbidienza di
Marcantonio Colonna loro condottiere. Ricercò similmente Pandolfo
Petrucci che non fomentasse l'Alviano, e proibí a Lodovico,
figliuolo del conte di Pitigliano, a Francesco Orsino e a Giovanni
da Ceri suoi soldati che non lo seguitassino.
E nondimeno l'Alviano, con cui erano Gianluigi Vitello Giancurrado
Orsino trecento uomini d'arme e cinquecento fanti venturieri,
procedendo, benché lentamente, sempre innanzi e avendo vettovaglia
dai sanesi, era per la Maremma de' sanesi venuto nel piano di
Scarlino, terra sottoposta a Piombino, presso a una piccola giornata
a' confini de' fiorentini, dove gli sopragiunse un uomo mandato dal
gran capitano a comandargli di nuovo che non andasse a Pisa e non
offendesse i fiorentini: al quale avendo replicato che era libero di
se medesimo poiché il gran capitano non gli avea osservato le cose
promesse, andò ad alloggiare appresso a Campiglia, terra de'
fiorentini; ove si fece leggiera scaramuccia tra lui e le genti de'
fiorentini che facevano la massa a Bibbona. Venne poi in su la
Cornia, tra' confini de' fiorentini e di Sughereto; ma con disegni e
speranze molto incerte, rappresentandosegli a ogn'ora maggiore
difficoltà: perché né da Piombino aveva piú vettovaglie, né gli
mandavano fanti, secondo la intenzione che gli era stata data,
Giampagolo Baglione e i Vitelli, le deliberazioni de' quali si
accomodavano volentieri agli esiti delle cose; vedeva ritenersi
Pandolfo Petrucci da favorire come prima le cose sue, né era bene
certo che i pisani per non disubbidire al gran capitano volessino
riceverlo: per le quali cagioni, e perché continuamente si trattava
la ricondotta sua, ma con maggiore speranza perché non ricusava piú
di stare contento alle cento lancie, si ritirò al Vignale, terra del
signore di Piombino, dando nome di aspettarne da Napoli l'ultima
determinazione. Ma avuto in questo tempo da' pisani il consentimento
di riceverlo in Pisa, partitosi dal Vignale, dove era stato
alloggiato dieci dí, la mattina de' diciassette d'agosto si scoperse
con l'esercito in battaglia alle Caldane, un miglio sotto a
Campiglia, con intenzione di combattere quivi con l'esercito
fiorentino, il quale vi era andato ad alloggiare il dí davanti, ma
era accaduto che avendo per spie venute del campo suo presentito
qualche cosa della sua mossa s'era la notte medesima ritirato alle
mura di Campiglia: ove conoscendo l'Alviano non gli potere assaltare
senza disavvantaggio grande, si voltò al cammino di Pisa per la
strada della Torre a San Vincenzio, che è distante da Campiglia
cinque miglia. Da altra parte le genti de' fiorentini, governate da
Ercole Bentivoglio, il quale, come era peritissimo del paese, non
desiderava per l'opportunità del sito altro che di fare la giornata
seco in quello luogo, si dirizzorono per la via che va da Campiglia
alla Torre medesima di San Vincenzio; avendo fatto due parti de'
cavalli leggieri, l'una delle quali seguitava l'esercito
dell'Alviano molestandolo continuamente alla coda, l'altra andava
innanzi a incontrare gli inimici per la via medesima, per la quale
veniva dietro l'esercito fiorentino: e questi, arrivati alla Torre
innanzi che vi arrivassino le genti dello Alviano e attaccatisi con
quegli che venivano innanzi, da' quali essendo facilmente ributtati,
si andorono ritirando alla volta dello esercito, che era già presso
a mezzo miglio. Ove fatta relazione che la piú parte degli inimici
era già passata la Torre, Ercole, camminando lentamente, si condusse
appunto alla coda loro nella rovina di San Vincenzio, dove avevano
fatto testa gli uomini d'arme e i fanti loro, e come fu in sul piano
del passo, investitigli quivi per fianco valorosamente con la metà
dello esercito, poiché ebbe combattuto per buono spazio, gli piegò:
nel quale primo assalto fu in modo rotta la fanteria loro e spinta
insino al mare che mai piú rifece testa. Ma la cavalleria che si era
ritirata una arcata, passato il fosso di San Vincenzio verso
Bibbona, rifatta testa e ristrettasi, assaltò con grande impeto le
genti de' fiorentini e le ributtò ferocemente insino al fosso: però
Ercole tirò innanzi il resto delle genti, e ridotto quivi da ogni
banda tutto il nervo dello esercito si combatté per grande spazio
ferocemente, non inclinando ancora la vittoria a parte alcuna;
sforzandosi l'Alviano, che facendo officio non manco di soldato che
di capitano aveva avuto con uno stocco due ferite nella faccia, di
spuntare da quel passo gl'inimici, il che succedendogli sarebbe
restato vincitore. Ma Ercole, che piú dí innanzi aveva affermato che
se la battaglia si conduceva in quel luogo otterrebbe con industria
e senza pericolo la vittoria, fece piantare in su la ripa del fosso
della Torre sei falconetti che conduceva seco; co' quali avendo
cominciato a battere gli inimici, e vedendo che per l'impeto delle
artiglierie cominciavano già ad aprirsi e disordinarsi, intento a
questa occasione in su la quale s'aveva sempre promessa la vittoria,
gli investí con grande impeto da piú parti con tutte le forze dello
esercito, cioè co' cavalli leggieri per la via della marina, con le
genti d'arme per la strada maestra e con la fanteria dal lato di
sopra per il bosco; col quale impeto senza alcuna difficoltà gli
ruppe e messe in fuga, salvandosi l'Alviano, non senza fatica con
pochissimi cavalli corridori, co' quali fuggí a Monteritondo in quel
di Siena: il resto della sua gente, da San Vincenzio insino in sul
fiume della Cecina, quasi tutta fu presa e svaligiata; perdute tutte
le bandiere e salvatisi pochissimi cavalli.
Lib.6, cap.15
Dopo vivi contrasti, a Firenze si delibera di porre il campo a Pisa.
Fallimento dell'impresa per la debolezza delle milizie; i fiorentini
levano il campo da Pisa.
Questo esito ebbe il movimento di Bartolomeo d'Alviano, stato piú
negli occhi degli uomini per le sue lunghe pratiche e per la
iattanza delle sue parole piene di ferocia e di minaccie che per
forze o fondamento stabile che avesse la impresa sua. Da questa
vittoria preso animo Ercole Bentivoglio e Antonio Giacomini,
commissario del campo, confortorono con veementi lettere e spessi
messi i fiorentini che l'esercito vincitore si accostasse alle mura
di Pisa, fatte prima con piú prestezza fusse possibile le provisioni
necessarie per espugnarla; sperando che, per trovarsi in molte
difficoltà ed essere mancata loro la speranza della venuta
dell'Alviano, e come pare che ogni cosa ceda alla riputazione della
vittoria, avesse con non molta difficoltà a ottenersi: nella quale
speranza gli nutriva molto qualche intelligenza che avevano in Pisa
con alcuni. Ma in Firenze, dimandando il magistrato de' dieci,
magistrato proposto alle cose della guerra, consiglio di quello
fusse da fare a quegli cittadini co' quali erano consueti di
consultare le faccende importanti, fu dannata unitamente da tutti
questa deliberazione; perché presupponevano che ne' pisani fusse la
consueta durezza, e che essendo esperimentati tanti anni nella
guerra non bastasse a superargli il nome e la reputazione della
vittoria avuta contro ad altri, per la quale non erano in parte
alcuna diminuite le forze loro, ma bisognasse vincergli, come in
ogni altro tempo, con le forze, delle quali solamente temono gli
uomini bellicosi: e questo apparire pieno di molte difficoltà.
Perché essendo la città di Pisa circondata, quanto altra città
d'Italia, da solidissime muraglie, e bene riparata e fortificata e
difesa da uomini valorosi e ostinati, non si poteva sperare di
sforzarla se non con grosso esercito e con soldati che non fussino
inferiori di virtú e di valore; il quale anche non sarebbe bastante
a vincerla d'assalto o con breve oppugnazione, ma che sarebbe
necessitato di starvi intorno molti dí, per accostarsi sicuramente e
col prendere de' vantaggi, e quasi piú presto straccandogli che
sforzandogli. Repugnare a queste cose la stagione dell'anno, perché
né si poteva con prestezza mettere insieme altro che fanteria
tumultuaria e collettizia, né accostarvisi con intenzione di
fermarsi molto, per la inclemenza dell'aria corrotta da' venti del
mare, che diventano pestiferi per i vapori degli stagni e delle
paludi, e perniciosa agli eserciti, come era accaduto quando fu
campeggiata da Paolo Vitelli; e perché il paese di Pisa comincia
insino di settembre a essere sottoposto alle pioggie, dalle quali
per la bassezza sua è soprafatto tanto che in quel tempo
difficilmente vi si sta intorno. Né in tanta ostinazione universale
potersi fare fondamento in trattati o intelligenze particolari,
perché o riuscirebbono cose simulate o maneggiate da persone che non
arebbono facoltà d'eseguire quello che promettessino. Aggiugnersi
che benché al gran capitano non fusse stata data la fede publica,
nondimeno avergli pure Prospero Colonna, benché come da sé, quasi
con tacito consentimento loro, dato intenzione che per questo anno
non si andrebbe con artiglieria alle mura di Pisa; e però aversi a
tenere per certo che, commosso da questo sdegno e per le promissioni
fatte molte volte a' pisani e perché alle cose sue non espediva
questo successo de' fiorentini, si opporrebbe a questa impresa; e
avere modo facile di impedirla, potendo in poche ore mettere in Pisa
quegli fanti spagnuoli che erano in Piombino, come molte volte avea
affermato che farebbe quando si tentasse di espugnarla. Essere piú
utile usare l'occasione della vittoria dove, se bene il frutto fusse
minore, la facilità senza comparazione fusse maggiore, né perciò non
senza notabile profitto. Nessuno essersi piú opposto e opporsi
continuamente a' disegni loro, nessuno avere piú impedito la
recuperazione di Pisa, nessuno piú procurato di alterare il presente
governo, che Pandolfo Petrucci; egli avere confortato il Valentino a
entrare armato nel dominio fiorentino, egli essere stato principale
consultore e guida dello assalto di Vitellozzo e della rebellione
d'Arezzo, essersi mediante i suoi consigli congiunti con lo stato di
Siena i genovesi e i lucchesi a sostentare i pisani, egli avere
indotto Consalvo a pigliare la protezione di Piombino e a
intromettersi di Pisa e a ingerirsi nelle cose di Toscana; e chi
altri essere stato stimolatore e fautore di questo moto
dell'Alviano? Doversi voltare l'esercito contro a lui, predare e
scorrere tutto il contado di Siena, dove non si farebbe resistenza
alcuna: potere succedere, con la reputazione dell'armi loro contro a
lui, qualche movimento nella città, dove aveva molti inimici; e
almeno non essere per mancare occasione di occupare qualche castello
importante in quel contado, da tenerlo come per cambio e per pegno
di riavere Montepulciano; e quello che non avevano fatto i benefici
potersi sperare che facesse questo risentimento, di farlo per lo
avvenire procedere con maggiore circospezione all'offese loro.
Doversi nel medesimo modo correre poi il paese de' lucchesi, co'
quali essere stato pernicioso usare tanti rispetti. Cosí potersi
sperare di trarre della vittoria acquistata onore e frutto, ma
andando all'oppugnazione di Pisa non si conoscere altro fine che
spesa e disonore. Le quali ragioni allegate concordemente non
raffreddorno però lo ardore che aveva il popolo (che si governa
spesso piú con l'appetito che con la ragione) che vi si andasse a
porre il campo; accecato anche da quella opinione inveterata che a
molti de' cittadini principali, per fini ambiziosi, non piacesse la
recuperazione di Pisa. Nella quale sentenza essendo non meno caldo
di tutti gli altri Piero Soderini gonfaloniere, convocato il
consiglio grande del popolo, al quale non solevano referirsi queste
deliberazioni, dimandò se pareva loro che si andasse col campo a
Pisa: dove essendo co' voti quasi di tutti risposto che vi si
andasse, superata la prudenza dalla temerità, fu necessario che
l'autorità della parte migliore cedesse alla volontà della parte
maggiore. Però si attese a fare le provisioni con incredibile
celerità, desiderando prevenire non manco il soccorso del gran
capitano che i pericoli de' tempi piovosi.
Con la quale celerità, il sesto dí di settembre, si accostò
l'esercito con seicento uomini d'arme e settemila fanti sedici
cannoni e molte altre artiglierie alle mura di Pisa, ponendosi tra
Santa Croce e Santo Michele, nel luogo medesimo dove già si pose il
campo de' franzesi; e avendo la notte seguente piantate
prestissimamente le artiglierie, batterono il prossimo dí con impeto
grande dalla porta di Calci insino al torrone di San Francesco dove
le mura fanno dentro uno angolo: e avendo, da levata di sole, al
quale tempo cominciorno a tirare l'artiglierie, insino a venti una
ora rovinate piú di trenta braccia di muraglia, si fece dove era
rovinato una grossa scaramuccia, ma con poco profitto, per non
essere tanto spazio di muro in terra quanto sarebbe stato necessario
a una terra dove gli uomini si erano presentati alla difesa col
consueto animo e valore. Però la mattina seguente, per avere piú
muro aperto, si cominciò un'altra batteria in luogo poco distante,
restando in mezzo dell'una e dell'altra batteria quella parte della
muraglia che già era stata battuta da' franzesi; e gittato in terra
tanto muro quanto parve che fusse abbastanza, volle Ercole spingere
le fanterie, che erano ordinate in battaglia, a dare gagliardamente
lo assalto all'una e l'altra parte del muro rovinato; ove i pisani,
lavorandovi, secondo il solito, con non minore animo le donne che
gli uomini, aveano, mentre si batteva, tirato uno riparo con uno
fosso innanzi. Ma non era nelle fanterie italiane, e raccolte
tumultuariamente, tanto animo e tanta virtú. Però, cominciando per
viltà a recusare di appresentarsi alla muraglia quello colonnello di
fanti a' quali, per sorte gittata tra loro, aspettava il primo
assalto, né l'autorità né i prieghi del capitano e del commissario
fiorentino, né il rispetto dell'onore proprio né dell'onore comune
della milizia italiana, furono bastanti a fargli andare innanzi.
L'esempio de' quali seguitando gli altri che avevano ad
appresentarsi dopo loro, si ritirorono le genti agli alloggiamenti:
non avendo fatto altro che, col farsi i fanti italiani infami per
tutta Europa, corrotta la felicità della vittoria ottenuta contro
all'Alviano, e annichilata la reputazione del capitano e del
commissario, che appresso a' fiorentini era grandissima, se contenti
della gloria acquistata avessino saputo moderare la prospera
fortuna. Ritirati agli alloggiamenti, non fu dubbia la deliberazione
del levare il campo; massime che il dí medesimo erano entrati in
Pisa, per comandamento avuto dal gran capitano, secento fanti
spagnuoli di quegli che erano a Piombino. Però il dí seguente
l'esercito fiorentino si ritirò a Cascina, con grandissimo disonore,
e pochi dí poi entrorno di nuovo in Pisa mille cinquecento fanti
spagnuoli; i quali, poiché non era necessario il presidio loro, dato
che ebbono per suggestione de' pisani uno assalto invano alla terra
di Bientina, continuorono la navigazione sua in Ispagna: dove erano
mandati dal gran capitano, perché già era fatta la pace tra il re di
Francia e Ferdinando re di Spagna.
Lib.6, cap.16
Matrimonio di Ferdinando d'Aragona con Germana di Fois e patti di
pace tra Ferdinando e il re di Francia. Ippolito d'Este fa levare
gli occhi al fratello naturale don Giulio per gelosia d'amore.
Alla quale, rimosse tutte le difficoltà che prima avevano impedito,
cioè il rispetto dell'onore del re di Francia e il timore di non
alienare da sé l'animo dell'arciduca, aveva trovato modo facile la
morte della reina di Spagna: perché e il re di Francia, essendogli
molestissima la troppa grandezza sua, era desideroso di
interrompergli i suoi disegni; e il re di Spagna, avendo notizia che
l'arciduca, disprezzando il testamento della suocera, aveva in animo
di rimuoverlo dal regno di Castiglia, era necessitato a fondarsi con
nuove congiunzioni. Però si contrasse matrimonio tra lui e madama
Germana di Fois, figliuola di una sorella del re di Francia, con
condizione che il re gli desse in dote la parte che gli toccava del
reame di Napoli; obligandosi il re di Spagna a pagargli in dieci
anni settecentomila ducati per ristoro delle spese fatte, e a dotare
in trecentomila ducati la nuova moglie. Col quale matrimonio essendo
accompagnata la pace, fu convenuto: che i baroni angioini e tutti
quegli che avevano seguitato la parte franzese fussino restituiti
senza pagamento alcuno alla libertà alla patria e a loro stati
degnità e beni, nel grado medesimo che si trovavano essere nel dí
che tra franzesi e spagnuoli fu dato principio alla guerra, che si
dichiarò essere stato il dí che i franzesi corsono alla Tripalda;
intendessinsi annullate tutte le confiscazioni fatte dal re di
Spagna e dal re Federigo: fusse liberato il principe di Rossano i
marchesi di Bitonto e di Giesualdo, Alfonso e Onorato Sanseverini e
tutti gli altri baroni che erano prigioni degli spagnuoli nel regno
di Napoli: che il re di Francia deponesse il titolo del regno di
Ierusalem e di Napoli: che gli omaggi e le recognizioni de' baroni
si facessino respettivamente alle convenzioni sopradette, e nel
medesimo modo si cercasse l'investitura dal pontefice; e morendo la
reina Germana in matrimonio senza figliuoli la parte sua dotale si
intendesse acquistata a Ferdinando, ma sopravivendo a lui ritornasse
alla corona di Francia: fusse obligato il re Ferdinando ad aiutare
Gastone conte di Fois, fratello della nuova moglie, al conquisto del
regno di Navarra quale pretendeva appartenersegli, posseduto con
titolo regio da Caterina di Fois e da Giovanni figliuolo di Alibret
suo marito: costrignesse il re di Francia la moglie vedova del re
Federigo a andare, con due figliuoli che erano appresso a sé, in
Spagna, dove gli sarebbe assegnato onesto modo di vivere; e non
volendo andarvi, la licenziasse del regno di Francia, non dando piú
né a lei né a' figliuoli provisione o intrattenimento alcuno:
proibito all'una parte e all'altra di fare contro a' nominati da
ciascuno di loro; i quali nominorono tutt'a due in Italia il
pontefice, e il re di Francia nominò i fiorentini: e, a
corroborazione della pace, che tra i due re si intendesse essere
perpetua confederazione a difesa degli stati; essendo tenuto il re
di Francia con mille lancie e con seimila fanti, e Ferdinando con
trecento lancie dumila giannettari e seimila fanti. Dopo la qual
pace fatta, della quale il re d'Inghilterra promesse per l'una parte
e per l'altra l'osservanza, i baroni angioini che erano in Francia,
licenziatisi dal re, il quale per la tenacità sua usò loro alla
partita piccoli segni di gratitudine, andorono quasi tutti con la
reina Germana in Spagna; e Isabella, stata moglie di Federigo,
licenziata del regno dal re di Francia perché ricusò di mettere i
figliuoli in potestà del re cattolico, se ne andò a Ferrara.
Nella quale città, essendo poco innanzi morto Ercole da Esti e
succedutogli nel ducato Alfonso suo figliuolo, accadde, alla fine
dell'anno, uno atto tragico simile a quegli degli antichi tebani, ma
per cagione piú leggiera, se piú leggiero è l'impeto sfrenato
dell'amore che l'ambizione ardente del regnare. Perché essendo
Ippolito da Esti cardinale innamorato ardentemente d'una giovane sua
congiunta, la quale con non minore ardore amava don Giulio fratello
naturale di Ippolito, e confessando ella medesima a Ippolito tirarla
sopra tutte l'altre cose a sí caldo amore la bellezza degli occhi di
don Giulio, il cardinale infuriato, aspettato il tempo comodo che
Giulio fusse a caccia fuora della città lo circondò in campagna, e
fattolo scendere da cavallo gli fece da alcuni suoi staffieri,
bastandogli l'animo a stare presente a tanta sceleratezza, cavare
gli occhi come concorrenti del suo amore: donde tra' fratelli poi
seguitorono gravissimi scandoli. Cosí si terminò l'anno mille
cinquecento cinque.
Lib.7, cap.1
Indizi di prossimi turbamenti della pace. Politica di accordi del
pontefice con la Francia e sua avversione al re ed al cardinale di
Roano.
Queste cose erano succedute l'anno mille cinquecento cinque; il
quale benché avesse lasciato speranza che la pace d'Italia, dappoi
che erano estinte le guerre nate per cagione del regno di Napoli,
s'avesse a continuare, nondimeno apparivano da altra parte semi non
piccoli di futuri incendi. Perché Filippo, che già si intitolava re
di Castiglia, non contento che quel regno fusse governato dal
suocero, incitato da molti baroni, si preparava a passare contro
alla volontà del suocero in Ispagna; pretendendo, come era
verissimo, non essere stato in potestà della reina morta prescrivere
leggi al governo del regno finita la sua vita: e il re de' romani,
preso animo dalla grandezza del figliuolo, trattava di passare in
Italia. E il re di Francia, se bene l'anno precedente si fusse
sdegnato col pontefice, perché avea senza sua partecipazione
conferiti i benefici vacati per la morte del cardinale Ascanio e
d'altri nel ducato di Milano e perché, avendo creato molti
cardinali, avesse recusato di creare insieme con gli altri il
vescovo di Aus nipote del cardinale di Roano e il vescovo di Baiosa
nipote del la Tramoglia, dimandati da lui con somma instanza (e
perciò avea fatto sequestrare i frutti de' benefici i quali il
cardinale di San Piero a Vincola e altri prelati grati al pontefice
possedevano nello stato di Milano), nondimeno, avendo da altra parte
cominciato a temere di Cesare e del figliuolo e perciò, desideroso
della amicizia del pontefice, rimessi i sequestri fatti, mandò nel
principio di questo anno il vescovo di Sisteron, nunzio apostolico
appresso a sé, a proporgli vari disegni e fare varie offerte contro
a' viniziani; contro a' quali sapeva perseverare la sua pessima
intenzione per il desiderio di recuperare le terre di Romagna, con
tutto che insino a quel dí fusse proceduto in tutte le cose con
tanta quiete che aveva suscitato negli uomini ammirazione non
mediocre che colui il quale, quando era cardinale, era sempre stato
pieno di pensieri vasti e smisurati, e che a tempo di Sisto e di
Innocenzio e poi di Alessandro pontefici era stato molte volte
instrumento di turbare Italia, avesse ora, promosso al pontificato,
sedia comunemente della ambizione e delle azioni inquiete, deposto
quegli spiriti sí ardenti, e dimenticatosi della grandezza
dell'animo della quale aveva sempre fatto ambiziosa professione, non
facesse, non che altro, segno di risentirsi delle ingiurie e di
essere simile a se medesimo.
Ma in Giulio era intenzione molto diversa; e deliberato di superare
l'espettazione conceputa, aveva atteso e attendeva, contro alla
consuetudine della sua pristina magnanimità, ad accumulare con ogni
studio somma grandissima di pecunia, acciò che alla volontà che
aveva di accendere guerra fusse aggiunto la facoltà e il nervo di
sostenerla: e trovandosi in questo tempo già non poco abbondante di
danari, cominciava a scoprire i suoi pensieri indiritti a cose
grandissime. Però, raccolto e udito molto lietamente il vescovo di
Sisteron, l'aveva espedito indietro con prontezza grande a trattare
nuovo restringimento tra loro: al quale, per disporre meglio l'animo
del re e del cardinale di Roano, promesse, per breve portato dal
medesimo Sisteron, la degnità del cardinalato a' vescovi di Aus e di
Baiosa. E nondimeno, in tanto ardore, si distraeva qualche volta
l'animo suo in vari scrupoli e difficoltà. Perché, o per odio che
occultamente avesse conceputo contro al re, nel tempo che fuggendo
l'insidie di Alessandro stette in Francia, o perché sommamente gli
dispiaceva l'essere quasi necessitato, per la potenza e per la
instanza del re, conservare nella legazione di Francia il cardinale
di Roano o perché avesse sospetto che il medesimo cardinale, gli
andamenti del quale manifestamente tendevano al pontificato,
impaziente d'aspettare la morte sua cercasse di conseguirlo per vie
estraordinarie, non era del tutto deliberato di congiugnersi col re
di Francia; senza la congiunzione del quale conosceva essere
impossibile che per allora gli succedesse cosa alcuna di momento.
Perciò da altra parte aveva mandato a Pisa Baldassarre Biascia
genovese, capitano delle sue galee, ad armare due galee sottili che
v'avea fatte fare Alessandro pontefice, per essere, secondo si
credeva, piú preparato, in caso che 'l re di Francia molestato
ancora non poco dalle reliquie della infermità morisse, a liberare
Genova dal dominio de' franzesi.
Lib.7, cap.2
Fortunoso viaggio dell'arciduca Filippo in Ispagna; suoi accordi con
Ferdinando d'Aragona. Progetto di Massimiliano di passare in Italia
per ricevere la corona imperiale. Massimiliano si porta a' confini
dell'Ungheria con speranze di successione per la malattia del re
Uladislao.
In questo stato adunque e in tanta sospensione delle cose, fu il
primo movimento dell'anno mille cinquecento sei la partita di
Fiandra del re Filippo per passare per mare in Spagna, con grande
armata. La quale andata per facilitare, temendo pure che 'l suocero
non gli facesse con gli aiuti del re di Francia resistenza, si era,
governandosi con l'arti spagnuole, convenuto con lui di rapportarsi
nella maggiore parte delle cose al suo governo: che avessino a
comune il titolo de' re di Spagna, come era stato comune tra lui e
la reina morta; e che l'entrate si dividessino in certo modo: per il
quale accordo il suocero, ancora che non bene sicuro
dell'osservanza, gli aveva mandato in Fiandra per levarlo molto
navi. Però imbarcato con la moglie e con Ferdinando suo
secondogenito, prese con venti prosperi il cammino di Spagna; i
quali essendo, in capo di due dí della sua navigazione, convertiti
in venti avversissimi, travagliata da grandissima fortuna l'armata
sua, dopo lunga resistenza fatta al furore del mare, si disperse in
varie parti della costa d'Inghilterra e di Brettagna: ed egli con
due o tre legni fu con grandissimo pericolo traportato in
Inghilterra, nel porto d'Antona: la quale cosa intesa da Enrico
settimo re di quella isola, che era a Londra, mandato subito molti
signori a riceverlo con grandissimo onore, lo ricercò venisse a
Londra; il che in potestà di Filippo, che si trovava quasi solo e
senza navi, non era di negare. Soprastette appresso a lui insino che
l'armata si riducesse insieme e riordinasse; e in questo mezzo fra
loro furno fatte nuove capitolazioni. E nondimeno Filippo trattato
in tutte l'altre cose come re fu in una sola trattato da prigione,
che ebbe a consentire di dare in mano a Enrico il duca di Sufforth
tenuto da lui nella rocca di Namur; il quale, perché pretendeva
ragione al regno d'Inghilterra, Enrico sommamente d'avere in sua
potestà desiderava: dettegli però la fede di non privarlo della
vita; donde, custodito in carcere mentre Enrico visse, fu dipoi, per
comandamento del figliuolo, decapitato. Passò dipoi Filippo con
navigazione piú felice in Ispagna; dove concorrendo a lui quasi
tutti i signori, il suocero, il quale per non essere da sé potente a
resistergli, e che non giudicava essere sicuro fondamento le
promesse de' franzesi, non aveva pensato mai ad altro che alla
concordia, rimanendo abbandonato quasi da tutti, né avendo se non
con molto tedio e difficoltà potuto avere il cospetto del genero,
bisognò che cedesse alle condizioni che, sprezzato il primo accordo
fatto tra loro, gli furono date: benché in questo non si procedé
rigidamente, per la benignità della natura di Filippo e molto piú
per i conforti di coloro che si erano dimostrati acerbissimi inimici
a Ferdinando, perché dubitando continuamente che egli, con la
prudenza e con l'autorità sua, non ripigliasse fede appresso al
genero, sollecitavano quanto potevano la partita sua di Castiglia.
Fu convenuto che Ferdinando, cedendo alla governazione lasciatagli
per testamento dalla moglie e a tutto quello che perciò potesse
pretendere, si partisse incontinente di Castiglia, promettendo di
piú non vi tornare: che Ferdinando avesse proprio il regno di
Napoli; non ostante che, con la medesima ragione con la quale era
solito pretendere a quel reame allegando essere stato acquistato con
l'armi e con le forze di Aragona, non mancasse chi mettesse in
considerazione, e forse piú giustamente, appartenersi a Filippo per
essere stato acquistato con l'armi e con la potenza del regno di
Castiglia: furongli riservati i proventi dell'isole dell'India
durante la sua vita, e i tre maestralghi di Santo Iacopo, Alcantara
e Calatrava, e che delle entrate del regno di Castiglia avesse
ciascuno anno venticinquemila ducati. La quale capitolazione fatta,
Ferdinando, che da qui innanzi chiameremo o re cattolico o re di
Aragona, se ne andò subito in Aragona, con intenzione di andarne,
quanto piú prestamente potesse, per mare a Napoli; non tanto per
desiderio di vedere quel regno e riordinarlo quanto per rimuoverne
il gran capitano, del quale dopo la morte della reina aveva piú
volte sospettato che non pensasse a trasferire quel regno in sé
proprio o fusse piú inclinato a darlo a Filippo che a lui: e
avendolo richiamato in Spagna invano, ed egli con varie scuse e
impedimenti differita l'andata, dubitava, non vi andando in persona,
avere difficoltà di levargli il governo, non ostante che, fatto
l'accordo, il re Filippo gli facesse intendere che aveva totalmente
a ubbidire al re d'Aragona.
Nel quale tempo erano nel petto del re di Francia, sollevato già
molto della sua infermità, vari anzi contrari pensieri: inclinazione
contro a' viniziani, per lo sdegno conceputo nel tempo della guerra
di Napoli, per il desiderio di recuperare le appartenenze antiche
dello stato di Milano e per giudicare che per molti accidenti gli
potesse essere a qualche tempo pericolosa la loro potenza; la quale
cagione trall'altre l'avea indotto a confederarsi col re de' romani
e con Filippo suo figliuolo: da altra parte non gli era grata la
passata di quel re in Italia, il quale si intendeva già che si
preparava a passare con forze grandi; perché ne temeva piú che 'l
solito, per la potenza che cresceva in Filippo successore di tanta
grandezza, e dubitandosi che quando fu in Inghilterra avesse fatto
con quel re nuove e strette congiunzioni; e perché era cessata, per
la pace fatta col re cattolico (per la quale aveva deposto i
pensieri del regno di Napoli) una delle cagioni principali per le
quali si era confederato con loro. Nella quale varietà e
fluttuazione di animo mentre stava vennono a lui imbasciadori di
Massimiliano a significargli la deliberazione sua del passare in
Italia e ricercarlo mettesse in ordine le cinquecento lancie che
aveva promesso dare in suo favore, restituisse secondo la promessa
fatta i fuorusciti dello stato di Milano, e a pregarlo anticipasse
il pagamento de' danari che se gli dovevano pochi mesi poi: alle
quali dimande ancorché il re non fusse inclinato a consentire fece
dimostrazione di essere inclinato al contrario, non perciò se non a
quelle che allora non ricercavano altro che parole; perché dimostrò
desiderio grande che si mandassino a esecuzione le cose convenute,
offerendosi prontamente a adempiere al tempo tutto quello a che era
tenuto, ma negò con varie scuse l'anticipazione del pagamento. Da
altra parte il re de' romani, non confidando piú dell'animo del re
di Francia che 'l re si confidasse del suo, e desiderando con grande
ardore il passare a Roma principalmente per prendere la corona dello
imperio, per procurare poi l'elezione del figliuolo in re de'
romani, tentava nel tempo medesimo di pervenire con altri mezzi allo
intento suo. Perciò faceva instanza co' svizzeri di unirgli a sé; i
quali dopo molte dispute fatte tra loro determinorno osservare
l'accordo, che ancora durava col re di Francia per anni due; e a'
viniziani aveva dimandato il passo per le terre loro: a' quali
essendo molestissima la passata sua con esercito potente, dettono
animo a rispondergli generalmente l'offerte del re di Francia, che
gli confortò a apporsegli insieme con lui. E già il re,
dimostrandosi alieno apertamente dalla confederazione fatta con lui
e con Filippo, sposò Claudia sua figliuola a Francesco monsignore di
Angulem, al quale dopo la morte sua senza figliuoli maschi perveniva
la corona; simulando però farlo per i prieghi de' sudditi suoi,
avendo prima a questo effetto ordinato che tutti i parlamenti e
tutte le città principali del reame di Francia gli mandassino
imbasciadori a supplicarnelo come di cosa utilissima al regno,
poiché in lui mancava continuamente la speranza di procreare
figliuoli maschi: la quale cosa significò subito per imbasciadori
propri al re Filippo; escusandosi di non avere potuto repugnare al
desiderio sí efficace di tutto 'l regno e di tutti i popoli suoi.
Mandò ancora gente in aiuto al duca di Ghelleri contro a Filippo,
per divertire Massimiliano dal passare in Italia. Ma aveva già da se
medesimo interrotti questi pensieri; perché avendo inteso Uladislao
re di Ungheria essere oppresso da gravissima infermità si era
approssimato a' confini di quel regno, seguitando l'antico desiderio
paterno e suo di insignorirsene, per le ragioni le quali affermavano
d'avervi. Perché essendo morto moltissimi anni innanzi senza
figliuoli Ladislao re di Ungheria e di Boemia, figliuolo di Alberto,
che era stato fratello di Federigo imperadore, gli ungheri,
pretendendo che morto il suo re senza figliuoli non avesse luogo la
successione de' piú prossimi ma aspettasse a loro la elezione del
nuovo re, avevano eletto, per la memoria delle virtú paterne, per
loro re Mattia, quello che dipoi, con tanta gloria di regno sí
piccolo, molestò tante volte lo imperio potentissimo de' turchi. Il
quale, per fuggire nel principio del regno suo la guerra con
Federigo, si convenne seco di non pigliare moglie, acciò che dopo la
vita sua pervenisse quel reame a Federigo o a' figliuoli, il che
benché non osservasse, morí nondimeno senza figliuoli. Né per questo
adempié Federigo il desiderio suo, perché gli ungheri elessono in
nuovo re Uladislao re di Pollonia: donde essendo ricominciate nuove
guerre da Federigo e Massimiliano con loro, si erano finalmente
convenuti, e statone prestato solennemente giuramento da i baroni
del regno, che qualunque volta Uladislao morisse senza figliuoli
riceverebbono per re Massimiliano. Onde egli aspirando a questa
successione, intesa la infermità di Uladislao, si approssimò a'
confini della Ungheria, omettendo per allora i pensieri del passare
in Italia.
Lib.7, cap.3
Aspirazioni del pontefice al pieno dominio di Perugia e di Bologna.
Il re di Francia risponde favorevolmente alle richieste d'aiuto del
pontefice. Richiesta di Massimiliano ai veneziani di passare armato
per il loro territorio per recarsi a Roma, e risposta de' veneziani.
Accordi del pontefice con Giampaolo Baglione. Il pontefice a Imola.
I Bentivoglio abbandonano Bologna, ove entra il pontefice.
Le quali cose mentre che tra i príncipi oltramontani si trattano con
tanta varietà, il pontefice, conoscendosi inabile a offendere senza
gli aiuti del re di Francia i viniziani, né potendo piú tollerare di
consumare ignobilmente gli anni del suo pontificato, ricercò il re
che lo aiutasse a ridurre sotto l'ubbidienza della Chiesa le città
di Bologna e di Perugia; le quali, appartenendo per antichissime
ragioni alla sedia apostolica, erano tiranneggiate l'una da
Giampaolo Baglione l'altra da Giovanni Bentivoglio: i maggiori de'
quali, fattisi di privati cittadini capi di parte nelle discordie
civili, e cacciati o ammazzati gli avversari, erano diventati
assoluti padroni; né gli aveva ritardati a occupare il nome di
legittimi príncipi altro che il rispetto de' pontefici; i quali
nell'una e nell'altra città ritenevano poco piú che 'l nome nudo del
dominio, perché ne pigliavano certa parte benché piccola
dell'entrate, e tenevonvi governatori in nome della Chiesa i quali,
essendo la potenza e la deliberazione di tutte le cose importanti in
mano di coloro, vi erano quasi per ombra e per dimostrazione piú che
per effetti. Ma la città di Perugia, o per la vicinità sua a Roma o
per altre occasioni, era stata molto piú continuamente sottoposta
alla Chiesa. Perché la città di Bologna aveva nelle avversità de'
pontefici spesse volte variato, ora reggendosi in libertà ora
tiranneggiata da' suoi cittadini ora sottoposta a príncipi esterni
ora ridotta in assoluta subiezione de' pontefici, e ultimatamente
ritornata, a tempo di Niccolao quinto pontefice a ubbidienza della
Chiesa, ma con certe limitazioni e comunioni di autorità tra i
pontefici e loro, che restando in progresso di tempo il nome e le
dimostrazioni a' pontefici, l'effetto e la sostanza delle cose era
pervenuta in potestà de' Bentivogli. De' quali quel che al presente
reggeva, Giovanni, avendo a poco a poco tirato a sé ogni cosa, e
depresse quelle famiglie piú potenti che erano state favorevoli a'
maggiori suoi e a lui nel fondare e stabilire la tirannide, grave
ancora per quattro figliuoli che aveva, la insolenza e le spese de'
quali cominciavano a essere intollerabili, e però diventato odioso
quasi a tutti, lasciato piccolo luogo alla mansuetudine e alla
clemenza, conservava la sua potenza piú con la crudeltà e con l'armi
che colla mansuetudine e benignità. Incitava il pontefice a queste
imprese principalmente l'appetito della gloria, per la quale,
pretendendo colore di pietà e zelo di religione alla sua ambizione,
aveva in animo di restituire alla sedia apostolica tutto quello che
in qualunque modo si dicesse essergli stato usurpato; e lo moveva
piú particolarmente alla recuperazione di Bologna odio nuovo contro
a Giovanni Bentivoglio, perché essendosi, mentre non ardiva stare a
Roma, fermato a Cento terra del vescovado suo di Bologna, se n'ebbe
di notte subitamente a fuggire perché ebbe avviso (o vero o falso
che e fusse) che egli ordinava, a instanza del pontefice Alessandro,
di farlo prigione.
Fu grata molto al re questa richiesta del pontefice, parendogli
avere occasione di conservarselo benevolo, perché sapendo essergli
molto molesta la congiunzione sua co' viniziani cominciava a temere
non poco che egli non facesse qualche precipitazione; e già non era
senza sospetto che certa pratica tenuta da Ottaviano Fregoso per
privarlo del dominio di Genova fusse con sua partecipazione: e oltre
a questo riputava che il Bentivoglio, se bene fusse sotto la sua
protezione, avesse maggiore inclinazione a Cesare che a lui.
Aggiugnevasi lo sdegno suo contro a Giampaolo Baglione per avere
ricusato, ricevuti che ebbe quattordicimila ducati, di andare a
unirsi coll'esercito suo in sul fiume del Garigliano; e il desiderio
di offendere, con l'occasione di mandare genti in Toscana, Pandolfo
Petrucci, perché né gli aveva mai pagato i danari promessi, e si era
del tutto aderito alla fortuna degli spagnuoli. Però prontamente
offerse al papa di dargli aiuto; e all'incontro il papa gli dette
brevi del cardinalato d'Aus e di Baiosa, e facoltà di disporre de'
benefici del ducato di Milano, come già ebbe Francesco Sforza.
Le quali pratiche essendo conchiuse per mezzo del vescovo di
Sisteron, nuovamente promosso all'arcivescovado d'Ais, che per
questa cagione andò piú volte dall'uno all'altro di loro, nondimeno
non fu sí pronta la esecuzione. Perché avendo il pontefice differito
qualche mese a fare la impresa, accadde che Massimiliano, il quale,
avendo rotto guerra al re d'Ungheria, aveva allentato il pensiere di
passare in Italia, si pacificò di nuovo con lui, rinnovato il patto
della successione: e ritornò in Austria, facendo segni e apparati
che dimostravano volesse passare in Italia. Alla quale cosa
desiderando di non avere avversi i viniziani, mandò a Vinegia
quattro oratori a significare la deliberazione sua di andare a Roma
per la corona dello imperio; ricercandogli concedessino il passo a
lui e al suo esercito, offerendosi parato ad assicurargli di non
dare allo stato loro molestia alcuna, anzi desiderare di unirsi con
quella republica, potendosi facilmente trovare modo di unione, che
sarebbe non solo con sicurtà ma eziandio con augumento ed
esaltazione dell'una parte e dell'altra: volendo tacitamente
inferire che e' sarebbe utilità comune il congiugnersi insieme
contro al re di Francia. Alla quale esposizione, dopo lunga
consulta, fu fatto risposta con gratissime parole: dimostrando
quanto era grande il desiderio del senato viniziano di accostarsi
alla volontà sua, e sodisfargli in tutte le cose che potessino senza
grave loro pregiudicio; il quale in questo caso non poteva essere né
maggiore né piú evidente, conciossiaché Italia tutta, disperata per
tante calamità che aveva sopportate, stava molto sollevata al nome
della passata sua con esercito potente, con intenzione di pigliare
l'armi per non lasciare aprire la via a nuovi travagli; e il
medesimo era per fare il re di Francia per assicurare lo stato di
Milano. Dunque, il venire egli con esercito armato in Italia non
essere altro che cercare potentissima, opposizione, e con
grandissimo pericolo loro; contro a' quali si conciterebbe tutta
Italia, insieme con quel re, se gli consentissino il passo, come se
agl'interessi propri avessino posposto il beneficio comune. Essere
molto piú sicuro per tutti, e alla fine piú onorevole per lui,
venendo a uno atto pacifico e favorevole appresso a ciascuno,
passare in Italia disarmato; dove, dimostrando non meno benigna che
potente la maestà dello imperio, arebbe grandissimo favore da
ciascuno, sarebbe con somma gloria conservatore della tranquillità
d'Italia, andando a incoronarsi in quel modo che innanzi a lui era
andato a incoronarsi il padre suo e molti altri de' suoi
predecessori; e in tal caso il senato viniziano farebbe verso di lui
tutte quelle dimostrazioni e officii che egli medesimo sapesse
desiderare.
Queste preparazioni di armi, e queste cose che si trattavano per
Cesare, furono cagione che ricercando il pontefice, determinato di
fare di presente la impresa di Bologna, al re le genti promesse,
egli, parendogli non essere tempo da simili movimenti, lo confortava
amichevolmente a differire a tempo che per questo accidente non
s'avesse a commuovere tutta Italia; movendolo a questo eziandio il
sospetto che i viniziani non si sdegnassino, perché gli avevano
significato avere deliberato di pigliare l'armi per la difesa di
Bologna se il pontefice non cedeva prima loro le ragioni pertinenti
alla Chiesa in Faenza. Ma la natura del pontefice, impaziente e
precipitosa, cercò contra tutte le difficoltà e opposizioni, con
modi impetuosi, di conseguire il desiderio suo. Perché chiamati i
cardinali in concistoro, giustificata la causa che lo moveva a
desiderare di liberare da' tiranni le città di Bologna e di Perugia,
membri tanto nobili e tanto importanti a quella sedia, significò
volervi andare personalmente; affermando che oltre alle forze
proprie arebbe aiuto dal re di Francia da' fiorentini e da molti
altri d'Italia, né Dio giusto Signore essere per abbandonare chi
aiutava la Chiesa sua. La quale cosa significata in Francia parve
tanto ridicola al re (che il pontefice si promettesse, senza esserne
certificato altrimenti, l'aiuto delle sue genti) che ridendo sopra
la mensa, e volendo tassare la ebrietà sua nota a ciascuno, disse
che il papa la sera innanzi doveva essersi troppo riscaldato col
vino; non si accorgendo ancora che questa impetuosa deliberazione lo
costrigneva o a venire in manifesta controversia con lui o a
concedergli contro alla propria volontà le genti sue. Ma il papa,
non aspettata altra resoluzione, era con cinquecento uomini d'arme
uscito di Roma; e avendo mandato Antonio de Monte a significare a'
bolognesi la sua venuta, e a comandare che preparassino di riceverlo
e di alloggiare nel contado cinquecento lancie franzesi, procedeva
innanzi lentamente; avendo in animo di non passare Perugia se prima
non era certificato che le genti franzesi venissino in aiuto suo.
Della venuta del quale temendo Giampaolo Baglione, confortato dal
duca d'Urbino e da altri amici suoi, e sotto la fede ricevuta da
loro, andò a incontrarlo a Orvieto: dove, rimettendosi totalmente
alla volontà sua, fu ricevuto in grazia; avendogli promesso andare
seco in persona e menare cento cinquanta uomini d'arme, lasciargli
nelle mani le fortezze di Perugia e del perugino e la guardia della
città, e dando statichi per la osservanza due figliuoli al duca
d'Urbino.
Entrò in Perugia senza forze, e in modo che era in potestà di
Giampaolo di farlo prigione con tutta la corte, se avesse saputo
fare risonare per tutto il mondo, in cosa sí grande, quella perfidia
la quale aveva già infamato il nome suo in cose tanto minori. Udí in
Perugia il cardinale di Nerbona, venuto in nome del re di Francia a
confortarlo che differisse ad altro tempo la impresa, ed escusare
che, se bene il re desiderava mandargli le genti, non poteva, per i
sospetti grandi che aveva di Cesare, disarmare il ducato di Milano.
Della quale imbasciata commosso maravigliosamente, né mostrando per
questo di volere mutare sentenza, cominciò a soldare fanti e
accrescere tutte le provisioni: e nondimeno fu creduto da molti che,
attese le difficoltà che si dimostravano e la natura sua non
implacabile a chi gli cedeva, che se il Bentivoglio, che per suoi
imbasciadori aveva offerto di mandargli tutti a quattro i figliuoli
suoi, si fusse disposto ad andarvi come aveva fatto Giampaolo
personalmente, arebbe trovato qualche forma tollerabile alle cose
sue. In che mentre non si risolse per se stesso, o, secondo dicono
alcuni, mentre è tenuto sospeso dalla contradizione della moglie,
ebbe avviso che il re di Francia avea comandato a Ciamonte che
andasse personalmente in aiuto suo con cinquecento lancie: perché il
re, se bene, trovandosi allora il cardinale di Roano assente dalla
corte, fusse stato inclinato a non le concedere, nondimeno
confortato poi al contrario da lui, e considerando quanta offesa
sarebbe al papa il denegargli quel che non solo da principio gli
aveva promesso ma eziandio stimolato a volerlo usare, mutò sentenza;
indotto ancora a questo piú facilmente perché le dimostrazioni di
Massimiliano erano già, secondo la sua consuetudine, cominciate a
raffreddare, e il pontefice, per sodisfare in qualche parte al re,
era stato contento promettergli, benché non per scrittura ma con
semplici parole, che per causa delle terre di Romagna non
molesterebbe mai i viniziani. E nondimeno, non volendo astenersi da
dimostrare essergli fisso nell'animo questo desiderio, andando da
Perugia a Cesena prese la via de' monti; perché se fusse andato pel
piano era necessitato passare per quello di Rimini, che gli
occupavano i viniziani. A Cesena, ammoní sotto gravissime censure e
pene spirituali e temporali il Bentivoglio a partirsi di Bologna,
estendendole a chi aderisse o conversasse con lui; nel quale luogo
avendo avuto avviso Ciamonte essere in cammino con secento lancie e
tremila fanti, i quali si pagavano dal pontefice, ripieno di
maggiore animo continuò senza dilazione il cammino; e sfuggendo, per
la medesima cagione per la quale aveva sfuggito Arimini, di passare
per il territorio di Faenza, presa la via de' monti, benché
difficile e incomoda, per le terre possedute di là dallo Apennino
da' fiorentini, andò a Imola, dove si raccoglieva l'esercito suo:
nel quale, oltre a molti fanti che avea soldati, erano quattrocento
uomini d'arme agli stipendi suoi, Giampaolo Baglione con cento
cinquanta, cento prestatigli sotto Marcantonio Colonna da'
fiorentini, cento prestatigli dal duca di Ferrara, molti stradiotti
soldati nel regno di Napoli, e dugento cavalli leggieri menatigli
dal marchese di Mantova, deputato luogotenente dell'esercito.
Da altra parte in Bologna non avevano i Bentivogli cessato di fare
molte preparazioni, sperando se non di essere difesi almeno di non
essere offesi da' franzesi; perché il re, ricercato di sussidio da
loro secondo gli oblighi della protezione, aveva risposto non potere
opporsi con l'armi alle imprese del pontefice, ma che non darebbe
già né gente né aiuto contro a loro: donde si confidavano di potere
facilmente resistere all'esercito ecclesiastico. Ma mancò loro ogni
speranza per la venuta di Ciamonte; il quale benché per il cammino
avesse dato agli uomini loro varie risposte, nondimeno, il dí che
arrivò a Castelfranco nel bolognese, che fu il medesimo dí che 'l
marchese di Mantova con le genti del Pontefice occupò Castel San
Piero, mandò a significare a Giovanni Bentivogli che il re, non
volendo mancargli di quello a che era tenuto per i capitoli della
protezione, intendeva conservargli i beni suoi e operare che,
lasciando il governo della città alla Chiesa, potesse sicuramente
godendo i suoi beni abitare co' figliuoli in Bologna; ma questo, in
caso che infra tre dí avesse ubbidito a' comandamenti del pontefice.
Donde il Bentivoglio e i figliuoli, che prima con grandissime
minaccie avevano publicato per tutto di volersi difendere, caduti
interamente d'animo, e dimenticatisi della increpazione fatta a
Piero de' Medici che senza effusione di sangue si fusse fuggito di
Firenze, risposono volere rimettersi in arbitrio suo, supplicandolo
che fusse operatore che almanco ottenessino condizioni tollerabili.
Però egli, che era già venuto al Ponte al Reno vicino a Bologna a
tre miglia, interponendosi col pontefice, convenne che fusse lecito
a Giovanni Bentivogli e a' figliuoli e a Ginevra Sforza sua moglie
partirsi sicuramente da Bologna, e fermarsi in qualunque luogo
volessino del ducato di Milano; avessino facoltà di vendere o di
cavare di Bologna tutti i mobili loro, né fussino molestati ne' beni
immobili che con giusto titolo possedevano: le quali cose conchiuse
si partirono subito da Bologna, ottenuto da Ciamonte, al quale
dettono dodicimila ducati, amplissimo salvocondotto, con promessa
per scrittura di fargli osservare quanto si conteneva nella
protezione del re, e che potessino sicuramente abitare nello stato
di Milano. Partiti i Bentivogli, il popolo di Bologna mandò subito
oratori al pontefice a dargli liberamente la città né dimandare
altro che l'assoluzione delle censure, e che i franzesi non
entrassino in Bologna. I quali, mal pazienti di regola alcuna,
accostatisi alle mura, feciono forza d'entrare; ma essendo fatto
loro resistenza dal popolo si alloggiorono appresso alle mura tra le
porte di San Felice e di Saragosa, in sul canale il quale, derivato
dal fiume del Reno, passando per Bologna, conduce le navi al cammino
di Ferrara; non sapendo essere in potestà de' bolognesi con
l'abbassare, nel luogo ove l'acqua del canale entra nella città, una
graticola di ferro, inondare il paese circostante: il che avendo
fatto, il canale gonfiato d'acque inondò il luogo basso dove
alloggiavano i franzesi; i quali, lasciate nel fango le artiglierie
e molti carriaggi, si ritirorono tumultuosamente al Ponte al Reno,
dove stetteno insino all'entrata del pontefice in Bologna: il quale
con grandissima pompa e con tutte le cerimonie pontificali vi entrò
molto solennemente il dí dedicato a san Martino. Cosí con
grandissima felicità de' bolognesi venne in potestà della Chiesa la
città di Bologna, città numerata meritamente, per la frequenza del
popolo per la fertilità del territorio e per la opportunità del
sito, tra le piú preclare città d'Italia. Nella quale benché il
pontefice, costituiti i magistrati nuovi a esempio degli antichi,
riservasse in molte cose segni e imagine di libertà, nondimeno in
quanto allo effetto la sottomesse del tutto all'ubbidienza della
Chiesa: liberalissimo in questo che, concedendo molte esenzioni, si
sforzò, come medesimamente fece in tutte l'altre città, di fare il
popolo amatore del dominio ecclesiastico. A Ciamonte, che se ne
ritornò incontinente nel ducato di Milano, donò il pontefice
ottomila ducati per sé e diecimila per le genti, e gli confermò per
bolla la promessa fattagli prima di promuovere al cardinalato il
vescovo d'Albi suo fratello, e nondimeno, volto con tutto l'animo
alle offese de' viniziani, per lasciare piú stimoli al re di Francia
e al cardinale di Roano di sovvenirlo, non volle, secondo l'instanza
che gli era fatta e i brevi conceduti da sé, publicare allora
cardinali Aus e Baiosa.
Lib.7, cap.4
Venuta di Ferdinando d'Aragona in Italia. Morte dell'arciduca
Filippo. Concorrono ambasciatori di príncipi e di governi a Napoli
presso Ferdinando. Scoperta d'una congiura contro il duca di
Ferrara. Fuga del Valentino in Navarra e sua fine.
Passò in questo tempo per mare in Italia il re d'Aragona. Al quale,
innanzi si imbarcasse a Barzalona, venne un uomo del gran capitano a
offerirsegli pronto a riceverlo, e a esibirgli la ubbidienza: al
quale il re riconfermò non solo il ducato di Santo Angelo, il quale
gli aveva già donato il re Federigo, ma ancora tutti gli altri che,
per entrata di piú di ventimila ducati, possedeva nel reame di
Napoli. Confermogli l'offizio del gran conestabile del medesimo
regno, e gli promesse per cedola di sua mano il maestralgo di San
Iacopo. E però, con maggiore speranza imbarcatosi a Barzalona, e
onoratamente ricevuto per ordine del re di Francia, insieme con la
moglie, in tutti i porti di Provenza, fu col medesimo onore ricevuto
nel porto di Genova, dove lo aspettava il gran capitano andato, con
ammirazione di molti, a rincontrarlo; perché non solo negli uomini
volgari ma eziandio nel pontefice era stata opinione che egli,
conscio della inubbidienza passata e de' sospetti i quali il re,
forse non vanamente, aveva avuti di lui, fuggendo per timore il
cospetto suo, passerebbe in Ispagna. Partito da Genova, non volendo
con le galee sottili discostarsi da terra, stette piú giorni, per
non avere i venti prosperi, in Portofino; dove mentre dimora gli
sopragiunse avviso che il re Filippo suo genero, giovane d'anni e di
corpo robusto e sanissimo, nel fiore della sua età e costituito in
tanta felicità (dimostrandosi bene spesso maravigliosa la varietà
della fortuna), era, per febbre duratagli pochi dí, passato, nella
città di Burgus, all'altra vita: e nondimeno il re, che per molti si
credette che, per desiderio di ripigliare il governo di Castiglia,
volgesse subito le prue a Barzalona, continuando il cammino di
prima, entrò quel medesimo giorno nel porto di Gaeta che il
pontefice, andando a Bologna, era entrato in Imola. Onde condotto a
Napoli, fu ricevuto in quella città, assueta a vedere re aragonesi,
con grandissima magnificenza e onore, e con molto maggiore desiderio
ed espettazione di tutti; persuadendosi ciascuno che, per mano d'uno
re glorioso per tante vittorie avute contro agli infedeli e contro
a' cristiani, venerabile per opinione di prudenza, e del quale
risonava fama chiarissima che avesse con singolare giustizia e
tranquillità governato i reami suoi, dovesse il regno di Napoli,
ristorato di tanti affanni e oppressioni, ridursi in quieto stato e
molto felice, e reintegrarsi de' porti che, con dispiacere non
piccolo di tutto il reame, vi tenevano i viniziani. Concorsono a
Napoli prontamente oratori di tutta Italia, non solo per
congratularsi e onorare uno tanto principe ma eziandio per varie
pratiche e cagioni; persuadendosi ciascuno che con l'autorità e
prudenza sua avesse a dare forma e a essere il contrappeso di molte
cose. Però che e il pontefice, benché mal sodisfatto di lui perché
non aveva mai mandato imbasciadori a dargli secondo l'usanza comune
l'ubbidienza, cercava di incitarlo contro a viniziani, pensando che
per recuperare i porti della Puglia avesse desiderio della bassezza
loro: e i viniziani si ingegnavano di conservarselo amico; e i
fiorentini e gli altri popoli di Toscana trattavano diversamente con
lui per le cose di Pisa: molestate, questo anno, meno che il solito
dall'armi de' fiorentini, perché non aveano impedito le loro
ricolte, o stracchi dalle spese o perché la giudicassino per
l'esperienza degli anni passati cosa vana, sapendo che i genovesi e
i lucchesi si erano insieme per uno anno convenuti di sostentare con
spesa certa e determinata quella città. Alla qual cosa gli aveva
prima confortati Pandolfo Petrucci, offerendo che i sanesi farebbono
il medesimo; ma da altra parte, manifestando con la sua consueta
duplicità quel che si trattava a' fiorentini, ottenne da loro,
perché si separasse dagli altri, che si prorogasse per tre anni la
tregua che ancora durava tra i fiorentini e sanesi, ma con patto
espresso che a' sanesi e a Pandolfo non fusse lecito dare aiuto
alcuno a' pisani: colla quale scusa astenendosi da spendere per
loro, non cessava nell'altre cose, quanto poteva, di consigliargli e
favorirgli.
Succedette, nell'anno medesimo, dalla tragedia cominciata innanzi a
Ferrara nuovo e grave accidente. Perché Ferdinando, fratello del
duca Alfonso, e Giulio, al quale dal cardinale erano stati tratti
gli occhi, ma riposti senza perdita del lume nel luogo loro, per
presta e diligente cura de' medici, si erano congiurati insieme
contro alla vita del duca; mossi, Ferdinando, che era il
secondogenito, per cupidità di occupare quello stato, Giulio per non
gli parere che Alfonso si fusse risentito delle ingiurie sue, e
perché non poteva sperare di vendicarsi contro al cardinale con
altro modo: a' quali consigli interveniva il conte Albertino
Buschetto gentiluomo di Modona. E avendo corrotto alcuni di vile
condizione che per causa di piaceri erano assidui intorno ad
Alfonso, ebbono molte volte facilità grandissima d'ammazzarlo; ma
ritenuti da fatale timidità lasciorno sempre passare l'occasione, in
modo che, come accade quasi sempre quando si differisce la
esecuzione delle congiure, venuta la cosa a luce, furono incarcerati
Ferdinando e gli altri partecipi; e Giulio, che scoperta la cosa si
era fuggito a Mantova alla sorella, fu per ordine del marchese
condotto prigione ad Alfonso, ricevuta da lui promessa di non gli
nuocere nella vita; e poco dipoi, squartato il conte Albertino e gli
altri colpevoli, furono amendue i fratelli condannati a stare in
perpetua carcere nel castel nuovo di Ferrara.
Né è da passare con silenzio l'audacia e la industria del Valentino;
il quale in questi tempi medesimi, con sottile modo calatosi per una
corda della rocca di Medina del Campo, fuggí nel regno di Navarra al
re Giovanni fratello della sua moglie. Dove, acciò che di lui non
s'abbia a fare piú menzione, dimorato alquanti anni in basso stato,
perché il re di Francia, il quale prima gli aveva confiscato il
ducato di Valenza e toltogli la pensione de' ventimila franchi
consegnatagli in supplemento dell'entrata promessa, non gli
permesse, per non fare cosa molesta al re di Aragona, l'andare in
Francia, fu finalmente, essendo con le genti del re di Navarra a
campo a Viana castello ignobile di quel reame, combattendo contro
agli inimici che si erano scoperti
Lib.7, cap.5
Discordie tumulti e ribellione in Genova. I genovesi deliberano di
espugnare Monaco, e il re di Francia si prepara a ridurli a
ubbidienza. Il pontefice delibera improvvisamente di tornare a Roma
sdegnato col re per le vicende di Genova.
Alla fine di questo anno, acciò che l'anno nuovo non cominciasse
senza materia di nuove guerre, seguitò la rebellione de' genovesi
dalla divozione del re di Francia; non mossa principalmente da altri
che da loro medesimi, né cominciato il fondamento da desiderio di
ribellarsi ma da discordie civili che traportorono gli uomini piú
oltre che non erano state le prime deliberazioni. La città di
Genova, città veramente edificata in quel luogo per lo imperio del
mare, se tanta opportunità non fusse stata impedita dal pestifero
veleno delle discordie civili, non è come molte dell'altre d'Italia
sottoposta a una sola divisione ma divisa in piú parti; perché vi
sono ancora le reliquie delle antiche contenzioni de' guelfi e de'
ghibellini. Regnavi la discordia, dalla quale furono già in Italia e
specialmente in Toscana conquassate molte città, tra i gentiluomini
e i popolari: perché i popolari, non volendo sopportare la superbia
della nobiltà, raffrenorno la potenza loro con molte severissime e
asprissime leggi; e infra le altre, avendo lasciata loro porzione
determinata in quasi tutti gli altri magistrati e onori, gli
esclusono particolarmente dalla degnità del doge, il quale
magistrato, supremo a tutti gli altri, si concedeva per tutta la
vita di chi era eletto: benché, per la instabilità di quella città,
a niuno forse o a pochissimi fu permesso continuare tanto onore
insino alla morte. Ma non è divisione manco potente quella tra gli
Adorni e i Fregosi, i quali di case popolari diventati cappellacci
(cosí chiamano i genovesi coloro che sono ascesi a molta grandezza)
contendono insieme la degnità del doge, continuata molti anni quasi
sempre in una di loro. Perché i gentiluomini, guelfi e ghibellini,
non potendo essi per la proibizione delle leggi conseguirla,
procuravano che la fusse conferita ne' popolari della fazione
medesima, e favorendo i ghibellini [gli Adorni] i guelfi [i Fregosi]
si feciono in progresso di tempo queste due famiglie piú illustri e
piú potenti di quegli il nome de' quali e l'autorità solevano prima
seguitare. E si confondono in modo tutte queste divisioni che spesso
quegli che sono d'una medesima parte, contro alla parte opposita,
sono eziandio tra se medesimi divisi in varie parti, e per contrario
congiunti in una parte con quegli che seguitano un'altra parte. Ma
cominciò questo anno ad accendersi altercazione tra i gentiluomini e
i popolari; la quale, avendo principio dalla insolenza di alcuni
nobili e trovando per l'ordinario gli animi dell'una parte e
dell'altra male disposti, si convertí prestamente da contenzioni
private in discordie publiche, piú facili a generarsi nelle città,
come era allora Genova, molto abbondanti di ricchezze: le quali
trascorsono tanto oltre che 'l popolo, concitato tumultuosamente
all'armi e ammazzato uno della famiglia d'Oria e feriti alcuni altri
gentiluomini, ottenne, piú con la violenza che con la volontà libera
de' cittadini, che ne' consigli publici, ne' quali intervennono
pochissimi della nobiltà, si statuisse il dí seguente che degli
uffici, i quali prima si dividevano tra i nobili e i popolari in
parte eguale, se ne concedessino per l'avvenire due parti al popolo
rimanendone una sola alla nobiltà: alla quale deliberazione, per
timore che non si facessino maggiori scandoli, acconsentí
Roccalbertino Catelano che invece di Filippo di Ravesten,
governatore regio allora assente, era preposto alla città. E
nondimeno i popolari non quietati per questo, suscitato fra
pochissimi dí nuovo tumulto saccheggiorno le case de' nobili; per la
qual cosa la maggiore parte della nobiltà, non si tenendo piú sicura
nella patria, se n'uscí fuora. Ritornò di Francia a Genova
subitamente, intese queste alterazioni, il governatore con cento
cinquanta cavalli e settecento fanti, ma non potette, né con la
autorità né con le persuasioni né con le forze, ridurre in parte
alcuna le cose a stato migliore; anzi bisognandogli spesso
accomodarsi alle volontà popolari, comandò che alcune altre genti
che lo seguitavano ritornassino indietro. Da' quali princípi
diventando la moltitudine continuamente piú insolente, ed essendo,
come comunemente accade nelle città tumultuose, il reggimento,
contro alla volontà di molti popolari onesti, caduto quasi
interamente nella feccia della plebe, e avendo creato da se stessa
per capo del suo furore uno magistrato nuovo di otto uomini plebei
con grandissima autorità (i quali, acciò che il nome gli concitasse
a maggiore insania, chiamavano tribuni della plebe) occuporno con
l'armi la terra della Spezie e l'altre terre della riviera di
levante, governate per ordinazione del re da Gianluigi dal Fiesco.
Querelossi di queste insolenze al re in nome di tutta la nobiltà e
per l'interesse suo proprio Gianluigi; dimostrandogli il pericolo
manifesto di perdere il dominio di Genova, poiché la moltitudine era
trascorsa in tale temerità che oltre a tanti altri mali aveva
ardito, procedendo direttamente contro alla autorità regia, occupare
le terre della riviera: essere facile, usando con celerità i rimedi
convenienti, il reprimere tanto furore mentre che ancora non aveano
fomento o sussidio da alcuno; ma tardando a provedervi, il male
metterebbe, ogni dí piú, maggiori radici, perché la importanza di
Genova per terra e per mare era tale che inviterebbe facilmente
qualche principe a nutrire questo incendio tanto pernicioso allo
stato suo, e la plebe, conoscendo quel che da principio era forse
stato sedizione essere diventato ribellione, si accosterebbe a
qualunque gli desse speranza di difenderla. Ma da altra parte si
ingegnavano gli oratori mandati al re dal popolo di Genova di
giustificare la causa loro, dimostrando non altro avere incitato il
popolo che la superbia de' gentiluomini, i quali, non contenti degli
onori convenienti alla nobiltà, voleano essere onorati e temuti come
signori. Avere il popolo tollerato lungamente le insolenze loro, ma
ingiuriati finalmente, non solo nelle facoltà ma nelle persone
proprie, non avere potuto piú contenersi; e nondimeno non essere
proceduti se non a quelle cose senza le quali non poteva essere
sicura la libertà loro, perché partecipando i nobili negli uffici
per parte eguale non si poteva, per mezzo de' magistrati e de'
giudici, resistere alla tirannide loro: tenendosi per Gianluigi le
terre delle riviere, senza il commercio delle quali era come
assediata Genova, in che modo potere i popolari sicuramente usarvi e
conversarvi? Il popolo essere stato sempre divotissimo e fedelissimo
della Maestà regia, e le mutazioni di Genova essere in ogni tempo
procedute piú da' gentiluomini che da' popolari. Supplicare il re
che, perdonati quei delitti che contro alla volontà universale erano
stati nell'ardore delle contenzioni commessi da alcuni particolari,
confermasse la legge fatta sopra la distribuzione degli uffici, e
che le terre della riviera fussino governate col nome publico. Cosí
godendo i gentiluomini onoratamente il grado e la degnità loro,
goderebbono i popolari la libertà e la sicurtà conveniente, per la
quale non si faceva pregiudicio ad alcuno; e ridotti per l'autorità
sua in questa tranquillità, adorerebbono in perpetuo la clemenza la
bontà e la giustizia del re.
Erano stati molestissimi al re questi tumulti, o perché gli fusse
sospetta la licenza della moltitudine o per la inclinazione che
hanno comunemente i franciosi al nome de' gentiluomini, e perciò
sarebbe stato disposto a punire gli autori di queste insolenze e a
ridurre tutte le cose nel grado antico; ma temendo che se tentava
rimedi aspri i genovesi non ricorressino a Cesare, di cui non
essendo ancora morto il figliuolo molto temeva, e perciò deliberato
di procedere umanamente, perdonava tutti i delitti fatti, confermava
la nuova legge degli uffici, pure che riponessino in mano sua le
terre occupate della riviera: e per disporre a queste cose il popolo
piú facilmente mandò a Genova Michele Riccio, dottore e fuoruscito
napoletano, a confortargli che sapessino usare l'occasione della sua
benignità, piú tosto che moltiplicando la contumacia e gli errori lo
mettessino in necessità di procedere contro a loro con la severità
dello imperio. Ma negli animi acciecati dalle immoderate cupidità la
prudenza, soffocata dalla temerità, non aveva parte alcuna: non solo
la plebe e i tribuni, con tutto che i magistrati legittimi fussino
di contraria sentenza, non accettata la mansuetudine del re,
dinegorno di restituire le terre occupate ma procedendo
continuamente a cose peggiori deliberorno di espugnare Monaco,
castello posseduto da Luciano Grimaldo, o per l'odio comune contro a
tutti i gentiluomini genovesi o perché, per essere situato in luogo
molto opportuno in sul mare, importa assai alle cose di Genova, o
movendosi pure per odio particolare, conciossiaché chi ha in potestà
quel luogo, invitato dal sito comodissimo a questo effetto, soglia
difficilmente astenersi da' guadagni marittimi, o perché, secondo
diceano, apparteneva giuridicamente alla republica: e però, benché
contradicendo invano il governatore mandorno per terra e per mare ad
assediarlo molte genti. Onde Filippo di Ravesten, conoscendo stare
quivi inutilmente e, per gli accidenti che potevano nascere, non
senza pericolo, lasciato in luogo suo Roccalbertino, se ne partí; e
il re disperato che le cose si potessino ridurre a forma migliore e
giudicando che 'l consentire che le stessino cosí non fusse con
degnità e con sicurtà sua, ed essere maggiore pericolo se si
lasciassino trascorrere piú oltre, cominciò scopertamente a
prepararsi con forze terrestri e marittime per ridurre i genovesi
alla sua ubbidienza.
La quale deliberazione fu cagione che si interrompessino le cose le
quali tra 'l pontefice e il re di Francia si trattavano contro a'
viniziani; desiderate molto dal re, liberato per la morte del re
Filippo del sospetto avuto delle preparazioni di Massimiliano, ma
molto piú desiderate dal pontefice, indegnatissimo contro a loro per
l'occupazione delle terre della Romagna, e perché senza alcuno
rispetto della sedia apostolica conferivano i vescovadi vacanti nel
loro dominio, e si intromettevano in molte cose appartenenti alla
giurisdizione ecclesiastica: onde inclinato del tutto alla amicizia
del re, oltre allo avere publicato cardinali i vescovi di Baiosa e
di Aus, chiesti innanzi con grande instanza, aveva ricercato il re
che passasse in Italia e venisse a colloquio seco: il che il re
aveva consentito di fare: ma intendendo poi la sua deliberazione di
muovere l'armi in favore de' gentiluomini contro al popolo di
Genova, ne ricevé grandissima molestia, essendo, per la
inclinazione, antica delle parti di Savona sua patria, contrario a'
gentiluomini e favorevole al popolo. Però fece instanza col re che
si contentasse di avere, non alterando lo stato popolare, quella
città a ubbidienza, e lo confortò efficacemente ad astenersi dalle
armi, allegandone molte ragioni; e principalmente essere pericolo
che, suscitandosi in Italia per questo moto qualche incendio, non si
turbasse il muovere la guerra disegnata contro a' viniziani: alle
quali ragioni vedendo che il re non acconsente, o traportato dallo
sdegno e dal dolore o veramente essendosi rinnovato in lui, o da se
stesso o per sottile artificio d'altri, l'antico sospetto della
cupidità del cardinale di Roano, e perciò dubitando di non essere
ritenuto dal re in caso si riducessino in uno luogo medesimo, e
forse concorrendo l'una e l'altra cagione, publicò all'improviso,
nel principio dell'anno mille cinquecento sette, contro
all'espettazione di tutti, volere ritornarsene a Roma; non allegando
altre cagioni che l'aria di Bologna essere nociva alla sua salute e
l'assenza di Roma fargli non piccolo detrimento nell'entrate. Dette
questa deliberazione ammirazione assai a ciascuno, e specialmente al
re, che senza alcuna causa lasciasse imperfette le pratiche che
tanto aveva desiderato, interrompendo il colloquio del quale egli
medesimo l'aveva ricerco; e turbatosene molto, non lasciò indietro
opera alcuna perché variasse da questo nuovo pensiero: ma era piú
tosto nociva che vana l'opera sua, perché il pontefice, pigliando
dalla instanza che se gli faceva maggiore sospetto, si confermava
tanto piú nella sua deliberazione; nella quale stando pertinace,
partí alla fine di febbraio da Bologna, non potendo dissimulare lo
sdegno conceputo contro al re. Fondò, innanzi partisse di quella
città, la prima pietra della fortezza che per ordine suo, con
infelici auspici, vi si faceva appresso alla porta di Galera che va
a Ferrara, in quello luogo medesimo ove altra volta co' medesimi
auspici era stata edificata da Filippo Maria Visconte duca di
Milano: e avendo per lo sdegno nuovo col re di Francia mitigato
alquanto lo sdegno antico contro a' viniziani, non volendo
incomodarsi dal cammino diritto, passò per la città di Faenza. E
sopravenivano a ogn'ora nuove altercazioni tra il re di Francia e
lui: perché aveva instato che i Bentivogli fussino cacciati dello
stato di Milano, con tutto che di consentimento suo fusse stata
concessa loro la facoltà di abitarvi; né aveva voluto restituire al
protonotario, figliuolo di Giovanni, la possessione delle chiese
sue, promessagli con la medesima concordia e consentimento. Tanto
spesso poteva in lui piú la contenzione dell'animo che la ragione!
La quale disposizione non con arte o diligenza alcuna tentava di
mitigare il re di Francia; ma sdegnato di tanta variazione e
insospettito che, come era la verità, non desse occultamente animo
al popolo di Genova, non si asteneva da minacciarlo palesemente,
tassando con parole ingiuriose la sua ignobilità: perché non era
dubbio il pontefice essere nato vilissimamente e nutrito per molti
anni in umilissimo stato. Anzi, confermato tanto piú nella prima
sentenza delle cose di Genova, preparava con somma diligenza
l'esercito per andarvi personalmente, avendo, per l'esperienza delle
cose accadute nel regno di Napoli, imparato che differenza fusse ad
amministrare le guerre per se proprio a commetterle a' capitani.
Lib.7, cap.6
Continuano i tumulti in Genova; prevalenza del popolo contro i
francesi. Il re di Francia sotto Genova. Successo de' francesi ed
accordi di resa. Entrata del re in Genova, e condizioni imposte alla
città.
Non movevano queste preparazioni i genovesi, intenti alla
occupazione di Monaco, ove aveano intorno molti legni, e semila
uomini di gente raccolta tumultuariamente della plebe e del contado,
sotto il governo di Tarlatino capitano de' pisani, il quale insieme
con Piero Giambacorta e alcuni altri soldati era stato mandato da
loro in favore de' genovesi. E a Genova, perseverandosi e
moltiplicando continuamente negli errori, il castellano del
Castelletto, che insino ad allora era stato quietissimo né aveva
avuto dal popolo molestia alcuna, o per comandamento del re o per
cupidità di rubare, fece all'improviso prigioni molti del popolo, e
cominciò a molestare con l'artiglierie il porto e la città; per il
che Roccalbertino entrato in timore di se medesimo si partí, e i
fanti franzesi che erano alla guardia del palagio publico si
rifuggirno nel Castelletto. Ebbe poco dipoi fine l'assedio stato
molti mesi intorno a Monaco: perché intendendo quegli che vi erano
accampati che per soccorrerlo s'approssimavano Ivo d'Allegri e i
principali de' gentiluomini con tremila fanti soldati da loro e con
altre genti mandate dal duca di Savoia, non avendo avuto ardire di
aspettargli, se ne levorono. E già divulgava la fama passare
continuamente in Lombardia l'esercito destinato dal re: per la qual
cosa accendendosi il furore di quegli ne' quali doveva essere
cagione di migliori consigli, la moltitudine, che insino a quel dí,
avendo dissimulato con le parole quella ribellione che esercitava
con l'opere, gridava il nome del re di Francia né avea rimosso de'
luoghi publici i segni suoi, creò doge di Genova Paolo di Nove
tintore di seta, uomo della infima plebe; scoprendosi per questo in
manifestissima ribellione, perché con la creazione del doge era
congiunta la dichiarazione che la città di Genova non fusse
sottoposta a principe alcuno. Le quali cose eccitando l'animo del re
a maggiore indegnazione, ed essendogli significato da' nobili che in
luogo de' segni suoi aveva posto i segni di Cesare, augumentò le
provisioni prima ordinate: commosso ancora piú perché Cesare,
stimolato da' genovesi e forse occultamente dal pontefice, l'avea
confortato a non molestare Genova come terra di imperio, offerendo
di interporsi col popolo perché si riducessino alle cose che fussino
giuste. Nutrirno qualche poco l'audacia del nuovo doge e de' tribuni
i successi prosperi che ebbono nella riviera di levante: perché
avendo Ieronimo figliuolo di Gianluigi dal Fiesco con dumila fanti e
alcuni cavalli recuperato Rapallo, e andando di notte per prendere
Recco, scontrandosi con le genti che vi venivano in soccorso da
Genova, si messono, senza combattere, disordinatamente in fuga; la
fuga de' quali venendo agli orecchi di Orlandino nipote di
Gianluigi, che con un'altra moltitudine di gente era disceso a
Recco, si messe medesimamente in fuga. Onde diventati il doge e i
tribuni piú insolenti assaltorno il Castellaccio, fortezza antica
ne' monti sopra Genova edificata da' signori di Milano quando
dominavano quella città acciò che, quando fusse necessario, le genti
mandate da loro di Lombardia potessino accostarsi a Genova e
soccorrere il Castelletto; nel quale essendo piccola guardia lo
occuporono facilmente, perché quegli pochi franzesi che vi erano si
arrenderono sotto la fede di essere salva la vita e la roba loro: la
quale fede fu incontinente violata, gloriandosi quegli che avevano
fatto tale eccesso, per segno del quale tornorono in Genova con le
mani sanguinose e con allegrezza grande. E nel tempo medesimo
cominciorno a battere con l'artiglierie il Castelletto e la chiesa
di San Francesco contigua a quello.
Ma era già passato il re in Italia, e l'esercito si andava
continuamente raccogliendo per assaltare Genova senza indugio. E
nondimeno i genovesi, abbandonati di ogni sussidio, perché il re
cattolico benché desideroso della conservazione loro non voleva
separarsi dal re di Francia, anzi l'aveva accomodato di quattro
galee sottili, né il pontefice ardiva dimostrare con altro che con
occulti conforti e speranze l'animo suo, avendo solo trecento fanti
forestieri, non capitani esperti di guerra, carestia di munizione,
persistevano nella ostinazione; confidandosi d'avere, per la
strettezza de' passi e difficoltà e asprezza del paese, facilmente a
proibire che gli inimici non si accostassino a Genova: per la quale
vana speranza disprezzavano i conforti di molti, e specialmente del
cardinale dal Finale; il quale seguitando il re gli confortava, con
spessi messi e lettere, a rimettersi nella volontà sua, dando loro
speranza di conseguire facilmente venia e tollerabili condizioni. Ma
camminando già l'esercito per la via del Borgo de' Fornari e di
Serravalle, cominciorono ad apparire vani i disegni de' genovesi,
non discorsi né misurati dagli uomini periti della guerra ma co'
clamori e con la iattanza vana della vile e imperita moltitudine.
Però, non corrispondendo gli animi degli uomini nel pericolo
presente a quello che temerariamente, quando il timore era lontano,
si erano promessi, seicento fanti de' loro che erano a guardia de'
primi passi, accostandosi i franzesi, vilmente si fuggirono; onde
perduto l'animo tutti gli altri che erano alla guardia de' passi si
ritirorono in Genova, lasciandogli liberi a franzesi: l'esercito de'
quali, avendo già passato senza ostacolo alcuno il giogo de' monti,
era sceso nella valle di Pozevera appresso a Genova miglia sette,
con grandissima ammirazione de' genovesi, che contro a quello che si
erano scioccamente persuasi ardisse di alloggiare in quella valle
circondata da monti asprissimi, e in mezzo di tutto il paese
inimico. Nel quale tempo l'armata del re di otto galee sottili otto
galeoni molte fuste e brigantini, presentatasi innanzi a Genova, era
passata verso Portovenere e la Spezie, seguitando l'armata genovese
di sette galee e sei barche; la quale non avendo ardire di fermarsi
nel porto di Genova si era ritirata in quegli luoghi. Di val di
Pozevera andò l'esercito ad alloggiare nel borgo di Rivarolo
distante da Genova due miglia, e presso alla chiesa di San Piero
della Rena, che è contigua al mare; e benché camminando scontrassino
a piú passi fanti de' genovesi, nondimeno tutti, non dimostrando
maggiore virtú che avessino fatto gli altri, si ritirorono. E il dí
medesimo arrivò all'esercito la persona del re, il quale alloggiò
nella badia del Boschetto a rincontro del borgo di Rivarolo,
accompagnato dalla maggiore parte della nobiltà di Francia, da
moltissimi gentiluomini dello stato di Milano e dal marchese di
Mantova: il quale il re aveva pochi dí innanzi dichiarato capo
dell'ordine di San Michele, e donatogli lo stendardo il quale dopo
la morte di Luigi undecimo non era mai stato dato ad alcuno: ed
erano nell'esercito ottocento lancie (perché il re avea, rispetto
all'asprezza del paese, lasciate l'altre in Lombardia) mille
ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri e seimila fanti di altre
nazioni.
Avevano i genovesi, per non lasciare libero il cammino per il quale
per i monti si va al Castellaccio, dipoi a Genova, per via piú corta
che per la strada di San Piero della Rena contigua alla marina,
edificato uno bastione in su l'altezza del monte che si dice la
Montagna del promontorio, tra il borgo di Rivarolo e San Piero in
Arena: dal quale bastione si andava al Castellaccio per la schiena
del poggio. A questo bastione si indirizzò l'esercito, il dí
medesimo che era alloggiato a Rivarolo; e da altra parte uscirno di
Genova ottomila fanti guidati da Iacopo Corso luogotenente di
Tarlatino, perché Tarlatino e i soldati de' pisani, fermatisi,
quando il campo si levò da Monaco, in Ventimiglia, non aveano
potuto, quando furno richiamati da' genovesi i quali mandorno la
nave di Demetrio Giustiniano per condurgli, tornare a Genova, né per
la via di terra per lo impedimento de' franzesi, né per mare per i
venti contrari. Ma cominciando già i franzesi a salire scoperseno i
fanti de' genovesi, i quali saliti in sul monte, per il colle per il
quale si andava al bastione, e dipoi discesane la maggiore parte,
aveva fatto testa in su uno poggetto che è a mezzo il monte: contro
a' quali mandò Ciamonte a combattere molti gentiluomini e buono
numero di fanteria: da' quali i genovesi, per la moltitudine e per
il vantaggio del sito, si difendevano valorosamente, e con danno non
piccolo de' franzesi perché, disprezzando gli inimici come raccolti
quasi tutti di artefici e di uomini del paese, andavano
volonterosamente, non considerando la fortezza del luogo, ad
assaltargli; e già era stato ferito, benché non molto gravemente, la
Palissa nella gola. Ma Ciamonte, volendo spuntargli di quello luogo,
fece tirare ad alto due cannoni, i quali battendogli per fianco gli
sforzorono a ritirarsi verso il monte, in sul quale era rimasta
l'altra parte delle loro genti; dove seguitandogli ordinatamente i
franzesi, quegli che erano a guardia del bastione, ancorché per il
sito e per la fortificazione che vi era stata fatta potessino
sicuramente aspettare l'artiglierie, dubitando che tra loro e la
gente che era in sul monte non entrasse in mezzo qualche parte de'
franzesi, l'abbandonorono con somma infamia; donde quegli che dal
poggetto avevano cominciato a ritirarsi verso il bastione, vedutosi
tagliato il cammino, presono fuori della strada consueta per balze e
aspri precipizi la via di Genova, essendo nel ritirarsi morti di
loro circa trecento. Dal quale successo essendo ripiena di
incredibile terrore tutta la città, la quale governata secondo la
volontà della infima plebe non si reggeva né con consiglio militare
né con prudenza civile, mandorono due oratori nello esercito a
trattare di darsi con capitoli convenienti; i quali, non ammessi
agli orecchi del re, furono uditi dal cardinale di Roano, e da lui
ebbono risposta che il re avea deliberato non accettargli se in lui
non rimettevano senza altro patto assolutamente l'arbitrio di se
stessi e di tutte le cose loro: ma mentre che trattavano con lui,
una parte della plebe che recusava l'accordo, uscita tumultuosamente
di Genova, si scoperse con molti fanti per i poggi e per il colle,
che veniva dal Castellaccio, e si accostorono a uno quarto di miglio
al bastione per recuperarlo; e avendo scaramucciato co' franzesi che
erano usciti loro incontro, per spazio di tre ore, si ritirorono
senza vantaggio di alcuna delle parti al Castellaccio. Nel quale
tempo il re, dubitando di maggiore movimento, stette continuamente
armato con molta gente a cavallo nel piano tra 'l fiume della
Pozevera e l'alloggiamento dello esercito. E nondimeno la notte
seguente, disperate le cose loro, ed essendo fama che i principali
del popolo avevano composto occultamente col re insino quando era in
Asti, lamentandosi la plebe di essere ingannata, il doge, con molti
di quegli che per le cose commesse non speravano perdono e con
quella parte de' pisani che vi era, si partí per andare a Pisa; e la
mattina come fu dí, tornati in campo i medesimi imbasciadori,
acconsentirono di dare la città alla discrezione del re: non avendo
sostenuta piú che otto dí la guerra, con grandissimo esempio della
imperizia e confusione de' popoli che, fondandosi in su speranze
fallaci e disegni vani, feroci quando è lontano il pericolo, perduti
poi presto d'animo quando il pericolo è vicino, non ritengono alcuna
moderazione.
Fatto l'accordo, il re con l'esercito si accostò a Genova,
alloggiati i fanti ne' borghi; i quali non ebbe piccola difficoltà a
ritenere, massimamente i svizzeri, che non vi entrassino per
saccheggiarla. Entrò dipoi in Genova con la maggiore parte delle
altre genti, avendo prima messa la guardia nel Castellaccio,
Ciamonte; al quale i genovesi consegnorono tutte le armi publiche e
private che furono condotte nel Castelletto, e tre pezzi di
artiglieria quali vi avevano condotti i pisani; che furono poi
mandate a Milano: e il dí prossimo, che fu il vigesimonono d'aprile,
entrò in Genova la persona del re con tutte le genti d'arme e
arcieri della guardia, ed egli appiedi sotto il baldacchino, armato
tutto con l'armi bianche, con uno stocco nudo in mano. Al quale si
feciono incontro gli anziani con molti de' piú onorati cittadini; i
quali essendosegli gittati innanzi a' piedi con molte lagrime, uno
di loro, poiché alquanto fu fatto silenzio, in nome di tutti parlò
cosí:
- Noi potremmo affermare, cristianissimo e clementissimo re, che se
bene al principio delle contenzioni co' nostri gentiluomini
intervenne quasi la maggiore parte de' popolari, nondimeno che
l'esercitarle insolentemente, e molto piú la contumacia e la
inubbidienza a' comandamenti regi, procedette solamente dalla feccia
della infima plebe; la temerità della quale né noi né gli altri
cittadini e mercatanti e artefici onesti potemmo mai raffrenare: e
però, che qualunque pena si imponesse o alla città o a noi
affliggerebbe gli innocenti senza detrimento alcuno degli autori e
partecipi di tanti delitti; i quali, mendichi di tutte le cose e
vagabondi, non sono tra noi in numero d'uomini non che di cittadini,
né hanno essi questa infelice città in luogo di patria. Ma la
intenzione nostra è, lasciate indietro tutte le scuse, non ricorrere
ad altro che alla magnanimità e alla pietà di tanto re, in quella
sommamente confidare, quella umilissimamente supplicare che, con
quello animo col quale perdonò a' falli molto maggiori de' milanesi,
si degni volgere quegli occhi pietosissimi verso i genovesi, pochi
mesi innanzi felicissimi, ora esempio di tutte le miserie.
Ricordatevi con quanta gloria del vostro nome fu allora per tutto il
mondo celebrata la vostra clemenza, e quanto piú sia degno
confermarla usando simile pietà che incrudelendo oscurarla.
Ricordatevi che da Cristo, redentore di tutta l'umana generazione,
derivò il cognome vostro di cristianissimo, e che però, a imitazione
sua, vi si appartiene esercitare sopra ogni cosa la clemenza e la
misericordia propria a lui. Siano grandissimi quanto si voglia i
delitti commessi, siano inestimabili, non saranno giammai maggiori
della pietà e della bontà vostra. Voi, nostro re, rappresentate tra
noi il sommo Dio con la degnità e con la potenza (perché che altro
che dii sono i re tra i sudditi loro?) e però tanto piú vi si
appartiene rappresentarlo medesimamente con la similitudine della
volontà e delle opere, delle quali nessuna è piú gloriosa nessuna
piú grata nessuna fa piú ammirabile il nome suo che la misericordia.
-
Seguitorono queste parole le voci alte di tutti gridando
misericordia. Ma il re camminò innanzi non dando risposta alcuna;
benché, comandando si levassino di terra e deponendo lo stocco che
aveva nudo in mano, facesse segno di animo piú tosto inclinato alla
benignità. Arrivò poi alla chiesa maggiore, dove si gli gittò
innanzi a' piedi numero quasi infinito di donne e di fanciulli
d'ogni sesso, i quali tutti vestiti di bianco supplicavano con
grandissime grida e pianti miserabili la sua clemenza e
misericordia. Commosse, secondo che si disse, questo aspetto non
mediocremente l'animo del re; il quale, ancora che avesse deliberato
di privare i genovesi di ogni amministrazione e autorità, e
appropriare al fisco quelle entrate che sotto nome di San Giorgio
appartengono a' privati e, spogliatigli d'ogni immagine di libertà,
ridurgli a quella subiezione nella quale sono le terre dello stato
di Milano, nondimeno, pochi dí poi, considerando che con questo modo
non solo si punivano molti innocenti ma si alienavano eziandio gli
animi di tutta la nobiltà, ed essere piú facile il signoreggiarla
con qualche dolcezza che totalmente con la disperazione, confermò il
governo antico, come era innanzi a queste ultime sedizioni. Ma per
non dimenticare in tutto la severità, condannò la comunità in
centomila ducati per la pena del delitto, i quali non molto poi
rimesse; in dugentomila altri, in certi tempi, per rimborsarlo delle
spese fatte e per edificare la fortezza alla torre di Codifà, poco
lontana da Genova e che è situata in sul mare, sopra al borgo che va
in val di Pozevera e a San Piero in Arena: la quale, perché può
offendere tutto il porto e parte della città, è non immeritamente
chiamata la Briglia. Volle ancora pagassino maggiore guardia che la
solita e che continuamente tenessino nel porto armate tre galee
sottili a sua ubbidienza, e che si fortificassino il Castelletto e
il Castellaccio; annullò tutte le convenzioni fatte prima tra lui e
quella città, riconcedendo quasi tutte le cose medesime ma come
privilegi non come patti, acciò che fusse sempre in sua potestà il
privarnegli; fece rimuovere delle monete genovesi i segni antichi, e
ordinò che in futuro vi fusse impresso il segno suo per
dimostrazione di assoluta superiorità. Alle quali cose si aggiunse
la decapitazione di Demetrio Giustiniano, il quale manifestò nel suo
esamine tutte le pratiche e le speranze avute dal pontefice; nel
quale supplicio incorse, pochi mesi poi, Paolo da Nove ultimamente
doge, il quale navigando da Pisa a Roma, ingannato da uno corso che
era stato suo soldato, fu venduto a' franzesi. Fatto che ebbe il re
queste cose, e ricevuto solennemente da' genovesi il giuramento
della fedeltà e data venia a tutti, eccetto che a circa sessanta i
quali rimesse alla disposizione della giustizia, se ne andò a
Milano; avendo, subito che ebbe ottenuta Genova, licenziato
l'esercito: col quale, essendo tutti gli altri male proveduti, gli
sarebbe stato facile, continuando il corso della vittoria, opprimere
chi gli fusse paruto in Italia; ma lo licenziò sí presto per
certificare il pontefice il re de' romani e i viniziani, i quali
stavano con grandissimo sospetto, che la venuta sua in Italia non
era stata per altro che per la recuperazione di Genova.
Lib.7, cap.7
Malcontento del pontefice verso il re di Francia per la soluzione
della questione di Genova. Discorso di Massimiliano alla dieta di
Costanza contro il re. Effetti del discorso.
Ma nessuna cosa bastava a moderare l'animo del pontefice; il quale,
interpretando tutte le cose in senso peggiore, si querelava di nuovo
non mediocremente del re, come se per opera sua fusse proceduto che
Annibale Bentivoglio, con secento fanti raccolti del ducato di
Milano, aveva in quegli dí tentato di entrare in Bologna, affermando
che quando gli fusse succeduto si sarebbe dimostrato piú oltre
contro allo stato ecclesiastico: dalla qual cosa sdegnato, benché
con grandissima difficoltà avesse prima publicati cardinali i
vescovi di Aus e di Baiosa, recusava di publicare il vescovo d'Albi;
lamentandosi che da Ciamonte suo fratello fusse permesso che i
Bentivogli abitassino nel ducato di Milano. Ma quel che era di piú
momento, traportato non meno dall'odio che dal sospetto, aveva,
quando il re publicò di volere coll'armi ridurre a ubbidienza i
genovesi, significato per suoi nunzi e con uno breve al re de'
romani e agli elettori dello imperio che 'l re di Francia si
preparava a passare in Italia con potentissimo esercito, simulando
di volere raffrenare i tumulti di Genova, i quali era in potestà sua
di quietare con la autorità sola, ma in verità per opprimere lo
stato della Chiesa e usurpare la dignità dello imperio: e il
medesimo, oltre al pontefice, gli significavano i viniziani, mossi
dal medesimo timore della venuta del re di Francia in Italia con
tanto esercito. Le quali cose intese, Massimiliano, cupidissimo per
sua natura di cose nuove, essendo in quegli dí ritornato di Fiandra,
dove invano tentò di assumere il governo del nipote, aveva convocato
nella città di Gostanza i príncipi di Germania e le terre franche
(chiamano terre franche quelle città che, riconoscendo in certi
pagamenti determinati l'autorità dello imperio, si governano in
tutte l'altre cose per se stesse, intente non ad ampliare il loro
territorio ma a conservare la propria libertà). Dove concorsono i
baroni e príncipi e i popoli di tutta Germania, forse piú
prontamente e in maggiore numero che fussino, già lunghissimo tempo,
concorsi a dieta alcuna: conciossiaché vi convennono personalmente
tutti gli elettori, tutti i príncipi ecclesiastici e secolari della
Alamagna, da quegli in fuora che erano ritenuti da qualche giusto
impedimento, per i quali nondimeno vi vennono o figliuoli o fratelli
o altre congiuntissime persone, che rappresentavano il nome loro; e
similmente tutte le terre franche vi mandorono imbasciadori. I quali
come furono congregati, Cesare fece leggere il breve del pontefice,
e molte lettere per le quali gli era di vari luoghi significato il
medesimo; e in alcuna delle quali era espresso essere la intenzione
del re di Francia di collocare nella sedia pontificale il cardinale
di Roano, e da lui ricevere la corona imperiale: per i quali avvisi
essendo già concitati gli animi di tutti in grandissima
indegnazione, Cesare, cessato che fu lo strepito, parlò in questa
sentenza:
- Già vedete, nobilissimi elettori e príncipi e spettabili oratori,
che effetti abbia prodotti la pazienza che abbiamo avuta per il
passato; già, che frutto abbia partorito l'essere state disprezzate
le querele mie in tante diete. Già vedete che il re di Francia, il
quale non ardiva prima, se non con grandi occasioni e con apparenti
colori, tentare le cose appartenenti al sacro imperio, ora
apertamente si prepara non per difendere, come altre volte ha fatto,
i ribelli nostri, non per occupare in qualche luogo le ragioni dello
imperio, ma per spogliare la Germania della degnità imperiale, stata
acquistata e conservata con tanta virtú e con tanta fatica da'
nostri maggiori. A tanta audacia lo incita non l'essere accresciute
le forze sue, non l'essere diminuite le forze nostre, non l'ignorare
quanto sia senza comparazione piú potente la Germania che la
Francia, ma la speranza, conceputa per l'esperienza delle cose
passate, che noi abbiamo a essere simili a noi medesimi, che in noi
abbia a potere piú o le dissensioni o la ignavia nostra che gli
stimoli della gloria, anzi della salute; che per le medesime cagioni
per le quali abbiamo con tanta vergogna tollerato che da lui sia
occupato il ducato di Milano, che da lui siano nutrite le discordie
tra noi, che da lui siano difesi i ribelli dello imperio, abbiamo
similmente a tollerare che da lui ci sia rapita la degnità
imperiale, trasferito in Francia l'ornamento e lo splendore di
questa nazione. Quanto minore ignominia sarebbe del nome nostro,
quanto minore dolore sentirebbe l'animo mio, se e' fusse noto a
tutto il mondo che la potenza germanica fusse inferiore della
potenza franzese! perché manco mi crucierebbe il danno che la
infamia, perché almeno non sarebbe attribuito a viltà o a imprudenza
nostra quel che procederebbe o dalla condizione de' tempi o dalla
malignità della fortuna. E che maggiore infelicità, che maggiore
miseria, essere ridotti in grado che ci sia cosa desiderabile il non
essere potenti! che abbiamo a eleggere spontaneamente il danno
gravissimo, per fuggire, poi che altrimenti non si può, la infamia e
il vituperio eterno del nome nostro! Benché, la magnanimità di
ciascuno di voi esperimentata tante volte nelle cose particolari,
benché la ferocia propria e precipua di questa nazione, benché la
memoria della virtú antica e de' trionfi de' padri nostri, terrore
già e spavento di tutte l'altre nazioni, mi dànno quasi speranza,
anzi quasi certezza, che in causa tanto grave s'abbino a destare i
bellicosi e invitti spiriti vostri. Non si tratta della alienazione
del ducato di Milano, non della ribellione de' svizzeri, nelle quali
cause tanto gravi sia stata leggiera la mia autorità, per l'affinità
che io avevo con Lodovico Sforza, per gli interessi particolari
della casa di Austria. Ma ora, che escusazione si potrebbe
pretendere? con che velame si potrebbe ricoprire la ignominia
nostra? Trattasi se i Germani, possessori, non per fortuna ma per
virtú, dello imperio romano, l'armi de' quali domorono già quasi
tutto il mondo, il nome de' quali è anche al presente spaventoso a
tutti i regni de' cristiani, hanno a lasciarsi vilmente spogliare di
tanta degnità, hanno a essere esempio di infamia, hanno a diventare
della prima e della piú gloriosa nazione l'ultima, la piú schernita,
la piú vituperosa di tutto il mondo. E quali cagioni quali interessi
quali sdegni giammai vi moveranno se questi non vi muovono? quali
ecciteranno in voi i semi del valore e della generosità de' vostri
maggiori se questi non gli eccitano? Con quanto dolore sentiranno,
ne' tempi futuri, i vostri figliuoli e i vostri discendenti la
memoria de' vostri nomi, se non conservate loro in quella grandezza,
in quella autorità, il nome germanico, nella quale fu conservato a
voi da' vostri padri? Ma lasciamo da parte i conforti e le
persuasioni, perché a me, collocato da voi in tanta degnità, non
conviene distendersi in parole ma proporvi fatti ed esempli. Io ho
deliberato di passare in Italia, in nome per ricevere la corona
dello imperio (solennità, come vi è noto, piú di cerimonia che di
sostanza, perché la degnità e l'autorità imperiale depende in tutto
dalla vostra elezione) ma principalmente per interrompere questi
consigli scelerati de' franzesi, per scacciargli del ducato di
Milano, poiché altrimenti non possiamo assicurarci dalla insolenza
loro. Sono certo che niuno di voi farà difficoltà di darmi i sussidi
soliti darsi agli imperadori che vanno a incoronarsi, i quali
congiunti alle forze mie non dubito d'avere a passare vittorioso per
tutto, e che la maggiore parte d'Italia supplichevole mi verrà
incontro, chi per confermare i suoi privilegi, chi per conseguire
dalla giustizia nostra rimedio alle oppressioni che gli sono fatte,
chi per placare con divota sommissione l'ira del vincitore. Cederà
il re di Francia al nome solo delle armi nostre, avendo i franzesi
innanzi agli occhi la memoria quando giovanetto, e quasi fanciullo,
roppi con vera virtú e magnanimità, a Guineguaste, l'esercito del re
Luigi: dal quale tempo in qua, recusando di fare esperienza delle
mie armi, non hanno mai i re di Francia combattuto meco se non con
insidie e con fraudi. Ma considerate, con la generosità e
magnanimità propria de' tedeschi, se e' conviene alla fama e onore
vostro, in pericolo comune tanto grave, risentirsi sí pigramente, e
non fare in caso tanto estraordinario estraordinarie provisioni. Non
ricerca egli la gloria la grandezza del nome vostro, della quale è
stato sempre proprio difendere la degnità de' pontefici romani
l'autorità della sedia apostolica, che ora con la medesima ambizione
ed empietà sono sceleratamente violate dal re di Francia, che per
decreto comune di tutta la Germania si piglino a questo effetto
potentissimamente l'armi? Questo interesse è tutto vostro, perché io
ho adempiute assai le parti mie ad avervi convocato prontamente per
manifestarvi il pericolo comune, ad avervi incitato con l'esempio
della mia deliberazione. In me non mancherà fortezza di animo a
espormi a qualunque pericolo, non corpo abile per la continua
esercitazione a tollerare qualunque fatica; né il consiglio nelle
cose della guerra, per la età e per la lunga esperienza, è tale che
a questa impresa vi manchi capo capace di tutti gli onori: ma con
quanta maggiore autorità il vostro re ornerete, con quanta maggiore
potenza ed esercito lo circonderete, tanto piú facilmente, con somma
gloria vostra, si difenderà la libertà della Chiesa romana, madre
comune; esalterassi insino al cielo, insieme con la gloria del nome
germanico, la degnità imperiale, grandezza e splendore comune a
tutti voi, e comune a questa potentissima e ferocissima nazione. -
E alle parole di Cesare accresceva autorità la memoria che nelle
altre diete non fussino state udite le querele sue; ed era facile
aggiugnere negli animi già concitati nuova indegnazione. Però,
essendo in tutti ardore grandissimo a non comportare che la maestà
dello imperio fusse, per negligenza loro, trasferita in altre
nazioni, si cominciorno con unione grande a trattare gli articoli
necessari, affermandosi per tutti doversi preparare esercito
potentissimo, e bastante eziandio, quando fussino oppositi il re di
Francia e tutti gli italiani, a rinnovare e recuperare in Italia le
antiche ragioni dello imperio, state usurpate o per impotenza o per
colpa de' Cesari passati. Cosí ricercare la gloria del nome
germanico, cosí il concorso di tanti príncipi e di tutte le terre
franche; ed essere una volta necessario dimostrare a tutto il mondo
che, se bene la Germania per molti anni non aveva avuto le volontà
unite, non era però che non avesse la medesima possanza e la
medesima magnanimità la quale aveva fatto temere gli antichi loro da
tutto il mondo, donde e in universale era nata al nome loro
grandissima gloria e la degnità imperiale, e in particolare molti
nobili n'avevano acquistato signorie e grandezze. E quante case
illustri avere lungo tempo regnato in Italia negli stati acquistati
con la loro virtú! Le quali cose si cominciorono a trattare con
tanta caldezza che è manifesto che, già moltissimi anni, non era
stata cominciata dieta alcuna dalla quale si aspettassino maggiori
movimenti: persuadendosi universalmente gli uomini che, oltre
all'altre ragioni, farebbe gli elettori e gli altri príncipi piú
pronti la speranza che aveano che, per l'età tenera de' figliuoli
del re Filippo, la degnità imperiale, continuata successivamente in
Alberto, Federigo e Massimiliano, tutt'a tre della casa d'Austria,
avesse finalmente a passare in altra famiglia.
Lib.7, cap.8
Desiderio del re di Francia d'abboccarsi con Ferdinando d'Aragona,
che sta per riassumere il governo di Castiglia. Delusioni e
malcontento nel reame di Napoli; il pontefice nega l'investitura a
Ferdinando. Cordiale incontro a Savona de' due re. Ammirazione pel
gran capitano. Accordi fra i due re; la questione di Pisa. Ira del
pontefice contro i Bentivoglio.
Le quali cose pervenute agli orecchi del re di Francia lo avevano
indotto a dissolvere, per rimuovere tale suspicione, subito che ebbe
ottenuto Genova, l'esercito; e arebbe esso con la medesima celerità
ripassato i monti se non l'avesse ritenuto il desiderio di essere a
parlamento col re di Aragona, il quale si preparava per ritornare in
Spagna, intento tutto a riassumere il governo di Castiglia. Perché,
essendo inabile Giovanna sua figliuola a tanta amministrazione, non
tanto per la imbecillità del sesso quanto perché, per umori
melanconici che se gli scopersono nella morte del marito, era
alienata dello intelletto, e inabili ancora per la età i figliuoli
comuni del re Filippo e di lei, de' quali il primogenito non
arrivava al decimo anno, era Ferdinando desiderato e chiamato a quel
governo da molti, per la memoria di essere stati retti giustamente,
e fioriti per la lunga pace quegli regni sotto lui: e accrescevano
questo desiderio le dissensioni già cominciate tra' signori grandi,
e l'apparire da molte parti segni manifestissimi di future
turbazioni. Ma non meno era desiderato dalla figliuola, la quale,
non essendo nell'altre cose in potestà di se medesima, stette sempre
costante in desiderare il ritorno del padre, negando, contro alle
suggestioni e importunità di molti, ostinatamente, di non
sottoscrivere di mano propria in espedizione alcuna il nome suo,
senza la quale soscrizione non avevano secondo la consuetudine di
quegli regni i negozi occorrenti la sua perfezione.
Per queste cagioni partí il re d'Aragona del regno di Napoli, non vi
essendo dimorato piú che sette mesi, né avendo sodisfatto alla
espettazione grandissima che si era avuta di lui; non solo per la
brevità del tempo, e perché difficilmente si può corrispondere a'
concetti degli uomini il piú delle volte non considerati con la
debita maturità né misurati con le debite proporzioni, ma perché se
gli opposono molte difficoltà e impedimenti, per i quali né per il
comodo universale d'Italia fece cosa alcuna degna di laude o di
memoria, né fece utilità o beneficio alcuno nel regno di Napoli:
perché alle cose d'Italia non lo lasciò pensare il desiderio di
ritornare presto nel governo di Castiglia, fondamento principale
della grandezza sua, per il quale era necessitato fare ogni opera
per conservarsi amici il re de' romani e il re di Francia, acciò che
l'uno con l'autorità di essere avolo de' piccoli figliuoli del re
morto, l'altro con la potenza vicina e col dare animo a opporsegli a
chi avea l'animo alieno da lui, non gli mettessino disturbo a
ritornarvi; e nel riordinare o gratificare il regno napoletano gli
dette difficoltà l'essere obligato, per la pace fatta col re di
Francia, a restituire gli stati tolti a' baroni angioini, che, o per
convenzione o per remunerazione, erano stati distribuiti in coloro
che avevano seguitato la parte sua. E questi, non volendo egli
alienarsi i suoi medesimi, era necessitato di ricompensare o con
stati equivalenti, che s'avevano a comperare da altri, o con danari:
alla qual cosa essendo impotentissime le sue facoltà, era costretto
non solo a fare vivi in qualunque modo i proventi regi, e a denegare
di fare, secondo il costume de' nuovi re, grazia o esenzione alcuna
o esercitare specie alcuna di liberalità, ma eziandio, con querele
incredibili di tutti, ad aggravare i popoli, i quali avevano
aspettato sollevazione e ristoro di tanti mali. Né si udivano minori
le querele de' baroni di ciascuna delle parti: perché a quegli che
possedevano, oltreché malvolentieri rilasciassino gli stati, furono
per necessità scarse e limitate le ricompensazioni, e a quegli altri
si ristrigneva quanto si poteva, in tutte le cose nelle quali
accadeva controversia, il beneficio della restituzione, perché
quanto meno a loro si restituiva tanto meno agli altri si
ricompensava. Partí con lui il gran capitano, ma con benivolenza e
fama incredibile; e del quale, oltre alle laudi degli altri tempi,
era molto celebrata la liberalità dimostratasi nel fare innanzi alla
partita sua grandissimi doni; a' quali impotente altrimenti, vendé,
per non mancare di questo onore, non piccola parte degli stati
propri. Né partí il re da Napoli con molta sodisfazione tra il
pontefice e lui: perché dimandandogli la investitura del regno, il
pontefice denegava di concederla se non col censo con il quale era
stato conceduto agli antichi re, e il re faceva instanza che gli
fusse fatta la medesima diminuzione che era stata fatta a Ferdinando
suo cugino e a' figliuoli e a' nipoti; dimandando l'investitura di
tutto 'l regno in nome suo proprio, come successore di Alfonso
vecchio, nel qual modo, quando era a Napoli, aveva ricevuto
l'omaggio e i giuramenti, con tutto che ne' capitoli della pace
fatta col re di Francia si disponesse che, in quanto a Terra di
Lavoro e l'Abruzzi, si riconoscesse insieme il nome della reina.
Credettesi che l'avere denegato il concedere l'investitura fusse
cagione che 'l re recusasse di venire a parlamento col pontefice, il
quale essendo stato nel tempo medesimo piú dí nella rocca d'Ostia si
diceva esservi stato per aspettare la passata sua.
Quel che di questo sia la verità, dirizzò il re d'Aragona la
navigazione a Savona, ove era convenuto di abboccarsi col re di
Francia; il quale, essendo per questa cagione soprastato in Italia,
subito che ebbe intesa la partita sua da Napoli, vi era venuto da
Milano. Furono in questo congresso da ogni parte molto libere e
piene di somma confidenza le dimostrazioni, e tali quali non era
memoria degli uomini essere mai state in alcuno congresso simile;
perché negli altri príncipi, tra' quali era o emulazione o ingiurie
antiche o causa di sospetto, si riducevano insieme con tale ordine
che l'uno non si metteva in potestà dell'altro, ma in questo ogni
cosa procedette diversamente. Perché, come l'armata aragonese si
accostò al porto di Savona, il re di Francia, che allo apparire suo
nel mare era disceso in sul molo del porto, passò, per uno ponte
fatto per questo effetto di legname, con pochi gentiluomini e senza
alcuna guardia, in sulla poppa della galea del re; ove raccolto con
allegrezza inestimabile dal re e dalla reina nipote sua, poiché vi
furono dimorati con giocondissime parole per alquanto spazio, usciti
della galea, per il ponte medesimo entrorono a piedi nella città,
avendo fatica non mediocre di passare per mezzo di infinita
moltitudine d'uomini e di donne concorsa di tutte le terre
circostanti. Aveva la reina alla mano destra il marito all'altra il
zio, ornata maravigliosamente di gioie e di altri suntuosissimi
abbigliamenti: appresso a' due re, il cardinale di Roano e il gran
capitano. Seguitavano molte fanciulle e giovani nobili della corte
della reina, tutte ornate superbissimamente: innanzi e indietro, le
corti de' due re con magnificenza e pompa incredibile di
suntuosissime vesti e di altri ricchissimi ornamenti. Con la quale
celebrità furono dal re di Francia accompagnati il re e la reina di
Aragona al castello, deputato per suo alloggiamento, il quale ha
l'uscita in sul mare, e assegnata alla sua corte la metà della città
contigua a quello; alloggiando il re di Francia nelle case del
vescovado, che sono di fronte al castello. Spettacolo certamente
memorabile, vedere insieme due re potentissimi tra tutti i príncipi
cristiani, stati poco innanzi sí acerbissimi inimici, non solo
reconciliati e congiunti di parentado ma, deposti tutti i segni
dell'odio e della memoria delle offese, commettere ciascuno di loro
la vita propria in arbitrio dell'altro, con non minore confidenza
che se sempre fussino stati concordissimi fratelli; onde si dava
occasione di ragionamenti a quegli che erano presenti, quale de' due
re avesse dimostrato maggiore confidenza; ed era celebrata, da
molti, piú quella del re di Francia, che primo si fusse messo in
potestà dell'altro, non sicuro con altro legame che della fede,
perché non era congiunta in matrimonio a lui una nipote del re di
Aragona, non aveva quell'altro maggiore cagione di vergognarsi
perché prima fusse stata osservata la fede a lui, ed era piú
verisimile il sospetto che Ferdinando desiderasse di assicurarsi di
lui per stabilirsi meglio il reame di Napoli. Ma da molti altri era
piú predicata la confidenza di Ferdinando, che non per tempo
brevissimo, come il re di Francia, ma per spazio di piú dí si fusse
rimesso in potestà sua; perché avendolo spogliato di uno regno tale,
con tanto danno delle sue genti e con tanta ignominia del suo nome,
aveva da temere che grande fusse l'odio e il desiderio della
vendetta, e perché s'aveva a sospettare piú dove era maggiore il
premio della perfidia. Del fare prigione il re di Francia non
riportava Ferdinando molto frutto, per essere in modo ordinato, con
le sue leggi e consuetudini, il reame di Francia che non per questo
diminuiva molto di forze e di autorità; ma fatto prigione Ferdinando
non era dubbio che, per avere eredi di piccolissima età, per
essergli reame nuovo il reame di Napoli, e perché gli altri regni
suoi e quello di Castiglia sarebbeno stati per vari accidenti
confusi in se stessi, non arebbe il re di Francia, per molti anni,
ricevuto dalla potenza e armi di Spagna ostacolo alcuno.
Ma non dava minore materia a' ragionamenti il gran capitano; al
quale non erano meno volti gli occhi degli uomini, per la fama del
suo valore e per la memoria di tante vittorie: la quale faceva che i
franzesi, ancora che vinti tante volte da lui e che solevano avere
in sommo odio e orrore il suo nome, non si saziassino di
contemplarlo e onorarlo, e di raccontare a quegli che non erano
stati nel reame di Napoli, chi la celerità quasi incredibile e
l'astuzia quando in Calavria assaltò all'improviso i baroni
alloggiati a Laino, chi la costanza dell'animo e la tolleranza di
tante difficoltà e incomodi quando, in mezzo della peste e della
fame, era assediato in Barletta; chi la diligenza e l'efficacia di
legare gli animi, gli uomini, con la quale sostentò tanto tempo i
soldati senza danari; quanto valorosamente combattesse alla
Cirignuola, con quanto valore e fortezza d'animo, inferiore tanto di
forze, con l'esercito non pagato e tra infinite difficoltà,
determinasse non si discostare dal fiume del Garigliano; con che
industria militare e con che stratagemmi ottenesse quella vittoria,
quanto sempre fusse stato svegliato a trarre frutto de' disordini
degl'inimici: e accresceva l'ammirazione degli uomini la maestà
eccellente della presenza sua, la magnificenza delle parole, i gesti
e le maniere piene di gravità condita di grazia. Ma sopra tutti il
re, che aveva voluto che alla mensa medesima alla quale cenorono
insieme Ferdinando e la reina e lui cenasse ancora egli, e gliene
aveva fatto comandare da Ferdinando, stava come attonito a guardarlo
e a ragionare seco. In modo che, a giudizio di tutti, non fu manco
glorioso quel giorno al gran capitano che quello nel quale,
vincitore e come trionfante, entrò con tutto l'esercito nella città
di Napoli. Fu questo l'ultimo dí de' dí gloriosi al gran capitano,
perché dipoi non uscí mai de' reami di Spagna, né ebbe piú facoltà
di esercitare la sua virtú né in guerra né in cose memorabili di
pace.
Stettono i due re insieme tre dí; nel quale tempo ebbono
secretissimi e lunghissimi ragionamenti, non ammesso a quegli, né
onorato se non generalmente, il cardinale di Santa Prassede, legato
del pontefice; i quali, per quello che parte allora si comprese
parte dappoi si manifestò, furono principalmente: promessa l'uno
all'altro di conservarsi insieme in perpetua amicizia e
intelligenza, e che Ferdinando si ingegnasse di comporre insieme
Cesare e il re di Francia, acciocché tutti uniti procedessino poi
contro a' viniziani. E per mostrare di essere intenti non manco alle
cose comuni che alle proprie, ragionorono di riformare lo stato
della Chiesa, e a questo effetto convocare uno concilio; in che non
procedeva con molta sincerità Ferdinando ma cercava nutrire il
cardinale di Roano, cupidissimo del pontificato, con questa
speranza: con le quali arti prese in modo l'animo suo che, forse con
non piccolo detrimento delle cose del suo re, si accorse tardi, e
dopo molti segni che dimostravano il contrario, quanto fussino in
quel principe diverse le parole dalle opere, e quanto fussino
occulti i consigli suoi. Parlossi ancora tra loro della causa de'
pisani, trattata tutto l'anno medesimo da' fiorentini con l'uno e
con l'altro. Perché il re di Francia, quando si preparava contro a'
genovesi, essendo sdegnato contro a loro per i favori davano a'
genovesi, e parendogli opportuno alle cose sue che i fiorentini
recuperassino quella città, aveva data loro speranza, ottenuto che
avesse Genova, mandarvi l'esercito, nel quale e in tutta la corte
era, per la medesima cagione, convertita in odio la benivolenza
antica de' pisani; ma espedita la impresa di Genova mutò consiglio,
per le cagioni che lo indussono a licenziare l'esercito, e per non
offendere l'animo del re di Aragona, che affermava che disporrebbe i
pisani a ritornare concordemente sotto 'l dominio de' fiorentini:
dalla qual cosa il re di Francia sperava conseguire da' fiorentini
quantità grande di danari. A questo medesimo, benché per diverse
cagioni, si indirizzava l'animo del re di Aragona: al quale sarebbe
stato piú grato che i fiorentini non recuperassino Pisa, ma
conoscendo non si potere piú conservarla senza spesa e senza
difficoltà, e dubitando non la ottenessino per mezzo del re di
Francia, aveva sperato di potere con l'autorità sua, quando era a
Napoli, indurre i pisani a ricevere con oneste condizioni il dominio
de' fiorentini, i quali gli promettevano, succedendo questo, di
confederarsi seco e di donargli in certi tempi cento ventimila
ducati; ma non avendo trovata ne' pisani quella corrispondenza della
quale gli aveano prima data intenzione, per interrompere che il
premio non fusse solamente del re di Francia, aveva detto
apertamente agli oratori de' fiorentini che, in qualunque modo
tentassino di recuperare Pisa senza l'aiuto suo, farebbe loro
manifesta opposizione; e al re di Francia, per rimuoverlo da'
pensieri di tentare l'armi, ora mostrava di confidare di indurgli a
qualche composizione ora diceva i pisani essere sotto la sua
protezione: benché questo fusse falso, perché era vero i pisani
averla piú volte dimandata e offerto di dargli assolutamente il
dominio, ma egli, dando loro sempre speranza di ricevergli, e
facendo fare il medesimo piú amplamente al gran capitano, non mai
l'aveva accettato. Ma in Savona, discussa piú particolarmente questa
materia, conchiusono essere bene che Pisa ritornasse sotto i
fiorentini; ma che ciascuno di loro ne ricevesse premio. Le quali
cose furno cagione che i fiorentini, per non offendere l'animo del
re di Aragona, pretermessono di dare quello anno il guasto alle
ricolte de' pisani: cosa nella quale avevano molta speranza, perché
Pisa era molto esausta di vettovaglie, e tanto debole di forze che
le genti de' fiorentini correvano per tutto il paese insino alle
porte; e i contadini, piú potenti di numero d'uomini in Pisa che i
cittadini, essendo loro molestissimo il perdere il frutto delle
fatiche loro di tutto l'anno, cominciavano a rimettere assai della
solita ostinazione. Né a' pisani concorrevano piú gli aiuti soliti
de' vicini; perché ne' genovesi battuti da tante calamità non erano
piú i medesimi pensieri, Pandolfo Petrucci recusava lo spendere, e i
lucchesi, con tutto che sempre occultamente di qualche cosa gli
sovvenissino, non potevano soli tanta spesa sostenere.
Partirono da Savona con le medesime dimostrazioni di concordia e di
amore dopo quattro giorni i due re; l'uno per mare al cammino di
Barzalona; l'altro se ne ritornò per terra in Francia, lasciate
l'altre cose d'Italia nel grado medesimo, ma con peggiore
sodisfazione dell'animo del pontefice. Il quale, di nuovo, presa
occasione dal movimento fatto da Annibale Bentivoglio, avea per il
cardinale di Santa Prassede fatto instanza in Savona che gli facesse
dare prigioni Giovanni Bentivogli e Alessandro suo figliuolo, i
quali erano nel ducato di Milano; allegando che, poi che avevano
contravenuto alla concordia fatta per mezzo di Ciamonte in Bologna,
non era piú il re obligato a osservare loro la fede data; e
offerendo, in caso gli fusse consentito questo, mandare l'insegne
del cardinalato al vescovo d'Albi. Negava il re costare della colpa
di costoro: la quale perché era disposto a punire aveva fatto
ritenere molti dí Giovanni nel castello di Milano, ma non apparendo
indizio alcuno del delitto loro, non volere mancare della fede alla
quale pretendeva di essere obligato; e nondimeno, per fare cosa
grata al pontefice, essere disposto a tollerare che egli, con le
censure e con le pene, procedesse contro a loro come contro a
ribelli della Chiesa; cosí come non si era lamentato che in Bologna,
in sulla caldezza di questo moto, fusse stato distrutto da'
fondamenti il palagio loro.
Lib.7, cap.9
Minacce di Massimiliano contro il re di Francia; sospensione d'animi
in Italia. Il contegno del pontefice. Raffreddamento degli animi de'
príncipi tedeschi alla dieta di Costanza. Deliberazioni della dieta,
e timori in Italia.
Procedeva nel tempo medesimo la dieta, congregata a Gostanza, con la
medesima espettazione degli uomini con la quale aveva avuto
principio. La quale espettazione Cesare nutriva con varie arti e con
magnifiche parole, publicando d'avere a passare in Italia con
esercito tale che forze molto maggiori di quelle del re di Francia e
degli italiani uniti insieme non potrebbono resistergli. E per dare
maggiore degnità e autorità alla causa sua, dimostrando essergli
fisso nell'animo il patrocinio della Chiesa, aveva per sue lettere
significato al pontefice e al collegio de' cardinali avere
dichiarato il re di Francia ribelle e inimico del sacro imperio,
perché era venuto in Italia per trasferire nella persona del
cardinale di Roano la degnità pontificale e in sé la imperiale, e
per ridurre Italia tutta in acerba soggezione; prepararsi per venire
a Roma per la corona, e per stabilire la sicurtà e la libertà
comune; e che a sé, per la degnità imperiale avvocato della Chiesa e
per la propria pietà desiderosissimo di esaltare la sedia
apostolica, non era stato conveniente aspettare d'essere richiesto o
pregato di questo, perché sapeva il pontefice per paura di tanti
mali essersi fuggito da Bologna, e la medesima paura impedire che né
egli né il collegio non facessino intendere i loro pericoli e
dimandassino d'essere soccorsi. Significate adunque in Italia per
vari avvisi le cose che in Germania si trattavano, traportate ancora
dalla fama maggiore che la verità, e accrescendo fede a quel che
publicamente se ne diceva i preparamenti grandissimi che faceva il
re di Francia, il quale si credeva che non temesse senza cagione,
molto commossono gli animi di tutti, chi per cupidità di cose nuove
chi per speranza chi per timore; in modo che il pontefice mandò
legato a Cesare il cardinale di Santa Croce; e i viniziani, i
fiorentini e, dal marchese di Mantova in fuora, tutti quegli che in
Italia dependevano da se medesimi, gli mandorno, o sotto nome di
imbasciadori o sotto altro nome, uomini propri. Le quali cose
angustiavano molto l'animo del re di Francia, incerto della volontà
de' viniziani, e incertissimo di quella del pontefice, sí per
l'altre cagioni antiche e specialmente per l'avere eletto a questa
legazione il cardinale di Santa Croce, desideroso molto per antica
inclinazione della grandezza di Cesare. E certamente la volontà del
pontefice non che fusse manifesta agli altri non era nota a se
stesso; perché avendo l'animo pieno di mala sodisfazione e di
sospetti del re di Francia, talvolta, per liberarsene, la venuta di
Cesare desiderava, talvolta la memoria delle antiche controversie
tra i pontefici e gli imperadori lo spaventava, considerando che
ancora duravano le medesime cagioni: nella quale ambiguità differiva
a risolversi, aspettando di intendere prima quel che si deliberasse
nella dieta; e perciò, procedendo con termini generali, aveva
commesso al legato che confortasse in nome suo Cesare a passare in
Italia senza esercito, offerendogli maggiori onori che mai da
pontefice alcuno fusseno stati fatti nella incoronazione degli
imperadori.
Ma cominciò non molto poi a diminuire l'espettazione delle
deliberazioni della dieta: perché, come in Germania si seppe che il
re di Francia aveva subito dopo la vittoria de' genovesi licenziato
l'esercito, e che poi quanto piú presto aveva potuto si era
ritornato di là da' monti, si raffreddò molto l'ardore de' príncipi
e de' popoli, essendo cessato il timore che egli tentasse di
usurpare il pontificato e lo imperio, né essendo in tanta
considerazione gli altri interessi publici che, come il piú delle
volte accade, non fussino superati dagli interessi privati; perché,
oltre all'altre cagioni, era desiderio inveterato in tutta Germania
che la grandezza degli imperadori non fusse tale che gli altri
fussino costretti a ubbidirlo. Né aveva il re di Francia mancato di
diligenza alcuna alla causa sua: perché a Gostanza mandò
occultamente uomini propri, i quali, non si dimostrando in publico
ma procedendo secretissimamente, si sforzavano con occulto favore
de' príncipi amici suoi di mitigare gli animi degli altri, purgando
le infamie che gli erano state date con l'evidenza degli effetti;
poiché, come ebbe ridotta Genova all'ubbidienza sua, aveva cosí
subitamente licenziato l'esercito, ed egli, benché rimasto in Italia
senza armi, essersene quanto piú presto aveva potuto ritornato di là
da' monti; e affermando che non solo si era sempre astenuto con
l'opere da offendere l'imperio romano ma, in qualunque
confederazione convenzione o obligazione che avea fatta, avere
sempre eccettuato di non volere essere tenuto a cosa alcuna contro
alle ragioni del sacro imperio: e nondimeno, non confidando tanto di
queste giustificazioni che non attendessino con diligenza grande, e
con la mano molto liberale, a temperare la ferocia dell'armi
tedesche con la potenza dell'oro, del quale quella nazione è
avidissima.
Terminò finalmente il vigesimo dí di agosto la dieta, nella quale fu
determinato, dopo molte dispute, che al re de' romani, per
seguitarlo in Italia fussino dati ottomila cavalli e ventiduemila
fanti pagati per sei mesi, e per la spesa dell'artiglierie e altre
spese estraordinarie cento ventimila fiorini di Reno, per tutto il
tempo: le quali genti fu statuito che il dí della festività prossima
di san Gallo, che è circa a mezzo il mese di ottobre, si
ritrovassino in campagna appresso a Gostanza. E si divulgò allora
che arebbono forse deliberato maggiori sussidi se Massimiliano
avesse consentito che la impresa, benché sotto il governo e
consiglio suo, si facesse interamente in nome dell'imperio, che per
ordine dell'imperio i capitani si eleggessino e sotto il nome
medesimo le genti si comandassino, e che la distribuzione de' luoghi
che si acquistassino si facesse secondo la determinazione della
dieta; ma non volendo Massimiliano altro compagno o altro nome che
il suo, né che di altri che suoi, benché sotto nome dello imperio,
fussino i premi della vittoria, e contentandosi piú di questo aiuto,
in questo modo, che, in altro modo, di maggiore, non fu fatta altra
deliberazione. La quale benché non corrispondesse alla espettazione
degli uomini prima conceputa, nondimeno non cessava perciò in Italia
il timore che s'aveva della passata sua; perché si considerava che,
aggiunti alle genti stabilite nella dieta gli aiuti che gli
darebbono i sudditi suoi, e quel che egli poteva fare da se
medesimo, arebbe esercito molto potente e di gente tutta feroce ed
esperimentata alla guerra, e accompagnato con infinite artiglierie;
il che faceva piú formidabile l'essere egli, per la disposizione
della natura e per il lungo esercizio nell'armi, peritissimo nella
disciplina militare, e bastante a sostenere con le fatiche del corpo
e con la sollecitudine dell'anima qualunque gravissima impresa; e
perciò in maggiore estimazione che già cento anni fusse stata alcuna
imperadore. Aggiugnevasi che continuamente trattava di condurre agli
stipendi suoi dodicimila svizzeri: alla qual cosa benché il baglí di
Digiuno e gli altri mandati dal re di Francia, con grande instanza
si opponessino, nelle diete di quella nazione, riducendo in memoria
la confederazione continuata tanti anni co' re di Francia e
confermata poco innanzi con questo medesimo re, l'utilità che ne era
pervenuta negli uomini loro, e da altra parte l'inimicizia
inveterata con la casa di Austria e la grave guerra avuta con
Massimiliano, e quanto fusse perniciosa a loro la grandezza dello
imperio, nondimeno mostravano non piccola inclinazione di sodisfare
alle dimande di Cesare, o almeno di non pigliare l'armi contro a
lui; avendo, secondo si credeva, rispetto a non offendere il nome
comune della Germania, il quale pareva pure annesso a questo
movimento. Onde molti dubitavano che il re di Francia, in caso fusse
abbandonato da' svizzeri o non si unissino seco i viniziani, non
avendo fanteria potente a resistere a' fanti degli inimici, e
sperando che il furore tedesco, entrato in Italia come uno torrente,
s'avesse per mancamento di danari prestamente a risolvere, farebbe
ritirare le genti sue alla guardia delle terre. E già si vedeva che
con grandissima celerità si fortificavano i borghi di Milano e gli
altri luoghi piú importanti di quello ducato.
Lib.7, cap.10
Timori de' veneziani. Discussione intorno alla politica da seguire.
Deliberazioni prese e risposta agli ambasciatori di Massimiliano.
Nelle quali agitazioni e apparati non era minore perplessità nelle
menti del senato viniziano che negli altri, e per essere di
grandissimo momento la loro deliberazione, grandissime erano le
diligenze e l'opere che si facevano da ciascuno per congiugnergli a
sé. Perché Cesare v'aveva insino da principio mandato tre oratori,
uomini di grande autorità, a fare instanza che gli concedessino il
passo per il territorio loro; anzi, non contento a questa dimanda,
gl'invitava a fare seco piú stretta congiunzione con patto che
partecipassino de' premi della vittoria, e per contrario dimostrando
essere in facoltà sua di concordarsi col re di Francia, con quelle
condizioni a pregiudicio loro che tante volte in diversi tempi gli
erano state proposte: da altra parte il re di Francia, con gli
imbasciadori suoi appresso a quel senato e con lo imbasciadore
viniziano che risedeva appresso a lui, non cessava di fare ogni
opera per disporgli a opporsi con l'armi alla venuta di Cesare, come
perniciosa a l'uno e l'altro, offerendo al medesimo tutte le forze
sue e di conservare con loro perpetua confederazione. Ma non piaceva
al senato viniziano, in questo tempo, che la quiete d'Italia si
perturbasse; né gli moveva a desiderare nuovi tumulti la speranza
proposta della ampliazione dello imperio, avendo per la esperienza
conosciuto che l'acquisto di Cremona non era contrapeso pari a'
sospetti e pericoli ne' quali erano continuamente stati, poiché
avevano avuto il re di Francia tanto vicino. Volentieri si sarebbano
risoluti alla neutralità, ma stretti e infestati da Cesare erano
necessitati a negargli o concedergli il passo: negandolo temevano di
essere i primi molestati, concedendolo offendevano il re di Francia,
perché nella confederazione che era tra loro espressamente si
proibiva il concedere passo agli inimici l'uno dell'altro; e
conoscevano che, cominciando a offenderlo, sarebbe imprudenza,
passato che fusse Massimiliano, stare oziosi a vedere l'esito della
guerra, e aspettare la vittoria di coloro de' quali l'uno sarebbe
inimicissimo al nome viniziano, l'altro, non avendo ricevuto altra
sodisfazione che d'essere lasciato passare, non sarebbe loro molto
amico. Per le quali ragioni ciascuno di quel senato affermava essere
necessario aderirsi scopertamente a una delle parti, ma a quale si
avessino a aderire erano in causa tanto grave molto diverse le
sentenze; e poiché ebbeno allungato il farne deliberazione quanto
potevano, non si potendo piú sostenere la instanza che ogni dí ne
era loro fatta, ridottisi finalmente a farne nel consiglio de'
pregati ultima determinazione, Niccolò Foscarini parlò in questa
sentenza:
- Se e' fusse in nostra potestà, prestantissimi senatori, di fare
deliberazione mediante la quale, ne' movimenti e travagli che ora si
apparecchiano, si conservasse in pace la nostra republica, io sono
certissimo che tra noi non sarebbe varietà alcuna di pareri; e che
nessuna speranza che ci fusse proposta ci farebbe inclinare a una
guerra di tanta spesa e pericolo quanta si dimostra avere a essere
la presente. Ma poiché, per le ragioni le quali in questi dí sono
state tante volte allegate tra noi, non si può sperare di
conservarsi in questa quiete, io mi persuado che la principale
ragione in su la quale abbiamo a fondare la nostra deliberazione sia
il fermare una volta in noi medesimi, se noi crediamo che tra il re
di Francia e il re de' romani, disperato che sarà dell'amicizia
nostra, sia per nascere unione, o se pure l'inimicizia che è tra
loro sia sí potente e sí ferma che impedisca non si congiunghino:
perché quando fussimo sicuri di questo pericolo, io senza dubbio
approverei il non partire dall'amicizia del re di Francia, perché
congiunte con buona fede le forze nostre con le sue alla difesa
comune difenderemmo facilmente lo stato nostro, e perché sarebbe con
piú onore continuare la confederazione che abbiamo seco che
partircene senza evidente cagione, e perché con piú laude e favore
di tutto il mondo sarebbe l'entrare in una guerra che avesse titolo
di volere conservare la pace d'Italia che congiugnersi con quelle
armi che manifestamente si conosce che si prendono per fare
grandissime perturbazioni; ma quando si presupponesse pericolo di
questa unione, non credo che sia nessuno che negasse che fusse da
prevenire, perché sarebbe senza comparazione piú utile unirsi col re
de' romani contro al re di Francia che aspettare che l'uno e l'altro
si unisse contro a noi. Ma quale di questo abbia a essere è
difficile fare giudicio certo, perché depende non solo dalle volontà
d'altri ma ancora da molti accidenti e da molte cagioni che appena
lasciano questa deliberazione in potestà di chi l'ha a fare:
nondimeno, per quel che si può asseguire con le congetture, e per
quello che del futuro insegna l'esperienza del passato, a me pare
sia cosa molto pericolosa e da starne con grandissimo timore. Perché
dalla parte del re de' romani non è verisimile che abbia avere molta
difficoltà, per l'ardente desiderio che gli ha di passare in Italia;
e poterlo difficilmente fare se non si congiugne o col re di Francia
o con noi: e se bene desideri piú la congiunzione nostra, chi può
dubitare che escluso da noi si congiugnerà per necessità col re di
Francia? non gli restando altro modo da pervenire a i disegni suoi.
Dalla parte del re di Francia appariscono a questa unione maggiori
difficoltà, ma non però a giudicio mio tali che possiamo
promettercene sicurezza alcuna; perché a questa deliberazione lo
possono indurre il sospetto e l'ambizione, stimoli potentissimi, e
soliti ciascuno per sé a fare movimenti molto maggiori. Ègli nota
l'instanza che fa il re de' romani della nostra unione; e benché
falsamente, pure misurando la mente e gli appetiti nostri da se
stesso, può dubitare che la suspicione che noi abbiamo di non essere
prevenuti da lui ci induca a prevenire, sapendo massime esserci noto
quel che tanto tempo hanno trattato insieme contro a noi: può ancora
temere che l'ambizione ci muova, perché non dubiterà esserci offerti
partiti grandissimi; e da questo timore che mezzo è bastante ad
assicurarlo? non essendo cosa alcuna naturalmente piú sospettosa che
gli stati. Può oltre al sospetto muoverlo l'ambizione, per il
desiderio che sappiamo che ha della città di Cremona, accendendolo a
questo gli stimoli de' milanesi, e non meno lo appetito di occupare
tutto lo stato vecchio de' Visconti, nel quale come nel resto del
ducato di Milano pretende titolo ereditario; e a questo non può
sperare di pervenire se non si unisce col re de' romani, perché la
republica nostra è potente per se medesima, e assaltandoci il re di
Francia da sé solo sarebbe sempre in potestà nostra congiugnerci con
Massimiliano: e che questi pensieri possino essere anzi sempre sieno
stati in lui, ne fa fede manifesta che mai ha ardito di tentare
d'opprimerci senza questa unione; la quale essendo il cammino unico
che può condurlo al fine desiderato, perché non dobbiamo noi credere
che finalmente vi si abbia a disporre? Né ci assicuri da questo
timore il considerare che a lui sarebbe inutile deliberazione, per
acquistare due o tre città, mettere in Italia il re de' romani
inimico naturale suo, e dal quale sempre alla fine arà molestie e
guerre né mai amicizia se non incerta, e che cosí incerta gli
bisognerà comperare e sostenere con somma infinita di denari:
perché, se ha sospetto che noi non ci uniamo col re de' romani, gli
parrà che il prevenire non lo metta in pericolo ma lo assicuri;
anzi, quando bene non temesse di questa unione, giudicherà forse
necessario confederarsi seco per liberarsi dai travagli e pericoli
che potesse avere da lui, o con l'aiuto della Germania o con altre
aderenze e occasioni; e con tutto che potessino succedergli maggiori
pericoli se il re de' romani cominciasse a fermare piede in Italia,
è natura comune degli uomini temere prima i pericoli piú vicini e
stimare piú che non conviene le cose presenti, e tenere minore conto
che non si debbe delle future e lontane, perché a quelle si possono
sperare molti rimedi dagli accidenti e dal tempo. Dipoi, quando bene
il fare questa unione non fusse utile per il re di Francia, non
siamo però sicuri che egli non l'abbia a fare. Non sappiamo noi
quanto ora la paura ora la cupidità acciecano gli uomini? non
conosciamo noi la natura de' franzesi, leggieri a imprese nuove, e
che non hanno mai la speranza minore del desiderio? non ci sono noti
i conforti e l'offerte, bastanti ad accendere ogni animo quieto, con
le quali è stimolato contro a noi da' milanesi dal papa da'
fiorentini dal duca di Ferrara e dal marchese di Mantova? Gli uomini
non sono tutti savi, anzi sono pochissimi i savi; e chi ha a fare
pronostico delle deliberazioni d'altri debbe, non si volendo
ingannare, avere in considerazione non tanto quello che
verisimilmente farebbe uno savio quanto quale sia il cervello e la
natura di chi ha a deliberare. Però, chi vuole giudicare quello che
farà il re di Francia, non avvertirà tanto a quello che sarebbe
ufficio della prudenza quanto che i franzesi sono inquieti e
leggieri, e soliti a procedere spesso piú con caldezza che con
consiglio. Considererà quali sieno le nature de' príncipi grandi,
che non sono simili alle nostre, né resistono sí facilmente agli
appetiti loro come fanno gli uomini privati; perché assuefatti a
essere adorati ne' regni suoi, e intesi e ubbiditi a cenni, non solo
sono elati e insolenti ma non possono tollerare di non ottenere
quello che gli pare giusto (e giusto pare ciò che desiderano),
persuadendosi di potere spianare con una parola tutti gli
impedimenti e superare la natura delle cose; anzi si recono a
vergogna il ritirarsi per le difficoltà dalle loro inclinazioni, e
misurano comunemente le cose maggiori con quelle regole con le quali
sono consueti a procedere nelle minori, consigliandosi non con la
prudenza e con la ragione ma con la volontà e alterezza: de' quali
vizi comuni a tutti i príncipi, non sarà già alcuno che dica che i
franzesi non partecipino. Non vedemmo noi frescamente l'esempio del
regno di Napoli? che dal re di Francia, indotto da ambizione e da
inconsiderazione, fu consentita la metà al re di Spagna per avere
egli l'altra metà; non pensando quanto indebolisse la sua potenza,
unica prima tra tutti gl'italiani, il mettere in Italia un altro re,
eguale a lui di potenza e d'autorità. Ma che andiamo noi per
congetture in quelle cose delle quali abbiamo la certezza? Non è
egli cosa notissima quel che trattò il cardinale di Roano, con
questo medesimo Massimiliano, a Trento, di dividersi il nostro
stato? non si sa egli che poi a Bles fu conchiusa tra loro la
medesima pratica, e che 'l medesimo cardinale, andato in Germania
per questo, ne riportò la ratificazione e il giuramento di Cesare?
Non ebbono effetto questi accordi, io lo confesso, per qualche
difficoltà che sopravenne; ma chi ci assicura, che poiché la
intenzione principale è stata la medesima, che non si possi trovare
mezzo alle difficoltà che hanno disturbato il desiderio comune? Però
considerate diligentemente, dignissimi senatori, i pericoli
imminenti, e il carico e infamia che appresso a tutto il mondo
oscurerà il nome chiarissimo della prudenza di questo senato se,
misurando male la condizione delle cose presenti, permetteremo che
altri si faccia formidabile, a offesa nostra, di quell'armi che ci
sono offerte a sicurtà e augumento nostro; e vogliate, in beneficio
della patria vostra, considerare quanta differenza sia dal muovere
la guerra ad altri ad aspettare che la sia mossa a noi, trattare di
dividere lo stato d'altri o aspettare che sia diviso il nostro,
essere accompagnati contro a uno solo o rimanere soli contro a molti
compagni: perché se questi due re si uniscono insieme contro a noi
gli seguiterà il pontefice per conto delle terre di Romagna, il re
d'Aragona per i porti del reame di Napoli, e tutta Italia, chi per
ricuperare chi per assicurarsi. È noto a tutto il mondo quel che
tanti anni ha trattato il re di Francia con Cesare contro a noi:
però se ci armeremo contr'a chi ci ha voluto ingannare niuno ci
chiamerà mancatori di fede, niuno se ne maraviglierà, ma da tutti
saremo riputati prudenti; e con nostra somma laude sarà veduto in
pericolo chi si sa per ciascuno che ha cercato fraudolentemente
mettervi noi. -
Ma in contrario fu per [Andrea Gritti] parlato cosí:
- Se e' fusse conveniente in una medesima materia rendere sempre il
voto nel bossolo de' non sinceri, io vi confesso, clarissimi
senatori, che io in altro bossolo non lo renderei; perché questa
consultazione ha da ogni parte tante ragioni che io spesso mi
confondo: nondimeno, essendo necessario il risolversi, né potendo
farsi con fondamenti o presuppositi certi, bisogna, pesate le
ragioni che contradicono l'una a l'altra, seguitare quelle che sono
piú verisimili e che hanno piú potenti congetture. Le quali quando
io esamino, non mi può in modo alcuno essere capace che il re di
Francia, o per sospetto di non essere prevenuto da noi o per
cupidità di quelle terre che appartenevano già al ducato di Milano,
si accordi col re de' romani a farlo passare in Italia contro a noi,
perché i pericoli e i danni che gliene seguiterebbono sono senza
dubbio maggiori e piú manifesti che non è il pericolo che noi ci
uniamo con Cesare, o che non sono i premi che e' potesse sperare di
questa deliberazione; atteso che, oltre alle inimicizie e ingiurie
gravissime che sono tra loro, ci è la concorrenza della dignità e
degli stati, solita a generare odio tra quegli che sono amicissimi.
Però, che il re di Francia chiami in Italia il re de' romani, non
vuole dire altro che in luogo d'una republica quieta e stata sempre
in pace seco, e che non pretende con lui alcuna differenza, volere
per vicino uno re ingiuriato, inquietissimo, e che ha mille cause di
contendere seco d'autorità, di stato e di vendetta. Né sia chi dica
che per essere il re de' romani povero, disordinato e mal fortunato,
non sarà temuta dal re di Francia la sua vicinità; perché per la
memoria delle antiche fazioni e inclinazioni d'Italia, le quali
ancora in molti luoghi sono accese, e specialmente nel ducato di
Milano, non arà mai uno imperadore romano sí piccolo nidio in Italia
che non sia con grave pericolo degli altri; e costui massimamente,
per lo stato che ha contiguo a Italia, per essere riputato principe
di grande animo e di grande scienza ed esperienza nelle cose della
guerra, e perché può avere seco i figliuoli di Lodovico Sforza,
instrumento potente a sollevare gli animi di molti: senza che, in
ogni guerra che avesse col re di Francia può sperare d'avere
l'aderenza del re cattolico, se non per altro, perché tutti due
hanno una medesima successione. Sa pure il re di Francia quanto è
potente la Germania, e quanto sarà piú facile a unirsi, tutta o
parte, quando sarà già aperto l'adito in Italia, e la speranza della
preda sarà presente. E non abbiamo noi veduto quanto egli ha temuto
sempre de' moti de' tedeschi e di questo re, cosí povero e
disordinato come è? il quale se fusse in Italia, sarebbe certo non
potere avere altro seco che o guerra pericolosa o pace infedelissima
e di grandissima spesa. Può essere che abbia desiderio di recuperare
Cremona, e forse l'altre terre; ma non è già verisimile che per
cupidità di acquisto minore si sottoponga a pericolo di danno molto
maggiore, ed è piú credibile che abbia a procedere in questo caso
con prudenza che con temerità: massimamente che, se noi discorriamo
gli errori i quali si dice avere commessi questo re, non hanno avuto
origine da altro che da troppo desiderio di fare le imprese
sicuramente. Perché, che altro lo indusse al dividere il regno di
Napoli, che altro a consentire Cremona a noi, se non il volere fare
piú facile la vittoria di quelle guerre? Dunque è piú credibile che,
medesimamente ora, seguiterà i consigli piú savi e la sua
consuetudine che i consigli precipitosi; massime che per questo non
resterà privato al tutto di speranza di potere ad altro tempo, con
sicurtà maggiore e con occasione migliore, conseguire lo intento
suo: cose che gli uomini sogliono promettersi facilmente, perché
manco erra chi si promette variazione nelle cose del mondo che chi
se le persuade ferme e stabili. Né mi spaventa quello che si dice
essere stato altre volte trattato tra questi due re, perché è
costume de' príncipi della nostra età intrattenere artificiosamente
l'uno l'altro con speranze vane e con simulate pratiche; le quali,
poiché in tanti anni non hanno avuto effetto, bisogna confessare o
che siano state finzioni o che abbino in sé qualche difficoltà che
non si possa risolvere: perché la natura delle cose repugna a levare
la diffidenza tra loro, senza il quale fondamento non possono venire
a questa congiunzione. Non temo adunque che per cupidità delle
nostre terre il re di Francia si precipiti a sí imprudente
deliberazione; e manco, a mio giudizio, vi si precipiterà per
sospetto che abbia di noi, perché oltre alla esperienza lunga che ha
veduto dell'animo nostro, non ci essendo mancati molti stimoli e
molte occasioni di partirci dalla sua confederazione, le ragioni
medesime che assicurano noi di lui assicurano medesimamente lui di
noi; perché nessuna cosa ci sarebbe piú perniciosa che l'avere il re
de' romani stato in Italia, sí per l'autorità dell'imperio,
l'augumento del quale ci ha sempre a essere sospetto, sí per conto
della casa d'Austria che pretende ragione in molte terre nostre, sí
per la vicinità della Germania, le inondazioni della quale sono
troppo pericolose al nostro dominio: e abbiamo pure nome per tutto
di maturare le nostre deliberazioni, e peccare piú tosto in tardità
che in prestezza. Non nego che queste cose possono succedere
diversamente dalla opinione degli uomini, e però, che quando si
potesse facilmente assicurarsene sarebbe cosa laudabile; ma non si
potendo, senza entrare in grandissimi pericoli e difficoltà, è da
considerare che spesso sono cosí nocivi i timori vani come sia
nociva la troppa confidenza: perché, se noi ci confederiamo col re
de' romani contro al re di Francia, bisogna che la guerra si cominci
e si sostenga co' danari nostri, co' quali aremo a supplire eziandio
a tutte le prodigalità e disordini suoi; altrimenti o si accorderà
con gl'inimici o si ritirerà in Germania, lasciando a noi soli tutti
i pesi e pericoli. Arassi a fare la guerra contro a uno re di
Francia potentissimo, duca di Milano, signore di Genova, abbondante
di valorose genti d'arme, e instrutto, quanto alcuno altro principe,
di artiglierie; e al nome de' danari del quale concorrono i fanti di
qualunque nazione. Come adunque si può sperare che tale impresa
abbia facilmente ad avere successo felice? potendosi anche non
vanamente dubitare che tutti quegli d'Italia che o pretendono che
noi occupiamo il suo o che temono la nostra grandezza si uniranno
contro a noi; e il pontefice sopra gli altri, al quale, oltre agli
sdegni che ha con noi, non piacerà mai la potenza dello imperadore
in Italia, per la inimicizia naturale che è tra la Chiesa e lo
imperio, per la quale i pontefici non temono manco degli imperadori
nelle cose temporali che e' temino de' turchi nelle spirituali. E
questa congiunzione ci sarebbe forse piú pericolosa che non sarebbe
quella di che si teme tra il re di Francia e il re de' romani,
perché dove si accompagnano piú príncipi che pretendono d'essere
pari nascono facilmente tra loro sospetti e contenzioni; donde
spesso le imprese, cominciate con grandissima riputazione, caggiono
in molte difficoltà, e finalmente diventano vane. Né è da mettere in
ultima considerazione che, quando bene il re di Francia abbia tenute
pratiche contrarie alla nostra confederazione, non si sono però
veduti effetti per i quali si possa dire averci mancato: però, il
pigliargli guerra contro non sarà senza nota di maculare la nostra
fede, della quale questo senato debbe fare precipuo capitale per
l'onore e per l'utilità de' maneggi che tutto dí abbiamo avere con
gli altri príncipi; né ci è utile augumentare continuamente
l'opinione che noi cerchiamo di opprimere sempre tutti i vicini, che
noi aspiriamo alla monarchia d'Italia. Volesse Dio che per
l'addietro si fusse proceduto in questo con maggiore considerazione!
perché quasi tutti i sospetti che noi abbiamo al presente procedono
dall'avere per il passato offesi troppi; né si crederà che a una
nuova guerra contro al re di Francia, nostro collegato, ci tiri il
timore ma la cupidità di ottenere, congiugnendoci col re de' romani,
una parte del ducato di Milano contro a lui, come congiunti seco
ottenemmo contro a Lodovico Sforza: al quale tempo se ci fussimo
governati con piú moderazione, né temuto troppo i sospetti vani, non
sarebbano le cose d'Italia nelle presenti agitazioni, e noi,
conservatici con fama di piú modestia e gravità, non saremmo ora
necessitati a entrare in guerra con questo o con quello principe piú
potenti di noi. Nella quale necessità poiché siamo, credo sia piú
prudenza non partire dalla confederazione del re di Francia che,
mossi da timore vano o da speranza di guadagni incerti e dannosi,
abbracciare una guerra la quale soli non saremmo potenti a
sostenere, e i compagni che noi aremmo ci sarebbano alla fine di
maggiore peso che profitto. -
Vari furono in tanta varietà di ragioni i pareri del senato; ma alla
fine prevalse la memoria della inclinazione la quale sapevano avere
sempre avuta il re de' romani di recuperare, come n'avesse
occasione, le terre tenute da loro, quali pretendeva appartenersi o
allo imperio o alla casa d'Austria: però fu la loro deliberazione di
concedergli il passo venendo senza esercito, negargliene se venisse
con armi. La quale conclusione, nella risposta feciono a' suoi
oratori, si sforzorono di persuadere quanto potettono che fusse
mossa piú da necessità, per la confederazione che avevano col re di
Francia, e dalle condizioni de' tempi presenti che da volontà che
avessino di dispiacergli in cosa alcuna: aggiugnendo essere sforzati
dalla medesima confederazione di aiutarlo alla difesa del ducato di
Milano col numero di gente espresso in quella, ma che in questo
procederebbono con somma modestia, non trapassando in parte alcuna
le loro obligazioni; ed eccettuato quello che fussino costretti di
fare in questo modo per la difesa del ducato di Milano, non si
opporrebbono ad alcuno altro progresso suo; come quegli che non
erano, in quel che consistesse in potestà loro, per mancare mai di
quegli uffici e di quella reverenza che convenisse al senato
viniziano di usare verso uno tanto principe, e col quale non avevano
mai avuto altro che amicizia e congiunzione. Né per questo
procederono col re di Francia a nuove confederazioni e obligazioni,
desiderando mescolarsi il meno potevano nella guerra tra loro, e
sperando che forse Massimiliano, per non si accrescere difficoltà,
lasciati stare in pace i confini loro, volterebbe l'armi sue o nella
Borgogna o contro allo stato di Milano.
Lib.7, cap.11
Difficoltà di Massimiliano. I preparativi suoi, quelli del re di
Francia e quelli dei veneziani. Fallita spedizione di fuorusciti
genovesi contro Genova. Lamentele reciproche fra il re di Francia e
il pontefice. Fallito tentativo de' Bentivoglio di ricuperare
Bologna; morte di Giovanni Bentivoglio.
Ma al re de' romani, rimasto senza speranza d'avere i viniziani
congiunti seco, cominciorono a succedere nuove altre difficoltà; le
quali benché si ingegnasse superare con la grandezza de' suoi
concetti, facili a promettersi sempre maggiori le speranze che gli
impedimenti, nondimeno ritardavano grandemente gli effetti de' suoi
disegni; perché né per se medesimo aveva danari che gli bastassino a
condurre i svizzeri e fare tante altre spese che erano necessarie a
tanta impresa, né il sussidio pecuniario che gli aveva promesso la
dieta era tale che potesse supplire a una minima parte della
voragine della guerra; e quello fondamento in sul quale, insino da
principio, aveva sperato assai, che le comunità e i signori d'Italia
avessino, per il terrore del nome e della venuta sua, a comporre
seco e sovvenirlo di danari, si andava ogni dí piú difficultando.
Perché se bene nel principio vi fussino stati inclinati molti,
nondimeno, non avendo corrisposto le conclusioni della dieta di
Gostanza alla espettazione che la impresa avesse a essere piú presto
di tutto lo imperio e di quasi tutta la Germania che sua propria, e
vedendosi le preparazioni del re di Francia potenti, e la nuova
dichiarazione de' viniziani, ciascuno stava sospeso, né ardiva,
aiutandolo di quella cosa della quale aveva piú di bisogno, fare
offesa sí grave al re di Francia; né le dimande di Massimiliano
erano, nel tempo che si ebbe maggiore spavento di lui, state tali,
che con la sua facilità avessino indotto gli uomini a sovvenirlo.
Perché e a ciascuno, secondo le sue condizioni, dimandava assai; e
ad Alfonso duca di Ferrara, il quale pretendeva essere debitore a
Bianca sua moglie della dote di Anna sua sorella, morta molti anni
innanzi nel matrimonio di Alfonso, faceva dimande molto eccessive; e
a' fiorentini intollerabili: a' quali il cardinale brissinense, che
trattava a Roma le cose sue, essendogli da lui stata rimessa la
pratica della loro composizione, aveva dimandato ducati
cinquecentomila; la quale dimanda immoderata gli fece fermare in
questa resoluzione di temporeggiare seco insino a tanto che de'
progressi suoi non si vedesse piú oltre, e nondimeno, avendo
rispetto a non l'offendere, scusarsi col re di Francia, che
dimandava le genti loro, non potergliene dare perché erano occupate
nel guasto che con grande apparato si dava quello anno a' pisani, e
perché, avendo cominciato di nuovo i genovesi e gli altri vicini ad
aiutargli, erano necessitati a stare continuamente preparati contro
a loro. Però, non potendo Cesare aiutarsi, secondo aveva disegnato,
de' denari degl'italiani, perché solamente ebbe da' sanesi seimila
ducati, fece instanza col pontefice che almanco gli concedesse di
pigliare centomila ducati i quali, riscossi prima in Germania sotto
nome della guerra contro a' turchi, ed essendo a questo effetto
custoditi in quella provincia, non si potevano senza licenza della
sedia apostolica in altro uso convertire; offerendo, che se bene non
poteva sodisfare alle dimande sue di non passare in Italia con
esercito, nondimeno che, come avesse restituiti nel ducato di Milano
i figliuoli di Lodovico Sforza, il patrocinio de' quali pretendeva,
per farsi i popoli di quello stato piú favorevoli e manco esosa la
passata sua, lasciate quivi tutte le genti, andrebbe senza armi a
Roma a ricevere la corona dello imperio. Ma gli fu similmente negata
questa dimanda dal pontefice, il quale non si vedeva inclinare in
parte alcuna, dimostrandogli che in questo stato delle cose non
poteva senza molto suo pericolo provocare l'armi del re di Francia
contro a sé. Nondimeno Massimiliano costituito in queste difficoltà,
come era sollecito, confidente, e che con fatica incredibile voleva
eseguire da se medesimo, non ometteva alcuna di quelle cose che
conservassino la fama della passata sua; inviando in piú luoghi a'
confini d'Italia artiglierie, sollecitando la pratica del condurre i
dodicimila svizzeri, i quali interponendo varie dimande e proponendo
molte eccezioni non gli davano ancora certa resoluzione,
sollecitando le genti promesse, e trasferendosi personalmente ogni
dí da uno luogo a uno altro per diverse espedizioni: in modo che,
stando gli uomini molto confusi, erano per tutta Italia, quanto mai
fussino in cosa alcuna, vari i giudíci; avendo altri maggiore
concetto che mai di questa impresa, altri pensando che andasse piú
presto a diminuzione che ad augumento. La quale incertitudine
accresceva egli, perché, segretissimo di natura, non comunicava ad
altri i suoi pensieri; e perché fussino manco noti in Italia aveva
ordinato che il legato del pontefice e gli altri italiani non
seguitassino la persona sua, ma stessino appartati in luogo fermo
fuori della corte.
Già era venuta la festività di san Gallo, termine destinato alla
congregazione delle genti, ma non se ne era condotta a Gostanza
altro che piccola parte, né si vedevano quasi altri apparati di lui
che movimenti d'artiglierie e l'attendere egli con somma diligenza a
fare provisioni di danari per diverse vie. Onde essendo incerto con
quali forze, e in quale tempo e da quale parte avesse a muoversi (o
entrare nel Friuli o da Trento nel veronese, altri credendo che per
la Savoia o per la via di Como assalterebbe il ducato di Milano
essendo seco molti fuorusciti di quello stato, né standosi senza
dubitazione che non facesse qualche movimento nella Borgogna), si
facevano da quelli che temevano di lui potenti provisioni in diversi
luoghi. Però il re di Francia aveva mandato nel ducato di Milano
numero grande di genti a cavallo e a piedi, e soldato, oltre
all'altre preparazioni, per difesa di quello stato, nel reame di
Napoli, con permissione del re cattolico (contro a cui Cesare per
questo gravissimamente si lamentò) dumila cinquecento fanti
spagnuoli; avendo nel tempo medesimo Ciamonte, dubitando della fede
del cavaliere de' Borromei, occupato all'improviso Arona, castello
di quella famiglia in sul Lago Maggiore. In Borgogna avea mandato
cinquecento lancie sotto la Tramoglia governatore di quella
provincia; e per distrarre in piú parti i pensieri e le forze di
Cesare dava continuamente aiuti e fomento al duca di Ghelleri, il
quale molestava il paese di Carlo nipote di Cesare. Aveva oltre a
questo mandato a Verona Giaiacopo da Triulzi, con quattrocento
lancie franzesi e quattromila fanti, in soccorso de' viniziani; i
quali aveano fermato, verso Roveré, per opporsi a' movimenti che si
facevano di verso Trento, il conte di Pitigliano con quattrocento
uomini d'arme e molti fanti, e nel Friuli ottocento uomini d'arme
sotto Bartolomeo d'Alviano, ritornato piú anni innanzi agli stipendi
loro.
Ma si dimostrò da parte non pensata il primo pericolo, perché
Polbatista Giustiniano e Fregosino, fuorusciti di Genova, condusseno
a Gazzuolo, terra di Lodovico da Gonzaga feudatario imperiale, mille
fanti tedeschi, i quali passorno all'improviso con grandissima
celerità per monti e luoghi asprissimi del dominio viniziano, con
intenzione di andare, passato il fiume del Po, per la montagna di
Parma verso Genova; ma Ciamonte, sospettandone, mandò subito a
Parma, per opporsi loro nel cammino, molti cavalli e fanti: per la
venuta de' quali i tedeschi, perduta la speranza che contro a Genova
potesse piú succedere effetto alcuno, se ne ritornorono in Germania,
per la medesima via ma non col medesimo timore e celerità, perché i
viniziani, per beneficio comune, consentirono tacitamente il ritorno
loro.
Erano nel tempo medesimo molti fuorusciti genovesi nella città di
Bologna, e perciò il re ebbe dubitazione non mediocre che questa
cosa fusse stata trattata con saputa del pontefice; dell'animo del
quale molte altre cose gli davano sospetto: perché il cardinale di
Santa Croce confortava, benché piú per propria inclinazione che per
altra cagione, Cesare a passare; ed essendo accaduto che i
fuorusciti di Furlí, movendosi da Faenza, avevano tentato una notte
di entrare in Furlí, il pontefice si querelava essere consiglio
comunicato tra 'l re di Francia e i viniziani. Aggiugnevasi che un
certo frate incarcerato a Mantova avea confessato avere trattato co'
Bentivogli di avvelenare il pontefice, e che per parte di Ciamonte
era stato confortato a fare quanto avea promesso a' Bentivogli; onde
il pontefice, ridotta in forma autentica la esamina, mandò con essa
al re Achille de' Grassi bolognese, vescovo di Pesero che fu poi
cardinale, a fare instanza che si ritrovasse la verità e si
punissino quegli che erano in colpa di tanta sceleratezza: della
qual cosa essendo sospetto piú che gli altri Alessandro Bentivogli,
fu per commissione del re citato in Francia.
Con queste azioni e incertitudini si finí l'anno mille cinquecento
sette. Ma nel principio dell'anno mille cinquecento otto, non
potendo quietarsi gli ingegni mobili de' bolognesi, Annibale ed
Ermes Bentivogli, avendo intelligenza con certi giovani de' Peppoli
e altri nobili della gioventú, si accostorono allo improviso a
Bologna; il quale movimento non fu senza pericolo perché i
congiurati avevano già, per mettergli dentro, occupato la porta di
san Mammolo: ma essendosi il popolo messo in arme in favore dello
stato ecclesiastico, i giovani spaventati abbandonorono la porta, e
i Bentivogli si ritirorno. Il quale insulto mitigò piú tosto che
accendesse l'animo del pontefice contro al re di Francia; perché il
re, dimostrando essergli molestissimo questo insulto, comandò a
Ciamonte che qualunque volta fusse di bisogno soccorresse con tutte
le genti d'arme alle cose di Bologna, né permettesse che i
Bentivogli fussino piú ricettati in parte alcuna del ducato di
Milano. De' quali era in quegli dí morto Giovanni per dolore di
animo, non assueto, innanzi fusse cacciato di Bologna, a sentire
l'acerbità della fortuna, essendo stato prima, lungo tempo,
felicissimo di tutti i tiranni d'Italia ed esempio di prospera
fortuna; perché in spazio di quaranta anni ne' quali dominò ad
arbitrio suo Bologna (nel qual tempo, non che altro, non sentí mai
morte di alcuno de' suoi) aveva sempre avuto, per sé e per i
figliuoli, condotte provisioni e grandissimi onori da tutti i
príncipi d'Italia, e liberatosi sempre con grandissima facilità da
tutte le cose che se gli erano dimostrate pericolose: della quale
felicità pareva che principalmente fusse debitore alla fortuna,
oltre alla opportunità del sito di quella città, perché secondo il
giudicio comune non gli era attribuita laude né di ingegno né di
prudenza né di valore eccellente.
Lib.7, cap.12
Prime azioni di Massimiliano contro i veneziani. Castelli veneziani
presi dalle sue milizie. Vittoria dell'Alviano sui tedeschi e suoi
successi nel Friuli; presa di Trieste, di Fiume e di Postumia.
Vicende della lotta nel Trentino. Tregua fra Massimiliano e i
veneziani.
Nel principio dell'anno medesimo Cesare, non volendo piú differire
il muovere delle armi, mandò uno araldo a Verona a notificare di
volere passare in Italia per la corona imperiale, e dimandare
alloggiamento per quattromila cavalli; alla qual cosa i rettori di
Verona, consultata prima a Vinegia questa dimanda, gli feciono
risposta che se la passata sua non avesse altra cagione che il
volere incoronarsi sarebbe onorato da loro sommamente, ma apparire
gli effetti diversi da quello che proponeva, poiché aveva condotto
a' loro confini tanto apparato d'armi e d'artiglierie: però venuto a
Trento per dare principio alla guerra, fece fare il terzo dí di
febbraio una solenne processione, dove andò in persona, avendo
innanzi a sé gli araldi imperiali e la spada imperiale nuda; nel
progresso della quale Matteo Lango suo segretario, che fu poi
vescovo Gurgense, salito in su uno eminente tribunale, publicò in
nome di Cesare la deliberazione di passare ostilmente in Italia,
nominandolo non piú re de' romani ma eletto imperadore, secondo
hanno consuetudine di nominarsi i re de' romani quando vengono per
la corona: e avendo il dí medesimo proibito che di Trento non
uscisse alcuno, fatto fare quantità grande di pane, e di ripari e
gabbioni di legname, e inviato per il fiume dello Adice molti foderi
carichi di provisioni, uscí la notte seguente, poco avanti il
giorno, di Trento con mille cinquecento cavalli e quattromila fanti,
non di genti dategli dalla dieta ma delle proprie della corte e
degli stati suoi; dirizzandosi al cammino che per quelle montagne
riesce a Vicenza. E nel medesimo tempo uscí verso Roveré il marchese
di Brandiborgo con cinquecento cavalli e dumila fanti pure de'
medesimi paesi. Tornò il seguente dí Brandiborgo, non avendo fatto
altro effetto che presentatosi a Roveré e dimandato invano d'essere
alloggiato dentro; ma Cesare, entrato nella montagna di Siago, le
radici della quale si approssimano a dodici miglia a Vicenza,
pigliate le terre de' Sette Comuni, che cosí denominati abitano
nella sommità della montagna con molte esenzioni e privilegi de'
viniziani, e spianate molte tagliate che per difendersi e impedirgli
il cammino avevano fatte, vi condusse alcuni pezzi d'artiglieria:
donde, aspettandosi a ogn'ora piú prosperi successi, il quarto dí
che era partito da Trento, ritornò subito a Bolzano, terra piú
lontana che Trento da' confini d'Italia; avendo ripieno di sommo
stupore, per tanta o inconsiderazione o incostanza, gli animi di
ciascuno. Eccitò questo principio tanto debole gli animi de'
viniziani; e però, avendo già soldato molti fanti, chiamorno a
Roveré le genti franzesi che col Triulzio erano a Verona, e
cominciate a fare maggiori preparazioni stimolavano il re di Francia
a fare il medesimo: il quale venendo verso Italia inviava innanzi a
sé cinquemila svizzeri pagati da lui e tremila che si pagavano da'
viniziani; perché quella nazione, non avendo potuto Massimiliano
dargli danari, si era senza rispetto voltata finalmente agli
stipendi del re. E nondimeno non vollono i svizzeri, poiché furono
mossi e pagati, andare nel dominio viniziano, allegando non volere
servire contro a Cesare in altro che nella difesa dello stato di
Milano.
Maggiore movimento, ma con evento piú infelice e destinato a dare
principio a cose molto maggiori, fu suscitato nel Friuli, dove per
ordine di Cesare passorono per la via de' monti quattrocento cavalli
e cinquemila fanti, gente tutta comandata del contado suo di
Tiruolo; i quali entrati nella valle di Cadoro presono il castello e
la fortezza, ove era piccola guardia, insieme con l'offiziale de'
viniziani che vi era dentro: la quale cosa intesa a Vinegia,
comandorono all'Alviano e a Giorgio Cornaro proveditore, che erano
nel vicentino, che andassino subito al soccorso di quel paese; e per
travagliare ancora loro gl'inimici da quella parte, mandorno verso
Triesti quattro galee sottili e altri navili. E nel tempo medesimo
Massimiliano, che da Bolzano era andato a Brunech, voltatosi al
cammino del Friuli, per la comodità de' passi e de' paesi piú
larghi, con seimila fanti comandati del paese, scorse per certe
valli piú di quaranta miglia dentro a' confini de' viniziani; e
presa la valle di Codauro onde si va verso Trevigi, e lasciatosi
addietro il castello di Bostauro che era già del patriarcato
d'Aquilea, prese il castello di San Martino, il castel della Pieve e
la valle Conelogo, dove erano a guardia i conti Savignani, e altri
luoghi vicini: e fatto questo progresso, degno piú tosto di piccolo
capitano che di re, lasciato ordine che quelle genti andassino verso
il trevigiano, si ritornò alla fine di febbraio a Spruch, per
impegnare gioie e fare in altri modi provisione di danari; de' quali
essendo piú tosto dissipatore che spenditore, niuna quantità bastava
a supplire a' bisogni suoi. Ma avendo per il cammino inteso che i
svizzeri avevano accettati i danari del re di Francia, sdegnato
contro a loro, andò a Olmo città de' svevi per indurre la lega di
Svevia a dargli aiuto, come altra volta aveva fatto nella guerra
contro a' svizzeri: instava ancora con gli elettori perché gli
fussino prorogati per altri sei mesi gli aiuti promessi nella dieta
di Gostanza. E nel tempo medesimo le genti degli stati suoi che
erano restate a Trento, in numero di novemila tra cavalli e fanti,
presono in tre dí a discrezione, avendolo prima battuto con
l'artiglierie, castello Baioco, che è a rincontro di Roveré in su la
strada diritta, a mano destra da andare da Trento in Italia,
tramezzando quello e Roveré, che è in sulla mano sinistra, il fiume
dello Adice.
Ma l'Alviano si mosse per soccorrere il Friuli con grandissima
celerità, e avendo passato le montagne cariche di neve si condusse
in due dí presso a Cadoro; ove aspettati i fanti, che non avevano
potuto pareggiare la sua celerità, occupò uno passo non guardato da'
tedeschi donde si entra nella valle di Cadoro: per la venuta del
quale preso animo gli uomini del paese, inclinati a stare sotto lo
imperio viniziano, occuporono gli altri passi della valle onde i
tedeschi arebbano avuto facoltà di ritirarsi. I quali, vedendosi
rinchiusi né avendo altra salute o speranza che nell'armi, e
giudicando che l'Alviano fusse ogni dí per ingrossarsi, se gli
feciono con grandissima animosità incontro, e non essendo recusato
il combattere da lui si cominciò tra l'uno e l'altro di loro
asprissima battaglia, nella quale i tedeschi, che combattevano
ferocemente piú per desiderio di morire gloriosi che per speranza di
salvarsi, si erano messi in uno grosso squadrone; e posto in mezzo
di loro le donne combatterono con grande impeto per qualche ora, ma
non potendo finalmente resistere al numero e alla virtú degli
inimici restorno del tutto vinti, essendone morti piú di mille di
loro e gli altri restati prigioni. Dopo la quale vittoria l'Alviano
avendo assaltato da due bande la rocca di Cadoro la espugnò, ove
morí Carlo Malatesta, uno de' signori antichi di Rimini, da uno
sasso gittato dalla torre; e seguitando con lo esercito suo
l'occasione, prese Porto Navone, dipoi Cremonsa situata in su uno
alto colle: la quale presa, andò a campo a Gorizia situata nelle
radici delle Alpi Giulie, forte di sito e bene munita e che ha una
rocca ardua a salire; e avendo prima preso il ponte di Gorizia e poi
piantate l'artiglierie alla terra, l'ottenne il quarto giorno per
accordo, perché mancava loro armi acqua e vettovaglie; e presa la
terra, il castellano e le genti che erano nella rocca, avuti
quattromila ducati, la déttano: dove i viniziani feciono subito
molte fortificazioni, perché fusse come uno propugnacolo e uno freno
a' turchi a spaventargli a passare il fiume dell'Isonzio, perché con
l'opportunità di quello luogo si poteva facilmente impedire loro la
facoltà del ritirarsi. Presa Gorizia, l'Alviano andò a campo a
Triesti, la quale città nel tempo medesimo era molestata per mare; e
la presano facilmente, non senza dispiacere del re di Francia, il
quale dissuadeva lo irritare tanto il re de' romani, ma per essere
per l'uso del golfo di Vinegia molto utile a' loro commerci, ed
enfiati dalla prosperità della fortuna, erono disposti a seguitare
il corso della vittoria. Però, avuta che ebbono Triesti e la rocca,
presano Portonon e dipoi Fiume, terra di Schiavonia che è a
riscontro di Ancona; la quale terra abbruciorono, perché era ricetto
delle navi che senza pagare i dazi posti da loro volevano passare
per il mare Adriatico: e passate poi le Alpi, presono Postonia che è
ne' confini della Ungheria.
Queste cose si facevano nel Friuli. Ma dalla parte di verso Trento,
l'esercito tedesco che era venuto a Calliano, villa famosa per i
danni de' viniziani (perché appresso a quella, poco piú di venti
anni innanzi, era stato rotto e ammazzato Ruberto da San Severino,
famosissimo capitano del loro esercito), assaltò tremila fanti de'
viniziani, che sotto Iacopo Corso, Dionigi di Naldo e Vitello da
città di Castello erano a guardia di Monte Brettonico; i quali,
ancora che fussino assai bene fortificati, fuggirono subito in su
uno monte vicino: e i tedeschi, deridendo e giustamente la viltà de'
fanti italiani, arse molte case e spianati i ripari che erano fatti
al monte, ritornorono a Caliano. Dal quale successo invitato il
vescovo di Trento, andò, con dumila fanti comandati e parte delle
genti che erano a Caliano, a campo a Riva di Trento, castello posto
in sul lago di Garda, dove già il Triulzio aveva mandato sufficiente
guardia; e avendo battuta due dí la chiesa di san Francesco, e
fatta, mentre vi stavano, qualche correria nelle ville circostanti a
Lodrone, dumila grigioni che erano nel campo tedesco, sollevatisi
per discordia di piccola importanza nata ne' pagamenti, depredorno
le vettovaglie del campo. Onde essendo ogni cosa in disordine, e
partiti quasi tutti i grigioni, il resto dell'esercito, che erano
settemila uomini, fu costretto a ritirarsi: per la levata de' quali
scorrendo le genti viniziane per le ville vicine, e andando tremila
fanti de' loro ad ardere certe ville del conte di Agresto, furono
messi in fuga dai paesani e mortine circa trecento. Ma essendo per
la ritirata de' tedeschi dalla Riva resoluta quasi tutta la gente, e
i cavalli, che erano mille dugento, ritiratisi dallo alloggiamento
di Caliano in Trento, le genti de' viniziani, la mattina di pasqua,
assaltorono la Pietra, luogo lontano da Trento sei miglia; ma
uscendo al soccorso delle genti che erano in Trento, si ritirorono:
e dipoi assaltorono la rocca di Cresta, passo di importanza, che si
arrendé innanzi vi arrivasse il soccorso che veniva di Trento. Però
i tedeschi, che si erano riordinati di fanti, ritornorono con mille
cavalli e seimila fanti allo alloggiamento di Caliano, distante per
una balestrata dalla Pietra, ed essendosi partiti da loro dugento
cavalli del duca di Vertimberg, i viniziani con quattromila cavalli
e sedicimila fanti vennono a porsi a campo alla Pietra, e vi
piantorono sedici pezzi di artiglierie. È la Pietra una rocca
situata nella radice di una montagna in su la mano destra a chi va
da Roveré a Trento, e da quella si parte uno muro assai forte, che
camminando per spazio d'una balestrata si distende insino in su
l'Adice, il quale muro ha nel mezzo una porta; e chi non è padrone
di questo passo può con difficoltà offendere la Pietra. Stavano gli
eserciti vicini l'uno all'altro a uno miglio, avendo ciascuno a
fronte la rocca e il muro, e da uno de' fianchi il fiume dell'Adice
dall'altro i monti, e ciascuno alle spalle i suoi ridotti sicuri; e
perché i tedeschi aveano in potestà la rocca e il muro potevano a
loro piacere sforzare l'esercito viniziano a combattere, a che non
potevano essere sforzati loro, ma per essere di numero molto
inferiori non ardivano commettersi alla fortuna; solamente
attendevano a difendere la rocca dagli insulti degli inimici, i
quali sollecitamente la battevano. Ma vedendo uno giorno l'occasione
di non essere bene guardata l'artiglieria, usciti furiosamente ad
assaltarla e rotti i fanti che la guardavano, ne tirorno con grande
ferocia due pezzi agli alloggiamenti loro; donde i viniziani
inviliti, e giudicando anche vana l'oppugnazione, nella quale
avevano perduti molti uomini, si ritirorno a Roveré: e i tedeschi si
ritornorono a Trento, e pochi dí poi se ne disperse la maggiore
parte. E le genti della dieta, delle quali, per venire chi piú
presto e chi piú tardi, non ne erano mai stati insieme quattromila
uomini (perché quasi tutti quegli che si messono insieme a Trento e
a Cadoro erano de' paesi circostanti), finiti i loro sei mesi se ne
ritornavano alle case loro; e la maggiore parte de' fanti comandati
facevano il medesimo. Né Massimiliano, occupato a andare da luogo a
luogo per vari pensieri e provisioni, era mai stato presente a
queste cose; anzi rimessa la dieta di Olmo a tempo piú comodo,
confuso tra se medesimo e pieno di difficoltà e di vergogna, se ne
era andato verso Colonia, essendo stato occulto piú dí dove si
trovava la persona sua, né potendo resistere con le forze sue a
questo impeto, avendo perduto tutto quello teneva in Friuli e
l'altre terre vicine, abbandonato da ciascuno, e in pericolo le cose
di Trento, se le genti franzesi fussino volute congiugnersi con
l'esercito viniziano a offenderlo. Ma il Triulzio, per comandamento
del re che aveva fisso nell'animo piú di placare che di provocare,
non volle passare piú oltre di quel che fusse necessario per la
difesa de' viniziani.
Aveva Cesare, vedendosi abbandonato da tutti e desideroso di levarsi
in qualche modo dal pericolo, insino quando le genti sue furono
rotte a Cadoro, mandato Pré Luca suo uomo a Vinegia a ricercare di
fare tregua con loro per tre mesi; la quale dimanda era stata
sprezzata da quel senato, disposto a non fare tregua per minore
tempo di uno anno, né in modo alcuno se medesimamente non vi si
comprendeva il re di Francia: ma crescendo i suoi pericoli, perduto
già Triesti, e ogni cosa succedendo in peggio, il vescovo di Trento,
come da sé, invitò i viniziani a fare tregua, proponendo che con
questo fondamento si aveva da sperare di potere fare la pace. I
viniziani risposono, che poiché la pratica non si proponeva piú a
loro soli ma in modo che eziandio il re di Francia vi poteva
intervenire, non averne l'animo alieno: dal quale principio
introdotto il ragionamento, si convennono a parlare insieme il
vescovo di Trento e il Serentano segretario di Massimiliano, e per
il re di Francia il Triulzio e Carlo Giuffré presidente del senato
di Milano, mandato da Ciamonte per questa pratica, e per i viniziani
Zacheria Contareno, oratore destinato particolarmente a questo
negozio. Convenivano facilmente nell'altre condizioni, perché del
tempo concordavano durasse per tre anni, che ciascuno possedesse
come possedeva di presente, con facoltà di edificare e fortificare
ne' luoghi occupati; ma la difficoltà era che i franzesi volevano si
facesse tregua generale, includendovi eziandio i confederati che
aveva ciascuno fuora d'Italia, e specialmente il duca di Ghelleri, e
a questo stavano molto ostinati gli agenti di Massimiliano, che
aveva volto totalmente l'animo allo eccidio di quel duca, e
allegavano che la guerra era tutta in Italia, però non essere né
conveniente né necessario parlare se non delle cose d'Italia; in che
i viniziani facevano ogni opera perché si sodisfacesse al desiderio
del re di Francia, ma non sperando piú di potervi piegare i tedeschi
erano inclinati ad accettare la tregua nel modo consentito da loro,
inducendogli il desiderio di rimuoversi una guerra che tutta si
riduceva nello stato loro, e la volontà anche di confermarsi,
mediante la tregua de' tre anni, le terre che in questo moto avevano
conquistate; e si scusavano a' franzesi, con verissima ragione, che
non essendo l'uno e l'altro di loro tenuti se non alla difesa delle
cose d'Italia e in su questo fondata la loro confederazione, non
appartenere a loro pensare alle cose di là da' monti; le quali se
non erano tenuti a difenderle con le armi non erano anche tenuti a
pensare di assicurarle con la tregua. Sopra la quale contenzione
avendo il Triulzio scritto in Francia e i viniziani a Vinegia, venne
risposta dal senato che non potendo fare altrimenti conchiudessino
solamente la tregua per Italia, riservando luogo e tempo al re di
Francia di entrarvi: alla quale cosa né il Triulzio né il presidente
volendo consentire, anzi lamentandosi gravemente che non che altro
non volessino aspettare la risposta del re, e protestando il
presidente che la impresa comune non si doveva finire se non
comunemente, e del poco rispetto alla amicizia e congiunzione, non
restorono i veneti per questo di non conchiudere; contraendo
Massimiliano e loro, in nomi loro propri semplicemente, e con patto
che per la parte di Massimiliano si nominassino e avessinsi per
inclusi e nominati il pontefice, i re cattolici, di Inghilterra e di
Ungheria e tutti i príncipi e sudditi del sacro imperio in qualunque
luogo, e tutti i confederati di Massimiliano e de' prenominati re e
stati dello imperio, da nominarsi infra tre mesi; e per la parte de'
viniziani, il re di Francia e il re cattolico, e tutti gli amici e
confederati de' viniziani del re di Francia e del cattolico, in
Italia solamente costituti, da nominarsi infra tre mesi. La quale
tregua, stipulata il vigesimo dí di aprile, essendo stata quasi
incontinente ratificata dal re de' romani e da' viniziani, si
deposono l'armi tra loro, con speranza di molti che Italia avesse a
godere per qualche tempo questa quiete.
Lib.7, cap.13
Lamentele del re di Francia co' fiorentini e risposta di questi.
Pratica fra il re di Francia, Ferdinando d'Aragona e i fiorentini
riguardo a Pisa.
Posate che furono l'armi per la tregua fatta, il re di Francia,
parendogli che l'animo de' fiorentini non fusse stato sincero verso
lui, ma piú tosto inclinati a Cesare se alle cose sue si fusse
dimostrato principio di prosperi successi, e sapendo non procedere
da altro che dal desiderio di recuperare in qualunque modo Pisa, e
dallo sdegno che egli, non attendendo né alla divozione né alle
opere loro, non solo non gli avesse favoriti né con l'autorità né
coll'armi ma tollerato che da' genovesi sudditi suoi fussino
aiutati, deliberò di pensare che con qualche onesto modo ottenessino
il desiderio loro. Ma volendo, secondo i disegni primi, farlo con
utilità propria, e sperando essere migliore mezzo a tirargli a somma
maggiore il timore che la speranza, mandò Michele Riccio a
lamentarsi: che avessino mandato uomini propri per convenire con
Cesare suo inimico; che avendo sotto colore di dare il guasto a'
pisani congregato esercito potente senza avere rispetto alle
condizioni de' tempi e de' sospetti e pericoli suoi, né avendo
voluto in sí grave moto che si preparava dichiarare mai
perfettamente l'animo loro, aveano dato a lui causa non mediocre di
dubitare a che fine tendessino queste preparazioni; che a lui che
gli aveva ricercati che con le genti loro gli dessino aiuti in
pericoli tanto gravi avessino dinegato di farlo, fuora d'ogni sua
espettazione: e nondimeno, che per l'amore che avea sempre portato
alla loro republica, e per la memoria delle cose che per il passato
aveano fatte in beneficio suo, era parato a rimettere queste
ingiurie nuove, pure che, per rimuovere le cagioni per le quali si
sarebbe potuta turbare la quiete d'Italia, non molestassino piú in
futuro senza consentimento suo i pisani. Alle quali querele
risposono i fiorentini: la necessità avergli indotti a mandare a
Cesare, non con intenzione di convenire con lui contro al re ma per
cercare di assicurare, in caso passasse in Italia, le cose proprie,
le quali il re, nella capitolazione fatta con loro, non si era
voluto obligare a difendere contro a Cesare, ma v'aveva espressa
dentro la clausula: “salve le ragioni dello imperio”; e nondimeno,
non avere fatta con lui convenzione alcuna: non essere giusta la
querela dell'esercito mandato contro a' pisani, perché essendo stato
secondo la consuetudine loro esercito mediocre, né per altro effetto
che per impedire, come molte altre volte aveano fatto, le ricolte,
non avere avuto alcuno causa ragionevole di sospettarne: questa
cagione, insieme con gli aiuti dati da' genovesi e dagli altri
vicini a' pisani, non avere permesso che al re mandassino le genti
loro; alla quale cosa se bene non erano obligati, nondimeno che per
la continua divozione loro al nome suo non arebbono pretermesso,
quando bene non ne fussino stati ricercati, questo officio:
maravigliarsi sopra modo che 'l re desiderasse non fussino molestati
i pisani, i quali a comparazione de' fiorentini non aveva causa di
stimare e di amare, se si ricordava quel che avessino operato contro
a lui nella ribellione de' genovesi: né potere il re con giustizia
proibire che non molestassino i pisani, perché cosí era espresso
nella confederazione che aveano fatta con lui. Da questi princípi si
cominciò a trattare che Pisa ritornasse sotto il dominio de'
fiorentini, alla quale cosa pareva dovesse bastare il provedere che
i genovesi e lucchesi non dessino aiuto a' pisani, ridotti in tale
estremità di vettovaglie e di forze che non ardivano uscire piú
della città; aggiugnendosi massime, per la perdita delle ricolte, la
mala disposizione de' contadini, i quali erano maggiore numero che i
cittadini: [in modo] che si credeva non si potessino piú sostentare
se da' genovesi e lucchesi non avessino ricevuto qualche sussidio di
danari, co' quali quegli che reggevano, tenendo in Pisa alcuni
soldati e forestieri, e gli altri distribuendo nella gioventú de'
cittadini e de' contadini, e con l'armi di questi spaventando coloro
che desideravano concordarsi co' fiorentini, non avessino tenuta
quieta la città.
A questa pratica, cominciata dal re cristianissimo, si aggiunse
l'autorità del re cattolico, geloso che senza lui non si conducesse
a effetto: però, subito che ebbe intesa l'andata di Michele Riccio a
Firenze, vi mandò uno imbasciadore, il quale, entrato prima in Pisa,
gli confortò e dette loro animo in nome del suo re a sostenersi; non
per altro se non perché, stando piú ostinati a non cedere a'
fiorentini, potessino essere venduti con maggiore prezzo.
Trasferironsi poco dipoi questi ragionamenti, per volontà de' due
re, nella corte del re di Francia ove, senza rispetto della
protezione tanto affermata, la sollecitava molto il re cattolico,
conoscendo che non essendo difesa era necessario cadesse in potestà
de' fiorentini, e avendo l'animo alieno allora da implicarsi in cose
nuove, e specialmente contro alla volontà del re di Francia: perché
se bene, subito che ritornò in Spagna, avesse riassunto il governo
di Castiglia non l'aveva però totalmente stabilito, e per le volontà
diverse de' signori e perché il re de' romani non v'aveva, in nome
del nipote, prestato il consentimento.
Lib.8, cap.1
Nuovi e piú gravi mali che affliggeranno l'Italia. Responsabilità
de' veneziani e sdegno contro di loro di Massimiliano e del re di
Francia. Ragioni di sdegno del pontefice contro i veneziani e timori
suoi di successi francesi. Lega di Cambrai contro Venezia. Ratifica
del trattato da parte del re d'Aragona. Ratifica del pontefice,
dopoché i veneziani hanno respinto la richiesta sua di Faenza e di
Rimini.
Non erano tali le infermità d'Italia, né sí poco indebolite le forze
sue, che si potessino curare con medicine leggiere; anzi, come
spesso accade ne' corpi ripieni di umori corrotti, che uno rimedio
usato per provedere al disordine di una parte ne genera de' piú
perniciosi e di maggiore pericolo, cosí la tregua fatta tra il re
de' romani e i viniziani partorí agli italiani, in luogo di quella
quiete e tranquillità che molti doverne succedere sperato aveano,
calamità innumerabili, e guerre molto piú atroci e molto piú
sanguinose che le passate: perché se bene in Italia fussino state,
già quattordici anni, tante guerre e tante mutazioni, nondimeno, o
essendosi spesso terminate le cose senza sangue o le uccisioni state
piú tra' barbari medesimi, avevano patito meno i popoli che i
príncipi. Ma aprendosi in futuro la porta a nuove discordie,
seguitorono per tutta Italia, e contro agli italiani medesimi,
crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di
molte città e terre, licenza militare non manco perniciosa agli
amici che agli inimici, violata la religione, conculcate le cose
sacre con minore riverenza e rispetto che le profane.
La cagione di tanti mali, se tu la consideri generalmente, fu come
quasi sempre l'ambizione e la cupidità de' príncipi: ma
considerandola particolarmente, ebbono origine dalla temerità e dal
procedere troppo insolente del senato viniziano, per il quale si
rimossono le difficoltà che insino allora avevano tenuto sospesi il
re de' romani e il re di Francia a convenirsi contro a loro; l'uno
de' quali immoderatamente esacerbato condussono in grandissima
disperazione, l'altro nel tempo medesimo concitorono in somma
indegnazione, o almeno gli dettono facoltà di aprire sotto apparente
colore quel che lungamente aveva desiderato. Perché Cesare,
stimolato da tanta ignominia e danno ricevuto, e avendo in luogo di
acquistare gli stati di altri perduto una parte de' suoi ereditari,
non era per lasciare indietro cosa alcuna per risarcire tanta
infamia e tanto danno; la quale disposizione accrebbono di nuovo,
dopo la tregua fatta, imprudentemente i viniziani, perché, non si
astenendo da provocarlo non meno con le dimostrazioni vane che con
gli effetti, riceverono in Vinegia con grandissima pompa e quasi
come trionfante l'Alviano: e il re di Francia, ancora che da
principio desse speranza di ratificare la tregua fatta,
dimostrandosene poi alterato maravigliosamente, si lamentava che i
viniziani avessino presunto di nominarlo e includerlo come aderente,
e che, avendo proveduto al riposo proprio, avessino lasciato lui
nelle molestie della guerra: necessitato, per l'onore e utilità
propria, a difendere contro a Cesare (che da Cologna andava in
Fiandra per opprimerlo), il duca di Ghelleri, antico collegato suo e
pronto sempre per lui a opporsi a' fiamminghi e a molestargli, e per
la cui autorità ne' popoli vicini e per l'opportunità del suo paese
gli era facile il fare passare nella Francia fanti tedeschi, quante
volte avesse volontà di soldarne. Le quali disposizioni dell'animo
dell'uno e dell'altro incominciorono in breve spazio di tempo a
manifestarsi: perché Cesare, delle forze proprie non confidando, né
sperando piú che per le ingiurie sue si risentissino i príncipi o i
popoli di Germania, inclinava a unirsi col re di Francia contro a'
viniziani, come unico rimedio a ricuperare l'onore e gli stati
perduti; e il re, avendogli lo sdegno nuovo rinnovata la memoria
delle offese che si persuadeva avere ricevute da loro nella guerra
napoletana, e stimolato dall'antica cupidità di Cremona e dell'altre
terre possedute lungo tempo da' duchi di Milano, aveva la medesima
inclinazione: perciò si cominciò a trattare tra loro, per potere,
rimosso l'impedimento delle cose minori, attendere insieme alle
maggiori, di comporre le differenze trall'arciduca e il duca di
Ghelleri.
Stimolava similmente l'animo del re contro a' viniziani nel tempo
medesimo il pontefice, acceso oltre all'antiche cagioni da nuove
indegnazioni; perché si persuadeva che per opera loro i fuorusciti
di Furlí, i quali si riducevano a Faenza, avessino tentato di
entrare in quella città, e perché nel dominio veneto aveano ricetto
i Bentivogli, stati dal re scacciati del ducato di Milano;
aggiugnendosi che all'autorità della corte di Roma avevano in molte
cose minore rispetto che mai: nelle quali avea ultimatamente turbato
molto l'animo del pontefice che avendo conferito il vescovado di
Vicenza, vacato per la morte del cardinale di San Piero a Vincola
suo nipote, a Sisto similmente nipote suo, surrogato da lui nella
degnità del cardinalato e ne' medesimi benefici, il senato viniziano
disprezzata questa collazione aveva eletto uno gentiluomo di
Vinegia; il quale, recusando il pontefice di confermarlo, ardiva
temerariamente nominarsi vescovo eletto di Vicenza dallo
eccellentissimo consiglio de' pregati. Dalle quali cose infiammato,
mandò prima al re Massimo secretario del cardinale di Nerbona e di
poi il medesimo cardinale, che succeduto nuovamente per la morte del
cardinale di Aus nel suo vescovado si chiamava il cardinale di Aus;
i quali, uditi dal re con allegra fronte, riportorono a lui vari
partiti da eseguirsi, e senza Cesare e unitamente con Cesare. Ma il
pontefice era piú pronto a querelarsi che a determinarsi; perché da
una parte combatteva nella sua mente il desiderio ardente che si
movessino l'armi contro a' viniziani, da altra parte lo riteneva il
timore di non essere costretto a spendere immoderatamente per la
grandezza d'altri, e molto piú la gelosia antica conceputa del
cardinale di Roano, per la quale gli era molestissimo che eserciti
potenti del re passassino in Italia: e turbava in qualche parte le
cose maggiori l'avere il pontefice conferito poco innanzi senza
saputa del re i vescovadi d'Asti e di Piacenza, e il ricusare il re
che 'l nuovo cardinale di San Piero in Vincola, a cui per la morte
dell'altro era stata conferita la badia di Chiaravalle, beneficio
ricchissimo e propinquo a Milano, ne conseguisse la possessione.
Nelle quali difficoltà quel che non risolveva il pontefice
deliberorno finalmente Cesare e il re di Francia, i quali trattando
insieme secretissimamente contro a' viniziani, si convennono nella
città di Cambrai, per dare alle cose trattate perfezione, per la
parte di Cesare madama Margherita sua figliuola, sotto 'l cui
governo si reggevano la Fiandra e gli altri stati pervenuti per
l'eredità materna nel re Filippo, seguitandola a questo trattato
Matteo Lango secretario accettissimo di Cesare, e per la parte del
re di Francia il cardinale di Roano; spargendo fama di convenirsi
per trattare la pace tra l'arciduca e il duca di Ghelleri, tra'
quali aveano fatta tregua per quaranta dí, ingegnandosi che la vera
cagione non pervenisse alla notizia de' viniziani: all'oratore de'
quali affermava con giuramenti gravissimi il cardinale di Roano,
volere il suo re perseverare nella confederazione con loro. Seguitò
il cardinale, piú tosto non contradicente che permettente, lo
imbasciadore del re d'Aragona; perché se bene quel re fusse stato il
primo motore di questi ragionamenti tra Cesare e il re di Francia
erano stati dipoi continuati senza lui, persuadendosi l'uno e
l'altro di loro essergli molesta la prosperità del re di Francia, e
sospetto, per rispetto del governo di Castiglia, ogni augumento di
Cesare, e che perciò i pensieri suoi non fussino in questa cosa
conformi colle parole. A Cambrai si fece in pochissimi dí l'ultima
determinazione, non partecipata cosa alcuna, se non dopo la
conclusione fatta, con l'oratore del re cattolico; la quale il dí
seguente, che fu il decimo di dicembre, fu con solenni cerimonie
confermata nella chiesa maggiore, col giuramento di madama
Margherita, del cardinale di Roano e dello imbasciadore spagnuolo,
non publicando altro che l'essere contratta tra 'l pontefice e
ciascuno di questi príncipi perpetua pace e confederazione. Ma negli
articoli piú secreti si contennono effetti sommamente importanti; i
quali, ambiziosi e in molte parti contrari a' patti che Cesare e il
re di Francia aveano co' viniziani, si coprivano (come se la
diversità delle parole bastasse a trasmutare la sostanza de' fatti)
con uno proemio molto pietoso nel quale si narrava il desiderio
comune di cominciare la guerra contro agli inimici del nome di
Cristo, e gli impedimenti che faceva a questo l'avere i viniziani
occupate ambiziosamente le terre della Chiesa. Li quali volendo
rimuovere per procedere poi unitamente a cosí santa e necessaria
espedizione, e per i conforti e consigli del pontefice, il cardinale
di Roano come procuratore e col suo mandato e come procuratore e col
mandato del re di Francia, e madama Margherita come procuratrice e
col mandato del re de' romani e come governatrice dell'arciduca e
degli stati di Fiandra, e l'oratore del re d'Aragona come
procuratore e col mandato del suo re, convennono di muovere guerra
a' viniziani, per ricuperare ciascuno le cose sue occupate da loro,
che si nominavano: per la parte del pontefice, Faenza, Rimini,
Ravenna e Cervia; per il re de' romani, Padova, Vicenza e Verona
appartenentigli in nome dello imperio, e il Friuli e Trevigi
appartenenti alla casa d'Austria; per il re di Francia, Cremona e la
Ghiaradadda, Brescia, Bergamo e Crema; per il re d'Aragona, le terre
e i porti stati dati in pegno da Ferdinando re di Napoli. Fusse
tenuto il re cristianissimo venire alla guerra in persona, e dargli
principio il primo giorno del prossimo mese di aprile; al qual tempo
avessino similmente a cominciare il pontefice e il re cattolico: che
acciò che Cesare avesse giusta causa di non osservare la tregua
fatta, il papa lo richiedesse, come avvocato della Chiesa, di aiuto;
dopo la quale richiesta Cesare gli mandasse almeno uno condottiere,
e fusse tenuto, fra quaranta dí che 'l re di Francia avesse rotta la
guerra, assaltare personalmente lo stato de' viniziani: qualunque di
loro avesse recuperato le cose proprie fusse tenuto aiutare gli
altri insino che avessino interamente ricuperato, obligati tutti
alla difesa di chiunque di loro fusse nelle terre ricuperate
molestato da' viniziani; co' quali niuno potesse convenire senza
consentimento comune: potessino essere nominati infra tre mesi il
duca di Ferrara, il marchese di Mantova e ciascuno che pretendesse i
viniziani occupargli alcuna terra; nominati, godessino come
principali tutti i benefici della confederazione, avendo facoltà di
ricuperarsi da se stessi le cose perdute: ammunisse il pontefice,
sotto pene e censure gravissime, i viniziani a restituire le cose
occupate alla Chiesa; e fusse giudice della differenza tra Bianca
Maria moglie del re de' romani e il duca di Ferrara, per conto della
eredità di Anna sorella di lei e moglie già del duca predetto:
investisse Cesare il re di Francia, per sé per Francesco d'Anguelem
e loro discendenti maschi, del ducato di Milano; per la quale
investitura il re gli pagasse ducati centomila: non facessino né
Cesare né l'arciduca, durando la guerra e sei mesi poi, novità
alcuna contro al re cattolico per cagione del governo e de' titoli
de' regni di Castiglia; esortasse il papa il re di Ungheria a
entrare nella presente confederazione: nominasse ciascuno tra
quattro mesi i collegati e aderenti suoi, non potendo nominare i
viniziani né i sudditi o feudatari di alcuno de' confederati; e che
ciascuno de' contraenti principali dovesse intra sessanta dí
prossimi ratificare. Alla concordia universale s'aggiunse la
particolare trall'arciduca e il duca di Ghelleri, nella quale fu
convenuto che le terre occupate nella guerra presente allo arciduca,
si restituissino, ma non già il simigliante di quelle che al duca
erano state occupate. Stabilita in questa forma la nuova
confederazione, ma tenendosi quanto si poteva secreto quel che
apparteneva a viniziani, il cardinale di Roano si partí il dí
seguente da Cambrai, mandati prima a Cesare il vescovo di Parigi e
Alberto Pio conte di Carpi per ricevere da lui la ratificazione in
nome del re di Francia; il quale senza dilazione ratificò e confermò
con giuramento, colle solennità medesime colle quali era stata fatta
la publicazione nella chiesa di Cambrai. Con questi semi di
gravissime guerre finí l'anno mille cinquecent'otto.
È certo che questa confederazione, con tutto che nella scrittura si
dicesse intervenirvi il mandato del papa e del re d'Aragona, fu
fatta senza mandato o consentimento loro, persuadendosi Cesare e il
re cristianissimo che avessino a consentire, parte per l'utilità
propria parte perché, per la condizione delle cose presenti, né
l'uno né l'altro di essi alla loro autorità ardirebbe repugnare: e
massimamente il re d'Aragona, al quale benché fusse molesta questa
capitolazione (perché temendo che non si augumentasse troppo la
grandezza del re di Francia anteponeva la sicurtà di tutto il reame
di Napoli alla recuperazione della parte posseduta da' viniziani),
nondimeno, ingegnandosi di dimostrare con la prontezza il contrario
di quello che sentiva nello animo, ratificò con le solennità
medesime subitamente.
Maggiore dubitazione era nel pontefice, combattendo in lui, secondo
la sua consuetudine, da una parte il desiderio di ricuperare le
terre di Romagna e lo sdegno contro a' viniziani e dall'altra il
timore del re di Francia; oltre che, essere pericoloso per sé e per
la sedia apostolica giudicava che la potenza di Cesare cominciasse
in Italia a distendersi. E però, parendogli piú utile l'ottenere con
la concordia una parte di quello desiderava che il tutto con la
guerra, tentò di indurre il senato viniziano a restituirgli Rimini e
Faenza; dimostrando che i pericoli che soprastavano per l'unione di
tanti príncipi sarebbono molto maggiori concorrendo nella
confederazione il pontefice, perché non potrebbe recusare di
perseguitargli con le armi spirituali e temporali, ma che,
restituendo le terre occupate alla Chiesa nel suo pontificato, e
cosí riavendo insieme con le terre l'onore, arebbe giusta cagione di
non ratificare quel che era stato fatto in nome suo ma senza suo
consentimento; e che rimovendosene l'autorità pontificale
diventerebbe facilmente vana questa confederazione, che per se
stessa aveva avute molte difficoltà: il che potevano essere certi
che egli, quanto potesse, procurerebbe con l'autorità e con la
industria, se non per altro perché in Italia non si augumentasse piú
la potenza de' barbari, pericolosissima non meno alla sedia
apostolica che agli altri. Sopra la quale dimanda facendosi nel
senato viniziano varie consulte, e inclinando molti a consentire
alle sue domande per l'utilità che risulterebbe dal separarsi
l'autorità del pontefice dagli altri, molti per contrario affermando
non si dovere comperare con tanta indegnità quel che non basterebbe
a liberargli dalla guerra, sarebbe finalmente prevaluta l'opinione
di quegli che confortavano la piú sana e migliore sentenza, se
Domenico Trivisano senatore di grande autorità, e uno de'
procuratori del tempio ricchissimo di San Marco, onore nella
republica veneta di maggiore stima che alcun altro dopo il doge,
levatosi in piedi, non avesse consigliato il contrario: il quale,
con molte ragioni e con efficacia grande di parlare, si ingegnò di
persuadere essere cosa molto aliena dalla degnità e dalla utilità di
quella chiarissima e amplissima republica restituire le terre
dimandate dal pontefice, dalla cui congiunzione o alienazione cogli
altri confederati poco si accrescerebbono o alleggierirebbeno i loro
pericoli. Perché se bene, acciò che apparisse meno disonesta la
causa loro, avessino nel convenire usato il nome del pontefice, si
erano effettualmente convenuti senza lui, in modo che per questo non
diventerebbono né piú lenti né piú freddi alle esecuzioni
deliberate; e per contrario, non essere l'armi del pontefice di tale
valore che e' dovessino comprare con tanto prezzo il fermarle.
Conciossiaché, se nel tempo medesimo fussino assaltati dagli altri,
potersi con mediocre guardia difendere quelle città, le quali le
genti della Chiesa (infamia della milizia, secondo il vulgatissimo
proverbio) non erano per se medesime bastanti né a espugnare, né a
fare inclinazione alcuna alla somma della guerra; e ne' movimenti e
nel fervore delle armi temporali non sentirsi la riverenza né i
minacci delle armi spirituali, le quali non essere da temere che
nocessino piú loro in questa guerra che fussino nociute in molte
altre e specialmente nella guerra fatta contro a Ferrara, nella
quale non erano state potenti a impedire che non conseguissino la
pace onorevole per sé e vituperosa per il resto d'Italia, che con
consentimento tanto grande, e nel tempo che fioriva di ricchezze
d'armi e di virtú, si era unita tutta contro a loro: e
ragionevolmente, perché non era verisimile che il sommo Dio volesse
che gli effetti della sua severità e della sua misericordia, della
sua ira e della sua pace, fussino in potestà d'uno uomo
ambiziosissimo e superbissimo, sottoposto al vino e a molte altre
inoneste voluttà: che la esercitasse ad arbitrio delle sue cupidità,
non secondo la considerazione della giustizia o del bene publico
della cristianità. Già, se in questo pontificato non era piú
costante la fede sacerdotale che fusse stata negli altri, non vedere
che certezza potesse aversi che, conseguita da loro Faenza e Rimini,
non si unisse con gli altri per recuperare Ravenna e Cervia, non
avendo maggiore rispetto alla fede data che sia stato proprio de'
pontefici; i quali, per giustificare le fraudi loro, hanno statuito,
tra l'altre leggi, che la Chiesa, non ostante ogni contratto ogni
promessa ogni beneficio conseguitone, possa ritrattare e
direttamente contravenire alle obligazioni che i suoi medesimi
prelati hanno solennemente fatte. La confederazione essere stata
fatta tra Massimiliano e il re di Francia con grande ardore, ma non
essere simili gli animi degli altri collegati, perché il re
cattolico vi aderiva malvolentieri e nel pontefice apparivano segni
delle sue consuete vacillazioni e sospizioni; però non essere da
temere piú della lega fatta a Cambrai che di quello che altra volta
a Trento e dipoi a Bles avevano convenuto, col medesimo ardore, i
medesimi Massimiliano e Luigi, perché alla esecuzione delle cose
determinate repugnavano molte difficoltà, le quali per sua natura
erano quasi impossibili a svilupparsi. E perciò, il principale
studio e diligenza di quel senato doversi voltare a cercare di
alienare Cesare da quella congiunzione, il che per la natura e per
le necessità sue, e per l'odio antico fisso contro a' franzesi, si
poteva facilmente sperare; e alienatolo, non essere pericolo alcuno
che fusse mossa la guerra, perché il re di Francia abbandonato da
lui non ardirebbe d'assaltargli piú di quello che avesse ardito per
il passato. Doversi in tutte le cose publiche considerare
diligentemente i princípi, perché non era poi in potestà degli
uomini partirsi, senza sommo disonore e pericolo, dalle
deliberazioni già fatte e nelle quali si era perseverato lungo
tempo. Avere i padri loro ed essi successivamente atteso in tutte
l'occasioni ad ampliare l'imperio, con scoperta professione di
aspirare sempre a cose maggiori: di qui essere divenuti odiosi a
tutti, parte per timore parte per dolore delle cose tolte loro. Il
quale odio benché si fusse conosciuto molto innanzi potere partorire
qualche grande alterazione, nondimanco non si erano però né allora
astenuti da abbracciare l'occasioni che se gli offerivano, né ora
essere rimedio a' presenti pericoli cominciare a cedere parte di
quello possedevano; conciossiaché non per questo si quieterebbono,
anzi si accenderebbeno, gli animi di chi gli odiava, pigliando
ardire dalla loro timidità: perché essendo titolo inveterato, già
molti anni, in tutta Italia che il senato viniziano non lasciava
giammai quel che una volta gli era pervenuto nelle mani, chi non
conoscerebbe che il fare ora cosí vilmente il contrario procederebbe
da ultima disperazione di potersi difendere dai pericoli imminenti?
Cominciando a cedere qualunque cosa benché piccola, declinarsi dalla
riputazione e dallo splendore antico della loro republica; onde
augumentarsi grandemente i pericoli. Ed essere piú difficile, senza
comparazione, conservare, eziandio da' minori pericoli, quel che
rimane, a chi ha cominciato a declinare che non è a chi, sforzandosi
di conservare la degnità e il grado suo, si volge prontamente, senza
fare segno alcuno di volere cedere, contra chi cerca di opprimerlo.
Ed essere necessario o disprezzare animosamente le prime dimande o,
consentendole, pensare d'averne a consentire molte altre: dalle
quali, in brevissimo spazio di tempo, risulterebbe la totale
annullazione di quello imperio, e seguentemente la perdita della
propria libertà. Avere la republica veneta, e ne' tempi de' padri e
ne' tempi di loro medesimi, sostenuto gravissime guerre co' príncipi
cristiani, e per avere sempre ritenuta la costanza e generosità
dell'animo riportatone gloriosissimo fine. Doversi nelle difficoltà
presenti, ancorché forse paressino maggiori, sperarne il medesimo
successo; perché e la potenza e l'autorità loro era maggiore, e
nelle guerre fatte comunemente da molti príncipi contro a uno solere
essere maggiore lo spavento che gli effetti, perché prestamente si
raffreddavano gli impeti primi, prestamente cominciando a nascere
varietà di pareri indeboliva tra loro la fede; e dovere quel senato
confidarsi che, oltre alle provisioni e rimedi che essi farebbono da
se medesimi, Dio, giudice giustissimo, non abbandonerebbe una
republica nata e nutrita in perpetua libertà, ornamento e splendore
di tutta la Europa, né lascerebbe conculcare alla ambizione de'
príncipi, sotto falso colore di preparare la guerra contro agli
infedeli, quella città la quale, con tanta pietà e con tanta
religione, era stata tanti anni la difesa e il propugnacolo di tutta
la republica cristiana. Commossono in modo gli animi della maggiore
parte le parole di Domenico Trivisano che, come già qualche anno era
stato spesse volte quasi fatale in quello senato, fu, contro al
parere di molti senatori grandi di prudenza e di autorità, seguitato
il consiglio peggiore. Però il pontefice, il quale aveva differito
insino all'ultimo dí assegnato alla ratificazione il ratificare,
ratificò; ma con espressa dichiarazione di non volere fare atto
alcuno di inimicizia contro a' viniziani se non dappoi che il re di
Francia avesse dato alla guerra cominciamento.
Lib.8, cap.2
Difficili condizioni de' pisani; fallito tentativo de' genovesi e
de' lucchesi di introdurre grano in Pisa; accordi fra fiorentini e
lucchesi. Convenzione fra i fiorentini e i re di Francia e
d'Aragona.
Erano, in questo tempo medesimo, ridotte e ogni dí piú si riduceano
in grandissima strettezza le cose de' pisani: perché i fiorentini,
oltre all'avere la state precedente tagliate tutte le loro ricolte,
e oltre al correre continuamente le genti loro dalle terre
circostanti insino in sulle porte di Pisa, aveano, per impedire che
per mare non vi entrassino vettovaglie, soldato con alcuni legni il
figliuolo del Bardella da Portoveneri; onde i pisani, assediati
quasi per terra e per mare, né avendo per la povertà loro facoltà di
condurre o legni o soldati forestieri, ed essendo da' vicini aiutati
lentamente, non avevano piú quasi speranza alcuna di sostentarsi.
Dalle quali cose mossi i genovesi e lucchesi deliberorono di fare
esperienza che in Pisa entrasse quantità grande di grani; i quali,
caricati sopra grande numero di barche e accompagnati da due navi
genovesi e due galeoni, erano stati condotti alla Spezie e dipoi a
Vioreggio, acciò che di quivi per ordine de' pisani, con quattordici
brigantini e molte barche, si conducessino in Pisa. Ma volendo
opporsi i fiorentini, perché nella condotta o esclusione di questi
grani consisteva totalmente la speranza o la disperazione di
conseguire quello anno Pisa, aggiunsono a' legni che aveano prima
una nave inghilese, che per ventura si trovava nel porto di Livorno,
e alcune fuste e brigantini; e aiutando quanto potevano, con le
preparazioni terrestri, l'armata marittima, mandorno tutta la
cavalleria e grande numero di fanti, raccolti subitamente del loro
dominio, a tutte quelle parti donde i legni degli inimici potessino,
o per la foce d'Arno o per la foce di Fiumemorto entrando in Arno,
condursi in Pisa. Condussonsi gli inimici tralla foce d'Arno e...;
[e] essendo i legni de' fiorentini tra la foce e Fiumemorto, e la
gente di terra occupati tutti i luoghi opportuni e distese
l'artiglierie in sulle ripe da ogni parte del fiume donde aveano a
passare, giudicando non potere procedere piú innanzi, si ritornorno
nella riviera di Genova, perduti tre brigantini carichi di frumento.
Dal quale successo apparendo quasi certa per mancamento di
vettovaglie la vittoria i fiorentini, per impedire piú agevolmente
che per il fiume non ne potessino essere condotte, gittorono in su
Arno uno ponte di legname, fortificandolo con bastioni dall'una e
l'altra ripa; e nel tempo medesimo, per rimuovere gli aiuti de'
vicini, convennono co' lucchesi, avendo prima, per reprimere
l'audacia loro, mandato a saccheggiare, con una parte delle genti
mossa da Cascina, il porto di Vioreggio e i magazzini dove erano
molti drappi di mercatanti di Lucca. E per questo avendo i lucchesi
impauriti mandato a Firenze imbasciadori, rimasono finalmente
concordi che tra l'una e l'altra republica fusse confederazione
difensiva per anni tre, escludendo nominatamente i lucchesi dalla
facoltà di aiutare in qualunque modo i pisani; la quale
confederazione, recuperandosi per i fiorentini Pisa infra uno anno,
si intendesse prorogata per altri dodici anni, e durante questa
confederazione non dovessino i fiorentini, senza pregiudicio per ciò
delle loro ragioni, molestare i lucchesi nella possessione di
Pietrasanta e di Mutrone.
Ma fu di momento molto maggiore a facilitare lo acquisto di Pisa la
capitolazione fatta da loro coi re cristianissimo e cattolico. La
quale, trattata molti mesi, aveva avuto varie difficoltà: temendo i
fiorentini, per l'esperienza del passato, che questo non fusse mezzo
a trarre da loro quantità grande di danari e nondimeno che le cose
di Pisa rimanessino nel medesimo grado; e da altra parte
interpretando il re di Francia procurarsi la dilazione
artificiosamente, per la speranza che i pisani, l'estremità de'
quali erano notissime, da loro medesimi cedessino, né volendo che in
modo alcuno la ricuperassino senza pagargliene la mercede, comandò
al Bardella suo suddito che si partisse da' soldi loro, e a Ciamonte
che da Milano mandasse in aiuto de' pisani secento lancie: per la
quale cosa, rimosse tutte le dubitazioni e difficoltà, convenneno in
questa forma: non dessino né il re di Francia né il re d'Aragona
favore o aiuto a' pisani, e operassino con effetto che da' luoghi
sudditi a loro, o confederati o raccomandati, non andassino a Pisa
vettovaglie né soccorso di danari né di genti né di alcun'altra
cosa; pagassino i fiorentini in certi termini a ciascuno di essi, se
infra un anno prossimo ricuperassino Pisa, cinquantamila ducati; e
nel caso predetto si intendesse fatta tra loro lega per tre anni dal
dí della recuperazione, per la quale i fiorentini fussino obligati
difendere con trecento uomini d'arme gli stati che aveano in Italia,
ricevendo per la difesa propria da qualunque di loro almeno trecento
uomini d'arme. Alla capitolazione fatta in comune fu necessario
aggiugnere, senza saputa del re, cattolico, nuove obligazioni di
pagare al re di Francia, ne' tempi e sotto le condizioni medesime,
cinquantamila altri ducati. Oltre che fu di bisogno promettessino di
donare a' ministri de' due re venticinquemila ducati, de' quali la
maggiore parte s'aveva a distribuire secondo la volontà del
cardinale di Roano. Le quali convenzioni, benché fussino con
gravissima spesa de' fiorentini, dettono nondimeno appresso a tutti
gli uomini infamia piú grave a quei re: de' quali l'uno si dispose
per danari ad abbandonare quella [città], che molte volte aveva
affermato avere ricevuta nella sua protezione, e della quale, come
si manifestò poi, essendosegli spontaneamente data, il gran capitano
avea accettato in suo nome il dominio; l'altro, non si ricordando
delle promesse fatte molte volte a' fiorentini, o vendé per brutto
prezzo la libertà giusta de' pisani o costrinse i fiorentini a
comperare da lui la facoltà di ricuperare giustamente le cose
proprie. Tanto può oggi comunemente piú la forza della pecunia che
il rispetto dell'onestà.
Lib.8, cap.3
Preparativi del re di Francia per la guerra. Sollecite misure di
difesa de' veneziani; casi sfortunati per loro. Piano di guerra de'
veneziani. Inizi della spedizione del re di Francia contro i
veneziani.
Ma le cose de' pisani, che già solevano essere negli occhi di tutta
Italia, erano in questo tempo di piccola considerazione, dependendo
gli animi degli uomini da espettazione di cose maggiori. Perché,
ratificata che fu la lega di Cambrai da tutti i confederati,
cominciò il re di Francia a fare grandissime preparazioni; e con
tutto che per ancora a protesti o minaccie di guerra non si
procedesse, nondimeno, non si potendo piú la cosa dissimulare, il
cardinale di Roano, presente tutto il consiglio, si lamentò con
ardentissime parole con l'oratore de' viniziani che quel senato,
disprezzando la lega e l'amicizia del re, faceva fortificare la
badia di Cerreto nel territorio di Crema: nella quale essendo stata
anticamente una fortezza, fu distrutta per i capitoli della pace
fatta l'anno mille quattrocento cinquantaquattro tra, viniziani e
Francesco Sforza nuovo duca di Milano, con patto che i viniziani non
potessino in tempo alcuno fortificarvi; a' capitoli della quale pace
si riferiva, in questo e in molte altre cose, la pace fatta tra loro
e il re. E già, essendo venuto il re pochi dí poi a Lione,
camminavano le genti sue per passare i monti, e si apparecchiavano
per scendere nel tempo medesimo in Italia seimila svizzeri soldati
da lui. E aiutandosi, oltre alle forze proprie, di quelle degli
altri, avea ottenute da' genovesi quattro caracche, da' fiorentini
cinquantamila ducati per parte di quegli che se gli dovevano dopo
l'acquisto di Pisa; e dal ducato di Milano, desiderosissimo d'essere
reintegrato nelle terre occupate da' viniziani, gli erano stati
donati centomila ducati, e molti gentiluomini e feudatari di quello
stato si provedevano di cavalli e d'armi per seguitare alla guerra
con ornatissime compagnie la persona del re.
Da altra parte si preparavano i viniziani a ricevere con animo
grandissimo tanta guerra, sforzandosi, co' danari con l'autorità e
con tutto il nervo del loro imperio, di fare provisioni degne di
tanta republica; e con tanto maggiore prontezza quanto pareva molto
verisimile che, se sostenessino il primo impeto, s'avesse facilmente
l'unione di questi príncipi, male conglutinata, ad allentarsi o
risolversi: nelle quali cose, con somma gloria del senato, il
medesimo ardore si dimostrava in coloro che prima aveano consigliato
invano che la fortuna prospera modestamente si usasse che in quegli
che erano stati autori del contrario; perché, preponendo la salute
publica alla ambizione privata, non cercavano che crescesse la loro
autorità col rimproverare agli altri i consigli perniciosi né con
l'opporsi a' rimedi che si facevano a' pericoli nati per la loro
imprudenza. E nondimeno, considerando che contro a loro si armava
quasi tutta la cristianità, si ingegnorono quanto potettono di
interrompere tanta unione, pentitisi già d'avere dispregiata
l'occasione di separare dagli altri il pontefice, avendo
massimamente avuta speranza che egli sarebbe stato paziente se gli
restituivano Faenza sola. Però con lui rinnovorno i primi
ragionamenti, e ne introdusseno de' nuovi con Cesare e col re
cattolico; perché col re di Francia, o per l'odio o per la
disperazione d'averlo a muovere, non tentorno cosa alcuna. Ma né il
pontefice poteva accettare piú quel che prima avea desiderato, e al
re cattolico con tutto che forse non mancasse la volontà mancava la
facoltà di rimuovere gli altri; e Cesare, pieno d'odio smisurato
contro al nome viniziano, non solamente non gli esaudí ma né udí
l'offerte loro, perché recusò di ammettere al cospetto suo Giampiero
Stella loro secretario mandatogli con amplissime commissioni. Però,
voltati tutti i pensieri a difendersi coll'armi, soldavano da ogni
parte quantità grandissima di cavalli e di fanti, e armavano molti
legni per la custodia de' liti di Romagna, e per metterne nel lago
di Garda e nel Po e negli altri fiumi vicini, per i quali fiumi
temevano essere molestati dal duca di Ferrara e dal marchese di
Mantova. Ma gli turbavano, oltre a' minacci degli uomini, molti casi
o fatali o fortuiti. Percosse una saetta la fortezza di Brescia, una
barca mandata dal senato a portare danari a Ravenna si sommerse con
diecimila ducati nel mare, l'archivio pieno di scritture attenenti
alla republica andò totalmente in terra con subita rovina; ma gli
empié di grandissimo terrore che in quegli dí, e nell'ora medesima
che era congregato il consiglio maggiore, appiccatosi, o per caso o
per fraude occulta di qualcuno, il fuoco nel loro arzanale, nella
stanza dove si teneva il salnitro, con tutto vi concorresse numero
infinito d'uomini a estinguerlo, aiutato dalla forza del vento e
dalla materia atta a pascerlo e ampliarlo, abbruciò dodici corpi di
galee sottili e quantità grandissima di munizioni. Alle difficoltà
loro si aggiunse che avendo soldato Giulio e Renzo Orsini e Troilo
Savello, con cinquecento uomini d'arme e tremila fanti, il pontefice
con asprissimi comandamenti, fatti come a feudatari e sudditi della
Chiesa, gli costrinse a non si partire di terra di Roma,
invitandogli a ritenersi quindicimila ducati ricevuti per lo
stipendio, con promettere di compensargli in quello che i viniziani,
per i frutti avuti delle terre di Romagna, alla sedia apostolica
doveano. Volgevansi le preparazioni del senato principalmente verso
i confini del re di Francia, dall'armi del quale aspettavano
l'assalto piú presto e piú potente: perché dal re d'Aragona, con
tutto che avesse agli altri confederati promesso molto, si
spargevano dimostrazioni e romori, secondo la sua consuetudine, ma
non si facevano apparati di molto momento; e Cesare, occupato in
Fiandra perché i popoli sottoposti al nipote lo sovvenissino
volontariamente di danari, non si credeva dovesse cominciare la
guerra al tempo promesso; e il pontefice pensavano che, sperando piú
nella vittoria degli altri che nell'armi proprie, avesse a regolarsi
secondo i progressi de' collegati.
Non si dubitava che 'l primo assalto del re di Francia avesse a
essere nella Ghiaradadda, passando il fiume dell'Adda appresso a
Casciano però si raccoglieva a Pontevico, in sul fiume dell'Oglio,
l'esercito veneto, del quale era capitano generale il conte di
Pitigliano e governatore Bartolomeo d'Alviano, e vi erano
proveditori in nome del senato Giorgio Cornaro e Andrea Gritti,
gentiluomini chiari e molto onorati per l'ordinarie loro qualità, e
per la gloria acquistata l'anno passato, l'uno per le vittorie del
Friuli l'altro per l'opposizione fatta a Roveré contro a' tedeschi.
Tra' quali consultandosi in che maniera fusse da procedere nella
guerra erano varie le sentenze, non solo tra gli altri ma tra 'l
capitano e il governatore. Perché l'Alviano, feroce di ingegno e
insuperbito per i successi prosperi dell'anno precedente, e pronto a
seguitare le occasioni sperate e di incredibile celerità cosí nel
deliberare come nell'eseguire, consigliava che, per fare piú tosto
la sedia della guerra nel paese degli inimici che aspettare fusse
trasferita nello stato proprio, si assaltasse, innanzi che 'l re di
Francia passasse in Italia, il ducato di Milano. Ma il conte di
Pitigliano, o raffreddato il vigore dell'animo (come diceva
l'Alviano) per la vecchiezza o considerando per la lunga esperienza
con maggiore prudenza i pericoli, e alieno dal tentare senza
grandissima speranza la fortuna, consigliava che disprezzata la
perdita delle terre della Ghiaradadda, che non rilevavano alla somma
della guerra, l'esercito si fermasse appresso alla terra degli Orci,
come già nelle guerre tra' viniziani e il ducato di Milano aveano
fatto Francesco Carmignuola e poi Iacopo Piccinino, famosi capitani
de' tempi loro; alloggiamento molto forte per essere in mezzo tra'
fiumi dell'Oglio e del Serio, e comodissimo a soccorrere tutte le
terre del dominio viniziano: perché se i franzesi andassino ad
assaltargli in quello alloggiamento potevano, per la fortezza del
sito, sperarne quasi certa la vittoria; ma se andassino a campo [a]
Cremona o Crema o Bergamo o Brescia, potrebbono per difesa di quelle
accostarsi coll'esercito in luogo sicuro, e infestandogli, con tanto
numero di cavalli leggieri e stradiotti che avevano, le vettovaglie
e l'altre comodità, impedirebbeno loro il prendere qualunque terra
importante. E cosí, senza rimettersi in potestà della fortuna,
potersi facilmente difendere lo imperio viniziano da cosí potente e
impetuoso assalto del re di Francia. De' quali consigli l'uno e
l'altro era stato rifiutato dal senato; quello dell'Alviano come
troppo audace, questo del capitano generale come troppo timido e non
consideratore della natura de' pericoli presenti: perché al senato
sarebbe piú piaciuto, secondo la inveterata consuetudine di quella
republica, il procedere sicuramente e l'uscire il meno potessino
della potestà di loro medesimi; ma da altra parte si considerava, se
nel tempo che tutte quasi le loro forze fussino impegnate a
resistere al re di Francia assaltasse il loro stato potentemente il
re de' romani, con quali armi con quali capitani con quali forze
potersi opporsegli; per il quale rispetto, quella via che per se
stessa pareva piú certa e piú sicura rimanere piú incerta e piú
pericolosa. Però, seguitando come spesso si fa nelle opinioni
contrarie, quella che è in mezzo, fu deliberato che l'esercito
s'accostasse al fiume dell'Adda, per non lasciare in preda degli
inimici la Ghiaradadda; ma con espressi ricordi e precetti del
senato viniziano che, senza grande speranza o urgente necessità, non
si venisse alle mani con gli inimici.
Diversa era molto la deliberazione del re di Francia, ardente di
desiderio che gli eserciti combattessino. Il quale, accompagnato dal
duca dell'Oreno e da tutta la nobiltà del reame di Francia, come
ebbe passati i monti, mandò Mongioia suo araldo a intimare la guerra
al senato viniziano; commettendogli che, acciocché tanto piú presto
si potesse dire intimata, facesse nel passare da Cremona il medesimo
co' magistrati viniziani. E se bene, non essendo ancora unito tutto
l'esercito suo, avesse deliberato che non si movesse cosa alcuna
insino a tanto che egli non fusse personalmente a Casciano,
nondimeno, o per gli stimoli del pontefice, che si lamentava essere
passato il tempo determinato nella capitolazione, o acciocché
cominciasse a correre il tempo a Cesare obligato a muovere la guerra
quaranta dí poi che il re l'avesse mossa, mutata la prima
deliberazione, comandò a Ciamonte desse principio, non essendo
ancora le genti viniziane, perché non erano raccolte tutte, partite
da Pontevico.
Lib.8, cap.4
Primi fatti di guerra. La bolla del pontefice contro i veneziani;
l'intimazione di guerra del re di Francia e la risposta del doge. I
francesi passano l'Adda a Cassano. I francesi a Rivolta. La
battaglia di Ghiaradadda. Resa di Bergamo e di Brescia al re di
Francia.
Fu il primo movimento di tanto incendio il quintodecimo dí d'aprile.
Nel quale dí Ciamonte, passato a guazzo con tremila cavalli il fiume
dell'Adda appresso a Casciano, e fatto passare in su battelli
seimila fanti e dietro a loro l'artiglierie, si dirizzò alla terra
di Trevi, lontana tre miglia da Casciano, nella quale era
Giustiniano Morosino proveditore degli stradiotti de' viniziani, e
con lui Vitello da Città di Castello e Vincenzio di Naldo, che
rassegnavano i fanti che si doveano distribuire nelle terre vicine:
i quali, credendo che i franzesi, che in piú parti si erano sparsi
per la campagna, non fussino gente ordinata per assaltare la terra
ma per correre il paese, mandorno fuora dugento fanti e alcuni
stradiotti, co' quali appiccatasi una parte delle genti franzesi,
gli seguitò scaramucciando insino al rivellino della porta; e poco
dipoi sopragiugnendo gli altri, e appresentate l'artiglierie e
cominciato già a battere co' falconetti le difese, o la viltà de'
capi spaventati di questo impeto sí improviso o la sollevazione
degli uomini della terra gli costrinse ad arrendersi allo arbitrio
libero di Ciamonte. Cosí rimasono prigioni Giustiniano proveditore,
Vitello e Vincenzio e il conte Braccio, e con loro cento cavalli
leggieri e circa mille fanti quasi tutti di Valdilamone; essendosi
solamente salvati col fuggire dugento stradiotti: e dipoi Ciamonte,
a cui si erano arrendute alcune terre vicine, ritornò con le genti
tutte di là da Adda. E il medesimo dí il marchese di Mantova, come
soldato del re da cui avea la condotta di cento lancie, corse a
Casalmaggiore; il quale castello senza fare resistenza gli fu dato
dagli uomini della terra, insieme con Luigi Bono officiale
viniziano. Corse eziandio il medesimo dí da Piacenza Roccalbertino,
con cento cinquanta lancie e tremila fanti passati in su uno ponte
di barche, fatto dove l'Adda entra nel Po nel contado di Cremona; in
altra parte del quale corsono similmente le genti che erano alla
guardia di Lodi, gittato uno ponte in su Adda, e tutti i paesani
della montagna di Brianza insino a Bergamo. Il quale assalto fatto
in uno giorno medesimo da cinque parti, senza dimostrarsi gli
inimici in luogo alcuno, ebbe maggiore strepito che effetto; perché
Ciamonte si ritornò subito a Milano per aspettare la venuta del re
che già era vicino, e il marchese di Mantova, che preso
Casalmaggiore aveva tentato Asola invano, inteso che l'Alviano con
molta gente aveva passato il fiume dell'Oglio a Pontemolaro,
abbandonò Casalmaggiore.
Fatto questo principio alla guerra, il pontefice incontinente
publicò, sotto nome di monitorio, una bolla orribile; nella quale
furno narrate tutte le usurpazioni che avevano fatte i viniziani
delle terre pertinenti alla sedia apostolica, e l'autorità
arrogatesi, in pregiudicio della libertà ecclesiastica e della
giurisdizione de' pontefici, di conferire i vescovadi e molti altri
benefici vacanti, di trattare ne' fori secolari le cause spirituali
e l'altre attenenti al giudicio della Chiesa, e di molte altre cose,
e tutte le inobbedienze passate. Oltre alle quali fu narrato che
pochi dí innanzi, per turbare in pregiudicio della medesima sedia le
cose di Bologna, avevano chiamati a Faenza i Bentivogli rebelli
della Chiesa; e sottoposti, loro e chi gli ricettasse, a gravissime
censure; ammonendogli a restituire, infra ventiquattro dí prossimi,
le terre che occupavano della Chiesa insieme con tutti i frutti
ricevuti nel tempo l'aveano tenute, sotto pena, in caso non
ubbidissino, di incorrere nelle censure e interdetti, non solo la
città di Vinegia ma tutte le terre che gli ubbidissino, e quelle
ancora che non suddite allo imperio loro ricettassino alcuno
viniziano; dichiarandogli incorsi in crimine di maestà lesa e
diffidati come inimici, in perpetuo, da tutti i cristiani: a' quali
concedeva facoltà di occupare per tutto le robe loro e fare schiave
le persone. Contro alla quale bolla fu da uomini incogniti
presentata, pochi dí poi, nella città di Roma, una scrittura in nome
del principe e de' magistrati viniziani; nella quale, dopo lunga e
acerbissima narrazione contro al pontefice e il re di Francia, si
interponeva l'appellazione dal monitorio al futuro concilio e, in
difetto della giustizia umana, a' piedi di Cristo giustissimo
giudice e principe supremo di tutti. Nel quale tempo, aggiugnendosi
al monitorio spirituale le denunzie temporali, l'araldo Mongioia,
arrivato in Vinegia e introdotto innanzi al doge e al collegio,
protestò in nome del re di Francia la guerra già cominciata,
aggravandola con cagioni piú efficaci che vere o giuste: alla
proposta del quale, avendo alquanto consultato, fu risposto dal doge
con brevissime parole che, poi che il re di Francia aveva deliberato
di muovere loro la guerra nel tempo che piú speravano di lui, per la
confederazione la quale non aveano mai violata, e per aversi, per
non si separare da lui, provocato inimico il re de' romani, che
attenderebbeno a difendersi, sperando poterlo fare con le forze loro
accompagnate dalla giustizia della causa. Questa risposta parve piú
secondo la degnità della republica che distendersi in
giustificazioni e querele vane contro a chi già gli avea assaltati
con l'armi.
Ma unito che fu a Pontevico l'esercito viniziano, nel quale erano
dumila uomini d'arme tremila tra cavalli leggieri e stradiotti,
quindicimila fanti eletti di tutta Italia, e veramente il fiore
della milizia italiana non meno per la virtú de' fanti che per la
perizia e valore de' capitani, e quindicimila altri fanti scelti
dell'ordinanza de' loro contadi, e accompagnati da copia grandissima
di artiglierie, venne a Fontanella, terra vicina a Lodi a sei miglia
e sedia opportuna a soccorrere Cremona, Crema, Caravaggio e Bergamo:
ove giudicando avere occasione, per la ritirata di Ciamonte di là da
Adda né essendo ancora unito tutto l'esercito del re, di ricuperare
Trevi, si mossono per deliberazione del senato ma contro al
consiglio, secondo che esso affermava poi, dell'Alviano; il quale
allegava essere deliberazioni quasi repugnanti vietare che si
combattesse coll'esercito degli inimici e da altra parte
accostarsegli tanto, perché non sarebbe forse in potestà loro il
ritirarsi, e quando pure potessino farlo, sarebbe con tanta
diminuzione della reputazione di quello esercito che nocerebbe
troppo alla somma di tutta la guerra; e che egli, per questo
rispetto e per l'onore proprio e per l'onore comune della milizia
italiana, eleggerebbe piú tosto di morire che di consentire a tanta
ignominia. Occupò prima l'esercito Rivolta dove i franzesi non
avevano lasciata guardia alcuna, ove messi cinquanta cavalli e
trecento fanti, si accostò a Trevi, terra poco distante da Adda e
situata in luogo alquanto eminente, e nella quale Ciamonte aveva
lasciate cinquanta lancie e mille fanti sotto il capitano Imbalt,
Frontaglia guascone e il cavaliere Bianco, e piantate l'artiglierie
dalla parte di verso Casciano ove il muro era piú debole, e facendo
processo grande, quegli che erano dentro il dí seguente si
arrenderono, salvi i soldati ma senza armi, e rimanendo prigioni i
capitani, e la terra a discrezione libera del vincitore: la quale
subito andò a sacco, con danno maggiore de' vincitori che de' vinti.
Perché il re di Francia, come intese il campo inimico essere intorno
a Trevi, parendogli che la perdita di quel luogo quasi in su gli
occhi suoi gli togliesse molto della reputazione, si mosse
subitamente da Milano per soccorrerlo, e condotto, il dí poi che era
stato preso Trevi che fu il nono di maggio, in sul fiume presso a
Casciano, ove prima per l'opportunità di Casciano erano stati senza
difficoltà gittati tre ponti in sulle barche, passò con tutto
l'esercito, senza farsi dagli inimici dimostrazione alcuna di
resistergli; maravigliandosi ciascuno che oziosamente perdessino
tanta occasione di assaltare la prima parte delle genti che fusse
passata, ed esclamando il Triulzio, quando vedde passarsi senza
impedimento: - Oggi, o re cristianissimo, abbiamo guadagnato la
vittoria. - La quale occasione è manifesto che medesimamente fu
conosciuta e voluta usare dai capitani, ma non fu mai in potestà
loro, né con autorità né con prieghi né con minaccie, fare uscire di
Trevi i soldati, occupati nel sacco e nella preda: al quale
disordine non bastando alcuno altro rimedio a provedere, l'Alviano
per necessitargli a uscire fece mettere fuoco nella terra; ma fu
fatto questo rimedio tanto tardi che già i franzesi con grandissima
letizia erano interamente passati, beffandosi della viltà e del poco
consiglio degli inimici.
Alloggiò il re con l'esercito poco piú di uno miglio vicino allo
alloggiamento de' viniziani, posto in luogo alquanto rilevato e, per
il sito e per i ripari fatti, forte in modo che non si poteva senza
manifesto pericolo andare ad assaltargli; ove consultandosi in quale
modo si dovesse procedere, molti di quegli che intervenivano ne'
consigli del re, persuadendosi che l'armi di Cesare avessino presto
a sentirsi, confortavano che si procedesse lentamente, perché
essendo ne' fatti d'arme migliori le condizioni di colui che aspetta
di essere assaltato che di chi cerca di assaltare altri, la
necessità costrignerebbe i capitani viniziani, vedendosi impotenti a
difendere quello imperio da tante parti, a cercare di fare la
giornata. Ma il re sentiva diversamente, purché s'avesse occasione
di combattere in luogo dove il sito non potesse prevalere alla virtú
de' combattitori; mosso o perché temesse non fussino tardi i
movimenti del re de' romani, o perché, trovandosi in persona con
tutte le forze del suo reame, non solo avesse speranza grande della
vittoria ma giudicasse disonorarsi molto il nome suo se da per sé
senza aiuto d'altri non terminasse la guerra, e pel contrario
essergli sommamente glorioso che per la potenza e virtú sua
ottenessino non meno di lui gli altri confederati i premi della
vittoria. Da altra parte il senato e i capitani de' viniziani, non
accelerando per timore di Cesare i consigli loro, aveano deliberato,
non si mettendo in luoghi eguali a loro e agli inimici ma fermandosi
sempre in alloggiamenti forti, fuggire in un tempo medesimo la
necessità del combattere e impedire a' franzesi il fare processo
alcuno importante. Con queste deliberazioni stette fermo l'uno e
l'altro esercito; nel quale luogo, benché tra i cavalli leggieri si
facessino spessi assalti, e che i franzesi facendo piú innanzi
l'artiglierie cercassino avere occasione di combattere, non si fece
maggiore movimento. Mossesi il dí seguente il re verso Rivolta, per
tentare se il desiderio di conservarsi quella terra facesse muovere
gli italiani; i quali non si movendo, per ottenere almeno la
confessione tacita che e' non ardissino di venire alla battaglia,
stette fermo per quattro ore innanzi allo alloggiamento loro con
tutto l'esercito ordinato alla battaglia, non facendo essi altro
moto che di volgersi, senza abbandonare il sito forte, alla fronte
de' franzesi in ordinanza: nel qual tempo condotta da una parte de'
soldati del re l'artiglieria alle mura di Rivolta, fu in poche ore
presa per forza; ove alloggiò la sera medesima il re con tutto
l'esercito, angustiato nell'animo, e non poco, del modo col quale
procedevano gli inimici, il consiglio de' quali tanto piú laudava
quanto piú gli dispiaceva. Ma per tentare di condurgli per necessità
a quel che non gli induceva la volontà, dimorato che fu un giorno a
Rivolta, abbruciatala nel partirsi, mosse l'esercito per andare ad
alloggiare a Vaila o a Pandino la notte prossima, sperando da
qualunque di questi due luoghi potere comodamente impedire le
vettovaglie che da Cremona e da Crema venivano agli inimici, e cosí
mettergli in necessità di abbandonare l'alloggiamento nel quale
insino ad allora erano stati. Conoscevano i capitani viniziani quali
fussino i pensieri del re, né dubitavano essere necessario di
mettersi in uno alloggiamento forte propinquo agli inimici, per
continuare di tenergli nelle medesime difficoltà e impedimenti; ma
il conte di Pitigliano consigliava che si differisse il muoversi al
dí seguente; nondimeno fece instanza tanto ardente del contrario
l'Alviano, allegando essere necessario il prevenire, che finalmente
fu deliberato di muoversi subitamente.
Due erano i cammini, l'uno piú basso vicino al fiume dell'Adda ma
piú lungo a condursi a' luoghi sopradetti andandosi per linea
obliqua, l'altro piú discosto dal fiume ma piú breve perché si
andava per linea diritta, e (come si dice) questo per la corda
dell'arco quello per l'arco. Per il cammino di sotto procedeva
l'esercito del re, nel quale si dicevano essere piú di dumila lancie
seimila fanti svizzeri e dodicimila tra guasconi e italiani,
munitissimo di artiglierie e che aveva copia grande di guastatori;
per il cammino di sopra, e a mano destra inverso lo inimico,
procedeva l'esercito viniziano, nel quale si dicevano essere dumila
uomini d'arme piú di ventimila fanti e numero grandissimo di cavalli
leggieri, parte italiani parte condotti da' viniziani di Grecia, i
quali correvano innanzi, ma non si allargando quanto sogliono perché
gli sterpi e arbuscelli, de' quali tra l'uno e l'altro esercito era
pieno il paese, gli impedivano: come medesimamente impedivano che
l'uno e l'altro esercito non si vedesse. Nel qual modo procedendo, e
avanzando continuamente di cammino l'esercito viniziano, si
appropinquorno molto in un tempo medesimo l'avanguardia franzese
governata da Carlo d'Ambuosa e da Gianiacopo da Triulzi, nella quale
erano cinquecento lancie e i fanti svizzeri, e il retroguardo de'
viniziani guidato da Bartolomeo d'Alviano, nel quale erano
[ottocento] uomini d'arme e quasi tutto il fiore de' fanti dello
esercito, ma che non procedeva molto ordinato non pensando l'Alviano
che quel dí si dovesse combattere. Ma come vedde essersi tanto
approssimato agli inimici, o svegliatasi in lui la solita caldezza o
vedendosi ridotto in luogo che era necessario fare la giornata,
significata subitamente al conte di Pitigliano, che andava innanzi
con l'altra parte dell'esercito, la sua o necessità o deliberazione,
lo ricercò che venisse a soccorrerlo: alla qual cosa il conte
rispose che attendesse a camminare, che fuggisse il combattere,
perché cosí ricercavano le ragioni della guerra e perché tale era la
deliberazione del senato viniziano. Ma l'Alviano, in questo mezzo,
avendo collocati i fanti suoi con sei pezzi di artiglieria in su uno
piccolo argine fatto per ritenere l'impeto di uno torrente, il quale
non menando allora acqua passava trall'uno e l'altro esercito,
assaltò gli inimici con tale vigore e con tale furore che gli
costrinse a piegarsi; essendogli in questo molto favorevole
l'essersi principiato il fatto d'arme in una vigna, ove per i tralci
delle viti non poteano i cavalli de' franzesi espeditamente
adoperarsi. Ma fattasi innanzi per questo pericolo la battaglia
dell'esercito franzese, nella quale era la persona del re, si
serrorono i due primi squadroni addosso alla gente dell'Alviano; il
quale per il principio felice venuto in grandissima speranza della
vittoria, correndo in qua e in là, riscaldava e stimolava con
ardentissime voci i soldati suoi. Combattevasi da ogni parte molto
ferocemente, avendo i franzesi per il soccorso de' suoi ripigliato
le forze e l'animo, ed essendo la battaglia ridotta in luogo aperto
ove i cavalli, de' quali molto prevalevano, si potevano liberamente
maneggiare; accesi ancora assai per la presenza del re il quale, non
avendo maggiore rispetto alla persona sua che se fusse stato privato
soldato, esposto al pericolo dell'artiglierie non cessava, secondo
che co' suoi era di bisogno, di comandare, di confortare, di
minacciare: e da altra parte i fanti italiani, inanimiti da'
successi primi, combattevano con vigore incredibile, non mancando
l'Alviano di tutti gli offici convenienti a eccellente soldato e
capitano. Finalmente, essendosi con somma virtú combattuto circa a
tre ore, la fanteria italiana danneggiata maravigliosamente nel
luogo aperto da' cavalli degli inimici, ricevendo oltre a questo non
piccolo impedimento che nel terreno diventato lubrico per
grandissima pioggia, sopravenuta mentre si combatteva, non potevano
i fanti combattendo fermare i piedi, e sopratutto mancandogli il
soccorso de' suoi, cominciò a combattere con grandissimo
disavvantaggio; e nondimeno resistendo con grandissima virtú, ma già
avendo perduta la speranza del vincere, piú per la gloria che per la
salute, fece sanguinosa e per alquanto spazio di tempo dubbia la
vittoria de' franzesi; e ultimatamente, perdute prima le forze che
il valore, senza mostrare le spalle agli inimici, rimasono quasi
tutti morti in quel luogo: tra' quali fu molto celebrato il nome di
Piero, uno de' marchesi del Monte a Santa Maria di Toscana,
esercitato condottiere di fanti nelle guerre di Pisa agli stipendi
de' fiorentini, e allora uno de' colonnelli della fanteria
viniziana. Per la quale resistenza tanto valorosa di una parte sola
dell'esercito, fu allora opinione costante di molti che se tutto
l'esercito de' viniziani entrava nella battaglia arebbe ottenuta la
vittoria: ma il conte di Pitigliano con la maggiore parte si astenne
dal fatto d'arme; o perché, come diceva egli, essendosi voltato per
entrare nella battaglia fusse urtato dal seguente squadrone de'
viniziani che già fuggiva, o pure, come si sparse la fama, perché
non avendo speranza di potere vincere, e sdegnato che l'Alviano
avesse contro alla autorità sua presunto di combattere, migliore
consiglio riputasse che quella parte dell'esercito si salvasse che
il tutto per l'altrui temerità si perdesse. Morirno in questa
battaglia pochi uomini d'arme, perché la uccisione grande fu de'
fanti de' viniziani, de' quali alcuni affermano esserne stati
ammazzati ottomila; altri dicono che 'l numero de' morti da ogni
parte non passò in tutto seimila. Rimase prigione Bartolomeo
d'Alviano, il quale con uno occhio e col volto tutto percosso e
livido fu menato al padiglione del re; presi venti pezzi
d'artiglieria grossa e molta minuta; e il rimanente dell'esercito,
non seguitato, si salvò. Questa fu la giornata famosa di Ghiaradadda
o, come altri la chiamano, di Vaila, fatta il quartodecimo dí di
maggio; per memoria della quale il re fece nel luogo ove si era
combattuto edificare una cappella, onorandola col nome di Santa
Maria della Vittoria.
Ottenuta tanta vittoria, il re, per non corrompere con la negligenza
l'occasione acquistata con la virtú e con la fortuna, andò il dí
seguente a Caravaggio; ed essendosegli arrenduta subito a patti la
terra, batté con l'artiglierie la fortezza, la quale in spazio di
uno dí si dette liberamente. Arrendessegli il prossimo dí, non
aspettato che l'esercito s'accostasse, la città di Bergamo; nella
quale lasciate cinquanta lancie e mille fanti per la espugnazione
della fortezza, si indirizzò a Brescia; dove, innanzi arrivasse, la
fortezza di Bergamo stata battuta uno dí con l'artiglierie si
arrendé, con patto che fussino prigioni Marino Giorgio e gli altri
ufficiali viniziani: perché il re, non tanto mosso da odio quanto
dalla speranza d'averne a trarre quantità grande di danari, era
deliberato di non accettare mai, quando se gli arrendevano le terre,
patto alcuno per il quale fussino salvati i gentiluomini viniziani.
Ne' bresciani non era piú quella antica disposizione con la quale
avevano, al tempo degli avoli loro, sostenuto nelle guerre di
Filippo Maria Visconte gravissimo assedio per conservarsi sotto lo
imperio viniziano; ma inclinati a darsi a' franzesi, parte per il
terrore delle armi loro parte per i conforti del conte
Giovanfrancesco da Gambara, capo della fazione ghibellina, avevano
il dí dopo la rotta occupate le porte della città, opponendosi
apertamente a Giorgio Cornaro, il quale andato quivi con grandissima
celerità voleva mettervi gente; e dipoi accostatosi alla città
l'esercito diminuito assai di numero, non tanto per il danno
ricevuto nel fatto d'arme quanto perché, come accade ne' casi
simili, molti volontariamente se ne partivano, disprezzorono
l'autorità e i prieghi di Andrea Gritti, che entrò in Brescia a
persuadergli che gli accettassino per loro difesa. Però l'esercito,
non si riputando sicuro in quel luogo, andò verso Peschiera; e la
città di Brescia, facendosene autori i Gambereschi, si arrendé al re
di Francia; e il medesimo fece due dí poi la fortezza, con patto che
fussino salvi tutti quegli che vi erano dentro, eccetto i
gentiluomini viniziani.
Lib.8, cap.5
Dolore e spavento a Venezia dopo la disfatta e provvedimenti del
governo. Nuove conquiste del re di Francia. Il pontefice acquista le
terre di Romagna. Altre terre perdute da' veneziani.
Ma come a Vinegia pervenne la nuova di tanta calamità non si
potrebbe immaginare non che scrivere quanto fusse il dolore e lo
spavento universale, e quanto divenissino confusi e attoniti gli
animi di tutti, insoliti a sentire avversità tali anzi assuefatti a
riportare quasi sempre vittoria in tutte le guerre, e
presentandosegli innanzi agli occhi la perdita dello imperio e il
pericolo della ultima ruina della loro patria, in luogo di tanta
gloria e grandezza con la quale da pochi mesi indietro si
proponevano nell'animo l'imperio di tutta Italia. Però da ogni parte
della città si concorreva con grandissimi gridi e miserabili lamenti
al palagio publico: nel quale consultandosi per i senatori quello
che in tanto caso fusse da fare, rimaneva dopo lunga consulta
soprafatto il consiglio dalla disperazione, tanto deboli e incerti
erano i rimedi, tanto minime e quasi nulle le speranze della salute;
considerando non avere altri capitani né altre genti per difendersi
che quelle che avanzavano della rotta spogliate di forze e di animo,
i popoli sudditi a quello dominio o inclinati a ribellarsi o alieni
da tollerare per loro danni e pericoli, il re di Francia, con
esercito potentissimo e insolente per la vittoria, disposto a
seguitare il corso della prospera fortuna, al nome solamente del
quale essere per cedere ciascuno; e se a lui solo non avevano potuto
resistere, che sarebbe venendo innanzi il re de' romani, il quale si
intendeva appropinquarsi a' confini loro, e che ora invitato da
tanta occasione accelererebbe il venire? mostrarsi da ogni parte
pericoli e disperazione con pochissimi indizi di speranze. E che
sicurtà avere che nella propria patria, piena di innumerabile
moltitudine, non si suscitasse, parte per la cupidità del rubare
parte per l'odio contro a' gentiluomini, qualche pericoloso tumulto?
Già (quel che è l'estremo grado della timidità) reputavano
certissimi tutti i casi avversi i quali si rappresentavano alla
immaginazione propria che potessino succedere; e nondimeno, raccolto
in tanto timore il meglio potevano l'animo, deliberorno di fare
estrema diligenza di riconciliarsi per qualunque modo col pontefice
col re de' romani e col re cattolico, senza pensiero alcuno di
mitigare l'animo del re di Francia, perché, dell'odio suo contro a
loro non manco diffidavano che e' temessino delle sue armi: né posti
perciò da parte i pensieri di difendersi, attendendo a fare
provisione di danari, ordinavano di soldare nuova gente per terra e,
temendo della armata che si diceva prepararsi a Genova, accrescere
insino in cinquanta galee l'armata loro, della quale era capitano
Angelo Trevisano.
Ma preveniva tutti i consigli loro la celerità del re di Francia, al
quale dopo l'acquisto di Brescia si era arrenduta la città di
Cremona, ritenendosi ancora per i viniziani la fortezza; la quale
benché fortissima arebbe seguitato l'esempio degli altri (avendo
massime, ne' medesimi dí, fatto il medesimo la fortezza di
Pizichitone)..., se il re avesse consentito che tutti ne uscissino
salvi; ma essendovisi ridotti dentro molti gentiluomini viniziani, e
tra gli altri Zacheria Contareno ricchissimo uomo, negava di
accettarla se non con patto che questi venissino in sua potestà.
Però mandatevi genti a tenerla assediata, ed essendosi le genti
viniziane, che continuamente diminuivano, fermate nel Campomarzio
appresso a Verona perché i veronesi non avevano voluto riceverle
dentro, il re camminò innanzi a Peschiera per acquistare la
fortezza, essendosi già arrenduta la terra; la quale come ebbeno
cominciata a battere con l'artiglierie, vi entrorono per piccole
rotture di muro con impeto grandissimo i fanti svizzeri e guasconi,
ammazzando i fanti che in numero circa quattrocento vi erano dentro;
e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della
terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del
re insieme col figliuolo a' merli medesimi impiccato: inducendosi il
re a questa crudeltà acciò che quegli che erano nella fortezza di
Cremona, spaventati per questo supplicio, non si difendessino insino
all'ultima ostinazione. Cosí aveva, in spazio di quindici dí dopo la
vittoria, acquistato il re di Francia, dalla fortezza di Cremona in
fuora, tutto quello che gli apparteneva per la divisione fatta a
Cambrai: acquisto molto opportuno al ducato di Milano, e per il
quale s'accrescevano le entrate regie, ciascuno anno, molto piú di
dugentomila ducati.
Nel quale tempo, non si sentendo ancora in luogo alcuno l'armi del
re de' romani, aveva il pontefice assaltate le terre di Romagna con
quattrocento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e ottomila
fanti, e con artiglierie del duca di Ferrara, il quale avea eletto
gonfaloniere della Chiesa, titolo, secondo l'uso de' tempi nostri,
piú di degnità che di autorità; preposti a questo esercito Francesco
da Castel del Rio cardinale di Pavia, con titolo di legato
apostolico, e Francesco Maria della Rovere figliuolo già di Giovanni
suo fratello, il quale adottato in figliuolo di Guido Ubaldo duca di
Urbino, zio materno, e confermata per l'autorità del pontefice
l'adozione nel concistorio, era l'anno dinanzi, morto lui senza
altri figliuoli, succeduto in quel ducato. Con questo esercito
avendo scorso da Cesena verso Cervia e venuti poi tra Imola e Faenza
preseno la terra di Solarolo, e stati qualche dí alla bastia vicina
a tre miglia di Faenza andorno a Berzighella, terra principale di
Valdilamone, ove era entrato Giampaolo Manfrone con ottocento fanti
e alcuni cavalli; i quali usciti fuora a combattere, condotti in uno
agguato furno sí vigorosamente assaliti da Giampaolo Baglioni e
Lodovico dalla Mirandola, condottieri nello esercito ecclesiastico,
che rifuggendo nella terra vi entrorono mescolati insieme con loro,
e con tale impeto che il Manfrone caduto da cavallo appena ebbe
tempo a ritirarsi nella rocca: alla quale essendo presentata
l'artiglieria, fu dal primo colpo abbruciata la munizione che vi era
dentro, dal quale caso impauriti si rimessono senza alcuna
condizione nell'arbitrio de' vincitori. Occupata tutta la valle,
l'esercito sceso nel piano, preso Granarolo e tutte l'altre terre
del contado di Faenza, andò a campo a Russi, castello situato tra
Faenza e Ravenna, ma di non facile espugnazione perché, circondato
da fosse larghe e profonde e forte di mura, era guardato da seicento
fanti forestieri. E faceva l'espugnazione piú difficile non essere
nello esercito ecclesiastico né quel consiglio né quella concordia
che sarebbe stata necessaria, benché le forze vi abbondassino,
conciossiaché di nuovo vi erano giunti tremila fanti svizzeri
soldati dal pontefice; e però, con tutto che i viniziani non fussino
potenti in Romagna, si faceva per gli ecclesiastichi poco progresso.
I quali per infestare essendo uscito di Ravenna con la sua compagnia
Giovanni Greco, capitano di stradiotti, fu rotto e fatto prigione da
Giovanni Vitelli uno de' condottieri ecclesiastici. Pure finalmente,
poi che furono stati intorno a Russi dieci dí l'ottennono per
accordo; ed essendo in questo tempo medesimo succeduta la vittoria
del re di Francia, la città di Faenza, la quale per esservi pochi
soldati de' viniziani era in potestà di se medesima, convenne di
ricevere il dominio del pontefice se infra quindici dí non fusse
soccorsa: la quale convenzione poi che fu fatta, essendo usciti di
Faenza cinquecento fanti de' viniziani, sotto la fede del legato,
furono svaligiati per commissione del duca di Urbino. Fece il
medesimo e la città di Ravenna, subito che se gli accostò
l'esercito. Cosí, piú con la riputazione della vittoria del re di
Francia che con le armi proprie, acquistò presto il pontefice le
terre tanto desiderate della Romagna; nella quale non tenevano piú i
viniziani altro che la fortezza di Ravenna.
Contro a' quali si scoprivano, dopo la rotta dello esercito loro,
ogni dí nuovi inimici. Perché il duca di Ferrara, il quale insino a
quel dí non si era voluto dimostrare, cacciò subito di Ferrara il
bisdomino, magistrato che per antiche convenzioni, per rendere
ragione a' sudditi loro, vi tenevano i viniziani, e prese l'armi
recuperò senza ostacolo alcuno il Polesine di Rovigo, e sfondò con
l'artiglierie l'armata de' viniziani che era nel fiume dello Adice;
e al marchese di Mantova si arrenderono Asola e Lunato, occupate già
da' viniziani, nelle guerre contro a Filippo Maria Visconte, a
Giovanfrancesco da Gonzaga suo proavo. In Istria Cristoforo
Frangiapane occupò Pisinio e Divinio, e il duca di Brunsvich,
entrato per comandamento di Cesare nel Friuli con duemila uomini
comandati, prese Feltro e Bellona. Alla venuta del quale e alla fama
della vittoria de' franzesi, Triesti, e l'altre terre, dallo
acquisto delle quali era proceduta a' viniziani l'origine di tanti
mali, tornorno allo imperio di Cesare. Occuporono eziandio i conti
di Lodrone alcune castella vicine; e il vescovo di Trento, con
simile movimento, Riva di Trento e Agresto.
Lib.8, cap.6
Padova, Verona ed altre terre lasciate in arbitrio de' popoli.
Ambasciata e orazione di Antonio Giustiniano a Massimiliano. I
veneziani mandano in Puglia per la consegna dei porti al re
d'Aragona e in Romagna per la consegna al pontefice di quanto ancora
essi possiedono.
Ma niuna cosa aveva dopo la rotta di Vaila spaventato tanto i
viniziani quanto la espugnazione della rocca di Peschiera, intorno
alla quale si erano persuasi doversi per la fortezza sua fermare
l'impeto dei vincitori. Però attoniti per tanti mali, e temendo
estremamente che non si facesse piú innanzi il re di Francia,
disperate le cose loro e astretti piú da timidità che da consiglio,
ritiratesi le genti loro a Mestri, le quali senza obedienza e ordine
alcuno erano ridotte a numero molto piccolo, deliberorono, per non
avere piú tanti inimici, con disperazione forse troppo presta, di
cedere allo imperio di terra ferma: né meno, per levare al re di
Francia l'occasione di approssimarsi a Vinegia; perché non stavano
senza sospetto che in quella città si facesse qualche tumulto,
concitato da' popolari o dalla moltitudine innumerabile che vi abita
di forestieri, questi tirati da desiderio di rubare, quegli da non
volere tollerare che, essendo cittadini nati per lunga successione
in una medesima città, anzi molti del medesimo sangue e delle
medesime famiglie, fussino esclusi dagli onori, e in tutte le cose
quasi soggetti a' gentiluomini. Della quale abiezione d'animo fu
anche nel senato allegata questa ragione, che se volontariamente
cedevano allo imperio per fuggire i presenti pericoli, che con piú
facilità, ritornando mai la prospera fortuna, lo ricupererebbeno;
perché i popoli, licenziati spontaneamente da loro, non sarebbeno
cosí renitenti a tornare sotto l'antico dominio come sarebbeno se se
ne fussino partiti con aperta rebellione. Dalle quali ragioni mossi,
dimenticata la generosità viniziana, e lo splendore di tanto
gloriosa republica, contenti di ritenersi solamente l'acque salse,
commesseno agli ufficiali che erano in Padova in Verona e nelle
altre terre destinate a Massimiliano, che lasciatele in arbitrio de'
popoli se ne partissino. E oltre a questo, per ottenere da lui con
qualunque condizione la pace, gli mandorono con somma celerità
imbasciadore Antonio Giustiniano; il quale, ammesso in publica
udienza al cospetto di Cesare, parlò miserabilmente e con
grandissima sommissione: ma invano, perché Cesare recusava di fare
senza il re di Francia convenzione alcuna. Non mi pare alieno dal
nostro proposito, acciò che meglio si intenda in quanta
costernazione d'animo fusse ridotta quella republica, la quale già
piú di dugento anni non avea sentito avversità pari a questa,
inserire la propria orazione avuta da lui innanzi a Cesare,
trasferendo solamente le parole latine in voci volgari; le quali
furono in questo tenore:
- È manifesto e certo che gli antichi filosofi e gli uomini
principali della gentilità non errorono, quando quella essere vera,
salda, sempiterna e immortale gloria affermorono la quale si
acquista dal vincere se medesimo: questa esaltorono sopra tutti i
regni trofei e trionfi. Di questo è laudato Scipione maggiore,
chiaro per tante vittorie; e piú splendore gli dette che l'Africa
vinta e Cartagine domata. Non partorí questa cosa medesima la
immortalità a quel macedone grande? quando Dario vinto da lui in una
battaglia grandissima pregò gli dèi immortali che stabilissino il
suo regno, ma se altrimenti avessino disposto non chiese altro
successore che questo tanto benigno inimico tanto mansueto
vincitore. Cesare dittatore, del quale tu hai il nome e la fortuna,
del quale tu ritieni la liberalità la munificenza e l'altre virtú,
non meritò egli di essere descritto nel numero degli dèi per
concedere per rimettere per perdonare? Il senato finalmente e il
popolo romano, quello domatore del mondo, il cui imperio è in terra
in te solo e in te si rappresenta la sua amplitudine e maestà, non
sottopose egli piú popoli e provincie con la clemenza con la equità
e mansuetudine che con le armi o con la guerra? Le quali cose poi
che sono cosí, non sarà numerata trall'ultime laudi se la Maestà
tua, che ha in mano la vittoria acquistata de' viniziani,
ricordatasi della fragilità umana, saprà moderatamente usarla, e se
piú inclinerà agli studi della pace che agli eventi dubbi della
guerra. Perché quanta sia la incostanza delle cose umane, quanto
incerti i casi, quanto dubbio mutabile fallace e pericoloso lo stato
de' mortali, non è necessario mostrare con esempli forestieri o
antichi: assai e piú che abbastanza lo insegna la republica
viniziana, la quale poco innanzi florida risplendente chiara e
potente, in modo che 'l nome e la fama sua celebrata non stesse
dentro a' confini della Europa ma con pompa egregia corresse per
l'Africa e per l'Asia, e risonando facesse festa negli ultimi
termini del mondo, questa, per una sola battaglia avversa e ancora
leggiera, privata della chiarezza delle cose fatte, spogliata delle
ricchezze, lacerata conculcata e rovinata, bisognosa di ogni cosa,
massime di consiglio, è in modo caduta che sia invecchiata la
imagine di tutta l'antica virtú, e raffreddato tutto il fervore
della guerra. Ma ingannansi, senza dubbio ingannansi i franzesi, se
attribuiscono queste cose alla virtú loro; conciossiaché per il
passato, travagliati da maggiore incomodità, percossi e consumati da
grandissimi danni e ruine, non rimessono mai l'animo, e allora
potissimamente quando con grande pericolo facevano guerra molti anni
col crudelissimo tiranno de' turchi; anzi sempre di vinti
diventorono vincitori. Il medesimo arebbono sperato che fusse stato
al presente se, udito il nome terribile della Maestà tua, udita la
vivace e invitta virtú delle tue genti, non fussino in modo caduti
gli animi di tutti che non ci sia rimasta speranza alcuna non dico
di vincere ma né di resistere. Però, gittate in terra l'armi,
abbiamo riposta la speranza nella clemenza inenarrabile o piú tosto
divina pietà della Maestà tua, la quale non diffidiamo dovere
trovare alle cose nostre perdute. Adunque, supplicando in nome del
principe, del senato e del popolo viniziano, con umile divozione ti
preghiamo oriamo scongiuriamo: degnisi tua Maestà riguardare con gli
occhi della misericordia le cose nostre afflitte, e medicarle con
salutifero rimedio. Abbraccieremo tutte le condizioni della pace che
tu ci darai, tutte le giudicheremo eque oneste conformi alla equità
e alla ragione. Ma forse noi siamo degni che da noi medesimi ci
tassiamo. Tornino con nostro consenso a te, vero e legittimo
signore, tutte le cose che i nostri maggiori tolsono al sacro
imperio e al ducato di Austria. Alle quali cose, perché venghino piú
convenientemente, aggiugniamo tutto quello che possediamo in terra
ferma; alle ragioni delle quali, in qualunque modo siano acquistate,
rinunciamo. Pagheremo oltre a questo, ogni anno, alla Maestà tua e
a' successori legittimi dello imperio, in perpetuo, ducati
cinquantamila; ubbidiremo volentieri a' tuoi comandamenti decreti
leggi precetti. Difendici, priego, dalla insolenza di coloro co'
quali poco fa accompagnammo l'armi nostre, i quali ora proviamo
crudelissimi inimici, che non appetiscono non desiderano cosa alcuna
tanto quanto la ruina del nome viniziano: dalla quale clemenza
conservati chiameremo te padre progenitore e fondatore della nostra
città, scriveremo negli annali e continuamente a' figliuoli nostri i
tuoi meriti grandi racconteremo. Né sarà piccola aggiunta alle tue
laudi, che tu sia il primo a' piedi del quale la republica veneta
supplichevole si prostra in terra, al quale abbassa il collo, il
quale onora riverisce osserva come uno dio celeste. Se il sommo
massimo Dio avesse dato inclinazione a' maggiori nostri non si
fussino ingegnati di maneggiare le cose di altri, già la nostra
republica piena di splendore avanzerebbe di molto l'altre città
della Europa; la quale ora, marcida di squallore di sorde di
corruzione, deforme di ignominia e di vituperio, piena di derisione
di contumelie di cavillazioni, ha dissipato in uno momento l'onore
di tutte le vittorie acquistate. Ma perché il parlare ritorni
finalmente dove cominciò, è in potestà tua, rimettendo e perdonando
a' tuoi viniziani, acquistare un nome, un onore, del quale niuno,
vincendo, in qualunque tempo, acquistò mai il maggiore il piú
splendido. Questo niuna vetustà niuna piú lunga antichità niuno
corso di tempo cancellerà delle menti de' mortali, ma tutti i secoli
ti chiameranno predicheranno e confesseranno pio, clemente, principe
piú glorioso di tutti gli altri. Noi, tuoi viniziani, attribuiremo
tutto alla tua virtú felicità e clemenza: che noi viviamo, che
usiamo l'aura celeste, che godiamo il commercio degli uomini. -
Mandorono i viniziani, per la medesima deliberazione, uno uomo in
Puglia a consegnare i porti al re d'Aragona; il quale, sapendo senza
spesa e senza pericolo godere il frutto delle altrui fatiche, aveva
mandato di Spagna una armata piccolissima, dalla quale erano state
occupate alcune terre di poco momento de' contadi di quelle città.
Mandorno similmente in Romagna uno secretario publico, con
commissione che al pontefice si consegnasse quel che ancora si
teneva per loro, in caso che e' fusse liberato Giampagolo Manfrone e
gli altri prigioni, avessino facoltà di trarne l'artiglierie, e che
le genti che erano in Ravenna fussino salve. Le quali condizioni
mentre che il pontefice, per non dispiacere a' confederati, fa
difficoltà di accettare, si arrendé la città di Ravenna. E poco
dipoi i soldati, che erano nella fortezza, per loro medesimi la
dettono; recusando il secretario de' viniziani che vi era entrato
dentro, perché quegli che per loro trattavano a Roma davano speranza
che alla fine il pontefice consentirebbe alle condizioni con le
quali la restituzione aveano offerta: lamentandosi gravemente il
pontefice essere stata dimostrata maggiore contumacia con lui che
non era stata usata né con Cesare né col re d'Aragona. E però,
addimandandogli i cardinali Grimanno e Cornaro viniziani, in nome
del senato, l'assoluzione dal monitorio come debita, per avere
offerta nel termine de' ventiquattro dí la restituzione, rispose non
avere ubbidito, perché non l'aveano offerta semplicemente ma con
limitate condizioni, e perché erano stati ammuniti a restituire
oltre alle terre i frutti presi e tutti i beni che e' possedevano
appartenenti alle chiese o alle persone ecclesiastiche.
Lib.8, cap.7
Sentimenti diversi in Italia per le sventure de' veneziani. Il
pontefice acconsente a ricevere gli ambasciatori di Venezia. Mentre
Padova, Vicenza e altre terre consegnano le chiavi agli ambasciatori
di Massimiliano, Treviso si afferma fedele a Venezia. Inazione e
lentezze di Massimiliano.
In questo modo precipitavano con impeto grandissimo e quasi stupendo
le cose della republica viniziana, calamità sopra a calamità
continuamente accumulandosi, qualunque speranza si proponevano
mancando, né indizio alcuno apparendo per il quale sperare potessino
almeno conservare, dopo la perdita di tanto imperio, la propria
libertà. Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani,
ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con
grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della
osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli
offeriva l'occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi
tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il
nome loro, odioso ancora piú per la fama che risonava per tutto
della alterezza naturale a quella nazione. Da altra parte, molti
considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse
brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la
servitú de' forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una
tanta città, sedia sí inveterata di libertà, splendore per tutto il
mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non
rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si
spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro
conservava la fama e l'estimazione comune.
Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al
pontefice, sospettoso della potenza del re de' romani e del re di
Francia, e desideroso che l'essere implicati in altre faccende gli
rimovesse da' pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione,
deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che
piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le
lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo
pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei
imbasciadori eletti de' principali del senato, per ricercarlo
supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere
e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico
della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza
degli errori commessi, dimandano venia, consentí d'ammettergli:
repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e
riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente
obligato a perseguitargli, con l'armi temporali e spirituali, insino
a tanto che ciascuno de' confederati avesse recuperato quello che se
gli apparteneva: a' quali rispondeva avere consentito di ammettergli
con intenzione di non concedere l'assoluzione se prima Cesare, che
solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se
gli appartenevano.
Dette questa cosa qualche cominciamento di speranza e di sicurtà a'
viniziani. Ma gli assicurò molto piú dal terrore estremo dal quale
erano oppressi la deliberazione del re di Francia, di osservare con
buona fede la capitolazione fatta con Cesare e, poiché aveva
acquistato tutto quello che aspettava a sé, non entrare con lo
esercito piú oltre che fussino i termini suoi. Però, essendo in
potestà sua non solo accettare Verona, gl'imbasciadori della quale
città venneno a lui per darsegli, presa che ebbe Peschiera, ma
similmente occupare senza ostacolo alcuno Padova e l'altre terre
abbandonate da' viniziani, volle che gli imbasciadori de' veronesi
presentassino le chiavi della terra agli imbasciadori di Cesare che
erano nello esercito suo. E per questa cagione si fermò con tutte le
genti a Peschiera; la quale terra, invitato dalla opportunità del
luogo, ritenne per sé, non ostante che appartenesse al marchese di
Mantova, perché insieme con Asola e Lunato era stata occupata da'
viniziani: non avendo ardire di negarlo il marchese, al quale
riservò l'entrate della terra e promesse di ricompensarlo con cosa
equivalente. E aveva ne' medesimi dí ricevuta per accordo la
fortezza di Cremona, con patto che a tutti i soldati fusse salva la
vita e la roba, eccetto quegli che fussino sudditi suoi, e che i
gentiluomini viniziani a' quali dette la fede di salvare la vita
fussino suoi prigioni. Seguitorono l'esempio di Verona, Vicenza
Padova e l'altre terre, eccetto la città di Trevisi; la quale,
abbandonata già da' magistrati e dalle genti de' viniziani, arebbe
fatto il medesimo, se di Cesare fusse apparito o forze benché minime
o almeno persona di autorità. Ma essendovi andato per riceverla in
suo nome, senza forze senza armi senza maestà alcuna di imperio,
Lionardo da Dressina fuoruscito vicentino, che per lui aveva nel
modo medesimo ricevuto Padova, ed essendo già stato ammesso dentro,
gli sbanditi di quella città stati nuovamente restituiti da'
viniziani, e per questo beneficio amatori del nome loro, cominciorno
a tumultuare; dietro a' quali sollevandosi la plebe affezionata allo
imperio viniziano, e facendosene capo uno Marco calzolaio, il quale
con concorso e grida immoderate della moltitudine portò in su la
piazza principale la bandiera de' viniziani, cominciorono a chiamare
unitamente il nome di san Marco, affermando non volere riconoscere
né altro imperio né altro signore: la quale inclinazione aiutò non
poco uno oratore del re d'Ungheria, che andando a Vinegia e passando
per Trevisi, scontratosi a caso in questo tumulto, confortò il
popolo a non si ribellare. Però cacciato il Dressina, e messo nella
città settecento fanti de' viniziani e poco dipoi tutto l'esercito
che, augumentato di fanti venuti di Schiavonia e di quegli che erano
ritornati di Romagna, disegnava fare uno alloggiamento forte tra
Marghera e Mestri, entrò in Trevisi; dove atteseno con somma
diligenza a fortificarlo, e facendo correre i cavalli per tutto il
paese vicino e mettere dentro piú vettovaglie potevano, cosí per
bisogno di quella città come per uso della città di Vinegia; nella
quale da ogni parte accumulavano grandissima copia di vettovaglie.
Cagione principale di questo accidente e di rendere speranza a'
viniziani di potere ritenere qualche parte del loro imperio, e di
molti gravissimi casi che seguitorono poi, fu la negligenza e il
disordinato governo di Cesare; del quale non si era insino a quel dí
udito, in tanto corso di vittoria, altro che il nome: con tutto che
per il timore dell'armi de' franzesi se gli fussino arrendute tante
terre, le quali gli sarebbe stato facilissimo a conservare. Ma era,
dopo la confederazione fatta a Cambrai, soprastato qualche dí in
Fiandra, per avere spontaneamente danari da' popoli per sussidio
della guerra, i quali non prima avuti che, secondo la sua
consuetudine, gli spese inutilmente; e ancora che, partito da Molins
armato e con tutta la pompa e ceremonie imperiali, e accostatosi a
Italia, publicasse di volere rompere la guerra innanzi al termine
statuitogli nella capitolazione, nondimeno oppressato dalle sue
solite difficoltà e confusioni non si faceva piú innanzi: non
bastando gli stimoli del pontefice che, per il terrore che aveva
delle armi franzesi, lo sollecitava continuamente a venire in
Italia, e perché meglio potesse farlo gli aveva mandato Costantino
di Macedonia con cinquantamila ducati, avendogli prima consentito i
centomila ducati che per spendere contro agli infedeli erano stati
depositati piú anni innanzi in Germania. Aveva oltre a questo
ricevuto dal re di Francia centomila ducati, per causa della
investitura del ducato di Milano. Sopragiunselo, essendo vicino a
Spruch, la nuova del fatto d'arme di Vaila; e benché mandasse subito
il duca di Brunsvich a recuperare il Friuli nondimeno non si moveva,
come in tanta occasione sarebbe stato conveniente, impedito dal
mancamento di danari, non essendo bastati alla sua prodigalità
quegli che aveva raccolti di tanti luoghi. Condussesi finalmente a
Trento, donde ringraziò per lettere il re di Francia d'avere
mediante l'opera sua ricuperate le sue terre; e si affermava che,
per dimostrare a quel re maggiore benivolenza, e acciò che in tutto
si spegnesse la memoria delle offese antiche, avea fatto ardere uno
libro che si conservava a Spira, nel quale erano scritte tutte
l'ingiurie fatte per il passato da' re di Francia allo imperio e
alla nazione degli alamanni. A Trento venne a lui, il terzodecimo dí
di giugno, per trattare delle cose comuni il cardinale di Roano, il
quale raccolto con grandissimo onore gli promesse in nome del re
aiuto di cinquecento lancie; e avendo espedito concordemente l'altre
cose, statuirono che Cesare e il re convenissino a parlare insieme
in campagna aperta appresso alla terra di Garda, ne' confini
dell'uno dominio e dell'altro. Però il re di Francia si mosse per
esservi il dí determinato, e Cesare per la medesima cagione venne a
Riva di Trento; ma poi che vi fu stato solamente due ore ritornò
subitamente a Trento, significando nel tempo medesimo al re di
Francia che per accidenti nuovi nati nel Friuli era stato
necessitato a partirsi, e pregandolo si fermasse a Cremona, perché
presto ritornerebbe per dare perfezione al parlamento deliberato. La
quale varietà, se però è possibile in uno principe tanto instabile
ritrovarne la verità, molti attribuivano a sospetto stillatogli
(come per natura era molto credulo) negli orecchi da altri; alcuni
interpretando che, per avere seco poca corte e poca gente, non gli
paresse potersi presentare con quella dignità e riputazione che si
paragonasse alla pompa e alla grandezza del re di Francia. Ma il re,
desideroso per alleggerirsi da tanta spesa, di dissolvere presto lo
esercito, né meno di ritornarsene presto in Francia, non attesa
questa proposta, si voltò verso Milano, ancora che da Matteo Lango,
doventato episcopo Gurgense, che mandatogli da Massimiliano per
questo effetto lo seguitò insino a Cremona, fusse molto pregato ad
aspettare, promettendogli che senza fallo alcuno ritornerebbe. Il
discostarsi la persona e l'esercito del re cristianissimo da'
confini di Cesare tolse assai di riputazione alle cose sue; e
nondimeno, con tutto che avesse seco tante genti che potesse
facilmente provedere Padova e l'altre terre, non vi mandò presidio,
o per instabilità della natura sua o per disegno di attendere prima
ad altre imprese o perché gli paresse piú onorevole avere congiunto
seco, quando scendeva in Italia, maggiore esercito: anzi, come se le
prime cose avessino avuto la debita perfezione, proponeva che colle
forze unite di tutti i confederati, si assaltasse la città di
Vinegia; cosa udita volentieri dal re di Francia, ma molesta al
pontefice e contradetta apertamente dal re di Aragona.
Lib.8, cap.8
I fiorentini svolgono piú decisamente le azioni contro Pisa. Le
condizioni degli assediati sempre piú difficili; grave malcontento
dei contadini. Patti di resa dei pisani ai fiorentini.
Poseno in questo tempo i fiorentini l'ultima mano alla guerra contro
a' pisani: perché, poiché ebbono proibito che in Pisa entrasse il
soccorso de' grani, fatta nuova provisione di gente, si messono con
ogni industria e con ogni sforzo a vietare che né per terra né per
acqua non vi entrassino vettovaglie; il che non si faceva senza
difficoltà per la vicinità del paese de' lucchesi, i quali dove
occultamente potevano osservavano con mala fede la concordia fatta
nuovamente co' fiorentini. Ma in Pisa cresceva di giorno in giorno
la strettezza del vivere, la quale non volendo i contadini piú
tollerare, quegli capi de' cittadini in mano de' quali erano le
deliberazioni publiche e che erano seguitati dalla piú parte della
gioventú pisana, per addormentare i contadini con le arti consuete,
introdusseno, adoperando per mezzo il signore di Piombino, pratica
dello accordarsi co' fiorentini, nella quale artificiosamente
consumorono molti dí; essendo andato per questo Niccolò Machiavelli,
secretario de' fiorentini, a Piombino e molti imbasciadori de'
pisani, eletti de' cittadini e de' contadini. Ma era molto difficile
il chiudere Pisa, perché ha la campagna larga montuosa e piena di
fossi e di paludi, da potere male proibire che, di notte massime,
non vi entrassino vettovaglie; atteso la prontezza di darne loro del
paese de' lucchesi, e la disposizione feroce de' pisani che per
condurvene si esponevano a ogni fatica e a ogni pericolo: le quali
difficoltà per superare determinorno i capitani de' fiorentini di
fare tre parti dello esercito, acciocché diviso in piú luoghi
potesse piú comodamente proibire l'entrare in Pisa. Collocoronne una
parte a Mezzana fuora della porta alle Piaggie, la seconda a San
Piero a Reno e a San Iacopo opposita alla porta di Lucca, la terza
presso all'antichissimo tempio di San Piero in Grado che è tra Pisa
e la foce d'Arno, e in ciascuno campo, bene fortificato, oltre a'
cavalli mille fanti; e per guardare meglio la via de' monti, per la
strada di Val d'Osole che va al monte a San Giuliano, si fece verso
lo Spedale magno uno bastione capace di dugento cinquanta fanti:
donde cresceva ogni dí la penuria de' pisani. I quali, cercando di
ottenere con le fraudi quello che già disperavano di potere ottenere
con la forza, ordinorno che Alfonso del Mutolo, giovane pisano di
bassa condizione (il quale stato preso non molto prima da' soldati
de' fiorentini avea ricevuto grandissimi benefici da colui [di] cui
prigione era stato), offerisse per mezzo suo di dare furtivamente la
porta che va a Lucca; disegnando, nel tempo medesimo che 'l campo
che era a San Iacopo andasse di notte per riceverla, non solamente,
messane dentro una parte, opprimere quella ma nel tempo medesimo
assaltare uno degli altri campi de' fiorentini, i quali secondo
l'ordine dato si avevano ad accostare piú presso alla città. I quali
essendosi accostati, ma non con temerità né con disordine, i pisani
non conseguirno altro di questo trattato che la morte di pochi
uomini che si condusseno nello antiporto per entrare nella città al
segno dato: tra' quali fu morto Canaccio da Pratovecchio (cosí si
chiamava quello di cui era stato prigione Alfonso del Mutolo),
quello sotto la confidenza di chi era stato tenuto il trattato e vi
morí anche d'una artiglieria Paolo da Parrano capitano di una
compagnia di cavalli leggieri de' fiorentini. La quale speranza
mancata, né entrando piú in Pisa se non piccolissima quantità di
grani, e quegli occultamente e con grandissimo pericolo di quei che
ve gli conducevano, né comportando i fiorentini che di Pisa
uscissino bocche disutili, perché facevano vari supplíci a coloro
che ne uscivano, si comperavano con prezzo smisurato le cose
necessarie al vivere umano; e non ve ne essendo tante che bastassino
a tutti, molti già si morivano per non avere da alimentarsi. E
nondimeno era maggiore di tanta necessità l'ostinazione di quegli
cittadini che erano capi del governo; i quali, disposti a vedere
prima l'ultimo esterminio della patria che cedere a sí orribile
necessità, andavano di giorno in giorno differendo il convenire,
ingegnandosi di dare alla moltitudine ora una speranza ora un'altra;
e sopratutto che, aspettandosi a ogni ora Cesare in Italia,
sarebbono i fiorentini necessitati a discostarsi dalle loro mura. Ma
una parte de' contadini, e quegli massime che, stati a Piombino,
avevano compreso quale fusse l'animo loro, fatta sollevazione gli
costrinse a introdurre nuove pratiche co' fiorentini: le quali
trattate con Alamanno Salviati, commissario di quella parte dello
esercito che alloggiava a San Piero in Grado, dopo varie dispute,
usando continuamente quegli medesimi ogni possibile diligenza per
interrompere, si conchiuse. E nondimeno la concordia fu fatta con
condizioni molto favorevoli per i pisani: conciossiaché fussino
rimessi loro non solo tutti i delitti fatti ma ancora concesse molte
esenzioni, rimessi tutti i debiti publici e privati, e assoluti
dalla restituzione de' beni mobili de' fiorentini che avevano rapiti
quando si ribellorono. Tanto era il desiderio che avevano i
fiorentini di insignorirsene, tanto il timore che da Massimiliano,
che aveva nella lega di Cambrai nominato i pisani, benché dal re di
Francia non fusse accettata la nominazione, o da altro luogo, non
sopravenisse qualche insperato impedimento che, ancora che fussino
certi che i pisani erano necessitati fra pochissimi dí cedere alla
fame, vollono piú presto assicurarsene con inique condizioni che,
per ottenerla senza convenzione alcuna, rimettere niente della
certezza alla fortuna. La quale concordia, benché cominciata a
trattarsi nel campo, fu dipoi dagli imbasciadori pisani trattata e
conchiusa in Firenze: e in questo fu memorabile la fede de'
fiorentini che, ancorché pieni di tanto odio ed esacerbati da tante
ingiurie, non furono manco costanti nell'osservare le cose promesse
che facili e clementi nel concederle.
Lib.8, cap.9
Risveglio di speranze e di attività ne' veneziani; riconquista di
Padova, del contado e della fortezza di Legnago. Nuove convenzioni
fra il pontefice e il re di Francia. I veneziani occupano Isola
della Scala e fanno prigioniero il marchese di Mantova. Modeste
azioni di guerra e grandiosi progetti di Massimiliano. Vicende della
lotta nel Friuli. Umile atteggiamento degli ambasciatori veneziani
in Roma e loro trattative coi cardinali.
È certo che il re de' romani sentí con non piccola molestia
l'essersi sottomessi i pisani, perché si era persuaso o che il
dominio di quella città gli avesse a essere potente instrumento a
molte occasioni o che il consentirla a' fiorentini gli avesse a fare
ottenere da loro quantità non mediocre di danari: per mancamento de'
quali lasciava cadere le amplissime occasioni che, senza fatica o
industria sua, se gli erano offerte. Le quali mentre che sí
debolmente aiuta che in Vicenza e Padova non era quasi soldato
alcuno per lui, ed egli, con la sua tardità raffreddando la caldezza
degli uomini delle terre, si trasferisce con poca gente, spesso e
con presta variazione, da luogo a luogo, i viniziani non
pretermetterono l'opportunità che se gli offerse di recuperare
Padova, indotti a questo da molte ragioni: perché lo avere ritenuto
Trevigi gli aveva fatto riconoscere quanto fusse stato inutile
l'avere con sí precipitoso consiglio disperato sí subito dello
imperio di terra ferma, e perché per la tardità degli apparati di
Massimiliano si temeva manco l'uno dí che l'altro di lui; stimolati
ancora non poco perché volendo condurre a Vinegia le entrate de'
beni che i particolari viniziani tenevano, molti, nel contado di
Padova, era stato dinegato dai padovani. In modo che, congiunto lo
sdegno dei privati con la utilità publica, e invitandogli il sapere
Padova essere male provista di gente, e che, per le insolenze che i
gentiluomini di Padova usavano con la plebe, molti ricordatisi della
moderazione del governo viniziano cominciavano a desiderare il primo
dominio, deliberorono fare esperienza di recuperarla; e a questo
dava loro occasione non piccola che la piú parte de' contadini del
padovano era ancora a loro divozione. E perciò fu stabilito che
Andrea Gritti, uno de' proveditori, lasciato a dietro l'esercito che
era di quattrocento uomini d'arme piú di dumila tra stradiotti e
cavalli leggieri e cinquemila fanti, andasse a Novale nel padovano,
e unitosi nel cammino con una parte de' fanti che, accompagnati da
molti contadini, erano stati mandati alla villa di Mirano si
dirizzasse verso Padova per assaltare la porta di Codalunga; e che
nel tempo medesimo dumila villani con trecento fanti e alcuni
cavalli assaltassino, per confondere piú gli animi di quegli di
dentro, il portello che è nella parte opposita della città: e che,
per occultare piú questi pensieri, Cristoforo Moro, l'altro
proveditore, dimostrasse di andare a campo alla terra di Cittadella.
Il quale disegno bene ordinato non ebbe però maggiore ordine che
felicità. Perché i fanti, arrivati a grande ora del dí, trovorno la
porta di Codalunga mezza aperta, perché poco innanzi erano per sorte
entrati dentro per quella alcuni contadini con carri carichi di
fieno; in modo che occupatala senza alcuna difficoltà, e aspettata
senza fare strepito la venuta delle altre genti che erano vicine,
furono non solo entrate prima dentro, anzi quasi condotte in su la
piazza, che in quella città, grandissima di circuito e vota di
abitatori, fusse sentito il romore: camminando innanzi a tutti il
cavaliere della Volpe co' cavalli leggieri, e il Zitolo di Perugia e
Lattanzio da Bergamo con parte de' fanti. Ma pervenuto il romore
alla cittadella, il Dressina governatore di Padova in nome di
Massimiliano, con trecento fanti tedeschi che soli erano a quella
guardia, uscí in piazza, e 'l medesimo fece con cinquanta cavalli
Brunoro da Serego; aspettando se, col sostenere quivi lo impeto
degli inimici, quegli che in Padova amavano lo imperio tedesco
pigliassino l'armi in loro favore. Ma era vana questa e ogni altra
speranza, perché nella città, oppressa da sí subito tumulto e nella
quale era già entrata molta gente, nessuno faceva movimento; in modo
che, abbandonati da ciascuno, furono in breve spazio di tempo, con
perdita di molti de' suoi, costretti a ritirarsi nella rocca e nella
cittadella; le quali essendo poco munite bisognò che in spazio di
poche ore si arrendessino liberamente. E cosí, fattesi le genti
viniziane padrone del tutto, attesono ad acquietare il tumulto e
salvare la città; la maggiore parte della quale, per la imprudenza e
insolenza d'altri, era diventata loro benevola: non avendo ricevuto
danno se non le case degli ebrei e alcune case di padovani che si
erano scoperti prima inimici del nome viniziano. Il quale dí,
dedicato a santa Marina, è ogni anno in Vinegia, per deliberazione
publica, celebrato solennemente, come dí felicissimo e principio
della recuperazione del loro imperio. Commossesi alla fama di questa
vittoria tutto il paese circostante; ed era grandissimo pericolo che
Vicenza non facesse per se stessa il medesimo se Costantino di
Macedonia, che a caso era quivi vicino, non vi fusse entrato con
poca gente. Recuperata Padova, i viniziani recuperorno subito tutto
il contado, avendo in favore loro la inclinazione della gente bassa
delle terre e de' contadini; recuperorono ancora col medesimo impeto
la terra e le fortezze di Lignago, terra molto opportuna a
perturbare tutti i contadi di Verona di Padova e di Vicenza.
Tentorno oltre a questo di pigliare la torre Marchesana distante
otto miglia da Padova, passo opportuno a entrare nel Pulesine di
Rovigo e offendere il paese di Mantova; ma non l'ottennono, perché
il cardinale da Esti la soccorse con gente e con artiglierie.
Non ritardò il caso di Padova, come molti aveano creduto, la
ritornata del re di Francia di là da' monti; il quale, mentre
partiva, fece nella terra di Biagrassa col cardinale di Pavia,
legato del pontefice, nuove convenzioni. Per le quali il pontefice e
il re, obligatisi alla protezione l'uno dell'altro, convennono di
potere ciascuno di loro con qualunque altro principe convenire,
purché non fusse in pregiudicio della presente confederazione.
Promesse il re non tenere protezioni, né accettarne in futuro, di
alcuno suddito o feudatario o che dependesse mediatamente o
immediatamente dalla Chiesa, annichilando espressamente tutte quelle
che insino a quel dí avesse ricevute: promessa poco conveniente
all'onore di tanto re, perché non molto innanzi essendo venuto a lui
il duca di Ferrara, con tutto che prima si fusse sdegnato che senza
sua saputa avesse accettato il gonfalonierato della Chiesa,
riconciliatosi seco e ricevuti trentamila ducati, l'avea ricevuto
nella sua protezione. Convenneno che i vescovadi che allora vacavano
in tutti gli stati del re ne disponesse ad arbitrio suo il
pontefice, ma che quegli che in futuro vacassino si conferissino
secondo la nominazione che ne farebbe il re; al quale per sodisfare
piú, mandò il pontefice per il medesimo cardinale di Pavia al
vescovo di Albi le bolle del cardinalato, promettendo dargli le
insegne di quella degnità subito che andasse a Roma. Fatta questa
convenzione, il re senza dilazione si partí d'Italia, riportandone
in Francia gloria grandissima per la vittoria tanto piena e
acquistata con tanta celerità contro a' viniziani: e nondimeno, come
nelle cose che dopo lungo desiderio s'ottengono non truovano quasi
mai gli uomini né la giocondità né la felicità che prima s'aveano
immaginata, non riportò né maggiore quiete di animo né maggiore
sicurtà alle cose sue; anzi si vedeva preparata materia di maggiori
pericoli e alterazioni, e piú incerto l'animo suo di quel che, negli
accidenti nuovamente nati, avesse a deliberare. Se a Cesare
succedevano le cose prosperamente temeva molto piú di lui che prima
non avea temuto de' viniziani. Se la grandezza de' viniziani
cominciava a risorgere era necessitato stare in continui sospetti e
in continue spese per conservare le cose tolte loro: né questo
solamente, ma gli bisognava con gente e con danari aiutare Cesare,
perché abbandonandolo avea da sospettare che non si congiugnesse co'
viniziani contro a lui, con timore che al medesimo non concorresse
il re cattolico e per avventura il pontefice; né bastavano aiuti
mediocri a conservargli l'amicizia di Cesare, ma bisognava fussino
tali che ottenesse la vittoria contro a' viniziani; l'aiutarlo
potentemente, oltre che con gravissimo dispendio si faceva, lo
rimetteva ne' medesimi pericoli della grandezza di Cesare. Le quali
difficoltà considerando, era stato sospeso da principio se gli
dovesse essere grata o molesta la mutazione di Padova; benché poi,
contrapesando la sicurtà che gli potesse partorire l'essere privati
i viniziani dello imperio di terra ferma con le molestie e pericoli
che egli temeva dalla grandezza del re de' romani, e con la speranza
d'avere a ottenere da lui per mezzo delle sue necessità, con danari,
la città di Verona, la quale sommamente desiderava, come opportuna a
impedire i movimenti che si facessino in Germania, riputava
finalmente piú sicuro e piú utile per sé che le cose rimanessino in
tale stato che, dovendo verisimilmente essere lunga guerra tra
Cesare e i viniziani, l'una parte e l'altra, affaticata dalle spese
continue, ne divenisse piú debole: confermato molto piú in questa
sentenza quando ebbe convenuto col pontefice, perché sperò dovere
avere seco, stabile confederazione e amicizia. Lasciò nondimeno a'
confini del veronese, sotto la Palissa, settecento lancie perché
seguissino la volontà di Cesare; cosí per la conservazione delle
cose acquistate come per ottenere quel che ancora possedevano i
viniziani: per la andata de' quali a Vicenza, secondo il
comandamento che ebbono da Cesare, si assicurò la città di Verona,
la quale per il piccolo presidio che vi era dentro stava con non
mediocre sospetto; e l'esercito de' viniziani che era andato a campo
a Cittadella se ne partí.
Succedette innanzi alla partita del re un altro accidente favorevole
a' viniziani, perché correndo continuamente i cavalli loro, che
erano in Lignago, per tutto il paese e insino in sulle porte di
Verona e facendo danni grandissimi, a' quali le genti che erano in
Verona, per non vi essere piú di dugento cavalli e settecento fanti,
non potevano resistere, il vescovo di Trento governatore per Cesare
in quella città, deliberando porvi il campo, chiamò il marchese di
Mantova; il quale, per aspettare le preparazioni che si facevano,
fermatosi, con la compagnia de' cavalli che aveva dal re, all'Isola
della Scala, casale grande in veronese non circondato di mura né di
alcuna fortificazione, mentre sta quivi senza sospetto, fu esempio
notabile a tutti i capitani quanto in ogni luogo e in ogni tempo
debbino stare vigilanti e ordinati, e in modo possino confidarsi
delle forze proprie, non si assicurando né per la lontananza né per
la debolezza degli inimici. Perché essendosi il marchese convenuto
con alcuni stradiotti dell'esercito de' viniziani che venissino a
trovarlo in quel luogo per fermarsi agli stipendi suoi, e avendo
essi, insino dal principio che furno ricercati da lui, manifestata
la cosa a' loro capitani, e però essendosi dato ordine con questa
occasione di assalirlo all'improviso, Luzio Malvezzo con dugento
cavalli leggieri e il Zitolo da Perugia con ottocento fanti, venuti
occultamente da Padova a Lignago e unitisi con le genti che erano a
Lignago e con mille cinquecento de' contadini del paese, e mandati
innanzi alcuni cavalli che con spesse voci gridassino Turco (era
questo il cognome del marchese) per fare credere che fussino gli
stradiotti aspettati, si condussono non sospettando alcuno, la
mattina destinata in sul fare del dí all'Isola della Scala; ove
entrati senza resistenza, trovando senza guardia alcuna tutti i
soldati e gli altri che servivano e seguitavano il marchese a
dormire, gli messono in preda, ove tra gli altri rimase prigione
Boisí luogotenente del marchese nipote del cardinale di Roano; e il
marchese, sentito il romore, essendo fuggito quasi ignudo per una
finestra e occultatosi in un campo di saggina, fu manifestato agli
inimici da uno contadino del luogo medesimo, il quale, anteponendo
il comodo de viniziani alla propria utilità, secondo l'ardore comune
degli altri del paese, mentre che simulatamente, udite l'offerte
grandissime che 'l marchese gli faceva, dimostrava di attendere a
salvarlo, fece il contrario: onde menato a Padova e poi a Vinegia,
fu con allegrezza inestimabile di tutta la città incarcerato nella
torretta del palagio publico.
Non aveva insino a ora impedito né impediva Cesare in parte alcuna i
progressi de' viniziani, non avendo avuto insieme forze bastanti ad
alloggiare in sulla campagna, ed essendo stato occupato molti dí
nella montagna di Vicenza, ove i villani affezionati al nome
viniziano, confidatisi nella asprezza de' luoghi, se gli erano
manifestamente ribellati; e scendendo dipoi nella pianura, essendo
già seguita la rebellione di Padova, fu non senza suo pericolo
assalito da numero infinito di paesani che l'aspettavano a uno passo
forte: onde avendogli scacciati venne alla Scala nel vicentino, ove
l'esercito de' viniziani avea recuperata gran parte del contado di
Vicenza; ed espugnata Serravalle, passo importante, avea usata
crudeltà grande contro a' tedeschi: il quale luogo recuperando pochi
dí poi Massimiliano, usò contro a' fanti italiani e contro agli
uomini del paese la medesima crudeltà. Cosí, non essendo ancora
maggiori le forze sue, si occupava in piccole imprese, procedendo
all'espugnazione ora di questo castello ora di quello, con poca
degnità e riputazione del nome cesareo; proponendo nel tempo
medesimo agli altri confederati, come sempre erano maggiori i
concetti suoi che le forze e l'occasioni, che si attendesse con le
forze di tutti a occupare la città di Vinegia, usando oltre all'armi
di terra l'armate marittime de' re di Francia e di Aragona e le
galee del pontefice, che allora erano congiunte insieme. Alla qual
cosa, non trattata nella confederazione fatta a Cambrai, arebbe
acconsentito il re di Francia, pure che si proponessino condizioni
tali che l'acquistarla risultasse in beneficio comune; ma era cosa
molesta al pontefice, e la quale, e allora e in altro tempo che piú
lungamente si trattò, fu sempre contradetta dal re cattolico,
detestandola, perché gli pareva utile al re di Francia, sotto colore
di essere cosa ingiustissima e inonestissima.
Ma mentre che dall'armi tedesche e italiane sono cosí vessati i
contadi di Padova di Vicenza e di Verona, era ancora piú
miserabilmente lacerato il paese del Friuli e quello che in Istria
ubbidiva a' viniziani. Perché essendo per commissione di Cesare
entrato nel Friuli il principe di Analt con diecimila uomini
comandati, poi che invano ebbe tentato di pigliare Montefalcone,
aveva espugnata la terra e la fortezza di Cadoro con uccisione
grande di quegli che la difendevano; e all'incontro alcuni cavalli
leggieri e fanti de' viniziani, seguitati da molti del paese,
presono per forza la terra di Valdisera e per accordo Bellona, ove
non era guardia di tedeschi; e da altra parte il duca di Brunsvich
mandato medesimamente da Cesare, non avendo potuto ottenere Udine
terra principale del Friuli, era andato a campo a Civitale
d'Austria, terra situata in luogo eminente in sul fiume Natisone; a
guardia della quale era Federico Contareno, con piccolo presidio ma
confidatosi nelle forze del popolo dispostissimo a difendersi: al
cui soccorso venendo con ottocento cavalli e cinquecento fanti
Giampaolo Gradanico, proveditore del Friuli, fu messo in fuga dalle
genti tedesche; e nondimeno, ancora che avessino battuta Civitale
con l'artiglieria, non potettono, né con l'assalto feroce che gli
dettono né con la fama di avere rotti coloro che venivano a
soccorrerla, espugnarla. E in Istria Cristoforo Frangiapane roppe al
castello di Verme gli ufficiali de' viniziani, seguitati dalle genti
del paese; con l'occasione del quale successo prospero fece per
tutto il paese grandissimi danni e incendi, e occupò Castelnuovo e
la terra di Raspruchio. Però i viniziani mandorno Angelo Trivisano,
capitano della armata loro, con sedici galee; il quale, presa per
forza nella prima giunta la terra di Fiume, tentò di occupare la
città di Triesti, ma non gli succedendo, ricuperò per forza
Raspruchio, e dipoi si ritirò colle galee verso Vinegia: rimanendo
lacrimabile lo stato del Friuli e della Istria, perché essendovi piú
potenti ora i viniziani ora i tedeschi, quelle terre che prima avea
preso e saccheggiato l'uno recuperava e saccheggiava poi l'altro;
accadendo molte volte questo medesimo: di modo che, essendo
continuamente in preda le facoltà e la vita delle persone, tutto 'l
paese orribilmente si consumava e distruggeva.
Ne' quali accidenti dell'armi temporali si disputava in Roma sopra
l'armi spirituali: ove, insino innanzi alla recuperazione di Padova,
erano entrati con abito e con parole miserabili i sei oratori del
senato viniziano; i quali, essendo consueti a entrarvi con pompa e
fasto grandissimo e concorrendo loro incontro tutta la corte, non
solo non erano stati né onorati né accompagnati, ma entrativi,
perché cosí volle il pontefice, di notte né ammessi al cospetto suo,
andavano a trattare in casa il cardinale di Napoli, con lui e con
altri cardinali e prelati deputati; opponendosi grandemente perché
non ottenessino l'assoluzione dalle censure gl'imbasciadori del re
de' romani del re cristianissimo e del re cattolico, e in contrario
affaticandosi per loro palesemente l'arcivescovo eboracense, mandato
per questa cagione principalmente da Enrico ottavo, succeduto pochi
mesi avanti, per la morte di Enrico settimo suo padre, nel regno di
Inghilterra.
Lib.8, cap.10
Preparativi de' veneziani per la difesa di Padova; orazione del doge
in senato. I giovani della nobiltà veneziana accorrono alla difesa
di Padova. Massimiliano corre il contado, mentre la città viene
sempre piú fortificata e approvvigionata.
Ma espettazione di cose molto maggiori occupava in questo tempo gli
animi di tutti gli uomini: perché Cesare, raccogliendo tutte le
forze che per se stesso poteva e che gli erano concedute da molti,
si preparava per andare con esercito potentissimo a campo a Padova;
e da altra parte il senato viniziano, giudicando consistere nella
difesa di quella città totalmente la salute sua, attendeva con somma
diligenza alle provisioni necessarie a difenderla, avendovi fatto
entrare, da quelle genti in fuora che erano deputate alla guardia di
Trevigi, l'esercito loro con tutte quelle forze che da ogni parte
aveano potute raccorre, e conducendovi numero infinito d'artiglierie
di qualunque sorte, vettovaglie d'ogni ragione bastanti a
sostentargli molti mesi, moltitudine innumerabile di contadini e di
guastatori; co' quali, oltre all'avere con argini e con copia grande
di legnami e di ferramenti riparato per non essere privati
dell'acque che appresso alla terra di Limini si divertono a Padova,
aveano fatto alle mura della città e faceano continuamente
maravigliose fortificazioni. E con tutto che le provisioni fussino
tali che quasi maggiori non si potessino desiderare, nondimeno in
caso tanto importante era inestimabile la sollecitudine e la ansietà
di quel senato, non cessando dí e notte i senatori di pensare, di
ricordare e di proporre le cose che credevano che fussino opportune.
Delle quali trattandosi continuamente nel senato, Lionardo Loredano
loro doge, uomo venerabile per l'età e per la degnità di tanto
grado, nel quale era già seduto molti anni, levatosi in piedi parlò
in questa sentenza:
- Se, come è manifestissimo a ciascuno, prestantissimi senatori,
nella conservazione della città di Padova consiste non solamente
ogni speranza di potere mai recuperare il nostro imperio ma ancora
di conservare la nostra libertà, e per contrario se dalla perdita di
Padova ne seguita, come è certissimo, l'ultima desolazione di questa
patria, bisogna di necessità confessare che le provisioni e
preparazioni fatte insino a ora, ancorché grandissime e
maravigliose, non siano sufficienti, né per quello che si conviene
per la sicurtà di quella città né per quello che si appartiene alla
degnità della nostra republica; perché in una cosa di tanta
importanza e di tanto pericolo non basta che i provedimenti fatti
siano tali che si possa avere grandissima speranza che Padova
s'abbia a difendere, ma bisogna sieno tanto potenti che, per quel
che si può provedere con la diligenza e industria umana, si possa
tenere per certo che abbino ad assicurarla da tutti gli accidenti
che improvisamente potesse partorire la sinistra fortuna, potente in
tutte le cose del mondo ma sopra tutte l'altre in quelle della
guerra. Né è deliberazione degna della antica fama e gloria del nome
viniziano che da noi sia commessa interamente la salute publica, e
l'onore e la vita propria e della moglie e figliuoli nostri, alla
virtú di uomini forestieri e di soldati mercenari, e che non
corriamo noi spontaneamente e popolarmente a difenderla co' petti e
con le braccia nostre; perché se ora non si sostiene quella città
non rimane a noi piú luogo d'affaticarci per noi medesimi, non di
dimostrare la nostra virtú, non di spendere per la salute nostra le
nostre ricchezze: però, mentre che ancora non è passato il tempo di
aiutare la nostra patria, non debbiamo lasciare indietro opera o
sforzo alcuno, né aspettare di rimanere in preda di chi desidera di
saccheggiare le nostre facoltà, di bere con somma crudeltà il nostro
sangue. Non contiene la conservazione della patria solamente il
publico bene, ma nella salute della republica si tratta insieme il
bene e la salute di tutti i privati, congiunta in modo con essa che
non può stare questa senza quella; perché cadendo la republica e
andando in servitú, chi non sa che le sostanze l'onore e la vita de'
privati rimangono in preda dell'avarizia della libidine e della
crudeltà degli inimici? Ma quando bene nella difesa della republica
non si trattasse altro che la conservazione della patria, non è
questo premio degno de' suoi generosi cittadini? pieno di gloria e
di splendore nel mondo e meritevole appresso a Dio? Perché è
sentenza insino de' gentili, essere nel cielo determinato uno luogo
particolare il quale felicemente godino in perpetuo tutti coloro che
aranno aiutato conservato e accresciuto la patria loro. E quale
patria è giammai stata che meriti di essere piú aiutata e conservata
da' suoi figliuoli che questa? la quale ottiene e ha ottenuto per
molti secoli il principato intra tutte le città del mondo, e dalla
quale i suoi cittadini ricevono grandissime e innumerabili comodità
utilità e onori: ammirabile se si considerano o le doti ricevute
dalla natura, o le cose che dimostrano la grandezza quasi perpetua
della prospera fortuna, o quelle per le quali apparisce la virtú e
la nobiltà degli animi degli abitatori. Perché è stupendissimo il
sito suo; posta, unica nel mondo, tra l'acque salse, e congiunte in
modo tutte le parti sue che in uno tempo medesimo si gode la
comodità dell'acqua e il piacere della terra; e sicura, per non
essere posta in terra ferma, dagli assalti terrestri; sicura, per
non essere posta nella profondità del mare, dagli assalti marittimi.
E quanto sono maravigliosi gli edifici publici e privati! edificati
con incredibile spesa e magnificenza, e pieni di ornatissimi marmi
forestieri e di pietre singolari condotte in questa città da tutte
le parti del mondo; e quanto ci sono eccellenti le pitture le statue
le sculture gli ornamenti de' musaici e di tante bellissime colonne
e d'altre cose simiglianti! E quale città si truova al presente ove
sia maggiore concorso delle nazioni forestiere? che vengono qui,
parte per abitare in questa libera e quasi divina stanza
sicuramente, parte per esercitare i loro commerci; onde Vinegia è
piena di grandissime mercatanzie e faccende, onde crescono
continuamente le ricchezze de' nostri cittadini, onde la republica
ha tanta entrata del circuito solo di questa città quanta non hanno
molti re degli interi regni loro. Lascio andare la copia de'
letterati in ogni scienza e facoltà, la qualità degli ingegni e la
virtú degli uomini, dalla quale congiunta con le altre condizioni è
nata la gloria delle cose fatte, maggiori da questa republica e
dagli uomini nostri che da' romani in qua abbia fatto patria alcuna.
Lascio andare quanto sia maraviglioso vedere in una città nella
quale non nasca cosa alcuna, e che sia pienissima di abitatori,
abbondare ogni cosa. Fu il principio della città nostra ristretto in
su questi soli scogli sterili e ignudi, e nondimeno, distesasi la
virtú degli uomini nostri prima ne' mari piú vicini e nelle terre
circostanti, dipoi ampliatasi con felici successi ne' mari e nelle
provincie piú lontane, e corsa insino nell'ultime parti dello
Oriente, acquistò per terra e per mare tanto imperio, e tennelo sí
lungamente, e ampliò in modo la sua potenza che, stata tempo
lunghissimo formidabile a tutte l'altre città d'Italia, sia stato
necessario che ad abbatterla siano concorse le fraudi e le forze di
tutti i príncipi cristiani: cose certamente procedute con l'aiuto
del sommo Dio, perché è celebrata per tutto il mondo la giustizia
che si esercita indifferentemente in questa città; per il nome solo
della quale molti popoli si sono spontaneamente sottoposti al nostro
dominio. Già a quale città, a quale imperio cede di religione e di
pietà verso il sommo Dio la patria nostra? ove sono tanti monasteri,
tanti templi, pieni di ricchissimi e preziosissimi ornamenti di
tanti stupendi vasi e apparati dedicati al culto divino, ove sono
tanti ospedali e luoghi pii ne' quali, con incredibile spesa e
incredibile utilità de poveri, si esercitano assiduamente le opere
della carità? È meritamente per tutte queste cose preposta la patria
nostra a tutte l'altre, ma oltre a queste ce n'è una per la quale
sola trapassa tutte le laudi e la gloria di se medesima. Ebbe la
patria nostra in uno tempo medesimo l'origine sua e la sua libertà,
né mai nacque né morí in Vinegia cittadino alcuno che non nascesse e
morisse libero, né mai è stata turbata la sua libertà; procedendo
tanta felicità dalla concordia civile, stabilita in modo negli animi
degli uomini che in uno tempo medesimo entrano nel nostro senato e
ne' nostri consigli e depongono le private discordie e contenzioni.
Di questo è causa la forma del governo che, temperato di tutti i
modi migliori di qualunque specie di amministrazione publica e
composta in modo a guisa di armonia, proporzionato e concordante
tutto a se medesimo, è durato già tanti secoli, senza sedizione
civile senza armi e senza sangue tra i suoi cittadini, inviolabile e
immaculato; laude unica della nostra republica, e della quale non si
può gloriare né Roma né Cartagine né Atene né Lacedemone, né alcuna
di quelle republiche che sono state piú chiare e di maggiore grido
appresso agli antichi: anzi appresso a noi si vede in atto tale
forma di republica quale quegli che hanno fatto maggiore professione
di sapienza civile non seppeno mai né immaginarsi né descrivere.
Adunque a tanta e a sí gloriosa patria, stata moltissimi anni
antimuro della fede, splendore della republica cristiana,
mancheranno le persone de' suoi figliuoli e de' suoi cittadini? e ci
sarà chi rifiuti di mettere in pericolo la propria vita e de'
figliuoli per la salute di quella? la quale contenendosi nella
difesa di Padova, chi sarà quello che neghi di volere personalmente
andare a difenderla? E quando bene fussimo certissimi essere
bastanti le forze che vi sono, non appartiene egli all'onore nostro,
non appartiene egli allo splendore del nome viniziano, che e' si
sappia per tutto il mondo che noi medesimi siamo corsi
prontissimamente a difenderla e conservarla? Ha voluto il fato di
questa città che in pochi dí sia caduto delle mani nostre tanto
imperio: nella quale cosa non abbiamo da lamentarci tanto della
malignità della fortuna (perché sono casi comuni a tutte le
republiche a tutti i regni) quanto abbiamo cagione di dolerci che,
dimenticatici della costanza nostra stata insino a quel dí invitta,
che perduta la memoria di tanti generosi e gloriosi esempli de'
nostri maggiori, cedemmo con troppo subita disperazione al colpo
potente della fortuna; né fu per noi rappresentata a' figliuoli
nostri quella virtú che era stata rappresentata a noi da' padri
nostri. Torna ora a noi l'occasione di recuperare quello ornamento,
non perduto, se noi vorremo essere uomini, ma smarrito; perché
andando incontro alla avversità della fortuna, offerendoci
spontaneamente a' pericoli, cancelleremo la infamia ricevuta; e
vedendo non essere perduta in noi l'antica generosità e virtú, si
ascriverà piú tosto quel disordine a una certa fatale tempesta (alla
quale né il consiglio né la costanza degli uomini può resistere) che
a colpa e vergogna nostra. Però, se fusse lecito che tutti
popolarmente andassimo a Padova, che senza pregiudicio di quella
difesa e delle altre urgentissime faccende publiche si potesse per
qualche giorno abbandonare questa città, io primo, senza aspettare
la vostra deliberazione, piglierei il cammino; non sapendo in che
meglio potere spendere questi ultimi dí della mia vecchiezza che nel
partecipare, colla presenza e con gli occhi, di vittoria tanto
preclara, o quando pure (l'animo aborrisce di dirlo) morendo insieme
con gli altri non essere superstite alla ruina della patria. Ma
perché né Vinegia può essere abbandonata da' consigli publici, ne'
quali, col consigliare provedere e ordinare, non manco si difende
Padova che la difendino con l'armi quegli che sono quivi, e la turba
inutile de' vecchi sarebbe piú di carico che di presidio a quella
città, né anche, per tutto quello che potesse occorrere, è a
proposito spogliare Vinegia di tutta la gioventú, però consiglio e
conforto che, avendo rispetto a tutte queste ragioni, si elegghino
dugento gentiluomini de' principali della nostra gioventú, de' quali
ciascuno, con quella quantità di amici e di clienti atti all'arme
che tollereranno le sue facoltà, vadia a Padova, per stare quanto
sarà necessario alla difesa di quella terra: due miei figliuoli, con
grande compagnia, saranno i primi a eseguire quel che io, padre loro
principe vostro, sono stato il primo a proporre; le persone de'
quali in sí grave pericolo offerisco alla patria volentieri. Cosí si
renderà piú sicura la città di Padova, cosí i soldati mercenari che
vi sono, veduta la nostra gioventú pronta alle guardie e a tutti i
fatti militari, ne riceveranno inestimabile allegrezza e animosità;
certi che, essendo congiunti con loro i figliuoli nostri, non abbia
a mancare da noi provisione o sforzo alcuno: la gioventú e gli altri
che non andranno, si accenderanno tanto piú con questo esempio a
esporsi, sempre che sarà di bisogno, a tutte le fatiche e pericoli.
Fate voi, senatori, le parole e i fatti de' quali sono in esempio e
negli occhi di tutta la città, fate, dico, a gara, ciascuno di voi
che ha facoltà sufficienti, di fare descrivere in questo numero i
vostri figliuoli acciò che sieno partecipi di tanta gloria; perché
da questo nascerà non solo la difesa sicura e certa di Padova ma si
acquisterà questa fama appresso a tutte le nazioni: che noi medesimi
siamo quegli che col pericolo della propria vita difendiamo la
libertà e la salute della piú degna patria e della piú nobile che
sia in tutto il mondo. -
Fu udito con grandissima attenzione e approvazione, e messo con
somma celerità in esecuzione, il consiglio del principe; per il
quale il fiore de' nobili della gioventú viniziana, raccolti
ciascuno quanti piú amici e familiari atti allo esercizio dell'armi
potette, andò a Padova, accompagnati insino che entrorno nelle
barche da tutti gli altri gentiluomini e da moltitudine
innumerabile, e celebrando ciascuno con somme laudi e con pietosi
voti tanta prontezza in soccorso della patria: né con minore letizia
e giubilo di tutti furono ricevuti in Padova, esaltando i capitani e
i soldati insino al cielo che questi giovani nobili, non
esperimentati né alle fatiche né a' pericoli della milizia,
preponessino l'amore della patria alla vita propria; e in modo che
confortando l'uno l'altro aspettavano con lietissimi animi la venuta
di Cesare.
Il quale, attendendo a raccorre le genti che da molte parti gli
concorrevano, era venuto al ponte alla Brenta lontano tre miglia da
Padova; e preso per forza Limini e interrotto il corso delle acque,
aspettava l'artiglierie le quali, terribili per quantità e per
qualità, venivano di Germania. Delle quali essendo condotta una
parte a Vicenza, ed essendo andati Filippo Rosso e Federigo Gonzaga
da Bozzole con dugento cavalli leggieri per fargli scorta, assaltati
da cinquecento cavalli leggieri (che guidati dai villani, i quali in
tutta la guerra feciono a' viniziani utilità maravigliosa, erano
usciti di Padova) furno rotti presso a Vicenza cinque miglia, e
Filippo fatto prigione; e Federigo, con grande fatica, per beneficio
della notte, a piede e in camicia si era salvato. Dal ponte alla
Brenta Massimiliano si allargò dodici miglia verso il Pulesine di
Rovigo per aprirsi meglio la comodità delle vettovaglie, e preso di
assalto e saccheggiato il castello di Esti andò a campo a Monselice;
dove, essendo abbandonata la terra che è in piano, spugnò il secondo
dí la fortezza situata in su la cima d'uno alto sasso. Ebbe dipoi
per accordo Montagnano; donde ritornato verso Padova si fermò al
ponte di Bassanello vicino a Padova, dove invano tentò di divertire
la Brenta o il Bachiglione, che di quivi si conduce a Padova. Nel
quale luogo essendo giunte tutte l'artiglierie e le munizioni che
aspettava, e raccolte tutte le genti che erano distribuite in
diversi luoghi, si accostò alla terra con tutto l'esercito; e avendo
messi quattromila fanti nel borgo che si dice di Santa Croce aveva
in animo di assaltarla da quella parte: ma essendo dipoi certificato
che la terra in quel luogo era piú forte di sito e di muraglia e
statevi fatte maggiori fortificazioni, e ricevendo ancora in quello
alloggiamento dalle artiglierie di Padova molto danno, deliberò
trasferirsi con tutto lo esercito alla porta del Portello che è
volta verso Vinegia, perché gli era riferito la terra esservi piú
debole, e per impedire i soccorsi che per terra o per acqua
venissino a Padova da Vinegia. Ma non potendo, per lo impedimento
de' paludi e di certe acque che inondano il paese, andarvi se non
con lungo circuito, venne al ponte di Bovolenta lontano da Padova
sette miglia, dove è una tenuta situata in sul fiume del Bachiglione
verso la marina tra Padova e Vinegia: nel qual luogo, per essere
circondato dalle acque e nella parte piú sicura del padovano, si
erano ridotti tremila villani con numero grandissimo di bestiami; i
quali, sforzati dalla vanguardia de' fanti spagnuoli e italiani,
furono quasi tutti morti o presi. Né si attese, per due dí seguenti,
ad altro che a correre tutto il paese insino al mare, pieno di
quantità infinita di bestiami; e furono prese nella Brenta molte
barche, che cariche di vettovaglie andavano a Padova: tanto che,
finalmente, il quintodecimo dí del mese di settembre, avendo
consumato tanto tempo inutilmente e dato spazio agli inimici di
fortificarla ed empierla di vettovaglie, si accostò alle mura di
Padova allato alla porta del Portello.
Lib.8, cap.11
Importanza del dominio di Padova per i veneziani. Forze degli
avversari e fortificazioni di Padova. Assalti de' soldati di
Massimiliano alle mura e valorosa difesa de' veneziani. Ritirata
dell'esercito di Massimiliano; querele di questo contro gli alleati.
Accordi fra Massimiliano e gli ambasciatori fiorentini. Le truppe
francesi si ritirano nel ducato di Milano; i veneziani rifiutano la
tregua con Massimiliano.
Non aveva mai, né in quella età né forse in molte superiori, veduto
Italia tentarsi oppugnazione che fusse di maggiore espettazione e
piú negli occhi degli uomini, per la nobiltà di quella città e per
gli effetti importanti che dal perderla o vincerla resultavano.
Conciossiaché Padova, nobilissima e antichissima città e famosa per
l'eccellenza dello studio, cinta da tre ordini di mura e per la
quale corrono i fiumi di Brenta e di Bachiglione, è di circuito
tanto grande quanto forse sia alcuna altra delle maggiori città
d'Italia; situata in paese abbondantissimo, ove è aria salubre e
temperata, e benché stata allora piú di cento anni depressa sotto
l'imperio de' viniziani, che ne spogliorno quegli della famiglia di
Carrara, ritiene ancora superbi e grandi edifici e molti segni
memorabili di antichità, da' quali si comprende la pristina sua
grandezza e splendore: e dallo acquisto e difesa di tanta città
dipendeva non solamente lo stabilimento o debolezza dello imperio
de' tedeschi in Italia ma ancora quello che avesse a succedere della
città propria di Vinegia. Perché difendendo Padova poteva facilmente
sperare quella republica, piena di grandissime ricchezze e unita con
animi prontissimi in se medesima né sottoposta alle variazioni alle
quali sono sottoposte le cose de' príncipi, avere in tempo non molto
lungo a recuperare grande parte del suo dominio; e tanto piú che la
maggiore parte di quegli che avevano desiderato le mutazioni, non vi
avendo trovato dentro effetti corrispondenti a' suoi pensieri, e
conoscendosi per la comparazione quanto fusse diverso il reggimento
moderato de' viniziani da quello de' tedeschi alieno da' costumi
degli italiani e disordinato maggiormente per le confusioni e danni
della guerra, cominciavano a voltare gli occhi all'antico dominio: e
per contrario, perdendosi Padova, perdevano i viniziani interamente
la speranza di reintegrare lo splendore della sua republica; anzi
era grandissimo pericolo che la città medesima di Vinegia, spogliata
di tanto imperio e vota di molte ricchezze per la diminuzione delle
entrate publiche e per la perdita di tanti beni che i privati
possedevano in terra ferma, o non potesse difendersi dalle armi de'
príncipi confederati o almeno non diventasse, in progresso di tempo,
preda non meno de' turchi (co' quali confinano per tanto spazio, e
hanno sempre con loro o guerra o pace infedele e male sicura) che
de' príncipi cristiani.
Ma non era minore l'ambiguità degli uomini: perché gli apparati
potentissimi che da ciascuna delle parti si dimostravano tenevano
molto sospesi i giudici comuni, incertissimi quale avesse ad avere
effetto piú felice, o l'assalto o la difesa. Perché nell'esercito di
Cesare, oltre alle settecento lancie del re di Francia le quali
governava la Palissa, erano dugento uomini d'arme mandatigli in
aiuto dal pontefice, dugento altri mandatigli dal duca di Ferrara
sotto il cardinale da Esti, benché ancora non fussino composte le
differenze tra loro, e sotto diversi condottieri secento uomini
d'arme italiani soldati da lui. Né era minore il nerbo del peditato
che de' cavalli, perché aveva diciottomila tedeschi seimila
spagnuoli seimila venturieri di diverse nazioni e duemila italiani
menatigli e pagati dal cardinale da Esti nel medesimo nome.
Seguitavalo apparato stupendo di artiglierie e copia grande di
munizioni, della quale una parte gli avea mandata il re di Francia.
E benché i soldati suoi propri la piú parte del tempo non
ricevessino danari, nondimeno, per la grandezza e autorità di tanto
capitano, e per la speranza di pigliare e saccheggiare Padova e
d'avere poi in preda tutto quello che ancora possedevano i
viniziani, non per questo l'abbandonavano; anzi continuamente
augumentava ogni dí il numero, sapendosi massime per ciascuno che
egli, di natura liberalissimo e pieno di umanità co' suoi soldati,
mancava di pagargli non per avarizia e volontà ma per impotenza. Era
cosí potente l'esercito cesareo, benché raccolto non solo delle
forze sue ma eziandio degli aiuti e forze d'altri; ma non era manco
potente, per quanto fusse necessario alla difesa di Padova,
l'esercito che per i viniziani si ritrovava in quella città. Perché
vi erano seicento uomini d'arme mille cinquecento cavalli leggieri
mille cinquecento stradiotti, sotto famosi ed esperti capitani: il
conte di Pitigliano preposto a tutti, Bernardino dal Montone,
Antonio de' Pii, Luzio Malvezzo, Giovanni Greco e molti condottieri
minori. Aggiugnevansi a questa cavalleria dodicimila fanti de' piú
esercitati e migliori di Italia, sotto Dionigi di Naldo, il Zitolo
da Perugia, Lattanzio da Bergamo, Saccoccio da Spoleto e molti altri
conestabili; diecimila fanti tra schiavoni greci e albanesi, tratti
da le loro galee, ne' quali benché fusse molta turba inutile e quasi
collettizia ve ne era pure qualche parte utile. Oltre a questi, la
gioventú viniziana con quegli che l'aveano seguitata; la quale
benché fusse piú chiara per la nobiltà e per la pietà verso la
patria, nondimeno, per offerirsi prontamente a' pericoli e per
l'esempio che faceva agli altri, non era di piccolo momento.
Abbondavanvi, oltra alle genti, tutte l'altre provisioni necessarie:
numero grandissimo d'artiglierie, copia maravigliosa di vettovaglie
d'ogni sorte (non essendo stati meno solleciti i paesani a ridurle
quivi per sicurtà loro che gli ufficiali viniziani in provedere e
comandare che assiduamente ve ne entrassino) e moltitudine quasi
innumerabile di contadini, i quali condotti a prezzo non cessavano
mai di lavorare; talmente che quella città, fortissima per la virtú
e per tanto numero di difensori, era stata riparata e fortificata
maravigliosamente a quello circuito delle mura che circonda tutta la
città; avendo alzata, a grande altezza per tutto il fosso, l'acqua
che corre intorno alle mura di Padova, e fatti a tutte le porte
della terra e in altri luoghi opportuni molti bastioni, dalla parte
di fuora ma congiunti alle mura e che avevano l'entrata dalla parte
di dentro; co' quali pieni di artiglierie si percotevano quegli che
fussino entrati nel fosso: e nondimeno, acciò che la perdita de'
bastioni non potesse portare pericolo alla terra, a tutti, dalla
parte di sotto, avevano fatto una cava con bariglioni pieni di molta
polvere, per potergli disfare e gittare in aria quando non si
potessino piú difendere. Né confidandosi totalmente alla grossezza e
bontà del muro antico, con tutto che prima l'avessino diligentemente
riveduto e dove era di bisogno riparato, e tagliato tutti i merli,
fatti dal lato di dentro, per quanto gira la città tutta, steccati
con alberi e altri legnami distanti dal muro quanto era la sua
grossezza, empierono questo vano, insino all'altezza del muro, di
terra consolidatavi con grandissima diligenza. La quale opera
maravigliosa e di fatica inestimabile, e nella quale si era
esercitata moltitudine infinita d'uomini, non assicurando ancora
alla sodisfazione intera di chi era disposto a difendere quella
città, avevano, dopo il muro cosí ingrossato e raddoppiato, cavato
uno fosso alto e largo sedici braccia; il quale, ristringendosi nel
fondo e avendo per tutto casematte e torrioncelli pieni di
artiglieria, pareva impossibile a pigliare: ed erano quegli edifici,
a esempio de' bastioni, con avere la cava di sotto, disposti in modo
da potersi facilmente con la forza del fuoco rovinare. E nondimeno,
per essere piú preparati a ogni caso, alzorono dopo il fosso uno
riparo della medesima o maggiore larghezza, che si distendeva quanto
tutto il circuito della terra, da pochi luoghi infuora a' quali si
conosceva essere impossibile piantare l'artiglieria; innanzi al
quale riparo feciono uno parapetto di sette braccia, che proibiva
che quegli che fussino a difesa del riparo non potessino essere
offesi dall'artiglierie degli inimici. E perché a tanti apparati e
fortificazioni corrispondessino prontamente gli animi de' soldati e
degli uomini della terra, il conte di Pitigliano, convocatigli in su
la piazza di Santo Antonio e confortatigli con gravi e virili parole
alla salute e onore loro, astrinse se medesimo con tutti i capitani
e con tutto l'esercito e i padovani a giurare solennemente di
perseverare insino alla morte fedelmente nella difesa di quella
città.
Con tanto apparato adunque, e contro a tanto apparato, condottosi
l'esercito di Cesare sotto le mura di Padova, si distese dalla porta
del Portello insino alla porta d'Ognisanti che va a Trevigi, e dipoi
si allargò insino alla porta di Codalunga che va a Cittadella,
contenendo per lunghezza di tre miglia. Egli, alloggiato nel
monasterio di beata Elena distante per uno quarto di miglio dalle
mure della città, e quasi in mezzo della fanteria tedesca, avendo
distribuito a ciascuno secondo la diversità degli alloggiamenti e
delle nazioni quel che avessino a fare, cominciò a fare piantare
l'artiglierie; le quali per essere tante di numero e alcuna di
smisurata e quasi stupenda grandezza, e per essere molto infestato
dalle artiglierie di dentro tutto il campo e specialmente i luoghi
dove si cercava di piantare, non si potette fare senza lunghezza di
tempo e difficoltà: con tutto che egli invitto di animo, e di corpo
pazientissimo alle fatiche, scorrendo il dí e la notte per tutto e
intervenendo personalmente a tutte le cose, stimolasse con
grandissima sollecitudine che le opere si conducessino alla
perfezione. Era piantata il quinto dí quasi tutta l'artiglieria, e
il dí medesimo i franzesi e i fanti tedeschi, da quella parte alla
quale era preposto la Palissa, dettono uno assalto a uno rivellino
della porta, ma piú per tentare che per combattere ordinatamente;
onde, vedendo che era difeso animosamente, si ritirorno senza molta
dilazione agli alloggiamenti. Tirava il dí seguente per tutto
ferocemente l'artiglieria; la maggiore parte della quale, per la
grossezza sua e per la quantità grande della polvere che se gli
dava, passati i ripari, ruinava le case prossime alle mura; e già in
molte parti era gittato in terra spazio grandissimo di muraglia, e
quasi spianato uno bastione fatto alla porta di Ognisanti: né per
ciò appariva segno alcuno di timore in quegli di dentro, i quali
infestavano con l'artiglierie tutto l'esercito; e gli stradiotti, i
quali alloggiati animosamente ne' borghi aveano recusato di
ritirarsi ad alloggiare nella città, e i cavalli leggieri, correndo
continuamente per tutto, ora correvano, quando dinanzi quando di
dietro, insino in su gli alloggiamenti degl'inimici, ora assalivano
le scorte del saccomanno e delle vettovaglie, ora, scorrendo e
predando per tutto il paese, rompevano tutte le vie, eccetto quella
che va da Padova al monte di Abano. E nondimeno il campo era copioso
di vettovaglie, delle quali si trovavano piene le case e le campagne
per tutto; perché né il timore de' paesani né la sollecita diligenza
de' viniziani né i danni infiniti de' soldati, da ogni parte, aveano
potuto essere pari alla abbondanza grande di quello bellissimo e
fertilissimo contado. Uscí ancora fuora di Padova in quei dí Lucio
Malvezzo con molti cavalli, per condurre dentro quarantamila ducati
mandati da Vinegia; il quale, benché il suo retroguardo fusse
assaltato dagli inimici nel ritornare, gli condusse salvi, benché
con perdita di qualcuno de' suoi uomini d'arme. Avevano, il nono dí,
l'artiglierie fatto tanto progresso che non pareva fusse necessario
procedere con esse piú oltre. Però il dí seguente si messe in
battaglia, per accostarsi alle mura, tutto l'esercito; ma essendosi
accorti che la notte medesima quegli di dentro avevano rialzata
l'acqua del fosso che innanzi era stata abbassata, non volendo
Cesare mandare le genti a manifestissimo pericolo, ritornò ciascuno
agli alloggiamenti. Abbassossi di nuovo l'acqua; e il dí seguente si
dette, ma con piccolo successo, uno assalto al bastione che era
fatto alla punta della porta di Codalunga: onde Cesare, avendo
deliberato di fare somma diligenza di sforzarlo, vi voltò
l'artiglieria che era piantata dalla parte de' franzesi, i quali
alloggiavano tra le porte di Ognisanti e di Codalunga; con la quale
avendone rovinata una parte, vi fece dare dopo due dí l'assalto dai
fanti tedeschi e spagnuoli accompagnati da alcuni uomini d'arme a
piede, i quali ferocemente combattendo salirono in sul bastione, e
vi rizzorono due bandiere. Ma era tale la fortezza del fosso, tale
la virtú de' difensori (tra' quali il Zitolo da Perugia combattendo
con somma laude fu ferito gravemente), tale la copia degli
instrumenti da difendersi, non solo di artiglierie ma di sassi e di
fuochi lavorati, che e' furono necessitati impetuosamente scenderne,
essendo feriti e morti molti di loro: donde l'esercito, che era
ordinato per dare, come si credeva, subito che il bastione fusse
spugnato, la battaglia alla muraglia, si disarmò senza avere tentato
cosa alcuna.
Perdé Cesare per questa esperienza interamente la speranza della
vittoria; e però, deliberato di partirsene, condotta che ebbe
l'artiglieria in luogo sicuro, si ritirò con tutto l'esercito alla
terra di Limini che è verso Trevigi, il settimo decimo dí dapoi che
si era accampato a Padova, e poi continuamente si condusse in piú
alloggiamenti a Vicenza; ove ricevuto il giuramento della fedeltà
dal popolo vicentino, e dissoluto quasi tutto l'esercito, andò a
Verona: disprezzato, perché non erano successi ma molto piú perché
erano, e nello esercito e per tutta Italia, biasimati
maravigliosamente i consigli suoi, e non meno le esecuzioni delle
cose deliberate. Perché non era dubbio che e il non avere acquistato
Trevigi e l'avere perduto Padova era proceduto per colpa sua;
similmente, che la tardità del suo venire innanzi avea fatta
difficile l'espugnazione di Padova, perché da questo era nato che i
viniziani avevano avuto tempo a provedersi di soldati, a empiere
Padova di vettovaglie e a fare quelle riparazioni e fortificazioni
maravigliose. Né egli negava questa essere stata la cagione che si
fusse difesa quella città, ma rimovendo la colpa dalla varietà e da'
disordini suoi e trasferendola in altri si lamentava del pontefice e
del re di Francia che, con l'avere l'uno di loro concesso l'andare a
Roma agli oratori viniziani l'altro avere tardato a mandare il
soccorso delle sue genti, avevano dato cagione di credere a ciascuno
che si fussino alienati da lui, onde avere preso animo i villani
delle montagne di Vicenza a ribellarsi; e che avendo consumato nel
domargli molti dí aveva poi trovato per la medesima cagione le
medesime difficoltà nella pianura, e che per aprirsi e assicurarsi
le vettovaglie e liberarsi da molte molestie era stato necessitato a
pigliare tutte le terre del paese: né solamente avergli nociuto in
questo la tarda venuta de' franzesi, ma che se fussino venuti al
tempo conveniente non sarebbe seguitata la ribellione di Padova; e
che questo e l'avere il re di Francia e il re d'Aragona licenziate
l'armate di mare aveva poi data facoltà a' viniziani, liberati
d'ogni altro timore, di potere meglio provedere e fortificare
Padova: querelandosi, oltre a questo, che al re d'Aragona erano
grate le sue difficoltà per indurlo piú facilmente [a] consentire
che a lui restasse l'amministrazione del regno di Castiglia. Le
quali querele non miglioravano le sue condizioni, né gli
accrescevano l'autorità perduta per non avere saputo usare sí rare
occasioni; anzi, che tale opinione fusse comunemente conceputa di
lui era gratissimo al re di Francia, né molesto al pontefice perché,
sospettoso e diffidente di ciascuno e considerando quanto sempre
fusse bisognoso di danari e importuno a dimandarne, non vedeva
volentieri crescere in Italia il nome suo.
A Verona ricevette similmente il giuramento della fedeltà: e in
quella città gl'imbasciadori fiorentini, tra' quali fu Piero
Guicciardini mio padre, convennono con lui in nome della loro
republica, indotta a questo, oltre all'altre ragioni, da' conforti
del re di Francia, di pagargli in brevi tempi quarantamila ducati;
per la quale promessa ottennono da lui privilegi in forma amplissima
della confermazione cosí della libertà di Firenze come del dominio e
giurisdizione delle terre e stati tenevano, con la quietazione di
tutto quello gli dovessino per il tempo passato. E avendo Cesare
deliberato di tornarsene in Germania, per ordinarsi, secondo diceva,
a fare la guerra alla prossima primavera, chiamò a sé Ciamonte per
trattare delle cose presenti: al quale, venuto a lui nella villa di
Arse nel veronese, dimostrò il pericolo che i viniziani non
recuperassino Cittadella e Bassano, i quali luoghi molto importanti,
insuperbiti per la difesa di Padova, si preparavano per assaltare; e
che 'l medesimo non intervenisse poi di Monselice di Montagnana e di
Esti. Essere necessario pensare oltre alla conservazione di queste
terre non meno alla recuperazione di Lignago, e che essendo egli per
sé solo impotente a fare le provisioni necessarie a questi effetti
bisognava fusse aiutato dal re; le cose del quale, non si sostenendo
le sue, si mettevano in pericolo. Alle quali dimande non potendo
Ciamonte dargli certa risoluzione si rimesse a darne notizia al re,
dandogli speranza che la risposta sarebbe conforme al suo desiderio.
Da questo parlamento Massimiliano, lasciato a guardia di Verona il
marchese di Brandiborgh, andò alla Chiusa. E poco dipoi la Palissa,
il quale era rimasto con cinquecento lancie nel veronese, allegando
difficoltà degli alloggiamenti e molte incomodità, ottenuta quasi
per importunità licenza da lui, si ritirò ne' confini del ducato di
Milano; perché la intenzione del re era che avendo a stare le sue
genti oziosamente alle guarnigioni stessino nello stato suo, ma che
tornassino a servire Massimiliano per fare qualunque impresa gli
piacesse, e specialmente quella di Lignago: la quale, desiderata e
sollecitata sommamente da lui, si differí per le sue solite
difficoltà tanto che essendo sopravenute per la stagione del tempo
le pioggie grandi non si poteva piú campeggiare in quello paese, che
per la bassezza sua è molto soprafatto dalle acque. Però Cesare,
ridotto in queste difficoltà, desiderò di fare per qualche mese
tregua co' viniziani: ma essi, pigliando animo da i suoi disordini e
vedendolo aiutato cosí freddamente da' collegati, non giudicorno
essere a loro proposito il sospendere l'armi.
Lib.8, cap.12
Dissenso fra il pontefice e il re di Francia. Cause di dissenso fra
tutti i collegati per la benevolenza del pontefice verso i
veneziani. Discussioni fra il pontefice e gli ambasciatori
veneziani.
Ritornossene alla fine Cesare a Trento, lasciate in pericolo grave
le cose sue, e lo stato di Italia in non piccola sospensione, perché
era nata tra 'l pontefice e il re di Francia nuova contenzione, il
principio della quale benché paresse procedere da cagioni leggiere
si dubitava non avesse occultamente piú importanti cagioni. Quel che
allora si dimostrava era che essendo vacato uno vescovado di
Provenza, per la morte del vescovo suo nella corte di Roma, il papa
l'aveva conferito contro alla volontà del re di Francia; il quale
pretendeva questo essere contrario alla capitolazione fatta tra loro
per mezzo del cardinale di Pavia, nella quale, se bene nella
scrittura non fusse stato nominatamente espresso che il medesimo si
osservasse ne' vescovadi che vacassino nella corte di Roma che in
quegli che vacavano negli altri luoghi, nondimeno il cardinale
avergliene promesso con le parole: il che negando il cardinale
essere vero (forse piú per timore che per altra cagione) e il re
affermando il contrario, il pontefice diceva non sapere quello che
tacitamente fusse stato trattato, ma che avendo nella ratificazione
sua riferitosi a quello che appariva per scrittura, con inserirvi
nominatamente capitolo per capitolo, né comprendendo questo il caso
quando i vescovi morivano in corte di Roma, non essere tenuto piú
oltre. E perciò crescendo la indignazione, il re, disprezzato contro
alla sua consuetudine il consiglio del cardinale di Roano, stato
sempre autore della concordia col pontefice, fece sequestrare i
frutti di tutti i benefici che tenevano nello stato di Milano i
cherici residenti nella corte di Roma; e il papa da altra parte
ricusava di dare le insegne del cardinalato ad Albi, il quale per
riceverle, secondo la promessa fatta al re, era andato a Roma. E con
tutto che il pontefice, vinto da' prieghi di molti, disponesse alla
fine del vescovado di Provenza secondo la volontà del re e con lui
convenisse di nuovo come s'avesse a procedere ne' benefici che nel
tempo futuro vacassino nella corte di Roma, e che perciò dall'una
parte si liberassino i sequestri fatti, dall'altra concedute le
insegne del cardinalato ad Albi, nondimeno non bastavano queste cose
a mollificare l'animo del pontefice, esacerbato per molte cose, ma
specialmente perché avendo insino dal principio del pontificato
conceduta malvolentieri al cardinale di Roano la legazione del regno
di Francia, come dannosa alla corte di Roma, e con indegnità sua,
gli era molestissimo essere costretto, per non irritare tanto
l'animo del re di Francia, consentire la continuasse; e perché,
persuadendosi che quel cardinale tendesse con tutti i suoi pensieri
e arti al pontificato, sospettava d'ogni progresso e d'ogni
movimento de' franzesi.
Queste erano le cagioni apparenti degli sdegni suoi: ma per quello
che si manifestò poi de' suoi pensieri, avendo nell'animo piú alti
fini, desiderava ardentissimamente, o per cupidità di gloria o per
occulto odio contro al re di Francia o per desiderio della libertà
de' genovesi, che 'l re perdesse quel che possedeva in Italia; non
cessando di lamentarsi senza rispetto di lui e del cardinale, ma in
modo che e' pareva che la sua mala sodisfazione procedesse
principalmente da timore. E nondimeno, come era di natura invitto e
feroce, e che alla disposizione dell'animo accompagnava il piú delle
volte le dimostrazioni estrinseche, ancora che s'avesse proposto
nella mente fine di tanto momento e tanto difficile a conseguire,
rifidandosi in sé solo e nella riverenza e autorità che conosceva
avere appresso a' príncipi la sedia apostolica, non dependente né
congiunto con alcuno anzi dimostrando con le parole e con le opere
di tenere poco conto di ciascuno, né si congiugneva con Cesare né si
ristrigneva col re cattolico, ma salvatico con tutti non dimostrava
inclinazione se non a' viniziani; confermandosi ogni dí piú nella
volontà di assolvergli, perché giudicava il non gli lasciare perire
essere molto a proposito della salute di Italia e della sicurtà e
grandezza sua. Alla quale cosa molto efficacemente contradicevano
gli oratori di Cesare e del re di Francia; concorrendo con loro in
publico al medesimo l'oratore del re d'Aragona, benché, temendo per
l'interesse del regno di Napoli della grandezza del re di Francia né
confidandosi in Cesare per la sua instabilità procurasse
occultissimamente il contrario col pontefice. Allegavano non essere
conveniente che il pontefice facesse tanto beneficio a coloro i
quali era tenuto a perseguitare con l'armi, atteso che, per la
confederazione fatta a Cambrai, era ciascuno de' collegati obligato
ad aiutare l'altro insino a tanto che avesse interamente acquistate
tutte le cose nominate nella sua parte; dunque, non avendo mai
Cesare acquistato Trevigi, non essere ancora alcuno di loro liberato
da questa obligazione: oltre che, con giustizia si poteva dinegare
l'assoluzione a' viniziani perché né volontari né infra 'l tempo
determinato nel monitorio aveano restituite alla Chiesa le terre
della Romagna; anzi non avere insino a quest'ora ubbidito
interamente, imperocché erano stati ammuniti di restituire oltre
alle terre i frutti presi, il che non aveano adempiuto. Ma a queste
cose rispondeva il pontefice che, poi che si erano ridotti a
penitenza e dimandato con umiltà grande l'assoluzione, non era
ufficio del vicario di Cristo perseguitargli piú con l'armi
spirituali, in pregiudicio della salute di tante anime, avendo
conseguite le terre e cosí cessando la cagione per la quale erano
stati sottoposti alle censure; perché la restituzione de' frutti
presi era cosa accessoria e inserita piú per aggravare la
inubbidienza che per altro, e che non era conveniente venisse in
considerazione di tanta cosa. Diversa esser la causa del
perseguitargli con l'armi temporali; alle quali, perché aveva
nell'animo di perseverare nella lega di Cambrai, si offeriva parato
di concorrere insieme cogli altri: benché da questo potesse ciascuno
de' confederati giustamente discostarsi, perché dal re de' romani
era mancato il non avere Trevigi avendo rifiutato le prime offerte
fattegli da' viniziani (quando gli mandorno imbasciadore Antonio
Giustiniano) di lasciargli tutto quello possedevano in terra ferma,
e perché dipoi gli aveano offerto molte volte di dargli in cambio di
Trevigi conveniente ricompensa.
E cosí, non lo ritenendo le contradizioni degli imbasciadori, lo
ritardava solamente la generosità del suo animo; per la quale,
ancora che riputasse l'assoluzione de' viniziani utile a sé e
opportuna a' fini propostisi, aveva deliberato non la concedere se
non con degnità grande della sedia apostolica, e in modo che le cose
della Chiesa si liberassino totalmente dalle loro oppressioni: e
perciò, recusando i viniziani di cedere a due condizioni le quali
oltre a molte altre aveva proposte, differiva l'assolvergli. L'una
era che lasciassino libera a' sudditi della Chiesa la navigazione
del mare Adriatico, la quale vietavano a tutti quegli che per le
robe conducevano non pagavano loro certe gabelle; l'altra, che non
tenessino piú in Ferrara, città dependente dalla Chiesa, il
magistrato del bisdomino. Allegavano i viniziani questo essere stato
consentito da' ferraresi, non repugnando Clemente sesto pontefice
romano che a quel tempo risedeva con la corte nella città
d'Avignone; e la superiorità e custodia del golfo avere conceduta
loro con amplissimi privilegi Alessandro quarto pontefice, mosso
perché coll'armi e colla virtú e con molte spese l'aveano difeso da'
saracini e da' corsali, e renduta sicura quella navigazione a'
cristiani. Alle quali cose si replicava per la parte del pontefice
non avere potuto i ferraresi, in pregiudicio della superiorità
ecclesiastica, acconsentire che da altri fusse tenuto un magistrato
o esercitata giurisdizione in Ferrara, né averlo consentito
volontariamente ma sforzati da lunga e grave guerra; e dopo avere
ricercato invano l'aiuto del pontefice, le censure del quale
dispregiavano i viniziani, avere accettata la pace con quelle
condizioni che era paruto a chi poteva contro a loro piú coll'armi
che colla ragione. Né della concessione d'Alessandro pontefice
apparire né in istorie né in iscritture memoria o fede alcuna,
eccetto il testimonio de' viniziani, il quale in causa propria e sí
ponderosa era sospetto; e quando pure ne apparisse cosa alcuna,
essere piú verisimile che da lui, il quale dicevano averlo conceduto
in Vinegia, fusse stato conceduto per minaccie o per timore che uno
pontefice romano, a cui sopra tutti gli altri apparteneva il
patrocinio della giustizia e il ricorso degli oppressi, avesse
conceduto una cosa tanto imperiosa e impotente in detrimento di
tutto il mondo.
Lib.8, cap.13
I veneziani riprendono Vicenza ed altre terre. Impresa de' veneziani
contro il duca d'Este; i veneziani occupano il Polesine; scacco de'
ferraresi.
Nel quale stato delle cose, variazione degli animi de' príncipi,
piccola potenza e riputazione del re de' romani, i viniziani
mandorono l'esercito, nel quale era proveditore Andrea Gritti, a
Vicenza, ove sapevano il popolo desiderare di ritornare sotto
l'imperio loro; e accostativisi che era già notte, battuto con
l'artiglierie il sobborgo della Posterla, l'ottennono. E nondimeno,
benché nella città fussino pochi soldati, non confidavano molto di
espugnarla; ma gli uomini della terra confortati (come fu fama) da
Fracasso, mandati loro a mezzanotte imbasciadori, gli messono
dentro, ritirandosi il principe di Analt e il Fracasso nella
fortezza: e fu costante opinione che se, ottenuta Vicenza, si fusse
senza differire accostato l'esercito veneto a Verona arebbe Verona
fatto il medesimo, ma non parve a' capitani dovere partire da
Vicenza se prima non acquistavano la fortezza. La quale benché il
quarto dí venisse in potestà loro (perché il principe di Anault e
Fracassa, per la debolezza sua, l'abbandonorono) entrò in questo
tempo in Verona nuova gente di Cesare, e sotto Obigní trecento
lancie del re di Francia; di maniera che, essendovi circa
cinquecento lancie e cinquemila fanti tra spagnuoli e tedeschi, non
era piú facile l'occuparla. Accostossi dipoi l'esercito veneto a
Verona diviso in due parti, in ciascuna delle quali erano trecento
uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, sperando
che come si fussino accostati si facesse movimento nella città: ma
non si essendo presentati alle mura in uno tempo medesimo, quegli
che erano nella terra fattisi incontro alla prima parte, che veniva
di là dal fiume dell'Adice e già era entrata nel borgo, la
costrinsono a ritirarsi; e sopravenendo poco di poi Lucio Malvezzo,
dall'altra ripa del fiume coll'altra parte, si ritirò medesimamente;
e amendue congiunte insieme si fermorno alla villa di San Martino,
distante da Verona cinque miglia. Nel qual luogo mentre stavano,
avendo inteso che duemila fanti tedeschi, partiti da Basciano erano
andati a predare a Cittadella, mossisi a quella parte gli
rinchiusono in Vallefidata; ma i tedeschi, avendo ricevuto soccorso
da Basciano, uscirono per forza, benché non senza danno, de' passi
stretti e avendo abbandonato Basciano l'occuporono i viniziani. Da
Basciano andò una parte dell'esercito a Feltro e Civitale e, dopo
avere ricuperate quelle terre, alla rocca della Scala, la quale
spugnò, avendovi prima piantate l'artiglierie; e nel tempo medesimo
Antonio e Ieronimo da Savorniano, gentiluomini, che nel Friuli
seguitavano le parti viniziane, presono Castelnuovo posto in su uno
monte aspro in mezzo della Patria (cosí chiamano il Friuli), di là
dal fiume del Tigliavento: non si intendendo di Cesare, il quale
commosso dal caso di Vicenza era venuto subitamente alla Pietra,
altro che romori vari, e spesso muoversi con celerità, ma senza
effetto alcuno, da uno luogo a un altro.
Andò dipoi l'esercito de' viniziani verso Monselice e Montagnana,
per recuperare il Pulesine di Rovigo e per entrare nel ferrarese,
insieme coll'armata, la quale il senato, disprezzato il consiglio
de' senatori piú prudenti, che giudicavano essere cosa temeraria lo
implicarsi in nuove imprese, aveva deliberato mandare potente per il
fiume del Po contro al duca di Ferrara: mossi non tanto dalla
utilità delle cose presenti quanto dallo sdegno che incredibile
aveano conceputo contro a lui; parendo loro che di quel che aveva
fatto per liberarsi dal giogo del bisdomino e per ricuperare il
Pulesine non dovere giustamente lamentarsi, ma non potendo già
tollerare che, non contento di quel che pretendeva appartenersegli
di ragione, avesse, quando Cesare si levò con l'esercito da Padova,
ricevuto da lui in feudo il castello di Esti, donde è l'antica
origine e il cognome della famiglia da Esti, e in pegno, per sicurtà
di danari prestati, il castello di Montagnana, ne' quali due luoghi
non pretendeva ragione alcuna. Aggiugnevasi la memoria che le sue
genti, nella recuperazione del Pulesine, concitate da odio estremo
contro al nome viniziano, avevano danneggiato eccessivamente i beni
de' gentiluomini, incrudelendo eziandio contro agli edifici con
incendi e con ruine. Però fu determinato che l'armata loro guidata
da Angelo Trevisano, e nella quale furono diciassette galee sottili
con numero grandissimo di legni minori, e bene provista d'uomini
atti alla guerra, andasse verso Ferrara: la quale armata, entrata
nel Po per la bocca delle Fornaci e abbruciata Corbola e altre ville
vicine al Po, andò predando tutto il paese insino al Lagoscuro: dal
quale luogo i cavalli leggieri che per terra l'accompagnavano
scorseno per insino a Ficheruolo, palazzo piú presto che fortezza,
famoso per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino capitano
de' viniziani, nella guerra contro a Ercole padre di Alfonso.
La venuta di questa armata, e la fama d'avere a venire l'esercito di
terra, spaventò molto il duca di Ferrara; il quale trovandosi con
pochissimi soldati, né essendo il popolo di Ferrara, o per il numero
o per la perizia della guerra, bastante a opporsi a tanto pericolo,
non aveva, insino a tanto gli sopravenissino gli aiuti che sperava
dal pontefice e dal re di Francia, altra difesa che impedire, con
frequentissimi colpi d'artiglierie piantate in sulla ripa del Po,
che gli inimici non passassino piú innanzi. Perciò il Trivisano,
avendo tentato invano di passare e conoscendo non potere fare senza
gli aiuti di terra maggiore progresso, fermò l'armata in mezzo al
fiume del Po dietro a una isoletta che è di riscontro alla
Pulisella, luogo distante da Ferrara per [undici] miglia e molto
opportuno a travagliarla e tormentarla, con intenzione di aspettare
quivi l'esercito; al quale si era arrenduto senza difficoltà tutto
il Pulesine, recuperata prima Montagnana per accordo, per il quale
furono concessi loro prigioni gli ufficiali ferraresi e i capitani
de' fanti che vi erano dentro. Insino all'arrivare del quale, perché
l'armata stesse piú sicura, cominciò il Trivisano a fabricare due
bastioni con grandissima celerità in sulla riva del Po, l'uno dalla
parte di Ferrara l'altro in sulla ripa opposita; gittando similmente
uno ponte in sulle navi per il quale si potesse dall'armata
soccorrere il bastione che si fabricava verso Ferrara. La perfezione
del quale per impedire, il duca, ma con consiglio forse piú animoso
che prudente, raccolti quanto piú giovani potette della città e i
soldati che continuamente concorrevano agli stipendi suoi, mandò
all'improviso ad assaltarlo; ma quegli che erano nel bastione,
soccorsi dalla armata, usciti fuora a combattere, gli cominciorno a
mettere in fuga; e benché il duca, sopravenendo con molti cavalli,
rendesse animo e rimettesse in ordine la gente sua, imperita la piú
parte e disordinata, nondimeno fu tale l'impeto degli inimici, per i
quali combatteva la sicurtà del luogo e molte artiglierie piccole,
che finalmente fu costretto a ritirarsi, restando o morti o presi
molti de' suoi, né tanto della turba imperita e ignobile quanto de'
soldati piú feroci e della nobiltà ferrarese; tra i quali Ercole
Cantelmo, giovane di somma espettazione, i maggiori del quale aveano
già dominato nel reame di Napoli il ducato di Sora: il quale
condotto prigione in su una galea, e venuti in quistione gli
schiavoni di cui di loro dovesse essere prigione, gli fu da uno di
essi, con inaudito esempio di barbara crudeltà, miserabilmente
troncata la testa. Per le quali cose parendo a ciascuno che la città
di Ferrara non fusse senza pericolo, Ciamonte vi mandò in soccorso
Ciattiglione con cento cinquanta lancie franzesi; e il pontefice,
sdegnatosi che i viniziani l'avessino assaltata senza rispetto della
superiorità che vi ha la Chiesa, ordinò che i suoi dugento uomini
d'arme che erano in aiuto di Cesare si volgessino alla difesa di
Ferrara: ma sarebbono state per avventura tarde queste provisioni se
i viniziani non fussino stati costretti di pensare alla difesa delle
cose proprie.
Lib.8, cap.14
I veneziani per la minacciata espugnazione di Vicenza ritirano parte
delle milizie dal ferrarese. Rotta dell'armata veneziana sul Po.
Non erano, come è detto di sopra, state moleste al re di Francia le
difficoltà che aveva Massimiliano, parte per il timore che ebbe
sempre delle prosperità sue parte perché, ardendo di desiderio di
insignorirsi della città di Verona, sperava che per le sue necessità
glien'avesse finalmente a concedere, o in vendita o in pegno; ma da
altra parte gli dispiaceva che la grandezza de' viniziani
risorgesse, dalla quale sarebbe risultato molestia e pericolo
continuo alle cose sue: però, essendo per la penuria de' danari
molto deboli le provisioni di Cesare in Verona, fu necessitato il re
a procurare, con altro aiuto che con quello delle genti d'arme che
vi erano entrate, che quella città non ritornasse in potestà loro.
Alla qual cosa dette principio Ciamonte, venuto dopo la perdita di
Vicenza a' confini del veronese; perché, cominciando a tumultuare
per mancamento de' pagamenti dumila fanti spagnuoli che erano in
Verona, ve gli fermò agli stipendi del re di Francia, e vi mandò per
maggiore sicurtà altri fanti; seguitato in questo il consiglio del
Triulzio, che dubitando Ciamonte che al re non fusse molesta questa
spesa gli rispose essere minore male che il re lo imputasse di avere
speso danari che d'avere perduto o messo in pericolo il suo stato.
Prestò oltre a questo a Cesare, per pagare i soldati che erano in
Verona, ottomila ducati, ma ricevendo, per pegno della restituzione
di questi e degli altri che per beneficio suo vi spendesse in
futuro, la terra di Valeggio; la quale terra, per essere uno de'
passi del fiume del Mincio (anzi chi possiede quella e Peschiera
domina il Mincio) e propinqua a Brescia a sei miglia, era per
sicurtà di Brescia molto stimata dal re. La venuta di Ciamonte
seguitato dalla maggiore parte delle lancie che alloggiavano nel
ducato di Milano, il mettere genti in Verona, e il divulgarsi che si
preparava per andare all'espugnazione di Vicenza, furono cagione che
l'esercito de' viniziani, lasciati per difesa del Pulesine e per
sussidio dell'armata quattrocento cavalli leggieri e quattrocento
fanti, si partí del ferrarese e si divise tra Lignago, Soave e
Vicenza, e che i viniziani, desiderando assicurarsi che Vicenza e il
paese circostante non fusse molestato dalle genti che erano in
Verona, lo fortificorno con una fossa di opera memorabile, larga e
piena di acqua, intorniata da uno riparo in sul quale erano
distribuiti molti bastioni; la quale, cominciando dalle radici della
montagna sopra a Suave e distendendosi per spazio di cinque miglia,
si distendeva per il piano dalla parte che da Lonigo si va a
Monforte, terminando in certi paludi contigui al fiume dello Adice:
e fortificato Soave e Lonigo, avevano, mentre la si guardava,
assicurato, massime la vernata, tutto il paese.
Alleggerissi per la partita delle genti viniziane, ma non si levò
però in tutto, il pericolo di Ferrara: perché se bene fusse cessato
il timore dello essere sforzata non era cessato il sospetto che, per
i danni gravissimi, o non si estenuasse troppo o non si riducesse il
popolo a ultima disperazione; perché le genti dell'armata e quelle
che l'accompagnavano correvano ogni dí insino in sulle porte della
città, e altri legni de' viniziani, assaltato da altra parte lo
stato del duca di Ferrara, avevano preso Comacchio. Sopragiunsono in
questo tempo le genti del pontefice e del re di Francia; e perciò il
duca, il quale prima ammunito dal danno ricevuto nell'assalto del
bastione avea fermate le genti sue in alloggiamento forte appresso a
Ferrara, cominciò a fare spesse cavalcate e scorrerie per condurre
gli inimici a combattere: i quali, sperando che l'esercito
ritornasse, recusavano prima di combattere. E accadde che essendo
cavalcato un giorno insino appresso al bastione il cardinale da
Esti, nel ritornarsene, un colpo d'artiglieria scaricata da uno de'
legni degli inimici levò il capo al conte Lodovico della Mirandola,
uno de' condottieri della Chiesa; non avendo, tra tanta moltitudine,
né quello né altro colpo offeso alcuno. Finalmente, la perizia del
paese e della natura e opportunità del fiume fece facile quel che da
principio era paruto pericoloso e difficile. Perché, sperando il
duca e il cardinale di rompere coll'artiglierie l'armata, pure che
avessino facoltà di poterle sicuramente distendere in sulla ripa del
fiume, ritornò il cardinale con parte delle genti ad assaltare il
bastione; e avendo, con uccisione di alcuni di loro, rimessi gli
inimici che erano usciti a scaramucciare, occupò e fortificò la
parte prossima dell'argine, in modo che senza che gli inimici lo
sapessino condusse al principio della notte l'artiglierie in sulla
ripa opposita all'armata; e distesele con silenzio grande, cominciò
con terribile impeto a percuoterla: e benché tutti i legni si
movessino per fuggire, nondimeno essendo distese per lungo spazio
molte e grossissime artiglierie, le quali maneggiate da uomini
periti tiravano molto da lontano, mutavano piú tosto il luogo del
pericolo che fuggissino il pericolo; essendo sopravenuto ed
esercitandosi maravigliosamente la persona del duca, peritissimo e
nel fabbricare e nell'usare l'artiglierie. Per i quali colpi tutti i
legni inimici, con tutto che essi similmente non cessassino di
tirare (ma invano, perché quegli che erano in sulla ripa erano
coperti dall'argine), con vari e spaventosi casi si consumavano:
alcuni de' quali non potendo piú reggere a' colpi si arrendevano;
alcuni altri, appresovi il fuoco per i colpi dell'artiglierie,
miserabilmente ardevano con gli uomini che vi erano dentro; altri,
per non venire in mano degli inimici, messe insieme molte navi e
gittandovi fuoco, si precipitavano da se medesimi in quella crudeltà
che da altri temevano. Il capitano dell'armata, montato quasi al
principio dell'assalto in su una scafa, fuggendo si salvò; la sua
galea, fuggita per spazio di tre miglia, al continuo tirando e
difendendo e provedendo alle percosse riceveva, all'ultimo tutta
forata andò nel fondo. Finalmente, essendo pieno ogni cosa di sangue
di fuoco e di morti, vennono in potestà del duca quindici galee,
alcune navi grosse, fuste, barbotte e altri legni minori, quasi
senza numero; morti circa dumila uomini o dall'artiglierie o dal
fuoco o dal fiume, prese sessanta bandiere, ma non lo stendardo
principale che si salvò col capitano; molti fuggiti in terra, de'
quali parte raccolti da' cavalli leggieri de' viniziani si
salvorono, parte seguitati dagli inimici furno presi, parte
riceverono nel fuggirsi vari danni da' paesani. Furono i legni presi
condotti a Ferrara, ove per memoria della vittoria acquistata si
conservorno molti anni; insino a tanto che Alfonso desideroso di
gratificare al senato viniziano li concedé loro. Rotta l'armata,
mandò subito Alfonso trecento cavalli e cinquecento fanti per
rompere l'altra armata che aveva preso Comacchio; i quali, avendo
recuperato Loreto fortificato da i viniziani, si crede che arebbono
rotta l'armata se quella, conosciuto il pericolo, non si fusse
ritirata alle Bebie. Questo fine ebbe in spazio di uno mese
l'assalto di Ferrara; nel quale lo evento, che spesso è giudice non
imperito delle cose, manifestò quanto fusse piú prudente il
consiglio de' pochi che confortavano che, lasciate l'altre imprese e
riservati a maggiore opportunità i danari, si attendesse solamente
alla conservazione di Padova e di Trevigi e dell'altre cose
ricuperate, che di quegli che piú di numero ma inferiori di
prudenza, concitati dall'odio e dallo sdegno, erano facili a
implicarsi in tante imprese: le quali, cominciate temerariamente,
partorirono alla fine spese gravissime, con non mediocre ignominia e
danno della republica.
Lib.8, cap.15
Massimiliano si ritira dal Veneto. Posizione di Verona. Vane
trattative di tregua tra Massimiliano e i veneziani. Accordi tra
Massimiliano e il re d'Aragona per il regno di Castiglia. Nuovi
sospetti del pontefice verso il re di Francia. Morte del conte di
Pitigliano.
Ma dalla parte di Padova succedevano per i viniziani piú presto le
cose prospere che altrimenti. Perché trovandosi Cesare nel vicentino
con quattromila fanti, una parte non molto grande delle genti dei
viniziani, con aiuto de' villani del paese, presono quasi in su gli
occhi suoi il passo della Scala, e appresso il Cocollo e Basciano,
luogo importante per impedire chi della Magna volesse passare in
Italia; ed egli, lamentandosi che per la partita della Palissa
fussino succeduti molti disordini, se ne andò a Bolzano, per
trasferirsi alla dieta che per ordine suo si aveva a tenere in
Spruch. Il cui esempio seguitando Ciamonte, omessi i pensieri caldi
che aveva avuto di fare la impresa di Vicenza e di Lignago,
considerato ancora i luoghi essere bene proveduti e la stagione del
tempo molto contraria, si ritirò a Milano, lasciata bene guardata
Brescia, Peschiera e Valeggio, e in Verona, per difesa di quella
città (la quale Cesare per se stesso era impotente a difendere),
seicento lancie e quattromila fanti: i quali, separati dai soldati
di Cesare, alloggiavano nel borgo di San Zeno, avendo anche in
potestà loro, per essere piú sicuri, la cittadella. La città di
Verona, nobile e antica città, è divisa dal fiume dello Adice, fiume
profondo e grossissimo; il quale, nato ne' monti della Magna, come è
condotto al piano si torce in su la mano sinistra rasente i monti,
ed entrando in Verona, come ne è uscito, discostandosi da' monti si
allarga per bella e fertile pianura. Quella parte della città che è
situata nella costa, con alquanto piano, è da l'Adice in là verso la
Magna; il resto della terra, che è tutto in piano, è posto dallo
Adice in qua verso Mantova. In sul monte, alla porta di San Giorgio,
è posta la rocca di San Piero; e due balestrate distante da quella,
piú alta in su la cima del poggio, è quella di San Felice: forte
l'una e l'altra assai piú di sito che di muraglia. E nondimeno,
perdute quelle, perché soprafanno, tanto la città, resterebbe Verona
in grave pericolo. Queste erano guardate da' tedeschi. Ma nell'altra
parte, separata da questa parte dal fiume, è Castelvecchio di verso
Peschiera, posto quasi in mezzo della città e che attraversa il
fiume con uno ponte; e tre balestrate distante da quello, verso
Vicenza, è la cittadella e tra l'una e l'altra si congiungono le
mura della città dalla parte di fuora, che rendono figura di mezzo
tondo. Ma dal lato di dentro si congiugne loro uno muro edificato in
mezzo di due fossi grandissimi, e lo spazio tra l'uno muro e l'altro
è chiamato il borgo di San Zeno; che insieme con la guardia della
cittadella fu assegnato per alloggiamento de' franzesi.
Dove mentre che stanno quasi quiete l'armi, Massimiliano
continuamente trattava di fare tregua co' viniziani;
interponendosene molto il pontefice, per mezzo di Achille de Grassis
vescovo di Pesero, suo nunzio. Per la qual cosa si convennono allo
Spedaletto sopra la Scala a trattare gli oratori suoi e Giovanni
Cornaro e Luigi Mocenigo, oratori de' viniziani, ma per le dimande
alte di Cesare riuscí pratica vana; con molto dispiacere del
pontefice, che desiderava liberare i viniziani da tutte le molestie.
E perché tra loro e sé non fusse materia da contendere, aveva
operato rendessino al duca di Ferrara la terra di Comacchio la quale
avevano prima abbruciata, e a sé promettessino di non molestare piú
lo stato del duca di Ferrara; del quale, credendo che avesse a
essere grato de' benefici che per mezzo suo aveva conseguito ed era
per conseguire, teneva allora singolare protezione, sperando che
avesse a dipendere piú da lui che dal re di Francia: contro al
quale, stando in continui pensieri di farsi fondamenti di
grandissima importanza, avea segretamente mandato uno uomo al re
d'Inghilterra e cominciato a trattare con la nazione de' svizzeri,
la quale allora cominciava a venire in qualche controversia col re
di Francia; per il che essendo venuto a lui il vescovo di Sion
(diconlo i latini sedunense), inimico del re e che aspirava per
questi mezzi al cardinalato, l'avea ricevuto con animo lietissimo.
Succedette alla fine di questo anno concordia tra 'l re de' romani e
il re cattolico, discordi per causa del governo de' regni di
Castiglia. La quale, trattata lungamente nella corte del re di
Francia e avendo molte difficoltà, fu per poco consiglio del
cardinale di Roano (che non considerò quanto questa congiunzione
fusse male a proposito delle cose del suo re) condotta a perfezione;
perché, parendogli forse che il farsene autore gli potesse giovare a
pervenire al pontificato, se ne interpose con grandissima diligenza
e fatica: con la quale e con l'autorità sua indusse Massimiliano a
consentire che il re cattolico, in caso non avesse figliuoli maschi,
fusse governatore di quegli reami insino che Carlo nipote comune
pervenisse all'età di venticinque anni, né pigliasse il nipote
titolo regio vivente la madre, che aveva titolo di reina, perché in
Castiglia non sono le femmine escluse da' maschi; pagasse il re
cattolico a Cesare ducati cinquantamila, aiutasselo secondo i
capitoli di Cambrai insino a tanto avesse acquistato e recuperato le
cose sue, e a Carlo pagasse ciascuno anno quarantamila ducati. Per
la quale convenzione stabilito il re di Aragona nel governo del
regno di Castiglia, e avuta facoltà di acquistare fede appresso a
Cesare, per essere levate via le differenze tra loro e per essere in
tutti due il medesimo interesse del nipote comune, potette con
maggiore animo attendere a impedire la grandezza del re di Francia,
la quale per l'interesse del reame di Napoli gli era sempre
sospetta.
Ebbe in questi medesimi dí sospetto il pontefice che 'l protonotario
de' Bentivogli, che era a Cremona, non trattasse di ritornare
furtivamente in Bologna, per il quale sospetto fece per alcuni dí
ritenere nel palazzo di Bologna Giuliano de' Medici; e riferendo
ogni cosa alla mala volontà del re di Francia dimostrava di temere
che e' non passasse in Italia per soggiogarla, e per fare
violentemente eleggere il cardinale di Roano per pontefice: e
nondimeno, nel tempo medesimo, detraeva senza rispetto all'onore di
Cesare, come di persona incapace di tanta degnità, e che per
l'incapacità sua avesse ridotto in grande disprezzo il nome dello
imperio.
Morí nella fine di questo anno il conte di Pitigliano, capitano
generale de' viniziani, uomo molto vecchio e nell'arte militare di
lunga esperienza; e nella fede del quale si confidavano assai i
viniziani, né temevano che temerariamente mettesse in pericolo il
loro imperio.
Lib.8, cap.16
Fazioni sotto Verona. Incertezza del re di Francia intorno
all'opportunità di una nuova impresa contro i veneziani per la
conquista di tutta la terraferma. Politica del re per acquietare
l'animo del pontefice. Condizioni con cui il pontefice concede
l'assoluzione ai veneziani.
Séguita, in questa ambiguità di cose, l'anno mille cinquecento
dieci; nel principio del quale procedevano da ogni parte, come anche
era conforme alla stagione, le cose dell'armi freddamente. Perché
l'esercito viniziano, alloggiato a San Bonifazio in veronese, teneva
quasi come assediata Verona; onde essendo usciti alla scorta Carlo
Baglione, Federigo da Bozzole e Sacramoro Visconte, assaltati dagli
stradiotti, furono rotti e fatti prigioni Carlo e Sacramoro, perché
Federigo si salvò per opera de' franzesi che al soccorso loro erano
usciti da Verona; e poco dipoi ruppono un'altra compagnia di cavalli
franzesi, tra' quali fu preso monsignore di Clesí; e da altra parte
dugento lancie franzesi, uscite di Verona con tremila fanti,
sforzorono per assalto uno bastione verso Soave guardato da seicento
fanti, e nel ritorno ruppono una moltitudine grande di villani.
Ma in questa freddezza dell'armi erano angustiati da gravissimi
pensieri gli animi de' príncipi, e principalmente quello del re de'
romani. Il quale, non conoscendo come potesse riportare la vittoria
della guerra contro a' viniziani, e traportando, come era solito, le
cose sue di dieta in dieta, aveva chiamato la dieta in Augusta; e
sdegnato col pontefice, perché gli elettori dello imperio, mossi
dalla sua autorità, facevano instanza che prima si trattasse nella
dieta della concordia co' viniziani che delle provisioni della
guerra, aveva fatto partire il vescovo di Pesero suo nunzio da
Augusta; e considerando avere incertitudine lunghezza e molte
difficoltà le deliberazioni delle diete anzi il piú delle volte il
fine dell'una partorire il principio di un'altra, e che il re di
Francia dalle dimande interrotte e dalle imprese che gli erano
proposte ogni dí si escusava, ora con lo allegare l'asprezza della
stagione ora col dimandare assegnamento certo di quello che
spendesse ora ricordando non essere solo obligato ad aiutarlo, per i
capitoli di Cambrai, ma essere ancora nelle medesime obligazioni il
pontefice e il re di Aragona, co' quali era conveniente si
procedesse comunemente, secondo che erano comuni la confederazione e
la obligazione, si risolveva niuno rimedio essere piú pronto alle
cose sue che indurre il re di Francia ad abbracciare la impresa di
pigliare Padova, Vicenza e Trevigi con le forze proprie, ricevendone
il ricompenso conveniente: ed era nel consiglio regio questa dimanda
approvata da molti; i quali, considerando che insino che i viniziani
non erano esclusi totalmente di terra ferma il re starebbe sempre in
continue spese e pericoli, lo confortavano a liberarsene con lo
spendere una volta potentemente. Né era il re alieno totalmente da
questo consiglio, mosso dalla medesima ragione; e però inclinando a
passare in persona in Italia con esercito potente, il quale chiamava
potente ogni volta che in esso fussino piú di mille seicento lancie
e i suoi pensionari e gentiluomini, nondimeno, essendo distratto da
altre ragioni in diversa sentenza, stava con l'animo sospeso: piú
confuso anche che il solito perché il cardinale di Roano, uomo molto
efficace e di grande animo, oppresso da lunga e grave infermità, non
vacava piú a' negozi i quali solevano totalmente espedirsi col suo
consiglio. Riteneva il re l'essere per natura molto alieno dallo
spendere, la cupidità ardente di conseguire Verona, alla quale cosa
gli pareva migliore mezzo l'essere il re de' romani implicato in
continui travagli; e appunto, essendo egli impotente a pagare le
genti tedesche che erano alla guardia di quella città, gli aveva il
re prestato di nuovo diciottomila ducati, e obligatosi a
prestargliene insino alla somma di cinquantamila: con patto che non
solo tenesse, per sicurtà di riavergli, la cittadella, ma che
eziandio gli fusse consegnato Castelvecchio e una porta vicina della
città, per avere libera l'entrata e l'uscita; e che non gli essendo
restituiti i danari infra uno anno gli rimanesse in governo perpetuo
la terra di Valeggio, con facoltà di fortificare quella e la
cittadella a spese di Cesare.
Tenevano perplesso lo animo del re questi rispetti, ma molto piú lo
riteneva il timore di non alterare totalmente la mente del
pontefice, se conducesse o mandasse nuovo esercito in Italia. Perché
il pontefice, pieno di sospetto, e malcontento ancora che egli si
impadronisse di Verona, oltre al perseverare nel volere assolvere i
viniziani dalle censure, faceva ogni opera per congiugnersi i
svizzeri, per il che aveva rimandato al paese il vescovo di Sion con
danari per la nazione e con promessa per lui del cardinalato; e
cercava con grandissima diligenza di alienare dal re di Francia
l'animo del re di Inghilterra: il quale, se bene avesse auto per
ricordo dal padre, nello articolo della morte, che per quiete e
sicurtà sua continuasse l'amicizia col regno di Francia, per la
quale gli erano pagati ciascuno anno cinquantamila ducati,
nondimeno, mosso dalla caldezza della età e dalla pecunia
grandissima lasciatagli dal padre, non pareva che avesse manco in
considerazione i consigli di quegli che, cupidi di cose nuove e
concitati dall'odio che quella nazione ha comunemente grandissimo
contro al nome de' franzesi, lo confortavano alla guerra che la
prudenza ed esempio del padre; il quale, non discordante de'
franzesi, ancora che fatto re d'uno regno nuovo e perturbatissimo,
aveva con grande obedienza e con grandissima quiete governato e
goduto il suo regno. Le quali cose angustiando gravemente l'animo
del re di Francia, il quale per essere piú propinquo alle cose
d'Italia si era trasferito a Lione, e temendo che il passare suo in
Italia, detestato palesemente dal pontefice, non suscitasse per sua
opera cose nuove, e dissuadendolo dal medesimo il re d'Aragona, ma
dimostrando dissuadernelo come amico e come amatore della quiete
comune, non ebbe in queste ambiguità che lo strignevano da ogni
parte piú certo e determinato consiglio che di cercare con ogni
studio e diligenza di quietare l'animo del pontefice, talmente che
almeno s'assicurasse di non l'avere opposito e inimico: alla qual
cosa pareva lo favorisse assai l'occasione, perché si credeva che la
morte del cardinale di Roano, la infermità del quale era sí grave
che si poteva sperare poco di lunga vita, avesse a essere causa di
levargli quella sospizione per la quale principalmente si pensavano
gli uomini essere nate le sue alterazioni. E avendo il re notizia
che il cardinale di Aus nipote di Roano e gli altri che trattavano
le cose sue nella corte di Roma avevano temerariamente, e con parole
e con fatti, atteso piú a esacerbare che a mitigare come sarebbe
stato necessario la mente del pontefice, non volendo usare piú
l'opera loro, mandò in poste a Roma Alberto Pio conte di Carpi,
persona di grande spirito e destrezza; al quale furono date
amplissime commissioni, non solo di offerirgli in tutti i casi e
desideri suoi le forze e autorità del re, e usare seco tutti i
rispetti e i riguardi che fussino piú secondo la mente e la natura
sua, ma oltre a questo di comunicargli sinceramente lo stato di
tutte le cose che si trattavano e le richieste fattegli dal re de'
romani, e di rimettere finalmente in arbitrio suo il passare o non
passare in Italia, l'aiutare piú lentamente o piú prontamente le
cose di Cesare.
Fu commesso al medesimo che dissuadesse l'assoluzione de' viniziani;
ma questa, alla venuta sua, era già deliberata e promessa dal
pontefice, avendo i viniziani, poi che tra i deputati dal pontefice
e gli oratori loro fu disputato molti mesi, consentito alle
condizioni sopra le quali si faceva la difficoltà, perché non
vedevano altro rimedio alla salute loro che l'essere congiunti seco.
Furono, il vigesimoquarto dí di febbraio, lette nel concistorio le
condizioni colle quali si doveva concedere l'assoluzione, presenti
gli oratori viniziani e confermandole, col mandato autentico della
loro republica, per instrumento. Non conferissino o in qualunque
modo concedessino benefici o degnità ecclesiastiche, né facessino
resistenza o difficoltà alle provisioni che sopra essi venissino
dalla corte romana; non impedissino che nella corte predetta si
agitassino le cause beneficiali o appartenenti alla giurisdizione
ecclesiastica; non ponessino decime o alcuna specie di gravezza in
su' beni delle chiese e de' luoghi esenti dal dominio temporale;
rinunziassino all'appellazione interposta dal monitorio, a tutte le
ragioni acquistate in qualunque modo in sulle terre della Chiesa, e
specialmente alle ragioni che e' pretendessino di potere tenere il
bisdomino in Ferrara; che i sudditi della Chiesa e i legni loro
avessino libera la navigazione del golfo, e con facoltà sí ampia che
eziandio le robe d'altre nazioni portate in su' legni loro non
potessino essere molestate, né fatta dichiarazione che fussino
obligate alle gabelle; non potessino in modo alcuno intromettersi di
Ferrara o delle terre di quello stato che avessino dependenza dalla
Chiesa; fussino annullate tutte le convenzioni che in pregiudicio
ecclesiastico avessino fatto con alcuno suddito o vassallo della
Chiesa; non ricettassino duchi baroni o altri sudditi o vassalli
della Chiesa che fussino ribelli o inimici della sedia apostolica; e
fussino obligati a restituire tutti i danari esatti da' beni
ecclesiastici, e ristorare le chiese di tutti i danni che avessino
fatto loro. Le quali obligazioni colle promesse e rinunzie debite
ricevute nel concistorio, gli imbasciadori viniziani, il dí che fu
determinato, seguitando gli esempli antichi, si condussono nel
portico di San Piero; dove gittatisi in terra innanzi a' piedi del
pontefice, il quale presso alle porte di bronzo sedeva in su la
sedia pontificale assistendogli tutti i cardinali e numero grande di
prelati, gli dimandorono umilmente perdono, riconoscendo la
contumacia e i falli commessi; e dipoi, lettesi secondo il rito
della Chiesa certe orazioni e fatte solennemente le cerimonie
consuete, il pontefice ricevutigli a grazia gli assolvé, imponendo
loro per penitenza che andassino a visitare le sette chiese.
Assoluti, entrorno nella chiesa di San Piero, introdotti dal sommo
penitenziere; dove avendo udita la messa, che prima era stata
denegata, furono onoratamente, non piú come scomunicati o interdetti
ma come buoni cristiani e divoti figliuoli della sedia apostolica,
da molti prelati e altri della corte accompagnati insino alle loro
abitazioni. Dopo la quale assoluzione si ritornorno a Vinegia,
lasciato a Roma Ieronimo Donato uomo dottissimo, uno del numero
loro; il quale, per le virtú sue e per la destrezza dello ingegno
divenuto molto grato al pontefice, fu di grandissimo giovamento alla
sua patria nelle cose che si ebbono poi a trattare appresso a lui.
Lib.9, cap.1
Attività del pontefice per suscitare nemici al re di Francia.
Difficoltà di accordi fra il re e gli svizzeri. Intimazioni del
pontefice al duca di Ferrara per la lavorazione del sale a
Comacchio.
Dell'assoluzione de' viniziani, fatta con animo tanto costante del
pontefice, si perturbò molto Cesare al quale questa cosa
principalmente apparteneva. Ma non se ne perturbò quasi meno il re
di Francia, perché per l'utilità propria desiderava che la grandezza
de' viniziani non risorgesse. Non si accorgeva perciò interamente
quali fussino gli ultimi fini del pontefice; ma nutrendosi, nelle
difficoltà che se gli preparavano, con vane speranze, si persuadeva
che 'l pontefice si movesse per sospetto dell'unione sua con Cesare,
e che temporeggiando con lui e non gli dando causa di maggiore
timore, contento della assoluzione fatta, non procederebbe piú
oltre. Ma il pontefice, confermandosi piú l'un dí che l'altro nelle
sue deliberazioni, dette licenza, con tutto che molto
contradicessino gli oratori de' confederati, a' feudatari e sudditi
della Chiesa che si conducessino agli stipendi de' viniziani; i
quali soldorno Giampaolo Baglione con titolo di governatore delle
loro genti, rimaste per la morte del conte di Pitigliano senza
capitano generale, e Giovanluigi e Giovanni Vitelli figliuoli già di
Giovanni e di Cammillo, e Renzo da Ceri per capitano di tutti i
fanti loro; e avendo cosí scopertamente preso il patrocinio de'
viniziani, procurava di concordargli con Cesare, sperando per questo
mezzo non solo di separarlo dal re di Francia ma che, unito seco e
co' viniziani, gli moverebbe la guerra; la qual cosa perché, per le
necessità di Cesare, gli succedesse piú facilmente interponeva
l'autorità sua con gli elettori dello imperio e colle terre franche
che nella dieta di Augusta non gli deliberassino alcuna sovvenzione.
Ma quanto piú si maneggiava questa materia tanto piú si trovava dura
e difficile; perché Cesare non voleva concordia alcuna se non
ritenendosi Verona, e i viniziani, ne' quali il papa avea sperato
dovere essere maggiore facilità, promettendosi in qualunque caso
d'avere a difendere Padova e che tenendo quella città dovesse il
tempo porgere loro molte occasioni, dimandavano ostinatamente la
restituzione di Verona, offerendo di pagare, in ricompenso di
quella, quantità grandissima di danari. Né cessava il pontefice di
stimolare occultamente il re di Inghilterra a muovere guerra contro
al re di Francia, rinnovando la memoria delle inimicizie antiche tra
quegli regni, dimostrando l'occasione d'avere successi felicissimi,
perché se egli pigliava l'armi contro al re, molt'altri, a' quali
era o sospetta o odiosa la sua potenza, le piglierebbono; e
confortandolo ad abbracciare con quella divozione che era stata
propria de' re di Inghilterra la gloria che se gli offeriva, di
essere protettore e conservatore della sedia apostolica, la quale
altrimenti era per l'ambizione del re di Francia in manifestissimo
pericolo: alla qual cosa lo confortava medesimamente, ma molto
occultamente, il re d'Aragona.
Ma quel che importava piú, il pontefice continuando co' svizzeri le
pratiche cominciate per mezzo del vescovo di Sion (la cui autorità
era grande in quella nazione, e il quale non cessava con somma
efficacia di orare a questo effetto ne' consigli e di predicare
nelle chiese), avea finalmente ottenuto che i svizzeri accettando
pensione di fiorini mille di Reno l'anno per ciascuno cantone, si
fussino obligati alla protezione sua e dello stato della Chiesa,
permettendogli di soldare, per difendersi da chi lo molestasse,
certo numero de' fanti loro: la qual cosa gli avea renduta piú
facile la discordia che cominciava a nascere tra loro e il re di
Francia. Perché i svizzeri, insuperbiti per l'estimazione che
universalmente si faceva di loro, e presumendo che tutte le vittorie
che il re presente e il re Carlo suo antecessore aveano ottenute in
Italia fussino principalmente procedute per la virtú e per il
terrore dell'armi loro, e perciò dalla corona di Francia meritare
molto, aveano dimandato, ricercandogli il re di rinnovare insieme la
confederazione che finiva, che accrescesse loro le pensioni; le
quali erano di sessantamila franchi l'anno, cominciate dal re Luigi
undecimo e continuate insino a quel tempo, oltre alle pensioni che
secretamente si davano a molti uomini privati: le quali cose
dimandando superbamente, il re sdegnato della insolenza loro e che
da villani nati nelle montagne (cosí erano le parole sue) gli fusse
cosí imperiosamente posta la taglia, cominciò, piú secondo la
degnità reale che secondo l'utilità presente, con parole alterate a
ribattergli e dimostrare quasi di disprezzargli. Alla qual cosa gli
dava maggiore animo, che nel tempo medesimo, per opera dí Giorgio
Soprasasso, i vallesi sudditi di Sion, che si reggono in sette
comunanze chiamate da loro le corti, corrotti da' donativi e da
promesse dí pensioni, in publico e in privato si erano confederati
con lui, obligandosi di dare il passo alle sue genti, negarlo agli
inimici suoi e andare al soldo suo con quel numero di fanti che
comportavano le forze loro; e in simigliante modo si erano
confederati seco i signori delle tre leghe che si chiamano i
grigioni; e benché una parte de' vallesi non avesse ancora
ratificato, sperava il re indurgli co' mezzi medesimi alla
ratificazione: onde si persuadeva non gli essere piú tanto
necessaria l'amicizia de' svizzeri; avendo determinato, oltre a'
fanti che gli concederebbono i vallesi e i grigioni, di condurre
nelle guerre fanti tedeschi; temendo medesimamente poco de'
movimenti loro, perché non credeva potessino assaltare il ducato di
Milano se non per la via di Bellinzone e altre molte anguste, per le
quali venendo molti potevano facilmente essere ridotti in necessità
di vettovaglie da pochi, venendo pochi basterebbono similmente pochi
a fargli ritirare. Cosí stando ostinato a non augumentare le
pensioni, non si otteneva ne' consigli de' svizzeri di rinnovare
seco la confederazione, con tutto che confortata da molti di loro,
a' quali privatamente ne perveniva grandissima utilità; e per la
medesima cagione piú facilmente consentirono alla confederazione
dimandata dal pontefice.
Per la quale nuova confederazione parendogli avere fatto fondamento
grande a' pensieri suoi, e oltre a questo procedendo per natura in
tutte le cose come se fusse superiore a tutti e come se tutti
fussino necessitati a ricevere le leggi da lui, seminava origine di
nuovo scandolo col duca di Ferrara: o mosso veramente dalla cagione
che venne in disputa tra loro o per lo sdegno conceputo contro di
lui che, ricevuti da sé tanti benefici e onori, dependesse piú dal
re di Francia che da lui. Quale si fusse la cagione, cercando
principio di controversie, comandò imperiosamente ad Alfonso che
desistesse da fare lavorare sali a Comacchio, perché non era
conveniente che quel che non gli era lecito fare quando i viniziani
possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica,
di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di
grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si
lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre
circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva
col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze
del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non
ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica
gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri
quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare
in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con
l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo
comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi
pene e censure, non gli era lecito fare quando i viniziani
possedevano Cervia gli fusse lecito possedendo la sedia apostolica,
di cui era il diretto dominio di Ferrara e di Comacchio: cosa di
grande utilità, perché dalle saline di Cervia, quando non si
lavorava a Comacchio, si diffondeva il sale in molte terre
circostanti. Ma piú confidava Alfonso nella congiunzione che aveva
col re di Francia e nella sua protezione che non temeva delle forze
del pontefice; e lamentandosi d'avere a essere costretto di non
ricôrre il frutto il quale nella casa propria con pochissima fatica
gli nasceva, anzi avere per uso de' popoli suoi a comperare da altri
quello di che poteva riempiere i paesi forestieri, né dovere passare
in esempio quello a che i viniziani non con la giustizia ma con
l'armi l'aveano indotto a consentire, recusava di ubbidire a questo
comandamento: onde il pontefice mandò a protestargli, sotto gravi
pene e censure, che desistesse.
Lib.9, cap.2
Massimiliano e il re di Francia si accordano per assalire di nuovo i
veneziani; contrarietà del pontefice. Vano tentativo de' veneziani
per prendere Verona. Nuove querele e minaccie del pontefice contro
il duca di Ferrara. Discussione fra il pontefice e il re di Francia
per la controversia col duca.
Questi erano i pensieri e l'opere del pontefice, intento con tutto
l'animo alla sollevazione de' viniziani. Ma da altra parte il re de'
romani e il re di Francia, desiderosi parimenti della loro
depressione e malcontenti delle dimostrazioni che faceva per essi il
pontefice, e perciò venuti insieme in maggiore unione, convennono di
assalire quella state con forze grandi i viniziani: mandando da una
parte il re di Francia Ciamonte con potente esercito, al quale si
unissino le genti tedesche che erano in Verona; e da altra parte
Cesare, con le genti le quali sperava ottenere dallo imperio nella
dieta di Augusta, entrasse nel Friuli, e presolo procedesse ad altre
imprese secondo che gli mostrasse il tempo e l'occasioni. Alla qual
cosa ricercorno il pontefice che, come obligato per la lega di
Cambrai, concorresse coll'armi insieme con loro; ma esso a cui era
sommamente molesta questa cosa rispose apertamente non essere tenuto
a quella confederazione, che aveva già avuta perfezione poiché era
stato in potestà di Cesare avere prima Trevigi e poi ricompenso di
danari. Ricercò similmente Massimiliano il re cattolico di sussidio
per le obligazioni medesime di Cambrai, e per le convenzioni fatte
seco particolarmente quando gli consentí il governo di Castiglia, ma
con prieghi che l'accomodasse piú tosto di danari che di genti; ma
egli, non si disponendo a sovvenirlo di quel che piú aveva di
bisogno, gli promesse mandargli quattrocento lancie, sussidio a
Cesare di poca utilità perché nell'esercito franzese e suo
abbondavano cavalli.
Nel quale tempo, essendo la città di Verona molto vessata da'
soldati che la guardavano perché non erano pagati, le genti
viniziane, chiamate occultamente da alcuni cittadini, partitesi da
San Bonifazio, si accostorono di notte alla città per scalare
castello San Piero essendo entrati per la porta San Giorgio dove
mentre dimorano, per congiugnere insieme le scale, perché separate
non ascendevano all'altezza delle mura, o sentiti da quegli che
guardavano il castello di San Felice o parendo loro vanamente udire
romore, impauriti, lasciate le scale si discostorono; donde
l'esercito si ritornò a San Bonifazio, e in Verona venuta a luce la
congiurazione ne furono puniti molti.
Inclinò in questo tempo l'animo del pontefice a riunirsi col re di
Francia, mosso non da volontà ma da timore; perché Massimiliano
dimandava superbamente che gli prestasse dugentomila ducati,
minacciandolo che altrimenti si unirebbe col re di Francia contro a
lui; e perché era fama che nella dieta di Augusta si determinerebbe
di concedergli aiuti grandi, e perché di nuovo tra il re di
Inghilterra e il re di Francia era stata fatta e publicata con
solennità grande la pace: e perciò molto strettamente cominciò a
trattare con Alberto da Carpi, col quale era proceduto insino a quel
dí con parole e speranze generali. Ma perseverò poco tempo in questa
sentenza: perché la dieta di Augusta, senza le forze della quale
erano in piccola estimazione i minacci di Cesare, non corrispondendo
all'espettazione, non gli determinò altro aiuto che di trecentomila
fiorini di Reno, sopra il quale assegnamento aveva già fatte molte
spese; e dal re di Inghilterra gli fu significato avere nella pace
inserito uno capitolo ch'ella si intendesse annullata qualunque
volta il re di Francia offendesse lo stato della Chiesa. Dalle quali
cose ripreso animo e ritornato a' primi pensieri, aggiunse contro al
duca di Ferrara nuove querele. Perché quel duca, dappoi che 'l golfo
fu liberato, avea poste nuove gabelle alle robe che per il fiume del
Po andavano a Vinegia; le quali, allegando il pontefice che secondo
la disposizione delle leggi non si potevano imporre dal vassallo
senza licenza del signore del feudo, e che erano in pregiudicio
grande de' bolognesi suoi sudditi, faceva instanza che si levassino;
minacciando altrimenti assaltarlo con l'armi: e per fargli maggiore
timore fece passare le sue genti d'arme nel contado di Bologna e in
Romagna.
Turbavano queste cose molto l'animo del re: perché da una parte gli
era molestissimo il pigliare l'inimicizia col pontefice, da altra
parte lo moveva l'infamia d'abbandonare il duca di Ferrara, dal
quale per obligarsi alla protezione avea ricevuto trentamila ducati;
né meno lo moveva il rispetto della propria utilità, perché
dependendo totalmente Alfonso da lui e augumentando tanto piú nella
sua divozione quanto piú vedeva perseguitarsi dal pontefice, ed
essendo lo stato suo alle cose di Lombardia molto opportuno,
riputava interesse suo il conservarlo. Però si interponeva col
pontefice perché tra loro si introducesse qualche concordia. Ma al
pontefice pareva giusto che 'l re si rimovesse da questa protezione,
allegando averla presa contro a' capitoli di Cambrai: per i quali,
fatti sotto colore di restituire quello che era occupato alla
Chiesa, si proibiva che alcuno de' confederati pigliasse la
protezione de' nominati dall'altro, e da sé essere stato nominato il
duca di Ferrara: e di piú, che alcuno non si intromettesse delle
cose appartenenti alla Chiesa. Confermarsi il medesimo per la
confederazione fatta particolarmente tra loro a Biagrassa, nella
quale espressamente si diceva che 'l re non tenesse protezione
alcuna di stati dependenti dalla Chiesa e non ne accettasse in
futuro, annullando tutte quelle che per il passato avesse preso.
Alle quali cose benché per la parte del re si rispondesse,
contenersi nella medesima convenzione che ad arbitrio suo si
conferissino i vescovadi di qua da' monti, il che il pontefice avere
violato nel primo vacante, avere medesimamente contravenuto in
favore de' viniziani a' capitoli fatti a Cambrai, onde essergli
lecito non osservare a lui le cose promesse; nondimeno, per non
avere per gli interessi del duca di Ferrara a venire all'armi col
pontefice, proponeva condizioni per le quali, non si contravenendo
totalmente né direttamente al suo onore, potesse il pontefice
restare in maggiore parte sodisfatto negli interessi che la Chiesa
ed egli pretendevano contro ad Alfonso; ed era oltre a questo
contento obligarsi, secondo una richiesta fatta dal pontefice, che
le genti franzesi non passassino il fiume del Po, se non in quanto
fusse tenuto per la protezione de' fiorentini o per dare molestia a
Pandolfo Petrucci e a Giampaolo Baglione, sotto pretesto de' danari
promessigli dall'uno e intercettigli dall'altro.
Lib.9, cap.3
Resa di Vicenza e di altre terre alle milizie francesi e tedesche.
Discorso del capo della legazione de' vicentini. Inumana risposta
del principe di Analt. Intercessione benevola di Ciamonte; crudeltà
dei tedeschi.
Le quali cose mentre che si agitavano, Ciamonte con mille
cinquecento lancie e con diecimila fanti di varie nazioni, tra'
quali erano alcuni svizzeri, condotti privatamente non per
concessione de' cantoni, seguitandolo copia grande d'artiglierie e
tremila guastatori e co' ponti preparati per passare i fiumi, ed
essendogli congiunto il duca di Ferrara con dugento uomini d'arme
cinquecento cavalli leggieri e duemila fanti, e avendo senza
ostacolo occupato (perché i viniziani l'abbandonorno) il Pulesine di
Rovigo, e presa la torre Marchesana posta in su la ripa dell'Adice
di verso Padova, venuto a Castel Baldo, ebbe con semplici messi le
terre di Montagnana ed Esti, appartenenti l'una ad Alfonso da Esti
per donazione di Massimiliano, l'altra impegnatagli da lui per
sicurtà di danari prestati; i quali luoghi recuperato che ebbe
Alfonso, sotto pretesto di certe galee de' viniziani che venivano su
per il Po, ne rimandò la piú parte delle sue genti. Unissi con
Ciamonte il principe di Anault luogotenente di Cesare, uscito di
Verona con trecento lancie franzesi dugento uomini d'arme e tremila
fanti tedeschi, seguitandolo sempre dietro uno alloggiamento; e
lasciatosi addietro Monselice tenuto da' viniziani, vennono in quel
di Vicenza, dove Lunigo e tutto il paese senza contradizione se gli
arrendé: perché l'esercito viniziano, che si diceva essere di
seicento uomini d'arme quattromila tra cavalli leggieri e stradiotti
e ottomila fanti, sotto Giampaolo Baglione governatore e Andrea
Gritti proveditore, partitosi prima da Soave e andatosi
continuamente ritirando, secondo i progressi degli inimici, ne'
luoghi sicuri, finalmente messa sufficiente guardia in Trevigi, e a
Mestri posto mille fanti, si era ritirato alle Brentelle luogo
vicino a tre miglia di Padova, in alloggiamento molto forte, perché
il paese è pieno di argini e quel luogo circondato dall'acque di tre
fiumi, Brenta, Brentella e Bacchiglione. Per la ritirata del quale,
i vicentini del tutto abbandonati e impotenti per se stessi a
difendersi, non rimanendo loro altra speranza che la misericordia
del vincitore, e confidando potere piú facilmente ottenerla per
mezzo di Ciamonte, mandorono a dimandargli salvocondotto per mandare
imbasciadori a lui e al principe di Anault; il quale ottenuto, si
presentorono in abito miserabile e pieni di mestizia e di spavento
innanzi all'uno e l'altro di loro, che erano al Ponte a Barberano
propinquo a dieci miglia a Vicenza. Ove, presenti tutti i capitani e
persone principali degli eserciti, il capo della legazione parlò,
secondo si dice, cosí:
- Se fusse noto a ciascuno quello che la città di Vicenza, invidiata
già per le ricchezze e felicità sua da molte città vicine, ha
patito, poiché, piú per errore e stoltizia degli uomini e forse piú
per una certa fatale disposizione che per altra cagione, ritornò
sotto il dominio de' viniziani, e i danni infiniti e intollerabili
che ha ricevuto, ci rendiamo certissimi, invittissimi capitani, che
ne' petti vostri sarebbe maggiore la pietà delle nostre miserie che
lo sdegno e l'odio per la memoria della ribellione: se ribellione
merita d'essere chiamata lo errore di quella notte, nella quale,
essendo spaventato il popolo nostro, perché lo esercito inimico
aveva per forza espugnato il borgo della Postierla, non per
ribellarsi né per fuggire lo imperio mansueto di Cesare ma per
liberarsi dal sacco e dagli ultimi mali delle città, uscirono fuora
imbasciadori ad accordarsi con gli inimici; movendo sopratutto gli
uomini nostri, non assuefatti all'armi e a' pericoli della guerra,
l'autorità del Fracassa; il quale, capitano esperimentato in tante
guerre e soldato di Cesare, o per fraude o per timore (il che a noi
non appartiene di ricercare), ci consigliò che mediante l'accordo
provedessimo alla salute delle donne e figliuoli nostri e della
nostra afflitta patria. In modo che si conosce che non alcuna
malignità ma solo il timore, accresciuto per l'autorità di tale
capitano, fu cagione non che si deliberasse ma piú tosto che in
breve spazio di tempo, in tanto tumulto in tanti strepiti d'arme in
tanti tuoni d'artiglierie nuovi agli orecchi nostri, si precipitasse
ad arrenderci a viniziani; la felicità de' quali e la potenza non
era tale che ci dovesse per se stessa invitare a questo: e quanto
sieno diversi i falli nati dal timore e dallo errore da quegli
peccati che sono mossi dalla fraude e dalla mala intenzione è
manifestissimo a ciascuno. Ma quando bene la nostra fusse stata non
paura ma volontà di rebellarsi, e fusse stato consiglio e
consentimento universale di tutti, non, in tanta confusione, piú
presto movimento e ardire di pochi non contradetto dagli altri, e
che i peccati di quella infelice città fussino del tutto
inescusabili, le nostre calamità da quel tempo in qua sono state
tali che si potrebbe veramente dire che la penitenza fusse senza
comparazione stata maggiore che il peccato: perché dentro alle mura,
per le rapine de' soldati stati alla guardia nostra, siamo stati
miserabilmente spogliati di tutte le facoltà; e chi non sa quel che,
di fuora, per la guerra continua abbiamo patito? e che rimane piú in
questo misero paese che sia salvo? Arse tutte le case delle nostre
possessioni, tagliati tutti gli alberi, perduti gli animali, non
condotte al debito fine già due anni le ricolte, impedite in grande
parte le semente, senza entrate e senza frutti, senza speranza che
mai piú possa risorgere questo distruttissimo paese, siamo ridotti
in tante angustie, in tanta miseria che, avendo consumato per
sostentare la vita nostra, per resistere a infinite spese che per
necessità abbiamo fatte, tutto quello che occultamente ci avanzava,
non sappiamo piú come in futuro possiamo pascere noi medesimi e le
famiglie nostre. Venga qualunque piú inimico animo e piú crudele, ma
che in altri tempi abbia veduto la patria nostra, a vederla di
presente; siamo certi non potrà contenere le lagrime, considerando
che quella città che, benché piccola di circuito, soleva essere
pienissima di popolo, superbissima di pompe, illustre per tante
magnifiche e ricche case, ricetto continuo di tutti i forestieri,
quella città dove non si attendeva ad altro che a conviti a giostre
e a piaceri, sia ora quasi desolata di abitatori, le donne e gli
uomini vestiti vilissimamente, non vi essere piú aperta casa alcuna,
non vi essere alcuno che possa promettersi di avere modo di
sostentare sé e la famiglia sua pure per uno mese, e in cambio di
magnificenze, di feste e di piaceri non si vedere e sentire altro
che miserie, lamentazioni publiche di tutti gli uomini, pianti
miserabili per tutte le strade di tutte le donne: le quali sarebbono
ancora maggiori se non ci ricordassimo che dalla volontà tua,
gloriosissimo principe di Anault, depende o l'ultima desolazione di
quella afflittissima nostra patria o la speranza di potere, sotto
l'ombra di Cesare, sotto il governo della sapienza e clemenza tua,
non diciamo respirare o risorgere, perché questo è impossibile, ma,
consumando la vita per ogni estremità, fuggire almeno l'ultimo
eccidio. Speriamo, perché ci è nota la benignità e umanità tua,
perché è verisimile che tu vogli imitare Cesare, degli esempli,
della clemenza e mansuetudine del quale è piena tutta l'Europa. Sono
consumate le sostanze nostre, sono finite tutte le nostre speranze,
non ci è piú altro che le vite e le persone: nelle quali
incrudelire, che frutto sarebbe a Cesare? che laude a te?
Supplichiamti con umilissimi prieghi, (i quali immaginati essere
mescolati con pianti miserabili d'ogni sesso, d'ogni età, d'ogni
ordine della nostra città) che tu voglia che Vicenza infelice sia
esempio a tutti gli altri della mansuetudine dello imperio tedesco,
sia simile alla clemenza e alla magnanimità de' vostri maggiori; che
trovandosi vittoriosi in Italia conservorono le città vinte,
eleggendole molti di loro per propria abitazione: donde, con gloria
grande del sangue germanico, discesono tante case illustri in
Italia, quegli da Gonzaga quegli da Carrara quegli dalla Scala,
antichi già signori nostri. Sia esempio, in uno tempo medesimo,
Vicenza, che i viniziani nutriti e sostentati da noi ne' minori
pericoli l'abbino ne' maggiori pericoli, ne' quali erano tenuti a
difenderla, vituperosamente abbandonata; e che i tedeschi, che
avevano qualche causa di offenderla, l'abbino gloriosamente
conservata. Piglia il patrocinio nostro tu, invittissimo Ciamonte, e
commemora l'esempio del tuo re, nel quale fu maggiore la clemenza
verso i milanesi e verso i genovesi, che senza causa o necessità
alcuna si erano spontaneamente ribellati, che non fu il fallo loro;
a' quali avendo del tutto perdonato, essi, ricomperati da tanto
beneficio, gli sono stati sempre divotissimi e fedelissimi. Vicenza
conservata, o principe di Analt, se non sarà a Cesare a comodità
sarà almeno a gloria, rimanendo come esempio della sua benignità;
distrutta non potrà essergli utile a cosa alcuna, e la severità
usata contro a noi sarà molesta a tutta Italia, la clemenza farà
appresso a tutti piú grato il nome di Cesare: e cosí, come nelle
opere militari e nel guidare gli eserciti si riconosce in lui la
similitudine dello antico Cesare, sarà riconosciuta similmente la
clemenza; dalla quale fu piú esaltato insino al cielo e fatto divino
il nome suo, piú perpetuata appresso a' posteri la sua memoria, che
da l'armi. Vicenza, città antica e chiara, e già piena di tanta
nobiltà, è in mano tua; da te aspetta la sua conservazione o la sua
distruzione, la sua vita o la sua morte. Muovati la pietà di tante
persone innocenti, di tante infelici donne e piccoli fanciulli i
quali, quella calamitosa notte e piena di insania e di errori, non
intervennono a cosa alcuna; e i quali ora con pianti e lamenti
miserabili aspettano la tua deliberazione. Manda fuora quella voce,
tanto desiderata, di misericordia e di clemenza; per la quale,
risuscitata, la infelicissima patria nostra ti chiamerà sempre suo
padre e suo conservatore. -
Non potette orazione sí miserabile, né la pietà verso la infelice
città, mitigare l'animo del principe di Analt in modo che, pieno di
insolenza barbara e tedesca crudeltà, non potendo temperarsi che le
parole fussino manco feroci che i fatti, non facesse inumanissima
risposta; la quale per suo comandamento fu pronunziata da uno
dottore suo auditore, in questa sentenza:
- Non crediate, o ribelli vicentini, che le lusinghevoli parole
vostre sieno bastanti a cancellare la memoria dei delitti commessi
in grandissimo vilipendio del nome di Cesare: alla cui grandezza e
alla benignità con la quale vi aveva ricevuto non avendo rispetto
alcuno, comunicato insieme da tutta la città di Vicenza il
consiglio, chiamaste dentro l'esercito viniziano; il quale avendo
con grandissima difficoltà sforzato il borgo, diffidando di potere
vincere la città, pensava già di levarsi; chiamastelo contro alla
volontà del principe che rappresentava l'imperio di Cesare,
costrignestelo a ritirarsi nella fortezza; e pieni di rabbia e di
veleno saccheggiaste l'artiglierie e la munizione di Cesare,
laceraste i suoi padiglioni, spiegati da lui in tante guerre e
gloriosi per tante vittorie. Non feciono queste cose i soldati
viniziani ma il popolo di Vicenza, scoprendo sete smisurata del
sangue tedesco. Non mancò per la perfidia vostra che l'esercito
viniziano, se conosciuta l'occasione avesse seguitato la vittoria,
non pigliasse Verona. Né furono questi i consigli o conforti di
Fracassa, il quale circonvenuto dalle vostre false calunnie ha
giustificata chiaramente la sua innocenza; fu pure la vostra
malignità, fu l'odio che senza cagione avete al nome tedesco. Sono i
peccati vostri inescusabili, sono sí grandi che non meritano
rimessione; sarebbe non solo di gravissimo danno ma eziandio
vituperabile quella clemenza che si usasse con voi, perché si
conosce chiaramente che in ogni occasione fareste peggio. Né sono
stati errori i vostri ma sceleratezze; né i danni che voi avete
ricevuti sono stati per penitenza de' delitti ma perché
contumacemente avete voluto perseverare nella rebellione: e ora
chiedete la pietà e la misericordia di Cesare, il quale avete
tradito, quando abbandonati da' viniziani non avete modo alcuno di
difendervi. Aveva deliberato il principe di non vi udire: cosí era
la mente e la commissione di Cesare; non ha potuto negarlo perché
cosí è stata la volontà di Ciamonte; ma non per questo si altererà
quella sentenza che, dal dí della vostra rebellione, è stata sempre
fissa nella mente di Cesare: non vi vuole il principe altrimenti che
a discrezione delle facoltà, della vita e dell'onore. Né sperate che
questo si faccia per avere facoltà di dimostrare piú la sua
clemenza, ma si fa per potere piú liberamente farvi esempio a tutto
il mondo della pena che si conviene contro a coloro che sí
sceleratamente hanno mancato al principe suo della loro fede. -
Attoniti per sí atroce risposta i vicentini, poiché per alquanto
spazio furono stati immobili, come privi di tutti i sentimenti,
cominciorno di nuovo con lagrime e con lamenti a raccomandarsi alla
misericordia del vincitore; ma essendo ribattuti dal medesimo
dottore, che gli riprese con parole piú inumane e piú barbare che le
prime, non sapevano né che rispondere né che pensare. Se non che
Ciamonte gli confortò che ubbidissino alla necessità, e col
rimettersi liberamente nello arbitrio del principe cercassino di
placare la sua indegnazione: la mansuetudine di Cesare essere
grandissima, né doversi credere che il principe, nobile di sangue ed
eccellente capitano, avesse a fare cosa indegna della sua nobiltà e
della sua virtú: né dovergli spaventare l'acerbità della risposta,
anzi essere da desiderare che gli animi generosi e nobili si
traportino con le parole, perché spesso, avendo sfogato parte dello
sdegno in questo modo, alleggieriscono l'asprezza de' fatti:
offersesi intercessore a mitigare l'ira del principe, ma che essi
prevenissino col rimettersi in lui liberamente. Il consiglio del
quale e la necessità seguitando i vicentini, distesisi in terra,
rimesseno assolutamente sé e la loro città alla potestà del
vincitore. Le parole de' quali ripigliando Ciamonte, confortò il
principe che nel punirgli avesse piú rispetto alla grandezza e alla
fama di Cesare che al delitto loro; né facesse esempio, agli altri
che fussino caduti o per potere cadere in simili errori, tale che,
disperata la misericordia, avessino a perseverare insino all'ultima
ostinazione. Sempre la clemenza avere dato a' príncipi benivolenza e
riputazione; la crudeltà, dove non fusse necessario, avere sempre
fatto effetti contrari, né rimosso, come molti imprudentemente
credevano, gli ostacoli e le difficoltà ma accresciutele, e fattele
maggiori. Con l'autorità del quale, e co' prieghi di molti altri e
le miserabili lamentazioni de' vicentini, fu contento finalmente
Analt promettere loro la salute delle persone, restando libera allo
arbitrio e volontà sua la disposizione di tutte le sostanze: preda
maggiore in opinione che in effetti, perché già la città era rimasta
quasi vota di persone e di robe. Le quali ricercando la ferità
tedesca, inteso che in certo monte vicino a Vicenza erano ridotti
molti della città e del contado con le loro robe, in due caverne
dette la grotta di Masano, ove per la fortezza del luogo e
difficoltà dello entrarvi si reputavano essere sicuri, i tedeschi
andati per pigliargli, combattuta invano e non senza qualche loro
danno la caverna maggiore, andati alla minore né potendo sforzarla
altrimenti, fatti fuochi grandissimi la ottennono con la forza del
fumo; dove è fama morissino piú di mille persone.
Lib.9, cap.4
Presa di Legnago da parte de' francesi. Nuove terre abbandonate da'
veneziani; guerra devastatrice e indecisa nel Friuli. Nuovi accordi
fra Massimiliano e il re di Francia. Presa di Monselice. L'esercito
francese si ritira nel ducato di Milano.
Presa Vicenza, si mostrava maggiore la difficoltà delle altre cose
che da principio non era stato disegnato. Perché Massimiliano non
solamente non si moveva contro a' viniziani, come aveva promesso, ma
le genti che aveva in Italia, per mancamento di danari,
continuamente diminuivano; in modo che Ciamonte era necessitato di
pensare non che altro alla custodia di Vicenza; e nondimeno deliberò
di andare a campo a Lignago, la quale terra se non si acquistava
riuscivano di niuno momento tutte le cose fatte insino a quel
giorno. Passa per la terra di Lignago il fiume dello Adige,
rimanendo verso Montagnana la parte minore detta da loro il Porto;
ove i viniziani, confidandosi non tanto nella fortezza della terra e
nella virtú de' difensori quanto nello impedimento dell'acque,
aveano tagliato il fiume in uno luogo; dalla ripa di là è la parte
maggiore, dalla quale l'aveano tagliato in due luoghi; per le quali
tagliate il fiume avendo sparso ne' luoghi piú bassi alcuni rami
aveva coperto in modo il paese circostante che, per essere stato
soffocato dall'acque molti mesi, era diventato quasi palude.
Facilitò in qualche parte le difficoltà, la temerità e il disordine
degli inimici: perché venendo Ciamonte con l'esercito ad alloggiare
a Minerbio distante tre miglia da Lignago, e avendo mandati innanzi
alcuni cavalli e fanti de' suoi, scontrorono, al passare dell'ultimo
ramo propinquo a mezzo miglio a Lignago, i fanti che stavano a
guardia di Porto, usciti per vietare loro il passare; ma i fanti
guasconi e spagnuoli, entrati ferocemente nell'acqua insino al
petto, gli urtorono, e poi gli seguitorno con tale impeto che alla
mescolata insieme con loro entrorono in Porto; salvatasi piccola
parte di quegli fanti, perché alcuni ne furno ammazzati nel
combattere e la piú parte degli altri, studiando di ritirarsi in
Lignago, era annegata nel passare lo Adice. Per il quale successo,
Ciamonte mutato il disegno di alloggiare a Minerbio, alloggiò la
sera medesima in Porto; e fatte condurre l'artiglierie grosse sotto
l'acqua (le quali il fondo del terreno reggeva), la notte medesima
fece serrare da' guastatori la tagliata del fiume: e conoscendo che
dalla parte di Porto era Lignago inespugnabile, per la larghezza del
fiume sí grosso che con difficoltà si poteva battere da quella parte
(benché tra Lignago e Porto, per essere infra gli argini, non sia sí
grosso come di sotto), comandò si gittasse il ponte per passare
dalla parte di là l'artiglierie e la maggiore parte dello esercito;
ma trovato che le barche condotte da lui non erano pari alla
larghezza del fiume, fermato l'esercito appresso al fiume
all'opposito di Lignago, di là dall'Adice fece passare in sulle
barche il capitano Molardo, con quattromila fanti guasconi e con sei
pezzi di artiglieria. Il quale passato, si cominciò da l'una parte e
l'altra del fiume a percuotere il bastione fatto in su l'argine alla
punta della terra, dalla banda di sopra; ed essendone già abbattuta
una parte, ancora che quegli di dentro non omettessino di riparare
sollecitamente, la notte seguente il proveditore viniziano, avendo
maggiore timore delle offese degli inimici che speranza nella difesa
de' suoi, si ritirò improvisamente con alcuni gentiluomini viniziani
nella rocca: la ritirata del quale intesasi come fu dí, il capitano
de' fanti che era nel bastione si arrendé a Molardo, salvo l'avere e
le persone; e nondimeno, uscitone, fu co' fanti svaligiato da quegli
del campo. Preso il bastione, fu da Molardo saccheggiata la terra; e
i fanti che erano a guardia d'uno bastione fabricato in su l'altra
punta della terra se ne fuggirono per quegli paludi, lasciate l'armi
all'entrare dell'acque: e cosí, per la viltà di quegli che vi erano
dentro, riuscí piú facile e piú presto che non si era stimato
l'acquisto di Lignago. Né fece maggiore resistenza il castello che
avesse fatto la terra; perché essendo il dí seguente levate con
l'artiglieria le difese, e cominciato a tagliare da basso co'
picconi uno cantone d'uno torrione, con intenzione di dargli poi
fuoco, si arrenderono: con patto che, rimanendo i gentiluomini
viniziani in potestà di Ciamonte, i soldati lasciate l'armi se ne
andassino salvi in giubbone. Mescolò la fortuna nella vittoria con
amaro fiele l'allegrezza di Ciamonte, perché quivi ebbe avviso della
morte del cardinale di Roano suo zio, per l'autorità somma del quale
appresso al re di Francia esaltato a grandissime ricchezze e onori
sperava continuamente cose maggiori. In Lignago, per essere i
tedeschi impotenti a mettervi gente, lasciò Ciamonte a guardia cento
lancie e mille fanti; e avendo dipoi licenziato i fanti grigioni e
vallesi, si preparava per ritornare col rimanente dello esercito nel
ducato di Milano per comandamento del re, inclinato a non continuare
piú in tanta spesa, dalla quale, per non corrispondere alle
deliberazioni prima fatte le provisioni dalla parte di Cesare, non
risultava effetto alcuno importante. Ma gli comandò poi il re che
ancora soprasedesse per tutto giugno, perché Cesare venuto a Spruch,
pieno di difficoltà secondo il solito ma pieno di disegni e di
speranze, faceva instanza non si partisse, promettendo di passare
d'ora in ora in Italia.
Nel quale tempo, desiderando i tedeschi di recuperare Morostico,
Cittadella, Basciano e altre terre circostanti, per fare piú facile
a Cesare il venire da quella parte, Ciamonte si fermò coll'esercito
a Lungara in sul fiume del Bacchiglione, per impedire alle genti de'
viniziani l'entrare in Vicenza, rimasta senza guardia, e similmente
l'opporsi a' tedeschi; ma inteso quivi le genti viniziane essersi
ritirate in Padova, congiunti seco di nuovo i tedeschi, vennono alle
Torricelle, in sulla strada maestra che va da Vicenza a Padova: onde
lasciata Padova a mano destra, si condussono a Cittadella, con non
piccola incomodità di vettovaglie, impedite da i cavalli leggieri
che erano in Padova e molto piú da quegli che erano a Monselice.
Arrendessi Cittadella senza contrasto, e il medesimo fece poi
Morostico, Bassano e l'altre terre circostanti, abbandonate dalle
genti viniziane: però espedite le cose da quella parte, gli
eserciti, ritornati alle Torricelle, lasciato Padova in su la destra
e girando alla sinistra verso la montagna, si fermorno in su la
Brenta accanto alla montagna, a dieci miglia di Vicenza; condottisi
in quel luogo perché i tedeschi desideravano di occupare la Scala,
passo opportuno per le genti che avevano a venire di Germania, e che
solo di tutte le terre da Trevigi insino a Vicenza rimaneva in mano
de' viniziani. Dal quale alloggiamento partito il principe di Analt,
co' tedeschi e con cento lancie franzesi, si dirizzò alla Scala
lontana venti miglia; ma non potendo passare innanzi, perché i
villani pieni di incredibile affezione verso i viniziani, e in tanto
che. fatti prigioni, eleggevano piú tosto di morire che di rinnegare
o bestemmiare il nome loro, avevano occupato molti passi nella
montagna, ottenuto per accordo Castelnuovo, passo medesimamente
della montagna, se ne ritornò allo alloggiamento della Brenta;
avendo mandato molti fanti per altra via verso la Scala: i quali,
secondo l'ordine avuto da lui, schifando la via di Bassano per
sfuggire il Covolo, passo forte in quelle montagne, girorno piú
basso per il cammino di Feltro; e trovato in Feltro pochissima gente
e saccheggiatolo e abbruciatolo, si condusseno al passo della Scala,
il quale insieme con quello del Covolo trovorno abbandonato da
ciascuno. Né erano in questo tempo minori ruine nel paese del
Friuli, perché assaltato ora da' viniziani ora da' tedeschi, ora
difeso ora predato da' gentiluomini del paese, e facendosi ora
innanzi questi ora ritirandosi quegli secondo l'occasione, non si
sentiva per tutto altro che morti, sacchi e incendi; accadendo che
spesso uno luogo medesimo saccheggiato prima da una parte fu poi
saccheggiato e abbruciato dall'altra: e da pochissimi luoghi, che
erano forti, in fuora, sottoposto tutto il resto a questa miserabile
distruzione. Le quali cose non avendo avuto in sé fatto alcuno
memorabile, sarebbe superfluo raccontare particolarmente e
fastidioso a intendere tanto varie rivoluzioni, le quali non
partorivano effetto alcuno alla somma e importanza della guerra.
Ma approssimandosi il tempo determinato alla partita dell'esercito
franzese, fu di nuovo convenuto tra Cesare e il re di Francia che
l'esercito suo soprasedesse per tutto 'l mese seguente, ma che le
spese straordinarie (cioè quelle che corrono oltre al pagamento
delle genti), le quali aveva insino ad allora pagate il re, si
pagassino per l'avvenire da Cesare, e similmente i fanti per il mese
predetto; ma, perché Cesare non aveva danari, che, fatto il calcolo
quel che importassino queste spese, il re gli prestasse, computate
queste spese, insino in cinquantamila ducati; e che se Cesare non
restituiva, infra uno anno prossimo, questi e gli altri
cinquantamila che gli erano stati prestati prima, il re avesse,
insino ne fusse rimborsato, a tenere in mano Verona con tutto il suo
territorio.
Avuto Ciamonte il comandamento dal re di soprasedere, voltò l'animo
all'espugnazione di Monselice; e perciò, subito che furno unite co'
tedeschi quattrocento lancie spagnuole guidate dal duca di Termini,
le quali mandate dal re cattolico in aiuto di Massimiliano avevano,
secondo le consuete arti loro, camminato tardissimamente, gli
eserciti, passato il fiume della Brenta e dipoi alla villa della
Purla il fiume del Bacchiglione, presso a cinque miglia di Padova,
arrivorono a Monselice; avendo in questo tempo patito molto nelle
vettovaglie e ne' saccomanni, per le correrie de' cavalli che erano
in Padova e in Monselice: da' quali anche fu preso Sonzino Benzone
da Crema condottiere del re di Francia, che con pochi cavalli andava
a rivedere le scorte; il quale, perché era stato autore della
ribellione di Crema, Andrea Gritti, avendo piú in considerazione
l'essere suddito de' viniziani che l'essere soldato degl'inimici,
fece subito impiccare. Sorge nella terra di Monselice, posta nella
pianura, come uno monte di sasso (dal quale è detta Monselice) che
si distende molto in alto; nella sommità del quale è una rocca, e
per il dosso del monte, che tuttavia si ristrigne, sono tre procinti
di muraglia, il piú basso de' quali abbraccia tanto spazio che a
difenderlo da esercito giusto sarebbeno necessari duemila fanti.
Abbandonorno gli inimici subitamente la terra; nella quale
alloggiati i franzesi piantorno l'artiglieria contro al primo
procinto, con la quale essendosi battuto assai e da piú lati, i
fanti spagnuoli e guasconi cominciorono senza ordine ad accostarsi
alla muraglia, tentando di salire dentro da molte parti. Eranvi a
guardia settecento fanti; i quali, pensando fusse battaglia ordinata
né essendo sufficienti per il numero a potere resistere quando
fussino assaltati da piú luoghi, fatta leggiera difesa cominciorono
a ritirarsi, per deliberazione fatta, secondo si credé, prima tra
loro: ma lo feciono tanto disordinatamente che gli inimici che erano
già cominciati a entrare dentro, scaramucciando con loro e
seguitandogli per la costa, entrorno seco mescolati negli altri due
procinti e dipoi insino nel castello della fortezza; dove essendo
ammazzata la maggiore parte di loro, gli altri, ritiratisi nella
torre e volendo arrendersi salve le persone, non erano accettati da'
tedeschi: i quali dettono alla fine fuoco al mastio della torre, in
modo che di settecento fanti con cinque conestabili, e principale di
tutti Martino dal Borgo a San Sepolcro di Toscana, se ne salvorono
pochissimi; avendo ciascuno minore compassione della loro calamità
per la viltà che avevano usata. Né si dimostrò minore la crudeltà
tedesca contro agli edifici e alle mura, perché non solo, per non
avere gente da guardarla, rovinorono la fortezza di Monselice ma
abbruciorono la terra. Dopo il qual dí non feceno piú questi
eserciti cosa alcuna importante, eccetto che una correria di
quattrocento lancie franzesi insino in su le porte di Padova.
Partí in questo tempo medesimo dal campo il duca di Ferrara e con
lui Ciattiglione, mandato da Ciamonte con dugento cinquanta lancie
per la custodia di Ferrara, dove era non piccola sospezione per la
vicinità delle genti del pontefice: e nondimeno i tedeschi
stimolavano Ciamonte che, secondo che prima si era trattato tra
loro, andasse a campo a Trevigi, dimostrando essere di piccola
importanza le cose fatte con tanta spesa se non si espugnava quella
città, perché di potere spugnare Padova non s'avea speranza alcuna.
Ma in contrario replicava Ciamonte: non essere passato Cesare contro
a' viniziani con quelle forze che avea promesse, quegli che erano
congiunti seco essere ridotti a piccolo numero, in Trevigi essere
molti soldati, la città munita con grandissime fortificazioni, non
si trovare piú nel paese vettovaglie ed essere molto difficile il
condurne di luoghi lontani al campo per le assidue molestie de'
cavalli leggieri e degli stradiotti de' viniziani; i quali, avvisati
per la diligenza de' villani di ogni piccolo loro movimento ed
essendo tanto numero, apparivano sempre dovunque potessino
danneggiargli. Levò queste disputazioni nuovo comandamento venuto di
Francia a Ciamonte che, lasciate quattrocento lancie e mille
cinquecento fanti spagnuoli, pagati dal re, in compagnia de'
tedeschi, oltre a quegli che erano alla guardia di Lignago,
ritornasse subito coll'esercito nel ducato di Milano: perché già,
per opera del pontefice, si cominciavano a scoprire molte molestie e
pericoli. Però Ciamonte, lasciato Persis al governo di queste genti,
seguitò il comandamento del re; e i tedeschi, diffidando di potere
fare piú effetto alcuno importante, si fermorono a Lunigo.
Lib.9, cap.5
Cresce sempre piú l'odio del pontefice contro il re di Francia per
la protezione di questo al duca di Ferrara. Nuove manifestazioni
dell'avversione del pontefice al duca ed al re. Sospetti e gelosia
di Ferdinando d'Aragona per il re di Francia.
Aveva il pontefice propostosi nell'animo, e in questo fermati
ostinatamente tutti i pensieri suoi, non solo di reintegrare la
Chiesa di molti stati, i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre
a questo di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in
Italia; movendolo o occulta e antica inimicizia che avesse contro a
lui o perché il sospetto avuto tanti anni si fusse convertito in
odio potentissimo, o la cupidità della gloria di essere stato, come
diceva poi, liberatore di Italia da' barbari. A questi fini aveva
assoluto dalle censure i viniziani, a questi fini fatta la
intelligenza e stretta congiunzione co' svizzeri; simulando di
procedere a queste cose piú per sicurtà sua che per desiderio di
offendere altri: a questi fini, non avendo potuto rimuovere il duca
di Ferrara dalla divozione del re di Francia, aveva determinato di
fare ogni opera per occupare quello ducato, pretendendo di muoversi
solamente per le differenze delle gabelle e de' sali. E nondimeno,
per non manifestare totalmente, insino che avesse le cose meglio
preparate, i suoi pensieri, trattava continuamente con Alberto Pio
di concordarsi col re di Francia; il quale, persuadendosi non avere
seco altra differenza che per causa della protezione del duca di
Ferrara e desideroso sopramodo di fuggire la sua inimicizia,
consentiva, di fare con lui nuove convenzioni, riferendosi a
capitoli di Cambrai, ne' quali si esprimeva che nessuno de'
confederati potesse ingerirsi nelle cose appartenenti alla Chiesa, e
inserendovi tali parole e tali clausule che al pontefice fusse
lecito procedere contro al duca quanto apparteneva alle
particolarità de' sali e delle gabelle, a' quali fini solamente
pensava il re distendersi i pensieri suoi: interpretando talmente
l'obligo che avea della protezione del duca, che e' paresse quasi
potesse convenire in questo modo lecitamente. Ma quanto piú il re si
accostava alle dimande del pontefice tanto piú egli si discostava:
non lo piegando in parte alcuna la morte succeduta del cardinale di
Roano, perché a quegli che, arguendo essere finito il sospetto, lo
confortavano alla pace rispondeva vivere il medesimo re e però
durare il medesimo sospetto; allegando in confermazione di queste
parole, sapersi che l'accordo fatto dal cardinale di Pavia era stato
violato del re per propria sua deliberazione, contro alla volontà e
consiglio del cardinale di Roano: anzi, a chi piú perspicacemente
considerò i progressi suoi, parve se ne accrescessino il suo animo e
le speranze. Né senza cagione: perché, essendo tali le qualità del
re che aveva piú bisogno di essere retto che e' fusse atto a
reggere, non è dubbio che la morte di Roano indebolí molto le cose
sue; conciossiaché in lui oltre alla lunga esperienza fusse nervo
grande e valore, e tanta autorità appresso al re che quasi non mai
si discostasse dal consiglio suo, donde egli confidando nella
grandezza sua ardiva spesse volte risolvere e dare forma alle cose
per se stesso; condizione che non militando in alcuno di quegli che
succedettono nel governo, non ardivano non che deliberare ma né pure
di parlare al re di cose che gli fussino moleste, né egli prestava
la medesima fede a' consigli loro; ed essendo piú persone e avendo
rispetto l'uno a l'altro, né confidandosi all'autorità ancora nuova,
procedevano piú lentamente e piú freddamente che non ricercava la
importanza delle cose presenti e che non sarebbe stato necessario
contro alla caldezza e impeto del pontefice. Il quale, non
accettando niuno dei partiti proposti dal re, lo ricercò alla fine
apertamente che rinunziasse, non con condizione o limitazione ma
semplicemente e assolutamente, alla protezione presa del duca di
Ferrara; e cercando il re di persuadergli essergli di troppa infamia
una tale rinunziazione, rispose in ultimo che, poi che il re
recusava di renunziare semplicemente, non voleva convenire seco né
anche essergli opposito, ma conservandosi libero da ogni obligazione
con ciascuno, attenderebbe a guardare quietamente lo stato della
Chiesa: lamentandosi piú che mai del duca di Ferrara che, confortato
da amici suoi a soprasedere di fare il sale, aveva risposto non
potere seguitare questo consiglio per non pregiudicare alle ragioni
dello imperio, al quale apparteneva il dominio diretto di Comacchio.
Ma fu oltre a questo dubitazione e opinione di molti, la quale in
progresso di tempo si augumentò, che Alberto Pio imbasciadore del re
di Francia, non procedendo sinceramente nella sua legazione,
attendesse a concitare il pontefice contro al duca di Ferrara;
movendolo il desiderio ardentissimo, nel quale continuò insino alla
morte, che Alfonso fusse spogliato del ducato di Ferrara: perché
avendo Ercole padre di Alfonso ricevuto, non molti anni avanti, da
Giberto Pio la metà del dominio di Carpi, datogli in ricompenso il
castello di Sassuolo con alcune altre terre, dubitava Alberto di non
avere (come bisogna spesso che 'l vicino manco potente ceda alla
cupidità del piú potente) a cedergli alla fine l'altra metà che
apparteneva a sé. Ma quel che di questo sia la verità, il pontefice,
dimostrando segni piú implacabili contro ad Alfonso e avendo già in
animo di muovere l'armi, si preparava di procedergli contro con le
censure, attendendo di giustificare i fondamenti, e specialmente
avendo trovato, secondo diceva, nelle scritture della camera
apostolica la investitura fatta da' pontefici alla casa da Esti
della terra di Comacchio.
Questi erano palesemente gli andamenti del pontefice; ma
occultamente trattava di cominciare movimenti molto maggiori,
parendogli avere fondato le cose sue con l'amicizia de' svizzeri,
con l'essere in piede i viniziani e ubbidienti a' cenni suoi, vedere
inclinato a' medesimi fini o almeno non congiunto col re di Francia
sinceramente il re di Aragona, deboli in modo le forze e l'autorità
di Cesare che non gli dava causa di temerne, né essendo senza
speranza di potere concitare il re di Inghilterra. Ma sopratutto gli
accresceva l'animo quello che arebbe dovuto mitigarlo, cioè il
conoscere che il re di Francia, aborrente di fare la guerra con la
Chiesa, desiderava sommamente la pace; in modo che gli pareva che
sempre dovesse essere in potestà sua il fare concordia seco,
eziandio poiché gli avesse mosso contro l'armi. Per le quali cose
diventando ogni dí piú insolente, e moltiplicando scopertamente
nelle querele e nelle minaccie contro al re di Francia e contro al
duca di Ferrara, recusò il dí della festività di san Piero, nel
quale dí secondo l'antica usanza si offeriscono i censi dovuti alla
sedia apostolica, accettare il censo dal duca di Ferrara; allegando
che la concessione di Alessandro sesto, che nel matrimonio della
figliuola l'aveva da quattromila ducati ridotto a cento, non era
valida in pregiudicio di quella sedia: e nel dí medesimo, avendo
prima negato licenza di ritornarsene in Francia al cardinale di Aus
e agli altri cardinali franzesi, inteso che quello di Aus era uscito
con reti e con cani in campagna, avendo sospetto vano che
occultamente non si partisse, mandato precipitosamente a pigliarlo,
lo ritenne prigione in Castel Santo Agnolo. Cosí, già scoprendosi in
manifesta contenzione col re di Francia, e però costretto tanto piú
a fare fondamenti maggiori, concedette al re cattolico la
investitura del regno di Napoli, col censo medesimo col quale
l'avevano ottenuta i re di Aragona; avendo prima negato di
concederla se non col censo di quarantottomila ducati, col quale
l'avevano ottenuta i re franzesi: seguitando il pontefice in questa
concessione non tanto l'obligazione la quale, secondo il consueto
dell'antiche investiture, gli fece quel re di tenere ciascuno anno
per difesa dello stato della Chiesa, qualunque volta ne fusse
ricercato, trecento uomini d'arme, quanto il farselo benevolo: e la
speranza che questi aiuti potessino, in qualche occasione, essere
cagione di condurlo a inimicizia aperta col re di Francia. Della
quale erano già sparsi i semi, perché il re cattolico, insospettito
della grandezza del re di Francia, e ingelosito della sua ambizione,
poiché non contento a' termini della lega di Cambrai cercava di
tirare sotto il dominio suo la città di Verona, mosso ancora dalla
antica emulazione, desiderava non mediocremente che qualche
impedimento s'opponesse alle cose sue; e perciò non cessava di
confortare la concordia tra Cesare e i viniziani, molto desiderata
dal pontefice: nelle quali cose benché occultissimamente procedesse
non era possibile che del tutto si coprissino i pensieri suoi; onde
essendo sorta in Sicilia la sua armata, destinata ad assaltare
l'isola delle Gerbe (è questa appresso a' latini la Sirte maggiore),
faceva sospetto al re e metteva negli animi degli uomini, consci
della astuzia sua, diverse dubitazioni.
Lib.9, cap.6
Disegni del pontefice contro il re di Francia. Inizi della guerra
contro Ferrara. Insuccesso della spedizione veneto pontificia contro
Genova. Successi dell'esercito pontificio nel ferrarese.
Ma cominciorono al re di Francia le molestie onde manco pensava, e
in tempo che non pareva che alcuno movimento d'arme potesse essere
preparato contro a sé. Perché il pontefice, procedendo con
grandissimo secreto, trattava che in uno tempo medesimo fusse
assaltata Genova per terra e per mare, e che nel ducato di Milano
scendessino dodicimila svizzeri, che i viniziani unite tutte le
forze loro si movessino per ricuperare le terre che si tenevano per
Cesare, e che l'esercito suo entrasse nel territorio di Ferrara, con
intenzione di farlo dipoi passare nel ducato di Milano se a'
svizzeri cominciassino a succedere le cose felicemente: sperando che
Genova, assaltata all'improviso, avesse facilmente a fare mutazione,
per la volontà di molti avversa allo imperio de' franzesi e perché
si solleverebbe la parte Fregosa, procedendosi sotto nome di fare
doge Ottaviano, il padre e il zio del quale erano stati nella
medesima degnità; che i franzesi, spaventati per il movimento di
Genova e assaltati da' svizzeri, rivocherebbono nel ducato di Milano
tutte le genti che aveano in aiuto di Cesare e del duca di Ferrara,
onde i viniziani facilmente ricupererebbono Verona, e recuperatala
procederebbono contro al ducato di Milano; il medesimo farebbono le
genti sue, ottenuta facilmente, come sperava, Ferrara abbandonata
dagli aiuti de' franzesi; talmente che non potrebbe difendersi
contro a tanti inimici, e da una guerra tanto repentina, lo stato di
Milano.
Cominciò in un tempo medesimo la guerra contro a Ferrara e contro a
Genova. Perché, con tutto che 'l duca di Ferrara, contro al quale
procedeva, per accelerare l'esecuzione, come contro a notorio
delinquente, gli offerisse di dargli i sali fatti a Comacchio e
obligarsi che non vi se ne lavorasse in futuro, licenziati di corte
i suoi oratori, mosse le genti contro a lui; le quali, con la
denunzia solamente di uno trombetto ottennono, non le difendendo
Alfonso, Cento e la Pieve: le quali castella, appartenenti prima al
vescovado di Bologna, erano state da Alessandro, nel matrimonio
della figliuola, applicate al ducato di Ferrara; data ricompensa a
quel vescovado di altre entrate. Contro a Genova andorno undici
galee sottili de' viniziani, delle quali era capitano Grillo
Contareno, e una di quelle del pontefice, in sulle quali erano
Ottaviano Fregoso Ieronimo Doria e molti altri fuorusciti, e nel
tempo medesimo per terra Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme
e settecento fanti; il quale, partitosi dagli stipendi de'
fiorentini e soldato dal pontefice, si era fermato nel territorio di
Lucca sotto nome di fare la compagnia, spargendo voce d'avere poi a
passare a Bologna: la stanza del quale benché avesse dato a Ciamonte
qualche sospetto delle cose di Genova, nondimeno, non sapendo dovere
venire l'armata, ed essendosi astutamente, per opera del pontefice,
divulgato che le preparazioni per muoversi che già facevano i
svizzeri e il soprasedere di Marcantonio fussino per assaltare
all'improviso Ferrara, non aveva Ciamonte fatto altra provisione a
Genova che di mandarvi pochi fanti. Accostossi Marcantonio con le
sue genti in val di Bisagna, uno miglio presso alle mura di Genova,
con tutto non fusse stato ricevuto, come il pontefice si era
persuaso, né in Serezana né nella terra della Spezie; e nel tempo
medesimo l'armata di mare, che aveva occupato Sestri e Chiaveri, era
venuta da Rapalle alla foce del fiume Entello, che entra in mare
appresso al porto di Genova. Nella quale città, al primo romore
dello appropinquarsi degli inimici, era entrato in favore del re di
Francia con ottocento uomini del paese il figliuolo di Gianluigi dal
Fiesco, e con numero non minore uno nipote del cardinale del Finale;
per i quali presidi essendo confermata la città non vi si fece
dentro movimento alcuno: onde cessata la speranza principale de'
fuorusciti e del pontefice, e sopravenendovi tuttavia gente di
Lombardia e della riviera di ponente, ed essendo entrato nel porto
Preianni con sei galee grosse, parve senza frutto e non senza
pericolo il dimorarvi piú; in modo che e l'armata di mare e il
Colonna per terra si ritirorono a Rapalle, tentato nel ritorno di
occupare Portofino, dove fu morto Francesco Bollano, padrone di una
galea de' viniziani. E partendosi dipoi l'armata per ritirarsi a
Civitavecchia, Marcantonio Colonna, non confidando di potere
condursi salvo per terra perché era sollevato tutto il paese,
ardente, secondo l'usanza de' villani, contro a' soldati quando
disfavorevolmente si ritirano, montato in su le galee con sessanta
cavalli de' migliori, rimandò gli altri per terra alla Spezie; i
quali furono, la maggiore parte, in quel di Genova, dipoi in quel di
Lucca e ne' confini de' fiorentini, svaligiati. Passò questo assalto
con piccola laude di Grillo e di Ottaviano, perché per timore si
astennono da investire l'armata di Preianni, alla quale superiori,
si credette che innanzi entrasse nel porto l'arebbono con vantaggio
grande assaltata. Uscí del porto di Genova, dopo la partita loro, il
Preianni con sette galee e quattro navi, seguitando l'armata
viniziana; la quale, superiore di galee, era inferiore di numero di
navi e meglio armate. Toccò l'una e l'altra all'isola dell'Elba, la
viniziana in Portolungaro, la franzese in Portoferrato; e dipoi
l'armata franzese, costeggiata la inimica insino al monte Argentaro,
si ritornò a Genova.
Erano in questo tempo le genti del pontefice, sotto il duca
d'Urbino, entrate contro al duca di Ferrara in Romagna; dove, avendo
preso la terra di Lugo, Bagnacavallo e tutto quello che il duca
teneva di qua dal Po, erano a campo alla rocca di Lugo. Alla quale
mentre che stanno con poca diligenza e poco ordine, sopravenendo
avviso che il duca di Ferrara, con le genti franzesi e con cento
cinquanta uomini d'arme de' suoi, con molti cavalli leggieri e con
tremila fanti tra guasconi spagnuoli e italiani, veniva per
soccorrerla, il duca d'Urbino, levatosi subitamente e lasciate in
preda agli inimici tre bocche d'artiglierie, si ritirò a Imola; e
Alfonso con questa occasione recuperò tutto quello che in Romagna
gli era stato occupato. Ma rimessosi in ordine e ingrossato di nuovo
il campo ecclesiastico, ripigliò facilmente le terre medesime; e
poco dipoi pigliò la rocca di Lugo, dopo averla battuta molti dí: la
quale spugnata, si presentò loro occasione di maggiore successo.
Perché non essendo in Modona presidio alcuno, non avendo il duca,
occupato nella difesa dell'altre cose ove il pericolo era piú
propinquo, potuto provedervi da se stesso né ottenere da Ciamonte
che vi mandasse dugento lancie, il cardinale di Pavia, passato con
l'esercito a Castelfranco, ottenne subitamente d'accordo quella
città; invitato a andarvi da Gherardo e Francesco Maria conti de'
Rangoni, gentiluomini modonesi, di tale autorità che ne potevano,
massime Gherardo, disporre ad arbitrio loro: i quali si mosseno,
secondo si credette, piú per ambizione e per cupidità di cose nuove
che per altra cagione. Perduta Modona, il duca, temendo che Reggio
non facesse il medesimo, vi messe subito gente; e Ciamonte, facendo
dopo il danno ricevuto quel che piú utilmente arebbe fatto da
principio, vi mandò dugento lancie: con tutto che già fusse occupato
per il movimento de' svizzeri.
Lib.9, cap.7
Gli svizzeri soldati dal pontefice giungono a Varese. Azione de'
francesi contro gli svizzeri. Ritirata degli svizzeri.
Era molti mesi prima finita la confederazione tra i svizzeri e il re
di Francia, avendo il re perseverato nella sentenza di non
accrescere loro le pensioni (benché contro al consiglio di tutti i
suoi, i quali gli ricordavano considerasse di quanta importanza
fusse il farsi inimiche quelle armi colle quali prima avea
spaventato ciascuno); e perciò essi, sollevati dalla autorità e
promesse del pontefice e istigati dal vescovo di Sion, e
accendendogli sopratutto lo sdegno, per le dimande negate, contro al
re, aveano con consentimento grande della moltitudine, in una dieta
tenuta a Lucerna deliberato di muoversi contro a lui. Il movimento
de' quali avendo presentito Ciamonte avea posto guardia a' passi
verso Como, rimosso del lago tutte le barche, ritirato le
vettovaglie a' luoghi sicuri e levato i ferramenti de' mulini; e
incerto se i svizzeri volessino scendere nello stato di Milano o,
calato il monte di San Bernardo, entrare per Val di Augusta nel
Piemonte per andare a Savona, con intenzione di molestare le cose di
Genova, o di condursi di quivi, passato lo Apennino, contro al duca
di Ferrara, aveva indotto il duca di Savoia a negare loro il passo
e, per potergli impedire, mandato di consentimento suo a Ivrea
cinquecento lancie: non cessando però in questo mezzo di fare ogni
opera per corrompere con doni o con promesse i príncipi della
nazione, per divertirgli da questo moto. Ma questo vanamente si
tentava, tanto odio avevano e tanto erano concitati, massime la
moltitudine, contro al nome del re di Francia: talmente che,
reputando la causa quasi propria, non ostante le difficoltà che
aveva il pontefice di mandare loro denari (perché i Fucheri,
mercatanti tedeschi, che avevano prima promesso di pagargli, aveano
poi ricusato, per non offendere l'animo del re de' romani), si
mossono al principio di settembre seimila, soldati dal pontefice,
tra' quali erano quattrocento cavalli, la metà scoppiettieri, dumila
cinquecento fanti con gli scoppietti e cinquanta con gli archibusi,
senza artiglieria senza provedimento o di ponti o di navi; e
voltatisi al cammino di Bellinzone, e preso il ponte della Tresa
abbandonato da seicento fanti de' franzesi che vi erano alla
guardia, si fermorno a Varese, per aspettare, secondo publicavano,
il vescovo di Sion con nuove genti.
Turbava molto questa cosa l'animo de' franzesi, e per il terrore
ordinario che avevano de' svizzeri e piú particolarmente perché
allora era piccolo numero di gente d'arme a Milano; essendone
distribuita una parte alla guardia di Brescia, Lignago, Valeggio e
Peschiera, trecento lancie erano andate in aiuto al duca di Ferrara,
cinquecento congiunte con l'esercito tedesco contro a' viniziani:
nondimeno Ciamonte, ristrette le forze sue, venne con cinquecento
lancie e quattromila fanti nel piano di Castiglione distante da
Varese due miglia; avendo mandato nel monte di Brianza Gianiacopo da
Triulzi, acciocché non tanto con la gente che menò seco, che fu
piccola quantità, quanto col favore degli uomini del paese si
sforzasse di impedire che i svizzeri non facessino quel cammino. I
quali, subito che arrivorono a Varese, avevano mandato a dimandare
il passo a Ciamonte, dicendo volere andare in servigio della Chiesa;
e perciò si dubitava che o per il ducato di Milano volessino passare
a Ferrara, per il quale cammino, oltre alle opposizioni delle genti
franzesi, arebbono avuto la difficoltà di passare i fiumi del Po e
dell'Oglio, o che volgendosi a mano sinistra girassino per le
colline sotto Como e dipoi sotto Lecco, per passare Adda in quegli
luoghi dove è stretto e poco corrente, e che dipoi per le colline
del bergamasco e del bresciano, passato il fiume dell'Oglio,
scendessino o per il bresciano o per la Ghiaradadda nel mantovano,
paese largo e dove non si trovavano terre o fortezze che gli
potessino impedire: e in qualunque di questi casi era la intenzione
di Ciamonte, ancora che scendessino nella pianura (tanta era la
riputazione della ferocia e della ordinanza di quella nazione), di
non gli assaltare, ma uniti insieme i cavalli e i fanti e con molte
artiglierie da campagna andargli costeggiando, per impedire loro le
vettovaglie e difficultare, in quanto si potesse fare senza tentare
la fortuna, i passi de' fiumi. E in questo mezzo, avendo bene
proveduti di cavalli e di fanti i luoghi vicini a Varese, col fare
nascere spesso la notte romori vani e costrignergli a dare all'arme,
gli tenevano infestati tutta la notte.
A Varese, dove già si pativa molto di vettovaglie, si unirno di
nuovo insieme cogli altri quattromila svizzeri; dopo la venuta de'
quali il quarto dí tutti si mossono verso Castiglione e si voltorono
alla mano sinistra per le colline, camminando sempre stretti e in
ordinanza con lento passo, essendo in ciascuna fila ottanta o cento
di loro e nell'ultime file tutti gli scoppiettieri e gli
archibusieri: col quale modo procedendo si difendevano valorosamente
dallo esercito franzese, il quale gli andava continuamente
costeggiando e scaramucciando alla fronte e alle spalle; anzi
uscivano spesso cento o centocinquanta svizzeri dello squadrone per
andare a scaramucciare, andando, stando e ritirandosi senza che
nascesse nella loro ordinanza uno minimo disordine. Arrivorono con
questo ordine il primo dí al passo del ponte di Vedan, guardato dal
capitano Molard co' fanti guasconi; donde avendolo fatto ritirare
con gli scoppietti, alloggiorono la notte ad Appiano distante otto
miglia da Varese; e Ciamonte si fermò ad Assaron, villa grossa verso
il monte di Brianza lontana sei miglia da Appiano. Il dí seguente si
dirizzorno per le colline al cammino di Cantú, costeggiandogli pure
Ciamonte con dugento lancie, perché, per l'asprezza de' luoghi,
l'artiglierie e alla guardia di quelle i fanti erano restati piú al
basso: e nondimeno, a mezzo il cammino, o per le molestie, come si
gloriava Ciamonte, avute il dí da' franzesi o perché tale fusse
stato il disegno loro, lasciato il cammino di Cantú, voltatisi piú
alla sinistra, si andorono per luoghi alti ritirando verso Como; in
uno borgo della quale città e nelle ville vicine alloggiorono quella
notte. Dal borgo di Como feciono l'altro alloggiamento al Chiasso,
tre miglia piú innanzi, tenendo sospesi i franzesi se per la valle
di Lugana se ne ritornerebbeno a Bellinzone o se pure si
condurrebbeno in su l'Adda, dove benché non avessino ponte era
opinione di molti che si sforzerebbono passare tutti il fiume in uno
tempo medesimo in su foderi di legname; ma levata l'altro giorno
questa dubitazione, se ne andorono ad alloggiare al ponte a Tressa,
e di quivi sparsi alle case loro; ridotti già in ultima estremità di
pane e con carestia grandissima di danari: la quale subita ritirata
si credette procedesse per la carestia di danari, per la difficoltà
del passare i fiumi e molto piú per la necessità delle vettovaglie.
Cosí si liberorono per allora i franzesi da quel pericolo, non
stimato poco da loro: ancora che il re, magnificando sopra la verità
le cose sue, affermasse stare ambiguo se fusse stato utile alle cose
il lasciargli passare, e che cosa facesse piú debole il pontefice, o
essere senza armi o avere armi che lo offendessino come
offenderebbono i svizzeri; i quali egli, con tante forze e con tanti
danari, aveva avuto infinite difficoltà a maneggiare.
Lib.9, cap.8
Rapida riconquista da parte de' veneziani delle terre
precedentemente perdute. Vano tentativo contro Verona. Liberazione
dalla prigionia del marchese di Mantova.
Ma maggiore sarebbe stato il pericolo de' franzesi se in uno tempo
medesimo fussino concorse contro a loro le offese disegnate dal
pontefice. Ma come fu prima l'assalto di Genova che il movimento de'
svizzeri cosí tardò a farsi innanzi, piú che non era disegnato,
l'esercito de' viniziani; ancora che avessino avuto molto opportuna
occasione. Perché essendo molto diminuite le genti de' tedeschi che
alla partita di Ciamonte erano restate in vicentino, con le quali
erano i fanti spagnuoli e le cinquecento lancie franzesi, l'esercito
viniziano, uscito di Padova, recuperò senza fatica Esti, Monselice,
Montagnana, Morostico, Bassano; e fattisi innanzi, ritirandosi
continuamente i tedeschi alla volta di Verona, entrorno in Vicenza
abbandonata da loro: e cosí avendo ricuperato, da Lignago in fuora,
tutto quello che con tanta spesa e travaglio de' franzesi avevano
perduto in tutta la state, vennono a San Martino a cinque miglia di
Verona; nella quale città si ritirorno gli inimici. La ritirata de'
quali non fu senza pericolo se (come affermano i viniziani) in Luzio
Malvezzo, il quale allora, per la partita di Giampagolo Baglione
dagli stipendi veneti, governava le genti loro, fusse stato maggiore
ardire: perché essendo i viniziani venuti alla villa della Torre,
gli inimici lasciate nello alloggiamento molte vettovaglie si
indirizzorono verso Verona, seguitandogli tutto l'esercito veneto e
infestandogli continuamente i cavalli leggieri; e nondimeno
sostenendo i franzesi, massime con l'artiglierie, valorosamente il
retroguardo, passato il fiume Arpano si condussono senza danno a
Villanuova, alloggiando i viniziani propinqui a mezzo miglio; e il
seguente dí non gli seguitando sollecitamente i viniziani, perché
allegavano i fanti non potere pareggiare la prestezza de' cavalli,
si ritirorno in Verona.
Da San Martino, poiché vi furono stati alquanti dí, accostatisi a
Verona, non senza biasimo che il differire fusse stato inutile,
cominciorno a battere con l'artiglierie piantate in sul monte
opposito il castello di San Felice e la muraglia vicina: eletto
forse quel luogo perché vi si può difficilmente riparare, e perché
non vi possono se non molto incomodamente adoperare i cavalli. Erano
nell'esercito veneto ottocento uomini d'arme tremila cavalli
leggieri, la maggiore parte stradiotti, e diecimila fanti, oltre a
quantità grandissima di villani; e in Verona erano trecento lancie
spagnuole, cento tra tedesche e italiane, piú di quattrocento lancie
franzesi, millecinquecento fanti pagati dal re, e quattromila
tedeschi, non piú sotto il principe di Analt morto non molti giorni
avanti; e il popolo veronese di mala disposizione contro a' tedeschi
aveva l'armi in mano, cosa nella quale aveano sperato molto i
viniziani: la cavalleria leggiera de' quali, nel tempo medesimo,
passando l'Adice a guazzo sotto Verona, scorreva per tutto il paese.
Batteva con grande impeto la muraglia l'artiglieria de' viniziani,
ancora che l'artiglieria piantata dentro da' franzesi e coperta co'
suoi ripari facesse a quegli di fuora, che non erano riparati,
gravissimo danno: da uno colpo della quale essendo state levate le
natiche a Lattanzio da Bergamo, uno de' piú stimati colonnelli de'
fanti viniziani, morí fra pochi giorni. Finalmente, avendo fatto
maraviglioso progresso l'artiglieria di fuora e rovinata una parte
grande del muro insino al principio della scarpa e battute tutte le
cannoniere in modo che l'artiglierie di dentro non potevano piú fare
effetto alcuno, non stavano i tedeschi senza timore di perdere il
castello, ancora che bene riparato; alla perdita del quale perché
non fusse congiunta la perdita della città, disegnavano, in caso di
necessità, ritirarsi a certi ripari i quali avevano fatti in luogo
propinquo, per battere subito co' loro cannoni, quali già v'avevano
tutti piantati, la facciata di dentro del castello, sperando aprirla
in modo che gli inimici non potessino fermarvisi. Ma era molto
superiore la virtú delle genti che erano in Verona, perché
nell'esercito viniziano non erano altri fanti che italiani; e
quegli, pagati per l'ordinario ogni quaranta dí, stavano a quel
servizio piú per trovare in altri luoghi piccola condizione che per
altre cagioni: conciossiaché la fanteria italiana, non assueta
all'ordinanze oltramontane né stabile in campagna, fusse allora
quasi sempre rifiutata da coloro che avevano facoltà di servirsi di
fanti forestieri, massimamente di fanti svizzeri di tedeschi e di
spagnuoli. Però, essendo con maggiore virtú sostentata la difesa che
fatta l'offesa, usciti una notte ad assaltare l'artiglieria circa
mille ottocento fanti con alcuni cavalli de' franzesi, e messi in
fuga facilmente i fanti che vi erano alla guardia, ne chiavorono due
pezzi; e sforzandosi di condurgli dentro, ed essendo già levato il
romore per tutto il campo, soccorse con molti fanti il Zitolo da
Perugia, il quale combattendo valorosamente finí la vita con molta
gloria: ma sopragiugnendo Dionigi di Naldo e la maggiore parte dello
esercito, furno costretti quegli di dentro, lasciata quivi
l'artiglieria, a ritirarsi; ma con laude non piccola, avendo da
principio rotti i fanti che la guardavano, ammazzato parte di quegli
che primi vennono al soccorso e tra gli altri il Zitolo colonnello
molto stimato di fanti, e preso Maldonato capitano spagnuolo, e
ultimamente ritiratisi salvi quasi tutti. Finalmente, i capitani
viniziani, inviliti da questo accidente né sentendo farsi per il
popolo movimento alcuno, giudicando anche non solo inutile ma
pericoloso il soprastarvi perché l'alloggiamento era male sicuro,
essendo alloggiati i fanti in sul monte e i cavalli nella valle
assai lontani da' fanti, deliberorono di ritirarsi allo
alloggiamento vecchio di San Martino: la quale deliberazione fece
accelerare il presentirsi che Ciamonte, essendo già partiti i
svizzeri, inteso il pericolo di Verona veniva a soccorrerla. Nel
levarsi il campo entrorono i saccomanni di Verona, accompagnati da
grossa scorta, nella Valle Pollienta contigua al monte di San
Felice; ma, essendo venuti al soccorso molti cavalli leggieri de'
viniziani, i quali presono la bocca della valle, furono tutti quegli
che erano usciti di Verona o ammazzati o fatti prigioni. Da San
Martino, per la fama della venuta di Ciamonte, l'esercito veneto si
ritirò a San Bonifazio. Nel quale tempo le genti che erano alla
guardia di Trevigi presono per accordo la terra di Assilio propinqua
al fiume Musone, dove erano ottocento fanti tedeschi, e poi la
rocca. E nel Friuli si procedeva con le medesime variazioni e con le
crudeltà consuete, non piú guerreggiando con gli inimici ma
attendendosi da ogni parte alla distruzione ultima degli edifici e
del paese: i quali mali consumavano medesimamente la Istria.
Succedette in questo tempo, per modo molto notabile, la liberazione
dalla carcere del marchese di Mantova, trattata dal pontefice, mosso
dalla affezione che prima gli aveva e da disegno di usare l'opera
sua e servirsi delle comodità del suo stato nella guerra contro al
re di Francia: e si credette per tutta Italia egli essere stato
causa della sua liberazione. Nondimeno io intesi già da autore degno
di fede, e per mano del quale passava allora tutto il governo dello
stato di Mantova, essere stata molto diversa la cagione. Perché
dubitandosi, come era la verità, che i viniziani, per l'odio che gli
avevano e per il sospetto che avevano di lui, non fussino inclinati
a tenerlo perpetuamente incarcerato, ed essendosi invano tentato
molti rimedi, fu determinato nel consiglio di Mantova di ricorrere a
Baiset principe de' turchi; l'amicizia del quale il marchese, col
mandargli spessi messi e vari presenti, aveva molti anni
intrattenuta. Il quale, intesa la sua calamità, chiamato a sé il
bailo de' mercatanti viniziani che negoziavano in Pera appresso a
Costantinopoli, lo ricercò gli promettesse che 'l marchese sarebbe
liberato; e recusando il bailo di promettere quel che non era in
potestà sua e offerendo scriverne a Vinegia, ove non dubitava si
farebbe deliberazione conforme al desiderio suo, Baiset
replicandogli superbamente essere la sua volontà che egli
assolutamente lo promettesse, fu necessitato a prometterlo: il che
essendo significato dal bailo a Vinegia, il senato, considerando non
essere tempo a irritare principe tanto potente, determinò di
liberarlo; ma per occultare il suo disonore, e riportare qualche
frutto della sua liberazione, prestò orecchi al desiderio del
pontefice. Per mezzo del quale essendo, benché occultamente,
conchiuso che, per assicurare i viniziani che 'l marchese non si
moverebbe loro contro, il figliuolo primogenito fusse custodito in
mano del pontefice, il marchese condotto a Bologna, poiché quivi
ebbe consegnato il figliuolo agli agenti del pontefice, liberato se
ne andò a Mantova: scusando sé appresso a Cesare e al re di Francia
se, per la necessità di riordinare lo stato suo, non andava ne' loro
eserciti a servirgli, come feudatario dell'uno e soldato dell'altro
(perché dal re di Francia gli era stata sempre conservata la solita
condotta e provisione), ma veramente avendo nell'animo di stare
neutrale.
Lib.9, cap.9
Altra vana spedizione veneto pontificia contro Genova. Ostinata
pertinacia del pontefice malgrado gli insuccessi e sua deliberazione
di recarsi a Bologna perché sian condotte piú efficacemente le
imprese. Il re di Francia pensa alla convocazione di un concilio.
Ma le cose tentate infelicemente non aveano diminuito in parte
alcuna le speranze del pontefice; il quale, promettendosi piú che
mai la mutazione dello stato di Genova, deliberò di nuovo
d'assaltarla. Però, avendo i viniziani, i quali piú per necessità
seguitavano che approvavano questi impetuosi movimenti, accresciuta
l'armata loro che era a Civitavecchia con quattro navi grosse,
persuadendosi che il nome suo inducesse piú facilmente i genovesi a
ribellarsi, aggiuntavi una sua galeazza con alcuni altri legni,
benedisse publicamente con le solennità pontificali la sua bandiera:
maravigliandosi ciascuno che, ora che scoperti i pensieri suoi erano
in Genova molti soldati e nel porto potente armata, egli sperasse
ottenere quello che non aveva ottenuto quando il porto era disarmato
e nella città pochissima guardia, né si aveva sospetto alcuno di
lui. All'armate marittime, le quali seguitavano i medesimi
fuorusciti e di piú il vescovo di Genova figliuolo di Obietto dal
Fiesco, si doveano congiugnere forze terrestri: perché Federico
arcivescovo di Salerno, fratello di Ottaviano Fregoso, soldava co'
danari del pontefice nelle terre della Lunigiana cavalli e fanti; e
Giovanni da Sassatello e Rinieri della Sassetta, suoi condottieri,
aveano avuto comandamento di fermarsi colle compagnie loro al Bagno
della Porretta, per potere quando fusse di bisogno accostarsi a
Genova. Ma in quella città erano state fatte per terra e per mare
potenti provisioni: e perciò alla fama dell'approssimarsi
dell'armata degli inimici, nella quale erano quindici galee sottili
tre galee grosse una galeazza e tre navi biscaine l'armata franzese
uscita con ventidue galee sottili del porto di Genova si fermò a
Porto Venere; facendogli sicurtà la diversità de' legni, perché,
inferiore agli inimici uniti insieme ma superiore o almeno pari di
forze alle galee, poteva sempre con la prestezza del discostarsi
salvarsi dalle navi. Accostoronsi l'armate l'una all'altra sopra
Porto Venere quanto pativa il tiro delle artiglierie, e poi che
alquanto si furono battute, l'armata del pontefice andò a Sestri di
Levante donde si presentò innanzi al porto di Genova, entrando
insino nel porto con uno brigantino Gianni Fregoso; ma essendo la
terra guardata in modo che chi era di contrario animo non poteva
fare sollevazione, e tirando gagliardamente all'armata la torre di
Codifà, fu necessitata partirsi. Andò dipoi a Portovenere, e
avendolo per parecchie ore combattuto senza frutto, disperati del
successo di tutta la impresa ritornorno a Civitavecchia: onde
partita l'armata viniziana, di consentimento del pontefice, per
ritornarsene ne' suoi mari, fu assaltata nel Faro di Messina da
gravissima tempesta; andorono a traverso cinque galee, l'altre
scorsono verso la costa di Barberia, riducendosi alla fine molto
conquassate ne porti de' viniziani. Non concorsono in questo assalto
le forze disegnate per terra: perché le genti che si soldavano di
Lunigiana, giudicando per la fama delle provisioni fatte da'
franzesi pericoloso l'entrare nella riviera di levante, non si
mossono; e quelle che erano al Bagno della Porretta, scusandosi che
i fiorentini avessino denegato loro il passo, non si feciono piú
innanzi, ma entrati nella montagna di Modona, che ancora ubbidiva al
duca di Ferrara, assaltorono la terra di Fanano: la quale benché nel
principio non ottenessino, nondimeno alla fine tutta la montagna,
non sperando essere soccorsa dal duca, si arrendé loro.
Cosí non era, insino a questo dí, riuscita al pontefice cosa alcuna
tentata contro al re di Francia: perché né le cose di Genova avevano
fatto, come egli si era promesso certissimamente, mutazione; né i
viniziani, tentata invano Verona, speravano piú di fare progresso da
quella parte; né i svizzeri, avendo piú presto mostrate che mosse
l'armi, erano passati innanzi; né Ferrara aiutata prontamente dai
franzesi, e sopravenendo la stagione del verno, si giudicava che
fusse in alcuno pericolo: solamente gli era succeduto furtivamente
l'acquisto di Modena, premio non degno di tanti moti. E nondimeno al
pontefice, ingannato di tante speranze, pareva che intervenisse
quello che di Anteo hanno lasciato gli scrittori fabulosi alla
memoria de' posteri, che quante volte domato dalle forze di Ercole
toccava la terra tanto si dimostrava in lui maggiore vigore: il
medesimo operavano l'avversità nel pontefice, che quando pareva piú
depresso e piú conculcato risorgeva con l'animo piú costante e piú
pertinace, promettendosi del futuro piú che mai; non avendo per ciò
quasi altri fondamenti che se medesimo, e il presupporsi (come
diceva publicamente) che, per non essere l'imprese sue mosse da
interessi particolari ma da mero e unico desiderio della libertà
d'Italia, avessino per l'aiuto di Dio ad avere prospero fine.
Imperocché egli, spogliato di valorose e fedeli armi, non aveva
altri amici certi che i viniziani, che correvano per necessità la
medesima fortuna; de' quali, per essere esausti di danari e oppressi
da assai difficoltà e angustie, non poteva sperare molto; e dal re
cattolico riceveva piú tosto occulti consigli che palesi aiuti,
perché secondo l'astuzia sua si intratteneva con Massimiliano e col
re di Francia, facendo a lui varie promesse ma sospese da molte
condizioni e dilazioni. La diligenza e fatiche usate con Cesare per
alienarlo dalla amicizia del re di Francia e indurlo a concordia co'
viniziani apparivano del continuo piú inutili; perché Cesare, quando
l'esercito del pontefice si mosse contro al duca di Ferrara, v'aveva
mandato uno araldo a protestare che non lo molestassino, ed essendo
andato in nome del pontefice Costantino di Macedonia per trattare
tra lui e i viniziani aveva ricusato udirlo, e dimostrando di volere
unirsi maggiormente col re di Francia ordinava di mandargli, per
convenire seco della somma delle cose, il vescovo Gurgense: né gli
elettori dello imperio, benché inclinati al nome del pontefice e
alla divozione della sedia apostolica, alieni dallo spendere e volti
co' pensieri loro solo alle cose di Germania, erano di momento in
questi travagli. Poco piú pareva potesse sperare del re
d'Inghilterra, benché giovane e desideroso di cose nuove, e che
faceva professione di amare la grandezza della Chiesa e che aveva
non senza inclinazione d'animo udite le sue imbasciate; perché,
essendo separato da Italia per tanto spazio di terra e di mare, non
poteva solo deprimere il re di Francia: oltre che, aveva ratificato
la pace fatta con lui e per una solenne imbasceria, che a questo
effetto gli mandò, ricevuta la sua ratificazione. Nessuno
certamente, avendo sí deboli fondamenti e tanti ostacoli, non arebbe
rimesso l'animo; avendo massime facoltà di ottenere la pace dal re
di Francia, con quelle condizioni che, vincitore, appena arebbe
dovuto desiderare maggiori. Perché il re consentiva di abbandonare
la protezione del duca di Ferrara, se non direttamente, per onore
suo, almanco indirettamente, rimettendola di giustizia ma in giudici
che avessino pronunziato secondo la volontà del pontefice; il quale,
come fu certo di potere ottenere questo, aggiunse volere che oltre a
questo lasciasse libera Genova: procedendo in queste cose con tanta
pertinacia che nessuno, eziandio de' suoi piú intrinsechi, ardiva di
parlargli in contrario; anzi, tentato per ordine del re dallo
oratore de' fiorentini, si alterò maravigliosamente; ed essendo
venuto a lui per altre faccende uno uomo del duca di Savoia, e
offerendo che il suo principe, quando gli piacesse, si
intrometterebbe in qualche pratica di pace, proruppe in tanta
indegnazione che, esclamando che era stato mandato per spia non per
negoziatore, lo fece sopra questo incarcerare ed esaminare con
tormenti. E finalmente, diventando ogni dí piú feroce nelle
difficoltà e non conoscendo né impedimenti né pericoli, risoluto di
fare ogni opera possibile per pigliare Ferrara e omettere per allora
tutti gli altri pensieri, deliberò di trasferirsi personalmente a
Bologna, per strignere piú con la sua presenza e dare maggiore
autorità alle cose, e accrescere la caldezza de' capitani inferiore
allo impeto suo; affermando che a espugnare Ferrara gli bastavano le
forze sue e de' viniziani: i quali, temendo che alla fine, disperato
di buono successo, non si concordasse col re di Francia, si
sforzavano di persuadergli il medesimo.
Da altra parte il re di Francia, già certo per tante esperienze
dell'animo del pontefice contro a sé, e conoscendo essere necessario
provedere che non sopravenissino allo stato suo nuovi pericoli,
deliberò di difendere il duca di Ferrara, stabilire quanto poteva la
congiunzione con Cesare, e col consentimento suo perseguitare con
l'armi spirituali il pontefice; e sostentate le cose insino alla
primavera, passare allora in Italia personalmente con potentissimo
esercito, per procedere o contro a' viniziani o contro al pontefice,
secondo lo stato delle cose. Perciò, proponendo a Cesare non solo di
muoversi altrimenti che per il passato contro a' viniziani ma ancora
di aiutarlo, secondo si sapeva essere suo antico desiderio, a
occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa come appartenente di
ragione allo imperio, e similmente tutta Italia, dal ducato di
Milano, Genova, lo stato de' fiorentini e del duca di Ferrara in
fuora, lo indusse facilmente nella sentenza sua; e specialmente che
si chiamasse, con l'autorità di ambidue e delle nazioni germanica e
franzese, a uno concilio universale; non essendo senza speranza che,
per non avere ardire di discostarsi dalla volontà sua e di Cesare,
concorrerebbe al medesimo il re di Aragona e la nazione spagnuola:
alla qual cosa si aggiugneva un altro grandissimo fondamento, che
molti cardinali italiani e oltramontani di animo ambizioso e
inquieto promettevano di farsene scopertamente autori. Per ordinare
queste cose aspettava il re con sommo desiderio la venuta del
vescovo Gurgense, destinato a sé da Cesare; ma in questo mezzo, per
dare principio alla instituzione del concilio e levare di presente
al pontefice l'ubbidienza del suo reame, aveva fatto convocare tutti
i prelati di Francia, che a mezzo settembre convenissino nella città
di Orliens. Queste erano le deliberazioni e i preparamenti del re di
Francia, non approvati in tutto dal suo consiglio e dalla sua corte;
i quali, considerando quanto possa essere inutile il dare spazio di
tempo allo inimico, lo stimolavano a non differire il muovere
dell'armi insino al tempo nuovo: il consiglio de' quali se fusse
stato seguitato si metteva subito il pontefice in tante molestie, e
si perturbavano di maniera le cose sue, che non gli sarebbe per
avventura stato facile, come poi fu, concitare tanti príncipi contro
a lui. Ma il re perseverò in altra sentenza, o dominato dalla
avarizia o raffrenato da timore che facendo da sé solo guerra al
pontefice non si ritenessino gli altri príncipi, o avendolo forse in
orrore per essere cosa contraria al cognome del cristianissimo e
alla professione di difendere la Chiesa, che sempre ne' tempi
antichi aveano fatta i suoi predecessori.
Lib.9, cap.10
Accanimento del pontefice per prendere Ferrara. Fazione franco
veneziana presso Montagnana. I francesi minacciano Modena. Il duca
di Ferrara occupa Cento e altre terre; quindi accorre ad impedire a'
veneziani il passaggio del Po. Le armi spirituali usate dal
pontefice contro il duca di Ferrara e i suoi aderenti. Decisioni del
clero gallicano; cardinali dissidenti dal pontefice.
Entrò il pontefice in Bologna alla fine di settembre, disposto ad
assaltare con tutte le forze sue e de' viniziani Ferrara, per terra
e per acqua. Però i viniziani, ricercatine da lui, mandorono due
armate contro a Ferrara; le quali entrate nel fiume del Po, l'una
per le Fornaci l'altra per il porto di Primaro, facevano nel
ferrarese gravissimi danni: non mancando nel tempo medesimo le genti
del pontefice di scorrere e predare per tutto il paese, ma non si
accostando a Ferrara, nella quale città oltre alle genti del duca
erano dugento cinquanta lancie franzesi. Perché, se bene gli
ecclesiastici fussino pagati per ottocento uomini d'arme secento
cavalli leggieri e seimila fanti, nondimeno, oltre a essere la
maggiore parte gente collettizia, il numero (come i pontefici
comunemente sono malserviti nelle cose della guerra) era molto
minore; e si aggiugneva che, avendo Ciamonte dopo la perdita di
Modona mandate tra Reggio e Rubiera dugento cinquanta lancie e
dumila fanti, erano per comandamento del pontefice andati con
l'esercito alla guardia di Modena Marcantonio Colonna e Giovanni
Vitelli, con dugento uomini d'arme e ottocento fanti. Però il
pontefice faceva instanza che dell'esercito viniziano, il quale,
essendo molto diminuite a Verona e per tutto le forze di Cesare,
aveva senza difficoltà recuperato quasi tutto il Friuli, ne passasse
una parte nel ferrarese, che di nuovo avea recuperato il Polesine di
Rovigo, abbandonato per le molestie che il duca aveva intorno a
Ferrara. Aspettava similmente il pontefice trecento lancie
spagnuole, quali dimandate da lui per l'obligo della investitura gli
erano mandate dal re d'Aragona, sotto Fabrizio Colonna; disegnando
che, unite queste con l'esercito suo, assaltassino da una parte
Ferrara e dall'altra l'assaltassino le genti de' viniziani; e
persuadendosi che 'l popolo di Ferrara, subito che l'esercito si
accostasse alle mura, piglierebbe l'armi contro al duca: con tutto
che i capitani suoi gli dimostrassino, il presidio che vi era dentro
essere tale che facilmente poteva difendere la città contro agli
inimici e contenere il popolo, quando bene avesse inclinazione di
tumultuare. Perciò, con incredibile sollecitudine, soldava in molti
luoghi quantità grande di fanti. Ma tardavano a venire, piú che non
arebbe voluto, le genti de' viniziani; perché avendo condotto per il
Po in mantovano molte barche per gittare il ponte, il duca di
Ferrara con le genti franzesi, assaltatele allo improviso, le tolse
loro. Prese anche in certi canali del Pulesine molte barche e altri
legni, insieme col proveditore viniziano. Nel quale tempo essendo
venuto a luce uno trattato che avevano in Brescia per farla
ribellare al re di Francia, vi fu decapitato il conte Giovanmaria da
Martinengo. Ma molto piú tardavano a venire le lancie spagnuole; le
quali condotte in su' confini del regno di Napoli recusavano, per
comandamento del re loro, di passare il fiume del Tronto se prima
non si consegnava allo imbasciadore suo la bolla della investitura
conceduta: la quale il papa, sospettando che ricevuta la bolla le
genti promesse non venissino, faceva difficoltà di concedere se
prima non giugnevano a Bologna. E nondimeno, né per le ragioni
allegate da' capitani né per queste difficoltà, diminuiva della
speranza di ottenere con le sue genti sole Ferrara; attendendo con
maraviglioso vigore a tutte l'espedizioni della guerra: non ostante
che gli fusse sopravenuta nel tempo medesimo grave infermità, la
quale, reggendosi contro al consiglio de' medici, non meno che
l'altre cose disprezzava; promettendosi la vittoria di quella come
della guerra, perché affermava essere volontà divina che per opera
sua Italia si riducesse in libertà. Procurò similmente che 'l
marchese di Mantova, il quale chiamato a Bologna da lui era stato
onorato del titolo di gonfaloniere della Chiesa, si conducesse con
titolo di capitano generale agli stipendi de' viniziani,
partecipando il pontefice in questa condotta con cento uomini d'arme
e con mille dugento fanti, ma con patto che questa cosa si tenesse
occulta; ricercando cosí il marchese, sotto colore di essere
necessario che prima riordinasse e provedesse il paese suo, acciò
che i franzesi avessino minore facilità di offenderlo, ma in verità
perché il marchese, sottomettendosi a questo peso non per volontà ma
per necessità delle promesse fatte, cercava di interporre tempo
all'esecuzione per potere, con qualche occasione che sopravenisse,
liberarsene.
Ma l'ardore che aveva il pontefice di offendere altri si convertí in
necessità di difendere le cose proprie, la quale sarebbe stata
ancora piú presta e maggiore se nuovi accidenti non avessino
costretto Ciamonte a differire le sue deliberazioni. Perché, poi che
l'esercito viniziano si era levato d'intorno a Verona, Ciamonte, il
quale era venuto a Peschiera per andare a soccorrere quella città,
deliberò voltarsi subito con l'esercito alla recuperazione di
Modena, dove le genti che erano a Rubiera avevano presa la terra di
Formigine di assalto; il che se avesse fatto arebbe facilmente, come
si crede, ottenutala, perché dentro erano piccole forze, la terra
non fortificata né tutti amatori del dominio della Chiesa: ma
accadde che, quando era per muoversi, i fanti tedeschi che erano in
Verona, per essere mal pagati da Cesare, tumultuorno; onde Ciamonte,
perché non rimanesse abbandonata quella città, fu costretto a
soprasedere insino a tanto avesse fermato gli animi loro, per la
qual cosa pagò novemila ducati per lo stipendio presente e promesse
di pagargli medesimamente per il mese seguente. Ma non rimediato
prima a questo disordine, sopravenne subito un altro accidente.
Perché essendosi le genti de' viniziani ritirate verso Padova, La
Grotta che in suo nome era governatore di Lignago, parendogli avere
occasione di saccheggiare la terra di Montagnana, vi spinse tutte le
lancie e quattrocento fanti; da' quali mentre che gli uomini della
terra, impauriti del sacco, si difendono, sopravenneno molti cavalli
leggieri de' viniziani, e, trovandogli disordinati, facilmente gli
ruppono con gravissimo danno, perché era stata impedita la fuga per
la rottura fatta dagli inimici di uno ponte: per il quale caso,
essendo spogliato quasi Lignago di gente, non è dubbio che se vi si
fussino volte subito le genti viniziane l'arebbeno preso; la quale
opportunità passò presto perché Ciamonte, inteso il caso, vi mandò
con grandissima celerità nuova gente. Ma tolsono a lui questi
impedimenti l'occasione di recuperare Modena, nella quale in questo
spazio di tempo erano entrati molti fanti e fatte sollecitamente
molte reparazioni. E nondimeno, per la venuta sua a Rubiera, fu
costretto il pontefice mandare a Modena l'esercito destinato contro
a Ferrara: dove, essendo unite tutte le forze sue sotto il duca di
Urbino capitano generale, e legato il cardinale di Pavia, e
condottieri di autorità Giampaolo Baglione Marcantonio Colonna e
Giovanni Vitelli, faceva instanza che si combattesse cogli inimici;
cosa molto detestata da' capitani, perché erano senza dubbio
maggiori le forze de' franzesi e di numero e di virtú, perché la
fanteria ecclesiastica era raccolta subitamente e nell'esercito non
era né ubbidienza né ordine conveniente, e tra 'l duca di Urbino e
il cardinale di Pavia discordia manifesta. La quale procedette tanto
oltre che il duca, accusandolo di infedeltà appresso al pontefice, o
di propria autorità o per comandamento avuto da lui, lo condusse
come prigione a Bologna; ma purgate con la presenza sola tutte le
calunnie, rimase appresso a lui in maggiore grado e autorità che
prima.
Mentre che queste genti stanno a fronte l'una dell'altra, Ciamonte
alloggiato con la cavalleria a Rubiera, i fanti a Marzaglia, gli
ecclesiastici a Modena nel borgo verso Rubiera, facendosi tra loro
spesse correrie e scaramuccie, il duca di Ferrara, il quale aveva
prima senza resistenza recuperato il Polesine di Rovigo, con
Ciattiglione e con le lancie franzesi, riprese senza ostacolo il
Finale; e dipoi entrato nella terra di Cento, occupata prima dal
pontefice, per la rocca la quale si teneva per lui, la saccheggiò e
abbruciò, e si preparava per andare a unirsi con Ciamonte: per il
quale timore le genti della Chiesa si ritirorno in Modona, avendo
messo una parte delle fanterie nel borgo che è volto alla montagna.
Ma essendo il duca appena mosso, fu necessitato di fermarsi a
difendere le cose proprie; perché le genti viniziane, in numero di
trecento uomini d'arme molti cavalli leggieri e quattromila fanti,
erano venute per acquistare il passo del Po e dipoi unirsi colle
genti del pontefice, a campo a Ficheruolo, castello in sul Po,
piccolo e debole ma celebrato molto nella guerra che ebbeno i
viniziani con Ercole duca di Ferrara, per la lunga oppugnazione di
Ruberto da San Severino e per la difesa di Federigo duca di Urbino,
capitani famosissimi di quella età. Ottennonlo i viniziani per
accordo avendolo prima battuto con l'artiglierie, e dipoi presono la
terra della Stellata che è in su la riva opposita; e avendo libero
il passo del Po, non mancava a passare altro che gittare il ponte.
Il quale Alfonso, che dopo la perdita della Stellata si era con lo
esercito ridotto al Bondino, impediva si gittasse, con artiglierie
piantate in su una punta donde facilmente si batteva quel luogo; e
scorreva oltre a questo il fiume del Po con due galee. Le quali
presto si ritirorono, perché l'armata viniziana, impedita da
principio di entrare nel Po perché le bocche del fiume erano
guardate per ordine del duca, venuta per l'Adice contr'acqua vi
entrò: in modo che dalle due armate de' viniziani era infestato
gravemente il paese di Ferrara. Ma cessò presto questa molestia,
perché il duca uscito di Ferrara assaltò quella che, entrata per
Primaro, si era condotta a Adria con due galee due fuste e molte
barche minori; e rottala senza difficoltà si voltò a quella che non
avendo se non fuste e legni minori, entrata per le Fornaci, era
venuta alla Pulisella. La quale, volendo per uno rivo vicino ridursi
nello Adice, fu impedita di entrarvi per la bassezza dell'acque;
donde assaltata e battuta dall'artiglierie degli inimici, la gente
che vi era non potendo difenderla l'abbandonò, attendendo a salvare
sé e l'artiglierie.
In questi movimenti dell'armi temporali cominciavano a risentirsi da
ogni parte l'armi spirituali. Perché il pontefice avea sottoposti
publicamente alle censure Alfonso da Esti e insieme tutti quegli che
si erano mossi o moveano in aiuto suo, e nominatamente Ciamonte e
tutti i principali dell'esercito franzese: e in Francia la
congregazione de' prelati, trasferita da Orliens a Torsi, aveva,
benché piú per non si opporre alla volontà del re, che molte volte
intervenne con loro, che per propria volontà o giudicio, consentito
a molti articoli proposti contro al pontefice; modificato solamente
che, innanzi se gli levasse la obbedienza, si mandassino oratori a
fargli noti gli articoli che aveva determinati il clero gallicano e
ad ammunirlo che in futuro gli osservasse, e che in caso che dipoi
contravenisse fusse citato al concilio; al quale si facesse instanza
con gli altri príncipi che concorressino tutte le nazioni de'
cristiani. Concesseno ancora al re facoltà di fare grande
imposizione di danari sopra le chiese di Francia; e poco poi, in una
altra sessione che fu tenuta il vigesimo settimo dí di settembre,
intimorono il concilio per al principio di marzo prossimo a Lione:
nel qual dí entrò in Torsi il vescovo di Gursia, ricevuto con sí
raro ed eccessivo onore che apparí quanto la sua venuta fusse stata
lungamente desiderata e aspettata. Scoprivasi ancora già la
divisione de' cardinali contro al pontefice. Perché i cardinali di
Santa Croce e di Cosenza spagnuoli, e i cardinali di Baiosa e San
Malò franzesi, e Federigo cardinale di Sanseverino, lasciato il
pontefice che per la via di Romagna andò a Bologna, visitando per il
cammino il tempio di Santa Maria dell'Oreto nobilissimo per infiniti
miracoli, andorono con sua licenza per la Toscana; ma condotti a
Firenze e ottenuto salvocondotto da' fiorentini, non per alcuno
tempo determinato ma per insino a tanto che lo revocassino e
quindici dí dappoi che la revocazione fusse intimata, soprasedevano
con varie scuse lo andare piú innanzi: del soprastare de' quali
insospettito il pontefice, dopo molte instanze fatte che andassino a
Bologna, scrisse uno breve al cardinale di San Malò e a quello di
Baiosa e al cardinale di Sanseverino che sotto pena della sua
indignazione si trasferissino alla corte; e procedendo con piú
mansuetudine col cardinale di Cosenza e col cardinale di Santa
Croce, cardinale chiaro per nobiltà per lettere e per costumi, e per
le legazioni che in nome della sedia apostolica aveva esercitate,
gli confortò con uno breve a fare il medesimo. I quali, disposti a
non ubbidire, avendo invano tentato che i fiorentini concedessino,
non solo a loro ma a tutti i cardinali che vi volessino venire,
salvocondotto fermo per lungo tempo, se ne andorono per la via di
Lunigiana a Milano.
Lib.9, cap.11
Gli ecclesiastici perdono Carpi. Confusione e tumulto in Bologna per
l'avvicinarsi de' francesi coi Bentivoglio. Timori de' cardinali;
energia del pontefice, che conforta i bolognesi alla fedeltà alla
Chiesa. L'esercito francese trattenuto per le speranze della
concordia col pontefice. Vane trattative di concordia. Commenti e
critiche all'azione dei comandanti francesi.
Ciamonte infratanto, per recuperare Carpi, che prima era stato
occupato dalle genti della Chiesa, vi mandò Alberto Pio e la Palissa
con quattrocento lancie e quattromila fanti; innanzi a quali
essendosi mosso Alberto con uno trombetto e con pochi cavalli, la
terra che molto l'amava, intesa la venuta sua, cominciò a
tumultuare: per il quale timore gli ecclesiastici, che in numero di
quaranta cavalli leggieri e cinquecento fanti vi erano a guardia, si
partirono, dirizzandosi a Modona, ma seguitati dalle genti franzesi
che erano sopravenute poco poi, e a furore al prato del Cortile che
è quasi in mezzo tra Carpi e Modona, messi in fuga; salvandosi i
cavalli ma perdendosi la piú parte de' fanti. Pareva utile a
Ciamonte combattere con gl'inimici innanzi che arrivassino le lancie
spagnuole (le quali il papa per sollecitare aveva depositato in mano
del cardinale Regino la bolla della investitura), e innanzi che le
genti viniziane si unissino con loro; le quali, avendo fatto certi
ripari contro alle artiglierie di Alfonso, speravano di avere
gittato presto il ponte: perciò si accostò a Modona, dove essendosi
scaramucciato assai tra' cavalli leggieri dell'una parte e
dell'altra, non vollono mai gli ecclesiastici, conoscendosi
inferiori, uscire con tutte le forze fuora.
Perduta questa speranza, deliberò di mettere a esecuzione quel che
molti, e principalmente i Bentivogli, con varie offerte lo
stimolavano; che e' non fusse da consumare inutilmente il tempo
intorno a cose delle quali era molto maggiore la difficoltà che
l'utilità, ma da assaltare all'improviso la sedia della guerra, il
capo principale dal quale procedevano tante molestie e pericoli:
essere di questo molto opportuna occasione, perché in Bologna erano
pochi soldati forestieri, nel popolo molti fautori de' Bentivogli,
la maggiore parte degli altri inclinata piú presto ad aspettare
l'esito delle cose che a pigliare l'armi per sottoporsi a pericoli o
contrarre inimicizie nuove; se ora non si tentasse, passare la
presente occasione, perché sopravenendo le genti che aspettavano, o
de' viniziani o degli spagnuoli, non si potere sperare, quando bene
vi si andasse con potentissimo esercito, quel che ora con forze
molto minori era facilissimo a ottenere. Raccolto adunque insieme
tutto l'esercito, e seguitandol'i Bentivogli con alcuni cavalli e
con mille fanti pagati da loro, preso il cammino tra 'l monte e la
strada maestra, assaltò Spilimberto castello de' conti Rangoni, nel
quale erano quattrocento fanti mandati dal pontefice, ma poi che
ebbe battuto alquanto l'ottenne il dí medesimo a patti; e
arrendutosegli il dí seguente Castelfranco, alloggiò a Crespolano
castello distante dieci miglia da Bologna, con intenzione di
appresentarsi il prossimo dí alle porte di quella città: nella
quale, divulgata la sua venuta e che erano con esso i Bentivogli,
ogni cosa si era piena di confusione e di tumulto, grandissima
sollevazione nella nobiltà e nel popolo, temendo una parte
desiderando l'altra la ritornata de' Bentivogli; altri stando
sospesi, o incerti dell'animo o veramente mossi cosí leggiermente o
dal desiderio [o] dal timore che oziosamente fussino per risguardare
il processo di questa cosa.
Ma maggiore confusione e molto maggiore terrore occupava gli animi
de' prelati e de' cortigiani, avvezzi non a' pericoli delle guerre
ma all'ozio e alle dilicatezze di Roma. Correvano i cardinali
mestissimi al pontefice, lamentandosi che avesse condotto sé, la
sedia apostolica e loro in tanto pericolo, e aggravandolo con somma
instanza o che facesse provedimenti bastanti a difendersi (il che in
tanta brevità di tempo stimavano impossibile) o che tentasse di
comporre con condizioni meno gravi che fusse possibile le cose cogli
inimici, i quali si giudicava non doverne essere alieni, o che
insieme con loro si partisse da Bologna; considerando almeno, se
pure il pericolo proprio non lo moveva, quanto importasse all'onore
della sedia apostolica e di tutta la cristiana religione se nella
persona sua accadesse sinistro alcuno: del medesimo lo supplicavano
tutti i piú intrinsechi e piú grati ministri e servitori suoi. Egli
solo, in tanta confusione e in tanto disordine di ogni cosa, incerto
dell'animo del popolo e mal sodisfatto della tardità de' viniziani,
resisteva pertinacemente a queste molestie; non potendo neanche la
infermità che conquassava il corpo piegare la fortezza dell'animo.
Aveva nel principio fatto venire Marcantonio Colonna con una parte
de' soldati che erano a Modona, e chiamato a sé Ieronimo Donato
imbasciadore de' viniziani, si era con esclamazioni ardentissime
lamentato che per la tardità degli aiuti promessigli tante volte si
era lo stato e la persona sua condotta in tanto pericolo; non
solamente con ingratitudine abominevole in quanto a lui, che
principalmente per salvargli aveva presa la guerra e che, con
gravissime spese e pericoli e con l'aversi provocati inimici lo
imperadore e il re di Francia, era stato cagione che la libertà loro
si fusse conservata insino a quel dí, ma oltre a questo con
imprudenza inestimabile in quanto a se stessi, perché, dappoi che
egli o fusse vinto o necessitato di cedere a qualche composizione,
in che speranza di salute in che grado rimarrebbe quella republica?
protestando in ultimo con ardentissime parole che farebbe concordia
co' franzesi se per tutto il dí seguente non entrava in Bologna il
soccorso delle loro genti che erano alla Stellata; avendo, per la
difficoltà di gittare il ponte, passato in su varie barche e legni
il Po. Convocò ancora il reggimento e i collegi di Bologna, e con
gravi parole gli confortò che, ricordandosi de' mali della tirannide
passata e quanto piú perniciosi ritornerebbono i tiranni stati
scacciati, volessino conservare il dominio della Chiesa, nel quale
aveano trovato tanta benignità; concedendo per fargli piú pronti,
oltre alle concedute prima, esenzioni della metà delle gabelle delle
cose che si mettevano dentro per il vitto umano, e promettendo di
concederne in futuro delle maggiori; notificando le cose medesime
per publico bando, nel quale invitò il popolo a pigliare l'armi per
la difesa dello stato ecclesiastico: ma senza frutto, perché niuno
si moveva, niuno faceva in favore suo segno alcuno. Perciò
conoscendo finalmente in quanto pericolo fusse ridotto, ed espugnato
dalla importunità e lamentazioni di tanti, e instando oltre a ciò
molto appresso a lui gli oratori di Cesare del re cattolico e del re
di Inghilterra, pregati da' cardinali, consentí si mandasse a
domandare a Ciamonte che concedesse facoltà di andare a lui
sicuramente, in nome del pontefice, a Giovanfrancesco Pico conte
della Mirandola; e poche ore dipoi mandò egli medesimo uno de' suoi
camerieri a ricercarlo che mandasse a lui Alberto da Carpi, non
sapendo che non fusse nello esercito: e nel tempo medesimo, acciò
che in ogni caso si salvassino le cose piú preziose del pontificato,
mandò Lorenzo Pucci, suo datario, col regno (chiamano cosí la mitria
principale) che era pieno di gioie nobilissime, perché si
custodissino nel famoso monasterio delle Murate di Firenze. Sperò
Ciamonte per le richieste fattegli che il pontefice inclinasse alla
concordia, la quale esso, perché sapeva essere cosí la mente del re,
molto desiderava; e per non perturbare questa disposizione ritenne
il dí seguente l'esercito nel medesimo alloggiamento: benché
permettesse che i Bentivogli con molti cavalli di amici e seguaci
loro, seguitandogli alquanto da lontano cento cinquanta lancie
franzesi, corressino insino appresso alle mura di Bologna. Per la
venuta de' quali, con tutto che Ermes, minore ma il piú feroce de'
fratelli, si appresentasse allato alla porta, non si fece dentro
movimento alcuno.
Udí Ciamonte benignamente Giovanfrancesco dalla Mirandola, e lo
rimandò il dí medesimo a Bologna, a significare le condizioni con le
quali era contento di convenire: che 'l pontefice assolvesse Alfonso
da Esti dalle censure, e tutti quegli che per qualunque cagione si
erano intromessi nella difesa sua o nell'offesa dello stato
ecclesiastico: liberasse medesimamente i Bentivogli dalle censure e
dalle taglie, restituendo i beni che manifestamente a essi
appartenevano: degli altri posseduti innanzi all'esilio si
conoscesse in giudicio; e che avessino facoltà d'abitare in
qualunque luogo piacesse loro, pure che non si appropinquassino a
ottanta miglia a Bologna: non si alterasse nelle cose de' viniziani
quel che si disponeva nella confederazione fatta a Cambrai: che tra
il pontefice e Alfonso da Esti si sospendessino l'armi almanco per
sei mesi, ritenendo ciascuno quello possedeva; nel quale tempo le
differenze loro si decidessino per giudici che si dovessino deputare
concordemente; riservando a Cesare la cognizione delle cose di
Modena, la qual città si deponesse incontinente in sua mano:
Cotignuola si restituisse al re cristianissimo: liberassesi il
cardinale di Aus, perdonassesi a' cardinali assenti; e le collazioni
de' benefici di tutto il dominio del re di Francia si facessino
secondo la sua nominazione. Con la quale risposta essendo ritornato
il Mirandolano, ma non senza speranza che Ciamonte non persisterebbe
rigorosamente in tutte queste condizioni, udiva pazientemente il
pontefice, contro alla sua consuetudine, la relazione, e insieme i
prieghi de' cardinali che con ardore inestimabile lo supplicavano
che, quando non potesse ottenere meglio, accettasse in questa
maniera la composizione; ma da altra parte, lamentandosi essergli
proposte cose troppo esorbitanti, e mescolando in ogni parola
doglienze gravissime de' viniziani, e dimostrando di stare sospeso
consumava il dí senza esprimere quale fusse la sua deliberazione.
Alzò la speranza sua che alla fine del dí entrò in Bologna Chiappino
Vitello, con seicento cavalli leggieri de viniziani e una squadra di
turchi che erano a' soldi loro; il quale partito la notte dalla
Stellata era venuto galoppando per tutto il cammino, per la somma
prestezza impostagli dal proveditore viniziano. La mattina seguente
alloggiò Ciamonte con tutto l'esercito al Ponte a Reno vicino a tre
miglia a Bologna, dove andorno subito a lui i segretari degli
oratori de' re de' romani di Aragona e di Inghilterra, e poco dipoi
gli imbasciadori medesimi; i quali quel giorno, e con loro Alberto
Pio venuto da Carpi, ritornorno piú volte al pontefice e a Ciamonte.
Ma era, nell'uno e nell'altro variata non mediocremente la
disposizione: perché Ciamonte, mancandogli per l'esperienza del dí
dinanzi la speranza di sollevare per mezzo de' Bentivogli il popolo
bolognese, e cominciando a sentire strettezza di vettovaglie la
quale era per diventare continuamente maggiore, diffidava della
vittoria; e il pontefice, inanimito perché il popolo, scoprendosi
favorevole alla Chiesa, aveva, finalmente il giorno medesimo
pigliato l'armi, e perché s'aspettava che innanzi al principio della
notte entrasse in Bologna, oltre a dugento altri stradiotti de'
viniziani, Fabbrizio Colonna con dugento cavalli leggieri e una
parte degli uomini d'arme spagnuoli, non solo conosceva essere
liberato dal pericolo ma, ritornato nella consueta elazione,
minacciava di assaltare gli inimici, subito che fussino giunte tutte
le genti spagnuole che erano vicine: per la qual confidenza rispose
sempre quel dí, niuno mezzo esservi di concordia se il re di Francia
non si obligava ad abbandonare totalmente la difesa di Ferrara.
Proposonsi il dí seguente nuove condizioni, per le quali ritornorono
a Ciamonte i medesimi imbasciadori; le quali si disturborno per
varie difficoltà: di maniera che Ciamonte, disperato di potere fare
piú, o coll'armi o per i trattati della pace, frutto alcuno, ed
essere difficile a dimorare quivi, diminuendogli le vettovaglie e
cominciando a essere per il sopravenire della vernata i tempi
sinistri, ritornò il dí medesimo a Castelfranco e il dí prossimo a
Rubiera; dimostrando di farlo mosso da' prieghi degli oratori, e per
dare al pontefice spazio di pensare sopra le cose proposte, e a sé
di intendere la mente del re.
Accusorno in questo tempo molti la deliberazione di Ciamonte di
imprudenza, l'esecuzione di negligenza: come se, non avendo forze
sufficienti a spugnare Bologna, conciossiaché nell'esercito non
fussino piú di tremila fanti, fusse stato inconsiderato consiglio il
muoversi per i conforti de' fuorusciti; le speranze de' quali,
misurate piú col desiderio che con le ragioni, riescono quasi sempre
vanissime. Avere dovuto almeno, se pure deliberava di tentare questa
impresa, ristorare colla prestezza la debolezza delle forze, ma per
contrario avere corrotta l'opportunità con la tardità; perché dopo
l'indugio del muoversi da Peschiera aveva perduti inutilmente tre o
quattro dí, mentre che considerando la impotenza del suo esercito
stava sospeso o di tentare da se medesimo o di aspettare le genti
del duca di Ferrara e Ciattiglione con le lancie franzesi: potersi
forse questo difendere; ma come mai potersi scusare che preso
Castelfranco non si fusse subito accostato alle porte di Bologna, né
dato spazio di respirare a una città dove non era ancora entrato
alcuno soccorso, il popolo sospeso, e maggiore (come accade nelle
cose súbite) la confusione e il terrore? mezzo unico, se alcuno ve
ne era, a fargli ottenere o vittoria o onesta composizione. Ma
sarebbe, per avventura, minore spesso l'autorità di quegli che
riprendono le cose infelicemente succedute se nel tempo medesimo si
potesse sapere quel che sarebbe accaduto se si fusse proceduto
diversamente; perché molte volte si conoscerebbe che sarebbe seguito
altrimenti di quello che da se stessa si presuppone la fallacia de'
discorsi umani, quando, giudicando le cose incerte, affermano che se
si fusse proceduto in questa forma, o se si fusse proceduto
altrimenti, sarebbe risultato l'effetto che si desiderava o non
arebbe avuto luogo quel che ora è accaduto.
Lib.9, cap.12
Il pontefice sempre piú indignato contro il re di Francia; milizie
veneziane in suo aiuto. Terre occupate da' pontifici. Il pontefice
fa decidere l'impresa contro Ferrara e la Mirandola. Massimiliano e
il re di Francia deliberano di accertarsi delle intenzioni del re
d'Aragona; risposta di Ferdinando. Nuova convenzione fra
Massimiliano e il re di Francia. L'esercito pontificio, presa
Concordia, si reca alla Mirandola. Congiura contro Pier Soderini in
Firenze.
Partito Ciamonte, il pontefice, infiammato sopra modo contro al re,
si lamentò con tutti i príncipi cristiani che il re di Francia,
usando ingiustamente e contro alla verità de' fatti il titolo e il
nome di cristianissimo, sprezzando ancora la confederazione con
tante solennità fatta a Cambrai, mosso da ambizione di occupare
Italia, da sete scelerata del sangue del pontefice romano, aveva
mandato lo esercito ad assediarlo con tutto il collegio de'
cardinali e con tutti i prelati in Bologna; e ritornando con animo
molto maggiore a' pensieri della guerra negò agli imbasciadori, i
quali, seguitando i ragionamenti cominciati con Ciamonte, gli
parlavano della concordia, volere udire piú cosa alcuna se prima non
gli era data Ferrara: e con tutto che, per le fatiche sopportate in
tanto accidente e col corpo e coll'animo, fusse molto aggravata la
sua infermità, cominciò di nuovo a soldare gente e a stimolare i
viniziani, che finalmente avevano gittato il ponte tra Ficheruolo e
la Stellata, che mandassino sotto il marchese di Mantova parte delle
loro genti a Modena a unirsi con le sue, e con l'altra parte
molestassino Ferrara; affermando che in pochissimi dí acquisterebbe
Reggio, Rubiera e Ferrara. Tardorono le genti viniziane a passare il
fiume, per il pericolo nel quale sarebbeno incorsi se (come si
dubitava) fusse sopravenuta la morte del pontefice; ma costretti
finalmente cedere alle sue voglie, lasciate l'altre genti in su le
rive di là dal Po, mandorono verso Modona cinquecento uomini d'arme
mille seicento cavalli leggieri e cinquemila fanti, ma senza il
marchese di Mantova. Il quale, fermatosi a Sermidi a soldare cavalli
e fanti, per andare, come diceva, dipoi all'esercito, benché
sospetta già a' viniziani la sua tardità, si condusse a San Felice
castello del Modonese: dove avuto avviso che i franzesi che erano in
Verona erano entrati a predare nel contado di Mantova, allegando la
necessità di difendere lo stato suo, se ne tornò con licenza del
pontefice a Mantova; ma con querela grave de' viniziani, perché,
ancora che avesse promesso di ritornare presto, insospettiti della
sua fede, credevano, come similmente fu creduto quasi per tutta
Italia, che Ciamonte, per dargli scusa di non andare all'esercito,
avesse con suo consentimento fatto correre i soldati franzesi nel
mantovano. La quale suspizione si accrebbe, perché da Mantova
scrisse al pontefice essere, per infermità sopravenutagli, impedito
a partirsi.
Unite che furno intorno a Modena le genti del pontefice le viniziane
e le lancie spagnuole, non si dubita che, se senza indugio si
fussino mosse, che Ciamonte, il quale, quando si partí del
bolognese, aveva per diminuire la spesa licenziati i fanti italiani,
arebbe abbandonata la città di Reggio, ritenendosi la cittadella; ma
ripreso animo per la tardità del muoversi, cominciò di nuovo a
soldare fanti, con deliberazione di attendere solamente a guardare
Sassuolo, Rubiera, Reggio e Parma. Ma mentre che quello esercito
soggiorna intorno a Modena, incerto ancora se avesse a andare
innanzi o volgersi a Ferrara, correndo alcune squadre di quelle
della Chiesa verso Reggio, messe in fuga da' franzesi, perderono
cento cavalli e fu fatto prigione il conte di Matelica. Nel qual
tempo, essendo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, con le
genti franzesi, alloggiati in sul fiume del Po tra lo Spedaletto e
il Bondino, opposito alle genti de' viniziani che erano di là dal
Po, l'armata loro, volendo, per l'asprezza del tempo e per essere
male proveduta da Vinegia, ritirarsi, assaltata da molte barche di
Ferrara che con l'artiglieria messono in fondo otto legni, si
condusse con difficoltà a Castelnuovo del Po, nella fossa che va nel
Tartaro e nello Adice; dove come fu condotta si disperse. Comandò
poi il pontefice che l'esercito il quale, non vi essendo venuto il
marchese di Mantova, governava Fabrizio Colonna, lasciato a guardia
di Modona il duca di Urbino, andasse a dirittura a Ferrara; dando a'
capitani, che unitamente dannavano questo consiglio, speranza quasi
certa che il popolo tumultuerebbe. Ma il dí medesimo che si erano
mossi ritornorono indietro per suo comandamento, non si sapendo quel
che l'avesse indotto a sí subita mutazione; e lasciati i primi
disegni, andorono a campo alla terra di Sassuolo, ove Ciamonte avea
mandati cinquecento fanti guasconi: la quale avendo battuto due dí,
con giubilo grande del pontefice, che sentiva della camera medesima
il tuono delle artiglierie sue intorno a Sassuolo della quale aveva,
pochi dí innanzi, sentito con gravissimo dispiacere il tuono di
quelle degli inimici intorno a Spilimberto, gli dettono l'assalto,
il quale con piccolissima difficoltà succedette felicemente, perché
si disordinorono i fanti che vi erano dentro; e appresentate poi
subito l'artiglierie alla fortezza dove si erano ritirati, e
cominciata a batterla, si arrenderono quasi subito senza alcuno
patto: con la medesima infamia e infelicità di Giovanni da Casale
(che era loro capitano) che avea sentita quando il Valentino occupò
la rocca di Furlí; uomo di vilissima nazione, ma pervenuto a qualche
grado onorato perché nel fiore della età era stato grato a Lodovico
Sforza, e poi famoso per l'amore noto di quella madonna. Espugnato
Sassuolo, prese l'esercito Formigine; e volendo il pontefice che
andassino a pigliare Montecchio, terra forte e importante situata
tra la strada maestra e la montagna in sui confini di Parma e di
Reggio, e che era tenuta dal duca di Ferrara ma parte del territorio
di Parma, recusò Fabrizio Colonna, dicendo essergli proibito dal suo
re il molestare le giurisdizioni dello imperio. Non provedeva a
questi disordini Ciamonte; il quale, lasciato in Reggio Obigní con
cinquecento lancie e con dumila fanti guasconi sotto il capitano
Molard, si era fermato a Parma, avendo ricevute nuove commissioni
dal re di astenersi dalle spese. Perché il re, perseverando nel
proposito di temporeggiarsi insino alla primavera, non faceva allora
per le cose di qua da' monti provedimento alcuno. Onde declinando in
Italia la sua riputazione e diventandone maggiore l'animo
degl'inimici, il pontefice, impaziente che le sue genti non
procedessino piú oltre né ammettendo le scuse che della stagione del
tempo e dell'altre difficoltà gli facevano i suoi capitani,
chiamatigli tutti a Bologna, propose si andasse a campo a Ferrara:
approvando il parere suo solamente gli imbasciadori viniziani, o per
non lo sdegnare contradicendogli o perché i soldati loro
ritornassino piú vicini a' suoi confini; dannandolo tutti gli altri,
ma invano, perché non consultava piú ma comandava. Fu adunque
deliberato che si andasse col campo a Ferrara, ma con aggiunta che
per impedire a' franzesi il soccorrerla si tentasse, in caso non
apparisse molto difficile, la Mirandola: la quale terra, insieme con
la Concordia, signoreggiata da' figliuoli del conte Lodovico Pico,
[e da Francesca,] madre e nutrice loro, conservava sotto la
divozione del re di Francia; seguitando l'autorità di Gianiacopo da
Triulzi suo padre naturale, per cui opera i piccoli figliuoli
n'aveano da Cesare ottenuta la investitura. Aveva il pontefice molto
prima ricevutigli, come appariva per uno breve, nella sua
protezione, ma si scusava che le condizioni de' tempi presenti lo
costrignevano a procurare che quelle terre non fussino tenute da
persone sospette a sé; offerendo, se volontariamente gli erano
concedute, di restituirle come prima avesse acquistato Ferrara. Fu
dubitato insino allora (la quale dubitazione si ampliò poi molto
piú) che il cardinale di Pavia, sospetto già d'avere occulto
intendimento col re di Francia, fusse stato artificiosamente autore
di questo consiglio, per interrompere con la impresa della Mirandola
l'andare a campo a Ferrara; la quale città non era allora molto
fortificata né aveva presidio molto grande, e i soldati franzesi
stracchi col corpo e con l'animo dalle fatiche, il duca impotente e
il re alieno dal farvi maggiori provedimenti.
Ma mentre che il pontefice attendeva con tanto ardore
all'espedizione della guerra, il re di Francia, intento piú alle
pratiche che all'armi, continuava di trattare col vescovo di Gursia
le cose cominciate: le quali, dimostratesi al principio molto
facili, procedetteno in maggiore lunghezza per la tardità delle
risposte di Cesare e perché, dubitando del re di Aragona (il quale,
oltre all'altre azioni, aveva di nuovo, sotto colore che verso
Otranto si fusse scoperta l'armata de' turchi, rivocato nel regno di
Napoli le genti sue che erano a Verona), giudicorno Cesare e il re
di Francia necessario di accertarsi della mente sua, cosí circa la
continuazione nella lega di Cambrai come in quello che si avesse a
fare col pontefice, perseverando egli nella congiunzione co'
viniziani e nella cupidità di acquistare immediatamente alla Chiesa
il dominio di Ferrara. Alle quali dimande rispose dopo spazio di
qualche dí il re cattolico, pigliando in uno tempo medesimo
occasione di purgare molte querele che da Cesare e dal re di Francia
si facevano di lui: avere conceduto le trecento lancie al pontefice
per l'obligazione della investitura, e a effetto solamente di
difendere lo stato della Chiesa e recuperare le cose che erano
antico feudo di quella; avere revocato le genti d'arme da Verona
perché era passato il termine per il quale le aveva promesse a
Cesare, e nondimeno che non l'arebbe revocate se non fusse stato il
sospetto de' turchi; essersi interposto l'oratore suo a Bologna con
Ciamonte insieme con gli altri oratori allo accordo non per dare
tempo a' soccorsi del pontefice ma per rimuovere tanto incendio
della cristianità, sapendo massimamente essere al re molestissima la
guerra con la Chiesa; essere stato sempre nel medesimo proposito di
adempiere quel che era stato promesso a Cambrai, e volerlo fare in
futuro molto piú, aiutando Cesare con cinquecento lancie e dumila
fanti contro a' viniziani: non essere già sua intenzione di legarsi
a nuove obligazioni né ristrignersi a capitolazioni nuove, perché
non ne vedeva alcuna urgente cagione e perché, desideroso di
conservarsi libero per potere fare la guerra contro agli infedeli
d'Affrica, non voleva accrescere i pericoli e gli affanni della
cristianità che aveva bisogno di riposo: piacergli il concilio e la
riformazione della Chiesa quando fusse universale e che i tempi non
repugnassino, e di questa sua disposizione niuno essere migliore
testimonio del re di Francia, per quello che insieme ne avevano
ragionato a Savona; ma i tempi essere molto contrari, perché il
fondamento de' concili era la pace e la concordia tra i cristiani,
non potendosi senza l'unione delle volontà convenire cosa alcuna in
beneficio comune, né essere degno di laude cominciare il concilio in
tempo e in maniera che e' paresse cominciarsi piú per sdegno e per
vendetta che per zelo o dell'onore di Dio o dello stato salutifero
della republica cristiana. Diceva oltre a questo separatamente agli
oratori di Cesare, parergli grave aiutarlo a conservare le terre
perché dipoi per danari le concedesse al re di Francia, significando
espressamente di Verona. Intesa adunque per questa risposta la
intenzione del re cattolico, non tardorno piú, Gurgense da una parte
in nome di Cesare e il re di Francia dall'altra, di fare nuova
confederazione; riserbata facoltà al pontefice di entrarvi infra due
mesi prossimi, e al re cattolico e al re d'Ungheria infra quattro.
Obligossi il re di pagare a Cesare (fondamento necessario alle
convenzioni che si facevano con lui), parte di presente parte in
tempi, centomila ducati: promesse Cesare di passare alla primavera
in Italia con tremila cavalli e diecimila fanti contro a' viniziani;
nel quale caso il re fusse obligato a spese proprie mandargli mille
dugento lancie e ottomila fanti con provedimento sufficiente
d'artiglierie, e per mare due galee sottili e quattro bastarde:
osservassino la lega fatta a Cambrai, e ricercassino in nome comune
alla osservanza del medesimo il pontefice e il re cattolico; e se il
pontefice facesse difficoltà per le cose di Ferrara fusse il re
tenuto a stare contento a quello che fusse consentaneo alla ragione,
ma in caso denegasse la richiesta loro si proseguisse il concilio;
per il quale Cesare dovesse congregare i prelati di Germania, come
aveva il re di Francia fatto de' prelati suoi, per procedere piú
innanzi secondo che fusse poi deliberato da loro. Non si trattò in
questa convenzione de' danari prestati dal re a Cesare né
dell'obligazione acquistata sopra Verona, ma si credeva il re avesse
rimosso l'animo dallo appropriarsela, sapendo quanto Cesare fusse
desideroso di ritenersela. Publicate le convenzioni, Gurgense, molto
onorato e ricevuti grandissimi doni, se ne ritornò al suo principe;
e il re, col quale nuovamente i cinque cardinali che procuravano il
concilio avevano convenuto che né egli senza consenso loro né essi
senza consenso suo concorderebbeno col pontefice, dimostrandosi con
le parole molto acceso a passare personalmente in Italia con tale
potenza che per molto tempo assicurasse le cose sue, le quali perché
prima non cadessino in maggiore declinazione, commesse a Ciamonte
che non lasciasse perire il duca di Ferrara. Il quale aggiunse
ottocento fanti tedeschi alle dugento lancie che prima vi erano con
Ciattiglione.
Da altra parte l'esercito del pontefice, poiché furono fatte benché
lentamente le provisioni necessarie, lasciato alla guardia di Modona
Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme quattrocento cavalli
leggieri e dumila cinquecento fanti, andò a campo alla Concordia; la
quale presa per forza, il medesimo dí che vi furono piantate
l'artiglierie, e poi ottenuta a patti la fortezza, si accostò alla
Mirandola. Approssimavasi già la fine del mese di dicembre e, per
sorte, la stagione di quello anno era molto piú aspra che
ordinariamente non suole essere: per il che e per essere la terra
forte, e perché si credeva che i franzesi non dovessino lasciare
perdere uno luogo tanto opportuno, i capitani principalmente
diffidavano di ottenerla; e nondimeno tanto certamente si prometteva
il pontefice la vittoria di tutta la guerra che mandando, per la
discordia che era tra 'l duca di Urbino e il cardinale di Pavia,
legato nuovo nell'esercito il cardinale di Sinigaglia gli commesse,
in presenza di molti, che sopra tutto procurasse che, quando
l'esercito entrava in Ferrara, si conservasse quanto si poteva
quella città. Cominciorno a tirare contro alla Mirandola
l'artiglierie il quarto dí poi che l'esercito si fu accostato; ma
patendo molti sinistri e incomodità de' tempi e delle vettovaglie,
le quali venivano al campo scarsamente del modenese, perché essendo
state messe in Guastalla cinquanta lancie de' franzesi, altrettante
in Coreggio, e in Carpi dugento cinquanta, e avendo rotto per tutto
i ponti e occupati i passi donde potevano venire del mantovano,
facevano impossibile il condurle per altra via. Ma s'allargò
prestamente alquanto questa strettezza, perché quegli che erano in
Carpi, essendo pervenuto falso romore che l'esercito inimico andava
per assaltargli, spaventati perché non vi avevano artiglierie, se ne
partirono.
Ebbe nella fine di questo anno qualche infamia la persona del
pontefice, come se fusse stato conscio e fautore che, per mezzo del
cardinale de' Medici, si trattasse, con Marcantonio Colonna e alcuni
giovani fiorentini, che fusse ammazzato in Firenze Piero Soderini
gonfaloniere; per opera del quale si diceva i fiorentini seguitare
le parti franzesi: perché, avendo il pontefice procurato con molte
persuasioni di congiugnersi quella republica, non gli era mai potuto
succedere; anzi non molto prima avevano, a richiesta del re di
Francia, disdetta la tregua a' sanesi, con molestia grandissima del
pontefice, benché avessino recusato non muovere l'armi se non dopo i
sei mesi della disdetta, come il re desiderava per mettere in
sospetto il pontefice; e oltre a questo aveano mandato al re dugento
uomini d'arme perché stessino a guardia del ducato di Milano, cosa
dimandata dal re per virtú della loro confederazione, non tanto per
l'importanza di tale aiuto quanto per desiderio di inimicargli col
pontefice.
Lib.9, cap.13
Il pontefice presso l'esercito all'assedio della Mirandola. Pericoli
corsi dal pontefice; presa della Mirandola. Il re di Francia ordina
una piú decisa azione di guerra.
Finí in questo stato delle cose l'anno mille cinquecento dieci. Ma
il principio dell'anno nuovo fece molto memorabile una cosa
inaspettata e inaudita per tutti i secoli. Perché, parendo al
pontefice che l'oppugnazione della Mirandola procedesse lentamente,
e attribuendo parte alla imperizia parte alla perfidia de' capitani,
e specialmente del nipote, quel che procedeva maggiormente da molte
difficoltà, deliberò di accelerare le cose con la presenza sua;
anteponendo l'impeto e l'ardore dell'animo a tutti gli altri
rispetti, né lo ritenendo il considerare quanto fusse indegno della
maestà di tanto grado che il pontefice romano andasse personalmente
negli eserciti contro alle terre de' cristiani, né quanto fusse
pericoloso, disprezzando la fama e il giudicio che appresso a tutto
il mondo si farebbe di lui, dare apparente colore e quasi
giustificazione a coloro che, sotto titolo principalmente di essere
pernicioso alla Chiesa il reggimento suo e scandolosi e
incorriggibili i suoi difetti, procuravano di convocare il concilio
e suscitare i príncipi contro a lui. Risonavano queste parole per
tutta la corte: ciascuno si maravigliava, ciascuno grandemente
biasimava, né meno che gli altri gli imbasciadori de' viniziani;
supplicavanlo i cardinali con somma instanza che non andasse. Ma
vani erano i prieghi di tutti, vane le persuasioni. Partí il secondo
dí di gennaio da Bologna, accompagnato da tre cardinali; e giunto
nel campo alloggiò in una casetta di uno villano sottoposta a' colpi
dell'artiglierie degli inimici, perché non era piú lontana dalle
mura della Mirandola che tiri in due volte una balestra comune.
Quivi, affaticandosi ed esercitando non meno il corpo che la mente e
che lo imperio, cavalcava quasi continuamente ora qua ora là per il
campo, sollecitando che si desse perfezione al piantare
dell'artiglierie, delle quali insino a quel dí era piantata la
minore parte; essendo impedite quasi tutte l'opere militari da'
tempi asprissimi e dalla neve quasi continua, e perché niuna
diligenza bastava a ritenere che i guastatori non si fuggissino,
essendo oltre alla acerbità del tempo molto offesi dall'artiglierie,
di quegli di dentro. Però, essendo necessario fare ne' luoghi dove
s'avevano a piantare l'artiglierie, per sicurtà di coloro che vi
s'adoperavano, nuovi ripari e fare venire al campo nuovi guastatori,
il pontefice, mentre che queste cose si provedevano, andò, per non
patire in questo tempo delle incomodità dell'esercito, alla
Concordia: nel quale luogo venne a lui, per commissione di Ciamonte,
Alberto Pio, proponendo vari partiti di composizione; i quali,
benché piú volte andasse dall'uno all'altro, furno tentati
vanamente, o per la solita durezza sua o perché Alberto, del quale
sempre crescevano i sospetti, non negoziasse con la sincerità
conveniente. Stette alla Concordia pochi giorni, riconducendolo
all'esercito la medesima impazienza e ardore, il quale non raffreddò
punto nel cammino la neve grossissima che tuttavia cadeva dal cielo
né i freddi cosí smisurati che appena i soldati potevano
tollerargli; e alloggiato in una chiesetta propinqua alle sue
artiglierie e piú vicina alle mura che non era l'alloggiamento
primo, né gli sodisfacendo cosa alcuna di quelle che si erano fatte
e che si facevano, con impetuosissime parole si lamentava di tutti i
capitani, eccetto che di Marcantonio Colonna, il quale di nuovo avea
fatto venire da Modona: né procedendo con minore impeto per
l'esercito, ora questi sgridando ora quegli altri confortando, e
facendo colle parole e co' fatti l'ufficio del capitano, prometteva
che se i soldati procedevano virilmente che non accetterebbe la
Mirandola con alcuno patto ma lascierebbe in potestà loro il
saccheggiarla. Ed era certamente cosa notabile, e agli occhi degli
uomini molto nuova, che il re di Francia, principe secolare, di età
ancora fresca e allora d'assai prospera disposizione, nutrito dalla
giovanezza nell'armi, al presente riposandosi nelle camere,
amministrasse per capitani una guerra fatta principalmente contro a
lui; e da altra parte vedere che il sommo pontefice, vicario di
Cristo in terra, vecchio e infermo e nutrito nelle comodità e ne'
piaceri, si fusse condotto in persona a una guerra suscitata da lui
contro a cristiani, a campo a una terra ignobile; dove
sottoponendosi, come capitano d'eserciti, alle fatiche e a'
pericoli, non riteneva di pontefice altro che l'abito e il nome.
Procedevano, per la sollecitudine estrema per le querele per le
promesse per le minaccie, le cose con maggiore celerità che
altrimenti non arebbono fatto; e nondimeno, repugnando molte
difficoltà, procedevano lentamente, per il piccolo numero de'
guastatori, perché nell'esercito non erano molte artiglierie né
quelle de' viniziani molto grosse, e perché per l'umidità del tempo
le polveri facevano con fatica l'ufficio consueto. Difendevansi
arditamente quegli di dentro, a' quali era preposto Alessandro da
Triulzio con [quattrocento] fanti forestieri, sostenendo con
maggiore virtú i pericoli per la speranza del soccorso promesso da
Ciamonte: il quale, avendo avuto comandamento dal re di non lasciare
occupare al pontefice quella terra, aveva chiamati a sé i fanti
spagnuoli che erano in Verona; e raccogliendo da ogni parte le genti
sue e soldando continuamente fanti, e il medesimo facendo fare al
duca di Ferrara, prometteva d'assaltare, innanzi che passasse il
vigesimo dí di gennaio, il campo inimico. Ma molte cose facevano
difficile e pericoloso questo consiglio: la strettezza del tempo
breve a raccorre tanti provvedimenti, lo spazio dato agli inimici di
fortificare l'alloggiamento, la fatica di condurre, nella stagione
tanto fredda, per vie pessime e per le nevi, maggiori che molti anni
fussino state, l'artiglierie le munizioni e le vettovaglie: e
augumentò le difficoltà colui che doveva, ricompensando con la
prestezza il tempo perduto, diminuirle. Perché Ciamonte corse
subitamente in su' cavalli delle poste a Milano, affermando andarvi
per provedere piú sollecitamente danari e l'altre cose che
bisognavano; ma essendosi divulgato e creduto averlo indotto a
questo l'amore di una gentildonna milanese, raffreddò molto l'andata
sua, con tutto che presto ritornasse, gli animi de' soldati e le
speranze di quegli che difendevano la Mirandola: onde non
oscuramente molti dicevano, nuocere forse non meno che la negligenza
o la viltà di Ciamonte l'odio suo contro a Gianiacopo da Triulzi; e
che perciò, preponderando (come spesso si fa) la passione propria
alla utilità del re, gli fusse grato che i nipoti fussino privati di
quello stato. Da altra parte il pontefice non perdonava a cosa
alcuna per ottenere la vittoria, acceso in maggiore furore perché da
uno colpo di cannone tirato da quegli di dentro erano stati
ammazzati nella cucina sua due uomini: per il quale pericolo
partitosi di quello alloggiamento, e dipoi, perché non poteva
temperare se medesimo, il dí seguente ritornatovi, era stato
costretto per nuovi pericoli ridursi nell'alloggiamento del
cardinale Regino; dove quegli di dentro, sapendo per avventura egli
esservisi trasferito, indirizzorno una artiglieria grossa non senza
pericolo della sua vita. Finalmente gli uomini della terra, perduta
interamente la speranza di essere soccorsi e avendo l'artiglierie
fatto processo grande, essendo oltre a questo cosí profondamente le
fosse congelate che sostenevano i soldati, temendo di non potere
resistere alla prima battaglia che si ordinava di dare infra due
giorni, mandorno, in quel medesimo dí, nel quale Ciamonte avea
promesso di accostarsi, imbasciadori al pontefice per arrendersi,
con patto che fussino salve le persone e le robe di tutti. Il quale,
benché da principio rispondesse non volere obligarsi a salvare la
vita de' soldati, pure alla fine, vinto da' prieghi di tutti i suoi,
gli accettò con le condizioni proposte; eccettuato che Alessandro da
Triulzi con alcuni capitani de' fanti rimanessino prigioni suoi, e
che la terra, per ricomperarsi dal sacco stato promesso a' soldati,
pagasse certa quantità di danari: e nondimeno, parendo loro essergli
debito quel che era stato promesso, non fu piccola fatica al
pontefice rimediare non la saccheggiassino; il quale fattosi tirare
in sulle mura, perché le porte erano atterrate, discese da quelle
nella terra. Arrendessi insieme la rocca, data facoltà alla contessa
di partirsene con tutte le robe sue. Restituí il pontefice la
Mirandola al conte Giovanfrancesco, e gli cedette le ragioni de'
figliuoli del conte Lodovico come acquistate da sé con guerra
giusta; ricevuta da lui obligazione (e, per sicurtà dell'osservanza,
la persona del figliuolo) di pagargli fra certo tempo, per la
restituzione delle spese fatte, ventimila ducati; e vi lasciò,
perché, partito che fusse l'esercito i franzesi non l'occupassino,
cinquecento fanti spagnuoli e trecento italiani. Dalla Mirandola
andò a Sermidi nel mantovano, castello posto in sulla riva del Po,
pieno di grandissima speranza di acquistare senza dilazione alcuna
Ferrara; per il che, il dí medesimo che ottenne la Mirandola, aveva
molto risolutamente risposto ad Alberto Pio non volere piú porgere
l'orecchie a ragionamento alcuno di concordia se, innanzi che si
trattassino l'altre condizioni della pace, non gli era consegnata
Ferrara.
Ma per nuova deliberazione de' franzesi variorno i suoi pensieri.
Perché il re, considerando quanto per la perdita della Mirandola
fusse diminuita la riputazione delle cose sue, e disperando che
l'animo del papa si potesse piú ridurre spontaneamente a quieti
consigli, comandò a Ciamonte che non solamente attendesse a
difendere Ferrara ma che oltre a questo non si astenesse,
presentandosegli occasione opportuna, da offendere lo stato della
Chiesa; onde raccogliendo Ciamonte da ogni parte le genti, il
pontefice per consiglio de' capitani si ritirò a Bologna: dove stato
pochi dí o per timore o per sollecitare, secondo diceva, di luogo
piú vicino l'oppugnazione della bastia del Genivolo, contro alla
quale disegnava mandare alcuni soldati che aveva in Romagna, venne a
Lugo; e se ne andò finalmente a Ravenna, non gli parendo forse sí
piccola espedizione degna della presenza sua.
Lib.9, cap.14
Discussione e deliberazioni de' capitani francesi e del duca di
Ferrara. Parere del Triulzio. Il pontefice consegna Modena al re de'
romani. Morte di Ciamonte e giudizio dell'autore su di lui.
Insuccesso de' pontifici.
Eransi le genti viniziane, non comportando la propinquità degli
inimici assaltare Ferrara, fermate al Bondino, e tra Cento e il
Finale l'ecclesiastiche e le spagnuole; le quali, con tutto che
fusse passato il termine de' tre mesi, soprasedevano a' prieghi del
pontefice. Da altra parte Ciamonte, raccolto l'esercito, superiore
agli inimici di fanti, superiore ancora per la virtú degli uomini da
cavallo ma inferiore di numero, consultava quello fusse da fare; e
proponevano i capitani franzesi che, congiunte all'esercito le genti
del duca di Ferrara, si andasse a trovare gli inimici, i quali
benché fussino alloggiati in luoghi forti si doveva sperare con la
virtú dell'armi e coll'impeto dell'artiglierie avergli facilmente a
costrignere a ritirarsi; e succeduto questo, non solamente rimaneva
Ferrara liberata da ogni pericolo ma si ricuperava interamente la
riputazione perduta insino a quel dí. Allegavasi, per la medesima
opinione, che nel passare con l'esercito per il mantovano si
rimoverebbono le scuse del marchese, e gli impedimenti da' quali
affermava essere stato ritenuto a non pigliare l'armi come
feudatario di Cesare e soldato del re; e che la dichiarazione sua
era molto utile alla sicurtà di Ferrara e molto nociva in questa
guerra agli inimici, perdendone comodità non piccole gli eserciti
de' viniziani di vettovaglie di ponti e di passi di fiumi, e perché
il marchese incontinente rivocherebbe i soldati che aveva nel campo
della Chiesa. Ma in contrario consigliava il Triulzio, il quale ne'
dí medesimi che la Mirandola si perdette era ritornato di Francia;
dimostrando essere pericoloso il cercare di assaltare nella fortezza
de' suoi alloggiamenti l'esercito degli inimici, pernicioso il
sottomettersi a necessità di procedere dí per dí secondo i processi
loro. Piú utile e piú sicuro essere il voltarsi verso Modona o verso
Bologna: perché se gli inimici, temendo di non perdere qualcuna di
quelle città, si movessino, si conseguiterebbe il fine che si
cercava, di liberare Ferrara dalla guerra; non si movendo, si poteva
facilmente acquistare o l'una o l'altra, il che succedendo, maggiore
necessità gli tirerebbe a difendere le cose proprie; e forse che,
uscendo di sito sí forte, s'arebbe occasione di ottenere qualche
preclara vittoria. Questa era la sentenza del Triulzo: nondimeno,
per la inclinazione di Ciamonte e degli altri capitani franzesi a
detrarre alla sua autorità, fu approvato l'altro consiglio;
affaticandosene oltre a questo sommamente Alfonso da Esti, perché
sperava che gli inimici sarebbono necessitati a discostarsi dal suo
stato, il quale afflitto e consumato diceva essere impossibile che
sostenesse piú lungamente sí grave peso; perché temeva che se i
franzesi s'allontanavano non entrassino le genti inimiche nel
Polesine di Ferrara, onde la infermità di quella città, privata di
tutto lo spirito che gli rimaneva, irrimediabilmente s'aggravava.
Andò adunque l'esercito franzese per il cammino di Lucera e di
Gonzaga ad alloggiare a Razzuolo e alla Moia, ove soggiornò per
l'asprezza del tempo tre dí; rifiutando il consiglio di chi
proponeva s'assaltasse la Mirandola, perché era impossibile
alloggiare alla campagna, e alla partita del pontefice erano stati
abbruciati i borghi e tutte le case all'intorno. Non piacque
similmente l'assaltare la Concordia lontana cinque miglia, per non
perdere tempo in cosa di piccola importanza. Però venne a Quistelli,
e passato il fiume della Secchia in su uno ponte fatto colle barche
alloggiò il dí prossimo a Revere, in sul fiume del Po: il quale
alloggiamento fu cagione che Andrea Gritti, che, ricuperato prima il
Pulesine di Rovigo e lasciata una parte de' soldati viniziani sotto
Bernardino dal Montone a Montagnana per resistere alle genti che
guardavano Verona, si era con trecento uomini d'arme mille cavalli
leggieri e mille fanti accostato al fiume del Po per andare a unirsi
con l'esercito della Chiesa, si ritirò a Montagnana; avendo prima
saccheggiata la terra di Guastalla. Da Revere andorno i franzesi a
Sermidi, distendendosi, ma ordinatamente, per le ville circostanti:
i quali come furono alloggiati, andò Ciamonte con alcuni de'
capitani, ma senza il Triulzo, a [la terra della Stellata], nel
quale luogo l'aspettava Alfonso da Esti, per deliberare con qual
modo s'avesse a procedere contro agli inimici, i quali tutti si
erano ridotti ad alloggiare al Finale; e fu deliberato che, unite le
genti d'Alfonso colle franzesi intorno al Bondino, andassino tutti
ad alloggiare in certe ville vicine a tre miglia al Finale, per
procedere dipoi secondo la natura de' luoghi e quel che facessino
gl'inimici. Ma a Ciamonte, come fu tornato a Sermidi, fu detto
essere molto difficile il condursi a quello alloggiamento, perché
per l'impedimento dell'acque, delle quali era pieno il paese intorno
al Finale, non si poteva andarvi se non per la strada e per gli
argini del canale, il quale gli inimici aveano tagliato in piú
luoghi e messevi le guardie per impedire non si passasse; il che
pareva dovesse riuscire molto difficile, aggiunta l'opposizione loro
a' tempi tanto sinistri: onde stando Ciamonte molto dubbio, Alfonso,
avendo appresso a sé alcuni ingegneri e uomini periti del paese, e
dimostrando il sito e la disposizione de' luoghi, si ingegnava di
persuadere il contrario; affermando che con la forza
dell'artiglierie sarebbeno costretti quegli che guardavano i passi
tagliati ad abbandonargli, e che perciò sarebbe molto facile
gittare, ove fusse necessario, i ponti per passare. Le quali cose
essendo referite da Ciamonte e disputate nel consiglio, era
approvato il parere di Alfonso, piú tosto non impugnando che
consentendo il Triulzio: e forse che la taciturnità sua mosse piú
gli uomini che non arebbe fatto la contradizione. Perché
considerandosi piú dappresso che le difficoltà si dimostravano
maggiori, e che quel capitano, vecchio e di sí lunga esperienza,
aveva sempre riprovata tale andata, e che se ne intervenisse alcuno
sinistro sarebbe imputato dal re chi contro al parere suo ne fusse
stato autore, Ciamonte, richiamato l'altro dí sopra la medesima
deliberazione il consiglio, pregò efficacemente il Triulzio che non
con silenzio, come aveva fatto il dí precedente, ma con aperto
parlare esprimesse la sua sentenza. Egli incitato da questa
instanza, e molto piú dall'essere deliberazione di tanto peso,
stando tutti attentissimi a udirlo, parlò cosí:
- Io tacetti ieri perché per esperienza molte volte ho veduto essere
tenuto piccolo conto del consiglio mio, il quale se si fusse
seguitato da principio non saremmo al presente in questi luoghi, né
aremmo perduto invano tanti giorni che si potevano spendere con piú
profitto; e sarei oggi nella medesima sentenza di tacere se non mi
spronasse la importanza della cosa, perché siamo in procinto di
volere mettere sotto il punto incertissimo di uno dado questo
esercito, lo stato del duca di Ferrara e il ducato di Milano, posta
troppo grande senza ritenersi niente in mano: e mi invita oltre a
questo a parlare il parermi comprendere che Ciamonte desideri che il
primo a consigliare sia io quello che già comincia a andare a lui
per l'animo, cosa che non mi è nuova, perché altre volte ho compreso
essere manco disprezzati i consigli miei quando si tratta di
ritirare qualche cosa forse non troppo maturamente deliberata che
quando si fanno le prime deliberazioni. Noi trattiamo di andare a
combattere con gli inimici; e io ho sempre veduto essere fondamento
immobile de' grandi capitani, il quale io medesimamente ho con
l'esperienza imparato, che mai debbe tentare la fortuna della
battaglia chi non è invitato da molto vantaggio o stretto da urgente
necessità; oltre che è secondo la ragione della guerra che agli
inimici che sono gli attori, poiché si muovono per acquistare
Ferrara, tocchi il cercare di assaltare noi, e non che a noi, a'
quali basta il difendersi, tocchi contro a tutte le regole della
disciplina militare sforzarci d'assaltare loro. Ma vediamo quale sia
il vantaggio o la necessità che ci induce. A me pare ed è, se io non
mi inganno del tutto, cosa molto evidente che non si possa tentare
quel che propone il duca di Ferrara se non con grandissimo
disavvantaggio nostro; perché non possiamo andare a quello
alloggiamento se non per uno argine e per una stretta e pessima
strada, dove non si possono spiegare tutte le forze nostre, e dove
loro possono con poche forze resistere a numero molto maggiore.
Bisognerà che per l'argine camminiamo cavallo per cavallo, che per
la strettezza dell'argine conduciamo l'artiglierie i carriaggi le
carra e i ponti: e chi non sa che, nel cammino stretto e cattivo,
ogni artiglieria ogni carro che inciampi fermerà almanco per una ora
tutto l'esercito? e che, essendo inviluppati in tante incomodità,
ogni mediocre sinistro potrà facilmente disordinarci? Alloggiano i
nimici al coperto, provisti di vettovaglie e di strami; noi
alloggieremo quasi tutti allo scoperto e ci bisognerà portarci
dietro gli strami, né potremo se non con gran fatica condurne la
metà del bisogno. Non abbiamo a rapportarci a quel che dichino
gl'ingegneri e i villani pratichi del paese, perché le guerre si
fanno con le armi de' soldati e col consiglio de' capitani; fannosi
combattendo in su la campagna, non co' disegni che dagli uomini
imperiti della guerra si notano in su le carte, o si dipingono col
dito o con una bacchetta nella polvere. Non mi presuppongo io i
nimici sí deboli, non le cose loro in tale disordine, né che abbino
nello alloggiarsi e nel fortificarsi saputo sí poco valersi
dell'opportunità dell'acque e de' siti, che io mi prometta che
subito che saremo giunti nello alloggiamento che si disegna, quando
bene vi ci conducessimo agevolmente, abbia a essere in potestà
nostra l'assaltargli. Potranno molte difficoltà sforzarci a
soprasedervi due o tre dí, e, se non altra difficoltà, le nevi e le
pioggie, in sí sinistra e sí rotta stagione: in che grado saremo
delle vettovaglie e degli strami se ci accadrà soprastarvi? E quando
pure fusse in potestà nostra l'assalirgli, chi è quello che si
prometta tanto facile la vittoria? chi è quello che non consideri
quanto sia pericoloso l'andare a trovare gli inimici alloggiati in
luogo forte, e l'avere in uno tempo medesimo a combattere con loro e
con le incomodità del sito del paese? Se non gli costrigniamo a
levarsi subito di quello alloggiamento saremo necessitati a
ritirarci; e questo con quante difficoltà si farà, per il paese che
tutto ci è contrario, e ove diventerebbe grandissimo ogni
piccolissimo disfavore? Meno veggo la necessità di mettere tutto lo
stato del re in questo precipizio; perché ci siamo mossi
principalmente non per altro che per soccorrere la città di Ferrara,
nella quale se mettiamo a guardia piú genti, possiamo starne
sicurissimi, quando bene noi dissolvessimo l'esercito; e se si
dicesse che è tanto consumata che, rimanendogli addosso l'esercito
degli inimici, è impossibile che in breve tempo non caggia per se
stessa, non abbiamo noi il rimedio della diversione, rimedio
potentissimo nelle guerre, con la quale, senza mettere pure uno
cavallo in pericolo, gli necessitiamo ad allargarsi da Ferrara? Io
ho sempre consigliato, e consiglio piú che mai, che noi ci voltiamo
o verso Modona o verso Bologna, pigliando il cammino largo e
lasciando Ferrara, per questi pochi dí, che per piú non sarà
necessario, bene proveduta. Piacemi ora piú l'andare a Modena, alla
qual cosa ci stimola il cardinale da Esti, persona tale, e che
afferma avervi dentro intelligenza, proponendo lo acquisto molto
facile: e conquistando uno luogo sí importante, gli inimici
sarebbeno costretti a ritirarsi subito verso Bologna; e quando bene
non si pigliasse Modona, il timore di quella e delle cose di Bologna
gli costrignerà a fare il medesimo; come indubitatamente arebbono
fatto, già molti dí, se da principio si fusse seguitato questo
parere. -
Conobbeno tutti per le efficaci ragioni del savio capitano, quando
le difficoltà erano già presenti, quello che egli, quando erano
ancora lontane, aveva conosciuto. Però approvato da tutti il suo
parere, Ciamonte, lasciato al duca di Ferrara per sicurtà sua
maggiore numero di gente, si mosse coll'esercito per il cammino
medesimo verso Carpi; non avendo né anche conseguito che il marchese
di Mantova si dichiarasse, che era stata una delle cagioni allegata
principalmente da coloro che aveano consigliato contro all'opinione
del Triulzo. Perché il marchese, desiderando conservarsi in queste
turbolenze neutrale, come s'approssimava il tempo nel quale aveva
data speranza di dichiararsi, pregava con varie scuse che gli fusse
permesso il differire ancora qualche dí: al pontefice dimostrando il
pericolo evidente che gli soprastava dall'esercito franzese; a
Ciamonte supplicando che non gli interrompesse la speranza che
aveva, che 'l papa, in brevissimo spazio di tempo, gli renderebbe il
figliuolo. Ma né anche il disegno di occupare Modona procedette
felicemente, facendo maggiore impedimento l'astuzia e i consigli
occulti del re d'Aragona che l'armi del pontefice. Era stato molesto
a Cesare che il pontefice avesse occupato Modona, città stata
riputata lunghissimo tempo di giurisdizione dello imperio, e tenuta
moltissimi anni dalla famiglia da Esti co' privilegi e investiture
de' Cesari; e con tutto che con molte querele avesse fatta instanza
che la gli fusse conceduta, il pontefice, che delle ragioni di
quella città o sentiva o pretendeva altrimenti, era stato da
principio renitente, massimamente mentre sperò dovergli essere
facile l'occupare Ferrara. Ma scoprendosi poi manifestamente in
favore da Esti l'armi franzesi, né potendo sostenere Modona se non
con gravi spese, aveva cominciato a gustare il consiglio del re
d'Aragona; il quale lo confortò che, per fuggire tante molestie,
mitigare l'animo di Cesare e tentare di fare nascere alterazione tra
il re di Francia e lui, lo consentisse, atteso massimamente che
quando in tempo piú comodo desiderasse di riaverla gli sarebbe
sempre facile, dando a Cesare quantità mediocre di danari: il quale
ragionamento era stato prolungato molti dí, perché secondo la
variazione delle speranze si variava la deliberazione del pontefice;
ma sempre era stata ferma questa difficoltà, che Cesare ricusava
riceverla se nell'instrumento della consegnazione non s'esprimeva
chiaramente quella città essere appartenente all'imperio, il che al
pontefice pareva durissimo consentire. Ma come, occupata che ebbe la
Mirandola, vedde Ciamonte uscito potente alla campagna, e che a lui
ritornavano le medesime difficoltà e spese della difesa di Modona,
omessa la disputazione delle parole, consentí che nello instrumento
si dicesse, restituirsi Modona a Cesare della cui giuridizione era:
la possessione della quale come Vitfrust, oratore di Cesare appresso
al papa, ebbe ricevuta, persuadendosi dovere essere sicura per
l'autorità cesarea, licenziò Marcantonio Colonna e le genti con le
quali l'avea prima guardata in nome della Chiesa: e a Ciamonte
significò, Modona non appartenere piú al pontefice ma essere
giustamente ritornata sotto il dominio di Cesare. Non credette
Ciamonte questo essere vero, e però stimolava il cardinale da Esti
all'esecuzione del trattato che diceva avere in quella città: per
ordine del quale, i soldati franzesi che Ciamonte aveva lasciati
alla guardia di Rubiera, essendosi una notte accostati piú
tacitamente potettono a uno miglio appresso a Modona, si ritirorno
la notte medesima a Rubiera, non corrispondendo gli ordini dati da
quegli di dentro, o per qualche difficoltà sopravenuta o perché i
franzesi si fussino mossi innanzi al tempo. Uscirono dipoi un'altra
notte di Rubiera per accostarsi pure a Modona, ma dalla grossezza e
furore dell'acque furno impediti di passare il fiume della Secchia
che corre innanzi a Rubiera. Dalle quali cose insospettito Vitfrust,
avendo fatti incarcerare alcuni modonesi, incolpati che
macchinassino col cardinale da Esti, impetrò dal pontefice che
Marcantonio Colonna col medesimo presidio vi ritornasse; il che non
arebbe ritenuto Ciamonte, che già era venuto a Carpi, di andarvi a
campo, se la qualità del tempo non gli avesse impedito il condurre
l'artiglierie, per quella via, non piú lunga di dieci miglia, che è
tra Ruolo e Carpi, la quale è peggiore di tutte le strade di
Lombardia; le quali, la invernata, sfondate dall'acque e piene di
fanghi, sono pessime. Certificossi oltre a questo ogni dí piú
Ciamonte, Modona essere stata data veramente a Cesare; perciò
convenne con Vitfrust di non offendere Modona né 'l suo contado,
ricevuta all'incontro promessa da lui che ne' movimenti tra 'l
pontefice e il re cristianissimo non favorisse né l'una né l'altra
parte.
Sopravenne pochi dí poi infermità grave a Ciamonte, il quale portato
a Coreggio finí dopo quindici giorni l'ultimo dí della vita sua;
avendo innanzi morisse dimostrato con divozione grande di pentirsi
sommamente dell'offese fatte alla Chiesa, e supplicato per
instrumento publico al pontefice che gli concedesse l'assoluzione:
la quale, conceduta che ancora viveva, non potette, sopravenendo la
morte, pervenire alla sua notizia. Capitano, mentre visse, di grande
autorità in Italia, per la potenza somma del cardinale di Roano e
per l'amministrazione quasi assoluta del ducato di Milano e di tutti
gli eserciti del re, ma di valore inferiore molto a tanto peso:
perché, costituito nel grado infimo degli uomini non sapeva da se
stesso l'arti della guerra né prestava fede a quegli che le
sapevano. Di maniera che, non essendo dopo la morte del zio
sostentata piú la insufficienza dal favore, era negli ultimi tempi
venuto quasi in dispregio de' soldati; a' quali perché non
rapportassino male dí lui al re, permetteva grandissima licenza: in
modo che 'l Triulzo, capitano nutrito nella antica disciplina,
affermava spesso con sacramento, non volere mai piú andare negli
eserciti franzesi se non vi fusse o il re proprio o egli superiore a
tutti. Aveva nondimeno il re destinato, prima, di dargli
successore... monsignore di Lungavilla, benché illegittimo, del
sangue regio; non seguitando tanto la virtú quanto, per la nobiltà e
per le ricchezze, l'autorità e l'estimazione della persona.
Per la morte di Ciamonte ricadde, secondo gli instituti di Francia,
insino a nuova ordinazione del re, il governo dell'esercito a
Gianiacopo da Triulzi, uno de' quattro mariscialli di quel reame; il
quale, non sapendo se in lui avesse a continuare o no, non ardiva di
tentare cosa alcuna di momento. Ritornò nondimeno coll'esercito a
Sermidi, per andare a soccorrere la bastia del Genivolo; la quale il
pontefice molestava colle genti che erano in Romagna, avendo
similmente procurato che nel tempo medesimo vi si appressasse
l'armata de' viniziani di tredici galee sottili e molti legni
minori. Ma non fu necessitato a procedere piú oltre, perché, mentre
che le genti di terra vi stanno intorno con piccola ubbidienza e
ordine, ecco che all'improviso sopravengono il duca di Ferrara e
Ciattiglione coi soldati franzesi; i quali, usciti da Ferrara con
maggiore numero di genti che non aveano gli inimici, i fanti per il
Po alla seconda, i capitani co' cavalli camminando per terra in
sulla riva del Po, arrivorno in sul fiume del Santerno, in sul quale
gittato il ponte che aveano condotto seco furono in un momento
addosso agl'inimici: i quali disordinati, non facendo resistenza
alcuna altri che trecento fanti spagnuoli deputati a guardare
l'artiglierie, si messono in fuga: salvandosi con difficoltà Guido
Vaina, Brunoro da Furlí e Meleagro suo fratello, condottieri di
cavalli, perdute l'insegne e l'artiglierie. Per il che l'armata
viniziana, discostatasi per fuggire il pericolo, s'allargò nel Po.
Lib.9, cap.15
Massimiliano per consiglio del re d'Aragona si fa propugnatore di
pace. Timori e sospetti del re di Francia verso Ferdinando. Il re di
Francia manda il cardinale di Parigi a Mantova per le eventuali
trattative. Fazioni di guerra vicino al Po e nel mirandolese.
L'ambasciatore di Massimiliano, per invito del pontefice, si reca
presso di lui a Bologna.
Variavano in questo modo le cose dell'armi, non si vedendo ancora
indizio da potere fondatamente giudicare quale dovesse essere
l'esito della guerra. Ma non meno né con minore incertitudine
variavano i pensieri de' príncipi, principalmente di Cesare; il
quale inaspettatamente deliberò di mandare il vescovo Gurgense a
Mantova a trattare la pace. Erasi, come è detto di sopra, stabilito
per mezzo del vescovo prefato tra 'l re di Francia e Cesare di
muovere potentemente alla primavera la guerra contro a' viniziani e
che in caso che 'l pontefice non consentisse d'osservare la lega di
Cambrai, di convocare il concilio: al quale Cesare molto inclinato,
aveva dopo il ritorno di Gurgense chiamato i prelati degli stati
suoi patrimoniali, perché trattassino in quali modi e in qual luogo
si dovesse celebrare. Ma, come naturalmente era vario e incostante e
inimico del nome franzese, avea dipoi prestato l'orecchie al re
d'Aragona; il quale, considerando che l'unione di Cesare e del re, e
la depressione con l'armi comuni de' viniziani, medesimamente la
ruina del pontefice per mezzo del concilio, accrescerebbeno
immoderatamente la grandezza del re di Francia, si era ingegnato
persuadergli essere piú a proposito suo la pace universale, pure che
con quella conseguisse o in tutto o in maggiore parte quello che gli
occupavano i viniziani; confortandolo che a questo effetto mandasse
a Mantova una persona notabile con ampia autorità e che operasse che
il re di Francia facesse il medesimo, e che egli simigliantemente vi
manderebbe; onde il pontefice non potrebbe dinegare di fare il
simile, né finalmente deviare dalla volontà di tanti príncipi; dalla
cui deliberazione dependendo la deliberazione de' viniziani (perché
per non rimanere soli erano necessitati seguitare la sua autorità),
potersi verisimilmente sperare che Cesare, senza difficoltà senza
armi senza accrescere la riputazione o la potenza del re di Francia,
otterrebbe con somma laude insieme con la pace universale lo intento
suo. E quando pure non ne succedesse quel che ragionevolmente ne
doveva succedere, non per questo rimanere privato della facoltà di
muovere, al tempo determinato e coll'opportunità medesime, la
guerra: anzi, essendo egli il capo di tutti i príncipi cristiani e
avvocato della Chiesa, augumentarsi molto le giustificazioni ed
esaltarsi assai da questo consiglio la gloria sua; perché a tutto il
mondo manifestamente apparirebbe avere principalmente desiderato la
pace e l'unione de' cristiani, ma averlo costretto alla guerra
l'ostinazione e perversi consigli degli altri. Furno capaci a Cesare
le ragioni addotte dal re cattolico, e perciò nel tempo medesimo
scrisse al pontefice e al re di Francia. Al pontefice, avere
deliberato di mandare il vescovo Gurgense in Italia, perché, come
conveniva a principe religioso, e per la degnità imperiale avvocato
della Chiesa e capo di tutti i príncipi cristiani, aveva statuito
procurare quanto potesse la tranquillità della sedia apostolica e la
pace della cristianità; e confortare lui che, come apparteneva a
vicario vero di Cristo, procedesse con la medesima intenzione, acciò
che, non facendo quel che era ufficio del pontefice, non fusse
costretto egli a pensare a' rimedi necessari per la quiete de'
cristiani. Non approvare che e' trattasse di privare i cardinali
assenti della degnità del cardinalato, perché non si essendo
assentati per maligni pensieri né per odio contro a lui non
meritavano tale pena; né appartenere al papa solo la privazione de'
cardinali. Ricordargli oltre a questo, essere cosa molto indegna e
inutile creare in tante turbazioni cardinali nuovi, come similmente
gli era proibito per i capitoli fatti da' cardinali nel tempo della
sua elezione al pontificato; esortandolo a riservare tal cosa a
tempo piú tranquillo, nel quale non arebbe o necessità o cagione di
promuovere a tanta degnità se non persone approvatissime per
prudenza per dottrina e per costumi. Al re di Francia scrisse che,
sapendo la inclinazione che sempre avea avuta alla pace onesta e
sicura, avea deliberato di mandare a Mantova il vescovo Gurgense a
trattare la pace universale, alla quale credeva con fondamenti non
leggieri che il pontefice, l'autorità del quale erano costretti a
seguitare i viniziani, fusse inclinato; il medesimo prometterebbono
gli oratori del re d'Aragona; e che perciò lo ricercava che egli
similmente vi mandasse imbasciadori con ampio mandato: i quali come
fussino congregati, Gurgense richiederebbe il pontefice che facesse
il medesimo, e in caso lo denegasse se gli denunzierebbe in nome di
tutti il concilio: mandando che per procedere con maggiore
giustificazione e porre fine alle controversie di tutti, Gurgense
udirebbe le ragioni di tutti; ma che, in qualunque caso, tenesse per
certo che giammai co' viniziani non farebbe concordia alcuna se nel
tempo medesimo non si terminassino col pontefice le differenze sue.
Fu grata questa cosa al pontefice, non a fine di pace o di concordia
ma perché, persuadendosi potere disporre il senato viniziano a
comporsi con Cesare, sperava che Cesare liberato per questo mezzo
dalla necessità di stare unito col re di Francia si separerebbe da
lui; onde agevolmente potrebbe contro al re nascere congiunzione di
molti príncipi. Ma questa improvisa deliberazione fu molestissima al
re di Francia; perché, non avendo speranza che ne avesse a risultare
la pace universale, giudicava che il minore male che ne potesse
succedere sarebbe interporre lunghezza all'esecuzione delle cose
convenute da sé con Cesare. Temeva che il pontefice, promettendo a
Cesare di aiutarlo acquistare il ducato di Milano e a Gurgense la
degnità del cardinalato e altre grazie ecclesiastiche, non
l'alienasse da lui; o almeno, essendo mezzo che la composizione co'
viniziani non fusse piú favorevole a Cesare, mettesse lui in
necessità d'accettare la pace con inonestissime condizioni.
Accrescevagli il sospetto l'essersi Cesare confederato di nuovo co'
svizzeri, benché solamente a difesa. Persuadevasi, il re cattolico
essere stato autore a Cesare di questo nuovo consiglio; della cui
mente sospettava grandemente per molte cagioni. Sapeva che l'oratore
suo appresso a Cesare si era affaticato e affaticava scopertamente
per la concordia tra Cesare e i viniziani: credeva che occultamente
desse animo al pontefice, nell'esercito del quale erano state le
genti sue molto piú tempo che quello che per i patti della
investitura del regno di Napoli era tenuto: sapeva che, per impedire
l'azioni sue, si opponeva efficacemente alla convocazione del
concilio; e sotto specie d'onestà dannava palesemente che, ardendo
Italia di guerre, e con la mano armata, si trattasse di fare una
opera che senza la concordia di tutti i príncipi non poteva
partorire altro che frutti velenosissimi: aveva notizia prepararsi
da lui nuovamente in mare una armata molto potente, e con tutto che
publicasse di volere passare in Affrica personalmente non si poteva
però sapere se ad altri fini si preparava. Facevanlo molto piú
sospettare le dolcissime parole sue colle quali pregava quasi
fraternalmente il re che facesse la pace col pontefice, rimettendo
eziandio, quando altrimenti fare non si potesse, delle sue ragioni,
per non si dimostrare persecutore della Chiesa, contro all'antica
pietà della casa di Francia, e per non interrompere a lui la guerra
destinata per esaltazione del nome di Cristo contro a' mori di
Affrica, turbando in uno tempo medesimo tutta la cristianità;
soggiugnendo essere stata sempre consuetudine de' príncipi
cristiani, quando preparavano l'armi contro agli infedeli, domandare
in causa tanto pia sussidio dagli altri, ma a lui bastare non essere
impedito, né ricercarlo d'altro aiuto se non che consentisse che
Italia stesse in pace. Le quali parole, benché porte al re
dall'oratore suo e da lui proprio dette all'oratore del re risedente
appresso a lui, molto destramente e con significazione grande di
amore, pareva perciò che contenessino uno tacito protesto di
pigliare l'armi in favore del pontefice: il che al re non pareva
verisimile che ardisse di fare senza speranza di indurre Cesare al
medesimo.
Angustiavano queste cose non mediocremente l'animo del re, e
l'empievano di sospetto che il trattare la pace per mezzo del
vescovo Gurgense sarebbe opera o vana o perniciosa a sé; nondimeno,
per non dare causa di indegnazione a Cesare, si risolvé a mandare a
Mantova il vescovo di Parigi, prelato di grande autorità e dotto
nella scienza delle leggi. In questo tempo medesimo significò il re
a Gianiacopo da Triulzi, il quale fermatosi a Sermidi avea, per
maggiore comodità dell'alloggiare e delle vettovaglie, distribuito
in piú terre circostanti l'esercito, essere la volontà sua che da
lui fusse amministrata la guerra; con limitazione che, per
l'espettazione della venuta di Gurgense, non assaltasse lo stato
ecclesiastico: alla qual cosa repugnando anche l'asprezza inusitata
del tempo, per la quale, con tutto che fusse cominciato il mese di
marzo, era impossibile alloggiare allo scoperto.
Perciò il Triulzo, poi che non s'aveva occasione di tentare altro e
che era ne' luoghi tanto vicini, deliberò di tentare se si poteva
offendere l'esercito inimico; il quale, allargatosi quando Ciamonte
ritornò da Sermidi a Carpi, alloggiava al Bondino quasi tutta la
fanteria, e la cavalleria al Finale e per le ville vicine. Però,
ricevuta la commissione del re, andò il dí seguente alla Stellata e
l'altro dí alquanto piú innanzi; ove distribuí al coperto per le
ville circostanti l'esercito, e facendo gittare il ponte con le
barche tra la Stellata e Ficheruolo in su tutto il fiume del Po:
avendo ordinato che 'l duca di Ferrara ne gittasse un altro un
miglio di sotto ove si dice la Punta, in su quello ramo del Po che
va a Ferrara; e che con l'artiglierie venisse allo Spedaletto, luogo
in sul Polesine di Ferrara che è di riscontro al Bondino. Ebbe in
questo mezzo il Triulzio notizia dalle sue spie che molti cavalli
leggieri, di quella parte dell'esercito de' viniziani che era di là
dal Po, dovevano la notte prossima venire appresso alla Mirandola a
ordinare certe insidie; perciò vi mandò occultamente molti cavalli:
i quali giunti a Bellaere, palagio del contado mirandolano, vi
trovorno fra' Lionardo napoletano capitano de' cavalli leggieri de'
viniziani, uomo chiaro in quello esercito, il quale non temendo
dovessino venirvi gli inimici, smontato quivi con cento cinquanta
cavalli ne aspettava molti altri che lo doveano seguitare; ma
oppresso all'improviso, volendosi difendere, fu ammazzato con molti
de' suoi. Venne Alfonso da Esti, come era destinato, allo
Spedaletto, e la notte seguente cominciò a tirare con l'artiglierie
contro al Bondino; e nel tempo medesimo il Triulzio mandò Gastone
monsignore di Fois, figliuolo di una sorella del re (il quale,
giovanetto, era l'anno dinanzi venuto all'esercito), a correre, con
cento uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e cinquecento
fanti, insino alle sbarre dell'alloggiamento degli inimici: il quale
messe in fuga cinquecento fanti destinati alla guardia di quella
fronte; onde gli altri tutti, lasciato guardato il Bondino, si
ritirorno di là dal canale nel sito forte. Ma non succedette al
Triulzo alcuna delle cose destinate; perché l'artiglieria piantata
contro al Bondino, essendovi in mezzo il Po, faceva per la distanza
del luogo piccolo progresso, e molto piú perché cresciuto il fiume,
e tagliato l'argine da quegli che erano nel Bondino, allagò talmente
il paese che dalla fronte degli alloggiamenti franzesi al Bondino
non si poteva piú andare se non colle barche: di maniera che 'l
capitano, disperato di potere piú condursi per quella via agli
alloggiamenti degli inimici, chiamò da Verona dumila fanti tedeschi
e ordinò si soldassino tremila grigioni, per accostarsi loro per la
via di San Felice; in caso che, per opera del vescovo Gurgense, non
si introducesse la pace.
La cui venuta era stata alquanto piú tarda perché a Salò, in sul
lago di Garda, aveva aspettato piú dí invano la risposta del
pontefice; il quale aveva per lettere ricercato che mandasse
imbasciadori a trattare. Venne finalmente a Mantova, accompagnato da
don Petro d'Urrea, il quale per il re d'Aragona risedeva
ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dí poi sopravenne il
vescovo di Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per
essere piú vicino alle pratiche della pace e a provedimenti della
guerra, era venuto a Lione) che medesimamente il pontefice dovesse
mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva instanza che Gurgense
andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo essere piú
secondo la degnità pontificale quanto perché sperava, e
coll'onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l'efficacia e
autorità della presenza, averlo a indurre nella sua volontà,
alienissima piú che mai dalla concordia e dalla pace: il che per
persuadergli piú facilmente procurò che andasse a lui Ieronimo Vich
valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé. Non negava
Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto
di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che
piú facilmente si rimoverebbono le difficoltà se si trattasse prima
a Mantova, con intenzione di andare poi al pontefice con le cose
digerite e quasi conchiuse. Astrignerlo a questo medesimo non meno
la necessità che il rispetto della facilità: perché come era egli
conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi, mandato dal re di
Francia a Mantova per l'instanza fatta da Cesare? con che speranza
potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente
richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né
secondo la commissione né secondo la degnità del re poteva andare in
casa dello inimico, se prima non fussino composte, o quasi composte,
le differenze loro. In contrario argomentavano i due imbasciadori
aragonesi, dimostrando che tutta la speranza della pace dipendeva
dal comporre le cose di Ferrara; perché composte quelle, non
rimanendo al pontefice piú causa alcuna di sostentare i viniziani,
sarebbono essi del tutto necessitati di cedere alla pace con quelle
leggi che volesse Cesare medesimo. Pretendere il pontefice che la
sedia apostolica avesse in sulla città di Ferrara potentissime
ragioni: riputare, oltre a questo, Alfonso da Esti avere usato seco
grande ingratitudine, avergli fatte molte ingiurie; e per
mollificare l'animo suo gravemente sdegnato essere piú conveniente e
piú a proposito che il vassallo dimandasse piú tosto clemenza al
superiore che disputasse della giustizia. Dunque, avendosi a
impetrare clemenza, essere non solamente onesto ma quasi necessario
il trasferirsi a lui; il che facendo non dubitavano che molto
mitigato diminuirebbe il rigore; né essi giudicare essere utile che
quella diligenza industria e autorità che s'aveva a usare per
disporre il pontefice alla pace si spendesse nel persuaderlo a
mandare. Soggiugnevano, con parole bellissime, non si potere né
disputare né terminare le differenze se non intervenivano tutte le
parti, ma in Mantova non essere altri che una, perché Cesare il re
cristianissimo e il re cattolico erano in tanta congiunzione di
leghe, di parentadi e di amore che si dovevano riputare come
fratelli, e che gli interessi di ciascuno di loro fussino comuni di
tutti. Assentí finalmente Gurgense, con intenzione che 'l vescovo di
Parigi, aspettando a Parma che partorisse l'andata sua, vi andasse
anch'egli, se cosí piacesse al suo re, di andare al pontefice.
Lib.9, cap.16
Nomina di nuovi cardinali. Entrata dell'ambasciatore di Massimiliano
in Bologna e suo superbo contegno. Sue trattative di accordo coi
veneziani. Avversione del pontefice alla pace coi francesi e subito
fallimento delle trattative. Gli ambasciatori aragonesi per invito
dell'inviato di Massimiliano ritirano le milizie spagnole
dall'esercito pontificio.
Il quale non aveva in questo tempo, per le cose che si trattavano
attenenti alla pace, deposti i pensieri della guerra: perché di
nuovo tentava l'espugnazione della bastia del Genivolo, avendo
preposto a questa impresa Giovanni Vitelli. Ma essendo, per la
strettezza de' pagamenti, il numero de' fanti molto minore di quel
che aveva disegnato, ed essendo per le pioggie grandi, e perché
quegli che erano nella bastia aveano rotto gli argini del Po,
inondato il paese all'intorno, non si faceva progresso alcuno: e per
acqua vi erano superiori le cose d'Alfonso da Esti; perché avendo
con una armata di galee e di brigantini assaltata appresso a Santo
Alberto l'armata de' viniziani, quella, spaventata perché mentre
combattevano si scoperse una armata di legni minori che veniva da
Comacchio, si rifuggí nel porto di Ravenna, avendo perduto due fuste
tre barbotte e piú di quaranta legni minori. Onde il papa, perduta
la speranza di pigliare la bastia, mandò quelle genti nel campo che
alloggiava al Finale, diminuito molto di fanti perché
strettissimamente erano pagati. Creò nel tempo medesimo il pontefice
otto cardinali, parte per conciliarsi gli animi de' príncipi, parte
per armarsi, contro alle minaccie del concilio, di prelati dotti ed
esperimentati e di autorità nella corte romana, e di persone
confidenti a sé, tra' quali fu l'arcivescovo d'Iorch (diconlo i
latini eboracense) imbasciadore del re di Inghilterra, e il vescovo
di Sion: questo come uomo importante a muovere la nazione de'
svizzeri; quello perché ne fu ricercato dal suo re, il quale aveva
già non piccola speranza di concitare contro a' franzesi. E per dare
arra quasi certa della medesima degnità a Gurgense, e renderselo con
questa speranza piú facile, si riservò, col consentimento del
concistorio, facoltà di nominarne un altro riservato nel petto suo.
Ma inteso che ebbe, Gurgense avere consentito di andare a lui,
disposto a onorarlo sommamente, e parendogli niuno onore potere
essere maggiore che il pontefice romano farsegli incontro, e oltre a
questo dargli maggiore comodità d'onorarlo il riceverlo in una
magnifica città, andò da Ravenna a Bologna; dove, il terzo dí dopo
l'entrata sua, entrò il vescovo Gurgense, ricevuto con tanto onore
che quasi con maggiore non sarebbe stato ricevuto re alcuno: né si
dimostrò da lui pompa e magnificenza minore; perché, venendo con
titolo di luogotenente di Cesare in Italia, aveva seco grandissima
compagnia di signori e di gentiluomini, tutti colle famiglie loro,
vestiti e ornati molto splendidamente. Alla porta della città se gli
fece incontro, con segni di grandissima sommissione, l'imbasciadore
che 'l senato viniziano teneva appresso al pontefice: contro al
quale egli, pieno di fasto inestimabile, si voltò con parole e gesti
molto superbi, sdegnandosi che uno che rappresentava gli inimici di
Cesare avesse avuto ardire di presentarsi al cospetto suo. Con
questa pompa accompagnato insino al concistorio publico, ove con
tutti i cardinali l'aspettava il pontefice, propose con breve ma
superbissimo parlare, Cesare averlo mandato in Italia per il
desiderio che aveva di conseguire le cose sue piú tosto per la via
della pace che della guerra; la quale non poteva avere luogo se i
viniziani non gli restituivano tutto quello che in qualunque modo se
gli apparteneva. Parlò dopo l'udienza publica col pontefice
privatamente, nella medesima sentenza e con la medesima alterezza:
alle quali parole e dimostrazioni accompagnò, il seguente dí, fatti
non meno superbi. Perché avendo il pontefice, con suo consentimento,
diputati a trattare seco tre cardinali, San Giorgio, Regino e quel
de' Medici, i quali aspettandolo all'ora che erano convenuti di
essere insieme, egli, come se fusse cosa indegna di lui trattare con
altri che col pontefice, mandò a trattare con loro tre de' suoi
gentiluomini, scusandosi di essere occupato in altre faccende: la
quale indegnità divorava insieme con molt'altre il pontefice,
vincendo la sua natura l'odio incredibile contro a' franzesi.
Ma nella concordia tra Cesare e i viniziani, della quale cominciò a
trattarsi prima, erano molte difficoltà. Perché se bene Gurgense, il
quale aveva dimandato prima tutte le terre, consentisse alla fine
che a loro rimanessino Padova e Trevigi con tutti i loro contadi e
appartenenze, voleva che in ricompenso dessino a Cesare quantità
grandissima di danari; che da lui in feudo le riconoscessino, e le
ragioni dell'altre terre gli cedessino: le quali cose erano nel
senato ricusate; ove tutti unitamente conchiudevano piú utile essere
alla republica (poi che aveano talmente fortificate Padova e Trevigi
che non temevano di perderle) conservarsi i danari; perché, se mai
passava questa tempesta, potrebbe offerirsi qualche occasione che
facilmente recupererebbono il loro dominio. Da altra parte il
pontefice ardeva di desiderio convenissino con Cesare, sperando che
da questo avesse a succedere che egli si alienasse dal re di
Francia; però gli stimolava, parte con prieghi parte con minaccie,
che accettassino le condizioni proposte. Ma era minore appresso a
loro la sua autorità, non solamente perché conoscevano da quali fini
procedesse tanta caldezza ma perché, sapendo quanto gli fusse
necessaria la compagnia loro in caso non si riconciliasse col re di
Francia, tenevano per certo che mai gli abbandonerebbe. Pure, da poi
che fu disputato molti dí, rimettendo il vescovo Gurgense qualche
parte della sua durezza e i viniziani cedendo piú di quel che aveano
destinato alla instanza ardentissima del pontefice, interponendosi
medesimamente gli oratori del re d'Aragona, che a tutte le pratiche
intervenivano, pareva che finalmente fussino per convenire; pagando
i viniziani, per ritenersi con consentimento di Cesare Padova e
Trevigi, ma in tempi lunghi, quantità grandissima di danari.
Rimaneva la causa della riconciliazione tra 'l pontefice e il re di
Francia, tra i quali non appariva altra controversia che per le cose
del duca di Ferrara; la quale Gurgense per risolvere (perché Cesare
senza questa aveva deliberato non convenire) andò a parlare al
pontefice, al quale rarissime volte era stato; persuadendosi, per le
speranze avute dal cardinale di Pavia e dagli oratori del re
cattolico, dovere essere materia non difficile, perché da altra
parte sapeva, il re di Francia, avendo minore rispetto alla degnità
che alla quiete, essere disposto a consentire molte cose di non
piccolo pregiudicio al duca. Ma il pontefice, interrompendogli quasi
nel principio del parlare il ragionamento, cominciò per contrario a
confortarlo che, concordando co' viniziani, lasciasse pendenti le
cose di Ferrara; lamentandosi che Cesare non conoscesse l'occasione
paratissima di vendicarsi, con l'altrui forze e danari, di tante
ingiurie ricevute da' franzesi, e che aspettasse d'essere pregato di
quel che ragionevolmente doveva con somma instanza supplicare. Alle
quali cose Gurgense poi che con molte ragioni ebbe replicato, né
potendo rimuoverlo dalla sentenza sua, gli significò volersi partire
senza dare altrimenti perfezione alla pace co' viniziani; e
baciatigli secondo il costume i piedi, il dí medesimo, che fu il
quintodecimo dalla venuta sua a Bologna, se ne andò a Modona; avendo
invano il pontefice mandato a richiamarlo subito che fu uscito della
città: onde si indirizzò verso Milano, lamentandosi in molte cose
del pontefice, e specialmente che, mentre che per la venuta sua in
Italia erano quasi sospese l'armi, avesse mandato secretamente per
turbare lo stato di Genova... vescovo di Ventimiglia figliuolo già
di Paolo cardinale Fregoso. Dell'andata del quale essendo penetrata
notizia a' franzesi, lo feciono, cosí incognito come andava,
pigliare nel Monferrato; onde condotto a Milano manifestò
interamente le cagioni e i consigli della sua andata.
Ricercò Gurgense, quando partí da Bologna, gli imbasciadori
aragonesi (i quali, essendosi per quel che appariva affaticati molto
per la pace comune, si dimostravano sdegnati della durezza del
pontefice) che facessino ritornare nel reame di Napoli le trecento
lancie spagnuole; il che essi prontamente acconsentirono. Donde
ciascuno tanto piú si maravigliava che, nel tempo che si trattava
del concilio, e che si credeva dovere essere potenti in Italia, con
la presenza d'amendue i re, l'armi franzesi e tedesche, il
pontefice, oltre all'inimicizia del re di Francia, si alienasse
Cesare e si privasse degli aiuti del re cattolico. Dubitavano alcuni
che in questo come in molte altre cose fussino diversi i consigli
del re d'Aragona dalle dimostrazioni, e che altro avessino in
publico operato gli oratori suoi altro in secreto col pontefice;
perché avendo provocato il re di Francia con nuove offese, e per
quelle risuscitata la memoria delle antiche, pareva che dovesse
temere che la pace di tutti gli altri non producesse gravissimi
pericoli contro a sé, rimanendo indeboliti di stato di danari e di
riputazione i viniziani, poco potente in Italia il re de' romani e
vario instabile e prodigo piú che mai: altri, discorrendo piú
sottilmente, interpretavano potere per avventura essere che il
pontefice, quantunque il re cattolico gli protestasse d'abbandonarlo
e richiamasse le sue genti, confidasse che egli, considerando quanto
nocerebbe a sé proprio la sua depressione, avesse sempre ne' bisogni
maggiori a sostenerlo.
Lib.9, cap.17
I francesi, occupata Concordia, si portano vicino a Bologna. Il
pontefice abbandona Bologna per Ravenna. Eccitazione degli animi in
Bologna. Il legato del papa abbandona la città, ove vengono chiamati
i Bentivoglio. Ritirata e perdite degli eserciti ecclesiastico e
veneziano. I francesi in attesa di istruzioni del re. Consegna della
fortezza di Bologna ai cittadini; terre ricuperate dal duca di
Ferrara.
Per la partita di Gurgense, perturbate le speranze della pace,
ancora che il pontefice gli avesse quattro dí poi mandato dietro il
vescovo di Moravia, oratore appresso a sé del re di Scozia, per
trattare della pace col re di Francia, si rimossono le cagioni che
aveano ritardato Gianiacopo da Triulzi; il quale ardeva di onesta
ambizione di fare qualche opera degna della virtú e antica gloria
sua, e donde al re si dimostrasse con quanto danno proprio si
commetta il governo delle guerre (cosa tra tutte l'azioni umane la
piú ardua e la piú difficile, e che ricerca maggiore prudenza ed
esperienza) non a capitani veterani ma a giovani inesperti, e della
virtú de' quali niuna altra cosa fa testimonianza che il favore.
Però, continuando nelle prime deliberazioni, ancora che non fussino
arrivati i fanti grigioni, perché il generale di Normandia dal quale
dipendevano l'espedizioni, sperando nella pace e cercando di farsi
piú grato al re con la parsimonia dello spendere, aveva differito il
mandare a soldargli, pose al principio del mese di maggio, con mille
dugento lancie e settemila fanti, il campo alla Concordia; la quale
ottenne il dí medesimo, perché avendo gli uomini della terra,
impauriti perché aveano già cominciato a tirare l'artiglierie,
mandato imbasciadori a lui per arrendersi, ed essendo perciò
allentata la diligenza delle guardie, i fanti dell'esercito saltati
dentro la saccheggiorno. Presa la Concordia, per non dare occasione
agli emuli suoi di calunniarlo che attendesse piú alla utilità
propria che a quella del re, lasciata indietro la Mirandola si
dirizzò verso Buonporto, villa posta in sul fiume del Panaro, per
accostarsi tanto agli inimici che con l'impedire loro le vettovaglie
gli costrignesse a diloggiare, o a combattere fuora della fortezza
del loro alloggiamento. Entrato nel contado di Modena e alloggiato
alla villa del Cavezzo, inteso che a Massa presso al Finale
alloggiava Giampaolo, Manfrone con trecento cavalli leggieri de'
viniziani, mandò là Gastone di Fois con trecento fanti e cinquecento
cavalli; contro a' quali Giampaolo, sentito il romore, si messe
sopra uno ponte in battaglia: ma non corrispondendo la virtú de'
suoi all'ardire e animosità sua, abbandonato da loro, restò con
pochi compagni prigione. Accostossi poi l'esercito a Buonporto,
avendo in animo il Triulzio gittare il ponte dove il canale,
derivato di sopra a Modona dal fiume del Panaro, si unisce col
fiume. Ma già l'esercito inimico, per impedirgli il passo del fiume,
era venuto ad alloggiare in luogo tanto vicino che si offendevano
con l'artiglierie: da uno colpo delle quali fu ammazzato,
passeggiando lungo l'argine del fiume, il capitano Perault
spagnuolo, soldato dello esercito ecclesiastico. Sono in quello
luogo le ripe del fiume altissime, e perciò era agli inimici
facilissimo lo impedirlo; onde il Triulzio, preso nuovo consiglio,
gittò il ponte piú alto, uno miglio solamente sopra al canale.
Passato il canale si dirizzò verso Modena, camminando lungo lo
argine del Panaro, cercando luogo dove fusse piú facile il gittare
il ponte; e avendo sempre vista de' cavalli e de' fanti degli
inimici, i quali erano alloggiati vicini a Castelfranco in su la
strada Romea, ma in uno alloggiamento cinto da argini e da acque,
entrò in su la medesima strada al ponte di Fossalta presso a due
miglia a Modena; e piegatosi a mano destra verso la montagna, passò
senza contrasto il Panaro a guazzo, che in quel luogo ha il letto
largo e senza ripa: il quale passato, alloggiò nel luogo dove si
dice la Ghiara di Panaro, distante tre miglia dallo esercito
ecclesiastico. Camminò il dí seguente verso Piumaccio, accomodato di
vettovaglie, con consentimento di Vitfrust, da' Modonesi; e nel
medesimo dí l'esercito ecclesiastico, non avendo ardire di opporsi
alla campagna, e giudicando essere necessario l'accostarsi a Bologna
perché in quella città non si facesse movimento, atteso che i
Bentivogli seguitavano l'esercito franzese, andò ad alloggiare al
ponte a Casalecchio tre miglia di sopra a Bologna, in quel luogo
medesimo nel quale, nell'età de' proavi nostri, Giovan Galeazzo
Visconte potentissimo duca di Milano, superiore molto di forze agli
inimici, ottenne contro a' fiorentini bolognesi e altri confederati
una grandissima vittoria; ma alloggiamento di sito molto sicuro tra
'l fiume del Reno e il canale, e che ha la montagna alle spalle, e
per il quale si impedisce che Bologna non sia privata della comodità
del canale che, derivato dal fiume, passa per quella città.
Arrendessi il dí seguente al Triulzio Castelfranco. Il quale,
soprastato tre dí nello alloggiamento di Piumaccio, per le pioggie e
per ordinarsi delle vettovaglie delle quali non aveano molta copia,
venne ad alloggiare in su la strada maestra tra la Samoggia e
Castelfranco; nel quale luogo stette sospeso quello avesse a fare,
per molte difficoltà le quali in qualunque deliberazione se gli
rappresentavano: perché conosceva essere vano l'assaltare Bologna se
dentro il popolo non tumultuava, e accostandosi in sulle speranze
de' moti popolari dubitava non essere costretto a ritirarsi presto,
come avea fatto Ciamonte, con la reputazione diminuita; piú
imprudente e pericoloso andare a combattere cogli inimici, fermatisi
in alloggiamento tanto forte; l'accostarsi a Bologna dalla parte di
sotto non avere altra speranza se non che gli inimici, per timore
che e' non assaltasse la Romagna, forse si moverebbono, onde potersi
dare occasione o a lui di combattere o a' bolognesi di fare tumulto.
Pure alla fine, deliberando di tentare se alcuna cosa partorisse o
la disposizione universale della città o le intelligenze particolari
de' Bentivogli, condusse l'esercito (l'avanguardia del quale guidava
Teodoro da Triulzio, la battaglia egli, e il retroguardo Gastone di
Fois) ad alloggiare al ponte a Lavino, luogo in su la strada maestra
distante cinque miglia da Bologna, e famoso per la memoria dello
abboccamento di Lepido, Marcantonio e Ottaviano, i quali quivi (cosí
affermano gli scrittori), sotto nome del triumvirato, stabilirono la
tirannide di Roma e quella non mai abbastanza detestata
proscrizione.
Non era in questo tempo piú il pontefice in Bologna: il quale, dopo
la partita di Gurgense, quando dimostrando superchia audacia quando
timore, come intese essersi mosso il Triulzio, con tutto che non vi
fussino piú le lancie spagnuole, si partí da Bologna per andare
all'esercito, a fine di indurre con la presenza sua i capitani a
combattere con gli inimici; alla qual cosa non gli aveva potuti
disporre né con lettere né con imbasciate. Partí con intenzione di
alloggiare il primo dí a Cento; ma fu necessitato alloggiare nella
terra della Pieve, perché mille fanti de' suoi entrati in Cento non
volevano partirsene se prima non ricevevano lo stipendio: dalla qual
cosa forse stomacato, o considerando piú da presso il pericolo,
mutata sentenza, ritornò il dí seguente in Bologna. Ove
crescendogli, per l'approssimarsi del Triulzio, il timore,
deliberato di andarsene a Ravenna, chiamato a sé il magistrato de'
quaranta, ricordò loro che, per beneficio della sedia apostolica e
per opera e fatica sua, usciti dal giogo di una acerbissima
tirannide, avevano conseguita la libertà, ottenuto molte esenzioni,
ricevute da sé in publico e in privato grandissime grazie ed essere
per conseguirne ogni dí piú; per le quali cose, dove prima, oppressi
da dura servitú e vilipesi e conculcati da' tiranni, non erano negli
altri luoghi di Italia in considerazione alcuna, ora esaltati di
onori e di ricchezze, e piena di artifici e mercatanzie la città, e
sollevati alcuni di loro ad amplissime dignità, erano in pregio e in
estimazione per tutto; liberi di se medesimi, padroni interamente di
Bologna e di tutto il suo contado, perché loro erano i magistrati,
loro gli onori, tra essi e nella loro città si distribuivano le
entrate publiche, non avendo la Chiesa quasi altro che il nome e
tenendovi solo per segno della superiorità uno legato o governatore,
il quale senza essi non poteva deliberare delle cose importanti, e
di quelle che pure erano rimesse ad arbitrio suo si referiva assai
a' loro pareri e alle loro volontà: e che se per questi benefici, e
per il felice stato che avevano, erano disposti a difendere la
propria libertà, sarebbono da lui non altrimenti aiutati e difesi
che sarebbe in caso simile aiutata e difesa Roma. Necessitarlo la
gravità delle cose occorrenti a andare a Ravenna, ma non per questo
essersi dimenticato o per dimenticarsi la salute di Bologna; per la
quale avere ordinato che le genti viniziane, che con Andrea Gritti
erano di là dal Po e per questo gittavano il ponte a Sermidi,
andassino a unirsi con l'esercito suo. Essere sufficientissimi
questi provedimenti a difendergli; ma non quietarsi l'animo suo se
anche non gli liberava dalla molestia della guerra: e perciò, per
necessitare i franzesi a tornare a difendere le cose proprie, erano
già preparati diecimila svizzeri per scendere nello stato di Milano;
i quali perché si movessino subitamente erano stati mandati da lui a
Vinegia ventimila ducati, e ventimila altri averne ordinati i
viniziani. E nondimeno, quando a loro fusse piú grato tornare sotto
la servitú de' Bentivogli che di godere la dolcezza della libertà
ecclesiastica, pregargli che gli aprissino liberamente la loro
intenzione, perché sarebbe seguitata da lui; ma ricordare bene che,
quando si risolvessino a difendersi, era venuto il tempo opportuno a
dimostrare la loro generosità e obligarsi in eterno la sedia
apostolica, sé e tutti i pontefici futuri. Alla quale proposta,
fatta secondo il costume suo con maggiore efficacia che eloquenza,
poiché ebbono consultato tra loro medesimi, rispose in nome di tutti
con la magniloquenza bolognese il priore del reggimento,
magnificando la fede loro, la gratitudine de' benefici ricevuti, la
divozione infinita al nome suo; conoscere il felice stato che
avevano e quanto per la cacciata de' tiranni fussino amplificate le
ricchezze e lo splendore di quella città, e dove prima avevano la
vita e le facoltà sottoposte allo arbitrio d'altri ora sicuri da
ciascuno godere quietamente la patria, partecipi del governo
partecipi dell'entrate, né essere alcuno di loro che privatamente
non avesse ricevuto da lui molte grazie e onori; vedere nella città
loro rinnovata la degnità del cardinalato, vedere nelle persone de'
suoi cittadini molte prelature molti uffici de' principali della
corte romana: per le quali grazie innumerabili e singolarissimi
benefici, essere disposti prima consumare tutte le facoltà, prima
mettere in pericolo l'onore e la salute delle moglie e de'
figliuoli, prima perdere la vita propria che partirsi dalla
divozione sua e della sedia apostolica. Andasse pure lieto e felice
senza timore o scrupolo alcuno delle cose di Bologna, perché prima
intenderebbe essere corso il canale tutto di sangue del popolo
bolognese che quella città chiamare altro nome o ubbidire altro
signore che papa Giulio. Detteno queste parole maggiore speranza che
non conveniva al pontefice: il quale, lasciatovi il cardinale di
Pavia, se ne andò a Ravenna, non per il cammino diritto (con tutto
che accompagnato dalle lancie spagnuole che se ne tornavano a
Napoli) ma pigliando, per paura del duca di Ferrara, la strada piú
lunga di Furlí.
Venuto il Triulzio al ponte a Lavino, si dimostrava grandissima
sollevazione nella città di Bologna, empiendosi gli animi degli
uomini di molti e diversi pensieri. Perché molti, assuefatti al
vivere licenzioso della tirannide e a essere sostentati con la roba
e co' danari d'altri, avendo in odio lo stato ecclesiastico,
desideravano ardentemente il ritorno de' Bentivogli; altri, per i
danni ricevuti e che temevano di ricevere vedendo condotti in su le
loro possessioni e nel tempo propinquo alle ricolte due tali
eserciti, ridotti in grave disperazione, desideravano ogni cosa che
fusse per liberargli da questi mali; altri, sospettando che per
qualche tumulto che nascesse nella città o per i prosperi successi
de' franzesi (la memoria dello impeto de' quali, quando vennono
sotto Ciamonte la prima volta a Bologna, era ancor loro innanzi agli
occhi) non andasse la città a sacco, proponevano la liberazione da
questo pericolo a qualunque governo o dominio potessino avere;
pochi, dimostratisi prima inimici de' Bentivogli, favorivano ma
quasi piú con la volontà che con le opere il dominio della Chiesa:
ed essendo tutto il popolo, chi per desiderio di cose nuove chi per
sicurtà e salute sua, messosi in su l'arme ogni cosa era piena di
timore e di spavento; né nel cardinale di Pavia legato di Bologna
era animo o consiglio bastante a tanto pericolo. Perché non avendo
in quella città, sí grande e sí popolosa, piú che dugento cavalli
leggieri e mille fanti, e perseverando piú che mai nella discordia
col duca d'Urbino che era con l'esercito a Casalecchio, aveva,
menato o dal caso o dal fato, soldati, del numero de' cittadini,
quindici capitani; a' quali, insieme con le compagnie loro e col
popolo, aveva dato cura della guardia della terra e delle porte: de'
quali, non avendo egli avuto prudenza nello eleggergli, era la
maggiore parte di quegli che erano affezionati a' Bentivogli; e tra
questi Lorenzo degli Ariosti, il quale prima incarcerato e
tormentato in Roma, per sospetto che avesse congiurato co'
Bentivogli, era poi stato lungamente guardato in Castel Santo
Agnolo. I quali come ebbeno l'armi in mano, cominciando a fare
occulti ragionamenti e conventicole, e seminando nel popolo
scandalose novelle, cominciò il legato ad accorgersi tardi della
propria imprudenza; e per fuggire il pericolo nel quale da se
medesimo si era posto, fatta finzione che cosí ricercasse il duca
d'Urbino e gli altri capitani, volle che andassino con le compagnie
loro nello esercito: ma rispondendo essi non volere abbandonare la
guardia della terra, tentò di mettere dentro con mille fanti
Ramazzotto, ma gli fu dal popolo vietato l'entrarvi. Onde ínvilito
maravigliosamente il cardinale, e ricordandosi essere in sommo odio
del popolo il governo suo, e avere nella nobiltà molti inimici,
perché non molto innanzi aveva (benché, secondo disse, per
comandamento del pontefice) fatto, procedendo con la mano regia,
decapitare tre onorati cittadini come fu notte, uscito occultamente
in abito incognito per uno uscio segreto del palazzo, si ritirò
nella cittadella: e con tanta precipitazione che si dimenticasse di
portarne le sue gioie e i suoi danari: le quali cose avendo poi
subitamente mandato a pigliare, come l'ebbe ricevute, se ne andò per
la porta del soccorso verso Imola, accompagnato con cento cavalli da
Guido Vaina marito della sorella, capitano de' cavalli deputati alla
sua guardia; e poco dopo lui uscí della cittadella Ottaviano
Fregoso, non con altra compagnia che di una guida. Intesa la fuga
del legato, si cominciò per tutta la città a chiamare con tumulti
grandissimi il nome del popolo: la quale occasione non volendo
perdere Lorenzo degli Ariosti e Francesco Rinucci, anche egli uno
del numero de' quindici capitani e seguace de' Bentivogli,
seguitandogli molti della medesima fazione, corsi alle porte che si
chiamano di San Felice e delle Lame, piú comode al campo de'
franzesi, le roppono con l'accette, e occupatele mandorno senza
indugio a chiamare i Bentivogli; i quali, avuti dal Triulzio molti
cavalli franzesi, per fuggire il cammino diritto del Ponte a Reno,
alla cui custodia era Raffaello de' Pazzi uno de' condottieri
ecclesiastici, passato il fiume, piú basso, e accostatisi alla porta
delle Lame, furno subitamente introdotti.
Alla ribellione di Bologna fu congiunta la fuga dello esercito:
perché, alla terza ora della notte il duca d'Urbino, le genti del
quale dal ponte da Casalecchio si distendevano insino alla porta
detta di Siragosa, avendo, come si crede, intesa la fuga del legato
e il movimento del popolo, si levò tumultuosamente, lasciando la piú
parte de' padiglioni distesi, con quasi tutto l'esercito; eccetto
quegli che deputati alla guardia del campo erano dalla parte del
fiume verso i franzesi, a' quali non dette avviso alcuno della
partita. Ma sentita la mossa sua i Bentivogli, che erano già dentro,
avvisatone subitamente il Triulzio, mandorono fuora della terra
parte del popolo a danneggiargli; da' quali, e da' villani che già
calavano da ogni parte, con smisurati gridi e romori assaltato il
campo che passava lungo le mura, furono tolte loro l'artiglierie e
le munizioni con quantità grande di carriaggi; benché sopravenendo i
franzesi, tolseno al popolo e a' villani delle cose guadagnate la
maggiore parte. E già era arrivato al Ponte a Reno con la vanguardia
Teodoro da Triulzi; dove Raffaello de' Pazzi combattendo
valorosamente gli sostenne per alquanto spazio di tempo, ma non
potendo finalmente resistere al numero tanto maggiore rimase
prigione: avendo, come confessava ciascuno, con la resistenza sua
dato comodità non piccola a' soldati della Chiesa di salvarsi. Ma le
genti de viniziani e con loro Ramazzotto, che alloggiava in sul
monte piú eminente di Santo Luca, non avendo se non tardi avuta
notizia della fuga del duca d'Urbino, preseno per salvarsi la via
de' monti; per la quale, ancora che ricevessino danno gravissimo, si
condussono in Romagna. Furono in questa vittoria, acquistata senza
combattere, tolti quindici pezzi d'artiglieria grossa e molti minori
tra del pontefice e de' viniziani, lo stendardo del duca proprio con
piú altre bandiere, grande parte de' carriaggi degli ecclesiastici e
quasi tutti quegli de' viniziani; svaligiati qualcuno degli uomini
d'arme della Chiesa, ma de' viniziani piú di cento cinquanta, e
dell'uno e dell'altro esercito dissipati quasi tutti i fanti; preso
Orsino da Mugnano Giulio Manfrone e molti condottieri di minore
condizione. In Bologna non furno commessi omicidi, né fatta violenza
ad alcuno né della nobiltà né del popolo; solamente fatti prigioni
il vescovo di Chiusi e molti altri prelati, secretari e altri
officiali che assistevano al cardinale, rimasti nel palagio della
residenza del legato, perché a tutti aveva celata la sua partita.
Insultò il popolo bolognese, la notte medesima e il dí seguente, a
una statua di bronzo del pontefice, tirandola per la piazza con
molti scherni e derisioni: o perché ne fussino autori i satelliti
de' Bentivogli o pure perché il popolo, infastidito da' travagli e
danni della guerra (come è per sua natura ingrato e cupido di cose
nuove), avesse in odio il nome e la memoria di chi era stato cagione
della liberazione e della felicità della loro patria.
Soprastette il dí seguente, che fu il vigesimo secondo di maggio, il
Triulzio nel medesimo alloggiamento; e l'altro dí lasciatasi
indietro Bologna andò in su il fiume dello Idice, e poi si fermò a
Castel San Piero, terra posta in sull'estremità del territorio
bolognese, per aspettare, innanzi passasse piú oltre, quale fusse la
intenzione del re di Francia, o di procedere avanti contro allo
stato del pontefice o se pure, bastandogli avere assicurato Ferrara
e levato alla Chiesa Bologna che per opera sua aveva acquistata,
volesse fermare il corso della vittoria. Però avendogli Giovanni da
Sassatello condottiere del pontefice, e che cacciata di Imola la
parte ghibellina quasi dominava come capo de' guelfi quella città,
offerto occultamente di dargli Imola, non volle insino alla risposta
del re accettarla.
Restava la cittadella di Bologna nella quale era il vescovo Vitello,
cittadella ampia e forte ma proveduta secondo l'uso delle fortezze
della Chiesa, perché vi erano pochi fanti poche vettovaglie e quasi
niuna munizione. Nella quale, udito il caso di Bologna, era venuto
la notte da Modona Vitfrust a persuadere al vescovo con promesse
grandi che la desse a Cesare; ma il vescovo, pattuito il quinto dí
co' bolognesi che fussino salve le persone e la roba di quegli che
vi erano, e ricevuta obligazione che a lui in certo tempo fussino
pagati tremila ducati, la dette loro: la quale avuta corsono subito
popolarmente a rovinarla, incitandogli al medesimo i Bentivogli, non
tanto per farsi benevoli i cittadini quanto per sospetto che il re
di Francia non la volesse in potestà sua, come era stato già parere
di qualcuno de' capitani di domandarla; ma il Triulzio, giudicando
essere alieno dalla utilità del re il credersi che egli volesse
insignorirsi di Bologna, l'aveva contradetto.
Ricuperò con l'occasione di questa vittoria il duca di Ferrara,
oltre a Cento e la Pieve, Cutignuola, Lugo e l'altre terre di
Romagna; e nel tempo medesimo cacciò Alberto Pio di Carpi, il
[quale] lo possedeva con lui comunemente.
Lib.9, cap.18
Il pontefice per timore de' nemici vincitori avanza richieste di
pace. Il duca d'Urbino uccide il cardinale legato. Viene indetto il
concilio di Pisa. Ragioni della scelta di Pisa. Concessione de'
fiorentini. Giudizi di fautori e di avversari del concilio.
Ricevette della perdita di Bologna grandissima molestia, come era
conveniente, il pontefice; affliggendolo non solamente l'essere
alienata da sé la principale e piú importante città, eccettuata
Roma, di tutto lo stato ecclesiastico, e il parergli essere privato
di quella gloria che, grande appresso agli uomini e nel concetto suo
massimamente, gli aveva data l'acquistarla, ma, oltre a questo, per
il timore che l'esercito vincitore non seguitasse la vittoria al
quale conoscendo non potere resistere, e desideroso di rimuovere
l'occasioni che lo invitassino a passare piú innanzi, sollecitava
che le reliquie de' soldati viniziani, richiamate già dal senato, si
imbarcassino al Porto Cesenatico; e per la medesima cagione commesse
gli fussino restituiti i ventimila ducati i quali, mandati prima a
Vinegia per fare muovere i svizzeri, si ritrovavano ancora in quella
città. Ordinò ancora che il cardinale di Nantes di nazione brettone
invitasse, come da sé, il Triulzio alla pace, dimostrando essere al
presente il tempo opportuno a trattarla; il quale rispose, non
convenire il procedere con questa generalità ma essere necessario
venire espressamente alle particolarità: avere il re quando
desiderava la pace, proposto le condizioni; dovere ora il pontefice
fare il medesimo, poi che tale era lo stato delle cose che a lui
apparteneva il desiderarla. Procedeva in questo modo il pontefice
piú per fuggire il pericolo presente che perché avesse veramente
disposto del tutto l'animo alla pace, combattendo insieme nel petto
suo la paura la pertinacia l'odio e lo sdegno.
Nel quale tempo medesimo sopravenne un altro accidente che gli
raddoppiò il dolore. Accusavano appresso a lui molti il cardinale di
Pavia, alcuni di infedeltà altri di timidità altri di imprudenza: il
quale, per scusarsi da se stesso venuto a Ravenna, mandò, come prima
arrivò, a significargli la sua venuta e a dimandargli l'ora della
udienza; della qual cosa il pontefice, che l'amava sommamente, molto
rallegratosi, rispose che andasse a desinare seco. Dove andando,
accompagnato da Guido Vaina e dalla guardia de' suoi cavalli, il
duca di Urbino, per l'antica inimicizia che aveva con lui, e acceso
dallo sdegno che per colpa sua (cosí diceva) fusse proceduta la
ribellione di Bologna e per quella la fuga dell'esercito, fattosegli
incontro accompagnato da pochi, ed entrato tra' cavalli della sua
guardia che per riverenza gli davano luogo, ammazzò di sua mano
propria con uno pugnale il cardinale: degno, forse, per tanta
degnità di non essere violato ma degnissimo, per i suoi vizi enormi
e infiniti, di qualunque acerbissimo supplizio. Il romore della
morte del quale pervenuto subitamente al papa, cominciò con grida
insino al cielo e urli miserabili a lamentarsi; movendolo sopramodo
la perdita di uno cardinale che gli era tanto caro, e molto piú
l'essere in su gli occhi suoi e dal proprio nipote, con esempio
insolito, violata la degnità del cardinalato, cosa tanto piú molesta
a lui quanto piú faceva professione di conservare ed esaltare
l'autorità ecclesiastica: il quale dolore non potendo tollerare, né
temperare il furore, partí il dí medesimo da Ravenna per
ritornarsene a Roma. Né giunto a fatica a Rimini, acciocché da ogni
parte in uno tempo medesimo lo circondassino infinite e gravissime
calamità, ebbe notizia che in Modona in Bologna e in molte altre
città erano appiccate, ne' luoghi publici, le cedole per le quali se
gli intimava la convocazione del concilio, con la citazione che vi
andasse personalmente. Perché il vescovo Gurgense, benché partito
che fu da Modona avesse camminato alquanti dí lentamente, aspettando
risposta dallo oratore del re di Scozia (ritornato da lui a Bologna)
sopra le proposte che 'l pontefice medesimo gli aveva fatte,
nondimeno essendo venuto con risposte molto incerte, mandò subito
tre procuratori in nome di Cesare a Milano; i quali, congiunti co'
cardinali e co' procuratori del re di Francia, indissono il
concilio, per il primo dí di settembre prossimo, nella città di
Pisa.
Voltorono i cardinali l'animo a Pisa come luogo comodo, per la
vicinità del mare, a molti che aveano a venire al concilio, e sicuro
per la confidenza che il re di Francia avea ne' fiorentini, e perché
molti altri luoghi, che ne sarebbeno stati capaci, erano o incomodi
o sospetti a loro, o da potere essere con colore giusto ricusati dal
pontefice. In Francia non pareva onesto il chiamarlo, o in alcuno
luogo sottoposto al re; Gostanza, una delle terre franche di
Germania proposta da Cesare, benché illustre per la memoria di quel
famoso concilio nel quale, privati tre che procedevano come
pontefici, fu estirpato lo scisma continuato nella Chiesa [circa
quaranta] anni, pareva molto incomodo; sospetto all'una parte e
all'altra Turino, per la vicinità de' svizzeri e degli stati del re
di Francia; Bologna, innanzi si alienasse dalla Chiesa, non era
sicura per i cardinali, dipoi era il medesimo per il pontefice. E fu
ancora, nella elezione di Pisa, seguitata in qualche parte la
felicità dello augurio, per la memoria di due concili che vi erano
stati celebrati prosperamente: l'uno quando quasi tutti i cardinali,
abbandonati Gregorio [duodecimo] e Benedetto [tredecimo] che
contendevano del pontificato, celebrando il concilio in quella
città, elessono in pontefice Alessandro quinto; l'altro piú
anticamente quando... Aveano prima i fiorentini consentitolo al re
di Francia, il quale gli aveva ricercati, proponendo essere autore
della convocazione del concilio non meno Cesare che egli, e
consentirvi il re d'Aragona: degni di essere lodati forse piú del
silenzio che della prudenza o della fortezza dell'animo; perché, o
non avendo ardire di dinegare al re quel che era loro molesto o non
considerando quante difficoltà e quanti pericoli potesse partorire
uno concilio che si celebrava contro alla volontà del pontefice,
tennono tanto secreta questa deliberazione, fatta in un consiglio di
piú di cento cinquanta cittadini, che e fusse incerto a' cardinali
(a' quali il re di Francia ne dava speranza ma non certezza) se
l'avessino conceduto, e al pontefice non ne pervenisse notizia
alcuna.
Pretendevano i cardinali potersi giuridicamente convocare da loro il
concilio senza l'autorità del pontefice, per la necessità
evidentissima che aveva la Chiesa di essere riformata (come
dicevano) non solamente nelle membra ma eziandio nel capo, cioè
nella persona del pontefice; il quale, (secondo che affermavano)
inveterato nella simonia e ne' costumi infami e perduti né idoneo a
reggere il pontificato, e autore di tante guerre, era notoriamente
incorrigibile, con universale scandolo della cristianità, alla cui
salute niun altra medicina bastava che la convocazione del concilio:
alla qual cosa essendo stato il pontefice negligente, essersi
legittimamente devoluta a loro la potestà del convocarlo;
aggiugnendovisi massimamente l'autorità dell'eletto imperadore e il
consentimento del re cristianissimo, col concorso del clero della
Germania e della Francia. Soggiugnevano, lo usare frequentemente
questa medicina essere non solamente utile ma necessario al corpo
infermissimo della Chiesa, per istirpare gli errori vecchi, per
provedere a quegli che nuovamente pullulavano, per dichiarare e
interpretare le dubitazioni che alla giornata nascevano, e per
emendare le cose che da principio ordinate per bene si dimostravano
talvolta per l'esperienza perniciose. Perciò avere i padri antichi,
nel concilio di Gostanza, salutiferamente statuito che perpetuamente
per l'avvenire, di dieci anni in dieci anni, si celebrasse il
concilio. E che altro freno che questo avere i pontefici di non
torcere della via retta? e come altrimenti potersi, in tanta
fragilità degli uomini, in tanti incitamenti che aveva la vita
nostra al male, stare sicuri, se chi aveva somma licenza sapesse non
avere mai a rendere conto di se medesimo? Da altra parte molti,
impugnando queste ragioni e aderendo piú alla dottrina de' teologi
che de' canonisti, asserivano l'autorità del convocare i concili
risedere solamente nella persona del pontefice, quando bene fusse
macchiato di tutti i vizi, pure che non fusse sospetto di eresia; e
che altrimenti interpretando, sarebbe in potestà di pochi (il che in
modo niuno si doveva consentire), o per ambizione o per odii
particolari palliando la intenzione corrotta con colori falsi,
l'alterare ogni dí lo stato quieto della Chiesa: le medicine tutte
per sua natura essere salutifere, ma non date con le proporzioni
debite né a' tempi convenienti essere piú tosto che medicine veleno;
e però, condannando coloro che sentivano diversamente, chiamavano
questa congregazione non concilio ma materia di divisione della
unità della sedia apostolica, principio di scisma nella Chiesa
d'Iddio e diabolico conciliabolo.
Lib.10, cap.1
Il re di Francia ordina che le milizie si ritirino nel ducato di
Milano; suo contegno amichevole e di devozione al pontefice; i
Bentivoglio imitano il re. Il Triulzio licenzia parte de' soldati.
Condizioni di pace del pontefice. Progetti di Massimiliano e sua
impotenza d'effettuarli.
Aspettavasi, con grandissima sospensione degli animi di tutta Italia
e della maggiore parte delle provincie de' cristiani, quel che il re
di Francia, ottenuta che ebbe la vittoria, deliberasse di fare;
perché a tutti manifestamente appariva essere in sua potestà
l'occupare Roma e tutto lo stato della Chiesa: essendo le genti del
pontefice quasi tutte disperse e dissipate e molto piú quelle de'
viniziani, né essendo in Italia altre armi che potessino ritenere
l'impeto del vincitore; e parendo che il pontefice, difeso solamente
dalla maestà del pontificato, rimanesse per ogn'altro rispetto alla
discrezione della fortuna. E nondimeno il re di Francia, o
raffrenandolo la riverenza della religione o temendo di non
concitare contro a sé, se procedeva piú oltre, l'animo di tutti i
príncipi, deliberato di non usare l'occasione della vittoria,
comandò, con consiglio per avventura piú pietoso che utile, a
Giaiacopo da Triulzi che, lasciata Bologna in potestà de' Bentivogli
e restituito se altro avesse occupato appartenente alla Chiesa,
riducesse subitamente l'esercito nel ducato di Milano. Aggiunse a'
fatti mansueti umanissime dimostrazioni e parole. Vietò che nel suo
reame alcuno segno di publica allegrezza non si facesse; e affermò
piú volte alla presenza di molti che, con tutto non avesse errato né
contro alla sedia apostolica né contro al pontefice, né fatto cosa
alcuna se non provocato e necessitato, nondimeno, che per riverenza
di quella sedia voleva umiliarsi e dimandargli perdono;
persuadendosi che certificato per l'esperienza, delle difficoltà che
aveano i suoi concetti, e assicurato del sospetto avuto vanamente di
lui, avesse a desiderare la pace con tutto l'animo: il trattato
della quale non si era mai intermesso totalmente, perché il
pontefice, insino innanzi si partisse da Bologna, aveva per questa
cagione mandato al re lo imbasciadore del re di Scozia, continuando
di trattare quel che, per il medesimo vescovo, si era cominciato a
trattare col vescovo Gurgense. L'autorità del re seguitando i
Bentivogli, significavano al pontefice non volere essere contumaci o
rebelli della Chiesa ma perseverare in quella subiezione nella quale
aveva tanti anni continuato il padre loro: in segno di che,
restituito il vescovo di Chiusi alla libertà, l'aveano, secondo
l'uso antico, collocato nel palazzo come apostolico luogotenente.
Partí adunque il Triulzio con l'esercito, e si accostò alla
Mirandola per ricuperarla; con tutto che, per i prieghi di
Giovanfrancesco Pico, vi fusse entrato Vitfrust sotto colore di
tenerla in nome di Cesare, e protestato al Triulzio che essendo
giurisdizione dello imperio si astenesse da offenderla. Il quale
alla fine, conoscendo che l'autorità vana non bastava, se ne partí,
ricevute da lui certe promesse, piú tosto apparenti per l'onore di
Cesare che sostanziali; e il medesimo fece Giovanfrancesco,
impetrato che fusse salvo l'avere e le persone: e il Triulzio, non
avendo da fare altra espedizione, mandate cinquecento lancie e mille
trecento fanti tedeschi, sotto il capitano Iacob, alla custodia di
Verona, licenziò gli altri fanti, eccetto duemila cinquecento
guasconi sotto Molard e Mongirone; i quali e le genti d'arme
distribuí per le terre del ducato di Milano.
Ma al desiderio e alla speranza del re non corrispondeva la
disposizione del pontefice; il quale ripreso animo per la
revocazione dell'esercito, rendendolo piú duro quel che pareva
verisimile lo dovesse mollificare, essendo ancora a Rimini
oppressato dalla podagra e in mezzo di tante angustie, proponeva,
piú tosto come vincitore che vinto, per mezzo del medesimo scozzese,
che per l'avvenire fusse per il ducato di Ferrara pagato il censo
consueto innanzi alla diminuzione fatta per il pontefice Alessandro,
che la Chiesa tenesse uno visdomino in Ferrara come prima tenevano i
viniziani, e se gli cedessino Lugo e l'altre terre che Alfonso da
Esti possedeva nella Romagna: le quali condizioni benché al re
paressino molto gravi, nondimeno, tanto era il desiderio della pace
col pontefice, fece rispondere essere contento di consentire a quasi
tutte queste dimande, pure che vi intervenisse il consentimento di
Cesare. Ma già il pontefice ritornato a Roma aveva mutata sentenza;
dandogli ardire, oltre a quello che si dava da se stesso, i conforti
del re d'Aragona: il quale, entrato per la vittoria del re di
Francia in maggiore sospezione, aveva subito intermesso tutti gli
apparati potentissimi che aveva fatti per passare personalmente in
Affrica, ove continuamente guerreggiava co' mori; e revocatone
Pietro Navarra con tremila fanti spagnuoli lo mandò nel reame di
Napoli, assicurando, in uno tempo medesimo, le cose proprie e al
pontefice dando animo di alienarsi tanto piú dalla concordia.
Rispose adunque non volere la pace se insieme non si componevano con
Cesare i viniziani, se Alfonso da Esti, oltre alle prime dimande,
non gli restituiva le spese fatte nella guerra, e se il re non si
obligava a non gli impedire la recuperazione di Bologna: la quale
città, come ribellata dalla Chiesa, aveva già sottoposta allo
interdetto ecclesiastico e, per dare il guasto alle biade del
contado loro, mandato nella Romagna Marcantonio Colonna e
Ramazzotto; benché questi, affatica entrati nel bolognese, furno
facilmente scacciati dal popolo. Aveva nondimeno il pontefice, vinto
da' prieghi de' cardinali, quando ritornò a Roma, consentito alla
liberazione del cardinale d'Aus, il quale era stato insino a quel dí
custodito in Castel Sant'Angelo; ma con condizione che non uscisse
del palagio di Vaticano insino a tanto non fussino liberati tutti i
prelati e ufficiali che erano stati presi in Bologna, e che dipoi
non potesse sotto pena di quarantamila ducati, per la quale desse
idonee sicurtà, partirsi di Roma: benché non molto poi gli consentí
il ritornarsene in Francia, sotto la medesima pena di non
intervenire al concilio. Commosse la risposta del pontefice tanto
piú l'animo del re quanto piú si era persuaso, il pontefice dovere
consentire alle condizioni che esso medesimo aveva proposte: onde
deliberando impedire che non recuperasse Bologna vi mandò
quattrocento lancie, e pochi dí poi prese in protezione quella città
e i Bentivogli senza ricevere da loro obligazione alcuna di dargli o
gente o danari; e conoscendo essergli piú necessaria che mai la
congiunzione con Cesare, ove prima (benché per aspettare i progressi
suoi fusse venuto nella provincia del Dalfinato) aveva qualche
inclinazione di non gli dare le genti promesse nella capitolazione
fatta con Gurgense, se egli non passava personalmente in Italia
(perché sotto questa condizione aveva convenuto di dargliene)
comandò che dello stato di Milano vi andasse il numero delle genti
convenuto: sotto il governo del la Palissa, perché 'l Triulzio, il
quale Cesare aveva domandato, ricusava di andarvi.
Era Cesare venuto a Spruch, ardente da una parte alla guerra contro
a viniziani, dall'altra combattuto nell'animo suo da diversi
pensieri. Perché considerando che tutti i progressi che e' facesse
riuscirebbeno alla fine di poco momento se non si espugnava Padova,
e che a questo bisognavano tante forze e tanti apparati che era
quasi impossibile il mettergli insieme, ora si volgeva al desiderio
di concordare co' viniziani, alla quale cosa molto lo confortava il
re cattolico, ora traportato da' suoi concetti vani pensava di
andare personalmente con lo esercito a Roma, per occupare, come era
suo antico desiderio, tutto lo stato della Chiesa; promettendosi,
oltre alle genti de' franzesi, di condurre seco di Germania potente
esercito: ma non corrispondendo poi, per l'impotenza e disordini
suoi, l'esecuzioni alle immaginazioni, promettendo ora di venire di
giorno in giorno in persona ora di mandare gente, consumava il tempo
senza mettere in atto impresa alcuna. E perciò al re di Francia
pareva molto grave d'avere solo a sostenere tutto il peso: la quale
ragione, conforme alla sua tenacità, poteva spesso piú in lui che
quello che gli era da molti dimostrato in contrario, che Cesare se
da lui non fusse aiutato potentemente si congiugnerebbe finalmente
con gli inimici suoi; dalla qual cosa, oltre al sostenere per
necessità spesa molto maggiore, gli stati suoi di Italia cadrebbeno
in gravissimi pericoli.
Lib.10, cap.2
Azione del pontefice contro la convocazione del concilio di Pisa;
convocazione d'un concilio universale in San Giovanni in Laterano;
intimazione a' cardinali dissidenti. Politica del pontefice verso il
re di Francia. Confederazione tra i fiorentini e i senesi.
Raffreddavansi in queste ambiguità e difficoltà i tumulti delle armi
temporali, ma andavano riscaldando quegli dell'armi spirituali; cosí
dalla parte de' cardinali autori del concilio come dalla parte del
pontefice, intento tutto a opprimere questo male innanzi facesse
maggiore progresso. Erasi, come è detto di sopra, inditto e intimato
il concilio con l'autorità del re de' romani e del re di Francia,
intervenuti alla intimazione i cardinali di Santa Croce di San Malò
di Baiosa e di Cosenza, e consentendovi manifestamente il cardinale
di San Severino; e successivamente, alle consulte e deliberazioni
che si facevano, intervenivano i procuratori dell'uno e dell'altro
re. Ma avevano i cinque cardinali, autori di questa peste, aggiunto
nella intimazione, per dare maggiore autorità, il nome di altri
cardinali: de' quali Alibret, cardinale franzese, benché
malvolentieri vi consentisse, non poteva disubbidire a' comandamenti
del suo re; e degli altri, nominati da loro, il cardinale Adriano e
il cardinale del Finale apertamente affermavano non essere stato
fatto con loro mandato né di loro consentimento. Però, non si
manifestando in questa cosa piú di sei cardinali, il Pontefice,
sperando potergli fare volontariamente desistere da questa insania,
trattava continuamente con loro, offerendo venia delle cose commesse
e con tale sicurtà che e' non avessino da temere di essere offesi;
cose che i cardinali udivano simulatamente. Ma non per questo
cessava da' rimedi piú potenti; anzi per consiglio, secondo si
disse, proposto da Antonio del Monte a San Sovino, uno de' cardinali
creati ultimatamente a Ravenna, volendo purgare la negligenza,
intimò il concilio universale, per il primo dí di maggio prossimo,
nella città di Roma nella chiesa di San Giovanni Laterano: per la
quale convocazione pretendeva avere dissoluto il concilio convocato
dagli avversari, e che nel concilio inditto da lui si fusse
trasferita giuridicamente la potestà e l'autorità di tutti; non
ostante che i cardinali allegassino che, se bene questo fusse stato
vero da principio, nondimeno, poiché essi avevano prevenuto, dovere
avere luogo il concilio convocato e intimato da loro. Publicato il
concilio, confidando già piú delle ragioni sue, e disperandosi di
potere riconciliarsi il cardinale di Santa Croce, il quale, per
ambizione di essere pontefice, era stato in grande parte autore di
questo moto, e il medesimo di San Malò, e di quello di Cosenza
(perché degli altri non aveva ancora perduta la speranza di ridurgli
sotto l'ubbidienza sua), publicò contro a quegli tre uno monitorio,
sotto pena di privazione della degnità del cardinalato e di tutti i
benefici ecclesiastici se infra sessantacinque dí non si
presentassino innanzi a lui: alla quale cosa perché piú facilmente
si disponessino, il collegio de' cardinali mandò a loro uno auditore
di ruota, a invitargli e pregargli che, deposte le private
contenzioni, ritornassino all'unione della Chiesa, offerendo di fare
concedere qualunque sicurtà desiderassino.
Nel quale tempo medesimo, o essendo ambiguo e irrisoluto nell'animo
o movendolo altra cagione, udiva continuamente la pratica della pace
col re di Francia, la quale appresso a lui trattavano gli oratori
del re e appresso al re il medesimo imbasciadore del re di Scozia e
il vescovo di Tivoli nunzio apostolico; e da altra parte trattava di
fare col re d'Aragona e co' viniziani nuova confederazione contro a'
franzesi. Procurò nel tempo medesimo che a' fiorentini fusse
restituito Montepulciano, non per benivolenza inverso loro ma per
sospetto che, essendo spirata la tregua che aveano co' sanesi, non
chiamassino, per essere piú potenti a recuperare quella terra, in
Toscana genti franzesi; e con tutto che al pontefice fusse molesto
che i fiorentini recuperassino Montepulciano, e che per impedirgli
avesse già mandato a Siena Giovanni Vitelli, condotto con cento
uomini d'arme da' sanesi e da lui, e Guido Vaina con cento cavalli
leggieri, nondimeno, considerando poi meglio che quanto piú la
difficoltà si dimostrava maggiore tanto piú si inciterebbono i
fiorentini a chiamarle, deliberò, acciò che il re non avesse
occasione di mandare genti in luogo vicino a Roma, provedere con
modo contrario a questo pericolo: alla qual cosa consentiva Pandolfo
Petrucci, che era nel medesimo sospetto, nutritovi artificiosamente
da' fiorentini. Trattossi la cosa molti dí: perché, come spesso le
cose piccole non hanno minori difficoltà né meno difficili a
esplicarsi che le grandissime, Pandolfo, per non incorrere nell'odio
del popolo sanese, voleva si procedesse in modo che e' paresse niuno
altro rimedio essere ad assicurarsi della guerra e a non si alienare
l'animo del pontefice. Volevano oltre a questo, il pontefice ed
egli, che nel tempo medesimo si facesse tra i fiorentini e i sanesi
confederazione a difesa degli stati; e da altra parte temevano che i
montepulcianesi, accorgendosi di quel che si trattava, non
preoccupassino, con l'arrendersi da loro medesimi, la grazia de'
fiorentini, i quali, conseguito lo intento loro, fussino poi
renitenti a fare la confederazione: però fu mandato ad alloggiare in
Montepulciano Giovanni Vitelli; e il pontefice vi mandò Iacobo
Simonetta auditore di ruota, il quale molti anni poi fu promosso al
cardinalato, perché per mezzo suo si adattassino le cose di
Montepulciano. Tanto che, finalmente, in un tempo medesimo fu fatta
confederazione per venticinque anni tra fiorentini e sanesi; e
Montepulciano, interponendosi il Simonetta per la venia e
confermazione delle esenzioni e privilegi antichi, ritornò in mano
de' fiorentini.
Lib.10, cap.3
L'esercito franco tedesco contro i veneziani; i veneziani
abbandonano diverse terre; fazioni di guerra; i veneziani perdono e
ricuperano il Friuli. Difficoltà poste innanzi da Massimiliano
riguardo al concilio pisano; continuano le trattative di pace fra il
pontefice e il re di Francia.
Erano state per qualche mese piú quiete che il solito le cose tra il
re de' romani e i viniziani; perché i tedeschi non abbondanti di
gente e bisognosi di danari non riputavano fare poco se conservavano
Verona, e l'esercito de viniziani non essendo potente a espugnare
quella città stava alloggiato tra Suavi e Lunigo, donde una notte
abbruciorno, di qua e di là dallo Adice, grande parte delle ricolte
del veronese: benché assaltati nel ritirarsi perdessino trecento
fanti. Ma alla fama dello approssimarsi a Verona la Palissa con
mille dugento lancie e ottomila fanti si ridusse lo esercito loro
verso Vicenza e Lignago, in luogo forte e quasi come in isola per
certe acque e per alcune tagliate che avevano fatte: nel quale
alloggiamento non stettono fermi molti dí perché essendo la Palissa
arrivato con parte delle genti a Verona, e uscito subito, senza
aspettarle tutte, insieme co' tedeschi in campagna, si ritirò quasi
come fuggendo a Lunigo; e dipoi col medesimo terrore, abbandonata
Vicenza e tutte l'altre terre e il Pulesine di Rovigo, preda ora de
viniziani ora del duca di Ferrara, si distribuirno in Padova e
Trevigi: alla difesa delle quali città vennono da Vinegia, nel modo
medesimo che prima avevano fatto a Padova, molti giovani della
nobiltà viniziana. Saccheggiò l'esercito franzese e tedesco Lonigo:
e si arrendé loro Vicenza, diventata preda miserabile de' piú
potenti in campagna. Ma ogni sforzo e ogni acquisto era di
piccolissimo momento alla somma delle cose mentre che i viniziani
conservavano Padova e Trevigi, perché con l'opportunità di quelle
città, subito che gli aiuti franzesi si partivano da' tedeschi,
recuperavano senza difficultà le cose perdute: però l'esercito, dopo
questi progressi, stette fermo piú dí al Ponte a Barberano
aspettando o la venuta o la determinazione di Cesare. Il quale,
venuto da Trento e Roveré, intento in uno tempo medesimo a cacciare,
secondo il costume suo, le fiere e a mandare fanti all'esercito,
prometteva di venire a Montagnana; proponendo di fare ora la impresa
di Padova ora quella di Trevigi ora di andare a occupare Roma, e in
tutte per la instabilità sua variando e per l'estrema povertà
trovando difficoltà: né meno che nelle altre, nell'andata di Roma,
perché lo andarvi con tante forze de' franzesi pareva cosa molto
aliena dalla sicurtà e dignità sua; e il pericolo che, assentandosi
quello esercito, i viniziani non assaltassino Verona lo costringeva
a lasciarla guardata con potente presidio; e il re di Francia faceva
difficoltà di allontanare per tanto spazio di paese le genti sue dal
ducato di Milano, perché pochissima speranza gli restava della
concordia co' svizzeri: i quali, oltre al dimostrarsi inclinati a'
desideri del pontefice, dicevano apertamente allo oratore del re di
Francia essere molestissima a quella nazione la ruina de' viniziani,
per la convenienza che hanno insieme le republiche. Risolveronsi
finalmente i concetti e discorsi grandi di Cesare, secondo l'antica
consuetudine, in effetti non degni del nome suo: perché accresciuti
allo esercito trecento uomini d'arme tedeschi, e uditi da altra
parte gli oratori de' viniziani, co' quali continuamente trattava,
si accostò ai confini del vicentino; e fatto venire la Palissa,
prima a Lungara presso a Vicenza e poi a Santa Croce, lo ricercò che
andasse a pigliare Castelnuovo, passo di sotto alla Scala verso il
Friuli e vicino a venti miglia di Feltro, per dare a lui facilità di
scendere da quella parte. Però la Palissa andò a Montebellona
distante dieci miglia da Trevigi; donde mandati cinquecento cavalli
e dumila fanti ad aprire il passo di Castelnuovo, aperto che lo
ebbeno se ne andorono alla Scala. Nel quale tempo i cavalli leggieri
de' viniziani, i quali correvano senza ostacolo alcuno per tutto il
paese, roppono presso a Morostico circa settecento fanti e molti
cavalli franzesi e italiani, i quali per potere passare sicuramente
allo esercito andavano da Verona a Suavi per unirsi con trecento
lancie franzesi, le quali essendo venute dietro al la Palissa
aspettavano in quello luogo il suo comandamento; e benché nel
principio, succedendo le cose prospere per i franzesi e tedeschi,
fusse preso il conte Guido Rangone condottiere de' viniziani,
nondimeno, calando in favore de' viniziani molti villani, restorno
vittoriosi; morti circa quattrocento fanti franzesi, e presi
Mongirone e Riccimar loro capitani. Ma già continuamente
raffreddavano le cose ordinate: perché e il re di Francia, vedendo
non corrispondere gli apparati di Cesare alle offerte, si era,
discostandosi da Italia, ritornato del Dalfinato, dove era
soprastato molti giorni, a Bles; e Cesare, ritiratosi a Trento con
deliberazione di non andare piú all'esercito personalmente, in luogo
di occupare tutto quello che i viniziani possedevano in terra ferma
o veramente Roma con tutto lo stato ecclesiastico, proponeva che i
tedeschi entrassino nel Friuli e nel Trevisano, non tanto per
vessare i viniziani quanto per costrignere le terre del paese a
pagare danari per ricomperarsi dalle prede e da' sacchi; e che i
franzesi, perché i suoi non fussino impediti, si facessino innanzi,
mettendo in Verona, ove era la pestilenza grande, dugento lancie;
perché de' suoi, volendo assaltare il Friuli, non vi potevano
rimanere altri che i deputati alla custodia delle fortezze.
Acconsentí a tutte queste cose la Palissa e, essendosi unito con lui
Obigní capitano delle trecento lancie che erano a Suavi, si fermò in
sul fiume della Piava. Lasciorno oltre a questo i tedeschi, per
maggiore sicurtà di Verona, dugento cavalli a Suave: i quali,
standovi con grandissima negligenza e senza scolte o guardie, furono
una notte quasi tutti morti o presi da quattrocento cavalli leggieri
e quattrocento fanti de' viniziani.
Erasi tutto questo anno, nel Friuli in Istria e nelle parti di
Triesti e di Fiume, travagliato secondo il solito diversamente, per
terra ed eziandio per mare con piccoli legni; essendo quegli
infelici paesi ora dall'una parte ora dall'altra depredati. Entrò
poi nel Friuli l'esercito tedesco; ed essendosi presentato a Udine,
luogo principale della provincia, e dove riseggono gli ufficiali de'
viniziani, essendosene quegli fuggiti vilmente, la terra si arrendé
subito: e dipoi col medesimo corso della vittoria fece il medesimo
tutto il Friuli, pagando ciascuna terra danari secondo la loro
possibilità. Restava Gradisca situata in sul fiume Lisonzio, dove
era Luigi Mocenigo proveditore del Friuli con trecento cavalli e
molti fanti; la quale, battuta dalle artiglierie e difesasi dal
primo assalto, si arrendé per l'instanza de' soldati, restando
prigione il proveditore. Del Friuli ritornorono i tedeschi a unirsi
con la Palissa, alloggiato vicino a cinque miglia di Trevigi; alla
quale città s'accostorno unitamente, perché Cesare faceva instanza
grande che si tentasse di espugnarla: ma avendola trovata da tutte
le parti molto fortificata, e avendo mancamento di guastatori, di
munizioni e d'altri provedimenti necessari, perduta interamente la
speranza di ottenerne la vittoria, si discostorono. Partí, pochi dí
poi, la Palissa per ritornarsene nel ducato di Milano, per
comandamento del re; perché continuamente cresceva il timore di
nuove confederazioni e di movimenti de' svizzeri. Furnogli sempre
alle spalle nel ritirarsi gli stradiotti de' viniziani, sperando di
danneggiarlo almeno al transito de' fiumi della Brenta e dell'Adice;
nondimeno passò per tutto sicuramente; avendo, innanzi passasse la
Brenta, svaligiati dugento cavalli de' viniziani, alloggiati fuora
di Padova, e preso Pietro da Longhena loro condottiere. Lasciò la
sua partita molto confusi i tedeschi, perché non avendo potuto
ottenere che alla guardia di Verona rimanessino trecento altre
lancie franzesi, furno necessitati ritirarvisi, lasciate in preda
agli inimici tutte le cose acquistate quella state. Però le genti
de' viniziani, delle quali per la morte di Lucio Malvezzo era
governatore Giampaolo Baglione, ricuperorno subito Vicenza; e dipoi
entrate nel Friuli, spianata Cremonsa, ricuperorno, da Gradisca in
fuora (la quale combatterono vanamente), tutto il paese; benché,
pochi dí poi, certi fanti comandati del contado di Tiruolo
espugnorono Cadoro e saccheggiorno Bellona. In questo modo, con
effetti leggieri e poco durabili, si terminorno la state presente i
movimenti dell'armi; senza utilità ma non senza ignominia del nome
di Cesare, e con accrescimento della riputazione de' viniziani, che
assaltati già due anni dagli eserciti di Cesare e del re di Francia
ritenessino alla fine le medesime forze e il medesimo dominio.
Le quali cose benché tendessino direttamente contro a Cesare
nocevano molto piú al re di Francia: perché, mentre che, o temendo
forse troppo le prosperità e l'augumento di Cesare o che
consigliandosi con fondamenti falsi e non conoscendo i pericoli già
propinqui o che soffocata la prudenza dalla avarizia, non dà a
Cesare aiuti tali che potesse sperare di ottenere la vittoria
desiderata, gli dette occasione e quasi necessità di inclinare
l'orecchie a coloro che mai cessavano di persuaderlo che s'alienasse
da lui, conservando in uno tempo medesimo in tale stato i viniziani
che e' potessino con maggiori forze unirsi a quegli i quali
desideravano di abbassare la sua potenza. Onde già cominciava ad
apparire qualche indizio che nella mente di Cesare, specialmente
nella causa del concilio, germinassino nuovi pensieri: nella quale
pareva raffreddato, massimamente dopo l'intimazione del concilio
lateranense; conciossiaché non vi mandasse, secondo le promesse piú
volte fatte, alcuni prelati tedeschi in nome della Germania, né
procuratori che vi assistessino in suo nome; non lo movendo
l'esempio del re di Francia, il quale aveva ordinato che in nome
comune della chiesa gallicana vi andassino ventiquattro vescovi, e
che tutti gli altri prelati del suo regno o vi andassino
personalmente o vi mandassino procuratori. E nondimeno, o per
scusare questa dilazione o perché tale fusse veramente il suo
desiderio, cominciò in questo tempo a fare instanza che, per
maggiore comodità de' prelati della Germania e perché affermava
volervi intervenire personalmente, il concilio inditto a Pisa si
trasferisse a Mantova o a Verona o a Trento: la quale dimanda,
molesta per varie cagioni a tutti gli altri, era solamente grata al
cardinale di Santa Croce; il quale, ardente di cupidità di ascendere
al pontificato (al qual fine aveva seminato queste discordie),
sperava col favore di Cesare, nella benivolenza del quale inverso sé
molto confidava, potervi facilmente pervenire. Nondimeno, rimanendo
debilitata molto e quasi manca senza l'autorità di Cesare la causa
del concilio, mandorno di comune consentimento a lui il cardinale di
San Severino, a supplicarlo che facesse muovere i prelati e i
procuratori tante volte promessi, e a obligargli la fede che
principiato che fusse il concilio a Pisa lo trasferirebbono in quel
luogo medesimo che egli stesso determinasse; dimostrandogli che il
trasferirlo prima sarebbe molto pregiudiciale alla causa comune, e
specialmente perché era di somma importanza il prevenire a quello
che era stato intimato dal pontefice. Col cardinale andò a fare la
instanza medesima, in nome del re di Francia, Galeazzo suo fratello;
il quale, con felicità dissimile alla infelicità di Lodovico Sforza,
primo padrone, era stato onorato da lui dello ufficio del grande
scudiere. Ma principalmente lo mandò il re per confermare con varie
offerte e partiti nuovi l'animo di Cesare, per la instabilità del
quale stava in grandissima sospensione e sospetto; con tutto che nel
tempo medesimo non fusse senza speranza di conchiudere la pace col
pontefice. La quale, trattata a Roma dal cardinale di Nantes e dal
cardinale di Strigonia e in Francia dal vescovo scozzese e dal
vescovo di Tivoli, era ridotta a termini tali che, concordate quasi
tutte le condizioni, il pontefice aveva mandato al vescovo di Tivoli
l'autorità di dargli perfezione: benché inserite nel mandato certe
limitazioni che davano ombra non mediocre che la volontà sua non
fusse tale quale sonavano le parole, sapendosi massime che nel tempo
medesimo trattava con molti potentati cose interamente contrarie.
Lib.10, cap.4
Grave malattia del pontefice e tentativo di giovani della nobiltà
romana di infiammare il popolo contro il potere sacerdotale. Bolla
pontificia contro la simonia nell'elezione de' papi. Il pontefice
indeciso fra la pace e la preparazione della guerra alla Francia.
Indecisione e sospetti del re di Francia.
Nella quale dubietà mancò poco che non troncasse tutte le pratiche,
e i princípi de' mali che s'apparecchiavano, la morte improvisa del
pontefice: il quale, infermatosi il decimosettimo dí di agosto, fu
il quarto dí della infermità oppressato talmente da uno potentissimo
sfinimento che stette per alquante ore riputato dai circostanti per
morto; onde, corsa la fama per tutto avere terminato i suoi giorni,
si mossono per venire a Roma molti cardinali assenti, e tra gli
altri quegli che aveano convocato il concilio. Né a Roma fu minore
sollevazione che soglia essere nella morte de' pontefici: anzi
apparirno semi di maggiori tumulti, perché Pompeio Colonna vescovo
di Rieti e Antimo Savello, giovani sediziosi della nobiltà romana,
chiamato nel Capitolio il popolo di Roma, cercorno di infiammarlo
con sediziosissime parole a vendicarsi in libertà: assai essere
stata oppressa la generosità romana, assai avere servito quegli
spiriti domatori già di tutto il mondo; potersi per avventura, in
qualche parte scusare i tempi passati per la riverenza della
religione, per il cui nome accompagnato da santissimi costumi e
miracoli, non costretti da arme o da violenza alcuna, avere ceduto i
maggiori loro allo imperio de' cherici, sottomesso volontariamente
il collo al giogo tanto suave della pietà cristiana; ma ora, quale
necessità quale virtú quale degnità coprire in parte alcuna
l'infamia della servitú? la integrità forse della vita? gli esempli
santi de' sacerdoti? i miracoli fatti da loro? e quale generazione
essere al mondo piú corrotta piú inquinata e di costumi piú brutti e
piú perduti? e nella quale paia solamente miracoloso che Iddio,
fonte della giustizia, comporti cosí lungamente tante sceleratezze?
sostenersi forse questa tirannide per la virtú dell'armi, per la
industria degli uomini o per i pensieri assidui della conservazione
della maestà del pontificato? e quale generazione essere piú aliena
dagli studi e dalle fatiche militari? piú dedita all'ozio e ai
piaceri? e piú negligente alla degnità e a' comodi de' successori?
avere in tutto il mondo similitudine due principati, quello de'
pontefici romani e quello de' soldani del Cairo, perché né la
degnità del soldano né i gradi de' mammalucchi sono ereditari ma
passando di gente in gente si concedono a' forestieri: e nondimeno
essere piú vituperosa la servitú de' romani che quella de' popoli
dello Egitto e della Soría, perché la infamia di coloro ricompera in
qualche parte l'essere i mammalucchi uomini bellicosi e feroci,
assuefatti alle fatiche e a vita aliena da tutte le delicatezze; ma
a chi servire i romani? a persone oziose e ignave, forestieri e
spesso ignobilissimi non meno di sangue che di costumi; tempo essere
di svegliarsi oramai da sonnolenza sí grave, di ricordarsi che
l'essere romano è nome gloriosissimo quando è accompagnato dalla
virtú, ma che raddoppia il vituperio e la infamia a chi ha messo in
dimenticanza l'onorata gloria de' suoi maggiori; appresentarsi
facilissima l'occasione, poi che in sulla morte del pontefice
concorreva la discordia tra loro medesimi disunite le volontà de' re
grandi, Italia piena d'armi e di tumulti, e divenuta, piú che mai in
tempo alcuno, odiosa a tutti i príncipi la tirannide sacerdotale.
Respirò da quello accidente tanto pericoloso il pontefice: dal quale
alquanto sollevato, ma essendo ancora molto maggiore il timore che
la speranza della sua vita, assolvé il dí seguente, presenti i
cardinali congregati in forma di concistorio, il nipote
dall'omicidio commesso del cardinale di Pavia; non per via di
giustizia come prima si era trattato, repugnando a questo la brevità
del tempo, ma come penitente per grazia e indulgenza apostolica. E
nel medesimo concistorio, sollecito che l'elezione del successore
canonicamente si facesse, e volendo proibire agli altri d'ascendere
a tanto grado per quel mezzo col quale vi era asceso egli, fece
publicare una bolla piena di pene orribili contro a quegli i quali
procurassino o con danari o con altri premi di essere eletti
pontefici; annullando la elezione che si facesse per simonia, e
dando l'adito molto facile a qualunque cardinale di impugnarla: la
quale costituzione aveva pronunziata insino quando era in Bologna,
sdegnato allora contro ad alcuni cardinali i quali procuravano,
quasi apertamente, di ottenere promesse da altri cardinali per
essere dopo la morte sua assunti al pontificato. Dopo il quale dí
seguitò miglioramento molto evidente, procedendo o dalla
complessione sua molto robusta o dall'essere riservato da' fati come
autore e cagione principale di piú lunghe e maggiori calamità di
Italia; perché né alla virtú né a' rimedi de' medici si poteva
attribuire la sua salute; a' quali, mangiando nel maggiore ardore
della infermità pomi crudi e cose contrarie a' precetti loro, in
parte alcuna non ubbidiva.
Sollevato che fu dal pericolo della morte ritornò alle consuete
fatiche e pensieri; continuando di trattare in un tempo medesimo la
pace col re di Francia, e col re d'Aragona e col senato viniziano
confederazione a offesa de' franzesi: e benché con la volontà molto
piú inclinata alla guerra che alla pace, pure talvolta distraendolo
molte ragioni ora in questa ora in quella sentenza. Inclinavanlo
alla guerra, oltre all'odio inveterato contro al re di Francia e il
non potere ottenere nella pace tutte le condizioni desiderava, le
persuasioni contrarie del re d'Aragona, insospettito piú che mai che
il re di Francia pacificato col pontefice non assaltasse, come prima
n'avesse occasione, il regno di Napoli; e perché questi consigli
avessino maggiore autorità avea, oltre alla prima armata passata
sotto Pietro Navarra d'Affrica in Italia, mandata di nuovo un'altra
armata di Spagna, in sulla quale si dicevano essere cinquecento
uomini d'arme secento giannettari e tremila fanti; forze che
aggiunte agli altri non erano, e per il numero e per il valore degli
uomini, di piccola considerazione. E nondimeno il medesimo re,
procedendo con le solite arti, dimostrava desiderare piú la guerra
contro a' mori, né rimuoverlo da quella utilità o comodo proprio, né
altro che la divozione avuta sempre alla sedia apostolica; ma che,
non potendo solo sostentare i soldati suoi, gli era necessario
l'aiuto del pontefice e del senato viniziano: alle quali cose perché
piú facilmente coscendessino, le genti sue, che tutte erano discese
nell'isola di Capri vicina a Napoli, dimostravano di apparecchiarsi
per passare in Affrica. Onde spaventavano il pontefice le dimande
immoderate, infastidivanlo queste arti, e lo insospettiva l'essergli
noto che quel re non cessava di dare speranze contrarie al re di
Francia. Sapeva che i viniziani non declinerebbono dalla sua
volontà; ma sapeva medesimamente che per la guerra gravissima era
indebolita la facoltà dello spendere, e che il senato per se stesso
era piú tosto desideroso d'attendere per allora a difendere le cose
proprie che a prendere di nuovo una guerra la quale non si potrebbe
sostentare senza spese grandissime e quasi intollerabili. Sperava
che i svizzeri per la inclinazione piú comune della moltitudine si
dichiarerebbono contro al re di Francia, ma non n'avendo certezza
non pareva doversi per questa speranza incerta sottomettere a tanti
pericoli; essendogli noto che mai aveano troncate le pratiche col re
di Francia, e che molti de' principali, a quali dalla amicizia
franzese risultava utilità grandissima, s'affaticavano quanto
potevano acciò che, nella dieta la quale di prossimo doveva
congregarsi a..., la confederazione col re si rinnovasse. Dell'animo
di Cesare, benché stimolato incessantemente dal re cattolico e
naturalmente inimicissimo al nome franzese, aveva minore speranza
che timore; sapendo l'offerte grandi che di nuovo gli erano fatte
contro a' viniziani e contro a sé, e che il re di Francia aveva
possibilità di metterle in atto maggiori di quelle che gli potessino
essere fatte da qualunque altro: e quando Cesare si unisse a quel
re, si rendeva per l'autorità sua molto formidabile il concilio; e
congiunte con buona fede le armi sue colle forze e co' danari del re
di Francia, e coll'opportunità degli stati d'amendue, niuna speranza
poteva il pontefice avere della vittoria, la quale era molto
difficile ottenere contro al re di Francia solo. Sollevava l'animo
suo la speranza che il re di Inghilterra avesse a muovere la guerra
contro al reame di Francia, indotto da consigli e persuasioni del re
cattolico suo suocero e per l'autorità della sedia apostolica,
grande allora nell'isola di Inghilterra, e in cui nome avea con
ardentissimi prieghi supplicato l'aiuto suo contro al re di Francia,
come contro a oppressore e usurpatore della Chiesa. Ma movevano
molto piú quel re l'odio naturale de' re e de' popoli di Inghilterra
contro al nome de' franzesi, l'età giovenile e la abbondanza grande
de' danari lasciatagli dal padre; i quali era fama, nata da autori
non leggieri, che ascendessino a quantità quasi inestimabile. Le
quali cose accendevano l'animo del giovane, nuovo nel regno, e che
nella casa sua non aveva mai veduto altro che prospera fortuna, alla
cupidità di rinnovare la gloria de' suoi antecessori; i quali,
intitolatisi re di Francia, e avendo in diverse età vessato
vittoriosi con gravissime guerre quel reame, non solo avevano
lungamente posseduta la Ghienna e la Normandia, ricche e potenti
provincie, e preso in una battaglia, fatta appresso a Pottieri,
Giovanni re di Francia con due figliuoli e con molti de' principali
signori, ma eziandio occupata insieme con la maggiore parte del
regno la città di Parigi, metropoli di tutta la Francia; e con tale
successo e terrore che è costante opinione che se Enrico quinto loro
re non fusse, nel fiore dell'età e nel corso delle vittorie, passato
di morte naturale all'altra vita, arebbe conquistato tutto il reame
di Francia. La memoria delle quali vittorie rivolgendosi il nuovo re
nell'animo aveva volto totalmente l'animo a cose nuove; con tutto
che dal padre, quando moriva, gli fusse stato ricordato
espressamente che conservasse sopra tutte le cose la pace col re di
Francia, con la quale sola potevano i re di Inghilterra regnare
sicuramente e felicemente. E che la guerra fatta dagli inghilesi al
re di Francia, infestato massimamente nel tempo medesimo da altre
parti, fusse di momento grandissimo non era dubbio alcuno; perché e
percoteva nelle viscere il regno suo e perché, per la ricordazione
delle cose passate, era sommamente temuto da' franzesi il nome
inghilese. E nondimeno il pontefice, per la incertitudine della fede
barbara e per essere i paesi tanto rimoti, non poteva riposare in
questo favore sicuramente i consigli suoi.
Queste, e con queste condizioni, erano le speranze del pontefice. Da
altra parte il re di Francia aborriva la guerra colla Chiesa,
desiderava la pace mediante la quale, oltre al rimuoversi
l'inimicizia del pontefice, si liberava dalle dimande importune e
dalla necessità di servire a Cesare; né faceva difficoltà nella
annullazione del concilio pisano, introdotto solamente da lui per
piegare con questo timore l'animo del pontefice alla pace, pure che
si perdonasse a' cardinali e agli altri che v'avevano o consentito o
aderito. Ma in contrario lo teneva sospeso la dimanda della
restituzione di Bologna, essendo quella città per il sito suo
opportunissima a molestarlo; perché dubitava che la pace non fusse
accettata dal pontefice sinceramente né con animo disposto, se
l'occasioni gli ritornassino, a osservarla, ma per liberarsi dal
pericolo del concilio e dell'armi. Sperava pure avere a confermare
l'animo di Cesare con la grandezza dell'offerte, e perché insino a
ora non come alienato ma come confederato trattava seco delle
occorrenze comuni; confortandolo trall'altre cose a non consentire
che Bologna, città di tanta importanza, ritornasse nella potestà del
pontefice. Del re d'Aragona e del re di Inghilterra non diffidava
interamente; non ostante il procedere già quasi manifesto dell'uno e
i romori che si spargevano della mente dell'altro, e con tutto che
gli imbasciadori loro congiunti insieme l'avessino, prima con
modeste parole e sotto specie di amichevole officio e dipoi con
parole piú efficaci, confortato che operasse che i cardinali e i
prelati del suo regno concorressino al concilio lateranense, e che
permettesse che la Chiesa fusse reintegrata della città sua di
Bologna: perché da altra parte, simulando lo inghilese di volere
perseverare nella confederazione che aveva seco, e facendogli fede
del medesimo molti de' suoi, credeva non avesse a tentare
d'offenderlo; e l'arti e le simulazioni dell'Aragonese erano tali
che il re, prestando minore fede a' fatti che alle parole, colle
quali affermava che mai piglierebbe l'armi contro a lui, si lasciava
in qualche parte persuadere che quel re non sarebbe cosí congiunto
con l'armi manifeste agli inimici suoi come era congiunto co'
consigli occulti. Nelle quali vane opinioni si ingannava tanto, che
essendogli data speranza, da coloro che appresso a' svizzeri
seguitavano le parti sue, di potersi riconciliare quella nazione se
consentiva alla dimanda di augumentare le pensioni, pertinacemente
di nuovo lo dinegò, allegando non volere essere taglieggiato; anzi,
usando i rimedi aspri ove erano necessari i benigni, vietò che non
potessino trarre vettovaglie del ducato di Milano: delle quali
patendo, per la sterilità del paese, grandissima incomodità, sperava
s'avessino a piegare a rinnovare con le condizioni antiche la
confederazione.
Lib.10, cap.5
I procuratori de' cardinali dissidenti celebrano gli atti per
l'apertura del concilio pisano, e il pontefice lancia l'interdetto
contro Firenze e Pisa. Dissensioni in Firenze; simpatie di molti pel
cardinale de' Medici. I fiorentini appellano dall'interdetto. Il
concilio di Pisa e la questione di Bologna ostacoli alla pace.
Confederazione fra il pontefice, il re d'Aragona e il senato
veneziano e sue condizioni.
Sopravenne in questo mezzo il primo dí di settembre, dí determinato
a dare principio al concilio pisano; nel quale dí i procuratori de'
cardinali venuti a Pisa celebrorono in nome loro gli atti
appartenenti ad aprirlo. Per il che il pontefice, sdegnato
maravigliosamente co' fiorentini che avessino consentito che nel
dominio loro si cominciasse il conciliabolo (il quale con questo
nome sempre chiamava), dichiarò essere sottoposte allo interdetto
ecclesiastico le città di Firenze e di Pisa, per vigore della bolla
del concilio intimato da lui; nella quale si conteneva che qualunque
favorisse il conciliabolo pisano fusse scomunicato e interdetto, e
sottoposto a tutte le pene ordinate severamente dalle leggi contro
agli scismatici ed eretici. E minacciando di assaltargli con l'armi,
elesse il cardinale de' Medici legato di Perugia, e pochi dí poi,
essendo morto il cardinale Regino legato di Bologna, lo trasferí a
quella legazione; acciò che, essendo con tale autorità vicino ai
confini loro lo emulo di quello stato, entrassino tra se medesimi in
sospetto e in confusione: dandogli speranza, che tal cosa potesse
facilmente succedere, le condizioni nelle quali era allora quella
città.
Perché, oltre all'essere in alcuni il desiderio del ritorno della
famiglia de' Medici, regnavano tra gli altri cittadini di maggiore
momento le discordie e le divisioni, antica infermità di quella
città, causate in questo tempo dalla grandezza e autorità del
gonfaloniere; la quale alcuni per ambizione ed emulazione non
potevano tollerare, altri erano malcontenti che egli, attribuendosi
nella deliberazione delle cose forse piú che non si conveniva al suo
grado, non lasciasse quella parte agli altri che meritavano le loro
condizioni: dolendosi che il governo della città, ordinato nei due
estremi, cioè nel capo publico e nel consiglio popolare, mancasse,
secondo la retta instituzione delle republiche, di uno senato
debitamente ordinato, per il quale, oltre a essere come temperamento
tra l'uno e l'altro estremo, i cittadini principali e meglio
qualificati degli altri ottenessino nella republica grado piú
onorato; e che il gonfaloniere, eletto principalmente per ordinare
questo, o per ambizione o per sospetto vano facesse il contrario. Il
quale desiderio, se bene ragionevole non però di tanta importanza
che dovesse voltare gli animi loro alle divisioni, perché eziandio
senza questo ottenevano onesto luogo né, alla fine, senza loro si
disponevano le cose publiche, fu origine e cagione principale de'
mali gravissimi di quella città. Da questi fondamenti essendo nata
la divisione tra i cittadini, e parendo agli emuli del gonfaloniere
che egli e il cardinale di Volterra suo fratello avessino dependenza
dal re di Francia e confidassino in quella amicizia, si opponevano
quanto potevano a quelle deliberazioni che si avevano a fare in
favore di quel re, desiderosi che il pontefice prevalesse. Da questo
era ancora nato che il nome della famiglia de' Medici cominciava a
essere manco esoso nella città; perché quegli ancora, emuli del
gonfaloniere, che non desideravano il ritorno loro, cittadini di
grande autorità, non concorrevano piú a perseguitargli, non a
impedire (come altre volte si era fatto) la conversazione degli
altri cittadini con loro, anzi dimostrando, per battere il
gonfaloniere, di non essere alieni dalla amicizia loro facevano
quasi ombra agli altri di desiderare la loro grandezza: dalla qual
cosa nasceva che non solo quegli che veramente erano amici loro, che
non erano di molto momento, entravano in speranza di cose nuove, ma
ancora molti giovani nobili, stimolati o dalle troppe spese o da
sdegni particolari o da cupidità di soprafare gli altri, appetivano
la mutazione dello stato per mezzo del ritorno loro. E aveva con
grande astuzia nutrito e augumentato piú anni questa disposizione il
cardinale de' Medici; perché dopo la morte di Piero suo fratello, il
cui nome era temuto e odiato, simulando di non si volere
intromettere delle cose di Firenze né di aspirare alla grandezza
antica de' suoi, aveva sempre con grandissime carezze ricevuto tutti
i fiorentini che andavano a Roma e affaticatosi prontamente nelle
faccende di tutti e, non meno degli altri, di quegli che si erano
scoperti contro al fratello; trasferendo di tutto la colpa in lui,
come se l'odio e l'offese fussino terminate con la sua morte: nel
quale modo di procedere essendo continuato piú anni, e accompagnato
dalla fama che aveva nella corte di Roma di essere, per natura,
liberale ossequioso e benigno a ciascuno, era diventato in Firenze
grato a molti. E però Giulio, desideroso di alterare quel governo,
non imprudentemente lo propose a quella legazione.
Appellorono i fiorentini dallo interdetto, non nominando, per
offendere meno, nella appellazione il concilio pisano ma solamente
il sacro concilio della Chiesa universale; e come se per
l'appellazione fusse sospeso l'effetto dello interdetto furono, per
comandamento del supremo magistrato, astretti i sacerdoti di quattro
chiese principali a celebrare publicamente nelle loro chiese gli
offici divini: per il che si scopriva piú la divisione de'
cittadini, perché, essendo rimesso nello arbitrio di ciascuno o
osservare o sprezzare lo interdetto, regolava quasi ciascuno le cose
spirituali secondo il giudicio o la passione che aveva nelle cose
publiche e temporali.
Credette [il re di Francia] che il principiare del concilio
facilitasse la concordia col pontefice, e perciò con instanza grande
fu sollecitato da lui; ingannato in questo come in molte altre cose,
perché e rendé il pontefice piú duro e ingelosí gli animi degli
altri príncipi, ingelositi che alla fine non si creasse un pontefice
ad arbitrio suo: dando, oltre a ciò, somma giustificazione; perché
pareva gli movesse non gli odii e passioni particolari ma la causa
dell'unione della Chiesa e l'onore della religione. Onde di nuovo
feciono instanza gli imbasciadori de' re d'Aragona e d'Inghilterra,
offerendogli la pace col pontefice, in caso si restituisse Bologna
alla Chiesa e che i cardinali convenissino al concilio lateranense;
a' quali offerivano che il papa perdonerebbe. Ma ritenendolo da
consentire il rispetto di Bologna, rispose: che non difendeva una
città contumace e rebelle della Chiesa, sotto il cui dominio e
ubbidienza si reggeva come per moltissimi anni aveva fatto innanzi
al pontificato di Giulio; il quale non doverrebbe ricercare piú
della autorità con la quale l'aveano tenuta i suoi antecessori:
medesimamente, il concilio pisano essere stato introdotto con
onestissimo e santissimo proposito di riformare i disordini notori e
intollerabili che erano nella Chiesa; alla quale, senza pericolo di
scisma o di divisione, facilmente si restituirebbe l'antico
splendore se il pontefice, come era giusto e conveniente, convenisse
a quel concilio. Soggiugnendo, che la inquietudine sua e l'animo
acceso alle guerre e agli scandoli aveva costretto lui a obligarsi
alla protezione di Bologna; e però, per l'onore suo, non volere
mancare altrimenti di difenderla che mancherebbe al difendere la
città di Parigi.
Dunque il pontefice, rimossi tutti i pensieri dalla pace, per gli
odii e appetiti antichi, per la cupidità di Bologna, per lo sdegno e
timore del concilio e finalmente per sospetto, se differisse piú a
deliberare, di essere abbandonato da tutti, perché già i soldati
spagnuoli, dimostrando d'avere a passare in Affrica, cominciavano a
Capri a imbarcarsi, deliberò di fare la confederazione trattata col
re cattolico e col senato viniziano: la quale fu il quinto dí di
ottobre publicata solennemente, presente il pontefice e tutti i
cardinali, nella chiesa di Santa Maria del popolo. Contenne che si
confederavano per conservare principalmente l'unione della Chiesa, e
a estirpazione, per difenderla dallo scisma imminente, del
conciliabolo pisano, e per la recuperazione della città di Bologna
appartenente immediatamente alla sedia apostolica e di tutte l'altre
terre e luoghi che mediatamente o immediatamente se gli
appartenessino, sotto il qual senso si comprendeva Ferrara; e che
contro a quegli che ad alcuna di queste cose si opponessino o che di
impedirle tentassino (significavano queste parole il re di Francia),
a cacciargli totalmente di Italia, con potente esercito si
procedesse. Nel quale il pontefice tenesse [quattrocento uomini
d'arme cinquecento cavalli leggieri e semila fanti], tenessevi il
senato viniziano [ottocento uomini d'arme mille cavalli leggieri e
ottomila fanti], e il re d'Aragona mille dugento uomini d'arme mille
cavalli leggieri e diecimila fanti spagnuoli; per sostentazione de'
quali pagasse il pontefice, durante la guerra, ciascuno mese,
ventimila ducati, e altrettanti ne pagasse il senato viniziano;
numerando di presente lo stipendio per due mesi, intra i quali
dovessino essere venuti in Romagna o dove convenissino i
confederati. Armasse il re d'Aragona dodici galee sottili,
quattordici n'armassino i viniziani; i quali nel tempo medesimo
movessino la guerra nella Lombardia al re di Francia. Fusse capitano
generale dell'esercito don Ramondo di Cardona, di patria catelano e
allora viceré del reame di Napoli. Che acquistandosi terra alcuna in
Lombardia che fusse stata de' viniziani, se n'osservasse la
dichiarazione del pontefice; il quale incontinente, per scrittura
fatta separatamente, dichiarò si restituissino a' viniziani. A
Cesare fu riservata facoltà di entrare nella confederazione, e
medesimamente al re di Inghilterra; a quello con incerta speranza
d'averlo finalmente a separare dal re di Francia, a questo con
espresso consentimento del cardinale eboracense, intervenuto
continuamente a' trattamenti della lega. La quale come fu contratta,
morí Ieronimo Donato oratore veneto, per la prudenza e desterità sua
molto grato al pontefice, e perciò stato molto utile alla patria
nella sua legazione.
Lib.10, cap.6
Diversità di giudizi intorno alla politica del pontefice. Atti del
pontefice contro a' cardinali dissidenti; sdegno suo contro Firenze
e il Soderini. Orazione del Soderini perché si usino le entrate dei
beni delle chiese se il pontefice muoverà guerra. Ragioni per cui si
delibera di non assalire i fiorentini.
Destò questa confederazione, fatta dal pontefice sotto nome di
liberare Italia da' barbari, diverse interpretazioni negli animi
degli uomini, secondo la diversità delle passioni e degli ingegni.
Perché molti, presi dalla magnificenza e giocondità del nome,
esaltavano con somme laudi insino al cielo cosí alto proposito,
chiamandola professione veramente degna della maestà pontificale; né
potere la grandezza dell'animo di Giulio avere assunto impresa piú
generosa, né meno piena di prudenza che di magnanimità, avendo con
la industria sua commosso l'armi de' barbari contro a' barbari; onde
spargendosi contro a' franzesi piú il sangue degli stranieri che
degli italiani, non solamente si perdonerebbe al sangue nostro, ma
cacciata una delle parti sarebbe molto facile cacciare con l'armi
italiane l'altra già indebolita ed enervata. Altri, considerando
forse piú intrinsecamente la sostanza delle cose né si lasciando
abbagliare gli occhi dallo splendore del nome, temevano che le
guerre che si cominciavano con intenzione di liberare Italia da'
barbari nocerebbono molto piú agli spiriti vitali di questo corpo
che non aveano nociuto le cominciate con manifesta professione e
certissima intenzione di soggiogarla; ed essere cosa piú temeraria
che prudente lo sperare che l'armi italiane, prive di virtú, di
disciplina, di riputazione, di capitani di autorità, né conformi le
volontà de' príncipi suoi, fussino sufficienti a cacciare di Italia
il vincitore; al quale quando mancassino tutti gli altri rimedi non
mancherebbe mai la facoltà di riunirsi co' vinti a ruina comune di
tutti gli italiani: ed essere molto piú da temere che questi nuovi
movimenti dessino occasione di depredare Italia a nuove nazioni che
da sperare che, per l'unione del pontefice e de' viniziani,
s'avessino a domare i franzesi e gli spagnuoli. Avere da desiderare
Italia che la discordia e consigli malsani de' nostri príncipi non
avessino aperta la via d'entrarvi all'armi forestiere; ma che, poi
che per la sua infelicità due de' membri piú nobili erano stati
occupati dal re di Francia e dal re di Spagna, doversi riputare
minore calamità che amendue vi rimanessino, insino a tanto che la
pietà divina o la benignità della fortuna conducessino piú fondate
occasioni (perché dal fare contrapeso l'un re all'altro si difendeva
la libertà di quegli che ancora non servivano) che il venire tra
loro medesimi alle armi; per le quali, mentre durava la guerra, si
lacererebbono, con depredazioni con incendi con sangue e con
accidenti miserabili, le parti ancora intere, e finalmente quel di
loro che rimanesse vincitore l'affliggerebbe tutta con piú acerba e
piú atroce servitú.
Ma il pontefice, il quale sentiva altrimenti, divenuti per la nuova
confederazione gli spiriti suoi maggiori e piú ardenti, subito che
passò il termine prefisso nel monitorio fatto prima a' cardinali
autori del concilio, convocato con solennità grande il concistorio
publico, sedendo nell'abito pontificale nella sala detta de' re,
dichiarò i cardinali di Santa Croce, di San Malò, di Cosenza e quel
[di] Baiosa essere caduti dalla degnità del cardinalato, e incorsi
in tutte le pene alle quali sono sottoposti gli eretici e gli
scismatici. Publicò, oltre a questo, uno monitorio sotto la forma
medesima al cardinale di San Severino, il quale insino a quel dí,
non avea molestato; e procedendo col medesimo ardore a' pensieri
delle armi sollecitava continuamente la venuta degli spagnuoli,
avendo nell'animo che innanzi a ogni altra cosa si movesse la guerra
contro a' fiorentini, per indurre a' voti de' confederati quella
republica, rimettendo al governo la famiglia de' Medici, né meno per
saziare l'odio smisurato conceputo contro a Piero Soderini
gonfaloniere, come se dalla autorità sua fusse proceduto che i
fiorentini non si fussino mai voluti separare dal re di Francia e
che dipoi avessino consentito che in Pisa si celebrasse il concilio.
Della quale deliberazione penetrando molti indizi a Firenze, e
facendosi per potere sostenere la guerra diverse preparazioni, fu
trall'altre cose proposto essere molto conveniente che alla guerra
mossa ingiustamente dalla Chiesa si resistesse colle entrate de'
beni delle chiese, e perciò si astringessino gli ecclesiastici a
pagare quantità grandissima di danari; ma con condizione che,
deponendosi in luogo sicuro, non si spendessino se non in caso fusse
mossa la guerra, e che cessato il timore che la dovesse essere mossa
si restituissino a chi gli avesse pagati: alla qual cosa
contradicevano molti cittadini, alcuni temendo di non incorrere
nelle censure e nelle pene imposte dalle leggi canoniche contro a'
violatori della libertà ecclesiastica, ma la maggiore parte di loro
per impugnare le cose proposte dal gonfaloniere, dalla autorità del
quale era manifesto procedere principalmente questo consiglio. Ma
essendo, per la diligenza del gonfaloniere e per la inclinazione di
molti altri, deliberata già ne' consigli piú stretti la nuova legge
ordinata sopra questo, né mancando altro che l'approvazione del
consiglio maggiore, il quale era convocato per questo effetto, il
gonfaloniere parlò per la legge in questa sentenza:
- Niuno è che possa, prestantissimi cittadini, giustamente dubitare
quale sia stata sempre contro alla vostra libertà la mente del
pontefice, non solo per quel che ne apparisce di presente, d'averci
tanto precipitosamente sottoposti allo interdetto, senza udire molte
nostre verissime giustificazioni e la speranza che se gli dava di
operare di maniera che dopo pochi dí si removesse il concilio da
Pisa, ma molto piú per il discorso delle azioni continuate da lui in
tutto il tempo del suo pontificato. Delle quali raccontando
brevemente una parte (perché ridurle tutte alla memoria sarebbe cosa
molto lunga) chi è che non sappia che nella guerra contro a' pisani
non si potette ottenere da lui, benché molte volte ne lo
supplicassimo, favore alcuno né palese né occulto? con tutto che e
la giustizia della causa lo meritasse, e che lo spegnere quel fuoco,
che non molti anni prima era stato materia di gravissime
perturbazioni, appartenesse e alla sicurtà dello stato della Chiesa
e alla quiete di tutta Italia; anzi, come insino allora si sospettò,
e fu dopo la vittoria nostra piú certo sempre, quante volte
ricorrevano a lui uomini de' pisani gli udiva benignamente e gli
nutriva nella pertinacia loro con varie speranze: inclinazione in
lui non nuova ma cominciata insino nel cardinalato; perché, come è
noto a ciascuno di voi, levato che fu da Pisa il campo de' franzesi,
procurò quanto potette appresso al re di Francia e il cardinale di
Roano perché, esclusi noi, ricevessino in protezione i pisani.
Pontefice, non concedette mai alla republica nostra alcuna di quelle
grazie delle quali è solita a essere spesso liberale la sedia
apostolica; perché in tante difficoltà e bisogni nostri non consentí
mai che una volta sola ci aiutassimo delle entrate degli
ecclesiastici (come piú volte aveva consentito Alessandro sesto,
benché inimico tanto grande di questa republica) ma, dimostrando
nelle cose minori l'animo medesimo che aveva nelle maggiori, ci negò
ancora il trarre dal clero i danari per sostentare lo studio
publico, benché fusse piccola quantità e continuata con la licenza
di tanti pontefici, e che si convertiva in causa pietosa della
dottrina e delle lettere. Quel che per Bartolomeo d'Alviano fu
trattato col cardinale Ascanio in Roma non fu trattato senza
consentimento del pontefice, come allora ne apparirono molti indizi,
e tosto ne sarebbono appariti effetti manifesti se gli altri di
maggiore potenza che vi intervenivano non si fussino ritirati per la
morte improvisa del cardinale: ma benché, cessati i fondamenti primi
non volle mai consentire a' giusti prieghi nostri di proibire
all'Alviano che non adunasse o intrattenesse soldati nel territorio
di Roma, ma proibí bene a' Colonnesi e a' Savelli, per mezzo de'
quali aremmo con piccola spesa divertiti i nostri pericoli, che non
assaltassino le terre di quegli che si preparavano per offenderci.
Nelle cose di Siena, difendendo sempre Pandolfo Petrucci contro a
noi, ci astrinse con minaccie a prolungare la tregua, né si
interpose poi per altro, perché noi recuperassimo Montepulciano (per
la difesa del quale avea mandato gente a Siena), se non per paura
che l'esercito del re di Francia non fusse da noi chiamato in
Toscana. Da noi, pel contrario, non gli era mai stata fatta offesa
alcuna, ma proceduti sempre con la divozione conveniente verso la
Chiesa, gratificato lui particolarmente in tutte le dimande che sono
state in potestà nostra, concedutegli, senza alcuna obligazione anzi
contro alla propria utilità, le genti d'arme alla impresa di
Bologna; ma niuno officio niuno ossequio è bastato a placare la
mente sua. Della quale sono molti altri segni, ma il piú potente
quello, che per non parere traportato dallo sdegno e perché so
essere nella memoria di ciascuno voglio tacitamente passare, d'avere
prestato orecchie (voglio che le parole siano moderate) a quegli che
gli offersono la morte mia; non per odio contro a me, dal quale mai
avea ricevuta ingiuria alcuna, e che quando era cardinale m'avea
sempre onoratamente raccolto, ma per il desiderio ardente che ha di
privare voi della vostra libertà: perché avendo sempre cercato che
questa republica aderisse alle sue immoderate e ingiuste volontà,
fusse partecipe delle sue spese e de' suoi pericoli, né sperando
dalla moderazione e maturità de' consigli vostri potere nascere
imprudenti e precipitose deliberazioni, ha diritto il fine suo a
procurare di introdurre in questa città una tirannide che dependa da
lui, che non si consigli e governi secondo le vostre utilità ma
secondo l'impeto delle sue cupidità; con le quali, tirato da fini
smisurati, non pensa ad altro che a seminare guerre di guerre e a
nutrire continuamente il fuoco nella cristianità. E chi è quello che
possa dubitare che ora che seco si dimostrano congiunte sí potenti
armi, che ora che signoreggia la Romagna, che gli ubbidiscono i
sanesi (donde ha lo adito a penetrare insino nelle viscere nostre),
che e' non abbi intenzione di assaltarci? che e' non sia per
ingegnarsi apertamente di ottenere colle forze quel che già ha
tentato occultamente colle insidie, e che con tanto ardore ha
bramato sí lungamente? e tanto piú quanto piú fussimo mal preparati
a difenderci. Ma quando niuna altra cosa il dimostrasse, non
dimostra egli i pensieri suoi abbastanza d'avere diputato nuovamente
legato di Bologna il cardinale de' Medici, con intenzione di
proporlo all'esercito? cardinale non mai onorato o beneficato da
lui, e nel quale non dimostrò mai alcuna confidenza. Che significa
questo, altro che, dando autorità, accostando a' vostri confini anzi
mettendo quasi in sul collo vostro, con tanta degnità con
riputazione e con armi, quel che aspira a essere vostro tiranno,
dare animo a' cittadini (se alcuni ne sono tanto pravi) che amino
piú la tirannide che la libertà, e sollevare i sudditi vostri a
questo nome? Per le quali cose questi miei onorevoli colleghi, e
molti altri buoni e savi cittadini, hanno giudicato essere
necessario che per difendere questa libertà si faccino i medesimi
provedimenti che s'arebbono a fare se la guerra fusse certa; e se
bene sia verisimile che il re di Francia, almeno per l'interesse
proprio, ci aiuterà potentemente, non dobbiamo per questa speranza
omettere i rimedi che sono in nostra potestà, né dimenticarci che
facilmente molti impedimenti potrebbono sopravenire che ci
priverebbono in qualche parte degli aiuti suoi. Non crediamo che
alcuno nieghi che questo sia salutifero e necessario consiglio, e
chi pure lo negasse potrebbe essere che altro lo movesse che 'l zelo
del bene comune. Ma sono bene alcuni che allegano che, essendo noi
incerti se il pontefice ha nell'animo di muoverci la guerra, è
inutile deliberazione, offendendo l'autorità sua e gravando i beni
ecclesiastici, dargli giusta cagione di sdegnarsi e provocarlo a
farci quasi necessariamente la guerra: come se, per tanti e cosí
evidenti segni e argomenti, non si comprendesse manifestamente quale
sia la mente sua; o come se appartenesse a prudenti governatori
delle republiche tardare a prepararsi dopo il principio
dell'assalto, volere prima ricevere dall'inimico il colpo mortale
che vestirsi dell'armi necessarie a difendersi. Altri dicono che,
per non aggiugnere all'ira del pontefice l'ira divina, si debbe
provedere alla salute nostra con altro modo, perché non è in noi
quella necessità senza la quale è sempre proibito, con pene
gravissime, dalle leggi canoniche, a' secolari, imporre gravezze a'
beni o alle persone ecclesiastiche. È stata considerata questa
ragione similmente da noi e dagli altri che hanno consigliato che si
faccia questa legge: ma non bastando, come voi sapete, l'entrate
publiche alle spese che occorreranno, ed essendo state sí lungamente
e sí gravemente affaticate le borse vostre, ed essendo manifesto che
nella guerra aranno a ogn'ora a essere di nuovo affaticate, chi è
quello che non vegga essere molto conveniente e necessario che le
spese che si faranno per difenderci dalla guerra mossa dalle persone
ecclesiastiche si sostenghino in qualche parte co' danari delle
persone ecclesiastiche? cosa molte altre volte usata nella nostra
città e molto piú da tutti gli altri príncipi e republiche, ma non
già mai, né qui né altrove, con maggiore moderazione e
circospezione; poiché non s'hanno a spendere in altro uso, anzi
s'hanno a depositare in luogo sicuro, per restituirgli, se il timore
nostro sarà stato vano, a' religiosi medesimi. Se adunque il
pontefice non ci moverà la guerra non spenderemo i danari degli
ecclesiastici, né quanto allo effetto aremo imposto loro gravezza
alcuna; se ce la moverà, chi si potrà lamentare che con tutti i modi
a noi possibili ci difendiamo da una guerra tanto ingiusta? Che
cagione gli dà questa republica, che per necessità non per volontà,
come a lui è notissimo, ha tollerato che a Pisa si chiami il
concilio, per la quale si possa dire che l'abbiamo provocato o
irritato? se già non si dice provocare o irritare chi non porge il
collo o il petto aperto allo assaltatore. Benché, non lo provoca o
irrita chi si prepara a difendersi, chi si mette in ordine per
resistere alla sua ingiusta violenza; ma lo provocheremmo o
irriteremmo se non ci provedessimo, perché, per la speranza della
facilità della impresa, diventerebbe maggiore lo impeto e l'ardore
che ha di distruggere da' fondamenti la vostra libertà. Né vi
ritenga il timore di offendere il nome divino; perché il pericolo è
sí grave e sí evidente, e sono tali i bisogni e le necessità nostre
(né si può in pregiudicio vostro trattare cosa di maggiore peso),
che è permesso non solo l'aiutarsi con quella parte di queste
entrate che non si converte in usi pii, anzi sarebbe lecito mettere
mano alle cose sacre: perché la difesa è, secondo la legge della
natura, comune a tutti gli uomini e approvata dal sommo Iddio e dal
consentimento di tutte le nazioni; nata insieme col mondo e duratura
quanto il mondo, e alla quale non possono derogare né le leggi
civili né le canoniche fondate in su la volontà degli uomini, e le
quali, scritte in sulle carte, non possono derogare a una legge non
fatta dagli uomini ma dalla stessa natura, e scritta scolpita e
infissa ne' petti e negli animi di tutta la generazione umana. Né si
ha aspettare che noi siamo ridotti a estrema necessità, perché
condotti in tale stato, e circondati e quasi oppressi dagli inimici,
tardi ricorreremmo a' rimedi, tardi sarebbono gli antidoti,
incarnato che fusse nel corpo nostro il veleno. Ma oltre a questo,
come si può negare che ne' privati non sia gravissima necessità?
quando le gravezze che si pongono ne costringono una grandissima
parte a estremare di quelle spese senza le quali non possono vivere
se non con grandissima incomodità, e con diminuire assai delle cose
necessarie al grado loro. Questa è la necessità considerata dalle
leggi, le quali non vogliono che si aspetti che i vostri cittadini
siano ridotti al pericolo della fame e in termine che non possino
sostentare piú né sé né le sue famiglie: e da altra parte, con
questa imposizione, non si dà agli ecclesiastici alcuna incomodità,
anzi si disagiano di quella parte delle entrate la quale o
conserverebbeno inutilmente nella cassa o consumerebbeno in spese
superflue, o forse molti di loro (siami perdonata questa parola)
spenderebbeno in piaceri non convenienti e non onesti. È conclusione
comune di tutti i savi che a Dio piaccino sommamente le libertà
delle città, perché in quelle piú che in altra specie di governi si
conserva il bene comune, amministrasi piú senza distinzione la
giustizia, accendonsi piú gli animi de' cittadini all'opere virtuose
e onorate, e si ha piú rispetto e osservanza alla religione. E voi
credete che gli abbia a dispiacere che per difendere cosa sí
preziosa, per la quale chi sparge il proprio sangue è laudato
sommamente, vi vagliate d'una piccola parte di frutti e di entrate
di cose temporali? le quali benché dedicate alle chiese sono però
pervenute tutte in quelle dalle elemosine dalle donazioni e da'
lasci de' nostri maggiori; e le quali si spenderanno non meno in
conservazione e per salute delle chiese, sottoposte nelle guerre non
altrimenti che le cose secolari alla crudeltà e avarizia de'
soldati, e che non saranno piú riguardate in una guerra fatta dal
pontefice che sarebbeno in una guerra fatta da qualunque empio
tiranno o da' turchi. Aiutate, mentre che voi potete, cittadini, la
vostra patria e la vostra libertà; e vi persuadete non potere fare
cosa alcuna piú grata e piú accetta al sommo Iddio, e che a
rimuovere la guerra dalle case dalle possessioni da i tempii, e da i
monasteri vostri non è migliore rimedio che fare conoscere, a chi
pensa di offendervi, che voi siete determinati di non pretermettere
cosa alcuna per difendervi. -
Udito il parlare del gonfaloniere non fu difficoltà alcuna che la
legge proposta non fusse approvata dal consiglio maggiore. Dalla
qual cosa benché crescesse sopra modo la indignazione del pontefice
e si concitasse tanto piú al disporre i confederati a rompere la
guerra a' fiorentini, nondimeno rimossono da questa sentenza e lui e
quegli che in Italia trattavano per il re d'Aragona le persuasioni
di Pandolfo Petrucci; il quale, confortando che si assaltasse
Bologna, detestava il muovere la guerra in Toscana: allegando che
Bologna, impotente per se medesima a difendersi, sarebbe solamente
difesa dalle forze del re di Francia; ma per i fiorentini
resisterebbe e la potenza di loro medesimi e, per l'utilità propria
non meno che per Bologna, il medesimo re. I fiorentini, se bene
inclinati con l'animo al re di Francia, nondimeno prudenti e gelosi
della conservazione dello stato loro, non avere in tanti moti a
instanza sua offeso alcuno coll'armi, né gli essere stati utili in
altro che in accomodarlo, per difesa dello stato di Lombardia, di
dugento uomini d'arme, per gli oblighi della capitolazione fatta
comunemente col re cattolico e con lui: non potersi fare cosa piú
grata né piú utile al re di Francia che necessitare i fiorentini a
partirsi dalla neutralità, e fare diventare la causa loro comune con
la causa sua; ed essere grande imprudenza, avendo invano il re
astrettigli con molti prieghi e promesse che si dichiarino per lui,
che gli inimici suoi sieno cagione di fargli conseguire quello che
con l'autorità sua non avesse potuto ottenere: comprendersi da
ciascuno per molti segni, ma averne egli certissima notizia, che a'
fiorentini era molestissimo che il concilio si celebrasse in Pisa,
né averlo consentito per altro che per non avere avuto ardire di
repugnare alle dimande del re di Francia, fatte subito dopo la
rebellione di Bologna e quando non si vedevano armi opposite in
Italia; e che era certo concorrere al concilio l'autorità di Cesare,
e si credeva che anche vi fusse il consentimento del re cattolico:
sapere egli medesimamente che i fiorentini non erano per tollerare
che nel dominio loro si fermassino soldati franzesi, ed essere cosa
molto perniciosa il minacciargli o l'aspreggiargli, anzi per il
contrario essere utilissimo il trattare con mansuetudine e con
dimostrazione di ammettere le loro scuse; perché cosí procedendo o
si otterrebbe da loro, col tempo o con qualche occasione, quel che
ora non si poteva sperare, o almeno, non gli costringendo a fare per
timore nuove deliberazioni, si addormenterebbono in modo che ne'
tempi pericolosi non nocerebbeno, e ottenendosi la vittoria sarebbe
in potestà de' confederati dare quella forma al governo de'
fiorentini che piú giudicassino espediente. Diminuiva in questa
causa l'autorità di Pandolfo il conoscersi che per l'utilità propria
desiderava che nella Toscana non si incominciasse una guerra tanto
grave, per la quale o dagli eserciti amici o dagli inimici sarebbono
parimenti distrutti i paesi di tutti; ma parveno tanto efficaci le
sue ragioni che facilmente si deliberò di non assaltare i
fiorentini. Il quale consiglio fece riputare migliore la contenzione
che, non molti dí poi, cominciò tra' fiorentini e i cardinali.
Lib.10, cap.7
I fiorentini vietano l'ingresso in Toscana e in Pisa alle milizie
francesi al seguito de' cardinali del concilio. Avversione al
concilio del popolo e dei sacerdoti pisani; per un tumulto i
cardinali deliberano di trasferire il concilio a Milano. Avversione
al concilio anche del popolo milanese. Freddezza di Massimiliano
riguardo al concilio e suo contegno ambiguo di fronte alle questioni
politiche. Condizioni difficili del re di Francia per la politica
degli altri sovrani e del pontefice.
Non erano, come è detto di sopra, intervenuti i cardinali a' primi
atti del concilio; perché si erano fermati al Borgo a San Donnino, o
per aspettare i prelati che venivano di Francia o quegli che aveva
promesso di mandare il re de' romani, o per altre cagioni: onde
essendo partiti per diverse vie, si sparse fama che i due spagnuoli,
i quali aveano preso il cammino di Bologna, si riconcilierebbono col
pontefice; perché continuamente trattavano collo imbasciadore del re
d'Aragona che dimorava appresso al pontefice, e perché aveano
dimandato e ottenuto da' fiorentini la fede publica di potere
sicuramente fermarsi in Firenze. Ma arrivati nel paese di Mugello si
voltorno improvisamente verso Lucca per congiugnersi con gli altri,
o perché veramente avessino avuto sempre cosí nell'animo o perché
nel cardinale di Santa Croce potesse piú finalmente l'antica
ambizione che il nuovo timore, o perché, avendo ricevuto in quel
luogo l'avviso di essere stati privati, si disperassino di potere
piú essere concordi col pontefice. Passavano nel tempo medesimo
l'Apennino i tre cardinali franzesi, San Malò, Alibret e Baiosa, per
la via di Pontriemoli; e con loro i prelati di Francia: dietro a'
quali partivano di Lombardia, per richiesta fatta da loro, trecento
lancie franzesi sotto il governo di Odetto di Fois signore di
Lautrech deputato da' cardinali custode del concilio, o perché
giudicassino pericoloso lo stare in Pisa senza presidio tale o
perché il concilio, accompagnato dall'armi del re di Francia,
procedesse con maggiore autorità o veramente (come dicevano) per
avere possanza di raffrenare qualunque ardisse di contraffare o di
non ubbidire a' decreti loro. Ma i fiorentini, come intesono questa
deliberazione, la quale insino che le genti cominciorno a muoversi
era stata loro celata, deliberorno non ricevere in quella città,
tanto importante, tal numero di soldati: considerando la mala
disposizione de' pisani, ricordandosi che la ribellione passata era
proceduta alla presenza e permettendola il re Carlo, e della
inclinazione che al nome pisano avevano avuta i soldati franzesi, e
dubitando oltre a questo che per la insolenza militare potesse
nascervi qualche accidente pericoloso; ma molto piú temendo che se
l'armi del re di Francia venivano a Pisa non ne nascesse (e forse
secondo il desiderio occulto del re) che la Toscana diventasse la
sedia della guerra. Perciò significorno, nel tempo medesimo: al re,
essere difficile l'alloggiarle per la strettezza e sterilità del
paese, incomodo non che altro a pascere la moltitudine che conveniva
al concilio, né essere necessario, perché Pisa era talmente retta e
custodita da loro che i cardinali potevano, senza pericolo o di
insulti forestieri o di opposizione di quegli di dentro,
sicurissimamente dimorarvi; e al cardinale di San Malò, colla cui
volontà si reggevano in queste cose i franzesi, che aveano
deliberato di non ammettere in Pisa soldati. Il quale, dimostrando
colle parole di consentire, ordinava da altra parte che le genti,
separatamente e con minore dimostrazione che si poteva, procedessino
innanzi; persuadendosi che approssimate a Pisa vi entrerebbono, o
con la violenza o con arti o perché i fiorentini non ardirebbono,
con tanta ingiuria del re, di proibirlo. Ma avendo il re risposto
apertamente essere contento non vi venissino e da altra parte non lo
vietando, i fiorentini mandorno al cardinale di San Malò, con
imbasciata pari alla sua superbia, Francesco Vettori, a certificarlo
che se i cardinali entravano con l'armi nel dominio loro non solo
non gli ammetterebbono in Pisa ma gli perseguiterebbono come
inimici: il medesimo, se le genti d'arme passavano l'Apennino verso
Toscana, perché presumerebbono non passassino per altro che per
entrare poi occultamente o con qualche fraude in Pisa. Dalla quale
proposta commosso il cardinale, ordinò che le genti ritornassino di
là dallo Apennino; consentendogli i fiorentini che con lui
rimanessino, oltre alle persone di Lautrech e di Ciattiglione, cento
cinquanta arcieri.
Convennonsi tutti i cardinali a Lucca, la quale città il pontefice
per questa cagione dichiarò incorsa nello interdetto; ove lasciato
infermo il Cosentino, che pochi dí poi vidde l'ultimo suo dí,
andorno gli altri quattro a Pisa; non ricevuti né con lieti animi
de' magistrati né con riverenza o divozione della moltitudine,
perché a fiorentini era molestissima la loro venuta, né accetta o di
estimazione alcuna appresso a' popoli cristiani la causa del
concilio. Perché, con tutto che il titolo di riformare la Chiesa
fusse onestissimo e di grandissima utilità, anzi a tutta la
cristianità non meno necessario che grato, nondimeno a ciascuno
appariva gli autori muoversi da fini ambiziosi e involti nelle
cupidità delle cose temporali, e sotto colore del bene universale
contendersi degli interessi particolari, e che a qualunque di essi
pervenisse il pontificato non arebbono minore bisogno di essere
riformati che avessino coloro i quali si trattava di riformare; e
che, oltre alla ambizione de' sacerdoti, aveano suscitato e
nutrivano il concilio le quistioni de' príncipi e degli stati:
queste avere mosso il re di Francia a procurarlo, queste il re de'
romani a consentirlo, queste il re d'Aragona a impugnarlo. Dunque,
comprendendosi chiaramente che con la causa del concilio era
congiunta principalmente la causa dell'armi e degli imperi, aveano i
popoli in orrore che sotto pietosi titoli di cose spirituali si
procurassino, per mezzo delle guerre e degli scandoli, le cose
temporali. Però, non solamente nello entrare in Pisa i cardinali
apparí manifestamente l'odio e il dispregio comune ma piú
manifestamente negli atti conciliari. Perché avendo convocato il
clero a intervenire nella chiesa cattedrale alla prima sessione,
niuno religioso volle intervenirvi; e i sacerdoti propri di quella
chiesa, volendo essi, secondo il rito de' concili, celebrare la
messa per la quale si implora il lume dello Spirito Santo, recusorno
di prestare loro i paramenti; e procedendo poi a maggiore audacia,
serrate le porte del tempio, si opposono perché non vi entrassino.
Delle quali cose essendosi querelati i cardinali a Firenze, fu
comandato che non si negassino loro né le chiese né gli instrumenti
ordinati a celebrare gli offici divini ma che non si costrignesse il
clero a intervenirvi; procedendo queste deliberazioni, quasi
repugnanti a se stesse, dalle divisioni de' cittadini: per le quali,
ricettando da una parte nelle terre loro il concilio dall'altra
lasciandolo vilipendere, si offendeva in un tempo medesimo il
pontefice e si dispiaceva al re di Francia. Però i cardinali,
giudicando lo stare in Pisa senza armi non essere senza pericolo, e
conoscendo diminuirsi, in una città che non ubbidiva a' decreti
loro, l'autorità del concilio, inclinavano a partirsene come prima
avessino indirizzate le cose. Ma gli costrinse ad accelerare un
caso, il quale benché fusse fortuito ebbe perciò il fondamento dalla
mala disposizione degli uomini. Perché avendo un soldato franzese
fatto a una meretrice certa insolenza nel luogo publico, e avendo i
circostanti cominciato a esclamare, concorsono al romore coll'armi
molti franzesi, cosí soldati come familiari de' cardinali e degli
altri prelati; e vi concorsono da altra parte similmente molti del
popolo pisano e de' soldati de' fiorentini: e gridandosi per quegli
il nome di Francia, per questi quello di Marzocco (segno della
republica fiorentina), cominciò tra loro uno furioso assalto; ma
concorrendovi i capitani franzesi e i capitani de' fiorentini fu
alla fine sedato il tumulto, essendo già feriti molti di amendue le
parti; e tra gli altri Ciattiglione, corso nel principio senza arme
per ovviare allo scandolo, e similmente Lautrech concorsovi per la
medesima cagione, benché l'uno e l'altro ferito leggiermente. Ma
questo accidente empié di tanto spavento i cardinali, congregati per
sorte all'ora medesima nella chiesa quivi vicina di San Michele, che
fatta il dí seguente la [seconda] sessione, nella quale statuirno
che il concilio si trasferisse a Milano, si partirno con grandissima
celerità, innanzi al quintodecimo dí della venuta loro: con somma
letizia de' fiorentini e de' pisani, ma non meno essendone lieti i
prelati che seguitavano il concilio; a' quali era molesto essere
venuti in luogo che, per la mala qualità degli edifici e per molte
altre incomodità procedute dalla lunga guerra, non era atto alla
vita dilicata e copiosa de' sacerdoti e de' franzesi, e molto piú
perché, essendo venuti per comandamento del re contro alla propria
volontà, desideravano mutazione di luogo e qualunque accidente per
difficultare, allungare o dissolvere il concilio.
Ma a Milano i cardinali, seguitando per tutto il dispregio e l'odio
de' popoli, arebbono avute le medesime o maggiori difficoltà: perché
il clero milanese, come se in quella città fussino entrati non
cardinali della Chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi
adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne
subitamente da se stesso dal celebrare gli offici divini; e la
moltitudine, quando apparivano in publico, gli maladiceva gli
scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli
altri il cardinale di Santa Croce riputato autore di questa cosa, e
che era piú negli occhi degli uomini perché nell'ultima sessione
pisana l'avevano eletto presidente del concilio. Sentivansi per
tutte le strade i mormorii della plebe: solere i concili addurre
benedizioni pace concordia; questo addurre maladizioni guerre
discordie; solersi congregare gli altri concili per riunire la
Chiesa disunita, questo essere congregato per disunirla quando era
unita; vulgarsi la contagione di questa peste in tutti che gli
ricevevano che gli ubbidivano che gli favorivano che in qualunque
modo con essi conversavano, che gli udivano o che gli guardavano; né
si potere dalla venuta loro aspettare altro che sangue che fame che
pestilenza che, finalmente, perdizione de' corpi e dell'anime.
Raffrenò queste voci già quasi tumultuose Gastone di Fois, il quale,
pochi mesi innanzi alla partita di Longavilla, era stato preposto
dal re al ducato di Milano e all'esercito; perché con gravissimi
comandamenti costrinse il clero a riassumere la celebrazione degli
uffici, e il popolo a parlare in futuro modestamente.
Procedevano per queste difficoltà poco felicemente i princípi del
concilio. Ma turbava molto piú le speranze de' cardinali, che
Cesare, differendo di giorno in giorno, non mandava né prelati né
procuratori; con tutto che, oltre a tante promesse fatte prima,
avesse affermato al cardinale di San Severino, e continuamente
affermasse al re di Francia, volergli mandare: anzi, nel tempo
medesimo, o allegando per scusa, o essendone fatto capace da altri,
non essere secondo la sua degnità mandare al concilio pisano i
prelati degli stati propri se il medesimo non si faceva in nome di
tutta la nazione germanica, aveva convocati in Augusta i prelati di
Germania per deliberare come nelle cose di quel concilio si dovesse
comunemente procedere; affermando però a' franzesi che con questo
mezzo gli condurrebbe tutti a mandarvi. Tormentava anche l'animo del
re colla varietà del suo procedere: perché, oltre alla freddezza
dimostrata nelle cose del concilio, prestava apertamente l'orecchie
alla concordia co' viniziani, trattata con molte offerte dal
pontefice e dal re di Aragona; da altra parte, lamentandosi del re
cattolico che non si fusse vergognato di contravenire sí apertamente
alla lega di Cambrai, e che in questa nuova non confederazione ma
prodizione l'avesse nominato come accessorio, proponeva a Galeazzo
da San Severino d'andare a Roma personalmente come inimico del
pontefice, ma somministrandogli il re parte del suo esercito e
quantità grandissima di danari: e nondimeno non proponendo queste
cose con tale fermezza che e' non fusse dubbio quel che, sodisfatto
eziandio di tutte le sue dimande, avesse finalmente a deliberare.
Dunque, nel petto del re combattevano le consuete sospensioni: che
Cesare abbandonato da lui si unirebbe con gli inimici; a
sostentarlo, si comperava la sua congiunzione con prezzo smisurato
il quale non si sapeva che frutto avesse a partorire, conoscendosi,
per l'esperienza del passato, che spesso gli nocevano piú i propri
disordini che giovassino le forze, né sapendo il re in se medesimo
determinarsi quali gli avessino piú a nuocere in questo tempo, o i
successi prosperi o gli avversi di Cesare. Aiutava quanto poteva la
sua sospensione il re cattolico; dando speranza, per farlo procedere
piú lentamente a' provedimenti della guerra, che l'armi non si
moverebbono: simile officio, e per simili cagioni, faceva il re di
Inghilterra; il quale aveva risposto all'oratore del re di Francia
non essere vero che avesse consentito alla lega fatta a Roma, e che
era disposto di conservare la confederazione fatta con lui: e nel
tempo medesimo il vescovo di Tivoli proponeva in nome del pontefice
la pace, purché il re non favorisse piú il concilio e si rimovesse
dalla protezione di Bologna; offerendo d'assicurarlo che il
pontefice non tenterebbe poi cose nuove contro a lui. Dispiaceva
meno al re la pace, eziandio con inique condizioni, che il
sottomettersi a' pericoli della guerra e alle spese che, avendo a
resistere agli inimici e a sostentare Cesare, si dimostravano quasi
infinite: nondimeno lo moveva lo sdegno di essere quasi sforzato dal
re d'Aragona col terrore dell'armi a fare questo; il potersi molto
difficilmente assicurare che il papa, ricuperata Bologna e liberato
dal timore del concilio, osservasse la pace; e il dubbio che, quando
pure si dimostrasse apparecchiato a consentire alle condizioni
proposte, il pontefice non se ne ritraesse, come altre volte avea
fatto: onde, offesa la sua degnità e la riputazione diminuita,
Cesare si riputasse ingiuriato che, lasciato lui nella guerra co'
viniziani, avesse voluto conchiudere la pace per sé solo. Però
rispose precisamente al vescovo di Tivoli non volere consentire che
Bologna stesse sotto la Chiesa se non nel modo che anticamente
soleva stare; e nel tempo medesimo, per fare ferma determinazione
con Cesare, che era a Brunech terra non molto distante da Trento,
mandò a lui con ampie offerte e con celerità grandissima Andrea de
Burgo cremonese, oratore cesareo appresso a sé: nel qual tempo
alcuni de' suoi sudditi del contado di Tiruolo occuporno Butisten,
castello molto forte all'entrata di Valdicaldora.
Lib.10, cap.8
Disegni del re di Francia dopo l'interruzione delle pratiche di
pace. Notizie intorno agli svizzeri. Gli svizzeri entrano nel ducato
di Milano. Ne escono, dopo poco, con sorpresa generale. Il re di
Francia chiede a' fiorentini che concorrano con aiuti alla guerra.
Contrastanti opinioni in Firenze. Il Guicciardini inviato come
ambasciatore al re d'Aragona.
Interrotte del tutto le pratiche della pace, furno i primi pensieri
del re che, come la Palissa, il quale [avea] lasciati in Verona
tremila fanti per mitigare Cesare sdegnato della partita sua, avesse
ricondotto il resto delle [genti] nel ducato di Milano, che soldati
nuovi fanti e raccolto insieme tutto l'esercito si assaltasse la
Romagna; sperando, innanzi che gli spagnuoli vi si fussero
approssimati, occuparla o in tutto o in parte, e dipoi o procedere
piú oltre secondo l'occasioni o sostenere la guerra nel territorio
d'altri insino alla primavera: al qual tempo, passando in Italia
personalmente con tutte le forze del suo regno, sperava dovere
essere per tutto superiore agli inimici. Le quali cose mentre che
disegna, procedendo piú lente le deliberazioni che per avventura non
comportavano l'occasioni, e ritraendo il re da molti provedimenti e
specialmente da soldare di nuovo fanti l'essere per natura
alienissimo dallo spendere, sopravenne sospetto che i svizzeri non
si movessino. Della quale nazione perché sparsamente in molti luoghi
si è fatta menzione, pare molto a proposito e quasi necessario
particolarmente trattarne.
Sono i svizzeri quegli medesimi che dagli antichi si chiamavano
elvezi, generazione che abita nelle montagne piú alte [di Giura,
dette di San Claudio, in quelle di Briga e di San Gottardo], uomini
per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese piú tosto
pastori che agricultori. Furono già dominati da' duchi di Austria;
da' quali ribellatisi, già è grandissimo tempo, si reggono per loro
medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione né agli
imperadori né ad altri príncipi. Sono divisi in tredici popolazioni:
essi le chiamano cantoni; ciascuno di questi si regge con
magistrati, leggi e ordini propri. Fanno ogni anno, o piú spesso
secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali;
congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora altro, eleggono i
deputati da ciascuno cantone: chiamano, secondo l'uso di Germania,
queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre
le paci le confederazioni, sopra le dimande di chi fa instanza che
gli sia conceduto, per decreto publico, soldati o permesso a'
volontari di andarvi; e sopra le cose attenenti allo interesse di
tutti. Quando per publico decreto concedono soldati, eleggono i
cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale
con le insegne e in nome publico si dà la bandiera. Ha fatto grande
il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l'unione e la
gloria dell'armi, con le quali, per la ferocia naturale e per la
disciplina dell'ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente
difeso il paese loro ma esercitato fuori del paese la milizia con
somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se
l'avessino esercitata per lo imperio proprio e non agli stipendi e
per propagare lo imperio di altri, e se piú generosi fini avessino
avuto innanzi agli occhi, a' tempi nostri, che lo studio della
pecunia; dall'amore della quale corrotti hanno perduta l'occasione
di essere formidabili a tutta Italia, perché non uscendo del paese
se non come soldati mercenari non hanno riportato frutto publico
delle vittorie, assuefattisi, per la cupidità del guadagno, a essere
negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi
intollerabili, e oltre a questo, nel conversare e nell'ubbidire a
chi gli paga, molto fastidiosi e contumaci. In casa, i principali
non si astengono da ricevere doni e pensioni da' príncipi per
favorire e seguitare nelle consulte le parti loro: per il che,
riferendosi le cose publiche all'utilità private e fattisi vendibili
e corruttibili, sono tra loro medesimi sottentrate le discordie;
donde, cominciandosi a non essere seguitato da tutti quel che nelle
diete approvava la maggiore parte dei cantoni, sono ultimatamente,
pochi anni innanzi a questo tempo, venuti tra loro medesimi a
manifesta guerra, con somma diminuzione dell'autorità che avevano
per tutto. Piú basse di queste sono alcune terre e villaggi chiamati
vallesi perché abitano nelle valli, inferiori molto di numero, di
autorità publica e di virtú, perché a giudicio di tutti non sono
feroci come i svizzeri. E un'altra generazione piú bassa di queste
due, chiamonsi grigioni, che si reggono per tre cantoni, e però
detti signori delle tre leghe: la terra principale del paese si dice
Coira; sono spesso confederati de' svizzeri, e con loro insieme
vanno alla guerra e si reggono quasi co' medesimi ordini e costumi;
anteposti nell'armi a' vallesi ma non eguali a' svizzeri né di
numero né di virtú.
I svizzeri adunque, in questo tempo non degenerati ancora tanto né
corrotti come poi sono stati, essendo stimolati dal pontefice, si
preparavano per scendere nel ducato di Milano; dissimulando che
questo movimento procedesse dalla università de' cantoni, ma dando
voce ne fussino autori il cantone di Svit e quello di Friborgo, il
primo perché si querelava che uno suo corriere passando per lo stato
di Milano era stato ammazzato da' soldati franzesi, questo perché
pretendeva avere ricevuto ingiurie particolari. I consigli de' quali
e publicamente di tutta la nazione benché prima fussino pervenuti
all'orecchie del re non l'aveano però mosso a convenire con loro,
come i suoi assiduamente lo confortavano e come gli amici che aveva
tra loro gli davano speranza potersi ottenere; ritenendolo la solita
difficoltà di non accrescere ventimila franchi (sono questi poco piú
o meno di diecimila ducati) alle pensioni antiche, e cosí ricusando
per minimo prezzo quella amicizia che poi molte volte con tesoro
inestimabile arebbe comperata; persuadendosi che o non si
moverebbono o che, movendosi potrebbono poco nuocergli, perché
soliti a esercitare la milizia a piede non avevano cavalli, e perché
non avevano artiglierie: essere oltre a questo in quella stagione
(già era entrato il mese di novembre) i fiumi grossi, mancare a essi
i ponti e le navi, le vettovaglie del ducato di Milano ridotte per
comandamento di Gastone di Fois ne' luoghi forti, bene custodite le
terre vicine, e potersi opporre loro alla pianura le genti d'arme;
per i quali impedimenti essere necessario che, movendosi, fussino
necessitati in ispazio di pochi dí a ritornarsene. E nondimeno i
svizzeri, non gli spaventando queste difficoltà, erano cominciati a
scendere a Varese, nel qual luogo continuamente augumentavano;
avendo seco sette pezzi d'artiglieria da campagna e molti archibusi
portati da' cavalli, e medesimamente non al tutto senza apparecchio
di vettovaglie. La venuta de' quali faceva molto piú timorosa che,
essendo i soldati franzesi divenuti piú licenziosi che 'l solito,
cominciava a essere a' popoli non mediocremente grave lo imperio
loro; perché il re, astretto dalla avarizia, non aveva consentito
che si facesse provedimento di fanti; né le genti d'arme che allora
erano in Italia, secondo il numero vero, mille trecento lancie e
dugento gentiluomini, potevano tutte opporsi a' svizzeri, essendone
una parte alla guardia di Verona e di Brescia, e avendo Fois mandato
di nuovo a Bologna dugento lancie, per la venuta del cardinale de'
Medici e di Marcantonio Colonna a Faenza: ove, se bene non avessino
fanti pagati, nondimeno per le divisioni della città, e perché in
quelli dí il castellano della rocca di Sassiglione, castello della
montagna di Bologna, l'aveva spontaneamente dato al legato, era
paruto necessario mandarvi questo presidio. Da Varese mandorno i
svizzeri per uno trombetto a diffidare il luogotenente regio: il
quale avendo seco poca gente d'arme, perché non aveva avuto tempo a
raccorle, né piú che dumila fanti, né si risolvendo ancora per non
dispiacere al re a soldarne di nuovo, era venuto ad Assaron, terra
distante tredici miglia da Milano, non con intenzione di combattere
ma di andargli costeggiando per impedire loro le vettovaglie; nella
qual cosa solo rimaneva la speranza del ritenergli, non essendo tra
Varese e Milano né fiumi difficili a passare né terre atte a essere
difese. Da Varese vennono i svizzeri a Galera, essendo già
augumentati insino al numero di diecimila; e Gastone, il quale
seguitava Gianiacopo da Triulzi, si pose a Lignano distante quattro
miglia da Galera: dalle quali cose impauriti i milanesi soldavano
fanti a spese proprie per guardia della città, e Teodoro da Triulzi
faceva fortificare i bastioni e, come se l'esercito avesse a
ritirarsi in Milano, fare le spianate dalla parte di dentro, intorno
a' ripari che cingono i borghi, perché i cavalli potessino
adoperarsi. Presentossi nondimeno Gastone di Fois, con cui erano
cinquecento lancie e dugento gentiluomini del re e con molta
artiglieria, innanzi alla terra di Galera; all'apparire de' quali i
svizzeri uscirono ordinati in battaglia: nondimeno, non volendo
insino non erano maggiore numero combattere in luogo aperto,
ritornorno presto dentro. Cresceva intratanto continuamente il
numero loro; per il quale deliberati di non ricusare piú di
combattere vennono a Busti, nella quale terra erano alloggiate cento
lancie, che a fatica salvorno sé, perduti i carriaggi con parte de'
cavalli. Alla fine i franzesi, ritirandosi sempre che essi
procedevano innanzi, si ridussono ne' borghi di Milano; essendo
incerti gli uomini se volessino fermarsi a difendergli, perché altro
sonavano le loro parole altro dimostrava il fornire sollecitamente
il castello di vettovaglie. Approssimoronsi dipoi i svizzeri a'
sobborghi a due miglia; ma vi era già molto allentato il timore,
perché continuamente sopravenivano le genti d'arme richiamate a
Milano e similmente molti fanti che si soldavano, e d'ora in ora si
aspettavano Molard co' fanti guasconi e Iacob co' fanti tedeschi,
richiamati l'uno da Verona l'altro da Carpi. E in questo tempo furno
intercette lettere de' svizzeri a' loro signori. Significavano
essere debole l'opposizione de' franzesi, maravigliavansi non avere
ricevuto dal pontefice messo alcuno né sapere quel che facesse
l'esercito de' viniziani; e nondimeno, che procedevano secondo che
si era destinato.
Erano già in numero sedicimila e si voltorno verso Moncia, la quale
non tentato di occupare ma standosi piú verso il fiume dell'Adda,
davano timore a' franzesi di volere tentare di passarlo; però
gittavano il ponte a Casciano, per impedire loro il transito con
l'opportunità della terra e del ponte. Dove mentre stanno, venne,
impetrato prima salvocondotto, uno capitano de' svizzeri a Milano,
il quale dimandò lo stipendio di uno mese per tutti i fanti,
offerendo di ritornarsene al paese loro; ma partito senza
conclusione, per essergli offerta somma molto minore, tornò il
seguente dí con dimande piú alte, e ancora che gli fussino fatte
offerte maggiori che 'l dí dinanzi, nondimeno, ritornato a suoi,
rimandò subito indietro uno trombetto a significare che non voleano
piú la concordia: e l'altro dí dipoi, mossi contro all'espettazione
di tutti verso Como, se ne tornorno alla patria; lasciando liberi i
giudíci degli uomini se fussino scesi per assaltare lo stato di
Milano o per passare in altro luogo, e per quale cagione non
soprafatti ancora da alcuna evidente difficoltà fussino tornati
indietro, o perché volendo ritornarsene non avessino accettato i
danari, avendone massime dimandati. Come si sia, è manifesto che
mentre si ritiravano sopravenneno due messi del pontefice e de'
viniziani, i quali si divulgò che se fussino arrivati prima non si
sarebbeno i svizzeri partiti. Né si dubita, che se nel tempo
medesimo che entrorono nel ducato di Milano fussino stati gli
spagnuoli vicini a Bologna, che le cose de' franzesi, non potendo
resistere da tante parti, sarebbono andate senza indugio in
manifesta perdizione.
Il quale pericolo gustando il re per l'esperienza, che prima non
l'aveva antiveduto con la ragione, commesse, innanzi sapesse la
ritirata loro, a Fois che per concordargli non perdonasse a quantità
alcuna di danari; né dubitando piú, quando bene i svizzeri
componessino, d'avere a essere assaltato potentemente, comandò a
tutte le genti d'arme che aveva in Francia che passassino i monti,
eccetto dugento lancie le quali si riservò nella Piccardia; e vi
mandò, oltre a questo, nuovo supplemento di fanti guasconi, e a Fois
comandò che riempiesse l'esercito di fanti italiani e tedeschi.
Ricercò ancora con instanza grande i fiorentini, gli aiuti de' quali
erano di momento grande, per l'aversi a fare la guerra ne' luoghi
vicini e per l'opportunità di turbare da' confini loro lo stato
ecclesiastico e interrompere le vettovaglie e l'altre comodità
all'esercito degli inimici, se si accostava a Bologna, che
scopertamente e con tutte le forze loro concorressino seco alla
guerra; ricercando la necessità delle cose presenti altro che aiuti
piccoli o limitati o che si contenessino dentro a' termini delle
confederazioni, né potere mai avere maggiore occasione d'obligarsi
sé, né fare mai beneficio piú preclaro e del quale si distendesse
piú la memoria in perpetuo a' suoi successori: senza che, se bene
consideravano, difendendo e aiutando lui difendevano e aiutavano la
causa propria, perché potevano essere certi quanto fusse grande
l'odio del papa contro a loro, quanta fusse la cupidità del re
cattolico di fermare in quella città uno stato dependente
interamente da sé.
Ma a Firenze sentivano diversamente. Molti, acciecati dalla dolcezza
del non spendere di presente, non consideravano quel che potesse
portare seco il tempo futuro; in altri poteva la memoria che mai dal
re né da Carlo suo precessore fusse stata riconosciuta la fede e
l'opere di quella republica, e l'avere con prezzo grande venduto
loro il non impedire che recuperassino Pisa: col quale esempio non
potersi confidare delle promesse e offerte sue, né che per qualunque
beneficio gli facessino non si troverebbe in lui gratitudine alcuna;
e perciò essere non piccola temerità fare deliberazione di entrare
in una guerra, la quale succedendo avversa parteciperebbono piú che
per rata parte di tutti i mali, succedendo prospera non arebbono
parte alcuna benché minima de' beni. Ma erano di maggiore momento
quegli che, o per odio o per ambizione o per desiderio di altra
forma di governo, si opponevano al gonfaloniere, magnificando le
ragioni già dette e adducendone di nuovo; e specialmente, che stando
neutrali non conciterebbono contro a sé l'odio d'alcuna delle parti,
né darebbono ad alcuno de' due re giusta cagione di lamentarsi:
perché né al re di Francia erano tenuti di altri aiuti che di
trecento uomini d'arme per la difesa degli stati propri, de' quali
già l'aveano accomodato, né questo potere essere molesto al re
d'Aragona, il quale riputerebbe guadagno non piccolo che altrimenti
in questa guerra non si intromettessino, anzi essere sempre lodati e
tenuti piú cari quegli che osservano la fede, e specialmente perché
per questo esempio spererebbe che a lui medesimamente, quando gli
sopravenisse bisogno, si osserverebbe quel che per la capitolazione
fatta a comune col re di Francia e con lui era stato promesso.
Procedendo cosí, se tra' príncipi nascesse pace la città sarebbe
nominata e conservata da amendue; se uno ottenesse la vittoria, non
si reputando offeso né avendo causa di odio particolare, non sarebbe
difficile comperare l'amicizia sua con quelli medesimi danari e
forse con minore quantità di quella che arebbono spesa nella guerra,
modo col quale, piú che coll'armi, aveano molte volte salvata la
libertà i maggiori loro: procedendo altrimenti, sosterrebbono mentre
durasse la guerra, per altri e senza necessità, spese gravissime; e
ottenendo la parte inimica la vittoria rimarrebbe in manifestissimo
pericolo la libertà e la salute della patria. Contrario a questi era
il parere del gonfaloniere, giudicando essere piú salutifero alla
republica che si prendessino l'armi per il re di Francia: e perciò,
prima aveva favorito il concilio e suggerito al pontefice materia di
sdegnarsi, acciò che la città, provocata da lui o cominciata a
insospettirne, fusse quasi necessitata a fare questa deliberazione;
e in questo tempo dimostrava non potere essere se non
perniciosissimo consiglio lo stare oziosi ad aspettare l'evento
della guerra, la quale si faceva in luoghi vicini e tra príncipi
tanto piú potenti di loro. Perché la neutralità nelle guerre degli
altri essere cosa laudabile, e per la quale si fuggono molte
molestie e spese, quando non sono sí deboli le forze che tu abbia da
temere la vittoria di ciascuna delle parti; perché allora ti arreca
sicurtà, e bene spesso, la stracchezza loro, facoltà di accrescere
il tuo stato. Né essere sicuro fondamento il non avere offeso
alcuno, il non avere data giusta cagione di querelarsi; perché
rarissime volte, e forse non mai, si raffrena dalla giustizia o
dalle discrete considerazioni l'insolenza del vincitore; né
reputarsi, per queste ragioni, meno ingiuriati i príncipi grandi
quando è negato loro quel che desiderano, anzi sdegnarsi contro a
ciascuno che non séguita la volontà loro e che con la fortuna di
essi non accompagna la fortuna propria. Credersi stoltamente che il
re di Francia non s'abbia a tenere offeso quando si vedrà
abbandonato in tanti pericoli, quando vedrà non corrispondere gli
effetti alla fede che aveva ne' fiorentini, a quel che
indubitatamente si prometteva di loro, a quel che tante volte gli
era stato da loro medesimi affermato e predicato. Piú stolto essere
credere che, rimanendo vincitori, il pontefice e il re d'Aragona non
esercitassino contro a quella republica immoderatamente la vittoria;
l'uno per l'odio insaziabile, amendue per la cupidità di fermare un
governo che si reggesse ad arbitrio loro, persuadendosi che la città
libera arebbe sempre maggiore inclinazione a' franzesi che a loro: e
questo non si vedere egli apertamente, avendo il pontefice, con
approvazione del re cattolico, destinato legato all'esercito il
cardinale de' Medici? Dunque: lo stare neutrale non importare altro
che volere diventare preda della vittoria di ciascuno; aderendosi a
uno di essi, almeno dalla vittoria sua risultarne la sicurtà e la
conservazione loro, premio, poiché le cose erano ridotte in tanti
pericoli, di grandissimo momento; e se si facesse la pace dovervi
avere migliori condizioni. Ed essere superfluo disputare a quale
parte si dovessino piú aderire, perché niuno dubiterebbe doversi
seguitare piú tosto l'antica amicizia (e dalla quale se la republica
non era stata rimunerata o premiata era almeno stata piú volte
difesa e conservata) che amicizie nuove, che sarebbono sempre
infedeli sempre sospette. Diceva invano il gonfaloniere queste
parole, impedendosi il voto suo sopra tutto per l'opposizione di
coloro a' quali era molesto che il re di Francia riconoscesse dalle
sue opere l'essergli congiunti i fiorentini. Nelle quali
contenzioni, interrompendo l'una parte il parere dell'altra, né si
deliberava il dichiararsi né totalmente lo stare neutrali; onde
spesso nascevano consigli incerti e deliberazioni repugnanti a se
medesime, senza riportarne grazia o merito appresso ad alcuno. Anzi,
procedendo con queste incertitudini, mandorono, con dispiacere
grande del re di Francia, al re d'Aragona imbasciadore Francesco
Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge,
ancora tanto giovane che per l'età era, secondo le leggi della
patria, inabile a esercitare qualunque magistrato; e nondimeno non
gli dettono commissioni tali che alleggierissino in parte alcuna la
mala volontà de' confederati.
Lib.10, cap.9
La bastia del Genivolo è presa da' fanti spagnuoli e ben presto
ripresa dal duca di Ferrara. L'esercito ispano pontificio sotto
Bologna. Discussioni e varietà di pareri nell'esercito. Assalto a
Bologna; miracoloso effetto della mina posta alla cappella del
Baracane. Entrata dell'esercito francese in Bologna, gli ispano
pontifici levano il campo e si ritirano verso Imola.
Ma non molto dipoi che i svizzeri furno ritornati alle case loro
cominciorno i soldati spagnuoli e quegli del pontefice a entrare
nella Romagna; alla venuta de' quali tutte le terre che teneva il
duca di Ferrara di qua dal Po, eccetto la bastia del fossato di
Genivolo, si arrenderono alla semplice richiesta di uno trombetto.
Ma perché non erano ancora condotte in Romagna tutte le genti e
l'artiglierie, le quali il viceré aspettando si era fermato a Imola,
parve che, per non consumare quel tempo oziosamente, Pietro Navarra
capitano generale de' fanti spagnuoli andasse alla espugnazione
della bastia. Il quale avendo cominciato a batterla con tre pezzi di
artiglieria, e trovando maggiore difficoltà a espugnarla che non
avea creduto, perché era bene munita e valorosamente difesa da cento
cinquanta fanti che vi erano dentro, attese a fare fabbricare due
ponti di legname, per dare maggiore comodità a' soldati di passare
le fosse piene d'acqua; i quali due ponti come furono finiti, il
terzo dí che vi si era accostato, che fu l'ultimo dí dell'anno mille
cinquecento undici, dette ferocemente lo assalto, in modo che dopo
lungo e bravo combattere i fanti saliti in sulle mura colle scale
finalmente l'ottenneno, ammazzati quasi tutti i fanti e Vestitello
loro capitano. Lasciò Pietro Navarra alla bastia dugento fanti,
contradicendo Giovanni Vitelli, il quale affermava essere tanto
indebolita da' colpi delle artiglierie che senza nuova riparazione
non si poteva piú difendere: ma a fatica era ritornato a unirsi col
viceré che il duca di Ferrara, andatovi con nove pezzi grossi
d'artiglieria, l'assaltò con tale furore che squarciato quel luogo
piccolo in molte parti vi entrò per forza il dí medesimo: ammazzati,
parte nel combattere parte per vendicare la morte de' suoi, il
capitano con tutti i fanti; ed egli percosso di un sasso in sulla
testa, benché per la difesa della celata non gli facesse nocumento.
Eransi intratanto raccolte a Imola tutte le genti cosí
ecclesiastiche come spagnuole, potenti di numero e di virtú di
soldati e di valore di capitani; perché per il re d'Aragona vi
erano, cosí divulgava la fama, mille uomini d'arme ottocento
giannettari e ottomila fanti spagnuoli, e oltre alla persona del
viceré molti baroni del reame di Napoli, de' quali il piú chiaro per
fama e per perizia d'arme era Fabrizio Colonna, che aveva il titolo
di governatore generale; perché Prospero Colonna, sdegnandosi
d'avere a stare sottoposto nella guerra a' comandamenti del viceré,
aveva ricusato d'andarvi. Del pontefice vi erano ottocento uomini
d'arme ottocento cavalli leggieri e [otto] mila fanti italiani,
sotto Marcantonio Colonna, Giovanni Vitelli, Malatesta Baglione,
figliuolo di Giampagolo, Raffaello de' Pazzi e altri condottieri,
sottoposti tutti all'ubbidienza del cardinale de' Medici legato; né
avevano capitano generale, perché..., duca di Termini, eletto dal
pontefice come confidente al re d'Aragona, era, venendo
all'esercito, morto a Civita Castellana; e il duca di Urbino, solito
a ottenere questo grado, non veniva, o perché cosí fusse piaciuto al
pontefice o perché non reputasse essere cosa degna di lui
l'ubbidire, massimamente nelle terre della Chiesa, al viceré
capitano generale di tutto l'esercito de' confederati. Con queste
genti, provedute abbondantemente d'artiglierie condotte quasi tutte
del regno di Napoli, si deliberò di porre il campo a Bologna, non
perché non si conoscesse impresa molto difficile, per la facilità
che avevano i franzesi di soccorrerla, ma perché niuna altra impresa
si poteva fare che non avesse maggiori difficoltà e impedimenti:
starsi con tanto esercito oziosi arguiva troppo manifesta timidità,
e la instanza del pontefice era tale che chiunque avesse messo in
considerazione le difficoltà gli arebbe dato cagione di credere e di
lamentarsi che già cominciassino ad apparire gli artifici e le
fraudi degli spagnuoli. Però il viceré, mosso l'esercito, si fermò
tra 'l fiume dell'Idice e Bologna, ove ordinate le cose necessarie
all'oppugnazione delle città e dirivati i canali che da' fiumi di
Reno e di Savana entrano in Bologna, si accostò poi alle mura,
distendendo la maggiore parte dell'esercito tra 'l monte e la strada
che va da Bologna in Romagna, perché da quella parte aveva la
comodità delle vettovaglie. Tra 'l ponte a Reno posto in sulla
strada Romea che va in Lombardia e la porta di San Felice posta in
sulla medesima strada andò ad alloggiare Fabrizio Colonna con
l'avanguardia, la quale conteneva settecento uomini di arme
cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti, per potere piú
facilmente vietare se i franzesi vi mandassino soccorso; e perché i
monti fussino in potestà loro, messono una parte delle genti nel
monasterio di San Michele in Bosco, molto vicino alla città ma posto
in luogo eminente e che la sopragiudica; e occuporno similmente la
chiesa piú alta, che si dice di Santa Maria del Monte.
In Bologna, oltre al popolo armigero, benché forse piú per
consuetudine che per natura, e alcuni cavalli e fanti soldati da'
Bentivogli, aveva Fois mandato duemila fanti tedeschi e dugento
lancie, sotto Odetto di Fois e Ivo di Allegri chiari capitani,
questo per la lunga esperienza della guerra, quello per la nobiltà
della famiglia sua e perché si vedevano in lui aperti segni di virtú
e di ferocia; e vi erano due altri capitani, Faietta e Vincenzio
cognominato il grandiavolo: e nondimeno collocavano piú la speranza
del difendersi nel soccorso promesso da Fois che nelle forze
proprie, atteso il circuito grande della città, il sito dalla parte
del monte molto incomodo, né vi essere altre fortificazioni che
quelle che per il pericolo presente erano state fatte
tumultuariamente; sospetti molti della nobiltà e del popolo a'
Bentivogli, e per essere antica laude de' fanti spagnuoli,
confermata nuovamente intorno alla bastia del Genivolo, che
nell'oppugnazioni delle terre fussino per la agilità e destrezza
loro di gran valore. Ma confermò non poco gli animi loro il
procedere lentissimo degli inimici; i quali stettono nove dí oziosi
intorno alle mura innanzi tentassino cosa alcuna, eccetto che
cominciorono, con due sagri e due colubrine piantate al monasterio
di San Michele, a tirare a caso e senza mira certa nella città per
offendere gli uomini e le case, ma presto se ne astennono conoscendo
per l'esperienza non si offendere con questi colpi gli inimici, né
farsi altro effetto che consumare le munizioni inutilmente. Cagione
di tanta tardità fu l'avere, il dí che s'accamporono, avuto notizia
che Fois venuto al Finale raccoglieva da ogni parte le genti; e
pareva verisimile quel che divulgava la fama che, per considerare
quanto nocesse alle cose del re e quanta riputazione gli diminuisse
il lasciare perdere una città tanto opportuna, avesse a esporsi a
ogni pericolo per conservarla: onde veniva quasi necessariamente in
discussione non solamente da qual parte si potessino piú facilmente,
e con maggiore speranza di espugnarla, piantare l'artiglierie ma
ancora come si potesse vietare che non vi entrasse il soccorso de'
franzesi. Perciò, fu nella prima consulta deliberato che Fabbrizio
Colonna, proveduto prima di vettovaglie, passando dall'altra parte
della terra, alloggiasse in sul poggio situato sotto Santa Maria del
Monte, dal qual luogo potrebbe facilmente opporsi a quegli che
venissino per entrare in Bologna, né essere tanto distante dal resto
dell'esercito che, sopravenendogli pericolo alcuno, non potesse a
tempo essere soccorso; e che nel tempo medesimo si cominciasse,
dalla parte dove erano alloggiati o in luogo poco distante, a
battere la terra: allegando gli autori di questo parere, non essere
da credere che, dependendo la conservazione di tutto quello che i
franzesi tenevano in Italia dalla conservazione dell'esercito, Fois
tentasse cosa nell'esecuzione della quale fusse potuto essere
costretto a combattere; né medesimamente che avesse in animo, quando
bene conoscesse poterlo fare sicuramente, di impiegarsi con tutto
l'esercito in Bologna, e cosí privarsi della facoltà di soccorrere,
se fusse di bisogno, lo stato di Milano, non sicuro interamente da'
movimenti de' svizzeri ma con maggiore sospetto di essere assaltato
dall'esercito viniziano; il quale, venuto a' confini del veronese,
minacciava d'assaltare Brescia. Ma il dí seguente fu, quasi da tutti
i medesimi che l'aveano consentito, riprovato questo; considerando
non essere certo che l'esercito franzese non avesse a venire, e se
pure venisse non essere potente l'avanguardia sola a resistere, né
potersi lodare quella deliberazione sostentata da uno fondamento
tale che in potestà degli inimici fusse variarlo o mutarlo. Però fu
approvato dal viceré il parere di Pietro Navarra, non comunicato ad
altri che a lui; il quale consigliò che, fatta provisione di
vettovaglie per cinque dí e lasciata solamente guardia nella chiesa
di San Michele, tutto l'esercito passasse alla parte opposita della
città, onde potrebbe impedire che l'esercito inimico non vi
entrasse; e non essendo la terra riparata da quella parte, perché
non aveano mai temuto dovervi essere assaltati, indubitatamente
intra cinque dí si piglierebbe. Ma come questa deliberazione fu nota
agli altri, niuno fu che apertamente non contradicesse l'andare con
l'esercito ad alloggiare in luogo privato interamente delle
vettovaglie che si conducevano di Romagna, con le quali sole si
sostentava; di maniera che senza dubbio si dissolveva o distruggeva
se infra cinque dí non otteneva la vittoria. E quale è quello,
diceva Fabrizio Colonna, che se la possa promettere assolutamente in
termine tanto stretto? e come si debbe, sotto una speranza
fallacissima per sua natura e sottoposta a molti accidenti, mettersi
in tanto pericolo? e chi non vede che, mancandoci l'ore misurate e
avendo alla fronte Bologna, ove è il popolo grande e molti soldati,
alle spalle i franzesi e il paese inimico, non potremo senza la
disfazione nostra ritirarci, colle genti affamate disordinate e
impaurite? Proponevano alcuni altri che aggiunto all'avanguardia
maggiore numero di fanti si fermasse di là da Bologna, quasi alle
radici del monte tralle porte di Saragosa e di San Felice,
fortificando l'alloggiamento con tagliate e altri ripari; e che la
terra si battesse da quella parte dalla quale non solo era
debolissima di muraglie e di ripari, ma ancora, piantando qualche
pezzo di artiglieria in sul monte, si offendevano per fianco, mentre
si dava la battaglia, quegli che dentro difendessino la parte già
battuta: il quale consiglio era medesimamente riprovato come non
sufficiente a impedire la venuta de' franzesi e come pericoloso,
perché se fussino assaltati non poteva l'esercito, con tutto che in
potestà sua fussino i monti, condursi al soccorso loro in minore
spazio di tre ore. Nelle quali ambiguità essendo piú facile
riprovare, e meritamente, i consigli proposti dagli altri che
proporre di quegli che meritassino di essere approvati, inclinorno
finalmente i capitani che la terra si assaltasse da quella parte
dalla quale alloggiava l'esercito; mossi, trall'altre ragioni, dal
diminuire già l'opinione che Fois, poiché tanto tardava, avesse a
venire innanzi. Perciò, e cominciorno a fare le spianate per
accostare alle mura l'artiglierie e fu richiamata l'avanguardia ad
alloggiare insieme cogli altri. Ma poco dipoi, essendo venuti molti
avvisi che le genti franzesi continuamente moltiplicavano al Finale,
e però ritornando il sospetto primo della venuta loro, cominciò di
nuovo a pullulare la varietà delle opinioni: perché, consentendo
tutti che se Fois s'approssimava si doveva procurare di assaltarlo
innanzi entrasse in Bologna, molti ricordavano che l'avere in tal
caso a ritirare dalle mura l'artiglierie piantate darebbe molte
difficoltà e impedimenti all'esercito; il che, quando le cose erano
ridotte a termini tanto stretti, non poteva essere né piú pericoloso
né piú pernicioso. Altri ricordavano essere cosa non meno vituperosa
che dannosa stare oziosamente tanti dí intorno a quelle mura,
confermando in uno tempo medesimo gli animi degli inimici che erano
dentro e dando spazio di soccorrerla a quegli che erano fuora: però
non essere piú da differire il piantare dell'artiglierie, ma in
luogo che si potessino comodamente ritirare; facendo, per andare a
opporsi a' franzesi, le spianate tanto larghe che insieme si potesse
muovere l'artiglierie e l'esercito. All'opinione di quegli che
confortavano il dare principio al combattere la terra aderiva
cupidissimamente il legato, infastidito di tante dilazioni né già
senza sospetto che questo fusse, per ordinazione del re loro,
procedere artificioso degli spagnuoli; dolendosi che se avessino
subito, quando si accostorno, cominciato a battere la città, forse
che a quell'ora l'arebbono espugnata. Non doversi piú moltiplicare
negli errori, non stare come inimici intorno a una città e da altra
parte fare segni di non avere ardire d'assaltarla: stimolarlo ogni
dí con corrieri e con messi il pontefice; non sapere piú che si
rispondere né che si allegare, né potere piú nutrirlo con promesse e
speranze vane. Dalle quali parole commosso il viceré si lamentò
gravemente che, non essendo egli nutrito nell'armi e negli esercizi
della guerra, volesse essere cagione, col tanto sollecitare, di
deliberazioni precipitose. Trattarsi in questi consigli
dell'interesse di tutto il mondo, né potersi procedere con tanta
maturità che non convenisse usarla maggiore. Essere costume de'
pontefici e delle republiche pigliare volonterosamente le guerre, ma
prese, cominciando presto a rincrescere lo spendere e le molestie,
desiderare di finirle troppo presto. Lasciasse deliberare a'
capitani, che avevano la medesima intenzione che egli ma avevano di
piú l'esperienza della guerra. In ultimo, Pietro Navarra, al quale
molto si riferiva il viceré, ricordò che in una deliberazione di
tanto momento non dovevano essere in considerazione due o tre giorni
piú; e però, che si continuassino i provedimenti necessari e per
l'espugnazione di Bologna e per la giornata con gl'inimici, per
seguitare quello che consigliasse il procedere de' franzesi.
Non apparí, per il corso de' due dí, lume alcuno della migliore
risoluzione: perché Fois, a cui si erano arrendute Cento, la Pieve e
molte castella del bolognese, soggiornava ancora al Finale,
attendendo a raccorre le genti; le quali, per essere divise in vari
luoghi, né venendo cosí presto i fanti italiani che aveva soldati,
non senza tardità si raccoglievano. Però, non apparendo piú cagione
alcuna di differire, furno finalmente piantate l'artiglierie contro
alla muraglia, distante circa trenta braccia dalla porta detta di
Santo Stefano donde si va a Firenze, ove il muro volgendosi verso la
porta detta di Castiglione, volta alla montagna, fa uno angolo; e
nel medesimo tempo si dava opera per Pietro Navarra a fare una cava
sotterranea piú verso la porta di strada Castiglione, a quella parte
del muro nel quale era, dalla parte di dentro, fabbricata una
piccola cappella detta del Baracane, acciò che, dandosi la battaglia
insieme, potessino piú difficilmente resistere essendo divisi che se
uniti avessino a difendere uno luogo solo: e oltre a questo, non
abbandonando i pensieri dello opporsi a' franzesi, vollono che
l'avanguardia ritornasse allo alloggiamento dove era prima.
Rovinoronsi in un dí colle artiglierie poco meno di cento braccia di
muraglia, e si conquassò talmente la torre della porta che piú non
si potendo difendere fu abbandonata: di maniera che da quella parte
si poteva comodamente dare la battaglia, ma si aspettava che prima
avesse perfezione la mina cominciata; benché per temerità della
moltitudine [poco mancò], che il dí medesimo disordinatamente non si
combattesse. Perché alcuni fanti spagnuoli, saliti per una scala a
uno foro fatto nella torre, scesono di quivi in una casetta
congiunta con le mura di dentro, ove non era guardia alcuna; il che
veduto dagli altri fanti, quasi tutti tumultuosamente vi si
volgevano se i capitani, corsi al romore, non gli avessino ritenuti:
ma avendo quegli di dentro, con uno cannone voltato alla casetta,
ammazzatane una parte, gli altri fuggirono dal luogo nel quale
inconsideratamente erano entrati. E mentre che alla mina si lavora
si attendeva per l'esercito a fare ponti di legname e a riempiere le
fosse di fascine, per potere, andando quasi a piano, accostare i
fanti al muro rotto e tirare in sulla rovina qualche pezzo di
artiglierie; acciò che quegli di dentro, quando si dava l'assalto,
non potessino fermarsi alla difesa. Le quali preparazioni vedendo i
capitani franzesi, e intendendo che già il popolo cominciava a
essere soprafatto dal timore, mandorono subito a dimandare soccorso
a Fois; il quale il dí medesimo mandò mille fanti, e il dí prossimo
cento ottanta lancie; la quale cosa generò credenza ferma negli
inimici esso avere deliberato di non venire piú innanzi, perché non
pareva verisimile che se altrimenti avesse in animo ne separasse da
sé una parte; e tale era veramente la sua intenzione, perché,
stimando questi sussidi essere sufficienti a difendere Bologna, non
voleva senza necessità tentare la fortuna del combattere. Finita in
ultimo la mina e stando l'esercito armato per dare incontinente la
battaglia, la quale perché si desse con maggiori forze era stata
richiamata l'antiguardia, fece il Navarra dare il fuoco alla mina.
La quale con grandissimo impeto e romore gittò talmente in alto la
cappella che, per quello spazio che rimase tra 'l terreno e il muro
gittato in alto, fu da quegli che erano fuora veduta apertamente la
città dentro e i soldati che stavano preparati per difenderla; ma
subito scendendo in giú, ritornò il muro intero nel luogo medesimo
onde la violenza del fuoco l'aveva sbarbato, e si ricongiunse
insieme come se mai non fusse stato mosso: onde non si potendo
assaltare da quella parte, i capitani giudicorno non si dovere dare
[la battaglia] solamente dall'altra. Attribuirono questo caso i
bolognesi a miracolo, riputando impossibile che senza l'aiutorio
divino fusse potuto ricongiugnersi cosí appunto ne' medesimi
fondamenti; onde fu dipoi ampliata quella cappella, e frequentata
con non piccola divozione del popolo.
Inclinò questo successo Fois, come se non piú fusse da temere di
Bologna, a andare verso Brescia, perché aveva notizia che l'esercito
viniziano si moveva verso quella città; della quale, per avervi, per
il pericolo di Bologna, lasciati i provedimenti deboli e perché
dubitava che dentro fussino occulte fraudi, non mediocremente
temeva. Ma i prieghi de' capitani che erano in Bologna, ora
dimostrando continuare il pericolo maggiore che prima se si partiva,
ora dandogli speranza, se vi entrava, di rompere il campo degli
inimici, lo alienorno da questo proposito. Però, ancora che nel
consiglio avessino contradetto quasi tutti i capitani, mossosi,
inclinando già il dí alla notte, dal Finale, la mattina seguente,
non essendo piú che due ore di dí, camminando con tutto l'esercito
ordinato a combattere, con neve e venti asprissimi, entrò per la
porta di San Felice in Bologna; avendo seco [mille trecento] lancie,
seimila fanti tedeschi i quali tutti aveva collocati
nell'antiguardia, e [otto] mila tra franzesi e italiani. Entrato
Fois in Bologna, trattò di assaltare la mattina seguente il campo
degli inimici, uscendo fuora i soldati per tre porte e il popolo per
la via del monte; i quali arebbe trovati senza pensiero alcuno della
venuta sua, della quale è manifesto che i capitani non ebbono, né
quel dí né per la maggiore parte del dí prossimo, notizia: ma Ivo di
Allegri consigliò che per uno dí ancora riposasse la gente, stracca
per la difficoltà del cammino; non pensando, né egli né alcuno
altro, potere essere che senza saputa loro fusse entrato, di dí e
per la strada romana, uno esercito sí grande in una città alla quale
erano accampati. La quale ignoranza continuava medesimamente insino
all'altro dí se per sorte non fusse stato preso uno stradiotto
greco, uscito insieme con altri cavalli a scaramucciare; il quale,
dimandato quel che si facesse in Bologna, rispose che da sé ne
riceverebbono piccolo lume, perché vi era venuto il dí dinanzi con
l'esercito franzese: sopra le quali parole interrogato con
maraviglia grande diligentemente da' capitani, e trovatolo costante
nelle risposte, prestandogli fede, deliberorno levare il campo;
giudicando che, per essere vessati i soldati dalla asprezza della
stagione e per la vicinità della città nella quale era entrato uno
tale esercito, fusse pericoloso il soprastarvi. Però la notte
seguente, che fu il decimonono dí dal dí che si erano accampati,
fatte ritirare tacitamente l'artiglierie, l'esercito a grande ora si
mosse verso Imola, camminando per le spianate per le quali era
venuto, che mettevano in mezzo la strada maestra e l'artiglierie: e
avendo posto nel retroguardo il fiore dell'esercito si discostorno
sicuramente, perché non uscirno di Bologna altri che alcuni cavalli
de' franzesi; i quali, avendo saccheggiata parte delle munizioni
delle vettovaglie, e perciò essendosi cominciati a disordinare,
furono, né senza danno, rimessi dentro da Malatesta Baglione, il
quale andava nell'ultima parte dell'esercito.
Lib.10, cap.10
I veneziani prendono Brescia e Bergamo; subita partenza del Fois per
affrontare i nemici. Vittoria del Fois alla torre del Magnanino.
Presa e saccheggio di Brescia.
Levato il campo, Fois, lasciati alla custodia di Bologna trecento
lancie e quattromila fanti, partí subito per andare con grandissima
celerità a soccorrere il castello di Brescia; perché la città era,
il giorno precedente a quello nel quale entrò in Bologna, pervenuta
in potestà de' viniziani. Perché Andrea Gritti, per comandamento del
senato, stimolato dal conte Luigi Avogaro gentiluomo bresciano e
dagli uomini quasi di tutto il paese, e dalla speranza che dentro si
facesse movimento per lui, avendo con trecento uomini d'arme mille
trecento cavalli leggieri e tremila fanti passato il fiume
dell'Adice ad Alberé, luogo propinquo a Lignago, e guadato dipoi il
fiume del Mincio al mulino della Volta tra Goito e Valeggio; e
successivamente venuto a Montechiaro, si era fermato la notte a
Castagnetolo villa distante cinque miglia da Brescia, donde fece
subito correre i cavalli leggieri insino alle porte; e nel tempo
medesimo, risonando per tutto il paese il nome di san Marco, il
conte Luigi si accostò alla porta con ottocento uomini delle valli
Eutropia e Sabia, le quali aveva sollevate, avendo mandato dalla
altra parte della città insino alle porte il figliuolo con altri
fanti. Ma Andrea Gritti, non ricevendo gli avvisi che aspettava da
quelli di dentro né gli essendo fatto alcuno de' segni convenuti,
anzi intendendo la città essere per tutto diligentemente custodita,
giudicò non doversi procedere piú oltre; nel qual movimento il
figliuolo Avogaro, assaltato da quegli di dentro, rimase prigione.
Ritirossi il Gritti appresso a Montagnana onde prima era partito,
lasciato sufficiente presidio al ponte fatto in sullo Adice. Ma di
nuovo chiamato pochi dí poi ripassò l'Adice, con due cannoni e
quattro falconi, e si fermò a Castagnetolo; essendosi nel tempo
medesimo approssimato a un miglio a Brescia il conte Luigi, con
numero grandissimo d'uomini di quelle valli. E con tutto che dalla
città non si sentisse cosa alcuna favorevole, il Gritti, invitato
dal concorso maggiore che l'altra volta, deliberò tentare la forza:
però accostatosi con tutti i paesani si cominciò da tre parti a dare
l'assalto; il quale, tentato infelicemente alla porta della Torre,
succedette prosperamente alla porta delle Pile ove combatteva
l'Avogaro, e alla porta della Garzula, ove i soldati, guidati da
Baldassarre di Scipione, entrorno (secondo che alcuni dicono) per la
ferrata per la quale il fiume, che ha il medesimo nome, entra nella
città; invano resistendo i franzesi. I quali, veduto gli inimici
entrare nella città e che in favore loro si movevano i bresciani, i
quali prima, proibiti da loro di prendere l'armi, erano stati
quieti, si ritirorno, insieme con monsignore di Luda governatore,
nella fortezza; perduti i cavalli e i carriaggi: nel qual tumulto
quella parte che si dice la cittadella, separata dal resto della
città, abitazione di quasi tutti i ghibellini, fu saccheggiata,
riservate le case de' guelfi. L'acquisto di Brescia seguitò subito
la dedizione di Bergamo, che eccetto le due castella, l'uno posto in
mezzo la città l'altro distante un mezzo miglio, si arrendé per
opera d'alcuni cittadini; e il medesimo feciono Orcivecchi,
Orcinuovi, Pontevico e molte altre terre circostanti: e si sarebbe
forse fatto maggiore progresso o almeno confermata meglio la
vittoria se a Vinegia, ove fu letizia incredibile, fusse stata tanta
sollecitudine a mandare soldati e artiglierie (le quali erano
necessarie per l'espugnazione del castello, che non era molto
potente a resistere) quanta fu nel creare e mandare i magistrati che
avessino a reggere la città recuperata. La quale negligenza fu tanto
piú dannosa quanto fu maggiore la diligenza e la celerità di Fois:
il quale avendo passato il fiume del Po alla Stellata, dal qual
luogo mandò alla guardia di Ferrara cento cinquanta lancie e
cinquecento fanti franzesi, passò il Mincio per Pontemulino; avendo,
quasi nel tempo medesimo che passava, mandato a dimandare la facoltà
del passare al marchese di Mantova, o per non lasciare luogo con la
dimanda improvisa a' consigli suoi o perché tanto piú tardasse a
andare la notizia della venuta sua alle genti viniziane. Di quivi
alloggiò il dí seguente a Nugara in veronese e l'altro dí a
Pontepesere e a Treville tre miglia appresso alla Scala, ove avendo
avuto notizia che Giampaolo Baglione (il quale aveva fatta la scorta
ad alcune genti e artiglierie de' viniziani andate a Brescia) era
con [tre]cento uomini d'arme [quattrocento] cavalli leggieri e mille
dugento fanti da Castelfranco venuto ad alloggiare alla Isola della
Scala, corse subito per assaltarlo con trecento lancie e settecento
arcieri, seguitandolo il resto dell'esercito perché non poteva
pareggiare tanta prestezza: ma trovato che già era partito un'ora
innanzi, si messe a seguitarlo con la medesima celerità.
Aveva Giampagolo saputo che Bernardino dal Montone, sotto la cui
custodia era il ponte fatto ad Alberé, sentito l'approssimarsi de'
franzesi l'aveva dissoluto, per timore di non essere rinchiuso da
loro e da' tedeschi che erano in Verona; ove Cesare, alleggerito
dalla custodia del Friuli perché, da Gradisca in fuora, tutto era
ritornato in potestà de' viniziani, aveva poco innanzi mandato
tremila fanti i quali prima aveva in quella regione. Però Giampaolo
sarebbe andato a Brescia se non gli fusse stato mostrato che poco
sotto Verona si poteva guadare il fiume, ove andando per passare
scoperse da lungi Fois; e pensando non potesse essere altro che la
gente di Verona, perché la prestezza di Fois, incredibile, aveva
avanzato la fama, rimessi i suoi in battaglia, l'aspettò con forte
animo alla torre del Magnanino, propinqua all'Adice e poco distante
dalla torre della Scala. Fu molto feroce da ciascuna delle parti lo
incontro delle lancie, e si combatté poi valorosamente con l'altre
armi per piú d'una ora; ma peggioravano continuamente le condizioni
de' marcheschi perché tuttavia sopravenivano i soldati dell'esercito
rimasto indietro, e nondimeno urtati, ritornorno piú volte negli
ordini loro: finalmente, non potendo piú resistere al numero
maggiore, rotti si messono in fuga; seguitati dagli inimici, già
cominciando la notte, insino al fiume; il quale fu da Giampaolo
passato a salvamento, ma v'annegorno molti de' suoi. Furno de'
viniziani parte morti parte presi circa novanta uomini d'arme, tra'
quali rimasono prigioni Guido Rangone e Baldassarre Signorello da
Perugia, dissipati tutti i fanti e perduti due falconetti che soli
aveano con loro; né quasi sanguinosa la vittoria per i franzesi.
Riscontrorno il dí seguente Meleagro da Furlí con alcuni cavalli
leggieri de' viniziani, i quali facilmente furno messi in fuga,
rimanendo Meleagro prigione; né perdendo una ora sola di tempo, il
nono dí poi che erano partiti da Bologna, alloggiò Fois con
l'antiguardia nel borgo di Brescia, lontano due balestrate dalla
porta di Torre Lunga; il rimanente dell'esercito piú indietro, lungo
la strada che conduce a Peschiera. Alloggiato, subitamente, non
dando spazio alcuno a se medesimo a respirare, mandò una parte de'
fanti ad assaltare il monasterio di San Fridiano, posto a mezzo il
monte, sotto il quale era l'alloggiamento suo, guardato da molti
villani di Valditrompia; i quali fanti, salito il monte da piú
parti, favorendogli ancora una pioggia grande che impedí non si
tirassino l'artiglierie piantate nel monasterio, gli roppono e ne
ammazzorno una parte. Il dí seguente, avendo mandato un trombetto
nella città a dimandare gli fusse data la terra, salve le robe e le
persone di tutti eccetto che de' viniziani, ed essendogli stato
risposto in presenza di Andrea Gritti ferocemente, girato l'esercito
all'altra parte della città per essere propinquo al castello,
alloggiò nel borgo della porta che si dice di San Gianni; donde la
mattina seguente, quando cominciava ad apparire il dí, eletti di
tutto l'esercito piú di quattrocento uomini d'arme armati tutti
d'armi bianche e seimila fanti parte guasconi e parte tedeschi, egli
con tutti a piede, salendo dalla parte di verso la porta delle Pile,
entrò, non si opponendo alcuno, nel primo procinto del castello:
dove riposatigli e rinfrescatigli alquanto, gli confortò con brevi
parole che scendessino animosamente in quella ricchissima e
opulentissima città, ove la gloria e la preda sarebbe senza
comparazione molto maggiore che la fatica e il pericolo, avendo a
combattere co' soldati viniziani manifestamente inferiori di numero
e di virtú, perché della moltitudine del popolo inesperta alla
guerra, e che già pensava piú alla fuga che alla battaglia, non era
da tenere conto alcuno; anzi si poteva sperare che cominciandosi per
la viltà a disordinare sarebbono cagione che tutti gli altri si
mettessino in disordine: supplicandogli in ultimo che, avendogli
scelti per i piú valorosi di cosí fiorito esercito, non facessino
vergogna a se stessi né al giudicio suo; e che considerassino quanto
sarebbono infami e disonorati se, facendo professione di entrare per
forza nelle città inimiche contro a' soldati contro all'artiglierie
contro alle muraglie e contro a' ripari, non ottenessino al
presente, avendo l'entrata sí patente né altra opposizione che
d'uomini soli. Dette [queste] parole, cominciò, precedendo i fanti
agli uomini d'arme, a uscire del castello; all'uscita del quale
avendo trovati alcuni fanti che con artiglierie tentorno di
impedirgli l'andare innanzi, ma avendogli fatti facilmente ritirare,
scese ferocemente per la costa in sulla piazza del palagio del
capitano detto il Burletto, nel quale luogo le genti viniziane,
ristrette insieme, ferocemente l'aspettavano: ove venuti alle mani,
fu per lungo spazio molto feroce e spaventosa la battaglia,
combattendo l'una delle parti per la propria salute l'altra non solo
per la gloria ma eziandio per la cupidità di saccheggiare una città
piena di tante ricchezze, né meno ferocemente i capitani che i
soldati privati; tra' quali appariva molto illustre la virtú e la
fierezza di Fois. Finalmente furno cacciati dalla piazza i soldati
viniziani, avendo fatto maravigliosa difesa. Entrorno dipoi i
vincitori divisi in due parti, l'una per la città l'altra per la
cittadella; a' quali quasi in su ogni cantone e in su ogni contrada
era fatta egregia resistenza da' soldati e dal popolo, ma sempre
vittoriosi spuntorno gli inimici per tutto; non mai attendendo a
rubare insino non occuporno tutta la terra; cosí aveva, innanzi
scendessino, comandato il capitano; anzi se niuno preteriva
quest'ordine era subitamente ammazzato da gli altri. Morirono in
queste battaglie dalla parte de' franzesi molti fanti né pochi
uomini d'arme ma degli inimici circa ottomila uomini, parte del
popolo parte de' soldati viniziani, che erano [cinquecento] uomini
d'arme [ottocento] cavalli leggieri e [ottomila] fanti; e tra questi
Federigo Contareno proveditore degli stradiotti, il quale
combattendo in sulla piazza fu morto di uno colpo di scoppietto:
tutti gli altri furno presi, eccetto dugento stradiotti i quali
fuggirono per un piccolo portello che è alla porta di San Nazzaro,
ma con fortuna poco migliore perché, riscontrando in quella parte
de' franzesi che era rimasta fuora della terra, furno quasi tutti o
morti o presi. I quali entrati poi dentro senza fatica, per la
medesima porta, cominciorno essi ancora, godendo le fatiche e i
pericoli degli altri, a saccheggiare. Rimasono prigioni Andrea
Gritti e Antonio Giustiniano mandato dal senato per podestà di
quella città, Giampaolo Manfrone e il figliuolo, il cavaliere della
Golpe, Baldassarre di Scipione, uno figliuolo di Antonio de' Pii, il
conte Luigi Avogaro e un altro figliuolo, Domenico Busicchio
capitano di stradiotti. Fu nel saccheggiare salvato, per
comandamento di Fois, l'onestà de' monasteri delle donne, ma la roba
e gli uomini rifuggitivi furno preda de' capitani. Fu il conte Luigi
in sulla piazza publica decapitato, saziando Fois gli occhi propri
del suo supplicio; i due figliuoli, benché allora si differisse il
supplicio, patirono non molto poi la pena medesima. Cosí per le mani
de' franzesi, da' quali si gloriavano i bresciani essere discesi,
cadde in tanto sterminio quella città, non inferiore di nobiltà e di
degnità ad alcuna altra di Lombardia, ma di ricchezze, eccettuato
Milano, superiore a tutte l'altre; la quale, essendo in preda le
cose sacre e le profane, né meno la vita e l'onore delle persone che
la roba, stette sette dí continui esposta alla avarizia alla
libidine e alla licenza militare. Fu celebrato per queste cose per
tutta la cristianità con somma gloria il nome di Fois, che con la
ferocia e celerità sua avesse, in tempo di quindici dí, costretto
l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi dalle mura di
Bologna, rotto alla campagna Giampaolo Baglione con parte delle
genti de' viniziani, recuperata Brescia con tanta strage de' soldati
e del popolo; di maniera che per universale giudicio si confermava,
non avere, già parecchi secoli, veduta Italia nelle opere militari
una cosa simigliante.
Lib.10, cap.11
Per ordine del re, il Fois s'accinge ad affrontare l'esercito de'
collegati. Alleanza fra il pontefice e il re d'Inghilterra.
Lamentele di Massimiliano riguardo al re di Francia. Timori del re
per gli svizzeri. Nessuna speranza del re nella concordia. I
fiorentini assolti dalle censure dal pontefice. Ordine del re al
Fois di marciare, ove sconfigga i nemici, su Roma con un legato del
concilio pisano.
Recuperata Brescia e l'altre terre perdute, delle quali Bergamo,
ribellatasi per opera di pochi, aveva, innanzi che Fois entrasse in
Brescia, richiamati popolarmente i franzesi, Fois, poiché ebbe dato
forma alle cose e riposato e riordinato l'esercito, stracco per sí
lunghi e gravi travagli e disordinato parte nel conservare parte nel
dispensare la preda fatta, deliberò, per comandamento ricevuto dal
re, di andare contro all'esercito de' collegati; il quale partendosi
dalle mura di Bologna si era fermato nel bolognese: astringendo il
re a questo molti urgentissimi accidenti, i quali lo necessitavano a
prendere nuovi consigli per la salute delle cose sue.
Cominciava già manifestamente ad apparire la guerra del re di
Inghilterra: perché se bene quel re l'aveva prima con aperte parole
negato e poi con dubbie dissimulato, nondimeno non si potevano piú
coprire i fatti molto diversi. Perché da Roma si intendeva essere
venuto, con lungo circuito marittimo, essere finalmente arrivato lo
instrumento della ratificazione alla lega fatta; sapevasi che in
Inghilterra si preparavano genti e navili e in Ispagna navi per
passare in Inghilterra, ed essere gli animi di tutti i popoli accesi
a muovere la guerra in Francia; e opportunamente era sopravenuta la
galeazza del pontefice carica di vini grechi, di formaggi e di
sommate, i quali, donati in suo nome al re e a molti signori e
prelati, erano ricevuti da tutti con festa maravigliosa; e
concorreva tutta la plebe (la quale spesso non meno muovono le cose
vane che le gravi) con somma dilettazione a vederla, gloriandosi che
mai piú si fusse veduto in quella isola legno alcuno con le bandiere
pontificali. Finalmente avendo il vescovo di Moravia, che aveva
tanto trattato tra il pontefice e il re di Francia, mosso o dalla
coscienza o dal desiderio che aveva del cardinalato, riferito, in
uno parlamento convocato di tutta l'isola, molto favorevolmente e
con ampia testimonianza della giustizia del pontefice, fu nel
parlamento deliberato che si mandassino i prelati in nome del regno
al concilio lateranense; e il re, facendone instanza gli
imbasciadori del papa, comandò all'oratore del re di Francia che si
partisse, perché non era conveniente che appresso a un re e in un
reame divotissimo della Chiesa fusse veduto chi rappresentava uno re
che tanto apertamente la sedia apostolica perseguitava: e già
penetrava il secreto essere occultamente convenuto che il re di
Inghilterra molestasse con l'armata marittima la costa di Normandia
e di Brettagna, e che mandasse in Spagna ottomila fanti, per
muovere, unitamente coll'armi del re d'Aragona, la guerra nel ducato
di Ghienna. Il quale sospetto affliggeva maravigliosamente il re di
Francia: perché essendo, per la memoria delle antiche guerre,
spaventoso a' popoli suoi il nome degli inghilesi, conosceva il
pericolo maggiore essendo congiunte con loro l'armi spagnuole; e
tanto piú avendo, da dugento lancie in fuora, mandate tutte le genti
d'arme in Italia, le quali richiamando, o tutte o parte, rimaneva in
manifesto pericolo il ducato tanto amato da lui di Milano. E se
bene, per non rimanere tanto sproveduto, accrescesse all'ordinanza
vecchia ottocento lancie, nondimeno, che confidenza poteva avere, in
tanti pericoli, negli uomini inesperti che di nuovo venivano alla
milizia?
Aggiugnevasi il sospetto, che ogni dí piú cresceva, della
alienazione di Cesare; perché era ritornato Andrea di Burgus, stato
espedito con tanta espettazione, il quale con tutto che riferisse
Cesare essere disposto a perseverare nella confederazione, nondimeno
proponeva molto dure condizioni mescolandovi varie querele. Perché
dimandava di essere assicurato che gli fusse ricuperato quello che
gli apparteneva per i capitoli di Cambrai, affermando non potersi
piú fidare delle semplici promesse, per avere, e da principio e poi
sempre, conosciuto essere molesto al re che egli acquistasse Padova;
e che per consumarlo e tenerlo in continui travagli aveva speso
volentieri ogni anno dugentomila ducati, sapendo che a lui premeva
piú lo spenderne cinquantamila: avere recusato l'anno passato
concedergli la persona del Triulzio, perché era capitano, e per
volontà e per scienza militare, da terminare presto la guerra:
dimandava che la figliuola seconda del re, minore di due anni, si
sposasse al nipote, assegnandogli in dote la Borgogna, e che la
figlia gli fusse consegnata di presente; e che nella determinazione
sua rimettessino le cause di Ferrara di Bologna e del concilio;
contradicendo che l'esercito franzese andasse verso Roma, e
protestando non essere per comportare che il re accrescesse in parte
alcuna in Italia lo stato suo. Le quali condizioni gravissime, e
quasi intollerabili per se stesse, faceva molto piú gravi il
conoscere non potere stare sicuro che, concedutegli tante cose, non
variasse poi, o secondo l'occasioni o secondo la sua consuetudine.
Anzi, la iniquità delle condizioni proposte faceva quasi manifesto
argomento che, già deliberato di alienarsi dal re di Francia,
cercasse occasione di metterlo a effetto con qualche colore, massime
che non solo nelle parole ma eziandio nelle opere si scorgevano
molti segni di cattivo animo; perché né col Burgus erano venuti i
procuratori tante volte promessi per andare al concilio pisano, anzi
la congregazione de' prelati fatta in Augusta avea finalmente
risposto, con publico decreto, il concilio pisano essere scismatico
e detestabile: benché con questa moderazione essere apparecchiati a
mutare sentenza se in contrario fussino dimostrate piú efficaci
ragioni. E nondimeno il re, nel tempo che piú gli sarebbe bisognato
unire le forze sue, era necessitato tenere a requisizione di Cesare
[dugento] lancie e tremila fanti in Verona e mille alla custodia di
Lignago.
Tormentava oltre a questo molto l'animo del re il timore de'
svizzeri; perché, con tutto che avesse ottenuto di mandare alle
diete loro il baglí d'Amiens al quale aveva dato amplissime
commissioni, risoluto con prudente consiglio (se prudenti si possono
chiamare quelle deliberazioni che si fanno passata già l'opportunità
del giovare) di spendere qualunque quantità di danari per ridurgli
alla sua amicizia, nondimeno, prevalendo l'odio ardentissimo della
plebe e le persuasioni efficaci del cardinale sedunense alla
autorità di quegli che avevano, di dieta in dieta, impedito che non
si facesse deliberazione contraria a lui, si sentiva erano inclinati
a concedere semila fanti agli stipendi de' confederati, i quali gli
dimandavano per potergli opporre agli squadroni ordinati e stabili
de' fanti tedeschi.
Trovavasi inoltre il re privato interamente delle speranze della
corcordia; la quale, benché nel fervore dell'armi, non avevano mai
omesso di trattare il cardinale di Nantes e il cardinale di
Strigonia, prelato potentissimo del reame dell'Ungheria: perché il
pontefice aveva ultimatamente risposto, procurassino, se volevano
gli udisse piú, che prima fusse annullato il conciliabolo pisano, e
che alla Chiesa fussino rendute le città sue, Bologna e Ferrara; né
mostrando ne' fatti minore asprezza, aveva di nuovo privato molti
de' prelati franzesi intervenuti a quello concilio, e Filippo Decio
uno de' piú eccellenti giurisconsulti di quella età, perché aveva
scritto e disputato per la giustizia di quella causa, e seguitava i
cardinali per indirizzare le cose che s'avevano a spedire
giuridicamente.
Né aveva il re, nelle difficoltà e pericoli che se gli mostravano da
tanti luoghi, piede alcuno fermo o certo in parte alcuna di Italia:
perché gli stati di Ferrara e di Bologna gli erano stati ed erano di
molestia e di spesa, e da' fiorentini, co' quali faceva nuova
instanza che in compagnia sua rompessino la guerra in Romagna, non
poteva trarre altro che risposte generali; anzi aveva dell'animo
loro qualche sospetto, perché in Firenze risedeva continuamente uno
oratore del viceré di Napoli, e molto piú per avere mandato
l'oratore al re cattolico, e perché non comunicavano piú seco le
cose loro come solevano, e molto piú perché avendogli ricercati che
prorogassino la lega che finiva fra pochi mesi, senza dimandare
danari o altre gravi obligazioni, andavano differendo, per essere
liberi a pigliare i partiti che a quel tempo fussino giudicati
migliori. La quale disposizione volendo augumentare il pontefice, né
dare causa che la troppa asprezza sua gli inducesse a seguitare
coll'armi la fortuna del re di Francia, concedette loro, senza che
in nome publico la dimandassino, l'assoluzione dalle censure; e
mandò nunzio a Firenze con umane commissioni Giovanni Gozzadini
bolognese uno de' cherici della camera apostolica, sforzandosi
d'alleggerire il sospetto che aveano conceputo di lui.
Vedendosi adunque il re solo contro a tanti, o dichiaratisegli
inimici o che erano per dichiararsi, né conoscendo potere se non
molto difficilmente resistere se in uno tempo medesimo concorressino
tante molestie, comandò a Fois che con quanta piú celerità potesse
andasse contro all'esercito degli inimici, de' quali per essere
riputati manco potenti dell'esercito suo si prometteva la vittoria;
e che vincendo, assaltasse senza rispetto Roma e il pontefice, il
che quando succedesse gli pareva rimanere liberato da tanti
pericoli; e che questa impresa, acciò che si diminuisse l'invidia e
augumentassinsi le giustificazioni, si facesse in nome del concilio
pisano, il quale deputasse un legato che andasse nell'esercito, [e]
ricevesse in suo nome le terre che si acquistassino.
Lib.10, cap.12
Le forze del Fois, suo desiderio di affrontare i nemici, e ritirata
di questi. Il re di Francia ordina di affrettare l'azione, per la
tregua conclusa fra Massimiliano e i veneziani. Presa e sacco di
Russi. L'esercito francese sotto Ravenna. Vano assalto alla città
difesa da Marcantonio Colonna.
Mossosi adunque Fois da Brescia, venne al Finale, ove poiché per
alcuni dí fu soggiornato per fare massa di vettovaglie le quali si
conducevano di Lombardia, e per raccorre tutte le genti che il re
aveva in Italia, eccetto quelle che per necessità rimanevano alla
guardia delle terre, impedito ancora da' tempi molto piovosi, venne
a San Giorgio nel bolognese: nel quale luogo gli sopravennono,
mandati di nuovo di Francia, tremila fanti guasconi mille venturieri
e mille piccardi, eletti fanti e appresso a franzesi di nome grande:
di maniera che in tutto, secondo il numero vero, erano seco
cinquemila fanti tedeschi cinquemila guasconi e ottomila parte
italiani parte del reame di Francia, e mille secento lancie,
computando in questo numero i dugento gentiluomini. A questo
esercito si doveva congiugnere il duca di Ferrara, con cento uomini
d'arme dugento cavalli leggieri e con apparato copioso di ottime
artiglierie: perché Fois, impedito a condurre le sue per terra dalla
difficoltà delle strade, l'aveva lasciate al Finale. Veniva
medesimamente nell'esercito il cardinale di San Severino, diputato
legato di Bologna dal concilio, cardinale feroce e piú inclinato
all'armi che agli esercizi o pensieri sacerdotali. Ordinate in
questo modo le cose si indirizzò contro agli inimici, ardente di
desiderio di combattere cosí per i comandamenti del re, che ogni dí
piú lo stimolava, come per la ferocia naturale del suo spirito e per
la cupidità della gloria, accesa piú per la felicità de' successi
passati; non perciò traportato tanto da questo ardore che avesse
nell'animo di assaltargli temerariamente, ma appropinquandosi a'
loro alloggiamenti tentare se spontaneamente venissino alla
battaglia in luogo dove la qualità del sito non facesse inferiori le
sue condizioni, o veramente, con impedire le vettovaglie, ridurgli a
necessità di combattere. Ma molto differente era la intenzione degli
inimici; nell'esercito de' quali, poi che sotto scusa di certa
quistione se ne era partita la compagnia del duca di Urbino,
essendo, secondo si diceva, mille quattrocento uomini d'arme mille
cavalli leggieri e settemila fanti spagnuoli e tremila italiani
soldati nuovamente, e riputandosi che i franzesi oltre
all'eccedergli di numero avessino piú valorosa cavalleria, non
pareva loro sicuro il combattere in luogo pari, almeno insino a
tanto non sopravenissino seimila svizzeri, i quali avendo di nuovo
consentito i cantoni di concedere, si trattava a Vinegia (dove per
questo erano andati il cardinale sedunense e dodici imbasciadori di
quella nazione) di soldargli a spese comuni del pontefice e de'
viniziani. Aggiugnevasi la volontà del re d'Aragona, il quale per
lettere e per uomini propri aveva comandato che, quanto fusse in
potestà loro, s'astenessino dal combattere; perché, sperando
principalmente in quello di che il re di Francia temeva
principalmente, cioè che, differendosi insino a tanto che dal re di
Inghilterra e da lui si cominciasse la guerra in Francia, sarebbe
quel re necessitato a richiamare o tutte o la maggiore parte delle
genti di là da' monti, e conseguentemente si vincerebbe la guerra in
Italia senza sangue e senza pericolo: per la quale ragione arebbe,
insino da principio, se non l'avessino commosso la instanza e le
querele gravi del pontefice, proibito che si tentasse la
espugnazione di Bologna. Dunque, il viceré di Napoli e gli altri
capitani aveano deliberato di alloggiare sempre propinqui allo
esercito franzese, perché non gli rimanesse in preda le città di
Romagna e aperto il cammino di andare a Roma, ma porsi continuamente
in luoghi sí forti, o per i siti o per avere qualche terra grossa
alle spalle, che i franzesi non potessino assaltargli senza
grandissimo disavvantaggio; e perciò non tenere conto né fare
difficoltà di ritirarsi tante volte quante fusse di bisogno,
giudicando, come uomini militari, non doversi attendere alle
dimostrazioni e romori ma principalmente a ottenere la vittoria,
dietro alla quale séguita la riputazione la gloria e le laudi degli
uomini: per la quale deliberazione, il dí che l'esercito franzese
alloggiò a Castelguelfo e a Medicina, essi che erano alloggiati
appresso a detti luoghi si ritirorono alle mura d'Imola. Passorno il
dí seguente i franzesi un miglio e mezzo appresso a Imola, stando
gli inimici in ordinanza nel luogo loro; ma non volendo assaltargli
con tanto disavvantaggio, passati piú innanzi, alloggiò
l'avanguardia a Bubano castello distante da Imola quattro miglia,
l'altre parti dell'esercito a Mordano e Bagnara terre vicine l'una
all'altra poco piú di uno miglio, eleggendo di alloggiare sotto la
strada maestra per la comodità delle vettovaglie; le quali si
conducevano dal fiume del Po sicuramente, perché Lugo, Bagnacavallo
e le terre circostanti, abbandonate dagli spagnuoli come Fois entrò
nel bolognese, erano ritornate alla divozione del duca di Ferrara.
Andorno l'altro giorno gli spagnuoli a Castel Bolognese, lasciato
nella rocca di Imola presidio sufficiente e nella terra sessanta
uomini d'arme sotto Giovanni Sassatello, alloggiando in sulla strada
maestra e distendendosi verso il monte; e il dí medesimo i franzesi
presono per forza il castello di Solarolo, e si arrenderono loro
Cotignola e Granarolo, ove stettono il dí seguente, e gli inimici si
fermorno nel luogo detto il Campo alle Mosche. Nelle quali piccole
mutazioni e luoghi tanto vicini procedeva l'uno e l'altro esercito
in ordinanza, con l'artiglieria innanzi e con la faccia volta agli
inimici, come se a ogni ora dovesse cominciare la battaglia; e
nondimeno, procedendo amendue con grandissima circospezione e
ordine: l'uno per non si lasciare stringere a fare giornata se non
in luogo dove il vantaggio del sito ricompensasse il disavvantaggio
del numero e delle forze; l'altro per condurre in necessità di
combattere gli inimici, ma in modo che in uno tempo medesimo non
avessino la repugnanza dell'armi e del sito.
Ebbe Fois in questo alloggiamento nuove commissioni dal re che
accelerasse il fare la giornata, augumentando le medesime cagioni
che l'aveano indotto a fare il primo comandamento. Perché avendo i
viniziani, benché indeboliti per il caso di Brescia, e astretti
prima da' prieghi e poi da' protesti e minaccie del pontefice e del
re d'Aragona, recusato pertinacemente la pace con Cesare se non si
consentiva che ritenessino Vicenza, si era finalmente fatta tregua
tra loro per otto mesi, innanzi al pontefice, con patto che ciascuno
ritenesse quello possedeva e che pagassino a Cesare cinquantamila
fiorini di Reno: onde non dubitando piú il re della sua alienazione,
fu nel tempo medesimo certificato d'avere a ricevere la guerra di là
da' monti. Perché Ieronimo Cabaviglia, oratore del re d'Aragona
appresso a lui, fatta instanza di parlargli, presente il consiglio,
aveva significato avere comandamento dal suo re di partirsi, e
confortatolo in nome suo che desistesse dal favorire contro alla
Chiesa i tiranni di Bologna, e da turbare per una causa sí ingiusta
una pace di tanta importanza e tanto utile alla republica cristiana:
offerendo, se per la restituzione di Bologna temeva di ricevere
qualche danno, di assicurarlo con tutti i modi i quali esso medesimo
desiderasse; e in ultimo soggiugnendo che non poteva mancare, come
era debito di ciascuno principe cristiano, alla difesa della Chiesa.
Perciò Fois, già certo non essere a proposito l'accostarsi agli
inimici, perché, per la comodità che avevano delle terre di Romagna,
non si potevano se non con molta difficoltà interrompere loro le
vettovaglie, né sforzargli, senza disavvantaggio grande, alla
giornata, indotto anche perché ne' luoghi dove era l'esercito suo
pativa di vettovaglie, deliberò con consiglio de' suoi capitani di
andare a campo a Ravenna; sperando che gli inimici, per non
diminuire tanto di riputazione, non volessino lasciare perdere in su
gli occhi loro una città tale, e cosí avere occasione di combattere
in luogo eguale: e per impedire che l'esercito inimico, presentendo
questo, non si accostasse a Ravenna si pose tra Cotignuola e
Granarolo, lontano sette miglia da loro; dove stette fermo quattro
dí, aspettando da Ferrara dodici cannoni e dodici pezzi minori
d'artiglieria. La deliberazione del quale congetturando gli inimici
mandorno a Ravenna Marcantonio Colonna, il quale innanzi consentisse
d'andarvi bisognò che il legato, il viceré, Fabrizio, Pietro Navarra
e tutti gli altri capitani gli obligassino ciascuno la fede sua di
andare con tutto l'esercito, se i franzesi vi s'accampavano, a
soccorrerlo; e con Marcantonio andorno sessanta uomini d'arme della
sua compagnia, Pietro da Castro con cento cavalli leggieri, e
Sallazart e Parades con secento fanti spagnuoli; il resto dello
esercito si fermò alle mura di Faenza, dalla porta per la quale si
va a Ravenna. Ove mentre stavano feciono con gli inimici una grossa
scaramuccia: e in questo tempo Fois mandò cento lancie e mille
cinquecento fanti a pigliare il castello di Russi, guardato
solamente dagli uomini propri; i quali benché da principio, secondo
l'uso della moltitudine, dimostrassino audacia, nondimeno,
succedendo quasi subito in luogo di quella il timore, cominciorno il
dí medesimo a trattare di arrendersi: per i quali ragionamenti i
franzesi, vedendo allentata la diligenza del guardare, entrativi
impetuosamente messono la terra a sacco; nella quale ammazzorno piú
di dugento uomini, gli altri feciono prigioni. Da Russi si accostò
Fois a Ravenna, e il dí seguente alloggiò appresso alle mura, tra i
due fiumi in mezzo de' quali, è situata quella città.
Nascono ne' monti Apennini, ove partono la Romagna dalla Toscana, il
fiume del Ronco detto dagli antichi Vitis, e il fiume del Montone,
celebrato perché, eccettuato il Po, è il primo, de' fiumi che
nascono dalla costa sinistra dello Apennino, che entri in mare per
proprio corso: questi, mettendo in mezzo la città di Furlí, il
Montone dalla mano sinistra quasi congiunto alle mura, il Ronco
dalla destra ma distante circa due miglia, si ristringono in sí
breve spazio presso a Ravenna che l'uno dall'una parte l'altro
dall'altra passano congiunti alle sue mura; sotto le quali mescolate
insieme l'acque entrano nel mare, lontano ora tre miglia ma che già,
come è fama, bagnava le mura. Occupava lo spazio tra l'uno e l'altro
di questi due fiumi l'esercito di Fois, avendo la fronte del campo a
porta Adriana quasi contigua alla ripa del Montone. Piantorono la
notte prossima l'artiglierie, parte contro alla torre detta Rancona
situata tra la porta Adriana e il Ronco, parte di là dal Montone,
dove per uno ponte gittato in sul fiume era passata una parte dello
esercito: accelerando quanto potevano il battere per prevenire a
dare la battaglia innanzi che gli inimici, i quali sapevano già
essere mossi, si accostassino; né meno perché erano ridotti in
grandissima difficoltà di vettovaglie, atteso che le genti
viniziane, che si erano fermate a Ficheruolo, con legni armati
impedivano quelle che si conducevano di Lombardia, e avendo
affondate certe barche alla bocca del canale che entra in Po dodici
miglia appresso a Ravenna e si conduce a due miglia presso a
Ravenna, impedivano l'entrarvi quelle che venivano da Ferrara in su
legni ferraresi, le quali condurre per terra in su le carra era
difficile e pericoloso. Era oltre a questo molto incomodo e con
pericolo l'andare a saccomanno, perché erano necessitati discostarsi
sette o otto miglia dal campo. Dalle quali cagioni astretto Fois
deliberò dare il dí medesimo la battaglia, ancora che conoscesse che
era molto difficile l'entrarvi, perché del muro battuto non era
rovinata piú che la lunghezza di trenta braccia né per quello si
poteva entrare se non con le scale, conciossiaché fusse rimasta
l'altezza da terra poco meno di tre braccia: le quali difficoltà per
superare con la virtú e con l'ordine, e per accendergli con
l'emulazione tra loro medesimi, partí in tre squadroni distinti
l'uno dall'altro i fanti tedeschi italiani e franzesi, ed eletti di
ciascuna compagnia di gente d'arme dieci de' piú valorosi, impose
loro che coperti dalle medesime armi colle quali combattono a
cavallo andassino a piede innanzi a' fanti; i quali accostatisi al
muro dettono l'assalto molto terribile, difendendosi egregiamente
quegli di dentro, con laude grande di Marcantonio Colonna, il quale
non perdonando né a fatica né a pericolo soccorreva ora qua ora là
secondo che piú era di bisogno. Finalmente i franzesi, perduta la
speranza di spuntare gli inimici, e percossi con grave danno per
fianco da una colubrina piantata in su uno bastione, avendo
combattuto per spazio di tre ore, si ritirorno agli alloggiamenti,
perduti circa trecento fanti e alcuni uomini d'arme e feritine
quantità non minore, e tra gli altri Ciattiglione e Spinosa capitano
dell'artiglierie, i quali percossi dall'artiglierie di dentro pochi
dí poi morirono. Fu ancora ferito Federigo da Bozzole ma
leggiermente.
Lib.10, cap.13
L'esercito dei collegati si stanzia a tre miglia da Ravenna;
deliberazione del Fois di assaltarlo. Ordine dell'esercito francese
e parole del Fois ai soldati. Ordine dell'esercito dei collegati. La
battaglia di Ravenna. Le perdite de' due eserciti. Sacco di Ravenna,
l'esercito francese dopo la morte del Fois.
Convertironsi dipoi il dí seguente i pensieri dal combattere le mura
al combattere con gli inimici; i quali, alla mossa dello esercito
franzese, volendo osservare la fede data a Marcantonio, entrati a
Furlí, tra i fiumi medesimi e dopo alquante miglia passato il fiume
del Ronco, venivano verso Ravenna. Nel quale tempo i cittadini della
terra, impauriti per la battaglia data il dí precedente, mandorono
senza saputa di Marcantonio uno di loro a trattare di arrendersi. Il
quale mentre va innanzi e indietro con le risposte, ecco scoprirsi
l'esercito inimico che camminava lungo il fiume. Alla vista del
quale si levò subito con grandissimo romore in armi l'esercito
franzese, armati tutti entrorno ne' loro squadroni, levoronsi
tumultuosamente dalle mura l'artiglierie e levate si voltorno verso
gli inimici; consultando intrattanto Fois con gli altri capitani se
fusse da passare all'ora medesima il fiume per opporsi che non
entrassino in Ravenna: il che o non arebbono deliberato di fare, o
almeno era impossibile coll'ordine conveniente e con la prestezza
necessaria; dove a loro fu facile l'entrare quel giorno in Ravenna,
per il bosco della Pigneta che è tra 'l mare e la città: la qual
cosa costrigneva i franzesi a partirsi, per la penuria delle
vettovaglie, disonoratamente della Romagna. Ma essi, o non
conoscendo l'occasione e temendo di non essere sforzati, mentre
camminavano, a combattere in campagna aperta, o giudicando per
l'approssimarsi loro essere abbastanza soccorsa Ravenna, perché Fois
non ardirebbe piú di darvi la battaglia, si fermorno contro
all'espettazione di tutti appresso a tre miglia a Ravenna, dove si
dice il Mulinaccio, e fermati attesono, tutto il rimanente di quel
dí e la notte seguente, a fare lavorare un fosso, tanto largo e
tanto profondo quanto patí la brevità del tempo, innanzi alla fronte
del loro alloggiamento. Nel qual tempo si consigliava, non senza
diversità di pareri, tra' capitani franzesi. Perché dare di nuovo
l'assalto alla città era giudicato di molto pericolo, avendo innanzi
a sé poca apertura del muro e alle spalle gli inimici; inutile il
soprasedere, senza speranza di fare piú effetto alcuno, anzi
impossibile per la carestia delle vettovaglie; e il ritirarsi
rendere agli spagnuoli maggiore riputazione di quella che essi col
farsi innanzi avevano i dí precedenti guadagnata: pericolosissimo, e
contro alle deliberazioni sempre fatte, l'assaltargli nel loro
alloggiamento, il quale si pensava avessino fortificato; e tra tutti
i pericoli doversi piú fuggire quello dal quale ne potevano
succedere maggiori mali, né potersi disordine o male alcuno
pareggiare all'essere rotti. Nelle quali difficoltà fu alla fine
deliberato, confortando massimamente Fois questa deliberazione come
cosa piú gloriosa e piú sicura, andare, come prima apparisse il dí,
ad assaltare gli inimici: secondo la quale deliberazione, gittato la
notte il ponte in sul Ronco e spianati, per facilitare il passare,
gli argini delle ripe da ogni parte, la mattina all'aurora che fu
l'undecimo dí d'aprile, dí solennissimo per la memoria della
santissima Resurrezione, passorno per il ponte i fanti tedeschi, ma
quasi tutti quegli della avanguardia e della battaglia passorno a
guazzo il fiume; il retroguardo guidato da Ivo di Allegri, nel quale
erano quattrocento lancie, rimase in sulla riva del fiume verso
Ravenna, perché secondo il bisogno potesse soccorrere all'esercito e
opporsi se i soldati o il popolo uscissino di Ravenna; e alla
guardia del ponte, gittato prima in sul Montone, fu lasciato Paris
Scoto con mille fanti.
Preparoronsi con questo ordine i franzesi alla battaglia.
L'avanguardia con l'artiglierie innanzi, guidata dal duca di
Ferrara, e ove era anche il [generale] di Normandia con settecento
lancie e co' fanti tedeschi, fu collocata in sulla riva del fiume
che era loro a mano destra, stando i fanti alla sinistra della
cavalleria. Allato all'antiguardia, pure per fianco, furno posti i
fanti della battaglia, ottomila, parte guasconi parte piccardi; e
dipoi, allargandosi pure sempre tanto piú dalla riva del fiume, fu
posto l'ultimo squadrone de' fanti italiani guidati da Federico da
Bozzole e da... degli Scotti, nel quale non erano piú che cinquemila
fanti, perché con tutto che Fois, passando innanzi a Bologna, avesse
raccolti quelli che vi erano a guardia, molti si erano fuggiti per
la strettezza de' pagamenti; e allato a questo squadrone, tutti gli
arcieri e cavalli leggieri che passavano il numero di tremila.
Dietro a tutti questi squadroni, i quali non distendendosi per linea
retta ma piegandosi facevano quasi forma di mezza luna, dietro a
tutti, in sulla riva del fiume erano collocate le secento lancie
della battaglia, guidate dal la Palissa e insieme dal cardinale di
San Severino legato del concilio, il quale grandissimo di corpo e di
vasto animo, coperto dal capo insino a' piedi d'armi lucentissime,
faceva molto piú l'ufficio del capitano che di cardinale o di
legato. Non si riservò Fois luogo o cura alcuna particolare, ma
eletti di tutto l'esercito trenta valorosissimi gentiluomini volle
essere libero a provedere e soccorrere per tutto, facendolo
manifestamente riconoscere dagli altri lo splendore e la bellezza
dell'armi e la sopravesta, e allegrissimo nel volto, con gli occhi
pieni di vigore e quasi per la letizia sfavillanti. Come l'esercito
fu ordinato, salito in su l'argine del fiume, con facondia (cosí
divulgò la fama) piú che militare, parlò accendendo gli animi dello
esercito in questo modo:
- Quello che, soldati miei, noi abbiamo tanto desiderato, di potere
nel campo aperto combattere con gli inimici, ecco che, questo dí, la
fortuna stataci in tante vittorie benigna madre ci ha largamente
conceduto, dandoci l'occasione d'acquistare con infinita gloria la
piú magnifica vittoria che mai alla memoria degli uomini acquistasse
esercito alcuno: perché non solo Ravenna non solo tutte le terre di
Romagna resteranno esposte alla vostra discrezione ma saranno parte
minima de' premi del vostro valore; conciossiaché, non rimanendo piú
in Italia chi possa opporsi all'armi vostre, scorreremo senza
resistenza alcuna insino a Roma; ove le ricchezze smisurate di
quella scelerata corte, estratte per tanti secoli dalle viscere de'
cristiani, saranno saccheggiate da voi: tanti ornamenti superbissimi
tanti argenti tanto oro tante gioie tanti ricchissimi prigioni che
tutto il mondo arà invidia alla sorte vostra. Da Roma, colla
medesima facilità, correremo insino a Napoli, vendicandoci di tante
ingiurie ricevute. La quale felicità io non so immaginarmi cosa
alcuna che sia per impedircela, quando io considero la vostra virtú
la vostra fortuna l'onorate vittorie che avete avute in pochi dí,
quando io riguardo i volti vostri, quando io mi ricordo che
pochissimi sono di voi che innanzi agli occhi miei non abbino con
qualche egregio fatto data testimonianza del suo valore. Sono gli
inimici nostri quegli medesimi spagnuoli che per la giunta nostra si
fuggirono vituperosamente di notte da Bologna; sono quegli medesimi
che, pochi dí sono, non altrimenti che col fuggirsi alle mura
d'Imola e di Faenza o ne' luoghi montuosi e difficili, si salvorono
da noi. Non combatté mai questa nazione nel regno di Napoli con gli
eserciti nostri in luogo aperto ed eguale ma con vantaggio sempre o
di ripari o di fiumi o di fossi, non confidatisi mai nella virtú ma
nella fraude e nelle insidie. Benché, questi non sono quegli
spagnuoli inveterati nelle guerre napoletane ma gente nuova e
inesperta, e che non combatté mai contro ad altre armi che contro
agli archi e le freccie e le lancie spuntate de' mori; e nondimeno
rotti con tanta infamia, da quella gente debole di corpo timida
d'animo disarmata e ignara di tutte l'arti della guerra, l'anno
passato, all'Isola delle Gerbe; dove fuggendo questo medesimo Pietro
Navarra, capitano appresso a loro di tanta fama, fu esempio
memorabile a tutto il mondo che differenza sia a fare battere le
mura con l'impeto della polvere e con le cave fatte nascosamente
sotto terra a combattere con la vera animosità e fortezza. Stanno
ora rinchiusi dietro a uno fosso fatto con grandissima paura questa
notte, coperti i fanti dall'argine e confidatisi nelle carrette
armate come se la battaglia si avesse a fare con questi instrumenti
puerili e non con la virtú dell'animo e con la forza de' petti e
delle braccia. Caverannogli, prestatemi fede, di queste loro caverne
le nostre artiglierie, condurrannogli alla campagna scoperta e
piana: dove apparirà quello che l'impeto franzese la ferocia tedesca
e la generosità degli italiani vaglia piú che l'astuzia e gli
inganni spagnuoli. Non può cosa alcuna diminuire la gloria nostra se
non l'essere noi tanto superiori di numero, e quasi il doppio di
loro; e nondimeno, l'usare questo vantaggio, poiché ce lo ha dato la
fortuna, non sarà attribuito a viltà nostra ma a imprudenza e
temerità loro: i quali non conduce a combattere il cuore o la virtú
ma l'autorità di Fabbrizio Colonna, per le promesse fatte
inconsideratamente a Marcantonio; anzi la giustizia divina, per
castigare con giustissime pene la superbia ed enormi vizi di Giulio
falso pontefice, e tante fraudi e tradimenti usati alla bontà del
nostro re dal perfido re di Aragona. Ma perché mi distendo io piú in
parole? perché con superflui conforti, appresso a soldati di tanta
virtú, differisco io tanto la vittoria quanto di tempo si consuma a
parlare con voi? Fatevi innanzi valorosamente secondo l'ordine dato,
certi che questo dí darà al mio re la signoria a voi le ricchezze di
tutta Italia. Io vostro capitano sarò sempre in ogni luogo con voi
ed esporrò, come sono solito, la vita mia a ogni pericolo;
felicissimo piú che mai fusse alcuno capitano poi che ho a fare, con
la vittoria di questo dí, piú gloriosi e piú ricchi i miei soldati
che mai, da trecento anni in qua, fussino soldati o esercito alcuno.
-
Da queste parole, risonando l'aria di suoni di trombe e di tamburi e
di allegrissimi gridi di tutto l'esercito, cominciorono a muoversi
verso lo alloggiamento degli inimici, distante dal luogo dove
avevano passato il fiume manco di due miglia: i quali, alloggiati
distesi in su la riva del fiume che era loro da mano sinistra, e
fatto innanzi a sé uno fosso tanto profondo quanto la brevità del
tempo aveva permesso (che girando da mano destra cigneva tutto lo
alloggiamento), lasciato aperto per potere uscire co' cavalli a
scaramucciare in su la fronte del fosso uno spazio di venti braccia,
dentro al quale alloggiamento, come sentirno i franzesi cominciare a
passare il fiume, si erano messi in battaglia con questo ordine:
l'avanguardia di ottocento uomini d'arme, guidata da Fabrizio
Colonna, collocata lungo la riva del fiume, e congiunto a quella a
mano destra uno squadrone di seimila fanti: dietro all'avanguardia,
pure lungo il fiume, era la battaglia di secento lancie, e allato
uno squadrone di quattromila fanti, condotta dal viceré, e con lui
il marchese della Palude; e in questa veniva il cardinale de'
Medici, privo per natura in gran parte del lume degli occhi,
mansueto di costumi e in abito di pace, e nelle dimostrazioni e
negli effetti molto dissimile al cardinale di San Severino.
Seguitava dietro alla battaglia, pure in su la riva del fiume, il
retroguardo di quattrocento uomini d'arme condotto da Carvagial
capitano spagnuolo, con lo squadrone allato di quattromila fanti; e
i cavalli leggieri, de' quali era capitano generale Fernando Davalo
marchese di Pescara, ancora giovanetto ma di rarissima espettazione,
erano posti a mano destra alle spalle de' fanti per soccorrere
quella parte che inclinasse: l'artiglierie erano poste alla testa
delle genti d'arme; e Pietro Navarra, che con cinquecento fanti
eletti non si era obligato a luogo alcuno, aveva in sul fosso alla
fronte della fanteria collocato trenta carrette che avevano
similitudine de' carri falcati degli antichi, cariche di artiglierie
minute, con uno spiede lunghissimo sopra esse per sostenere piú
facilmente l'assalto de' franzesi. Col quale ordine stavano fermi
dentro alla fortezza del fosso, aspettando che l'esercito inimico
venisse ad assaltargli: la quale deliberazione come non riuscí utile
nella fine apparí similmente molto nociva nel principio. Perché era
stato consiglio di Fabrizio Colonna che si percotesse negli inimici
quando cominciorno a passare il fiume, giudicando maggiore vantaggio
il combattere con una parte sola che quello che dava loro l'avere
fatto innanzi a sé uno piccolo fosso; ma contradicendo Pietro
Navarra, i cui consigli erano accettati quasi come oracoli dal
viceré, fu deliberato, poco prudentemente, lasciargli passare.
Però, fattisi innanzi i franzesi e già vicini circa dugento braccia
al fosso, come veddeno stare fermi gli inimici né volere uscire
dello alloggiamento si fermorono, per non dare quello vantaggio che
essi cercavano d'avere. Cosí stette immobile l'uno esercito e
l'altro per spazio di piú di due ore; tirando in questo tempo da
ogni parte infiniti colpi d'artiglierie, dalle quali pativano non
poco i fanti de' franzesi per avere il Navarra piantato
l'artiglieria in luogo che molto gli offendeva. Ma il duca di
Ferrara, tirata dietro all'esercito una parte dell'artiglierie, le
condusse con celerità grande alla punta de' franzesi, nel luogo
proprio dove erano collocati gli arcieri: la quale punta, per avere
l'esercito forma curva, era quasi alle spalle degli inimici: donde
cominciò a battergli per fianco ferocemente, e con grandissimo
danno, massime della cavalleria, perché i fanti spagnuoli, ritirati
dal Navarra in luogo basso accanto all'argine del fiume e gittatisi
per suo comandamento distesi in terra, non potevano essere percossi.
Gridava con alta voce Fabbrizio, e con spessissime imbasciate
importunava il viceré, che senza aspettare di essere consumati da'
colpi delle artiglierie si uscisse alla battaglia; ma ripugnava il
Navarra, mosso da perversa ambizione, perché presupponendosi dovere
per la virtú de' fanti spagnuoli rimanere vittorioso, quando bene
fussino periti tutti gli altri, riputava tanto augumentarsi la
gloria sua quanto piú cresceva il danno dell'esercito. Ma era già
tale il danno che nella gente d'arme e ne' cavalli leggieri faceva
l'artiglieria che piú non si poteva sostenere; e si vedevano, con
miserabile spettacolo mescolato con gridi orribili, ora cadere per
terra morti i soldati e i cavalli ora balzare per aria le teste e le
braccia spiccate dal resto del corpo. Però Fabrizio, esclamando: -
abbiamo noi tutti vituperosamente a morire per la ostinazione e per
la malignità di uno marrano? ha a essere distrutto tutto questo
esercito senza che facciamo morire uno solo degli inimici? dove sono
le nostre tante vittorie contro a' franzesi? ha l'onore di Spagna e
di Italia a perdersi per uno Navarro? - spinse fuora del fosso la
sua gente d'arme, senza aspettare o licenza o comandamento del
viceré: dietro al quale seguitando tutta la cavalleria, fu costretto
Pietro Navarra dare il segno a' suoi fanti; i quali, rizzatisi con
ferocia grande, si attaccorono co' fanti tedeschi che già s'erano
approssimati a loro. Cosí mescolate tutte le squadre cominciò una
grandissima battaglia, e senza dubbio delle maggiori che per molti
anni avesse veduto Italia: perché e la giornata del Taro era stata
poco altro piú che uno gagliardo scontro di lancie, e i fatti d'arme
del regno di Napoli furono piú presto disordini o temerità che
battaglie, e nella Ghiaradadda non aveva dell'esercito de' viniziani
combattuto altro che la minore parte; ma qui, mescolati tutti nella
battaglia, che si faceva in campagna piana senza impedimento di
acque o ripari, combattevano due eserciti d'animo ostinato alla
vittoria o alla morte, infiammati non solo dal pericolo dalla gloria
e dalla speranza ma ancora da odio di nazione contro a nazione. E fu
memorabile spettacolo che, nello scontrarsi i fanti tedeschi con gli
spagnuoli, messisi innanzi agli squadroni due capitani molto
pregiati, Iacopo Empser tedesco e Zamudio spagnuolo, combatterono
quasi per provocazione; dove ammazzato lo inimico restò lo spagnuolo
vincitore. Non era, per l'ordinario, pari la cavalleria
dell'esercito della lega alla cavalleria de' franzesi, e l'avevano
il dí conquassata e lacerata in modo l'artiglierie che era diventata
molto inferiore: però, poi che ebbe sostentato per alquanto spazio
di tempo piú col valore del cuore che colle forze l'impeto degli
inimici, e sopravenendo addosso a loro per fianco Ivo d'Allegri col
retroguardo e co' mille fanti lasciati al Montone, chiamato dal la
Palissa, e preso già da' soldati del duca di Ferrara Fabbrizio
Colonna mentre che valorosamente combatteva, non potendo piú
resistere voltò le spalle; aiutata anche dall'esempio de' capitani,
perché il viceré e Carvagial, non fatta l'ultima esperienza della
virtú de' suoi, si messono in fuga conducendone quasi intero il
terzo squadrone; e con loro fuggí Antonio De Leva, uomo allora di
piccola condizione ma che poi, esercitato per molti anni in tutti i
gradi della milizia, diventò chiarissimo capitano. Erano già stati
rotti tutti i cavalli leggieri e preso il marchese di Pescara loro
capitano, pieno di sangue e di ferite; preso il marchese della
Palude, il quale per uno campo pieno di fosse e di pruni aveva
condotto alla battaglia con disordine grande il secondo squadrone;
coperto il terreno di cavalli e d'uomini morti; e nondimeno la
fanteria spagnuola, abbandonata da' cavalli, combatteva con
incredibile ferocia; e se bene nel primo scontro co' fanti tedeschi
era stata alquanto urtata dall'ordinanza ferma delle picche,
accostatasi poi a loro alla lunghezza delle spade, e molti degli
spagnuoli coperti dagli scudi entrati co' pugnali tra le gambe de'
tedeschi, erano con grandissima uccisione pervenuti già quasi a
mezzo lo squadrone. Presso a' quali i fanti guasconi, occupata la
via tra il fiume e l'argine, avevano assaltato i fanti italiani; i
quali, benché avessino patito molto dall'artiglieria, nondimeno gli
rimettevano con somma laude se con una compagnia di cavalli non
fusse entrato tra loro Ivo d'Allegri: con maggiore virtú che
fortuna, perché essendogli quasi subito ucciso innanzi agli occhi
propri Viverroé, suo figliuolo, egli non volendo sopravivere a tanto
dolore, gittatosi col cavallo nella turba piú stretta degli inimici,
combattendo come si conveniva a fortissimo capitano e avendone già
morti di loro, fu ammazzato. Piegavano i fanti italiani non potendo
resistere a tanta moltitudine, ma una parte de' fanti spagnuoli,
corsa al soccorso loro, gli fermò nella battaglia; e i fanti
tedeschi, oppressi dall'altra parte degli spagnuoli, a fatica
potevano piú resistere: ma essendo già fuggita tutta la cavalleria,
si voltò loro addosso Fois con grande moltitudine di cavalli; per il
che gli spagnuoli, piú tosto ritraendosi che scacciati dalla
battaglia, non perturbati in parte alcuna gli ordini loro, entrati
in su la via che è tra il fiume e l'argine, camminando di passo e
con la fronte stretta, e però per la fortezza di quella ributtando i
franzesi, cominciorono a discostarsi. Nel qual tempo il Navarra,
desideroso piú di morire che di salvarsi e però non si partendo
dalla battaglia, rimase prigione. Ma non potendo comportare Fois che
quella fanteria spagnuola se ne andasse, quasi come vincitrice,
salva nell'ordinanza sua, e conoscendo non essere perfetta la
vittoria se questi come gli altri non si rompevano, andò
furiosamente ad assaltargli con una squadra di cavalli, percotendo
negli ultimi; da' quali attorniato e gittato da cavallo o, come
alcuni dicono, essendogli caduto mentre combatteva il cavallo
addosso, ferito d'una lancia in uno fianco fu ammazzato: e se, come
si crede, è desiderabile il morire a chi è nel colmo della maggiore
prosperità, morte certo felicissima, morendo acquistata già sí
gloriosa vittoria. Morí di età molto giovane, e con fama singolare
per tutto il mondo, avendo in manco di tre mesi, e prima quasi
capitano che soldato, con incredibile celerità e ferocia ottenuto
tante vittorie. Rimase in terra appresso a lui con venti ferite
Lautrech, quasi per morto; che poi, condotto a Ferrara, per la
diligente cura de' medici salvò la vita.
Per la morte di Fois furno lasciati andare senza molestia alcuna i
fanti spagnuoli: il rimanente dell'esercito era già dissipato e
messo in fuga, presi i carriaggi, prese le bandiere e l'artiglierie,
preso il legato del pontefice, il quale dalle mani degli stradiotti
venuto in potestà di Federico da Bozzole fu da lui presentato al
legato del concilio; presi Fabrizio Colonna Pietro Navarra il
marchese della Palude quello di Bitonto il marchese di Pescara e
molti altri signori e baroni e onorati gentiluomini spagnuoli e del
regno di Napoli. Niuna cosa è piú incerta che il numero de' morti
nelle battaglie; nondimeno, nella varietà di molti, si afferma piú
comunemente che trall'uno esercito e l'altro morirno almeno
diecimila uomini, il terzo de' franzesi i due terzi degli inimici;
altri dicono di molti piú, ma senza dubbio quasi tutti i piú
valorosi e piú eletti, tra' quali, degli ecclesiastici, Raffaello
de' Pazzi condottiere di chiaro nome; e moltissimi feriti. Ma in
questa parte fu senza comparazione molto maggiore il danno del
vincitore per la morte di Fois, di Ivo d'Allegri e di molti uomini
della nobiltà franzese; il capitano Iacob, e piú altri valorosi
capitani della fanteria tedesca, alla virtú della quale si riferiva,
ma con prezzo grande del sangue loro, in non piccola parte la
vittoria; molti capitani, insieme con Molard, de' guasconi e de'
piccardi: le quali nazioni perderono, quel dí, appresso a' franzesi
tutta la gloria loro. Ma tutto il danno trapassò la morte di Fois,
col quale mancò del tutto il nervo e la ferocia di quello esercito.
De' vinti che si salvorno nella battaglia fuggí la maggiore parte
verso Cesena, onde fuggivano ne' luoghi piú distanti; né il viceré
si fermò prima che in Ancona, ove pervenne accompagnato da
pochissimi cavalli. Furonne svaligiati e morti molti nella fuga,
perché e i paesani correvano per tutto alle strade, e il duca di
Urbino, il quale, mandato molti dí prima Baldassarre da Castiglione
al re di Francia, e avendo uomini propri appresso a Fois, si credeva
che occultamente avesse convenuto contro al zio, non solo suscitò
contro a quegli che fuggivano gli uomini del paese ma mandò soldati
a fare il medesimo nel territorio di Pesero: sole quelle che
fuggirono per le terre de' fiorentini, per comandamento degli
ufficiali, e poi della republica, passorno illese.
Ritornato l'esercito vincitore agli alloggiamenti, i ravennati
mandorno subito ad arrendersi: ma, o mentre che convengono o che già
convenuto attendono a ordinare vettovaglie per mandarle nel campo,
intermessa la diligenza del guardare le mura, i fanti tedeschi e
guasconi, entrati per la rottura del muro battuto nella terra,
crudelissimamente la saccheggiorno; accendendogli a maggiore
crudeltà, oltre all'odio naturale contro al nome italiano, lo sdegno
del danno ricevuto nella giornata. Lasciò, il quarto dí poi,
Marcantonio Colonna la cittadella nella quale si era rifuggito,
salve le persone e la roba; ma promettendo all'incontro insieme con
gli altri capitani, di non prendere piú arme né contro al re di
Francia né contro al concilio pisano insino alla festività prossima
di Maria Maddalena: né molti dí poi, 'l vescovo Vitello preposto con
cento cinquanta fanti alla rocca, concedutagli la medesima facoltà,
consentí di darla. Seguitorno la fortuna della vittoria le città di
Imola di Furlí di Cesena e di Rimini, e tutte le rocche della
Romagna, eccetto quelle di Furlí e di Imola: le quali tutte furno
ricevute dal legato in nome del concilio pisano. Ma l'esercito
franzese, rimasto per la morte di Fois e per tanto danno ricevuto
come attonito, dimorava oziosamente quattro miglia appresso a
Ravenna; e incerti il legato e la Palissa (ne' quali era pervenuto
il governo, perché Alfonso da Esti se ne era già ritornato a
Ferrara) quale fusse la volontà del re, aspettavano le sue
commissioni, non essendo anche appresso a' soldati di tanta autorità
che fusse bastante a fare muovere l'esercito, implicato nel
dispensare o mandare in luoghi sicuri le robe saccheggiate, e
indeboliti tanto di forze e di animo per la vittoria acquistata con
tanto sangue che parevano piú simili a vinti che vincitori; onde
tutti i soldati con lamenti e con lacrime chiamavano il nome di
Fois; il quale, non impediti né spaventati da cosa alcuna, arebbono
seguitato per tutto. Né si dubitava che, tirato dallo impeto della
sua ferocia e dalle promesse fattegli, secondo si diceva, dal re,
che a lui si acquistasse il reame di Napoli, sarebbe, subito dopo la
vittoria, con la consueta celerità corso a Roma, e che il pontefice
e gli altri, non avendo alcuna altra speranza di salvarsi, si
sarebbeno precipitosamente messi in fuga.
Lib.10, cap.14
I cardinali premono sul pontefice per indurlo alla pace; per la
deliberazione contraria insistono gli ambasciatori del re d'Aragona
e de' veneziani; incertezza del pontefice piú propenso alla guerra
che alla pace. Fuggevoli speranze di pace. Il pontefice incoraggiato
dall'allontanarsi della minaccia francese. Si apre il concilio
lateranense.
Pervenne la nuova della rotta a Roma il terzodecimo dí di aprile;
portata da Ottaviano Fregoso che corse co' cavalli delle poste da
Fossombrone, e sentita con grandissima paura e tumulto da tutta la
corte. Però i cardinali, concorsi subitamente al pontefice, lo
strignevano con sommi prieghi che, accettando la pace la quale non
diffidavano potersi ottenere assai onesta dal re di Francia, si
disponesse a liberare oramai la sedia apostolica e la persona sua da
tanti pericoli: avere affaticato assai per la esaltazione della
Chiesa e per la libertà d'Italia, e acquistato gloria anche della
sua santa intenzione; essergli stata, in cosí pietosa impresa,
avversa, come si era veduto per tanti segni, la volontà di Dio, alla
quale volersi opporre non essere altro che mettere tutta la Chiesa
in ultima ruina: appartenere piú a Dio che a lui la cura della sua
sposa; però rimettessesene alla volontà sua e, abbracciando la pace
secondo il precetto dello evangelio, traesse di tanti affanni la sua
vecchiezza, lo stato della Chiesa e tutta la sua corte, che non
bramava né gridava altro che pace: essere da credere che già i
vincitori si fussino mossi per venire a Roma, co' quali sarebbe
congiunto il suo nipote; congiugnerebbonsi medesimamente Ruberto
Orsino Pompeio Colonna Antimo Savello Pietro Margano e Renzo Mancino
(questi si sapeva che, ricevuti danari dal re di Francia, si
preparavano, insino innanzi alla giornata, per molestare Roma): a'
quali pericoli che altro rimedio essere che la pace? Da altra parte,
gli imbasciadori del re d'Aragona e del senato viniziano facevano in
contrario gravissima instanza, sforzandosi persuadergli non essere
le cose tanto afflitte né ridotte in tanto esterminio, né cosí
dissipato l'esercito che non si potesse in brevissimo tempo né con
grave spesa riordinare: sapersi pure, il viceré essersi salvato con
la maggiore parte de' cavalli; essersi partita dal fatto d'arme
ristretta insieme in ordinanza la fanteria spagnuola, la quale se
fusse salva, come era verisimile, ogni altra perdita essere di
piccolo momento; né aversi da temere che i franzesi potessino venire
verso Roma cosí presto che non avesse tempo a provedersi, perché era
necessario che alla morte del capitano fussino accompagnati molti
disordini e molti danni, ed essere per tenergli sospesi il sospetto
de' svizzeri, i quali non essere piú da dubitare che si
dichiarerebbono per la lega e scenderebbono in Lombardia; né si
potere sperare di ottenere la pace dal re di Francia se non con
condizioni ingiustissime e piene di infamia, e aversi a ricevere
anche le leggi dalla superbia di Bernardino Carvagial e dalla
insolenza di Federigo da San Severino: però, ogn'altra cosa essere
migliore che con tanta indignità e con tanta infamia mettersi, sotto
nome di pace, in acerbissima e infedelissima servitú, perché non
cesserebbeno mai quegli scismatici di perseguitare la degnità e la
vita sua; essere molto minore male, quando pure non si potesse fare
altrimenti, abbandonare Roma e ridursi con tutta la corte o nel
reame di Napoli o a Vinegia, dove starebbe con la medesima sicurtà e
onore e con la medesima grandezza; perché con la perdita di Roma non
si perdeva il pontificato, annesso sempre in qualunque luogo alla
persona del pontefice: ritenesse pure la solita costanza e
magnanimità; perché Dio, scrutatore de' cuori degli uomini, non
mancherebbe d'aiutare il santissimo proposito suo né abbandonerebbe
la navicella di Pietro, solita a essere vessata dalle onde del mare
ma non giammai a sommergersi; e i príncipi cristiani, concitati dal
zelo della religione e dal timore della troppa grandezza del re di
Francia, piglierebbeno con tutte le forze e con le persone proprie
la sua difesa. Le quali cose udiva il pontefice con somma ambiguità
e sospensione, e in modo che si potesse facilmente comprendere,
combattere in lui da una parte l'odio lo sdegno e la pertinacia
insolita a essere vinta o a piegarsi, dall'altra il pericolo e il
timore; e si comprendeva anche, per le risposte faceva
agl'imbasciadori, non gli essere tanto molesto lo abbandonare Roma
quanto il non potere ridursi in luogo alcuno dove non fusse in
potestà d'altri: però rispondeva a' cardinali volere la pace,
consentendo si ricercassino i fiorentini che se ne interponessino
col re di Francia, e nondimeno non ne rispondeva con tale
risoluzione né con parole tanto aperte che facessino piena fede
della sua intenzione; aveva fatto venire da Civitavecchia il Biascia
genovese, capitano delle sue galee, onde si interpetrava che e'
pensasse a partirsi da Roma, e poco di poi l'aveva licenziato;
ragionava di soldare quegli baroni romani che non erano nella
congiura con gli altri, udiva volentieri i conforti de' due
imbasciadori ma rispondendo il piú delle volte parole contumeliose e
piene di sdegno. Nel qual tempo sopravenne Giulio de' Medici
cavaliere di Rodi, che fu poi pontefice, il quale il cardinale
Medici, ottenuta licenza dal cardinale Sanseverino, mandava
dall'esercito, in nome per raccomandarsegli in tanta calamità ma in
fatto per riferirgli lo stato delle cose: da cui avendo inteso
pienamente quanto fussino indeboliti i Franzesi, di quanti capitani
fussino privati, quanto valorosa gente avessino perduta, quanti
fussino quegli che per molti dí erano inutili per le ferite, guasti
infiniti cavalli, dissipata parte dello esercito in vari luoghi per
il sacco di Ravenna, i capitani sospesi e incerti della volontà del
re, né molto concordi tra loro perché la Palissa recusava di
comportare la insolenza di San Severino che voleva fare l'officio di
legato e di capitano, sentirsi occulti mormorii della venuta de'
svizzeri né vedersi segno alcuno che quello esercito fusse per
muoversi presto, dalla quale relazione confortato molto il
pontefice, introdottolo nel concistorio gli fece riferire a'
cardinali le cose medesime. E si aggiunse che il duca d'Urbino, quel
che lo movesse, mutato consiglio, gli mandò a offerire dugento
uomini d'arme e quattromila fanti. Perseveravano nondimeno i
cardinali a stimolarlo alla pace: dalla quale benché con le parole
non si dimostrasse alieno, aveva nondimeno nell'[animo di non
l']accettare se non per ultimo e disperato rimedio; anzi, quando
bene al male presente non si dimostrasse medicina presente, aderiva
piú tosto al fuggire di Roma, pure che non rimanesse al tutto
disperato che e dall'armi de' príncipi avesse a essere aiutata la
causa sua e specialmente che i svizzeri si movessino; i quali,
dimostrandosi inclinati a' suoi desideri, aveano molti dí innanzi
vietato agli imbasciadori del re di Francia di andare al luogo nel
quale, per determinare sopra le dimande del pontefice, convenivano i
deputati da tutti i cantoni.
Lampeggiò in questo stato alcuna speranza della pace. Perché il re
di Francia, innanzi si facesse la giornata, commosso da tanti
pericoli che gli soprastavano da tante parti e sdegnato dalla
varietà di Cesare e dalle dure leggi gli proponeva, e perciò
finalmente deliberato di cedere piú tosto in molte cose alla volontà
del pontefice, aveva occultamente mandato Fabrizio Carretta fratello
del cardinale del Finale a' cardinali di Nantes e di Strigonia, che
mai del tutto avevano abbandonati i ragionamenti della concordia,
proponendo essere contento che Bologna si rendesse al pontefice, che
Alfonso da Esti gli desse Lugo e tutte l'altre terre teneva nella
Romagna, obligassesi al censo antico e che piú non si facessino sali
nelle sue terre, e che si estinguesse il concilio pisano; non
dimandando dal pontefice altro che la pace solamente con lui, che
Alfonso da Esti fusse assoluto dalle censure e reintegrato nelle
antiche ragioni e privilegi suoi, che a' Bentivogli, i quali
stessino in esilio, fussino riservati i beni propri, e restituiti
alle degnità i cardinali e prelati che aveano aderito al concilio:
le quali condizioni, benché i due cardinali temessino che essendo di
poi succeduta la vittoria non fussino piú consentite dal re, né
ardirono proporle in altra maniera, né egli, essendo tanto onorate
per lui, né volendo ancora manifestare quella occulta deliberazione
che aveva nell'animo, potette recusarle; anzi forse giudicò essere
piú utile ingegnarsi di fermare con questi ragionamenti l'armi del
re, per avere maggiore spazio di tempo a vedere i progressi di
coloro ne’ quali si collocavano le reliquie delle speranze sue.
Però, facendo del medesimo instanza tutti i cardinali, sottoscrisse,
il nono dí dalla giornata, questi capitoli, aggiugnendo a' cardinali
la fede di accettargli se il re gli confermava; e al cardinale del
Finale, che dimorava in Francia, ma assente, per non offendere il
pontefice, dalla corte, e al vescovo di Tivoli, il quale teneva in
Avignone il luogo del legato, commesse per lettere si trasferissino
al re per trattare queste cose; ma non espedí loro né mandato né
possanza di conchiuderle.
Insino a questo termine procedettono i mali del pontefice, insino a
questo dí fu il colmo delle sue calamità e de' suoi pericoli: ma
dopo quel dí cominciorno a dimostrarsi continuamente le speranze
maggiori, e a volgersi alla grandezza sua, senza alcuno freno, la
ruota della fortuna. Dette principio a tanta mutazione la partita
subita del la Palissa di Romagna; il quale, richiamato dal generale
di Normandia per il romore che cresceva della venuta de' svizzeri,
si mosse coll'esercito verso il ducato di Milano, lasciati in
Romagna, sotto il legato del concilio, trecento lancie trecento
cavalli leggieri e seimila fanti con otto pezzi grossi di
artiglieria: e rendeva maggiore il timore che s'aveva de' svizzeri
che il medesimo generale, pensando piú a farsi grato al re che a
fargli beneficio, aveva, contro a quel che ricercavano le cose
presenti, licenziati imprudentemente, subito che fu acquistata la
vittoria, i fanti italiani e una parte de' franzesi. La partita del
la Palissa assicurò il pontefice da quel timore che piú gli premeva,
confermollo nella pertinacia e gli dette facilità di fermare le cose
di Roma; per le quali aveva soldati alcuni baroni di Roma con
trecento uomini d'arme, e trattava di fare capitano generale
Prospero Colonna: perché, indeboliti gli animi di chi tentava cose
nuove, Pompeio Colonna che si preparava a Montefortino consentí,
interponendosene Prospero, di diporre, per sicurtà del pontefice, in
mano di Marcantonio Colonna Montefortino, ritenendosi bruttamente i
danari avuti dal re di Francia; onde e Ruberto Orsino, che prima era
venuto da Pitigliano nelle terre de' Colonnesi per muovere l'armi,
ritenendosi medesimamente i danari avuti dal re, concordò poco poi
per mezzo di Giulio Orsino, ricevuto dal pontefice in premio della
sua perfidia l'arcivescovado di Reggio nella Calavria. Solo Pietro
Margano si vergognò di ritenere i danari pervenuti a lui: con
consiglio migliore e piú fortunato, perché, non molto tempo di poi,
preso nella guerra dal successore del presente re, arebbe col
supplicio debito pagata la pena della fraude.
Dalle quali cose confermato molto l'animo del pontefice, poi che
cessava il timore presente degli inimici forestieri e de' domestici,
dette il terzo dí di maggio, con grandissima solennità, principio al
concilio nella chiesa di San Giovanni in Laterano, già certo che non
solo vi concorrerebbe la maggiore parte di Italia, ma la Spagna
l'Inghilterra e l'Ungheria. Al quale principio intervenne egli
personalmente in abito pontificale, accompagnato dal collegio de'
cardinali e da moltitudine grande di vescovi; ove celebrata, oltre a
molte altre preci, secondo il costume antico, la messa dello Spirito
santo, ed esortati con una publica orazione i Padri a intendere con
tutto il cuore al bene publico e alla degnità della cristiana
religione, fu dichiarato, per fare fondamento all'altre cose che in
futuro s’aveano a statuire, il concilio congregato essere vero,
legittimo e santo concilio, e in quello risedere indubitatamente
tutta l'autorità e potestà della Chiesa universale: cerimonie
bellissime e santissime, e da penetrare insino nelle viscere de'
cuori degli uomini, se tali si credesse che fussino i pensieri e i
fini degli autori di queste cose quali suonano le parole.
Lib.10, cap.15
Il re di Francia sempre piú disposto alla pace col pontefice. Il
pontefice continua invece ad ostacolarla. Ossequi al cardinale de'
Medici prigione in Milano e legato apostolico. Il re di Francia
richiama le milizie nel ducato di Milano e rinnova la confederazione
co' fiorentini.
Cosí, dopo la battaglia di Ravenna, procedeva il pontefice. Ma il re
di Francia, con tutto che la letizia della vittoria perturbasse
alquanto la morte di Fois, amatissimo da lui, comandò subito che il
legato e la Palissa conducessino l'esercito quanto piú presto si
poteva a Roma: nondimeno, raffreddato il primo ardore, incominciò a
ritornare con tutto l'animo al desiderio della pace, parendogli che
troppo grave tempesta e da troppe parti sopravenisse alle cose sue.
Perché se bene Cesare continuasse nel promettere di volere stare
congiunto con lui, affermando la tregua fatta co' viniziani in suo
nome essere stata fatta senza suo consentimento e che non la
ratificherebbe, nondimeno al re, oltre al timore della sua
incostanza e il non essere certo che queste cose non fussino dette
simulatamente, pareva avere, per le condizioni dimandava, compagno
grave alla guerra e dannoso alla pace; perché credeva che la
interposizione sua l'avesse a necessitare a consentire a piú indegne
condizioni: e oltre a questo non dubitava piú i svizzeri avere a
essere congiunti con gli avversari; e dal re di Inghilterra
aspettava la guerra certa, perché quel re aveva mandato uno araldo a
intimargli che pretendeva essere finite tutte le confederazioni e
convenzioni che erano tra loro, perché in tutte si comprendeva
l'eccezione: “pure che e' non facesse guerra né con la Chiesa né col
re cattolico suo suocero”. Perciò il re intese con piacere grande
essere stati ricercati i fiorentini che si interponessino alla pace,
mandò subitamente a Firenze con amplissimo mandato il presidente di
Granopoli, perché trattasse di luogo piú propinquo, e acciò che, se
cosí fusse espediente, potesse andare a Roma; e dipoi intesa per la
sottoscrizione de' capitoli la inclinazione, come pareva, piú pronta
del pontefice, si inclinò interamente alla pace: benché temendo che
per la partita dell'esercito non ritornasse alla pertinacia
consueta, commesse al la Palissa, che già era pervenuto a Parma, che
con parte delle genti ritornasse subito in Romagna e che spargesse
voci d'avere a procedere piú oltre. Parevagli grave il concedere
Bologna, non tanto per la instanza che in nome di Cesare gli era
fatta in contrario quanto perché temeva che, eziandio fatta la pace,
non rimanesse il medesimo animo del pontefice contro a lui; e però
essergli dannoso il privarsi di Bologna, la quale difendeva come
bastione e propugnacolo del ducato di Milano: e oltre a questo,
essendo venuti il cardinale del Finale e il vescovo di Tivoli senza
mandato a conchiudere, come circondato allora il papa da tante
angustie e pericoli, pareva conveniente segno che simulatamente
avesse consentito. Nondimeno, ultimatamente, deliberò accettare i
capitoli predetti, con alcune limitazioni ma non tali che turbassino
le cose sostanziali: con la quale risposta andò a Roma il secretario
del vescovo di Tivoli, ricercando in nome [del re] che 'l pontefice
o mandasse il mandato per conchiudere al vescovo predetto e al
cardinale o che chiamasse da Firenze il presidente di Granopoli, il
quale aveva l'autorità amplissima di fare il medesimo.
Ma nel pontefice augumentavano ogni dí le speranze, e per
conseguente diminuiva se inclinazione alcuna aveva avuta alla pace.
Era arrivato il mandato del re di Inghilterra per il quale, spedito
insino di novembre, dava facoltà al cardinale eboracense d'entrare
nella lega; tardato tanto a venire per il lungo circuito marittimo,
perché prima era stato in Spagna: e Cesare, di nuovo, dopo lunghe
dubitazioni, aveva ratificato la tregua fatta co' viniziani,
accendendolo sopra tutto a questo le speranze dategli dal re
cattolico e dal re di Inghilterra sopra il ducato di Milano e la
Borgogna, e mandato Alberto Pio a Vinegia. Confermorno medesimamente
non mediocremente la speranza del pontefice le speranze grandissime
dategli dal re di Aragona; il quale, avendo avuta la prima notizia
della rotta per lettere del re di Francia scritte alla reina (per le
quali gli significava, Gastone di Fois suo fratello essere morto con
somma gloria in una vittoria avuta contro agli inimici), e dipoi piú
partitamente per gli avvisi de' suoi medesimi, i quali per le
difficoltà del mare pervenivano tardamente, e parendogli che il
reame di Napoli ne rimanesse in grave pericolo, aveva deliberato di
mandare in Italia con supplemento di nuove genti il gran capitano:
al quale rimedio ricorreva per la scarsità degli altri rimedi,
perché, benché estrinsecamente l'onorasse, gli era per le cose
passate nel regno napoletano poco accetto, e per la grandezza e
autorità sua sospetto. Adunque, quando al pontefice confermato da
tante cose pervenne il secretario del vescovo di Tivoli co' capitoli
trattati, e dandogli speranze che anche le limitazioni aggiunte dal
re per moderare l'infamia dell'abbandonare la protezione di Bologna
si ridurrebbono alla sua volontà, deliberato al tutto non gli
accettare, ma rispetto alla sottoscrizione sua e alla fede data al
collegio simulando il contrario, come contro alla fama della sua
veracità usava qualche volta di fare, gli fece leggere nel
concistorio, dimandando consiglio da' cardinali. Dopo le quali
parole il cardinale arborense spagnuolo e il cardinale eboracense
(aveano cosí prima occultamente convenuto con lui), parlando l'uno
in nome del re d'Aragona l'altro in nome del re di Inghilterra,
confortorno il pontefice a perseverare nella costanza, né
abbandonare la causa della Chiesa che con tanta degnità aveva
abbracciata, essendo già cessate le necessità che l'aveano mosso a
prestare l'orecchie a questi ragionamenti, e vedendosi
manifestamente che Dio, che per qualche fine incognito a noi aveva
permesso che la navicella sua fusse travagliata dal mare, non voleva
che la perisse; né essere conveniente né giusto fare pace per sé
particolarmente e, avendo a essere comune, trattarla senza
partecipazione degli altri confederati ricordandogli in ultimo che
diligentemente considerasse quanto pregiudicio potesse essere alla
sedia apostolica e a sé l'alienarsi dagli amici veri e fedeli per
aderire agli inimici riconciliati. Da' quali consigli dimostrando il
pontefice essere mosso recusò apertamente la concordia, e pochi dí
poi, procedendo coll'impeto suo, pronunziò nel concistorio uno
monitorio al re di Francia che rilasciasse, sotto le pene ordinate
da' sacri canoni, il cardinale de' Medici: benché consentí che si
soprasedesse a publicarlo, perché il collegio de' cardinali,
pregandolo differisse quanto poteva i rimedi severissimi, s'offerse
scrivere al re in nome di tutti, confortandolo e supplicandolo che,
come principe cristianissimo, lo liberasse. Era il cardinale de'
Medici stato menato a Milano, dove era onestamente custodito; e
nondimeno, con tutto che fusse in potestà di altri, riluceva nella
persona sua l'autorità della sedia apostolica e la riverenza della
religione, e nel tempo medesimo il dispregio del concilio pisano; la
causa de' quali abbandonavano, con la divozione e con la fede, non
solo gli altri ma coloro ancora che l'aveano accompagnata e favorita
con l'armi. Perché avendo il pontefice mandatogli facoltà di
assolvere dalle censure i soldati che promettessino di non andare
coll'armi piú contro alla Chiesa, e di concedere a tutti i morti,
per i quali fusse dimandata, la sepoltura ecclesiastica, era
incredibile il concorso e maravigliosa la divozione con la quale
queste cose si dimandavano e promettevano; non contradicendo i
ministri del re, ma con gravissima indegnazione de' cardinali, che
innanzi agli occhi loro, nel luogo proprio ove era la sedia del
concilio, i sudditi e i soldati del re, contro all'onore e utilità
sua e nelle sue terre, vilipesa totalmente l'autorità del concilio,
aderissino alla Chiesa romana, riconoscendo con somma riverenza il
cardinale prigione come apostolico legato.
Per la tregua ratificata da Cesare, ancora che gli agenti suoi che
erano in Verona la negassino, revocò il re di Francia parte delle
genti che aveva alla guardia di quella città come se piú non vi
fussino necessarie, e perché, avendo richiamato di là da' monti per
le minaccie del re di Inghilterra i dugento gentiluomini, gli
arcieri della sua guardia e dugento altre lancie, conosceva, per il
sospetto che augumentava de' svizzeri, avere bisogno di maggiore
presidio nel ducato di Milano. E per la medesima cagione aveva
astretti i fiorentini a mandargli in Lombardia trecento lancie, come
per la difesa degli stati suoi di Italia erano tenuti per i patti
della confederazione; la quale perché finiva fra due mesi, gli
costrinse, essendo ancora fresca la riputazione della vittoria, a
confederarsi di nuovo seco per cinque anni, obligandosi alla difesa
dello stato loro con secento lancie, e i fiorentini promettendogli
all'incontro quattrocento uomini d'arme per la difesa di tutto
quello possedeva in Italia: benché, per fuggire ogni occasione di
implicarsi in guerra col papa, eccettuorno dall'obligazione generale
della difesa la terra di Cotignuola, come se la Chiesa vi potesse
pretendere ragione.
Lib.10, cap.16
Gli svizzeri, accettato il soldo del pontefice, si radunano a Coira.
Le forze francesi fortemente diminuite in Italia. I fanti tedeschi
per intimazione di Massimiliano abbandonano l'esercito francese. I
francesi si ritirano dal ducato di Milano. Il cardinale de' Medici
liberato dai paesani di Pieve del Cairo. Le città del ducato
costrette a pagare taglie agli svizzeri. Mutamenti politici dopo la
ritirata dei francesi.
Ma già sopragiugnevano apertamente alle cose del re gravissimi
pericoli; perché i svizzeri aveano finalmente deliberato di
concedere seimila fanti agli stipendi del pontefice, che gli aveva
dimandati sotto nome di usare l'opera loro contro a Ferrara, non
avendo quegli che sostenevano le parti del re di Francia potuto
ottenere altro che ritardare la deliberazione insino a quel dí.
Contro a' quali con furore grande esclamava nelle diete la
moltitudine, accesa di odio maraviglioso contro al nome del re di
Francia: non essere bastata a quel re la ingratitudine di avere
negato di accrescere piccola quantità alle pensioni di coloro con la
virtú e col sangue de' quali aveva acquistata tanta riputazione e
tanto stato, che oltre a questo avesse con parole contumeliosissime
dispregiata la loro ignobilità, come se al principio non avessino
avuta tutti gli uomini una origine e uno nascimento medesimo, e come
se alcuno fusse al presente nobile e grande che in qualche tempo i
suoi progenitori non fussino stati poveri ignobili e umili; avere
cominciato a soldare i fanti lanzchenech per dimostrare di non gli
essere necessaria piú nella guerra l'opera loro, persuadendosi che
essi, privati del soldo suo, avessino oziosamente a tollerare di
essere consumati dalla fame in quelle montagne: però doversi
dimostrare a tutto il mondo vani essere stati i suoi pensieri false
le persuasioni nociva solamente a lui la ingratitudine, né potere
alcuna difficoltà ritenere gli uomini militari che non dimostrassino
il suo valore, e che finalmente l'oro e i danari servivano a chi
aveva il ferro e l'armi; ed essere necessario fare intendere una
volta a tutto 'l mondo quanto imprudentemente discorreva chi alla
nazione degli elvezi preponeva i fanti tedeschi. Traportavagli tanto
questo ardore che, trattando la causa come propria, si partivano da
casa ricevuto solamente uno fiorino di Reno per ciascuno; ove prima
non movevano a' soldi del re se a' fanti non erano promesse molte
paghe e a' capitani fatti molti doni. Congregavansi a Coira terra
principale de' grigioni; i quali, confederati del re di Francia da
cui ricevevano ordinariamente pensioni, aveano mandato a scusarsi
che per l'antiche leghe che aveano co' cantoni piú alti de' svizzeri
non potevano recusare di mandare con loro certo numero di fanti.
Perturbava molto gli animi de' franzesi questo moto, le forze de'
quali erano molto diminuite: perché, poi che il generale di
Normandia ebbe cassati i fanti italiani, non aveano oltre a
diecimila fanti; ed essendo passate di là da' monti le genti d'arme
che aveva richiamate il re, non rimanevano loro in Italia piú che
mille trecento lancie, delle quali trecento erano a Parma. E
nondimeno il generale di Normandia, facendo piú l'ufficio di
tesoriere che d'uomo di guerra, non consentiva si soldassino nuovi
fanti senza la commissione del re; ma aveano fatto ritornare a
Milano le genti che, per passare sotto la Palissa in Romagna, erano
già pervenute al Finale, e ordinato che il cardinale di San Severino
facesse il medesimo con quelle che erano in Romagna. Per la partita
delle quali, Rimini e Cesena con le loro rocche e insieme Ravenna
tornorono senza difficoltà all'ubbidienza del pontefice: né volendo
i franzesi sprovedere il ducato di Milano, Bologna, per
sostentazione della quale si erano ricevute tante molestie, rimaneva
come abbandonata in pericolo.
Vennono i svizzeri, come furno congregati, da Coira a Trento; avendo
conceduto loro Cesare che passassino per il suo stato: il quale,
ingegnandosi di coprire al re di Francia quanto poteva quel che già
avea deliberato, affermava non poteva per la confederazione che avea
con loro vietare il passo. Da Trento vennono nel veronese dove gli
aspettava l'esercito de' viniziani, i quali concorrevano insieme col
pontefice agli stipendi loro: e con tutto non vi fusse tanta
quantità di danari che bastasse a pagargli tutti, perché erano,
oltre al numero dimandato, piú di seimila, era tanto ardente l'odio
della moltitudine contro al re di Francia che contro alla loro
consuetudine tolleravano pazientemente tutte le difficoltà.
Dall'altra parte, la Palissa era venuto prima coll'esercito a
Pontoglio per impedire il passo, credendo volessino scendere in
Italia da quella parte; dipoi, veduto altra essere la loro
intenzione, si era fermato a Castiglione dello Striviere, terra
vicina a sei miglia a Peschiera: incerti quali fussino i pensieri
de' svizzeri, o di andare come si divulgava verso Ferrara o di
assaltare il ducato di Milano. La quale incertitudine accelerò forse
i mali che sopravennero, perché non si dubita che arebbono seguitato
il cammino verso il ferrarese se non gli avesse fatto mutare
consiglio una lettera intercetta, per mala sorte de' franzesi, dagli
stradiotti de' viniziani; per la quale la Palissa, significando lo
stato delle cose al generale di Normandia rimasto a Milano,
dimostrava essere molto difficile il resistere loro se si volgessino
a quel [cammino]: sopra la quale lettera consultato insieme il
cardinale sedunense, che era venuto da Vinegia, e i capitani
deliberorono, con ragione che rare volte è fallace, volgersi a
quella impresa la quale comprendevano essere piú molesta agli
inimici. Però andorono da Verona a Villafranca, dove si unirono con
l'esercito viniziano; nel quale sotto il governo di Giampaolo
Baglione erano quattrocento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri
e seimila fanti, con molti pezzi di artiglieria atti
all'espugnazione delle terre e alla campagna. Fu questo causa che la
Palissa, abbandonata Valeggio perché era luogo debole, si ritirò a
Gambara con intenzione di fermarsi a Pontevico; non avendo nello
esercito piú che sei o settemila fanti, perché gli altri erano
distribuiti tra Brescia, Peschiera e Lignago, né piú che mille
lancie; perché, se bene fusse stato inclinato a richiamare le
trecento che erano a Parma, l'aveva il pericolo manifestissimo di
Bologna costretto, dopo grandissima instanza de' Bentivogli, a
ordinare che entrassino in quella città, restata quasi senza
presidio. Quivi accorgendosi tardi de' pericoli loro e della vanità
delle speranze dalle quali erano stati ingannati, e sopratutto
lacerando l'avarizia e i cattivi consigli del generale di Normandia,
lo costrinsono a consentire che Federigo da Bozzole e certi altri
capitani italiani soldassino con piú prestezza potessino seimila
fanti, rimedio che non si poteva mettere in atto se non dopo il
corso almeno di dieci dí. E indeboliva l'esercito franzese oltre al
piccolo numero de' soldati la discordia tra i capitani, perché gli
altri quasi si sdegnavano di ubbidire al la Palissa; e la gente
d'arme, stracca da tante fatiche e cosí lunghi travagli, desiderava
piú presto che si perdesse il ducato di Milano, per ritornarsene in
Francia, che difenderlo con tanto disagio e pericolo. Partito la
Palissa da Valeggio, vi entrorno le genti de' viniziani e i
svizzeri, e passate dipoi il Mincio alloggiorono nel mantovano; ove
il marchese, scusandosi per la impotenza sua, concedeva il passo a
ciascuno. In queste difficoltà, fu la deliberazione de' capitani,
abbandonata del tutto la campagna, attendere alla guardia delle
terre piú importanti; sperando, e non senza cagione, che col
temporeggiare s'avesse a risolvere tanto numero di svizzeri: perché
il pontefice, non manco freddo allo spendere che caldo alla guerra,
diffidandosi anche di potere supplire a' pagamenti di numero tanto
grande, mandava molto lentamente danari. Però messono in Brescia
dumila fanti cento cinquanta lancie e cento uomini d'arme de'
fiorentini, in Crema cinquanta lancie e mille fanti, in Bergamo
mille fanti e cento uomini d'arme de' fiorentini; il resto dello
esercito, nel quale erano settecento lancie dumila fanti franzesi e
quattromila tedeschi, si ritirò a Pontevico, sito forte e opportuno
a Milano, Cremona, Brescia e Bergamo, dove facilmente speravano
potersi sostenere: ma il seguente dí sopravennono lettere e
comandamenti di Cesare a' fanti tedeschi che subitamente partissino
dagli stipendi del re di Francia; i quali essendo quasi tutti del
contado di Tiruolo, né volendo essere contumaci al signore proprio,
partirono il dí medesimo. Per la partita de' quali perderono la
Palissa e gli altri capitani ogni speranza di potere piú difendere
il ducato di Milano: però da Pontevico si ritirorono subito
tumultuosamente a Pizzichitone. Per la qual cosa i cremonesi, del
tutto abbandonati, si arrenderono all'esercito de' collegati che già
s'approssimava, obligandosi a pagare a' svizzeri quarantamila
ducati: i quali avendo disputato in cui nome s'avesse a ricevere,
sforzandosi i viniziani che fusse loro restituita, fu finalmente
ricevuta (ritenendosi perciò la fortezza per i franzesi) in nome
della lega, e di Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; per il
quale il pontefice e i svizzeri pretendevano che si acquistasse il
ducato di Milano. Era venuta, ne' dí medesimi, [in potestà de'
collegati] alienata da' franzesi la città di Bergamo, perché avendo
la Palissa richiamate le genti che vi erano per unirle all'esercito,
entrativi, subito che quelle furno partite, alcuni fuorusciti, furno
causa si ribellasse. Da Pizzichitone passò la Palissa il fiume
dell'Adda, nel quale luogo si unirono seco le trecento lancie
destinate alla difesa di Bologna, le quali crescendo il pericolo
aveva richiamate; e sperava quivi potere vietare agli inimici il
passo del fiume se fussino sopravenuti i fanti che si era deliberato
di soldare: ma questo pensiero appariva, come gli altri, vano perché
mancavano i danari da soldargli, non avendo il generale di Normandia
pecunia numerata, né modo (essendo in tanti pericoli perduto
interamente il credito) a trovarne, come soleva, obligando l'entrate
regie in prestanza. Però, poi che vi fu dimorato quattro dí, subito
che li inimici si accostorno al fiume tre miglia sotto Pizzichitone,
si ritirò a Santo Angelo per andarsene il dí seguente a Pavia. Per
la qual cosa, essendo del tutto disperato il potersi difendere il
ducato di Milano e già tutto il paese in grandissima sollevazione e
tumulti, si partirno da Milano, per salvarsi nel Piemonte,
Gianiacopo da Triulzi, il generale di Normandia, Antonio Maria
Palavicino, Galeazzo Visconte e molti altri gentiluomini, e tutti
gli officiali e ministri del re. E alquanti dí prima, temendo non
meno de' popoli che degli inimici, si erano fuggiti i cardinali; con
tutto che, piú feroci ne' decreti che nell'altre opere, avessino
quasi nel tempo medesimo, come preambolo alla privazione, sospeso il
pontefice da tutta l'amministrazione spirituale e temporale della
Chiesa.
Giovorno questi tumulti alla salute del cardinale de' Medici,
riservato dal cielo a grandissima felicità; perché essendo menato in
Francia, quando entrava la mattina nella barca al passo del Po che è
di contro a Basignano, detto dagli antichi Augusta Bactianorum,
levato il romore da certi paesani della villa che si dice la Pieve
dal Cairo, de' quali fu capo Rinaldo Zallo, con cui alcuni familiari
del cardinale, che vi era alloggiato la notte, si erano convenuti,
fu tolto di mano a' soldati franzesi che lo guardavano, che
spaventati e timorosi di ogni accidente, sentito il romore, attesono
piú a fuggire che a resistere.
Ma la Palissa entrato in Pavia deliberava di fermarvisi, e perciò
ricercava il Triulzio e il generale di Normandia che v'andassino. Al
quale mandato il Triulzio gli dimostrò (cosí gli aveano commesso il
generale e gli altri principali) la vanità del suo consiglio: non
essere possibile fermare tanta ruina essendo l'esercito senza fanti,
non comportare la brevità del tempo di soldarne di nuovo, non si
potere piú trarne se non di luoghi molto distanti e con somma
difficoltà; e quando questi impedimenti non fussino, mancare i
danari da pagargli, la riputazione essere perduta per tutto, gli
amici pieni di spavento, i popoli pieni di odio per la licenza usata
già tanto tempo immoderatamente da' soldati. Dette queste cose, il
Triulzio andò, per dare comodità alle genti di passare il Po, a fare
gittare il ponte dove il fiume lontano da Valenza verso Asti piú si
ristrigne. Ma già l'esercito de' collegati, a cui si era arrenduta,
quando i franzesi si ritirorno da Adda, la città di Lodi con la
rocca, si era da Santo Angelo accostato a Pavia; dove subito che
giunsono cominciorno i capitani de' viniziani a percuotere con
l'artiglierie il castello, e una parte de' svizzeri passò colle
barche nel fiume che è congiunto alla città. Ma temendo i franzesi
non impedissino il passare il ponte di pietra che è in sul fiume del
Tesino, per il quale solo potevano salvarsi, si mossono verso il
ponte per uscirsi di Pavia; ma innanzi fusse uscito il retroguardo,
nel quale per guardia de' cavalli erano stati messi gli ultimi
alcuni fanti tedeschi che non si erano partiti insieme cogli altri,
i svizzeri uscendo di verso Portanuova e dal castello già
abbandonato andorono combattendo con loro per tutta la lunghezza di
Pavia e al ponte, resistendo egregiamente sopra tutti gli altri i
fanti tedeschi; ma passando al ponte del Gravalone che era di
legname, rotte l'assi per il peso de' cavalli, restorono presi o
morti tutti quegli de' franzesi e de' tedeschi che non erano ancora
passati. Obligossi Pavia a pagare quantità grande di danari; il
medesimo aveva già fatto Milano, componendosi in somma molto
maggiore, e facevano, da Brescia e Crema in fuora, tutte l'altre
città: gridavasi per tutto il paese il nome dello imperio, lo stato
si riceveva e governava in nome della santa lega (cosí concordemente
la chiamavano), disponendosi la somma delle cose con l'autorità del
cardinale sedunense deputato legato dal pontefice; ma i danari e
tutte le taglie si pagavano a' svizzeri, loro erano tutte l'utilità
tutti i guadagni. Alla fama delle quali cose commossa tutta la
nazione, subito che fu finita la dieta chiamata a Zurich per questo
effetto, venne a unirsi cogli altri grandissima quantità.
In tanta mutazione delle cose, le città di Piacenza e di Parma si
dettono volontariamente al pontefice, il quale pretendeva
appartenersegli come membri dell'esarcato di Ravenna. Occuporno i
svizzeri Lucarna e i grigioni la Valvoltolina e Chiavenna, luoghi
molto opportuni alle cose loro; e Ianus Fregoso condottiere de'
viniziani, andato a Genova con cavalli e fanti ottenuti da loro, fu
causa che fuggendosene il governatore franzese quella città si
ribellasse, ed egli fu creato doge, la quale degnità aveva già
avuta... suo padre. Ritornorno, col medesimo impeto della fortuna,
al pontefice tutte le terre e le fortezze della Romagna; e
accostandosi a Bologna il duca d'Urbino con le genti ecclesiastiche,
i Bentivogli privi d'ogni speranza l'abbandonorno: i quali il
pontefice asprissimamente perseguitando, interdisse tutti i luoghi
che in futuro gli ricettassino. Né dimostrava minore odio contro
alla città, sdegnato che dimenticata di tanti benefici si fusse cosí
ingratamente ribellata, che alla sua statua fusse stato insultato
con molti obbrobri e schernito con infinite contumelie il suo nome;
onde non creò loro di nuovo i magistrati né gli ammesse piú in parte
alcuna al governo, estorquendo, per mezzo di ministri aspri, danari
assai da molti cittadini come aderenti de' Bentivogli: per le quali
cose (o vero o falso che fusse) si divulgò, che se i pensieri suoi
non fussino stati interrotti dalla morte, avere avuto nell'animo,
demolita quella città, trasferire a Cento gli abitatori.
Lib.11, cap.1
Vane trattative, a Roma, fra il pontefice e il duca di Ferrara. Il
duca con l'aiuto dei Colonna abbandona Roma. Milizie fiorentine
svaligiate da soldati veneziani. Scacco dei francesi alla villa di
Paterna. Difficili condizioni del regno di Francia assalito dagli
inglesi.
Rimaneva al pontefice, poi che nelle maggiori sue avversità e
pericoli ebbe, con successo non sperato, ottenuta la vittoria degli
inimici e ricuperato e ampliato il dominio della Chiesa, l'antica
cupidità della città di Ferrara, la quale era stata la prima materia
di tanto incendio: contro alla quale benché ardentemente desiderasse
di volgere l'armi, nondimeno, o parendogli piú facile la via della
concordia che della guerra o sperando piú nelle arti occulte che
nell'opere aperte, prestò l'orecchie prima al marchese di Mantua,
che lo supplicava a concedere ad Alfonso da Esti che andasse a
dimandargli venia a Roma per riceverlo con qualche onesta condizione
nella sua grazia, dipoi all'oratore del re d'Aragona, che pregava
per lui come per parente del suo re (era Alfonso nato di una
figliuola di Ferdinando vecchio re di Napoli), e perché alle cose
del re era piú a proposito l'obligarselo con tanto beneficio che
permettere che alla grandezza della Chiesa si aggiugnesse anche
quello stato. Affaticavansi medesimamente i Colonnesi, divenuti
amicissimi di Alfonso, perché, avendo il re di Francia dopo la
giornata di Ravenna dimandatogli Fabrizio Colonna suo prigione,
aveva, prima negando dipoi interponendo varie scuse, differito tanto
a concederlo, che per la mutazione succeduta delle cose, era stato
in potestà sua rendergli gratissimamente e senza alcuno peso la
libertà. Andò adunque Alfonso a Roma, ottenuto salvocondotto dal
pontefice, e per maggiore sicurtà la fede datagli, col consentimento
del pontefice, in nome del re d'Aragona dal suo oratore, d'andare e
ritornare sicuramente: dove poi che fu pervenuto, avendo il
pontefice sospese le censure, ammesso nel concistorio, dimandò
umilmente perdonanza; supplicando con la medesima sommissione di
essere reintegrato nella sua grazia e della sedia apostolica, e
offerendo volere continuamente fare tutte quelle opere che
appartenevano a fedelissimo feudatario e vassallo della Chiesa.
Udillo assai benignamente il pontefice, e deputò sei cardinali a
trattare seco le condizioni della concordia: i quali, poi che piú dí
fu disputato, gli aperseno che non intendeva il papa in modo alcuno
privare la Chiesa della città di Ferrara poi che legittimamente gli
era ricaduta, ma che in ricompenso gli darebbe la città d'Asti, la
quale, ricevuta per la partita de' franzesi in potestà della lega,
il pontefice, pretendendo appartenersi alla Chiesa tutto il di qua
da Po, aveva mandato benché invano il vescovo agrigentino a
prenderne il possesso. La qual cosa negando Alfonso costantemente,
cominciò, per questa dimanda tanto diversa dalle speranze dategli,
né meno per quel che di nuovo era succeduto a Reggio, a temere che
il pontefice non lo intrattenesse artificiosamente in Roma per
assaltare nel tempo medesimo Ferrara.
Aveva il pontefice invitati i reggiani, i quali in tanta confusione
delle cose non mediocremente temevano, che seguitando l'esempio de'
parmigiani e de' piacentini si dessino alla Chiesa, e ordinato che,
perché fussino piú efficaci i conforti suoi, il duca d'Urbino con le
genti venisse nel modonese. Tentava il medesimo per Cesare Vitfrust,
andato personalmente in Reggio; e il cardinale da Esti, il quale
assente il fratello aveva la cura del suo stato, conoscendo non
potere conservare quella città, e giudicando essere meno pernicioso
allo stato loro che venisse in potestà di Cesare, il quale non
pretendeva a Ferrara e nelle cui cose si poteva sperare maggiore
varietà, confortava i reggiani a riconoscere piú presto il nome
dello imperio: ma essi, rispondendo volere seguitare l'esempio del
duca che era andato al pontefice non a Cesare, introdussono nella
terra le genti della Chiesa; le quali con arte occuporno ancora la
cittadella, con tutto che Vitfrust vi avesse già messi alcuni de'
suoi fanti. Arrendessi similmente al duca d'Urbino la Carfagnana: il
quale dipoi, ritornato a Bologna, licenziò tutti i fanti; perché,
essendo stato molestissimo a' collegati che il pontefice avesse
occupata Parma e Piacenza, fece il cardinale sedunense intendere al
duca non essere necessario che, poi che era ottenuta la vittoria
contro a' comuni inimici, passasse piú innanzi. Ma dalla durezza del
pontefice e dall'occupazione di Reggio insospettito non
mediocremente dimandò al papa per mezzo dell'oratore spagnuolo e di
Fabrizio Colonna, il quale era stato con lui in Roma continuamente,
di ritornarsene a Ferrara: alla quale dimanda egli mostrandosi
renitente, e affermando non nuocere il salvocondotto conceduto, per
la differenza che aveva con la Chiesa, a' creditori particolari, de'
quali molti lo ricercavano che amministrasse loro giustizia,
risposono apertamente, l'oratore e Fabrizio, che non si persuadesse
che al duca e a loro avesse a essere violata la fede; e la mattina
seguente, per prevenire se il papa volesse fare nuove provisioni,
Fabrizio montato a cavallo andò verso il portone di San Giovanni in
Laterano, seguitandolo non molto da lontano il duca e Marcantonio
Colonna. Trovò il portone guardato da molti piú che non era
consueto, i quali contradicendogli che non passasse, egli piú
potente di loro, aspettato il duca in sulla porta, lo condusse
sicuro a Marino; ricompensato, come comunemente si credeva, il
beneficio della libertà ricevuta da lui: perché niuno dubitò che il
pontefice, se non fusse stato impedito da' Colonnesi, l'arebbe
incarcerato. Donde, essendogli impedito il cammino per terra,
ritornò non molto poi per mare a Ferrara.
Aveva anche, mentre che queste cose si facevano, procurato con
Sedunense il pontefice, acceso come prima dall'odio contro alla
libertà de' fiorentini, che le genti che aveano concedute al re di
Francia fussino svaligiate; delle quali quelle che sotto Luca
Savello erano con l'esercito, in numero di cento vent'uomini d'arme
e sessanta cavalli leggieri (perché Francesco Torello con l'altre
era rimasto alla custodia di Brescia), avevano, innanzi che i
franzesi passassino il fiume del Po, ottenuto il salvocondotto da
Sedunense e la fede da Giampaolo Baglione e quasi tutti i
condottieri viniziani di potere ritornarsene in Toscana: ma essendo,
secondo la norma ricevuta da essi, alloggiati a [Cremona], i soldati
viniziani con consentimento di Sedunense gli svaligiorno; il quale,
secondo che alcuni affermano, vi mandò, perché piú sicuramente
potessino farlo, dumila fanti: atteso che insieme con essi
alloggiavano le compagnie de' Triulzi e del grande scudiere, le
quali per essere quasi tutte di soldati italiani aveano, medesimo,
ottenuto salvocondotto di passare. Svaligiate che furno, mandò
subito Sedunense a dimandare a Cristofano Moro e a Polo Cappello
proveditori del senato la preda fatta, come appartenente a svizzeri;
i quali non la concedendo, e andando un dí poi nel campo de'
svizzeri per parlare a Sedunense, furno quasi come prigioni menati a
Iacopo Stafflier loro capitano, e da lui condotti al cardinale furno
costretti promettere in ricompenso della preda seimila ducati, non
parendo conveniente che d'altri fusse il premio della sua perfidia:
con la quale cercò anche che Niccolò Capponi oratore fiorentino, il
quale ritiratosi a Casal Cervagio avea ottenuto salvocondotto da
lui, gli fusse dato prigione dal marchese di Monferrato.
Stimolava in questo mezzo il senato, desideroso di attendere alla
recuperazione di Brescia e di Crema, che le sue genti ritornassino;
le quali il cardinale intratteneva sotto colore che andassino
insieme co' svizzeri nel Piemonte contro al duca di Savoia e il
marchese di Saluzzo, che aveano seguitato le parti del re di
Francia. Ma essendo dipoi cessata questa cagione, per la
moltiplicazione grande del numero de' svizzeri e perché
manifestamente si sapeva che i soldati franzesi passavano di là da'
monti, non consentiva né dinegava si partissino; il che si dubitava
procedesse per instanza fatta da Cesare, acciò che essi non
recuperassino quelle terre. Finalmente, essendo i svizzeri in
Alessandria, i viniziani partitisi dal Bosco allo improviso passorno
senza ostacolo alcuno il Po alla Cava nel Cremonese; dissimulando,
come si credette, a requisizione del pontefice, il cardinale, il
quale è certo gli arebbe potuti impedire. Passato il Po si divisono,
parte contro a Brescia parte contro a Crema custodite per il re di
Francia; ma avendo i franzesi che erano in Brescia assaltatigli alla
villa di Paterna, perduti piú di trecento uomini, furno costretti a
ritirarsi dentro: e i svizzeri rimasti soli nel ducato di Milano e
nel Piemonte attendevano a taglieggiare tutto il paese, sicuri
interamente de' franzesi. Perché se bene il re di Francia, per la
affezione intensa che aveva alla ducea di Milano, malvolentieri si
disponesse a lasciare del tutto le cose di Italia abbandonate,
nondimeno la necessità lo costrinse a prestare fede al consiglio di
coloro che lo confortorono che, differito ad altro tempo questo
pensiero, attendesse per quella state a difendere il regno di
Francia: conciossiaché il re d'Inghilterra, secondo le convenzioni
fatte col re cattolico, aveva mandato per mare seimila fanti
inghilesi a Fonterabia, terra del regno di Spagna posta in sul mare
Oceano, acciò che congiunti con le genti di quel re assaltassino il
ducato di Ghienna, e oltre a questo cominciava a infestare con
armata di mare le coste di Normandia e di Brettagna con spavento
grande de' popoli; né di ritirare piú Cesare all'amicizia sua
restava speranza alcuna, perché per relazione del vescovo di
Marsilia, stato a lui suo imbasciadore, intendeva avere l'animo
alienissimo da lui; né per altro avergli dato molte speranze e
trattate seco tante cose con somma simulazione che per avere
occasione di opprimerlo incauto, o almeno percuoterlo con uno colpo
quasi mortale, come nella revocazione de' fanti tedeschi si gloriava
d'avere fatto.
Lib.11, cap.2
Aspirazioni diverse dei collegati; favori del pontefice agli
svizzeri. Avversione procuratasi dai fiorentini con la neutralità.
Loro incertezza e timori di fronte ai collegati. I francesi
consegnano Legnago al cardinale Gurgense, ed i veneziani occupano
Bergamo. Accordi fra i collegati contro Firenze.
Assicurata adunque per questo anno Italia dall'armi del re di
Francia, dalle cui genti ancora si guardavano Brescia Crema e
Lignago, il Castelletto e la Lanterna di Genova, il castello di
Milano quello di Cremona e alcune altre fortezze di quello stato,
apparivano segni di diffidenza e disunione tra' collegati, essendo
molto varie le volontà e i fini loro. Desideravano i viniziani
ricuperare Brescia e Crema, debite per le capitolazioni, e per
l'avere tanto sopportato de' pericoli e delle molestie della guerra;
il che medesimamente desiderava per loro il pontefice: Cesare, da
altra parte, dalla cui volontà non poteva finalmente separarsi il re
d'Aragona, pensava d'attribuirle a sé, e oltre a questo a spogliare
i viniziani di tutto quello che gli era stato aggiudicato per la
lega di Cambrai. Trattavano Cesare e il medesimo re, ma con occulti
consigli, che il ducato di Milano pervenisse in uno de' nipoti
comuni. In contrario, s'affaticavano scopertamente il pontefice e i
svizzeri perché nel grado paterno fusse restituito, come sempre si
era ragionato da principio, Massimiliano figliuolo di Lodovico
Sforza; il quale dopo la ruina del padre era dimorato continuamente
nella Germania: mosso il pontefice perché Italia non cadesse
interamente in servitú tedesca e spagnuola, [i svizzeri] perché per
l'utilità propria desideravano che quello stato non fusse dominato
da príncipi tanto potenti, ma da chi non potesse reggersi senza gli
aiuti loro: la qual cosa dependendo quasi del tutto da' svizzeri, in
potestà de' quali era quello stato, e per il terrore delle loro
armi, il pontefice per confermargli in questa volontà, e per avere
in tutte le cose parato questo freno col quale potesse moderare
l'ambizione di Cesare e del re cattolico, usava ogni industria e
arte per farsegli benevoli. Perciò, oltre all'esaltare publicamente
il valore della nazione elvezia insino alle stelle e magnificare
l'opere fatte per la salute della sedia apostolica, aveva per
onorargli donate loro le bandiere della Chiesa e intitolatogli, con
nome molto glorioso, ausiliatori e difensori della libertà
ecclesiastica. Aggiugnevasi agli altri dispareri che, avendo il
viceré rimesse in ordine le genti spagnuole che dopo la rotta si
erano insieme con lui ritirate tutte nel reame, e movendosi per
passare con esse in Lombardia, negavano il pontefice e i viniziani
di riassumere il pagamento de' quarantamila ducati il mese
intermesso dopo la rotta, allegando che per l'avere l'esercito
franzese passato di là da' monti non erano piú sottoposti a quella
obligazione, la quale terminava, secondo i capitoli della
confederazione, ogni volta che i franzesi fussino cacciati di
Italia; e a questo si replicava, in nome del re d'Aragona, non si
potere dire cacciato il re di Italia mentre che erano in potestà sua
Brescia, Crema e tante fortezze. Querelavasi oltre a questo insieme
con Cesare che il pontefice, a sé proprio i premi della vittoria
comune attribuendo e quel che ad altri manifestamente apparteneva
usurpando, avesse, con ragioni o finte o consumate dalla vecchiezza,
occupate Parma e Piacenza, città possedute lunghissimo tempo da
quegli che aveano dominato a Milano come feudatari dello imperio.
Appariva similmente diversità d'animi nelle cose del duca di
Ferrara, ardendo il pontefice della medesima cupidità, e da altra
parte desiderando il re d'Aragona di salvarlo, sdegnato ancora che
(come si credeva) fusse stato tentato di ritenerlo in Roma contro
alla fede data; onde il pontefice soprasedeva dal molestare Ferrara,
aspettando per avventura che prima si componessino le cose maggiori:
nella determinazione delle quali volendo [Cesare] intervenire,
mandava in Italia il vescovo Gurgense, destinato a venirvi insino
quando dopo la giornata di Ravenna si trattava la pace tra 'l
pontefice e il re di Francia, perché temeva non si facesse tra loro
senza avere in considerazione gli interessi suoi; ma succeduta poi
la mutazione delle cose continuò nella deliberazione di mandarlo.
Venivano similmente in considerazione le cose de' fiorentini, i
quali pieni di sospetto cominciavano a sentire i frutti della
neutralità usata improvidamente, e a conoscere non essere
sufficiente presidio l'abbondare la giustizia della causa dove era
mancata la prudenza. Perché nella presente guerra non aveano offeso
i collegati, né prestato al re di Francia aiuto alcuno se non quanto
erano tenuti alla difesa del ducato di Milano per la confederazione
fatta comunemente col re cattolico e con lui; non aveano permesso
fussino molestati nel dominio loro i soldati spagnuoli fuggiti della
battaglia di Ravenna (della qual cosa il re d'Aragona proprio aveva
rendute grazie all'imbasciadore fiorentino), anzi aveano interamente
adempiuto co' fatti le sue dimande: perché, poi che partí il
concilio da Pisa, e i ministri suoi in Italia e il re medesimo aveva
offerto allo imbasciadore di obligarsi a difendere la loro republica
contro a ciascuno, pure che si promettesse non difendere Bologna non
muovere l'armi contro alla Chiesa né dare favore al conciliabolo
pisano. Ma essi, impediti dalle discordie civili a eleggere la parte
migliore, né si accompagnorno col re di Francia, alle cose del quale
arebbono giovato sommamente, e la neutralità, di giorno in giorno e
con consigli ambigui e interrotti, osservando ma non mai unitamente
deliberando né di volerla osservare dichiarando, offesono non
mediocremente l'animo del re di Francia il quale da principio si
prometteva molto di loro, l'odio del pontefice non mitigorno, e al
re d'Aragona lasciorno senza averne alcun ricompenso godere il
frutto della loro neutralità, il quale per ottenere arebbe
cupidamente convenuto con loro.
Dunque il pontefice, stimolato dall'odio contro al gonfaloniere, dal
desiderio antico di tutti i pontefici d'avere autorità in quella
republica, faceva instanza perché si tentasse di restituire nella
pristina grandezza la famiglia de' Medici: alla qual cosa, benché
con lo imbasciadore fiorentino usasse parole diverse da' fatti,
inclinava medesimamente, ma non già con tanto ardore, il re
d'Aragona, per sospetto che in qualunque movimento non inclinassino
per l'autorità del gonfaloniere al favore del re di Francia; anzi si
sospettava che, eziandio rimosso il gonfaloniere, la republica
governata liberamente avesse, per le dependenze fresche e antiche,
la medesima affezione. Ma e la deliberazione di questa cosa si
riservava, insieme coll'altre, alla venuta di Gurgense, con cui era
deliberato convenissino in Mantova il viceré e i ministri degli
altri collegati. Il quale mentre veniva, mandò il pontefice a
Firenze Lorenzo Pucci fiorentino, suo datario (quel che poi eletto
al cardinalato si chiamò il cardinale di Santi Quattro) a ricercare,
insieme con l'oratore che vi teneva il viceré, che si aderissino
alla lega, contribuendo alle spese contro a franzesi: questo era il
colore della sua venuta, ma veramente lo mandava per esplorare gli
animi de' cittadini. Sopra la quale dimanda trattata molti dí non si
faceva alcuna conclusione, offerendo i fiorentini di pagare a'
confederati certa quantità di danari ma rispondendo dubiamente sopra
la dimanda dell'entrare nella lega e dichiararsi contro al re: della
quale ambiguità era in parte cagione il credere (come era vero) che
queste cose si proponessino artificiosamente, ma molto piú la
risposta fatta a Trento dal vescovo Gurgense all'oratore il quale
aveano mandato a rincontrarlo; perché, mostrando non tenere conto di
quello gli era ricordato (Cesare, per la capitolazione fatta a
Vicenza per mano sua, essere tenuto alla loro difesa) affermava, il
pontefice avere in animo di molestargli, e che pagando a Cesare
quarantamila ducati gli libererebbe da questo pericolo: aggiugneva
durare ancora la confederazione tra Cesare e il re di Francia, però
gli confortava a non entrare nella lega insino a tanto non vi
entrava Cesare. Non sarebbeno stati i fiorentini alieni da
ricomperare con danari la loro quiete; ma dubitando che il nome solo
di Cesare, ancora che Gurgense affermasse che la volontà sua
seguiterebbono gli spagnuoli, non bastasse a rimuovere la mala
intenzione degli altri, stavano sospesi, per potere con consiglio
piú maturo porgere gli unguenti a chi potesse giovare alla loro
infermità. Era forse questo considerato prudentemente; ma procedeva
o da imprudenza o dalle medesime contenzioni, o da confidare piú che
non si doveva nell'ordinanza de' fanti del suo dominio, il non si
provedere di soldati esercitati, i quali sarebbono stati utili a
potersi piú agevolmente difendere da uno assalto subito o a
facilitare almeno il convenire co' collegati, quando avessino
conosciuto essere difficile lo sforzargli.
Le quali cose mentre che si trattavano era già il viceré pervenuto
co' soldati spagnuoli nel bolognese; nel quale luogo mancandogli la
facoltà di pagare i danari promessi a' fanti, corsono con tanto
tumulto allo alloggiamento suo minacciando di ammazzarlo che a
fatica ebbe tempo di fuggirsene occultamente andando verso Modona:
una parte de' fanti si voltò verso il paese de' fiorentini, gli
altri non mutorno alloggiamento ma stando senza legge senza ordine
senza imperio; pure dopo tre o quattro dí, quietati, con una parte
de' danari promessi, gli animi loro, e ritornati il viceré e tutti i
fanti all'esercito, promessono aspettarlo nel luogo medesimo insino
a tanto ritornasse da Mantova, ove già era pervenuto, Gurgense. Al
quale, quando passava per il veronese, i franzesi che guardavano
Lignago, rifiutate molte offerte de' viniziani, aveano data quella
terra che da loro non si poteva piú tenere; per comandamento,
secondo che si crede, fatto prima da la Palissa cosí a loro come a
tutti quegli che guardavano l'altre terre, a fine di nutrire la
discordia tra Cesare e i viniziani: benché questo a' soldati
succedette infelicemente, perché usciti di Lignago furno, non avuto
rispetto al salvocondotto ottenuto da Gurgense, depredati dalle
genti viniziane che erano intorno a Brescia, ove quando ritornorno
dal Bosco, ricuperato senza fatica Bergamo, si erano fermate ma non
combattevano la città, perché (secondo si diceva) era stato proibito
loro dal cardinale sedunense.
Nella congregazione di Mantova si determinò che nel ducato di Milano
venisse Massimiliano Sforza, desiderato ardentemente da' popoli,
concedendolo Cesare e il re d'Aragona, per la volontà costantissima
del pontefice e de' svizzeri; e che il tempo e il modo si stabilisse
da Gurgense col pontefice: al quale doveva andare per stabilire
amicizia tra Cesare e lui e per trattare la concordia co' viniziani,
e per mezzo dell'unione comune confermare la sicurtà di Italia dal
re di Francia. Trattossi nella medesima dieta d'assaltare i
fiorentini, facendone instanza, in nome suo e del cardinale,
Giuliano de' Medici, e proponendo facile la mutazione di quello
stato per le divisioni de' cittadini, perché molti desideravano il
ritorno loro, e per occulto intendimento che (secondo affermava),
v'aveano con alcune persone nobili e potenti, e perché i fiorentini,
dissipata una parte de' loro uomini d'arme in Lombardia, un'altra
parte rinchiusa in Brescia, non aveano forze sufficienti a
difendersi contro a uno assalto tanto repentino. Dimostrava il
frutto che, oltre a' danari che offeriva, risulterebbe della loro
restituzione; perché la potenza di quella città, levata di mano di
uno che dependeva interamente dal re di Francia, perverrebbe in mano
di persone che, offese e ingiuriate da quegli re, non
riconoscerebbono altra dependenza e congiunzione che quella de'
collegati: del medesimo in nome del pontefice si affaticava Bernardo
da Bibbiena che fu poi cardinale, mandato dal pontefice per questa
cagione, ma nutrito insieme co' fratelli insino da puerizia nella
casa de' Medici. Era imbasciadore appresso a Gurgense Giovanvettorio
Soderini giurisconsulto, fratello del gonfaloniere; al quale né dal
viceré né in nome della lega era detta o dimandata cosa alcuna, ma
il vescovo Gurgense, dimostrando questi pericoli, persuadeva a
convenire con Cesare secondo le dimande fatte prima, e offerendo che
Cesare e il re d'Aragona gli riceverebbono in protezione: ma lo
imbasciadore, [non] avendo autorità di convenire, non poteva se non
significare alla republica e aspettare le risposte; né per lui né
per altri si faceva instanza col viceré, né diligenza di
interrompere le proposte de' Medici. E nondimeno la cosa in se
medesima non mancava di molte difficoltà: perché il viceré non aveva
esercito tanto potente che, se non fusse necessitato, dovesse
volentieri esperimentare le forze sue; e Gurgense, per impedire che
i viniziani non recuperassino Brescia o facessino maggiori
progressi, desiderava che gli spagnuoli passassino quanto piú presto
si poteva in Lombardia. Però si crede che se i fiorentini, ponendo
da parte il negoziare con vantaggi e con risparmio, come ricercavano
gli imminenti pericoli, avessino consentito di dare a Cesare i
danari dimandati, e aiutato con qualche somma di danari il viceré
costituito in somma necessità, arebbono facilmente schifata questa
tempesta; e che Gurgense e il viceré arebbono per avventura
convenuto piú volentieri con la republica, la quale erano certi che
attenderebbe le cose promesse, che co' Medici i quali non potevano
dare cosa alcuna se prima non ritornavano coll'armi in Firenze. Ma
essendo, o per negligenza o per malignità degli uomini, abbandonata
quasi del tutto la causa di quella città, fu deliberato che
l'esercito spagnuolo, col quale andassino il cardinale e Giuliano
de' Medici, si volgesse verso Firenze; chiamasse il cardinale, il
quale il pontefice dichiarava in questa espedizione legato della
Toscana, i soldati della Chiesa e quegli che piú gli paressino a
proposito delle terre vicine.
Lib.11, cap.3
Milizie spagnuole, condottieri pontifici ed i Medici contro la
repubblica fiorentina. Ambasceria dei fiorentini al viceré e
richieste di questo. Preparativi di difesa a Firenze e tentativi di
accordi col pontefice. Dispareri in Firenze per le richieste del
viceré, convocazione del consiglio maggiore e discorso del
gonfaloniere; deliberazione del consiglio; il viceré sotto Prato;
sua inclinazione agli accordi.
Espedite le cose della dieta, il viceré tornato nel bolognese mosse
subito le genti contro a' fiorentini; a' quali il non avere prima
saputo quel che a Mantova si fusse deliberato aveva lasciato
brevissimo spazio di tempo a fare i provedimenti necessari.
Congiunsesi con lui, già vicino a' confini, il cardinale; il quale,
non avendo gli spagnuoli artiglierie da battere le muraglie, aveva
fatto muovere da Bologna [due] cannoni; e a lui erano venuti
Franciotto Orsino e i Vitelli condottieri della Chiesa ma senza le
compagnie loro, perché e a loro e agli altri soldati della Chiesa
l'aveva vietato il duca di Urbino: il quale, con tutto che nella
corte sua fusse stato nutrito qualche anno Giuliano de' Medici e che
sempre avesse fatto professione di desiderare la grandezza loro,
aveva negato, quale si fusse la cagione, di accomodargli
d'artiglierie e di aiuto alcuno de' soldati e sudditi suoi, e non
ostante che il pontefice a lui e a' sudditi delle terre vicine della
Chiesa avesse con ampli brevi comandato il contrario.
Al viceré, subito che fu entrato nel dominio fiorentino, venne uno
imbasciadore della republica; il quale dimostrando l'osservanza
avuta sempre al re d'Aragona, quali fussino state l'azioni loro
nella prossima guerra, e quel che il suo re potesse sperare da
quella città ricevendola nella sua amicizia, lo pregò che innanzi
procedesse piú oltre significasse quello che ricercava da'
fiorentini, perché alle dimande convenienti e che fussino secondo le
forze loro gli sarebbe liberalmente corrisposto. Rispose: non essere
la sua venuta deliberata solamente dal re cattolico ma da tutti i
confederati, per la sicurtà comune d'Italia; conciossiaché, mentre
che il gonfaloniere stava in quella amministrazione, niuna sicurtà
si poteva avere che in qualunque occasione non seguitassino il re di
Francia. Perciò, in nome di tutti, dimandare che il gonfaloniere
fusse privato del magistrato, e si costituisse forma di governo che
non fusse sospetta a' confederati; il che non poteva essere se il
cardinale e Giuliano de' Medici non erano restituiti nella patria:
le quali cose consentite sarebbono facilmente concordi nell'altre.
Però andasse a referire o altrimenti significasse a Firenze la mente
sua, ma non volere insino venisse la risposta soprasedere.
A Firenze, intesa la venuta degli spagnuoli e persuadendosi che da
altra parte gli avessino ad assaltare le forze del pontefice, era in
tutta la città grandissimo spavento, temendosi della divisione de'
cittadini e della inclinazione di molti a cose nuove: avevano poche
genti d'arme, non fanterie se non o fatte tumultuosamente o raccolte
delle loro ordinanze, la maggiore parte delle quali non era
esperimentata alla guerra; non alcuno capitano eccellente nella
virtú o autorità del quale potessino riposarsi; gli altri
condottieri tali, che mai alla memoria degli uomini erano stati di
minore espettazione agli stipendi loro. Nondimeno, provedendo
sollecitamente quanto in tanta brevità di tempo potevano,
raccoglievano le genti d'arme divise in vari luoghi, soldavano fanti
ma tali quali si potevano avere, e scegliendo le piú utili bande di
tutte l'ordinanze riducevano tutto lo sforzo a Firenze, per sicurtà
della città e per provedere di quivi i luoghi dove si voltassino gli
inimici. Né mancando di tentare, benché tardi, la via dell'accordo,
oltre a quello che continuamente per l'oratore si trattava col
viceré, scrisseno al cardinale di Volterra, che era a Gradoli in
terra di Roma che trasferitosi al pontefice si ingegnasse, con
offerte con prieghi con ogni arte, di placarlo. Il quale indurato
(ma co' fatti contrari alle parole) rispondeva questa non essere
impresa sua e farsi senza sue genti, ma che per non si provocare
contro tutta la lega era stato costretto a consentirla, e comportare
che il cardinale de' Medici facesse condurre l'artiglierie di
Bologna: non avere potuto ovviare innanzi che la si cominciasse,
molto meno poterla rimuovere poiché era già cominciata.
Il viceré intratanto disceso delle montagne a Barberino, terra
lontana quindici miglia a Firenze, mandò per uno uomo suo a
significare non essere intenzione della lega alterare né il dominio
né la libertà della città, pure che, per la sicurtà d'Italia, si
rimovesse il gonfaloniere del magistrato; desiderare che i Medici
potessino godere la patria, non come capi del governo ma come
privati e per vivere sotto le leggi e sotto i magistrati, simili in
tutte le cose agli altri cittadini: la quale proposta essendo palese
a tutta la città erano varie le opinioni degli uomini, come sono
vari i giudíci, le passioni e il timore. Biasimavano alcuni che, per
il rispetto di uno solo, si avesse a esporre tutta l'universalità
de' cittadini e tutto il dominio a tanto pericolo; atteso che per la
deposizione sua dal magistrato non si perdeva o il consiglio
popolare o la libertà publica, la quale non sarebbe difficile
conservare da' Medici, spogliati di riputazione e di facoltà, quando
volessino eccedere il grado privato: doversi considerare in che modo
potesse resistere la città all'autorità e alle forze di tanta lega;
sola non essere bastante, Italia tutta inimica, perduta interamente
la speranza di essere soccorsi da' franzesi; i quali, abbandonata
vilmente Italia, avevano che fare a difendere il reame loro, e
consci della loro debolezza avevano alle dimande fatte da'
fiorentini risposto essere contenti che si facesse accordo con la
lega. Altri in contrario dicevano essere cosa ridicola a credere che
tanto moto si facesse per odio solamente del gonfaloniere, o perché
i Medici potessino stare in Firenze come privati cittadini; altra
essere la intenzione de' collegati, i quali, per avere la città
unita alle voglie loro e poterne trarre quantità grandissime di
danari, non avevano altro fine che collocare i Medici nella
tirannide ma palliare la loro intenzione con dimande meno acerbe, le
quali contenevano nondimeno l'effetto medesimo. Perché, che
significare altro il rimuovere in questo tempo, con le minaccie e
con lo spavento delle armi, il gonfaloniere di palagio, che lasciare
la gregge smarrita senza pastore? che altro, entrare in Firenze i
Medici in tanto tumulto, che alzare uno vessillo il quale
seguitassino coloro che non pensavano ad altro che a spegnere il
nome la memoria le vestigie del consiglio grande? il quale annullato
era annullata la libertà; e come si potrebbe ovviare che i Medici,
accompagnati fuora dall'esercito spagnuolo e seguitati dentro dagli
ambiziosi e sediziosi, non opprimessino, il dí medesimo che
entrassino in Firenze, la libertà? Doversi considerare quel che
potessino partorire i princípi delle cose e il cominciare a cedere
alle dimande ingiuste e perniciose; né si dovere tanto temere de'
pericoli che si dimenticassino della salute della città, e quanto
fusse acerbo il vivere in servitú a chi era nato e allevato in
libertà. Ricordassinsi con quanta generosità si fussino, per
conservare la libertà, opposti a Carlo re di Francia quando era in
Firenze con esercito tanto potente; e considerassino quanto era piú
facile resistere a sí piccola gente, privata di danari, senza
provisione di vettovaglie, con pochi pezzi d'artiglieria, e senza
comodità alcuna di potere, se si difendessino dal primo impeto,
sostentare la guerra; e la quale, necessitata a dimorare breve tempo
in Toscana, e mossa dalle speranze date da' fuorusciti d'avere con
un semplice assalto a ottenere la vittoria, come vedesse cominciarsi
vigorosamente a resistere inclinerebbe alla concordia con
onestissime condizioni. Queste cose si dicevano, ne' circoli e per
le piazze, tra' cittadini; ma il gonfaloniere, volendo che dal
popolo medesimo si deliberasse la risposta che dal magistrato
s'aveva a dare all'uomo mandato dal viceré, convocato il consiglio
maggiore, adunati che furno i cittadini, parlò in questa sentenza:
- Se io credessi che la dimanda del viceré non concernesse altro che
l'interesse di me solo, arei da me medesimo fatto quella
deliberazione che fusse conforme al proposito mio; il quale essendo
stato sempre d'essere parato a esporre la vita per beneficio vostro,
mi sarebbe molto piú facile a risolvermi di rinunziare, per
liberarvi da i danni e da i pericoli della guerra, il magistrato che
da voi mi è stato dato: avendo massime, in tanti anni che sono
seduto in questo grado, stracco il corpo e l'animo per tante
molestie e fatiche. Ma perché in questa dimanda può essere che si
tratti piú oltre che dell'interesse mio, è paruto a questi miei
onorevoli compagni e a me che senza il consentimento publico non si
deliberi quello in che consiste tanto dello interesse di ognuno, e
che cosa tanto grave e tanto universale non si consigli con quel
numero ordinario di cittadini co' quali sogliono trattarsi l'altre
cose ma con voi, che siete il principe di questa città e a' quali
solo appartiene sí poderosa deliberazione. Non voglio io confortarvi
piú in una parte che in un'altra, vostro sia il consiglio vostro sia
il giudicio, quel che delibererete sarà accettato e lodato da me,
che vi offerisco non solo il magistrato, che è vostro, ma la persona
e la propria vita; e mi attribuirei a singolare felicità se io
potessi credere che questo fusse il mezzo della salute vostra.
Esaminate quel che possa importare la dimanda del viceré alla vostra
libertà, e Dio vi presti grazia di alluminare e di fare risolvere
alla migliore parte le menti vostre. Se i Medici avessino
disposizione d'abitare in questa città come privati cittadini,
pazienti a' giudíci de' magistrati e delle leggi vostre, sarebbe
laudabile la loro restituzione, acciò che la patria comune si unisse
in un corpo comune; se altra è la mente loro avvertite al pericolo
vostro, né vi paia grave sostenere spese e difficoltà per conservare
la vostra libertà: la quale quanto sia preziosa conoscereste meglio,
ma senza frutto, quando (io ho orrore di dirlo) ne fuste privati. Né
sia alcuno che si persuada che il governo de' Medici avesse a essere
quel medesimo che era innanzi fussino cacciati, perché è mutata la
forma e i fondamenti delle cose: allora, nutriti tra noi quasi a uso
di privati cittadini, ricchissimi di facoltà secondo il grado
tenevano, né offesi da alcuno, facevano fondamento nella benevolenza
de' cittadini, consigliavano co' principali le cose publiche, e si
ingegnavano col mantello della civiltà coprire piú presto che
scoprire la loro grandezza. Ma ora, abitati tanti anni fuora di
Firenze, nutriti ne' costumi stranieri, intelligenti, per questo,
poco delle cose civili, ricordevoli dello esilio e delle acerbità
usate loro, poverissimi di facoltà e offesi da tante famiglie,
consci che la maggiore parte anzi quasi tutta la città aborrisce la
tirannide, non si confiderebbono di alcuno cittadino: e sforzati
dalla povertà e dal sospetto arrogherebbero tutte le cose a loro
medesimi, riducendosi non in su la benivolenza e in su l'amore ma in
su la forza e in su l'armi, in modo tale che in brevissimo tempo
questa città diventerebbe simile a Bologna quale era al tempo de'
Bentivogli, a Siena e a Perugia. Ho voluto dire questo a quegli che
predicano il tempo e il governo di Lorenzo de' Medici, nel quale
benché fussino dure condizioni e fusse una tirannide (benché piú
mansueta di molte altre) sarebbe stato a comparazione di questo una
età d'oro. Appartiene ora a voi il deliberare prudentemente e
secondo la salute della vostra patria, a me o rinunziare con animo
costante e lietissimo a questo magistrato, o francamente, quando voi
delibererete altrimenti, attendere alla conservazione e alla difesa
della vostra libertà. -
Non era dubbio quel che avesse a deliberare il consiglio, per la
inclinazione che aveva quasi tutto il popolo di mantenere il governo
popolare: però, con maraviglioso consenso fu deliberato che si
consentisse alla ritornata de' Medici come privati ma che si
denegasse il rimuovere il gonfaloniere del magistrato; e che quando
gli inimici stessino pertinaci in questa sentenza, che con le
facoltà e con la vita si attendesse a difendere la libertà e la
patria comune. Però, volti tutti i pensieri alla guerra e fatto
provedimento di danari, mandavano gente alla terra di Prato,
propinqua a dieci miglia a Firenze; la quale si credeva che prima
avesse a essere assaltata dal viceré.
Il quale, poiché a Barberino ebbe raccolto l'esercito e
l'artiglierie, condotte con difficoltà per l'asprezza dell'Apennino
e perché, per mancamento di danari, non aveano il provedimento
debito o di guastatori e di instrumenti per condurle, si accostò
(come si era creduto) a Prato; dove pervenuto quando cominciava il
giorno, batté il dí medesimo, per qualche ora, con falconetti la
porta di Mercatale: alla quale, per essere dentro bene riparata, non
fece frutto alcuno. Aveano i fiorentini messi in Prato circa dumila
fanti, quasi tutti dell'ordinanze loro, gli altri raccolti in fretta
d'ogni arte ed esercizi vili, pochissimi in tanto numero
esperimentati alla guerra; e con cento uomini d'arme Luca Savello,
condottiere vecchio ma che né per l'età né per l'esperienza era
pervenuto a grado alcuno di scienza militare; e gli uomini d'arme,
quegli medesimi che erano stati poco innanzi svaligiati in
Lombardia. Aggiugnevasi che, per la brevità del tempo e per la
imperizia di chi aveva avuto a provederlo, vi era piccola quantità
di artiglierie, scarsità di munizioni e di tutte le cose necessarie
alla difesa. Col viceré erano [dugento] uomini d'arme e [cinque]
mila fanti spagnuoli e solamente [due] cannoni, esercito piccolo in
quanto al numero e agli altri apparati ma grande in quanto al
valore; perché i fanti erano tutti di quegli medesimi che con tanta
laude si erano salvati della giornata di Ravenna, i quali come
uomini militari, confidandosi molto nella loro virtú, dispregiavano
sommamente la imperizia degli avversari: ma essendo venuti senza
apparecchiamento di vettovaglie, né trovandone copioso il paese
(perché, con tutto che a fatica fusse finita la ricolta, erano state
condotte a' luoghi muniti), cominciorno subito a sentirne il
mancamento. Dalla qual cosa spaventato il viceré inclinava alla
concordia, che continuamente si trattava: che i fiorentini,
consentendo che i Medici ritornassino eguali agli altri cittadini,
né si parlando piú della deposizione del gonfaloniere, pagassino al
viceré perché partisse del dominio fiorentino certa quantità di
danari; la quale si pensava non passasse trentamila ducati. Perciò
il viceré aveva consentito salvocondotto agli imbasciadori eletti
per questa espedizione, e si sarebbe astenuto insino alla venuta
loro di assaltare piú Prato se di dentro gli avessino dato qualche
comodità di vettovaglie.
Lib.11, cap.4
Presa e sacco di Prato. Deposizione del gonfaloniere in Firenze.
Accordi dei fiorentini col viceré. Riforma del governo in Firenze;
restaurazione del governo de' Medici. Errori che condussero i
fiorentini alla perdita della libertà. Resa del Castelletto di
Genova.
Niuna cosa vola piú che l'occasione, niuna piú pericolosa che il
giudicare dell'altrui professioni, niuna piú dannosa che il sospetto
immoderato. Desideravano la concordia tutti i principali cittadini,
assuefatti dietro agli esempli de' maggiori loro a difendere spesso
la libertà dal ferro coll'oro; perciò facevano instanza che gli
imbasciadori eletti subitamente andassino, a' quali oltre all'altre
cose si commetteva che di Prato si facesse porgere vettovaglia
all'esercito spagnuolo, acciò che il viceré quietamente aspettasse
se la concordia trattata aveva effetto: ma il gonfaloniere, o
persuadendosi, contro alla sua naturale timidità, che gli inimici
disperati della vittoria dovessino da se stessi partirsi o temendo
de' Medici in qualunque modo ritornassino in Firenze, o conducendolo
il fato a essere cagione della ruina propria e delle calamità della
sua patria, allungava artificiosamente la spedizione degli
imbasciadori, talmente che non andorno il dí nel quale secondo la
deliberazione fatta doveano andare. Dunque il viceré, astringendolo
la penuria delle vettovaglie, e incerto se piú verrebbono gli
imbasciadori, mutato la notte seguente l'alloggiamento dalla porta
del Mercatale alla porta che si dice del Serraglio, donde si va
verso il monte, cominciò a battere co' due cannoni il muro a quella
vicino: eletto questo luogo perché al muro era congiunto un terrato
alto, dal quale si poteva facilmente salire alla rottura del muro di
sopra che si batteva, la qual facilità dal lato di fuora diventava
difficoltà dal lato di dentro, perché la rottura che si faceva sopra
il terrato rimaneva di dentro molto alta da terra. Roppesi a' primi
colpi uno de' due cannoni, e l'altro, col quale solo continuavano di
battere, per lo spesso tirare avea perduto tanto di vigore che alla
muraglia pervenivano i colpi molto lenti e di piccolo effetto. Pure,
poi che ebbono per spazio di molte ore fatta una apertura di poco
piú che di dodici braccia, cominciorno alcuni de' fanti spagnuoli
montati in sul terrato a salire alla rottura e da quella in sulla
sommità del muro, dove ammazzorno due de' fanti che lo guardavano.
Per la morte de' quali cominciando gli altri a ritirarsi, vi
salivano già i fanti spagnuoli colle scale; e benché dentro appresso
al muro fusse uno squadrone di fanti con gli scoppietti e con le
picche, ordinato per non lasciare alcuno degli inimici fermarsi in
sul muro e per opprimere se alcuno temerariamente saltasse dentro o
in altro modo discendesse, nondimeno, come cominciorno a vedere gli
inimici in sulla muraglia, messisi in fuga da loro medesimi
abbandonorno la difesa; onde gli spagnuoli, stupiti che in uomini
vili e inesperti potesse regnare tanta viltà e sí piccola
esperienza, entrati senza opposizione dentro da piú parti,
cominciorno a correre per la terra, dove non era piú resistenza ma
solamente grida, fuga, violenza, sacco, sangue e uccisioni, gittando
i fanti spaventati l'armi in terra e arrendendosi a' vincitori:
dall'avarizia libidine e crudeltà de' quali non sarebbe stata salva
cosa alcuna se il cardinale de' Medici, messe guardie alla chiesa
maggiore, non avesse conservata l'onestà delle donne, le quali quasi
tutte vi erano rifuggite. Morirno non combattendo, perché alcuno non
combatté, ma o fuggendo o supplicando, piú di duemila uomini; tutti
gli altri insieme col commissario fiorentino furno prigioni. Perduto
Prato, i pistolesi, non si partendo nell'altre cose dal dominio de'
fiorentini, convennono di dare vettovaglia al viceré, ricevendo
promessa da lui che non sarebbono molestati.
Ma a Firenze, come si intese il caso succeduto (per il quale gli
imbasciadori che andavano al viceré, essendo a mezzo il cammino,
ritornorno indietro), fu negli animi degli uomini grandissima
alterazione. Il gonfaloniere, pentitosi della vanità del suo
consiglio, spaventato e perduta quasi del tutto la riputazione e
l'autorità, retto piú presto che rettore e irresoluto, si lasciava
portare dalla volontà degli altri, non provedendo a cosa alcuna né
per la conservazione di se medesimo né per la salute comune; altri
desiderosi della mutazione del governo, preso ardire, biasimavano
publicamente le cose presenti: ma la maggiore parte de' cittadini,
non assueta all'armi e avendo innanzi agli occhi l'esempio
miserabile di Prato, benché amatrice del reggimento popolare, stava
per timore esposta a essere preda di chi volesse opprimerla. Dalle
quali cose fatti piú audaci Paolo Vettori e Antonio Francesco degli
Albizi, giovani nobili, sediziosi e cupidi di cose nuove, i quali
già molti mesi si erano occultamente congiurati con alcuni altri in
favore de' Medici, e per convenire con loro del modo di rimettergli
erano stati secretamente a parlamento in una villa del territorio
fiorentino vicina al territorio de' sanesi con Giulio de' Medici, si
risolverono di fare esperienza di cavare per forza il gonfaloniere
del palazzo publico; e comunicato il consiglio loro con Bartolomeo
Valori, giovane di simili condizioni e implicato per il troppo
spendere, come era anche Paolo, in molti debiti, la mattina del
secondo dí dalla perdita di Prato, che fu l'ultimo dí di agosto,
entrati con pochi compagni in palazzo, dove, per il gonfaloniere che
si era rimesso ad arbitrio del caso e della fortuna, non era
provisione né resistenza alcuna, e andati alla camera sua, lo
minacciorono di torgli la vita se non si partiva del palazzo,
dandogli in tale caso la fede di salvarlo. Alla qual cosa cedendo
egli, ed essendo a questo tumulto sollevata la città, scoprendosi
già molti contrari a lui e nessuno in suo favore, fatti per ordine
loro congregare subito i magistrati che secondo le leggi avevano
sopra i gonfalonieri amplissima autorità, dimandorno che lo
privassino legittimamente del magistrato, minacciando che altrimenti
lo priverebbeno della vita: per il quale timore avendolo contro alla
propria volontà privato, lo menorno salvo alle case di Paolo, donde
la notte seguente bene accompagnato fu condotto nel territorio de'
sanesi; e di quivi, simulando di andare a Roma con salvocondotto
ottenuto dal pontefice, preso occultamente il cammino d'Ancona,
passò per mare a Raugia; perché per ordine del cardinale suo
fratello era stato avvertito che il pontefice, o per sdegno o per
cupidità di spogliarlo de' suoi danari, che era fama essere molti,
gli violerebbe la fede. Levato il gonfaloniere del magistrato, la
città mandò subito imbasciadori al viceré, col quale per opera del
cardinale de' Medici facilmente si compose: perché il cardinale si
contentò che degli interessi propri non si esprimesse altro che la
restituzione de' suoi, e di tutti quegli che l'avevano seguitato,
alla patria, come privati cittadini, con facoltà di ricomperare
infra certo tempo i beni alienati dal fisco ma rendendo il prezzo
sborsato e i miglioramenti fatti da coloro ne' quali erano stati
trasferiti. Ma quanto alle cose comuni, entrorono i fiorentini nella
lega; obligoronsi, seguitando quello che i Medici aveano promesso
per mercede del ritorno loro a Mantova, a pagare al re de' romani,
secondo le dimande di Gurgense, quarantamila ducati; al viceré, per
l'esercito, ottantamila, la metà di presente il rimanente fra due
mesi, e per sé proprio ventimila; e che ricevuto il primo pagamento
partisse subito del dominio fiorentino, rilasciando quel che aveva
occupato. Feciono oltre a questo lega col re d'Aragona, con
obligazione reciproca di certo numero di gente d'arme a difesa degli
stati, e che i fiorentini conducessino agli stipendi loro dugento
uomini d'arme de' sudditi di quel re: la qual condotta, benché non
si esprimesse, si disegnava per il marchese della Palude, a cui il
cardinale aveva promesso o almeno dato speranza di farlo capitano
generale delle armi de' fiorentini.
Cacciato il gonfaloniere e rimossi per l'accordo i pericoli della
guerra, dettono i cittadini opera a ricorreggere il governo in
quelle cose nelle quali si era giudicata inutile la forma; ma con
intenzione universale, eccettuatine pochissimi, e questi o giovani o
quasi tutti di piccola considerazione, di conservare la libertà e il
consiglio popolare. Però determinorno con nuove leggi che il
gonfaloniere non si eleggesse piú in perpetuo ma solamente per uno
anno, e che al consiglio degli ottanta, che si variava di sei mesi
in sei mesi, con l'autorità del quale si deliberavano le cose piú
gravi, acciocché sempre vi intervenissino i cittadini di maggiore
qualità, fussino aggiunti in perpetuo tutti coloro che insino a quel
dí avessino amministrati, o dentro o fuori, i primi onori: dentro,
quegli che erano stati o gonfalonieri di giustizia o de' dieci della
balía, magistrato in quella republica di grande autorità; fuori,
tutti quegli che eletti nel consiglio degli ottanta, erano stati o
imbasciadori a príncipi o commissari generali nella guerra;
rimanendo fermi in tutte l'altre cose gli ordinamenti del medesimo
governo. Le quali cose stabilite, fu eletto per il primo anno
gonfaloniere Giovambatista Ridolfi, cittadino nobile e riputato
molto prudente, riguardando il popolo (come si fa ne' tempi
turbolenti) non tanto a quegli che per l'arti popolari gli erano piú
grati quanto a uno che, con l'autorità grande che aveva nella città,
massimamente appresso alla nobiltà, e con la virtú propria, potesse
fermare lo stato tremante della republica. Ma troppo erano trascorse
le cose, troppo potenti inimici avea la publica libertà: nelle
viscere del dominio l'esercito sospetto; dentro, i piú audaci della
gioventú cupidi d'opprimerla. La medesima era, benché colle parole
dimostrasse il contrario, la volontà del cardinale de' Medici: il
quale, insino da principio, non arebbe riputato premio degno di
tante fatiche la restituzione de' suoi come privati cittadini;
considerava al presente di piú che né anche questo sarebbe cosa
durabile, perché insieme col nome suo sarebbono in sommo odio di
tutti per il sospetto che continuamente stimolerebbe gli altri
cittadini che essi non insidiassino alla libertà, e molto piú per lo
sdegno che avessino condotto l'esercito spagnuolo contro alla
patria, stati cagione del sacco crudelissimo di Prato, e che per il
terrore dell'armi la città fusse stata costretta a ricevere cosí
indegne e inique condizioni. Stimolavanlo al medesimo coloro che
prima erano congiurati seco, e alcuni altri che nella republica bene
ordinata non aveano luogo onorato. Ma era necessario il
consentimento del viceré; il quale, aspettando il primo pagamento,
che per le condizioni della città si espediva difficilmente,
soggiornava ancora in Prato, né aveva, quale si fusse la cagione,
l'animo inclinato che nella città si facesse nuova alterazione.
Nondimeno, dimostrandogli il cardinale, e procurando che il marchese
della Palude e Andrea Caraffa conte di Santa Severina, condottieri
nell'esercito, [facessino il medesimo], alla città, che avea
ricevuta tanta offesa, non potere piú essere se non odiosissimo il
nome spagnuolo, e che in qualunque occasione aderirebbe sempre agli
inimici del re cattolico, anzi essere pericolo che, come si
discostasse l'esercito, non richiamasse il gonfaloniere, il quale
sforzata aveva cacciato, movendolo anche il provedersi con tanta
difficoltà a' danari promessi, i quali se fussino stati piú pronti
arebbe fatto maggiore fondamento nel governo libero, consentí al
desiderio del cardinale: il quale, composte le cose con lui, venne
subito in Firenze alle case sue; ove, parte con lui parte
separatamente, entrorno molti condottieri e soldati italiani, non
avendo i magistrati, per la vicinità degli spagnuoli, ardire di
proibire che non vi entrassino. Dipoi il dí seguente, essendo
congregato nel palagio publico per le cose occorrenti un consiglio
di molti cittadini, al quale era presente Giuliano de' Medici, i
soldati, assaltata all'improviso la porta e poi salite le scale,
occuporono il palagio, depredando gli argenti che vi si conservavano
per uso della signoria. La quale, insieme col gonfaloniere,
costretta a cedere alla volontà di chi poteva piú coll'armi che non
potevano i magistrati colla riverenza e autorità disarmata, convocò
subito, cosí proponendo Giuliano de' Medici, in sulla piazza del
palagio, col suono della campana grossa, il popolo al parlamento;
dove quegli che andorno, essendo circondati dall'armi de' soldati e
de' giovani della città che aveano prese l'armi per i Medici,
consentirono che a circa cinquanta cittadini, nominati secondo la
volontà del cardinale, fusse data sopra le cose publiche la medesima
autorità che aveva tutto il popolo (chiamano i fiorentini questa
potestà, cosí ampia, balía): per decreto de' quali ridotto il
governo a quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille
quattrocento novantaquattro, e messa una guardia di soldati ferma al
palagio, ripigliorono i Medici quella medesima grandezza, ma
governandola piú imperiosamente e con arbitrio piú assoluto che
soleva avere il padre loro.
In tale modo fu oppressa con l'armi la libertà de' fiorentini,
condotta a questo grado principalmente per le discordie de' suoi
cittadini: al quale si crede non sarebbe pervenuta se (io passerò la
neutralità imprudentemente tenuta, e l'avere il gonfaloniere
lasciato pigliare troppo animo agli inimici del governo popolare)
non fusse stata, eziandio negli ultimi tempi, negligentemente
procurata la causa publica. Perché nel re d'Aragona non era da
principio tanto desiderio di sovvertire la libertà quanto di
rimuovere la città dall'aderenza del re di Francia e di trarne
alcuna quantità di danari per pagare allo esercito; perciò, subito
che i franzesi abbandonorno il ducato di Milano, commesse al viceré
che, quando o le cose occorrenti lo tirassino ad altra impresa o che
per altra cagione conoscesse difficile la restituzione de' Medici,
pigliando la deliberazione dalle condizioni de' tempi, convenisse o
no con la città, secondo che piú gli paresse opportuno. Questo era
stato da principio il comandamento suo; ma di poi sdegnato contro al
pontefice per quel che aveva tentato a Roma contro ad Alfonso da
Esti, e insospettito per le minaccie che publicamente faceva contro
al nome de' barbari, dimostrò apertamente al medesimo imbasciadore
fiorentino (che al principio della guerra era andato a lui), e al
viceré commesse che non tentasse di alterare il governo, o perché
giudicasse essergli piú sicuro conservare il gonfaloniere inimicato
dal pontefice, o perché temesse che il cardinale de' Medici,
restituito, non avesse maggiore dependenza dal pontefice che da lui:
ma non fu nota al viceré questa ultima deliberazione se non il dí
dappoi che era stata ridotta la republica in potestà del cardinale.
Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino, dopo
che furno cacciati i franzesi, procurato diligentemente di
assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino
fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré
mosso contro a loro, o trovata difficoltà nello opprimergli arebbe
facilmente composto con danari. Ma era destinato non lo facessino,
ancora che, oltre a quello che si poteva comprendere per i discorsi
umani fussino stati ammuniti dal cielo degli imminenti pericoli:
perché, non molto innanzi, uno folgore, caduto in sulla porta che da
Firenze va a Prato, levò d'uno scudo antico di marmo i gigli a oro,
insegna del re di Francia; un altro, caduto in sulla sommità del
palagio ed entrato nella camera del gonfaloniere, non avea percosso
altro che un bossolo grande d'argento nel quale si raccoglievano i
partiti del sommo magistrato, e dipoi sceso nella infima parte
percosse di maniera una lapide grande, che a piè della scala
sosteneva la macchina dell'edificio, che uscitane illesa pareva
fusse stata cavata da' periti con grandissima destrezza e
architettura.
In questi tempi medesimi o poco prima, battendo i genovesi il
Castelletto di Genova con l'artiglierie che aveva prestate loro il
pontefice, il castellano, ricevuti diecimila [ducati] lo dette a'
genovesi; non avendo speranza di essere soccorso, perché una armata
spedita di Provenza innanzi che il re sapesse la rebellione di
quella città per attendere a difenderla, non avendo avuto ardire di
porre in terra, era ritornata indietro: ma per il re si teneva
ancora la Lanterna; nella quale, ne' dí medesimi, aveano alcuni
legni franzesi messe vettovaglie e altri bisogni.
Lib.11, cap.5
Cessione, da parte dei francesi, di Brescia al viceré; cessione di
Crema ai veneziani. Accoglienza al vescovo Gurgense a Roma.
Trattative fra il vescovo e i veneziani e fra il pontefice e gli
ambasciatori del re d'Aragona; la questione di Parma e di Piacenza.
Confederazione fra Cesare e il pontefice ed esclusione dei veneziani
dalla lega. Solenne ingresso in Milano di Massimiliano Sforza. Nuovi
e vani sforzi del pontefice per la pace fra Venezia e Massimiliano
Cesare.
Espedite le cose di Firenze e ricevuti i danari promessi, il viceré
mosse l'esercito per andare a Brescia; intorno alla quale città,
avendo mitigata la volontà de' svizzeri, combatteva l'esercito
viniziano, alloggiato alla porta di San Giovanni; e battevano in un
tempo la città e, con l'artiglierie piantate in sul monte opposito,
la fortezza: speravano medesimamente di essere messi dentro, per
mezzo di uno trattato, per la porta delle Pile; il quale venuto a
luce restò vano. Ma giunto che fu l'esercito spagnuolo al castello
di Gairo vicino a Brescia, Obigní, capitano de' franzesi che vi
erano dentro, elesse di darla insieme con la fortezza al viceré, con
patto che tutti i soldati che vi erano dentro n'uscissino salvi con
le cose loro ma con le bandiere piegate e con l'armi in asta
abbassate, e lasciate l'artiglierie; e si crede che Obigní
anteponesse il viceré a' viniziani per comandamento avuto prima dal
re che piú tosto la desse agli spagnuoli o a Cesare, non per odio
contro a essi ma per suggerire materia di contenzione con Cesare e
col re d'Aragona. Il medesimo consiglio aveano, innanzi che gli
spagnuoli passassino in Lombardia, seguitato i franzesi che
guardavano Lignago; i quali, dispregiate molte offerte de'
viniziani, l'aveano dato al vescovo Gurgense: a cui, nel tempo
medesimo che il viceré entrò in Brescia, si arrendé similmente
Peschiera. E dimandava Gurgense la possessione di Brescia, ma al
viceré piacque di ritenerla, per allora, per la lega in cui nome
l'aveva ricevuta. Diverso successo ebbono le cose di Crema, intorno
alla quale era Renzo da Ceri con una parte de' soldati viniziani:
perché appropinquandosi quattromila svizzeri mandati da Ottaviano
Sforza vescovo di Lodi, governatore di Milano, per acquistarla in
nome di Massimiliano Sforza futuro duca, Benedetto Cribrario,
corrotto con doni e con la promessa di essere creato gentiluomo di
Vinegia, la dette a' viniziani; consentendo monsignore di Duraso
preposto alla guardia della rocca, perché non confidava la sua
salute alla fede de' svizzeri.
Andò dipoi il vescovo Gurgense a Roma: l'animo del quale desiderando
il pontefice estremamente di conciliarsi, sforzando la sua natura,
lo fece per tutto il dominio ecclesiastico ricevere con ogni specie
d'onore; fatte, per tutto il cammino, a lui e a tutti coloro che lo
seguitavano, lautissime spese. Ricevevanlo per tutto le terre con
eccessivi anzi inusitati onori, piene le strade di quegli che gli
andavano incontro, visitato in molti luoghi da nuove imbascerie di
prelati e persone onorate mandate dal pontefice; e arebbe voluto che
il collegio de' cardinali fusse andato a riceverlo alla porta di
Roma. Ma recusando il collegio, come cosa non solo nuova ma piena di
somma indignità, andorono insino in su' Prati, un mezzo miglio fuora
della porta, a riceverlo in nome del pontefice il cardinale agenense
e quello di Strigonia; da' quali, andando in mezzo come luogotenente
di Cesare, fu menato insino alla chiesa di Santa Maria del popolo.
Dalla quale, poi che da lui furno partiti i due cardinali,
accompagnato da moltitudine innumerabile, si presentò al pontefice,
che nella sedia pontificale in abito solenne l'aspettava nel
concistorio publico: nel quale aveva, pochi dí innanzi, ricevuti
molto onoratamente dodici imbasciadori de' svizzeri, mandati da
tutti i cantoni a dargli publicamente l'ubbidienza e a offerire che
quella nazione voleva in perpetuo difendere lo stato della Chiesa, e
a ringraziarlo che a quella avesse con tanto onore donato la spada
il cappello l'elmetto e la bandiera, e il titolo di difensori della
libertà ecclesiastica.
Alla venuta di Gurgense si cominciò a trattare lo stabilimento delle
cose comuni; di che il fondamento consisteva in rimuovere le
differenze e contese particolari, acciò che Italia rimanesse
ordinata in modo che, con animo e consiglio unito, si potesse
resistere al re di Francia. E in questo era la piú difficile la
composizione, tante volte trattata, tra Cesare e il senato
viniziano: perché Gurgense consentiva che a' viniziani rimanessino
Padova, Trevigi, Brescia, Bergamo, Crema ma che a Cesare
restituissino Vicenza, rinunziassino alle ragioni di quelle terre
che riteneva Cesare; pagassingli di presente dugentomila fiorini di
Reno, e in perpetuo, ciascuno anno per censo, trentamila. Grave era
a' viniziani il riconoscersi censuari di quelle terre le quali tanti
anni aveano posseduto come proprie; grave il pagamento de' danari,
con tutto che il pontefice offerisse prestarne loro una parte; piú
grave il restituire Vicenza, allegando che, separando il ritenerla
Cesare il corpo del loro stato, gli privava della comodità di
passare dal capo e dall'altre membra principali all'altre membra, e
perciò rimanere loro incerta e malsicura la possessione di Brescia,
Bergamo e Crema. Allegavano oltre a questo, per fare la recusazione
piú onesta, avere data la fede a' vicentini, quando ultimamente si
arrenderono, di non separargli giammai da loro. Trattavansi altre
controversie tra il pontefice e gli imbasciadori del re d'Aragona,
proposte una parte piú per ricompenso delle querele degli altri che
per speranza d'ottenerle. Perché il pontefice dimandava che quel re,
secondo si disponeva nella confederazione, l'aiutasse ad acquistare
Ferrara; dimandava lasciasse la protezione di Fabrizio e di
Marcantonio Colonna, contro a' quali avea cominciato a procedere con
l'armi spirituali, per avere violentata la porta lateranense, e
ricettato Alfonso da Esti ribelle suo nelle terre delle quali il
dominio diretto apparteneva alla Chiesa; dimandava rinunziasse alle
protezioni, che avea accettate nella Toscana, de' fiorentini de'
sanesi de' lucchesi e di Piombino, come fatte in diminuzione delle
ragioni dello imperio e come sospette a Italia in comune e in
particolare alla Chiesa, perché né agli altri potentati era utile
che in Italia avesse tante aderenze, e alla Chiesa molto pericoloso
che una provincia congiunta col dominio di quella dependesse dalla
sua autorità. Alle quali cose replicavano gli spagnuoli: non si
recusare di aiutarlo contro a Ferrara, purché, secondo l'obligazioni
della medesima lega, pagasse i danari debiti all'esercito per il
tempo passato e provedesse per il futuro; non essere cosa laudabile
il procedere contro a Fabrizio e Marcantonio Colonna, perché [per]
le dependenze che avevano e perché erano capitani di autorità, il
perseguitarli sarebbe materia di nuovo incendio; non potere il re
cattolico, senza pregiudicio grave dell'onore proprio,
abbandonargli, né meritare tale rimunerazione le cose fatte in
servigio del pontefice e suo dall'uno e l'altro di loro nella guerra
contro al re di Francia. Né nascere da giusto zelo o da sospetto la
querela delle protezioni di Toscana, ma perché alla sua cupidità
rimanessino in preda Siena, Lucca e Piombino; accennando nondimeno
che di queste si riferirebbe il re all'arbitrio di Cesare.
Consentivano tutti i confederati unitamente che nel ducato di Milano
entrasse Massimiliano Sforza, non consentendo per ciò Cesare di
investirnelo, o di dargli nome di duca o alcuno titolo giuridico. Ma
insorgeva la querela di Gurgense e degli spagnuoli, dell'occupazione
di Parma e di Piacenza, in pregiudicio delle ragioni dello imperio,
in troppa grandezza de' pontefici e in troppa debolezza del ducato
di Milano; il quale sarebbe stato necessario fare piú potente perché
aveva sempre, a essere il primo percosso da' franzesi. Non avere ne'
capitoli della lega parlato il pontefice d'altro che di Bologna e di
Ferrara; ora, con ragioni delle quali non apparisca alcuna autentica
memoria, usurparsi quello che da grandissimo tempo in qua non avesse
mai la Chiesa romana posseduto, né che anche si avesse certa notizia
che l'avesse mai possedute, eziandio ne' tempi antichissimi; né
mostrarsi delle donazioni degli imperadori altro che una semplice
carta che poteva essere stata finta ad arbitrio di ciascuno, e
nondimeno il pontefice, come in cosa manifesta e notoria, con la
occasione de' tumulti di Lombardia, aversi amministrato ragione da
se stesso.
Ma tutte queste dispute [non] difficilmente si risolvevano:
solamente turbava tutte le cose la differenza tra Cesare e i
viniziani. Affaticavasene quanto poteva il pontefice, ora
confortandogli ora pregandogli ora minacciandogli; desideroso, come
prima, per il bene publico di Italia, della conservazione de'
viniziani, e perché sperava potere cogli aiuti loro, senza l'armi
spagnuole, espugnare Ferrara. Affaticavansene gli imbasciadori del
re d'Aragona, temendo che con pericolo comune non si desse causa a'
viniziani di rivolgere l'animo a riunirsi col re di Francia; ma
erano necessitati procedere cautamente per non provocare Cesare a
fare unione co' franzesi, la quale il loro re aveva con tanta fatica
separata, e perché per altre cagioni non voleva partirsi dalla
amicizia sua. Affaticavansene gli imbasciadori de' svizzeri perché,
obligati a difendere i viniziani convenuti a pagare loro, per
questo, ciascuno anno venticinquemila ducati, desideravano non
venire in necessità o di non osservare le promesse o di opporsi a
Cesare in caso gli assaltasse. Finalmente, non si potendo rimuovere
Gurgense dalla dimanda di riavere Vicenza né disporre i viniziani a
darla, discordando ancora nelle quantità de' danari, il pontefice,
il quale sopratutto desiderava, per estinguere il nome e l'autorità
del conciliabolo pisano, che Cesare approvasse il concilio
lateranense, protestò agli oratori loro che sarebbe costretto a
perseguitare quella republica con l'armi spirituali e temporali; il
quale protesto non gli movendo, venne alla confederazione con Cesare
solo, perché l'oratore spagnuolo recusò di intervenirvi, o non
avendo commissione dal suo re o perché quel re, ancora che avesse in
animo di aiutare Cesare, cercasse di potere nutrire con qualche
speranza i viniziani.
Narravasi nel proemio della confederazione, che si publicò poi
solennemente nella chiesa di Santa Maria del popolo, che avendo i
viniziani recusata ostinatamente la pace, e il pontefice, per le
necessità della republica cristiana, protestato di abbandonargli,
Cesare entrava e accettava la lega fatta l'anno mille cinquecento
undici tra il pontefice il re d'Aragona e i viniziani, secondo che
allora gli era stata riserbata la facoltà; prometteva aderire al
concilio lateranense, annullando il mandato e revocando tutte le
procure e atti fatti in favore del conciliabolo pisano; obligavasi
non aiutare alcuno suddito o inimico della Chiesa, e specialmente
Alfonso da Esti e i Bentivogli occupatori di Ferrara e di Bologna, e
di fare partire i fanti tedeschi che erano agli stipendi d'Alfonso e
Federigo da Bozzole suo feudatario. Da altra parte il pontefice
prometteva aiutare Cesare contro a' viniziani con l'armi temporali e
spirituali insino a tanto avesse ricuperato tutto quello che si
conteneva nella lega di Cambrai: dichiaravasi, i viniziani essere in
tutto esclusi dalla lega e dalla tregua fatta con Cesare, perché
aveano contravenuto a l'una e a l'altra in piú modi, ed essere
inimici del pontefice, di Cesare e del re cattolico, riservando
nondimeno luogo di entrare nella confederazione fra certo tempo e
sotto certe condizioni: non potesse il pontefice fare convenzione
alcuna con loro senza consentimento di Cesare, o se Cesare non
avesse prima ricuperato quel che se gli apparteneva come di sopra:
non potessino né il pontefice né Cesare, senza consenso l'uno
dell'altro, convenire con alcuno principe cristiano: che durante la
guerra contro a' viniziani non molestasse il pontefice Fabrizio e
Marcantonio Colonna, riservatogli il procedere contro al vescovo
Pompeio e Giulio, e alcuni altri dichiarati rebelli: che per questa
capitolazione, se bene si tollerava il possedere Parma, Reggio e
Piacenza, non si intendesse pregiudicato alle ragioni dello imperio.
Publicata la confederazione, Gurgense nella prossima sessione del
concilio lateranense aderí al concilio in nome di Cesare e come
luogotenente suo generale in Italia, annullando il mandato, gli atti
fatti e le procure; e presente tutto il concilio, testificò non
avere mai Cesare assentito al conciliabolo pisano, detestando
ciascuno che avesse usato il nome suo.
Partí dipoi Gurgense da Roma per essere presente quando Massimiliano
Sforza, venuto per commissione di Cesare a Verona, prendeva la
possessione del ducato di Milano; la venuta del quale aspettare si
disponevano difficilmente il cardinale sedunense e gli imbasciadori
di tutta la nazione svizzera, che erano a Milano, perché volevano
che nelle dimostrazioni e nella solennità degli atti che s'aveano a
fare apparisse (quel che era negli effetti) i svizzeri essere quegli
che aveano cacciato i franzesi di quello stato, quegli per la virtú
e opera de' quali lo riceveva Massimiliano. Ottenne nondimeno il
viceré, piú con l'arti e con la industria che con l'autorità, che si
aspettasse. Il quale, ratificato a Firenze in nome di Cesare la
confederazione fatta in Prato, e ricevuta certa somma di danari da'
lucchesi accettati nella sua protezione, pervenne a Cremona: nel
qual luogo l'aspettavano Massimiliano Sforza e il viceré, [donde]
andorno tutti insieme a Milano, per entrare il dí deputato in quella
città con le solennità e onori consueti a' nuovi príncipi: nel quale
atto benché fusse disputa grande tra 'l cardinale sedunense [e il
viceré], chi di loro gli avesse, all'entrare della porta, a
consegnare le chiavi in segno della consegnazione del possesso,
nondimeno, cedendo finalmente il viceré, il cardinale in nome
publico de' svizzeri gli pose in mano le chiavi, ed esercitò quel
dí, che fu degli ultimi dí di dicembre, tutti gli atti che
dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro. Il quale
fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli, per il
desiderio ardentissimo d'avere uno principe proprio, e perché
speravano avesse a essere simile all'avolo o al padre; la memoria
dell'uno de' quali per le sue eccellentissime virtú era chiarissima
in quello stato, nell'altro il tedio degli imperi forestieri avea
convertito l'odio in benivolenza. Le quali feste non ancora finite,
si ricuperò, arrendendosi quegli che vi erano dentro, la rocca di
Novara.
Non aveva la confederazione fatta in Roma interrotta del tutto la
speranza della concordia tra Cesare e i viniziani. Perché il
pontefice avea mandato subito a Vinegia Iacopo Staffileo suo nunzio,
col quale erano andati tre imbasciadori de' svizzeri, per
persuadergli alla concordia; e da altra parte il senato, per
conservarsi la benivolenza del pontefice e non dare causa a Cesare
di assaltargli con l'armi, aveva commesso agli imbasciadori suoi che
aderissino al concilio lateranense e, subito fatta la
confederazione, comandato alle genti loro che si ritirassino nel
padovano; e però il viceré, non volendo turbare la speranza della
pace, avea voltato l'esercito verso Milano: nondimeno perseverando
le medesime difficoltà della restituzione di Vicenza e de' pagamenti
de' danari erano vane queste fatiche. La qual cosa era cagione che
il pontefice non assaltasse il duca di Ferrara: perché in tal caso
arebbe sperato bastargli alla vittoria le forze sue e gli aiuti de'
viniziani, col nome solo di accostarvi, bisognando, gli spagnuoli;
altrimenti si risolveva a differire alla primavera, perché era
riputato difficile l'espugnare nel tempo della vernata Ferrara,
forte di sito rispetto al fiume, e la quale Alfonso aveva molto
fortificata e senza intermissione alcuna fortificava.
Lib.11, cap.6
Inglesi e spagnuoli contro la Francia; occupazione del regno di
Navarra da parte del re d'Aragona; minaccie del pontefice contro il
re di Francia; gli inglesi abbandonano l'impresa per dissidi col re
d'Aragona. Vano tentativo dei francesi di liberare il regno di
Navarra. Scoperta della congiura del duca di Calabria per fuggire
nell'esercito francese.
Parrà forse alieno dal mio proposito, stato di non toccare le cose
succedute fuora d'Italia, fare menzione di quel che l'anno medesimo
si fece in Francia; ma la dependenza di quelle da queste, e perché
a' successi dell'una erano congiunti molte volte le deliberazioni e
i successi dell'altra, mi sforza a non le passare del tutto
tacitamente. Erano, insino al principio di maggio, passati con le
navi inghilesi e spagnuole a Fonterabia, ultimo termine del reame di
Spagna verso la Francia in sul mare Oceano, seimila fanti inghilesi
per assaltare congiuntamente con le forze spagnuole, secondo le
convenzioni fatte tra 'l suocero e il genero, il ducato di Ghienna,
parte, secondo gli antichi nomi e divisioni, della provincia della
Aquitania; contro al quale movimento il re di Francia, non sicuro
ancora dalle parti di Piccardia, preparava l'ordinanza nuova di
ottocento lancie che avea fatte, e soldava delle parti piú basse
della Alamagna non suddite a Cesare molti fanti: e conoscendo quanto
importava alla difesa del ducato di Ghienna il reame di Navarra, il
quale, dotale di Caterina di Fois, possedeva insieme con lei
Giovanni figliuolo d'Alibret, suo marito, aveva chiamato alla corte
Alibret suo padre e cercato con diligenza grande di congiugnerselo;
alla qual cosa gli aveva dato grandissima opportunità la morte di
Gastone di Fois, per causa del quale, pretendente quel regno non
appartenere alle femmine ma a sé piú prossimo maschio della famiglia
di Fois, aveva il re di Francia perseguitato Giovanni. Da altra
parte il re cattolico, il quale aveva voltato gli occhi a quel
reame, dimandava al re di Navarra che stesse neutrale tra il re di
Francia e lui, consentisse per il regno il passo alle sue genti che
dovevano entrare in Francia, e che per sicurtà di osservargli queste
promesse gli desse in mano alcune fortezze, promettendo
restituirgliene come prima fusse finita la guerra: le quali dimande
conoscendo il Navarro dove tendessino, perché era noto l'antico
desiderio de' re di Spagna di occupare la Navarra, eleggeva piú
tosto di esporsi al pericolo incerto che accettare la perdita certa,
sperando non dovergli mancare il soccorso promesso, di cavalli e [di
fanti], del re di Francia, alle cose del quale era opportunissimo il
ritenere la guerra in Navarra; e nel medesimo tempo, o per dare
maggiore spazio di venire alle genti destinate al suo soccorso o per
liberarsi se poteva da queste dimande, trattava col re d'Aragona, il
quale secondo il costume suo procedeva in queste cose con grande
arte. Ma non nocette piú al re di Navarra la industria e
sollecitudine del re d'Aragona che la negligenza del re di Francia;
il quale, avendo preso animo perché gli inghilesi passati a
Fonterabia non aveano, già molti dí, mosso cosa alcuna, e
confidandosi che il re di Navarra potesse per alquanto di tempo con
le forze proprie difendersi, procedette lentamente a mandargli il
soccorso: donde avendovi il re d'Aragona, il quale aveva astutamente
nutrito le speranze del Navarro, voltatevi con somma celerità le
genti preparate per unirsi con gli inghilesi, il re di Navarra, non
essendo preparato, disperato di potere resistere fuggí nella Bierna
di là da' monti Pirenei; e il reame di Navarra abbandonato, da
alcune fortezze in fuori che si guardavano per il re fuggito,
pervenne senza alcuna spesa e senza difficoltà, e piú per la
riputazione della vicinità degli inghilesi che per le forze proprie,
in potestà del re d'Aragona. Il quale, non potendo affermare di
possederlo legittimamente con altro titolo, allegava l'occupazione
essere stata giuridicamente fatta per l'autorità della sedia
apostolica: perché il pontefice, non saziato de' prosperi successi
d'Italia, aveva poco innanzi publicata una bolla contro al re di
Francia nella quale, nominandolo non piú cristianissimo ma
illustrissimo, sottoponeva lui e qualunque aderisse a lui a tutte le
pene degli eretici e scismatici, concedendo a ciascuno facoltà di
occupare lecitamente le sostanze gli stati e tutte le cose loro; e
con la medesima acerbità, sdegnato che nella città di Lione fussino
stati ricettati i cardinali e gli altri prelati fuggiti da Milano,
avea sotto gravissime censure comandato che la fiera solita a
celebrarsi ogni anno quattro volte, con grandissimo concorso di
mercatanti, a Lione, si celebrasse in futuro nella città di Ginevra,
donde già il re Luigi undecimo, per beneficio del regno suo, l'aveva
rimossa; e all'ultimo sottoposto allo interdetto ecclesiastico tutto
il reame di Francia. Ma il re d'Aragona, poiché ebbe acquistato la
Navarra, regno, benché piccolo e di piccole entrate, per il sito suo
molto opportuno e di sicurtà grande alle cose di Spagna, avea fisso
nell'animo di non procedere piú oltre, non riputando a proposito suo
la guerra col re di Francia di là da' monti. Perciò, e nel principio
della giunta degli inghilesi era stato tardo a preparare le forze
sue, e dopo l'acquisto di Navarra, sollecitando gli inghilesi che
unisse con loro le genti sue per andare insieme a campo a Baiona,
città vicina a Fonterabia e posta quasi in sul mare Oceano,
proponeva altre imprese in luoghi distanti dal mare; allegando,
Baiona essere talmente fortificata e talmente proveduta di soldati
che niuna speranza si poteva avere di ottenerla: alle quali cose
contradicendo gli inghilesi, che dispregiavano qualunque acquisto
nel ducato di Ghienna senza Baiona, poiché in queste dispute fu
consumato molto tempo, infastiditi gli inghilesi e riputandosi
delusi, imbarcatisi senza commissione o licenza del suo principe, se
ne tornorno in Inghilterra. Donde il re di Francia, rimanendo sicuro
da quella parte, né temendo piú degli inghilesi che l'aveano
assaltato per mare, perché, alla fine, diventò con l'armate
marittime tanto potente che signoreggiava tutto il mare dalla costa
di Spagna insino alle coste di Inghilterra, deliberò di tentare di
ricuperare la Navarra; dandogli animo a questo, oltre alla partita
degli inghilesi, l'avere per i successi avversi di Italia ridotte
tutte le sue genti nel regno di Francia.
Aveva il re d'Aragona, nel tempo che agli inghilesi dava speranza di
fare la guerra, e per occupare tutto il reame di Navarra, mandato
alcune genti a San Giovanni Piè di Porto, ultimo confine del reame
di Navarra, e posto alle radici de' monti Pirenei di verso la
Francia; e dipoi cominciando ad augumentare le forze de' franzesi
ne' luoghi vicini v'aveva mandato con tutto il suo esercito Federico
duca d'Alva, capitano generale della guerra: ma divenuto
ultimatamente molto superiore l'esercito franzese, nel quale era
venuto il delfino, Carlo duca di Borbone e Longavilla, signori
principali di tutta la Francia, il duca di Alva, fermatosi in
alloggiamento forte tra 'l piano e il monte aveva assai se proibisse
che i franzesi non entrassino nella Navarra. I quali, non potendo
urtarlo in quel luogo per la fortezza del sito, deliberorno che il
re di Navarra con settemila fanti del suo paese, e con lui la
Palissa con trecento lancie, movendosi da Salvatierra vicina a San
Giovanni Piè di Porto, dove alloggiava tutto l'esercito, passassino
per la via di Valdironcales i monti Pirenei, e accostandosi a
Pampalona metropoli della Navarra, nella quale i popoli, preso animo
dalla vicinità de' franzesi, già facevano per il desiderio del suo
re molte sollevazioni, occupassino il passo di Roncisvalle, per il
quale solo si conducevano alle genti spagnuole le vettovaglie, delle
quali nel luogo dove erano, per la sterilità del paese, non aveano
copia alcuna. L'effetto fu che il re di Navarra e la Palissa,
occupato prima il passo di... che è in sulla sommità de' monti
Pirenei, sforzorno il Borghetto terra posta a piè de' monti Pirenei,
difesa da Baldes capitano della guardia del re d'Aragona con molti
fanti; e se colla celerità debita fussino andati a occupare il passo
di Roncisvalle, bastava la fame sola a espugnare l'esercito
spagnuolo, circondato da ogni parte dagli inimici e da paesi oltre a
modo difficili. Ma gli prevenne la celerità del duca d'Alva; il
quale, lasciati in San Gianni Piè di Porto mille fanti e tutta
l'artiglieria, passò a Pampalona per il passo di Roncisvalle,
innanzi che essi vi entrassino. Onde frustrati di questa speranza il
re di Navarra e la Palissa, a' quali il delfino avea di nuovo
mandato [quattrocento] lancie e settemila fanti tedeschi, si
accostorno a Pampalona con quattro pezzi d'artiglieria, la quale con
difficoltà grande per l'asprezza de' monti aveano condotta; e dipoi
dato l'assalto, non l'avendo ottenuta, costretti dalla stagione del
tempo, che era del mese di dicembre, e dal mancamento delle
vettovaglie per la sterilità del paese, ripassorno i monti Pirenei;
in su' quali, per la difficoltà de' passi e impedimenti de' paesani,
furno costretti lasciare l'artiglierie: e nel tempo medesimo
Lautrech, che con trecento lancie e tremila fanti era entrato nella
Biscaia predando e abbruciando tutto il paese, assaltata invano la
terra di San Sebastiano, ripassati i monti tornò all'esercito. Il
quale, cessato il timore e la speranza da ogni parte, si dissolvé;
rimanendo libero e pacifico tutto il regno di Navarra al re
d'Aragona.
Nel qual tempo essendo venuto a luce che Ferdinando, che si chiamava
duca di Calavria, figliuolo già di Federico re di Napoli, convenuto
secretamente col re di Francia, trattava di fuggire nell'esercito
franzese, non molto lontano dalla terra di Logrogno nella quale era
allora il re, fu mandato da lui nella fortezza di Sciativa, solita a
usarsi da' re aragonesi per carcere delle persone chiare o per
nobiltà o per virtú; squartato per la medesima cagione Filippo
Coppola napoletano, il quale era andato occultamente al re di
Francia per queste cose; variando cosí la fortuna lo stato degli
uomini che egli fusse squartato in servigio di colui dall'avolo
paterno del quale il conte di Sarni suo padre era stato fatto
decapitare. E faceva alle cose di Italia qualche momento l'essersi
scoperta questa congiura, la quale aveva avuto origine da un frate
mandato occultamente a Ferdinando dal duca di Ferrara: perché il re
cattolico avendo già inclinazione di sodisfare al pontefice, si
accese molto piú per questo sdegno; in modo che comandò al viceré e
all'oratore suo appresso al pontefice che, quando a lui paresse,
voltassino l'esercito suo contro a Ferrara, non lo ricercando di
altri danari che di quegli che fussino necessari a sostentarlo.
Queste cose si feciono quello anno in Italia in Francia e in
Ispagna.
Lib.11, cap.7
Speranze di accordi del re di Francia e segrete trattative col
vescovo Gurgense, coi veneziani e col re d'Aragona. Suoi vani
tentativi di accordi con gli svizzeri. Dispareri nel consiglio del
re di Francia intorno alla politica da seguirsi rispetto ai
veneziani e a Cesare; sforzi del re d'Aragona per conciliare i
veneziani e Cesare.
Seguita l'anno mille cinquecento tredici, non meno pieno di cose
memorabili che l'anno precedente. Nel principio del quale, cessando
l'armi da ogni parte, perché né i viniziani molestavano altri né
alcuno si moveva contro a loro, il viceré andato con tremila fanti a
campo alla rocca di Trezzo l'ottenne, con patto che con le cose loro
partissino salvi quegli che vi erano dentro. Ma premevano gli animi
di tutti i pensieri delle cose future, sapendosi che il re di
Francia, essendo liberato dalle armi forestiere il regno suo, e
preso animo dall'avere soldato molti fanti tedeschi e accresciuto
non poco il numero dell'ordinanza delle lancie, niuna altra cosa piú
pensava che alla recuperazione del ducato di Milano: la quale
disposizione benché nel re fusse ardentissima, e desiderasse
sommamente accelerare la guerra mentre che le castella di Milano e
di Cremona si tenevano ancora per lui, nondimeno, considerando
quanta difficoltà gli facesse l'opposizione di tanti inimici, né
sicuro che la state prossima non l'assaltasse con apparati
grandissimi il re d'Inghilterra, deliberava non muovere cosa alcuna
se o non separava dall'unione comune qualcuno de' confederati o non
si congiugnesse co' viniziani. Delle quali cose che qualcuna potesse
succedere se gli erano, insino l'anno precedente, presentate varie
speranze. Perché il vescovo Gurgense, quando da Roma andava a
Milano, udito benignamente nel cammino uno familiare del cardinale
di San Severino, mandatogli in nome della reina di Francia, aveva
dipoi mandato secretamente in Francia uno de' suoi, proponendo che
il re s'obligasse ad aiutare Cesare contro a' viniziani,
contraessesi il matrimonio tra la seconda figliuola del re con Carlo
nipote di Cesare, alla quale si desse in dote il ducato di Milano;
cedesse il re alla figliuola e al futuro genero le ragioni le quali
pretendeva avere al regno di Napoli, e perché la sicurtà di Cesare
non fussino le semplici parole e promesse, che di presente venisse
in potestà sua la sposa; e che ricuperato che avesse il re il ducato
di Milano fussino tenute da Cesare Cremona e la Ghiaradadda. Sperava
medesimamente il re potersi congiugnere i viniziani, sdegnati
sommamente quando il viceré occupò Brescia e molto piú per le cose
convenute poi a Roma tra 'l pontefice e Cesare: perciò, insino
allora, aveva fatto venire occultissimamente alla corte Andrea
Gritti, il quale, preso a Brescia, dimorava ancora prigione in
Francia; e operato che Gianiacopo da Triulzi, in cui molto
confidavano i viniziani, mandasse a Vinegia, sotto simulazione
d'altre faccende, un suo secretario. Offerivasigli similmente
qualche speranza di convenire col re di Aragona; il quale, come era
consueto trattare spesso le cose sue per mezzo di persone religiose,
aveva occultamente mandato in Francia due frati, acciocché,
dimostrando avere zelo del bene publico, cominciassino a trattare
con la reina qualcosa attenente alla pace, o universale o
particolare, intra i due re: ma di questo era piccola speranza,
sapendo il re di Francia che egli si vorrebbe ritenere la Navarra, e
a lui essendo molto duro e pieno di somma indignità abbandonare quel
re, che per ridursi alla amicizia sua e sotto la speranza de' suoi
aiuti era caduto in tanta calamità.
Ma niuna cosa piú premeva al re di Francia che il desiderio di
riconciliarsi i svizzeri, conoscendo da questo dependere la vittoria
certissima, per l'autorità grandissima che aveva allora quella
nazione per il terrore delle loro armi, e perché pareva che avessino
cominciato a reggersi non piú come soldati mercenari né come pastori
ma vigilando, come in republica bene ordinata e come uomini nutriti
nell'amministrazione degli stati, gli andamenti delle cose, né
permettendo si facesse movimento alcuno se non secondo l'arbitrio
loro. Però concorrevano in Elvezia gli imbasciadori di tutti i
príncipi cristiani; il pontefice e quasi tutti i potentati italiani
pagavano annue pensioni per essere ricevuti nella loro
confederazione, e avere facoltà di soldare per la difesa propria,
quando n'avessino di bisogno, soldati di quella nazione: dalle quali
cose insuperbiti, e ricordandosi che coll'armi loro avea prima Carlo
re di Francia conquassato lo stato felice d'Italia, e che coll'armi
loro Luigi suo successore aveva acquistato il ducato di Milano,
recuperata Genova e vinti i viniziani, procedevano con ciascuno
imperiosamente e insolentemente. E nondimeno al re di Francia, oltre
a' conforti di molti particolari della nazione e il persuadersi che
gli avessino a muovere l'offerte grandissime di danari, dava
speranza che avendo quegli che governavano Milano convenuto cogli
oratori de' svizzeri, in nome di Massimiliano Sforza, di dare loro,
come prima egli avesse ricevuta la possessione del ducato di Milano
e delle fortezze, ducati cento cinquantamila, e per spazio di
venticinque anni quarantamila ducati ciascuno anno, ricevendolo essi
sotto la sua protezione e obligandosi a concedere de' loro fanti a'
suoi stipendi, nondimeno non avevano mai i cantoni ratificato.
Perciò, nel principio dell'anno presente, con tutto che prima avesse
tentato invano che gli imbasciadori, i quali intendeva mandare a
trattare di queste cose, fussino uditi, consentí per poterlo fare di
dare loro libere le fortezze di Valdilugana e di Lugarna, per
ottenere con questo prezzo la udienza loro. Con tanta indignità
cercavano i príncipi grandi l'amicizia di quella nazione. Venne
adunque per commissione del re [monsignore] della Tramoglia a
Lucerna, nel qual luogo era chiamata la dieta per udirlo; e benché
raccolto con lieta fronte conobbe presto essere, in quanto al ducato
di Milano, vane le sue fatiche; perché pochi dí innanzi sei de'
cantoni avevano ratificato e suggellato i capitoli fatti con
Massimiliano Sforza, tre avevano deliberato di ratificare, gli altri
tre mostravano di stare ancora ambigui. Però, non parlando piú delle
cose di Milano, proponeva che almanco aiutassino il re a recuperare
Genova e Asti, che nella capitolazione fatta con Massimiliano non si
includevano. Alle quali dimande il Triulzio per dare favore fece
instanza di potere andare alla dieta, sotto colore di trattare cose
sue particolari; e gli fu concesso il salvocondotto, ma con
condizione che non trattasse di cosa alcuna attenente al re di
Francia: anzi, come fu giunto a Lucerna, gli fu fatto comandamento
che non parlasse né in publico né in privato con la Tramoglia.
Finalmente, con consentimento comune, furono ratificati da tutti i
cantoni i capitoli fatti col duca di Milano, denegate tutte le
dimande del re di Francia, e aggiunto che non se gli concedesse
soldare fanti di quella nazione per servirsene né in Italia né fuora
d'Italia.
Perciò il re, escluso da' svizzeri, conosceva essere necessario il
riconciliarsi o con Cesare o co' viniziani, i quali nel tempo
medesimo trattavano ancora [con] Cesare: perché, crescendo negli
animi de' collegati il sospetto della riconciliazione loro col re di
Francia, consentiva Gurgense che essi ritenessino Vicenza. Ma dando
animo al senato quelle medesime ragioni che facevano timore agli
inimici, negavano volere piú fare la pace se non si restituiva loro
Verona, ricompensando Cesare con maggiore somma di danari: nella
qual dimanda trovando difficoltà, inclinati tanto piú all'amicizia
franzese, convennono col secretario del Triulzio di confederarsi col
re, riferendosi alle prime capitolazioni fatte tra loro, per le
quali se gli dovevano Cremona e la Ghiaradadda; ma il secretario
espresse nella capitolazione che niente fusse valido se infra certo
tempo non si approvava dal re. Nel consiglio del quale erano varie
dispute, quale fusse piú da desiderare, o la riconciliazione con
Cesare o la confederazione co' viniziani. Questa piú approvavano
Rubertet, secretario di grande autorità, il Triulzio e quasi tutti i
principali del consiglio, allegando quel che l'esperienza presente
aveva, con tanto danno, dimostrato della incostanza di Cesare,
l'odio che aveva contro al re e il desiderio di vendicarsi;
penetrando massime, da autori non leggieri, essere state in questo
tempo qualche volta parole sue, che aveva fissa nell'animo la
memoria di diciassette ingiurie ricevute da' franzesi, e che
essendogli venuta la facoltà di vendicarle tutte non voleva perderne
la occasione; né per altro effetto trattarsi queste cose da lui se
non o per avere, per mezzo della riconciliazione fraudolenta,
maggiore comodità di nuocere, o almeno per interrompere quel che si
sapeva trattarsi co' viniziani o per raffreddare le preparazioni
della guerra; né si potere scusare né meritare compassione chi una
volta ingannato da uno tornava incautamente a confidarsi di lui.
Replicava in contrario il cardinale di San Severino, mosso, come
dicevano gli avversari, piú per lo studio delle parti contro al
Triulzio che per altre cagioni (perché in Milano aveva sempre,
insieme co' fratelli, seguitata la parte ghibellina): niuna cosa
potere essere piú utile al re che, col congiugnersi con Cesare,
rompere l'unione degli inimici, massime facendosi la congiunzione
per mezzo tale che si potesse sperare dovere essere durabile;
essendo proprio de' príncipi preporre nelle loro deliberazioni
sempre l'utilità alla benivolenza agli odii e all'altre cupidità. E
quale cosa potere a Cesare fare beneficio maggiore che l'aiuto
presente contro a viniziani? la speranza d'avere a succedere il
nipote nel ducato di Milano? Separato Cesare dagli altri, non
potere, per l'interesse del nipote e per gli altri rispetti, opporsi
alla autorità sua il re cattolico; né cosa alcuna potere piú
spaventare il pontefice che questa: e per contrario essere piena di
indignità la confederazione co' viniziani, avendo a concedere loro
Cremona e la Ghiaradadda, membri tanto propri al ducato di Milano,
per la recuperazione de' quali aveva il re concitato tutto il mondo;
e nondimeno, se non si divideva la unione degli altri, non bastare a
conseguire la vittoria la congiunzione co' viniziani. Prevaleva
finalmente questa sentenza per l'autorità della reina desiderosa
della grandezza della figliuola; pur che si potesse ottenere che
insino alla consumazione del matrimonio si conservasse appresso alla
madre, la quale obligasse la fede sua di tenerla in nome di Cesare
come sposa destinata al nipote, e di consegnarla al marito come
prima l'età fusse abile al matrimonio: ma certificato poi il re,
Cesare non essere per convenire con questa limitazione, piú tosto
queste cose essere state proposte da lui artificiosamente per dargli
causa di procedere piú lentamente negli altri pensieri, rimosso
l'animo da questa pratica, rivocò Asparot fratello di Lautrech,
partito già dalla corte per andare a Gurgense con questa
commissione. Da altra parte, crescendo il timore dell'unione tra il
re e i viniziani, il re d'Aragona confortava Cesare alla
restituzione di Verona, proponendogli il trasferire, co' danari che
arebbe da' viniziani e con l'esercito spagnuolo, la guerra nella
Borgogna. Il medesimo sentiva Gurgense, il quale, sperando potere
colla presenza muovere Cesare, ritornò in Germania: seguitandolo non
solo don Petro Durrea, venuto seco, ma ancora Giovambatista Spinello
conte di Carriati, imbasciadore del medesimo re appresso a'
viniziani; avendo prima indotto il senato, acciocché nuove
difficoltà non interrompessino le speranze che si trattavano, a fare
tregua con Cesare per tutto il mese di marzo, data la fede dagli
oratori predetti che Cesare restituirebbe Verona, pur che a lui
fussino promessi in certi tempi dugento cinquantamila ducati e
ciascuno anno ducati cinquantamila.
Lib.11, cap.8
Morte di Giulio II: giudizio dell'autore. Occupazione di Piacenza e
di Parma da parte del viceré. Elezione di Leone X; sue promesse di
benevolenza verso i cardinali scismatici. Magnifica incoronazione
del nuovo pontefice.
In questa agitazione di cose e in tempi tanto gravi sopravenne la
infermità del pontefice, pieno (perché dall'avere ottenuto le cose
desiderate non si diminuiscono ma si accrescono sempre i disegni) di
maggiori voglie e concetti che forse fusse stato innanzi, per tempo
alcuno. Perché aveva deliberato di fare, al principio della
primavera, la impresa tanto desiderata di Ferrara; la quale città,
essendo abbandonata da tutti gli aiuti, e dovendovi andare oltre
alle genti sue l'esercito spagnuolo, si credeva avesse a fare
piccola resistenza: aveva comperato secretamente, per prezzo di
trentamila ducati da Cesare la città di Siena per il duca d'Urbino;
al quale, per conservarsi intera la gloria d'avere pensato
schiettamente alla esaltazione della Chiesa, non avea, da Pesero
infuora, voluto mai concedere cosa alcuna dello stato ecclesiastico;
conveniva prestare a Cesare quarantamila ducati, ricevendone in
pegno Modena; minacciava i lucchesi che ne' travagli del duca di
Ferrara avessino occupato la Garfagnana, instando la dessino a lui;
e sdegnato col cardinale de' Medici per parergli che aderisse piú al
re cattolico che a sé, e per conoscere di non potere disporre come
si aveva presupposto di quella città, già aveva nuovi disegni e
nuove pratiche per alterare lo stato di Firenze: sdegnato col
cardinale sedunense, perché di stati e di beni di diverse persone
nello stato di Milano aveva attribuito a sé entrata di piú di
trentamila ducati l'anno, gli aveva tolto il nome del legato e
chiamatolo a Roma: aveva, acciò che le cose del duca di Urbino in
Siena, per la intelligenza de' vicini, fussino piú stabili, condotto
di nuovo Carlo Baglione, per cacciare Giampaolo di Perugia
congiuntissimo di affinità co' figliuoli di Pandolfo Petrucci,
successori della grandezza paterna: voleva costituire in Genova
nuovo doge Ottaviano Fregoso, rimosso Ianus di quella degnità;
consentendo a questo gli altri Fregosi perché, per il grado il quale
v'avevano tenuto i suoi maggiori, pareva che piú a lui si
appartenesse: pensava assiduamente come potesse o rimuovere di
Italia o opprimere con l'aiuto de' svizzeri, i quali soli
magnificava e abbracciava, l'esercito spagnuolo, acciò che, occupato
il regno napoletano, Italia rimanesse (queste parole uscivano
frequentemente della bocca sua) libera da' barbari; e a questo fine
aveva impedito che i svizzeri non si confederassino col re
cattolico. E nondimeno, come se in potestà sua fusse percuotere in
un tempo medesimo tutto il mondo, continuando nel solito ardore
contro al re di Francia, con tutto che avesse udito uno messo della
reina, concitava il re di Inghilterra alla guerra; al quale aveva
ordinato che, per decreto del concilio lateranense, si trasferisse
il nome del re cristianissimo; sopra la qual cosa era già scritta
una bolla, contenendosi in essa medesimamente la privazione dalla
degnità e dal titolo di re di Francia, concedendo quel regno a
qualunque lo occupasse. In questi tali e tanti pensieri, e forse
ancora in altri piú occulti e maggiori (perché nello animo tanto
feroce non era incredibile concetto alcuno quantunque vasto e
smisurato), l'oppresse, dopo infermità di molti giorni, la morte.
Dalla quale sentendosi prevenire, fatto chiamare il concistorio, al
quale per la infermità non poteva intervenire personalmente, fece
confermare la bolla publicata prima da lui contro a chi ascendesse
al pontificato per simonia, e dichiarare la elezione del successore
appartenere al collegio de' cardinali e non al concilio, e che i
cardinali scismatici non vi potessino intervenire: a' quali disse
che perdonava l'ingiurie fatte a sé, e che pregava Dio che
perdonasse loro le ingiurie fatte alla sua Chiesa. Supplicò poi al
collegio de' cardinali che, per fare cosa grata a sé, concedessino
la città di Pesero in vicariato al duca di Urbino; ricordando che
per opera principalmente di quel duca era stata, alla morte di
Giovanni Sforza, ricuperata alla Chiesa. In niuna altra cosa
dimostrò affetti privati o propri; anzi, supplicando instantemente
madonna Felice sua figliuola, e per sua intercessione molti altri,
che creasse cardinale [Guido] da Montefalco perché erano nati di una
medesima madre, rispose apertamente non essere persona degna di quel
grado: e ritenendo in tutte le cose la solita costanza e severità, e
il medesimo giudicio e vigore d'animo che aveva innanzi alla
infermità, ricevuti divotamente i sacramenti ecclesiastici, finí, la
notte innanzi al vigesimo primo dí di febbraio essendo già propinquo
il giorno, il corso delle fatiche presenti. Principe d'animo e di
costanza inestimabile ma impetuoso e di concetti smisurati, per i
quali che non precipitasse lo sostenne piú la riverenza della
Chiesa, la discordia de' príncipi e la condizione de' tempi, che la
moderazione e la prudenza. Degno certamente di somma gloria se fusse
stato principe secolare, o se quella cura e intenzione che ebbe a
esaltare con l'arti della guerra la Chiesa nella grandezza temporale
avesse avuta a esaltarla con l'arti della pace nelle cose
spirituali: e nondimeno, sopra tutti i suoi antecessori, di
chiarissima e onoratissima memoria; massimamente appresso a coloro i
quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa la
distinzione del pesarle rettamente, giudicano che sia piú officio
de' pontefici aggiugnere, con l'armi e col sangue de' cristiani,
imperio alla sedia apostolica che l'affaticarsi, con lo esempio
buono della vita e col correggere e medicare i costumi trascorsi,
per la salute di quelle anime, per la quale si magnificano che
Cristo gli abbia costituiti in terra suoi vicari.
Morto il pontefice, il viceré di Napoli, andato co' soldati
spagnuoli verso Piacenza, costrinse quella città a ritornare, come
già soleva, sotto l'imperio de' duchi di Milano: l'esempio de'
piacentini seguitorno, per il medesimo terrore, i parmigiani. Da
altra parte, il duca di Ferrara, ricuperate subito le terre di
Romagna, si accostò a Reggio; ma non si movendo dentro cosa alcuna
non ebbe ardire di fermarvisi, perché l'esercito spagnuolo si era
disteso ad alloggiare tra Piacenza e Reggio. Niuno altro movimento
fu nello stato della Chiesa, né sentí Roma o il collegio de'
cardinali alcuna di quelle difficoltà che avea sentite nella morte
de' due prossimi pontefici: però, finite secondo l'uso l'esequie,
entrorono pacificamente nel conclave ventiquattro cardinali; avendo
prima conceduto che il figliuolo del marchese di Mantova, che era
appresso a Giulio per statico, libero dalla fede data, potesse
ritornarsene al padre.
Nel conclave fu la prima cura moderare con capitoli molto stretti
l'autorità del futuro pontefice, esercitata, come dicevano, dal
morto troppo impotentemente: benché non molto poi (come degli uomini
alcuni non hanno ardire di opporsi al principe, altri appetiscono di
farselo benevolo) gli annullorno da loro medesimi quasi tutti.
Elessono il settimo dí, non discrepando alcuno, in pontefice
Giovanni cardinale de' Medici, il quale assunse il nome di Leone
decimo, di età d'anni trentasette; cosa, secondo la consuetudine
passata, maravigliosa, e della quale fu principale cagione la
industria de' cardinali giovani, convenutisi molto prima tacitamente
insieme di creare il primo pontefice del numero loro. Sentí di
questa elezione quasi tutta la cristianità grandissimo piacere,
persuadendosi universalmente gli uomini che avesse a essere
rarissimo pontefice, per la chiara memoria del valore paterno e per
la fama, che risonava per tutto, della sua liberalità e benignità;
stimato casto e di integerrimi costumi; e sperandosi che a esempio
del padre avesse a essere amatore de' letterati e di tutti
gl'ingegni illustri: la quale espettazione accresceva l'essere stata
fatta l'elezione candidamente, senza simonia o sospetto di macula
alcuna. E pareva già che Iddio cominciasse ad approvare questo
pontificato, perché il quarto dí dalla elezione vennono in sua
potestà i cardinali privati di Santa Croce e di San Severino. I
quali, intesa la morte di Giulio, andavano per mare a Roma,
accompagnati da... Solier imbasciadori del re di Francia; ma intesa
nel porto di Livorno, ove erano sorti, essere eletto il cardinale
de' Medici in nuovo pontefice, confidatisi nella sua benignità, e
specialmente Sanseverino nella amicizia stretta che aveva avuto seco
e col fratello, impetrato salvocondotto, dal capitano di Livorno, il
quale non si stendeva oltre a' limiti della sua giurisdizione,
discesono in terra, e dipoi, non ricercata altra sicurezza,
spontaneamente andorno a Pisa: nella quale città raccolti
onoratamente, e dipoi condotti a Firenze, erano onestamente
custoditi, di maniera che non aveano facoltà di partirsi: cosí
desiderando il pontefice. Il quale, mandato il vescovo d'Orvieto,
gli confortò con parole molto benigne che, per sicurtà loro e per
pace della Chiesa, soprasedessino in Firenze insino a tanto si
determinasse in che modo avessino a andare a Roma; e che, essendo
stati privati giuridicamente e confermata la privazione nel concilio
lateranense, non andassino piú in abito di cardinali, perché facendo
segni d'umiliarsi, faciliterebbono a lui il ridurre, secondo che
aveva in animo di fare, in porto le cose loro.
Fu la prima azione del nuovo pontificato la incoronazione sua, fatta
secondo l'uso degli antecessori nella chiesa di San Giovanni
Laterano, con tanta pompa, cosí dalla famiglia e corte sua come da
tutti i prelati e da molti signori che vi erano concorsi e dal
popolo romano, che ciascuno confessò non avere mai veduto Roma, dopo
le inondazioni de' barbari, dí piú magnifico e piú superbo che
questo. Nella quale solennità portò il gonfalone della Chiesa
Alfonso da Esti; il quale, ottenuta la sospensione dalle censure,
era andato a Roma, con speranza grande di comporre, per la
mansuetudine del pontefice, le cose sue: portò quello della
religione di Rodi Giulio de' Medici, armato, in su uno grosso
corsiere; inclinato dalla volontà sua alla professione dell'armi ma
tirato da' fati alla vita sacerdotale, nella quale avesse a essere
esempio maraviglioso della varietà della fortuna. E fece questo dí
piú memorabile e di maggiore ammirazione il considerare che colui
che ora pigliava, con sí rara pompa e splendore, le insegne di tanta
degnità era stato nel dí medesimo, l'anno dinanzi, fatto
miserabilmente prigione. Confermò questa magnificenza appresso al
volgo la espettazione che si aveva di lui, promettendosi ciascuno
che Roma avesse a essere felice sotto uno pontefice ornato di tanta
liberalità e di tanto splendore; perché era certo essere stati spesi
da lui in questo dí centomila ducati: ma gli uomini prudenti
desiderorno maggiore gravità e moderazione, giudicando né convenire
tanta pompa a' pontefici, né essere secondo la condizione de' tempi
presenti il dissipare inutilmente i danari accumulati dal
precessore.
Lib.11, cap.9
Tregua fra il re di Francia e il re d'Aragona. Preoccupazioni in
Italia per la conclusione della tregua. Ragioni che spingono il re
di Francia alla nuova impresa d'Italia. Confederazione fra i
veneziani e il re di Francia.
Ma né la mutazione del pontefice né altri accidenti bastavano a
stabilire la quiete d'Italia, anzi già apertamente cominciavano a
indirizzarsi le cose alla guerra. Perché Cesare, alieno totalmente
dalla restituzione di Verona, parendogli rimanere privato della
facilità di entrare in Italia, con tutto che fusse stata prolungata
la tregua per tutto aprile, disprezzò le condizioni dell'accordo
trattato a Milano; e infastidito della instanza che gli facevano gli
oratori del re cattolico, disse al conte di Carriati che, per la
inclinazione che da lui si dimostrava a' viniziani, conveniva che
fusse chiamato piú presto imbasciadore viniziano che spagnuolo: ma
augumentò molto piú questa disposizione la tregua la quale tra i re
cristianissimo e cattolico fu fatta, per uno anno, solamente per le
cose di là da' monti; per la quale al re di Francia, liberato da'
sospetti di verso Spagna, si dava facilità grandissima di rinnovare
la guerra nel ducato di Milano. Aborriva in ogni, tempo il re
cattolico d'avere la guerra di là da' monti co' franzesi, perché non
essendo potente di danari, e per questo costretto ad aiutarsi delle
forze de' signori e de' popoli di Spagna, o non aveva gli aiuti
pronti o bisognava che nel tempo della guerra stesse con loro quasi
come in subiezione: ma in questo tempo massimamente era confermato
il suo antico consiglio, perché colla quiete si stabiliva meglio il
regno nuovamente acquistato di Navarra, ma molto piú perché, essendo
dopo la morte della reina Isabella non piú re ma governatore di
Castiglia, non aveva tanto fondata ne' tempi turbolenti l'autorità
sua; e aveva veduto l'esperienza frescamente nella difesa di
Navarra, della quale se bene fusse stato felice il fine non era però
che, per la lentezza de' soccorsi, non si fusse ridotto in molti
pericoli. A' quali non volendo piú ritornare, contrasse, non sapendo
ancora la morte del pontefice, la tregua; con tutto che non fusse
publicata innanzi sapesse l'elezione del nuovo. E allegava, per
giustificazione di questa inaspettata deliberazione, essergli stata
violata la lega dal pontefice e da' viniziani, perché dopo la
giornata di Ravenna non avevano mai voluto pagare i quarantamila
ducati, come erano tenuti mentre che il re di Francia possedeva cosa
alcuna in Italia: egli solo avere pensato al bene comune de'
confederati né attribuito a sé i premi della vittoria comune, né
possedere in Italia una piccola torre piú di quello che possedeva
innanzi alla guerra; ma il papa avere pensato al particolare e fatte
sue proprie le cose comuni, occupato Parma, Piacenza e Reggio, né
pensato ad altro che a occupare Ferrara; la quale sua cupidità aveva
disturbato l'acquistare le fortezze del ducato di Milano e la
Lanterna di Genova: avere egli interposta tutta la sua diligenza e
autorità per la concordia tra Cesare e i viniziani, ma il pontefice
essersi per gli interessi propri precipitato a escludergli dalla
lega; nella qualcosa avere fatto imprudentemente gli oratori suoi,
che non avendo consentito, perché cosí sapeano essere la mente sua,
che e' fusse nominato nel capitolo nel quale si introduceva la
confederazione, l'avessino lasciato nominare in quello nel quale si
escludevano i viniziani; né avere in questo maneggio corrisposto i
viniziani al concetto che si aveva della prudenza loro, avendo
tenuto tanto conto di Vicenza che, per non perderla, non avessino
voluto liberarsi da' travagli della guerra: essergli impossibile
nutrire, senza i pagamenti che gli erano stati promessi, l'esercito
che aveva in Italia, e manco essergli possibile sostenere tutta la
guerra a' confini de' regni suoi, come conosceva desiderare e
procurare tutti gli altri: né dissimulare il pontefice il desiderio
già indirizzato di torgli il regno di Napoli. E nondimeno non
muoverlo queste ingiurie a pensare di abbandonare la Chiesa e gli
altri di Italia, quando trovasse la corrispondenza conveniente, i
quali sperava che, commossi da questa tregua col re, sarebbeno piú
pronti a convenire seco per la difesa comune. Inserí nello
instrumento della tregua il nome di Cesare e del re di Inghilterra,
con tutto che con loro non avesse comunicato cosa alcuna; e fu cosa
ridicola che ne' medesimi dí che la si bandiva solennemente per
tutta Spagna venne uno araldo a significargli, in nome del re
d'Inghilterra, gli apparati potentissimi che e' faceva per assaltare
la Francia e a sollecitare che egli medesimamente movesse, secondo
che aveva promesso, la guerra dalla parte di Spagna.
La tregua fatta in questo modo spaventò sommamente in Italia gli
animi di coloro a' quali era molesto lo imperio de' franzesi,
tenendosi quasi per certo da tutti che il re di Francia non avesse a
tardare a mandare l'esercito di qua da' monti e che, per
l'ostinazione di Cesare alla pace, i viniziani avessino a unirsi
seco; a' quali resistere pareva molto difficile, perché l'esercito
spagnuolo, ancora che dallo stato di Milano afflitto da spese
infinite avesse tratto alcuna volta qualche somma di danari, non
aveva piú modo a sostentarsi. Del nuovo pontefice non si comprendeva
ancora quale fusse la intenzione: perché, benché secretamente
desiderasse che la potenza del re di Francia avesse per termine i
monti, nondimeno, nuovo nel pontificato, e confuso non meno che gli
altri dalla tregua fatta dal re cattolico nel tempo che si credeva
avesse applicati i pensieri alla guerra, stava coll'animo molto
sospeso; sdegnato ancora che, ricercando con grande instanza che
alla Chiesa fussino restituite Parma e Piacenza, il darne speranza
era pronto, l'esecuzione procedeva lentamente; desiderando tutti gli
altri conservarle al ducato di Milano, e per avventura sperando che
il desiderio di recuperarle lo inducesse alla difesa di quello
stato. Parevano piú certo e piú potente presidio i svizzeri ma,
considerando non potersi né da Massimiliano Sforza né da altri
pagare i danari che, secondo le convenzioni, erano necessari al
muovergli, si temeva che nel maggiore bisogno ricusassino di
scendere nello stato di Milano.
Da altra parte il re di Francia, fatta che ebbe la tregua, deliberò
di mandare l'esercito in Italia, dandogli speranza alla vittoria le
ragioni dette di sopra; alle quali s'aggiugneva il sapere che i
popoli dello stato di Milano, vessati da tante taglie e rapine de'
svizzeri e dagli alloggiamenti e pagamenti fatti agli spagnuoli,
desideravano ardentemente di ritornare sotto il dominio suo, avendo,
per l'acerbità degli altri, conosciuto essere, in comparazione loro,
desiderabile lo imperio de' franzesi. Anzi molti gentiluomini
particolari di quel ducato, per messi propri, indiritti chi al re
chi al Triulzio (il quale il re, acciocché di luogo piú propinquo
trattasse co' milanesi, avea mandato a Lione), confortavano a non
differire a mandare l'esercito; promettendo, subito che avesse
passato i monti, di pigliare scopertamente l'armi per lui. Né
mancavano gli stimoli assidui del Triulzio e degli altri fuorusciti
che, secondo il costume di chi è fuori della patria, proponevano la
impresa dovere essere molto facile, massimamente congiugnendosi seco
i viniziani. E lo costrigneva ad accelerare il confidare di
prevenire, colla fine di questa, il principio della guerra del re di
Inghilterra: la quale non poteva cominciare se non dopo il corso di
qualche mese, perché quel regno, essendo già molti anni stato in
pace, era sproveduto d'armadure, d'artiglierie e quasi di tutte le
cose necessarie alla guerra, non aveva cavalli da combattere perché
gli inghilesi non conoscono altra milizia che la pedestre, e quella
non essendo esperimentata, era necessitato, perché voleva passare in
Francia potentissimo, soldare numero grande di fanti tedeschi: cose
che senza lunghezza di tempo non si potevano spedire. Costrigneva
similmente il re, ad accelerare, il timore che le fortezze non si
perdessino per mancamento di vettovaglie; e specialmente la Lanterna
di Genova, la quale pochi dí innanzi non gli era succeduto di
rinfrescare per una nave mandata a questo effetto: la quale da
Arbinga, insino dove era stata accompagnata da tre navi e da uno
galeone, entrata nell'alto mare col vento prospero, per la forza del
quale passata per mezzo de' legni genovesi si era accostata al
castello, surta in sull'ancore e dato il cavo alla fortezza, già
cominciava a scaricare le vettovaglie e le munizioni che avea
portate; ma Andrea Doria, quel che poi fu tanto felice e famoso in
sul mare, entrato con pericolo grande, con una nave grossa della
quale era padrone, tra la Lanterna e la nave franzese, e tagliato il
cavo dato alla fortezza e i cavi delle ancore, combattendo
egregiamente e nel combattere ferito nel volto, la conquistò.
Deliberato adunque il re non differire il dare cominciamento alla
guerra (al qual fine, per essere parato a ogni occasione, avea prima
mandato molte lancie ad alloggiare nella Borgogna e nel Dalfinato)
ristrinse le cose trattate già molti mesi co' viniziani, ma
allentate alquanto dall'una parte e dall'altra, perché e il re aveva
tenuto sospeso ora la speranza della pace con Cesare ora il
dimandare essi pertinacemente Cremona e la Ghiaradadda, e nel senato
erano stati vari pareri. Perché molti di autorità grande nella
republica proponevano la concordia con Cesare, dimostrando essere
piú utile alleggerirsi al presente da tante spese e liberarsi da'
pericoli, per potere piú prontamente abbracciare l'occasioni che si
offerissino, che, essendo la republica affaticata e indebolite le
sostanze de' privati, implicarsi in nuove guerre in compagnia del re
di Francia; della amicizia del quale quanto fusse fedele e sicura
avevano sí fresca l'esperienza: nondimeno, parendo alla maggiore
parte rare volte potere venire tale occasione di recuperare l'antico
stato loro, e che la concordia con Cesare, ritenendosi Verona, non
gli liberasse dalle molestie e da' pericoli, si risolverono a fare
la confederazione col re di Francia, lasciato da parte il pensiero
di Cremona e della Ghiaradadda. La quale per Andrea Gritti, che già
sosteneva piú la persona di imbasciadore che di prigione, fu
conchiusa nella corte del re: nella quale, presupposta la
liberazione di Bartolomeo da Alviano e di Andrea Gritti, si
obligorono i viniziani di aiutare, con ottocento uomini d'arme mille
cinquecento cavalli leggieri e diecimila fanti, il re di Francia
contro a qualunque se gli opponesse, alla recuperazione di Asti di
Genova e del ducato di Milano; e il re si obligò ad aiutare loro
insino a tanto ricuperassino interamente tutto quello possedevano,
innanzi alla lega di Cambrai, in Lombardia e nella marca trivisana;
e che al re s'appartenessino Cremona e la Ghiaradadda. La quale
confederazione subito che fu stipulata, andorno a Susa Giaiacopo da
Triulzi e Bartolomeo d'Alviano, l'uno per andare poi per la via piú
sicura a Vinegia, l'altro per unire quivi l'esercito destinato alla
guerra, che era mille cinquecento lancie ottocento cavalli leggieri
e quindicimila fanti (ottomila tedeschi, gli altri franzesi); tutti
sotto il governo di [monsignore] della Tramoglia, deputato dal re,
perché le cose procedessino con maggiore riputazione, suo
luogotenente.
Lib.11, cap.10
Dubbi del re di Francia per il contegno e gli atti del pontefice.
Cauto contegno di questo. Ambiguo contegno del viceré. Prime
irrequietudini in Milano per l'avvicinarsi dei francesi. La partenza
del viceré dalla Trebbia e suo improvviso ritorno. Suo atteggiamento
d'attesa degli avvenimenti.
Faceva in questo tempo medesimo il re, con sommi prieghi, instanza
col pontefice che non gli impedisse la recuperazione del suo ducato,
offerendogli non solamente che dopo la vittoria non procederebbe piú
oltre ma che sempre farebbe la pace ad arbitrio suo. Le quali cose
benché il pontefice udisse benignamente e che, acciò che con
maggiore fede fussino ricevute le parole sue, usasse a trattare col
re l'opera e il mezzo di Giuliano suo fratello, nondimeno molte cose
lo facevano sospetto al re: la memoria delle cose precedenti al
pontificato; l'avere il pontefice, subito che fu assunto, mandato a
lui Cintio suo familiare con uno breve e con umane commissioni, ma
tanto generali che arguivano non avere l'animo inclinato a lui:
l'avere il pontefice consentito che Prospero Colonna fusse eletto
capitano generale del duca di Milano, il che Giulio, per l'odio
contro a' Colonnesi, aveva sempre vietato. Insospettivalo molto piú,
che il pontefice aveva significato al re di Inghilterra volere
continuare nella confederazione fatta con Cesare col re cattolico e
con lui, e alle comunità de' svizzeri aveva scritto quasi
dimostrando di esortargli alla difesa d'Italia; né dissimulava
volere continuare con loro la confederazione fatta da Giulio, per la
quale, ricevendo ogni anno ventimila ducati da lui, si erano
obligati alla protezione dello stato ecclesiastico. Era anche segno
del suo animo il non avere ricevuto in grazia il duca di Ferrara, ma
differita con varie scuse la restituzione di Reggio insino a tanto
che a Roma venisse il cardinale suo fratello; il quale, per fuggire
le persecuzioni di Giulio e l'instanza del re di Francia che andasse
al concilio pisano, se ne era andato ad Agria suo vescovado in
Ungheria. Ma piú che di alcuna di queste cose rendeva sospetto il
pontefice l'avere, benché piú occultamente gli fusse stato
possibile, confortato il senato viniziano a convenire con Cesare,
cosa tutta contraria all'intenzione del re; il quale aveva ancora
interpetrato in mala parte che 'l papa, dimostrando di muoversi non
per altro che per l'officio pontificale, gli aveva scritto uno breve
esortatorio a non muovere l'armi, a inclinare a finire la guerra con
onesta composizione, cosa che per se stessa il re non arebbe
biasimata se, per il medesimo desiderio della pace, avesse
confortato il re di Inghilterra a non molestare la Francia.
E certamente non era vano il sospetto del re, perché il pontefice
desiderava sommamente che i franzesi non avessino piú sedia in
Italia, o perché gli paresse piú utile per la sicurtà comune o per
la grandezza della Chiesa o perché gli risedesse nell'animo la
memoria delle offese ricevute dalla corona di Francia: alla quale se
bene il padre e gli altri suoi maggiori fussino stati deditissimi, e
n'avessino in vari accidenti riportato comodità e onore, nondimeno
era piú fresco che i suoi fratelli ed egli erano stati cacciati di
Firenze per la venuta del re Carlo; e che questo presente re,
favorendo il governo popolare, o gli aveva sempre dispregiati o se
alcuna volta si era dimostrato inclinato a loro l'aveva fatto per
usargli come instrumenti a tirare per questo sospetto i fiorentini a
convenzioni utili a sé proprio, dimenticandosi di loro interamente.
Aggiugnevasi per avventura lo sdegno di essere stato, dopo la
giornata di Ravenna, menato prigione a Milano e che il re aveva
comandato fusse condotto in Francia. Ma quantunque, o per queste
cagioni o per altre, avesse questa disposizione, il non vedere i
fondamenti potenti, come arebbe desiderato, a resistere lo faceva
procedere cautamente e dissimulare quanto poteva il concetto suo,
udendo sempre cupidamente le dimande e le instanze che gli erano
fatte contro al re.
Perché i svizzeri, inclinatissimi a muoversi per difendere il ducato
di Milano, offerivano muoversi con numero molto maggiore purché gli
fusse porta quantità mediocre di danari; la quale, per la impotenza
degli altri, non si poteva sperare se non dal pontefice. Ma del
viceré erano incerti i consigli, varie e occulte le parole: perché
ora offeriva al pontefice di opporsi a' franzesi, discendendo egli
medesimamente apertamente nella causa, mandando a unirsi con lui le
sue genti e pagando per tre mesi quantità non piccola di fanti; e
perché piú facilmente si credesse, chiamati i suoi soldati del
parmigiano e del reggiano, si era fermato con l'esercito in sul
fiume della Trebbia, ed essendo ancora alcuni de' suoi soldati alla
guardia di Tortona e di Alessandria, i quali mai non avea mossi; ora
affermava avere ricevuto comandamento del suo re, nel tempo medesimo
che gli significò l'avere fatta la tregua, di ridurre l'esercito nel
reame di Napoli. Altrimenti parlava Ieronimo Vich oratore appresso
al pontefice, confermandosi in questo con quello che prometteva il
suo re: che pigliando il pontefice la difesa di Milano, egli, non
avendo rispetto alla tregua fatta, romperebbe la guerra in Francia;
il che diceva essergli lecito senza violare la fede data. Perciò
molti credettono che quel re, temendo che per la tregua fatta niuno
fusse per opporsi al re di Francia, avesse comandato al viceré che,
in caso non vedesse gli altri concorrere caldamente alla difesa del
ducato di Milano, che cercando di non provocare con ingiurie nuove
il re di Francia, riducesse l'esercito a Napoli: per la qual cagione
medesima dimostrava al re d'avere l'animo inclinato alla pace,
offerendo di indurvi eziandio Cesare e il re di Inghilterra; e per
renderlo manco acerbo seco, in caso recuperasse Milano, gli faceva
promessa quasi certa che 'l suo esercito non se gli opporrebbe.
Perciò il viceré, avendo in animo di partirsi, richiamò i soldati
che sotto il marchese di Pescara erano in Alessandria e in Tortona,
significando (come fu fama) nel tempo medesimo al Triulzio la sua
deliberazione, acciò che il re di Francia ricevesse in grazia la
partita. Ma non eseguí subito questo consiglio, perché i svizzeri,
ardentissimi alla difesa del ducato di Milano, aveano per publico
decreto mandati cinquemila fanti e davano speranza di mandarne
numero molto maggiore; anzi dimostrando, il contrario, mandò
Prospero Colonna a trattare co' svizzeri in qual luogo si avessino a
unire insieme contro a' franzesi, o perché avesse ricevuto avviso a
Cesare essere stata molestissima la tregua fatta, o dal suo re nuove
commissioni che seguitasse la volontà del pontefice; il quale,
combattendo in lui da una parte la piccola speranza dall'altra la
propria inclinazione, perseverava ancora nelle medesime perplessità.
E nondimeno, essendo i svizzeri venuti nel tortonese, ove Prospero
aveva data intenzione che il viceré verrebbe a unirsi, interponendo
varie scuse, gli ricercò che venissino a unirsi in sulla Trebbia:
dalla quale domanda essi comprendendo la diversità della volontà
dalle parole, risposono ferocemente non ricercare questo il viceré
per andare a mostrare la fronte agli inimici ma per voltare con
sicurtà maggiore le spalle, non importare niente a' svizzeri se
aveva timore di combattere co' franzesi, quel medesimo stimare il
suo andare il suo stare il suo fuggirsi; essi bastare soli a
difendere il ducato di Milano contro a ciascuno.
Ma già tumultuava tutto il paese: il conte di Musocco figliuolo di
Giaiacopo era, non si opponendo alcuno, entrato in Asti e poi in
Alessandria; i franzesi, partiti da Susa, si facevano innanzi; il
duca di Milano, non essendo stato a tempo a entrare in Alessandria,
si uní co' svizzeri appresso a Tortona; ove essendo stato
significato loro apertamente dal viceré che aveva deliberato di
partirsi, se ne andorono a Novara. I milanesi, alla fama della
partita del viceré, mandorono imbasciadori a Novara a scusarsi con
lui se, non avendo chi gli difendesse, per fuggire gli ultimi mali
convenissino co' franzesi; il quale dimostrò di accettare
benignamente la loro escusazione, anzi gli commendò che alla salute
della patria comune pietosamente pensassino. In sulla quale
occasione Sacramoro Visconte, deputato all'assedio del castello,
rivoltatosi alla fortuna de' franzesi, vi messe dentro vettovaglie.
Partí adunque il viceré dalla Trebbia con tutto l'esercito, nel
quale erano mille dugento uomini d'arme e ottomila fanti, per
ritornarsene nel reame, come disperate le cose di Lombardia, e però
pensando solamente alla salvazione dell'esercito: ma il dí medesimo,
mentre che camminava, ricevute tra Piacenza e Firenzuola lettere da
Roma, voltate subitamente le insegne, tornò nel medesimo
alloggiamento. La cagione fu che il pontefice, al quale erano state
quasi ne' dí medesimi restituite Piacenza e Parma, deliberato di
tentare se per mezzo de' svizzeri si potesse difendere il ducato di
Milano, dette occultissimamente a Ieronimo Morone, imbasciadore del
duca appresso a sé, quarantaduemila ducati per mandare a' svizzeri;
ma sotto nome, se pure pervenisse a notizia di altri, che ventimila
fussino per conto delle pensioni, ventiduemila per quello che i tre
cantoni pretendevano dovere avere dallo antecessore, il quale aveva
sempre ricusato di pagargli.
Per la ritornata del viceré in sulla Trebbia e per la fama della
venuta di nuovi svizzeri, i milanesi, pentitisi di essersi mossi
troppo presto, davano speranza a Massimiliano Sforza di ritornare
sotto il dominio suo, ogni volta che i svizzeri e l'esercito
spagnuolo si unissino in sulla campagna. Le quali speranze per
nutrire, il viceré, appresso al quale era Prospero Colonna, gittava
il ponte in sul Po, promettendo continuamente di passare ma non lo
mettendo a effetto; perché, pensando principalmente alla salute
dell'esercito, deliberava procedere secondo i successi delle cose,
parendogli molto pericoloso dovere avere alla fronte i franzesi,
alle spalle l'esercito veneto; il quale, occupata già la città di
Cremona e gittato il ponte alla Cava in sul Po, gli era vicino.
Lib.11, cap.11
Prime imprese dei veneziani, e dedizioni di città del ducato di
Milano ai francesi. Fazioni vittoriose dei tedeschi nel veronese.
Genova ridotta alla devozione del re di Francia.
Era Bartolomeo d'Alviano andato da Susa, per lungo circuito, a
Vinegia; dove, avendo ne' loro consigli, poi che della rotta di
Ghiaradadda ebbe, senza contradizione, riferita la colpa nel conte
di Pitigliano, parlato magnificamente della presente guerra, fu
eletto dal senato per capitano generale, con le medesime condizioni
con le quali aveva quel grado ottenuto il conte di Pitigliano e, per
avventura, il dí medesimo (tanto spesso si ride la fortuna della
ignoranza de' mortali) nel quale, quattro anni innanzi, era venuto
in potestà degli inimici: onde subito andato all'esercito, che si
raccoglieva a San Bonifazio nel veronese, essendo seco Teodoro da
Triulzi come luogotenente del re di Francia, si accostò con
grandissima celerità, il dí medesimo che l'esercito franzese si
mosse da Susa, alle porte di Verona; nella quale città avevano
congiurato alcuni per riceverlo dentro. Ma il dí seguente entrorno
in Verona, per il fiume dell'Adice, cinquecento fanti tedeschi; ed
essendo venuto a luce quel che dentro si trattava, l'Alviano,
perduta la speranza di ottenerla, deliberò, contro all'autorità del
proveditore veneto, di andare verso il fiume del Po, per impedire
gli spagnuoli o, secondo i progressi delle cose, unirsi co'
franzesi. Né significò questa deliberazione al senato se non poi
che, per uno alloggiamento, si fu discostato da Verona: perché, con
tutto che allegasse dependere interamente la somma del tutto da quel
che succederebbe del ducato di Milano e, procedendo in quello
avversamente a' franzesi le cose, vano essere e non durabile ciò che
in altro luogo si tentasse o ottenesse, e però doversi quanto era
possibile aiutare quivi la vittoria del re di Francia, nondimeno
temeva, né vanamente, che il senato non contradicesse, non tanto per
desiderio che prima s'attendesse alla recuperazione di Verona e di
Brescia quanto perché alcuni degli altri condottieri dannavano il
passare il fiume del Mincio, se prima de' progressi de' franzesi non
s'aveva piú particolare notizia; dimostrando, se sopravenisse
qualche sinistro, quanto sarebbe difficile il ritirarsi salvi,
avendo a passare per il veronese e mantuano, paesi o sudditi o
divoti a Cesare. Arrenderonsigli, impaurite da' suoi minacci,
Valeggio e la terra di Peschiera: onde, spaventato, il castellano
dette la rocca, ricevuta piccolissima quantità di danari per sé e
per alcuni fanti tedeschi che vi erano dentro. Entrorno ne' dí
medesimi in Brescia, in favore de viniziani, alcuni de' principali
della montagna con molti paesani, e nondimeno l'Alviano, benché
pregato dagli imbasciadori bresciani che lo trovorno a Gambera, e
facendone instanza il proveditore viniziano, non volle consentire di
andare a Brescia, per dimorarvi pure un dí solo a fine si
recuperasse la fortezza, guardata in nome del viceré: tanto era
l'ardore di proseguire senza alcuna intermissione la prima
deliberazione. Con la quale celerità venuto alle porte di Cremona, e
trovando che nel medesimo tempo vi entrava, pure in favore del re di
Francia, Galeazzo Palavicino chiamato da alcuni cremonesi, non
volendo comunicare ad altri la gloria d'averla ricuperata, roppe e
messe in preda le genti sue; ed entrato dentro svaligiò Cesare
Fieramosca, che con trecento cavalli e cinquecento fanti del duca di
Milano vi era rimasto a guardia. Né accadeva perdere tempo per la
recuperazione della fortezza, perché sempre era stata tenuta per il
re di Francia, proveduta poco innanzi di vettovaglie da Renzo da
Ceri; il quale nel ritornare a Crema, ove era preposto alla guardia,
avendo scontrati a Serzana dugento cavalli d'Alessandro Sforza gli
aveva rotti: donde fermatosi alla Cava in sul Po, col ponte ordinato
per passare, non proibí che i suoi soldati non molestassino alcuna
volta le terre del pontefice. Andò di poi a Pizichitone; avendo già,
per la mutazione di Cremona, Sonzino, Lodi e l'altre terre
circostanti alzate le bandiere de' franzesi. Ma prima, subito che
recuperò Cremona, aveva mandato Renzo da Ceri a Brescia con una
parte delle genti, per provedere allo stabilimento di quella città e
alla ricuperazione della fortezza; e molto piú per raffrenare i
successi prosperi de' tedeschi. Perché, quasi subito che egli si
discostò da Verona, Roccandolf, capitano de' fanti tedeschi, e con
lui Federigo Gonzaga da Bozzole, usciti di Verona con secento
cavalli e duemila fanti, erano andati a San Bonifazio, ove l'Alviano
aveva lasciati sotto Sigismondo Caballo e Giovanni Forte trecento
cavalli leggieri e secento fanti; i quali, sparsi per il paese senza
alcuna disciplina militare, sentita la venuta degli inimici, si
erano fuggiti a Cologna; ove i tedeschi seguitandogli, entrati per
forza nella terra, fattigli tutti prigioni, la saccheggiorno e
abbruciorno: il medesimo feciono poi a Soavi, roppono il ponte fatto
da' viniziani in sull'Adice, e arebbono con l'impeto medesimo
occupata Vicenza se non vi fusse entrato dentro subitamente numero
grandissimo di paesani. I quali progressi faceva di maggiore
considerazione l'essersi divulgato che dal contado di Tiruolo
venivano a Verona nuovi fanti.
Nel qual tempo medesimo si accostò per mare a Genova l'armata del re
di Francia, con nove galee sottili e altri legni; e per terra, col
favore de' rivieraschi della loro parte e con altri soldati condotti
co' danari del re, Antoniotto e Ieronimo fratelli degli Adorni,
mossisi con grandissima occasione, per la discordia nata poco
innanzi tra' Fieschi e il doge di Genova, con cui erano stati prima
uniti contro agli Adorni: perché, o per quistione nata a caso o per
sospetto sopravenuto, Ieronimo, figliuolo di Gianluigi dal Fiesco,
uscendo del palagio publico, era stato ammazzato da Lodovico e da
Fregosino fratelli del doge. Per la quale ingiuria, Ottobuono e
Sinibaldo suoi fratelli, ritiratisi alle loro castella, e poco dipoi
convenutisi col re di Francia e cospirando con gli Adorni, si
accostorno da altra parte con quattromila fanti a Genova. Non era il
doge potente a resistere per se stesso alla parte Gattesca e Adorna
congiunte insieme, né per la celerità degli avversari poteva essere
a tempo il soccorso che aveva chiesto al viceré; e inclinò del tutto
le cose, che mille fanti de' suoi fermatisi in su' monti vicini, non
potendo resistere al numero maggiore, furno rotti. Onde il doge,
insieme con Fregosino, avendo a fatica avuto tempo di salvare la
propria vita, fuggí per mare, lasciato Lodovico, l'altro fratello,
alla custodia del Castelletto, e i vincitori entrorno in Genova:
dove i fratelli de' Fieschi, traportati dall'impeto della vendetta,
feciono ammazzare e dipoi, legato crudelmente alla coda di un
cavallo, strascinare per tutta la città Zaccheria fratello del doge,
rimasto prigione alla battaglia fatta in su' monti; il quale era
insieme cogli altri intervenuto alla morte del fratello. Cosí
ridotta Genova alla divozione del re di Francia, fu fatto in nome
suo governatore Antoniotto Adorno; e l'armata franzese forní di
gente e di vettovaglie la Lanterna, e di poi saccheggiata la Spezie
si fermò a Portovenere.
Lib.11, cap.12
I francesi, dopo vari assalti alla città, si accampano a due miglia
da Novara. Parole di Mottino agli svizzeri per esortarli ad assalire
gli alloggiamenti nemici. Vittoria degli svizzeri e copiosi frutti
di essa. Vicende della guerra dei veneziani.
Non rimaneva piú niente al re di Francia, alla recuperazione intera
degli stati perduti l'anno dinanzi, che Novara e Como; le quali due
città sole si tenevano ancora in nome di Massimiliano Sforza in
tutto il ducato di Milano. Ma era, con infamia grande di tutti gli
altri, destinata la gloria di questa guerra non a' franzesi non a'
fanti tedeschi non all'armi spagnuole, non alle viniziane, ma
solamente a' svizzeri: contro a' quali l'esercito franzese, lasciato
in Alessandria presidio sufficiente per sostenere le cose di là dal
Po, si accostò a Novara; feroce per tanti successi, per la
confusione degli inimici rinchiusi dentro alle mura, e per il timore
già manifesto degli spagnuoli. Rappresentavasi, oltre a queste cose,
alla memoria degli uomini quasi come una immagine e similitudine del
passato: questa essere quella medesima Novara nella quale era stato
fatto prigione Lodovico Sforza padre del duca presente; essere nel
campo franzese quegli medesimi capitani... della Tramoglia e
Gianiacopo da Triulzi, e appresso al figliuolo militare alcune delle
medesime bandiere e de' medesimi capitani di quegli cantoni che
allora il padre venduto aveano. Onde la Tramoglia avea superbamente
scritto al re che nel medesimo luogo gli darebbe prigione il
figliuolo, nel quale gli aveva dato prigione il padre. Batterno i
franzesi impetuosamente con l'artiglierie le mura, ma in luogo donde
lo scendere dentro era molto difficile e pericoloso, e dimostrando
tanto di non gli temere i svizzeri che mai patirno si chiudesse la
porta della città di verso il campo. Gittato in terra spazio
sufficiente della muraglia, dettono quegli di fuora molto
ferocemente la battaglia, dalla quale si difesono con grandissimo
valore quegli di dentro; onde i franzesi, ritornati agli
alloggiamenti, inteso che il dí medesimo erano entrati in Novara
nuovi svizzeri, e avendo notizia aspettarsi Altosasso, capitano di
fama grande, con numero molto maggiore, disperati di poterla piú
spugnare, si discostorno il dí seguente due miglia di Novara,
sperando oramai di ottenere la vittoria piú per i disordini e
mancamento di danari agli inimici che per l'impeto dell'armi. Ma
interroppe queste speranze la ferocia e ardentissimo spirito di
Mottino uno de' capitani de' svizzeri; il quale, chiamata la
moltitudine in sulla piazza di Novara, gli confortò con
ferventissime parole che non aspettato il soccorso di Altosasso, il
quale doveva venire il prossimo dí, andassino ad assaltare gli
inimici a' loro alloggiamenti. Non patissino che la gloria della
vittoria, la quale poteva essere propria, fusse comune, anzi
diventasse tutta d'altri; imperocché, come le cose seguenti tirano a
sé le precedenti, e l'augumento cuopre la parte augumentata, non a
essi ma a quegli che sopravenivano si attribuirebbe tutta la laude.
- Quanto la cosa disse Mottino - pare piú difficile e piú pericolosa
tanto riuscirà piú facile e piú sicura, perché quanto piú sono gli
accidenti improvisi e inaspettati tanto piú spaventano e mettono in
terrore gli uomini. Niente meno aspettano i franzesi, al presente,
che 'l nostro assalto: alloggiati pure oggi, non possono essere
alloggiati se non disordinatamente e senza fortezza alcuna. Solevano
gli eserciti franzesi non avere ardire di combattere se non aveano
appresso i fanti nostri; hanno, da qualche anno in qua, avuto ardire
di combattere senza noi ma non mai contro a noi: quanto spavento,
quanto terrore, quando si vedranno furiosamente e improvisamente
assaltati da coloro la virtú e ferocia de' quali soleva essere il
cuore e la sicurtà loro! Non vi muovino i loro cavalli, le loro
artiglierie; perché altra volta abbiamo esperimentato quanto essi
medesimi confidino in queste cose contro a noi. Gastone di Fois,
tanto feroce capitano, con tante lancie con tanti cannoni, non ci
dette egli sempre alla pianura la via quando, senza cavalli senza
altre armi che le picche, scendemmo, due anni sono, insino alle
porte di Milano? Hanno seco ora i fanti tedeschi, e questo è quello
che mi muove, che mi accende: avendo in un tempo medesimo occasione
di dimostrare a colui che, con tanta avarizia con tanta
ingratitudine, dispregiò le nostre fatiche il nostro sangue, che mai
fece, né per sé né per il regno suo, peggiore deliberazione; e
dimostrare a coloro che pensorno l'opera loro essere sufficiente a
privarci del nostro pane, non essere pari i lanzchenech a' svizzeri,
avere la medesima lingua la medesima ordinanza, ma non già la
medesima virtú la medesima ferocia. Una sola fatica è, di occupare
l'artiglierie, ma l'alleggerirà non essere poste in luogo
fortificato, l'assaltarle all'improviso, le tenebre della notte.
Assaltandole impetuosamente, è piccolissimo spazio di tempo quello
nel quale possono offenderti; e questo, interrotto dal tumulto dal
disordine dalla subita confusione. L'altre cose sono somma facilità;
non ardiranno i cavalli venire a urtare le nostre picche; molto
meno, quella turba vile de' fanti franzesi e guasconi verranno a
mescolarsi con noi. Apparirà in questa deliberazione non meno la
prudenza nostra che la ferocia. È salita in tanta fama la nostra
nazione che non si può piú conservare la gloria del nostro nome se
non tentando qualche cosa fuora dell'espettazione e uso comune di
tutti gli uomini; e poi che siamo intorno a Novara, il luogo ci
ammunisce che non possiamo in altro modo spegnere l'antica infamia,
pervenutaci quando con Lodovico Sforza militavamo alla medesima
Novara. Andiamo adunque, con l'aiuto del sommo Dio, persecutore
degli scismatici degli scomunicati degli inimici del suo nome.
Andiamo a una vittoria, se saremo uomini, sicura e facile; della
quale quanto pare che sia maggiore il pericolo tanto sarà il nome
nostro piú glorioso e maggiore: quanto sono maggiore numero gli
inimici che noi, tanto piú ci arricchiranno le spoglie loro. -
Alle parole di Mottino gridò ferocemente tutta la moltitudine,
approvando ciascuno col braccio disteso il detto suo; e dipoi egli,
promettendo la vittoria certa, comandò che andassino a riposarsi e
procurare le persone loro, per mettersi, quando col suono de'
tamburi fussino chiamati, negli squadroni. Non fece mai la nazione
de' svizzeri né la piú superba né la piú feroce deliberazione: pochi
contra molti, senza cavalli e senza artiglierie contro a uno
esercito potentissimo di queste cose, non indotti da alcuna
necessità, perché Novara era liberata dal pericolo, e aspettavano il
dí seguente non piccolo accrescimento di soldati, elessono
spontaneamente di tentare piú tosto quella via nella quale la
sicurtà fusse minore ma la speranza della gloria maggiore che quella
nella quale dalla sicurtà maggiore risultasse gloria minore. Uscirno
adunque con impeto grandissimo, dopo la mezza notte, di Novara, il
sesto dí di giugno, in numero circa diecimila, distribuitisi con
questo ordine: settemila per assaltare l'artiglierie, intorno alle
quali alloggiavano i fanti tedeschi; il rimanente per fermarsi, con
le picche alte, all'opposito delle genti d'arme. Non erano, per la
brevità del tempo e perché non si temeva tanto presto di uno
accidente tale, stati fortificati gli alloggiamenti de' franzesi; e
al primo tumulto, quando dalle scolte fu significata la venuta degli
inimici, il caso improviso e le tenebre della notte dimostravano
maggiore confusione e maggiore terrore. Nondimeno, e le genti d'arme
sí raccolsono prestamente agli squadroni e i fanti tedeschi, i quali
furno seguitati dagli altri fanti, si messono subitamente negli
ordini loro. Già con grandissimo strepito percotevano l'artiglierie
ne' svizzeri che venivano per assaltarle, facendo tra loro
grandissima uccisione, la quale si comprendeva piú tosto per le
grida e urla degli uomini che per beneficio degli occhi, l'uso de'
quali impediva ancora la notte; e nondimeno con fierezza
maravigliosa, non curando la morte presente né spaventati per il
caso di quegli che cadevano loro allato, né dissolvendo l'ordinanza,
camminavano con passo prestissimo contro all'artiglierie: alle quali
pervenuti, si urtorno insieme ferocissimamente, essi e i fanti
tedeschi, combattendo con grandissima rabbia l'uno contro all'altro,
e molto piú per l'odio che per la cupidità della gloria. Aresti
veduto (già incominciava il sole ad apparire) piegare ora questi ora
quegli, parere spesso superiori quegli che prima parevano inferiori,
di una medesima parte in un tempo medesimo alcuni piegarsi alcuni
farsi innanzi, altri difficilmente resistere altri impetuosamente
insultare agli inimici: piena da ogni parte ogni cosa di morti, di
ferite, di sangue. I capitani fare ora fortissimamente l'ufficio di
soldati, percotendo gli inimici difendendo se medesimi e i suoi, ora
fare valorosissimamente l'ufficio di capitani, confortando,
provedendo, soccorrendo, ordinando, comandando. Da altra parte,
quiete e ozio grandissimo dove stavano armati gli uomini d'arme;
perché, cedendo al timore ne' soldati l'autorità i conforti i
comandamenti i prieghi l'esclamazioni le minaccie del la Tramoglia e
del Triulzio, non ebbono mai ardire di investire gli inimici che
aveano innanzi a loro, e a' svizzeri bastava tenergli fermi perché
non soccorressino i fanti loro. Finalmente, in tanta ferocia in
tanto valore delle parti che combattevano, prevalse la virtú de'
svizzeri; i quali, occupate vittoriosamente l'artiglierie e
voltatele contro agli inimici, con esse e col valore loro gli
messono in fuga. Con la fuga de' fanti fu congiunta la fuga delle
genti d'arme, delle quali non apparí virtú o laude alcuna. Solo
Ruberto della Marcia, sospinto dall'ardore paterno, entrò con uno
squadrone di cavalli ne' svizzeri per salvare Floranges e Denesio
suoi figliuoli, capitani di fanti tedeschi, che oppressi da molte
ferite giacevano in terra; e combattendo con tale ferocia che non
che altro pareva cosa maravigliosa a' svizzeri, gli condusse vivi
fuori di tanto pericolo. Durò la battaglia circa due ore, con danno
gravissimo delle parti. De' svizzeri morirno circa mille
cinquecento, tra quali Mottino, autore di cosí glorioso consiglio;
percosso, mentre ferocemente combatteva, nella gola da una picca.
Degli inimici, numero molto maggiore: dicono alcuni diecimila; ma
de' tedeschi fu morta la maggiore parte nel combattere: de' fanti
franzesi e guasconi fu morta la maggiore parte nel fuggire. Salvossi
quasi tutta la cavalleria, non gli potendo perseguitare i svizzeri,
i quali se avessino avuti cavalli gli arebbono facilmente dissipati:
con tanto terrore si ritiravano. Rimasono in preda a' vincitori
tutti i carriaggi, ventidue pezzi d'artiglieria grossa e tutti i
cavalli diputati per uso loro. Ritornorno i vincitori quasi
trionfanti, il dí medesimo, in Novara; e con tanta fama per tutto il
mondo che molti aveano ardire, considerato la magnanimità del
proposito, il dispregio evidentissimo della morte, la fierezza del
combattere e la felicità del successo, preporre questo fatto quasi a
tutte le cose memorabili che si leggono de' romani e de' greci.
Fuggirono i franzesi nel Piemonte; donde, gridando invano il
Triulzio, passorno subitamente di là da' monti.
Ottenuta la vittoria, Milano e l'altre terre che si erano aderite a'
franzesi mandorno a dimandare perdono, il quale fu conceduto, ma
obligandosi a pagare quantità grande di danari; i milanesi
dugentomila ducati, gli altri secondo le loro possibilità; e tutti
si pagavano a' svizzeri, a' quali della vittoria acquistata colla
virtú e col sangue loro si doveva giustamente non meno l'utilità che
la gloria. I quali, per ricôrre tutto il frutto che si poteva,
entrorono poi nel marchesato di Monferrato e nel Piamonte, incolpati
d'avere ricettato l'esercito franzese; dove, parte predando parte
componendo i miseri popoli, ma astenendosi da violare la vita e
l'onore, feciono grandissimi guadagni. Né furno del tutto gli
spagnuoli privati de' premi della vittoria: perché essendo ricorsi
al viceré, dopo il fatto d'arme, Ianus prossimamente cacciato di
Genova e Ottaviano Fregosi, de' quali ciascuno ambiva di essere
doge, il viceré, preposto Ottaviano, per il quale s'affaticava
sommamente, per l'antica amicizia, il pontefice, e ricevuta da lui
promessa di pagare, come fusse entrato in Genova, [cinquanta] mila
ducati, gli concedette tremila fanti sotto il marchese di Pescara;
esso col resto dell'esercito andò a Chiesteggio, dimostrando, se
fusse necessario, di passare piú innanzi; ma come il marchese e
Ottaviano si appropinquorno a Genova, i fratelli Adorni conoscendosi
impotenti a resistere se ne partirono: e Ottaviano, entrato dentro,
fu creato doge di quella città. La quale nell'anno medesimo vedde
preposti al suo governo i franzesi, Ianus Fregoso, gli Adorni e
Ottaviano.
Ma Bartolomeo d'Alviano, come ebbe sentita la rotta dell'esercito
del re di Francia, temendo di non essere subito seguitato dagli
spagnuoli, si ritirò senza dilazione a Pontevico; lasciati, per non
perdere tempo, per la strada alcuni pezzi di artiglieria che si
conducevano piú tardamente. Da Pontevico, lasciato Renzo da Ceri in
Crema e abbandonata Brescia, perché era inutile diminuire
l'esercito, nel quale erano rimasti secento uomini d'arme mille
cavalli leggieri e cinquemila fanti, procedendo colla medesima
celerità, e con tanto timore e disfavore del paese che qualunque
piccola gente gli avesse seguitati si sarebbono rotti da loro
medesimi, si condusse alla Tomba presso all'Adice, non si essendo
mai riposato in luogo alcuno se non quanto lo costrigneva la
necessità del ricreare gli uomini e i cavalli. Fermossi alla Tomba,
essendo cessata la paura perché niuno lo seguitava, dove dette opera
di fare condurre a Padova e a Trevigi quanta piú quantità potette di
biade del veronese; e nel tempo medesimo mandò Giampaolo Baglione,
con sessanta uomini d'arme e mille dugento fanti, a Lignago. Il
quale, ricevuto subito dagli uomini della terra ove non era presidio
alcuno, dette la battaglia alla rocca guardata da cento cinquanta
fanti tra spagnuoli e tedeschi, battutala prima con l'artiglierie,
da quella parte che è volta in verso la piazza. Nel quale assalto
non so che potesse piú, o la virtú o la fortuna: perché mentre si
combatteva, cominciata per sorte ad ardere la munizione per alcuni
instrumenti di fuochi artificiati gittati da quegli di fuora,
abbruciò una parte della rocca; nel qual tumulto entrati dentro,
parte per il muro rotto parte con le scale, i fanti che davano la
battaglia, preso il capitano spagnuolo, ammazzorno o feciono
prigioni tutti quegli che vi erano dentro. Preso Lignago, gittò
l'Alviano il ponte in sull'Adice; e dipoi, essendogli stata data da
alcuni veronesi speranza di tumultuare contro a' tedeschi, andò ad
alloggiare alla villa di San Giovanni distante quattro miglia da
Verona; donde accostatosi la mattina seguente alla porta che si dice
di San Massimo, piantò con grandissimo furore l'artiglierie alla
torre della porta e al muro congiunto a quella, attendendo se in
questo tempo nascesse dentro qualche tumulto. Rovinate circa
quaranta braccia di muraglia oltre alla torre, la quale cadde di
maniera che fece uno argine fortissimo alla porta, dette molto
ferocemente la battaglia. Ma in Verona erano trecento cavalli e
tremila fanti tedeschi sotto Roccandolf, capitano di molto nome, i
quali valorosamente si difendevano; dalla rottura del muro al
discendere in terra era non piccolo spazio di altezza; né per i
veronesi si faceva, secondo le speranze date, movimento: onde
l'Alviano, vedendo la difficoltà dell'espugnarla, ritirò i fanti
suoi dalle mura, e già aveva cominciato a discostare l'artiglierie.
Ma mutata in un momento sentenza (credettesi per imbasciata ricevuta
da quegli di dentro), fatti ritornare i fanti alla muraglia, rinnovò
con maggiore ferocia che prima l'assalto. Ma erano le medesime che
prima le difficoltà dell'ottenerla, la medesima tiepidezza in coloro
che l'aveano chiamato; in modo che disperata del tutto la vittoria,
ammazzati nel combattere piú di dugento uomini de' suoi, tra' quali
Tommaso Fabbro da Ravenna conestabile di fanti, levate con
maravigliosa prestezza dalle mura l'artiglierie, ritornò il dí
medesimo allo alloggiamento dal quale la mattina si era partito: non
lodata in questo dí né per il consiglio né per l'evento, ma
celebrata sommamente per tutta Italia, la sua celerità, che in un
giorno solo avesse fatto quel che con fatica gli altri capitani in
tre o quattro giorni sogliono fare. Dette poi il guasto al contado,
tentando se con questo timore poteva costrignere i Veronesi ad
accordarsi. Ma già veniva innanzi lo esercito spagnuolo: perché il
viceré, intesa che ebbe la perdita di Lignago, né ritardato piú, per
il prospero successo, dalle cose di Genova, dubitando che, o per
timore del guasto o per la mala disposizione de' cittadini, Verona
non aprisse le porte a' viniziani, deliberò soccorrere senza
dilazione le cose di Cesare. Però passato alla Stradella il fiume
del Po, e arrendutesegli senza difficoltà le città di Bergamo e di
Brescia e similmente la terra di Peschiera, si pose a campo alla
rocca guardata da dugento cinquanta fanti; la quale, con tutto che
secondo l'opinione comune si fusse potuta difendere ancora qualche
dí, venne per forza in sua potestà, rimanendo prigione il
proveditore viniziano e i fanti che non furno ammazzati nel
combattere. Ritirossi l'Alviano, per l'approssimarsi degli
spagnuoli, ad Alberé di là dallo Adice; richiamati, per riempiere il
piú poteva l'esercito, non solamente alcuni fanti che erano nel
Polesine di Rovigo ma quegli ancora che aveva lasciati in Lignago. E
poco dipoi, essendosi i fanti tedeschi uniti a San Martino col
viceré, e andando, recuperato Lignago, a Montagnana, i viniziani, a'
quali in quelle parti non rimaneva piú altro che Padova e Trevigi,
intenti a niuna altra cosa che alla conservazione di quelle città,
ordinorno che l'esercito si distribuisse in quelle: in Trevigi
dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e dumila fanti sotto
Giampaolo Baglione, appresso al quale erano Malatesta da Sogliano e
il cavaliere della Volpe; in Padova l'Alviano col rimanente
dell'esercito. Il quale, attendendo a fortificare, i bastioni fatti
ristaurando e a molte opere imperfette perfezione dando, faceva,
oltre a questo, acciò che gli inimici non potessino accostarvisi se
non con gravissimo pericolo e difficoltà, e con moltitudine
grandissima di guastatori, spianare tutte le case e tagliare tutti
gli alberi, per tre miglia dintorno a Padova.
Lib.11, cap.13
Atto di sottomissione dei cardinali scismatici. Aiuti del pontefice
a Cesare. Apprensioni dei veneziani e loro pronte decisioni.
Ma mentre che le cose dell'armi procedevano in questa forma, il
pontefice si affaticava con somma industria per stirpare la
divisione della Chiesa introdotta dal concilio pisano; la qual cosa
dependendo totalmente dalla volontà del re di Francia, si ingegnava
con molte arti di placare l'animo suo, affermando essere falsa la
fama divulgata dello essere stati mandati da lui danari a' svizzeri,
e dimostrando non avere altro desiderio che della pace universale e
di essere padre comune di tutti i príncipi cristiani. Dolergli sopra
modo che la dissensione sua colla Chiesa privasse lui della facoltà
di dimostrargli quanto naturalmente fusse inclinato alla amicizia
sua, perché per l'onore della sedia apostolica e della persona sua
propria era necessitato a procedere separatamente con lui, insino a
tanto che, essendo ritornato alla ubbidienza della Chiesa romana,
gli fusse lecito riceverlo come re cristianissimo e abbracciarlo
come figliuolo primogenito della Chiesa. Desiderava il re, per gli
interessi propri, la unione del suo regno colla Chiesa, dimandata
instantemente da tutti i popoli e da tutta la corte, e alla quale
era molto stimolato dalla reina; e conosceva, oltre a questo, non
potere mai sperare congiunzione col pontefice nelle cose temporali
se prima non si componevano le differenze spirituali. Però, o
prestando fede o fingendo di prestarne alle sue parole, gli mandò
imbasciadore per trattare queste cose il vescovo di Marsilia: alla
venuta del quale il pontefice fece, per decreto del concilio,
restituire la facoltà di purgare la contumacia, per tutto novembre
prossimo, a' vescovi franzesi e altri prelati contro a' quali, come
scismatici, l'antecessore aveva rigidissimamente proceduto per via
di monitorio; e la mattina medesima nella quale cosí si determinò fu
letta nel concilio una scrittura, sottoscritta di mano di Bernardino
Carvagial e di Federico da San Severino, nella quale, non si
nominando cardinali, approvavano tutte le cose fatte nel concilio
lateranense, promettevano di aderire a quello e di ubbidire il
pontefice, onde in conseguenza confessavano essere stata legittima
la privazione loro dal cardinalato; la quale, fatta da Giulio, era
stata confermata, esso vivente, dal medesimo concilio. Erasi
trattato prima di restituirgli, ma differito per la contradizione
degli oratori di Cesare e del re d'Aragona, e de' cardinali
sedunense ed eboracense, i quali detestavano come cosa indegna della
maestà della sedia apostolica e di pessimo esempio, il concedere
venia agli autori di tanto scandolo e di uno delitto tanto
pernicioso e pieno di tanta abominazione; ricordando la costanza di
Giulio ritenuta contro a loro, né per altro che per il bene publico,
insino all'ultimo punto della vita. Ma il pontefice inclinava alla
parte piú benigna, giudicando piú facile spegnere in tutto il nome
del concilio pisano con la clemenza che col rigore, e per non
esacerbare l'animo del re di Francia, il quale instantemente
supplicava per loro; né lo riteneva odio particolare, non essendo
stata la ingiuria fatta a lui, anzi, innanzi al pontificato, stati
congiuntissimi i fratelli ed egli con Federico. Per le quali
ragioni, seguitando il proprio giudicio, aveva fatto leggere innanzi
a' padri del concilio la scrittura della loro umiliazione, e dipoi
statuí il dí alla restituzione; la quale fu fatta con questo ordine:
entrorno Bernardino e Federico in Roma occultamente di notte, senza
abito e insegne di cardinali; e la mattina seguente, dovendo
presentarsi innanzi al pontefice residente nel concistorio,
accompagnato da tutti i cardinali, eccettuati il svizzero e
l'inghilese che ricusorno di intervenirvi, passorno, prima vestiti
da semplici sacerdoti colle berrette nere, per tutti i luoghi
publici del palagio di Vaticano, nel quale la notte erano
alloggiati; concorrendo moltitudine grandissima a vedergli, e
affermando ciascuno dovere [essere], questo vilipendio cosí publico,
acerbissimo tormento alla superbia smisurata di Bernardino e alla
arroganza non minore di Federico. Ammessi nel concistorio,
dimandorno genuflessi, con segni di grandissima umiltà, perdono al
pontefice e a cardinali, approvando tutte le cose fatte da Giulio e
nominatamente la loro privazione, e la elezione del nuovo pontefice
come fatta canonicamente e dannando il conciliabolo pisano come
scismatico e detestabile. Della quale loro confessione poiché fu
estratta autentica scrittura e sottoscritta di loro mano, levati in
piede, feciono riverenza e abbracciorono tutti i cardinali, i quali
non si mosseno da sedere: e dopo questo, vestiti in abito di
cardinali, furono ricevuti a sedere nello ordine medesimo nel quale
sedevano innanzi alla loro privazione: ricuperata con questo atto
solamente la degnità del cardinalato, ma non le chiese e l'altre
entrate che solevano possedere, perché molto prima, come vacanti,
erano in altri state trasferite.
Sodisfece in questo atto, se non in tutto, almeno in parte, il
pontefice al re di Francia; ma non gli sodisfaceva nell'altre
azioni, perché sollecitamente procurava la concordia tra Cesare e i
viniziani, come cosa per gli accidenti seguiti non difficile a
ottenere: perché si credeva che Cesare, invitato dalle occasioni di
là da' monti, inclinasse, per potere piú speditamente attendere alla
recuperazione della Borgogna per il nipote, ad alleggerirsi di
questo peso; e molto piú si sperava che lo desiderassino i
viniziani, spaventati per la rotta de' franzesi e perché sapevano
che il re di Francia, essendo imminenti molti pericoli al regno
proprio, non poteva piú l'anno presente pensare alle cose d'Italia.
Sentivano appropinquarsi l'esercito spagnuolo e doversi unire con
quello le genti che erano in Verona, essi esausti di danari, deboli
di soldati, specialmente di fanti, avere soli a resistere senza che
apparisse scintilla alcuna di lume propinquo: e nondimeno rispondeva
costantissimamente il senato, non volere accettare concordia alcuna
senza la restituzione di Vicenza e di Verona. Ricercò in questo
tempo Cesare il pontefice che gli concedesse dugento uomini d'arme
contro a' viniziani; la quale dimanda, benché gli fusse
molestissima, dubitando che il concedergli non fusse molesto al re
di Francia, né gli parendo a proposito di Cesare o suo diventare
sospetto a' viniziani per una causa di sí piccola importanza,
nondimeno, perseverando Cesare ostinatamente, gli mandò il numero
dimandato, sotto Troilo Savello, Achille Torello e Muzio Colonna;
non volendo, col recusare, fare segno di non volere perseverare
nella confederazione contratta col pontefice passato, e parendogli
non essere ritenuto da obligo alcuno co' viniziani: i quali, oltre
che l'esercito loro, quando l'Alviano era appresso a Cremona, aveva,
poco amichevolmente, predato per il parmigiano e piacentino, non
aveano mai eletti imbasciadori a prestargli secondo l'uso antico
l'ubbidienza, se non da poi che i franzesi, vinti, erano ritornati
di là da' monti. Spaventò questa deliberazione i viniziani, non
tanto per l'importanza di tale sussidio quanto per timore che da
questo principio il pontefice non procedesse piú oltre, riputandolo
ancora per segno manifestissimo che mai piú avesse a separarsi dagli
inimici; e nondimeno non variorno da' primi consigli, anzi, disposti
mostrare quanto potevano il volto alla fortuna, commessono al
proveditore di mare che era a Corfú che, raccolti quanti piú legni
potesse, assaltasse i luoghi marittimi della Puglia: benché poco di
poi, considerando meglio quel che importasse provocare tanto il re
d'Aragona, per la potenza sua e perché aveva sempre dimostrato
confortare Cesare alla concordia, rivocorno come piú animosa che
prudente questa deliberazione.
Lib.11, cap.14
Indecisioni dei tedeschi; fortunata impresa di Renzo da Ceri.
Propositi degli Adorni e del duca di Milano di mutare il governo in
Genova passata, dopo Novara, sotto l'influenza spagnuola. Fallita
impresa di tedeschi e di spagnuoli contro Padova. Fazioni di guerra
nei territori di Bergamo e di Crema. Azioni di tedeschi di spagnuoli
e di soldati del pontefice contro Venezia.
Soggiornava il viceré a Montagnana, non determinato ancora quello
s'avesse a fare; perché erano alti i concetti de' tedeschi,
difficili le imprese, che sole rimanevano a fare, o di Padova o di
Trevigi, e le forze molto inferiori alle difficoltà, perché in tutto
l'esercito non erano oltre a mille uomini d'arme non molti cavalli
leggieri e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi: la quale
deliberazione avendosi finalmente a referire alla volontà del
vescovo Gurgense, che fra pochi dí doveva essere all'esercito,
s'aspettava la sua venuta. Nel qual tempo essendo in Bergamo un
commissario spagnuolo che riscoteva la taglia di venticinquemila
ducati, imposta a quella città quando si arrendé al viceré, Renzo da
Ceri vi mandò da Crema una parte de' suoi soldati; i quali entrativi
di notte con aiuto di alcuni della terra, preso il commissario con
quella parte di danari che aveva riscossi, se ne ritornorno a Crema.
Fecesi similmente, in questi medesimi dí, preparazione per turbare
di nuovo le cose di Genova; essendo conformi a questo le volontà del
duca di Milano e de' svizzeri. A' quali ricorsi Antoniotto e
Ieronimo Adorni, avevano ricordato al duca la dipendenza che i padri
loro aveano avuta con Lodovico suo padre, che con le spalle degli
Adorni aveva recuperato e tenuto molti anni quieto il dominio di
Genova, del quale era stato fraudolentemente spogliato da' dogi
Fregosi; e avere gli Adorni partecipato della mala fortuna degli
Sforzeschi, perché nel tempo medesimo che Lodovico avea perduto il
ducato di Milano erano stati gli Adorni cacciati di Genova, però
essere conveniente che similmente partecipassino della buona: durare
la medesima benivolenza, la medesima fede; né dovere essere imputati
se, non uditi in luogo alcuno abbandonati d'ogni speranza, erano,
non spontaneamente ma per necessità, ricorsi a quel re dal quale
prima erano stati scacciati. Ricordassesi da altra parte dell'odio
antico de' Fregosi, quante ingiurie e quanti inganni avessino fatti,
al padre Batista, e il cardinale Fregosi, l'uno dopo l'altro dogi di
Genova; e considerasse come potevano avere convenienza o confidarsi
di Ottaviano Fregoso, il quale oltre all'antico odio ricusava
d'avere superiore in quella città. A' svizzeri avevano proposti
stimoli di utilità, di sicurtà, di onore: pagare, se per opera loro
fussino restituiti alla patria, quantità di danari pari a quella che
aveva pagata il Fregoso agli spagnuoli; essersi per la virtú loro
conservato il ducato di Milano e a essi appartenerne il patrocinio,
perciò dovere considerare quanto fusse contrario alla sicurtà di
quello stato che Genova, città vicina e tanto importante, dominasse
un doge dependente interamente dal re di Aragona; ed essere stato
molto indegno del nome e della gloria loro l'avere permesso che
Genova, frutto della vittoria di Novara, fusse ceduta in utilità
degli spagnuoli, i quali, mentre che i svizzeri andavano con tanta
ferocia a percuotere nelle palle fulminate dalle artiglierie de'
franzesi, mentre che, per dire meglio, correvano incontro alla
morte, sedevano oziosi in sulla Trebbia, aspettando come da una
vedetta, secondo il successo delle cose, o di vituperosamente
fuggire o di fraudolentemente rubare i premi della vittoria
acquistata coll'altrui sangue. Da queste cagioni accesi, moveva già
il duca le genti sue e i svizzeri quattromila fanti; ma le minaccie
del viceré contro al duca e l'autorità del pontefice, a cui
sommamente erano a cuore le cose di Ottaviano, gli fece desistere.
Era in questo mezzo il viceré andato alla Battaglia, luogo distante
da Padova sette miglia; dove Carvagial, cavalcando inavvertentemente
con pochi cavalli a speculare il sito del paese, fu preso da
Mercurio capitano de' cavalli leggieri de' viniziani. Al qual tempo,
venuto il vescovo Gurgense all'esercito, si consultava quello si
dovesse fare; e proponeva Gurgense l'andare a campo a Padova,
dimostrando sperare tanto nella virtú de' tedeschi e degli spagnuoli
contro agli italiani che avessino finalmente a superare tutte le
difficoltà. Essere poco meno laboriosa l'espugnazione di Trevigi, ma
diversissimo il premio della vittoria; perché l'ottenere solamente
Trevigi era alla somma delle cose di piccolo momento, ma per la
spugnazione di Padova assicurarsi interamente le terre suddite a
Cesare dalle molestie e da' pericoli della guerra, e privarsi di
ogni speranza i viniziani d'avere mai piú a ricuperare le cose
perdute. In contrario sentivano il viceré e quasi tutti gli altri
capitani, giudicando piú tosto impossibile che difficile lo sforzare
Padova, per le fortificazioni quasi incredibili, munitissima
d'artiglierie e di tutte le cose opportune alla difesa, e proveduta
molto abbondantemente di soldati; e nella quale erano venuti, come
l'altre volte aveano fatto, molti giovani della nobiltà viniziana.
Dicevano la terra essere grandissima di circuito, e per questo, e
per la moltitudine de' difensori e per l'altre difficoltà, bisognare
circondarla e combatterla con due eserciti; e nondimeno, non che
altro, non n'avere un solo sufficiente, non essendo grande il numero
de' loro soldati e, di questi, i tedeschi, insoliti a sopportare
malvolentieri la tardità de' pagamenti, non troppo pronti: non
abbondare di munizioni, e avere carestia di guastatori, cosa molto
necessaria a tanto ardua espugnazione. Ma fu finalmente necessario
che le ragioni addotte dal viceré e dagli altri cedessino alla
volontà del vescovo Gurgense. Per la quale, l'esercito accostandosi
a Padova andò ad alloggiare a Bassanello, in sulla riva destra del
canale, discosto un miglio e mezzo da Padova; nel qual luogo essendo
molto infestato il campo da alcuni cannoni doppi piantati in su uno
bastione della terra passato il canale, alloggiorno alquanto piú
lontani dalla terra; donde mandati i fanti alla chiesa di
Sant'Antonio, a mezzo miglio appresso a Padova, cominciorno, per
accostarsi con minore pericolo, a lavorare le trincee appresso alla
porta di Sant'Antonio. Ma l'opere erano grandissime, ed estremo in
paese, donde tutti gli abitatori erano fuggiti, il mancamento de'
guastatori: però il lavorare procedeva lentamente; né senza
pericolo, perché i soldati, uscendo spesso fuora, e di dí e di
notte, all'improviso, facevano danno a quegli che lavoravano.
Aggiugnevasi la penuria della vettovaglia perché, essendo solo una
piccola parte della terra circondata dagli inimici, gli stradiotti
avendo comodità di uscire dall'altre parti della città, correndo
liberamente per tutto il paese, impedivano tutto quello che si
conduceva al campo; impedito anche da certe barche armate messe a
questo effetto da' viniziani nel fiume dell'Adice, perché gli uomini
portati da quelle non cessavano, ora in questo luogo ora in
quell'altro, di infestare tutta la campagna. Per le quali difficoltà
proposto di nuovo dal viceré lo stato delle cose nel consiglio,
ciascuno apertamente giudicò essere minore infamia ricorreggere la
deliberazione imprudentemente fatta col levare il campo che,
perseverando nell'errore, essere cagione che ne risultasse maggiore
danno accompagnato da vergogna maggiore. La quale opinione riferita
dal viceré in presenza di molti capitani a Gurgense, che aveva
recusato di intervenire nel consiglio, rispose che, per non essere
sua professione la disciplina militare, non si vergognava di
confessare di non avere giudicio nelle cose della guerra; e che se
aveva consigliato l'andare a campo a Padova non era proceduto perché
in questa deliberazione avesse creduto a se medesimo, ma avere
creduto e seguitato l'autorità del viceré, il quale e per lettere e
per messi propri n'aveva confortato piú volte Cesare, e datogli
speranza grandissima d'ottenerla. Finalmente, non si rimovendo né
per le querele né per le dispute le difficoltà, anzi crescendo a
ogn'ora la disperazione dello spugnarla, si levò il campo, poi che
diciotto dí era stato alle mura di Padova; ed essendo nel levarsi e
poi nel camminare infestato continuamente da' cappelletti, si ritirò
a Vicenza, vota allora d'abitatori e preda di chi era superiore alla
campagna.
Ottennono in questo mezzo le genti del duca di Milano, in sussidio
delle quali il viceré avea mandato Antonio de Leva con mille fanti,
Pontevico, a guardia della qual terra erano dugento fanti de'
viniziani; i quali, non spaventati né dalle artiglierie né dalle
mine e avendo sostenuto valorosamente l'assalto, furno alla fine di
uno mese costretti ad arrendersi per mancamento di vettovaglie. E
circa questo tempo medesimo Renzo da Ceri, uscito di Crema, roppe
Silvio Savello; il quale, mandato dal duca di Milano, andava colla
sua compagnia e quattrocento fanti spagnuoli a Bergamo: e poco
dipoi, essendo ritornato a Bergamo un commissario spagnuolo a
riscuotere danari, Renzo vi mandò trecento cavalli e cinquecento
fanti; i quali presono insieme il commissario e la rocca, nella
quale si era fuggito co' danari riscossi, essendovi dentro
pochissimi difensori. Per la qual cosa si mossono da Milano, per
ricuperare Bergamo, sessanta uomini d'arme trecento cavalli leggieri
e settecento fanti con dumila uomini del monte di Brianza sotto
Silvio Savello e Cesare Fieramosca; i quali avendo scontrati nel
cammino cinquecento cavalli leggieri e trecento fanti mandati da
Renzo a Bergamo, gli messono in fuga facilmente: per il che gli
altri che prima aveano occupato Bergamo l'abbandonorno, lasciata
solamente guardia nella rocca posta in sul monte fuora della città,
la quale si dice la Cappella.
Soggiornorno alquanti dí il viceré e Gurgense a Vicenza, mandata una
parte degli spagnuoli sotto Prospero Colonna a saccheggiare Basciano
e Morostico, non per alcuno delitto loro ma perché colle sostanze
degli infelici popoli si andasse il piú che si poteva sostentando
l'esercito, al quale mancavano i pagamenti; perché Cesare stava
sempre oppresso dalle medesime difficoltà, il re d'Aragona solo non
poteva sostenere tanto peso, e il ducato di Milano, gravato
eccessivamente da' svizzeri, non poteva porgere ad altri cosa
alcuna. A Vicenza stava l'esercito con grandissima incomodità, per
le molestie continue de' cappelletti, i quali scorrendo dí e notte
tutto il paese, impedivano il condurvi le vettovaglie se non
accompagnate da grossa scorta; la quale, perché avevano pochissimi
cavalli leggieri, era necessario facessino gli uomini d'arme. E
però, per fuggire questo tormento, Gurgense se ne andò co' fanti
tedeschi a Verona, male sodisfatto del viceré; il quale seguitandolo
a minori giornate si fermò ad Alberé in su l'Adice, dove soprastette
qualche giorno per dare comodità a' veronesi di fare la semente e la
vendemmia: non cessando però le molestie de' cappelletti, i quali in
su le porte di Verona tolseno a' tedeschi i buoi che conducevano
l'artiglieria. Avea prima pensato il viceré di distribuire
l'esercito alle stanze nel bresciano e nel bergamasco, e nel tempo
medesimo molestare Crema, che sola tenevano i viniziani di là dal
fiume del Mincio; e questo, divulgato, aveva assicurato i paesi
circostanti in modo che il padovano era pieno d'abitatori e di robe:
per la qual cosa, il viceré che non aveva altra facoltà di nutrire
l'esercito che le prede, mutato consiglio e chiamati i fanti
tedeschi, andò a Montagnana e a Esti; donde andato alla villa di
Bovolenta e fatta grandissima preda di bestiami, abbruciorno i
soldati quella villa e molti magnifici palazzi che erano
all'intorno. Da Bovolenta, invitandogli la cupidità del predare, e
dando loro animo l'essere i fanti de' viniziani distribuiti alla
guardia di Padova e di Trevigi, deliberò il viceré, benché
contradicendo Prospero Colonna come cosa temeraria e pericolosa,
approssimarsi a Vinegia. Però, passato il fiume del Bacchiglione e
saccheggiata Pieve di Sacco, popoloso e abbondante castello, e dipoi
andati a Mestri e di quivi condotti a Marghera in sull'acque salse,
tirorno, acciocché fusse piú chiara la memoria di questa spedizione,
con dieci pezzi d'artiglieria grossa verso Vinegia; le palle dei
quali pervennono insino al monasterio del tempio [di San] Secondo: e
nel tempo medesimo predavano e guastavano tutto il paese, del quale
erano fuggiti tutti gli abitatori; facendo iniquissimamente la
guerra contro alle mura, perché, non contenti della preda
grandissima degli animali e delle cose mobili, abbruciavano con
somma crudeltà Mestri, Marghera e Leccia Fucina e tutte le terre e
ville del paese, e oltre a quelle tutte le case che aveano piú di
ordinaria bellezza o apparenza: nelle quali cose non appariva minore
la empietà de' soldati del pontefice e degli altri italiani, anzi
tanto maggiore quanto era piú dannabile a loro che a' barbari
incrudelire contro alle magnificenze e ornamenti della patria
comune.
Lib.11, cap.15
Affrettata e difficile ritirata delle truppe tedesche nel Veneto.
Inaspettata rotta dei veneziani sotto Vicenza.
Ma in Vinegia, vedendo il dí fummare e la notte ardere tutto il
paese, per gli incendi delle ville e palagi loro e sentendo dentro
alle case e abitazioni proprie i tuoni dell'artiglierie degli
inimici, non piantate per altro che per fare piú chiara la sua
ignominia, erano concitati gli animi degli uomini a grandissima
indegnazione e dolore; parendo a ciascuno acerbissimo oltre a misura
che tanto fusse mutata la fortuna che, in cambio di tanta gloria e
di tante vittorie ottenute per il passato, in Italia e fuori, per
terra e per mare, vedessino al presente uno esercito, piccolo a
comparazione dell'antiche forze e potenza loro, insultare sí
ferocemente e contumeliosamente al nome di cosí gloriosa republica.
Dalle quali indegnità violentata la deliberazione di quel senato,
ostinato insino a quel giorno di fuggire, quantunque grandi speranze
gli fussino proposte, il fare esperienza della fortuna, acconsentí
alle persuasioni efficaci di Bartolomeo d'Alviano che, chiamati
tutti i soldati e commossi tutti i villani della pianura e delle
montagne, si tentasse di impedire il ritorno agli inimici; la qual
cosa l'Alviano dimostrava molto facile, perché essendo
temerariamente trascorsi tanto innanzi, e messisi in mezzo tra
Vinegia, Trevigi e Padova, non potevano, e massime essendo caricati
di tanta preda, ritirarsi senza gravissimo pericolo, per la
incomodità delle vettovaglie e per l'impedimento de' fiumi e de'
passi difficili. E già gli spagnuoli, sentito il movimento che si
faceva, accelerando il camminare erano pervenuti a Cittadella, la
quale non avendo potuto occupare perché vi erano entrati molti
soldati, alloggiorno di sotto a Cittadella appresso alla Brenta, per
passare alla villa Conticella, nel qual luogo si poteva guadare. Ma
gli ritenne da tentare di passare l'opposizione dell'Alviano, il
quale si era posto dall'altra parte con le genti ordinate negli
squadroni e con l'artiglierie distese in su la riva del fiume,
provedendo sollecitamente non solo a quel luogo ma a piú altri,
donde, se non avessino avuto resistenza, sarebbe stato facile il
passare. Ma il viceré, continuando nelle dimostrazioni di volere
passare dalla parte di sotto, alla quale l'Alviano avea voltate
tutte le forze sue, passò la notte seguente senza ostacolo al passo
detto di Nuovacroce, tre miglia sopra a Cittadella, donde si
indirizzorno con celerità grande verso Vicenza; ma l'Alviano,
volendo opporsi al passo del fiume del Bacchiglione gli prevenne.
Unironsi seco appresso a Vicenza dugento cinquanta uomini d'arme e
dumila fanti venuti da Trevigi sotto Giampaolo Baglione e Andrea
Gritti; ed era il consiglio de' capitani viniziani non combattere a
bandiere spiegate in luogo aperto con gli inimici, i quali venivano
verso Vicenza, ma guardando i passi forti e i luoghi opportuni
impedire loro il camminare, a qualunque parte si volgessino. A
questo effetto aveano mandato Giampaolo Manfrone, con quattromila
comandati, a Montecchio; a Barberano per impedire la via de' monti,
cinquecento cavalli con molti altri paesani; e fatto occupare da'
villani tutti i passi che andavano nella Magna, fortificatigli con
fosse con tagliate con sassi e con alberi attraversati per le
strade. A guardia di Vicenza lasciò l'Alviano, con sufficiente
presidio, Teodoro da Triulzi; egli col resto dell'esercito si fermò
all'Olmo, luogo vicino a Vicenza a due miglia, in sulla strada che
va a Verona: impedito talmente quel passo e un altro vicino, con
tagliate e con fossi e con l'artiglierie distese a' luoghi
opportuni, che era quasi impossibile il passarlo. Cosí, impedito il
cammino destinato verso Verona, era similmente difficile agli
spagnuoli che camminavano lungo i monti allargarsi per il paese
paludoso e pieno d'acque, difficile pigliare la via del monte,
stretta e occupata da molti armati; in modo che, circondati dagli
inimici quasi da ogni parte, alla fronte alle spalle e per fianco, e
seguitati continuamente da moltitudine grande di cavalli leggieri,
non aveano deliberazione se non difficile e molto pericolosa.
Alloggiorono, sopravenendo la notte, da poi che alquanto fu
scaramucciato, vicini a un mezzo miglio allo alloggiamento de
viniziani; ove, consultato la notte i capitani quel che, intra tante
difficoltà e pericoli, dovessino fare, elessono per meno pericoloso
volgere le insegne verso la Magna, per ritornarsene per la via di
Trento a Verona; benché, per la lunghezza del cammino e per la
piccola guardia v'aveano lasciata, presupponevano quasi per certo
che prima vi entrerebbono i viniziani. Cosí si mossono, in sul fare
del dí, verso Bassano, voltando le spalle agli inimici, di che niuna
cosa è piú spaventosa e piú perniciosa agli eserciti, e, ancora che
camminassino ordinatamente, con tanto piccola speranza di salute che
stimavano il perdere tutti i carriaggi e i cavalli meno utili,
essere il minore male che potesse loro succedere. Non s'accorse
della levata loro, fatta tacitamente senza suono di trombe e di
tamburi, cosí presto l'Alviano, perché la nebbia foltissima che era
la mattina gli impediva la vista: ma come prima se ne fu accorto,
gli seguitò con tutto l'esercito, nel quale si dicevano essere mille
uomini d'arme mille stradiotti e semila fanti; infestandogli sempre
da ogni parte gli stradiotti e numero infinito di villani, che
scendendo dalle montagne gli percotevano con gli archibusi, onde col
pericolo augumentava sempre la difficoltà del camminare, maggiore
per la moltitudine de' carri e de' carriaggi e per la quantità
grande della preda, e perché procedevano per istrade anguste e
affossate, le quali non aveano avuta comodità di allargare colle
spianate; ma gli conservava ordinati, benché camminassino con passo
accelerato, oltre alla virtú de' soldati, la sollecita diligenza de'
capitani: e nondimeno, essendo proceduti in tante angustie circa due
miglia, pareva a essi stessi difficillimo il continuare molto cosí.
Ma non fu paziente la temerità degli inimici ad aspettare che si
maturasse sí bella occasione, condotta già quasi alla sua
perfezione. L'Alviano, impotente come sempre a raffrenare se
medesimo, assaltò, non tumultuosamente ma con l'esercito ordinato a
combattere e con l'artiglierie, il retroguardo degli inimici,
guidato da Prospero Colonna. Piú certa fama è che, tardando
l'Alviano ad assaltargli,... Loredano uno de' proveditori, con
ferventi parole lo morse: perché non dava dentro? perché lasciava
andarne salvi gli inimici già rotti? dalle quali parole precipitato
il ferocissimo capitano, dette furiosamente il segno della
battaglia. Altri affermano essere stato autore del fatto d'arme
Prospero Colonna, per consiglio del quale il viceré avere piú tosto
[tentato] sperimentare la fortuna incerta del combattere che
seguitare per altro modo la speranza piccolissima di salvarsi. E
aggiungono che, avendo fatto segno di volere ritornare verso
Vicenza, l'Alviano avea fatto fermare ne' borghi di Vicenza
Giampaolo Baglione colle genti venute da Trevigi, esso col resto
dell'esercito si era fermato a Creazia, due miglia appresso a
Vicenza, ove è uno piccolo colle donde comodamente si potevano usare
contro agli inimici l'artiglierie; a' piedi di quello una valle
capace dell'esercito in ordinanza, alla quale si perveniva per una
sola strada stretta appresso a' colli, e quasi circondata da paludi:
il quale luogo Prospero conoscendo essere piú incomodo agli inimici,
confortò che in quel luogo s'assaltassino. Comunque si sia,
Prospero, cominciando virilmente a combattere, e mandato a chiamare
il viceré che guidava la battaglia, e movendosi nel tempo medesimo,
per comandamento del marchese di Pescara, i fanti spagnuoli da una
parte e i tedeschi dall'altra, percossi con grandissimo impeto i
soldati de' viniziani, gli messono in fuga quasi subitamente; perché
i fanti non sostenendo la ferocia dello assalto, gittate le picche
in terra, cominciorno vituperosamente subito a fuggire: essendo i
primi esempio agli altri di tanta infamia i fanti romagnuoli, de'
quali era colonnello Babone di Naldo da Bersighella. La medesima
bruttezza seguitò il resto dell'esercito, niuno quasi combattendo o
mostrando il volto agli avversari: smarrita non che altro, per la
fuga cosí subita, la virtú dell'Alviano; il quale lasciò senza
combattere la vittoria agli inimici, a' quali rimasono l'artiglierie
e tutti i carriaggi. Dissiporonsi i fanti in diversi luoghi; degli
uomini d'arme fuggí una parte alla montagna, una parte si salvò in
Padova e in Trevigi, dove anche rifuggirono l'Alviano e il Gritti.
Furno ammazzati Francesco Calzone, Antonio Pio capitano vecchio,
insieme con Gostanzo suo figliuolo, Meleagro da Furlí e Luigi da
Palma, e poco meno che morto Paolo da Santo Angelo, il quale si
salvò pieno di ferite. Presi Giampaolo Baglione e Giulio figliuolo
di Giampaolo Manfrone, Malatesta da Sogliano e molti altri capitani
e uomini onorati; e con peggiore fortuna il proveditore Loredano,
perché combattendosi tra due soldati di qual di loro dovesse essere
prigione, uno di essi bestialmente l'ammazzò. Rimasono in tutto, fra
morti e presi, circa quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti,
perché a molti fu impedito il fuggire dalla palude: e fece nella
fuga, il danno maggiore che Teodoro da Triulzi, chiuse le porte di
Vicenza, acciò che i vinti e i vincitori alla mescolata non vi
entrassino, non vi ammesse alcuno; onde molti, mettendosi a passare,
annegorno nel fiume vicino, e tra questi Ermes Bentivoglio e
Sacramoro Visconte. Questa fu la rotta che ricevettono, il settimo
dí d'ottobre, i viniziani appresso a Vicenza; memorabile per
l'esempio che dette a' capitani che ne' fatti d'arme non
confidassino de' fanti italiani non esperimentati alle battaglie
stabili, e perché, quasi in uno istante di tempo, andò la vittoria a
coloro che aveano piccolissima speranza di salute: la quale arebbe
messo in pericolo o Trevigi o Padova, benché in questa l'Alviano in
quello il Gritti si fussino rifuggiti con le reliquie dell'esercito;
ma ripugnava, oltre alla fortezza delle terre, la stagione dell'anno
già vicina alle pioggie, né potere i capitani disporre ad arbitrio
loro i soldati, non pagati, a nuove imprese. E nondimeno i
viniziani, afflitti da tanti mali e spaventati da accidente tanto
contrario alle speranze loro, non mancavano di provedere quanto
potevano a quelle città: nelle quali, oltre agli altri provedimenti,
mandorno, come erano consueti ne' pericoli piú gravi, molti della
gioventú nobile.
Lib.11, cap.16
Il pontefice arbitro nel compromesso fra i veneziani e Cesare.
Continuano le azioni di guerra fra i veneziani e le milizie di
Cesare. Nuovi tentativi degli Adorni e dei Fieschi contro Genova;
questioni fra fiorentini e lucchesi; resa dei castelli di Milano e
di Cremona e tentativo dei genovesi contro la Lanterna tenuta dai
francesi.
Dall'armi, dopo la giornata, si ridussono le cose a' pensieri della
concordia, trattata appresso al pontefice; al quale era andato il
vescovo Gurgense, sotto nome principalmente di dargli l'ubbidienza
in nome di Cesare e dell'arciduca; seguitandolo Francesco Sforza
duca di Bari, per fare l'effetto medesimo in nome di Massimiliano
Sforza suo fratello. E benché Gurgense rappresentasse come l'altre
volte la persona di Cesare in Italia, nondimeno, pretermesso il
fasto consueto, era entrato in Roma modestamente né voluto usare per
il cammino le insegne del cardinalato, mandategli insino a
Poggibonzi dal pontefice. Alla venuta del cardinale Gurgense fu
fatto compromesso da lui e [da] gli oratori viniziani, di tutte le
differenze tra Cesare e la loro republica, nel pontefice; ma
compromesso piú tosto in nome e in dimostrazione che in effetto e in
sostanza, perché niuno volle compromettere nell'arbitro sospetto,
per l'importanza della cosa, se non ricevuta promessa da lui
separatamente e secretamente di non lodare senza suo consentimento.
Fatto il compromesso, sospese per uno breve l'offese tralle parti;
il che, benché fusse accettato da tutti con lieta fronte, fu dal
viceré male osservato, perché venuto tra Montagnana ed Esti, non
avendo dopo la vittoria fatto altro che prede e correrie, e mandata
una parte de' soldati nel Pulesine di Rovigo, faceva in tutti questi
luoghi molti danni, ora scusandosi che erano territorio di Cesare
ora dicendo aspettare avviso da Gurgense. Né ebbe il compromesso piú
felice il fine che avesse avuto il mezzo e il principio, per le
difficoltà che nel trattare le cose si scopersono; perché Cesare non
consentiva alla concordia se non ritenendo parte delle terre e per
l'altre ricevendo quantità grandissima di danari, e per contrario i
viniziani dimandavano tutte le terre e offerivano piccola somma di
danari. E si credeva che il re cattolico, benché palesemente
dimostrasse di desiderare, come già aveva fatto, questa concordia,
ora occultamente la dissuadesse; interpretandosi che, per
difficultarla piú, avesse nel tempo medesimo lasciato Brescia in
mano di Cesare: la quale il viceré, affermando ritenerla per
renderlo piú inclinato alla pace, non gli aveva insino a quel dí
voluto consentire. Le cagioni si congetturavano variamente, o perché
avendo offeso tanto i viniziani giudicasse non potere avere piú con
loro sincera amicizia o perché conoscesse la riputazione e grandezza
sua in Italia dependere da mantenere vivo quell'esercito; il quale,
per carestia di danari, non poteva nutrire se non opprimendo e
taglieggiando i popoli amici, e correndo e predando per il paese
degli inimici.
Lasciò adunque imperfetta la cosa il pontefice; e poco dipoi i
tedeschi occuporno furtivamente per mezzo di fuorusciti Marano,
terra marittima nel Friuli, e poi presono Montefalcone: e benché i
viniziani, desiderosi di recuperare Marano, propinquo a sessanta
miglia a Vinegia, l'assaltassino per terra e per mare, nondimeno,
essendo in ogni luogo simile la loro fortuna, furono da ciascuna
delle parti danneggiati. Solamente, in questo tempo, Renzo da Ceri
con somma laude sostentava alquanto il nome delle armi loro: il
quale, con tutto che in Crema, dove era a guardia, fusse peste e
carestia non leggiere, e che, essendo le genti spagnuole e milanesi
distribuitesi, per la stagione del tempo, alle stanze per le terre
circostanti, si potesse dire quasi assediata, assaltato
all'improviso Calcinaia, terra del bergamasco, svaligiò Cesare
Fieramosca con quaranta uomini d'arme e dugento cavalli leggieri
della compagnia di Prospero Colonna; e pochi dí poi, entrato di
notte in Quinzano, prese il luogotenente del conte di Santa Severina
e vi svaligiò cinquanta uomini d'arme, e in Trevi dieci uomini
d'arme di quegli di Prospero.
L'altre cose di Italia procedevano in questo tempo medesimo
quietamente: eccetto che gli Adorni e i Fieschi con tremila uomini
del paese, e forse con favore occulto del duca di Milano, presa la
Spezie e altri luoghi della riviera di levante, si accostorno alle
mura di Genova; ma succedendo le cose infelicemente, si partirno
quasi come rotti, perduta parte delle genti che v'aveano menate e
alcuni pezzi di artiglierie. Apparirono anche in Toscana princípi di
nuovi scandoli: perché i fiorentini cominciorno a molestare i
lucchesi, confidandosi che per timore del pontefice ricomprerebbono
la pace con la restituzione di Pietrasanta e di Mutrone, e allegando
non essere conveniente godessino il beneficio di quella
confederazione, la quale, prestando occultamente aiuto a' pisani,
aveano violata. Della qual cosa querelandosi i lucchesi col
pontefice e col re cattolico, in cui protezione erano, e non vedendo
resultarne alcuno rimedio, furno contenti finalmente, per fuggire i
maggiori mali, farne compromesso nel pontefice; il quale, avuta
similmente autorità da' fiorentini, pronunziò che i lucchesi, i
quali prima aveano restituita al duca di Ferrara la Garfagnana,
lasciassino quelle terre a' fiorentini, e che tra loro fusse in
perpetuo pace e confederazione.
Alla fine di questo anno, le castella di Milano e di Cremona, avendo
prima, perché cominciavano a mancare le vettovaglie, patteggiato di
arrendersi se infra certo tempo non erano soccorse, vennono in
potestà del duca di Milano; il quale in quello di Milano messe a
guardia parte fanti italiani parte svizzeri. Né altro si teneva piú
per il re di Francia in Italia che la Lanterna di Genova; la quale i
genovesi tentorno, nella fine dell'anno medesimo, di gittare in
terra colle mine, accostandosi a quella con uno puntone di legname
lungo trenta braccia e largo venti, capace di trecento uomini,
fasciato tutto, per resistere a' colpi delle artiglierie, di balle
di lana: cosa di grande artificio e invenzione, ma che tentata, come
fanno spesso simili macchine, non succedette.
Lib.12, cap.1
Azione e preparativi del re d'Inghilterra contro la Francia;
preparativi di difesa del re di Francia. Spedizione del re
d'Inghilterra. Presa di Terroana. Massimiliano Cesare presso
l'esercito inglese.
Succedetteno nell'anno medesimo nelle regioni oltramontane
pericolosissime guerre, le quali saranno raccontate da me per la
medesima cagione e con la medesima brevità con la quale le toccai
nella narrazione dell'anno precedente. Origine di quei movimenti fu
la deliberazione del re di Inghilterra d'assaltare, quella state,
con grandissime forze per terra e per mare, il reame di Francia:
della quale impresa per farsi piú facile la vittoria, avea convenuto
con Cesare di dargli cento ventimila ducati, acciò che entrasse nel
tempo medesimo nella Borgogna con tremila cavalli e ottomila fanti,
parte svizzeri parte tedeschi; promesso ancora a' svizzeri certa
quantità di danari perché facessino il medesimo, congiunti con
Cesare, il quale consentiva ritenessino in pegno una parte della
Borgogna insino a tanto fussino pagati interamente da lui degli
stipendi loro. Persuadevasi oltre a questo il re di Inghilterra che
il re cattolico suo suocero, aderendo alla confederazione di Cesare
e sua, come sempre aveva asserito di volere fare, rompesse nel tempo
medesimo la guerra da' suoi confini. Perciò la novella della tregua
fatta da quel re col re di Francia, con tutto che l'ardore alla
guerra non raffreddasse, fu ricevuta con tanta indegnazione, non
solamente da lui ma da tutti i popoli di Inghilterra, che è
manifesto che, se la autorità sua non avesse repugnato, sarebbe
stato lo imbasciadore spagnuolo impetuosamente dalla moltitudine
ammazzato. Aggiugnevasi a queste cose l'opportunità dello stato
dell'arciduca, non tanto perché non proibiva che i sudditi
ricevessino lo stipendio contro a' franzesi quanto perché prometteva
di concedere che del dominio suo si conducessino vettovaglie
all'esercito inghilese. Contro a tanti apparati e pericolosissime
minaccie non ometteva il re di Francia provedimento alcuno: perché
per mare preparava una potente armata per opporla a quella che si
ordinava in Inghilterra, e per terra congregava esercito da ogni
parte, sforzandosi sopratutto di condurre quanti piú poteva fanti
tedeschi. Aveva anche fatto, prima, instanza co' svizzeri che poi
che non volevano aiutarlo per le guerre di Italia, gli consentissino
almeno fanti per la difesa di Francia: i quali, intenti totalmente
alla stabilità del ducato di Milano, rispondevano non volergliene
concedere se non tornava all'unità della Chiesa, lasciava il
castello di Milano che ancora non era arrenduto, e, facendo cessione
delle ragioni di quello stato, promettesse di non molestare piú né
Milano né Genova. Aveva similmente il re per insospettire delle cose
proprie il re di Inghilterra, chiamato in Francia il duca di
Suffolch come competitore a quel regno; per il quale sdegno il re
anglo fece decapitare il fratello, custodito insino allora in
carcere in Inghilterra, poi che da Filippo re di Castiglia, nella
navigazione sua in Spagna, era stato dato al suo padre. Né mancava
al re di Francia speranza di pace col re cattolico: perché quel re,
come ebbe inteso la lega fatta tra lui e i viniziani, diffidando
potersi difendere il ducato di Milano, aveva mandato uno de' suoi
secretari in Francia a proporre nuovi partiti; e si credeva che,
considerando che la grandezza di Cesare e dello arciduca potessino
alterargli il governo di Castiglia, non gli piacesse totalmente la
depressione del regno di Francia. Suscitò oltre a questo Iacopo re
di Scozia, suo antico collegato, perché rompesse guerra nel regno di
Inghilterra; il quale, mosso molto piú dallo interesse proprio,
perché le avversità di Francia erano pericolose al regno suo, si
preparava con grande prontezza, non avendo dimandato dal re altro
che cinquantamila franchi per comperare vettovaglie e munizioni.
Nondimeno, a fare queste provisioni era il re di Francia proceduto
con tardità; perché aveva volto i pensieri alla impresa di Milano, e
per la negligenza solita, e per l'ardire che vanamente aveva preso
per la tregua fatta col re cattolico.
Consumoronsi per il re di Inghilterra, in questi apparati, molti
mesi: perché essendo i sudditi suoi stati molti anni senza guerra,
ed essendo molto variati i modi di guerreggiare, e inutili gli archi
e l'armadure che usavano ne' tempi precedenti, era necessitato il re
fare grandissima provisione di armi di artiglierie e di munizioni,
condurre come soldati esperti molti fanti tedeschi, e per necessità
molti cavalli, perché il costume antico degli inghilesi era di
combattere a piede. Però, non prima che del mese di luglio passorono
gli inghilesi il mare; e stati piú dí in campagna presso a Bologna,
andorono a campo a Terroana, terra posta in su' confini di
Piccardia, e in quegli popoli che da' latini sono chiamati morini.
Passò poco dipoi la persona del re, che aveva in tutto il suo
esercito cinquemila cavalli da combattere e piú di quarantamila
fanti: con la quale moltitudine postosi intorno luogo piccolo, e
circondato, secondo l'antico costume degli inghilesi,
l'alloggiamento loro con fossi con carra e con ripari di legname, e
munito intorno intorno d'artiglierie, e in modo pareva fussino in
una terra murata, attendevano a battere con l'artiglierie la terra
da piú parti e a travagliarla con le mine; ma non corrispondendo con
la virtú a tanti apparati né alla fama della ferocia loro, non gli
davano l'assalto. Erano in Terroana, bene munita di artiglierie,
dugento cinquanta lancie e dumila fanti, presidio piccolo ma non
senza speranza di soccorso, perché il re di Francia, attendendo a
raccorre sollecitamente l'esercito destinato, di dumila cinquecento
lancie diecimila fanti tedeschi, guidati dal duca di Ghelleri, e
diecimila fanti del regno, era venuto ad Amiens per dare di luogo
vicino favore agli assediati: i quali, non temendo di altro che del
mancamento delle vettovaglie, perché di queste non era stata
proveduta, eccetto che di pane, Terroana a bastanza, molestavano dí
e notte con l'artiglierie l'esercito inimico; dalle quali fu
ammazzato il gran ciamberlano regio, e levata una gamba a Talboth
capitano di Calès. Premeva il re il pericolo di Terroana; ma per
avere tardi e con la negligenza franzese cominciato a provedersi, e
per la difficoltà di avere i fanti tedeschi, non aveva ancora messo
insieme tutto l'esercito: determinato anche in qualunque caso di non
venire a giornata con gli inimici, perché se fusse stato vinto
sarebbe stato in manifestissimo pericolo tutto il reame di Francia,
e perché sperava nella vernata, la quale in quegli paesi freddi era
già quasi vicina. Ma come ebbe congregato l'esercito, restando egli
ad Amiens, lo mandò a [Vere] propinquo a Terroana, sotto Longavilla
altrimenti il marchese del Rotellino, principe del sangue reale e
capo de' gentiluomini del re, e la Palissa; con commissione che,
fuggendo qualunque occasione di fatto d'arme, attendessino a
provedere le terre circostanti, insino ad allora per la medesima
negligenza male provedute, e a mettere se potevano soccorso di gente
e di vettovaglia in Terroana: cosa in sé difficile, ma diventata piú
difficile per la piccola concordia de' capitani; de' quali ciascuno,
l'uno per la nobiltà l'altro per la lunga esperienza della milizia,
arrogava a sé la somma del governo. Nondimeno, dimandando quegli che
erano in Terroana soccorso di genti vi si accostorono, da una parte
piú rimossa dagli inghilesi, mille cinquecento lancie; e avendo
l'artiglierie di dentro battuto in modo tremila inghilesi, posti a
certi passi per impedirgli, che non potettono vietargli, né potendo
proibirlo loro il resto dell'esercito per lo impedimento di certe
traverse di ripari e di fosse fatte da quegli di dentro, il capitano
Frontaglia, condottosi alla porta, messe in Terroana ottanta uomini
d'arme senza cavalli, come essi avevano dimandato, e si ritirò salvo
con tutto il resto delle genti: e arebbono nel medesimo modo messovi
vettovaglie se ne avessino condotte seco. Dalla quale esperienza
preso animo i capitani franzesi, si accostorono un altro dí con
quantità grande di vettovaglie per mettervele per la via medesima;
ma gl'inghilesi presentendolo, e avendo fatto nuova fortificazione
da quella parte, non gli lasciorono accostare, e da altra parte
mandorono i loro cavalli e quindicimila fanti tedeschi per tagliare
loro il ritorno: i quali tornando senza sospetto, e già montati per
piú comodità in su piccoli cavalli, come furono assaltati si messono
subito in fuga senza resistere; nel qual disordine perderono i
franzesi trecento uomini d'arme, co' quali fu preso il marchese del
Rotellino, Baiardo, La Foietta e molti altri uomini nominati; ed era
stato fatto anche prigione la Palissa ma fortuitamente si salvò. E
si crede che se avessino saputo seguitare la vittoria si aprivano
quel giorno la strada a pigliare il reame di Francia; perché
indietro era restata una grossa banda di lanzchenech che aveva
seguitato le genti d'arme, la quale disfatta, era di tanto danno
all'esercito franzese che è certo che il re, quando ebbe la prima
novella, credendo che questi medesimamente fussino rotti, disperato
delle cose sue, e con lamenti e pianti miserabili, già pensava
fuggirsene in Brettagna: ma gli inghilesi, come ebbono messo in fuga
i cavalli, pensando all'acquisto di Terroana, condusseno le insegne
e i prigioni innanzi alle mura. Però, disperati i soldati che erano
in Terroana essere soccorsi, né volendo i fanti tedeschi patire
senza speranza insino all'ultima estremità delle vettovaglie,
convennono, salvi i cavalli e le persone de' soldati, di uscirsi, se
fra due dí non erano soccorsi, di Terroana. Né si dubita che l'avere
tollerato l'assedio circa cinquanta dí fusse cosa molto salutifera
al re di Francia.
Era, pochi dí innanzi, venuto personalmente nello esercito inghilese
Massimiliano, riconoscendo quegli luoghi ne' quali, ora dissimile a
se medesimo, aveva, giovanetto, rotto con tanta gloria l'esercito di
Luigi undecimo re di Francia. Nel quale mentre stette si governava
ad arbitrio suo.
Lib.12, cap.2
Invasione della Borgogna da parte degli svizzeri; accordi con la
Tramoglia. Indecisione del re di Francia intorno all'opportunità
della ratifica degli accordi.
Ma non travagliavano le cose del re di Francia da questa parte sola,
anzi erano con pericolo maggiore molestate da' svizzeri; la plebe
de' quali infiammatissima che il re di Francia cedesse alle ragioni
le quali pretendeva al ducato di Milano, e però ardente, insino non
lo faceva, di odio incredibile contro a lui, aveva fatto abbruciare
molte case d'uomini privati di Lucerna, sospetti di favorire
immoderatamente le cose del re di Francia; e procedendo
continuamente contro agli uomini notati di simile suspizione, aveva
fatto giurare a tutti i principali di mettere le pensioni in comune;
e dipoi prese l'armi, per publico decreto, erano in numero di
ventimila fanti entrati quasi popolarmente nella Borgogna: ricevuta
da Cesare, il quale, o secondo le sue variazioni o per sospetto che
avesse di loro, recusò, benché l'avesse promesso e al re di
Inghilterra e a loro, di andarvi personalmente, artiglieria e mille
cavalli. Andorono a campo a Digiuno metropoli della Borgogna, dove
era la Tramoglia con mille lancie e seimila fanti; e avendo la
plebe, per paura delle fraudi de' capitani che già cominciavano a
trattare co' franzesi, tolto l'artiglierie in mano cominciorno a
percuotere la terra: della difesa della quale dubitando non poco la
Tramoglia, ricorrendo agli ultimi rimedi, accordò subitamente con
loro, senza aspettare commissione alcuna dal re, di pagare loro in
piú tempi quattrocentomila ducati, lasciare le fortezze di Milano e
di Cremona che ancora non erano arrendute, cedere a Massimiliano
Sforza le ragioni del ducato di Milano e la contea di Asti; per
l'osservanza delle quali cose dette quattro statichi, persone
onorate e di piú che mediocre condizione; né i svizzeri si obligorno
ad altro che di ritornarsi alle case proprie, onde non erano tenuti
a essere in futuro amici del re di Francia, anzi potevano quando
voleano ritornare a offendere il suo reame. Ricevuti gli statichi
partirno subitamente, allegando, per scusazione d'avere convenuto
senza il re di Inghilterra, non avere ricevuti al tempo debito i
danari promessi da lui. Fu giudicato questa concordia avere salvato
il reame di Francia, perché, preso che avessino Digiuno, era in
potestà de' svizzeri correre senza alcuna resistenza insino alle
porte di Parigi; ed era verisimile che il re di Inghilterra, passato
il fiume della Somma, venisse nella Campagna per unirsi con loro,
cosa che non poteva essere impedita da' franzesi, perché non avendo
a quel tempo piú di seimila fanti tedeschi, né essendo ancora
arrivato il duca di Ghelleri, erano necessitati a stare rinchiusi
per le terre: e nondimeno al re fu molestissima, e si lamentò
sommamente del la Tramoglia per la quantità de' danari promessi, e
molto piú per l'averlo obligato alla cessione delle ragioni, come
cosa di troppo pregiudicio e troppo indegna della grandezza e della
gloria di quella corona. Però, ancora che il pericolo fusse
gravissimo se i svizzeri sdegnati ritornassino di nuovo ad
assaltarlo, nondimeno, confidandosi nella propinquità del verno e
nel non essere facile che tanto presto si rimettessino insieme,
deliberato ancora di correre piú presto gli ultimi pericoli che
privarsi delle ragioni di quel ducato, il quale amava
eccessivamente, deliberò di non ratificare, ma cominciò a fare
proporre loro nuovi partiti; da' quali essi alienissimi
minacciavano, se la ratificazione non venisse fra certo termine,
tagliare il capo agli statichi.
Lib.12, cap.3
Nuove vicende della guerra degli inglesi in Francia. Nuove
preoccupazioni e pericoli del re di Francia. Conciliazione del re
con il papa. Morte della regina di Francia.
Presa Terroana, alla quale lo arciduca pretendeva per antiche
ragioni, e il re di Inghilterra diceva essere sua per averla
guadagnata con giusta guerra, parve a Cesare e a lui, per spegnere i
semi della discordia, di gittare in terra le mura; non ostante che
ne' capitoli fatti con quegli di Terroana fusse stato proibito loro.
Partí poi Cesare immediate dallo esercito, affermando che gli
inghilesi, per la esperienza veduta di loro, erano poco periti della
guerra e temerari. Da Terroana andò il re di Inghilterra a campo a
Tornai, città fortissima e molto ricca, e affezionatissima per
antica inclinazione alla corona di Francia; ma circondata dal paese
dello arciduca, e però impossibile a essere soccorsa da' franzesi
mentre non erano superiori alla campagna. La quale deliberazione fu
molto grata al re di Francia, perché temeva non andassino a
percuotere nelle parti piú importanti del suo reame, cosa che lo
metteva in molte difficoltà: perché, se bene avesse già congregato
esercito potente, trovandosi oltre a cinquecento lancie che aveva
messe a guardia di San Quintino, dumila lancie ottocento cavalli
leggieri albanesi diecimila fanti tedeschi mille svizzeri ottomila
fanti del regno suo, era molto piú potente l'esercito inghilese; nel
quale, concorrendovi ogni dí nuovi soldati, era publica fama
trovarsi ottantamila combattenti. Però il re, non sperando molto di
potere difendere Bologna e il resto del paese posto di là dalla
riviera di Somma, dove temeva che gli inghilesi non si volgessino,
pensava alla difesa di Abbavilla e Amiens e [del]l'altre terre che
sono in sulla Somma, e a resistere che non passassino quella
riviera; e cosí andarsi temporeggiando, insino che la stagione
fredda sopravenisse o che la diversione del re di Scozia, nella
quale molto sperava, facesse qualche effetto: camminando in questo
tempo l'esercito suo lungo la Somma, per non lasciare guadagnare il
passo agli inimici. Credettesi che della deliberazione degli
inghilesi, indegna certamente d'uomini militari e di sí grande
esercito, fusse stata cagione o i conforti di Cesare, che sperasse
che, pigliandosi, potesse o allora o con tempo pervenire in potestà
del nipote, al quale si pretendeva che appartenesse, o perché
temessino, andando ad altro luogo, della difficoltà delle
vettovaglie, o che l'altre terre alle quali andassino non fussino
soccorse dagli inimici. Fece la città di Tornai, non essendo
provista di genti forestiere e disperandosi del soccorso, essendo
battuta con le artiglierie da piú parti, breve difesa; e si arrendé,
salve tutte le robe e persone loro, ma pagando, sotto nome di
ricomperarsi dal sacco, centomila ducati. Né si mostrava altrove piú
benigna la fortuna de' franzesi; perché il re di Scozia, venuto in
sul fiume Tuedo alle mani con l'esercito inghilese, nel quale era in
persona Caterina reina d'Inghilterra, fu vinto con grandissima
uccisione; perché vi furono ammazzati piú di dodicimila scozzesi,
insieme con lui e con uno suo figliuolo naturale, arcivescovo di
[Santo Andrea], e molti altri prelati e nobili di quel regno.
Dopo le quali vittorie, essendo già alla fine del mese di ottobre,
il re anglico, lasciata guardia grande in Tornai e licenziati i
cavalli e fanti tedeschi, se ne ritornò in Inghilterra, non avendo
della guerra fatta con tanti apparati e con spesa inestimabile
riportato altro frutto che la città di Tornai, perché Terroana,
sfasciata di mura, restava in potere del re di Francia. Mosselo a
passare il mare perché, non si potendo piú in quelli freddissimi
paesi esercitare la guerra, era inutile il dimorarvi con tanta
spesa; e pensava oltre a questo a ordinare il governo del nuovo re
di Scozia, pupillo e figliuolo di una sorella sua dove era anco
andato il duca di Albania che era del sangue medesimo di quel re.
Per la partita del quale il re, ritenuti in Francia i fanti
tedeschi, licenziò tutto il resto dello esercito, liberato dalla
cura de' pericoli presenti ma non già dal timore di non ritornare
l'anno seguente in maggiore difficoltà. Perché il re di Inghilterra,
partito di Francia con molte minaccie, affermava volervi ritornare
la state prossima; anzi, per non differire piú tanto il muovere la
guerra, cominciava già a fare nuove preparazioni. Sapeva essere in
Cesare la medesima disposizione di offenderlo; e temeva che il re
cattolico, il quale con vari sotterfugi aveva scusato la tregua
fatta per non se gli alienare totalmente, non pigliasse l'armi
insieme con loro. Anzi n'aveva potenti indizi, perché era stata
intercetta una lettera nella quale quel re, scrivendo allo
imbasciadore residente appresso a Cesare, dimostrando l'animo molto
alieno dalle parole, con le quali sempre dimostrava ardente
desiderio di muovere guerra contro agli infedeli e di passare
personalmente alla recuperazione di Ierusalem, proponeva che
comunemente si attendesse a fare pervenire il ducato di Milano in
Ferdinando nipote comune, fratello minore dello arciduca;
dimostrando che, fatto questo, il resto d'Italia era necessitato di
ricevere le leggi da loro, e che a Cesare sarebbe facile, congiunti
massime gli aiuti suoi, pervenire, come dopo la morte della moglie
era stato sempre suo desiderio, al pontificato, il quale ottenuto
rinunzierebbe allo arciduca la corona imperiale: conchiudendo però
che cose sí grandi non si potevano condurre a perfezione se non col
tempo e con le occasioni. Era anche manifesto al re di Francia
l'animo de' svizzeri, a' quali offeriva grandissime condizioni, non
placarsi in parte alcuna verso lui; anzi essersi nuovamente irritati
perché gli statichi dati loro dal la Tramoglia, temendo per
inosservanza del re di non essere decapitati, si erano occultamente
fuggiti in Germania: donde meritamente aveva paura che, o di
presente o almanco l'anno prossimo, per la occasione di tanti altri
suoi travagli, non assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato.
Queste difficoltà furono in qualche parte cagione di farlo
consentire alla concordia delle cose spirituali col pontefice, della
quale l'articolo principale era la estirpazione totale del concilio
pisano; la quale, trattata molti mesi, aveva varie difficoltà e
specialmente per le cose fatte o con l'autorità di quello concilio o
contro alla autorità del pontefice, le quali approvare pareva
indegnissimo della sedia apostolica, il ritrattarle non era dubbio
che partorirebbe gravissima confusione: però erano stati deputati
tre cardinali a pensare i modi di provedere a questo disordine; e
faceva qualche difficoltà il non parere conveniente concedere al re
l'assoluzione dalle censure se non la dimandasse, e da altro canto
il re negava volerla dimandare per non notare per scismatici la
persona sua e la corona di Francia. Finalmente il re, stracco da
questa molestia e tormentato dalla volontà di tutti i popoli del suo
regno, i quali ardentemente desideravano il riunirsi con la Chiesa
romana, mosso ancora molto dalla instanza della reina, la quale
sempre era stata alienissima da queste controversie, deliberò cedere
alla volontà del pontefice; neanche senza qualche speranza che,
levato via questa differenza, il pontefice avesse, secondo la
intenzione che artificiosamente gli aveva data, a non si mostrare
alieno dalle cose sue: benché alle querele antiche fusse aggiunta
nuova querela, perché il pontefice aveva per uno breve comandato al
re di Scozia che non molestasse il re d'Inghilterra. Però,
nell'ottava sessione del concilio lateranense, che fu celebrato
negli ultimi dí dell'anno, gli agenti del re di Francia, in nome suo
e prodotto il suo mandato, rinunziorono al conciliabolo pisano e
aderirono al concilio lateranense; con promissione che sei prelati
di quegli che erano intervenuti al pisano andrebbeno a Roma a fare
il medesimo in nome di tutta la Chiesa gallicana, e che anche
verrebbeno altri prelati a disputare sopra la pragmatica, con
intenzione di rimettersene alla dichiarazione del concilio: dal
quale, nella medesima sessione, ottennono assoluzione pienissima di
tutte le cose commesse contro alla Chiesa romana. Queste cose si
feciono l'anno mille cinquecento tredici in Italia in Francia e in
Inghilterra.
Nel principio dell'anno seguente, non avendo a fatica gustata la
letizia della unione tanto desiderata della Chiesa, morí Anna reina
di Francia, reina molto prestante e molto cattolica, con grandissimo
dispiacere di tutto il regno e de' popoli suoi della Brettagna.
Lib.12, cap.4
Consigli del pontefice agli svizzeri di maggior benevolenza verso il
re di Francia, ed al re di attenersi agli accordi con loro
conchiusi. Difficoltà di conciliazione fra gli svizzeri ed il re.
Proroga della tregua fra il re di Francia ed il re d'Aragona.
Ridotto che fu il reame di Francia alla obbedienza della Chiesa, e
cosí spento già per tutto il nome e la autorità del concilio pisano,
cominciavano alcuni di quegli che avevano temuta la grandezza del re
di Francia a commuoversi, e a temere che troppo non si deprimesse la
sua potenza; e specialmente il pontefice. Il quale, benché
perseverasse nel medesimo desiderio che da lui non fusse recuperato
il ducato di Milano, nondimeno, dubitando che il re, spaventato da
tanti pericoli e avendo innanzi agli occhi le cose dell'anno
passato, non si precipitasse, come continuamente con volontà di
Cesare trattava il re cattolico, alla concordia con Cesare (per la
quale, contraendo lo sposalizio della figliuola con uno de' nipoti
di quei re, gli concedesse in dote il ducato di Milano), cominciò a
persuadere i svizzeri che per il troppo odio contro al re di Francia
non lo mettessino in necessità di fare deliberazione non manco
nociva a loro che a lui; perché sapendo anche essi la mala
disposizione che contro a loro avevano Cesare e il re cattolico,
l'accordo col quale conseguissino lo stato di Milano non sarebbe
manco pericoloso alla libertà e autorità loro che alla libertà della
Chiesa e di tutta Italia: doversi persistere nel proposito che il re
di Francia non recuperasse il ducato di Milano, ma avvertire ancora
che (come spesso interviene nelle azioni umane) per fuggire troppo
[uno] de' due estremi non incorressino nell'altro estremo,
parimente, e forse piú, dannoso e pericoloso; né per assicurarsi,
sopra il bisogno, che quello stato non ritornasse nel re di Francia,
essere cagione di farlo cadere in mano d'altri, con tanto maggiore
pericolo e pernicie di tutti quanto ci resterebbe manco chi potesse
loro resistere che non era stato chi potesse resistere alla
grandezza del re di Francia. Dovere la republica de' svizzeri,
avendo esaltato insino al cielo il nome suo nell'arti della guerra
con tanti egregi fatti e nobilissime vittorie, cercare di farlo non
meno illustre con l'arti della pace; antivedendo dallo stato
presente i pericoli futuri, rimediandogli con la prudenza e col
consiglio, né lasciando precipitare le cose in luogo donde non
potessino restituirsi se non con la ferocia e virtú delle armi:
perché nella guerra, come a ogni ora testimoniava l'esperienza,
molte volte accadeva che il valore degli uomini era soffocato dalla
potestà troppo grande della fortuna. Essere migliore consiglio
moderare in qualche parte l'accordo di Digiuno, offerendosi massime
dal re maggiori pagamenti e promissione di fare tregua per tre anni
con lo stato di Milano, pure che non fusse astretto alla cessione
delle ragioni; la quale essendo di maggiore momento in dimostrazione
che in effetto (perché, quando al re ritornasse l'opportunità di
recuperarlo, l'avere ceduto non gli farebbe altro impedimento che
volesse egli medesimo), non doversi per questa difficoltà ridurre le
cose in tanto pericolo. Da altra parte con efficaci ragioni
confortava il re di Francia a volere piú presto, per minore male,
ratificare l'accordo fatto a Digiuno che tornare in pericolo di
avere, la state prossima, tanti inimici nel suo regno. Essere
ufficio di principe savio, per fuggire il male maggiore abbracciare
per utile e per buona la elezione del male minore; né si dovere per
liberarsi da uno pericolo e uno disordine incorrere in un altro piú
importante e di piú infamia: perché, che onore gli sarebbe concedere
agli inimici suoi naturali, e che lo avevano perseguitato con tante
fraudi, il ducato di Milano con sí manifesta nota di viltà? che
riposo che sicurtà, diminuita tanto la sua riputazione, avere
accresciuto la potenza di quegli che non pensavano ad altro che ad
annichilare il reame di Francia? da' quali conosceva egli medesimo
che nessuna promessa nessuna fede nessuno giuramento poteva
assicurarlo, come con gravissimo suo danno gli dimostrava
l'esperienza del tempo passato. Essere cosa dura il cedere quelle
ragioni, ma di minore pericolo e di minore infamia, perché una
semplice scrittura non faceva piú potenti i suoi avversari; ed
essendo stata fatta questa promessa senza consentimento suo dai suoi
ministri, non si potere dire che da principio fusse stata sua
deliberazione, ma essere piú scusato a eseguirla quasi come
necessitato dalla promessa fatta e da qualche osservanza della fede;
e sapersi pure per tutto il mondo da quanto pericolo avesse quello
accordo liberato allora il reame di Francia. Lodare che con altri
partiti cercasse di indurre i svizzeri alla sua intenzione; ed egli,
desideroso che per sicurtà del regno suo seguitasse in qualunque
modo la concordia tra lui e loro, non mancare di fare con ogni
studio tutti gli offici perché i svizzeri si disponessino alla sua
volontà; ma quando pure stessino pertinaci, esortare paternamente
lui a piegarsi, e a obbedire a' tempi e alla necessità; e per tutti
gli altri rispetti, e per non levare la scusa a lui di discostarsi
dalla congiunzione degli inimici.
Conosceva il re essere vere queste ragioni, benché si lamentasse che
il pontefice avesse mescolato tacitamente le minaccie con le
persuasioni, e confessava essere necessitato a fare qualche
deliberazione che gli diminuisse il numero degli inimici; ma aveva
fisso nell'animo sottoporsi piú tosto a tutti i pericoli che cedere
le ragioni del ducato di Milano; confortandolo a questo medesimo il
suo consiglio e tutta la corte, a quali benché fusse molestissimo
che il re facesse piú guerra in Italia, nondimeno, avendo rispetto
alla degnità della corona di Francia, era molto piú molesto che e'
fusse cosí ignominiosamente sforzato a cederle. Simile pertinacia
era nelle diete de' svizzeri; a' quali benché il re offerisse di
pagare di presente quattrocentomila ducati, e poi in vari tempi
ottocentomila, e che il cardinale sedunense e molti de' principali,
considerando il pericolo imminente se il re di Francia si
congiugnesse con Cesare e col re cattolico, fussino inclinati ad
accettare queste condizioni, nondimeno la moltitudine, inimicissima
del nome franzese, e che superba per tante vittorie si confidava di
difendere contro a tutti gli altri príncipi uniti insieme il ducato
di Milano, e appresso alla quale era già molto diminuita l'autorità
di Sedunense, e sospetti gli altri capi per le pensioni solevano
ricevere dal re di Francia, insisteva ostinatissimamente nella
ratificazione dell'accordo di Digiuno; anzi, concitata da
grandissima temerità, trattava di entrare di nuovo in Borgogna:
benché, opponendosi a questo Sedunense e gli altri capi, non con
manifesta autorità ma con vari artifici e modi indiretti,
traportavano di dieta in dieta questa deliberazione.
Però il re di Francia, non essendo né offeso né assicurato da loro,
non cessava di continuare la pratica del parentado col re cattolico;
nella quale, come altra volta, era la principale difficoltà se in
potestà del padre o del suocero doveva stare [la sposa] insino al
tempo abile alla consumazione del matrimonio, perché ritenendola il
padre nessuna sicurtà dello effetto pareva avere a Cesare: e il re,
insino che gli restava qualche speranza che la fama di questo
maneggio, la quale egli studiosamente divulgava, potesse per lo
interesse proprio mitigare in beneficio suo gli animi degli altri,
nutriva volentieri le difficoltà che vi nascevano. Venne a lui
Quintana, secretario del re cattolico, quello che per le medesime
cagioni vi era stato l'anno dinanzi; e dipoi passato con suo
consentimento a Cesare, ritornò di nuovo al re di Francia. Alla
ritornata del quale, perché si potessino con maggiore comodità
risolvere le difficoltà della pace, il re e Quintana in nome del re
cattolico prorogorono per un altro anno la tregua fatta l'anno
passato con le medesime condizioni; alle quali si aggiunse, molto
secretamente, che durante la tregua non potesse il re di Francia
molestare lo stato di Milano; nel quale articolo non si includeva né
Genova né Asti. La quale condizione, tenuta occulta da lui, fu
publicata e bandita solennemente dal re cattolico per tutta Spagna;
incerti gli uomini quale fusse piú vera, o la negazione dell'uno o
l'affermazione dell'altro. Fu nella medesima convenzione riservato
tempo di tre mesi a Cesare e al re di Inghilterra d'entrarvi, i
quali affermava il Chintana che vi entrerebbono amendue: il che,
quanto al re di Inghilterra, si diceva vanamente; ma a Cesare aveva
persuaso il re d'Aragona, resoluto sempre a non volere la guerra di
verso Spagna, non si potere con migliore via ottenere il maritaggio
che si trattava.
Lib.12, cap.5
I veneziani e Massimiliano Cesare si rimettono di nuovo al pontefice
per un compromesso. Nuove fazioni di guerra fra veneziani e
tedeschi. Condizioni ed insuccesso del lodo del pontefice. Fortunata
azione di Renzo da Ceri a Crema. Vicende di guerra nel Friuli.
Accrebbe questa prorogazione il sospetto al pontefice che tra questi
tre príncipi non fusse fatta o in procinto di farsi, in pernicie
d'Italia, conclusione di cose maggiori. Ma non perciò partendosi
dalle prime deliberazioni, che alla libertà comune fusse molto
pernicioso che il ducato di Milano pervenisse in potere di Cesare e
del re cattolico ma dannoso anche che e' fusse recuperato dal re di
Francia, gli era molto difficile procedere, e bilanciare le cose in
modo che i mezzi che giovavano all'una di queste intenzioni non
nocessino a l'altra; conciossiaché l'uno de' pericoli nascesse dalla
bassezza e dal timore, l'altro dalla grandezza e dalla sicurtà del
re di Francia. Però, per liberare quel re dalla necessità di
accordarsi con loro, continuava di confortare i svizzeri, a' quali
era sospetta la tregua fatta, di comporsi con lui; e per
difficultargli in qualunque evento il passare in Italia, si
affaticava piú che mai per la concordia tra Cesare e il senato
viniziano: il quale, giudicando che il fare tregua stabilisse le
cose di Cesare nelle terre che gli restavano, si risolveva con animo
costante o di fare pace o di continuare in sulle armi, non si
removendo da questa generosità per accidente o infortunio alcuno.
Perché, oltre a tanti danni e tanti infelici successi avuti nella
guerra, e il disperare che per quello anno il re di Francia mandasse
esercito in Italia, avendo ancora contraria o l'ira del cielo o i
casi fortuiti che dependono dalla potestà della fortuna, era stato
in Vinegia, nel principio dell'anno, uno grandissimo incendio; il
quale, cominciato di notte dal ponte del Rialto e aiutato da' venti
boreali, non potendo rimediarvi alcuna diligenza o fatica degli
uomini, distesosi per lunghissimo spazio, aveva abbruciato la piú
frequentata e la piú ricca parte di quella città. Per la
interposizione del pontefice allo accordo, si fece di nuovo tra
Cesare e loro compromesso in lui, non ristretto a tempo alcuno e con
ampia e indeterminata potestà; ma nondimeno con secreta promessa
sua, confermata con cedola di propria mano di non pronunziare se non
con consentimento di ciascuno: il quale compromesso come fu fatto,
comandò per breve suo all'una parte e all'altra che sospendessino
l'armi. La quale sospensione fu dagli spagnuoli e tedeschi poco
osservata: perché quella parte degli spagnuoli che erano alle stanze
nel Pulesine e a Esti predorono tutto il paese circostante; e il
viceré mandò gente a Vicenza, per trovarsi in possessione quando si
desse il lodo.
Fece anche in questo tempo il Frangiapane in Friuli molti danni; e
stando incauti i viniziani, i tedeschi per trattato tenuto da alcuni
fuorusciti presono Marano, terra del Friuli vicina ad Aquileia e
posta in sul mare: però i viniziani vi mandorono per terra
Baldassarre di Scipione con certo numero di genti, e Ieronimo da
Savorniano con molti paesani. I quali essendosi accampati, e
strignendo anche con l'armata la terra per mare, vennono in soccorso
di quella cinquecento cavalli tedeschi e dumila fanti; per la venuta
de' quali, uscendo anche quegli di dentro ad assaltare le genti de'
viniziani, gli roppono con non piccola uccisione e tolseno loro
l'artiglieria; e fu anche, con alcuni legni, loro tolta una galea e
molti altri legni: dopo la qual vittoria preseno per forza
Monfalcone. Aggiunsesi alle genti di Marano, pochi dí poi,
quattrocento cavalli e mille dugento lanzchenech che erano stati a
Vicenza; i quali, congiunti con altri fanti e cavalli venuti
nuovamente nel Friuli, correvano tutto il paese: però Malatesta da
Sogliano, governatore di quella regione, con seicento cavalli e
dugento fanti, e Ieronimo da Savorniano con dumila uomini del paese,
che si erano ridotti a Udine, non vedendo potere resistere,
passorono di là dal fiume di Liquenza, soccorrendo dove potevano. Ma
essendosi divisi i tedeschi, una parte prese Feltro e correva per
tutto il paese circostante; ma i viniziani, che avevano occupati
tutti i passi, ne assaltorono una parte a Bassano, dove erano
improvisti, ed essendo di numero minore gli messeno in fuga,
ammazzati trecento fanti, di cinquecento che erano, e presi molti
soldati e capitani. L'altra parte de' tedeschi era andata a campo a
Osopio, situato in cima d'uno aspro monte; dove, poi che ebbeno
battuta la rocca con l'artiglieria e dato piú assalti invano, si
ridusseno a speranza di averla per assedio, confidatisi nello essere
dentro carestia d'acqua: ma avendo a questa proveduto il beneficio
celeste, perché in quegli dí furono spesse e grosse pioggie,
ricominciorono di nuovo a dare la battaglia, [ma invano]; tanto che
disperatisi e degli assalti e dell'assedio si levorono da campo.
Erano molestissime al pontefice queste cose, ma gli era molesto
molto piú non trovare mezzo di concordia che sodisfacesse all'una
parte e all'altra. Perché dalla spessa variazione delle cose,
variandosi secondo i progressi di quelle le speranze, era proceduto
che quando Cesare aveva consentito di lasciare Vicenza, ritenendosi
Verona, i viniziani avevano recusato se non erano reintegrati di
Verona; ora che i viniziani, sbattuti da tante percosse, si
contentavano d'avere Vicenza sola, Cesare non contento di Verona
voleva anche Vicenza. Dalle quali difficoltà stracco il pontefice, e
presupponendo che la dichiarazione sua non sarebbe accettata, ma per
mostrare che per lui non mancasse, pronunziò la pace tra loro, con
questo: che subito da ogni parte si posassino le armi, riservandosi
la facoltà di dichiarare infra uno anno le condizioni della pace,
nella quale e nella sospensione delle armi fusse compreso il re
cattolico: che Cesare deponesse Vicenza in sua mano e quanto egli e
gli spagnuoli possedevano nel padovano e nel trevigiano, e i
viniziani deponessino Crema; l'altre cose ciascuno insino alla
dichiarazione possedesse secondo possedeva. Dovessesi ratificare il
lodo infra uno mese da tutti, e ratificandosi pagassino i viniziani
allora a Cesare venticinquemila ducati e fra tre mesi prossimi
venticinquemila altri, e che non ratificandosi da tutti si
intendesse il lodo essere nullo: il quale modo insolito di giudicare
fu seguitato da lui per non dispiacere ad alcuna delle parti. E
perché non vi era facoltà di chi ratificasse in nome del re
cattolico, se bene l'oratore suo faceva fede del suo consenso,
riservò tanto tempo a ratificare a ciascuno che potesse venire la
facoltà: ma essendo risoluti a non ratificare i viniziani, perché
arebbeno desiderato che in uno tempo medesimo si fussino pronunziate
le condizioni della pace, restò vano il giudizio.
Procedevano in questo tempo prosperamente le cose loro nella difesa
di Crema, vessata dentro dalla peste e dalla carestia e di fuora
dallo assedio degli inimici: perché da una parte era venuto Prospero
Colonna a Efenengo con dugento uomini d'arme dugento cavalli
leggieri e dumila fanti, e da altra parte, a Umbriano, Silvio
Savello con la compagnia sua di cavalli e dumila fanti, distante
l'uno luogo e l'altro due miglia da Crema: donde usciva spesso gente
a scaramucciare con gli inimici. I quali mentre stanno incauti allo
alloggiamento di Umbriano, Renzo da Ceri, uscito una notte con parte
delle genti che erano dentro, assaltati gli alloggiamenti, gli messe
in fuga, ammazzati di loro molti fanti: per il che Prospero si
discostò con la sua gente: e pochi dí poi Renzo, avuta l'occasione
di potere per la bassezza delle acque guadare il fiume dell'Adda,
passato a Castiglione di Lodigiana, svaligiò cinquanta uomini d'arme
che vi erano alloggiati; riportando tanta laude di queste sí
prospere e industriose fazioni che per consenso universale fusse già
numerato tra' principali capitani di tutta Italia.
Deliberorono dipoi i viniziani di recuperare il Friuli: però vi fu
mandato l'Alviano, con dugento uomini d'arme quattrocento cavalli
leggieri e settecento fanti. Il quale camminando alla volta di
Portonon, dove era parte de' tedeschi, i suoi cavalli leggieri che
correvano innanzi, scontrato fuora della terra il capitano Rizzano
tedesco con dugento uomini d'arme e trecento cavalli leggieri,
venuti insieme alle mani, erano ributtati; ma sopravenendo l'Alviano
col resto delle genti, si cominciò una aspra battaglia, l'effetto
della quale stette dubbio insino che Rizzano, ferito nella faccia,
fu preso da Malatesta da Sogliano. Rifuggissi la gente rotta in
Portonon, ma dubitando non potersi difendere si fuggirono; e la
terra, abbandonata, fu, con morte di molti uomini del paese, messa a
sacco. Andò dipoi l'Alviano alla volta di Osopio, assediato dal
Frangiapane e da un'altra parte di tedeschi; i quali inteso lo
approssimare suo si levorno, ma, avendo alla coda i cavalli
leggieri, perderono i carriaggi e l'artiglierie. Per i quali
successi essendo ritornato a ubbidienza de viniziani quasi tutto il
paese, l'Alviano, poi che ebbe tentato invano Gorizia, se ne ritornò
a Padova con le genti; avendo, secondo scrisse egli a Roma, tra
presi e morti dugento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e
dumila fanti. Ma per la partita sua i tedeschi, ingrossati di nuovo,
preseno Cromonio e Monfalcone e costrinseno i viniziani a levarsi da
campo da Marano, dove in uno aguato era stato preso, pochi dí
innanzi, e condotto a Vinegia il Frangiapane; ma sentendo la venuta
del soccorso, si levorono quasi come rotti: e poco poi, messi in
fuga i loro stradiotti, fu preso Giovanni Vitturio loro proveditore,
con cento cavalli. E accadevano spesso in Friuli queste variazioni
per la vicinità de' tedeschi, i quali non si servivano in quel paese
se non di genti comandate; le quali, poi che avevano corso e predato
o sentendo la venuta delle genti viniziane, con le quali si
congiugnevano molti del paese, si ritiravano presto alle loro case,
ritornandovi dipoi secondo l'occasione. Mandoronvi i viniziani gente
di nuovo, per il che il viceré ordinò che Alarcone, uno de' capitani
spagnuoli che erano alloggiati tra Esti, Montagnana e Cologna,
andasse con dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e
cinquecento fanti nel Friuli; ma, inteso per il cammino che nel
paese era stata fatta tregua per fare la vendemmia, se ne tornò al
primo alloggiamento.
Lib.12, cap.6
Persistenza dell'avversione degli svizzeri al re di Francia e
sospetti del re verso il pontefice. Sdegno del re d'Inghilterra
contro il re d'Aragona per la convenzione conclusa col re di
Francia. Pace fra il re d'Inghilterra e il re di Francia.
Convenzione del pontefice con Massimiliano Cesare e col re
d'Aragona; altra convenzione col re di Francia.
Cosí procedendo le guerre di Italia lentamente, non si
intermettevano le pratiche della pace e degli accordi. Perché il re,
non privato al tutto di speranza che i svizzeri consentissino di
ricevere ricompenso di danari in cambio della cessione delle
ragioni, sollecitava appresso a loro questo effetto con molta
instanza; dal quale era la moltitudine tanto aliena che, avendo,
quando fuggirono gli statichi, costretto con minaccie il governatore
di Ginevra a dare loro prigione il presidente di Granopoli, mandato
dal re in quella città per trattare con loro, lo esaminavano con
molti tormenti per intendere se alcuno della loro nazione ricevesse
piú pensione o avesse intelligenza occulta col re di Francia: non
bastando né umanità né giustificazione alcuna a reprimere la loro
barbara crudeltà. Né era senza sospetto il re che anche il
pontefice, che per la diversità de' fini suoi era costretto navigare
con grandissima circospezione fra tanti scogli, non procurasse
secretamente che i svizzeri non convenissino seco senza intervento
suo, non per incitargli a rompere la guerra, che da questo
continuamente gli sconfortava, ma perché o restassino fermi nello
accordo di Digiuno, o per paura che con questo principio non si
separassino da lui. Però minacciava di precipitarsi all'accordo con
gli altri, per non volere restare piú solo alle percosse di tutto il
mondo: stracco ancora dalle spese eccessive e dalle insolenze de'
soldati; perché avendo condotti in Francia ventimila fanti tedeschi,
né potuto avergli tutti se non quando il re d'Inghilterra era a
campo a Tornai, aveva, per avergli a tempo se venisse nuovo bisogno,
ritenutogli in Francia; i quali facevano infiniti danni per il
paese. E si doleva il re che il papa non lo volesse in Italia, e che
gli altri príncipi non lo volessino in Francia.
In queste difficoltà e in tanta perplessità delle cose, cominciò ad
aprirgli la via alla sua sicurtà e alla speranza di ritornare nella
pristina potenza e riputazione la indegnazione incredibile che
ricevette il re di Inghilterra della tregua rinnovata dal suocero,
contro a quello che molte volte gli aveva promesso, di non fare piú
senza suo consentimento convenzione alcuna col re di Francia; della
quale ingiuria lamentandosi publicamente, e affermando essere stato
ingannato dal suocero tre volte, si alienava ogni dí piú da'
pensieri di rinnovare la guerra contro a franzesi. La quale cosa
pervenuta a notizia del pontefice, mosso o dal sospetto che il re di
Francia, in caso fusse molestato da lui, non facesse la pace e il
parentado (come continuamente minacciava) con gli altri due re, o
perché, pensando che a ogni modo avesse a succedere la pace tra
loro, desiderasse con lo interporsene acquistare qualche grado col
re di Francia, di quello che non era in potestà sua di proibire,
cominciò a confortare il cardinale eboracense che persuadesse al suo
re che, contento della gloria guadagnata, e avendo in memoria che
corrispondenza di fede avesse trovata in Cesare, nel re cattolico e
ne' svizzeri, non travagliasse piú con l'armi il reame di Francia.
Certo è che, essendo dimostrato al pontefice che come il re di
Francia si fusse assicurato della guerra di Inghilterra moverebbe le
armi contro al ducato di Milano, rispondeva: conoscere questo
pericolo, ma aversi anche a considerare il pericolo che partorirebbe
da ogni banda; ed essere, in materie sí gravi, troppo difficile il
bilanciare le cose sí perfettamente e trovare consiglio che fusse
totalmente netto da questi pericoli: restare in ogni evento allo
stato di Milano la difesa de' svizzeri, ed essere necessario, in
deliberazioni tanto incerte e tanto difficili, rimetterne una parte
all'arbitrio del caso e della fortuna.
Come si sia, cominciò presto, o per l'autorità del pontefice o per
inclinazione propria delle parti, a nascere pratica d'accordo tra il
re di Francia e il re di Inghilterra; i ragionamenti della quale,
cominciati dal pontefice con Eboracense, furono trasferiti presto in
Inghilterra, dove per questa cagione fu mandato dal re di Francia il
generale di Normandia, ma sotto colore di trattare della liberazione
del marchese di Rotellino: allo arrivare del quale fu publicata
sospensione delle armi, per terra solamente, tra l'uno e l'altro re,
per tutto il tempo che il generale stesse nell'isola. Accrescevasi,
per nuove ingiurie, la inclinazione del re di Inghilterra alla pace:
perché Cesare, che gli aveva promesso di non ratificare senza lui la
tregua fatta dal re cattolico, mandò a quel re lo instrumento della
ratificazione; il quale, per una lettera sua al re di Francia,
ratificò in nome di Cesare, ritenendosi lo instrumento per potere
usare le simulazioni e arti sue. Cominciata la pratica tra i due re,
il pontefice, desideroso di farsi grato a ciascuno di loro, mandò in
poste al re di Francia il vescovo di Tricarico a offerire tutta
l'autorità e opera sua; il quale passò con suo consentimento in
Inghilterra per l'effetto medesimo. Dimostroronsi in questa cosa da
principio molte difficoltà, perché il re di Inghilterra dimandava
che gli fusse dato Bologna di Piccardia e quantità grande di danari:
finalmente, riducendosi la differenza in su le cose di Tornai,
perché il re d'Inghilterra instava di ritenerlo e dal canto del re
di Francia se ne mostrava qualche difficoltà, mandò quel re il
vescovo di Tricarico in poste al re di Francia; al quale, non
essendo notificato in che particolare consistesse la difficoltà, fu
data commissione che in suo nome lo confortasse che, per rispetto di
tanto bene, non insistesse cosí sottilmente nelle cose: sopra che il
re di Francia, non volendo avere carico co' popoli suoi, per essere
Tornai terra nobile e di fede molto nota verso la corona di Francia,
propose la cosa nel consiglio, nel quale intervenneno tutti i
principali della corte. Fu unitamente confortato ad abbracciare,
eziandio con questa condizione, la pace: nonostante che in questi
tempi il re cattolico, cercando con ogni industria di interromperla,
proponesse al re di Francia molti partiti, e specialmente di dargli
favore allo acquisto dello stato di Milano. Però, come in
Inghilterra fu arrivata la risposta che il re era contento delle
cose di Tornai, fu, al principio di agosto, conchiusa la pace tra i
due re, durante la vita loro e uno anno dopo la morte; con
condizione che Tornai restasse al re d'Inghilterra, al quale il re
di Francia pagasse secentomila scudi, distribuendo il pagamento in
centomila franchi per anno; fussino tenuti alla difesa degli stati
l'uno dell'altro, con diecimila fanti se la guerra fusse mossa per
terra, con seimila solo se per mare; che il re di Francia fusse
obligato a servire il re d'Inghilterra, in ogni suo affare, di mille
dugento lancie, e quel re fusse tenuto a servire lui di diecimila
fanti, ma in questo caso a spese di chi ne avesse di bisogno. Furono
nominati dall'uno e l'altro di loro il re di Scozia, l'arciduca e lo
imperio, ma non fu nominato né Cesare né il re cattolico; nominati i
svizzeri, ma con patto che qualunque difendesse contro al re di
Francia lo stato di Milano o Genova o Asti fusse escluso dalla
nominazione. La quale pace, fatta con grandissima prontezza, fu
corroborata con parentado; perché il re d'Inghilterra concesse la
sorella sua per moglie al re di Francia, con condizione riconoscesse
d'avere ricevuto per la sua dote quattrocentomila scudi. Celebrossi
subito lo sposalizio in Inghilterra, al quale il re non volle, per
l'odio grande che aveva al re cattolico, che l'oratore suo vi
intervenisse. Né era appena conchiusa questa pace che alla corte di
Francia arrivò lo instrumento della ratificazione fatta da Cesare
della tregua, e il mandato suo e del re cattolico per la conclusione
del parentado che si trattava tra Ferdinando d'Austria e la
figliuola seconda del re, che era ancora in età di quattro anni: la
quale pratica, per la conclusione della pace, fu in tutto esclusa; e
il re ancora, per sodisfare al re di Inghilterra, volle partisse del
regno di Francia il duca di Suffolch, che era capitano generale de'
fanti tedeschi condotti da lui; e nondimeno, onorato e carezzato dal
re, partí bene contento.
Nel quale tempo aveva anche il pontefice fatte nuove congiunzioni;
perché, pieno di artifici e di simulazioni, voleva da uno canto che
il re di Francia non recuperasse lo stato di Milano, da altro
intrattenere lui e gli altri príncipi quanto poteva con varie arti.
Però, per mezzo del cardinale San Severino, che nella corte di Roma
trattava le cose del re di Francia, aveva proposto al re che, poi
che i tempi non pativano che tra loro si facesse maggiore e piú
palese congiunzione, che almanco si facesse uno principio e uno
fondamento in sul quale si potesse sperare aversi a fare altra volta
strettissima intelligenza; e aveva mandato la minuta de' capitoli:
alla quale pratica il re di Francia, ancorché dimostrasse gli fusse
grata, non avendo fatto risposta sí presto, ché tardò quindici dí a
risolversi, o per altre occupazioni o perché aspettasse d'altro
luogo qualche risposta per governarsi secondo i progressi delle
cose, il pontefice fece nuova capitolazione con Cesare e col re
cattolico per uno anno, nella quale non si conteneva però altro che
la difesa degli stati comuni: avendo prima il re cattolico non
vanamente sospettato che egli aspirasse al regno di Napoli per
Giuliano suo fratello, sopra che aveva già avuto qualche pratica co'
viniziani. Né l'aveva ancora quasi conchiusa che sopravenne la
risposta del re di Francia, per la quale approvava tutto quello che
aveva proposto il pontefice; aggiugnendovi solamente che, poi che
egli si aveva a obligare alla protezione de' fiorentini, di Giuliano
suo fratello e di Lorenzo de' Medici suo nipote, il quale il papa
aveva preposto alla amministrazione delle cose di Firenze, voleva
che anche essi reciprocamente si obligassino alla difesa sua: la
quale ricevuta, il pontefice si scusò essersi ristretto con Cesare e
col re cattolico, perché, vedendo differirsi tanto a rispondere a
una dimanda tanto conveniente, non aveva potuto fare non entrasse in
qualche dubitazione; e nondimeno averla fatta per breve tempo, né
contenersi in quella cose pregiudiziali a lui né impedirgli la
perfezione della pratica cominciata tra loro. Le quali
giustificazioni accettate dal re, fermorono insieme la convenzione
non per instrumento, per maggiore secreto, ma per cedola
sottoscritta di mano di ciascuno di loro.
Lib.12, cap.7
Pensieri dei príncipi e degli svizzeri intorno alla pace conchiusa
dai re di Francia e di Inghilterra. Sollecitazioni del pontefice al
re di Francia perché tenti l'impresa del ducato di Milano; resa
della Lanterna di Genova. La politica del pontefice e nuove
preoccupazioni del re di Francia.
La pace tra il re di Francia e il re d'Inghilterra, fatta con
maggiore facilità e prestezza che non era stata l'opinione
universale, perché niuno credette mai che tanta inimicizia potesse
cosí presto convertirsi in benivolenza e in parentado, non fu forse
grata al pontefice che, come gli altri, si era persuaso doverne
nascere piú presto tregua che pace o, se pure, pace che avesse a
essere con condizioni piú gravi al re di Francia o almanco con
obligazione che per qualche tempo non assaltasse lo stato di Milano:
ma dispiacque sommamente a Cesare e al re cattolico. Il quale, come
non è male alcuno nelle cose umane che non abbia congiunto seco
qualche bene, affermava riceverne due sodisfazioni di animo: l'una,
che l'arciduca suo nipote, escluso dalla speranza di dare la sorella
per moglie al re di Francia e venuto in diffidenza col re
d'Inghilterra, sarebbe costretto a procedere in tutte le cose col
consiglio e autorità sua; l'altra, che potendo facilmente il re di
Francia avere figliuoli era messa in dubbio la successione di
Angolem, col quale egli, per essere Angolem desiderosissimo di
rimettere il re di Navarra nel suo stato, riteneva grandissimo odio.
Soli i svizzeri, benché ritenendo il medesimo odio che per il
passato contro al re di Francia, affermavano essersi rallegrati di
questa concordia; perché restando, come si credeva, espedito quel re
a muovere la guerra contro al ducato di Milano, arebbeno nuova
occasione di dimostrare a tutto il mondo la virtú e la fede loro. Né
si dubitava per alcuno che il re di Francia, cessato quasi in tutto
il timore di essere molestato di là da' monti, non avesse il
consueto desiderio di recuperare il ducato di Milano; ma era incerto
se avesse in animo di muovere l'armi subito o differire all'anno
futuro, perché la facilità appariva presente ma non apparivano segni
di preparazione.
Nella quale incertitudine, il pontefice, ancoraché gli fusse
molestissimo che il re recuperasse quello stato, lo confortò, molto
efficacemente, che col differire non corrompesse l'occasione
presente; dimostrando le cose essere male preparate a resistere,
perché l'esercito spagnuolo era diminuito e non pagato, i popoli
dello stato di Milano poveri e ridotti in ultima disperazione, e non
vi essere chi potesse dare danari per muovere i svizzeri: le quali
persuasioni avevano maggiore autorità perché, non molto innanzi che
si facesse la pace col re di Inghilterra, dimostrando d'avere
desiderio ch'egli recuperasse Genova, gli aveva dato qualche
speranza di indurre Ottaviano Fregoso a convenire seco. Non è dubbio
che in questa cosa il pontefice non procedeva sinceramente, ma si
crede lo movesse o perché vedendo le cose mal proviste e dubitando
che il re di Francia non facesse eziandio senza suoi conforti questa
espedizione, perché aveva le genti d'arme parate e molti fanti
tedeschi, volesse con tale arte preoccupare la sua amicizia, o che,
procedendo con maggiore astuzia, sapesse essere vero quello che
Cesare e il re cattolico affermavano e il re di Francia negava: che
gli fusse proibito muovere, durante la tregua, l'armi contro allo
stato di Milano; e però, persuadendosi che il re negherebbe il fare
la impresa, gli paresse fargli buono concetto della sua
disposizione, e prepararsi scusa se da lui ne fusse ricercato ad
altro tempo. E successe la cosa secondo il disegno suo: perché il
re, deliberato, o per la cagione predetta o per avere difficoltà di
denari o per la propinquità del verno, di non muovere l'armi insino
alla primavera, e dimostrando confidare che anche a quello tempo non
gli mancherebbe il favore del pontefice, rispondeva allegando varie
escusazioni della dilazione, ma tacendo sempre quella, che forse era
la principale, della tregua che ancora durava. Aveva nondimeno
inclinazione a tentare le cose di Genova o almanco di soccorrere la
Lanterna, la quale per ordine suo era stata nell'anno medesimo
rinfrescata piú volte di qualche quantità di vettovaglie, da piccoli
legni i quali, fingendo di volere entrare nel porto di Genova, vi si
erano accostati furtivamente; ma l'estremità del vivere era tale
che, non potendo quella fortezza aspettare il soccorso, furono
costretti quegli di dentro ad arrendersi a' genovesi; i quali, con
dispiacere maraviglioso del re, la disfeceno insino da' fondamenti.
Rimosse la perdita della Lanterna il re in tutto da' pensieri di
molestare per allora Genova, ma si voltò tutto alle preparazioni di
assaltare il ducato di Milano l'anno futuro: e sperava insino a qui,
per la intenzione buona che gli dava il pontefice, per la
disposizione che aveva dimostrato nelle pratiche col re
d'Inghilterra e con i svizzeri, e per lo averlo stimolato a fare la
impresa, gli avesse a essere congiunto e favorevole; massime che a
lui faceva offerte grandi, e particolarmente prometteva aiutarlo ad
acquistare il regno di Napoli o per la Chiesa o per Giuliano suo
fratello. Ma nuove cose che sopravennono cominciorono a metterlo in
qualche diffidenza di lui.
Non aveva il pontefice mai voluto comporre le cose del duca di
Ferrara, se bene, nel principio della sua promozione, gli avesse
dato in Roma grandissima speranza e promesso la restituzione di
Reggio al ritorno di Ungheria del cardinale suo fratello; al quale
poiché fu ritornato, era andato differendo con varie scuse:
confermategli però le medesime promesse non solo con le parole ma
con uno breve, e consentendo che egli pigliasse l'entrate di Reggio
come di cosa che presto avesse a ritornare sotto il loro dominio. Ma
la intenzione sua era molto diversa, e inclinata a occupare Ferrara;
stimolato da Alberto da Carpi oratore cesareo, inimico acerbissimo
del duca, e da molti altri che gli proponevano ora l'esempio della
gloria di Giulio, fatta eterna per avere tanto ampliato il dominio
della Chiesa, ora l'occasione di dare uno stato onorevole a Giuliano
suo fratello: il quale, avendosi proposto speranze poco moderate,
aveva spontaneamente consentito che Lorenzo suo nipote ritenesse in
Firenze l'autorità della casa de' Medici. Però entrato in questi
pensieri, il pontefice ottenne facilmente da Cesare, bisognoso in
ogni tempo di denari, che gli desse in pegno la città di Modena per
quarantamila ducati, come poco innanzi alla morte di Giulio si era
trattato con lui; disegnando unire quella città con Reggio, Parma e
Piacenza e concederle in vicariato o in governo perpetuo a Giuliano,
con aggiugnervi Ferrara se gli venisse mai l'occasione di ottenerla.
Dette questa compra sospetto non mediocre al re di Francia,
parendogli segno di congiunzione grande con Cesare ed essendogli
molesto che gli desse denari; benché il pontefice si scusava, Cesare
avergliene concessa per denari che prima aveva avuti: e accrebbe il
sospetto che, per avere ottenuto il principe de' turchi una vittoria
grande contro al Sophí re della Persia, il pontefice, come per cosa
pericolosa a' cristiani scrisse lettere a tutti i príncipi,
confortandogli a posare l'armi tra loro per attendere a resistere o
ad assaltare gl'inimici della fede. Ma quello che quasi in tutto
scoperse a lui l'animo suo fu che egli mandò, sotto il medesimo
pretesto, Pietro Bembo suo secretario, che fu poi cardinale a
Vinegia, per disporgli allo accordo con Cesare: nel quale essendo le
medesime difficoltà che per il passato, non l'avevano voluto
accettare; anzi manifestorono al re di Francia la cagione della sua
venuta. Donde il re, dispiacendogli che in tempo tanto propinquo a
muovere l'armi cercasse di privarlo degli aiuti de' suoi
confederati, rinnovò le pratiche passate col re cattolico, o perché
questo terrore movesse il pontefice avergliene concessa per denari
che prima aveva avuti: e accrebbe il sospetto che, per avere
ottenuto il principe de' turchi una vittoria grande contro al Sophí
re della Persia, il pontefice, come per cosa pericolosa a' cristiani
scrisse lettere a tutti i príncipi, confortandogli a posare l'armi
tra loro per attendere a resistere o ad assaltare gl'inimici della
fede. Ma quello che quasi in tutto scoperse a lui l'animo suo fu che
egli mandò, sotto il medesimo pretesto, Pietro Bembo suo secretario,
che fu poi cardinale a Vinegia, per disporgli allo accordo con
Cesare: nel quale essendo le medesime difficoltà che per il passato,
non l'avevano voluto accettare; anzi manifestorono al re di Francia
la cagione della sua venuta. Donde il re, dispiacendogli che in
tempo tanto propinquo a muovere l'armi cercasse di privarlo degli
aiuti de' suoi confederati, rinnovò le pratiche passate col re
cattolico, o perché questo terrore movesse il pontefice o, non lo
movendo, per conchiuderle: tanto [era] sopra ogni cosa ardente alla
recuperazione del ducato di Milano.
Lib.12, cap.8
Attentato degli spagnuoli contro l'Alviano; nuove fazioni di guerra
fra veneziani e spagnuoli nel Veneto. Nuove vicende della lotta a
Crema e nel bergamasco. Attività dell'Alviano nel Veneto. Quiete nel
Friuli. Tentativi dei Fieschi e degli Adorni in Genova. Dono del re
del Portogallo al pontefice.
Ma in questo medesimo non erano stati in Italia altri movimenti che
contro a' viniziani. Contro a' quali anche si era tentato di
procedere con occultissime insidie: perché, se è vero quello che
riferiscono gli scrittori viniziani, alcuni fanti spagnuoli, entrati
in Padova simulando di essere fuggiti del campo degli inimici,
cercavano di ammazzare l'Alviano per commissione de' capitani loro;
i quali speravano che accostandosi subito con l'esercito a Padova,
disordinata per la morte di uno tale capitano, averla facilmente a
pigliare. Tanto sono dissimili i modi della milizia presente dalla
virtú degli antichi! i quali, non che subornassero i percussori,
revelavano allo inimico se alcuna sceleratezza si trattava contro a
lui, confidandosi di poterlo vincere con la virtú. La quale
congiurazione venuta a luce, fu degli scelerati fanti preso dai
magistrati il debito supplicio. Alloggiavano le genti spagnuole,
diminuite non poco di numero, tra Montagnana, Cologna ed Esti; i
quali per sforzare al ritirarsi nel reame di Napoli, i viniziani
ordinavano una armata, della quale avevano fatto Andrea Gritti
capitano generale: la quale, destinata ad assaltare la Puglia, fu
per varie difficoltà alla fine disarmata e messa in silenzio.
Vennono poi gli spagnuoli alle Torri appresso a Vicenza stimolati da
i tedeschi che erano in Verona di andare insieme con loro a dare il
guasto alle biade de' padovani; ma avendogli aspettati in quello
alloggiamento invano piú dí, perché erano ridotti a piccolissimo
numero e impotenti a adempiere le promesse sotto le quali gli
avevano chiamati, lasciato il disegno del guasto e ottenuti da loro
mille cinquecento fanti, andorono con settecento uomini d'arme
settecento cavalli leggieri e tremila cinquecento fanti spagnuoli a
campo a Cittadella, nella quale terra erano trecento cavalli
leggieri. Dove essendo arrivati a due ore di dí, avendo cavalcato
espediti tutta la notte, batteronla subito con l'artiglieria; e il
dí medesimo la preseno, con tutti quegli cavalli, per forza, al
secondo assalto, e si ritornorono al primo alloggiamento propinquo a
tre miglia a Vicenza: non si movendo l'Alviano, il quale, avendo
avuto dal senato comandamento di non combattere, si era, con
settecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e settemila fanti,
fermato in alloggiamento forte in sul fiume della Brenta, dal quale
co' cavalli leggieri travagliava continuamente gli inimici.
Nondimeno poi, per maggiore sicurtà dello esercito, si ritirò a
Barziglione quasi in sulle porte di Padova. Ma essendo tutto il
paese consumato dalle scorrerie e dalle prede che si facevano
dall'uno e dall'altro esercito, gli spagnuoli, mancando loro le
vettovaglie, si ritirorono a' primi alloggiamenti da' quali si erano
partiti, abbandonata la città di Vicenza e la rocca di Brendala
distante da Vicenza sette miglia; né si nutrivano con altri sussidi
o pagamenti che con le taglie mettevano a Verona, Brescia, Bergamo e
gli altri luoghi circostanti. Ritirati gli spagnuoli, l'Alviano si
pose con l'esercito tra la Battaglia e Padova in alloggiamento
fortissimo: donde inteso essere in Esti poca e negligente guardia,
vi mandò di notte quattrocento cavalli e mille fanti; dove entrati
innanzi fussino sentiti e presi ottanta cavalli leggieri del
capitano Corvera, il quale si salvò nella rocca, si ritirorono allo
esercito. Ma avendo i viniziani mandate nuove genti all'esercito,
l'Alviano, accostatosi a Montagnana, presentò la battaglia al
viceré; il quale, perché era molto inferiore di forze recusando di
combattere, si ritirò nel Polesine di Rovigo: donde l'Alviano, non
avendo piú ostacolo alcuno di là dallo Adice, correva ogni dí insino
in sulle porte di Verona; il che fu cagione che il viceré, mosso dal
pericolo di quella città, lasciati nel Pulesine trecento uomini
d'arme e mille fanti, vi entrò con tutto il resto dello esercito.
Molte maggiori difficoltà erano in Crema, quasi assediata dalle
genti del duca di Milano alloggiate nelle terre e ville vicine,
perché dentro era la carestia, la peste smisurata, stati i soldati
piú mesi senza denari, mancamento di munizioni e di molte provisioni
piú volte dimandate. Però Renzo, diffidando potersi piú sostenere,
aveva quasi protestato a' viniziani; e nondimeno, mostrandosegli
ancora benigna la medesima fortuna, assaltò Silvio Savello che aveva
dugento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille cinquecento
fanti, e giuntogli addosso allo improviso lo roppe subito, e Silvio
con cinquanta uomini d'arme fuggí in Lodi. Rifornirono dipoi
un'altra volta i viniziani Crema di vettovaglie, e il conte Niccolò
Scoto vi messe mille cinquecento fanti; dal quale presidio essendo
accresciuto le forze e l'animo di Renzo, entrò pochi dí poi nella
città di Bergamo, chiamato dagli uomini della terra, e gli spagnuoli
si fuggirono nella Cappella; e nel tempo medesimo Mercurio e
Malatesta Baglione preseno trecento cavalli che erano alloggiati
fuora: ma andando, pochi dí poi, Niccolò Scoto con cinquecento fanti
italiani da Bergamo a Crema, incontrato da dugento svizzeri, fu
rotto e fatto prigione, e condotto al duca di Milano che lo fece
decapitare. La perdita di Bergamo destò il viceré e Prospero
Colonna; i quali, con le genti spagnuole e del duca di Milano,
andativi a campo con cinquemila fanti, piantorno l'artiglierie alla
porta di Santa Caterina: con le quali avendo fatto progresso grande,
Renzo che vi era dentro, vedendo non si potere difendere, lasciata
la terra a discrezione, accordò di potersene uscire con tutti i
soldati con le loro robe, ma senza suono di trombe e con le bandiere
basse. Compose il viceré Bergamo in ottantamila ducati.
Ma opera molto celebrata e piena di grande industria e celerità,
mentre che queste cose a Crema e a Bergamo succedevano, fece
l'Alviano nella terra di Rovigo. Nella quale essendo alloggiati piú
di dugento uomini d'arme spagnuoli, e riputando di esservi
sicurissimi perché tra le genti viniziane e loro era in mezzo il
fiume dello Adice, l'Alviano gittato il ponte all'improviso appresso
alla terra della Anguillara, e passato con gente tutta espedita il
fiume con prestezza incredibile e arrivato alla terra, la porta
della quale era già stata occupata da cento fanti vestiti da
villani, mandati innanzi da lui sotto l'occasione che quel dí
medesimo vi si faceva il mercato, entrato dentro gli fece tutti
prigioni: per il quale caso gli altri spagnuoli che erano alloggiati
nel Pulesine, rifuggitisi alla Badia come luogo piú forte del paese,
abbandonato poi tutto il Pulesine ed eziandio Lignago, si salvorono
verso Ferrara. Preso Rovigo, andò l'Alviano con l'esercito a Oppiano
presso a Lignago, avendovi anche condotto per il fiume l'armata
delle barche, e di quivi a villa Cerea presso a Verona; luogo dal
quale, se non gli succedesse il pigliare Verona, nella quale erano
dumila fanti spagnuoli e mille tedeschi, disegnava di travagliarla
tutta la vernata: ma avendo notizia che verso Lignago andavano
trecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e seimila fanti
degli inimici, temendo non gli impedissino le vettovaglie o lo
strignessino a combattere, si levò e gli andò costeggiando, che
andavano verso l'Adice; e lo passorno ad Albereto, con difficoltà
grande di vettovaglie, per la molestia ricevevano da' cavalli
leggieri e dalla armata delle barche. Nel quale luogo avendo inteso
che l'esercito spagnuolo, ricuperato Bergamo, ritornava verso
Verona, deliberato non l'aspettare, mandò le genti d'arme per terra
a Padova; egli con la fanteria carriaggi e artiglierie, per fuggire
le pioggie e i fanghi grandi, se ne andò di notte per il fiume dello
Adice alla seconda, non senza timore di essere assaltato dagli
inimici, i quali furno impediti dall'acque troppo alte: ma egli
smontato in terra si condusse, con la consueta celerità, salvo a
Padova, ove due dí innanzi erano entrati gli uomini d'arme; dipoi
distribuí l'esercito tra Padova e Trevigi. E il viceré e Prospero
Colonna, poste le genti alle stanze nel Polesine di Rovigo, andorno
a Spruch, per consultare con Cesare delle cose occorrenti.
Stette questo anno medesimo piú quieto che 'l solito il paese del
Friuli, essendo per la cattura del Frangiapane mancato quello
instrumento il quale piú che tutti gli altri lo inquietava: e però i
viniziani, conoscendo quello che importasse il ritenerlo, avevano
recusato di permutarlo con Giampaolo Baglione; il quale, trattandosi
prima di permutarlo con Carvagial, aveva avuto licenza dagli
spagnuoli di andare a Roma, ma data la fede di ritornare prigione
non si concordando la permutazione; la quale mentre che si tratta,
succeduta la morte di Carvagial, Giampaolo, affermando per questo
accidente rimanere libero, recusò di tornare piú in potestà di chi
l'aveva fatto prigione.
E ne' medesimi dí, che fu circa la fine dell'anno, gli Adorni e i
Fieschi, favoriti occultamente, secondo si credeva, dal duca di
Milano, entrati di notte per trattato in Genova e venuti alla piazza
del palazzo, furono scacciati da Ottaviano Fregoso; il quale co'
fanti della sua guardia fattosi loro incontro fuora delle sbarre,
combattendo sopra tutti gli altri valorosamente, gli messe in fuga,
ricevuta una piccola ferita nella mano. Restorono prigioni Sinibaldo
dal Fiesco Ieronimo Adorno e Gian Cammillo da Napoli.
Pare, oltre alle cose sopradette, degno di memoria che in questo
anno medesimo Roma vidde gli elefanti, animale forse non mai piú
veduto in Italia dopo i trionfi e i giuochi publici de' romani:
perché mandando Emanuel re di Portogallo una onoratissima
imbascieria a prestare la ubbidienza al pontefice, mandò insieme a
presentargli molti doni, e tra questi due elefanti, portati a lui
della India dalle sue navi; la entrata de' quali in Roma fu
celebrata con grandissimo concorso.
Lib.12, cap.9
Sollecitazioni del re di Francia al pontefice per averne l'adesione
e l'appoggio; risposta del pontefice al re. Morte del re di Francia:
considerazioni dell'autore.
Ma in questi tempi medesimi, il re di Francia, intento con l'animo
ad altro che a pompe e spettacoli, sollecitava tutte le altre
provisioni della guerra: e desideroso di certificarsi dell'animo del
pontefice, ma determinato, qualunque e' fusse, di proseguire la
impresa destinata, lo ricercò che volesse dichiararsi in suo favore,
riconfermando l'offerte prima fatte e affermando che, escluso dalla
sua congiunzione, accetterebbe da Cesare e dal re cattolico le
condizioni già recusate. Riducevagli in considerazione la potenza
del regno suo, la confederazione e gli aiuti promessigli da'
viniziani; essere allora piccole in Italia le forze di Cesare e del
re d'Aragona, e l'uno e l'altro di questi re bisognosissimo di
danari, e impotenti a pagare i soldati propri non che a fare muovere
i svizzeri; i quali, non pagati, non scenderebbono de' monti loro:
non desiderare altro tutti i popoli di Milano, poi che avevano
provato il giogo acerbo degli altri, che di ritornare sotto lo
imperio de' franzesi: né avere cagione il pontefice di provocarlo a
usare contro a lui inimichevolmente la vittoria, perché la grandezza
de' re di Francia in Italia e la sua propria essere stata in ogni
tempo utile alla sedia apostolica, perché contenti sempre delle cose
che di ragione se gli appartenevano, non avere mai, come avevano
tante esperienze dimostrato, pensato a occupare il resto di Italia:
diversa essere la intenzione di Cesare e del re cattolico, che mai
avevano pensato se non, o con armi o con parentadi o con insidie, di
occupare lo imperio di tutta Italia, e mettere in servitú, non meno
che gli altri, la sedia apostolica e i pontefici romani, come sapeva
tutto il mondo essere antichissimo desiderio di Cesare: però
provedesse in uno tempo medesimo alla sicurtà della Chiesa alla
libertà comune d'Italia e alla grandezza della famiglia sua de'
Medici; occasione che mai arebbe né in altro tempo né con altra
congiunzione che con la sua. Né mancavano al pontefice, in
contrario, efficacissime persuasioni di Cesare e del re d'Aragona,
perché si unisse con loro alla difesa d'ltalia; dimostrandogli che
se, congiunti insieme, avevano potuto cacciare il re di Francia del
ducato di Milano, erano molto piú bastanti a difenderlo da lui;
ricordassesi dell'offesa fattagli l'anno passato, d'avere, quando
l'esercito suo passò in Italia, mandato danari a' svizzeri, e
considerasse che, se il re ottenesse la vittoria, vorrebbe in uno
tempo e vendicarsi contro a tutti delle ingiurie ricevute e
assicurarsi da' pericoli e da' sospetti futuri. Ma piú movevano il
pontefice l'autorità e le offerte de' svizzeri; i quali,
perseverando nel pristino ardore, offerivano, ricevendo seimila
raines il mese, di occupare e difendere con seimila fanti i passi
del Monsanese di Monginevra e del Finale e, essendo pagati loro
quarantamila raines il mese, di assaltare con ventimila fanti la
Borgogna. In queste conflittazioni ambiguo il pontefice in se
medesimo, perché donde lo spronava la voglia lo ritraeva il timore,
dando a ciascuno risposte e parole generali, differiva di dichiarare
quanto poteva la mente sua. Ma instando, già quasi importunamente,
il re di Francia, gli rispose finalmente: niuno sapere piú di lui
quanto fusse inclinato alle cose sue, perché sapeva quanto
caldamente l'avesse confortato a passare in Italia in tempo che si
poteva senza pericolo e senza uccisione ottenere la vittoria; le
quali persuasioni, per non si essere osservato il segreto tante
volte ricordato da lui, erano pervenute a notizia degli altri con
detrimento di tutti a due, perché e lui era stato in pericolo di non
essere offeso da essi e alla impresa del re erano cresciute le
difficoltà, perché gli altri avevano riordinate le cose loro di
maniera che non si poteva piú vincere senza gravissimo pericolo e
senza effusione di molto sangue, e che essendo nuovamente cresciuta
con tanto successo la potenza del principe de' turchi, non era né
conforme alla sua natura né conveniente allo officio di uno
pontefice favorire o consigliare i príncipi cristiani a fare guerra
tra loro medesimi; né potere altro che confortarlo a soprasedere,
aspettando qualche facilità e occasione migliore, la quale quando
apparisse riconoscerebbe in lui la medesima disposizione alla gloria
e grandezza sua che aveva potuto riconoscere a' mesi passati. La
quale risposta, benché non esprimesse altrimenti il concetto suo,
non solo arebbe privato il re di Francia della speranza d'averlo
favorevole ma, se gli fusse pervenuta a notizia, l'arebbe, quasi
certificato che il pontefice sarebbe congiunto, e co' consigli e con
l'armi, contro a lui. E queste cose si feciono l'anno mille
cinquecento quattordici.
Ma interpose dilazione alla guerra già imminente la morte, solita a
troncare spesso nelle maggiori speranze i consigli vani degli
uomini: perché il re di Francia, mentre che dando cupidamente opera
alla bellezza eccellente e alla età della nuova moglie, giovane di
diciotto anni, non si ricorda della età sua e della debilità della
complessione, oppresso da febbre e sopravenendogli accidenti di
flusso, partí quasi repentinamente della vita presente; avendo fatto
memorabile il primo dí dell'anno mille cinquecento quindici con la
sua morte. Re giusto e molto amato da' popoli suoi, ma che mai, né
innanzi al regno né re, ebbe costante e stabile né l'avversa né la
prospera fortuna. Conciossiaché, di piccolo duca d'Orliens pervenuto
felicissimamente al reame di Francia per la morte di Carlo piú
giovane di lui e di due suoi figliuoli, acquistò con grandissima
facilità il ducato di Milano e poi il regno di Napoli, reggendosi
per piú anni quasi a suo arbitrio tutta Italia; ricuperò con somma
prosperità Genova ribellata, vinse gloriosissimamente i viniziani,
intervenendo a queste due vittorie personalmente. Da altra parte,
giovane ancora, fu costretto da Luigi undecimo di pigliare per
moglie la figliuola, sterile e quasi mostruosa, non acquistata per
questo matrimonio né la benivolenza né il patrocinio del suocero; e
dopo la morte sua non ammesso, per la grandezza di madama di
Borbone, al governo del nuovo re pupillo, e quasi necessitato a
rifuggirsi in Brettagna: preso poi nella giornata di Santo Albino,
stette incarcerato due anni. Aggiugni a queste cose l'assedio e la
fame di Novara, tante rotte avute nel regno di Napoli, la perdita,
dello stato di Milano, di Genova e di tutte le terre tolte a'
viniziani, e la guerra fattagli da inimici potentissimi nel reame di
Francia; nel qual tempo vidde lo imperio suo ridotto in gravissimi
pericoli. Nondimeno morí in tempo che pareva gli ritornasse la
prosperità della fortuna, avendo difeso il regno suo, fatta la pace
e parentado e in grandissima unione col re d'Inghilterra, e in
grande speranza di recuperare lo stato di Milano.
Lib.12, cap.10
Il nuovo re di Francia: sue doti e sue aspirazioni. Accordi con il
re d'Inghilterra e con l'arciduca. Accordi coi veneziani.
Confederazione fra Massimiliano Cesare, il re d'Aragona, il duca di
Milano e gli svizzeri contro il re di Francia ove tenti la conquista
del ducato.
A Luigi duodecimo succedette Francesco monsignore di Anguelem, piú
prossimo a lui de' maschi del sangue reale e della linea medesima
de' duchi di Orliens, preferito nella successione del regno alle
figliuole del morto re per la disposizione della legge salica, legge
antichissima del reame di Francia; per la quale, mentre che della
medesima linea vi sono maschi, si escludono dalla degnità reale le
femmine. Delle virtú, della magnanimità, dello ingegno e spirito
generoso di costui s'aveva universalmente tanta speranza che
ciascuno confessava non essere, già per moltissimi anni, pervenuto
alcuno con maggiore espettazione alla corona; perché gli conciliava
somma grazia il fiore della età, che era di ventidue anni, la
bellezza egregia del corpo, liberalità grandissima, umanità somma
con tutti e notizia piena di molte cose; e sopratutto grato alla
nobiltà, alla quale dimostrava sommo favore. Assunse, insieme col
titolo di re di Francia, il titolo di duca di Milano, come
appartenente a sé non solo per le antiche ragioni de' duchi di
Orliens ma ancora come compreso nella investitura fatta da Cesare
per la lega di Cambrai: avendo a recuperarlo la medesima
inclinazione che aveva avuto l'antecessore. Alla qual cosa stimolava
non solamente lui ma eziandio tutti i giovani della nobiltà franzese
la gloria di Gastone di Fois, e la memoria di tante vittorie
ottenute da' prossimi re in Italia; benché, per non invitare innanzi
al tempo gli altri a prepararsi per resistergli, la dissimulasse per
consiglio de' suoi, attendendo in questo mezzo a trattare, come si
fa ne' regni nuovi, amicizia con gli altri príncipi: di molti de'
quali concorsono a lui subito imbasciadori, ricevuti tutti con lieta
fronte, ma piú che tutti gli altri quegli del re d'Inghilterra; il
quale, essendo ancora fresca la ingiuria ricevuta dal re cattolico,
desiderava continuare seco l'amicizia cominciata col re Luigi. Venne
e nel tempo medesimo onorata imbasceria dello arciduca, della quale
fu il principale monsignore di Nassau, e con dimostrazione di grande
sommissione come a signore suo soprano, per essere possessore della
contea di Fiandra, la quale riconosceva la superiorità della corona
di Francia.
L'una e l'altra legazione ebbe presta e felice espedizione; perché
col re d'Inghilterra fu riconfermata la confederazione fatta tra lui
e il re morto, co' medesimi capitoli e durante la vita di ciascuno
di loro, riservato tempo di tre anni al re di Scozia di entrarvi; e
con l'arciduca cessorono molte difficoltà che si giudicava per molti
dovessino impedire la concordia. Perché l'arciduca, il quale, finita
l'età pupillare, aveva assunto nuovamente il governo degli stati
suoi, movevano a questo molte cagioni: la instanza de' popoli di
Fiandra desiderosi di non avere guerra col reame di Francia, il
desiderio di assicurarsi degli impedimenti che nella morte
dell'avolo gli potessino essere dati da' franzesi alla successione
del regno di Spagna, e il parergli pericoloso rimanere senza legame
di amicizia in mezzo del re dí Francia e del re d'Inghilterra
congiunti insieme; e da altra parte nel re era desiderio grande di
rimuovere tutte l'occasioni che lo potessino costrignere a reggersi
con l'autorità e consiglio dell'avolo paterno o materno. Fu adunque,
nella città di Parigi, fatta tra loro pace e confederazione
perpetua, riservando facoltà a Cesare e al re cattolico, senza
l'autorità de' quali conveniva l'arciduca, di entrarvi fra tre mesi;
promesso di fare lo sposalizio, trattato tante volte, tra l'arciduca
e Renea figliuola del re Luigi, con dote di seicentomila scudi e del
ducato di Berrí perpetuo per lei e per i figliuoli, la quale essendo
allora di età tenerissima gli avesse a essere consegnata subito
pervenisse alla età di nove anni, ma con patto rinunziasse a tutte
le ragioni della eredità paterna e materna, e nominatamente a quelle
gli appartenessino in su il ducato di Milano e di Brettagna;
obligato a dargli il re aiuto di genti e di navi per andare al regno
di Spagna, dopo la morte del re cattolico. Fu nominato a richiesta
del re il duca di Ghelleri; e affermano alcuni che, oltre alle cose
predette, fu convenuto che in nome dell'uno e dell'altro di loro
andassino, fra tre mesi, imbasciadori al re d'Aragona a ricercarlo
che facesse giurare a' popoli l'arciduca per principe di quegli
reami (è questo il titolo di quello al quale aspetta la successione)
restituisse il regno di Navarra e astenessesi da difendere il ducato
di Milano. Né si dubita che ciascuno di questi due príncipi pensò
piú, nel confederarsi, alla comodità che si dimostrava di presente
che alla osservanza del tempo futuro: perché, quale fondamento si
poteva fare nello sposalizio che si prometteva, non essendo ancora
la sposa pervenuta alla età di [quattro] anni? e come poteva piacere
al re di Francia che Renea divenisse moglie dello arciduca, alla
quale, essendo la sorella maggiore moglie del re, era parata
l'azione sopra il ducato di Brettagna? perché i brettoni, desiderosi
d'avere qualche volta uno duca particolare, quando Anna duchessa
loro passò al secondo matrimonio, convennono che al secondogenito
de' figliuoli e discendenti di lei, pervenendo il primogenito alla
corona di Francia, pervenisse quel ducato.
Trattava medesimamente il re di Francia col prefato re di prorogare
la tregua fatta col re morto, ma rimossa la condizione di non
molestare durante la tregua il ducato di Milano; sperando dovergli
poi essere facile il convenire con Cesare; per la quale cagione
teneva sospesi i viniziani che offerivano di rinnovare la lega fatta
con l'antecessore, volendo essere libero a obligarsi a Cesare contro
a loro. Ma il re cattolico, con tutto che in lui potesse come sempre
il desiderio di non avere guerra propinqua a' confini di Spagna,
pure considerando quanto sospetto darebbe la prorogazione della
tregua a svizzeri, e che questo, non essendo piú né credute le sue
parole né uditi i consigli suoi, sarebbe cagione che il pontefice,
ambiguo insino a quel dí, si rivolgerebbe alla amicizia franzese,
ricusò finalmente di prolungare la tregua se non con le medesime
condizioni con le quali l'aveva rinnovata col re passato. Onde il re
Francesco, escluso da questa speranza, e meno sperando che Cesare
contro alla volontà e consigli di quel re avesse a convenire seco,
riconfermò col senato viniziano la lega nella forma medesima che era
stata fatta coll'antecessore. Rimanevano il pontefice e i svizzeri.
A questi dimandò che ammettessino i suoi imbasciadori; ma essi,
perseverando nella medesima durezza, ricusorno concedere il
salvocondotto: col pontefice, dalla volontà del quale dipendevano
interamente i fiorentini, non procedette per allora piú oltre che a
confortarlo a conservarsi libero da qualunque obligazione,
acciocché, quando i progressi delle cose lo consigliassino a
risolversi, fusse in sua potestà l'eleggere la parte migliore:
ricordandogli che mai da niuno piú che da sé arebbe, per sé e per la
casa sua, né piú sincera benivolenza né piú intera fede né maggiori
condizioni.
Gittati il re questi fondamenti alle cose sue, cominciò a fare
studiosamente provedimenti grandissimi di danari, e ad accrescere
insino al numero di quattromila l'ordinanza delle sue lancie;
divulgando fare queste cose non perché avesse pensieri di molestare,
per questo anno, altri ma per opporsi a' svizzeri, i quali
minacciavano, in caso che egli non adempiesse le convenzioni fatte,
in nome del re morto, a Digiuno, di assaltare o la Borgogna o il
Dalfinato: la quale simulazione aveva appresso a molti fede di
verità, per l'esempio de' prossimi re i quali aveano sempre fuggito
lo implicarsi in nuove guerre nel primo anno del regno loro.
Nondimeno, non si imprimeva il medesimo negli animi di Cesare e del
re d'Aragona; a' quali era sospetta la gioventú del re, la facilità
che aveva, sopra il consueto degli altri re, di valersi di tutte le
forze del regno di Francia, nel quale aveva tanta grazia con tanta
estimazione: ed erano note le preparazioni grandi che aveva lasciate
il re Luigi, per le quali, poi che era assicurato del re di
Inghilterra, non pareva che di nuovo deliberasse la guerra ma piú
tosto che continuasse la deliberazione già fatta; perciò, per non
essere oppressi allo improviso, facevano instanza di confederarsi
col pontefice e co' svizzeri. Ma il pontefice, usando con ciascuna
delle parti benigne parole e ingegnandosi di nutrire tutti con varie
speranze, differiva per ancora il fare alcuna certa dichiarazione.
Ne' svizzeri non solo continuava ma accresceva continuamente
l'ardore di prima; essendosi le cagioni cominciate da' dolori
publici, per lo augumento delle pensioni negato, per l'avere il re
Luigi chiamato agli stipendi suoi i fanti tedeschi, per le parole
ingiuriose e piene di dispregio usate contro alla nazione,
augumentate da' dolori dispiaceri e cupidità private, per l'invidia
che aveva la moltitudine a molti privati, i quali ricevevano doni e
pensioni dal re di Francia, e perché quegli che piú ardentemente si
erano opposti a' principali di coloro che seguitavano l'amicizia
franzese, chiamati allora volgarmente i gallizzanti, saliti per
questo col favore della plebe in riputazione e grandezza, temevano
si diminuisse la loro autorità se di nuovo la republica si
ricongiugnesse co' franzesi: di maniera che, non si consultando e
disputando col zelo publico ma con l'ambizione e dissensioni civili,
questi, prevalendo di credito a' gallizzanti, ottenevano che si
recusassino l'offerte grandissime, anzi smisurate, del re di
Francia. In questa disposizione adunque degli animi e delle cose,
gli imbasciadori di Cesare del re d'Aragona e del duca di Milano,
congregati appresso a' svizzeri, contrassono con loro, in nome de'
suoi príncipi, confederazione per la difesa d'ltalia, riservato al
pontefice luogo di entrarvi insino alla domenica che si dice letare,
della prossima quadragesima: nella quale fu convenuto che, per
costrignere il re di Francia a cedere le ragioni del ducato di
Milano, i svizzeri, ricevendo ciascuno mese dagli altri confederati
trentamila ducati, assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato; e che
il re cattolico movesse con potente esercito la guerra dalla parte o
di Perpignano o di Fonterabia nel reame di Francia, acciò che il re,
costretto a difendere il reame proprio, non potesse, se pure avesse
nell'animo altrimenti, molestare il ducato di Milano.
Lib.12, cap.11
Preparativi del re di Francia per la spedizione in Italia. Tentativi
e speranze d'avere favorevole il pontefice, e condotta ambigua di
questo. Accordi fra il re ed il doge di Genova. Inizio della
spedizione in Italia.
Stette occulta insino al mese di giugno la deliberazione del re; ma
finalmente, per la grandezza e sollecitudine degli apparecchi, non
era piú possibile tanto movimento dissimulare. Perché erano
immoderati i provedimenti de' danari, soldava numero grandissimo di
fanti tedeschi, faceva condurre molte artiglierie verso Lione, e
ultimamente aveva mandato in Ghienna, per soldare ne' confini di
Navarra diecimila fanti, Pietro Navarra, condotto nuovamente agli
stipendi suoi: perché non avendo il re d'Aragona, sdegnato contro a
lui perché in gran parte se gli attribuiva l'infelice successo del
fatto d'arme, voluto mai pagare per la sua liberazione la taglia
postagli di ventimila ducati, la quale il re morto avea donato al
marchese del Rotellino per ricompensarlo in qualche parte della
taglia de' centomila ducati pagati in Inghilterra, il nuovo re,
deliberando usare l'opera sua, aveva, quando pervenne alla corona,
pagato la taglia per lui, e dipoi condottolo agli stipendi suoi;
avendo prima il Navarra, per scarico dell'onore suo, mandato al re
d'Aragona a scusarsi se abbandonato da lui cedeva alla necessità, e
a rinunziare uno stato il quale possedeva per sua donazione nel
regno di Napoli.
Essendo adunque manifesto a ciascuno che la guerra si preparava
contro a Milano e che il re deliberava d'andarvi personalmente,
cominciò il re a ricercare apertamente il pontefice che si unisse
seco; usando a questo, oltre a molte persuasioni e instrumenti, il
mezzo di Giuliano suo fratello, il quale nuovamente aveva presa per
moglie [Filiberta] sorella di Carlo duca di Savoia e zia materna del
re, dotandola co' danari del pontefice in centomila ducati: la qual
cosa gli avea data speranza che il pontefice fusse inclinato alla
amicizia sua, avendo contratto seco sí stretto parentado; e tanto
piú che, avendo prima trattato col re cattolico di congiugnere
Giuliano con una parente sua della famiglia di Cardona, pareva che
piú per rispetto suo che per altra cagione avesse preposto questo
matrimonio a quello. Né dubitava, Giuliano dovere cupidamente
favorire questa inclinazione per desiderio di acquistare col mezzo
suo qualche stato, col quale potesse sostentare le spese convenienti
a tanto matrimonio e per stabilire meglio il governo perpetuo,
datogli dal pontefice nuovamente, delle città di Modona, Reggio,
Parma e Piacenza; il quale, non sostenuto da favore di príncipi
potenti, era di poca speranza che avesse a durare dopo la morte del
fratello. Ma era cominciata presto a turbarsi la speranza del re:
perché il pontefice aveva conceduto al re d'Aragona le crociate del
regno di Spagna per due anni, delle quali si credeva che avesse a
trarre piú di uno milione di ducati; e perché udiva con tanta
inclinazione Alberto da Carpi e Ieronimo Vich oratori di Cesare e
del re cattolico, che erano molto assidui appresso a lui, che
parevano partecipi di tutti i consigli suoi. Nutriva questa
ambiguità il pontefice, dando parole grate e dimostrando ottima
intenzione a quegli che intercedevano per il re, ma senza effetto di
alcuna conclusione, come quello nel quale prevaleva a tutti gli
altri rispetti il desiderio che il ducato di Milano non fusse piú
posseduto da príncipi forestieri. Però il re, desiderando di
certificarsi della sua mente, mandò a lui nuovi imbasciadori; tra'
quali fu Guglielmo Budeo parigino, uomo nelle lettere umane, cosí
greche come latine, di somma e forse unica erudizione tra tutti gli
uomini de' tempi nostri. Dopo i quali mandò Antonio Maria
Palavicino, uomo grato al pontefice. Ma erano vane queste fatiche,
perché già innanzi alla venuta sua aveva occultissimamente, insino
del mese di luglio, convenuto cogli altri alla difesa dello stato di
Milano: ma volendo che questa deliberazione stesse secretissima
insino a tanto che la necessità delle cose lo costrignesse a
dichiararsi, e desiderando oltre a questo publicarla con qualche
scusa, ora dimandava che il re consentisse che la Chiesa si
ritenesse Parma e Piacenza, ora faceva altre petizioni acciò che,
essendogli negata qualcuna delle cose dimandate, paresse che la
necessità piú che la volontà lo inducesse a unirsi con gli inimici
del re, ora, diffidandosi che il re gli negasse cosa alcuna di
quelle che non al tutto senza colore d'onestà poteva proporre,
faceva risposte varie, ambigue e irresolute.
Ma erano usate seco da altri delle medesime arti e astuzie. Perché
Ottaviano Fregoso doge di Genova, temendo degli apparati
potentissimi del re di Francia e avendo da altra parte sospetta la
vittoria de' confederati per l'inclinazione del duca di Milano e de'
svizzeri agli avversari suoi, si era per mezzo del duca di Borbone
convenuto secretissimamente col re di Francia, avendo, e mentre
trattava e poi che convenne, affermato sempre costantissimamente il
contrario al pontefice; il quale, per essere Ottaviano
congiuntissimo di antica benivolenza a lui e a Giuliano suo
fratello, e stato favorito da loro nel farsi doge di Genova, gliene
prestò tale fede che, avendo il duca di Milano insospettito da
questa fama disposto di assaltarlo con quattromila svizzeri, che già
erano condotti a Novara, e con gli Adorni e Fieschi, il pontefice fu
operatore che non si procedesse piú oltre. Convenne il Fregoso in
questa forma: che al re si restituisse il dominio di Genova insieme
col Castelletto; Ottaviano, deposto il nome del doge, fusse
governatore perpetuo del re, con potestà di concedere gli offici di
Genova; avesse dal re la condotta di cento lancie, l'ordine di San
Michele, provisione annua durante la sua vita; non rifacesse il re
la fortezza di Codifà molto odiosa a' genovesi, e concedesse a
quella città tutti i capitoli e privilegi che erano stati annullati
e abbruciati dal re Luigi; desse certa quantità di entrate
ecclesiastiche a Federico arcivescovo di Salerno fratello di
Ottaviano, e a lui, se mai accadesse fusse cacciato di Genova,
alcune castella nella Provenza. Le quali cose quando poi furno
publicate non fu difficile a Ottaviano, perché ciascuno sapeva che
meritamente temeva del duca di Milano e de' svizzeri, giustificare
la sua deliberazione. Solamente gli dava qualche nota lo avere
negato la verità tante volte al pontefice da cui avea ricevuti tanti
benefici, né osservata la promessa fatta di non convenire senza suo
consentimento; e nondimeno, in una lunga lettera che dipoi gli
scrisse in sua giustificazione, riandate accuratamente tutte le
cagioni che lo avevano mosso e tutte le scuse con le quali appresso
a lui poteva difendere l'onore e il procedere suo, e il non avere
disprezzato la divozione che, come a pontefice e come a suo
benefattore, gli aveva, conchiuse che gli sarebbe piú difficile la
giustificazione se scrivesse a uomini privati o a principe che
misurasse le cose degli stati secondo i rispetti privati, ma che
scrivendo a uno principe savio quanto in quella età fusse alcuno
altro, e che per la sapienza sua conosceva che e' non poteva salvare
lo stato suo in altro modo, era superfluo lo scusarsi con chi
conosceva e sapeva quel che fusse lecito, o almanco consueto, a
príncipi di fare, non solo quando erano ridotti in caso tale ma
eziandio per migliorare o accrescere le condizioni dello stato loro.
Ma già le cose dalle parole e da' consigli procedevano a' fatti e
alle esecuzioni: il re venuto a Lione, accompagnato da tutta la
nobiltà di Francia e da' duchi del Loreno e di Ghelleri, moveva
verso i monti l'esercito maggiore e piú fiorito che già grandissimo
tempo fusse passato di Francia in Italia; sicuro di tutte le
perturbazioni di là da' monti, perché il re d'Aragona (il quale,
temendo prima che tanti provedimenti non si volgessino contro a sé,
aveva armato i suoi confini, e acciò che i popoli fussino piú pronti
alla difesa della Navarra l'aveva unita in perpetuo al reame di
Castiglia), subito come intese la guerra procedere manifestamente in
Italia, licenziò tutte le genti che aveva raccolte, non tenendo piú
conto della promessa fatta quell'anno a' confederati di muovere la
guerra nella Francia che avesse tenuto delle promesse fatte a'
medesimi negli anni precedenti.
Lib.12, cap.12
Gli svizzeri alla difesa del ducato di Milano. Preoccupazione dei
francesi di evitare i passi alpini custoditi dagli svizzeri. Passi
alpini da Lione in Italia. Consigli del re d'Inghilterra contrari
all'impresa d'Italia. I francesi, passate le Alpi, entrano nel
marchesato di Saluzzo. Prospero Colonna prigione dei francesi.
Alla fama della mossa del re di Francia, il viceré di Napoli, il
quale, essendo stato per molti mesi quasi in tacita tregua co'
viniziani, era venuto nel vicentino per approssimarsi agli inimici,
alloggiati in fortissimo alloggiamento agli Olmi appresso a Vicenza,
ridusse l'esercito a Verona per andare, secondo diceva, a soccorrere
il ducato di Milano; e il pontefice mandava verso Lombardia le genti
d'armi sue e de' fiorentini sotto il governo del fratello eletto
capitano della Chiesa, per soccorrere medesimamente quello stato,
come non molti dí innanzi aveva convenuto cogli altri confederati:
con tutto che, insistendo nelle solite simulazioni, desse voce
mandarle solamente per la custodia di Piacenza di Parma e di Reggio,
e fusse proceduto tanto oltre cogli oratori del re di Francia che il
re, persuadendosi al certo la sua concordia, aveva da Lione spedito
agli imbasciadori suoi il mandato di conchiudere, consentendo che la
Chiesa ritenesse Piacenza e Parma insino a tanto ricevesse da lui
ricompenso tale che il pontefice medesimo l'approvasse. Ma erano,
per le cagioni che di sotto appariranno, tutti vani questi rimedi:
era destinato che col pericolo e col sangue de' svizzeri, solamente,
o si difendesse o si perdesse il ducato di Milano. Questi, non
ritardati da negligenza alcuna, non dalla piccola quantità de'
danari, scendevano sollecitamente nel ducato di Milano; già ne erano
venuti piú di ventimila, de' quali diecimila si erano accostati a'
monti; perché il consiglio loro era, ponendosi a' passi stretti di
quelle vallate che dalle Alpi che dividono Italia dalla Francia
sboccano ne' luoghi aperti, impedire il passare innanzi a' franzesi.
Turbava molto questo consiglio de' svizzeri l'animo del re; il quale
prima per la grandezza delle sue forze si prometteva certa la
vittoria; perché nell'esercito suo erano dumila cinquecento lancie,
ventiduemila fanti tedeschi guidati dal duca di Ghelleri, diecimila
guaschi (cosí chiamavano i fanti soldati da Pietro Navarra),
ottomila franzesi e tremila guastatori condotti col medesimo
stipendio che gli altri fanti. Considerava il re co' suoi capitani
essere impossibile, inteso il valore de' svizzeri, rimuovergli da'
passi forti e angusti se non con numero molto maggiore; ma questo
non si poteva in luoghi tanto stretti adoperare, difficile fare cosa
di momento in tempo breve, piú difficile dimorare lungamente nel
paese tanto sterile cosí grande esercito, con tutto che
continuamente venisse verso i monti copia grandissima di
vettovaglie. Nelle quali difficoltà, alcuni, sperando piú nella
diversione che nell'urtargli, proponevano che si mandassino per la
via di Provenza ottocento lancie, e per mare Pietro Navarra coi
diecimila guaschi si unissino insieme a Savona; altri dicevano
perdersi, a fare sí lungo circuito, troppo tempo, indebolirsi le
forze e accrescersi troppo di riputazione agli inimici, dimostrando
di non avere ardire di riscontrarsi con loro. Fu adunque deliberato,
non si discostando molto da quel cammino pensare di passare da
qualche parte che o non fusse osservata o almeno manco custodita
dagli inimici, e che Emat di Pria con [quattrocento] lancie e
[cinquemila] fanti andasse per la via di Genova, non per speranza di
divertire, ma per infestare Alessandria e le altre terre di qua dal
Po.
Due sono i cammini dell'Alpi per i quali ordinariamente si viene da
Lione in Italia: quello del Monsanese, montagna della giurisdizione
del duca di Savoia, piú breve e piú diritto, e comunemente piú
frequentato; l'altro che da Lione, torcendo a Granopoli, passa per
la montagna di Monginevra, giurisdizione del Dalfinato. L'uno e
l'altro perviene da Susa, ove comincia ad allargarsi la pianura: ma
per quello di Monginevra, benché alquanto piú lungo, perché è piú
facile a passare e piú comodo a condurre l'artiglierie, solevano
sempre passare gli eserciti franzesi. Alla custodia di questi due
passi e di quegli che riuscivano in luoghi vicini, intenti i
svizzeri, si erano fermati a Susa; perché i passi piú bassi verso il
mare erano tanto stretti e repenti che, essendo molto difficile il
passarvi i cavalli di tanto esercito, pareva impossibile che per
quegli si conducessino l'artiglierie. Da altra parte il Triulzio, a
cui il re avea data questa cura, seguitato da moltitudine
grandissima di guastatori, e avendo appresso a sé uomini industriosi
ed esperimentati nel condurre l'artiglierie, i quali mandava a
vedere i luoghi che gli erano proposti, andava investigando per qual
luogo si potesse, senza trovare l'ostacolo de' svizzeri, piú
facilmente passare; per il che l'esercito, disteso la maggior parte
tra Granopoli e Brianzone, aspettando quel che si deliberasse,
procedeva lentamente; costrignendogli anche al medesimo la necessità
di aspettare i provedimenti delle vettovaglie.
Nel qual tempo venne al re, partito già da Lione, uno uomo mandato
dal re di Inghilterra, il quale in nome suo efficacemente lo
confortò che per non turbare la pace della cristianità non passasse
in Italia. Origine di tanta variazione fu che, essendo stato molesto
a quel re che 'l re di Francia si fusse congiunto con l'arciduca,
parendogli che le cose sue cominciassino a procedere troppo
prosperamente, avea da questo principio cominciato a prestare
l'orecchie agli imbasciadori del re cattolico, che non cessavano di
dimostrargli quanto a lui fusse perniciosa la grandezza del re di
Francia, che per l'odio naturale, e per avere esercitato i príncipi
della sua milizia contro a lui, non gli poteva essere se non
inimicissimo; ma lo moveva piú la emulazione e la invidia alla
gloria sua, la quale gli pareva che si accrescesse molto se e'
riportasse la vittoria dello stato di Milano. Ricordavasi che egli,
ancora che avesse il regno riposato e ricchissimo per la lunga pace,
e trovato tanto tesoro accumulato dal padre, non aveva però se non
dopo qualche anno avuto ardire di assaltare il re di Francia, solo,
e cinto da tanti inimici e affaticato da tanti travagli: ora questo
re, alquanto piú giovane che non era egli quando pervenne alla
corona, ancora che avesse trovato il regno, affaticato ed esausto
per tante guerre, avere ardire, ne' primi mesi del suo regno, andare
a una impresa dove aveva opposizione di tanti príncipi: non avere
egli, con tanti apparati e con tante occasioni, riportato in
Inghilterra altro guadagno che la città di Tornai, con spesa
nondimeno intollerabile e infinita; ma il re di Francia, se
conseguisse, come si poteva credere, la vittoria, acquistando sí
bello ducato, avere a tornare gloriosissimo nel regno suo: apertasi
ancora la strada, e forse innanzi che uscisse d'Italia presa
l'occasione, di assaltare il regno di Napoli. Co' quali stimoli e
punture essendo stato facile risuscitare l'odio antico nel petto
suo, né essendo a tempo di potere dargli con l'armi impedimento
alcuno, e forse anche cercando di acquistare qualche piú
giustificazione, aveva mandato a fargli questa imbasciata. Per la
quale il re non ritardando il suo cammino, venne da Lione nel
Dalfinato: ove ne' medesimi dí comparsono i lanzchenech detti della
banda nera, condotti da Ruberto della Marcia; la quale banda della
Germania piú bassa era, per la sua ferocia e per la fede sempre
dimostrata, negli eserciti franzesi in grandissima estimazione.
A questo tempo significò Giaiacopo da Triulzi al re potersi condurre
di là da' monti l'artiglierie tra l'Alpi Marittime e le Cozie,
scendendo verso il marchese di Saluzzo; ove, benché la difficoltà
fusse quasi inestimabile, nondimeno per la copia grandissima degli
uomini e degli instrumenti, dovere finalmente succedere: e non
essendo da questa parte, né in sulla sommità de' monti né alle
bocche delle vallate, custodia alcuna, meglio essere tentare di
superare l'asprezza de' monti e i precipizi delle valli, la qual
cosa si faceva colla fatica ma non col pericolo degli uomini, che
tentare di fare abbandonare i passi a' svizzeri tanto temuti, e
ostinati o a vincere o a morire; massime non potendo, se si faceva
resistenza, fermarsi molti dí, perché niuna potenza o apparato
bastava a condurre per i luoghi tanto aspri e tanto sterili
vettovaglia sufficiente a tanta gente: il quale consiglio accettato,
l'artiglierie, che si erano fermate in luogo comodo a volgersi a
ogni parte, si mossono subito a quel cammino. Aveva il Triulzo
significato dovere essere grandissima la difficoltà del passarle, ma
con l'esperienza riuscí molto maggiore. Perché prima era necessario
salire in su monti altissimi e asprissimi, ne' quali si saliva con
grandissima difficoltà perché non vi erano sentieri fatti, né
talvolta larghezza capace dell'artiglierie se non quanto di palmo in
palmo facilitavano i guastatori; de' quali precedeva copia
grandissima, attendendo ora ad allargare la strettezza de' passi ora
a spianare le eminenze che impedivano. Dalla sommità de' monti si
scendeva, per precipizi molto prerutti e non che altro
spaventosissimi a guardargli, nelle valli profondissime del fiume
dell'Argentiera; per i quali non potendo sostenerle i cavalli che le
tiravono, de' quali vi era numero abbondantissimo, né le spalle de'
soldati che l'accompagnavano, i quali in tante difficoltà si
mettevano a ogni fatica, era spesso necessario che appiccate a
canapi grossissimi fussino, per le troclee, trapassate con le mani
de' fanti: né passati i primi monti e le prime valli cessava la
fatica, perché a quegli succedevano altri monti e altre vallate, i
quali si passavano con le medesime difficoltà. Finalmente, in spazio
di cinque dí, l'artiglierie si condussono in luoghi aperti del
marchesato di Saluzzo di qua da' monti; passate con tante difficoltà
che è certissimo che, se o avessino avuta resistenza alcuna o se i
monti fussino stati, come la maggiore parte sogliono essere, coperti
dalla neve, sarebbe stata fatica vana; ma dalla opposizione degli
uomini gli liberò che, non avendo mai pensato alcuno potersi
l'artiglierie condurre per monti tanto aspri, i svizzeri fermatisi a
Susa erano intenti a guardare i luoghi per i quali viene chi passa
il Monsanese, il Monginevra o per monti propinqui a quegli; e la
stagione dell'anno, essendo circa il decimo dí di agosto, aveva
rimosso lo impedimento delle nevi già liquefatte.
Passavano ne' dí medesimi, non senza molta difficoltà, le genti
d'arme e le fanterie; alcuni per il medesimo cammino, altri per il
passo che si dice della Dragoniera, altri per i gioghi alti della
Rocca Perotta e di Cuni, passi piú verso la Provenza. Per la quale
via passato la Palissa, ebbe occasione di fare un fatto memorabile.
Perché partito da Singlare con quattro squadre di cavalli, e fatta,
guidandolo i paesani, una lunghissima cavalcata, sopragiunse
improviso a Villafranca, terra distante sette miglia da Saluzzo, e
di nome piú chiaro che non ricerca la qualità della terra perché
appresso a quella nasce il fiume tanto famoso del Po. Alloggiava in
quella con la compagnia sua Prospero Colonna, senza alcuno sospetto
per la lunga distanza degli inimici, ne' quali non temeva quella
celerità che esso, di natura molto lento, non era solito a usare: e
dicono alcuni che il dí medesimo voleva andare a unirsi co'
svizzeri. Ma, come si sia, certo è che stava alla mensa desinando,
quando sopragiunsono le genti del la Palissa, non sentite, insino
furno alla casa medesima, da alcuno; perché gli uomini della terra
co' quali la Palissa, intento a tanta preda, si era prima
occultamente inteso, aveano tacitamente prese le scolte. Cosí, il
quintodecimo dí di agosto, rimase prigione, non come si conveniva
all'antica gloria, Prospero Colonna, tanto chiaro capitano e, per
l'autorità sua e per il credito che aveva nel ducato di Milano, di
momento grande in quella guerra. Fu preso, insieme con Prospero,
Pietro Margano romano e una parte della compagnia sua: gli altri al
primo romore dispersi in varie parti fuggirono.
Lib.12, cap.13
Migliore disposizione del pontefice verso il re di Francia dopo il
passaggio in Italia. Opposizione di Giulio de' Medici ai propositi
di rinuncia del pontefice a città dell'Emilia. Atteggiamento
d'attesa del viceré. Inclinazione degli svizzeri a trattare col re
di Francia.
Variò la passata de' franzesi e il caso di Prospero Colonna i
consigli di ciascuno e lo stato universalmente di tutte le cose,
introducendo negli animi del pontefice del viceré di Napoli e de'
svizzeri nuove disposizioni. Perché il pontefice, il quale si era
costantemente persuaso che il re di Francia non potesse per la
opposizione de' svizzeri passare i monti, e che molto confidava
nella virtú di Prospero Colonna, perduto grandemente di animo,
comandò a Lorenzo suo nipote, capitano generale de' fiorentini (al
quale, perché Giuliano suo fratello, sopravenutagli lunga febbre,
era rimasto in Firenze, avea data la cura di condurre l'esercito in
Lombardia, e che tre dí dopo il caso di Prospero era venuto a
Modena), che procedesse lentamente; il quale, pigliata occasione di
volere recuperare la rocca di Rubiera, occupata da Guido vecchio
Rangone, per la quale cagione gli pagò finalmente dumila ducati,
consumò molti dí nel modonese e nel reggiano; e ricorrendo, oltre a
questo, il pontefice alle sue arti, spedí occultissimamente
Cintio... suo famigliare al re di Francia per escusare le cose
succedute insino a quel dí, e cominciare per mezzo del duca di
Savoia a trattare di convenire seco, acciò che da questo principio
gli fusse piú facile il procedere piú oltre se la difesa del ducato
di Milano succedesse infelicemente.
Ma a consiglio di maggiore precipitazione indussono il pontefice il
cardinale Bibbiena e alcuni altri, mossi piú da private passioni che
dallo interesse del suo principe: perché, dimostrandogli essere
pericolo che, per la fama de' successi prosperi de' franzesi e per
gli stimoli e forse aiuti del re, che il duca di Ferrara si movesse
per ricuperare Modona e Reggio, e i Bentivogli per ritornare in
Bologna, e in tanti altri travagli essere difficile combattere con
tanti inimici, anzi migliore e senza dubbio piú prudente consiglio
preoccupare col beneficio la benivolenza loro, e conciliarsegli, in
qualunque evento delle cose, fedeli amici, gli persuasono che
rimettesse i Bentivogli in Bologna e al duca di Ferrara restituisse
Modena e Reggio; il che sarebbe senza dilazione stato eseguito se
Giulio de' Medici, cardinale e legato di Bologna, il quale il papa,
perché in accidenti tanto gravi sostenesse le cose di quelle parti e
fusse come moderatore e consigliatore della gioventú di Lorenzo,
aveva mandato a Bologna, non fusse stato di contraria sentenza. Il
quale, mosso dal dispiacere della infamia che di consiglio pieno di
tanta viltà risulterebbe al pontefice, maggiore certamente che non
era stata la gloria di Giulio ad acquistare alla Chiesa tanto
dominio; mosso ancora dal dolore di fare infame e vituperosa la
memoria della sua legazione, alla quale non prima arrivato avesse
rimesso Bologna, città principale di tutto lo stato ecclesiastico,
in potestà degli antichi tiranni, lasciando in preda tanta nobiltà
che in favore della sedia apostolica si era dichiarata apertamente
contro a loro, mandato uomini propri al pontefice, lo ridusse con
ragioni e con prieghi al consiglio piú onorato e piú sano. Era
Giulio, benché nato di natali non legittimi, stato promosso da Lione
ne' primi mesi del pontificato al cardinalato, seguitando l'esempio
di Alessandro sesto nell'effetto ma non nel modo: perché Alessandro,
quando creò cardinale Cesare Borgia suo figliuolo, fece provare per
testimoni che deposono la verità, che la madre al tempo della sua
procreazione aveva marito, inferendone che, secondo la presunzione
delle leggi, s'aveva a giudicare che 'l figliuolo fusse piú presto
nato del marito che dell'adultero; ma in Giulio i testimoni
preposono la grazia umana alla verità, perché provorono che la
madre, della quale, fanciulla e non maritata, era stato generato,
innanzi che ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano,
aveva avuto da lui secreto consentimento di essere sua moglie.
Variorno similmente questi nuovi casi la disposizione del viceré: il
quale, non partito ancora da Verona per la difficoltà che aveva a
muovere i soldati senza danari e per aspettare nuove genti promesse
da Cesare, venuto a Spruch, perché era necessario lasciare
sufficientemente custodite Verona e Brescia, cominciò con queste e
con altre scuse a procrastinare, aspettando di vedere quel che di
poi succedesse nel ducato di Milano.
Commossono e i svizzeri medesimamente queste cose; i quali,
ritiratisi subito dopo la passata de' franzesi a Pinaruolo, benché
dipoi, inteso che il re passate l'Alpi univa le genti in Turino,
venuti a Civàs l'avessino, perché ricusava dare loro vettovaglie,
[presa] e saccheggiata e dipoi, quasi in sugli occhi del re che era
a Turino, fatto il medesimo a Vercelli, nondimeno, ridottisi in
ultimo a Noara, prendendo dalle avversità animo quegli che non erano
tanto alieni dalle cose franzesi, cominciorno apertamente a trattare
di convenire col re di Francia. Nel qual tempo quella parte de'
franzesi che veniva per la via di Genova, co' quali si erano uniti
quattromila fanti pagati per opera di Ottaviano Fregoso da'
genovesi, entrati prima nella terra del Castellaccio e poi in
Alessandria e in Tortona, nelle quali città non era soldato alcuno,
occuporno tutto il paese di qua dal Po.
Lib.12, cap.14
Il re di Francia apprende d'aver nemico il pontefice; incertezze fra
gli svizzeri; resa di Novara. I francesi sotto Milano; contegno
della popolazione. Pace, subito turbata, fra il re di Francia e gli
svizzeri. Il viceré muove da Verona a Parma e l'Alviano dal Polesine
di Rovigo a Cremona. Il re di Francia a Marignano: le posizioni dei
diversi eserciti.
Era il re venuto a Vercelli, nel quale luogo intese la prima volta
il pontefice essersi dichiarato contro a lui, perché il duca di
Savoia gliene significò in suo nome: la qual cosa benché gli fusse
sopra modo molestissima, nondimeno, non perturbato il consiglio
dallo sdegno, fece, per non lo irritare, con bandi publici
comandare, e nell'esercito e alle genti che aveano occupata
Alessandria, che niuno ardisse di molestare o di fare insulto alcuno
nel dominio della Chiesa. Soprasedette poi piú dí a Vercelli per
aspettare l'esito delle cose che si trattavano co' svizzeri, i quali
non intermettendo di trattare si dimostravano da altra parte pieni
di varietà e di confusione. In Novara, cominciando a tumultuare,
presa occasione del non essere ancora venuti i danari a' quali era
obligato il re d'Aragona, tolsono violentemente a' commissari del
pontefice i danari mandati da lui, e col medesimo furore partirno di
Novara con intenzione di ritornarsene alla patria; cosa che molti di
loro desideravano, i quali essendo stati in Italia già tre mesi, e
carichi di danari e di preda, volevano condurre salvi alle case loro
sé e le ricchezze guadagnate. Ma a fatica partiti da Noara,
sopravennono i danari della porzione del re d'Aragona; i quali con
tutto che nel principio occupassino, nondimeno, considerando pure
quanto fussino ignominiose cosí precipitose deliberazioni, ritornati
alquanto a se medesimi, restituirono e questi e quegli, per
ricevergli ordinatamente da' commissari: ridussonsi di poi a Galera,
aspettando ventimila altri che di nuovo si dicevano venire; tremila
andorno col cardinale sedunense per fermarsi alla custodia di Pavia.
Perciò il re, diminuita per tante variazioni la speranza della
concordia, partí da Vercelli per andare verso Milano; lasciati a
Vercelli col duca di Savoia il bastardo suo fratello, Lautrech e il
generale di Milano a seguitare i ragionamenti principiati co'
svizzeri; e lasciata assediata la rocca di Novara, perché alla
partita de' svizzeri aveva ottenuta la città: la quale, battuta
dalle artiglierie, fra pochi dí si arrendette, con patto che fusse
salva la vita e le robe di coloro che la guardavano.
Passò dipoi il re, al quale si arrendé Pavia, il Tesino; e il dí
medesimo Gianiacopo da Triulzi si distese con una parte delle genti
a San Cristofano propinquo a Milano e poi insino al borgo della
porta Ticinese, sperando che la città, la quale era certo che,
malcontenta delle rapine e delle taglie de' svizzeri e degli
spagnuoli, desiderava di ritornare sotto il dominio de' franzesi, né
aveva dentro soldati, lo ricevesse. Ma era grande nel popolo
milanese il timore de' svizzeri, e verde la memoria di quello che
avessino patito l'anno passato, quando per la ritirata de' svizzeri
a Novara si sollevorono in favore del re di Francia; però risoluti,
non ostante che desiderassino la vittoria del re, di aspettare
l'esito delle cose, mandorono a pregare il Triulzio che non andasse
piú innanzi, e il dí seguente mandorono imbasciadori al re, che era
a Bufaloro, a supplicarlo che, contento della disposizione del
popolo milanese, divotissimo alla sua corona e che era parato a
dargli vettovaglie, si contentasse non facessino piú manifesta
dichiarazione; la quale non gli profittava cosa alcuna alla somma
della guerra, come non aveva giovato il dichiararsi loro l'anno
dinanzi al suo antecessore, e a quella città era stato cagione di
grandissimi danni. Andasse e vincesse gli inimici, presupponendo che
Milano, acquistata che egli avesse la campagna, fusse
prontissimamente per riceverlo. Alla qual cosa il re, che era prima
molto sdegnato del non avere accettato il Triulzio, raccoltigli
lietamente, rispose essere contento compiacergli delle dimande loro.
Andò da Bufaloro il re con l'esercito a Biagrassa; dove mentre che
stava, il duca di Savoia, avendo uditi venti imbasciadori de'
svizzeri mandati a lui a Vercelli, andato poi, seguitandolo il
bastardo e gli altri deputati dal re, a Galera, contrasse la pace in
nome del re co' svizzeri, con queste condizioni: fusse tra il re di
Francia e la nazione de' svizzeri pace perpetua, durante la vita del
re e dieci anni dopo la morte; restituissino i svizzeri e i grigioni
le valli che avevano occupate appartenenti al ducato di Milano;
liberassino quello stato dalla obligazione di pagare ciascuno anno
la pensione de' quarantamila ducati; desse il re a Massimiliano
Sforza il ducato di Nemors, pensione annua di dodicimila franchi,
condotta di cinquanta lancie e moglie del sangue reale; restituisse
a' svizzeri la pensione antica di quarantamila franchi; pagasse lo
stipendio di tre mesi a tutti i svizzeri che allora erano in
Lombardia o nel cammino per venirvi; pagasse a' cantoni, con
comodità di tempi, quattrocentomila scudi promessi nello accordo di
Digiuno e trecento altri mila per la restituzione delle valli;
tenessene continuamente a' soldi suoi quattromila: nominati con
consentimento comune il pontefice, in caso restituisse Parma e
Piacenza, lo imperadore, il duca di Savoia e il marchese di
Monferrato; non fatta menzione alcuna del re cattolico né de'
viniziani né di alcuno altro italiano. Ma questa concordia fu quasi
in uno dí medesimo conchiusa e perturbata per la venuta de' nuovi
svizzeri; i quali, feroci per le vittorie passate e sperando non
dovere della guerra acquistare minori ricchezze che quelle delle
quali vedevano carichi i compagni, avevano l'animo alienissimo dalla
pace, e per difficultarla recusavano di restituire le valli: in modo
che, non potendo i primi svizzeri rimuovergli da questo ardore, se
ne andorono in numero di trentacinquemila a Moncia per fermarsi ne'
borghi di Milano; essendosi partito da loro per la via di Como, la
quale strada il re studiosamente aveva lasciata aperta, Alberto
Pietra, famoso capitano, con molte insegne. Cosí, non quasi prima
fatta che turbata la pace, ritornorno le cose nelle medesime
difficoltà e ambiguità; anzi molto maggiori, essendosi nuove forze e
nuovi eserciti approssimati al ducato di Milano.
Perché il viceré finalmente, lasciato alla guardia di Verona
Marcantonio Colonna con cento uomini d'arme sessanta cavalli
leggieri e dumila fanti tedeschi, e in Brescia mille dugento
lanzchenech, era venuto ad alloggiare in sul Po appresso a Piacenza;
avendo settecento uomini d'arme secento cavalli leggieri e semila
fanti, e il ponte preparato a passare il fiume. Al quale per non
dare giusta causa di querelarsi, Lorenzo de' Medici, che era
soggiornato industriosamente molti dí a Parma con lo esercito, nel
quale erano settecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri e
quattromila fanti, [venne a Piacenza]; avendo prima, a richiesta de'
svizzeri, mandati, mentre trattavano, per servirsene a raccorre le
vettovaglie, quattrocento cavalli leggieri sotto Muzio Colonna e
Lodovico conte di Pitigliano, condottiere l'uno della Chiesa l'altro
de' fiorentini: i quali non aveva mandati tanto per desiderio di
aiutare la causa comune quanto per non dare occasione a' svizzeri,
se pure componevano col re di Francia, di non includere nella pace
il pontefice. Da altra parte Bartolomeo d'Alviano, il quale avea
data speranza al re di tenere di maniera occupato l'esercito
spagnuolo che non arebbe facoltà di nuocergli, subito che intese la
partita del viceré da Verona, partendosi del Polesine di Rovigo,
passato l'Adice e camminando sempre appresso al Po, con novecento
uomini d'arme mille quattrocento cavalli leggieri e nove [mila]
fanti e col provedimento conveniente d'artiglierie, era venuto con
grandissima celerità alle mura di Cremona: della quale celerità,
insolita a' capitani de' tempi nostri, egli gloriandosi, soleva
agguagliarla alla celerità di Claudio Nerone quando, per opporsi ad
Asdrubale, condusse parte dell'esercito espedito in sul fiume del
Metauro.
Cosí non solo era vario ma confuso e implicato molto lo stato della
guerra. Vicini a Milano, da una parte il re di Francia con esercito
instruttissimo di ogni cosa, il quale era venuto a Marignano per
dare all'Alviano facilità di unirsi seco, alle genti ecclesiastiche
e spagnuole difficoltà di unirsi con gli inimici: dall'altra
trentacinquemila svizzeri, fanteria piena di ferocia e insino a quel
dí, in quanto a franzesi, invitta: il viceré in sul Po presso a
Piacenza e in sulla strada propria che va a Lodi, e col ponte
preparato a passare per andare a unirsi co' svizzeri; e in Piacenza,
per congiugnersi seco al medesimo effetto, Lorenzo de' Medici con le
genti del pontefice e de' fiorentini: l'Alviano, capitano sollecito
e feroce, con l'esercito viniziano, in cremonese, quasi in sulla
riva del Po, per aiutare, o con la unione o divertendo gli
ecclesiastici e spagnuoli, il re di Francia. Rimaneva in mezzo di
Milano e Piacenza con eguale distanza la città di Lodi, abbandonata
da ciascuno ma saccheggiata prima da Renzo da Ceri, entratovi dentro
come soldato de' viniziani; il quale, per discordie nate tra lui e
l'Alviano, avendo prima con protesti e quasi con minaccie ottenuto
licenza dal senato, si era condotto con dugento uomini d'arme e con
dugento cavalli leggieri agli stipendi del pontefice; ma non potendo
cosí presto seguitarlo i soldati suoi, perché i viniziani proibivano
a molti il partirsi di Padova dove erano alloggiati, si era partito
da Lodi per empiere il numero della compagnia con la quale era stato
condotto. Ma il cardinale sedunense, il quale prima spaventato dalle
pratiche che tenevano i suoi col re di Francia e dalla vacillazione
della città di Milano, si era fuggito con mille svizzeri a Piacenza
e con parte delle genti del duca di Milano, e dipoi andato a Cremona
a sollecitare il viceré a farsi innanzi, indirizzatosi al cammino di
Milano innanzi che l'esercito franzese gli impedisse quella strada,
lasciò alcuni de' suoi, benché non molto numero, a guardia di Lodi;
i quali, come intesono la venuta del re di Francia a Marignano,
impauriti l'abbandonorono.
Lib.12, cap.15
Sospetti del viceré riguardo all'esercito pontificio. Vana
deliberazione degli spagnuoli e dei pontifici di passare il Po.
Parole d'incitamento agli svizzeri del cardinale sedunense. Il primo
giorno della battaglia fra svizzeri e francesi. Il secondo giorno ed
il sopraggiungere dell'Alviano: importanza ed esito della battaglia;
sue conseguenze.
Ma mentre che il viceré dimora in sul fiume del Po, e innanzi che
Lorenzo de' Medici giugnesse a Piacenza, fu preso da' suoi Cintio
mandato dal pontefice al re di Francia; appresso al quale essendo
trovati i brevi e le lettere credenziali, con tutto che per
riverenza di chi lo mandava lo lasciasse subito passare, cominciò
non mediocremente a dubitare che la speranza che gli era data, che
l'esercito ecclesiastico unito seco passerebbe il fiume del Po, non
fusse vana; tanto piú che, ne' medesimi dí, si era presentito che
Lorenzo de' Medici avea mandato occultamente uno de' suoi al
medesimo re. La qual cosa non era aliena dalla verità, perché
Lorenzo, o per consiglio proprio o per comandamento del pontefice,
avea mandato a scusarsi se contro a lui conduceva l'esercito,
[stretto] dalla necessità che avea di ubbidire al papa; ma che in
quello che potesse, senza provocarsi la indegnazione del zio e senza
maculare l'onore proprio, farebbe ogni opera per sodisfargli,
secondo che sempre era stato ed era piú che mai il suo desiderio.
Ma come Lorenzo fu arrivato a Piacenza, si cominciò il dí medesimo,
tra il viceré e lui e gli uomini che intervenivano a' consigli loro,
a disputare se fusse da passare unitamente il fiume del Po per
congiugnersi co' svizzeri, adducendosi per ciascuno diverse ragioni.
Allegavano quegli che confortavano al passare, niuna ragione
dissuadere l'entrare in Lodi, dove quando fussino si difficulterebbe
all'Alviano di unirsi con lo esercito franzese e a loro si darebbe
facoltà di unirsi con i svizzeri, o andando verso Milano a trovargli
o essi venendo verso loro: e se pure i franzesi si riducessino, come
era fama volevano fare, o fussino già ridotti in sulla strada tra
Lodi e Milano, lo avere alle spalle questi eserciti congiunti gli
metterebbe in travaglio e pericolo; e anche forse non sarebbe
difficile, benché con circuito maggiore, trovare modo di
congiugnersi con i svizzeri. Essere questa deliberazione molto utile
anzi necessaria alla impresa, e per levare a' svizzeri tutte le
occasioni di nuove pratiche di accordo e per accrescere loro forze,
delle quali contro a sí grosso esercito avevano di bisogno, e
specialmente di cavalli de' quali mancavano; ma ricercarlo, oltre a
questo, la fede e l'onore del pontefice e del re cattolico, che per
la capitolazione erano obligati soccorrere lo stato di Milano, e che
tante volte ne avevano data intenzione a' svizzeri, i quali
trovandosi ingannati diventerebbono di amicissimi inimicissimi.
Ricercare questo medesimo l'interesse degli stati propri, perché
perdendo i svizzeri la giornata o facendo accordo col re di Francia,
non restare in Italia forze da proibirgli che e' non corresse per
tutto lo stato ecclesiastico insino a Roma e poi a Napoli.
Allegavansi in contrario molte ragioni, e quella massime, non essere
credibile che il re non avesse a quella ora mandato genti a Lodi; le
quali quando vi si trovassino, sarebbe necessario ritirarsi con
vergogna e forse non senza pericolo, potendo avere in uno tempo
medesimo i franzesi alle spalle e i viniziani o alla fronte o al
fianco, né si potendo senza tempo e senza qualche confusione
ripassare il ponte. Il quale partito se il pericolo si comprasse con
degno prezzo non essere forse da recusare, ma, quando bene
entrassino in Lodi abbandonato, che frutto farebbe questo alla
impresa? come potersi disegnare, stando tra Milano e Lodi uno
esercito sí potente, o di andare a unirsi co' svizzeri o ch'i
svizzeri andassino a unirsi con loro? Né essere forse sicuro
consiglio rimettere nelle mani di questa gente temeraria e senza
ragione tutte le forze del pontefice e del re cattolico, dalle quali
dependeva la salute di tutti gli stati loro; perché si sapeva pure
che una grande parte aveva fatto la pace col re di Francia, e che
tra questi e gli altri che repugnavano erano molte contenzioni.
Finalmente fu deliberato che il giorno prossimo tutti due gli
eserciti, espediti, senza alcuna bagaglia, passassino il Po,
lasciate bene guardate Parma e Piacenza per timore dello esercito
viniziano; i cavalli leggieri del quale avevano, in quegli dí,
scorso e predato per il paese. La quale [deliberazione], secondo che
allora credettono molti, da niuna delle parti fu fatta sinceramente;
pensando ciascuno, col simulare di volere passare, trasferire la
colpa nell'altro senza mettere se stesso in pericolo: perché il
viceré, insospettito per la andata di Cintio e sapendo quanto
artificiosamente procedeva nelle sue cose il pontefice, si
persuadeva la volontà sua essere che Lorenzo non procedesse piú
oltre; e Lorenzo, considerando quanto malvolentieri il viceré
metteva quello essercito in potestà della fortuna, faceva di altri
quel giudicio medesimo che da altri era fatto di sé. Cominciorno
dopo il mezzogiorno a passare per il ponte le genti spagnuole, dopo
le quali doveano incontinente passare gli ecclesiastici; ma avendo
per il sopravenire della notte differito necessariamente alla
mattina seguente, non solamente non passorno ma il viceré ritornò
con l'esercito di qua dal fiume, per la relazione di quattrocento
cavalli leggieri i quali, mandati parte dell'uno parte
dell'altro esercito per sentire degli andamenti degli inimici,
rapportorno che il dí dinanzi erano entrate in Lodi cento lancie de'
franzesi: donde ritornati il viceré e Lorenzo agli alloggiamenti
primi, l'Alviano andò coll'esercito suo a Lodi.
Il re, in questo tempo medesimo, andò da Marignano ad alloggiare a
San Donato tre miglia appresso a Milano; e i svizzeri si ridussono
tutti a Milano; tra i quali, essendo una parte aborrenti dalla
guerra gli altri alieni dalla concordia, si facevano spessi consigli
e molti tumulti. Finalmente, essendo congregati insieme, il
cardinale sedunense, che ardentissimamente confortava il perseverare
nella guerra, cominciò con caldissime parole a stimolargli che senza
piú differire uscissino fuora il giorno medesimo ad assaltare il re
di Francia, non avendo tanto innanzi agli occhi il numero de'
cavalli e delle artiglierie degli inimici che perturbasse la memoria
della ferocia de' svizzeri e delle vittorie avute contro a'
franzesi.
- Dunque - disse Sedunense - ha la nazione nostra sostenuto tante
fatiche, sottopostasi a tanti pericoli, sparso tanto sangue, per
lasciare in uno dí solo tanta gloria acquistata, tanto nome, agli
inimici stati vinti da noi? Non son questi quegli medesimi franzesi
che accompagnati da noi hanno avute tante vittorie? abbandonati da
noi sono sempre stati vinti da ciascuno? Non sono questi quegli
medesimi franzesi che da piccola gente de' nostri furono l'anno
passato rotti, con tanta gloria, a Novara? Non sono eglino quegli
che spaventati dalla nostra virtú, confusi dalla loro grandissima
viltà, hanno esaltato insino al cielo il nome degli elvezi, chiaro
quando eravamo congiunti con loro, ma fatto molto piú chiaro poi che
ci separammo da loro? Non avevano quegli che furono a Novara né
cavalli né artiglierie, avevano la speranza propinqua del soccorso,
e nondimeno, credendo a Mottino, ornamento e splendore degli elvezi,
assaltatigli valorosamente a' loro alloggiamenti, andati a urtare le
loro artiglierie, gli roppono, ammazzati tanti fanti tedeschi che
nella uccisione loro straccorono l'armi e le braccia: e voi credete
che ora ardischino di aspettare quarantamila svizzeri, esercito sí
valoroso e sí potente che sarebbe bastante a combattere alla
campagna con tutto il resto del mondo unito insieme? Fuggiranno,
credetemi, alla sola fama della venuta nostra; non avendo avuto
ardire di accostarsi a Milano per confidenza della loro virtú ma
solo per la speranza delle vostre divisioni. Non gli sosterrà la
persona o la presenza del re, perché, per timore di non mettere in
pericolo o la vita o lo stato, sarà il primo a cercare di salvare sé
e dare esempio agli altri di fare il medesimo. Se con questo
esercito, cioè con le forze di tutta Elvezia, non ardirete di
assaltargli, con quali forze vi rimarrà egli speranza di potere
resistere loro? A che fine siamo noi scesi in Lombardia, a che fine
venuti a Milano, se volevamo avere paura dello scontro degli
inimici? Dove sarebbeno le magnifiche parole, le feroci minaccie
usate tutto questo anno? quando ci vantavamo di volere di nuovo
scendere in Borgogna, quando ci rallegravamo dello accordo del re di
Inghilterra, della inclinazione del pontefice a collegarsi col re di
Francia, riputando a gloria nostra quanti piú fussino uniti contro
allo stato di Milano? Meglio era non avere avute questi anni sí
onorate vittorie, non avere cacciato i franzesi d'Italia, essersi
contenuti ne' termini della nostra antica fama, se poi tutti
insieme, ingannando l'espettazione di tutti gli uomini, avevamo a
procedere con tanta viltà. Hassi oggi a fare giudicio da tutto il
mondo se della vittoria di Novara fu cagione o la nostra virtú o
[la] fortuna: se mostreremo timore degli inimici sarà da tutti
attribuita o a caso o a temerità, se useremo la medesima audacia,
confesserà ciascuno essere stata virtú; e avendo, come senza dubbio
aremo, il medesimo successo, saremo non solamente terrore della età
presente ma in venerazione ancora de' posteri, dal giudicio e dalle
laudi de' quali sarà il nome de' svizzeri anteposto al nome de'
romani. Perché di loro non si legge che mai usassino una audacia
tale, né che mai conseguissino vittoria alcuna con tanto valore, né
che mai senza necessità eleggessino di combattere contro agli
inimici con tanto disavvantaggio; e di noi si leggerà la battaglia
fatta presso a Novara, dove con poca gente, senza artiglierie senza
cavalli, mettemmo in fuga uno esercito poderoso e ordinato di tutte
le provisioni e guidato da due famosi capitani, l'uno senza dubbio
il primo di tutta Francia l'altro il primo di tutta Italia.
Leggerassi la giornata fatta a San Donato, con le medesime
difficoltà dalla parte nostra, contro alla persona d'uno re di
Francia, contro a tanti fanti tedeschi: i quali quanto piú numero
sono tanto piú sazieranno l'odio nostro, tanto maggiore facoltà ci
daranno di spegnere in perpetuo la loro milizia, tanto piú si
asterranno da volere temerariamente fare concorrenza nell'armi co'
svizzeri. Non è certo, anzi per molte difficoltà pare impossibile,
che il viceré e le genti della Chiesa si unischino con noi: però, a
che proposito aspettargli? Né è necessaria la loro venuta, anzi ci
debbe essere grato questo impedimento, perché la gloria sarà tutta
nostra, saranno tutte nostre tante spoglie tante ricchezze che sono
nello esercito inimico. Non volle Mottino che la gloria si
comunicasse, non che a altri, a' nostri medesimi; e noi saremo sí
vili, sí disprezzatori della nostra ferocia che, quando bene
potessino venire a unirsi, volessimo aspettare di comunicare tanta
laude tanto onore co' forestieri? Non ricerca la fama de' svizzeri,
non ricerca lo stato delle cose che si usi piú dilazione o si facci
piú consigli. Ora è necessario uscire fuora, ora ora è necessario di
andare ad assaltare gli inimici. Hanno a consultare i timidi, che
pensano non a opporsi a' pericoli ma a fuggirgli, ma a gente feroce
e bellicosa come la vostra appartiene presentarsi allo inimico
subito che si è avuto vista di lui. Però, con l'aiuto di Dio che con
giusto odio perseguita la superbia de' franzesi, pigliate con la
consueta animosità le vostre picche, date ne' vostri tamburi;
andianne subito senza interporre una ora di tempo, andiamo a
straccare l'armi nostre, a saziare il nostro odio col sangue di
coloro che per la superbia loro vogliono vessare ognuno ma per la
loro viltà restano sempre in preda di ciascuno.-
Incitati da questo parlare, prese subito furiosamente le loro armi,
e come furono fuora della porta Romana messisi co' loro squadroni in
ordinanza, ancor che non restasse molto del giorno, si avviano verso
l'esercito franzese, con tanta allegrezza e con tanti gridi che chi
non avesse saputo altro arebbe tenuto per certo che avessino
conseguito qualche grandissima vittoria; i capitani stimolavano i
soldati a camminare, i soldati gli ricordavano che a qualunque ora
si accostassino allo alloggiamento degli inimici dessino subito il
segno della battaglia; volere coprire il campo di corpi morti,
volere quel giorno spegnere il nome de' fanti tedeschi, e di quegli
massime che, pronosticandosi la morte, portavano per segno le bande
nere. Con questa ferocia accostatisi agli alloggiamenti de'
franzesi, non restando piú di due ore di quel dí, principiorono il
fatto d'arme, assaltando con impeto incredibile le artiglierie e i
ripari; col quale impeto, appena erano arrivati che avevano urtato e
rotto le prime squadre e guadagnata una parte dell'artiglierie: ma
facendosi loro incontro la cavalleria e una grande parte dello
esercito, e il re medesimo cinto da uno valoroso squadrone di
gentiluomini, essendo alquanto raffrenato tanto furore, si cominciò
una ferocissima battaglia; la quale con vari eventi e con gravissimo
danno delle genti d'arme franzesi, le quali furono piegate si
continuò insino a quattro ore della notte, essendo già restati morti
alcuni de' capitani franzesi, e il re medesimo percosso da molti
colpi di picche. Quivi, non potendo piú né l'una né l'altra parte
tenere per la stracchezza l'armi in mano, spiccatisi senza suono di
trombe senza comandamento de' capitani, si messono i svizzeri ad
alloggiare nel campo medesimo, non offendendo piú l'uno l'altro ma
aspettando, come con tacita tregua, il prossimo sole; ma essendo
stato tanto felice il primo assalto de' svizzeri, a' quali il
cardinale fece, come furno riposati, condurre vettovaglie da Milano,
che per tutta Italia corsono i cavallari a significare i svizzeri
avere messo in fuga l'esercito degli inimici.
Ma non consumò inutilmente il re quel che avanzava della notte;
perché, conoscendo la grandezza del pericolo, attese a fare ritirare
a' luoghi opportuni e a l'ordine debito l'artiglierie, a fare
rimettere in ordinanza le battaglie de' lanzchenech e de' guasconi,
e la cavalleria ai suoi squadroni. Sopravenne il dí: al principio
del quale i svizzeri, disprezzatori non che dello esercito franzese
ma di tutta la milizia d'Italia unita insieme, assaltorono con
l'impeto medesimo e molto temerariamente gli inimici; da' quali
raccolti valorosamente, ma con piú prudenza e maggiore ordine, erano
percossi parte dalle artiglierie parte dal saettume de' guasconi,
assaltati ancora da i cavalli, in modo che erano ammazzati da fronte
e dai lati. E sopravenne, in sul levare del sole, l'Alviano; il
quale, chiamato la notte dal re, messosi subito a cammino co'
cavalli leggieri e con una parte piú espedita dello esercito, e
giunto quando era piú stretto e piú feroce il combattere e le cose
ridotte in maggiore travaglio e pericolo, seguitandolo dietro di
mano in mano il resto dello esercito, assaltò con grande impeto i
svizzeri alle spalle. I quali, benché continuamente combattessino
con grandissima audacia e valore, nondimeno, vedendo sí gagliarda
resistenza e sopragiugnere l'esercito viniziano, disperati potere
ottenere la vittoria, essendo già stato piú ore sopra la terra il
sole, sonorono a raccolta; e postesi in sulle spalle l'artiglierie
che aveano condotte seco voltorno gli squadroni, ritenendo
continuamente la solita ordinanza e camminando con lento passo verso
Milano: e con tanto stupore de' franzesi che, di tutto l'esercito,
niuno né de' fanti né de' cavalli ebbe ardire di seguitargli. Solo
due compagnie delle loro, rifuggitesi in una villa, vi furono dentro
abbruciate da i cavalli leggieri de' viniziani. Il rimanente dello
esercito, intero nella sua ordinanza e spirando la medesima ferocia
nel volto e negli occhi, ritornò in Milano; lasciati per le fosse,
secondo dicono alcuni, quindici pezzi di artiglieria grossa, che
avevano tolto loro nel primo scontro, per non avere comodità di
condurla.
Affermava il consentimento comune di tutti gli uomini non essere
stata per moltissimi anni in Italia battaglia piú feroce e di
spavento maggiore; perché, per l'impeto col quale cominciorono
l'assalto i svizzeri e poi per gli errori della notte, confusi gli
ordini di tutto l'esercito e combattendosi alla mescolata senza
imperio e senza segno, ogni cosa era sottoposta meramente alla
fortuna; il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a
riconoscere la salute piú dalla virtú propria e dal caso che
dall'aiuto de' suoi; da' quali molte volte, per la confusione della
battaglia e per le tenebre della notte, era stato abbandonato. Di
maniera che il Triulzio, capitano che avea vedute tante cose,
affermava questa essere stata battaglia non d'uomini ma di giganti;
e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto erano state, a
comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Né si dubitava che
se non fusse stato l'aiuto delle artiglierie era la vittoria de'
svizzeri, che, entrati nel primo impeto dentro a' ripari de'
franzesi, tolto la piú parte delle artiglierie, avevano sempre
acquistato di terreno; né fu di poco momento la giunta dell'Alviano,
che sopravenendo in tempo che la battaglia era ancor dubbia dette
animo a i franzesi e spavento a i svizzeri, credendo essere con lui
tutto l'esercito viniziano. Il numero de' morti, se mai fu incerto
in battaglia alcuna, come quasi sempre è in tutte, fu in questa
incertissimo; variando assai gli uomini nel parlarne, chi per
passione chi per errore. Affermorono alcuni essere morti de'
svizzeri piú di quattordicimila; altri dicevano di dieci, i piú
moderati di ottomila, né mancò chi volesse ristrignergli a tremila;
capi tutti ignobili e di nomi oscuri. Ma de' franzesi morirno, nella
battaglia della notte, Francesco fratello del duca di Borbone,
Imbricort, Sanserro, il principe di Talamonte figliuolo del la
Tramoglia, Boisí nipote già del cardinale di Roano, il conte di
Sasart, Catelart di Savoia, Busichio e Moia che portava la insegna
de' gentiluomini del re; tutte persone chiare per nobiltà e
grandezza di stati o per avere gradi onorati nello esercito. E del
numero de' morti di loro si parlò, per le medesime cagioni,
variamente; affermando alcuni esserne morti seimila, altri che non
piú di tremila: tra' quali morirno alcuni capitani de' fanti
tedeschi.
Ritirati che furono i svizzeri in Milano, essendo in grandissima
discordia o di convenire col re di Francia o di fermarsi alla difesa
di Milano, quegli capitani i quali prima avevano trattata la
concordia, cercando cagione meno inonesta di partirsi, dimandorono
danari a Massimiliano Sforza, il quale era manifestissimo essere
impotente a darne; e dipoi tutti i fanti, confortandogli a questo
Rostio capitano generale, si partirono il dí seguente per andarsene
per la via di Como al paese loro, data speranza al duca di ritornare
presto a soccorrere il castello, nel quale rimanevano mille
cinquecento svizzeri e cinquecento fanti italiani. Con questa
speranza Massimiliano Sforza, accompagnato da Giovanni da Gonzaga e
da Ieronimo Morone e da alcuni altri gentiluomini milanesi, si
rinchiuse nel castello, avendo consentito, benché non senza
difficoltà, che Francesco duca di Bari suo fratello se ne andasse in
Germania; e il cardinale sedunense andò a Cesare per sollecitare il
soccorso, data la fede di ritornare innanzi passassino molti dí; e
la città di Milano, abbandonata d'ogni presidio, si dette al re di
Francia, convenuta di pagargli grandissima quantità di danari: il
quale recusò di entrarvi mentre si teneva per gli inimici il
castello, come se a re sia indegno entrare in una terra che non sia
tutta in potestà sua. Fece il re, nel luogo nel quale aveva
acquistato la vittoria, celebrare tre dí solenni messe, la prima per
ringraziare Dio della vittoria, l'altra per supplicare per la salute
de' morti nella battaglia, la terza per pregarlo che concedesse la
pace; e nel luogo medesimo fece a perpetua memoria edificare una
cappella. Seguitorno la fortuna della vittoria tutte le terre e le
fortezze del ducato di Milano, eccetto il castello di Cremona e
quello di Milano: alla espugnazione del quale essendo preposto
Pietro Navarra, affermava (non senza ammirazione di tutti, essendo
il castello fortissimo, abbondante di tutte le provisioni necessarie
a difendersi e a tenersi, e dove erano dentro piú di dumila uomini
da guerra) di espugnarlo in minore tempo d'uno mese.
Lib.12, cap.16
Accordi fra il pontefice ed il re di Francia. I francesi contro il
castello di Milano. Accordi fra il re di Francia e Massimiliano
Sforza. Massimiliano Sforza in Francia.
Avuta la nuova della vittoria de' franzesi, il viceré, soprastato
pochi dí nel medesimo alloggiamento piú per necessità che per
volontà, potendo difficilmente per carestia di danari muovere
l'esercito, ricevutane finalmente certa quantità, e in prestanza da
Lorenzo de' Medici seimila ducati, si ritirò a Pontenuro, con
intenzione di andarsene nel reame di Napoli. Perché, se bene il
pontefice, inteso i casi successi, aveva nel principio rappresentato
agli uomini la costanza del suo antecessore, confortando gli oratori
de' confederati a volere mostrare il volto alla fortuna e sforzarsi
di tenere in buona disposizione i svizzeri e, variando loro, che in
luogo suo si conducessino fanti tedeschi, nondimeno, parendogli le
provisioni non potere essere se non tarde a' pericoli suoi e che il
primo percosso aveva a essere egli, perché, quando bene la riverenza
della Chiesa facesse che il re si astenesse da molestare lo stato
ecclesiastico, non credeva bastasse a farlo ritenere da assaltare
Parma e Piacenza, come membri attenenti al ducato di Milano, e da
molestare lo stato di Firenze, nel quale cessava ogni rispetto, ed
era offesa sí stimata dal pontefice quanto se offendesse lo stato
della Chiesa. Né era vano il suo timore, perché già il re aveva
fatto ordinare il ponte in sul Po presso a Pavia per mandare a
pigliare Parma e Piacenza; e prese quelle città, quando il pontefice
stesse renitente all'amicizia sua, mandare per la via di Pontriemoli
a fare pruova di cacciare i Medici dello stato di Firenze. Ma già,
per commissione sua, il duca di Savoia e il vescovo di Tricarico suo
nunzio trattavano col re; il quale, sospettoso ancora di nuove
unioni contro a sé e inclinato alla reverenza della sedia apostolica
per lo spavento che era in tutto il regno di Francia delle
persecuzioni avute da Giulio, era molto desideroso dello accordo.
Però fu prestamente conchiuso tra loro confederazione a difesa degli
stati d'Italia, e particolarmente: che il re pigliasse la protezione
della persona del pontefice e dello stato della Chiesa, di Giuliano
e di Lorenzo de' Medici e dello stato di Firenze; desse stato in
Francia e pensione a Giuliano, pensione a Lorenzo e la condotta di
cinquanta lancie; consentisse che il pontefice desse il passo per lo
stato della Chiesa al viceré di tornare con l'esercito nel regno di
Napoli; fusse tenuto il pontefice levare di Verona e dallo aiuto di
Cesare contro a' viniziani le genti sue; restituire al re di Francia
le città di Parma e di Piacenza, ricevendo in ricompenso dal re che
il ducato di Milano fusse tenuto a levare per uso suo i sali da
Cervia, che si calcolava essere cosa molto utile per la Chiesa, e
già il pontefice nella confederazione fatta col duca di Milano aveva
convenuto seco questo medesimo; che si facesse compromesso nel duca
di Savoia se i fiorentini avevano contrafatto alla confederazione
che avevano fatto col re Luigi, e che avendo contrafatto avesse a
dichiarare la pena, il che il re diceva dimandare piú per onore suo
che per altra cagione. E fatta la conclusione, Tricarico andò subito
in poste a Roma per persuadere al pontefice la ratificazione; e
Lorenzo, acciò che il viceré avesse cagione di partirsi piú presto,
ritirò a Parma e Reggio le genti che erano a Piacenza, ed egli andò
al re per farsegli grato e persuadergli, secondo gli ammunimenti
artificiosi del zio, di volere in ogni evento delle cose dipendere
da lui. Non fu senza difficoltà indurre il pontefice alla
ratificazione, perché gli era molestissimo il perdere Parma e
Piacenza, e arebbe volentieri aspettato di intendere prima quel che
deliberassino i svizzeri: i quali, convocata la dieta a Zurich,
cantone principale di tutti gli elvezi e inimicissimo a' franzesi,
trattavano di soccorrere il castello di Milano, nonostante che
avessino abbandonato le valli e le terre di Bellinzone e di Lugarno
ma non le fortezze, benché il re pagati seimila scudi al castellano
ottenesse quella di Lugarno; ma non abbandonorono già i grigioni
Chiavenna. Nondimeno, dimostrandogli Tricarico essere pericolo che
il re non assaltasse senza dilazione Parma e Piacenza e mandasse
gente in Toscana, e magnificando il danno che i svizzeri avevano
ricevuto nella giornata, fu contento ratificare; con modificazione
però di non avere egli o suoi agenti a consegnare Parma e Piacenza,
ma lasciandole vacue di sue genti e di suoi officiali, permettere
che il re se le pigliasse; che il pontefice non fusse tenuto a
levare le genti da Verona per non fare questa ingiuria a Cesare, ma
bene prometteva da parte di levarle presto con qualche comoda
occasione; e che i fiorentini fussino assoluti dalla contrafazione
pretensa della lega. Fu anche in questo accordo che il re non
pigliasse protezione di alcuno feudatario o suddito dello stato
della Chiesa, né solo [non] vietare al pontefice come superiore loro
il procedere contro a essi e il gastigargli, ma eziandio
obligandosi, quando ne fusse ricercato, a dargli aiuto. Trattossi
ancora che il pontefice e il re si abboccassino in qualche luogo
comodo insieme, cosa proposta dal re ma desiderata dall'uno e
dall'altro di loro: dal re, per stabilire meglio questa amicizia,
per assicurare le cose degli amici che aveva in Italia, e perché
sperava, con la presenza sua e con offerire stati grossi al fratello
del pontefice e al nipote, ottenere di potere con suo consentimento
assaltare, come ardentissimamente desiderava, il reame di Napoli;
dal pontefice, per intrattenere con questo officio, o con la maniera
sua efficacissima a conciliarsi gli animi degli uomini, il re mentre
che era in tanta prosperità, nonostante che da molti fusse dannata
tale deliberazione come indegna della maestà del pontificato, e come
se convenisse che il re, volendo abboccarsi seco, andasse a trovarlo
a Roma. Alla quale cosa egli affermava condiscendere per desiderio
di indurre il re a non molestare il regno di Napoli durante la vita
del re cattolico; la quale, per essere egli, già piú di uno anno,
caduto in mala disposizione del corpo, era comune opinione avesse a
essere breve.
Travagliavasi in questo mezzo Pietro Navarra intorno al castello di
Milano; e insignoritosi di una casamatta del fosso del castello per
fianco verso porta Comasina, e accostatosi con gatti e travate al
fosso e alla muraglia della fortezza, attendeva a fare la mina in
quel luogo: e levate le difese ne cominciò poi piú altre; e tagliò
con gli scarpelli, da uno fianco della fortezza, grande pezzo di
muraglia e messela in su i puntelli, per farla cadere nel tempo
medesimo che si desse fuoco alle mine. Le quali cose, benché,
secondo il giudicio di molti, non bastassino a fargli ottenere il
castello se non con molta lunghezza e difficoltà, e già s'avesse
certa notizia i svizzeri prepararsi, secondo la determinazione fatta
nella dieta di Zurich, per soccorrerlo; nondimeno, essendo nata
pratica tra Giovanni da Gonzaga condottiere del duca di Milano, che
era in castello, e il duca di Borbone parente suo, e dipoi
intervenendo nel trattare col duca di Borbone Ieronimo Morone e due
capitani de' svizzeri che erano nel castello, si conchiuse, con
grande ammirazione di tutti, il quarto dí di ottobre; con
imputazione grandissima di Ieronimo Morone, che o per troppa
timidità o per poca fede avesse persuaso a questo accordo il duca
con la autorità sua, che appresso a lui era grandissima; il quale
carico egli scusava con allegare essere nata diffidenza tra i fanti
svizzeri e gli italiani. Contenne la concordia: che Massimiliano
Sforza consegnasse subito al re di Francia i castelli di Milano e di
Cremona; cedessegli tutte le ragioni che aveva in quello stato;
ricevesse dal re certa somma di danari per pagare i debiti suoi, e
andasse in Francia, dove il re gli desse ciascuno anno pensione di
trentamila ducati o operasse che fusse fatto cardinale con pari
entrata; perdonasse il re a Galeazzo Visconte e a certi altri
gentiluomini del ducato di Milano, che si erano affaticati molto per
Massimiliano; desse a' svizzeri che erano nel castello scudi
seimila; confermasse a Giovanni da Gonzaga i beni che per donazione
del duca aveva nello stato di Milano, e gli desse certa pensione;
confermasse similmente al Morone i beni propri e i donati dal duca e
gli uffici che aveva, e lo facesse maestro delle richieste della
corte di Francia. Il quale accordo fatto, Massimiliano, altrimenti
il moro per il nome paterno, uscito del castello, se ne andò in
Francia; dicendo essere uscito della servitú de' svizzeri, degli
strazi di Cesare e degli inganni degli spagnuoli: e nondimeno,
lodando ciascuno piú la fortuna di averlo presto deposto di tanto
grado che di avere prima esaltato uno uomo che, per la incapacità
sua e per avere pensieri estravaganti e costumi sordidissimi, era
indegno di ogni grandezza.
Lib.12, cap.17
Richieste d'aiuti dei veneziani al re di Francia. Morte dell'Alviano
e onori resigli dai soldati; giudizio dell'autore. Successi dei
veneziani. Veneziani e francesi contro Brescia; insuccesso
dell'impresa.
Ma innanzi alla dedizione del castello di Milano vennono al re
quattro imbasciadori, de' principali e piú onorati del senato
viniziano, Antonio Grimanno Domenico Trivisano Giorgio Cornero e
Andrea Gritti, a congratularsi della vittoria, e a ricercarlo che,
come era tenuto per i capitoli della confederazione, gli aiutasse
alla recuperazione delle terre loro: cosa che non aveva altro
ostacolo che delle forze di Cesare, e di quelle genti che con
Marcantonio Colonna erano per il pontefice in Verona; perché il
viceré, poi che levato del piacentino ebbe soggiornato alquanto nel
modenese, per aspettare se il papa ratificava lo accordo fatto col
re di Francia, intesa la ratificazione, se ne era andato per la
Romagna a Napoli. Deputò il re prontamente in aiuto loro il bastardo
di Savoia e Teodoro da Triulzio con settecento lancie e settemila
fanti tedeschi: i quali mentre differiscono a partirsi, o per
aspettare quello che succedeva del castello di Milano o perché il re
volesse mandare le genti medesime alla espugnazione del castello di
Cremona, l'Alviano, al quale i viniziani non avevano consentito che
seguitasse il viceré perché desideravano di recuperare, se era
possibile senza aiuto d'altri, Brescia e Verona, andò con l'esercito
verso Brescia. Ma essendo entrati di nuovo in quella città mille
fanti tedeschi, l'Alviano, essendosi molti dí innanzi Bergamo
arrenduto a' viniziani, si risolveva a andare prima alla
espugnazione di Verona perché era manco fortificata, per maggiore
comodità delle vettovaglie e perché, presa Verona, Brescia, restando
sola e in sito da potere avere difficilmente soccorso di Germania,
era facile a pigliare; ma si tardava a dare principio alla impresa,
per timore che il viceré e le genti del pontefice che erano in
reggiano e modanese non passassino il Po a Ostia per soccorrere
Verona. Del quale sospetto poiché per la partita del viceré si restò
sicuro, dava impedimento la infermità dell'Alviano; il quale,
ammalato a Ghedi in bresciano, minore di sessanta anni, passò ne'
primi dí di ottobre, con grandissimo dispiacere de' viniziani,
all'altra vita; ma con molto maggiore dispiacere de' suoi soldati,
che non si potendo saziare della memoria sua tennono il corpo suo
venticinque dí nello esercito, conducendolo, quando si camminava,
con grandissima pompa. E volendo condurlo a Vinegia, non comportò
Teodoro Triulzio che per potere passare per veronese si dimandasse,
come molti ricordavano, salvocondotto a Marcantonio Colonna; dicendo
non essere conveniente che chi vivo non aveva mai avuto paura degli
inimici, morto facesse segno di temergli. A Vinegia fu, per decreto
publico, seppellito con grandissimo onore nella chiesa di Santo
Stefano, dove ancora oggi si vede il suo sepolcro; e la orazione
funebre fece Andrea Novagiero gentil uomo viniziano, giovane di
molta eloquenza. Capitano, come ciascuno confessava, di grande
ardire ed esecutore con somma celerità delle cose deliberate, ma che
molte volte, o per sua mala fortuna o, come molti dicevano, per
essere di consiglio precipitoso, fu superato dagli inimici: anzi,
forse, dove fu principale degli eserciti non ottenne mai vittoria
alcuna.
Per la morte dell'Alviano, il re, ricercato da' viniziani,
concedette a governo dello esercito loro il Triulzio; desiderato per
la sua perizia e riputazione nella disciplina militare e perché, per
la inclinazione comune della fazione guelfa, era sempre stato
intratenimento e benivolenza tra lui e quella republica. Il quale
mentre che andava allo esercito, le genti de viniziani espugnorono
Peschiera; ma innanzi l'espugnassino roppono alcuni cavalli e
trecento fanti spagnuoli che andavano per soccorrerla, e di poi
ricuperorno Asola e Lunà, abbandonate dal marchese di Mantova.
Alla venuta del Triulzio si pose, per gli stimoli del senato, il
campo a Brescia; avvenga che l'espugnazione senza l'esercito
franzese paresse molto difficile, perché la terra era forte e dentro
mille fanti tra tedeschi e spagnuoli, stati costretti a partirsi
numero grandissimo de' guelfi e imminente già la vernata, e il tempo
dimostrarsi molto sottoposto alle pioggie. Né ingannò l'evento della
cosa il giudicio del capitano: perché avendo cominciato a battere le
mura con le artiglierie, piantate in sul fosso dalla parte onde esce
la Garzetta, quegli di dentro che spesso uscivano fuora, spinti una
volta mille cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli ad assaltare
la guardia della artiglieria, alla quale erano deputati cento uomini
d'arme e seimila fanti, e battendogli anche con la scoppietteria,
distesa per questo in su le mura della terra, gli messeno facilmente
tutti in fuga, ancora che Giampaolo Manfrone con trenta uomini
d'arme sostenesse alquanto lo impeto loro; ammazzorono circa dugento
fanti, abbruciorno la polvere e condusseno in Brescia dieci pezzi
d'artiglieria. Per il quale disordine parve al Triulzio di
allargarsi con lo esercito per aspettare la venuta de' franzesi, e
si ritirò a Cuccai lontano dodici miglia da Brescia; attendendo
intratanto i viniziani a provedere di nuova artiglieria e munizione.
Venuti i franzesi, si ritornò alla espugnazione di quella città,
battendo in due diversi luoghi, dalla porta delle Pile verso il
castello e dalla porta di San Gianni; alloggiando da una parte
l'esercito franzese, nel quale, licenziati i fanti tedeschi, perché
recusavano andare contro alle città possedute da Cesare, era venuto
Pietro Navarra con [cinquemila] fanti guasconi e franzesi.
Dall'altra parte era il Triulzio co' soldati viniziani; sopra il
quale rimase quasi tutta la somma delle cose, perché il bastardo di
Savoia ammalato era partito dell'esercito. Battuta la muraglia, non
si dette l'assalto perché quegli di dentro aveano fatto molti
ripari, e con grandissima diligenza e valore provedevano tutto quel
che era necessario alla difesa: onde Pietro Navarra, ricorrendo al
rimedio consueto, cominciò a dare opera alle mine e insieme a
tagliare le mura co' picconi. Nel quale tempo Marcantonio Colonna,
uscito di Verona con seicento cavalli e cinquecento fanti, e avendo
incontrato in su la campagna Giampaolo Manfrone e Marcantonio Bua,
che con quattrocento uomini d'arme e quattrocento cavalli leggieri
erano a guardia di Valeggio, gli roppe; nel quale incontro Giulio
figliuolo di Giampaolo, mortogli mentre combatteva il cavallo sotto,
venne in potestà degli inimici, e il padre fuggí a Goito: occuporno
di poi Lignago, ove presono alcuni gentiluomini viniziani.
Finalmente, mostrandosi ogni dí piú dura e difficile la
oppugnazione, perché le mine ordinate da Pietro Navarra non
riuscivano alle speranze date da lui, e intendendosi venire di
Germania ottomila fanti, i quali i capitani che erano intorno a
Brescia non si confidavano di impedire, furno contenti i viniziani,
per ricoprire in qualche parte l'ignominia del ritirarsi, convenire
con quegli che erano in Brescia, che se infra trenta dí non fussino
soccorsi abbandonerebbono la città, uscendone, cosí permettevano i
viniziani, con le bandiere spiegate con l'artiglierie e con tutte le
cose loro: la quale promessa, tale era la certezza della venuta del
soccorso, sapeva ciascuno dovere essere vana, ma alla gente di
Brescia non era inutile il liberarsi in questo mezzo dalle molestie.
Messono dipoi i viniziani in Bré, castello de' conti di Lodrone,
ottomila fanti: ma come questi sentirno i fanti tedeschi, a' quali
si era arrenduto il castello di Amfo, venire innanzi, si ritirorno
vilmente all'esercito. Né fu maggiore animo ne' capitani: i quali,
temendo in un tempo medesimo non essere assaltati da questi e da
quegli che erano in Brescia e da Marcantonio co' soldati che erano a
Verona, si ritirorno a Ghedi; ove prima, già certi di questo
accidente, aveano mandate l'artiglierie maggiori, e quasi tutti i
carriaggi. E i tedeschi, entrati in Verona senza contrasto,
proveduta che l'ebbono di vettovaglie e accresciuto il numero de'
difensori, se ne ritornorono in Germania.
Lib.12, cap.18
Incontro del pontefice e del re di Francia a Bologna e questioni
trattate. Ritorno del re in Francia; suoi accordi con gli svizzeri.
Mutamento di governo in Siena.
Aveano in questo mezzo stabilito il pontefice e il re di convenire
insieme a Bologna; avendo il re accettato questo luogo, piú che
Firenze, per non si allontanare tanto dal ducato di Milano,
trattandosi massimamente del continuo per il duca di Savoia la
concordia tra i svizzeri e lui; e perché, secondo diceva, sarebbe
necessitato, passando in Toscana, menare seco molti soldati; e
perché conveniva all'onore suo non entrare con minore pompa in
Firenze che già vi fusse entrato il re Carlo, la quale per ordinare
si interporrebbe dilazione di qualche dí, la quale al re era grave,
e per altri rispetti; e perché tanto piú sarebbe stato necessitato a
ritenere tutto l'esercito, del quale, ancora che la spesa fusse
gravissima, non aveva insino a quel dí né intendeva, mentre era in
Italia, licenziare parte alcuna. Entrò adunque, l'ottavo dí di
dicembre, il pontefice in Bologna; e due dí appresso vi entrò il re,
il quale erano andati a ricevere a' confini del reggiano due legati
apostolici, il cardinale dal Fiesco e quello de' Medici. Entrò senza
gente d'arme né con la corte molto piena; e introdotto, secondo
l'uso, nel concistorio publico innanzi al pontefice, egli medesimo,
parlando in nome suo il gran cancelliere, offerse la ubbidienza la
quale prima non aveva prestata. Stettero dipoi tre dí insieme,
alloggiati nel palagio medesimo, facendo l'uno verso l'altro segni
grandissimi di benivolenza e di amore. Nel qual tempo, oltre al
riconfermare con le parole e con le promesse le già fatte
obligazioni, trattorono insieme molte cose del regno di Napoli; il
quale non essendo allora il re ordinato ad assaltare, si contentò
della speranza datagli molto efficacemente dal pontefice di essergli
favorevole a quella impresa, qualunque volta sopravenisse la morte
del re d'Aragona, la quale per giudicio comune era propinqua, o
veramente fusse finita la confederazione che aveva seco, che durava
ancora sedici mesi. Intercedette ancora il re per la restituzione di
Modona e di Reggio al duca di Ferrara, e il pontefice promesse di
restituirle pagandogli il duca i quarantamila ducati i quali il papa
aveva pagati per Modena a Cesare, e oltre a questi certa quantità di
danari per spese fatte nell'una e l'altra città. Intercedette ancora
il re per Francesco Maria duca di Urbino; il quale, essendo soldato
della Chiesa con dugento uomini d'arme e dovendo andare con Giuliano
de' Medici all'esercito, quando poi per la infermità sua vi fu
proposto Lorenzo, non solamente aveva ricusato di andarvi, allegando
che quel che contro alla sua degnità avea consentito alla lunga
amicizia tenuta con Giuliano, di andare come semplice condottiere e
sottoposto alla autorità di altri nell'esercito della Chiesa, nel
quale era stato tante volte capitano generale superiore a tutti, non
voleva concedere a Lorenzo; ma oltre a questo, avendo promesso di
mandare le genti della sua condotta le rivocò mentre erano nel
cammino, perché già secretamente avea convenuto o trattava di
convenire col re di Francia, e dopo la vittoria del re non aveva
cessato per mezzo d'uomini propri concitarlo quanto potette contro
al pontefice. Il quale, ricordevole di queste ingiurie, e già
pensando di attribuire alla famiglia propria quel ducato, dinegò al
re la sua domanda; dimostrandogli con dolcissime parole quanta
difficoltà farebbe alle cose della Chiesa il dare, con esempio cosí
pernicioso, ardire a' sudditi di ribellarsi: alle quali ragioni e
alla volontà del papa cedette pazientemente il re; con tutto che per
l'onore proprio avesse desiderato di salvare chi per essersi aderito
a lui era caduto in pericolo, e che al medesimo lo confortassino
molti del suo consiglio e della corte, ricordando quanto fusse stata
imprudente la deliberazione del re passato d'avere permesso al
Valentino opprimere i signori piccoli di Italia, per il che era
salito in tanta grandezza che se piú lungamente fusse vivuto il
padre Alessandro arebbe senza dubbio nociuto molto alle cose sue.
Promesse il pontefice al re dargli facoltà di riscuotere per uno
anno la decima parte delle entrate delle chiese del reame di
Francia. Convennero ancora che il re avesse la nominazione de'
benefici che prima apparteneva a' collegi e a' capitoli delle
chiese, cosa molto a proposito di quegli re, avendo facoltà di
distribuire ad arbitrio suo tanti ricchissimi benefici; e da altra
parte, che le annate delle chiese di Francia si pagassino in futuro
al pontefice secondo il vero valore e non secondo le tasse antiche,
le quali erano molto minori: e in questo rimase decetto il
pontefice; perché avendosi, contro a coloro che occultavano il vero
valore, a fare l'esecuzione e deputare i commissari nel regno di
Francia, niuno voleva provare niuno eseguire contro agli
impetratori, di maniera che ciascuno continuò di spedire secondo le
tasse vecchie. Promesse ancora il re di non pigliare in protezione
alcuna delle città di Toscana; benché non molto poi, facendo
instanza che gli consentisse di accettare la protezione de' lucchesi
i quali gli offerivano venticinquemila ducati, e allegando esserne
tenuto per le obligazioni dello antecessore, il pontefice, recusando
di concedergliene, gli promesse di non dare loro molestia alcuna.
Deliberorno oltre a queste cose mandare Egidio generale de' frati di
Santo Agostino, ed eccellentissimo nelle predicazioni, a Cesare, in
nome del pontefice, per disporlo a consentire a' viniziani, con
ricompenso di danari, Brescia e Verona. Le quali cose espedite, ma
non per scrittura (eccetto quello che apparteneva alla nominazione
de' benefici e al pagamento delle annate secondo il vero valore), il
pontefice, in grazia del re e per onorare tanto convento, pronunziò
cardinale Adriano di Boisí fratello del gran maestro di Francia, che
nelle cose del governo teneva il primo luogo appresso al re. Da
questo colloquio partí il re molto contento nell'animo, e con grande
speranza della benivolenza del pontefice: il quale dimostrava
copiosamente il medesimo ma dentro sentiva altrimenti; perché gli
era molesto come prima che 'l ducato di Milano fusse posseduto da
lui, molestissimo avere rilasciato Piacenza e Parma, parimente
molesto il restituire al duca di Ferrara Modona e Reggio. Benché
questo, non molto poi, tornò vano: perché avendo il pontefice in
Firenze, ove dopo la partita da Bologna stette circa uno mese,
ricevute dal duca le promesse de' danari che s'aveano a pagare
subito che fusse entrato in possessione, ed essendo di comune
consentimento ordinate le scritture degli instrumenti che tra loro
s'aveano a fare, il pontefice, non negando ma interponendo varie
scuse e dilazioni, e sempre promettendo, ricusò di dargli
perfezione.
Ritornato il re a Milano licenziò subito l'esercito, riservate alla
guardia di quello stato [settecento] lancie e seimila fanti tedeschi
e quattromila franzesi, di quella sorte che da loro sono chiamati
venturieri; egli con grandissima celerità, ne' primi dí dell'anno
mille cinquecento sedici, ritornò in Francia, lasciato luogotenente
suo Carlo duca di Borbone: parendogli avere stabilite in Italia le
cose sue, per la confederazione contratta col pontefice, e perché in
quegli dí medesimi avea convenuto co' svizzeri. I quali, benché il
re di Inghilterra [gli] stimolasse a muovere di nuovo l'armi contro
al re, rinnovorno seco la confederazione, obligandosi a dare sempre
in Italia e fuori, per difesa e per offesa contro a ciascuno, col
nome e con le bandiere publiche, a' suoi stipendi qualunque numero
di fanti dimandasse; eccettuando solamente dall'offesa il pontefice,
l'imperio e Cesare: e da altra parte il re riconfermò loro le
pensioni antiche, promesse pagare in certi tempi i quattrocentomila
ducati convenuti a Digiuno, e trecentomila se gli restituivano le
terre e le valli appartenenti al ducato di Milano. Il che ricusando
di fare e di ratificare la concordia i cinque cantoni che le
possedevano, cominciò il re a pagare gli altri otto la rata de'
denari appartenente a loro; i quali l'accettorno, ma con espressa
condizione di non essere tenuti di andare a gli stipendi suoi contro
a' fanti de' cinque cantoni.
Nel principio dell'anno medesimo il vescovo de' Petrucci, antico
familiare del pontefice, coll'aiuto suo e de' fiorentini cacciato di
Siena Borghese figliuolo di Pandolfo Petrucci cugino suo, in mano
del quale era il governo, arrogò a sé medesima autorità: movendosi
il pontefice perché quella città, posta tra lo stato della Chiesa e
de' fiorentini, fusse governata da uomo confidente di sé; e forse
molto piú perché sperasse, quando fusse propizia la opportunità de'
tempi, potere con volontà del vescovo medesimo sottoporla o al
fratello o al nipote.
Lib.12, cap.19
Morte del re d'Aragona; giudizio dell'autore. Morte del gran
capitano. Aspirazione del re di Francia alla conquista del regno di
Napoli e sue speranze. Liberazione di Prospero Colonna dalla
prigionia.
Rimasono in Italia accese le cose tra Cesare e i viniziani,
desiderosi di ricuperare, coll'aiuto del re di Francia, Brescia e
Verona: l'altre cose parevano assai quiete. Ma presto cominciorno ad
apparire princípi di nuovi movimenti, che si suscitavano per opera
del re di Aragona; il quale, temendo al regno di Napoli per la
grandezza del re di Francia, trattava con Cesare e col re di
Inghilterra che di nuovo si movessino l'armi contro a lui: il che
non solamente non era stato difficile persuadere a Cesare,
desideroso sempre di cose nuove, e il quale da se stesso
difficilmente poteva conservare le terre tolte a viniziani; ma
ancora il re di Inghilterra, potendo meno in lui la memoria
dell'avere il suocero violatogli le promesse che la emulazione e
l'odio presente contro al re di Francia, vi assentiva. Stimolavalo
oltre a questo il desiderio che il re di Scozia pupillo fusse
governato per uomini o proposti o dependenti da lui. Le quali cose
si sarebbono tentate con maggiore consiglio e con maggiori forze se,
mentre si trattavano, non fusse succeduta la morte del re d'Aragona;
il quale, afflitto da lunga indisposizione, morí del mese di
[gennaio], mentre andava colla corte a Sibilia, in Madrigalegio,
villa ignobilissima. Re di eccellentissimo consiglio e virtú, e nel
quale, se fusse stato costante nelle promesse, non potresti
facilmente riprendere cosa alcuna; perché la tenacità dello
spendere, della quale era calunniato, dimostrò facilmente falsa la
morte sua, conciossiaché avendo regnato [quarantadue] anni non
lasciò danari accumulati. Ma accade quasi sempre, per il giudicio
corrotto degli uomini, che ne' re è piú lodata la prodigalità,
benché a quella sia annessa la rapacità, che la parsimonia congiunta
con la astinenza della roba di altri. Alla virtú rara di questo re
si aggiunse la felicità rarissima, perpetua, se tu levi la morte
dell'unico figliuolo maschio, per tutta la vita sua: perché i casi
delle femmine e del genero furno cagione che insino alla morte si
conservasse la grandezza; e la necessità di partirsi, dopo la morte
della moglie, di Castiglia fu piú tosto giuoco che percossa della
fortuna. Tutte l'altre cose furno felicissime. Di secondogenito del
re di Aragona, morto il fratello maggiore, [ottenne quel reame],
pervenne, per mezzo del matrimonio contratto con Isabella, al regno
di Castiglia; scacciò vittoriosamente gli avversari che competevano
al medesimo reame; recuperò poi il regno di Granata, posseduto dagli
inimici della nostra fede poco meno di ottocento anni; aggiunse allo
imperio suo il regno di Napoli, quello di Navarra, Orano e molti
luoghi importanti de' liti di Africa: superiore sempre e quasi
domatore di tutti gli inimici suoi. E, ove manifestamente apparí
congiunta la fortuna con la industria, coprí quasi tutte le sue
cupidità sotto colore di onesto zelo della religione e di santa
intenzione al bene comune.
Morí, circa a uno mese innanzi alla morte sua, il gran capitano,
assente dalla corte e male sodisfatto di lui: e nondimeno il re, per
la memoria della sua virtú, aveva voluto che da sé e da tutto il
regno gli fussino fatti onori insoliti a farsi in Spagna ad alcuno,
eccetto che nella morte de' re; con grandissima approbazione di
tutti i popoli, a' quali il nome del gran capitano per la sua
grandissima liberalità era gratissimo e, per l'opinione della
prudenza e che nella scienza militare trapassasse il valore di tutti
i capitani de' tempi suoi, era in somma venerazione.
Accese la morte del re cattolico l'animo del re di Francia alla
impresa di Napoli, alla quale pensava mandare subito il duca di
Borbone con ottocento lancie e diecimila fanti; persuadendosi, per
essere il regno sollevato per la morte del re e male ordinato alla
difesa, né potendo l'arciduca essere a tempo a soccorrerlo, averne
facilmente a ottenere la vittoria. Né dubitava che il pontefice, per
le speranze avute da lui quando furno insieme a Bologna e per la
benivolenza contratta seco nello abboccamento, gli avesse a essere
favorevole; né meno per lo interesse proprio, come se gli avesse a
essere molesta la troppa grandezza dello arciduca, successore di
tanti regni del re cattolico e successore futuro di Cesare. Sperava
oltre a questo che l'arciduca, conoscendo potergli molto nuocere
l'inimicizia sua nello stabilirsi i regni di Spagna e specialmente
quello di Aragona (al quale, se alle ragioni fusse stata congiunta
la potenza, arebbono aspirato alcuni maschi della medesima
famiglia), sarebbe proceduto moderatamente a opporsegli. Perché se
bene, vivente il re morto e Isabella sua moglie, era stato nelle
congregazioni di tutto il regno interpretato che le costituzioni
antiche di quel reame escludenti dalla successione della corona le
femmine non pregiudicavano a' maschi nati di quelle, quando nella
linea mascolina non si trovavano fratelli zii o nipoti del re morto
o chi gli fusse piú prossimo del nato delle femmine o almeno in
grado pari, e che per questo fusse stato dichiarato appartenersi a
Carlo arciduca, dopo la morte di Ferdinando, la successione,
adducendo in esempio che per la morte di Martino re d'Aragona morto
senza figliuoli maschi era stato, per sentenza de' giudici deputati
a questo da tutto il regno, preferito Ferdinando avolo di questo
Ferdinando, benché congiunto per linea femminina, al conte d'Urgelli
e agli altri congiunti a Martino per linea mascolina ma in grado piú
remoto di Ferdinando: nondimeno era stata insino ad allora tacita
querela ne' popoli che in questa interpretazione e dichiarazione
avesse piú potuto la potenza di Ferdinando e di Isabella che la
giustizia; non parendo a molti debita interpretazione, che esclude
le femmine possa essere ammesso chi nasce di quelle, e che nella
sentenza data per Ferdinando vecchio avesse piú potuto il timore
dell'armi sue che la ragione. Le quali cose essendo note al re, e
noto ancora che i popoli della provincia d'Aragona di Valenza e
della contea di Catalogna (includendosi tutti questi sotto il regno
d'Aragona) arebbeno desiderato un re proprio, sperava che
l'arciduca, per non mettere in pericolo tanta successione e tanti
stati, non avesse finalmente a essere alieno dal concedergli con
qualche condecevole composizione il regno di Napoli. Nel qual tempo,
per aiutarsi oltre alle forze co' benefici, volle che Prospero
Colonna, il quale consentiva di pagare per la liberazione sua
trentacinquemila ducati, fusse liberato pagandone solamente la metà;
onde molti credettono che Prospero gli avesse secretamente
[promesso] di non prendere arme contro a lui, o forse di essergli
favorevole nella guerra napoletana, ma con qualche limitazione o
riserbo dell'onore suo.
Lib.12, cap.20
Si ravviva la lotta fra tedeschi e franco-veneziani. Discesa di
Cesare con nuove milizie in Italia; suoi successi; intimazione ai
milanesi. I francesi si restringono in Milano. Arrivo degli
svizzeri. Timori di Cesare e sua ritirata dal milanese. Ritorno di
svizzeri in patria. Sacco di Lodi e di Sant'Angelo. Condotta ambigua
del pontefice durante l'impresa di Cesare. Presa di Brescia.
In questi pensieri costituito il re, e già deliberando di non
differire il muovere dell'armi, fu necessitato per nuovi accidenti a
volgere l'animo alla difesa propria: perché Cesare, ricevuti,
secondo le cose cominciate a trattarsi prima col re d'Aragona,
centoventimila ducati, si preparava per assaltare, come aveva
convenuto con quel re, il ducato di Milano, soccorse che avesse
Verona e Brescia. Perché i viniziani, fermato l'esercito, il quale,
essendo ritornato il Triulzio a Milano, reggeva Teodoro da Triulzi
fatto governatore, sei miglia presso a Brescia, scorrevano cogli
stradiotti tutto il paese: i quali, assaltati uno dí da quegli di
dentro, e concorrendo da ciascuna delle parti aiuto a' suoi, gli
rimessono dopo non piccola zuffa in Brescia, ammazzatine molti di
loro e preso il fratello del governatore della città. Pochi dí
appresso, Lautrech, principale dell'esercito franzese, e Teodoro da
Triulzi, sentito che a Brescia venivano tremila fanti tedeschi per
accompagnare i danari che si conducevano per pagare i soldati,
mandorno per impedire loro il passare Gianus Fregoso e Giancurrado
Orsino, con genti dell'uno e l'altro esercito, alla rocca d'Anfo; le
quali n'ammazzorno circa ottocento, gli altri insieme co' danari si
rifuggirno a Lodrone. Mandorno di poi i viniziani in Val di Sabia
dumila cinquecento fanti per fortificare il castello di Anfo, i
quali abbruciorno Lodrone e Astorio.
Il pericolo che Brescia, cosí stretta e molestata, non si arrendesse
costrinse Cesare ad accelerare la sua venuta; il quale, avendo seco
cinquemila cavalli, quindicimila svizzeri datigli dai cinque cantoni
e diecimila fanti tra spagnuoli e tedeschi, venne per la via di
Trento a Verona; onde l'esercito franzese e viniziano, lasciate bene
custodite Vicenza e Padova, si ridusse a Peschiera, affermando
volere vietare a Cesare il passare del fiume del Mincio: ma non
corrispose, come spesso accade, l'esecuzione al consiglio, perché
come sentirno gli inimici approssimarsi, non avendo alla campagna
quella audacia a eseguire che aveano avuta ne' padiglioni a
consigliare, passato Oglio, si ritirorono a Cremona, crescendo la
riputazione e lo ardire allo inimico e togliendolo a se stessi.
Fermossi Cesare, o per cattivo consiglio o tirato dalla mala fortuna
sua, a campo ad Asola, custodita da cento uomini d'arme e
quattrocento fanti de' viniziani; ove consumò vanamente piú giorni:
il quale indugio si credé certissimamente che gli togliesse la
vittoria. Partito da Asola passò il fiume dell'Oglio a Orcinuovi, e
gli inimici, lasciati in Cremona trecento lancie e tremila fanti, si
ritirorno di là dal fiume dell'Adda con pensiero di impedirgli il
passare; per la ritirata de' quali tutto il paese che è tra l'Oglio
e il Po e l'Adda si ridusse a divozione di Cesare, eccettuate
Cremona e Crema, l'una guardata da' franzesi l'altra da viniziani.
Seguitavano Cesare il cardinale sedunense e molti fuorusciti del
ducato di Milano e Marcantonio Colonna soldato del pontefice con
[dugento] uomini d'arme: per le quali cose cresceva tanto piú il
timore de' franzesi, la maggiore parte della speranza de' quali si
riduceva se diecimila svizzeri, a' quali era stato numerato lo
stipendio di tre mesi, non tardavano piú a venire. Passato l'Oglio,
si accostò Cesare al fiume dell'Adda per passarla a Pizzichitone;
dove trovando difficoltà venne a Rivolta, stando i franzesi a
Casciano di là dal fiume. I quali il dí seguente, non essendo venuti
i svizzeri e possendosi l'Adda guadare in piú luoghi, si ritirorono
a Milano; non senza infamia di Lautrech, che aveva publicato e
scritto al re che impedirebbe a Cesare il passo di quello fiume: al
quale, passato senza ostacolo, s'arrendé subito la città di Lodi.
Accostatosi a Milano a poche miglia, mandò uno araldo a dimandare la
terra, minacciando i milanesi che se fra tre dí non cacciavano lo
esercito franzese, farebbe peggio a quella città che non aveva fatto
Federigo Barbarossa suo antecessore; il quale, non contento di
averla abbruciata e disfatta, vi fece, per memoria della sua ira e
della loro rebellione, seminare il sale.
Ma tra i franzesi, ritirati con grandissimo spavento in Milano,
erano stati vari consigli; inclinando alcuni ad abbandonare
bruttamente Milano per non si riputare pari a resistere agli inimici
né credere che i svizzeri, ancorché già si sapesse essere in
cammino, avessino a venire, e perché si intendeva che i cantoni o
avevano già comandato o erano in procinto di comandare che i
svizzeri si partissino da' servizi dell'uno e dell'altro: e pareva
dubitabile che non fusse piú pronta la ubbidienza di quegli che
ancora erano in cammino che di quegli che già erano cogli inimici.
Altri detestavano la partita come piena di infamia; e avendo
migliore speranza della venuta de' svizzeri e del potere difendere
Milano, consigliavano il mettersi alla difesa, e che rimosso in
tutto il pensiero di combattere e ritenuto in Milano tutti i fanti e
ottocento lancie, distribuissino l'altre e quelle de' viniziani e
tutti i cavalli leggieri per le terre vicine, per guardarle e per
molestare agli inimici le vettovaglie. Nondimeno, si sarebbe
eseguito il primo consiglio se non avessino molto dissuaso Andrea
Gritti e Andrea Trivisano proveditori de' viniziani; l'autorità de'
quali, non potendo ottenere altro, operò questo, che il partirsi si
deliberò alquanto piú lentamente, di maniera che, già volendo
partirsi, sopravennero novelle certe che il dí seguente sarebbe
Alberto Petra con diecimila tra svizzeri e grigioni a Milano. Per il
che ripreso animo, ma non però confidando di difendere i borghi, si
fermorno nella città, abbruciati pure per consiglio de' proveditori
viniziani i borghi: i quali consigliorono cosí o perché giudicassino
essere necessario alla difesa di quella terra o perché, con questa
occasione, volessino sodisfare all'odio antico che è tra i milanesi
e i viniziani. Cacciorono ancora della città, o ritenneno in onesta
custodia, molti de' principali della parte ghibellina, come
inclinati al nome dello imperio per lo studio della fazione e per
essere nello esercito tanti della medesima parte.
Cesare intratanto si pose con l'esercito a Lambrà, vicino a due
miglia a Milano; dove essendo, arrivorno a Milano i svizzeri: i
quali, mostrandosi pronti a difendere quella città, recusavano di
volere combattere con gli altri svizzeri. La venuta loro rendé gli
spiriti a' franzesi, ma molto maggiore terrore dette a Cesare. Il
quale, considerando l'odio antico di quella nazione contro alla casa
di Austria, e ritornandogli in memoria quello che, per trovarsi i
svizzeri in tutti due gli eserciti oppositi, fusse accaduto a
Lodovico Sforza, cominciò a temere che a sé non facessino il
medesimo; parendogli piú verisimile ingannassino lui, che aveva
difficoltà di pagargli, che i franzesi, a' quali non mancherebbono i
danari né per pagargli né per corrompergli: e accrescevagli la
dubitazione che Iacopo Stafflier, capitano generale de' svizzeri,
gli aveva con grande arroganza domandata la paga; la quale, oltre
alle altre difficoltà, si differiva perché, venendogli danari di
Germania, gli erano stati ritenuti da' fanti spagnuoli che erano in
Brescia, per pagarsi de' soldi corsi. Però commosso
maravigliosamente dal timore di questo pericolo, levato subito
l'esercito, si ritirò verso il fiume dell'Adda: non dubitando alcuno
che se tre dí prima si fusse accostato a Milano, il quale tempo
dimorò intorno ad Asola, i franzesi molto piú ambigui e incerti
della venuta de' svizzeri sarebbono ritornati di là da' monti; anzi
non si dubita, che se cosí presto non si partivano, o che i
franzesi, non si confidando pienamente de' svizzeri per il rispetto
dimostravano a quei che erano con Cesare, arebbono seguitato il
primo consiglio, o che i svizzeri medesimi, presa scusa dal
comandamento de' suoi superiori che già era espedito, arebbono
abbandonato i franzesi.
Passò Cesare il fiume dell'Adda non lo seguitando i svizzeri; i
quali, protestando di partirsi se non erano pagati tra quattro dí,
si fermorno a Lodi; dando continuamente Cesare, che si era fermato
nel territorio di Bergamo, speranza de' pagamenti, perché diceva
aspettare nuovi danari dal re di Inghilterra, e minacciando di
ritornare a Milano: cosa che teneva in sospetto grandissimo i
franzesi, incerti piú che mai della fede de' svizzeri. Perché, oltre
alla tardità usata studiosamente nel venire e l'avere sempre detto
non volere combattere contro a' svizzeri dell'esercito inimico, era
venuto il comandamento de' cantoni che partissino dagli stipendi de'
franzesi; per il quale ne erano già partiti circa duemila e si
temeva che gli altri non facessino il medesimo: benché i cantoni, da
altra parte, affermavano al re avere occultamente comandato a' suoi
fanti il contrario. Finalmente Cesare, il quale, riscossi dalla
città di Bergamo sedicimila ducati, era andato sotto speranza di uno
trattato verso Crema, ritornato senza fare effetto nel bergamasco,
deliberò di andare a Trento. Però, significata a' capitani
dell'esercito la sua deliberazione, e affermato muoversi a questo
per fare nuovi provedimenti di danari, co' quali e con quegli del re
di Inghilterra, che erano in cammino, ritornerebbe subito, gli
confortò ad aspettare il suo ritorno: i quali, saccheggiato Lodi ed
espugnata senza artiglierie la fortezza e saccheggiata la terra di
Santangelo, stretti dal mancamento delle vettovaglie, si erano
ridotti nella Ghiaradadda. È fama che Cesare nel medesimo
parlamento, perché i cappelletti de' viniziani (sono il medesimo i
cappelletti che gli stradiotti), divisi in piú parti e correndo per
tutto il paese infestavano dí e notte l'esercito, stracco insieme
con gli altri da tante molestie, disse a' suoi che si guardassino
da' cappelletti, soggiugnendo (se è vero quel che allora si divulgò)
che gli erano sempre, come si diceva di Iddio, in qualunque luogo.
Fu dopo la partita di Cesare qualche speranza che i svizzeri, co'
quali a Romano si uní tutto l'esercito, passassino di nuovo il fiume
dell'Adda; perché nel campo era venuto il marchese di Brandiborg, e
a Bergamo il cardinale sedunense con trentamila ducati mandati dal
re di Inghilterra: per il quale timore il duca di Borbone, da cui
erano partiti quasi tutti i svizzeri, e i soldati viniziani erano
venuti con l'esercito in sulla riva di là dal fiume. Ma diventorno
facilmente vani i pensieri degli inimici, perché i svizzeri, non
bastando i danari venuti a pagare gli stipendi già corsi, ritornorno
per la valle di Voltolina al paese loro; e per la medesima cagione
tremila fanti, parte spagnuoli parte tedeschi, passorono nel campo
franzese e viniziano. Il quale, avendo passato il fiume dell'Adda,
non aveva cessato di infestare piú dí con varie scorrerie e
scaramuccie gli inimici, con accidenti vari, ora ricevendo maggiore
danno i franzesi (i quali in una scaramuccia grossa appresso a
Bergamo perderono circa dugento uomini d'arme), ora gli inimici, de'
quali in uno assalto simile fu preso Cesare Fieramosca: il resto
della gente, ricevuto uno ducato per uno, si accostò a Brescia; ma,
essendo molto molestati da' cavalli leggieri, Marcantonio Colonna
co' fanti tedeschi e con alcuni fanti spagnuoli entrò in Verona, e
gli altri tutti si dissolverono.
Questo fine ebbe il movimento di Cesare, nel quale al re fu molto
sospetto il pontefice; perché avendolo ricercato che, secondo gli
oblighi della lega fatta tra loro, mandasse cinquecento uomini
d'arme alla difesa dello stato di Milano, o almeno gli accostasse a'
suoi confini, e gli pagasse tremila svizzeri, secondo allegava avere
offerto ad Antonmaria Palavicino, il pontefice, rispondendo
freddamente al pagamento de' svizzeri e scusando essere male in
ordine le genti sue, prometteva mandare quelle de' fiorentini: le
quali con alcuni de' soldati suoi si mossono molto lentamente verso
Bologna e verso Reggio. Accrebbe il sospetto, che la venuta di
Cesare fusse stata con sua partecipazione, l'avere creato legato a
lui, come prima intese essere entrato in Italia, Bernardo da
Bibbiena cardinale di Santa Maria in Portico, solito sempre a
impugnare appresso al pontefice le cose franzesi; e molto piú
l'avere permesso che Marcantonio Colonna seguitasse con le sue genti
l'esercito di Cesare. Ma la verità fu [che al pontefice fu] molesta,
per l'interesse proprio, la venuta di Cesare con tante forze,
temendo che vincitore non tentasse di opprimere, secondo l'antica
inclinazione, tutta Italia; ma per timore, e perché questo procedere
era conforme alla sua natura, occultando i suoi pensieri, si
ingegnava farsi odioso il meno che poteva a ciascuna delle parti.
Però non ardí rivocare Marcantonio, non ardí mandare gli aiuti
debiti al re, creò il legato a Cesare; e da altra parte, essendo già
partito Cesare da Milano, operò che il legato, simulando infermità,
si fermasse a Rubiera, per speculare innanzi passasse piú oltre dove
inclinavano le cose: e dipoi, per mitigare l'animo del re, volle che
Lorenzo suo nipote, continuando la simulazione della dependenza
cominciata a Milano, gli facesse donare da' fiorentini i danari da
pagare per uno mese tremila svizzeri; i quali danari benché il re
accettasse, diceva nondimeno, dimostrando di conoscere le arti del
pontefice, che, poiché sempre gli era contrario nella guerra né la
confederazione fatta seco gli aveva giovato ne' tempi del pericolo,
voleva di nuovo farne un'altra che non l'obligasse se non nella pace
e ne' tempi sicuri.
Dissoluto l'esercito di Cesare, i viniziani, non aspettati i
franzesi, si accostorno all'improviso una notte a Brescia con le
scale, confidandosi nel piccolo numero de' difensori, perché non vi
erano rimasti piú che secento fanti spagnuoli e quattrocento
cavalli; ma non essendo le scale lunghe a bastanza, e resistendo
valorosamente quegli di dentro, non l'ottennono. Sopravenne poi
l'esercito franzese sotto Odetto di Fois, eletto nuovamente
successore al duca di Borbone, partito spontaneamente dal governo di
Milano. Assaltorno questi eserciti Brescia con l'artiglierie da
quattro parti, acciò che gli assediati non potessino resistere in
tanti luoghi: i quali si sostentorno mentre ebbono speranza che
settemila fanti del contado di Tiruolo, venuti per comandamento di
Cesare alla montagna, passassino piú innanzi; ma come questo non
succedette, per l'opposizione fatta da' viniziani alla rocca d'Anfo
e ad altri passi, essi non volendo aspettare la battaglia che,
essendo già in terra spazio grande di muraglia, si doveva dare il dí
seguente, convennono i soldati di uscire della terra e della
fortezza, con le cose loro solamente, se infra un dí non erano
soccorsi.
Lib.12, cap.21
Monitorio del pontefice contro il duca di Urbino. Occupazione del
ducato da parte di Lorenzo de' Medici; resa delle fortezze.
Investitura di Lorenzo. Ragioni di sospetti e di malcontento del re
di Francia riguardo al pontefice.
In questi tempi medesimi il pontefice, preparandosi di spogliare con
l'armi del ducato di Urbino Francesco Maria della Rovere, cominciò a
procedere con le censure contro a lui, publicato un munitorio nel
quale si narrava che, essendo soldato della Chiesa, denegandogli le
genti per le quali avea ricevuto lo stipendio, si era convenuto
secretamente cogli inimici: l'omicidio antico del cardinale di
Pavia, del quale era stato assoluto per grazia non per giustizia;
altri omicidi commessi da lui; l'avere mandato, nel maggiore fervore
della guerra tra 'l pontefice Giulio (del quale era nipote, suddito
e capitano) [e il re di Francia], Baldassarre da Castiglione per
condursi a' soldi del re; l'avere nel tempo medesimo negato il passo
ad alcune genti che andavano a unirsi coll'esercito della Chiesa, e
perseguitati, nello stato quale possedeva come feudatario della
sedia apostolica, i soldati della medesima sedia fuggiti del fatto
d'arme di Ravenna. Aveva il pontefice avuto nell'animo di muovergli,
piú mesi prima, la guerra, movendolo, oltre alle ingiurie nuove, lo
sdegno quando negò di aiutare il fratello e lui a ritornare in
Firenze; ma lo riteneva alquanto la vergogna di perseguitare il
nipote di colui per opera del quale era salita la Chiesa a tanta
grandezza, e molto piú i prieghi di Giuliano suo fratello; il quale,
nel tempo dello esilio loro, dimorato molti anni nella corte di
Urbino appresso il duca Guido e, morto lui, appresso al duca
presente, non poteva tollerare che da loro medesimi fusse privato di
quel ducato nel quale era stato sostentato e onorato. Ma morto dopo
lunga infermità Giuliano de' Medici in Firenze e diventato vano il
movimento di Cesare, il pontefice, stimolato da Lorenzo nipote e da
Alfonsina sua madre, cupidi di appropriarsi quello stato, deliberò
non tardare piú; allegando per scusa della ingratitudine, la quale
da molti era rimproverata, non solamente l'offese ricevute da lui,
le pene nelle quali secondo la disposizione della giustizia
incorreva uno vassallo contumace al suo signore, uno soldato il
quale obligatosi e ricevuti i danari denegava le genti a chi l'aveva
pagate, ma molto piú essere pericoloso il tollerare, nelle viscere
del suo stato, colui il quale avendo cominciato, senza rispetto
della fede e dell'onore, a offenderlo, poteva essere certo che
quanto maggiore si dimostrasse l'occasione tanto piú sarebbe pronto
a fare per l'avvenire il medesimo.
Il progresso di questa guerra fu che, come Lorenzo, coll'esercito
raccolto de' soldati e de' sudditi della Chiesa e de' fiorentini,
toccò i confini di quel ducato, la città di Urbino e l'altre terre
di quello stato si dettono volontariamente al pontefice; consentendo
il duca, il quale si era ritirato a Pesero, che, poi che non gli
poteva difendere, si salvassino. Fece e Pesero il medesimo, come
l'esercito inimico si fu accostato: perché, con tutto vi fussino
tremila fanti, la città fortificata e il mare aperto, Francesco
Maria, lasciato nella rocca Tranquillo da Mondolfo suo confidato e i
capitani e i soldati nella terra, se ne andò a Mantova, dove prima
avea mandato la moglie e il figliuolo; o non si confidando a soldati
la maggiore parte non pagati o, come molti scusando il timore con
l'amore affermavano, impaziente di stare assente dalla moglie. Cosí
il ducato di Urbino, insieme con Pesero e con Sinigaglia, venne in
quattro dí soli alla ubbidienza della Chiesa, eccettuate le fortezze
di Sinigaglia e di Pesero, San Leo, e la rocca di Maiuolo.
Arrendessi quasi immediate quella di Sinigaglia; e quella di Pesero,
benché fortissima, battuta due dí con l'artiglierie, convenne di
arrendersi se fra venti dí non era soccorsa, con condizione che in
quel mezzo non vi si facesse ripari né alcuna fortificazione: il
quale patto male osservato fu cagione che Tranquillo, non avendo
avuto soccorso infra il termine convenuto, recusò di consegnarla, e
cominciato di nuovo a tirare l'artiglierie assaltò la guardia di
fuora. Ma era piú dura la sua condizione, perché, ritornatosene,
avuta che fu la terra, Lorenzo a Firenze, i capitani restati nello
esercito avevano fatto trincee intorno alla rocca e messo in mare
certi navili per vietare non vi entrasse soccorso: però, spirato il
termine, si cominciò subito a batterla; ma il dí medesimo i soldati
che vi erano dentro, fatto tumulto contro a Tranquillo, lo dettono
per salvare sé ai capitani, da' quali in pena della sua
contravenzione fu condannato al supplicio delle forche. Arrendessi
pochi dí poi la rocca di Maiuolo, luogo necessario ad assediare San
Leo, perché è vicina a un miglio e situata allo opposito di quella.
Intorno a San Leo furno messi duemila fanti che lo tenessino
assediato, perché per il sito suo fortissimo niuna speranza vi era
di ottenerlo se non per l'ultima necessità della fame; e nondimeno,
tre mesi poi, fu preso furtivamente per invenzione maravigliosa di
uno maestro di legname il quale, salito una notte per una
lunghissima scala sopra uno dirupato che era riputato il piú
difficile di quel monte, e fatta portare via la scala, dimorato in
quel luogo tutta la notte, cominciò, subito che apparí il dí, a
salire con certi ferramenti, tanto che si condusse insino alla
sommità del monte; donde scendendo, e con gli instrumenti di ferro
facilitando alcuni de' luoghi piú difficili, la notte seguente, per
la medesima scala, se ne ritornò agli alloggiamenti: dove fatto fede
potersi salire, ritornò la notte deputata per la medesima scala,
seguitandolo cento cinquanta fanti de' piú eletti; co' quali
fermatosi in sul dirupato, come fu l'alba del dí, perché era
impossibile salire di notte piú alto, cominciorno per quegli luoghi
strettissimi a salire uno a uno. Ed erano già montati alla sommità
del monte circa trenta di loro con uno tamburino e con sei insegne,
e occultatisi in terra aspettavano i compagni che montavano; ma
essendo dí alto, una guardia che partiva dal luogo suo gli vidde
cosí prostrati in terra, e avendo levato il romore, essi vedutisi
scoperti, non aspettati altrimenti i compagni, dettono il cenno come
erano convenuti a quegli del campo: i quali, secondo l'ordine dato,
assaltorono subito con molte scale il monte da molte parti, per
divertire quegli di dentro. I quali, correndo ciascuno a' luoghi
ordinati spaventati per vedere già dentro sei insegne che scorrevano
il piano del monte e avevano morto qualcuno di loro, si rinchiusono
nella fortezza, che è murata nel monte: dove essendo già saliti
degli altri dopo i primi, apersono la porta per la quale si entrava
in sul monte; per la quale entrati gli altri che ancora non erano
saliti, e cosí preso il monte, quegli che erano nella rocca, benché
la fusse bene proveduta di ogni cosa, si arrenderono il secondo dí.
Acquistato con l'armi quello stato, che insieme con Pesero e
Sinigaglia, membri separati dal ducato di Urbino, non era di entrata
di piú di venticinquemila ducati, Leone, seguitando il processo
cominciato, ne privò per sentenza Francesco Maria, e di poi ne
investí nel concistorio Lorenzo suo nipote; aggiugnendo, per
maggiore validità, alla bolla espedita sopra questo atto la
soscrizione della propria mano di tutti i cardinali. Co' quali non
volle concorrere Domenico Grimanno vescovo di Urbino, e molto amico
di quel duca: donde temendo lo sdegno del pontefice partí, pochi dí
poi, da Roma; né vi ritornò mai se non dopo la sua morte.
Era stata molesta al re di Francia l'oppressione del duca di Urbino,
spogliato per quel che aveva trattato seco: erangli piú moleste
molte opere del pontefice. Perché essendosi Prospero Colonna, quando
ritornava di Francia, fermato a Busseto terra de' Palavicini, e
dipoi per sospetto de' franzesi venuto a Modona, dove medesimamente
era rifuggito Ieronimo Morone, insospettito de' franzesi, che contro
alle promesse fatte gli aveano comandato che andasse in Francia,
trattavano continuamente, mentre che Prospero stette a Modona e poi
a Bologna, di occupare per mezzo di alcuni fuorusciti furtivamente
qualche luogo importante del ducato di Milano; concorrendo alle
medesime pratiche Muzio Colonna, a cui il pontefice, conscio di
queste cose, avea consentito alloggiamento per la compagnia sua nel
modonese. Aveva inoltre il pontefice confortato il re cattolico
(cosí dopo la morte dell'avolo materno si chiamava l'arciduca) che
non facesse nuove convenzioni col re di Francia; e appresso a'
svizzeri Ennio vescovo di Veroli nunzio apostolico, che poi quasi
decrepito fu promosso al cardinalato, oltre a molti altri offici
molesti al re confortava i cinque cantoni a seguitare l'amicizia di
Cesare. Onde trattandosi nel medesimo tempo tra Cesare, il quale
fermatosi tra Trento e Spruch spaventava piú i franzesi con le
dimostrazioni che con gli effetti, e il re di Inghilterra e i
svizzeri che di nuovo si assaltasse il ducato di Milano, temeva il
re di Francia che queste [cose] non si trattassino con volontà del
pontefice; del quale appariva anche in altro il malo animo, perché
con varie eccezioni interponeva difficoltà nel concedergli la decima
de' benefici del regno di Francia promessagli a Bologna. E nondimeno
(tanta è la maestà del pontificato) il re si ingegnava di placarlo
con molti offici: onde, volendo, dopo la partita di Cesare,
molestare, per trarne danari, la Mirandola, Carpi e Coreggio come
terre imperiali, se ne astenne per le querele del pontefice, che
prima avea ricevuti i signori di quelle terre in protezione; e
infestando i mori d'Affrica con molti legni il mare di sotto, gli
offerse di mandare, per sicurtà di quelle marine, molti legni che
Pietro Navarra armava a Marsilia di consentimento suo, per
assaltare, solo per la speranza di predare, con seimila fanti i liti
della Barberia. E nondimeno il pontefice, perseverando nella
sentenza sua, con tutto che parte negasse parte scusasse queste
cose, non consentí mai non che altro alla sua dimanda, fatta con
grande instanza, di rimuovere il vescovo verulano del paese de'
svizzeri; né mai rimosse Muzio Colonna del modonese, ove fingeva
essere alloggiato di propria autorità, se non quando, partito
Prospero da Bologna e rimaste vane tutte le cose che si trattavano,
non era piú di momento alcuno la stanza sua. Al quale fu
infelicissimo il partirsi, perché non molto poi, entrato con le
forze de' Colonnesi e con alcuni fanti spagnuoli furtivamente di
notte in Fermo, morí in spazio di pochi giorni d'una ferita ricevuta
la notte medesima mentre dava opera a saccheggiare quella città.
Lib.12, cap.22
Trattative fra il re di Francia e il re di Spagna. Milizie francesi
nel veronese e nel mantovano; rifiuto di fanti tedeschi del Lautrech
di assalire Verona. Accordi a Noion fra Francia e Spagna. Francesi e
veneziani contro Verona. Il Lautrech si ritira a Villafranca;
rinforzi in Verona. Pace fra Cesare e il re di Francia; accordi del
re cogli svizzeri. Verona ritorna ai veneziani.
In questo stato delle cose facendo il senato veneto instanza per la
ricuperazione di Verona, Lautrech, avendo nell'esercito seimila
fanti tedeschi i quali a questa impresa erano convenuti pagare i
viniziani, venne in sull'Adice per passare il fiume a Usolingo e
accamparsi insieme coll'esercito veneto a Verona; ma dipoi,
crescendo la fama della venuta de' svizzeri e per il sospetto della
stanza di Prospero Colonna in Modena, cresciuto per essersi fermato
nella medesima città il cardinale di Santa Maria in Portico, si
ritirò non senza querela de' viniziani a Peschiera, distribuite le
genti di qua e di là dal fiume del Mincio: nel quale luogo, con
tutto che fussino cessati i sospetti già detti e che di Verona
fussino passati agli stipendi veneti piú di dumila fanti tra
spagnuoli e tedeschi e continuamente ne passassino, soprastette piú
d'un mese, aspettando, secondo diceva, danari di Francia e che i
viniziani facessino provedimenti maggiori di danari di artiglierie e
munizioni. Ma la cagione piú vera era che aspettava quel che
succedesse delle cose che si trattavano tra 'l suo re e il re
cattolico. Perché il re di Francia, conoscendo quanto a quell'altro
re fusse necessaria la sua amicizia per rimuoversi le difficoltà del
passare in Ispagna e dello stabilimento di quegli regni, non
contento a quel che prima si era concordato a Parigi, cercava di
imporgli piú dure condizioni, e di pacificarsi per mezzo suo con
Cesare, il che non si poteva fare senza la restituzione di Verona a'
viniziani; e il re di Spagna per consiglio di [monsignore] di Ceures
con l'autorità del quale, essendo nell'età di quindici anni,
totalmente si reggeva, non recusava di accomodare a' tempi e alle
necessità le sue deliberazioni. Però erano congregati a Noion, per
la parte del re di Francia, il vescovo di Parigi il gran maestro
della sua casa e il presidente del parlamento di Parigi, e per la
parte del re cattolico il medesimo di Ceures e il gran cancelliere
di Cesare.
L'esito delle quali cose mentre che Lautrech aspetta, si
esercitavano continuamente, come è il costume della milizia del
nostro secolo, le armi contro agli infelici paesani: perché e
Lautrech, gittato il ponte alla villa di Monzambaino, attendeva a
tagliare le biade del contado di Verona e a fare correre per tutto i
cavalli leggieri, e avendo mandato una parte delle genti ad
alloggiare nel mantovano, distruggeva con gravissimi danni quel
paese, dalla quale molestia per liberarsi il marchese di Mantova fu
contento di pagargli dodicimila scudi; e i soldati di Verona,
correndo ogni dí nel vicentino e nel padovano, saccheggiorono la
misera città di Vicenza. Passò pur poi Lautrech, stimolato con
gravissime querele da' viniziani, l'Adice per il ponte gittato a
Usolingo, e fatta per il paese grandissima preda, perché non si era
mai creduto che l'esercito passasse da quella parte, si accostò a
Verona per porvi il campo; avendo in questo mezzo, con l'aiuto degli
uomini del paese, occupata la Chiusa, per fare piú difficile il
passare al soccorso che venisse di Germania. Ma il medesimo dí che
si accostò a Verona, i fanti tedeschi, o spontaneamente o subornati
da lui tacitamente, ancora che sostentati già tre mesi colle pecunie
de' viniziani, protestorno non volere, ove non era l'interesse
principale del re di Francia, andare all'espugnazione di una terra
posseduta da Cesare. Però Lautrech, ripassato l'Adice, si allontanò
uno miglio dalle mura di Verona; e l'esercito veneto, nel quale
erano cinquecento uomini d'arme cinquecento cavalli leggieri e
quattromila fanti, non gli parendo stare sicuro di là dal fiume,
andò a unirsi con lui.
Nel qual tempo i deputati de' due re convennero, il quintodecimo dí
di agosto, a Noion, in questa sentenza: che tra il re di Francia e
il re di Spagna fusse pace perpetua e confederazione, per difensione
degli stati loro contro a ciascuno: che il re di Francia desse la
figliuola, che era di età di uno anno, in matrimonio al re
cattolico, dandogli per dote le ragioni che pretendeva
appartenersegli al regno di Napoli, secondo la partigione già fatta
da' loro antecessori, ma con patto che insino che la figliuola non
fusse di età abile al matrimonio pagasse il re cattolico, per
sostentazione delle spese di lei, al re di Francia, ciascuno anno,
centomila scudi; la quale se moriva innanzi al matrimonio e al re ne
nascesse alcuna altra, quella con le medesime condizioni si desse al
re cattolico; e in caso non ve ne fusse alcuna, Renea, quella che
era stata promessa nella capitolazione fatta a Parigi; e morendo
qualunque di esse nel matrimonio senza figliuoli, ritornasse quella
parte del regno di Napoli al re di Francia: che il re cattolico
restituisse al re antico il reame di Navarra fra certo tempo, e non
lo restituendo fusse lecito al re di Francia aiutargliene
recuperare, ma, secondo che poi affermavano gli spagnuoli, se prima
quel re gli faceva constare delle sue ragioni: avesse Cesare facoltà
di entrare in termine di due mesi nella pace, ma quando bene vi
entrasse fusse lecito al re di Francia di aiutare i viniziani alla
recuperazione di Verona; la quale città se Cesare metteva in mano
del re cattolico, con facoltà di darla infra sei settimane libera al
re di Francia che ne potesse disporre ad arbitrio suo, gli avessino
a essere pagati da lui centomila scudi, e centomila altri, parte
nell'atto della consegnazione, parte fra sei mesi, da' viniziani, e
liberato di circa trecentomila avuti dal re Luigi quando erano
confederati; e che in tal caso fusse tregua per diciotto mesi tra
Cesare e i viniziani, e che a Cesare rimanesse Riva di Trento e
Rovereto con tutto quello che allora nel Friuli possedeva, e i
viniziani continuassero di tenere le castella che allora tenevano di
Cesare insino a tanto che il re di Francia e il re di Spagna
terminassero tra loro le differenze de' confini. Nominò l'una parte
e l'altra il pontefice.
Per la concordia fatta a Noion non cessorno i viniziani di stimolare
Lautrech che si ponesse il campo a Verona, perché erano incerti se
Cesare accetterebbe la pace e perché, per la quantità de' danari che
gli arebbono a pagare, desideravano il recuperarla piú presto con
l'armi. Da altra parte al re di Francia, per lo stabilimento della
pace con Cesare, era piú grata la concordia che la forza; e
nondimeno Lautrech, non gli rimanendo piú scusa alcuna, perché i
viniziani aveano copiosamente soldati fanti e fatto tutti i
provedimenti dimandati da lui, né i lanzchenech ricusavano piú di
andarvi insieme con gli altri, consentí alla volontà loro. Però gli
eserciti passorono separatamente il fiume dello Adice, l'uno per uno
ponte gittato di sopra alla città l'altro per uno ponte gittato di
sotto. Dell'artiglierie dell'esercito franzese, posto alla Tomba,
una parte si pose alla porta di Santa Lucia l'altra co' fanti
tedeschi alla porta di San Massimo per battere poi tutti ove il muro
tra la cittadella e la città si viene a congiugnere col muro della
terra; acciò che, potendo in uno tempo medesimo entrare nella
cittadella e nella città, quegli di dentro avessino necessità di
dividersi, per rispetto del muro di mezzo, in due parti. Passò
l'esercito viniziano di sotto a Verona in Campo Marzio, e si pose a
Santo Michele tra 'l fiume e il canale, per levare quivi le offese e
battere alla porta del Vescovo, parte piú debole e manco munita.
Levoronsi ne' primi due dí con l'artiglierie l'offese, che erano
assai forti e per fianco; ma con maggiore difficoltà si levorono,
dal canto de' viniziani, l'offese de' tre bastioni: le quali levate,
cominciò ciascuna delle parti a battere la muraglia con diciotto
pezzi grossi di artiglieria e quindici pezzi mezzani per batteria, e
il terzo dí erano da ciascuno degli eserciti gittate in terra
settanta braccia di muraglia e si continuava di battere per farsi
molto piú larga la strada; e nondimeno i viniziani, dalla parte de'
quali era la muraglia piú debole, ancora che avessino abbattuti
quasi tutti i bastioni e ripari, non avevano mai levato interamente
le offese di dentro per fianco, perché erano tanto basse, e quasi
nel fosso, che l'artiglierie o passavano di sopra o innanzi vi
arrivassino battevano in terra. Tagliavasi anche nel tempo medesimo
il muro co' picconi; il quale, con tutto che puntellato, anticipò di
cadere innanzi al tempo disegnato da' capitani. In Verona erano
ottocento cavalli cinquemila fanti tedeschi e [mille cinquecento]
spagnuoli sotto il governo di Marcantonio Colonna, non piú soldato
del pontefice ma di Cesare; i quali, attendendo a riparare
sollecitamente e provedendo e difendendo valorosamente per tutto
dove fusse necessario, dimostravano ferocia grande: con somma laude
di Marcantonio, il quale, ferito benché leggiermente da uno
scoppietto nella spalla, non cessava di rappresentarsi a qualunque
ora del dí e della notte, a tutte le fatiche e pericoli. Già
l'artiglierie piantate da' franzesi in quattro luoghi dove erano le
torri, tralla porta della cittadella e la porta di Santa Lucia,
aveano fatta ruina tale che ciascuna delle rotture era capace a
ricevere i soldati in ordinanza; né molto minore progresso avevano
fatto quelle de' viniziani: e nondimeno Lautrech dimandava nuove
artiglierie per fare la batteria maggiore, abbracciando prontamente,
benché reclamando invano i viniziani i quali stimolavano si desse la
battaglia, qualunque occasione che si offeriva di differire. Perché
era accaduto che, venendo per il piano di Verona allo esercito
ottocento bariglioni di polvere in sulle carra e molte munizioni, il
volere i conduttori de' buoi entrare l'uno innanzi all'altro gli
fece in modo accelerare che, per la collisione delle ruote suscitato
il fuoco, abbruciò la polvere insieme con le carra e co' buoi che la
conducevano. Ma agli assediati si aggiugneva un'altra difficoltà,
perché nella città, stata vessata dalla propinquità degli inimici
già tanti mesi, cominciavano a mancare le vettovaglie; non ve ne
entrando se non piccola quantità e occultamente per la via de'
monti. Stando le cose di Verona [in questo termine], sopravennono
[nove] mila fanti tedeschi mandati da Cesare per soccorrere quella
città; i quali pervenuti alla Chiusa l'ottennero per concordia, e
occuporno il castello della Corvara, passo in sul monte propinquo
all'Adice verso Trento, stato nella guerra tra Cesare e i viniziani
occupato dall'una parte e dall'altra piú volte. Per l'approssimarsi
di questi fanti, Lautrech, o temendo o simulando di temere, levato
il campo contro alla volontà de' viniziani, si ritirò a Villafranca
e con lui una parte delle genti viniziane, l'altre sotto Giampaolo
Manfrone si ritirorno al Boseto di là dall'Adice, col ponte
preparato: né si dubitando piú che aspettava se Cesare accettava la
concordia di Noion, come gli dava speranza uno mandato a lui dal re
cattolico, i viniziani, disperati dell'espugnare Verona, mandorno
tutte l'artiglierie grosse parte a Padova parte a Brescia. Dunque,
non avendo ostacolo, i fanti tedeschi si fermorono alla Tomba dove
prima alloggiava l'esercito franzese, donde una parte di loro entrò
nella città, l'altra, restata fuora, attendeva a mettervi
vettovaglie, le quali messe dentro si partirono; rimasti a guardia
di Verona sette in ottomila fanti tedeschi, perché la maggiore parte
degli spagnuoli, non potendo convenire co' tedeschi, era sotto il
colonnello Maldonato passata nel campo viniziano: soccorso, a
giudicio di ognuno, di piccolo momento, perché non condussono seco
altri danari che ventimila fiorini di Reno mandati dal re di
Inghilterra, e consumorono, mentre vi stettono, tante vettovaglie
che pareggiorono quasi la quantità di quelle vi condussono. Ridotte
le genti a Villafranca, dove consumavano il veronese e il mantovano,
furno necessitati i viniziani, (acciocché i soldati franzesi, i
quali il comandamento del re non bastava a ritenere, non se ne
andassino alle stanze) a provedere che la città di Brescia donasse
loro tutta la vettovaglia necessaria: spesa, ciascuno dí, di piú di
mille scudi.
Finalmente le cose cominciorono a riguardare manifestamente alla
pace, perché si intese che Cesare, con tutto che prima avesse
instantemente procurato col nipote che non convenisse col re di
Francia, anteposta ultimatamente la cupidità de' danari all'odio
naturale contro al nome franzese e agli antichi pensieri di dominare
Italia, aveva accettata e ratificata la pace; e deliberato di
restituire, secondo la forma di quelle convenzioni, Verona. Donde
seguitò un'altra cosa in beneficio del re di Francia: che tutti i
cantoni de' svizzeri, vedendo deporsi l'armi tra Cesare e lui, si
inclinorno a convenire seco, come prima avevano fatto i grigioni;
adoperandosi molto in questa cosa Galeazzo Visconte, il quale,
essendo esule e in contumacia del re, ottenne da lui per questo la
restituzione alla patria e in progresso di tempo molte grazie e
onori. La convenzione fu: che il re pagasse a' svizzeri, in termine
di tre mesi, trecento cinquantamila ducati, e dipoi in perpetuo
annua pensione: fussino obligati i svizzeri concedere, per publico
decreto, agli stipendi suoi, qualunque volta gli ricercasse, certo
numero di fanti; ma in questo procederono diversamente, perché gli
otto cantoni si obligorono a concedergli eziandio quando facesse
impresa per offendere gli stati di altri, i cinque cantoni non
altrimenti che per difesa degli stati propri: fusse in potestà de'
svizzeri di restituire al re di Francia le rocche di Lugano e di
Lucerna, passi forti e importanti alla sicurtà del ducato di Milano;
ed eleggendo il restituirle, dovesse il re pagare loro trecentomila
ducati. Le quali rocche, subito fatta la convenzione, gittorono in
terra.
Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento sedici. Ma
ne' primi dí dell'anno seguente, il vescovo di Trento venuto a
Verona offerse a Lautrech, col quale parlò tra Villafranca e Verona,
di consegnare al re di Francia, infra il termine di sei mesi
statuito nella capitolazione, quella città, la quale diceva tenere
in nome del re di Spagna: ma rimanendo la differenza se il termine
cominciava dal dí della ratificazione di Cesare o dal dí si era
riconosciuto Verona tenersi per il re cattolico, si disputò sopra
questo alquanti dí; ma il dimandare i fanti di Verona
tumultuosamente [denari] costrinse il vescovo di Trento ad
accelerare. Però, pigliando il principio del dí che Cesare gli avea
fatto il mandato, convenne consegnare Verona il quintodecimo dí di
gennaio: nel qual dí, ricevuti da viniziani i primi cinquantamila
ducati, e quindicimila che secondo la convenzione doveano pagare a'
fanti di Verona, e da Lautrech promessa di fare condurre a Trento
l'artiglierie che erano in Verona, consegnò a Lautrech quella città,
riceventela in nome del re di Francia; e Lautrech, immediate, in
nome del medesimo re, la consegnò al senato veneto, e per lui a
Andrea Gritti proveditore; rallegrandosi sommamente la nobiltà e il
popolo viniziano che di guerra sí lunga e sí pericolosa avessino,
benché dopo infinite spese e travagli, avuto felice fine. Perché,
secondo che affermano alcuni scrittori delle cose loro, spesono in
tutta la guerra fatta dopo la lega di Cambrai cinque milioni di
ducati; de' quali ne estrassono, della vendita degli offici,
cinquecentomila. Ma non meno si rallegravano i veronesi e tutte
l'altre città e popoli sottoposti alla loro republica; perché
speravano, riposandosi per beneficio della pace, aversi a liberare
da tante vessazioni e tanti mali, che cosí miserabilmente avevano,
ora da una parte ora dall'altra, tanto tempo sopportati.
Lib.13, cap.1
Vane speranze di pace e di quiete per l'Italia. Francesco Maria
della Rovere assolda milizie straniere per la riconquista del ducato
d'Urbino. Timori e sospetti del pontefice. Il pontefice e Lorenzo
de' Medici inviano soldati in Romagna. Liete accoglienze delle
popolazioni a Francesco Maria entrato nel ducato; riconquista di
Urbino. Tentativi contro Fano. Posizione di Pesaro.
Pareva che deposte l'armi tra Cesare e i viniziani, e rimosse dal re
di Francia l'occasioni di fare la guerra con Cesare e col re
cattolico, avesse Italia, vessata e conquassata da tanti mali, a
riposarsi per qualche anno: perché e i svizzeri, potente instrumento
a chi desiderasse turbare le cose, parevano ritornati nella amicizia
antica col re di Francia, non avendo per questo l'animo alieno dagli
altri príncipi; e nella concordia fatta a Noion si dimostrava tale
speranza che, per stabilire congiunzione maggiore tra i due re, si
trattava che insieme convenissino a Cambrai, dove per ordinare il
congresso loro erano andati innanzi Ceures, il gran maestro di
Francia e Rubertetto; e in Cesare non si dimostrava minore
prontezza, il quale oltre all'avere restituita Verona aveva mandato
al re di Francia due imbasciadori a confermare e a giurare la pace
fatta. Dunque, non senza giusta cagione si giudicava che la
concordia e la pace tra i príncipi tanto potenti avesse a spegnere
tutti i semi delle discordie e delle guerre italiane. E nondimeno, o
per la infelicità del fato nostro o perché, per essere Italia divisa
in tanti príncipi e in tanti stati, fusse quasi impossibile, per le
varie volontà e interessi di quegli che l'avevano in mano, che ella
non stesse sottoposta a continui travagli, ecco che appena deposte
l'armi tra Cesare e i viniziani, anzi non essendo ancora consegnata
la città di Verona, si scopersono princípi di nuovi tumulti, causati
da Francesco Maria dalla Rovere, il quale aveva sollevato i fanti
spagnuoli che avevano militato in Verona e nello esercito franzese e
viniziano intorno a quella città, che lo seguitassino alla
recuperazione degli stati, de' quali la state medesima era stato
cacciato dal pontefice: cosa persuasa con grandissima facilità,
perché a soldati forestieri, assuefatti nelle guerre a' sacchi delle
terre e alle prede e rapine de' paesi, nessuna cosa era piú molesta
che la pace alla quale vedevano disposte tutte le cose d'Italia.
Però deliberorno seguitarlo circa cinquemila fanti spagnuoli, de'
quali era il principale Maldonato, uomo della medesima nazione ed
esercitato in molte guerre; a' quali s'aggiunsono circa ottocento
cavalli leggieri sotto Federigo da Bozole, Gaioso spagnuolo, Zuchero
borgognone, Andrea Bua e Costantino Boccola albanese, tutti
condottieri esercitati e di nome non disprezzabile nelle armi: tra i
quali di riputazione molto maggiore, per la nobiltà della casa e per
i gradi che insino da tenera età aveva avuti nella milizia, era
Federigo da Gonzaga signore di Bozole, stato uno de' piú efficaci
instrumenti a persuadere questa unione, mosso non solamente per il
desiderio di accrescere con nuove guerre la fama sua nell'esercizio
dell'armi e per la amicizia grande che e' teneva con Francesco
Maria, ma ancora per l'odio che aveva contro a Lorenzo de' Medici;
perché quando in Lorenzo de' Medici fu trasferita, per la infermità
di Giuliano suo zio, l'autorità di tutte l'armi della Chiesa e de'
fiorentini, gli avea denegato il capitanato generale delle fanterie
concedutogli prima da Giuliano. Questo esercito adunque, da essere
stimato per la virtú molto piú che per il numero o per gli apparati
che avessino di sostentare la guerra (perché non avevano né danari
né artiglierie né munizioni né, da cavalli e armi in fuora, alcuna
di quelle tante provisioni che sogliono seguitare gli eserciti), si
partí per andare nello stato d'Urbino, il dí medesimo che a'
viniziani fu consegnata la città di Verona.
Della quale cosa, come fu sentita dal pontefice, ne ricevé
grandissima perturbazione: perché considerava la qualità dello
esercito, formidabile per l'odio de' capitani e per la virtú e
riputazione de' fanti spagnuoli: sapeva la inclinazione che avevano
i popoli di quel ducato a Francesco Maria, per essere stati
lungamente sotto il governo mansueto della casa da Montefeltro,
l'affezione della quale avevano trasferita in lui, nutrito in quello
stato e nato di una sorella del duca Guido. Dava, oltre a questo,
molestia grandissima al pontefice l'avere a fare la guerra con uno
esercito che, senza potere perdere cosa alcuna, si moveva solamente
per desiderio di prede e di rapine; per la dolcezza delle quali
temeva che molti soldati, restati per la pace fatta senza guadagni,
non si unissino con loro. Ma quello che sopra tutto tormentava
l'animo suo era il sospetto che questo movimento non fusse con
partecipazione del re di Francia. Perché, oltre al sapere essergli
stata molesta la guerra fatta contro a Francesco Maria, era conscio
a se medesimo quante cagioni avesse date a quel re di essere
malcontento di lui: per non gli avere osservato nella passata di
Cesare la confederazione fatta dopo l'acquisto di Milano; per
avergli, poi che fu ritornato a Roma, mandata una bolla sopra la
collazione de' benefici del regno di Francia e del ducato di Milano
di tenore diverso dalla convenzione che n'aveva fatta in Bologna (la
quale per la brevità del tempo non era stata sottoscritta), la quale
il re sdegnato recusò d'accettare; per le cose trattate occultamente
con gli altri príncipi e con i svizzeri contro a lui; per avere poco
innanzi, desiderando di impedire direttamente la recuperazione di
Verona, permesso che i fanti spagnuoli che da Napoli andavano a
soccorrerla passassino separatamente per lo stato della Chiesa,
scusandosi non volere dare loro causa di passare uniti perché non
era sufficiente a impedirgli; non avere, secondo le promesse fatte a
Bologna, concedutagli la decima se non con implicate condizioni; non
restituito le terre al duca di Ferrara. Le quali ragioni gli davano
giustissima causa di sospettare della volontà del re, ma gli pareva
anche vederne certi indizi; perché essendo stata questa sollevazione
ordinata intorno a Verona, era impossibile non fusse venuta molti dí
innanzi a notizia di Lautrech, e avendolo taciuto si poteva
prosumere del consenso suo. A che si aggiugneva che Federigo da
Bozole era stato insino a quello dí agli stipendi del re, ma non si
sapeva essere vero quello che in escusazione sua affermava Lautrech,
che fusse finita la sua condotta. Dubitava ancora il pontefice della
volontà de' viniziani, i proveditori de' quali si diceva essersi
affaticati in fare questa unione; essendo quello senato, per la
memoria delle cose passate, male sodisfatto di lui né contento della
grandezza sua, perché succeduto in tanta potenza e riputazione del
pontificato disponeva dello stato de' fiorentini ad arbitrio suo.
Spaventavanlo queste cose, ma non lo confortava già né gli dava
speranza la confidenza o congiunzione che avesse con gli altri
príncipi: perché, oltre a essersi nuovamente o pacificati o
confederati col re di Francia, non era stato grato ad alcuno il modo
del procedere suo con occulti consigli e artifici; ne' quali, se
bene fusse stato inclinato alla parte loro, nondimeno, andando
renitente allo scoprirsi e lentamente a mettere in effetto le
intenzioni o le promesse fatte loro, aveva sodisfatto poco a
ciascuno; anzi, temendo spesse volte di tutti, aveva poco innanzi
mandato frate Niccolò tedesco, secretario del cardinale de' Medici,
al re cattolico per divertirlo dallo abboccamento che si trattava
col re di Francia, dubitando che tra essi non si facesse maggiore
congiunzione in pregiudicio suo.
In questa sospensione di animo non cessavano né Lorenzo suo nipote
né lui di mandare continuamente gente in Romagna, parte di fanti che
si soldavano di nuovo parte di battaglioni dell'ordinanza
fiorentina; acciocché uniti con Renzo da Ceri e con Vitello, i quali
erano con le loro genti d'arme a Ravenna, facessino resistenza al
transito degli inimici. Ma essi, passato Po a Ostia, prevenendo con
la celerità loro gli apparati degli altri, erano per la via di Cento
e di Butrio, attraversato il contado di Bologna, entrati nelle terre
sottoposte al duca di Ferrara. Da' quali luoghi, saccheggiato
Granarolo castello del faventino, si accostorono a Faenza per
tentare se, per nome di uno giovane de' Manfredi che era in quello
esercito, facessino i faventini qualche mutazione; ma non si movendo
dentro cosa alcuna passorono piú oltre, senza tentare alcuna altra
delle terre di Romagna, nelle quali tutte erano a guardia o genti
d'arme o fanterie: e per meglio assicurarsi di Rimini, Renzo e
Vitello vi erano andati per mare. Venne e Lorenzo a Cesena per
raccorre quivi e a Rimini le sue genti, ma essendo già passati gli
inimici; né cessava in questo mezzo di soldare genti in molti
luoghi, le quali gli abbondorno sopra la volontà e consiglio suo;
perché partendosi da Lautrech, per ritornarsene alle case loro,
dumila cinquecento fanti tedeschi e piú di quattromila guasconi,
Giovanni da Poppi secretario di Lorenzo, stato per lui piú mesi
appresso a Lautrech, o essendosi vanamente lasciato mettere sospetto
che questa fanteria, non avendo stipendio da altri, seguiterebbe
Francesco Maria o persuadendosi leggiermente che con queste forze si
otterrebbe presto la vittoria, gli condusse di propria autorità,
usando l'autorità di Lautrech co' capitani; e gli voltò subito verso
Bologna: di maniera che al pontefice e a Lorenzo, a' quali, per il
sospetto che aveano del re, fu questa cosa molestissima, non rimase
luogo di recusargli; temendo che, poi che erano venuti tanto
innanzi, non andassino a unirsi cogli inimici.
Procedeva in questo mezzo Francesco Maria, ed entrato nello stato
d'Urbino era ricevuto per tutto con letizia grande de' popoli, non
essendo nelle terre soldato alcuno; perché Lorenzo, non avendo avuto
tempo a provedere in tanti luoghi, aveva solamente pensato alla
difesa della città di Urbino, sedia e capo principale di quel
ducato. Perciò per consiglio di Vitello v'avea mandato duemila fanti
da Città di Castello, e in luogo di Vitello, che ricusò di andarvi,
Iacopo Rossetto da Città di Castello: il quale, consigliando molti
che, essendo il popolo sospettissimo, si cacciassero della città
tutti coloro che erano abili a portare arme, ricusò di farlo.
Voltossi adunque Francesco Maria, non perduto tempo altrove, a
Urbino; e se bene la prima volta che si accostò alle mura fusse vano
il conato suo, nondimeno la seconda volta che vi si accostò, Iacopo
Rossetto convenne di dargli la terra, mosso o da infedeltà, come
molti credevono, o da timore, per essere il popolo tutto sollevato;
perché delle forze sole degli inimici, che non aveano né artiglierie
né apparati da spugnare terre, non avea causa di temere. Uscirno,
secondo le convenzioni, i soldati salvi con le robe loro: il vescovo
Vitello, che in nome del nuovo duca governava quello stato, e sotto
il quale pareva che niuna cosa succedesse mai prosperamente, rimase
prigione. Seguitò l'esempio di Urbino, da Santo Leo in fuora, che
per il sito munitissimo con piccolo presidio si difendeva, tutto il
ducato. La città di Agobbio, che da principio avea chiamato il nome
di Francesco Maria, e di poi, pentendosi, ritornata alla ubbidienza
di Lorenzo, veduti i successi tanto prosperi, fece il medesimo che
l'altre. Rimanevano in potestà di Lorenzo Pesero, Sinigaglia,
Gradara e Mondaino, terre separate dal ducato.
Ricuperato Urbino, voltò Francesco Maria l'animo a insignorirsi di
qualche luogo posto in sulla marina; e perché in Pesero e in
Sinigaglia erano entrati molti soldati, fatta dimostrazione di
andare a Pesero, si mosse verso Fano, piú facile per l'ordinario a
espugnare, e della quale città, non essendo mai stata dominata da
lui, meno si temeva: ma Renzo da Ceri che era a Pesero, avuta
notizia de' suoi pensieri, vi mandò subito Troilo Savello con cento
uomini d'arme e con seicento fanti. Accostoronsi gli inimici con
cinque pezzi di artiglieria non molto grossa, li quali aveano
trovati in Urbino; e avendo anche carestia di polvere non gittorno
in terra piú che circa venti braccia di muro, né queste senza
difficoltà; pure dettono la battaglia, nella quale perderono circa
cento cinquanta uomini. Non spaventati da questo, assaltorno di
nuovo il dí seguente, e con tanto valore che l'apertura della
muraglia fu quasi abbandonata; ed entravano senza dubbio se non
fusse stata la virtú di Fabiano da Gallese luogotenente di Troilo,
il quale rimasto alla muraglia con pochi uomini d'arme, facendo
maravigliosa difesa, gli sostenne. Arebbono il dí seguente data
un'altra battaglia, ma inteso che la notte vi erano entrati per mare
da Pesero cinquecento fanti, si levorno e andorno ad alloggiare al
castello di Monte Baroccio posto in su uno monte molto alto e di
sito munitissimo, donde è facile la scesa verso Fossombrone e
Urbino, difficile e asprissima verso Pesero; nel qual luogo stando,
poi che non avevano per allora alcuna opportuna occasione,
guardavano il ducato di Urbino che rimaneva loro alle spalle. Da
altra parte essendo venuti a Rimini, ove era Lorenzo de' Medici, i
fanti tedeschi e guasconi, soldato oltre a questo moltissimi fanti
italiani e mille cinquecento altri fanti tedeschi, di quegli che
erano stati alla difesa di Verona, e raccolta insieme quasi tutta la
cavalleria del pontefice e de' fiorentini, Lorenzo, il quale
inesperto della guerra si reggeva col consiglio de' capitani, venuto
con le genti d'arme a Pesero, mandò ad alloggiare i fanti ne' monti
oppositi agli inimici.
È la città di Pesero situata in sulla bocca d'una vallata che viene
di verso Urbino, della quale uscendo il fiume che dagli abitatori è
chiamato Porto, perché per la profondità sua entrano in quello luogo
le barche, si accosta alla città dalla parte di verso Rimini: la
rocca è di verso il mare, e tra il fiume e la città sono molti
magazzini; i quali Renzo, per la sicurtà della terra, aveva
rovinati. Circondano parte grande della città monti da ogni parte, i
quali non si distendono insino al mare ma tra loro e il mare resta
qualche spazio di pianura, la quale dalla parte di verso Fano si
allarga circa due miglia; e in sulla collina sono due monti rilevati
l'uno a rincontro dell'altro: quello che è di verso la marina si
chiama Candelara, l'altro di verso Urbino Nugolara; e nella sommità
di ciascuno d'essi è uno castello del medesimo nome che ha il monte.
Alloggiorno adunque i fanti italiani al castello di Candelara, i
tedeschi e guasconi a quello di Nugolara, piú vicino agli inimici.
Né si faceva questo con intenzione di combattere, se non con
leggiere scaramuccie, con loro ma per impedirgli che non vagassino
per il paese liberamente se si determinassero a fare impresa alcuna;
perché il consiglio del pontefice era che, ove non gli tirasse la
speranza quasi certa della vittoria, non si facesse battaglia
giudicata con gli inimici, conoscendo pericoloso il combattere con
soldati valorosi e, per essere ineguale il premio della prosperità,
facili ad avventurarsi; dannosissimo l'essere vinto il suo esercito,
perché si metteva in pericolo manifesto lo stato della Chiesa e de'
fiorentini; e sicuro il temporeggiare attendendo a difendersi,
potendosi con evidenti ragioni sperare che il mancamento de' danari
e delle vettovaglie, in paese tanto sterile, avesse a disordinargli,
né meno perché l'esercito suo, per l'esperienza e perché di mese in
mese si empieva di soldati piú eletti, diventava migliore, e perché
sperava doversi augumentare di dí in dí le cose sue.
Lib.13, cap.2
Lamentele del pontefice coi príncipi e richieste di aiuti. Risposte
diverse dei príncipi al pontefice, e nuova convenzione di questo col
re di Francia. Patti stabiliti nella convenzione.
Conciossiaché, nel principio di questo movimento, procurando di
aiutarsi eziandio con l'autorità pontificale, avesse istantemente
dimandato aiuto da tutti i príncipi, querelandosi con gli oratori
loro che erano in Roma e, per brevi apostolici e per messi, co'
príncipi medesimi. Ma [non] con tutti nel modo medesimo: perché
significando a Cesare e al re di Spagna la cospirazione fatta da
Francesco Maria dalla Rovere e da' fanti spagnuoli, nel campo del re
di Francia e in su gli occhi del suo luogotenente, inserí ne' brevi
tali parole che si poteva comprendere avere non piccola dubitazione
che queste cose fussino state ordinate con saputa di quel re; ma col
re cristianissimo, dimostrando qualche sospetto di Lautrech, non
passorno piú oltre le sue querele.
Fu questa cosa da' príncipi predetti accettata diversamente. Perché
Cesare e il nipote intesono molto lietamente che il pontefice
riputasse questa ingiuria dal re di Francia; conciossiaché Cesare,
alienandosi già, per l'odio antico e per la sua incostanza, dal re
di Francia, si era confederato di nuovo col re di Inghilterra, e
convenuto col nipote appresso ad Anversa l'aveva confortato a non si
abboccare col re di Francia, il che finalmente fu intermesso con
consentimento dell'uno e dell'altro re; e nel re di Spagna non
bastava a cancellare l'emulazione e il sospetto la confederazione
fatta con lui. Però offersono al pontefice prontamente l'opera loro,
comandorno a tutti i loro sudditi che si partissino dalla guerra che
si faceva contro al pontefice; e il re cattolico mandò il conte di
Potenza nel regno di Napoli perché, riordinate le genti d'arme,
conducesse quattrocento lancie in aiuto suo, e per maggiore
testimonianza della sua volontà, spogliò come inobbediente Francesco
Maria del ducato di Sora, il quale comperato dal padre possedeva ne'
confini di Terra di Lavoro. Ma al re di Francia furno grati per
altra cagione gli affanni del pontefice, come di principe che avesse
l'animo alieno da lui: però nel principio, seguitando l'esempio suo,
deliberando nutrirlo con vane speranze, rispondeva averne ricevuto
molestia grande promettendo di operare che Lautrech darebbe favore
alle cose sue; soggiugnendo nondimeno che il pontefice pativa di
quel che era stato causato da se medesimo, perché gli spagnuoli non
arebbono avuto tanto ardire se non fusse cresciuto il numero loro,
per quegli che con licenza sua erano passati da Napoli a Verona.
Questa fu da principio la intenzione del re. Ma dipoi, considerando
che il pontefice abbandonato da lui precipiterebbe senza alcuno
freno alla amicizia del re di Spagna, deliberò di dargli favore; ma
traendo nel tempo medesimo qualche frutto delle sue necessità. Però,
ricercandolo il pontefice di aiuto, ordinò che da Milano vi
andassino trecento lancie; e insieme propose doversi fare nuova
confederazione tra loro, perché quella che era stata fatta a
Bologna, essendo stata violata dal pontefice in molti modi, non era
piú di alcuna considerazione. Aggiugneva alle offerte molte querele:
perché ora si lamentava che il pontefice gli desse carico appresso
agli altri príncipi; ora che, per fare ingiuria a sé e cosa grata al
cardinale sedunense, avesse scomunicato Giorgio Soprasasso, il quale
favoriva ne' svizzeri le cose sue. Oltre a questo, la reggente,
madre del re e appresso a lui di grande autorità, riprendeva senza
rispetto la empietà del pontefice, che non gli bastando l'avere
cacciato uno principe dello stato proprio l'avesse poi ancora tenuto
sottoposto alle censure, e denegando dare le doti o gli alimenti di
quelle alla duchessa vedova e alla duchessa giovane sua moglie,
fusse cagione che elle non avessino modo di sostentarsi: le quali
parole ritornando agli orecchi del pontefice gli augumentavano il
sospetto. Ma costituito in tante difficoltà, e desiderando gli aiuti
suoi non per l'effetto ma per la riputazione e per il nome, le
trecento lancie, partite sotto... di Sise da Milano, furno fatte dal
pontefice, che non poteva dissimulare il sospetto, soprasedere molti
dí nel modonese e nel bolognese, e poi da Lorenzo fatte fermare a
Rimini: perché essendo quella città lontana agli inimici aveano,
stando quivi, minore facoltà di nuocergli. Né si alleggierirono
questi sospetti per la confederazione, la quale, quasi in questo
tempo medesimo, si conchiuse in Roma; perché il re, innanzi
ratificasse, fece nuove difficoltà per le quali la cosa stette
sospesa molti dí. Finalmente, cedendo a molte cose il pontefice, il
re ratificò.
Contenne la confederazione obligazione reciproca tra 'l pontefice e
il re a difesa degli stati loro con certo numero di gente, e di
dodicimila ducati per ciascuno mese: che tra il re di Francia e i
fiorentini, co' quali si congiugneva l'autorità di Lorenzo de'
Medici con inclusione del ducato di Urbino, fusse la medesima
obligazione, ma con minore numero di genti, e di seimila ducati per
ciascuno mese: fusse tenuto il re ad aiutare il pontefice quando
volesse procedere contro a' sudditi e feudatari della Chiesa. Al re
fu conceduta la nominazione de' benefici e la decima, secondo le
promesse fatte a Bologna, con patto che si deponessino i danari per
spendergli contro a' turchi (concedevasi sotto l'onestà di questo
colore la decima) ma con tacita speranza data al re che, fatto il
diposito di tutta la quantità, licenziata per un altro breve la
condizione apposta, si convertissino liberamente in uso del re.
Promesse il pontefice al re, per uno breve separato, di non lo
richiedere mai di aiuto contro al duca di Ferrara, anzi essere
contento che il re lo ricevesse nella sua protezione. Lunga
altercazione fu sopra la restituzione di Reggio, Modona e Rubiera,
dimandata con somma instanza dal re secondo le promesse ricevute a
Bologna, né dal pontefice dinegata ma riservata ad altro tempo,
allegando essergli molto indegno, e quasi confessione di ultima
necessità, il restituirle quando era oppressato dalla guerra; e il
re facendo instanza ch'elle si restituissino di presente.
All'ultimo, dimostrandosi grande, se piú volesse strignerlo,
l'alterazione del pontefice, ed essendo al re inimico il re di
Inghilterra, sospetti Cesare il re di Spagna e i svizzeri, accettò
che il pontefice, per uno breve il quale fusse consegnato a lui,
promettesse di restituire al duca di Ferrara Modena, Reggio e
Rubiera infra sette mesi prossimi: avendo il pontefice nell'animo,
se prima cessavano i suoi pericoli, non fare maggiore stimazione del
breve che delle parole dette in Bologna; e al re, poi che senza
pericolo di grandissima indegnazione non poteva piú ottenere,
parendo pure di qualche momento che le promesse e la fede
apparissino per iscrittura.
Lib.13, cap.3
Scorrerie dell'esercito di Lorenzo nel territorio del ducato.
Ambasciatore di Francesco Maria trattenuto prigione da Lorenzo.
Efficienza dell'esercito di Lorenzo. Fossombrone e il Vicariato.
Prima occasione di buon successo perduta dall'esercito di Lorenzo.
Ma mentre che queste cose si trattavano, essendo augumentato assai
l'esercito di Lorenzo, perché oltre a molti, soldati di nuovo da
lui, il pontefice aveva soldato a Roma mille fanti spagnuoli e mille
tedeschi, pareva fusse già maturo il tempo di tentare di liberarsi
da questa guerra; alla qual cosa, per la fortezza dello
alloggiamento degli inimici, era unica speranza il costringerli, per
la penuria delle vettovaglie, a partirsi: però fu mandato Cammillo
Orsino con settecento cavalli leggieri a scorrere il paese che si
dice il Vicariato, le vettovaglie del quale per la maggior parte gli
sostentavano.
Nel qual tempo, per uno trombetto venuto a Pesero dell'esercito
inimico, fu domandato a Lorenzo salvocondotto per il quale potesse
venire a lui il capitano Suares spagnuolo e uno altro, che non si
nominava, in sua compagnia; il quale Lorenzo facilmente concedette,
credendo fusse uno capitano col quale aveva secreta intelligenza. Ma
venne uno altro capitano del medesimo nome, e con lui Orazio da
Fermo secretario di Francesco Maria; e dimandata publica udienza,
Suares offerse in nome di Francesco Maria che, potendosi decidere le
differenze con abbattimento a corpo a corpo o di determinato numero
con ciascuno di loro, era più conveniente eleggere uno di questi
modi che perseverare in quella via, per la quale si distruggevano
empiamente i popoli e in pregiudicio di qualunque ne avesse a essere
signore; però Francesco Maria offerire quale più gli piacesse di
questi modi. Dopo le quali parole, volendo leggere la scrittura che
aveva in mano gli fu proibito. Rispose Lorenzo, con consiglio de'
suoi capitani, che volentieri accettava questa proposta purché
Francesco Maria lasciasse prima quel che violentemente gli aveva
occupato: dopo le quali parole, stimolato da Renzo da Ceri, gli fece
amendue incarcerare; perché Renzo affermava meritare punizione per
avere fatto uno atto troppo insolente. Ma riprendendosi la
violazione della fede dagli altri capitani, liberato Suares, ritenne
solamente Orazio; scusando la infamia della fede rotta con false
cavillazioni, come se fusse stato necessario nominare espressamente
nel salvocondotto Orazio, suddito per origine della Chiesa e
secretario dello inimico: ma si faceva per intendere da lui i
secreti di Francesco Maria, e specialmente con consiglio o per la
autorità di chi avesse mossa la guerra. Sopra le quali cose
esaminato con tormenti, si divulgò la confessione sua essere stata
tale che avea augumentato il sospetto conceputo del re di Francia.
Ma il desiderio di Lorenzo, di impedire agli spagnuoli le
vettovaglie del Vicariato, avea bisogno di sforzo maggiore, perché
dalle correrie de' cavalli leggieri non succedevano se non effetti
di piccolo momento; e già l'esercito era tale che poteva arditamente
opporsi agli inimici, perché avea raccolti Lorenzo, oltre a mille
uomini d'arme e mille cavalli leggieri, quindicimila fanti di varie
nazioni, tra i quali erano più di dumila spagnuoli soldati a Roma;
fanteria tutta esercitata nell'armi e molto eletta, perché i fanti
italiani, non si facendo guerra in altro luogo e perché i capitani
aveano avuto comodità di permutare di mano in mano in fanti più
utili la piena degli inutili raccolta al primo stipendio
tumultuariamente, erano il fiore de' fanti di tutta Italia.
Deliberossi adunque di andare ad alloggiare a Sorbolungo, castello
del contado di Fano distante cinque miglia da Fossombrone, dal quale
alloggiamento le vettovaglie del Vicariato facilmente si impedivano
agli inimici.
È la città di Fossombrone situata in sul fiume del Metro, fiume
famoso per la vittoria de' romani contro ad Asdrubale cartaginese;
il quale fiume, avendo corso insino a quello luogo per alveo
ristretto tra' monti, come ha passato Fossombrone comincia a correre
per una vallata più larga; la quale tanto più si dilata quanto più
si appropinqua al mare, distante da Fossombrone quindici miglia, nel
quale entra il Metro appresso a Fano, ma dalla parte di verso
Sinigaglia. Da mano destra, secondo il corso del fiume, è quel paese
che si denomina il Vicariato, pieno tutto di colline fertili e di
castella, il quale si distende per lungo spazio verso la Marca; e
dalla mano sinistra del fiume sono eziandio colline, ma
allontanandosi si trovano monti alti e aspri; e lo spazio della
pianura che si distende verso Fano è largo più di tre miglia.
Quando adunque Lorenzo deliberò di andare ad alloggiare a
Sorbolungo, dubitando che gli inimici, sentendo muoversi il campo
suo non prevenissino, mandò la mattina innanzi giorno a pigliare il
castello Giovanni de' Medici Giovambattista da Stabbia e Brunoro da
Furlì con quattrocento cavalli leggieri; e ordinato a' fanti che
erano a Candelara e Nugolara che attraversando i monti andassino per
unirsi con gli altri verso il Metro, egli con tutto il rimanente
dell'esercito, lasciato Guido Rangone alla guardia di Pesero con
cento cinquanta uomini d'arme, a levata di sole prese il cammino da
Pesero verso Fano per il lito della marina, e voltatosi verso
Fossombrone, dove comincia la valle, arrivò a mezzodì a uno luogo
detto il mulino di Madonna in sul fiume, il quale tutti i cavalli e
i fanti italiani guadorono: ma i guasconi e i tedeschi passorno
tanto tardamente per il ponte preparato a questo che, non potendo
l'esercito condursi il dì medesimo, secondo la deliberazione fatta,
a Sorbolungo, fu necessario che alloggiassino a San Giorgio, Orciano
e Mondavio, castelli distanti mezzo miglio l'uno dall'altro. Ma non
ebbe migliore fortuna quello che era stato commesso a' cavalli
leggieri; perché parendo, nel camminare, a Giovanni de' Medici (nel
quale in questa sua prima esercitazione della milizia apparivano
segni della futura ferocia e virtù) che per errore si pigliasse la
via più lunga, abbandonati gli altri i quali disprezzorono il
consiglio suo, entrò, più ore innanzi che sopravenisse la notte, in
Sorbolungo; gli altri due capitani, dopo lungo circuito, ingannati
secondo dicevano dalla guida, ritornorno finalmente all'esercito. Né
potette Giovanni de' Medici rimasto con la sua compagnia sola
fermarsi la notte in Sorbolungo, perché la mattina medesima
Francesco Maria, presentita la mossa degli inimici, immaginando dove
andassino, si era con grandissima celerità mosso con tutto
l'esercito; il quale non ricevendo impedimento dal transito del
fiume, perché lo passorno a Fossombrone dove è il ponte di pietra,
pervenne innanzi fusse la notte a Sorbolungo; per la venuta de'
quali Giovanni, vedendosi impotente a resistere, si ritirò verso
Orciano, seguitandolo i cavalli degli inimici da' quali furno presi
molti de' suoi. A Orciano, entrato nell'alloggiamento di Lorenzo,
disse a lui, con grandissima indegnazione, o la negligenza o la
viltà di Brunoro e di Giovambatista da Stabbia, i quali erano
presenti, avergli tolta quel dì la vittoria della guerra. Questa fu
la prima ma non già sola occasione di prospero successo che perdesse
l'esercito di Lorenzo, perché e di poi ne perdé dell'altre maggiori;
e seguitorono continuamente più perniciosi disordini,
accompagnandosi con la fortuna avversa i cattivi consigli.
Lib.13, cap.4
Ritirata dell'esercito di Lorenzo verso Monte Baroccio; scaramuccie
coi nemici, che li prevengono nell'occupazione del luogo. Posizione
dei due eserciti. Nuovo spostarsi dell'esercito di Lorenzo. Presa di
San Gostanzo. L'esercito di Lorenzo sotto Mondolfo; ferita di
Lorenzo. Resa del castello.
Le castella di Orciano e Sorbolungo, poste in luogo eminente, sono
distanti l'uno dall'altro poco piú di due miglia; nel mezzo sono
tutte colline e monticelli, e uno castello chiamato Barti, dove era
alloggiata parte della gente di Francesco Maria: nella quale
propinquità degli eserciti si attese tutto il dí seguente a
scaramucciare. Vari erano i consigli tra i capitani dell'esercito di
Lorenzo: perché alcuni, e quegli massime dalla sentenza de' quali
non pendeva la deliberazione, confortavano che si andasse ad
assaltare gli inimici, parendo forse loro, senza mettere né sé né
altri a pericolo, col proporre vanamente consigli arditi acquistare
nome di coraggiosi; ma Renzo e Vitello, il parere de' quali era
sempre seguitato da Lorenzo, dissuaseno questo consiglio, perché gli
inimici erano alloggiati in sito forte, avevano il castello a
ridosso dove non poteva andarsi se non per cammino difficile:
dannando ancora il soprasedere in quegli luoghi come cosa inutile e
da non partorire l'effetto per il quale si erano mossi da Pesero;
perché essendo Sorbolungo in potestà di Francesco Maria, era molto
difficile impedire le vettovaglie del Vicariato. Con le quali
ragioni, avendo dannata ogn'altra deliberazione, ottenevano per
necessità che si dovesse ritornare indietro. E perché la ritirata
non avesse similitudine di fuga, proponevano non che l'esercito
ritornasse agli alloggiamenti di prima ma che si andasse a occupare
Montebaroccio e i luoghi da' quali si erano partiti gli inimici,
donde si poteva procedere inverso Urbino. Con la quale deliberazione
partí lo esercito la mattina seguente al fare del dí, ma si credeva
questa essere non ritirata ma fuga. Dalla quale opinione, divulgata
per tutto il campo, procedette che due uomini d'arme fuggiti a
Francesco Maria gli riferirono gli inimici pieni di spavento levarsi
quasi fuggendo. Però parendogli d'avere la vittoria quasi certa,
mosse subito l'esercito per il cammino a traverso de' monti,
sperando di pervenire a loro come fussino calati nella pianura; i
quali credeva dovessino andare per la via piú breve e piú facile:
per la quale se andavano, non poteva né l'una parte né l'altra
fuggire il combattere. Ma la fortuna volle che per salvare un
cannone, rimasto indietro il dí dinanzi perché alla carretta si era
rotta una ruota, l'esercito di Lorenzo andasse a ripassare il Metro
al medesimo Mulino di Madonna, luogo piú basso piú di quattro miglia
che quello al quale lo conduceva la strada piú facile e piú breve.
Da cause e da accidenti tanto piccoli si variano nelle guerre eventi
di grandissimo momento! Passorono tutti i cavalli e i fanti a guazzo
ma con grandissima tardità, e quegli che erano passati si voltavano
subito in ordinanza per il piano verso Fossombrone. Era già passata
tutta la fanteria; e dovendo passare le genti d'arme e i cavalli
leggieri che camminavano nell'ultima parte del campo, cominciorono i
cavalli leggieri degli inimici, che erano molti ed eletti, a
scaramucciare con loro: nella quale scaramuccia fu preso Gostantino,
figliuolo, anzi non manco nipote che figliuolo, di Giampaolo
Baglione, perché era nato di lui e d'una sorella sua. Però
Giampaolo, il quale venuto non molti dí prima all'esercito conduceva
l'avanguardia, attendendo a fare ogni sforzo per recuperarlo, tardò
tanto che di avanguardia diventò retroguardo, succedendo nel primo
luogo Lorenzo che menava la battaglia, e nel luogo della battaglia
Troilo Savello che menava il retroguardo; perché Renzo e Vitello
andavano innanzi co' fanti. Ma come Francesco Maria e i suoi
capitani veddono che gli inimici, secondo che avevano passato il
fiume, si voltavano verso Fossombrone, si accorsono non essersi
mossi per fuggire ma per occupare il Monte Baroccio: però cessando
la cupidità prima del combattere, fondata in sul terrore immaginato
degli inimici, lasciate le bagaglie, corseno subito con somma
celerità, senza ordine alcuno e con le bandiere in su le spalle, per
occupare uno passo forte del fiume chiamato le Tavernelle, dove la
natura ha fatto uno fossato dirupato che piglia tutto il traverso
d'uno piano insino al monte, né si può passare se non a uno passo
che è fatto per la strada; al quale se gli inimici, che secondo
passavano si voltavano a quella parte, fussino prevenuti, si
riducevano in manifestissimo pericolo. E benché Lodovico figliuolo
di Liverotto da Fermo il quale il dí medesimo era con mille fanti
venuto nell'esercito di Lorenzo, e uno sergente spagnuolo, pratichi
del paese, ne avvertissino Lorenzo e i suoi capitani, non feciono
frutto alcuno; perché con tutto che i fanti tedeschi e guasconi si
dimostrassino prontissimi a combattere, il medesimo si gridasse per
tutto il campo, e apparisse Lorenzo non ne essere alieno, nondimeno
Renzo da Ceri e Vitello consigliorno non essere bene farsi incontro
agli inimici ma doversi ritirare a uno colle vicino, donde senza
sottoporsi ad alcuno pericolo farebbono loro, nel passare il fiume,
co' cavalli espediti, danno gravissimo. Cosí, lasciato quel passo
forte, Renzo si voltò verso il monte, e gli spagnuoli, come ebbono
occupato quel passo, salutati con gli archibusi i tedeschi a' quali
erano piú propinqui, significorno con allegrissimo grido di
conoscere di essere di manifesto pericolo ridotti alla salute quasi
certa. Cosí, o per imprudenza o per viltà (se già la malignità non
vi ebbe parte), perdé Lorenzo quello dí, a giudicio di tutti,
l'occasione della vittoria. Alloggiò la notte l'esercito suo a uno
castello vicino detto Saltara; ma l'esercito di Francesco Maria,
continuando con grandissima celerità il cammino insino a non piccola
parte della notte, si condusse all'alloggiamento di Montebaroccio,
prevenendo duemila fanti mandativi da Lorenzo per occuparlo: il
quale andò, il dí seguente, ad alloggiare due miglia piú alto da
Saltara verso il monte, luogo volto verso Montebaroccio, ma piú
basso e dalla parte del mare. Stettono in questi luoghi amendue gli
eserciti, vicini circa a uno miglio; ma con incomodità maggiore
quello di Lorenzo, il quale pativa spesso di vettovaglie: perché,
portandosi da Pesero a Fano per mare, bisognava, quando i venti
contrari impedivano la navicazione, condurle per terra, e a questo
davano molti impedimenti i cavalli leggieri di Francesco Maria; i
quali avvertiti da' paesani di ogni andamento, benché minimo, degli
inimici correvano continuamente per tutto.
Nel qual tempo mandò Francesco Maria uno trombetto a mostrare a'
fanti guasconi certe lettere trovate nelle scritture de' secretari
di Lorenzo, le quali, il dí che e' si partí dal castello di Saltara,
erano state insieme con una parte de' suoi carriaggi tolte da'
cavalli degli inimici; per le quali lettere si comprendeva che il
pontefice, infastidito delle disoneste taglie de' guasconi, a' quali
era stato necessario accrescere ciascuno mese immoderatissimamente i
pagamenti, desiderava si facesse ogni opera per indurgli a
tornarsene di là da' monti: per le quali lettere era pericolo che il
dí medesimo non facessino qualche tumulto se Carbone guascone loro
capitano e Lorenzo de' Medici, ingegnandosi di persuadere essere
lettere finte e inganni degli inimici, non gli avessino raffrenati.
Nondimeno il sospetto di questa cosa, la difficoltà delle
vettovaglie, e lo essere alloggiati in luogo dove senza comparazione
si mostrava maggiore il pericolo di perdere che la speranza di
acquistare, fece deliberare di levarsi (ancorché non paresse senza
vergogna il discostarsi tanto spesso dagli inimici) ed entrare nel
Vicariato da quella parte che è piú vicina al mare, e procedere
insino al fine verso Fossombrone: deliberazione approvata da tutto
il campo, ma non senza infamia grande di Renzo e di Vitello; perché
le voci di tutti i soldati risonavano che se da principio avessino
deliberato questo medesimo arebbeno messo gli inimici in grande
difficoltà di vettovaglie. Anzi Lorenzo medesimo gli riprendeva piú
che gli altri; lamentandosi che, o per allungare per utilità propria
la guerra o per impedire a lui il farsi famoso nell'armi, forse
temendo dalla grandezza sua effetti simili a quegli i quali aveva
contro alle case loro prodotta la grandezza del duca Valentino
avessino condotto in tante difficoltà e in tanti pericoli uno
esercito sí potente e tanto superiore di numero e di forze agli
inimici.
Andò adunque l'esercito a campo a San Gostanzo, castello del
Vicariato; gli uomini del quale benché cercassino, battendosi già le
mura con l'artiglierie, di arrendersi, nondimeno, conoscendosi la
facilità dello sforzarlo e desiderando di mitigare gli animi
gonfiati de' guasconi, ritirati tutti gli altri soldati dalla
muraglia, fu lasciata la facoltà di assaltarlo a' guasconi soli,
acciò che soli lo saccheggiassino. Preso San Gostanzo, andò il dí
medesimo il campo a Mondolfo distante due miglia, castello piú forte
e migliore del Vicariato, situato in su una collina in luogo
eminente, cinto da fossi e di muraglia da non disprezzare, alla
quale il sito del luogo fa terrapieno, e dove erano a guardia
dugento fanti spagnuoli. Piantoronsi la notte medesima l'artiglierie
dalla parte di verso mezzodí, ma o per negligenza o per
inconsiderazione di Renzo da Ceri, il quale ebbe questa cura, furono
piantate in luogo scoperto e senza ripari; in modo che, innanzi che
il sole fusse stato una ora sopra la terra, furono dall'artiglierie
di dentro ammazzati otto bombardieri e molti guastatori, e ferito
Antonio Santa Croce capitano della artiglieria. Per il che commosso
molto di animo Lorenzo, ancora che sconfortato da tutti i capitani,
che quello che poteva commettere ad altri non volesse eseguire da se
stesso con tanto pericolo, andò in persona a fare fare i ripari;
dove essendosi affaticato insino a mezzodí, avendo proveduto
opportunamente, si tirò indietro per andare a riposarsi sotto certi
alberi, parendogli essere coperto dalla sommità del monte: ma nello
andare, mancando l'altezza del colle, scoperse la rocca per fianco
situata dalla parte di ponente, né prima l'ebbe scoperta che vidde
dare fuoco a uno archibuso; il colpo del quale per schifare
gittandosi in terra bocconi, innanzi che arrivasse a terra, il
colpo, che altrimenti gli arebbe dato nel corpo, gli percosse nella
sommità del capo, toccando l'osso e riuscendo lungo la cotenna verso
la nuca. Ferito Lorenzo, i capitani accorgendosi che, ancora che
fusse battuto il muro, restava troppa altezza del terrapieno,
cominciorono a fare una mina, con la quale entrati sotto uno
torrione che era contiguo al muro battuto gli dettono il quinto dí
il fuoco; il quale avendo con grande impeto gittato in terra a
mezzodí il torrione e uno pezzo grande della muraglia congiunta a
quello, si cominciò subito a dare la battaglia, ma con poco ordine e
quasi a caso, la quale non partorí altro frutto che quello che
sogliono comunemente partorire gli assalti male ordinati: nondimeno,
essendo venuta la notte, i soldati non sperando soccorso, perché
Francesco Maria, o per non perdere quello sito o per altra cagione,
non si era partito dallo alloggiamento di Montebaroccio, si
arrenderono salvo l'avere e le persone, lasciando in preda
bruttamente gli uomini della terra.
Lib.13, cap.5
Il cardinale di Santa Maria in Portico legato pontificio
all'esercito; tumulti per questioni fra soldati tedeschi e italiani;
conseguente sospensione delle operazioni. Defezione di soldati
spagnuoli dall'esercito pontificio. Strage di soldati tedeschi.
Defezione di guasconi e di tedeschi dall'esercito pontificio.
Consiglio dei capi dell'esercito di rimettere i Bentivoglio in
Bologna e sdegno del pontefice per tale proposta.
Per la ferita di Lorenzo, costituito in gravissimo pericolo della
vita, il pontefice mandò legato allo esercito il cardinale di Santa
Maria in Portico; il quale, congiunta già la fortuna a' pessimi
governi, cominciò con infelici auspici a esercitare quella
legazione. Perché il dí seguente che e' fu arrivato allo esercito,
essendo nata a caso una quistione tra uno fante italiano e uno
tedesco, e correndovi i piú vicini e ciascuno chiamando il nome
della sua nazione, si ampliò il tumulto per tutto il campo, in modo
che, non si sapendo che origine avesse o che cagione, tutti i fanti
per armarsi si ritiravano tumultuosamente agli alloggiamenti de'
suoi; ma quegli che nel ritirarsi si riscontravano in fanti di altre
lingue erano molte volte ammazzati da loro: e, quel che fu cagione
di maggiore disordine, essendo i fanti italiani andati in ordinanza
verso il luogo nel quale era cominciata la quistione, furono da'
fanti guasconi saccheggiati gli alloggiamenti loro. Concorsono i
capitani principali dello esercito, i quali allora erano nel
consiglio, per porre rimedio a tanto disordine; ma vedendo il
tumulto grande e pericoloso, ciascuno abbandonando i pensieri delle
cose comuni per lo interesse particolare si ritirò a' suoi
alloggiamenti; e messe subito in ordine le loro genti d'arme, non
pensando se non a salvare quelle, si discostorono con esse dal campo
circa uno miglio. Solo il legato Bibbiena, con la costanza e
prontezza che apparteneva all'officio e all'onore suo, non abbandonò
la causa comune, riducendosi molte volte, per il furore della
moltitudine concitata, in pericolo non piccolo della vita; per opera
del quale, non senza molte difficoltà e interponendosene molti de'
capitani de' fanti, cessò finalmente il tumulto; nel quale erano
stati, in diversi luoghi del campo, morti piú di cento fanti
tedeschi, piú di venti italiani e qualche fante spagnuolo. Questo
accidente fu cagione che, dubitandosi che se l'esercito stava
insieme i fanti esacerbati per le offese ricevute non combattessino
per ogni piccolo caso l'uno contro all'altro, si deliberasse non
procedere per allora a impresa alcuna ma tenere separato l'esercito.
Però furono alloggiate nella città di Pesero le genti d'arme della
Chiesa e de' fiorentini e i fanti italiani; perché le lancie
franzesi, non essendo ancora risolute le difficoltà tra il pontefice
e il re, non si erano mai mosse da Rimini. Alloggiorono i fanti
guasconi nel piano, presso a mezzo miglio di quella città; gli altri
fanti furono distribuiti in su il monte della Imperiale, monte sopra
Pesero dalla parte di verso Rimini, in su il quale è uno palazzo
fabricato dagli antichi Malatesti. E furono alloggiati con questo
ordine: gli spagnuoli in su la sommità del monte, i tedeschi piú a
basso secondo che il monte scende, e i corsi alle radici del monte.
Cosí stettono ventitré dí, non si facendo in quel mezzo altro che
scaramuccie di cavalli leggieri; perché Francesco Maria, non potendo
sperare di rompere alla campagna sí grosso esercito né tentare, per
la vicinità loro, l'espugnazione di alcuna terra, attendendo a
conservare quello che aveva acquistato, si stava fermo. Ma il
vigesimo quarto dí, partito di notte da Montebaroccio, arrivò
all'alba del dí in su la sommità del monte negli alloggiamenti degli
spagnuoli; co' quali, o con tutti o con parte di loro, si credette,
per quello che dimostrò il progresso della cosa, che avesse avuta
secreta intelligenza. Venuto quivi, subito i suoi spagnuoli gridorno
agli altri che se volevano salvarsi gli seguitassino, alla quale
voce la maggiore parte, messosi ciascuno in sul capo uno ramuscello
di fronde verdi come aveano loro, gli seguitò: soli i capitani con
circa ottocento fanti si ritirorono a Pesero. Cosí uniti andorono
agli alloggiamenti de' tedeschi, i quali non facevano da quella
parte custodia alcuna, per la sicurtà che dava loro la vicinità de'
fanti spagnuoli; trovatigli cosí incauti n'ammazzorno e ferirno piú
di secento, gli altri fuggendo negli alloggiamenti de' corsi si
discostorono insieme verso Pesero: i guasconi, sentito il tumulto,
messisi in ordinanza, non volleno mai muoversi del luogo loro.
Uccisi i tedeschi e tirata a sé la maggiore parte de' fanti
spagnuoli, Francesco Maria fermò l'esercito tra Urbino e Pesero;
pieno di speranza che con lui s'avessino a unire i guasconi e quegli
fanti tedeschi i quali, levati nel tempo medesimo del campo di
Lautrech, erano sempre andati, alloggiati e proceduti insieme.
Era tra' guasconi Ambra, emulo del capitano Carbone; il quale,
giovane di sangue piú nobile e parente di Lautrech, aveva appresso a
loro autorità maggiore. Costui aveva trattato occultamente, molti
giorni, di passare con quei fanti a Francesco Maria; e gli dava
occasione che, non contenti di avere accresciuti immoderatamente gli
stipendi, dimandavano di nuovo insolentemente condizioni molto
maggiori: alle quali repugnando i ministri del pontefice, si
interponevano per concordargli Carbone e il capitano delle lancie
franzesi, venuto da Rimini a Pesero per questa cagione. Ma cinque o
sei dí da poi che era succeduto il caso degli spagnuoli e tedeschi
al monte della Imperiale, Francesco Maria con tutto l'esercito si
scoperse vicino a loro. Una parte de' quali insieme con Ambra,
messasi in battaglia, con sei sagri e seguitata da' tedeschi, si uní
con lui; ingegnandosi invano Carbone con prieghi e con parole
ardenti di ritenergli: col quale rimasono sette capitani con mille
trecento fanti; gli altri tutti, insieme co' tedeschi,
l'abbandonorno. E come nelle cose della guerra si aggiungono sempre
a' disordini nuovi disordini, i fanti italiani, vedendo la necessità
che s'avea di loro, la mattina seguente tumultuorno: i quali per
quietare bisognò, ne' pagamenti, concedere dimande immoderate; non
essendo né piú vergogna né minore avarizia ne' capitani che ne'
fanti. Ed era certo cosa maravigliosa che nello esercito di
Francesco Maria, nel quale a' soldati non si davano mai i danari,
fusse tanta concordia ubbidienza e unione; non dependendo tanto
questo, come con somma laude si dice di Annibale cartaginese, dalla
virtú o autorità del capitano quanto dallo ardore e ostinazione de'
soldati: e per contrario, che nello esercito della Chiesa, ove a'
tempi debiti non mancavano eccessivi pagamenti, fussino tante
confusioni e disordini, e tanto desiderio ne' fanti di passare agli
inimici. Donde apparisce che non tanto i danari quanto altre cagioni
mantengono spesso la concordia e l'ubbidienza negli eserciti.
Spaventati da tanti accidenti, il legato e gli altri che
intervenivano nel consiglio, esaminato lungamente quello che per
rimedio delle cose afflitte fusse da fare, né essendo piú prudenti o
abbondanti di modi abili a provedere dopo i disordini seguiti che
fussino stati a provedere che non seguissino, movendogli ancora gli
interessi e le cupidità particolari, conchiuseno essere da
confortare il pontefice che restituisse i Bentivogli in Bologna
innanzi che essi, preso animo dalla declinazione delle cose o
incitati da altri, facessino qualche movimento: al quale come si
potrebbe resistere, mostrarlo le difficoltà che avevano di sostenere
la guerra in uno luogo solo. Però avendo, per dare maggiore autorità
a tale consiglio o per piú giustificazione, in ogni evento, di
tutti, fatto distendere in iscrittura il parere comune e
sottoscrittolo di mano del legato e dell'arcivescovo Orsino (l'uno
de' quali era congiunto d'antica amicizia a' Bentivogli, l'altro di
parentado) e da tutti i capitani, mandorono, per il conte Ruberto
Boschetto gentiluomo modonese, al papa questa scrittura. La quale
non solo fu disprezzata da lui, ma si lamentò con parole molto
acerbe che i ministri suoi, e quegli che da lui avevano ricevuti
tanti benefici o potevano sperare a ogn'ora di riceverne, gli
proponessino, con tanto piccola fede e amore, consigli non manco
perniciosi che i mali i quali gli facevano gli inimici;
risentendosene principalmente contro all'arcivescovo Orsino, per
essere forse stato principale stimolatore degli altri a questo
consiglio: il quale sdegno si crede che forse fusse cagione di
torgli la dignità del cardinalato, la quale gli era promessa da
tutti nella prima promozione.
Lib.13, cap.6
Francesco Maria si volge verso Perugia. Esecuzione di capi di
milizie spagnuole colpevoli di accordi coi nemici. Provvedimenti dei
pontifici per far fallire l'impresa del duca di Urbino. Accordi di
Giampaolo Baglioni con Francesco Maria. I progressi dei nemici
costringono Francesco Maria a ritornare nel ducato.
Ma Francesco Maria, essendo tanto accresciute le forze sue e
diminuite quelle degli avversari, alzò l'animo a maggiori pensieri,
stimolato ancora dalla necessità; perché i fanti venuti seco erano
stati tre mesi quasi senza danari, a questi venuti nuovamente niuna
facoltà avea di darne; ed essendo il ducato di Urbino esausto e
quasi tutto spogliato, non solo non vi avevano i soldati facoltà di
predare ma con difficoltà vi erano vettovaglie bastanti a nutrirgli.
Ma nella elezione della impresa gli bisognò seguitare la volontà di
altri. Perché esso, per lo stabilimento del suo stato, desiderava,
innanzi tentasse altra cosa, assaltare di nuovo Fano o qualcun'altra
delle terre poste in sul mare; ma per l'inclinazione de' soldati
cupidi delle prede e delle rapine deliberò voltarsi piú presto in
Toscana, dove, per essere pieno il paese, che era senza sospetto, ed
esservi piccoli provedimenti, speravano potere fare grandissimi
guadagni. Incitavalo oltre a questo la speranza di potere, per mezzo
di Carlo Baglione e di Borghese Petrucci, fare mutazione in Perugia
e in Siena, donde sarebbono augumentate assai le cose sue, e le
molestie e i pericoli del pontefice e del nipote. Perciò, il dí
seguente a quello nel quale ebbe raccolti i guasconi, mosse
l'esercito verso Perugia, ma come fu nel piano di Agobbio, deliberò
manifestare il sospetto suo, anzi scienza quasi certa, che avea,
della perfidia del colonnello Maldonato e di alcuni altri congiunti
nella medesima causa con lui.
Era la cosa nata e venuta a luce in questo modo. Quando l'esercito
passò per la Romagna, Suares, uno de' capitani spagnuoli, rimasto
indietro sotto finzione di essere ammalato, si era lasciato
studiosamente fare prigione; e menato a Cesena a Lorenzo, gli disse,
per parte di Maldonato e di due altri capitani spagnuoli, la causa
di congiugnersi con Francesco Maria non essere stata per altro che
per avere occasione di fare qualche servizio notabile al pontefice e
a lui, poiché non era stato in potestà di essi ovviare che questo
movimento si facesse; promettendogli in nome loro che, subito che
avessino opportunità di farlo, lo metterebbono a esecuzione. Le
quali cose non essendo note a Francesco Maria, cominciò a sospettare
per alcune parole dette incautamente da Renzo da Ceri a uno
tamburino degli spagnuoli; perché, come motteggiando, lo dimandò: -
Quando vorranno quegli spagnuoli darci prigione il vostro duca? - La
quale voce, entrata piú altamente nel petto di Francesco Maria, gli
avea data cagione di osservare diligentemente se nello esercito
fusse fraude alcuna. Ma finalmente, per le scritture intercette ne'
carriaggi di Lorenzo, comprese, Maldonato essere autore di qualche
insidia. La quale cosa avendo dissimulata insino a quello dí, né gli
parendo doverla piú dissimulare, chiamati a parlamento tutti i fanti
spagnuoli, egli stando in luogo rilevato in mezzo di tutti, cominciò
a ringraziargli con efficacissime parole delle opere che con tanta
prontezza avevano fatto per lui, confessando non essere, o ne' tempi
moderni o nelle istorie antiche, memoria di principe o di capitano
alcuno che avesse tante obligazioni a gente di guerra quante
conosceva egli d'avere con loro: conciossiaché, non avendo denari né
modo di promettere loro remunerazione, essendo, quando bene avesse
recuperato tutto il suo stato, piccolo signore, non fatto mai loro
alcuno beneficio, non essendo della medesima nazione né avendo mai
militato ne' campi loro, si fussino sí prontamente disposti a
seguitarlo contro a uno principe di tanta grandezza e riputazione;
né tirati dalla speranza della preda, perché sapevano essere
condotti in uno paese povero e sterile. Delle quali operazioni non
avendo facoltà di rendere loro grazie se non con la sincerità della
volontà e dell'animo, essersi sommamente rallegrato che avessino
acquistato, non solo per tutta Italia ma per tutte le provincie di
Europa, maravigliosa fama, alzando insino al cielo ciascuno la loro
egregia fede e virtú, che pochissimi di numero, senza danari senza
artiglierie senza alcuna delle provisioni necessarie alla guerra,
avessino tante volte fatto voltare le spalle a uno esercito
abbondantissimo di danari e di tutte l'altre cose, nel quale
militavano tante bellicose nazioni, e contro alla potenza di uno
pontefice grandissimo e dello stato de' fiorentini, a' quali era
congiunta l'autorità e il nome de' re di Francia e di Spagna:
disprezzati, per mantenere la fede e la fama degli uomini militari,
i comandamenti de' propri signori. Le quali cose come per la gloria
del nome loro gli davano incredibile piacere, cosí per contrario
avergli dato e dargli molestia incredibile tutte le cose che
potessino oscurare tanto splendore. Malvolentieri e con inestimabile
dolore indursi a manifestare cose che gli costrignessino a offendere
alcuno di quegli a ciascuno de' quali aveva prima fatta
deliberazione di essere, mentre gli durava la vita, schiavo
particolarmente; nondimeno, perché per il tacere suo il disordine
cominciato non diventasse maggiore, e perché la malignità di alcuni
non spegnesse tanta gloria acquistata da quello esercito, ed essendo
anche conveniente che in lui potesse piú l'onore di tutti che il
rispetto di pochi, manifestare loro essere in quello esercito
quattro persone che tradivano la gloria e la salute di tutti. Della
sua non fare menzione né lamentarsi, perché, travagliato da tanti
casi e stato perseguitato senza sua colpa sí acerbamente dalla
fortuna, essere qualche volta manco desideroso della vita che della
morte; ma non patire le obligazioni che aveva con loro, non l'amore
smisurato che meritamente gli portava che non facesse loro palese
che il colonnello Maldonato (quello in cui doveva essere maggiore
cura della salute e gloria di tutti), il capitano Suares (quello che
per ordire tanta tristizia, simulando di essere infermato, si era
fatto in Romagna pigliare dagli inimici), e due altri capitani,
avevano con scelerati consigli promesso tradirgli a Lorenzo de'
Medici: i quali consigli erano stati interrotti dalla vigilanza sua,
per la quale rendendosi sicuro, non avere prima voluto manifestare
tanto peccato; ma non gli parendo di tenere piú sottoposto sé e
tutti gli altri a sí grave pericolo, avere aperto loro quello che
molto innanzi era stato saputo da lui. Apparire queste cose per
lettere autentiche trovate nelle scritture che furono intercette di
Lorenzo, apparire per molti indizi e congetture; le quali tutte
volere proporre loro, acciò che fussino giudici di tanto delitto, e
udito le cose proposte, quello che in defensione loro dicessino
questi accusati, potessino risolversi a quella deliberazione che
paresse loro piú conforme alla giustizia, e alla gloria e utilità
dello esercito. Finito che ebbe di parlare fece leggere le lettere
ed esporre gli indizi. Le quali cose udite da tutti con grandissima
attenzione, non fu dubbio che per giudicio comune non fussino, senza
udirgli altrimenti, Maldonato, Suares e gli altri due capitani,
condannati alla morte; la quale subito, fattigli passare in mezzo
delle file delle picche, fu messa a esecuzione: e purgato, secondo
dicevano, con questo supplizio tutta la malignità che era
nell'esercito, seguitorono il cammino verso Perugia.
Nella quale era già entrato Giampaolo Baglione, partitosi da Pesero
subito che ebbe inteso il disegno loro, e si preparava per
difendersi, avendo armati gli amici e messi dentro molti del contado
e de' luoghi vicini; e gli aveva mandato il legato in aiuto Cammillo
Orsino suo genero condottiere de' fiorentini, con gli uomini d'arme
della condotta sua e con dugento cinquanta cavalli leggieri: con le
quali forze si credeva che avesse a sostenere l'impeto degli
inimici, massime essendosi fatto molti provedimenti per interrompere
i progressi loro. Perché a Città di Castello era andato Vitello con
la compagnia sua delle genti d'arme e Sise con le lancie franzesi,
le quali, perché tra 'l pontefice e il re era stabilita la
confederazione, non erano piú sospette; e Lorenzo de' Medici, che
guarito della sua ferita era nuovamente venuto da Ancona a Pesero,
erane andato in poste a Firenze per fare di là le provisioni che
fussino necessarie alla conservazione di quello dominio e delle
città vicine; e si era deliberato che il legato col resto dello
esercito, per necessitare Francesco Maria ad abbandonare la impresa
di Toscana, entrasse nel ducato di Urbino, alla guardia del quale
non erano restati altri che gli uomini delle terre.
Accostossi Francesco Maria a Perugia, non senza speranza di qualche
intelligenza. Dove cavalcando Giampaolo per la città, fu assaltato
in mezzo della strada da uno della terra; il quale, non gli essendo
riuscito il ferirlo, fu subito ammazzato dal concorso di quegli che
accompagnavano Giampaolo: il quale, in questo tumulto, fece
ammazzare alcuni altri di quegli che gli erano sospetti; e liberato
dalle insidie, pareva liberato da ogni pericolo, perché gli inimici,
stati già intorno a Perugia piú dí, non avevano facoltà di
sforzarli. E nondimeno Giampaolo, quando manco il pontefice
aspettava questo, allegando in giustificazione sua che il popolo di
Perugia, al quale non era in potestà sua di resistere, non voleva
piú tollerare i danni che si facevano nel paese, convenne con quello
esercito di pagare diecimila ducati, concedere vettovaglia per
quattro dí, non pigliare arme contro a Francesco Maria in quella
guerra, e che essi si uscissino subito del perugino: cosa molto
molesta e ricevuta in sinistra parte dal pontefice, perché confermò
la opinione insino da principio della guerra conceputa di lui,
quando molto lentamente andò allo esercito con gli aiuti promessi,
che per essergli sospetta la potenza di Lorenzo desiderasse che
Francesco Maria si conservasse il ducato di Urbino; aggiugnendosi
l'essergli stato molesto che, mentre stette nel campo appresso a
Lorenzo, fusse stata molto maggiore l'autorità di Renzo e di Vitello
che la sua. La memoria delle quali cose fu nel tempo seguente, per
avventura, cagione in gran parte delle sue calamità.
Convenuto Francesco Maria co' perugini, si voltò verso Città di
Castello; dove avendo fatto qualche scorreria, con intenzione di
entrare dalla parte del Borgo a San Sepolcro nel dominio fiorentino,
il pericolo dello stato proprio lo indusse ad altra deliberazione.
Perché il legato Bibbiena, avendo di nuovo soldato molti fanti
italiani, seguitando la deliberazione fatta a Pesero, [si] era col
resto dell'esercito accostato a Fossombrone: la quale città, battuta
dalle artiglierie, fu il terzo dí espugnata e saccheggiata. Andò
dipoi a campo alla Pergola, dove il secondo dí si uní coll'esercito
il conte di Potenza, con quattrocento lancie spagnuole mandate dal
re di Spagna in aiuto del pontefice. Non era nella Pergola soldato
alcuno, ma solamente uno capitano spagnuolo e molti uomini del
paese, i quali impauriti cominciorono a trattare di arrendersi; ma
mentre che si trattava essendo stato ferito nel volto il capitano
che stava in sul muro, voltatisi i soldati, senza ordine alcuno e
senza comandamento de' capitani, alla muraglia, preseno per forza la
terra. Dalla Pergola si disegnava di andare a campo a Cagli; ma
essendo venuto avviso che Francesco Maria, intesa la perdita di
Fossombrone, ritornava con celerità grande in quello stato,
deliberorono di ritirarsi. Però la notte medesima che il legato ebbe
questa notizia si levorono dalla Pergola, e venuti a Montelione e
già cominciato a farvi lo alloggiamento per stare quivi la notte,
avuti avvisi nuovi che la prestezza degli inimici riusciva maggiore
di quello che si erano persuasi, e che mandava innanzi mille cavalli
con un fante in groppa per uno, acciò che, costrignendogli a
camminare piú lentamente, avesse tempo l'esercito a sopragiugnergli,
andorono sette miglia piú innanzi, a uno luogo detto il Bosco; donde
partiti la mattina seguente innanzi al giorno, si ridussono la sera
a Fano; avendo già quasi alla coda i cavalli degli inimici, venuti
con tanta prestezza che se solamente quattro ore fusse stata piú
tarda la ritirata non sarebbe stato senza difficoltà il fuggire la
necessità del combattere.
Lib.13, cap.7
Congiura del cardinale Alfonso Petrucci contro il pontefice. Esami e
pene dei congiurati. Nomine numerose di nuovi cardinali, di cui
alcuni appartenenti a famiglie nobili romane.
Ma non procedevano in questo tempo piú felicemente le cose del
pontefice nelle altre azioni che ne' travagli della guerra: alla
vita del quale insidiava Alfonso cardinale di Siena, sdegnato che il
pontefice, dimenticatosi delle fatiche e de' pericoli sostenuti già
per Pandolfo Petrucci suo padre perché i fratelli e lui fussino
restituiti nello stato di Firenze, e delle opere fatte da sé,
insieme con gli altri cardinali giovani nel conclave, perché e'
fusse assunto al pontificato, avesse in ricompensazione di tanti
benefici fatto cacciare di Siena Borghese suo fratello e lui; donde
privato eziandio delle facoltà paterne non poteva sostenere
splendidamente, come soleva, la degnità del cardinalato. Però
ardendo di odio, e quasi ridotto in disperazione, aveva avuto
pensieri giovenili di offenderlo egli proprio violentemente con
l'armi; ma ritenendolo il pericolo e la difficoltà della cosa piú
che lo esempio o lo scandolo comune in tutta la cristianità, se uno
cardinale avesse di sua mano ammazzato uno pontefice, aveva voltato
tutti i pensieri suoi a torgli la vita col veleno, per mezzo di
Batista da Vercelli, famoso chirurgico e molto intrinseco suo. Del
quale consiglio, se tal nome merita cosí scelerato furore, questo
aveva a essere l'ordine: sforzarsi, col celebrare, poiché altra
occasione non ne aveva, con somme laudi la sua perizia, che il
pontefice, il quale per una fistola antica che aveva sotto le
natiche usava continuamente l'opera di medici di quella professione,
pigliandone buono concetto lo chiamasse alla cura sua. Ma la
impazienza di Alfonso difficultò molto la speranza di questa cosa.
La quale mentre che si tratta con lunghezza, Alfonso non sapendo
contenersi di lamentarsi molto palesemente della ingratitudine del
pontefice, diventando ogni dí piú esoso, e venuto in sospetto che
non macchinasse qualche cosa contro allo stato, fu finalmente quasi
costretto di partirsi, per sicurtà di se stesso, da Roma. Ma vi
lasciò Antonio Nino suo secretario; tra il quale e lui essendo
continuo commercio di lettere, comprese il pontefice, per alcune che
furono intercette, trattarsi contro alla vita sua. Però, sotto
colore di volere provedere alle cose di Alfonso, lo chiamò a Roma,
concedutogli salvocondotto, e data, per la bocca propria, fede di
non lo violare allo oratore del re di Spagna. Sotto la quale
sicurtà, ancora che conscio di tanta cosa, andato imprudentemente
innanzi al pontefice, furono, egli e Bandinello cardinale de' Sauli
genovese, fautore anche esso della assunzione di Lione al
pontificato ma intrinseco tanto di Alfonso che si pensava fusse
conscio d'ogni cosa, ritenuti nella camera medesima del papa, donde
furono menati prigioni in Castello Santo Agnolo; e subitamente
ordinato che Batista da Vercelli, il quale allora medicava in
Firenze, fusse incarcerato e incontinente mandato a Roma. Sforzossi
con ardentissime querele e pretesti di fare liberare Alfonso
l'oratore del re di Spagna, allegando la fede data a lui come a
oratore di quel re non essere altro che la fede data al re proprio.
Ma il pontefice rispondeva che in uno salvocondotto, quantunque
amplissimo e pieno di clausule forti e speciali, non si intende mai
assicurato il delitto contro alla vita del principe se non vi è
nominatamente specificato: avere la medesima prerogativa la causa
del veleno, aborrito tanto dalle leggi divine e umane e da tutti i
sentimenti degli uomini che aveva bisogno di particolare e individua
espressione.
Prepose il pontefice all'esamina loro Mario Perusco romano,
procuratore fiscale, dal quale rigorosamente esaminati confessorono
il delitto macchinato da Alfonso con saputa di Bandinello; la quale
confessione fu confermata da Batista cerusico e da Pocointesta da
Bagnacavallo, il quale sotto Pandolfo suo padre e sotto Borghese suo
fratello era stato lungamente capitano della guardia che stava alla
piazza di Siena; i quali due furono publicamente squartati. Ma dopo
questa confessione fu, nel prossimo concistorio, ritenuto e condotto
nel castello Raffaello da Riario cardinale di San Giorgio,
camarlingo della sedia apostolica; il quale per le ricchezze, per la
magnificenza della sua corte e per il tempo lungo che era stato in
quella dignità, era senza dubbio principale cardinale del collegio:
il quale confessò non gli essere stata comunicata questa
macchinazione, ma il cardinale di Siena, lamentandosi e minacciando
il pontefice, avergli detto piú volte parole per le quali aveva
potuto comprendere avere in animo, se ne avesse occasione, di
offenderlo nella persona. Querelossi dipoi il pontefice, in uno
altro concistorio, nel quale i cardinali, non assuefatti a essere
violati, erano tutti smarriti di animo e spaventati, che cosí
crudelmente e sceleratamente fusse stato insidiato alla vita sua da
quegli i quali, costituiti in tanta degnità e membri principali
della sedia apostolica, erano sopra tutti gli altri obligati a
difenderla; lamentandosi efficacemente del suo infortunio, e che non
gli fusse giovato l'essere stato e l'essere continuamente benefico e
grato con ognuno, eziandio insino a grado che da molti ne fusse
biasimato: soggiugnendo che in questo peccato erano ancora degli
altri cardinali, i quali se innanzi che fusse licenziato il
concistorio confessassino spontaneamente il loro delitto, essere
parato a usare la clemenza e a perdonare loro, ma che finito il
concistorio si userebbe contro a chi fusse congiunto a tanta
sceleratezza la severità e la giustizia. Per le quali parole Adriano
cardinale di Corneto e Francesco Soderino cardinale di Volterra,
inginocchiati innanzi alla sedia del pontefice, dissono, il
cardinale di Siena avere con loro usate delle medesime parole che
aveva usate col cardinale di San Giorgio.
Finiti e publicati nel concistorio gli esamini, furono Alfonso e
Bandinello, per sentenza data nel concistorio publico, privati della
degnità del cardinalato, degradati e dati alla corte secolare.
Alfonso, la notte prossima, fu occultamente nella carcere
strangolato; la pena di Bandinello permutata, per grazia del
pontefice, dalla morte a perpetua carcere: il quale, non molto poi,
non solo lo liberò dalla carcere ma, pagati certi danari, lo
restituí alla degnità del cardinalato; benché con lui avesse piú
giusta causa di sdegno perché, beneficato sempre da lui e veduto
molto benignamente, non si era alienato per altro che per la
amicizia grande che aveva con Alfonso, e per sdegno che il cardinale
de' Medici gli fusse stato anteposto nella petizione di certi
benefici. E nondimeno non mancorono interpretatori, forse maligni,
che innanzi fusse liberato dalla carcere gli fusse stato dato, per
commissione del pontefice, veleno, di quella specie che non
ammazzando subitamente consuma in progresso di tempo la vita di chi
lo riceve. Col cardinale di San Giorgio, per essere il delitto
minore, ancora che le leggi fatte e interpretate da' príncipi per
sicurtà de' loro stati voglino che nel crimine della maestà lesa sia
sottoposto all'ultimo supplicio non solo chi macchina ma chi sa chi
accenna contro allo stato, e molto piú quando si tratta contro alla
vita del principe, procedette il pontefice piú mansuetamente; avendo
rispetto alla sua età e autorità, e alla congiunzione grande che
innanzi al pontificato era lungamente stata tra loro. Però, se bene
fusse, per ritenere l'autorità della severità, nella sentenza
medesima privato del cardinalato, fu quasi incontinente, obligandosi
egli a pagare quantità grandissima di danari, restituito per grazia
eccetto che alla voce attiva e passiva; alla quale fu, innanzi
passasse uno anno, reintegrato. A Adriano e Volterra non fu dato
molestia alcuna, eccetto che tacitamente pagorno certa quantità di
danari: ma non si confidando, né l'uno né l'altro, di stare in Roma
sicuramente né con la conveniente dignità, Volterra con licenza del
pontefice se ne andò a Fondi, dove sotto l'ombra di Prospero Colonna
stette insino alla morte del pontefice; e Adriano, partitosi
occultamente quello che si avvenisse di lui non fu mai piú che si
sapesse né trovato né veduto in luogo alcuno.
Costrinse l'acerbità di questo caso il pontefice a pensare alla
creazione di nuovi cardinali, conoscendo quasi tutto il collegio,
per il supplizio di questi e per altre cagioni, avere l'animo
alienissimo da lui: alla quale procedé tanto immoderatamente che
pronunziò, in una mattina medesima, in concistorio, consentendo il
collegio per timore e non per volontà, trentuno cardinali; nella
abbondanza del quale numero ebbe facoltà di sodisfare a molti fini e
di eleggere di ogni qualità di uomini. Perché promosse due figliuoli
di sorelle sue, e alcuni di quegli che, stati e nel ponteficato e
prima a' servizi suoi, e grati al cardinale de' Medici e a lui per
diverse cagioni, non erano per altro rispetto capaci di tanta
degnità; sodisfece nella creazione di molti a príncipi grandi,
creandogli a istanza loro; molti ne creò per danari, trovandosi
esausto e in grandissima necessità: furonvene alcuni chiari per
opinione di dottrina, e tre generali, è questo tra loro il supremo
grado, delle religioni di Santo Agostino di Santo Domenico e di
Santo Francesco; e, quello che fu rarissimo in una medesima
promozione, due della famiglia de' Triulzi, movendolo nell'uno
l'essere suo cameriere e il desiderio di sodisfare a Gianiacopo,
nell'altro la fama della dottrina aiutata da qualche somma di
danari. Ma quello che dette maggiore ammirazione fu la creazione di
Franciotto Orsino e di Pompeio Colonna e di cinque altri romani
delle famiglie principali che seguitavano o questa o quella fazione:
con consiglio contrario alle deliberazioni dell'antecessore, ma
riputato imprudente e che riuscí poco felice per i suoi. Perché,
essendo sempre la grandezza de' baroni di Roma depressione e
inquietudine de' pontefici, Giulio, essendo mancati i cardinali
antichi di quelle famiglie, le quali Alessandro sesto per spogliarle
degli stati propri aveva acerbamente perseguitate, non aveva mai
voluto rimettere in alcuna di loro quella degnità; Lione tanto
immoderatamente fece il contrario: non potendo però dirsi che fusse
stato tirato da' meriti delle persone; perché Franciotto fu promosso
dalla professione della milizia alla degnità del cardinalato, e a
Pompeio doveva nuocere la memoria che, con tutto fusse vescovo,
avea, per occasione della infermità [di Giulio], cercato di fare
tumultuare il popolo romano contro allo imperio de' sacerdoti, e
dipoi si era ribellato apertamente con l'armi dal medesimo
pontefice, dal quale era stato per questo privato della degnità
episcopale.
Lib.13, cap.8
Francesco Maria nella Marca. Offerte d'aiuto del re di Francia al
pontefice; sospetti reciproci e sospetti anche del re di Spagna.
Battaglia ai borghi di Rimini; Francesco Maria passa in Toscana;
difficoltà di Francesco Maria e del pontefice. Concordia fra il
pontefice e Francesco Maria. Considerazioni dell'autore sulla guerra
e sul modo con cui è stata condotta. Il re di Spagna prende possesso
dei suoi stati; i veneziani riconfermano la lega difensiva col re di
Francia.
Ma in questo tempo Francesco Maria, poiché per la ritirata, anzi piú
presto fuga, degli inimici non aveva avuto facoltà di combattere,
avendo l'esercito molto potente, perché alla fama del non avere
resistenza nella campagna concorrevano continuamente nuovi soldati,
tirati dalla speranza delle prede, entrò nella Marca; dove Fabriano
e molte altre terre si composono con lui, ricomperando con danari il
pericolo del sacco e delle rapine de' loro contadi. Saccheggionne
alcune altre, tra le quali Iesi, mentre trattava di comporsi; e
dipoi accostatosi ad Ancona, alla difesa della quale città il legato
aveva mandato gente, vi stette fermo intorno piú dí, con detrimento
grande, per la perdita del tempo, delle cose sue, non combattendo ma
trattando di accordarsi con gli anconitani: i quali finalmente, per
non perdere le ricolte già mature, gli pagorono ottomila ducati, non
deviando in altro dalla ubbidienza solita della Chiesa. Assaltò
dipoi la città di Osimo poco felicemente. Messe finalmente il campo
alla terra di Corinaldo, dove erano dugento fanti forestieri; da'
quali e dagli uomini della terra fu difesa sí francamente che,
statovi intorno ventidue dí, alla fine, disperato di pigliarla, si
levò: con grande diminuzione del terrore di quello esercito, che non
avesse espugnato terra alcuna di quelle che avevano recusato di
comporsi; il che non procedeva né dalla imperizia de' capitani né
dalla ignavia de' soldati, ma perché non avevano artiglierie se non
piccolissima quantità, e piccoli pezzi e quasi senza munizione. E
nondimeno era stato necessario, alle terre le quali non avevano
voluto cedergli, dimostrare da se stesse la sua costanza e il suo
valore: perché i capitani dell'esercito ecclesiastico, de' quali era
principale il conte di Potenza, se bene avessino mandato gente a
predare insino in su le mura di Urbino, e Sise, ritornato da Città
di Castello in Romagna, fusse dipoi entrato nel Montefeltro e preso
per forza Secchiano e alcune altre piccole terre, si erano ridotti
ad alloggiare cinque miglia presso a Pesero, deliberati di non
soccorrere luogo alcuno né di muoversi se non quanto gli facesse
muovere la necessità del ritirarsi; perché essendo, quando erano
tanto superiori di forze, succedute cosí infelicemente le cose,
trovandosi ora tanto manco potenti di fanterie, non arebbeno non che
altro ardito di sostenere la fama dello approssimarsi degli inimici.
Nella quale deliberazione, fatta secondo la mente del pontefice, gli
confermava la speranza della venuta di seimila svizzeri, i quali il
papa, seguitando il consiglio del re di Francia, avea mandato a
soldare: perché quel re, dopo la confederazione fatta, desiderava la
vittoria del pontefice, e nel tempo medesimo aveva di lui il
medesimo sospetto che prima. Conservavanlo nel sospetto le relazioni
fattegli da Galeazzo Visconte e da Marcantonio Colonna; l'uno de'
quali restituito dall'esilio nella patria, l'altro per non gli
parere che da Cesare fussino riconosciute l'opere sue, condotti con
onorate condizioni agli stipendi del re, aveano riferito il papa
essersi molto affaticato con Cesare e co' svizzeri contro a lui: e
molto piú moveva il re, che il pontefice aveva occultamente fatta
nuova confederazione con Cesare col re di Spagna e col re di
Inghilterra; la quale benché gli fusse stato lecito di fare, perché
era stata fatta solamente a difesa, turbava pure non poco l'animo
suo. Facevagli desiderare che si liberasse dalla guerra il timore
che se il pontefice non vedeva pronti gli aiuti suoi non facesse co'
príncipi già detti maggiore congiunzione; e oltre a questo gli
cominciava a essere molesta e sospetta la prosperità di quello
esercito, il nervo del quale erano fanti spagnuoli e tedeschi. Però,
oltre ad avere consigliato il pontefice di armarsi di fanti
svizzeri, gli aveva offerto di mandare di nuovo trecento lancie
sotto Tommaso di Fois monsignore dello Scudo fratello di Odetto;
allegando che, oltre alla riputazione e valore della persona, gli
sarebbe utile a fare partire da Francesco Maria i fanti guasconi,
co' quali questi fratelli di Fois, nati di sangue nobilissimo in
Guascogna, aveano grande autorità. Aveva il pontefice accettata
questa offerta ma con l'animo molto sospeso, perché dubitava come
prima della volontà del re, della quale gli aveva accresciuto il
sospetto la fuga de' fanti guasconi, temendo che occultamente non
fusse proceduta per opera di Lautrech. E certamente, chi osservò in
questo tempo i progressi de' príncipi potette apertamente conoscere
che niuno intrattenimento niuno beneficio niuna congiunzione è
bastante a rimuovere de' petti loro la diffidenza che hanno l'uno
dell'altro; perché non solamente era il sospetto reciproco tra il re
di Francia e il pontefice, ma il re di Spagna, intendendo trattarsi
della andata de' svizzeri e di Tommaso di Fois, non era senza timore
che il pontefice e il re congiunti insieme pensassino di spogliarlo
del regno di Napoli: le quali cose si crede che giovassino alle cose
del pontefice, perché ciascuno di loro, per non gli dare causa o
giustificazione di alienarsi da sé, cercava di confermarlo e di
assicurarsene co' benefici e con gli aiuti.
Ma Francesco Maria, partito da Corinaldo, ritornò nello stato
d'Urbino, per fare spalle a' popoli suoi che facessino le ricolte:
donde, desiderando assai, come sempre aveva desiderato, l'acquisto
di Pesero, nella quale città era il conte di Potenza con le sue
genti, vi si accostò con l'esercito; e per impedirgli le vettovaglie
messe in mare alcuni navili. Ma all'opposito si preparorno a Rimini
sedici legni tra barche brigantini e schirazzi; i quali come furno
armati, andando a Pesero per sicurtà di certe barche che vi
conducevano vettovaglie, si riscontrorno con quegli di Francesco
Maria, co' quali venuti alle mani, messo in fondo il navilio
principale presono tutti gli altri: per il che egli, disperato di
pigliare Pesero, si partí. Facevasi in questo mezzo lo Scudo innanzi
con le trecento lancie; ma tardavano i svizzeri, perché i cantoni
recusavano di concedergli se prima non erano pagati da lui del
residuo delle pensioni vecchie: dalla quale disposizione non si
potendo rimuovergli, e il pontefice impotente per le gravissime
spese a sodisfargli, i ministri del pontefice, dopo avere consumato
in questa instanza molti dí, soldorno, senza decreto publico,
duemila fanti particolari di quella nazione e quattromila altri tra
tedeschi e grigioni. I quali essendo finalmente venuti e alloggiati
a Rimini ne' borghi (i quali, divisi dal fiume dal resto della
città, sono circondati di mura), Francesco Maria, entrato di notte
sotto le pile del ponte egregio di marmo che unisce i borghi colla
città, non potette passare il fiume, ingrossato per il ricrescimento
del mare. Fu la battaglia grande tralle sue genti e i fanti
alloggiati ne' borghi, nella quale fu ammazzato Gaspari, capitano
della guardia del papa che gli aveva condotti; ma fu maggiore il
danno degli inimici: ammazzati Balastichino e Vinea capitani
spagnuoli, ferito Federico da Bozzole e Francesco Maria di uno
scoppietto nella corazza. Voltò dipoi l'esercito verso Toscana,
menato piú dalla necessità che dalla speranza, perché nello stato
tanto consumato non si poteva sí grande esercito sostentare. In
Toscana dimorato qualche dí, tralla Pieve di Santo Stefano, il Borgo
a Sansepolcro e Anghiari, terre de' fiorentini, e occupato
Montedoglio, luogo debole e poco importante, dette una lunghissima
battaglia ad Anghiari, terra piú forte per la fede e virtú degli
uomini che per la fortezza della muraglia o per altra munizione; la
quale non avendo ottenuta, si ridusse sotto l'Apennino, tra il Borgo
e Città di Castello, dove fatti venire quattro pezzi d'artiglieria
da Mercatello, alloggiò meno di un mezzo miglio presso al Borgo, in
sulla strada per la quale si va a Urbino, incerto di quel che avesse
a fare: perché, essendo gli inimici passati dietro a lui in Toscana,
[erano] entrati nel Borgo molti de' soldati italiani, in Città di
Castello si era fermato Vitello con un'altra parte, in Anghiari,
nella Pieve a Santo Stefano e nelle altre terre convicine erano
entrati i fanti tedeschi i corsi i grigioni e i svizzeri. Venne
similmente, benché piú tardi, Lorenzo de' Medici da Firenze al
Borgo; ove stette intorno Francesco Maria oziosamente molti dí: ne'
quali luoghi cominciando ad avere incomodità grande di vettovaglie,
né si vedendo presente speranza alcuna di potere fare effetto buono,
anzi diventato l'esercito suo (il quale era necessario si
sostentasse di prede e di rapine) non manco formidabile agli amici
che agli inimici, cominciava egli medesimo a non conoscere fine
lieto alle cose sue; e i fanti che l'avevano seguitato, non avendo
pagamento, non speranza di potere piú molto predare per non avere
artiglierie e munizioni di qualità da sforzare le terre, sopportando
carestia di vettovaglie, vedendo gli inimici accresciuti di forze e
di riputazione, poiché si era scoperto loro tanto favore de'
príncipi, cominciavano a infastidirsi della lunghezza della guerra,
non sperando piú poterne avere, né col combattere presto né con la
lunghezza del tempo, felice successo. E al pontefice, da altra
parte, accadeva il medesimo: esausto di danari, poco potente per se
stesso a fare le provisioni necessarie nel campo suo, e dubbio, come
mai, della fede de' re e specialmente del re di Francia, il quale
tardamente provedeva al sussidio de' danari dovutogli per la
capitolazione, e perché lo Scudo, fermatosi secondo la volontà del
papa in Romagna, aveva recusato di mandare parte delle sue genti in
Toscana, allegando non le volere dividere.
Però, e prima che gli eserciti passassino l'Apennino, e molto piú
ridotte le cose in questo stato, erano stati vari ragionamenti
d'accordo tra il legato e Francesco Maria insieme co' suoi capitani,
interponendosene lo Scudo e don Ugo di Moncada viceré di Sicilia,
mandato dal re cattolico per questo effetto; ma niente era succeduto
insino a quel dí, per la durezza delle condizioni proposte da
Francesco Maria. Finalmente i fanti spagnuoli, indotti dalle
difficoltà che si dimostravano e dalla instanza di don Ugo, il quale
trasferitosi a loro e aggiugnendo le minaccie alla autorità avea
dimostrato questa essere precisamente la volontà del re di Spagna,
inclinorno alla concordia: la quale, prestando il consentimento
benché malvolentieri Francesco Maria, e intervenendovi per il
pontefice il vescovo d'Avellino mandato dal legato, si conveniva in
questo modo, consentendo ancora i fanti guasconi per la
interposizione dello Scudo: che il pontefice pagasse a' fanti
spagnuoli quarantacinque mila ducati, dovuti secondo dicevano per lo
stipendio di [quattro] mesi, a' guasconi e a' tedeschi uniti con
loro ducati [sessanta] mila, partissino tutti, fra otto dí, dallo
stato della Chiesa, de' fiorentini e di Urbino: che Francesco Maria,
abbandonato nel termine medesimo tutto quello possedeva, fusse
lasciato passare sicuramente a Mantova; potessevi condurre
l'artiglierie, tutte le robe sue, e nominatamente quella famosa
libreria che con tanta spesa e diligenza era stata fatta da Federigo
suo avolo materno, capitano di eserciti chiarissimo di tutti ne'
tempi suoi ma chiaro ancora, intra molte altre egregie virtú, per il
patrocinio delle lettere: assolvesselo il pontefice dalle censure, e
perdonasse a tutti i sudditi dello stato d'Urbino e a qualunque gli
fusse stato contrario in questa guerra. La sostanza delle quali cose
mentre che piú prolissamente si riduce nella scrittura, voleva
Francesco Maria vi si inserissino certe parole per le quali si
inferiva, gli spagnuoli essere quegli che promettevano lasciare al
pontefice lo stato di Urbino; la qual cosa essi ricusando, come
contraria all'onore loro, vennono insieme a contenzione; onde
Francesco Maria, insospettito che non lo vendessino al pontefice, se
ne andò all'improviso nel pivieri di Sestina, con parte de' cavalli
leggieri co' fanti italiani guasconi e tedeschi e con quattro pezzi
di artiglieria. Gli spagnuoli, data perfezione alla concordia e
ricevuti i danari promessi andorno nel regno di Napoli, essendo
quando partirno poco piú o meno di secento cavalli e quattromila
fanti; feciono il medesimo gli altri fanti, ricevuto il premio della
loro perfidia; agli italiani soli non fu né data né promessa cosa
alcuna. Perciò e Francesco Maria, della salute del quale parve che
lo Scudo tenesse cura particolare, poiché si vedde abbandonato da
tutti, aderendo alla concordia trattata prima, se ne andò per la
Romagna e per il bolognese a Mantova, accompagnato da Federico da
Bozzole e cento cavalli e secento fanti.
In questa maniera si terminò la guerra dello stato di Urbino,
continuata otto mesi, con gravissima spesa e ignominia de'
vincitori. Perché dalla parte del pontefice furono spesi
ottocentomila ducati, la maggiore parte de' quali, per la potenza
che aveva in quella città, furno pagati dalla republica fiorentina;
e i capitani appresso a' quali era la somma delle cose furono da
tutti imputati di grandissima viltà, governo molto disordinato, e da
alcuni di maligna intenzione: perché nel principio della guerra,
essendo molto potenti le forze di Lorenzo e deboli quelle degli
inimici, non seppeno mai, né con aperto valore né con industria o
providenza, usare occasione alcuna. A' quali princípi, succeduta,
per la perduta loro riputazione, la confusione e la disubbidienza
dello esercito, si aggiunse nel progresso della guerra il mancamento
in campo di molte provisioni; e in ultimo, avendo la fortuna voluto
pigliare piacere de' loro errori, moltiplicorono per opera di quella
tanti disordini che si condusse la guerra in luogo che il pontefice,
scopertesegli insidie alla vita, travagliato nel dominio della
Chiesa, temendo qualche volta e non poco dello stato di Firenze,
necessitato a ricercare con prieghi e con nuove obligazioni gli
aiuti di ciascuno, non potette anche liberarsi da tanti affanni se
non pagando col suo proprio quelle genti dello esercito inimico o
che erano state origine della guerra o che condotte a' soldi suoi,
dopo avergli fatto molte estorsioni, si erano bruttamente rivoltate
contro a lui.
In questo anno medesimo, e quasi alla fine, il re di Spagna andò,
con felice navigazione, a pigliare la possessione de' regni suoi;
avendo ottenuto dal re di Francia (tra l'uno e l'altro de' quali,
palliando la disposizione intrinseca, erano dimostrazioni molto
amichevoli) che gli prorogasse per sei mesi il pagamento de' primi
centomila ducati che era tenuto a dargli per l'ultimo accordo fatto
tra loro: e i viniziani riconfermorono per due anni la lega
difensiva, che avevano col re di Francia, col quale stando
congiuntissimi tenevano poco conto dell'amicizia di tutti gli altri;
in tanto che ancora non avevano mai mandato a dare l'ubbidienza al
pontefice. Il quale fu molto imputato che avesse mandato legato a
Vinegia Altobello vescovo di Pola, come cosa indegna della sua
maestà.
Lib.13, cap.9
Il 1518 anno di quiete e di pace per l'Italia: trattative fra i
príncipi per una spedizione contro i turchi. Delitti domestici e
progressi di Selim; i mammalucchi. Potenza di Selim. Appello del
pontefice ai príncipi cristiani, e disegni per la spedizione;
pubblicazione in concistorio d'una tregua di cinque anni fra i
príncipi cristiani. Scarso entusiasmo dei príncipi per l'impresa;
morte di Selim.
Séguita l'anno mille cinquecento diciotto, nel quale Italia (cosa
non accaduta già molti anni) non sentí movimento alcuno, benché
minimo, di guerra. Anzi appariva la medesima disposizione in tutti i
príncipi cristiani; tra' quali, essendone autore il pontefice, si
trattava, ma piú presto con ragionamenti apparenti che con consigli
sostanziali, la espedizione universale di tutta la cristianità
contro a Selim principe de' turchi: il quale aveva l'anno precedente
ampliata tanto la sua grandezza che, considerando la sua potenza e
non meno la cupidità del dominare, la virtú e la ferocia, si poteva
meritamente dubitare che, non prevenendo i cristiani di assaltarlo,
avesse, innanzi passasse molto tempo, a voltare le armi vittoriose
contro a loro.
Perché Selim, avendo innanzi compreso che Baiset suo padre, già
molto vecchio, pensava di stabilire la successione dello imperio in
Acomath suo primogenito, ribellatosi da lui, lo costrinse con
l'armi, e con l'avere corrotto i soldati pretoriani, a rinunziargli
la signoria; e si credette anche universalmente che, per assicurarsi
totalmente di lui, lo facesse morire sceleratamente di veleno.
Vincitore dipoi in uno fatto d'arme contro al fratello, lo privò
apertamente della vita; il medesimo fece a Corcú fratello minore di
tutti: né contento d'avere fatto ammazzare, secondo il costume degli
ottomanni, i nipoti e qualunque viveva di quella stirpe, si credé,
tanto fu di ingegno acerbo e implacabile, che qualche volta pensasse
di privare della vita Solimanno suo unico figliolo. Da questi
princípi continuando di guerra in guerra, vinti gli aduliti popoli
montani e feroci, trapassato in Persia contro al sofí, e venuto con
lui a giornata lo ruppe, occupò la città di Tauris, sedia di quello
imperio, con la maggiore parte della Persia: la quale fu costretto
ad abbandonare, non per virtú degli inimici (che diffidandosi di
potere sostenere l'esercito suo si erano ritirati a' luoghi montuosi
e salvatichi), ma perché, essendo stato quello anno sterilissimo,
gli mancavano le vettovaglie. Da questa espedizione poiché ritornato
in Costantinopoli, e puniti molti soldati autori di sedizione, ebbe
restaurato per qualche mese l'esercito, simulando di volere
ritornare a debellare la Persia, voltò le armi contro al soldano re
della Soria e dello Egitto, principe non solo di antichissima
riverenza e degnità appresso a quella religione ma potentissimo, per
la amplitudine del dominio per le entrate grandi e per la milizia
de' mammalucchi, dalle armi de' quali era stato posseduto quello
imperio con grandissima riputazione [trecento] anni. Perché essendo
retto da soldani, i quali non per successione ma per elezione
ascendevano al supremo grado, e dove non erano esaltati se non
uomini di manifesta virtú, e provetti per tutti i gradi militari, al
governo delle provincie e degli eserciti, e constando il nervo delle
armi loro non di soldati mercenari e forestieri ma di uomini eletti,
i quali, rapiti da fanciulli delle provincie vicine, e nutriti per
molti anni con parcità di vitto, tolleranza delle fatiche e con
esercitarsi continuamente nelle armi nel cavalcare e in tutte le
esercitazioni appartenenti alla disciplina militare, erano ascritti
nello ordine de' mammalucchi (succedendo di mano in mano in quello
ordine non i figliuoli de' mammalucchi morti ma altri, che presi da
fanciulli per schiavi vi pervenivano con la medesima disciplina e
con le medesime arti che erano di mano in mano pervenuti gli
antecessori) questi, in numero non piú di sedici o diciottomila,
tenevano soggiogati con acerbissimo imperio tutti i popoli dello
Egitto e della Soria, spogliati di tutte l'armi e proibiti di non
cavalcare cavalli. Ed essendo uomini di tanta virtú e ferocia e che
facevano la guerra per sé propri, perché del numero loro e da loro
si eleggevano i soldani, loro gli onori le utilità e
l'amministrazione di tutto quello opulentissimo e ricchissimo
imperio, non solo avevano domate molte nazioni vicine, battuti gli
arabi, ma, fatte molte guerre co' turchi, erano rimasti molte volte
vittoriosi ma rare volte o non mai vinti da loro. Contro a questi
adunque mossosi con l'esercito suo Salim e rottogli in piú battaglie
in campagna, nelle quali fu ammazzato il soldano, e dipoi preso in
una battaglia l'altro soldano suo successore, il quale fece morire
publicamente con ignominioso supplicio, e fatta uccisione
grandissima anzi quasi spento il nome de' mammalucchi, debellato il
Cairo, città popolosissima nella quale risedevano i soldani, occupò
in brevissimo tempo tutta la Soria e tutto lo Egitto; in modo che,
avendo cosí presto accresciuto tanto lo imperio, duplicate quasi le
entrate, levatosi lo ostacolo di emuli tanto potenti e di tanta
riputazione, era non senza cagione formidabile a' cristiani. E
accresceva meritamente il timore l'essere congiunta a tanta potenza
e valore una ardente cupidità di dominare e di fare gloriosissimo a'
posteri con le vittorie il suo nome; per la quale, leggendo spesso,
come era la fama, le cose fatte da Alessandro magno e da Giulio
Cesare, si cruciava nello animo mirabilmente che le cose fatte da sé
non fussino in parte alcuna comparabili a tante vittorie e trionfi
loro. E riordinando continuamente i suoi eserciti e la sua milizia,
fabricando di nuovo numero grandissimo di legni e facendo molte
provisioni necessarie alla guerra, si temeva pensasse di assaltare,
quando fusse preparato, chi diceva Rodi, propugnacolo de' cristiani
nelle parti dell'Oriente, chi diceva il regno d'Ungheria, già per la
ferocia degli abitatori temuto da' turchi ma in questo tempo
indebolito per essere in mano d'uno re pupillo, governato da'
prelati e da' baroni del regno discordanti tra loro medesimi. Altri
affermavano essere i suoi pensieri volti tutti a Italia; come se ad
assaltarla gli desse audacia la discordia de' príncipi e il sapere
quanto fusse lacerata da lunghe guerre, e lo incitasse la memoria di
Maumeth suo avolo che, con potenza molto minore e con piccola armata
mandata nel regno di Napoli, aveva con assalto improviso espugnata
la città d'Otranto, e apertasi, se non gli fusse sopravenuta la
morte, una porta e stabilita una sedia da vessare continuamente gli
italiani.
Però il pontefice insieme con tutta la corte romana spaventato da
tanto successo, e dimostrando, per provedere a sí grave pericolo,
volere prima ricorrere agli aiuti divini, fece celebrare per Roma
devotissime supplicazioni, alle quali andò egli co' piedi nudi; e
dipoi voltatosi a pensare e a trattare degli aiuti umani scrisse
brevi a tutti i príncipi cristiani, ammonendogli di tanto pericolo e
confortandogli che, deposte le discordie e contenzioni, volessino
prontamente attendere alla difesa della religione e della salute
comune, la quale stava continuamente sottoposta a gravissimi
pericoli se con gli animi e con le forze unite di tutti non si
trasferisse la guerra nello imperio del turco e assaltassesi lo
inimico nella casa propria. Sopra la quale cosa essendo stati
esaminati molti pareri d'uomini militari e di persone perite de'
paesi, della disposizione delle provincie e delle forze e armi di
quello imperio, si risolveva essere necessario che, fatta
grossissima provisione di danari con la contribuzione volontaria de'
príncipi e con imposizione universale a tutti i popoli cristiani,
Cesare accompagnato dalla cavalleria degli ungheri e de' polloni,
nazioni bellicose ed esercitate in continue guerre contro a' turchi,
e con uno esercito, quale si convenisse a tanta impresa, di cavalli
e di fanti tedeschi, navigasse per il Danubio nella Bossina
(dicevasi anticamente Misia) per andare di quivi in Tracia e
accostarsi a Costantinopoli sedia dello imperio degli ottomanni; che
il re di Francia, con tutte le forze del regno suo, de' viniziani e
degli altri d'Italia, accompagnato dal peditato de' svizzeri,
passasse dal porto di Brindisi in Albania, passaggio facile e
brevissimo, per assaltare la Grecia piena di abitatori cristiani, e
per questo e per la acerbità dello imperio de' turchi dispostissima
a ribellarsi; che i re di Spagna di Portogallo e d'Inghilterra,
congiunte l'armate loro a Cartagenia e ne' porti vicini, si
dirizzassino con dugento navi piene di fanti spagnuoli e d'altri
soldati allo stretto di Galipoli, per assaltare, espugnati che
fussino i Dardanuli (altrimenti le castella poste in su la bocca
dello stretto), Gostantinopoli: al quale cammino navigasse
medesimamente il pontefice, movendosi da Ancona, con cento navi
rostrate. Co' quali apparati essendo coperta la terra e il mare, e
assaltato da tante parti lo stato de' turchi, i quali fanno
principalmente il fondamento di difendersi alla campagna, pareva,
aggiunto massimamente l'aiutorio divino, potersi sperare di guerra
tanto pietosa felicissimo fine. Queste cose per trattare, o almanco
per non potere essere imputato di mancare allo officio pontificale,
Lione, tentati prima gli animi de' príncipi, publicò in concistorio
tregue universali per cinque anni tra tutti i potentati cristiani,
sotto pena di gravissime censure a chi contravenisse; e perché
fussino accettate, e trattate le cose appartenenti a tanta impresa,
le quali anche consultava continuamente con gli oratori de'
príncipi, destinò legati il cardinale di Santo Sisto a Cesare,
quello di Santa Maria in Portico al re di Francia, il cardinale
Egidio al re di Spagna e Lorenzo cardinale Campeggio al re
d'Inghilterra; cardinali tutti di autorità, o per esperienza di
faccende o per opinione di dottrina o per essere intrinsechi al
pontefice. Le quali cose benché cominciate con grande espettazione,
e ancora che la tregua universale fusse stata accettata da tutti, e
che tutti contro a' turchi, con ostentazione e magnificenza di
parole, si dimostrassino, se gli altri concorrevano, di essere
pronti con tutte le forze loro a causa tanto giusta, nondimeno,
essendo reputato da tutti il pericolo incerto e molto lontano, e
appartenente piú agli stati dell'uno che dell'altro, ed essendo
molto difficile e che ricercava tempo lungo l'introdurre uno ardore
e una unione tanto universale, prevalevano i privati interessi e
comodità: in modo che queste pratiche non solo non si condusseno a
speranza alcuna ma non si trattorono se non leggiermente e quasi per
cerimonia: essendo anche naturale degli uomini che le cose che ne'
princípi si rappresentano molto spaventose si vadino di giorno in
giorno in modo diminuendo e cancellando che, non sopravenendo nuovi
accidenti che rinfreschino il terrore, se ne rendino in progresso di
non molto tempo gli uomini quasi sicuri. La quale negligenza alle
cose publiche, e affezione immoderata alle particolari, confermò piú
la morte che succedette, non molto poi, di Salim: il quale, avendo
per lunga infermità sospesi gli apparati della guerra, consumato
finalmente da quella, passò all'altra vita, lasciato tanto imperio a
Solimanno suo figliuolo; giovane di età ma riputato di ingegno piú
mansueto e di animo, benché gli effetti dimostrorono poi altrimenti,
non acceso alla guerra.
Lib.13, cap.10
Manifestazioni di cordialità fra il pontefice e il re di Francia.
Proroga della tregua dei veneziani con Cesare. Lega e parentado fra
i re di Francia e d'Inghilterra. Conferma della pace fra i re di
Francia e di Spagna. Morte di Gianiacopo da Triulzi; giudizio
dell'autore.
Nel quale tempo tra il pontefice e il re di Francia si dimostrava
grandissima congiunzione. Perché il re dette per moglie a Lorenzo
suo nipote la damigella di Bologna, nata di sangue molto nobile, e
con entrata di scudi diecimila, parte donatagli dal re parte
appartenentegli del patrimonio suo; ed essendo nato al re uno
figliuolo maschio, richiese il pontefice che lo facesse tenere al
battesimo in nome suo. Per la quale cagione Lorenzo, che si ordinava
per andare a sposare la nuova moglie, accelerando l'andata, si
condusse in poste; dove fu molto carezzato e onorato dal re; al
quale egli dimostrando di darsi tutto, e promettendo di seguitare in
ogni caso la sua fortuna, acquistò molto della sua grazia. Portò al
re uno breve del pontefice per il quale gli concedeva che, insino a
tanto che i danari riscossi della decima e della crociata non si
avessino a spendere contro a' turchi, potesse spendergli ad arbitrio
suo, promettendo restituirgli ogni volta che allo effetto per che
era stata posta ne fusse di bisogno; convertendone però in uso di
Lorenzo scudi cinquantamila: e il re, che insino a quel dí aveva
dissimulato il non eseguire il pontefice la promessa, fattagli per
breve, della restituzione di Modena e di Reggio, ancora che fusse
passato il termine de' sette mesi, conoscendo non potere fare al
pontefice cosa piú molesta che fargli instanza di questa
restituzione, e tenendo, come spesso accade, piú conto de' maggiori
che de' minori, rimesse in mano di Lorenzo il breve della promessa.
Prorogorono anche, quasi nel tempo medesimo, i viniziani per mezzo
del re di Francia, la tregua loro con Cesare per cinque anni, con
condizione gli pagassino, ciascuno de' cinque anni, scudi ventimila;
e nella quale era espresso che ciascuno anno pagassino a' fuorusciti
delle terre loro, i quali avevano seguitato Cesare, il quarto delle
entrate de' beni che prima possedevano; tassando pagassino per
questa causa ducati cinquemila. E si sarebbe Cesare indotto per
avventura, se gli avessino dato maggiore somma di danari, a fare la
pace; ma al re era piú grata la tregua perché i viniziani, non
assicurati del tutto, avessino maggiore cagione di tenere cara la
sua amicizia, e perché a Cesare non fusse data facoltà di fare co'
danari che avesse da loro qualche innovazione.
E dirizzandosi le cose da ogni banda a concordia, si composono anche
le differenze tra il re di Francia e d'Inghilterra, confermandole,
acciocché la convenzione fusse piú stabile, con nuovo parentado;
perché il re d'Inghilterra promesse dare la figliuola sua unica
(alla quale, non avendo altri figliuoli, si sperava doversi
appartenere la successione del regno) al delfino figliuolo
primogenito del re di Francia, con ducati quattrocentomila di dota;
l'uno e l'altra di età sí tenera che infiniti accidenti potevano
nascere innanzi che, per l'abilità della età, si potesse stabilire
il matrimonio. Fu fatta lega difensiva tra loro, nominandovi per
contraenti principali Cesare e il re di Spagna in caso ratificassino
infra certo tempo: e il re d'Inghilterra si obligò a restituire
Tornai, la guardia del quale gli era di spesa molto grave, ricevendo
da lui di presente per le spese fatte ducati dugento sessantamila;
trecentomila ne confessasse d'avere ricevuti per la dota della
nuora, e pagandone trecentomila altri in tempo di dodici anni;
promettendo eziando di rendergli indietro Tornai se la pace e il
parentado non seguitasse. Per la quale lega e parentado essendo
andati da l'una parte a l'altra imbasciadori a ricevere le
ratificazioni e i giuramenti, furono espediti questi atti nell'una e
nell'altra corte con grandissima solennità e cerimonia, e stabilito
che i due re si abboccassino insieme tra Calès e Bologna, né molto
poi fatta la restituzione di Tornai.
Nel medesimo tempo, essendo morta la figliuola del re di Francia
destinata a essere sposa del re di Spagna, fu riconfermata tra loro
la pace e prima capitolazione, con la promessa del matrimonio della
seconda figliuola; celebrando l'uno e l'altro principe questa
congiunzione con grandissime dimostrazioni estrinseche di
benivolenza: il re di Spagna, che aveva già fattogli pagare in Lione
i centomila ducati, portò publicamente l'ordine di San Michele il dí
della sua festività; e il re di Francia, il dí dedicato a santo
Andrea, portò publicamente l'ordine del tosone.
Cosí stando quiete le cose d'Italia e d'oltre a' monti, solo
Gianiacopo da Triulzi travagliava, non gli giovando né la età
ridotta quasi a ultima vecchiezza né la virtú esperimentata tante
volte in servigio della casa di Francia. Perché, dandone forse
cagione in qualche parte l'ambizione e la inquietudine sua, essendo
combattuto da' sottili umori degli emoli suoi e perseguitato in
molte cose da Lautrech, era stato fatto sospetto al re che egli e la
casa sua, per l'interesse della fazione guelfa e per antichi
intrattenimenti, fusse troppo accetto a' viniziani, delle genti de'
quali era governatore Teodoro da Triulzi, e che avevano nuovamente
soldato Renato della medesima famiglia: però il re, essendo dopo la
morte di Francesco Bernardino Visconte rimasto capo della fazione
ghibellina Galeazzo Visconte, per opporlo al Triulzio con maggiore
autorità gli aveva dato l'ordine di San Michele, costituito
pensione, ed egli e Lautrech in ogni occasione gli davano
riputazione; le quali cose non passando senza depressione del
Triulzio, male paziente a dissimulare e che si lamentava
frequentemente, diventava ogni dí piú esoso e piú sospetto. Ma dette
occasione a Lautrech e agli altri, che lo calunniavano appresso al
re, l'essersi fatto borghese de' svizzeri, come se e' volesse per
mezzo loro avere patrocinio contro al re e forse aspirasse a
maggiori pensieri: delle quali calunnie essendo, cosí vecchio come
era, andato in Francia a giustificarsi, non solo Lautrech, come egli
fu partito, per ordinazione avuta dal re, ritenne a Vigevano con
onesta custodia la moglie e il nipote nato del conte di Musocco suo
unico figliuolo già morto, ma eziandio dal re non fu raccolto né con
benignità né con l'onore solito; anzi riprendendolo di essersi fatto
svizzero, gli disse che da punirlo, secondo sarebbe stato
conveniente, non lo riteneva altro che la fama divulgata per tutto,
ma sopra la verità, de' meriti suoi verso la corona di Francia. Fu
necessitato ritrattare quello che aveva fatto; e pochi dí poi,
seguitando la corte, ammalato a Ciartres, passò all'altro secolo.
Uomo a giudizio di tutti (come avevano confermato molte esperienze)
di valore grande nella disciplina militare, e sottoposto per tutta
la vita alla incostanza della fortuna, che ora lo abbracciava con
prosperi successi ora lo esagitava con avversi; e a chi
meritatamente si convenisse quello che, per ordine suo, fu inscritto
nel suo sepolcro: riposarsi in quello sepolcro Gianiacopo da
Triulzi, che innanzi non si era mai riposato.
Lib.13, cap.11
Desiderio di Cesare che venga designato un suo nipote a re dei
romani; sue preferenze per Ferdinando, e preferenze dei suoi
consiglieri per Carlo. Azione del re di Francia contraria
all'incoronazione imperiale di Cesare. Morte di Cesare; giudizio
dell'autore.
In questo anno medesimo Cesare, desideroso di stabilire la
successione dello imperio romano, dopo la morte, in uno de' nipoti,
trattava con gli elettori di farne eleggere uno in re de' romani; la
quale degnità chi ha conseguito succede immediatamente senza altra
elezione o confermazione, morto lo imperadore, allo imperio: e
perché a questa elezione non si può pervenire insino a tanto che chi
è stato eletto allo imperio non ha ottenuto la corona imperiale,
faceva instanza col pontefice che con esempio nuovo lo facesse, per
mano di alcuni cardinali deputati legati apostolici a questo atto,
incoronare in Germania. E benché Cesare avesse prima desiderato che
questa degnità fusse conferita a Ferdinando suo nipote, parendogli
conveniente che, poiché al fratello maggiore erano concorsi tanti
stati e tanta grandezza, egli si sostentasse con questo grado, e
giudicando, che per mantenere piú illustre la casa sua e per tutti i
casi sinistri che nella persona del maggiore potessino succedere,
essere meglio avervi due persone grandi che una sola; nondimeno,
stimolato in contrario da molti de' suoi e dal cardinale sedunense,
e da tutti quegli i quali temevano e odiavano la potenza de'
franzesi, rifiutato il primo consiglio, voltò l'animo a fare opera
che a questa degnità fusse assunto il re di Spagna: dimostrandogli
questi tali essere molto piú utile alla esaltazione della casa di
Austria accumulare tutta la potenza in uno solo che, dividendola in
piú parti, fargli manco potenti a conseguitare i disegni loro.
Essere tanti e tali i fondamenti della grandezza di Carlo che,
aggiugnendosegli la degnità imperiale, si potesse sperare che avesse
a ridurre Italia tutta e grande parte della cristianità in una
monarchia; cosa non solo appartenente alla grandezza de' suoi
discendenti ma ancora alla quiete de' sudditi e, per rispetto delle
cose degli infedeli, a beneficio di tutta la republica cristiana. Ed
essere ufficio e debito suo pensare allo augumento e alla
esaltazione della degnità imperiale, stata tanti anni nella persona
sua e nella famiglia di Austria; la quale, insino a quello dí, stata
per la impotenza sua e de' suoi antecessori maggiore in titolo e in
nome che in sostanza e in effetti, non si poteva sperare aversi a
sollevare né ritornare al pristino splendore se non trasferendosi
nella persona di Carlo e congiugnendosi alla sua potenza: la quale
occasione, portatagli dall'ordine della natura e della fortuna, non
essere ufficio suo di impedire anzi di augumentare. Vedersi per gli
esempli degli antichi imperadori, Giulio Cesare, Augusto e molti de'
suoi successori, che mancando di figliuoli e di persone della
medesima stirpe, gelosi che non [si] spegnesse o diminuisse la
degnità riseduta nella persona loro, avere cercato successori,
remoti di congiunzione o non attenenti eziandio in parte alcuna per
mezzo delle adozioni; ed essere fresco l'esempio del re cattolico,
che amando come figliuolo Ferdinando, allevato continuamente
appresso a lui, né avendo non che altro mai veduto Carlo, anzi
provatolo nella sua ultima età poco ubbidiente a' precetti suoi,
nondimeno, non avuta compassione della povertà di quello che amava
come figliuolo, non gli aveva fatto parte alcuna di tanti stati
suoi, né di quegli eziandio che per essere acquistati da lui proprio
era in facoltà sua di disporre, anzi avere lasciato tutto a quello
che quasi non conosceva se non per strano. Ricordarsi Cesare il
medesimo re averlo sempre confortato ad acquistare a Ferdinando
stati nuovi ma a lasciare la degnità imperiale a Carlo; ed essersi
veduto che per fare maggiore la grandezza del successore aveva,
forse con consiglio dannato da molti e per avventura ingiusto ma non
mosso da altra cagione che da questo, spogliato del regno d'Aragona
il casato suo proprio tanto nobile e tanto illustre, e consentito,
contro al desiderio comune della maggiore parte degli uomini, che il
nome della casa sua si spegnesse e si annichilasse.
A questa instanza di Cesare si opponeva con ogni arte e industria il
re di Francia, essendogli molestissimo che a tanti regni e stati del
re di Spagna si aggiugnesse ancora l'autorità imperiale, che
ripigliando vigore da tanta potenza diventerebbe formidabile a
ciascuno: però cercando di disturbarla occultamente appresso agli
elettori, faceva instanza col pontefice che non consentisse di
mandare, con esempio nuovo, a Cesare la corona; e a' viniziani aveva
mandato imbasciadori perché si unissino seco a fare opposizione:
ammonendo e il pontefice e loro del pericolo porterebbono di tanta
grandezza. Nondimeno, e già gli elettori erano in grande parte
tirati nella sentenza di Cesare, e già quasi assicurati de' danari
che per questa elezione si promettevano loro dal re di Spagna, il
quale avea mandato per questo dugentomila ducati nella Alamagna, non
potendo anche con onestà, né forse senza pericolo di scandolo, avuto
rispetto agli esempli passati, denegare questa petizione; né si
credeva che il pontefice, ancora che gli fusse molestissimo,
recusasse di concedere che per mano di legati apostolici Cesare
ricevesse in Germania in suo nome la corona dello imperio, con ciò
sia che lo andare a incoronarsi a Roma, se bene con maggiore
autorità della sedia apostolica, fusse per ogn'altro rispetto piú
presto cerimonia che sostanzialità.
Con questi pensieri e con queste azioni si consumò l'anno mille
cinquecento diciotto, non essendo ancora fatta la deliberazione
dagli elettori; la quale, per nuovo accidente, diventò piú dubbia e
piú difficile: per la morte di Cesare, succeduta ne' primi dí
dell'anno mille cinquecento diciannove. Morí a Linz, terra posta ne'
confini dell'Austria, intento come sempre alle caccie delle fiere; e
con la medesima fortuna con la quale era vivuto quasi sempre; e la
quale, statagli benignissima in offerirgli grandissime occasioni,
non so se gli fusse parimente avversa in non gliene lasciare
conseguire, o se pure quello che insino alla casa propria gli era
portato dalla fortuna ne lo privasse la incostanza sua, e i concetti
male moderati e differenti spesso dai giudíci degli altri uomini,
congiunti ancora con smisurata prodigalità e dissipazione di danari;
le quali cose gli interroppono tutti i successi e l'occasioni.
Principe, altrimenti, peritissimo della guerra, diligente secreto
laboriosissimo, clemente benigno e pieno di molte egregie doti e
ornamenti.
Lib.13, cap.12
Aspirazione del re di Francia e del re di Spagna all'impero.
Speranze dell'uno e dell'altro sovrano. Preoccupazioni e prudenza
del pontefice. Allestimento di armate da parte dei due re e
simulazione d'amicizia. Morte di Lorenzo de' Medici; il ducato
d'Urbino passa alla sedia apostolica.
Morto Massimiliano, cominciorno ad aspirare allo imperio apertamente
il re di Francia e il re di Spagna: la quale controversia, benché
fusse di cosa sí importante e tra príncipi di tanta grandezza,
nondimeno fu esercitata tra loro modestamente, non procedendo né a
contumelie di parole né a minaccie d'armi ma ingegnandosi ciascuno,
con l'autorità e mezzi suoi, tirare a sé gli animi degli elettori.
Anzi il re di Francia, molto laudabilmente, parlando sopra questa
elezione con gli imbasciadori del re di Spagna, disse essere
commendabile che ciascuno di loro cercasse onestamente di ornarsi
dello splendore di tanta degnità, la quale in diversi tempi era
stata nelle case delle persone e degli antecessori loro; ma non per
questo doverselo l'uno di loro ripigliare dall'altro per ingiuria,
né diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione, anzi dovere
seguitare lo esempio che qualche volta si vede di due giovani amanti
che, benché amino una dama medesima e si sforzi ciascuno di loro,
con ogni arte e industria possibile, di ottenerla, non per questo
vengono tra loro a contenzione.
Pareva al re di Spagna appartenersegli lo imperio debitamente per
essere continuato molti anni nella casa di Austria, né essere stato
costume degli elettori privarne i discendenti del morto senza
evidente cagione della inabilità loro. Non era alcuno in Germania di
tanta autorità e potenza che avesse a competere seco in questa
elezione, né gli pareva giusto o verisimile che gli elettori
avessino a trasferire in uno principe forestiero tanta degnità
continuata già molti secoli nella nazione germanica; e quando
alcuno, corrotto con danari o per altra cagione, fusse di intenzione
diversa, sperava e di spaventargli con le armi preparate in tempo
opportuno e che gli altri elettori se gli opporrebbono, e almanco
che tutti gli altri príncipi e l'altre terre franche di Germania non
tollererebbono tanta infamia e ignominia di tutti, e massime
trattandosi di trasferirla nella persona d'uno re di Francia, con
accrescere la potenza d'uno re inimico alla loro nazione e donde si
poteva tenere per certo che quella degnità non ritornerebbe mai in
Germania. Stimava facile ottenere la perfezione di quello che era
già stato trattato collo avolo, essendo già convenuto de' premi e
de' donativi con ciascuno degli elettori. Da altra parte non era
minore né la cupidità né la speranza del re di Francia, fondata
principalmente in sulla credenza dello acquistare con grandissima
somma di danari i voti degli elettori; de' quali alcuni, congiunti
seco per antica amicizia e intrattenimento, mostrandogli la facilità
della cosa, lo incitavano a farne impresa: la quale speranza (come
sono pronti gli uomini a persuadersi quello che desiderano) nutriva
con ragioni piú presto apparenti che vere. Perché sapeva che
ordinariamente a' príncipi di Germania era molesto che gl'imperadori
fussino molto potenti, per il sospetto che non volessino in tutto o
in qualche parte riconoscere le giurisdizioni e autorità imperiali
occupate da molti; e però si persuadeva che in modo alcuno non
fussino per consentire alla elezione del re di Spagna,
sottomettendosi da se medesimi a uno imperadore piú potente che
dalla memoria degli antichi in qua fusse stato imperadore alcuno,
cosa che non pareva al tutto simile in lui, perché non avendo stati
né aderenze antiche in Germania non potevano avere tanto sospetta la
sua grandezza: per la quale ragione, comune similmente alle terre
franche, stimava non solo contrapesarsi ma opprimersi il rispetto
della gloria della nazione, come sogliono comunemente potere piú
negli uomini senza comparazione gli stimoli dello interesse proprio
che il rispetto del beneficio comune. Eragli noto essere
molestissimo a molte case illustri in Germania, che pretendevano
essere capaci di quella degnità, che lo imperio fusse continuato
tanti anni in una casa medesima, e che quello che oggi a l'una
domani a l'altra dovevano dare per elezione fusse cominciato, quasi
per successione, a perpetuarsi in una stirpe medesima; e potersi
chiamare successione quella elezione che non ardiva discostarsi da'
piú prossimi della stirpe degli imperadori: cosí da Alberto
d'Austria essere passato lo imperio in Federigo suo fratello, da
Federigo in Massimiliano suo figliuolo, e ora trattarsi di
trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo nipote. I
quali umori e indegnazioni de' príncipi di Germania gli davano
speranza che le discordie ed emulazioni tra loro medesimi potessino
aiutare la causa sua, accadendo spesso nelle contenzioni che chi
vede escluso sé, o chi è favorito da sé, si precipiti, posposti
tutti i rispetti, piú presto a qualunque terzo che cedere a chi è
stato opposito alla sua intenzione. Sperò oltre a questo il re di
Francia nel favore del pontefice, cosí per la congiunzione e
benivolenza che gli pareva avere contratta seco come perché non
credeva che a lui potesse piacere che Carlo, principe di tanta
potenza e che, contiguo col regno di Napoli allo stato della Chiesa,
aveva per l'aderenza de' baroni ghibellini aperto il passo insino
alle porte di Roma, conseguisse anche la corona dello imperio; non
considerando che questa ragione, verissima contro a Carlo, militava
ancora contro a lui: perché e al pontefice e a ciascuno altro non
aveva a essere manco formidoloso lo imperio congiunto in lui che in
Carlo; con ciò sia che se l'uno di loro possedeva forse piú regni e
piú stati, l'altro non era da stimare manco, perché non aveva sparsa
e divulsa in vari luoghi la sua potenza ma il regno tutto raccolto e
unito insieme, con ubbidienza maravigliosa de' popoli suoi e pieno
di grandissime ricchezze. Nondimeno, non conoscendo in sé quello che
facilmente considerava in altri, ricorse al pontefice supplicandolo
volesse dargli favore, perché di sé e de' regni suoi si potrebbe
valere come di proprio figliuolo.
Premeva grandissimamente il pontefice la causa di questa elezione,
essendogli molestissimo, per la sicurtà della sedia apostolica e del
resto di Italia, qualunque de' due re fusse assunto allo imperio; né
essendo tale l'autorità sua appresso agli elettori che sperasse con
quella potere giovare molto, giudicò essere necessario adoperare in
cosa di tanto momento la prudenza e le arti. Persuadevasi che il re
di Francia, ingannato da qualcuno degli elettori, non avesse parte
alcuna in questa elezione; né avere, benché in uomini venali, a
potere tanto le corruttele che avessino sí disonestamente a
trasferire lo imperio dalla nazione germanica nel re di Francia.
Parevagli che al re di Spagna, per essere della medesima nazione,
per le pratiche cominciate da Massimiliano e per molti altri
rispetti, fusse molto facile conseguire lo intento suo, se non se
gli faceva opposizione molto potente; la quale giudicava non potere
farsi in altro modo se non che il re di Francia si disponesse a
voltare in uno degli elettori quelli medesimi favori e danari che
usava per eleggere sé. Parevagli impossibile indurre il re a questo
mentre che era nel fervore delle speranze vane; però sperava che
quanto piú ardentemente e con piú speranza si ingolfasse in questa
pratica tanto piú facilmente, quando cominciasse ad accorgersi
riuscirgli vani i pensieri suoi, trovandosi già scoperto e irritato,
e in su la gara, aversi a precipitare a favorire la elezione d'uno
terzo con non minore ardore che avesse favorito quella di se
medesimo; e potere in questo tempo, acquistata che avesse fede col
re di essergli favorevole e d'avere desiderato quel medesimo che
lui, essere udita l'autorità e il consiglio suo; e potere similmente
accadere, favorendosi gagliardamente ne' princípi le cose del re di
Francia, che l'altro re, veduto difficultarsi il desiderio suo e
dubitando che il re avversario non vi avesse qualche parte, si
precipitasse medesimamente a uno terzo. Però non solo dimostrò al re
di Francia di avere sommo desiderio che in lui pervenisse lo
imperio, ma lo confortò con molte ragioni a procedere vivamente in
questa impresa, promettendogli amplissimamente di favorirlo con
tutta la autorità del pontificato. Né parendogli potere fare
maggiore impressione, che questa fusse la sua intenzione, che usare
in questa azione uno instrumento il quale il re di Francia
giudicasse dependere piú da sé che da altri, destinò subitamente
nunzio suo in Germania Ruberto Orsino arcivescovo di Reggio, persona
confidente al re: con commissione che, e da per sé e insieme con gli
agenti che vi erano per il re, favorisse quanto poteva appresso agli
elettori la sua intenzione: avvertendolo perciò a procedere o con
maggiore o con minore moderazione secondo che in Germania trovasse
la disposizione degli elettori e lo stato delle cose. Le quali
azioni, discorse dal pontefice prudentemente e coperte con somma
simulazione, arebbono avuto bisogno che nel re di Francia e ne'
ministri suoi che erano in Germania fusse stata maggiore prudenza, e
ne' ministri del pontefice maggiore gravità e maggiore fede.
Ma mentre che queste cose si trattano con le pratiche e non con le
armi, il re di Francia ordinò che Pietro Navarra uscisse in mare con
una armata di venti galee e di altri legni e con quattromila fanti
pagati, sotto nome di reprimere le fuste de' mori (le quali avendo
già molti anni scorso senza ostacolo i nostri mari scorrevano in
questo anno medesimo piú che mai) e di assaltare, se cosí paresse al
pontefice, i mori di Africa; ma principalmente perché il pontefice,
scopertosi totalmente per lui nella causa dello imperio, non avesse
causa di temere delle forze del re cattolico; il quale, piú per
timore che aveva di essere offeso che per desiderio che avesse di
offendere altri, preparava sollecitamente una armata per mandarla
alla custodia del reame di Napoli. E nondimeno, in queste diffidenze
e sospetti, continuandosi tra l'uno e l'altro re nella simulazione
di amicizia, si convennono in nome loro a Mompolieri il gran maestro
di Francia e monsignore di Ceures, in ciascuno de' quali consisteva
quasi tutto il consiglio e l'animo del suo re, per trattare sopra lo
stabilimento del matrimonio della seconda figliuola del re di
Francia col re di Spagna; e molto piú per risolvere le cose del
reame di Navarra, la restituzione del quale all'antico re, promessa
nella concordia fatta a Noion, benché molto sollecitata dal re di
Francia, era stata insino a quel dí differita dal re di Spagna con
varie escusazioni: ma la morte del gran maestro, succeduta innanzi
parlassino insieme, interroppe la speranza di questa andata.
Morí in questo tempo Lorenzo de' Medici, oppressato da infermità
quasi continua da poi che, consumato con infelici auspici il
matrimonio, era ritornato di Francia; perché, e pochissimi dí
innanzi alla morte sua la moglie, avendo partorito, gli aveva
morendo preparata la strada. Per la morte di Lorenzo, il pontefice,
desideroso di tenere congiunta, mentre viveva, la potenza de'
fiorentini a quella della Chiesa, disprezzati i consigli di alcuni
che lo consigliavano che, non restando piú, eccetto lui, alcuno de'
discendenti legittimi per linea mascolina di Cosimo de' Medici
fondatore di quella grandezza, restituisse alla sua patria la
libertà, propose il cardinale de' Medici alla amministrazione di
quello stato; o per desiderio di perpetuare il nome della sua casa o
per odio, causato per l'esilio, contro al nome della republica. E
pensando che il ducato di Urbino si potesse difficilmente, per
l'amore de' popoli all'antico duca, tenere sotto nome della
figliuola restata unica di Lorenzo compresa nella investitura
paterna, lo restituí insieme con Pesero e Sinigaglia alla sedia
apostolica: né parendogli che questo bastasse a raffrenare l'ardore
de' popoli, fece gittare in terra le mura della città di Urbino e
degli altri luoghi principali del ducato, eccetto di Agobbio, alla
quale città, per non essere, per la emulazione che aveva con la
città di Urbino, tanto inclinata con l'animo a Francesco Maria,
voltò favore e riputazione, costituendola come capo di quello
ducato. Il quale per indebolire tanto piú, dette a' fiorentini, in
pagamento de' danari spesi per lui nella guerra d'Urbino, de' quali
gli aveva fatti prima creditori in camera apostolica, la fortezza di
Santo Leo con tutto il Montefeltro e il pivieri di Sestina, che
soleva essere territorio di Cesena: contentandosi poco i fiorentini
di questa sodisfazione ma non potendo opporsi alla sua volontà.
Lib.13, cap.13
Sforzi del re di Francia per guadagnarsi il favore degli elettori
dell'impero, e inclinazione dei popoli di Germania contraria a un
sovrano straniero. Ancora dell'atteggiamento del pontefice. Elezione
a imperatore del re di Spagna. Impressione per l'elezione di Carlo;
ragioni di dissensi col re di Francia.
Restava la controversia dello imperio, con grandissima sospensione
di tutta la cristianità, proseguita da l'uno e l'altro re con
maggiore caldezza che mai: nella quale il re di Francia si ingannava
ogni dí piú, indotto dalle promesse grandi del marchese di
Brandiborg, uno degli elettori; il quale, avendo ricevuto da lui
offerte grandissime di danari, e forse qualche somma di presente, si
era non solo obligato, con occulte capitolazioni, a dargli il voto
suo ma promesso che l'arcivescovo di Magunza suo fratello, uno de'
tre prelati elettori, farebbe il medesimo. Promettevasi eziandio il
re molto di un'altra parte degli elettori, e sperava, in caso che i
voti fussino pari, nel voto del re di Boemia; per il voto del quale,
discordando i sei elettori (che tre ne sono prelati, tre príncipi)
si decide la controversia: però mandò allo ammiraglio, il quale era
andato prima per queste cose in Germania, quantità grandissima di
danari per dare agli elettori. E intendendo che molte delle terre
franche insieme col duca di Vertimbergh, minacciando chi volesse
trasferire lo imperio in forestieri, congregavano molte genti,
faceva provisione di altri danari per opporsi con le armi a chi
volesse impedire che gli elettori non lo eleggessino. Ma era grande
la inclinazione de' popoli di Germania perché la degnità imperiale
non si rimovesse di quella nazione, anzi, insino a' svizzeri, mossi
dallo amore della patria comune germanica, avevano supplicato il
pontefice che non favorisse a questa elezione alcuno che non fusse
di lingua tedesca. Il quale, perseverando nondimeno nel favorire il
re di Francia, aveva, sotto pretesto della bolla delle tregue
quinquennali, publicata l'anno precedente, ammonito per brevi il
duca di Vertimbergh e molte delle terre franche che desistessino
dall'armi; sperando pure che, dimostrandosi cosí ardente per lui, il
re avesse a udire con maggiore fede i consigli suoi, co' quali alla
fine si sforzò di persuadergli che, deposta la speranza d'avere a
essere eletto lui, procurasse con quella instanza medesima la
elezione di qualunque altro de' príncipi di Germania: consiglio dato
senza alcuno frutto, perché l'ammiraglio e Ruberto Orsino, ingannati
dalle promesse di quegli che per trarre danari di mano de' franzesi
davano certissime intenzioni, e occupati dalla passione, l'uno per
essere di ingegno franzese e ministro del re, l'altro di natura
leggiero e desideroso di acquistare la grazia sua, lo confermavano
con avvisi vani, ogni dí piú, nella speranza di ottenere. Con le
quali pratiche essendosi condotti, secondo l'uso antico a
Franchefort, terra della Germania inferiore, quegli a' quali, non
per piú antica consuetudine o fondata ragione ma per concessione di
Gregorio [quinto] pontefice romano di nazione tedesco, appartiene la
facoltà di eleggere lo imperadore romano, mentre che stanno in varie
dispute per venire, al tempo debito, secondo gli ordini loro, alla
elezione, uno esercito messo in campagna per ordine del re di
Spagna, il quale fu piú pronto a spendere i danari in raccorre gente
che a dargli agli elettori, avvicinatosi a Francofort sotto nome di
proibire chi procurasse di violentare la elezione, accrebbe l'animo
agli elettori che favorivano la causa sua, tirò nella sentenza degli
altri quegli che erano dubbi, e spaventò il brandiburgense,
inclinato al re di Francia, talmente che disperato che a questo
concorressino gli altri elettori, e volendo fuggire l'odio e la
infamia appresso di tutta la nazione, non ebbe ardire di scoprire la
sua intenzione: in modo che, venendosi allo atto della elezione, fu
eletto, il dí vigesimo ottavo di giugno, imperadore Carlo d'Austria
re di Spagna da' voti concordi di quattro elettori, l'arcivescovo di
Magunza e quello di Cologna, dal conte palatino e dal duca di
Sassonia. Ma l'arcivescovo di Treveri elesse il marchese di
Brandiborg, il quale concorse anche egli alla elezione di se stesso.
Né si dubita che se, per la egualità de' voti, la elezione fusse
pervenuta alla gratificazione del settimo elettore, che sarebbe
succeduto il medesimo; perché Lodovico re di Boemia, il quale era
anche re di Ungheria, aveva promesso a Carlo il voto suo.
Depresse questa elezione molto l'animo del re di Francia e di quegli
che in Italia dependevano da lui, e per contrario inanimí molto chi
aveva speranze o pensieri contrari, vedendo congiunta tanta potenza
in uno principe solo, giovane, e al quale si sentiva per molti
vaticini essere promesso grandissimo imperio e stupenda felicità; e
se bene non fusse copioso di danari quanto era il re di Francia,
nondimeno era tenuto di grandissima importanza il potere empiere gli
eserciti suoi di fanteria tedesca e spagnuola, fanteria di molta
estimazione e valore: cosa che per il contrario accadeva al re di
Francia, perché non avendo nel regno suo fanti da opporre a questi
non poteva implicarsi in guerre potenti, se non cavando, con
grandissima spesa e qualche volta con grandissima difficoltà,
fanteria di paesi forestieri; la quale cosa lo necessitava a
intrattenere con grande spesa e diligenza i svizzeri, tollerare da
loro molte ingiurie, e nondimeno non essere mai totalmente sicuro né
della loro costanza né della loro fede. Né si dubitava che tra' due
príncipi, giovani, e tra' quali erano molte cause di emulazione e di
contenzione, avesse finalmente a nascere gravissima guerra. Perché
nel re dí Francia risedeva il desiderio di recuperare il regno di
Napoli, pretendendo avervi giusto titolo: eragli a cuore la
reintegrazione del re don Giovanni al regno di Navarra, della quale
comprendeva oramai essergli state date vane speranze: molesto era a
Cesare il pagamento de' centomila ducati promessi nello accordo di
Noion; e gli pareva che il re, sprezzato l'accordo prima fatto a
Parigi, usando immoderatamente la occasione dello essere egli
necessitato a passare in Spagna, l'avesse quasi per forza costretto
a fare concordia nuova: era sempre fresca tra loro la causa del duca
di Ghelleri, la quale sola, per averne il re di Francia la
protezione, e lo stato di Fiandra riputarlo inimicissimo, poteva
essere bastante a eccitargli all'armi. Ma sopratutto generava
nell'animo del nuovo Cesare stimoli ardentissimi il ducato di
Borgogna, il quale occupato da Luigi undecimo per l'occasione della
morte di Carlo duca di Borgogna, avolo materno del padre di Cesare,
aveva sempre tormentato l'animo de' successori. Né mancavano stimoli
o cause di controversie per cagione del ducato di Milano, del quale
non avendo il presente re, dopo la morte di Luigi duodecimo,
ottenuta né dimandata la investitura, e pretendendosi molte
eccezioni alle ragioni che gli nascevano della investitura fatta
allo antecessore e di invalidità e di perdita di ragioni, era
bastante questo a suscitare guerra tra loro. Nondimeno, né i tempi
né l'opportunità consentivano che per allora facessino movimento:
perché, oltre che a Cesare era necessario ripassare prima in
Germania, per pigliare in Aquisgrana, secondo l'uso degli altri
eletti, la corona dello imperio, si aggiugneva che, essendo ciascuno
di loro di tanta potenza, la difficoltà dello offendersi l'uno
l'altro gli riteneva dallo assaltarsi se prima non intendevano
perfettamente la mente e la disposizione degli altri príncipi, e
specialmente (se si avesse a fare guerra in Italia) quella del
pontefice. La quale, recondita dalle simulazioni e arti sue, non era
nota ad alcuno e forse talvolta non resoluta in se medesimo: benché,
piú presto per non avere occasione di negargliene senza offendere
gravemente l'animo suo che per libera volontà, avesse dispensato
Carlo ad accettare la elezione fattagli dello imperio, contro al
tenore della investitura del regno di Napoli; nella quale, fatta
secondo la forma delle antiche investiture, gli era proibito
espressamente.
Lib.13, cap.14
Aspirazione del pontefice all'acquisto di Ferrara. Il vescovo di
Ventimiglia muove con milizie con il disegno occulto di dar
l'assalto alla città. Ragione del fallimento dell'impresa.
Scioglimento dell'esercito.
Conservavasi adunque Italia in pace per queste cagioni: benché nella
fine di questo medesimo anno il pontefice tentasse di occupare la
città di Ferrara, non con armi manifeste ma con insidie. Perché se
bene si fusse creduto che, per la morte di Lorenzo suo nipote,
mancando già alla casa sua piú presto uomini che stati, avesse
levato il pensiero dalla occupazione di Ferrara alla quale prima
avea sempre aspirato, nondimeno, o stimolato dall'odio conceputo
contro a quel duca o dalla cupidità di pareggiare o almanco
approssimarsi quanto piú poteva alla gloria di Giulio, non aveva,
per la morte del fratello e del nipote, rimesso parte alcuna di
questo ardore: donde che facilmente si può comprendere che
l'ambizione de' sacerdoti non ha maggiore fomento che da se stessa.
Né comportando la qualità de' tempi, e il sito e la fortezza di
quella città, la quale Alfonso con grandissima diligenza aveva
renduta munitissima, che si pensasse a espugnarla con aperta forza,
avendo lui massime quantità quasi infinita di bellissime artiglierie
e munizioni, e avendo, con limitare tutte le spese, aggiugnere nuovi
dazi e gabelle, fare vive in qualunque modo l'entrate sue e,
esercitandosi con la industria, rappresentare in molte cose piú il
mercatante che il principe, accumulato, secondo si credeva,
grandissima quantità di danari, non restava al pontefice, se non si
mutavano le condizioni de' tempi, altra speranza di ottenerla che
con occulte insidie e trattati. De' quali avendone per il passato
tentato con Niccolò da Esti e con molti altri vanamente, ed
essendosi Alfonso, per non avere notizia che attendesse piú a queste
pratiche, quasi assicurato non della sua volontà ma delle insidie,
parve al pontefice (per partiti che gli furono proposti e per essere
Alfonso, oppresso da lunga infermità, ridotto in termine che quasi
si disperava la sua salute, e il cardinale suo fratello, per non
stare con poca grazia nella corte di Roma, trovandosi in Ungheria)
tempo opportuno di tentare di eseguire qualche disegno che gli era
proposto da alcuni fuorusciti di Ferrara, e per mezzo loro da
Alessandro Fregoso vescovo di Ventimiglia, abitante allora a Bologna
perché, aspirando a essere doge come era stato il cardinale suo
padre, era sospetto a Ottaviano Fregoso; il quale, stato poco felice
ne' trattati che aveva fatto per sé per rientrare nella propria
patria, prometteva piú prospero successo in quegli che faceva per
altri nelle patrie forestiere.
Sotto colore adunque di volere entrare con l'armi in Genova, il
vescovo, ricevuti occultamente dal pontefice diecimila ducati,
soldò, parte del paese di Roma parte nella Lunigiana, duemila fanti.
Al romore della quale adunazione essendosi, per sospetto di sé,
armato per terra e per mare Ottaviano Fregoso, egli, come se per
essere scoperti i suoi disegni restasse escluso di speranza di
potere per allora voltare lo stato di Genova, fatto intendere a
Federigo da Bozzole (con l'aiuto di chi si manteneva in grande parte
la Concordia contro al conte Giovanfrancesco della Mirandola)
poterlo servire di quelle genti insino non fusse finita la paga loro
la quale durava presso a uno mese, passato l'Apennino scese in
quello di Coreggio, pigliando lentamente il cammino della Concordia.
Ed era il fondamento di questo trattato il passare il fiume del Po;
al quale effetto certi ministri di Alberto da Carpi, conscio di
questa pratica, avevano noleggiato, sotto nome di mercatanti di
grani, molte barche che erano nella bocca del fiume della Secchia
(cosí chiamano i circonvicini quel luogo dove l'acque della Secchia
entrano nel Po), con le quali passando Po, disegnava il vescovo
accostarsi prestamente a Ferrara: dove egli stato pochi mesi innanzi
aveva speculato uno luogo della terra in sul Po dove erano in terra
piú di quaranta braccia di muro, luogo aperto e molto facile a
entrarvi. Il quale muro essendo caduto non molto prima non si era
restaurato cosí presto, perché la vicinità del fiume e lo starsi
senza timore avevano nutrito la negligenza di chi soleva
sollecitamente provedere a questi disordini.
Ma come fu sentito per il paese circostante il Ventimiglia con
queste genti avere passato l'Apennino, il marchese di Mantova, non
per alcuno sospetto particolare ma per consuetudine antica di
difficultare alle genti forestiere i passi de' fiumi, ritirò a
Mantova tutte le barche che erano in bocca di Secchia; in modo che
il Ventimiglia, non potendo servirsi delle barche noleggiate né
avendo comodità di provederne cosí presto dell'altre, massime perché
i governatori vicini della Chiesa non erano avvertiti di questa
pratica, né avevano commissione, quando bene l'avessino saputa, di
intromettersene, mentre che cerca di qualche rimedio, egli e i
ministri di Alberto soggiornò con le genti verso Coreggio e ne'
luoghi vicini: dove avendo parlato con molti incautamente, e con
alcuni scoperto tutti i particolari del suo disegno, il marchese di
Mantova, avvertitone, notificò per uno uomo suo la cosa al duca di
Ferrara. Il quale era tanto alieno da questo sospetto che con
difficoltà si indusse a prestargli fede; pure, movendolo piú che
altro quello riscontro del muro rotto, cominciò a prepararsi di
gente; né mostrando avere sospetto del pontefice, benché sentisse in
sé altramente, fattogli intendere le insidie che gli erano ordinate
dal vescovo Ventimiglia, lo supplicò che e' commettessi ai
governatori vicini che, occorrendogli di bisogno, gli porgessino
aiuto: la quale cosa fu dal pontefice con favorevoli brevi eseguita
prontamente, ma data però nel tempo medesimo occultamente altra
commissione.
La fama che a Ferrara si cominciasse a fare provisione, aggiunta
alla difficoltà di passare Po, tolse al vescovo ogni speranza: però
condottosi con le genti presso alla Concordia, mentre che con quegli
che vi erano dentro, insospettiti già di lui, tratta di volere
offendere la Mirandola, presentatosi allo improvviso una notte alle
mura della Concordia, gli fece dare la battaglia, ma per dare
cagione agli uomini di credere che non per andare a Ferrara ma per
occupare la Concordia fusse venuto in quegli luoghi. Fu vano questo
assalto: dopo il quale i fanti con sua licenza si dissolverono;
lasciata opinione in molti e in Alfonso medesimo che se non gli era
interrotto la facoltà di passare Po, arebbe ottenuta, per il muro
rotto, Ferrara, dove non era gente alcuna, non sospetto, il duca
ammalato gravemente, e il popolo in modo male sodisfatto di lui che
pochissimi, in uno tumulto quasi improviso, arebbono prese l'armi o
oppostisi al pericolo.
Lib.13, cap.15
Primo diffondersi delle idee luterane; occasione offerta dalla corte
pontificia e scandalo della vendita delle indulgenze in Germania.
Come Lutero passò a negare i princípi della Chiesa. Misure prese dal
pontefice contro Lutero; perché poco giovarono.
Séguita l'anno mille cinquecento venti: nel quale, continuandosi per
le medesime cagioni per le quali era stata conservata l'anno
precedente la pace di Italia, cominciorono molto ad ampliarsi
dottrine nate di nuovo, prima contro all'autorità della Chiesa
romana dipoi contro alla autorità della cristiana religione. Il
quale pestifero veleno ebbe origine nella Alamagna, nella provincia
di Sassonia, per le predicazioni di Martino Lutero, frate professo
dell'ordine di Santo Augustino, suscitatore per la maggiore parte,
ne' princípi suoi, degli antichi errori de' boemi; i quali,
reprobati per il concilio universale della Chiesa celebrato a
Costanza, e abbruciati con l'autorità di quello Giovanni Hus e
Ieronimo da Praga, due de' capi principali di questa eresia, erano
stati lungamente ristretti ne' confini di Boemia. Ma a suscitargli
nuovamente in Germania aveva dato occasione l'autorità della sedia
apostolica, usata troppo licenziosamente da Lione; il quale,
seguitando, nelle grazie che sopra le cose spirituali e beneficiali
concede la corte, il consiglio di Lorenzo de' Pucci cardinale di
Santi Quattro, aveva sparso per tutto il mondo, senza distinzione di
tempi e di luoghi, indulgenze amplissime, non solo per potere
giovare con esse a quegli che ancora sono nella vita presente ma con
facoltà di potere oltre a questo liberare l'anime de' defunti dalle
pene del purgatorio: le quali cose non avendo in sé né
verisimilitudine né autorità alcuna, perché era notorio che si
concedevano solamente per estorquere danari dagli uomini che
abbondano piú di semplicità che di prudenza, ed essendo esercitate
impudentemente da' commissari deputati a questa esazione, la piú
parte de' quali comperava dalla corte la facoltà di esercitarle,
avevano concitato in molti luoghi indegnazione e scandolo assai; e
specialmente nella Germania, dove molti de' ministri erano veduti
vendere per poco prezzo, o giuocarsi in su le taverne, la facoltà
del liberare le anime de' morti dal purgatorio. E accrebbe
[l'indegnazione] che il pontefice, il quale per la facilità della
natura sua esercitava in molte cose con poca maestà l'officio
pontificale, donò a Maddalena sua sorella lo emolumento e l'esazione
delle indulgenze di molte parti di Germania, la quale, avendo fatto
deputare commissario il vescovo Arcimboldo, ministro degno di questa
commissione, che l'esercitava con grande avarizia ed estorsione, e
sapendosi per tutta la Germania che i danari che se ne cavavano non
andavano al pontefice o alla camera apostolica (donde pure sarebbe
forse stato possibile che qualche parte se ne fusse spesa in usi
buoni), ma era destinata a sodisfare all'avarizia d'una donna, aveva
fatto detestabile non solo la esazione e i ministri di quella ma il
nome ancora e l'autorità di chi tanto inconsultamente le concedeva.
La quale occasione avendo presa il Lutero, e avendo cominciato a
disprezzare queste concessioni e a tassare in queste l'autorità del
pontefice, moltiplicandogli in causa favorevole agli orecchi de'
popoli numero grande di uditori, cominciò ogni dí piú scopertamente
a negare l'autorità del pontefice.
Da questi princípi forse onesti o almanco, per la giusta occasione
che gli era data, in qualche parte scusabili, traportandolo
l'ambizione e l'aura popolare, e il favore del duca di Sassonia, non
solo fu troppo immoderato contro alla potestà de' pontefici e
autorità della Chiesa romana; ma trascorrendo ancora negli errori
de' boemi, cominciò in progresso di tempo a levare le immagini delle
chiese, a spogliare i luoghi ecclesiastichi de' beni, permettere a'
monachi e alle monache professe il matrimonio, convalidando questa
opinione non solo con l'autorità e con gli argomenti ma eziandio con
l'esempio di se medesimo; negare la potestà del papa distendersi
fuora dello episcopato di Roma, e ogn'altro episcopo avere nella
diocesi sua quella medesima autorità che aveva il papa nella romana;
disprezzare tutte le cose determinate ne' concili, tutte le cose
scritte da quegli che si chiamano i dottori della Chiesa, tutte le
leggi canoniche e i decreti de' pontefici, riducendosi solo al
Testamento Vecchio al libro degli Evangeli agli Atti degli apostoli
e a tutto quello che si comprende sotto il nome del Testamento Nuovo
e alle epistole di san Paolo, ma dando a tutte queste nuovi e
sospetti sensi e inaudite interpretazioni. Né stette in questi
termini la insania di costui e de' seguaci suoi, ma seguitata si può
dire da quasi tutta la Germania, trascorrendo ogni dí in piú
detestabili e perniciosi errori, penetrò a ferire i sagramenti della
Chiesa, disprezzare i digiuni le penitenze e le confessioni;
scorrendo poi alcuni de' suoi settatori, ma diventati già in qualche
parte discrepanti dalla autorità sua, a fare pestifere e diaboliche
invenzioni sopra la eucarestia. Le quali cose, avendo tutte per
fondamento la reprobazione della autorità de' concili e de' sacri
dottori, hanno dato adito a ogni nuova e perversa invenzione o
interpretazione; e ampliatosi in molti luoghi, eziandio fuora della
Germania, per contenere dottrina di sorte che, liberando gli uomini
da molti precetti, trovati per la salute universale dai concili
universali della Chiesa dai decreti de' pontefici dalla autorità de'
canoni e dalle sane interpretazioni de' sacri dottori, gli riducono
a modo di vita quasi libero e arbitrario.
Sforzavasi ne' princípi suoi di spegnere questa pestifera dottrina
il pontefice, non usando per ciò i rimedi e le medicine convenienti
a sanare tanta infermità. Perché citò a Roma Martino Luther
sospeselo dallo officio del predicare, e dipoi per la inobbedienza
sua lo sottopose alle censure ecclesiastiche; ma non si astenne da
molte cose di pessimo esempio, e che dannate ragionevolmente da lui
erano molestissime a tutti: donde il procedergli contro con l'armi
ecclesiastiche non diminuí appresso a' popoli, anzi augumentò la
riputazione di Martino, come se le persecuzioni nascessino piú dalla
innocenza della sua vita e dalla sanità della dottrina che da altra
cagione. Mandò il pontefice molti religiosi a predicare in Germania
contro a lui, scrisse molti brevi a príncipi e a prelati; ma non
giovando né questo né molti altri modi usati per reprimerlo (per la
inclinazione de' popoli, e per il favore grande che nelle terre sue
aveva dal duca di Sassonia), cominciava a parere in corte di Roma,
ogni dí piú, questa causa piú grave, e a crescere la dubitazione che
alla grandezza de' pontefici alla utilità della corte romana e alla
unità della religione cristiana non ne nascesse grandissimo
detrimento. Per questo si facevano quello anno a Roma spessi
concistori, spesse consulte di cardinali e teologi deputati nella
camera del pontefice, per trovare i rimedi a questo male che
continuamente cresceva: e ancora che non mancasse chi riducesse in
memoria che la persecuzione fattagli insino a quello dí, poi che non
era accompagnata col correggere in loro medesimi le cose dannabili,
gli aveva cresciuto la riputazione e la benivolenza de' popoli, e
che minore male sarebbe stato dissimulare di non sentire questa
insania, che forse per se medesima si dissolverebbe, che soffiando
nel fuoco accenderlo e farlo maggiore; nondimeno, come è natura
degli uomini di procedere volentieri a' rimedi caldi, non solo
furono accresciute le persecuzioni contro a lui e contro agli altri
suoi settatori, chiamati volgarmente i luterani, ma ancora
deliberato uno monitorio gravissimo contro al duca di Sassonia, dal
quale esacerbato diventò fautore piú veemente della causa sua. La
quale, in spazio di piú anni, andò in modo moltiplicando che sia
stato molto pericoloso che da questa contagione non resti infetta
quasi tutta la cristianità. Né ha tanto raffrenato il corso suo cosa
alcuna quanto lo essersi conosciuto, i settatori di questa dottrina
non essere manco infesti alla potestà de' príncipi temporali che
alla autorità de' pontefici romani; il che ha fatto che molti
príncipi hanno, per lo interesse proprio, con vigilanza e con
severità proibito che ne' regni suoi non entri questa contagione: e
per contrario, nessuna cosa ha sostenuto tanto la pertinacia di
questi errori (i quali qualche volta, per la troppa trasgressione
de' capi di queste eresie e per la varietà ed eziandio contrarietà
dell'opinioni tra loro medesimi, sono stati vicini a confondersi e a
cadere) quanto la licenziosa libertà che nel modo del vivere ne
hanno acquistato i popoli, e l'avarizia de' potenti per non restare
spogliati de' beni che hanno occupati delle chiese.
Lib.13, cap.16
Giampaolo Baglioni invitato a Roma dal pontefice, incarcerato e
giustiziato. Nuove insidie del pontefice contro il duca di Ferrara.
Incoronazione di Cesare in Aquisgrana; sue ragioni di
preoccupazione. Minaccie di fanti spagnoli alle terre della Chiesa.
Non accadde questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che,
essendo in Perugia Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de'
Baglioni, o perché nascesse tra loro contenzione o perché Giampaolo,
non gli bastando avere piú parte e piú autorità nel governo, volesse
arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia: il che essendo
molesto al pontefice, lo fece citare che personalmente comparisse a
Roma. Il quale, temendo a andarvi, mandò Malatesta suo figliuolo a
giustificarsi, e a offerire a essere presto a obbidire a tutti i
suoi comandamenti: ma instando pure il pontefice della venuta sua,
poiché fu stato molti dí perplesso, si risolvé a andare, confidatosi
parte nella antica servitú che in ogni tempo aveva avuto con la sua
casa, parte persuaso da Cammillo Orsino suo genero e da altri amici
suoi; i quali, usando l'autorità loro e valendosi di mezzi potenti
appresso al pontefice, o ottennono fede espressa da lui (benché non
per scrittura) o almanco furono dal pontefice usate tali parole con
somma astuzia e fatte tali dimostrazioni che quegli che si
confidavano potere ritrarre da lui la mente sua gli dettono animo a
comparire, dandosi a intendere che egli potesse farlo sicuramente.
Ma arrivato a Roma, trovò che il pontefice, sotto specie di sue
ricreazioni come altre volte era solito di fare, era andato pochi dí
innanzi in Castello Santo Angelo. Dove andando la mattina seguente
Giampaolo per presentarsegli fu, innanzi arrivasse al cospetto suo,
incarcerato dal castellano, e dipoi per giudici diputati esaminato
rigorosamente confessò molti gravissimi delitti, sí per cose
attenenti alla conservazione della tirannide come per piaceri
nefandi e altri suoi interessi particolari; per i quali, poi che fu
stato in carcere piú di due mesi, fu decapitato secondo l'ordine
della giustizia: movendosi, secondo si credette, il pontefice a
questo per avere, nella guerra d'Urbino, compreso per molti segni
Giampaolo essere d'animo alieno da lui, avere tenuto pratiche con
Francesco Maria, né potere in qualunque accidente gli sopravenisse
fare fondamento fermo in lui, e conseguentemente, mentre che egli
era in quello stato, nelle cose di Perugia. Le quali per riordinare
a suo proposito, essendosi i figliuoli di Giampaolo fuggiti come
ebbono nuove della sua retenzione, dette quella legazione a Silvio
cardinale di Cortona, antico servidore e allievo suo; restituí
Gentile in Perugia, al quale donò i beni che erano stati posseduti
da Giampaolo, e appoggiandosi a uno subietto molto debole voltò la
riputazione e grandezza a lui.
Continuò medesimamente questo anno il pontefice (attribuendo piú al
caso o alla poca prudenza che ad altro l'occasione perduta del
vescovo di Ventimiglia) di tentare nuove insidie contro al duca di
Ferrara, per mezzo di Uberto da Gambara protonotario apostolico, con
Ridolfel tedesco, capitano di alcuni fanti tedeschi che Alfonso
teneva alla sua guardia; il quale gli aveva promesso dargli a suo
piacere la entrata della porta di Castello Tialto. Dove potendo
pervenire le genti che si mandassino da Bologna e da Modena, senza
avere a passare il Po se non per il ponte di legname che è innanzi a
quella porta, fu dato ordine a Guido Rangone e al governatore di
Modena che, raccolte certe genti sotto altri colori, andassino allo
improviso a occupare quella porta, per difenderla tanto che
giugnessino gli aiuti da Modena e da Bologna; dove era posto ordine
che la gente si movesse quasi popolarmente. Ma già statuito il dí
dello assaltarla, si scoperse che Ridolfel, a chi per ordine del
pontefice erano stati dati da Uberto da Gambara circa dumila ducati,
aveva da principio comunicato ogni cosa con Alfonso; il quale, poi
che ebbe scoperto assai della mente del pontefice e de' suoi
disegni, non volendo che la cosa procedesse piú innanzi, tenne modo
che la fraude di Ridolfel si publicasse.
In questo anno medesimo passò Cesare, per mare, di Spagna in
Fiandra; avendo nel passare, non per necessità come aveva fatto il
padre, ma volontariamente, toccato in Inghilterra, per parlare con
quel re col quale restò in buona concordia. Di Fiandra andato in
Germania ricevé, del mese d'ottobre, in Aquisgrana, città nobile per
l'antica residenza e per il sepolcro di Carlo Magno, con grandissimo
concorso, la prima corona, quella medesima, secondo che è la fama,
con la quale fu incoronato Carlo Magno; datagli, secondo il costume
antico, con l'autorità de' príncipi di Germania. Ma questa sua
felicità era turbata dagli accidenti nati di nuovo in Spagna. Perché
a' popoli di quei regni era stata molesta la promozione sua allo
imperio, perché conoscevano che, con grandissima incomodità e
detrimento di tutti, sarebbe per varie cagioni necessitato a stare
non piccola parte del tempo fuora di Spagna; ma molto piú gli aveva
mossi l'odio grande che avevano conceputo contro alla avarizia di
quegli che lo governavano, massime contro a Ceures, il quale
dimostratosi insaziabile aveva per tutte le vie accumulato somma
grandissima di danari; il medesimo, avevano fatto gli altri
fiamminghi, vendendo per prezzo a' forestieri gli uffici soliti
darsi agli spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie privilegi ed
espedizioni che si dimandavano alla corte: in modo che, concitati
tutti i popoli contro al nome de' fiamminghi, avevano, alla partita
di Cesare, tumultuato quegli di Vagliadulit; e appena uscito di
Spagna, sollevati tutti, non, secondo dicevano, contro al re ma
contro a' cattivi governatori, e comunicati insieme i consigli, non
prestando piú ubbidienza agli offiziali regi, avevano fatta
congregazione della maggiore parte de' popoli: i quali, data forma
al governo, si reggevano in nome della santa giunta (cosí chiamavano
il consiglio universale de' popoli). Contro a' quali essendosi
levati in arme i capitani e ministri regi, ridotte le cose in
manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini che Cesare
piccolissima autorità vi riteneva: donde in Italia e fuora cresceva
la speranza di coloro che arebbono desiderato diminuire tanta
grandezza. Aveva nondimeno l'armata sua acquistato contro a' mori
l'isola delle Gerbe, e in Germania era stata repressa in qualche
parte la riputazione del re di Francia. Perché dando egli, per
notrire discordie in quella provincia, favore al duca di Vertimberg
discordante con la lega di Svevia, quegli popoli risentitisi
potentemente lo cacciorono del suo stato e acquistato che lo ebbono
lo venderono a Cesare, desideroso di abbassare i seguaci del re di
Francia, obligandosi alla difesa contro a qualunque lo molestasse.
Per il che quello duca, trovandosi distrutto sotto la speranza degli
aiuti franzesi, fu necessitato ricorrere alla clemenza di Cesare, e
da lui accettare quelle leggi, che gli furono date: non rimesso però
per questo nella possessione del suo ducato.
Nella fine di questo anno medesimo, circa tremila fanti spagnuoli
stati piú mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Spagna secondo
il comandamento avuto da Cesare, disprezzata l'autorità de'
capitani, passorono a Reggio di Calavria; e procedendo con fare per
tutto gravissimi danni verso lo stato della Chiesa, messono in grave
terrore il pontefice (nell'animo del quale era fissa la memoria
degli accidenti di Urbino) che, o sollevati da altri príncipi o
accompagnandosi con il duca Francesco Maria, co' figliuoli di
Giampaolo Baglione e con gli altri inimici della Chiesa, non
suscitassino qualche incendio: massime recusando le offerte fatte
dal viceré di Napoli e da lui di soldarne una parte, e agli altri
fare donativo di danari. Dalle quali offerte preso maggiore animo,
si movevano verso il fiume del Tronto, non per il paese stretto del
Capitanato ma per il cammino largo di Puglia; e aggiugnendosi
continuamente altri fanti e qualche cavallo, diventavano sempre piú
formidabili. Nondimeno, si risolvé piú facilmente e piú presto che
gli uomini non credevano questo movimento; perché passato il Tronto
per entrare nella Marca anconitana, nella quale il pontefice aveva
mandate molte genti, e andati a campo a Ripatransona, avendovi dato
uno assalto gagliardo, perduti molti di loro, furno costretti a
ritirarsi: per il che, diminuiti molto di animo e di riputazione,
accettorono cupidamente da' ministri di Cesare condizioni molto
minori di quelle le quali prima avevano disprezzate.
Lib.14, cap.1
L'anno 1521 porta nuove guerre, per la gelosia di due potentissimi
re, all'Italia, stata per tre anni in pace. Il pontefice assolda
seimila svizzeri, senza che alcuno sappia per quale impresa. Segreti
accordi del pontefice col re di Francia. Il regno di Navarra
conquistato all'antico re. I successi dei francesi determinano la
concordia in Ispagna. Confederazione di Cesare e del pontefice
contro il re di Francia. Ragioni di Cesare sul ducato di Milano.
Sedato nel principio dell'anno mille cinquecento ventuno questo
piccolo movimento, temuto piú per la memoria fresca de' fanti
spagnuoli che assaltorono lo stato d'Urbino che perché apparissino
cagioni probabili di timore, cominciorono, pochi mesi poi, a
perturbarsi le cose d'Italia, con guerre molto piú lunghe maggiori e
piú pericolose che le passate; stimolando l'ambizione di due
potentissimi re, pieni tra loro di emulazione di odio e di sospetto,
a esercitare tutta la sua potenza e tutti gli sdegni in Italia: la
quale, stata circa tre anni in pace, benché dubbia e piena di
sospizione, pareva che avesse il cielo il fato proprio e la fortuna
o invidiosi della sua quiete o timidi che, riposandosi piú
lungamente, non ritornasse nella antica felicità. Principio a nuovi
movimenti dettono quegli i quali, obligati piú che gli altri a
procurare la conservazione della pace, piú spesso che gli altri la
perturbano, e accendono con tutta la industria e autorità loro il
fuoco; il quale, quando altro rimedio non bastasse, doverebbono col
proprio sangue procurare di spegnere. Perché, se bene tra Cesare e
il re di Francia crescessino continuamente le male inclinazioni,
nondimeno né avevano cagioni molto urgenti alla guerra presente né
eccedevano tanto l'uno l'altro di potenza in Italia né di alcuna
opportunità che, senza compagnia di qualcun altro de' príncipi
italiani, fussino bastanti a offendersi. Perché il re di Francia,
avendo congiunti seco i viniziani alla difesa dello stato di Milano,
ed essendo i svizzeri non pronti piú a fare le guerre in nome
proprio ma disposti solamente a servire come soldati chi gli
pagasse, non aveva cagione di temere movimento alcuno di Cesare, né
per via del reame di Napoli né per via di Germania; né da altra
parte aveva facilità di offendere Cesare nel reame di Napoli, non
concorrendo seco a quella impresa il pontefice; il quale ciascuno di
loro, con varie offerte e arti, si cercava di conciliare: in modo
che si credeva che se il pontefice, perseverando a stare di mezzo
tra tutti due, stesse vigilante e sollecito a temperare, con
l'autorità pontificale e con la fede che gli darebbe la neutralità,
gli sdegni, e reprimere l'origine de' consigli inquieti, si avesse a
conservare la pace. Né si vedeva cagione che lo necessitasse a
desiderare o a suscitare la guerra, perché e prima aveva tentato
l'armi infelicemente e, amendue questi príncipi tanto grandi, aveva
da temere parimente della vittoria di ciascuno di loro; conoscendosi
chiaramente che quello che rimanesse superiore non arebbe né
ostacolo né freno a sottoporsi tutta Italia. Possedeva
tranquillamente e con grandissima ubbidienza lo stato amplissimo
della Chiesa, e Roma e tutta la corte era collocata in sommo fiore e
felicità, piena autorità sopra lo stato di Firenze, stato potente in
quegli tempi e molto ricco; ed egli per natura dedito all'ozio e a'
piaceri, e ora per la troppa licenza e grandezza alieno sopramodo
dalle faccende, immerso a udire tutto dí musiche facezie e buffoni,
inclinato ancora troppo piú che l'onesto a' piaceri che si godevano
con grande infamia, pareva dovesse essere totalmente alieno dalle
guerre. Aggiugnevasi che, avendo l'animo pieno di tanta magnificenza
e splendore che sarebbe stato maraviglioso se per lunghissima
successione fusse disceso di re grandissimi, né avendo nello
spendere o nel donare misura o distinzione, non solo aveva in breve
tempo dissipato con inestimabile prodigalità il tesoro accumulato da
Giulio, ma avendo, delle espedizioni della corte e di molte sorte di
offici nuovi, escogitati per fare danari, tratto quantità infinita
di pecunia, aveva speso tanto eccessivamente che era necessitato
continuamente a pensare modi nuovi da sostenere le profuse spese
sue; nelle quali non solamente perseverava ma piú presto
augumentava. Non aveva stimoli di fare grandi alcuni de' suoi; e se
bene lo tormentasse il desiderio di recuperare Parma e Piacenza e di
acquistare Ferrara, nondimeno non parevano cagioni bastanti a
indurlo a rivolgere sottosopra lo stato quieto del mondo, ma piú
presto a temporeggiare e ad aspettare l'opportunità e le occasioni.
Ma è vero quello che si dice: non hanno gli uomini maggiore inimico
che la troppa prosperità, perché gli fa impotenti di se medesimi,
licenziosi e arditi al male e cupidi di turbare il bene proprio con
cose nuove. Lione, costituito in tale stato, o riputandosi a grande
infamia lo avere perduto Parma e Piacenza, acquistate con tanta
gloria da Giulio, o non potendo contenere lo appetito ardente allo
acquisto di Ferrara o parendogli, se moriva senza avere fatto
qualche cosa grande, lasciare infame la memoria del suo pontificato,
o dubitando, come diceva egli, che i due re, esclusi ciascuno dalla
speranza di averlo congiunto seco e per questo poco abili a
offendersi insieme, condiscendessino finalmente tra loro a qualche
congiunzione che fusse a depressione della Chiesa e di tutto il
resto d'Italia, o sperando, come io udi' poi dire al cardinale de'
Medici conscio di tutti i suoi secreti, cacciati i franzesi di
Genova e del ducato di Milano, potere poi facilmente cacciare Cesare
del reame napoletano, vendicandosi quella gloria della libertà
d'Italia alla quale prima aveva manifestamente aspirato
l'antecessore (cosa che non potendo succedere a Leone con le proprie
forze, sperava, mitigato prima in qualche parte l'animo del re di
Francia con eleggere qualche cardinale desiderato da lui e col
dimostrarsi pronto a concedergli delle altre grazie, indurlo a
dargli aiuto contro a Cesare, come se fusse per pigliare in luogo di
ristoro il sollazzo che a Cesare accadesse il medesimo che era
accaduto a lui); qualunque lo movesse di queste cagioni, o una o piú
o tutte insieme, voltò tutti i pensieri alla guerra e a unirsi con
uno di questi due príncipi, e, congiunto con lui, muovere in Italia
l'armi contra a l'altro. A' quali pensieri per trovarsi preparato,
né potere intratanto essere oppresso da alcuno, mentre trattava con
ciascuno ma piú strettamente col re di Francia, mandò in Elvezia
Antonio Pucci vescovo di Pistoia (il quale ottenne poi in altro
tempo da lui la degnità del cardinalato) a soldare e condurre nello
stato della Chiesa seimila svizzeri; i quali essendogli senza
difficoltà conceduti da' cantoni, per la confederazione che dopo la
guerra di Urbino aveva rinnovata con loro, ottenuto il passo per lo
stato di Milano, gli condusse nel dominio della Chiesa,
intrattenendogli piú mesi in Romagna e nelle Marche. Essendo incerto
ciascuno a che proposito, non essendo movimento alcuno in Italia,
sostenesse oziosamente tanta spesa, egli affermava avergli chiamati
per potere vivere sicuramente, sapendo che ogni dí erano da i
ribelli della Chiesa macchinate cose nuove: la quale cagione non
parendo verisimile, cadevano ne' discorsi degli uomini vari
concetti: chi, che egli si fusse armato per timore che egli avesse
del re di Francia, chi per qualche disegno di occupare Ferrara, chi
che avesse inclinazione di cacciare Cesare del reame di Napoli. Ma
tra lui e il re si trattava secretamente di assaltare con l'armi
congiunte insieme il regno napoletano, con condizione che Gaeta e
tutto quello che si contiene tra il fiume del Garigliano e i confini
dello stato ecclesiastico si acquistasse per la Chiesa, il resto del
regno fusse del secondogenito del re di Francia; il quale, per
essere di età minore, avesse a essere insino che e' fusse di età
maggiore governato insieme col reame da uno legato apostolico, che
risedesse a Napoli. Conteneva oltre a questo, la capitolazione che
il re dovesse aiutarlo contro a' sudditi e i feudatari della sedia
apostolica, condizione appartenente allo stabilimento delle cose
possedute dalla Chiesa ma non meno alla cupidità che aveva il
pontefice di acquistare Ferrara.
Nel quale tempo, molto opportunamente a questi disegni, il re di
Francia, invitato dalla occasione de' tumulti di Spagna e
confortatone (secondo che poi querelandosi affermava) dal pontefice,
mandò uno esercito sotto Asparoth fratello di Lautrech in Navarra,
per recuperare quel regno al re antico; e nel tempo medesimo [operò
che] Ruberto della Marcia e il duca di Ghelleri cominciassino a
molestare i confini della Fiandra. Le discordie di Spagna feceno
facile ad Asparoth acquistare il regno di Navarra, destituto da ogni
aiuto e nel quale non era spenta la memoria del primo re: ma avendo
con le artiglierie espugnata la rocca di Pampalona, entrato ne'
confini del regno di Castiglia, occupò Fonterabia e corse insino a
Logrogno; donde, come spesso avviene nelle cose umane, giovò a
Cesare quel che gli uomini avevano creduto dovergli nuocere. Perché
le cose di Spagna, travagliate insino a quel dí con vari progressi,
erano ridotte in grandissime turbolenze: essendo da una parte
congiunti i popolari e plebei, dall'altra avendo prese l'armi in
beneficio di Cesare molti signori, i quali per lo interesse degli
stati temevano la licenza popolare: la quale proceduta a manifesta
ribellione, desiderosa di avere capo di autorità, aveva tratto della
rocca di Sciativa il duca di Calavria; il quale, ricusando di
pigliare l'armi contro a Cesare, non volle discostarsi dalla
carcere. Ma l'essere assaltato il regno proprio di Castiglia dal re
di Francia commosse in modo gli animi de' popoli, i quali senza
dispiacere avevano tollerata la perdita del regno di Navarra, benché
diventato per la unione fatta dal re cattolico membro de' regni
loro, che, parte per questa cagione parte per qualche prospero
successo che aveva avuto l'esercito cesareo, tutto il reame di
Spagna, deposte piú facilmente le contenzioni tra loro medesimi,
ritornò all'obbedienza del suo re.
Alla prosperità del re di Francia, per la vittoria cosí facile del
reame di Navarra, si aggiunse, se avesse saputo usare la occasione,
maggiore successo; perché i svizzeri, appresso a' quali erano gli
imbasciadori suoi e di Cesare, sforzandosi ciascuno di essi di
congiugnersi con loro, rifiutata, contro la opinione di molti e
contro la intenzione che avevano data, l'amicizia di Cesare,
abbracciorono la congiunzione col re di Francia, obligandosi a
concedere agli stipendi suoi quanti fanti volesse, a qualunque
impresa, e di non ne concedere ad alcuno altro per usargli a offesa
di quello re.
Restava la esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra il
pontefice e lui: della quale essendogli ricercata la ratificazione,
cominciò a stare sospeso, essendogli messo sospetto da molti che,
atteso la duplicità del pontefice e l'odio che, assunto al
pontificato, gli aveva continuamente dimostrato, era da dubitare di
qualche fraude. Non essere verisimile che il pontefice desiderasse
che in lui o ne' figliuoli pervenisse il reame di Napoli, perché
avendo quello regno e il ducato di Milano temerebbe troppo la sua
potenza: per certo, tanta benivolenza scopertasi cosí di subito non
essere senza misterio. Avvertisse bene alle cose sue dagli inganni,
e che credendo acquistare il regno di Napoli non perdesse lo stato
di Milano; perché mandando lo esercito a Napoli, sarebbe in potestà
del pontefice che aveva seimila svizzeri, intendendosi co' capitani
di Cesare, disfarlo, e disfatto quello, che difesa rimanere a
Milano? Né essere da maravigliarsi che il pontefice, avendo tentato
che con le forze gli fusse tolto quel ducato, disperato di poterlo
ottenere altrimenti, cercasse privarnelo con gli inganni. Queste
ragioni commossono il re in modo che, stando dubbio del ratificare e
forse aspettando risposta di altre pratiche, non avvisava a Roma
cosa alcuna, lasciando sospesi il pontefice e gli imbasciadori suoi.
Ma il pontefice, o perché veramente, governandosi con le simulazioni
consuete, avesse l'animo alieno dal re o perché, come vidde passati
tutti i termini del rispondere, sospettasse di quel che era, e
temesse che il re non scoprisse a Cesare le sue pratiche e che tra
loro per questo potesse nascere congiunzione in pregiudicio suo,
concitato ancora dal desiderio ardente che aveva di ricuperare Parma
e Piacenza e di fare qualche cosa memorabile, sdegnato oltre a
questo dalla insolenza di Lautrech e del vescovo di Tarba suo
ministro, i quali non ammettendo nello stato di Milano alcuno
comandamento o provisioni ecclesiastiche le dispregiavano con
superbissime e insolentissime parole, deliberò di congiugnersi,
contro al re di Francia, con Cesare. Il quale, irritato dalla guerra
di Navarra, stimolato da molti fuorusciti di Milano, commosso ancora
da alcuni del consiglio suo desiderosi di abbassare la grandezza di
Ceures, che aveva sempre dissuaso il separarsi dal re di Francia, si
risolvé a confederarsi col pontefice contro al re; alla qual cosa si
crede lo facesse accelerare la speranza di potere facilmente, con
l'autorità del pontefice e con la sua, indebolire la lega fatta co'
svizzeri, innanzi che con doni e con gratificarsegli la
consolidasse. Indusse anche a maggiore confidenza l'animo del
pontefice che Cesare, avendo udito nella dieta di Vuormazia Martino
Luther, chiamato da lui sotto salvocondotto, e fatto esaminare le
cose sue da molti teologi, i quali avevano referito essere dottrina
erronea e perniciosa alla religione cristiana, gli dette per
gratificare al pontefice il bando imperiale. La qual cosa spaventò
tanto Martino che, se le parole ingiuriose e piene di minacci che
gli disse il cardinale di San Sisto legato apostolico non lo
avessino condotto a ultima disperazione, si crede sarebbe stato
facile, dandogli qualche degnità o qualche modo onesto di vivere,
farlo partire dagli errori suoi. Ma quello che si sia di questo, fu
fatta tra il pontefice e Cesare, senza saputa di Ceures il quale
insino a quel tempo aveva avuto in lui somma autorità, e il quale
opportunamente morí quasi ne' medesimi dí, confederazione a difesa
comune, eziandio della casa de' Medici e de' fiorentini: con
aggiunta [di] rompere la guerra nello stato di Milano, in quegli
tempi e modi che insieme convenissino: il quale acquistandosi,
restasse alla Chiesa Parma e Piacenza, che le tenesse con quelle
ragioni con le quali le aveva tenute innanzi, e che, atteso che
Francesco Sforza, che era esule a Trento, pretendeva ragione nello
stato di Milano per la investitura paterna e per la rinunzia del
fratello, che acquistandosi fusse messo alla possessione, obligati i
collegati a mantenervelo e difendervelo; che il ducato di Milano non
consumasse altri sali che quegli di Cervia: permesso al papa non
solo di procedere contro a' sudditi e feudatari suoi, ma obligato
eziandio Cesare, acquistato che fusse lo stato di Milano, ad
aiutarlo contro a loro; e nominatamente allo acquisto di Ferrara. Fu
accresciuto il censo del reame di Napoli; promessa al cardinale de'
Medici una pensione di diecimila ducati in su l'arcivescovado di
Tolleto vacato nuovamente, e uno stato nel reame di Napoli di
entrata di diecimila ducati per Alessandro figliuolo naturale di
Lorenzo già duca d'Urbino.
Per declarazione delle quali cose pare necessario brevemente
raccontare quali Cesare pretendeva che fussino in questo tempo le
ragioni dello imperio sopra il ducato di Milano. Affermavasi per la
parte di Cesare che a quello stato non erano di momento alcuno le
ragioni antiche de' duchi di Orliens, per non essere stato
confermato con l'autorità imperiale il patto della successione di
madama Valentina; e che al presente apparteneva immediatamente allo
imperio, perché la investitura fatta a Lodovico Sforza per sé e per
i figliuoli era stata revocata dall'avolo, con amplitudine di tante
clausule che la revocazione aveva avuto giuridicamente effetto, in
pregiudicio massime de' figliuoli, i quali non l'avendo mai
posseduto avevano ragione in speranza e non in atto; e perciò essere
stata valida la investitura fatta al re Luigi, per sé e per Claudia
sua figliuola, in caso si maritasse a Carlo, e con patto che non
seguendo il matrimonio senza colpa di Carlo fusse nulla, e che
Milano per la via retta passasse a Carlo; il quale ne fu, in caso
tale, presente il padre Filippo, investito. Da questo inferirsi che
di niuno valore era stata la seconda investitura fatta al medesimo
re Luigi per sé, per la medesima Claudia e per Anguelem, in
pregiudicio di Carlo pupillo, e costituito sotto la tutela di
Massimiliano. Nella quale non potendo fare fondamento alcuno il re
presente, meno poteva allegare appartenersigli quel ducato per nuove
ragioni: perché da Cesare non aveva mai né ottenuta né dimandata la
investitura; ed essere manifesto non gli potere giovare la cessione
fatta da Massimiliano Sforza quando gli dette il castello di Milano,
perché il feudo alienato di propria autorità ricade incontinente al
signore soprano, e perché Massimiliano, benché ammesso di
consentimento di Cesare, morto in quello stato non n'avendo mai
ricevuta la investitura, non poteva trasferire in altri quelle
ragioni che a sé non appartenevano.
Lib.14, cap.2
Progetti e tentativi contro Genova e contro il ducato di Milano da
parte degli spagnuoli, del pontefice, dello Sforza e dei fuorusciti.
Le milizie francesi sotto Reggio; incidenti coi fuorusciti raccolti
a Reggio: abboccamento dello Scudo col Guicciardini. Scoppio di
polvere e rovina di mura del castello di Milano.
Fatta adunque, ma occultissimamente, la confederazione tra il
pontefice e Cesare contro al re di Francia, fu consiglio comune
procedere, innanzi che manifestamente si movessino l'armi, o con
insidie o con assalto improviso, in un tempo medesimo, per mezzo de'
fuorusciti, contro al ducato di Milano e contro a Genova.
Deliberossi adunque che le galee di Cesare, che erano a Napoli, e
quelle del pontefice si presentassino all'improviso nel porto di
Genova, armate di duemila fanti spagnuoli, e conducendo seco
Ieronimo Adorno; per l'autorità e séguito del quale, movendosi
similmente nel tempo medesimo, per opera sua, gli uomini delle
riviere partigiani degli Adorni, speravano che quella città
tumultuasse. Da altra parte era stato trattato, per Francesco Sforza
e per Ieronimo Morone che era a Trento appresso a lui, con molti de'
principali de' fuorusciti, che in Parma in Piacenza e in Cremona
fussino assaltate allo improviso le genti franzesi che vi erano
alloggiate, e il medesimo si facesse in Milano; e che Manfredi
Palavicino e il Matto di Brinzi, capo di parte in quelle montagne,
conducendo fanti tedeschi per il lago di Como, assaltassino quella
città, dove affermavano avere secreta intelligenza; e che succedendo
queste cose o alcuna delle piú importanti, i fuorusciti di Milano,
che erano molti gentiluomini (i quali si avevano occultamente a
trasferire a Reggio, dove il dí destinato doveva essere Ieronimo
Morone), si movessino per entrare nello stato; facendo con piú
prestezza si poteva tremila fanti: al quale effetto il pontefice
mandò a Francesco Guicciardini, governatore già molti anni di Modena
e di Reggio, diecimila ducati, con commissione che gli desse al
Morone per fare secretamente fanti che fussino preparati al successo
di queste cose; alle quali il Guicciardino prestasse favore ma
occultamente, e in maniera tale che dalle azioni de' ministri non
potesse il re di Francia o querelarsi o fare sinistra
interpretazione del pontefice. Ma non fu felice l'evento d'alcuna di
queste cose. L'armata andata a Genova, di sette galee sottili
quattro brigantini e alcune navi, si presentò invano al porto,
perché il doge Fregoso, presentendo la loro venuta, aveva
opportunamente proveduta la terra; però non sentendo muoversi cosa
alcuna si ritirorno nella riviera di levante. E in Lombardia,
essendo quel che si trattava, e il dovere venire Ieronimo Morone a
Reggio, in bocca di molti fuorusciti, Federico da Bozzole,
pervenutogli all'orecchie, andò a Milano a notificarlo allo Scudo,
il quale teneva a Milano il luogo del fratello che poco innanzi era
andato in Francia; il quale, raccolte le genti d'arme alloggiate in
vari luoghi e dato ordine a Federico che dalle sue castella menasse
mille fanti, andò subito con quattrocento lancie a Parma,
certificandosi mentre andava, a ogn'ora piú, della verità di quel
che Federico gli avea riferito; perché i fuorusciti, non seguitando
l'ordine dato dello adunarsi secretamente, erano palesemente andati
a Reggio, facendo in tutti i luoghi circostanti richieste d'uomini e
dimostrazioni manifeste d'avere senza indugio a tentare cose nuove:
nel quale modo di procedere continuò Ieronimo Morone venuto dopo
loro, mosso per avventura perché quanto piú scopertamente si
procedeva tanto piú si genererebbe inimicizia tra il pontefice e il
re.
Appariva già manifestamente a tutti la vanità di queste
macchinazioni; e nondimeno lo Scudo, giunto a Parma, deliberò la
mattina seguente, dí solenne per la natività di san Giovanni
Batista, appresentarsi alle porte di Reggio; sperando potere avere
occasione di prendere tutti o parte de' fuorusciti, o mentre che
essi sentendo la sua venuta fuggissino della terra o perché, non vi
essendo soldati forestieri, il governatore, uomo di professione
aliena dalla guerra, e gli altri, spaventati, gliene dessino, o
forse nella trepidazione della città sperando avere qualche
occasione di entrarvi dentro. Presentí qualche cosa il governatore
di questo: e benché, non essendo ancora noto l'assalto di Genova,
non gli paresse verisimile che lo Scudo senza comandamento del suo
re, dando quasi principio alla guerra, entrasse con l'armi nel
dominio del pontefice, nondimeno, considerando quali spesso siano
gl'impeti de' franzesi, per non essere del tutto sproveduto, mandò
subito a chiamare Guido Rangone che era nel modenese, che la notte
medesima venisse a Reggio; ordinò che de' fanti soldati dal Morone
venisse, la notte medesima, quella parte che era in alloggiamenti
piú vicini; che il popolo della terra, quale sapeva essere alieno
da' franzesi, al suono della campana si riducesse alla guardia delle
porte, consegnata a ciascuno la cura sua. Venne lo Scudo la mattina
seguente con quattrocento lancie, dietro alle quali, ma lontano per
qualche miglio, veniva Federigo da Bozzole con mille fanti; e
avendo, come fu vicino alla terra, mandato Buonavalle uno de' suoi
capitani al governatore a dimandare di volere parlare con lui, si
convennono che lo Scudo si accostasse a una portella che entra nel
rivellino della porta che va a Parma e che nel luogo medesimo
venisse il governatore, sicuro ciascuno di loro sotto la fede l'uno
dell'altro. Cosí venuto innanzi lo Scudo, e smontato a piede, si
accostò con parecchi gentiluomini a quella porta, donde uscito il
governatore cominciorono a parlare insieme; lamentandosi l'uno che
nelle terre della Chiesa, contro a' capitoli della confederazione,
si desse ricetto e fomento a' fuorusciti, adunati per turbare lo
stato del re; l'altro che egli, con esercito armato, fusse entrato
allo improviso nel dominio della Chiesa. Nel quale stato avendo
alcuni del popolo, contro all'ordine dato, aperto una delle porte
per introdurre uno carro carico di farina, Buonavalle che era di
contro a quella porta, perché le genti dello Scudo sparsesi intorno
alle mura ne circondavano una parte, si spinse innanzi con alcuni
uomini d'arme, per entrare dentro; ma essendone cacciato e serrata
la porta con grande strepito, il romore, venuto nel luogo dove lo
Scudo e il governatore parlavano, fu cagione che quegli della terra
e alcuni de' fuorusciti, de' quali erano piene le mura del
rivellino, scaricati gli scoppi contro a quegli che erano vicini
allo Scudo, ferirno gravemente Alessandro da Triulzio, della quale
ferita morí fra due giorni, indegno certamente di questa calamità
perché avea dissuaso il venire a Reggio; gli altri fuggirono: né
salvò lo Scudo altra cosa che il rispetto che ebbe, chi voleva
tirare a lui, di non percuotere il governatore. Ma essendo egli
pieno di spavento, e lamentandosi essergli mancato della fede, né
sapendo risolversi o a stare fermo o a fuggire, il governatore,
presolo per la mano e confortandolo che sopra la fede sua lo
seguitasse, lo introdusse nel rivellino; non l'accompagnando altri
de' suoi che La Motta gentiluomo franzese: e fu cosa maravigliosa
che tutte le genti d'arme, come intesono lo Scudo essere entrato
dentro, andata tra loro la voce che era stato fatto prigione, si
messono in fuga, con tanto timore che molti di loro gittorno le
lancie per le strade, pochissimi furono quegli che aspettassino lo
Scudo. Il quale, dopo lungo parlamento ed essere stato certificato
che il disordine era nato da' suoi, fu licenziato dal governatore;
il quale, rispetto alla fede data e alle commissioni avute dal
pontefice di non fare dimostrazione alcuna contro al re, non volle
ritenerlo. Della quale ritenzione non sarebbe seguito lo effetto,
che allora per molti si credette, della rebellione dello stato di
Milano: perché le genti d'arme, se bene messe in fuga, non essendo
seguitate da alcuno perché in Reggio erano pochissimi cavalli, e
avendo riscontrato a' confini del reggiano Federico da Bozzole che
veniva innanzi con mille fanti, si fermorono e riordinorono; e il
terrore cominciato a Parma e a Milano, per essere stati i primi
avvisi che lo Scudo era prigione e le genti d'arme rotte, non
sarebbe andato innanzi come si fusse inteso le genti d'arme essere
salve: non essendo massime, in luoghi vicini, esercito né forze da
potere fare movimento alcuno, e restandovi molti altri capitani di
genti d'arme. Ritirossi lo Scudo, raccolti i cavalli e i fanti, a
Covriago, villa del reggiano vicina a sei miglia di Reggio, donde
tra pochi dí si ritirò di là da Lenza in parmigiano; avendo mandato
a Roma La Motta, a giustificare col pontefice le cagioni dello
essere andato a Reggio e a fare instanza che, secondo i capitoli che
erano tra il re e lui, cacciasse i rebelli del re fuora dello stato
della Chiesa.
Ma ne' dí medesimi, uno caso che accadette a Milano spaventò molto
l'animo de' franzesi, come se con segni manifesti fussino ammuniti
dal cielo delle future calamità. Perché il dí solenne per la memoria
della morte del principe degli apostoli, tramontato già il sole nel
cielo sereno, cadde per l'aria da alto a guisa di uno fuoco innanzi
alla porta del castello, ove erano stati condotti molti barili di
polvere d'artiglieria, tratti del castello per mandargli a certe
fortezze; per il che, levatosi subitamente con grande strepito
grande incendio, ruinò insino da' fondamenti una torre di marmo
bellissima fabbricata sopra la porta, nella sommità della quale
stava l'orologio, né solamente la torre ma le mura e le camere del
castello e altri edifici contigui alla torre; tremando nel tempo
medesimo, per il tuono smisurato e per la ruina tanto grande, tutti
gli edifici e tutta la città di Milano: e i sassi e pietre
grandissime dalle ruine volavano con impeto incredibile
spaventosamente in qua e in là per l'aere, ora percotendo nel
balzare molte persone ora ricoprendole con le ruine, dalle quali era
ricoperta, con tanti sassi che pareva cosa stupendissima, la piazza
del castello; de' quali alcuni di smisurata grandezza volorono
lontani per ispazio piú di cinquecento passi. Ed era l'ora propria
che gli uomini, cercando di ricrearsi dal caldo, andavano
passeggiando per la piazza; però furno ammazzati piú di cento
cinquanta fanti del castello e il castellano della rocchetta e
quello del castello, e gli altri tanto attoniti e privi di animo e
di consiglio: e ruinato tanto spazio di muro che al popolo, se si
fusse mosso, sarebbe stato molto facile l'occupare quella notte il
castello.
Lib.14, cap.3
Lamentele del pontefice per i fatti di Reggio ed aperti suoi accordi
con Cesare. Fallito tentativo contro Como. Preparativi e piani di
guerra contro il ducato di Milano. Preparativi di difesa del re di
Francia.
Ma il pontefice, come gli fu nota la venuta dello Scudo alle porte
di Reggio, pigliandola per occasione di giustificare le sue azioni,
se ne lamentò gravissimamente nel concistorio de' cardinali; e
tacendo la confederazione già prima fatta secretamente con Cesare, e
l'ordine dato che le galee dell'uno e dell'altro assaltassino
Genova, dimostrò che lo avere voluto lo Scudo occupare Reggio
significava la mala disposizione che aveva il re di Francia contro
allo stato della sedia apostolica, e però essere, per difesa di
quella, necessitato a congiugnersi con Cesare, del quale non si era
mai veduto se non offici degni di principe cristiano, e in tutte
l'altre opere sue, e nello avere ultimamente preso a Vuormazia sí
ardentemente il patrocinio della religione. Cosí, simulando
contrarre di nuovo, con don Gian Manuelle oratore di Cesare, la
confederazione che prima era contratta, chiamorno subito a Roma
Prospero Colonna, al quale era stabilito di commettere il governo
della impresa, per consultare seco con che modo e con che forze si
avesse a muovere l'armi apertamente, poiché erano state infelici le
insidie e gli assalti improvisi.
Imperocché, né era stato piú fortunato il trattato di Como. Perché
essendo Manfredi Palavicino e il Matto di Brinzi, con ottocento
fanti tra italiani e tedeschi, accostatisi di notte alle mura di
Como, sotto speranza che Antonio Rusco, cittadino di quella città,
rompesse tanto muro vicino alla casa ove abitava che avessino
facoltà di entrare nella terra, dove, perché vi erano pochi
franzesi, non credevano trovare resistenza, ma avendo aspettato per
grande spazio di tempo invano, il governatore della terra, adunati
tutti i franzesi e alquanti comaschi che teneva per piú fedeli, ma
con numero molto minore che non erano quegli di fuora, assaltatigli
allo improviso, gli messe in fuga con tanta facilità che si credette
per molti che avesse con danari e con promesse corrotto il capitano
de' tedeschi. Affondorno nel lago tre barche, presonne sette e molti
degli inimici, tra' quali Manfredi e il Matto che fuggivano per la
via de' monti; e liberati tutti i fanti tedeschi, gli altri furono
condotti a Milano, dove Manfredi e il Matto furono squartati
publicamente: avendo prima confessato, Bartolommeo Ferrero milanese,
uomo di non piccola autorità, essere conscio delle pratiche del
Morone. Il quale, incarcerato insieme col figliuolo, fu condannato
al medesimo supplicio, per non avere rivelato che il Morone l'aveva
con occulte imbasciate stimolato a trattare cose nuove contro al re.
Nel qual tempo il pontefice, conoscendo di quanta opportunità fusse
lo stato di Mantova alle guerre di Lombardia, condusse per capitano
generale della Chiesa Federico marchese di Mantova, con dugento
uomini d'arme e dugento cavalli leggieri; il quale, innanzi si
conducesse, rinunziò all'ordine di San Michele, nel quale era stato
assunto dal re di Francia, e gli rimandò il collare e il segno che
dona il re a chi si assume in tale ordine. Ma a Roma, con consiglio
di Prospero Colonna, fu deliberato dal pontefice e dallo oratore
cesareo l'ordine e il modo di procedere nella guerra: che quanto piú
presto si potesse si assaltasse dai confini della Chiesa lo stato di
Milano con le genti d'arme del pontefice e de' fiorentini, le quali,
computato la condotta del marchese di Mantova, ascendevano al numero
vero seicento uomini d'arme; a' quali si aggiugnessino tutte le
genti d'arme di Cesare che erano nel reame di Napoli, in numero
quasi pari a quelle di sopra, perché si destinava che il retroguardo
rimanesse alla custodia di quello reame: che si soldassino seimila
fanti italiani; venissino allo esercito, che aveva a unirsi tra il
modenese e il reggiano, i dumila fanti spagnuoli che con lo Adorno
si trovavano nella riviera di Genova; dumila altri ne menasse del
regno di Napoli il marchese di Pescara, e si conducessino a spese
comuni del pontefice e di Cesare quattromila fanti tedeschi e dumila
grigioni: aggiugnessinsi dumila svizzeri, i quali erano
volontariamente rimasti a' soldi del pontefice: perché gli altri,
infastiditi dal lungo ozio e perché si approssimava il tempo delle
ricolte, erano, prima che lo Scudo venisse a Reggio, ritornati alle
case loro, avendo invano procurato di ritenergli il pontefice poiché
in essi aveva spesi inutilmente cento e cinquantamila ducati.
Deliberossi, oltre a questi provedimenti, che con l'autorità del
pontefice e di Cesare si facesse instanza appresso a' cantoni de'
svizzeri che concedessino seimila fanti (tanti erano obligati
concederne per le convenzioni che avea con loro il pontefice), e che
al re di Francia recusassino di concederne, allegando il pontefice
la confederazione sua con loro essere anteriore di tempo a quella
che aveano contratta col re di Francia; e che ottenendosi queste
dimande si assaltasse, dalla parte di verso Como, il ducato di
Milano, nel quale si sperava avesse facilmente a nascere
sollevazione, per la moltitudine grande de' fuorusciti
d'onoratissime famiglie, e perché la benivolenza che i popoli
solevano avere al nome del re Luigi era convertita in odio non
mediocre. Conciossiaché, essendo state le genti d'arme, che
ordinariamente stavano a guardia di quello stato, male pagate per i
disordini del re, che era stato, parte per necessità parte per
volontà, aggravato da soperchie spese, erano vivute con molta
licenza; né i governatori regi, presa audacia dalla negligenza del
re, amministravano quella giustizia che era solita ad amministrarsi
nel tempo del re morto: il quale, affezionatissimo al ducato di
Milano, aveva sempre tenuto cura particolare degli interessi suoi.
Premevagli, oltre a questo, che nelle case proprie erano costretti,
secondo l'uso di Francia, alloggiare continuamente gli ufficiali e i
soldati franzesi; il che se bene non fusse con loro spesa,
nondimeno, essendo cosa perpetua, era di somma incomodità e
molestia: e avvenga che questo peso medesimo sostenessino al tempo
del re passato, il quale, scusando con l'esempio della città di
Parigi, non aveva mai voluto concederne grazia a' milanesi,
nondimeno, accompagnato da' mali già detti, pareva al presente piú
grave. E si aggiugneva la natura de' popoli desiderosi di cose
nuove, e la inclinazione sí ardente, che hanno gli uomini, a
liberarsi dalle molestie presenti che non considerano quel che
succederà per l'avvenire.
La fama della guerra deliberata dal pontefice e da Cesare, con
apparecchi tanto potenti, pervenuta agli orecchi del re di Francia
lo costrinse a pensare di difendere, con non manco potenti
provisioni, il ducato di Milano; delle quali la prima espedizione fu
che Lautrech, andato per faccende particolari alla corte, ritornasse
subito a Milano. Il quale, se bene, dubitando della varietà e della
negligenza del re e di quegli che governavano, recusasse di partirsi
se prima non gli erano numerati trecentomila ducati, i quali
affermava bastargli a difendere quello stato, nondimeno, vinto dalla
instanza grande del re e della madre, e ingannato dalla fede datagli
da loro e da' ministri preposti alla amministrazione delle pecunie
che non prima arriverebbe a Milano che i danari dimandati, ritornò
con grandissima celerità, preparando sollecitamente le cose
necessarie alla difesa; per la quale aveva insieme col re deliberato
che alle genti d'arme regie che allora erano in Lombardia si
unissino gli aiuti di seicento uomini d'arme e di seimila fanti a'
quali erano tenuti i viniziani, che prontamente gli offerivano, e
già facevano cavalcare le genti d'arme nel veronese e nel bresciano;
soldare diecimila svizzeri, tenendo per certo che per virtú della
nuova confederazione non sarebbono negati; e fare passare di Francia
in Italia seimila venturieri, e aggiugnere qualche numero di fanti
italiani. Co' quali sussidi speravano o potere senza molto pericolo
tentare la fortuna di una giornata o, quando non avessino forze
bastanti a questo, almeno, provedendo sufficientemente le terre e
temporeggiando in sulle difese, straccare gli inimici; de' quali
l'uno, per la sua naturale prodigalità e per le spese fatte nella
guerra di Urbino, era esausto di danari, all'altro i regni suoi non
ne somministravano copia tale che si credesse potere lungamente
nutrire una guerra di tanto peso. Pensavano, oltre a questo, che
Alfonso da Esti, disperando dello stato proprio se il pontefice
otteneva la vittoria, o si movesse per ricuperare le cose perdute o
almeno, stando armato, tenesse il pontefice in sospetto tale che e'
fusse necessitato a lasciare molti soldati alla guardia delle terre
vicine a' suoi confini. Questi erano i consigli e i preparamenti da
ciascuna delle parti: non omettendo per ciò il re fatica o industria
alcuna, ma vanamente, per mitigare l'animo del pontefice.
Lib.14, cap.4
Le milizie pontificie e spagnuole vicino a Parma; Francesco
Guicciardini commissario generale dell'esercito pontificio. Arrivo
delle milizie tedesche. Diversità di pareri fra i comandanti.
Lentezza nell'azione ripresa dal commissario, deliberazione di porre
il campo a Parma.
Era in questo tempo Prospero Colonna a Bologna: donde, non aspettate
le genti che doveano venire del reame di Napoli né i fanti tedeschi,
raccolti gli altri soldati e lasciate sufficientemente guardate, per
sospetto del duca di Ferrara, Modona, Reggio, Bologna, Ravenna e
Imola, venne ad alloggiare in sul fiume della Lenza vicino a Parma a
cinque miglia; pieno di speranza che i franzesi non avessino a
ottenere fanti da' svizzeri e che, per questo e per la malivolenza
de' popoli, avessino a pensare piú di abbandonare che a difendere il
ducato di Milano. Ma la cosa succedette altrimenti; perché i
cantoni, con tutto che in contrario facessino instanza grandissima
il cardinale sedunense e gli oratori del pontefice e di Cesare,
deliberorno concedere al re i fanti secondo erano tenuti per
l'ultime convenzioni, i quali mentre si preparavano era venuto a
Milano Giorgio Soprasasso con [quattro]mila fanti vallesi: onde
Lautrech, volendo difendere Parma, vi avea mandato lo Scudo suo
fratello con quattrocento lancie e cinquemila fanti italiani de'
quali era capitano Federico da Bozzole. Sentivasi oltre a questo che
i viniziani raccoglievano le loro genti a Pontevico per mandarle in
aiuto del re di Francia, e che il duca di Ferrara soldava fanti.
Perciò Prospero, conoscendo essere necessarie maggiori forze, stette
sette dí in quello alloggiamento; nel quale tempo si congiunsono con
l'esercito [quattro]cento lancie spagnuole guidate da Antonio de
Leva, che venivano del reame di Napoli, e il marchese di Mantova con
parte delle sue genti: non si alterando perciò, per la venuta del
marchese capitano generale di tutte le genti della Chiesa,
l'autorità di Prospero Colonna, nella persona del quale, per volontà
del pontefice e di Cesare, risedeva, benché senza alcuno titolo, il
governo di tutto l'esercito; anzi la potestà suprema di comandare a
tutte le genti della Chiesa, e al marchese di Mantova nominatamente,
era in Francesco Guicciardini che aveva il nome di commissario
generale dello esercito ma, sopra il consueto de' commissari, con
grandissima autorità. Condusse di poi Prospero l'esercito a San
Lazzero, un miglio appresso a Parma, in sulla strada che va a
Reggio, con deliberazione di non procedere piú oltre insino a tanto
non venisse il marchese di Pescara, il quale si aspettava del regno
con [tre]cento lancie e duemila fanti spagnuoli, e insino non
venivano i fanti tedeschi: nel qual tempo non si faceva a'
parmigiani altra molestia che ingegnarsi, col divertire l'acque e
rompere i mulini, che avessino difficoltà di macinare.
Ma l'espettazione degli uomini era volta alla venuta de' tedeschi,
contro a' quali per impedire che non passassino mandavano i
viniziani nel veronese, a instanza de' franzesi, parte delle loro
genti: perché, venuti a [Spruch], dimandavano volere ricevere lo
stipendio del primo mese a Trento, e di essere, alle radici della
montagna di Monte Baldo, onde dicevano volere passare, incontrati da
qualche numero di cavalli, per potere con la compagnia loro passare
innanzi piú sicuramente. Però Prospero aveva mandato a Mantova
dugento cavalli leggieri, perché congiunti con dumila fanti
comandati del territorio mantovano e con l'artiglierie del marchese,
il quale, in tutte le cose, per gratificare al pontefice e a Cesare,
procedeva come in causa propria, non come soldato, si facessino
innanzi. Piú difficile era il pagargli a Trento, perché numerandosi
[i danari] eziandio per la parte di Cesare, dal pontefice, non si
potevano mandare per il paese de' viniziani se non con grave
pericolo. Intesa poi l'opposizione de' viniziani, dimandorno i
tedeschi maggiori aiuti, variando eziandio nel tempo del passare la
montagna e nel cammino: e perciò fu ordinato che il marchese di
Pescara, che era arrivato nel modonese, si voltasse nel mantovano;
al quale furno mandati dal campo cento uomini d'arme e trecento
fanti spagnuoli. Ultimatamente i tedeschi, impazienti di aspettare
il tempo che aveano significato, feceno di nuovo intendere volere
anticipare cinque dí; affermando che aspetterebbono alle radici di
Monte Baldo i cavalli un dí solamente e, non venendo, ritornerebbeno
indietro. Al qual tempo non potendo esservi il marchese di Pescara,
fu necessario che dal campo vi andassino con grandissima celerità
Guido Rangone e Luigi da Gonzaga: provedimenti tutti fatti
superfluamente, perché, come Prospero aveva sempre affermato, non
potevano i viniziani impedire il passaggio a seimila fanti, quanti
tra tedeschi e grigioni erano questi, l'ordinanza de' quali arebbe
sostenuti i loro cavalli, né i fanti italiani arebbono avuto ardire
di opporsegli. Per la quale ragione, e perché il senato, aborrente
dalle occasioni di ridurre la guerra nello stato proprio, aveano
voluto sodisfare a' franzesi piú con le dimostrazioni che con gli
effetti, le genti de' viniziani, il dí innanzi che i tedeschi
dovessino passare, si ritirorno verso Verona; donde i tedeschi,
senza alcuno ostacolo, passorno a Valeggio e il dí seguente nel
mantovano.
Ma arrivato che fu il marchese di Pescara nel campo, l'esercito,
stato a San Lazzero tredici dí, andò il dí seguente ad alloggiare a
San Martino, ... miglia appresso a Parma dalla parte di verso il Po;
col quale il dí medesimo si congiunsono i fanti tedeschi e i
grigioni. Cosí essendo ridotte insieme tutte le forze destinate, si
cominciò a consultare quello che fusse da fare: proponendo una parte
del consiglio si attendesse all'espugnazione di Parma, per essere la
prima terra della frontiera, e la quale non era sicuro lasciarsi
alle spalle, né per lo esercito che andasse innanzi, rispetto alla
incomodità delle vettovaglie e del fare condurre i danari e l'altre
provisioni che fussino necessarie, né per le terre che restavano da
Parma verso Bologna. Non essere i fanti che vi erano dentro,
raccolti la maggiore parte quasi tumultuariamente, di molto valore;
e di quegli, per la difficoltà de' pagamenti e perché in Parma si
pativa di macinato, fuggirsene ogni dí qualcuno in campo; il
circuito della terra essere grande; avere il popolo male disposto,
il quale benché fusse sbattuto piglierebbe animo dal sentire lo
esercito alle mura; in modo che, battendosi la città da piú parti,
potriano difficilmente resistere i franzesi agli inimici di fuora e
guardarsi in uno tempo medesimo da quegli di dentro. Altri
allegavano la città essere bene fortificata, avere difensori a
sufficienza, i fanti che erano fuggiti essere tutti inutili e vili,
esservi rimasti i fanti piú utili ed esperti alla guerra, tante
lancie franzesi, disposti tutti a difendersi valorosamente; perché
non altrimenti vi si sarebbe rinchiuso lo Scudo, Federico da Bozzole
e tanti altri capitani. Sapersi, per essere mutati in breve spazio
di tempo i modi della milizia e l'arti del difendere, quanto fusse
divenuta difficile la espugnazione delle terre; e doversi
diligentemente avvertire che, se la prima impresa che si tentasse
non si ottenesse, in che grado resterebbe la reputazione di quello
esercito. Presupporsi per ciascuno essere necessario piantare
intorno a Parma le artiglierie in due luoghi diversi, ma dove essere
in campo l'artiglierie e gli altri provedimenti a sufficienza? né si
potere condurne se non dopo spazio di qualche dí; il quale indugio,
oltre che se ne erano consumati pure troppi, dare tempo che con
Lautrech, che di dí in dí s'aspettava a Cremona, si unissino le
genti de' viniziani, maggiore numero di svizzeri, perché già ne era
venuta una parte, e i fanti venturieri che si aspettavano di
Francia; i quali tutti si sentiva che già s'appropinquavano. Che
sarebbe se, impegnato l'esercito intorno a Parma, egli si accostasse
in qualche luogo vicino, donde non si lasciando sforzare a
combattere travagliasse le scorte del saccomanno e le vettovaglie
che giornalmente si conducevano da Reggio? le quali già dalle genti
che erano in Parma ricevevano continua molestia. Essere migliore
consiglio, fatta provisione di vettovaglie per qualche dí,
lasciatasi indietro Parma, andare allo improviso a Piacenza; nella
quale città, di circuito molto maggiore, erano a guardia pochi
soldati né vi erano ripari o artiglierie, e la disposizione del
popolo la medesima che quella di Parma, ma piú abile a risentirsi
non essendo stati battuti come loro ed essendovi dentro sí poca
gente; né essere da dubitare, accostandosi, di non la pigliare
subito. E affermava Prospero, inclinato molto a questa sentenza,
sapere uno luogo donde era impossibile gli fusse proibito lo
entrare: che era quello medesimo per il quale altra volta vi era,
contro a' viniziani che l'aveano dopo la morte di Filippo Maria
Visconte occupata, entrato vittoriosamente Francesco Sforza capitano
allora del popolo milanese. In Piacenza essere abbondanza
grandissima di vettovaglie, e il luogo essere tanto opportuno ad
assaltare Milano che sarebbono necessitati i franzesi ritirare là
quasi tutte le forze loro; e cosí non rimarrebbono in pericolo le
città vicine a Parma: anzi si prometteva Prospero che, passando il
Po solamente co' cavalli leggieri e conducendosi con celerità a
Milano, quella città, udito il nome suo, avere a tumultuare. Ed era
questa, insino innanzi partisse da Bologna, stata sentenza di
Prospero; per la quale, pensando non dovere fermarsi a espugnazione
di alcuna terra, non aveva voluto provedimento abbondante di
artiglierie e di munizioni.
In questa varietà di pareri fu determinato, ma molto secretamente,
per quegli che aveano autorità di deliberare che, come prima fussino
preparate pane e farine bastanti a nutrire l'esercito almeno per
quattro dí, si movessino con grandissima celerità verso Piacenza
cinquecento uomini d'arme una parte de' cavalli leggieri i fanti
spagnuoli e mille cinquecento fanti italiani, e che dietro a questi
si movesse il rimanente dell'esercito, il quale, dovendo condurre
l'artiglierie le vettovaglie e tanti impedimenti, non poteva
procedere se non lentamente; e si teneva per certo che, come i primi
vi arrivassino, la città chiamerebbe il nome della Chiesa; e quando
pure non succedesse, che essi sarebbono causa non vi entrasse
soccorso: in modo che, come giugnesse il resto dello esercito,
otterrebbono la città indubitatamente. Ma accadde che, il dí
precedente a quello che si doveva muovere lo esercito, alcuni
cavalli de' franzesi, passato il Po, corsono insino a Busseto, donde
la fama portò avere passato il Po tutto l'esercito franzese; la qual
cosa perché interrompeva la deliberazione già fatta, si ritardò la
partita delle genti insino a tanto se ne avesse la verità: la quale
a investigare fu mandato Giovanni de' Medici, capitano de' cavalli
leggieri del pontefice, con quattrocento cavalli. Ma quel che
principalmente turbò questa deliberazione fu l'ambizione tra
Prospero e il marchese di Pescara, eziandio innanzi a questo tempo
poco concordi; perché il marchese, tirato ad alti pensieri, detraeva
volentieri con le parole e co' fatti alla grandezza di Prospero. Ma
in questo caso, aspirando ciascuno di loro alla gloria propria,
Prospero proponeva volere menare la prima parte dello esercito, e il
marchese da altra parte allegava non essere conveniente che senza sé
andassino a espedizione alcuna i fanti spagnuoli de' quali era
capitano generale. Per la quale emulazione tra' capitani, dannosa
come spesso accade alle cose de' príncipi, ancora che si fusse, non
molte ore poi, avuta notizia quella parte de' franzesi essere
ritornata di là dal Po e che Lautrech non si moveva, non si seguitò
la prima deliberazione; anzi, per la varietà de' pareri e per la
tardità naturale di Prospero, procedevano le cose in maggiore
lunghezza se il commissario apostolico non gli avesse con efficaci
parole stimolati, dimostrando quanto fusse, e giustamente,
molestissimo al pontefice il procedere sí lentamente, né potersi piú
con alcuna scusa difendere appresso a lui tante dilazioni sostenute
insino a quel dí, con l'espettazione della venuta prima degli
spagnuoli poi de' tedeschi. Le quali parole a fatica dette, si
deliberò, piú presto tumultuosamente che con maturo consiglio, che
si ponesse il campo a Parma; affermando quegli medesimi che il dí
precedente avevano affermato il contrario doversene sperare la
vittoria, massime continuando pure a uscire di Parma molti fanti per
mancamento di danari e di pane. Ma bisognò soprasedere ancora alcuni
dí, per fare venire da Bologna due altri cannoni e provedere molte
cose necessarie a chi assalta le terre con l'artiglierie, le quali,
come è detto di sopra, Prospero avea prima recusate. La quale o
negligenza o mutazione di consiglio portò grandissimo detrimento,
perché tanto maggiore tempo ebbe Lautrech a raccorre le genti che
aspettava di Francia da' viniziani e da' svizzeri. Tanto è ufficio
de' savi capitani, pensando quanto spesso nelle guerre sia
necessario variare le deliberazioni secondo la varietà degli
accidenti, accomodare da principio, quanto si può, i provedimenti a
tutti i casi e a tutti i consigli.
Lib.14, cap.5
Assedio di Parma; opere di preparazione per l'assalto. Gli
assedianti occupano il Codiponte abbandonato dai francesi. Il
Lautrech con le sue milizie a sette miglia da Parma. Imprese
fortunate del duca di Ferrara nel modenese e milizie mandate contro
di lui. Dubbi dei comandanti dell'esercito ispano-pontificio;
discussione del commissario generale con loro. Si leva il campo da
Parma.
Nel quale tempo, dimorando oziosamente l'esercito, non si faceva
intorno a Parma altro che leggerissime battaglie. Finalmente il
[terzodecimo] dí poi che erano alloggiati a San Martino, l'esercito,
passato la notte di là dal fiume della Parma, alloggiò in sulla
strada romana, ne' borghi della porta che va a Piacenza, che si dice
di Santa Croce; i quali, il dí davanti, lo Scudo, presentendo la
loro venuta, avea fatti abbruciare. Divide la città di Parma, non
con tali acque che non si possa, eccetto che ne' tempi molto
piovosi, guadare, uno fiume del medesimo nome: la minore parte della
quale, abitata da persone piú ignobili e che è circa la terza parte
del tutto, detta dagli abitatori il Codiponte, rimane verso
Piacenza. Elessono questo luogo i capitani per impedire piú
facilmente che in Parma non entrasse soccorso, e molto piú perché la
muraglia da quella parte era debole e situata in modo che non poteva
percuotere per fianco. Aveva riferito il marchese, il quale il dí
precedente era andato con alcuni capitani a speculare il luogo, che
il dí medesimo si darebbe principio a battere la muraglia; ma
essendo stato necessario, per levare le difese, battere prima, dal
mezzo in su, una torre che era in sulla porta, di muro saldo e molto
massiccia, si consumò tutto il dí intorno a questo, ove si roppe una
colubrina grossa. Piantoronsi la notte seguente l'artiglierie alla
muraglia, dalla mano sinistra della porta, secondo che si entra; ed
era stato disegnato fare il medesimo dalla mano destra, mettendo con
le batterie la porta in mezzo: perché, non si potendo, perché non
erano stati condotti piú che sei cannoni e due colubrine grosse,
piantare l'artiglierie in due luoghi separati, pareva che dal
necessitare quegli di dentro a distendersi alla difesa per lungo
spazio ne risultasse quasi il medesimo effetto. Ma questo non fu
mandato a esecuzione, perché da quella parte era, a capo del fosso
che circonda le mura, uno argine sí alto che se prima non si
spianava o non si apriva (cosa da non si potere fare in tempo sí
breve) impediva che l'artiglierie potessino percuotere la muraglia.
Non resisteva il muro, per essere vecchio e molto debole, alla
artiglieria, la quale avendo già fatte due rotture di muro assai
patenti, si ragionava tra i capitani dare il dí medesimo, benché non
con ferma risoluzione, la battaglia. Ma avendo il marchese, che
insieme co' fanti spagnuoli aveva tutta la cura della batteria,
mandato certi fanti ad affacciarsi alla rottura per vedere, se si
poteva, come stessino dentro i ripari, quegli, come furono in sul
muro rotto, cominciorono con alta voce a gridare che l'esercito si
accostasse per entrare dentro, donde i fanti spagnuoli e italiani
corsono tumultuosamente senza ordine alcuno alla muraglia; alla
quale appresentatisi e già cominciando a volere salire in sul muro
rotto, i capitani, corsi al romore, considerando che uno assalto,
anzi tumulto, debole e disordinato non poteva partorire frutto
alcuno, gli feciono ritirare: il quale accidente o raffreddò il
pensiero o dette scusa di non dare, il dí, ordinatamente la
battaglia. Seguitossi il dí seguente a battere il muro rimasto
intero in mezzo delle due rotture, e uno fianco fatto in su la torre
della porta dal lato di dentro. Ma divulgandosi per l'esercito che
per i ripari grandi fatti da' franzesi sarebbe molto difficile con
semplice assalto di espugnarla, mandorono i capitani due fanti di
ciascheduna lingua ad affacciarsi alla rottura del muro; i quali, o
occupati da troppo timore o da poca diligenza, o forse (come alcuni
dubitorono) subornati da altri, riferirono restare dal muro battuto
alla terra altezza di piú di cinque braccia, essere fatto dentro uno
fosso profondo, e tali gli altri ripari che i capitani, diffidandosi
di poterla espugnare altrimenti, determinorono che si facessino mine
allato al muro rotto, che si tagliasse il muro contiguo con gli
scarpelli e co' picconi, per riempiere con quelle rovine il fosso
che si diceva essere fatto di dentro e fare piú facile l'entrata: le
quali opere come fussino condotte alla perfezione, che, aggiunti
all'artiglieria che era nello esercito due cannoni i quali venivano
da Mantova, si facesse un'altra batteria, ove il muro, distesosi per
linea retta per lungo spazio, dalla parte destra della porta,
volgendosi, fa angolo; al quale cantone, gittandosi in terra il
muro, si potevano percuotere per fianco quegli che difendessino dal
lato di dentro. Cosí, dalla parte dalla quale era stato battuto, si
cominciò a lavorare una trincea e pochi dí poi un'altra, per gittare
con le mine in terra il muro: ma andavano adagio le opere, sí
perché, per avere avuto Prospero pensieri diversi, non erano ancora
in campo tutte le provisioni necessarie a questi lavori, sí perché
il terreno dove si cavava riusciva difficile e duro.
Alle quali opere mentre che si attende con intenzione di non
assaltare la terra innanzi che l'opere fussino finite, Lautrech, il
quale era tardato tanto a muoversi per la tardità delle genti che
venivano all'esercito, avendone già insieme la maggiore parte, venne
cinque miglia piú innanzi, pure lungo il fiume, avendo seco
cinquecento lancie, circa settemila svizzeri, quattromila fanti che
il dí medesimo avea condotto monsignore di San Valerio di Francia e,
sotto Teodoro da Triulzi governatore de' viniziani e Andrea Gritti
proveditore, quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti; e
seguitavano questo esercito il duca di Urbino e Marcantonio Colonna,
questo come soldato del re ma senza titolo e senza compagnia,
l'altro dietro alle speranze comuni de' fuorusciti. Aspettava ancora
seimila svizzeri concedutigli da' cantoni, che erano in cammino, ma
secondo l'uso loro procedevano lentamente e con molte difficoltà; i
quali come fussino uniti seco non arebbe, per soccorrere Parma,
ricusato di tentare la fortuna della battaglia: però,
sollecitandogli e aspettandogli, soggiornava per il cammino, non si
discostando dalle ripe del Po. Ma dubitando che in questo mezzo il
fratello non convenisse con gli inimici, avea mandato a scusare la
tardità, proceduta per aspettare maggiore numero di svizzeri, i
quali erano già propinqui, e perché quegli che erano seco aveano
fatto difficoltà di passare il Po; nondimeno, che al piú lungo il
quinto dí di settembre verrebbe in luogo vicino a Parma, e ne
farebbe segno con piú tiri di artiglieria; e il dí seguente si
accosterebbe piú presso agli inimici per combattergli, mandando
qualche cavallo a scaramucciare, acciò che anche egli avesse facoltà
di uscire a unirsi con loro: alla quale cosa lo Scudo lo
sollecitava, affermando non potersi tenere piú che due o tre dí in
quella parte della terra, e poi, di là dal fiume, due altri dí;
perché la terra era grande e debole, né gli restare piú di dumila
fanti perché moltissimi ne erano partiti, né potere le genti d'arme,
non essendo piú che trecento lancie, le quali portavano il peso di
tutte le fatiche, resistere se fussino assaltate da piú parti. Venne
di poi, il dí che aveva promesso di accostarsi agli inimici, a
Zibello, castello vicino a Parma meno di venti miglia, onde mandò
quattrocento cavalli a correre insino in su gli alloggiamenti degli
inimici: l'opere de' quali essendo condotte insino alla muraglia, e
dipoi voltate al luogo nel quale si avea a dare il fuoco, il conte
Guido Rangone co' fanti italiani, de' quali era capitano generale,
cominciò a piantare l'artiglierie dall'altra parte della muraglia.
Ma i franzesi, sentito lo strepito che si faceva nel maneggiarle,
abbandonato due ore innanzi dí il Codiponte, si ritirorno
ordinatamente e senza tumulto insieme con le loro artiglierie di là
dal fiume. La qual cosa conosciuta in sul fare del dí la mattina da
quegli di fuora, entrorno dentro, parte per le aperture del muro
parte per le scale; ricevuti da' parmigiani, desiderosissimi di
ritornare sotto il dominio ecclesiastico, con somma letizia: la
quale presto si convertí in amaro pianto perché non altrimenti che
di inimici furno saccheggiate le case loro. Né si dubitò che, se
qualche dí prima si fussino piantate l'artiglierie nel luogo
medesimo, arebbono i franzesi, nel modo medesimo, abbandonato il
Codiponte. Dettesi poi opera ad aprire e rompere le porte, le quali
erano atterrate, per le quali condotta l'artiglieria alla sponda del
fiume si cominciò a battere il muro che fa sponda dall'altra parte;
ma essendo già sí tarda l'ora del dí che si conosceva non potersi,
insino al prossimo dí, fare cosa di momento. Ma il dí medesimo
Lautrech venne ad alloggiare in sul fiume del Taro, vicino a Parma a
sette miglia; interpetrando alcuni che fusse venuto per combattere,
altri persuadendosi per comporre col fratello (se piú non si poteva
sostenere) che uscendo una notte di Parma con tutte le genti fusse
raccolto da lui, o veramente perché, volendo convenire cogli
inimici, ottenesse che con tutti i soldati potesse, salvo e senza
alcuna obligazione, uscire di Parma: e già alcuni dí prima Federico
da Bozzole, il quale andando intorno a' ripari era stato ferito di
uno scoppietto nella spalla, aveva per mezzo del marchese cominciato
a trattare; ma non era ancora il ragionamento proceduto tanto oltre
che si potesse fare congettura certa della volontà dello Scudo. La
verità è, secondo le notizie che si ebbono poi, che Lautrech non
aveva animo di combattere se non venivano i svizzeri; perché, con
tutto che fusse alquanto superiore di numero e di bontà di gente
d'arme e piú potente d'artiglierie, prevaleva di fanti l'esercito
contrario: nel quale, calcolando i numeri veri, erano novemila tra
tedeschi e spagnuoli duemila svizzeri e piú di quattromila italiani.
Ma consideri ciascuno da quanto piccoli accidenti dependino le cose
di grandissimo momento nelle guerre. Accadde appunto che, la notte
seguente al dí che l'esercito entrò nel Codiponte, sopravennono
avvisi da Modena e da Bologna che Alfonso da Esti, uscito di Ferrara
con cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti,
tra' quali ne erano mille tra corsi e italiani mandatigli da
Lautrech, e con dodici pezzi di artiglierie, aveva preso allo
improviso il castello del Finale e quello di San Felice, e si temeva
non si facesse piú innanzi; il che turbò assai gli animi de'
capitani, ancora che molto prima, sapendosi la instanza che gli era
fatta dai franzesi, si fusse temuto di questo movimento, e nondimeno
non si fusse fatta a Modena tale provisione che bastasse in tale
caso alla sicurtà di quella città: perché Prospero, avendo sempre
difeso pertinacemente la contraria opinione, non aveva consentito
che dello esercito si mandasse gente a Modena, o perché prestasse
fede al duca amicissimo suo, col quale, eziandio per ordine del
pontefice, si era interposto a trattare qualche accordo, o perché
malvolontieri diminuisse il campo di gente, in tempo che si dubitava
dell'approssimarsi degli inimici, essendo massime di natura di
volere fare le cose sue sicuramente e però desiderando sempre avere
forze superchie, o perché, se aveva altri fini occulti, non gli
dispiacesse questa occasione. Ma la notte, avuto la nuova,
congregati subito i capitani, fu deliberato che immediate vi andasse
il conte Guido Rangone con dugento cavalli leggieri e ottocento
fanti; i quali, aggiunti a settecento fanti che vi erano prima,
parevano presidio piú che sufficiente contro alle forze di Alfonso.
Ma ordinata questa espedizione, essendo ancora piú ore innanzi dí,
ed essendo venuto poco prima avviso che la sera dinanzi Lautrech era
alloggiato in sul Taro (ma mescolato la verità con la falsità,
perché era stato riferito che il dí medesimo si erano uniti seco i
svizzeri), né avendosi notizia che quegli che allora erano nello
esercito, sforzati da lui con molti prieghi, non gli avevano
promesso se non di venire insino in sul Taro, l'essere per altro
congregati insieme i capitani, né avendo, per non essere ancora il
dí, o occasione o necessità di implicarsi separatamente in altre
faccende, dette occasione che tra loro si cominciò, quasi
oziosamente e non per via di consiglio, a discorrere in che stato
sarebbono le cose per l'approssimarsi di Lautrech. Nel quale
ragionamento pareva che le parole di Prospero del marchese di
Pescara e di Vitello accennassino in questa sentenza: che
difficilmente si piglierebbe Parma se dall'altra parte della città
non si facesse anche una batteria, perché battuta la sponda dalla
parte donde si era cominciato a battere il dí precedente restava non
piccola salita dal letto del fiume alla riva, né quella potersi
tentare senza grave pericolo perché l'artiglierie e gli scoppietti,
distribuiti in su tre ponti che ha quel fiume e negli edifici
circostanti, offenderebbono per fianco chi assaltasse. Discorrevano
che la vicinità di Lautrech, mettendosi in qualche alloggiamento
propinquo di verso il Po, quando bene avesse l'animo alieno da
tentare la fortuna, sarebbe causa che senza pericolo grande non si
darebbe la battaglia; e doversi considerare che, per il sacco della
parte presa di Parma, molti de' fanti con la preda si erano partiti,
un'altra parte essere piú intenta a salvare le cose rubate che a
combattere; né potersi soprasedere quivi senza molte difficoltà e
incomodità, e anche senza pericolo, perché sarebbe necessario
mandare ogni dí fuora grossissime scorte, non solo per sicurtà de'
saccomanni ma eziandio de' danari e delle vettovaglie che
giornalmente venivano, con circuito lunghissimo, intorno alle mura
di Parma; le quali quando fussino fuora, potrebbe accadere che il
resto del campo avesse in uno tempo medesimo a combattere con la
gente franzese che era di fuora e con quegli che erano di dentro.
Discorrevano anche che se il duca di Ferrara ingrossasse di gente
sarebbe necessario levare di campo maggiori forze per la sicurtà di
Modena e di Reggio, e che, eziandio correndo per il paese con le
genti che aveva, potrebbe disturbare le vettovaglie; il che quando
facesse sarebbe necessario levare il campo, ma forse che,
riducendosi le cose tanto allo stretto, non si potrebbe fare senza
pericolo: le quali ragioni, che mostravano inclinazione a levarsi,
non si parlavano però in modo che alcuno scoprisse questo essere il
suo consiglio. Finalmente, poiché fu parlato cosí per lungo spazio,
il marchese di Pescara, parendogli avere già compresa la mente degli
altri, disse: - Io veggo che in tutti noi è il medesimo parere, ma
ciascuno, pensando solamente a sé proprio, tace, aspettando che un
altro se ne faccia autore: pure in me non potrà questo rispetto. A
me pare che noi stiamo intorno a Parma con pericolo e senza speranza
di fare frutto, e però, che per minore male debbiamo partircene. -
Soggiunse Prospero: - Il marchese ha detto quello che, se egli non
anticipava, avevo in animo di dire io -. Confermò Vitello il
medesimo. Ma Antonio de Leva, approvando che quivi piú non si
dimorasse, proponeva doversi considerare se fusse meglio andare ad
assaltare Lautrech. Ma a questo si replicava che senza
disavvantaggio grande non si potrebbe costrignere gli inimici a
combattere: dimorarvi essere impossibile, perché le difficoltà che
si consideravano nello stare intorno a Parma diventerebbeno molto
maggiori; e potere facilmente essere che i duemila svizzeri non gli
volessino seguitare, perché, oltre all'avere ricevuto, molti dí
prima, comandamento da' cantoni che si partissino dagli stipendi del
pontefice, non pareva verisimile si disponessino a combattere contro
a uno esercito nel quale militavano tanti fanti della medesima
nazione; né si poteva negare che, per il sacco fatto il dí
precedente, non fusse piú difficile il muovere la fanteria
disordinata. Però, disprezzato questo consiglio, pareva che le
sentenze di tutti i capitani concorressino a levarsi. Ma ristrettisi
insieme Prospero e il Pescara, parlato che ebbono lungamente,
dimandorono il commissario quello che credeva che dicesse il
pontefice se si levavano, e dicendo il commissario al marchese: -
Come non possiamo noi pigliare oggi Parma, secondo che iersera mi
affermavate? - rispose il marchese con voci spagnuole: - Né oggi né
domani né dopo domani. - Allora il commissario replicò non essere
dubbio che il levarsi darebbe al pontefice grandissima turbazione,
perché lo priverebbe totalmente della speranza della vittoria; ma il
punto di questa deliberazione consistere nella verità o nella
falsità de' presuppositi fatti da loro: perché, se il soprasedere
fusse con pericolo e senza speranza, non essere dubbio che sarebbe
imprudenza non si levare, ma quando fusse altrimenti sarebbe il
partirsi grandissimo disordine; però considerassino maturamente lo
stato dello esercito e la importanza delle cose, contrapesando quale
fusse maggiore, o il pericolo o la speranza. Alle quali parole
replicando Prospero e il marchese, che tutte le ragioni della guerra
consigliavano a ritirarsi, non avendo il commissario ardire di
opporsi a capitani di tanta autorità, si deliberò che il dí medesimo
il campo si levasse, e che incontinente si ordinasse di fare
discostare l'artiglierie dalla muraglia. La quale cosa, come fu
publicata per il campo, era come troppo timida biasimata da tutti
quegli che non erano intervenuti nel consiglio, in modo che il
commissario e il Morone congiunti insieme si sforzorono di rimuovere
Prospero da questa deliberazione. Il quale, non si mostrando alieno
da consultarla di nuovo, anzi dicendo, con parole molto laudabili, e
tanto piú quanto sono maggiori e piú savi quegli che le dicono,
essere di natura che non si vergognava di mutare consiglio quando
gli fussino dimostrate migliori ragioni, fece di nuovo chiamare
quegli medesimi che si erano trovati a deliberare; ma il marchese di
Pescara, occupato a ritirare le artiglierie e aborrente da mutare la
prima conclusione, recusò di venirvi: in modo che, restando la cosa
piú presto confusa che risoluta, si andò dietro a eseguire quel che
prima era stato determinato. Cosí il dí medesimo, che fu il
duodecimo poi che vi erano venuti a campo, ritornorno allo
alloggiamento di San Lazzero; non senza pericolo di grandissimo
disordine nel levarsi, perché i fanti tedeschi, dimandando circa i
pagamenti condizioni sí inoneste che non si potevano concedere,
ricusavano di seguitare l'esercito, e cassati i capitani vecchi che
contradicevano aveano creato per capitano uno di loro, autore di
questa sedizione; e si temeva non convenissino co' franzesi. Pure
finalmente, essendo già partito l'esercito, e disperando ciascuno
che avessino a mutare volontà, lo seguitorno. Nella quale
confusione, essendo per la levata tanto subita e per il tumulto de'
tedeschi ripieno l'esercito di terrore, non è dubbio che se fusse
sopravenuto Lautrech gli metteva facilissimamente in fuga.
Lib.14, cap.6
Rammarico del pontefice e meraviglia generale per la decisione presa
dai comandanti dell'esercito ispano-pontificio; posizione degli
eserciti nemici. Sfortuna dell'esercito di Cesare in Fiandra. Nuovi
piani di guerra degli ispano-pontifici. Cattiva fortuna e temerità
dei fuorusciti milanesi. Vano tentativo di Giovanni de' Medici
contro il ponte di barche sul Po. L'esercito pronto a passare al di
là del fiume. Gli svizzeri lasciati nelle terre della Chiesa e
contro il duca di Ferrara.
Afflisse questa deliberazione maravigliosamente il pontefice, che
aspettava che i suoi fussino entrati in Parma; parendogli di essere
caduto, contro a ogni ragione, della speranza della vittoria, e
trovandosi entrato in profondissimo pelago e sottoposto a peso
gravissimo, perché, dalle genti d'arme e fanti spagnuoli in fuora,
generalmente tutta la spesa della guerra si sopportava da lui; e,
quel che era peggio, dubitando della fede de' capitani cesarei.
Nella quale dubitazione concorrevano ancora molti, i quali si
persuadevano che il ritirare il campo da Parma non fusse stato
timore ma artificio, come quegli che avessino sospetto che il
pontefice, recuperata che avesse Parma e Piacenza, non gli
appartenendo piú altro dello stato di Milano, raffreddasse i
pensieri della guerra, né volesse per gli interessi degli altri
sostenere piú tanta spesa e tanto travaglio: di che faceva fede il
conoscersi quanto lentamente fussino proceduti a porre il campo a
Parma; lo averlo posto in luogo impertinente, poiché presa la minore
parte della terra si aveva con le medesime difficoltà a cercare di
pigliare l'altra; vedere con quanta dilazione e lentezza avevano
governato la oppugnazione, come se industriosamente dessino tempo
alla venuta del soccorso de' franzesi; e che ultimamente, essendo
già in possessione di parte della terra, al nome solo dello
approssimarsi Lautrech ancora che con esercito inferiore, l'avessino
vituperosamente abbandonata. Alcuni altri dubitavano che, senza
coscienza di Prospero, potesse essere stato artificio del marchese
di Pescara, detrattore quanto poteva e invidioso della gloria sua.
Nondimeno, fu forse piú sana opinione di quegli che credettono che
si fusse proceduto sinceramente; né avergli mosso altro che il
timore dello essersi approssimato Lautrech, ingannati in grande
parte perché i primi avvisi significorono le forze sue essere molto
maggiori. Certo è che piú che gli altri se ne maravigliorno i
capitani de' franzesi, ridotti in piccola speranza che Parma si
difendesse; perché i svizzeri, regolandosi piú secondo la loro
natura che secondo la necessità di quegli che gli pagavano,
procedevano innanzi con grandissima tardità. Perciò molti di loro,
non attribuendo la partita degli inimici a timore, interpretavano
piú presto che Prospero come peritissimo capitano, sapendo in quanto
disordine mette gli eserciti il sacco delle città e reputando molto
difficile il proibire che i soldati non saccheggiassino Parma,
giudicasse molto pericoloso, avendo gli inimici tanto vicini, il
pigliarla. Quello che si sia, Lautrech, proveduta Parma di nuove
genti, fermatosi a Fontanella, mandò tre dí poi una parte dello
esercito a pigliare Roccabianca, castello del parmigiano vicino al
Po; il quale poiché fu battuto con l'artiglierie, Orlando Palavicino
signore del luogo, disperato di avere soccorso, arrendé la terra e
la fortezza con facoltà di uscirsene. Distese poi l'esercito tra San
Secondo e il Taro, per governarsi secondo i progressi degli inimici;
avendo preso molto animo, parte per la difesa di Parma parte per
essere i nuovi svizzeri arrivati a Cremona: la giunta de' quali,
ancora che Lautrech gli avesse fatto fermare a Cremona, fu cagione
che lo esercito inimico, non gli parendo stare sicuro a San Lazzero,
si ritirò in su il fiume di Lenza dalla parte di verso Reggio, con
intenzione di allontanarsi ancora piú se i franzesi si facessino
innanzi. Anzi arebbono i capitani, senza aspettargli altrimenti,
fatto maggiore ritirata se le querele del pontefice e degli agenti
di Cesare, e la infamia che sentivano avere per tutto lo esercito,
non gli avesse ritenuti. Stettono in questo modo molti dí gli
eserciti, facendo nondimeno Lautrech molto spesso correre i suoi
cavalli e quegli che erano in Parma, per la via della montagna,
insino a Reggio, con non piccolo impedimento delle vettovaglie le
quali da Reggio si conducevano agli inimici, e con piccola laude di
Prospero, lentissimo per natura a fare correre i cavalli leggieri e
a tutti i movimenti benché piccoli.
Simile fortuna aveano le cose di Cesare di là da' monti: perché,
essendo dalla parte di Fiandra entrato nello stato del re di Francia
con potente esercito, e posto il campo a Masera con speranza grande
di ottenerla, trovando la espugnazione piú difficile e venendo il
soccorso potente del re di Francia, si ritirò, con gravissimo
pericolo che le genti sue non fussino rotte.
Ma in Italia non erano, per i successi infelici, allentati i
pensieri della guerra; perché gli inimici de' franzesi, non pensando
piú alla espugnazione di Parma né di altre terre, deliberavano di
entrare piú dentro, nel ducato di Milano; aggiugnendo all'esercito
tanti fanti italiani che in tutto fussino seimila, i quali
continuamente si soldavano. Alla quale deliberazione gli faceva
procedere piú audacemente la speranza che agli stipendi del
pontefice scendessino di nuovo dodicimila svizzeri: i quali se bene,
da principio, il cardinale sedunense, che nelle diete procurava
apertamente contro a' franzesi, ed Ennio vescovo di Veroli nunzio
apostolico e gli oratori di Cesare avessino recusati, perché non si
concedevano se non per difesa dello stato della Chiesa e con
espresso comandamento che non andassino a offendere lo stato del re
di Francia, nondimeno, poiché altrimenti non gli potevano impetrare,
gli aveano finalmente accettati eziandio con questa condizione;
sperando, discesi che fussino in Italia, potere, mediante la loro
avarizia e instabilità e le corruttele e l'arti che si userebbono
co' capitani, indurgli a seguitare l'esercito contro al ducato di
Milano. Né in questa deliberazione dell'andare innanzi era di molta
dubitazione a quale parte s'avessino a dirizzare, perché nel
continuare la guerra di qua dal fiume del Po apparivano
manifestamente grandissime difficoltà: disperata era l'espugnazione
di Parma; lasciandosi a dietro quella città bisognava andare a
combattere con gli inimici, cosa evidentemente perniciosa perché
erano alloggiati in luoghi forti e agli alloggiamenti disposta
opportunamente copia grandissima di artiglierie; dimorare tra Parma
e loro o procedere piú innanzi senza combattere non si poteva,
perché stando tra le terre possedute da loro e l'esercito sarebbono
in pochissimi dí mancate le vettovaglie, non si potendo né averne
del paese inimico né condurne da lontano. Queste difficoltà si
fuggivano trasferendo la guerra di là dal Po: perché in quel paese,
abbondante per sua natura e che non avea sentiti i danni della
guerra, confidavano trovare vettovaglie copiosamente, e non dovere
avere ostacolo alcuno insino al fiume della Adda, perché lasciando
Cremona a mano sinistra e accostandosi all'Oglio non vi erano terre
da resistere; e persuadendosi che il senato viniziano non volesse
sottoporre le genti sue, per gli interessi d'altri, alla fortuna di
una battaglia, credevano che i franzesi non ardirebbono opporsi se
non al transito dell'Adda. Anzi era speranza di molti che,
approssimandosi l'esercito a' confini de' viniziani, essi per
sicurtà delle cose proprie richiamerebbono la maggiore parte degli
aiuti dati al re. E oltre a tutte queste cose, quel che si stimava
molto, il passare di là dal Po era opportunissimo a unirsi co'
svizzeri.
Ma mentre che si preparano molte cose necessarie a questa nuova
deliberazione, di artiglierie di munizioni di guastatori di ponti e
di vettovaglie, mentre che in Toscana e in Romagna si soldano i
fanti italiani, il conte Guido Rangone, per comandamento del
pontefice, con una parte de' fanti che erano già soldati e con le
genti che erano appresso a sé, si mosse contro alla montagna di
Modena: la quale montagna, né mentre che Modena era stata sotto
Cesare né poi quando era stata dominata dalla Chiesa, aveva
riconosciuto altro signore che il duca di Ferrara. Ma intesa questa
mossa dagli uomini del paese, e che nel tempo medesimo si moveano
molti fanti comandati di Toscana, senza aspettare di essere
assaltati, chiamorno il nome della Chiesa. Nel tempo medesimo fuggí
da Milano Bonifazio vescovo d'Alessandria, figliuolo già di
Francesco Bernardino Visconte, perché vennono a luce alcune cose
trattava contro a' franzesi. Venne medesimamente a luce un trattato
tenuto in Cremona per Niccolò Varolo, uno de' principali fuorusciti
di quella città; per il quale di alcuni cremonesi che ne erano
consci fu preso il debito supplicio. Né so quale in questo tempo
[fusse] maggiore, o la mala fortuna o la temerità e imprudenza de'
fuorusciti del ducato di Milano, de' quali numero grandissimo
seguitava l'esercito; perché non solamente tutte le cose tentate da
loro riuscivano infelicemente ma, intenti a predare tutto il paese,
difficultavano il venire delle vettovaglie: non ricompensando questi
mali (io eccettuo sempre il Morone) con alcuna diligenza o
intelligenza di spie. Anzi, avendo molto prima Prospero mandatigli
verso Piacenza, poi che ebbono fatti danni grandissimi agli amici e
agli inimici, venuti tra loro medesimi a quistione nel dividere la
preda, fu da Estor Visconte e alcuni altri ammazzato Piero Scotto
piacentino, uno de' principali.
Tentò Prospero, in questo tempo medesimo, di abbruciare le barche
del ponte de' franzesi ridotte con poca guardia appresso a Cremona,
per avere tanto maggiore spazio a procedere piú innanzi, mentre che
Lautrech raccoglieva le barche necessarie a rifare il ponte; ma la
lunghezza del cammino fu cagione che Giovanni de' Medici, mandato a
questa fazione con dugento cavalli leggieri e trecento fanti
spagnuoli, non vi potette giugnere se non passata la notte: onde i
nocchieri, sentito il romore levato da' paesani, ritirorno le barche
in mezzo al Po, sicuri di non essere offesi dagli inimici fermatisi
in sulla riva.
Finalmente, preparate tutte le cose necessarie a passare il Po,
l'esercito andò a Bresselle, ove era gittato il ponte fatto con le
barche; nel qual luogo si dice il letto del fiume essere piú largo
che in alcuno altro. Ma innanzi passasse, essendo a' pensieri di
offendere altri congiunta la necessità di pensare a difendere sé
proprio, fu mandato alla cura delle terre della Chiesa che
rimanevano indietro Vitello Vitelli, con cento cinquanta uomini
d'arme e altrettanti cavalli leggieri e con dumila fanti
dell'ordinanze de' fiorentini: dove similmente andò il vescovo di
Pistoia coi duemila svizzeri, perché non pareva sicuro menargli
contro a' franzesi co' quali militavano tanti fanti della nazione
medesima, conceduti per decreto e con le bandiere publiche; e tanto
piú non avendo certezza quel che fussino per deliberare i nuovi
svizzeri, de' quali, congregati a Coira, s'aspettava a ogn'ora la
certezza che fussino mossi. Al vescovo e [a] Vitello fu commesso non
solamente il difendere Modena e l'altre terre della Chiesa, se
alcuno si movesse contro a quelle, ma d'assaltare il duca di
Ferrara: il quale, attribuendo a sé la gloria d'avere liberata
Parma, occupato il Finale e San Felice non procedeva piú oltre.
Perché il pontefice, augumentato per questo insulto l'odio,
procedeva, con le censure e monitori ecclesiastici contro a lui,
alla privazione del ducato di Ferrara.
Lib.14, cap.7
I pontifici e gli spagnuoli a Casalmaggiore. Il cardinale de' Medici
legato presso l'esercito. L'esercito sull'Oglio. Questioni fra fanti
italiani e spagnuoli; fazione fra Giovanni de' Medici e gli
stradiotti. Spostamenti degli eserciti nemici. Rotta delle genti del
duca di Ferrara al Finale.
Passò l'esercito, il primo dí d'ottobre, di là dal Po e andò ad
alloggiare a Casalmaggiore, avendo consumato nel passare non
solamente tutto il dí ma non piccola parte della notte seguente, per
la moltitudine inestimabile della turba inutile e degli impedimenti;
rimanendo ingannato in questo non mediocremente il giudicio de'
capitani, che si erano persuasi dovere essere passati tutti a mezzo
'l dí: donde, per la stracchezza degli ultimi e per le tenebre della
notte, si fermorno la notte, disperse tra 'l Po e Casalmaggiore, una
parte delle artiglierie molte munizioni e moltissimi soldati,
esposte preda agli assalti di qualunque piccolo numero degli
inimici. Anzi non si dubita che se Lautrech, il quale, raccolti
tutti i svizzeri, venne ad alloggiare a Colornio il dí medesimo che
gli avversari alloggiorno a Bresselle, fusse, quel dí che essi
passorno, passato per il suo ponte a Casalmaggiore distante tre
miglia da Colornio, o veramente avesse a mezzodí assaltata quella
parte dell'esercito che ancora non era passata (sono Bresselle e
Colornio distanti sei miglia), arebbe avuta qualche preclara
occasione. Ma nelle guerre si perdono infinite occasioni perché a'
capitani non sono sempre noti i disordini e le difficoltà degli
inimici.
A Casalmaggiore pervenne, la notte medesima, il cardinale de'
Medici, mandato dal pontefice legato dell'esercito. Perché il
pontefice, ancora che occultissimamente avesse già cominciato a
prestare l'orecchie allo imbasciadore del re di Francia, temendo che
i successi avversi e l'essere rimasto sopra lui quasi tutto il peso
della guerra non dessino causa a Cesare o a' ministri di dubitare
che egli, per uscire di tante difficoltà e pericoli, non volgesse
l'animo a nuovi pensieri, giudicò niuna cosa potergli tanto
assicurare, e per conseguente indurgli a procedere piú ardentemente
alla guerra. La persona del quale, perché era il piú prossimo di
sangue al pontefice e perché, con tutto che dimorasse quasi
continuamente in Firenze, niuna cosa grave del pontificato si
spediva senza sua partecipazione, portava seco quasi quella medesima
autorità che arebbe portata seco la persona propria del pontefice.
Giovava questo medesimo a sostenere la riputazione declinata della
impresa, e a provedere che con maggiore unione si deliberassino, per
la presenza d'uomo di tanta grandezza, le cose da' capitani: perché
ogni dí appariva piú manifestamente la discordia tra Prospero
Colonna e il marchese di Pescara; augumentata, oltre a altre
cagioni, perché il marchese, levato che fu il campo a Parma, volendo
trasferire in altri la infamia di quella deliberazione, aveva
significato a Roma essere stato cosí deliberato senza consiglio o
saputa sua.
Da Casalmaggiore, dopo il riposo di un dí, si mosse l'esercito per
il cremonese per accostarsi al fiume dell'Oglio; al quale pervenne
in quattro alloggiamenti; non essendo in questo mezzo accaduta cosa
alcuna di momento, eccetto che, mentre alloggiavano alla villa che
si dice la Corte de' Frati, fu fatta grandissima quistione tra fanti
spagnuoli e italiani, nella quale gli spagnuoli, piú col sapere
usare l'opportunità dell'occasione che delle forze, ammazzorno molti
di loro, pure per l'autorità e diligenza de' capitani si sopí presto
la cosa; e il dí dinanzi Giovanni de' Medici, correndo verso gli
inimici, i quali erano passati il Po piú alto verso Cremona, il dí
medesimo che gli altri erano stati fermi a Casalmaggiore, roppe gli
stradiotti de' viniziani guidati da Mercurio, co' quali erano alcuni
cavalli de' franzesi; de' quali fu fatto prigione don Luigi Gaetano
figliuolo di..., che ancora riteneva il nome di duca di Traietto,
benché lo stato fusse posseduto da Prospero Colonna.
Ma nell'alloggiare l'esercito in sul fiume dell'Oglio, la fortuna,
risguardando con lieto occhio le cose del pontefice e di Cesare,
interroppe il consiglio infelice de' capitani; i quali aveano
deliberato che dalla Corte de' Frati andasse l'esercito ad
alloggiare alla terra di Bordellano, distante otto miglia, pure in
sul fiume medesimo: ma non essendo stato possibile che, per essere
la strada difficile, vi si conducessino l'artiglierie, fu necessario
fermarsi alla terra di Rebecca, a mezzo il cammino; la quale da
Pontevico, terra de' viniziani, divide solamente il fiume
dell'Oglio. Nel quale luogo, mentre che si alloggiava, pervenne
notizia che Lautrech, seguitato dalle genti de' viniziani, lasciati
i carriaggi a Cremona, era venuto il dí medesimo a San Martino,
distante cinque miglia; deliberato, se gli inimici procedevano
innanzi, di riscontrargli il dí seguente in sulla campagna. Turbò
questa cosa maravigliosamente la mente del cardinale de' Medici e
de' capitani; perché avendo il senato viniziano, quando uní le genti
sue a Lautrech, significata questa deliberazione con parole tali che
pareva muoversi non per desiderio della vittoria del re di Francia
ma per non avere causa giusta di non osservare la confederazione, si
erano e prima persuasi, e la venuta del cardinale avea confermata
questa opinione, che Andrea Gritti avesse occulto comandamento di
non permettere che quelle genti combattessino: il quale presupposito
apparendo falso, era necessario partirsi da' primi consigli; perché
niuno negava essere superiore di forze l'esercito degli inimici, nel
quale, oltre alla cavalleria molto potente e settemila fanti tra
franzesi e italiani, erano diecimila svizzeri, ma nell'esercito del
pontefice e di Cesare era tanto diminuito il numero de' tedeschi, e
in qualche parte degli spagnuoli, che a fatica ascendevano al numero
di settemila, e de' seimila italiani, perché erano la maggiore parte
stati condotti di nuovo, si considerava piú il numero che la virtú.
Deliberorno adunque Prospero e gli altri aspettare in quel luogo la
venuta de' svizzeri; i quali, perché erano già mossi e perché il
cardinale sedunense che gli menava avvisava che non si fermerebbono
in luogo alcuno, si sperava non dovessino tardare piú che tre o
quattro dí. Perciò, la mattina seguente, i capitani, considerato
diligentemente il sito del luogo, ridussono a migliore forma
l'alloggiamento fatto quasi tumultuariamente la sera dinanzi; non
gli movendo il pericolo di potere essere aspramente offesi con
l'artiglierie dalla terra opposita di Pontevico, perché il cardinale
de' Medici, seguitando le prime impressioni, avea per cosa certa che
i viniziani, non obligati al re di Francia ad altro che a concedere
le genti per la difesa del ducato di Milano, non consentirebbono mai
che dalle terre loro fusse data molestia all'esercito della Chiesa e
di Cesare. Alla deliberazione di aspettare i svizzeri a Rebecca si
opponeva manifestamente la difficoltà delle vettovaglie, perché
quelle che si conducevano con l'esercito non potevano bastare molti
dí e, per il terrore de' danni che si faceano specialmente da'
fuorusciti milanesi e la fuga che era per tutto il paese, ne veniva
piccolissima quantità, e questa ogni ora diminuiva. Perciò il
commissario Guicciardino aveva ricordato che, non potendo per il
mancamento delle vettovaglie sostenersi in quel luogo, e potendo
accadere per molte cagioni che la venuta de' svizzeri
procrastinasse, essere forse piú utile, non soggiornando quivi,
ritirarsi cinque o sei miglia piú indietro in sul fiume medesimo, a'
confini del mantovano; ove, avendo alle spalle il paese amico, non
mancherebbono le vettovaglie: e questo, che al presente si poteva
fare sicuramente, potrebbe essere che approssimandosi gli inimici
non si potrebbe fare senza gravissimo pericolo. Non sarebbe
dispiaciuto intrinsecamente questo consiglio a' capitani, ma la
infamia tanto recente della ritirata da Parma riteneva ciascuno da
parlare liberamente; movendogli similmente la speranza che i
svizzeri non dovessero ritardare a venire, i quali potevano scendere
in cinque o sei dí da Coira nel territorio di Bergamo, onde insino
all'esercito era brevissimo transito. Cosí fermato di aspettargli a
Rebecca, si distribuiva misuratamente per tutte le bandiere del
campo la munizione delle farine condotta con l'esercito; le quali,
perché col campo non erano forni portatili, e le case, nelle quali
erano i forni, occupate dagli alloggiamenti de' soldati, ciascuno
assava da se stesso in sulle brace la parte che gli toccava: la
quale incomodità, aggiunta al distribuirsi scarsamente le farine, fu
cagione che molti de' fanti italiani, con tutto che vi abbondasse il
vino e il carnaggio, se ne fuggivano occultamente. Ma il terzo dí,
Lautrech, il quale si era fermato a Bordellano, passata una parte
dell'artiglierie a mezzodí di là da Oglio le mandò a Pontevico;
consentendo, benché simulando il contrario, il proveditore
viniziano: onde il medesimo dí, benché già appresso alla notte,
cominciorno a tirare negli alloggiamenti degli inimici. I capitani
de' quali conoscendo il pericolo manifestissimo, ancora che si
fussino potuti trasferire in luogo ove alcune colline gli coprivano,
nondimeno spaventati dalla carestia delle vettovaglie e augumentando
il timore della tardità de' svizzeri, mosso, la mattina seguente
innanzi all'aurora, tacitamente l'esercito senza suono di trombe e
di tamburi, e messi i carriaggi innanzi alle genti, procedendo molto
ordinatamente e apparecchiati a combattere e a camminare, andorno ad
alloggiare a Gabbioneta, terra distante cinque miglia a' confini del
mantovano; confessando tutti essersi salvati da gravissimo pericolo,
parte per beneficio della fortuna parte per l'imprudenza degli
inimici: perché certo è che, se il dí destinato a andare a
Bordellano non si fussino fermati a Rebecca, rimaneva loro niuna o
piccolissima speranza di salute; perché le medesime necessità o
maggiori gli costrignevano a ritirarsi, e la ritirata, essendo piú
lunga e con gli inimici piú vicini, aveva evidentissimo pericolo.
Similmente è certo che Lautrech conseguitava indubitatamente la
vittoria se il dí medesimo che mandò l'artiglierie a Pontevico
fusse, come molti lo consigliorno e tra gli altri i capitani de'
svizzeri, andato ad alloggiare appresso agli inimici; a' quali, per
la propinquità sua, non rimaneva facoltà di partirsi sicuramente,
non potendo massime, per lo impedimento che arebbono ricevuto dalle
artiglierie di Pontevico, mettersi ordinatamente in battaglia né
dimorare in quel luogo, per la fame, piú che tre o quattro dí. Ma
mentre che, secondo la sua natura, dispregia il consiglio di tutti
gli altri, accennando prima il pericolo che appresentandolo, dette
loro causa di prevenire con la subita partita le sue minaccie.
Dunque, non senza ragione i capitani de' svizzeri, speculato il sito
del luogo (perché Lautrech, mossosi per accostarsi agli inimici,
trovandogli partiti, andò ad alloggiare a Rebecca), gli dissono che
meritavano d'avere la paga che si dà a' soldati vincitori della
battaglia, perché per loro non era stato che e' non avesse
conseguita la vittoria. A Gabbioneta, fortificato eccellentemente
l'alloggiamento, soprastettono molti dí; ma parendo che
continuamente si allungasse la venuta de' svizzeri e temendo della
vicinità dell'esercito franzese, il quale, molto piú potente, faceva
dimostrazione di volergli assaltare, passato l'Oglio, andorono ad
alloggiare a Ostiano castello di Lodovico da Bozzole, con intenzione
di non si muovere di quivi insino alla venuta de' svizzeri. La quale
deliberazione fatta con prudenza fu anche accompagnata dalla
fortuna, perché l'esercito arebbe ricevuto non piccolo detrimento
nello alloggiamento di Gabbioneta, posto in sito molto basso, dalle
pioggie immoderate le quali immediate sopravennono.
Ma mentre che cosí oziosamente sopraseggono, l'uno esercito a
Ostiano l'altro a Rebecca, il vescovo di Pistoia e Vitello, uniti
insieme i svizzeri e i fanti italiani, assaltorono le genti del duca
di Ferrara le quali erano alloggiate al Finale; e benché fussino in
luogo forte per natura, e per arte molto fortificato, nondimeno i
svizzeri, andando ferocissimamente incontro al pericolo, le roppono
e messono in fuga, ammazzandone molti (tra' quali fu morto
combattendo il cavaliere Cavriana): con tanto timore del duca di
Ferrara, che era al Bondino, che abbandonato subito quel castello
fuggí a Ferrara; ritirando con la medesima celerità, perché gli
inimici non lo seguitassino, le barche in sulle quali aveva gittato
il ponte nel luogo medesimo.
Lib.14, cap.8
Discesa degli svizzeri: loro riluttanza ad assaltare il ducato di
Milano: concordato con l'esercito ispano-pontificio. Partenza degli
svizzeri dall'esercito francese e causa che l'ha determinata. Il
Lautrec spera di far resistenza ai nemici sull'Adda. Prime milizie
mandate da Prospero Colonna a passare il fiume. Gli ispano-pontifici
passano l'Adda; il Lautrec si ritira a Milano.
Erano intanto i svizzeri scesi nel territorio di Bergamo, e
nondimeno, pieni di dispareri e di difficoltà, ritardavano il venire
piú innanzi, avendo espressamente recusato il volgersi ad assaltare
il ducato di Milano, come il cardinale sedunense e gli agenti del
pontefice e di Cesare facevano instanza: facevano anche difficoltà
di andare a unirsi con l'esercito che gli aspettava a Ostiano, come
preparato di procedere alla offesa del re di Francia, offerendo di
andare in qualunque luogo paresse al pontefice nello stato della
Chiesa, per la difensione del quale avevano accettato lo stipendio;
e nondimeno consentendo, come spesso interpretano le cose
barbaramente, di andare ad assaltare Parma e Piacenza, come città
appartenenti manifestamente alla Chiesa o almeno come di ragione non
certa del re di Francia. Dimandavano ancora che innanzi che si
movessino fussino mandati a loro dall'esercito trecento cavalli
leggieri, con l'aiuto de' quali potessino raccorre le vettovaglie
per il paese donde passavano. Finalmente, pervenuti i cavalli, i
quali all'improviso passorono con celerità grande per il territorio
de' viniziani, si mossono per andare in luogo vicino all'esercito,
dove piú comodamente si potesse consultare e risolvere quello
avessino a fare; e in cammino cacciorono alcune genti de' franzesi e
de' viniziani le quali, per proibire loro il passare piú innanzi, si
erano fermate a Pontoglio o vero al lago Eupilo. Cominciossi, come
furno approssimati all'esercito, a fare instanza per disporgli a
unirsi contro a' franzesi; per la qual cosa andavano innanzi e
indietro molti messi e imbasciate: e vi andò in nome del cardinale
de' Medici l'arcivescovo di Capua. Finalmente, quegli del cantone di
Zurich, i quali sí come hanno maggiore autorità fanno professione di
governarsi con maggiore gravità, negorno costantemente; gli altri,
dopo molte sospensioni, né ricusorono espressamente né accettorono
la dimanda fatta, non negando di volere seguitare l'esercito ma non
dichiarando se dietro alle sue vestigie fussino per entrare nel
ducato di Milano: in modo che, per consiglio di Sedunense e de'
capitani, la volontà de' quali era stata guadagnata con molte
promesse, si deliberò di procedere innanzi, sperando che, poi che
non recusavano di seguitare, avessino facilmente a essere condotti
in qualunque luogo andasse lo esercito. Cosí, voltati i zuricani, i
quali erano quattromila, verso Reggio, l'esercito, poi che tra
Gabbioneta e Ostiano fu dimorato circa uno mese, si congiunse a
Gambara cogli altri svizzeri: procedendo in mezzo di quello due
legati, Sedunense e Medici, con le croci d'argento, circondate
(tanto oggi si abusa la riverenza della religione), tra tante armi e
artiglierie, da bestemmiatori, omicidiali e rubatori.
Andorono in tre alloggiamenti, per le terre de' viniziani, a
Orcivecchio loro castello, scusandosi col senato questo essere un
transito necessario e non farsi per desiderio di offendergli; cosí
come essi si erano scusati essere stato sforzato Andrea Gritti loro
proveditore di consentire a Lautrech che mandasse l'artiglierie a
Pontevico. A Orcivecchio arrivorono corrieri mandati da' signori
delle leghe a comandare a' svizzeri che partissino dello esercito;
simile comandamento feciono per altri corrieri a quegli che erano
nel campo franzese, allegando essere cosa indegna del nome loro che
in due eserciti inimici fussino colle bandiere publiche i fanti
suoi. Ma di questi comandamenti gli effetti furno diversi: perché i
corrieri, fatti industriosamente ritenere nel cammino, non
pervennero a quegli che erano con Sedunense; ma i svizzeri de'
franzesi partirno quasi tutti improvisamente, mossi (come si credé)
non tanto dai comandamenti ricevuti né dalla lunghezza della
milizia, della quale sogliono sopra tutti gli altri essere
impazienti, quanto perché a Lautrech, non gli essendo mandati danari
di Francia né bastando quegli che acerbamente riscoteva del ducato
di Milano, era mancata la facoltà di pagargli. Nel qual luogo debbe
meritamente considerarsi quanto possa la malignità e la imprudenza
de' ministri appresso a' príncipi che o per negligenza non vacano
alle faccende o per incapacità non discernono da se stessi i
consigli buoni da' cattivi: perché essendo stati ordinati
trecentomila ducati per mandargli a Lautrech, secondo la promessa
che gli era stata fatta, la reggente madre del re, desiderosa tanto
che non crescesse la sua grandezza che si dimenticasse dell'utilità
del proprio figliuolo, procurò che i generali, senza saputa del re,
convertissino questa somma di danari in altri bisogni. Donde
Lautrech, confuso d'animo e pieno di grandissima molestia, poiché
per la partita de' svizzeri il successo delle cose, il quale prima
si prometteva felice, era diventato molto dubbio, lasciata guardata
Cremona e Pizzichitone, si ridusse col resto dell'esercito a
Cassano; sperando di proibire agli inimici il transito dell'Adda,
cosí per l'altre difficoltà che hanno gli eserciti a passare i fiumi
quando in sulla ripa opposita è chi resista, come perché in quel
luogo è tanto piú rilevata la ripa verso Milano che maggiore è
l'offesa che con l'artiglierie si fa agli inimici che quella che si
riceve. Da altra parte i legati apostolici e i capitani, partiti da
Orcivecchi e passato di nuovo il fiume dell'Oglio, erano in tre
alloggiamenti venuti a Rivolta; non sentendo piú la incomodità delle
vettovaglie, perché le terre della Ghiaradadda abbandonate da'
franzesi ne somministravano abbondantemente. Quivi intenti gli
eserciti l'uno a guadagnare, l'altro a proibire il transito del
fiume, Prospero e gli altri capitani preparavano di gittare il ponte
tra Rivolta e Cassano; cosa molto dubbia e difficile per la
opposizione degli inimici: dove avendo consumato due o tre dí in
varie disputazioni e consigli, finalmente Prospero, non conferiti al
marchese di Pescara i suoi pensieri acciò che non partecipasse della
gloria di questa cosa e, perché non gli pervenisse a notizia,
rifiutata l'opera de' fanti spagnuoli, tolte occultamente del fiume
Brembo due barchette, mandò di notte con grandissimo silenzio alcune
compagnie di fanti italiani a passare il fiume dirimpetto alla terra
di Vauri.
È Vauri terra aperta e senza mura, posta in su la riva dell'Adda,
distante cinque miglia da Casciano, ove è l'opportunità di passare
il fiume; e ha nel mezzo un piccolo ridotto di mura rilevato, a uso
di rocchetta. Guardava questo luogo con pochi cavalli Ugo conte de'
Peppoli, luogotenente della compagnia delle lancie che aveva in
condotta dal re di Francia Ottaviano Fregoso: il quale, sentito lo
strepito, fattosi incontro in sulla riva, fu facilmente sforzato a
dare luogo per la violenza degli scoppietti; ma si credé che arebbe
fatto facilmente resistenza se a' cavalli che aveva seco fusse stato
aggiunto qualche numero di scoppiettieri, come esso affermava avere
dimandati a Lautrech. Raccoglievansi i fanti, secondo che passavano,
in uno rilevato con un poco di forte che è nella terra sopradetta,
aspettando venisse il soccorso ordinato da Prospero; il quale,
subito che ebbe avviso del principio felice, si voltò quasi tutti i
fanti dello esercito alloggiati in diverse castella della
Ghiaradadda, con ordine che quegli che prima arrivassino, e poi gli
altri successivamente, passassino subito il fiume in sulle medesime
barchette, e in su due altre di quelle che seguitavano l'esercito,
per gittare il ponte in su' fiumi: le quali la notte medesima erano
state tirate per terra in sulla riva medesima. Andò ed egli e gli
altri capitani, col cardinale de' Medici, incontinente al medesimo
cammino, lasciato ordine a Rivolta che se i franzesi si discostavano
si gittasse subito il ponte. Ma a Vauri fu per alquante ore incerto
il successo della cosa. Perché se Lautrech, come prima ebbe notizia
gli inimici essere passati, v'avesse voltata subito una parte
dell'esercito, non è dubbio che gli opprimeva; ma poiché per piú ore
fu stato sospeso di quello dovesse fare, mandò lo Scudo con
[quattro]cento lancie e co' fanti franzesi e, dietro, alcuni pezzi
d'artiglieria: i quali, camminando con celerità, cominciorno
vigorosamente a combattere il luogo dove si erano ritirati gli
inimici, nel tempo medesimo che in su l'altra riva compariva la
gente che veniva al soccorso; per la speranza del quale si
difendevano costantemente, ancora che lo Scudo, smontato a piede con
tutti gli uomini d'arme, combattesse ferocemente nello stretto delle
vie: né si dubita che se a tempo fussino arrivate l'artiglierie gli
arebbono espugnati. Ma già dall'altra ripa sollecitavano
continuamente di passare, secondo che comportava la capacità delle
barche, Tegane capitano de' grigioni e due bandiere di fanti
spagnuoli, mosse da' conforti del cardinale de' Medici e de'
capitani. Ma senza conforto di alcuno, stimolato dalla propria
magnanimità e sete grandissima della gloria, passò Giovanni de'
Medici, portato da uno cavallo turco, per la profondità dell'acqua
notando insino all'altra ripa; dando nel tempo medesimo terrore agli
inimici e conforto agli amici. Finalmente lo Scudo, ancora che nello
istante medesimo arrivassino le artiglierie, disperato della
vittoria, perduta una bandiera, si ritirò a Cassano: donde Lautrech
ridusse tutto l'esercito a Milano. Dove arrivato, o per non perdere
l'occasione di saziare l'odio prima conceputo o per mettere con
l'acerbità di questo spettacolo terrore negli animi degli uomini,
fece decapitare publicamente Cristofano Palavicino: spettacolo
miserabile, per la nobiltà della casa e per la grandezza della
persona e per la età, e per averlo messo in carcere molti mesi
innanzi alla guerra.
Lib.14, cap.9
Gloria derivata a Prospero Colonna dal successo ottenuto. L'esercito
ispano-pontificio alloggia a Marignano; di qui marcia verso Milano.
Entrata in Milano; anche le altre città del ducato passano agli
ispano-pontifici. Sdegno degli svizzeri perché i loro fanti hanno
combattuto contro i francesi.
Esaltò insino al cielo la passata dell'Adda il nome di Prospero, il
quale prima, per la ritirata di Parma e per la lentezza del suo
procedere, era infame a Roma e in tutto l'esercito; ma cancellandosi
spesso per l'ultime cose la memoria delle prime, si celebravano
popolarmente le laudi sue, che senza sangue e senza pericolo, ma
totalmente con consiglio e con industria degna di peritissimo
capitano, avesse furato agli inimici il passo di quel fiume; il
quale Lautrech si prometteva tanto di proibirgli che, oltre a quello
che ne diceva publicamente, avesse scritto al re che assolutamente
lo impedirebbe. E nondimeno non mancavano di quegli che, con ragioni
o vere o apparenti, si sforzassino di estenuare la gloria di questo
fatto, allegando non avere avuta virtú o industria rara né la
invenzione né l'esecuzione, perché la natura da se stessa insegna a
ciascuno che truova opposizione a' fiumi o passi stretti di cercare
di passare o di sopra o da basso, dove non sia chi impedisca; il
passo di Vauri essere stato propinquo, opportunissimo e passo per
l'ordinario frequentato, e Lautrech essere stato tanto negligente a
farlo guardare che la negligenza sua non avea lasciato luogo alla
industria; perché, in quale altra cosa potersi commendare la
providenza di Prospero che nell'avere provedute occultamente le
barche, e governata la cosa col silenzio necessario? Altri, forse
troppo diligenti giudici delle cose, e piú pronti a riprendere gli
errori dubbi che a laudare l'opere certe, non contenti di diminuire
la fama della sua industria, riprendevano che in lui non fusse stata
né la providenza né l'ordine conveniente; perché non avendo mandato
comandamento alle genti destinate al soccorso, le quali erano
alloggiate in Trevi, Caravaggio e in vari luoghi, che si movessino,
se non quando ebbe notizia che i fanti mandati innanzi aveano
occupato Vauri, tardorono per necessità insino a mezzo dí, i primi,
ad arrivare in sulla ripa del fiume, piú di quattordici ore poi che
i primi fanti erano passati: di maniera che non si dubita che se
Lautrech avesse, quando n'ebbe notizia, fatto quel che fece dopo
molte ore, e arebbe recuperato Vauri e rotto i fanti che erano
passati, perché a soccorrergli pervenivano tardi i provedimenti
ordinati. Ma non oscurorno queste interpretazioni la gloria di
Prospero, perché è considerato comunemente dagli uomini l'evento
delle cose; per il quale, ora con laude ora con infamia, secondo che
è o felice o avverso, si attribuisce sempre a consiglio quel che
spesso è proceduto dalla fortuna.
Partito Lautrech dalla ripa dell'Adda, niuno dubbio era che gli
inimici, i quali il dí seguente gittorno il ponte tra Rivolta e
Casciano, dovessino quanto piú presto si poteva accostarsi a Milano:
nondimeno Prospero, il cui consiglio, biasimato comunemente dal
volgo, fu approvato da' periti dell'arte militare, volle che il
primo dí, per piú lungo circuito, si andasse ad alloggiare a
Marignano, terra parimente propinqua a Milano e Pavia; perché non si
potendo, per i tempi già freddi e molto piovosi, soggiornare in
campagna, gli parve piú opportuno l'accostarsi a Milano da quella
parte dalla quale, se come si credeva riuscisse difficile
l'entrarvi, potesse subito voltarsi a Pavia, ove Lautrech, per
ridurre tutte le forze a Milano, non avea lasciato alcuno presidio,
per collocare in quella città, abbondante e molto opportuna, la
sedia della guerra. Da altra parte Lautrech, il quale, ridotto a
poco numero di fanti, era stato da principio inclinato a guardare
solamente la città di Milano, considerando poi che se abbandonava i
borghi dava comodità agli inimici di alloggiamento, e cosí facoltà
di potere attendere oziosamente alla espugnazione, deliberò di
guardare anche i borghi: consiglio certamente valoroso e prudente se
fusse stato accompagnato dalla debita vigilanza, e per il quale, per
gli accidenti inopinati che dopo pochissimi dí succederono, arebbono
le cose sortito fine molto diverso da quello che ebbono. Ma
l'esercito degli inimici, del quale la maggiore parte era alloggiata
a Marignano e i svizzeri piú innanzi alla Badia di Chiaravalle,
stato fermo tre dí per aspettare l'artiglierie, che per la
difficoltà delle strade non si erano potute condurre, si indirizzò
il decimonono dí di novembre a Milano, con intenzione, che se il dí
medesimo non si entrava, di andarsene il dí seguente a Pavia; dove
già, per occuparla, era stata mandata una parte de' cavalli
leggieri. E accadde quella mattina cosa notabile: che essendosi
fermati in uno prato appresso a Chiaravalle i legati e i principali
dello esercito, per dare luogo a' svizzeri di camminare, sopragiunse
uno vecchio, di presenza e di abito plebeo, il quale, affermando
essere mandato dagli uomini della parrocchia di San Siro di Milano,
sollecitava con grandissima esclamazione che si andasse innanzi,
perché, per ordine dato, non solo gli uomini di quella parrocchia ma
tutto il popolo di Milano, subito che si accostasse l'esercito, al
suono delle campane di tutte le parrocchie, piglierebbe l'armi
contro a' franzesi: cosa che parve poi maravigliosa perché, per
qualunque diligenza che si facesse poi di ritrovarlo, non fu mai
possibile sapere né chi fusse né da chi fusse stato mandato.
Camminò adunque l'esercito in ordinanza verso porta Romana, fermate
l'artiglierie grosse al capo di una via che si voltava a Pavia;
nella prima fronte del quale essendo il marchese di Pescara co'
fanti spagnuoli, si accostò, appropinquandosi già la notte, al fosso
tra porta Romana e porta Ticinese, e presentati gli scoppiettieri
contro a un bastione fatto nel luogo che si dice Vicentino appresso
alla porta detta Lodovico, piú per tentare che per speranza di
ottenere, i fanti viniziani che n'aveano la custodia, non sostenuta
non che altro la presenza degli inimici, voltate con inestimabile
viltà le spalle, si messono in fuga; il medesimo feciono i svizzeri
che alloggiavano appresso a loro: in modo che i fanti spagnuoli,
passato senza difficoltà il fosso e il riparo, entrorno nel borgo.
Nell'entrare de' quali fu preso, ricevuta nel prenderlo una leggiera
ferita, Teodoro da Triulzi, che disarmato in su una muletta correva
al rumore; il quale pagò poi al marchese di Pescara ventimila ducati
per la sua liberazione. Salvossi con fatica grande Andrea Gritti, e
unitisi fuggendo co' franzesi, tutti insieme con lungo circuito si
ritirorono nella città: nella quale non avendo fatta provisione di
difendersi, e avendo pochissimi fanti e l'animo del popolo inclinato
alla rebellione, feciono alto intorno al castello. Da altra parte il
marchese di Pescara, seguitando sollecitamente la prosperità della
fortuna, accostatosi a porta Romana (ritengono le porte della città
e quelle de' borghi il nome medesimo) fu da' principali della
fazione ghibellina che aveano occupata la porta messo dentro; e poco
dipoi entrorono nel medesimo modo, per la porta Ticinese, il
cardinale de' Medici, il marchese di Mantova, Prospero e una parte
dello esercito: ignorando quasi i vincitori in quale modo o per
quale disordine si fusse con tanta facilità acquistata tanta
vittoria. Ma la cagione principale procedette dalla negligenza de'
franzesi; perché, per quello si potette comprendere poi, non aveva
Lautrech avuto notizia che quel giorno l'esercito fusse mosso, anzi
si credé che l'essere per le grandissime pioggie le strade molto
rotte gli desse sicurtà che quel dí gli inimici non fussino per
muovere l'artiglierie, senza le quali non pensava si mettessino ad
assaltare i ripari: però, nel tempo medesimo che essi entrorono
dentro, cavalcava con altri capitani disarmato oziosamente per
Milano; e lo Scudo, stracco dalle vigilie della notte precedente,
dormiva nel proprio alloggiamento. E nondimeno si credé che, poi che
ebbe fuggendo raccolte le genti in sulla piazza del castello, arebbe
avuta non piccola occasione di offendere gli inimici; de' quali una
parte era alloggiata molto disordinatamente in Milano, un'altra
restata ne' borghi col medesimo disordine, e un'altra parte
alloggiata confusa e sparsa di fuora: ma impedito, dal timore e
dallo errore delle tenebre, di discernere in sí breve tempo lo stato
degli inimici, se ne andò la notte medesima con l'esercito a Como;
dove lasciati cinquanta uomini d'arme e seicento fanti, preso il
cammino per la Pieve di Inzino e passata Adda a Lecco, si ridusse in
quel di Bergamo, restando il castello di Milano bene guardato e
proveduto.
Seguitorono l'esempio di Milano Lodi e Pavia; e nel tempo medesimo
il vescovo di Pistoia e Vitello, che, lasciata a dietro Parma, erano
andati alla volta di Piacenza, furono accettati spontaneamente da
quella città; e la medesima inclinazione seguitò la città di
Cremona: dove, venuta nuova non solo della mutazione di Milano ma
eziandio che le genti franzesi erano state rotte, il popolo levato
in armi cominciò a chiamare il nome dello imperio e del duca di
Milano. La quale cosa intesa da Lautrech, che già era arrivato in
bergamasco, mandò lo Scudo con parte delle genti a ricuperarla: il
quale, essendo ributtato dal popolo, Lautrech, ancora che, per la
facilità che vi era di soccorrerla da tanti svizzeri che erano in
Piacenza, avesse piccola speranza di prospero successo, vi si
indirizzò con tutte le genti; avendo, per parergli essere impotente
a sostenere tante cose, ordinato che Federigo da Bozzole
abbandonasse Parma. E gli succedette la cosa felicemente, perché il
vescovo di Pistoia, se bene avesse commissione dal cardinale de'
Medici, subito che intese la rebellione di Cremona, di mandarvi, per
stabilire quello acquisto, parte de' svizzeri, nondimeno, non
volendo dividergli né implicargli in altre faccende, per la cupidità
che aveva di andare con essi alla impresa che si destinava di
Genova, ritardò tanto che Lautrech, tenendosi per lui il castello né
vi essendo altra difensione che quella del popolo (il quale subito
gli mandò imbasciadori a dimandare venia del delitto), la ricuperò
facilmente; dalla quale cosa ripreso animo, espedí subito a Federigo
da Bozzole che non abbandonasse Parma. Ma Federigo, già partitosene,
aveva con tutte le genti passato il Po; e Vitello, il quale con le
sue genti andava a Piacenza, essendo, quando Federigo partí, vicino
a Parma, chiamato con grandissimo consenso del popolo vi era entrato
dentro; e a Milano, attendendosi ad acquistare il resto dello stato,
con disegno di ridursi a spesa piú temperata, fu mandato nel tempo
medesimo il marchese di Pescara, con le genti spagnuole e co'
tedeschi e grigioni, a campo a Como. La quale città poiché ebbe
cominciato a battere con l'artiglierie, quegli che vi erano dentro
non sperando soccorso si accordorono, con condizione che e le genti
franzesi e gli uomini della terra con le loro robe fussino salvi; e
nondimeno, quando i franzesi volevano partirsi, gli spagnuoli
entrati dentro la saccheggiorono con infamia grande del marchese; il
quale, non molto poi, imputato da Giovanni Cabaneo, capo di quella
gente, di fede rotta, fu chiamato a duello.
Mandorono da Milano nel tempo medesimo il vescovo di Veroli a'
svizzeri per fermare gli animi loro; ma essi, come fu pervenuto a
Bellinzone, lo messono in custodia perché, malcontenti che i fanti
loro fussino proceduti contro al re di Francia, si lamentavano non
solo del cardinale sedunense e del pontefice e di tutti i ministri
suoi ma, tra gli altri, particolarmente di Veroli, che essendo,
quando furono levati i fanti, nunzio del pontefice appresso a loro,
si fusse affaticato per indurgli a contravenire alla eccezione
contro la quale erano stati conceduti.
Lib.14, cap.10
Morte di Leone decimo; giudizio dell'autore. Terre e fortezze
rimaste in possesso dei francesi; Tornai presa da Cesare;
conseguenze della morte del pontefice nel ducato di Milano;
progressi del duca di Ferrara. I francesi e i veneziani contro
Parma; l'opera del commissario Francesco Guicciardini. Sue parole di
fiducia e di rimprovero. Vani assalti dell'esercito nemico a Parma.
Erano le cose della guerra ridotte in questi termini, e con speranza
grande del pontefice e di Cesare di stabilire la vittoria; perché il
re di Francia non poteva se non con lunghezza di tempo mandare nuove
genti in Italia, e la potenza di quegli i quali contro a lui avevano
acquistato Milano, con la maggiore parte di quello ducato, pareva
bastante non solo a conservarlo, ma ad acquistare quello che ancora
restava in mano degli inimici: anzi, già il senato viniziano,
spaventato di tanto successo e temendo che la guerra cominciata
contro ad altri non si trasferisse nella casa propria, dava speranza
al pontefice di fare partire del suo dominio le genti franzesi. Ma
da accidente inopinato ebbono subitamente origine inopinati
pensieri. Morí di morte inaspettata, il primo dí di dicembre, il
pontefice Leone: il quale, avendo avuto alla villa della Magliana,
dove spesso si riduceva per sua ricreazione, la nuova dello acquisto
di Milano e ricevutone incredibile piacere, soprapreso la notte
medesima da piccola febbre e fattosi il dí seguente portare a Roma,
ancora che da' medici fusse riputato di piccolo momento il principio
della sua infermità, morí fra pochissimi dí: non senza sospetto
grande di veleno, datogli, secondo si dubitava, da Bernabò Malaspina
suo cameriere deputato a dargli da bere. Il quale se bene fusse
incarcerato per questa suspicione, non fu ricercata piú oltre la
cosa, perché il cardinale de' Medici, come fu giunto a Roma, lo fece
liberare, per non avere occasione di contrarre maggiore inimicizia
col re di Francia, per opera di chi si mormorava, ma con autore e
congetture incerte, Bernabò avergli dato il veleno. Morí, se tu
risguardi l'opinione degli uomini, in grandissima gloria e felicità,
non solo per essere liberato per la vittoria di Milano da pericoli e
spese inestimabili, per le quali, esaustissimo di danari, era
costretto provederne in qualunque modo, ma perché, pochi dí innanzi
alla sua morte, aveva inteso l'acquisto di Piacenza e, il dí
medesimo che morí, inteso quello di Parma: cosa tanto desiderata da
lui che certo è, quando deliberò di pigliare la guerra contro a'
franzesi, aveva detto al cardinale de' Medici che ne lo dissuadeva,
muoverlo principalmente il desiderio di recuperare alla Chiesa
quelle due città, la quale grazia quando conseguisse non gli sarebbe
molesta la morte. Principe nel quale erano degne di laude e di
vituperio molte cose, e che ingannò assai la espettazione che quando
fu assunto al pontificato si aveva di lui, conciossiaché e'
riuscisse di maggiore prudenza ma di molto minore bontà di quello
che era giudicato da tutti.
Per la morte del pontefice indebolirono molto le cose di Cesare in
Lombardia. Perché non era da dubitare che il re di Francia, ripreso
animo per essergli mancato quello inimico co' danari del quale si
era cominciata e sostenuta tutta la guerra, non mandasse esercito
nuovo in Italia; e che i viniziani per le medesime cagioni non
continuassino nella confederazione con lui: donde si interrompevano
i disegni fatti di assaltare Cremona e Genova; e i ministri di
Cesare, i quali avevano con difficoltà pagato insino a quel dí le
genti spagnuole, erano necessitati a diminuire non senza pericolo le
forze, possedendosi in nome del re di Francia Cremona e Genova,
Alessandria, il castello di Milano, le fortezze di Novara e di
Trezzo, Pizzichitone, Domussola, Arona e tutto il Lago Maggiore. Era
anche ritornata alla sua divozione la rocca di Pontriemoli; la
quale, occupata da Palavicino, fu recuperata da Sinibaldo dal Fiesco
e dal conte di Noceto. Né passorono anche felicemente le cose del re
di Francia di là da' monti; perché Cesare, mosse le armi contro a
lui, prese la città di Tornai e poco dipoi la fortezza, nella quale
era molta artiglieria e munizione.
Per la morte del pontefice si introdussono nuovi governi nuovi
consigli e nuovi ordini nel ducato di Milano. I cardinali sedunense
e Medici andorono subito a Roma, per ritrovarsi alla elezione del
nuovo pontefice. Riservoronsi i cesarei mille cinquecento fanti
svizzeri, tutti gli altri e i fanti tedeschi licenziati si
partirono. Ritornoronsi le genti de' fiorentini verso Toscana; di
quelle della Chiesa ne menò Guido Rangone una parte a Modena,
un'altra parte rimase col marchese di Mantova nello stato di Milano,
piú per deliberazione propria che per consentimento del collegio de'
cardinali, il quale, diviso in se medesimo, non poteva fare
determinazione di cosa alcuna: in modo che, querelandosi Lautrech
con loro che i soldati della Chiesa stessino fermi nel ducato di
Milano in pregiudicio del re di Francia (il quale, per le opere de'
suoi predecessori tanto pietose verso la Chiesa, otteneva il titolo
di protettore e di figliuolo primogenito di quella), non furono
concordi a fare altra risposta o deliberazione se non che se ne
rimettevano alla determinazione del pontefice futuro. De' svizzeri
che erano a Piacenza n'andorono una parte col vescovo di Pistoia a
Modena, per difesa di quella terra e di Reggio contro al duca di
Ferrara: il quale, uscito dopo la morte di Lione in campagna, con
cento uomini d'arme dumila fanti e trecento cavalli leggieri, e
ricuperato per volontà degli uomini il Bondino e il Finale e la
montagna di Modena e la Garfagnana e, con piccola difficoltà, Lugo,
Bagnacavallo e l'altre terre di Romagna, era andato a campo a Cento.
A Piacenza restorono i svizzeri del cantone di Zurigo; da' quali,
per non si volere separare, non si potette impetrare che mille di
loro andassino alla guardia di Parma: la quale città essendo restata
quasi sprovista, dette animo a Lautrech, che con seicento lancie e
dumila cinquecento fanti era in Cremona, di tentare di ripigliarla;
stimolandolo massime a questo Federigo da Bozzole, il quale per
avere notizia particolare di quelle cose aveva credito grande in
questa materia. Però fu disegnato che Buonavalle con trecento
lancie, e Federigo e Marcantonio Colonna, l'uno con fanti soldati
da' franzesi l'altro con fanti de' viniziani, in numero in tutto
cinquemila, assaltassino allo improvviso quella città; dove erano
settecento fanti italiani e cinquanta uomini d'arme del marchese di
Mantova, il popolo bene disposto alla divozione della Chiesa ma male
armato, e invilito per la memoria de' franzesi e delle acerbità
usate da Federigo, e quella parte della città che era stata battuta
dal campo della Chiesa, con le mura ancora per terra senza esservi
stata fatta restaurazione alcuna. Aggiugnevasi la vacazione della
sedia apostolica, per la quale gli animi de' popoli sogliono
vacillare e i governatori attendere piú alla propria salute che alla
difesa delle terre, non sapendo per chi aversi a mettere in
pericolo. Con questi fondamenti adunque, mandate di notte le
fanterie de' franzesi giú per il fiume del Po insino a Torricella,
dove si unirono con loro le genti d'arme venute da Cremona per
terra, ed essendo state condotte da Cremona molte barche, passorono
la notte il Po a Torricella propinqua a Parma a dodici miglia; con
ordine che Marcantonio Colonna, con le fanterie viniziane le quali
erano alloggiate in su Oglio, le seguitasse: il che avendo
presentito la notte medesima Francesco Guicciardini, il quale era
andato da Milano per commissione del cardinale de' Medici alla
custodia di Parma, convocato la notte il popolo e confortatolo alla
difensione di loro medesimi, e distribuite in loro mille picche, che
due dí innanzi, sospettando de' casi che potessino accadere, aveva
fatto condurre da Reggio, attendeva sollecitamente a fare le
provisioni necessarie per difendersi. Conoscendo molte difficoltà,
per i pochi soldati che vi erano, non bastanti a sostenerla senza
l'aiuto del popolo, nel quale, ne' casi inopinati e pericolosi, non
si può per la natura della moltitudine fare saldo fondamento, e
considerando non potere proibirsi agli inimici l'entrata nel
Codiponte, ritirò i soldati e tutti quegli della terra nell'altra
parte della città; ma non senza grandissima difficoltà: perché,
persuadendosi molti del popolo vanamente che la si potesse
difendere, e parendo duro agli abitatori di quella parte abbandonare
le case proprie, non si poteva, né con ragioni né con autorità,
disporgli se non quando si approssimorono gli inimici; i quali, per
avere i parmigiani tardato troppo a volersi ritirare, mancò poco che
insieme alla mescolata con loro non entrassino nell'altra parte
della terra: dove erano molte difficoltà, e principalmente il
mancamento de' danari, in tempo molto importuno, perché era appunto
il dí del pagare i fanti, i quali protestavano, se fra uno dí non
erano pagati, di uscirsi della terra. Entrò il primo dí Federigo da
Bozzole con tremila fanti e alcuni cavalli leggieri nel Codiponte
abbandonato, sopragiunse il dí seguente Buonavalle con le lancie
franzesi, e Marcantonio Colonna con dumila fanti de' viniziani; non
con altre artiglierie che con due sagri, perché le strade pessime
che sono di quella stagione ne' luoghi bassi e pieni di acque vicini
al Po facevano impossibile, o almanco molto difficile, il condurre
l'artiglierie grosse da battere la muraglia; e questo non senza
perdita di tempo contraria alle speranze loro fondate in su la
celerità, perché tardando molto dubitavano, benché vanamente, che a
Parma non fusse mandato soccorso o da Modena o da Piacenza.
Nondimeno era entrato nel popolo opinione, per avvisi avuti da'
contadini fuggiti del paese, venire artiglierie grosse: donde
impauriti maravigliosamente, e molto piú perché, avendo Federigo
preso nel contado alcuni cittadini e fattigli destramente, da certi
rebelli parmigiani che erano seco, empiere di opinione che con
Marcantonio e co' franzesi veniva gente molto grossa e con
artiglierie, gli aveva lasciati andare in Parma; dove, avendo
riferito cose assai sopra al vero delle forze degli inimici,
empierono il popolo tutto di tanto spavento che non solo nella
moltitudine per tutte le contrade, ma nel consiglio loro e in quegli
magistrati che avevano la cura delle cose della comunità, si
cominciò apertamente a pregare il governatore che, per liberare sé e
i soldati suoi dal pericolo di restare prigione e la città dal
pericolo di essere saccheggiata, consentisse che si accordassino: a
che resistendo il governatore con le ragioni e co' prieghi, e
consumandosi il tempo in dispute, si accrebbe nuova difficoltà,
perché essendo il tempo di dare la paga, i fanti, sollevati, facendo
segno di volere uscirsi della città, tumultuavano. Ottenne nondimeno
il commissario, con molte persuasioni, dalla città che provedessino
a una parte de' danari, i quali avendo prima promessi si erano
raffreddati, dimostrando che questo farebbe, in ogni partito che e'
pigliassino, giustificazione non piccola per ogni tempo co'
pontefici futuri: co' quali danari quietò, il meglio si potette, il
tumulto. Donde e nel popolo si augumentava il timore, e i soldati,
vedendo che per essere pochi restavano a discrezione loro e
intendendo vacillare gli animi di tutta la città, ridotti in
gravissimo sospetto di non essere in uno tempo medesimo assaltati di
dentro e di fuora, arebbono desiderato piú presto che di accordo si
arrendesse la terra, capitolando la salvazione loro, che stare in
questo pericolo.
Nel quale stato delle cose ridotte a non piccola strettezza fu molto
necessaria la costanza del governatore; il quale, ora assicurando i
soldati dal pericolo comune a lui con loro ora confortando i
principali della terra congregati tutti in consiglio e disputando
con loro, dimostrava essere vano il timore, per avere egli certezza
che gli inimici non conducevano artiglierie grosse, senza le quali
essere ridicolo il temere che con le scale avessino a entrare per
forza nella terra; la gioventú della quale congiunta co' soldati era
bastante a resistere a impeto molto maggiore. Avere mandato a
Modena, dove erano i svizzeri, Vitello e Guido Rangone con le genti
loro, a dimandare soccorso; né dubitare che al piú lungo per tutto
il dí seguente lo arebbono tale che gli inimici sarebbono costretti
a partirsi: perché il rispetto dello onore loro, e il timore che
perdendosi Parma non seguitasse maggiore disordine, gli costrigneva,
avendo tanta gente quanta avevano, a farsi innanzi. Avere mandato
per il medesimo effetto a Piacenza, donde essergli data grandissima
speranza per le medesime cagioni. Dovere considerare, che essendo
morto il pontefice dal quale era stato onorato ed esaltato, non gli
restare obligazione o stimolo alcuno per il quale, se le cose
fussino in quello grado che essi si immaginavano, avesse a
sottoporsi volontariamente a sí manifesto pericolo; perché non
potevano, come sempre aveva dimostrato la esperienza, i ministri del
pontefice morto aspettare dal futuro pontefice grado o remunerazione
alcuna, anzi potere facilmente accadere che il nuovo pontefice fusse
inimico di Firenze patria sua: però, né per rispetti publici né per
rispetti privati avere cagione di desiderare la grandezza della
Chiesa, ma potere bene nascere molti casi per i quali gli sarebbe
gratissima la bassezza. Non avere egli in Parma moglie figliuoli o
facoltà alcuna, che avesse a dubitare che, avendo a ritornare sotto
il dominio de' franzesi, avessino a restare sottoposti alla libidine
insolenza e rapine loro: però, non toccando a lui né sperare utilità
se Parma si difendesse né temere, se la si arrendesse, de' mali che
avevano provati sotto il giogo acerbo de' franzesi, e avendo, se la
si perdeva per forza, sottoposta la persona a medesimi pericoli che
l'avevano sottoposta gli altri, potevano essere certi che lo stare
suo costante non procedeva da altro che da conoscere manifestamente,
quegli di fuora, non avendo artiglierie grosse, come era certo non
avevano, non essere bastanti a sforzarla; di che se dubitasse, non
contradirebbe, per il desiderio che, come tutti gli altri uomini,
aveva della salute propria, allo accordo, massime che essendo la
sedia vacante, egli non si trovando in Parma con tanta gente che
potesse opporsi alla volontà del popolo, non gli potrebbe di questa
loro deliberazione resultare imputazione o carico alcuno. Colle
quali ragioni, parte parlando separatamente con molti di loro, parte
disputando con tutti insieme, parte togliendo loro tempo con lo
andare intorno alla muraglia e fare altre provisioni, gli aveva
intratenuti tutta la notte; perché aveva compreso che, benché
desiderassino ardentemente di accordarsi non per altra cagione che
per timore estremo che avevano di non essere sforzati e
saccheggiati, nondimeno gli raffrenava il conoscere che,
accordandosi senza il consentimento suo, non potevano fuggire nota
di essere ribelli. Ma essendo apparita l'alba del dí, dí dedicato a
san Tommaso apostolo, e già cominciatosi a conoscere, per le palle
che tiravano i due sagri stati piantati quella notte, che non vi era
artiglieria da battere la muraglia, credette il governatore,
ritornando in consiglio, trovare variati e assicurati gli animi di
tutti; ma trovò totalmente contraria disposizione, e il timore tanto
piú augumentato quanto per essere già il principio del dí pareva
loro approssimarsi piú al pericolo: in modo che, non udendo piú le
ragioni, cominciavano, non solo con apertissima instanza ma eziandio
con protesti e quasi con tacite minaccie, a strignerlo che
consentisse allo accordo. A' quali avendo risposto risolutamente
che, poi che non era in potestà sua proibire loro questi
ragionamenti e questi pensieri, come farebbe se avesse in Parma
maggiori forze, non gli restava altra sodisfazione della ingiuria
che trattavano di fare alla sedia apostolica e a sé, ministro di
quella, che vedere che se si risolvevano ad accordarsi non potevano
fuggire la infamia di essere rebelli e mancatori di fede al loro
signore; esprobrando con caldissime parole il giuramento della
fedeltà che, pochi dí innanzi, avevano nella chiesa maggiore
prestato solennemente in sua mano alla sedia apostolica; e che,
quando bene vedesse innanzi agli occhi la morte manifestissima da
loro, tenessino per certo che da lui mai arebbono altra conclusione
se non quando, per sopravenire nuove genti o artiglierie grosse nel
campo degli inimici o per altro accidente, conoscesse essere
maggiore il pericolo del perdersi che la speranza del difendersi.
Dopo le quali parole essendosi uscito del consiglio, parte perché le
restassino negli orecchi e ne' petti loro con maggiore autorità,
parte per dare ordine a molte cose che erano necessarie se gli
inimici volessino dare, come si credeva, quel dí la battaglia,
stettono sospesi e quasi attoniti per lungo spazio. Finalmente,
prevalendo il timore a tutti gli altri rispetti, e risoluti in ogni
caso di mandare fuora a praticare d'arrendersi, mandorono alcuni del
numero loro a protestare al commissario che, se egli perseverava
nella ostinazione di non consentire che si salvassino, erano
disposti farlo per loro medesimi, per fuggire il pericolo
evidentissimo del sacco. Ma in quel tempo medesimo che volevano
esporre la imbasciata cominciorono a sentirsi i gridi di quegli che
erano a guardia delle porte e delle mura, e le campane della torre
piú alta della città che davano segno che gli inimici, usciti di
Codiponte in ordinanza, si accostavano alle mura per dare lo
assalto; donde il commissario, rivoltosi a coloro che ancora non
avevano parlato, disse: - Quando bene volessimo tutti, non siamo piú
a tempo ad accordarci; bisogna o difenderci onorevolmente o andare
vituperosamente a sacco o restare prigioni; se non volete fare come
Ravenna e Capua, saccheggiate quando con gli inimici alle mura si
trattavano gli accordi. Io insino a qui ho fatto quello che poteva
fare uno uomo solo, e condottivi per beneficio vostro in grado che è
necessario o vincere o morire; se ora bastassi solo a difendere la
città non mancherei di difenderla, ma non si può senza l'aiuto
vostro: però, non siate manco gagliardi e manco caldi a difendere,
come potete fare facilmente, la vita e la roba vostra e l'onore
delle vostre moglie e figliuoli, che siate stati importuni a volere,
senza necessità, mettervi sotto la servitú de' franzesi, che, come
sapete, tutti sono capitalissimi inimici vostri.
Dopo le quali parole avendo voltato il cavallo in altra parte,
restando ciascuno confuso per il timore, e per parere loro non
essere piú a tempo a tentare altri rimedi, si lasciorono da parte i
ragionamenti dello accordarsi, e fu necessario attendere alla
difesa: perché una parte degli inimici, avendo quantità grandissima
di scale, raccolta il dí dinanzi del paese, si erano accostati a uno
bastione che, dalla parte di verso il Po, aveva fatto fare Federigo,
quando, partito il campo degli ecclesiastici, rimase alla custodia
di Parma; e lo combattevano virilmente; e nel tempo medesimo
un'altra parte dava l'assalto molto feroce alla porta che va a
Reggio, e medesimamente si combatteva in due altri luoghi: con tanta
piú difficoltà del difendersi, quegli di dentro, quanto gli inimici
erano piú freschi e stimolati con le parole da' capitani, massime da
Federigo; e gli uomini della terra pieni di spavento non si
accostavano, da pochissimi in fuora, alla muraglia, anzi la piú
parte rinchiusi per le case, come se aspettassino di punto in punto
l'estremo caso della città. Durorono questi assalti, rinfrescati piú
volte, per spazio di quattro ore; diminuendosi sempre il pericolo di
quegli di dentro, non solo per la stracchezza degli inimici, che
battuti e feriti da piú bande diminuivano di animo, ma eziandio
perché vedendo quegli della terra succedere la difesa felicemente,
preso ardire, concorrevano di mano in mano prontamente alla
muraglia, non mancando il commissario di fare sollecitamente per
tutto le necessarie provisioni: talmente che, innanzi cessasse la
battaglia, non solo era concorso tutto il popolo e i religiosi
ancora a combattere alla muraglia, ma eziandio moltissime donne
attendendo a portare vino e altri rinfrescamenti agli uomini suoi.
In modo che quegli di fuora, disperati della vittoria, e ritiratisi
con perdita e ferite di molti di loro nel Codiponte, la mattina
seguente si levorono; e stati uno dí o due vicini a Parma se ne
ritornorono di là dal Po; asserendo Federigo, nessuna cosa in questa
espedizione, della quale era stato autore, averlo ingannato se non
il non avere creduto che uno governatore, non uomo di guerra e
venuto nuovamente in quella città, avesse, essendo morto il
pontefice, voluto piú presto, senza alcuna speranza di profitto,
esporsi al pericolo che cercare di salvarsi, potendo farlo senza suo
disonore o infamia alcuna.
Lib.14, cap.11
Conseguenze della fallita impresa contro Parma; il duca di Urbino
riconquista lo stato. Le milizie del duca e dei Baglioni sotto
Perugia. Scorrerie delle milizie nemiche nel ducato di Milano. Il
conclave per l'elezione del nuovo pontefice rimandato per la
prigionia del cardinale d'Ivrea.
Nocé assai la difesa di Parma alle cose de' franzesi, perché dette
maggiore animo al popolo di Milano e agli altri popoli di quello
stato a difendersi che non avevano prima, e massime sapendosi
esservi stati dentro pochi soldati e non avere avuto soccorso,
perché né da Piacenza si mosse alcuno né i svizzeri che erano a
Modena, né Guido Rangone né Vitello non vollono mandare gente al
soccorso di Parma: Guido allegando che, benché il duca di Ferrara,
non avendo potuto spugnare Cento difeso da' bolognesi, si fusse alla
venuta de' svizzeri ritirato al Finale, nondimeno essere pericolo
che spogliandosi Modona di presidio non venisse ad assaltarla; e il
vescovo di Pistoia, vacillando e stando implicato e irrisoluto tra
le richieste instantissime che gli faceva il Guicciardino e le
persuasioni di Vitello (il quale per lo interesse proprio lo
stimolava che co' svizzeri passasse in Romagna per impedire il passo
al duca di Urbino), tardò tanto a risolversi che non fece né l'una
cosa né l'altra; perché Parma da se medesima si difese e al duca non
fu fatto impedimento alcuno in Romagna, perché, in ultimo, i
svizzeri non essendo pagati non vollono muoversi. Il quale e insieme
Malatesta e Orazio fratelli de' Baglioni andavano, quello per
ricuperare gli stati perduti questi per ritornare in Perugia; avendo
raccolto a Ferrara dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e
tremila fanti i quali, parte per amicizia parte per speranza della
preda, volontariamente gli seguitavano: perché né da' franzesi né
da' viniziani potettono impetrare altro favore che permettere, a
qualunque fusse soldato loro, di seguitargli; e i viniziani
concederno a Malatesta e Orazio di partirsi dagli stipendi loro.
Andati adunque da Ferrara a Lugo per il Po né trovando per lo stato
della Chiesa ostacolo alcuno, come furno vicini al ducato di Urbino,
il duca chiamato da' popoli ricuperò, eccetto quello che possedevano
i fiorentini, incontinente ogni cosa, e voltatosi dipoi a Pesero
ricuperò la terra con la medesima facilità, e in spazio di pochi
giorni la rocca: e seguitando la prosperità della fortuna, cacciato
da Camerino Giovanmaria da Varano antico signore, che per
illustrarsi aveva conseguito da Lione il titolo di duca, vi messe
dentro Gismondo, giovanetto della medesima famiglia che pretendeva
di avere a quello stato migliore ragione: ritenendosi nondimeno la
fortezza per il duca, il quale era rifuggito alla Aquila. Espedite
queste cose, si voltò con Malatesta e Orazio Baglioni a Perugia;
della quale aveano presa la difesa i fiorentini, non tanto per
consiglio proprio quanto per volontà del cardinale de' Medici, mosso
o dall'odio e inimicizia che aveva col duca d'Urbino e co' Baglioni
o per parergli che la vicinità loro potesse mettere in pericolo
l'autorità che aveva in Firenze o perché, aspirando al pontificato,
volesse guadagnare la riputazione di essere lui solo difensore,
nella vacazione della sedia, dello stato della Chiesa. Perché il
collegio de' cardinali era al tutto senza cura di difendere, o in
Lombardia o in Toscana o altrove, parte alcuna del dominio
ecclesiastico; parte perché i cardinali erano distratti in diverse
fazioni e immerso ciascuno di loro ne' pensieri di ascendere al
pontificato, parte perché nello erario pontificale o in Castello
Santo Agnolo non si trovava somma alcuna di danari lasciata da
Lione: il quale, per la sua prodigalità, non solo aveva consumato i
danari di Giulio e incredibile quantità tratti di offici creati
nuovamente, con diminuzione di quarantamila ducati di entrata annua
della Chiesa, [ma] aveva lasciato debito grande e impegnate tutte le
gioie e cose preziose del tesoro pontificale: in modo che
argutamente fu detto da qualcuno che gli altri pontificati finivano
alla morte de' pontefici, ma quello di Lione essere per continuarsi
piú anni poi. Mandò solamente il collegio a Perugia l'arcivescovo
Orsino, perché trattasse di concordare insieme i Baglioni; ma
essendo la persona sospetta a Gentile, per il parentado che aveva
co' figliuoli di Giampaolo, e proponendosi condizioni poco sicure
per lui, si trattò invano: in modo che, penultimo dí dell'anno, il
duca di Urbino, Malatesta e Orazio Baglioni e Cammillo Orsino, il
quale seguitato da alcuni volontari si era di nuovo unito con loro,
andorono ad alloggiare al Ponte a San Ianni; donde, distesisi quivi
alla Bastia e luoghi vicini, infestavano dí e notte la città di
Perugia; ove, oltre a cinquecento fanti condotti da Gentile, vi
aveano messi i fiorentini (a' quali l'essersi il duca voltato a
Pesero dette spazio di provederla), dumila fanti, cento cavalli
leggieri sotto Guido Vaina e centoventi uomini d'arme e cento
cavalli leggieri sotto Vitello.
Nel quale tempo, nello stato di Milano si stava con sommo ozio; non
si facendo da alcuna delle parti altro che prede e correrie: le
quali per fare ancora ne' luoghi tenuti dalla Chiesa avevano i
franzesi, restati in Cremona con dumila fanti, gittato il ponte in
sul Po, per il quale passando spesso nel piacentino e nel parmigiano
molestavano tutto il paese. E benché Prospero, stimolato dagli altri
capitani, publicasse di volere andare a pigliare Trezzo, e già
avesse inviato l'artiglierie, nondimeno non lo messe a effetto,
allegando non essere a proposito che l'esercito fusse impegnato in
luogo alcuno, per potere soccorrere lo stato della Chiesa se i
franzesi avessino cominciato a farvi progresso alcuno; cosa nella
quale pareva che avesse i pensieri diversi dalle parole, perché
significatagli l'andata del campo a Parma, non fatto segno alcuno di
volerla soccorrere, disse essere necessario aspettare l'evento.
Anzi, essendo rimasta Piacenza abbandonata di ogni presidio, perché
i svizzeri zuricani per comandamento de' loro signori se ne
partirono subitamente, Prospero fece grandissima diligenza perché il
marchese di Mantova con le sue genti non si partisse da Milano; il
quale, fermatosi in Piacenza, sostenne con somma laude, co' fanti
del suo dominio e col prestare qualche volta danari, quella città.
Né si provedeva a tanti pericoli per la elezione del nuovo
pontefice; la quale, con tanto pregiudicio dello stato
ecclesiastico, si era differita per dare tempo ai cardinali assenti
di andare al conclave, e ultimamente perché il cardinale di Ivrea,
andando da Turino a Roma, era stato, per ordine di Prospero Colonna,
ritenuto nello stato di Milano, perché come favorevole a' franzesi
non si trovasse al conclave: per il che il collegio fece decreto che
tanti dí si tardasse a entrare nel conclave quanti dí fusse stato o
fusse per essere impedito il cardinale di Ivrea a passare innanzi.
Però, essendo stato liberato, si serrò il conclave il vigesimo
settimo dí di dicembre, nel quale intervennono trentanove cardinali:
tanto aveva moltiplicato il numero la promozione immoderata fatta da
Lione, alla creazione del quale non erano stati presenti piú che
ventiquattro cardinali.
Lib.14, cap.12
Mutamento politico in Perugia. Difficoltà nella nomina del pontefice
ed ambizione del cardinale de' Medici. Elezione di Adriano sesto. Il
duca d'Urbino e i Baglioni marciano verso Siena. Apprensioni e
provvedimenti dei fiorentini; il fallimento dell'impresa. Tacita
tregua d'armi in Umbria in Toscana e nel ducato di Milano.
Fu il primo fatto dell'anno mille cinquecento ventidue la mutazione
dello stato di Perugia, succeduta, come fu giudicio comune, non meno
per la viltà de' difensori che per la virtú degli assaltatori. I
quali, accresciuti di numero di volontari insino alla somma di
dugento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti,
ed entrati nel borgo di San Piero abbandonato da quegli di dentro,
dettono, il quarto dí dell'anno nuovo, la battaglia con grandissima
quantità di scale, dalla porta di San Piero da porta Sogli e da
porta Brogni e da piú altre parti; avendo prima piantati, per levare
le difese, in piú luoghi, sette pezzi di artiglieria da campagna
commodati loro dal duca di Ferrara. La quale battaglia, cominciata
all'alba del dí e rinfrescata piú volte, si può dire che continuasse
quasi tutto il giorno; e ancora che da due o tre luoghi entrassino
nella terra, difesa solamente da' soldati perché il popolo non si
moveva, furono sempre rimessi fuora con la morte di molti di loro:
onde Gentile e il commissario fiorentino, cresciuti di animo,
speravano d'avere non meno felicemente a difendersi gli altri dí. Ma
la timidità di Vitello fu cagione che le cose avessino esito molto
diverso. Perché temendo che il popolo piú inclinato a' figliuoli di
Giampagolo che a Gentile non si movesse in favore loro, né
parendogli piccola importanza che avessino preso l'alloggiamento ne'
borghi tra le due porte di San Piero, ma sopratutto mosso dal
sospetto d'avere, se le cose succedessino sinistramente, in pericolo
la vita propria, per l'odio che sapeva portargli il duca di Urbino e
i figliuoli di Giampagolo, significò agli altri capitani, la notte,
di volersi partire; allegando il soprasedere suo non fare utilità
alcuna, perché essendo stato il dí precedente, quando si dava la
battaglia, ferito da uno scoppio nel dito minore del piede destro,
era tanto soprafatto dal dolore che la necessità l'aveva costretto a
fermarsi nel letto; e benché Gentile e gli altri si sforzassino di
rimuoverlo con molti prieghi da questa intenzione, dimostrandogli
quanto invilirebbe i soldati e il popolo della città la sua partita,
deliberorono, poiché stava pertinace, di seguitarlo. Cosí la notte
medesima andorono a Città di Castello, e Perugia ricevette dentro i
fratelli Baglioni; con ammirazione incredibile di tutti quegli che
avendo avuta notizia, per lettere scritte la notte medesima, del
felice successo avuto il giorno precedente contro agli inimici,
intesono, poche ore poi, Vitello e gli altri averla vilmente
abbandonata.
Non era a questo tempo espedita la elezione del nuovo pontefice,
differita per la discordia grande de' cardinali, causata
principalmente perché il cardinale de' Medici, aspirando al
pontificato, e potente per la riputazione della grandezza sua e per
le entrate e per la gloria guadagnata nello acquisto di Milano,
aveva uniti a sé i voti di quindici altri cardinali, mossi o per
interessi propri o per la amicizia che avevano seco o per la memoria
de' benefici ricevuti da Lione, e alcuni per speranza che quando
fusse disperato di conseguire per sé il pontificato diventerebbe
fautore di quegli che fussino stati pronti a favorirlo. Ma a questo
suo desiderio repugnavano molte cose: il parere a molti cosa
perniciosa che a uno pontefice morto succedesse uno pontefice della
medesima famiglia, come esempio di cominciare a dare il pontificato
per successione: opponevansi tutti i cardinali vecchi, i quali
pretendevano per sé propri a tanta degnità, né potevano tollerare
che e' fusse eletto uno minore di cinquanta anni: contrari tutti
quegli che seguitavano la parte franzese; alcuni di quegli che
seguitavano la parte imperiale, perché il cardinale Colonna, ancora
che da principio avesse dimostrato di volergli essere favorevole,
aveva dipoi molto scopertamente dimostratogli opposizione; inimici
accerrimi quegli cardinali che erano stati malcontenti di Lione. E
nondimeno, in queste difficoltà, lo sosteneva una speranza
efficacissima, perché essendo piú che la terza parte del collegio
quegli che gli aderivano, non si poteva, mentre stavano uniti, fare
senza consentimento loro l'elezione; donde sperava che per la
lunghezza del tempo s'avessino o a straccare o a disunirsi gli
avversari, tra' quali erano molti inabili per l'età a tollerare
lungo disagio; e perché concordi tra loro in non creare lui erano
discordi in creare altri, pensando ciascuno a eleggere o sé o amici
suoi, e ostinatissimi molti di loro a non cedere l'uno all'altro. Ma
mollificò alquanto la mutazione dello stato di Perugia la pertinacia
del cardinale de' Medici, per la instanza del cardinale de'
Petrucci, uno de' cardinali che gli aderivano; il quale, capo dello
stato di Siena, temendo che per l'assenza sua le cose di quella
città, alla quale si intendeva volere voltarsi il duca di Urbino con
quelle genti, non facessino mutazione, sollecitava che si eleggesse
il nuovo pontefice: per la instanza del quale, ed eziandio per lo
interesse del pericolo nel quale mutandosi il governo di Siena
incorrerebbe quello di Firenze, mosso il cardinale de' Medici,
cominciò a inclinarsi al medesimo; ma non risoluto totalmente a chi
volesse eleggere. Mentre che, secondo l'uso, una mattina in conclave
si fa lo scrutinio, essendo proposto Adriano cardinale di Tortosa,
di nazione fiammingo ma che, stato in puerizia di Cesare maestro suo
e per opera sua promosso da Lione al cardinalato, rappresentava in
Spagna l'autorità sua, fu proposto, senza che alcuno avesse
inclinazione di eleggerlo ma per consumare invano quella mattina. Ma
cominciandosegli a scoprire qualche voto, il cardinale di San Sisto,
quasi con perpetua orazione, amplificò le virtú e la dottrina sua;
donde, cominciando alcuni cardinali a cedergli, seguitorono di mano
in mano gli altri, piú presto con impeto che con deliberazione: in
modo che, co' voti concordi di tutti, fu creato quella mattina sommo
pontefice; non sapendo quegli medesimi che l'avevano eletto rendere
ragione per che causa, in tanti travagli e pericoli dello stato
della Chiesa, avessino eletto uno pontefice barbaro e assente per sí
lungo spazio di paese, e al quale non conciliavano favore né meriti
precedenti né conversazione avuta con alcuni altri cardinali, da'
quali appena era conosciuto il suo nome, e che mai non aveva veduto
Italia, e senza pensiero o speranza di vederla. Della quale
estravaganza, non potendo con ragione alcuna escusarsi, trasferivano
la colpa nello Spirito Santo, solito, secondo dicevano, a ispirare
nella elezione de' pontefici i cuori de' cardinali: come se lo
Spirito Santo, amatore precipuamente de' cuori e degli animi
mondissimi, non si sdegnasse di entrare negli animi pieni di
ambizione e di incredibile cupidità, e sottoposti quasi tutti a
delicatissimi, per non dire inonestissimi, piaceri. Ebbe la novella
della elezione a Vittoria, città di biscaia; la quale avuta, non
mutando il nome che prima aveva, si fece denominare Adriano sesto.
Mutato lo stato di Perugia, poiché, con detrimento non piccolo degli
altri disegni, ebbono tardato le genti a muoversi qualche dí,
partirono, per raccorre danari dagli amici di Perugia e di Todi
(dove Cammillo Orsino aveva rimesso i fuorusciti), il duca d'Urbino
e gli altri, lasciato Malatesta in Perugia; camminando con celerità
grande verso Siena, avendo con loro [Lattanzio] Petruccio, che da
Lione era stato privato del vescovado di Soana, perché Borghese e
Fabio figliuoli di Pandolfo Petrucci erano stati proibiti da'
ministri imperiali partire da Napoli. In Siena quegli che reggevano
non aveano altra speranza che nel soccorso de' fiorentini, per la
intelligenza che avevano col cardinale de' Medici: a instanza del
quale, quegli che aderendo a lui governavano in sua assenza lo stato
di Firenze, come intesono la partita del duca da Perugia, mandorono
subito a Siena Guido Vaina con cento cavalli leggieri, e danari per
aggiugnere qualche numero di fanti a quegli che erano stati soldati
da' sanesi. Ma il principale fondamento era nelle forze disegnate
molti dí innanzi: perché, come intesono la prima mossa del duca di
Urbino e de' Baglioni, temendo alle cose di Toscana, avevano
trattato di soldare i svizzeri del cantone di Berna; i quali, in
numero poco piú di mille, si erano fermati col vescovo di Pistoia in
Bologna, disprezzati i comandamenti fatti da' loro signori che
ritornassino in Elvezia: la quale pratica, benché per molte
difficoltà fatte dal vescovo di Pistoia, desideroso di presentare
questa gente al futuro pontefice, fusse andata in lungo piú che non
sarebbe stato di bisogno, nondimeno si era pure finalmente con
gravisima spesa conchiusa; soldando eziandio quattrocento fanti
tedeschi unitisi co' svizzeri in Bologna. Avevano anche chiamato di
Lombardia Giovanni de' Medici, non dubitando con questo presidio,
pure che arrivasse al tempo debito, di assicurare le cose di Siena;
le quali erano ridotte in gravissimo pericolo per essere la maggiore
parte del popolo inimica al governo presente, e per l'odio antico
co' fiorentini tutti malvolentieri comportavano che le genti loro
entrassino in Siena: e accresceva il pericolo l'assenza del
cardinale Petruccio, in luogo del quale se bene Francesco suo nipote
facesse ogni opera possibile per sostenere le cose, nondimeno non
era della medesima autorità che il cardinale. Però, non repugnando i
principali, intenti a fuggire o a prolungare in qualunque modo il
pericolo presente, avevano già mandato imbasciadori al duca di
Urbino, subito che entrò nel territorio di Siena: il quale, benché
da principio avesse dimandato la mutazione dello stato e trentamila
ducati, aveva dipoi mitigato le dimande, in modo che non
mediocremente si dubitava che, o per consentimento di quegli che
reggevano o per movimento del popolo contro alla volontà loro, non
si facesse tra il duca e i sanesi composizione. Pure, entrando
continuamente in Siena gente de' fiorentini e risonando la fama
dello essere già vicino Giovanni de' Medici e i svizzeri, quegli che
erano alieni dall'accordo impedivano con maggiore animo si
conchiudesse; in modo che il duca, accostatosi alle mura di Siena,
non avendo nell'esercito suo piú di settemila uomini ma di gente
collettizia, poiché vi fu dimorato uno giorno, raffreddandosi le
speranze dello accordo e già vicini a una giornata i svizzeri, si
levò dalle mura di Siena per ritirarsi nel suo stato.
Soccorsa Siena, le medesime genti si voltorno verso Perugia;
pigliando i fiorentini occasione a quel che prontamente desideravano
dall'esserne stati ricercati dal collegio de' cardinali, sotto nome
del quale si governava, per l'assenza del pontefice, lo stato della
Chiesa: però procedeva nell'esercito personalmente il cardinale di
Cortona, legato, insino a tempo di Lione, della città di Perugia. Ma
nel collegio non era, dopo la creazione del pontefice, maggiore
unione o stabilità che fusse stata nel conclave, anzi erano le
variazioni piú apparenti, perché avevano statuito che ciascuno mese
si governassino le cose per tre cardinali sotto nome di priori:
l'ufficio de' quali era congregare gli altri e dare espedizione alle
cose determinate. Tre adunque di questi, entrati nuovamente e
oppositi al cardinale de' Medici, il quale eletto il pontefice era
subito ritornato a Firenze, cominciorono a esclamare e protestare
che le genti de' fiorentini non molestassino le terre della Chiesa:
le quali, avendo già saccheggiato la terra di Passignano che aveva
ricusato alloggiarle, e di poi alloggiate all'Olmo vicino a tre
miglia di Perugia, con speranza quasi certa di ottenere, arebbono
disprezzati questi comandamenti se non avessino presto conosciuta la
vanità di queste speranze; perché i Baglioni avevano chiamati molti
soldati in Perugia, ed era molto maggiore col popolo l'autorità loro
che quella di Gentile che seguitava l'esercito. Però, disperando
della vittoria e avendo tentata invano la composizione, si partirno
del perugino sotto colore di non volere opporsi alla volontà del
collegio, ed entrorno nel Montefeltro, che tutto, eccetto San Leo e
la rocca di Maiuolo, era ritornato alla obbedienza del duca di
Urbino; il quale avendo facilmente ricuperato, si posorono l'armi,
come per tacita convenzione, da quella parte, perché il duca non era
potente a continuare la guerra co' fiorentini né essi aveano
cagione, né per comodo proprio né per sodisfare ad altri, di
molestarlo: perché il collegio, nel quale potevano piú gli avversari
del cardinale de' Medici, avea nel tempo medesimo convenuto con lui,
per insino a tanto venisse in Italia il pontefice e piú oltre a suo
beneplacito, ritenesse lo stato ricuperato, non molestasse né i
fiorentini né i sanesi, né andasse agli stipendi né altrimenti in
aiuto di principe alcuno.
Lib.14, cap.13
Perdita di Alessandria e di Asti da parte dei francesi. Svizzeri al
soldo del re di Francia in marcia per il ducato di Milano. Fanti
tedeschi soldati da Cesare e dai milanesi. Prediche di frate Andrea
Barbato contro i francesi. Provvedimenti di guerra di Prospero
Colonna a Milano. Movimenti dei franco-veneziani; Giovanni de'
Medici passato ai francesi. Tenacia dei milanesi nel sopportare le
strettezze a cui son costretti dai provvedimenti del Lautrech.
Erano insino a ora procedute quietamente le cose di Lombardia,
mancando all'una delle parti le genti all'altra i danari, e però non
volendo i soldati imperiali, non pagati, partirsi da' loro
alloggiamenti. Solamente fu mandato alla espugnazione di
Alessandria, con la compagnia sua e con altri soldati e sudditi del
ducato di Milano, Giovanni da Sassatello; il quale nel principio
della guerra, avendo permutato il bene certo con le speranze
incerte, partito dal soldo de' viniziani si era condotto col duca di
Milano, esule ancora del suo stato: dove essendosi accostato, la
temerità de' guelfi alessandrini, da' quali era difesa la terra piú
che da' soldati franzesi, fece facile quel che da tutti si riputava
difficile; perché non potendo sostenere gli inimici co' quali erano
usciti a scaramucciare, dettono loro occasione di entrare alla
mescolata nella città, la quale andò in preda de' vincitori. E con
la medesima facilità furono, pochi dí poi, cacciate di Asti alcune
genti de' franzesi, entratevi per introduzione di alcuni de' guelfi
della terra.
Ma già a questa breve e sospetta quiete apparivano approssimarsi
princípi di grandissimi travagli: perché, se bene nelle diete de'
svizzeri fusse stata sopra le dimande del re di Francia grandissima
contenzione, stando ostinati contro a lui i cantoni di Zurich e di
Svith, quello di Lucerna disposto totalmente per lui, gli altri
divisi intra se medesimi, e perturbando le cose publiche l'avarizia
de' privati, de' quali molti dimandavano al re chi pensione chi
crediti antichi, avevano finalmente concedutogli i fanti dimandati
per la recuperazione del ducato di Milano; i quali in numero di piú
di diecimila calavano già in Lombardia condotti dal bastardo di
Savoia e da Galeazzo da San Severino (questo grande scudiere, quello
gran maestro di Francia), per le montagne di San Bernardo e di San
Gotardo.
Contro a questo movimento, Cesare, il quale aveva ricevuto in
prestanza non piccola somma di danari dal re di Inghilterra,
alienatosi dall'amicizia franzese, avea mandato a Trento Ieronimo
Adorno a soldare seimila fanti tedeschi, per condurgli insieme con
la persona di Francesco Sforza a Milano; la venuta del quale era in
quel tempo stimata di molto momento, per tenere piú fermo Milano e
l'altre terre dello stato che sommamente lo desideravano, e per
facilitare l'esazione de' danari con l'autorità e grazia sua, de'
quali vi era estrema carestia. Nel qual tempo medesimo, essendo
incognito a Milano il provedimento fatto da Cesare, aveano i
milanesi mandato danari a Trento per soldare quattromila fanti: i
quali essendo già preparati quando l'Adorno vi pervenne, egli,
mentre che gli altri seimila si soldavano, si mosse subito con
questi verso Milano, per scendere per Valle Voltolina a Como; ma
negandogli i grigioni il passare, passò all'improviso e con tanta
celerità nel territorio di Bergamo, e di quivi nella Ghiaradadda,
che i rettori de' viniziani che erano in Bergamo non furono a tempo
a impedirlo; e condottigli a Milano, ritornò con la medesima
celerità a Trento, per menare Francesco Sforza e gli altri fanti a
Milano. Nella quale città si attendeva, oltre all'altre provisioni,
con grande studio ad accrescere l'odio del popolo, che era
grandissimo, contro a' franzesi, acciò che e' fussino piú pronti
alla difesa e a soccorrere co' danari propri le publiche necessità;
cosa molto aiutata, con lettere finte con imbasciate false e con
molte arti e invenzioni, dalla diligenza e astuzia del Morone. Ma
giovorono anche, piú che non si potrebbe credere, le predicazioni di
Andrea Barbato frate dell'ordine di Santo Agostino; il quale,
predicando con grandissimo concorso del popolo, gli confortava
efficacissimamente alla propria difesa e a conservare la patria loro
libera dal giogo de' barbari inimicissimi di quella città, poiché da
Dio era stato conceduto loro facoltà di liberarsene. Allegava lo
esempio di Parma, piccola e debole città a comparazione di Milano;
ricordava gli esempli de' loro maggiori, il nome de' quali era stato
glorioso in tutta Italia; quello che gli uomini erano debitori alla
conservazione della patria, per la quale se i gentili, che non
aspettavano altro premio che della gloria, si mettevano
volontariamente alla morte, che dovevano fare i cristiani, a' quali
morendo in sí santa opera era oltre alla gloria del mondo proposta
per premio vita immortale nel regno celeste? Considerassino che
eccidio porterebbe a quella città la vittoria de' franzesi, i quali
se prima, senza alcuna cagione, erano stati tanto acerbi e molesti
loro, che sarebbono ora che si reputavano sí gravemente offesi e
ingiuriati? Non potere saziare la crudeltà e l'odio immenso alcuni
supplíci del popolo milanese, non empiere l'avarizia tutte le
facoltà di quella città, non avere a stare mai contenti se non
spegnessino in tutto il nome e la memoria de' milanesi, se con
orribile esempio non avanzassino la fiera immanità di Federigo
Barbarossa. Donde, tanto immoderatamente era augumentato l'odio de'
milanesi, tanto lo spavento della vittoria de' franzesi, che già
fusse necessario attendere piú a temperargli che a provocargli.
Attendeva in questo mezzo Prospero con grandissima diligenza a
riordinare e instaurare i bastioni e i ripari de' fossi, con
intenzione di fermarsi in Milano; nella quale città, quando bene non
fussino venuti i seimila tedeschi, sperava potersi sostenere per
qualche mese: e pensando alla difensione dell'altre terre, aveva
mandato in Novara Filippo Torniello, in Alessandria Monsignorino
Visconte, l'uno con dumila l'altro con mille cinquecento fanti
italiani, i quali per non essere pagati si sostentavano colle
sostanze de' popoli; a Pavia Antonio da Leva con dumila fanti
tedeschi e mille italiani; e con lui rimanevano in Milano settecento
uomini d'arme settecento cavalli leggieri e dodicimila fanti.
Restava il pericolo imminente che i franzesi non entrassino per il
castello in Milano. Al quale pericolo per provedere, e per privargli
con un fatto medesimo della facoltà di mettere nel castello
vettovaglie o altre provisioni, fece, con invenzione celebrata
sommamente e quasi a' giudici degli uomini maravigliosa, lavorare
fuora del castello, tra le porte che vanno a Vercelli e a Como, due
trincee, alzando a ciascuna, della terra che si cavava da' quelle,
uno argine; la lunghezza de' quali, distanti l'uno dall'altro circa
venti passi, si distendeva circa un miglio, tanto quanto era il
traverso del giardino dietro al castello tra le due strade predette;
e a ciascuna delle teste delle trincee uno cavaliere molto alto e
munito, per potere, con l'artiglierie che si piantassino sopra
quegli, danneggiare gli inimici se si accostassino da quella parte:
le quali trincee e ripari, difese da fanti alloggiati in mezzo di
quelle, impedivano in uno tempo medesimo che nel castello non
potesse entrare soccorso alcuno e che niuno degli assediati potesse
uscirne. La quale invenzione dovere essere non meno felice che
ingegnosa dimostrò nel principio, con lieto augurio, la fortuna,
concedendo che senza danno alcuno si potesse mettere in esecuzione;
perché essendo caduta in terra una neve grandissima, Prospero,
usando il beneficio del cielo, fece innanzi dí lavorare di neve due
argini, alla similitudine de' quali voleva si facessino i ripari,
da' quali rimanevano sicuri i lavoranti di non potere essere offesi
dall'artiglierie che erano nel castello: le quali opere che si
conducessino a perfezione dette comodità maggiore lo impedimento che
dall'essere le montagne coperte di copia grandissima di neve
riceveano i svizzeri a passarle.
Nel quale tempo Lautrech, avendo con alcune genti mandate di là da
Po fatto svaligiare in Firenzuola la compagnia de' cavalli leggieri
di Luigi da Gonzaga, trovata negligentemente a dormire, riordinava
le genti sue; e quelle de' viniziani, sotto Andrea Gritti e Teodoro
da Triulzi, si raccoglievano intorno a Cremona: le quali, finalmente
unite co' svizzeri, passorono il fiume dell'Adda il primo dí di
marzo; essendo capo dello esercito Lautrech, all'autorità del quale
non era derogato per la venuta del gran maestro e del grande
scudiere. Venne a questo esercito nel tempo medesimo Giovanni de'
Medici; il quale, benché condotto a soldi di Francesco Sforza si
fusse mosso per andare a Milano, ove era aspettato con sommo
desiderio per la espettazione grande che si aveva della sua ferocia,
nondimeno, stimolato dagli stipendi maggiori e piú certi del re di
Francia e allegando, per colore della sua cupidità, il non gli
essere stati mandati i danari promessi da Milano, del parmigiano,
ove avea saccheggiato la terra di Busseto perché ricusava di
alloggiarlo, passò nel campo de' franzesi; il quale alloggiò due
miglia appresso al castello tralle medesime vie Vercellina e
Comasina. Messonsi, il terzo giorno che erano venuti, in ordinanza,
facendo sembiante di volere dare la battaglia al riparo; il che non
posono a effetto, o perché cosí fusse da principio la mente di
Lautrech o perché, considerato il numero de' soldati che erano
dentro, la disposizione del popolo e la prontezza che appariva de'
difensori, se ne rimovesse, per la difficoltà manifesta della cosa:
ma il dí medesimo, i sassi di una casa battuta dall'artiglieria di
dentro ammazzorono Marcantonio Colonna, capitano di grandissima
espettazione, e Cammillo Triulzio figliuolo naturale di Gianiacopo,
che presso a quella casa passeggiavano insieme, ordinando di fare
lavorare un cavaliere per potere tirare con l'artiglierie tra i due
ripari degli inimici. Ma Lautrech, non confidando di spugnare
Milano, pensava potere con la lunghezza del tempo pervenire alla
vittoria; perché, per la moltitudine de' suoi cavalli e con tanti
fuorusciti che lo seguitavano, facendo correre per la maggiore parte
del paese, dava impedimento assai che non vi entrassino vettovaglie,
avea fatto rompere tutti i mulini, e derivato l'acque de' canali da'
quali quella città riceve grandissime comodità. Sperava similmente
che a' soldati di dentro avessino a mancare gli stipendi; i quali si
sostenevano co' danari pagati da' milanesi, perché da Cesare e del
reame di Napoli e di altro luogo ne era mandata piccolissima
quantità. Ma era maraviglioso l'odio del popolo milanese contro a'
franzesi, maraviglioso il desiderio del nuovo duca: per le quali
cose, tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non
mutavano volontà per tante molestie ma messa in arme la gioventú ed
eletti per ciascuna parrocchia capitani, concorrendo
prontissimamente dí e notte le guardie a' luoghi remoti
dall'esercito, alleggerivano molto le fatiche de' soldati. Nel qual
tempo essendo, per la ruina delle mulina, mancata la farina,
providdono presto con le mulina a secco a questa incomodità.
Lib.14, cap.14
Il duca di Milano da Trento a Pavia; posizioni degli eserciti nemici
e fazioni di guerra; il duca a Milano; calorose accoglienze della
popolazione. Il Lautrech sotto Pavia; quindi a Monza; malcontento e
proteste degli svizzeri. Assalti sfortunati delle milizie francesi
alla Bicocca. Conseguenze della sconfitta. Nuovi insuccessi dei
francesi nel ducato di Milano. Caduta di Genova nelle mani degli
imperiali.
Cosí ridotta la guerra da speranza di presta espugnazione a cure e
fatiche di lungo assedio, il duca di Milano, la partita del quale
per mancamento di danari si era differita molti dí, e si sarebbe
differita piú lungamente se il cardinale de' Medici non l'avesse
sovvenuto di novemila ducati, partito finalmente da Trento co'
seimila fanti tedeschi, e occupata, per aprirsi il passo, la rocca
di Croara sottoposta a' viniziani, passò senza ostacolo per il
veronese; donde per il mantovano, passato Po a Casalmaggiore, giunse
a Piacenza e, seguitandolo di quivi il marchese di Mantova con
trecento uomini d'arme della Chiesa, si fermò a Pavia, stando
intento alla occasione di passare a Milano; ove estremamente era
desiderata la venuta sua, perché, diminuendo ogni dí piú la facoltà
del fare danari per sostentare le genti, si giudicava necessario
unirsi il piú presto che si potesse, co' tedeschi, per uscire in
campagna e cercare di terminare la guerra. Ma era difficile il
passare, perché Lautrech, come intese essere arrivati a Piacenza,
era andato ad alloggiare a Casino, cinque miglia lontano da Milano
in su la strada di Pavia; avendo messo i viniziani a Binasco in su
la medesima strada, e l'uno e l'altro esercito in alloggiamento bene
riparato e fortificato. Dove poi che furono dimorati qualche dí,
avendo in questo tempo preso Santo Angelo e San Colombano, Lautrech,
inteso che lo Scudo suo fratello, tornato con danari di Francia,
dove era andato a dimostrare al re lo stato delle cose, soldati
fanti a Genova, era arrivato nello stato di Milano, mandò a unirsi
con lui Federigo da Bozzole con quattrocento lancie e settemila
fanti tra svizzeri e italiani. Per la venuta de' quali, il marchese
di Mantova, uscito di Pavia, andò a Gambalò per opporsi loro; ma o,
avendo essi mostrato per il sospetto, come diceva egli, di ritirarsi
verso il Tesino, non giudicando piú necessaria la stanza sua a
Gambalò o, come piú presto credo, temendo di loro per essere piú
grossi di quello gli era stato referito, se ne ritornò in Pavia: ma
loro, venuti a Gambalò e uniti con lo Scudo, se ne andorono a
Novara; e prese l'artiglierie della rocca che si teneva per loro,
avendola battuta, la presono per forza al terzo assalto, con la
morte della piú parte de' fanti che vi erano dentro, e restato
prigione Filippo Torniello. Per il quale caso il marchese di
Mantova, il quale, sollecitato da lettere e spessi messi del
Torniello che andasse a soccorrerlo, era uscito di nuovo di Pavia,
subito che n'ebbe notizia, cavate le sue genti di Vigevano, lasciata
solamente guardata la rocca, ritornò a Pavia. Nocé, in caso piú
importante, l'unirsi con lo Scudo e l'acquisto di Novara a'
franzesi, perché facilitò l'andata di Francesco Sforza co' fanti
tedeschi a Milano. Il quale convenutosi con Prospero, partito
occultamente una notte di Pavia, alla guardia della quale restorno
[dumila] fanti col marchese di Mantova, (il quale, negando
d'allontanarsi tanto dallo stato della Chiesa, recusò di procedere
piú oltre), e camminando per altra strada che per la diritta, fu
raccolto a Sesto da Prospero; il quale, uscitogli incontro con una
parte delle genti, lo condusse a Milano: dove è incredibile a dire
con quanta letizia fusse ricevuto dal popolo milanese,
rappresentandosi innanzi agli occhi degli uomini la memoria della
felicità con la quale era stato quel popolo sotto il padre e gli
altri duchi Sforzeschi, e desiderando sommamente d'avere uno
principe proprio come piú amatore de' popoli suoi, come piú
costretto ad avere rispetto e fare estimazione de' sudditi né
disprezzargli per la grandezza immoderata.
La partita del duca da Pavia dette speranza a Lautrech di potere
espugnare quella città; però, raccolto subitamente l'esercito, vi
andò a campo; e da altra parte Prospero, conoscendo il pericolo
manifesto, vi mandò con somma celerità mille fanti còrsi e alcuni
fanti spagnuoli: i quali giunti allo improviso in su gli
alloggiamenti dello esercito franzese, passati per quello, parte
combattendo parte camminando, e ammazzatine molti, si ridussono
salvi in Pavia; dove oltre all'altre incomodità era carestia grande
di polvere di artiglierie. Batteva intanto Lautrech le mura di Pavia
da due parti, cioè al borgo di Santa Maria in Pertica verso il
Tesino e a Borgoratto; e avendo gittato in terra trenta braccia di
muro, dicono alcuni che a' dieci dí dette l'assalto invano, altri
che non lo tentò, veduto quegli di dentro bene ripararsi e disposti
a difendersi. Aggiugnevansegli molte difficoltà: l'essere già
cominciati a mancare i danari i quali il gran maestro aveva condotti
di Francia; carestia non piccola di vettovaglie, causata dalle
pioggie grandissime per le quali era molto difficile il venirne
all'esercito per terra né manco difficile il venirne su per il
Tesino, perché le barche urtate dall'acque del fiume troppo grosse
non potevano andare innanzi contro all'impeto del suo corso. Nel
quale tempo Prospero, uscito con tutto lo esercito di Milano per
accostarsi a Pavia, impedito dalle pioggie medesime, si era fermato
a Binasco che è a mezzo il cammino tra Milano e Pavia; donde poi
essendosi spinto alla Certosa che è nel barco a cinque miglia di
Pavia, monasterio forse piú bello che alcuno altro che sia in
Italia, Lautrech non sperando piú di pigliare Pavia, si ritirò col
campo a Landriano, non molestato nel levarsi dagli inimici se non
con leggiere scaramuccie. Da Landriano andò a Moncia, per ricevere
piú facilmente i danari che gli erano mandati di Francia; i quali si
erano fermati ad Arona, perché Anchise Visconte, mandato da Milano a
questo effetto a Busto presso ad Arona, impediva non venissino piú
innanzi. Questa difficoltà ridusse in ultimo disordine le cose de'
franzesi. Perché i svizzeri, i pagamenti de' quali erano ritardati
già molti dí, impazienti secondo il costume loro, mandorono i loro
capitani a Lautrech a querelarsi gravemente che, essendo stata
quella nazione prodiga in ogni tempo del sangue proprio per la
esaltazione della corona di Francia, fusse contro a ogni giustizia
mancato loro de' debiti pagamenti e dimostrato, con questa
ingratitudine e avarizia, a tutto il mondo quanto poco fusse stimato
la virtú e la fede loro: essere deliberati, avendo aspettato tanti
dí invano, non aspettare piú termine alcuno, né fidarsi di quelle
promesse che replicate tante volte gli erano mancate; però volere
ritornarsene assolutamente alle case loro, ma fatto prima manifesto
a tutto il mondo che non gli induceva a questo il timore dello
essere usciti in campagna gli inimici né il desiderio di fuggire i
pericoli a' quali sono sottoposti gli uomini militari, disprezzati
sempre mai, come per tante esperienze si era veduto, da' svizzeri.
Notificargli che erano pronti a combattere il dí seguente, con
intenzione di partirsi poi l'altro dí: menassegli a trovare gli
inimici, usasse l'occasione della prontezza loro mettendogli nella
prima fronte di tutto l'esercito; sperare che, avendo vinto con
forze molto minori nel proprio alloggiamento lo esercito franzese
intorno a Novara, vincerebbono anche nel loro alloggiamento gli
spagnuoli, i quali se bene di astuzie di fraudi e di insidie
avanzavano i franzesi, non gli reputavano già superiori dove si
combattesse con la ferocia del cuore e con la virtú dell'armi.
Sforzossi Lautrech, considerando con quanto pericolo si andasse ad
assaltare li inimici nelle fortezze loro, di temperare questo
furore, dimostrando non per difetto del re ma per i pericoli del
cammino procedere la tardità de' danari, i quali nondimeno
arriverebbono fra pochissimi dí; ma non potendo convincergli o
fermargli, né con l'autorità né co' prieghi né con le promesse né
con le ragioni, deliberò piú presto, avendo massime a essere il
primo pericolo loro, con disavvantaggio grande tentare la fortuna
della giornata che, ricusando di farla, perdere totalmente la
guerra, come era manifesto che si perdeva poiché, non consentendo di
combattere, i svizzeri avevano determinato di partirsi.
Alloggiava l'esercito degli inimici alla Bicocca, villa propinqua
tre miglia poco piú o meno a Milano ove risiede un casamento assai
spazioso, circondato di giardini non piccoli che hanno per termine
fosse profonde; i campi che sono attorno sono pieni di fonti e di
rivi, condotti, secondo l'uso di Lombardia, a innaffiare i prati.
Verso il quale luogo camminando da Moncia Lautrech con l'esercito, e
pensando che gli inimici avendo l'alloggiamento tanto forte
starebbono fermi alla difesa di quello, aveva ordinato l'assalto in
questo modo: che i svizzeri con l'artiglierie andassino ad assaltare
la fronte dell'alloggiamento e le artiglierie degli inimici, nel
quale luogo erano a guardia i fanti tedeschi guidati da Giorgio
Frondsperg; che dalla mano sinistra lo Scudo, con trecento lancie e
con uno squadrone di fanti franzesi e italiani, camminasse per la
via che andava a Milano, verso il ponte per il quale si poteva
entrare nello alloggiamento degli inimici: egli tolse l'assunto di
ingegnarsi di entrare con uno squadrone di cavalli nello
alloggiamento degli inimici, piú con artificio che con aperta forza,
perché per ingannargli comandò che ciascuno de' suoi mettesse in su
la sopravesta la croce rossa, segnale dello esercito imperiale, in
cambio della croce bianca segnale dello esercito franzese. Da altra
parte Prospero Colonna, tenendo, per la fortezza del sito, per certa
la vittoria, e perciò deliberato di aspettare (cosí diceva) gli
inimici al fossone, fatto, come intese la venuta loro, armare
l'esercito e distribuito ciascuno a' luoghi suoi, mandò subito a
Francesco Sforza che con la moltitudine armata del popolo venisse
senza indugio all'esercito; il quale, raccolti al suono della
campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui come giunse
collocato alla guardia del ponte. Ma i svizzeri, come si furno
accostati all'alloggiamento, con tutto che per l'altezza delle
fosse, piú eminente che essi non aveano creduto, non potessino, come
era la prima speranza, assaltare l'artiglierie, non diminuita per
questo l'audacia, assaltorno il fosso sforzandosi con ferocia grande
di salirvi; e nel tempo medesimo lo Scudo andato verso il ponte,
trovandovi fuora della opinione sua guardia sí grande, fu costretto
di ritirarsi. Scoperse anche prestamente Prospero l'arte di
Lautrech; e perciò, fatto comandamento a' suoi che si mettessino in
su la testa fasci di spighe e di erbe, fece inutili le insidie sue:
donde restando tutto il pondo della battaglia a' svizzeri, che per
la iniquità del sito e per la virtú de' difensori si affaticavano
senza fare frutto alcuno, ricevendo grandissimo danno non solo da
quegli che combattevano alla fronte ma da molti archibusieri
spagnuoli, i quali occultatisi tra le biade già presso che mature
fieramente per fianco gli percotevano, furno finalmente, poi che con
molta uccisione ebbono pagata la mercede della loro temerità,
necessitati a ritirarsi, e uniti co' franzesi ritornorno tutti
insieme, con gli squadroni ordinati e con l'artiglierie, a Moncia,
non ricevendo nel ritirarsi danno alcuno. Importunavano, il marchese
di Pescara e gli altri capitani, Prospero che, poi che gli inimici
aveano voltate le spalle, desse il segno di seguitargli; ma egli,
credendo quel che era, che si ritirassino ordinatamente e non
fuggendo, e certificatone tanto piú per la relazione di alcuni che
per comandamento suo salirno in su certi alberi alti, rispose sempre
non volere rimettere alla potestà della fortuna la vittoria già
certamente acquistata né cancellare con la temerità sua la memoria
della temerità d'altri. - Il dí di domani - disse - chiaramente vi
mostrerà quel che si sia fatto questo giorno, perché gli inimici,
sentendo piú le ferite raffreddate, perduti d'animo passeranno i
monti: cosí senza pericolo conseguiteremo quel che oggi tenteremmo
ottenere con pericolo. - Morirno de' svizzeri intorno al fosso circa
tremila, di quegli che per essere piú valorosi e feroci si messono
piú prontamente al pericolo, e ventidue capitani; degli inimici
morirno pochissimi, né persona alcuna di qualità eccetto Giovanni di
Cardona conte di Culisano, percosso di uno scoppietto nell'elmetto.
Il dí seguente Lautrech, perduta interamente la speranza della
vittoria, si levò da Moncia per passare il fiume dell'Adda appresso
a Trezzo: donde i svizzeri, preso il cammino per il territorio di
Bergamo, ritornorno alle loro montagne; diminuiti di numero ma molto
piú di audacia, perché è certo che il danno ricevuto alla Bicocca
gli afflisse di maniera che per piú anni poi non dimostrorno il
solito vigore. Partirono insieme con loro il grande scudiere e il
gran maestro e molti de' capitani franzesi, Lautrech con le genti
d'arme andò a Cremona per ordinare la difesa di quella terra; ove
lasciato il fratello passò pochi dí poi i monti, riportando al re di
Francia non vittorie o trionfi ma giustificazione di sé proprio e
querele di altri, per la perdita di uno stato tale, perduto parte
per colpa sua parte per negligenza e imprudenti consigli di quegli
che erano appresso al re, parte, se è lecito a dire il vero, per la
malignità della fortuna.
Ordinò ancora Lautrech, innanzi partisse da Cremona, che nella città
di Lodi, la quale in tutta la guerra si era tenuta per il re,
entrassino con sei compagnie di gente e con presidio sufficiente di
fanti Buonavalle e Federigo da Bozzole, perché i capitani cesarei
erano stati impediti a voltarvi subito l'armi da uno tumulto nato
da' fanti tedeschi che insieme con Francesco Sforza erano venuti da
Trento, i quali dimandavano che per premio della vittoria fusse
donato loro lo stipendio di un mese; cosa che i capitani dicevano
essere dimandata indebitamente, perché era differente il difendersi
da chi assalta a vincere gli assaltatori, né potersi dire essere
stati rotti o vinti gli inimici i quali si erano ritirati non
fuggendo ma cogli squadroni ordinati e salve l'artiglierie e
impedimenti; ma potendo piú la insolenza de' tedeschi che la ragione
o l'autorità de' capitani, furno alla fine costretti di consentire,
promettendo di pagargli fra certo tempo. Ma essendosi in questa cosa
consumati piú dí, accadde che il dí medesimo che le lancie franzesi
erano entrate nella città, dietro alle quali venivano i fanti,
veniva dall'altra parte l'esercito imperiale, e innanzi a tutti il
marchese di Pescara colla fanteria spagnuola, non avendo per ancora
i franzesi distribuite tra loro le guardie, anzi pieni tuttavia di
confusione e di tumulto, come accade quando entrano ad alloggiare le
genti d'arme in una terra; la quale occasione usando il marchese,
con grandissima celerità assaltò uno borgo della città cinto di
muraglia, nel quale, difeso leggiermente, entrato con piccola
fatica, tutti i franzesi che erano nella città, spaventati da questo
caso e perché ancora non erano entrati i fanti loro, si messono
tumultuosamente in fuga verso il ponte che avevano gittato in su
Adda; e gli spagnuoli, entrati nel tempo medesimo nella città per le
mura e per i ripari, gli seguitorono insino al fiume, presi nella
fuga molti soldati e, da Federico e Buonavalle infuori, quasi tutti
i capitani: e col medesimo impeto saccheggiorno quella infelice
città. Da Lodi andato il marchese a Pizzichitone l'ottenne a patti,
e poco dipoi Prospero passò con tutto l'esercito il fiume dell'Adda
per andare a campo a Cremona. Alla quale città come fu accostato, lo
Scudo inclinò l'animo alla concordia: perché non avendo altra
speranza di sostentarsi che la venuta dell'ammiraglio, il quale il
re, desideroso di conservare quel che per lui si teneva ancora in
quello stato, mandava in Italia con quattrocento lancie e diecimila
fanti, assai provedeva alle cose sue se, senza mettersi in pericolo,
poteva oziosamente aspettare quel che partoriva la sua venuta; e
Prospero, da altra parte, desiderava spedirsi presto delle cose di
Cremona per potere, innanzi che 'l soccorso degli inimici in Italia
pervenisse, tentare di rimettere i fratelli Adorni in Genova.
Convennono adunque che lo Scudo si partisse fra quaranta dí, con
tutti i soldati, di Cremona, avendo facoltà di uscirne con le
bandiere spiegate e con l'artiglierie, se infra 'l detto tempo, il
quale terminava il vigesimo sesto dí di giugno, non veniva soccorso
tale che passasse per forza il fiume del Po o pigliasse una delle
città dello stato di Milano nella quale fusse presidio; procurasse
similmente che fusse abbandonato tutto quello che in nome del re si
teneva nel ducato di Milano eccettuate da questa promessa le
fortezze di Milano di Cremona e di Novara: per l'osservanza delle
quali cose prestasse [quattro] statichi: restituissinsi nel caso
predetto i prigioni da ciascuna delle parti, e a' franzesi fusse
conceduto il passare con l'artiglierie e robe loro sicuramente in
Francia. Fatta la concordia e ricevuti gli staggi, l'esercito
cesareo si mosse subito verso Genova; alla quale si accostò da due
lati: il marchese di Pescara co' fanti spagnuoli e italiani dalla
parte del Codifaro, Prospero con le genti d'arme e co' fanti
tedeschi alloggiò dalla parte opposita di Bisagna.
Reggevasi la città di Genova sotto il governo del doge Ottaviano
Fregoso, principe certamente di eccellentissima virtú, e per la
giustizia sua e altre parti notabili amato tanto in quella città
quanto può essere amato uno principe nelle terre piene di fazioni e
nelle quali non è ancora del tutto spenta nelle menti degli uomini
la memoria della antica libertà. Aveva soldati [dumila] fanti
italiani, ne' quali soli si collocava la speranza del difendersi,
perché il popolo della terra, diviso nelle sue parti, con tutto che
avesse intorno uno esercito tanto potente e mescolato di lingue
tanto varie, risguardava oziosamente il progresso della cosa, con
quegli occhi medesimi che era solito per il passato a riguardare gli
altri travagli loro: ne' quali, senza pericolo o danno di coloro che
non prendevano l'armi, traportandosi l'autorità publica di una
famiglia in un'altra, non si vedeva altra mutazione che nel palagio
ducale altri abitatori, altri capitani e soldati alla custodia della
piazza. Accostato che fu l'esercito alla terra, cominciò subito il
doge a trattare di concordia, mandato a' capitani Benedetto di
Vivaldo genovese; ma si raffreddò alquanto la pratica per la venuta
di Pietro Navarra, il quale, mandato dal re di Francia con due galee
sottili al presidio di Genova, entrò nel tempo medesimo nel porto.
Nondimeno, avendo cominciato il Davalo a percuotere con
l'artiglierie la muraglia, si ritornò con maggiore efficacia a'
ragionamento del convenire; e già rimasti in concordia non appariva
piú alcuna difficoltà, quando i fanti spagnuoli, che avevano quel dí
battuto una torre presso alla porta, essendo negligenti quegli di
dentro alla guardia, forse per la speranza dello accordo, la
occuporno, e parte per quella, parte per il muro rovinato,
cominciorno senza indugio a entrare nella città: per il che,
concorrendovi tutta quella parte dell'esercito, il marchese, messi i
soldati in ordinanza e mandato a significare a Prospero il successo,
dato il segno entrò nella città; nella quale, attendendo tutti i
soldati e i cittadini chi a fuggire chi a rinchiudersi nelle case,
non si faceva alcuna resistenza. L'arcivescovo di Salerno e il
capitano della guardia con molti cittadini e soldati, saliti in su
le navi, si allargorno nel mare; il doge, il quale per la infermità
non si poteva muovere, fatto chiudere il palazzo mandò a costituirsi
in potestà del marchese di Pescara, appresso al quale morí non molti
mesi poi. Fu preso Pietro Navarra, tutte le sostanze della città
andorno in preda de' vincitori; molte famiglie ricche obligandosi,
chi a questa compagnia di soldati chi a quella, di pagare quantità
grande di danari, e assicurandole o con pegni o con cedole di
mercatanti, ricomperorno che le case loro non fussino saccheggiate.
Salvossi nel medesimo modo il catino, tanto famoso, che con
grandissima riverenza si conserva nella chiesa cattedrale. La preda
fu inestimabile, di argenti di gioie di danari e di ricchissima
supellettile, essendo quella città, per la frequentazione della
mercatura, piena di infinite ricchezze. In questo fu manco acerba
tanta calamità, che per i prieghi de' fratelli Adorni, perché la
città non avea fatto segno alcuno di inimicizia, e perché si poteva
dire che già fusse convenuta, i capitani proveddero che niuno
genovese fusse fatto prigione e che non fusse violata alcuna donna.
Fu eletto doge di Genova Antoniotto Adorno; il quale, partito che fu
l'esercito, con l'artiglierie prestategli da' fiorentini accampatosi
al Castelletto, prese il terzo dí la cittadella e la chiesa di San
Francesco, e il dí seguente il Castelletto, datogli con certe
condizioni dal castellano. La mutazione di Genova privò interamente
il re di Francia di speranza di potere soccorrere le cose di
Lombardia: perciò l'esercito mandato di nuovo da lui, il quale era
pervenuto nello astigiano, ritornò di là da' monti; e lo Scudo,
benché soprasedesse oltre al termine convenuto qualche dí, per
alcune difficoltà che nacquono sopra le fortezze di Trezzo di Lecco
e di Domodossola, resolute che furno queste, passò con le genti in
Francia; osservatagli non solamente la fede, ma per tutto onde passò
onoratamente ricevuto e trattato.
Lib.14, cap.15
Fallito tentativo del Bentivoglio contro Bologna. Vani tentativi di
mutamenti di governo in Siena ed in Firenze. Pericoloso accidente in
Lucca. Sigismondo Malatesta occupa Rimini.
Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano in Lombardia, per
i travagli di quella parte e per l'assenza del pontefice, non era
stata del tutto quieta Bologna; ma molto meno quieta la Toscana.
Perché a Bologna Annibale Bentivoglio e con lui Annibale Rangone,
raccolti nascostamente circa quattromila uomini, si accostorno una
mattina in sull'aurora, con tre pezzi di artiglieria, dalla parte
de' monti, e non sentendo farsi per quegli di dentro strepito
alcuno, molti passorono il fosso e appoggiorono le scale alle mura:
ma quegli di dentro, che il dí davanti avevano presentita la loro
venuta, levato quando parve tempo il romore, e cominciato a dare
fuoco all'artiglierie e uscendo molti di fuora ad assaltargli, si
messono subitamente in fuga, lasciate l'artiglierie; e nel fuggire
fu ferito dalla parte di dietro Annibale Rangone. Credettesi quasi
per certo che questa cosa fusse stata tentata con saputa del
cardinale de' Medici; il quale, temendo che il pontefice, o per
proprio consiglio o per suggestione di altri, non cercasse, come
fusse venuto in Italia, di diminuire la sua grandezza, avesse
desiderato che, perturbato da tanta iattura dello stato
ecclesiastico non solamente avesse necessità di dare opera ad altro
che a perseguitarlo ma fusse costretto a ricorrere a' consigli e
aiuti suoi.
Ma molto piú lunghi e maggiori erano stati i travagli e pericoli di
Toscana. Perché, appena assicurato dal duca d'Urbino lo stato di
Siena e posate le cose di Perugia e di Montefeltro, era stato dato
nuovo ordine, per suggestione del cardinale di Volterra, dal re di
Francia che Renzo da Ceri, il quale si riposava ozioso in terra di
Roma, tentasse di mutare lo stato di Firenze, rimettendo in quella
città i fratelli e nipoti del cardinale di Volterra, dichiarato con
tutti i suoi amico e confederato del re: i danari necessari alla
quale impresa, perché il re allora era costituito in somma
necessità, si doveano numerare dal cardinale, ricevendo promessa dal
re che gli avessino a essere restituiti a certo tempo. Le quali
cose, mentre che Renzo si prepara per muoversi, pervenute a notizia
del cardinale de' Medici, lo costrinsono, per timore che
medesimamente il duca di Urbino non si movesse, a convenire che,
senza pregiudicio delle ragioni che i fiorentini e il duca
pretendevano nelle terre del Montefeltro, il duca fusse capitano
generale di quella republica per uno anno fermo, e un altro di
beneplacito, cominciando la sua condotta al principio del prossimo
settembre. Condusse per la medesima cagione Orazio Baglione agli
stipendi de' fiorentini, ma con condizione che la condotta sua non
cominciasse prima che del mese di giugno, perché insino a quel tempo
era obligato a' viniziani. La quale convenzione benché si facesse
eziandio in nome di Malatesta suo fratello nondimeno non si
ratificava da lui, perché avendo ricevuti prima danari per
congiugnersi, con dumila fanti e cento cavalli leggieri, con Renzo
da Ceri, né voleva mancare apertamente all'onore proprio né da altra
parte provocarsi con cagioni nuove l'inimicizia del cardinale e de'
fiorentini: però, fingendo di essere infermato, mandò a Renzo, che
era venuto a Castel della Pieve, duemila fanti cento cavalli
leggieri e quattro falconetti, scusandosi che per la infermità non
poteva andare personalmente; e al cardinale dava speranza di non
prendere piú dagli inimici nuovi danari, di ratificare, finito il
tempo per il quale era pagato, la condotta fatta, e in quel mezzo
procedere con maggiore moderazione potesse in quelle cose le quali
non poteva, per i danari ricevuti, ricusare di fare. Entrò dipoi
Renzo con cinquecento cavalli e settemila fanti nel territorio di
Siena, seguitandolo i medesimi fuorusciti i quali avevano seguitato
il duca di Urbino, per tentare la mutazione di quel governo: la
quale se gli fusse succeduta, non si dubitava che, avendo per questo
la facoltà di entrare per quella via nelle viscere del dominio
fiorentino, gli sarebbe delle cose di Firenze succeduto il medesimo.
Ma da altra parte i fiorentini, prevedendo questo pericolo e
desiderando che gli inimici non si approssimassino a Siena, avevano
mandato nel sanese tutte le genti loro sotto Guido Rangone, eletto
per questo tumulto governatore generale dell'esercito; lo intento
del quale era sforzarsi di fare perdere tempo agli inimici, a' quali
si sapeva che se non avessino qualche prospero successo
mancherebbono presto i danari, e nel tempo medesimo procurare quanto
poteva di impedire loro le vettovaglie: però, governandosi secondo i
progressi degli inimici, attendeva a mettere guardia ora in queste
ora in quelle terre piú vicine del dominio sanese e fiorentino.
Nella quale mutazione de' soldati da luogo a luogo accadde che
andando la compagnia de' cavalli de' Vitelli da Torrita ad
Asinalunga, riscontrandosi in trecento cavalli degli inimici, fu
rotta, preso Ieronimo Peppolo luogotenente di Vitello con
venticinque uomini d'arme e due insegne. Fu il primo movimento di
Renzo contro alla città di Chiusi, città piú nobile per la memoria
della sua antichità e de' fatti egregi di Porsena suo re che per le
condizioni presenti; la quale terra non ottenuta, perché non avendo
altre artiglierie che quattro falconetti era molto difficile lo
spugnare terre difese da soldati, entrò piú innanzi tra Torrita e
Asinalunga per appropinquarsi a Siena: ma non avendo nel mezzo delle
terre inimiche comodità di vettovaglie, assaltò, per acquistarne per
forza, il castello di Torrita guardato da cento uomini d'arme del
conte Guido Rangone e da centocinquanta fanti; onde levatosi senza
effetto, seguitando il suo cammino, andò a Montelifré e di quivi al
Bagno a Rapolano lontano da Siena dodici miglia, nella qual città
aveano i fiorentini messo insino da principio il conte di
Pitigliano. Ma il conte Guido, interrompendo con la diligenza e con
la celerità tutti i suoi disegni, entrò il medesimo dí in Siena con
dugento cavalli leggieri, lasciato indietro l'esercito che
continuamente lo seguitava. Però la vicinità del soccorso, l'essere
in questa espedizione diminuita molto, e co' suoi medesimi e
appresso agli inimici, la riputazione di Renzo, il sapersi essere
ridotto in necessità grande di vettovaglie, toglievano l'animo a
quelli che in Siena arebbono desiderato mutazione; e nondimeno si
appresentò a mezzo miglio alle mura, dove poiché non si faceva
sollevazione si levò in capo di uno dí: nel quale dí, ma dopo la sua
levata, entrorono in Siena le genti de' fiorentini; e benché si
mettessino a seguitarlo, disperate di potere giugnerlo perché aveva
preso molto vantaggio, si fermorono, lasciando seguitarlo da'
cavalli leggieri e da certo numero di fanti che prima erano in
Siena, da' quali ricevette poco danno, ma camminando con celerità, e
forse non meno per la fame che per il timore, lasciò l'artiglierie
per la strada, le quali con grande infamia sua pervennono in potestà
degli inimici. Fermossi, per riordinare le genti molto diminuite, ad
Acquapendente, sicuro, perché sapeva le genti de' fiorentini avere
rispetto a entrare nel dominio della Chiesa; ma essendogli mancati
denari, e già disprezzandolo i cardinali Volterra, di Monte e di
Como, co' quali per ordine del re di Francia si trattavano le cose
sue, corse con quelle poche genti che gli erano restate a predare
nella Maremma di Siena, dove dette invano la battaglia a Orbatello.
Però i fiorentini, che avevano spinto l'esercito loro al ponte a
Centina, che è il confine dello stato de' sanesi e quello della
Chiesa, vedendo Renzo non dissolvere totalmente le genti,
minacciavano di assaltare le terre sue; però il collegio de'
cardinali, a' quali era molesto che questo incendio si appiccasse
nello stato ecclesiastico, si interpose alla concordia, che fu
parimenti grata a ciascuno: a' fiorentini per levarsi dalla spesa
che si faceva senza frutto, a Renzo perché si trovava con piccola
provisione e senza speranza di mettere insieme maggiori forze;
declinando massimamente in Lombardia le cose de' franzesi. Né
contenne l'accordo altro che promessa di non si offendere tra i
fiorentini e sanesi da una parte e Renzo dall'altra, per la quale fu
dato in Roma sicurtà di cinquantamila ducati per l'osservanza; e che
delle prede fatte si stesse alla dichiarazione del pontefice quando
fusse in Italia.
Era succeduto in Lucca, questa vernata medesima, pericoloso
accidente. Perché Vincenzo di Poggio di famiglia nobile e Lorenzo
Totti, sotto colore di discordie particolari ma incitati forse piú
presto da ambizione e da povertà, prese le armi ammazzorono nel
palagio publico il gonfaloniere di quella città, e di poi scorrendo
per la terra ammazzorono alcuni altri cittadini loro avversari; con
tanto timore universale che nessuno ardiva opporsi loro: nondimeno,
cessato il primo impeto, cominciando quegli che avevano spaventati
gli altri a temere, per la grandezza del delitto commesso, di se
medesimi, e interponendosi molti cittadini, si uscirono con certe
condizioni della città; della quale come furono usciti furono
perseguitati da' lucchesi rigidissimamente per tutto.
Quietate come è detto le cose di Lombardia e di Toscana, ma essendo,
per l'assenza del pontefice e per le discordie e ambizioni de'
cardinali, negletta totalmente dal collegio la cura dello stato
della Chiesa, Sigismondo figliuolo di Pandolfo Malatesta, antico
signore di Rimini, occupò quasi solo, con debole intelligenza che
aveva in Rimini, quella città: e benché, per instanza fattagli dal
collegio, il cardinale de' Medici andasse a Bologna come legato di
quella città, per ricuperare Rimini e riordinare l'altre cose molto
turbate di Romagna, avuta promessa dal collegio che il marchese di
Mantova capitano della Chiesa andrebbe in aiuto suo; nondimeno non
si messe a effetto cosa alcuna, per mancamento di danari, e perché i
cardinali che gli avversavano impedivano ogni deliberazione per la
quale fusse per accrescersi la sua riputazione.
Lib.15, cap.1
Timori che il re di Francia ritenti l'impresa del ducato di Milano;
gli spagnuoli impongono contribuzioni agli stati italiani. Adriano
VI a Roma. Cesare mira ad accordi coi veneziani; intimazione di
tregua con Cesare del re d'Inghilterra al re di Francia. Cedola di
privilegi di stato di Cesare ai fiorentini. Provvedimenti di Cesare
contro i colpevoli della tentata sedizione in Ispagna. Caduta di
Rodi in potere di Solimano. Rimini restituita al pontefice;
assoluzione dalle censure del duca d'Urbino. Rinvestitura di Ferrara
al duca d'Este. Resa del castello di Milano.
La vittoria nuova contro a' franzesi, benché avesse quietato le cose
di Lombardia, non aveva per ciò diminuito il sospetto che il re di
Francia, essendo pacifico e intero il regno suo ed essendo ritornati
salvi i capitani e le genti d'arme che aveva mandate in Italia, non
avesse, innanzi passasse molto tempo, ad assaltare di nuovo il
ducato di Milano; massime che erano, come prima, parati i svizzeri a
andare agli stipendi suoi e il senato viniziano perseverava seco
nella antica confederazione: per la considerazione del quale
pericolo i capitani cesarei erano costretti a nutrire e a pagare
l'esercito; cosa molto difficile, perché né da Cesare né del regno
napolitano ricevevano danari, e lo stato di Milano era in modo
esausto che non poteva per sé solo sostenere né tanti alloggiamenti
né tante spese. Però, reclamando invano i popoli e il collegio de'
cardinali, avevano mandato la maggiore parte delle genti ad
alloggiare nello stato ecclesiastico; e passando per Roma don Carlo
de Lanoi, destinato nuovamente, per la morte di don Ramondo di
Cardona, viceré di Napoli, determinò, insieme con don Giovanni
Manuel, che per tre mesi prossimi pagassino, ciascuno mese, lo stato
di Milano ventimila ducati, i fiorentini quindicimila, genovesi
ottomila, Siena cinquemila, Lucca quattromila: della quale tassa
benché ciascuno esclamasse, nondimeno, per il timore che si aveva di
quello esercito, fu necessario che fusse accettata da ciascuno;
allegando essi essere cosa necessaria, perché dalla conservazione di
quello dependeva la difesa d'Italia. Dopo il quale tempo fu
rinnovata l'imposizione, ma di quantità molto minore.
Nel quale stato delle cose, Italia oppressa da continui mali e
spaventata dal timore de' futuri maggiori, aspettava con desiderio
la venuta del pontefice, come instrumento opportuno per l'autorità
pontificale a comporre molte discordie e provedere a molti
disordini. Il quale, supplicandolo Cesare (che passato ne' medesimi
dí per mare in Spagna, e parlato in cammino col re di Inghilterra)
lo aspettasse a Barzalona, dove voleva andare personalmente a
riconoscerlo e adorarlo per pontefice, ricusò di aspettarlo: o
dubitando per la distanza di Cesare, che ancora era nelle estreme
parti della Spagna, non perdere tanto tempo che avesse poi a
navigare per stagione sinistra, o per sospetto che Cesare non
cercasse di fargli differire la passata sua in Italia o, come molti
dissono, per non accrescere tanto l'opinione avuta di lui insino dal
principio, che avesse a essere troppo dedito a Cesare, che gli
difficultasse il trattare la pace universale de' cristiani, come
avea deliberato di volere fare. Passò adunque per mare a Roma, dove
entrò il vicesimo nono dí di agosto con concorso grandissimo del
popolo e di tutta la corte; da' quali benché eccessivamente fusse
desiderata la sua venuta (perché Roma senza la presenza de'
pontefici è piú tosto simile a una solitudine che una città),
nondimeno questo spettacolo commosse gli animi di tutti,
considerando avere uno pontefice di nazione barbaro, inesperto al
tutto delle cose d'Italia e della corte, né almeno di quelle nazioni
le quali già per lunga conversazione erano familiari a Italia: la
mestizia de' quali pensieri accrebbe che, alla venuta sua, la peste
cominciata in Roma, il che era interpretato pessimo augurio del suo
pontificato, fece per tutto l'autunno gravissimo danno. Fu la prima
deliberazione di questo pontefice attendere alla recuperazione di
Rimini, e comporre le controversie che il duca di Ferrara aveva
avute co' due suoi prossimi antecessori: perciò mandò in Romagna
mille cinquecento fanti spagnuoli, i quali per potere sicuramente
passare il mare aveva condotti seco.
Alle quali cose mentre che attende, parendo [a] Cesare che allo
stabilimento delle cose d'Italia importasse molto la separazione de'
viniziani dal re di Francia, e sperando che quello senato, diminuita
la speranza delle cose franzesi, avesse l'animo inclinato alla
quiete né volesse per gli interessi di altri portare pericolo che la
guerra si trasferisse nel suo dominio, comunicati i consigli col re
di Inghilterra, il quale avendo prima prestato occultamente contro
al re di Francia danari a Cesare, deposte poi le dissimulazioni,
discendeva già apertamente nella causa, mandorono imbasciadori a
Vinegia a ricercargli che si confederassino alla difesa d'Italia con
Cesare; i quali furono, per Cesare Ieronimo Adorno, per il re di
Inghilterra Riccardo Pacceo: e vi si aspettavano imbasciadori di
Ferdinando fratello di Cesare, arciduca d'Austria; lo intervento del
quale, per essere tra i viniziani e lui molte differenze, era
necessario in qualunque accordo si facesse con loro. Mandò anche il
re di Inghilterra uno araldo a protestare la guerra al re di Francia
in caso non facesse tregua generale per tre anni con Cesare per
tutte le parti del mondo nella quale fussino inclusi la Chiesa il
ducato di Milano e i fiorentini; lamentandosi ancora che avesse
cessato di pagargli i cinquantamila ducati i quali era obligato a
pagargli ciascuno anno. Negò il re di volere fare la tregua, e
apertamente rispose non essere conveniente pagare danari a chi
aiutava con danari gli inimici suoi; donde augumentandosi tra loro
gli sdegni si licenziorono gli imbasciadori da ciascuna delle parti.
Partí questo anno d'Italia don Giovanni Manuel, stato oratore
cesareo a Roma con grandissima autorità. Il quale, alla partita,
fece una cedola di sua mano a' fiorentini, nella quale cedola
narrato che Cesare, per una cedola scritta di settembre l'anno mille
cinquecento venti, promesse al pontefice Leone di riconfermare e di
nuovo concedere a' fiorentini i privilegi dello stato, della
autorità e delle terre possedevano, tra sei mesi dopo la prima dieta
fatta dopo la incoronazione che si celebra in Aquisgrana, perché
prima gli aveva promessi tra quattro mesi dalla sua elezione; e
dicendo non potere espedirgli allora per giuste cause: le quali cose
narrate, don Giovanni promesse in nome di Cesare. La quale cedola
Cesare ratificò di marzo l'anno mille cinquecento ventitré, e ne
fece l'espedizione per bolla in forma amplissima.
Passò Cesare, come è detto di sopra, questo anno in Spagna, dove
arrivato, procedé severamente contro a molti che erano stati autori
della sedizione, gli altri tutti assolvé e libero da tutte le pene:
e per congiugnere con la giustizia e con la clemenza gli esempli
della remunerazione, considerato che Ferdinando duca di Calavria,
recusando di essere capitano della moltitudine concitata, non si era
voluto partire della rocca di Sciativa, lo chiamò con grande onore
alla corte, dandogli non molto poi per moglie Germana stata moglie
del re cattolico, ricca ma sterile, acciò che in lui, ultima
pregenie de' discendenti di Alfonso vecchio re di Aragona, si
estinguesse quella famiglia; perché due suoi fratelli di età minore
erano prima morti, l'uno in Francia l'altro in Italia.
Ma quello che fece infelice questo medesimo anno, con infamia
grandissima de' príncipi cristiani, fu che, nella fine di esso,
Solimanno ottomanno prese l'isola di Rodi, costituita sotto il
dominio de' cavalieri di Rodi, prima chiamati cavalieri
Ierosolimitani; i quali, risedendo in quel luogo poiché erano stati
cacciati di Ierusalem, benché in mezzo tra il turco e il soldano
príncipi di tanta potenza, l'avevano con grandissima gloria del suo
ordine lunghissimo tempo conservata, e stati come uno propugnacolo,
in quegli mari, della cristiana religione: benché avessino qualche
nota che, trascorrendo tutto il dí a predare i legni degli infedeli,
fussino qualche volta licenziosi eziandio contro a' legni de'
cristiani. Stette intorno a questa isola molti mesi grandissimo
esercito e il turco in persona, non perdendo mai uno minimo punto di
tempo di tormentargli, ora col dare battaglie atrocissime ora col
fare mine e trincee ora col fare cavalieri grandissimi di terra e di
legname che soprafacessino le mura della terra: per le quali opere,
tirate innanzi con grandissima uccisione de' suoi, era anche
diminuito notabilmente il numero di quegli di dentro; tanto che
stracchi dalle continue fatiche e mancando loro la polvere per
l'artiglierie, non potendo piú resistere a tante molestie, gittato
in terra dall'artiglierie grande parte delle mura e le mine passate
in molti luoghi della terra, nella quale loro, per essere espugnati
i primi luoghi, si andavano continuamente ristrignendo, finalmente,
ridotti all'ultime necessità, capitolorono col turco che il gran
maestro gli lasciasse la terra, che egli con tutti i cavalieri e
rodiani potessino uscirne salvi con facoltà di portare seco quanta
piú roba potevano e, per avere qualche sicurtà, che il turco facesse
partire l'armata di quegli mari e discostasse da Rodi cinque miglia
lo esercito di terra. Per virtú della quale capitolazione restò Rodi
a' turchi, e i cristiani, essendo osservata loro la fede, passorono
in Sicilia e poi in Italia; avendo trovato in Sicilia una armata di
certe navi che si ordinava (ma tardi per colpa del pontefice) per
mettere in Rodi, come avessino il vento prospero, rinfrescamento di
vettovaglie e di munizioni: e partiti furono di Rodi, Solimanno, in
maggiore dispregio della cristiana religione, fece l'entrata sua in
quella città il giorno della natività del Figliuolo di Dio; nel
quale dí, celebrato con infiniti canti e musiche nelle chiese de'
cristiani, egli fece convertire tutte le chiese di Rodi, dedicate al
culto di Cristo, in moschee; che secondo l'uso loro, esterminati
tutti i riti de' cristiani, furono dedicate al culto di Maometto.
Questo fine ignominioso al nome cristiano, questo frutto delle
discordie de' nostri príncipi, ebbe l'anno mille cinquecento
ventidue, tollerabile se almanco l'esempio del danno passato avesse
dato documento per il tempo futuro. Ma continuandosi le discordie
tra i príncipi, non furono minori i travagli dell'anno mille
cinquecento ventitré.
Nel principio del quale, i Malatesti, conoscendosi impotenti a
resistere alle forze del pontefice, per interposizione del duca
d'Urbino furono contenti lasciare Rimini e la fortezza; avuta
intenzione, benché incerta, di avere qualche sostentamento per la
vita di Pandolfo: il che non ebbe effetto alcuno. Andò dipoi il duca
di Urbino al pontefice, appresso al quale e nella maggiore parte
della corte facendogli favore la memoria gloriosa di Giulio
pontefice, ottenne l'assoluzione dalle censure, e d'essere
rinvestito del ducato d'Urbino ma con la clausula, senza pregiudizio
delle ragioni; per non pregiudicare alla applicazione che era stata
fatta a' fiorentini del Montefeltro, i quali dicevano avere prestato
a Lione, per difesa di quello ducato, ducati trecento cinquantamila
e averne spesi dopo la morte sua in diversi luoghi, per la
conservazione dello stato della Chiesa, piú di settantamila. Ricevé
ancora in grazia il pontefice il duca di Ferrara, rinvestendolo non
solamente di Ferrara e di tutto quello che innanzi alla guerra mossa
da Lione contro a' franzesi possedeva appartenente alla Chiesa, ma
lasciandogli eziandio, con grave nota sua o de' ministri che usavano
male la sua imperizia, le castella di San Felice e del Finale;
quali, acquistate da lui quando roppe la guerra a Lione e dipoi
riperdute innanzi alla sua morte, aveva di nuovo riprese per
l'occasione della vacazione della Chiesa. Obligossi il duca di
Ferrara ad aiutare con certo numero di gente la Chiesa quando
occorresse per la difesa del suo stato, e si astrinse con gravissime
pene, sottomettendosi ancora al ricadere della investitura e alla
privazione di tutte le sue ragioni, in caso che in futuro offendesse
piú la sedia apostolica. Dettegli ancora il pontefice non piccola
intenzione di restituirgli Modena e Reggio: benché da questo,
essendogli dipoi dimostrata la importanza della cosa e, per lo
esempio degli antecessori suoi, la infamia che ne perverrebbe al suo
nome, si alienò con l'animo ogni dí piú.
Nel quale tempo il castello di Milano, stretto da carestia di ogni
cosa eccetto che di pane, e pieno di infermità, convenne di
arrendersi, salve le robe e le persone, se per tutto il dí
quartodecimo di aprile non era soccorso: al quale tempo, osservata
la convenzione, apparí essere morta la piú parte degli uomini che vi
erano dentro. Consentí Cesare, con laude non piccola appresso agli
italiani, che fusse consegnato in potestà del duca Francesco Sforza:
né si teneva piú altro per i franzesi in Italia che il castello di
Cremona, provisto ancora delle cose necessarie abbondantemente. E
nondimeno questi successi non sollevavano la infelicità de' popoli
di quello ducato, aggravato eccessivamente dallo esercito cesareo
per non ricevere i pagamenti: il quale essendo andato ad alloggiare
in Asti e nello astigiano, avendo tumultuato per la medesima
cagione, predò tutto il paese insino a Vigevano; in modo che i
milanesi, per fuggire il danno e il pericolo del paese, furono
costretti promettere loro le paghe di certi tempi, che importavano
circa ducati centomila. E nondimeno non si mitigava, per questa
acerbità, in parte alcuna, l'odio di quello popolo contro a'
franzesi; tenendogli fermi parte il timore per la memoria delle
offese fatte loro parte la speranza che, se mai cessasse il pericolo
che il re di
Francia di nuovo non assaltasse quello stato, cesserebbono tanti
pesi, perché non sarebbe necessario che Cesare tenesse piú soldati
in quel ducato.
Lib.15, cap.2
Trattative di pace fra i veneziani e Cesare; promesse del re di
Francia ai veneziani per mantenerli legati a sé. Varietà di pareri
nel senato veneziano; discorso di Andrea Gritti in favore del
mantenimento della confederazione col re di Francia; discorso di
Giorgio Cornaro a favore della confederazione con Cesare.
Deliberazione dei veneziani e patti con Cesare, con l'arciduca
Ferdinando e con Francesco Sforza.
Trattavasi in questo tempo medesimo continuamente la concordia tra
Cesare e i viniziani; la quale, per molte difficoltà che nascevano e
per varie dilazioni interposte da loro, teneva sospesi di quello che
avesse a seguirne gli animi di ciascuno. Accrebbe la dilazione, e
forse anche le difficoltà di questa pratica, la morte di Ieronimo
Adorno il quale, persona di grande spirito ed esperienza benché
giovane, la trattava con molta autorità e con destrezza singolare:
in luogo del quale vi fu mandato da Milano, in nome di Cesare,
Marino Caracciolo protonotario apostolico, il quale molti anni poi
fu da Paolo terzo pontefice promosso alla degnità del cardinalato.
Trattoronsi queste cose in Vinegia molti mesi, perché da altra parte
il re di Francia faceva assiduamente, per gli imbasciadori suoi,
diligenza grandissima in contrario, promettendo, ora con lettere ora
con uomini propri, di passare presto con potentissimo esercito in
Italia: perché tra' senatori erano varietà grandi di pareri e
assidue disputazioni. Perché molti consigliavano che non si
abbandonasse la confederazione del re di Francia, confidandosi che
presto avesse a mandare l'esercito in Italia; la quale speranza il
re sforzandosi con somma diligenza di nutrire aveva, oltre a molti
altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a Vinegia, a promettere questo
medesimo e a dimostrare che già le cose erano preparate: altri,
considerando per l'esperienza delle cose passate le negligenti
esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e
questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero
oratore loro in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli
era referito dal duca di Borbone (il quale, già congiunto
occultissimamente contro al re, desiderava che i viniziani si
unissino con Cesare), affermava che 'l re di Francia per quello anno
non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la
mala fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare
che in Italia seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i
fiorentini con la Toscana tutta, e si credeva che avesse a fare il
medesimo il pontefice; e che fuora d'Italia erano congiunti seco
l'arciduca suo fratello, vicino allo stato de' viniziani, e il re
d'Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in Piccardia.
Nella quale varietà di pareri, non meno tra i principali del senato
che tra gli altri, non si potendo, per la maturità delle cose e per
la instanza grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire piú
il farne deliberazione, convocato finalmente per determinarsi il
consiglio de' pregati, Andrea Gritti, uomo, per importantissime
amministrazioni e fatti molto egregi, di somma autorità in quella
repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e appresso ai
príncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:
- Ancora che io conosca essere pericolo, prestantissimi senatori,
che se io consiglierò che noi non ci partiamo dalla confederazione
del re di Francia alcuni non interpretino che in me possa piú il
rispetto della lunga conversazione che io ho avuta co' franzesi che
quello della utilità della republica, non mi asterrò per questo da
esprimere liberamente il parere mio, come è propriamente ufficio de'
buoni cittadini; anzi è inutile, e cittadino e senatore, quello il
quale per qualunque cagione si ritrae da persuadere agli altri
quello che in se medesimo sente essere il beneficio della republica:
benché io mi persuada che appresso agli uomini prudenti non arà
luogo questa interpretazione, perché considereranno non solo quali
siano stati in ogni tempo i costumi e le azioni mie ma che io non ho
trattato, col re di Francia né cogli uomini suoi, se non come uomo
vostro e per vostra commissione e comandamento; e mi giustificherà
oltre a questo, se io non mi inganno, la probabilità delle ragioni
le quali mi fanno condiscendere in questa sentenza. Noi trattiamo se
si debba fare nuova confederazione con Cesare, contraria alla fede
data da noi agli oblighi della confederazione che abbiamo col re di
Francia; cosa che, a giudicio mio, non vuole dire altro che
stabilire in modo la potenza di Cesare, già terribile a ciascuno,
che non ci essendo mai piú rimedio di moderarla o di abbassarla
cresca continuamente in nostro manifestissimo pregiudicio. Non
abbiamo cagione alcuna che possa giustificare questa deliberazione,
perché il re ha sempre osservato la nostra confederazione; e se gli
effetti non sono stati cosí pronti a rinnovare la guerra in Italia
si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i propri
interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha
avuti e ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i
disegni suoi ma non potranno già annichilargli, perché la volontà è
sí ardente alla recuperazione dello stato di Milano, la potenza è sí
grande che sostenuti che arà questi primi impeti degli inimici, i
quali sosterrà facilmente, niuna cosa lo ritarderà che di nuovo non
mandi forze grandissime di qua da' monti. Vedemmo dell'una cosa e
dell'altra piú volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo
assaltata la Francia con armi molto piú potenti che non sono queste
che al presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il
mondo, con la grandezza delle sue forze, con la fortezza de' luoghi
che sono in su i confini, con la fede de' popoli, facilmente si
difese; e quando era nell'opinione di tutti gli uomini che per la
stracchezza della guerra gli fusse necessario il riposo di qualche
tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece questo
medesimo ne' primi anni del regno suo il presente re? quando
ciascuno credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta
la corona per le spese infinite dello antecessore, fusse necessitato
differire la guerra a uno altro anno. Non ci debbe adunque
spaventare questa tardità; né sarebbe sufficiente scusa delle nostre
variazioni, perché il confederato, ritardato non dalla volontà ma
dagli impedimenti sopravenuti, non dà giusta causa di querelarsi al
compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa
deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestà il rispetto
della degnità del senato viniziano, ma non la ricerca meno il
rispetto della utilità anzi della salute nostra. Perché chi è che
non conosca di quanto profitto ci sia e da quanti pericoli ci liberi
se il re di Francia recupera lo stato di Milano, e quanto riposo
partorisca per molti anni alle cose nostre? Ammuniscecene l'esempio
delle cose succedute pochi anni innanzi; perché l'averlo recuperato
questo re fu cagione che noi, che prima con grandissime spese e
pericoli difendevamo Padova e Trevigi, recuperassimo Brescia e
Verona; fu cagione che, mentre ch'egli tenne pacifico quel ducato,
noi possedessimo con grandissima pace e sicurtà tutto lo imperio
nostro: esempli che ci hanno a muovere molto piú che la memoria
antica della lega di Cambrai, perché i re di Francia compresono per
esperienza quel che non avevano compreso per le ragioni: quanto
detrimento ricevessino dello essersi partiti dalla nostra
congiunzione; cosa che senza comparazione conosceranno meglio nel
tempo presente, nel quale ha questo re per emulo uno imperadore,
principe di tanti regni e di tanta grandezza, la cui potenza lo
necessita a desiderare e avere carissima la nostra confederazione.
Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca, in
quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse
totalmente il re di Francia dalle imprese d'Italia? Perché chi può
proibire a Cesare che non appropri a sé o al fratello il ducato di
Milano? del quale insino a ora non ha mai conceduta la investitura a
Francesco Sforza; e se, come è chiarissimo, arà potestà di farlo,
chi è quello che possa assicurare della volontà? chi è quello che
possa promettere che, essendo il ducato di Milano una scala di
salire allo imperio di tutta Italia, che abbi a potere piú in Cesare
il rispetto della giustizia e dell'onestà che l'ambizione e la
cupidità propria e naturale di tutti i príncipi grandi?
Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de' ministri che
ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele
rapacissima insaziabile sopra tutte l'altre? Se adunque Cesare o
Ferdinando suo fratello si attribuiscono Milano, in che grado rimane
lo stato nostro, circondato da loro dalla parte d'Italia e di
Germania? che rimedio possiamo sperare a' nostri pericoli essendo in
mano sua il reame di Napoli, il pontefice e gli altri stati di
Italia dependenti da lui, e ciascuno sí esausto e attrito di forze
che da loro non possiamo sperare favore alcuno? Ma se il re di
Francia possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate
tra due tali príncipi, chi avesse da temere della potenza dell'uno
sarebbe riguardato e lasciato stare per la potenza dell'altro; anzi,
il timore solamente della sua venuta assicura tutti gli altri,
perché costrigne gli imperiali a non si muovere, a non si impegnare
a impresa alcuna. Però a me pareva piú presto ridicola che
spaventosa la vanità de' minacci loro che se non ci confederiamo con
Cesare ci volteranno contro l'esercito; come se il muovere la guerra
contro al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto
la vittoria, e come se questo fusse il rimedio di fare che il re di
Francia non passasse, e non piú presto cagione del contrario:
perché, chi dubita che provocati da loro proporremmo per necessità
condizioni tali al re che, quando bene ne avesse l'animo alieno, lo
inducessino a passare? Non accadde egli questo medesimo a tempo del
re Luigi? che le ingiurie e i tradimenti fattici da loro ci
indussono a stimolare in modo quel re (quando io di suo prigione
diventai vostro imbasciadore), che al tempo che piú temeva di essere
assaltato potentissimamente in Francia mandò l'esercito suo, benché
con mala fortuna, in Italia. Non crediate che se gli imperiali
pensassino che la via di tirarci alla amicizia loro o di assicurarsi
della venuta del re di Francia fusse lo assaltarci, che avessino
differito insino a questo dí a dargli principio. Forse che non hanno
i capitani loro cupidità di arricchirsi delle prede e de' guadagni
delle guerre? forse che non hanno avuto necessità, per sgravare il
paese degli amici e sgravandolo avere facoltà di trarne danari, di
nutrire l'esercito ne' paesi d'altri? ma hanno conosciuto che per la
potenza nostra è troppo difficile lo sforzarci; che per loro non fa,
temendo ogni dí della guerra del re di Francia, implicarsi in una
altra guerra, né dare cagione a uno stato potente di forze e di
danari di stimolare con la grandezza delle offerte i franzesi a
passare. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste
ambiguità non occuperanno per sé il ducato di Milano, non
tratteranno se non con minaccie vane di offenderci; se noi gli
assicureremo da questo timore sarà in potestà loro di fare l'uno e
l'altro: e se lo faranno, come è verisimile, di chi altri potremo
noi piú lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa
timidità e del desiderio immoderato della pace? La quale è
desiderabile e santa, quando assicura da' sospetti, quando non
augumenta il pericolo, quando induce gli uomini a potersi riposare e
alleggierirsi dalle spese; ma quando partorisse gli effetti contrari
è, sotto nome insidioso di pace, perniciosa guerra; è, sotto nome di
medicina salutifera, pestifero veleno. Se adunque il fare noi
confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese
d'Italia, dà a lui facoltà di occupare ad arbitrio suo il ducato di
Milano, occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi
comperiamo, con grandissima infamia del nome nostro con maculare la
fede di questa republica, la grandezza di un principe il quale non
ha manco distesa l'ambizione che la potenza e che pretende, egli e
il fratello, che tutto quello che noi possediamo in terra ferma
appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che con
la grandezza assicuri la libertà di tutti gli altri e che sarebbe
necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste
ragioni, tanto evidenti e tanto palpabili, non può già essere
imputato che lo muova l'affezione piú che la verità, piú gli
interessi propri che l'amore della republica. Della salute della
quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre deliberazioni
concederà tanto di felicità quanto ha conceduto di sapienza a questo
eccellentissimo senato. -
Ma in contrario Giorgio Cornaro, cittadino di pari autorità e di
nome celebrato di prudenza quanto alcuno altro di quel senato, si
oppose con orazione tale a questo consiglio: - Grande certamente,
prestantissimi senatori, e molto difficile è la presente
deliberazione; nondimeno, quando io considero quale sia ne' tempi
nostri l'ambizione e la infedeltà de' príncipi e quanto la natura
loro sia difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si
governando con l'appetito di uno solo ma col consentimento di molti,
procedono con piú moderazione e maggiori rispetti, né si partono mai
sfacciatamente, come spesso fanno essi, da quel che ha qualche
apparenza di giusto e di onesto, io non posso se non risolvermi che
a noi sia perniciosissimo che il ducato di Milano sia di uno
principe piú potente che noi, perché una tale vicinità ci necessita
a stare in continui sospetti e tormenti e, ancora che siamo nella
pace, quasi sempre ne' pensieri della guerra, non ostante qualunque
confederazione o convenzione che abbiamo insieme. Di questo si
leggono nelle istorie antiche infiniti esempli, nelle nostre
qualcuno: ma quale maggiore e piú illustre che quello che, con
acerba memoria, è scolpito nel cuore di tutti noi? Introdusse questo
senato Luigi re di Francia nel ducato di Milano, alla quale infelice
deliberazione molti di noi furno presenti; conservogli sempre intera
la fede delle capitolazioni, quantunque con premi grandi e con varie
occasioni fussimo invitati a discostarsi da lui dagli spagnuoli e
da' tedeschi, quantunque fussimo certi che per lui si trattavano
spesso molte cose contro a noi. Non piegò né il beneficio ricevuto
né la fede data né tanti perpetui offici nostri l'animo suo, pieno
di tanta cupidità di offenderci che finalmente, reconciliatosi per
questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi, contrasse
contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per
fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinità de'
príncipi grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo
necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre
deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del
re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco Sforza o di
qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde depende
nel tempo presente la sicurtà nostra, donde nel futuro può
dependere, se si variassino le condizioni de' tempi presenti, grande
augumento ed esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da
continuare l'amicizia col re di Francia o da confederarci con
Cesare: l'una di queste due deliberazioni esclude totalmente dal
ducato di Milano Francesco Sforza e dà adito di entrarvi al re di
Francia, principe tanto piú potente di noi; l'altra deliberazione
tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello ducato,
il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra
confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra:
però quando tentasse di spogliarlo di quello stato non solo
offenderebbe noi e gli altri d'Italia, a' quali darebbe causa di
volgere di nuovo l'animo a' franzesi, ma offenderebbe il re
d'Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere
grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del
ducato di Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Cosí,
sottoponendosi a molte difficoltà e pericoli, e a grandissima
infamia, contraverrebbe alla fede sua, la quale non si è insino a
ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata, cosa che non
possiamo già dire noi de' franzesi; anzi, avendo restituito, dopo la
morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato,
consegnatogli le fortezze secondo che successivamente si sono
acquistate, e ultimamente, contro alla opinione di molti, il
castello di Milano, non si può dire che non abbia fatto segni
contrari. Perché adunque non dobbiamo fare piú presto quella
deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento
nostro che quella che manifestamente tende a fine contrario a'
nostri bisogni? A questo si oppone che di maggiore pericolo sarebbe
a questa republica che il ducato di Milano fusse in potestà di
Cesare che se fusse in potestà del re di Francia; perché quel re,
per la grandezza di Cesare e per la emulazione che ha con lui,
arebbe quasi necessità di perseverare nella nostra congiunzione, ma
in Cesare tutto il contrario, per la potenza sua e per le ragioni
che contro allo stato nostro pretendono egli e il fratello. Credo
che chi cosí sente di Cesare non si inganni, per la natura e
consuetudine de' príncipi tanto grandi; volesse Dio non si
ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano
nel suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno
potette piú la cupidità, l'ambizione, che l'onestà, che l'utilità
propria. Senza che, non sono perpetue quelle cagioni che l'arebbono
a conservare unito con noi, ma variabili, secondo la natura delle
cose umane, di momento in momento: perché e Cesare è uomo mortale
come gli altri uomini; è, secondo l'esempio di molti príncipi stati
maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E
quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva piú
presto degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta
differenza dall'uno pericolo all'altro quanto è differenza da una
deliberazione che ci escluda certo dal fine nostro a una che piú
verisimilmente vi ci conduca. Dipoi queste ragioni risguardano il
tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo stato presente delle
cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare ci
mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci
noi dal re di Francia è credibile riserberà il fare la guerra a
migliori tempi e occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe
pure essere che di presente la facesse, cosa che di necessità ci
porterà molestie e spese. Ma in quale caso è piú pericoloso per noi
l'esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può quasi tenere
per certo che la vittoria sarà da questa parte, cosa che non si può
tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e
confederandoci con Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la
vittoria del re come sarebbe per il contrario, perché in caso tale
tutte l'armi de' vincitori si volterebbono contro a noi, e Cesare
non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi necessità di
occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della
confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di
Francia di aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia,
non a recuperargli poi che gli avesse perduti. Non dice questo la
scrittura delle nostre capitolazioni, né ci militano le medesime
ragioni. Adempiemmo le obligazioni nostre quando, alla perdita di
Milano, causata per il mancamento delle loro provisioni, ricevetteno
piú danno le nostre genti d'arme che le franzesi; adempiemmole
quando, tornando Lautrech co' svizzeri alla guerra, gli mandammo i
nostri aiuti; abbiamle trapassate quando, pasciuti da lui con vane
speranze e promesse, abbiamo aspettato tanti mesi l'esercito suo. Se
la volontà lo ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena
delle sue colpe? se la necessità, non basta egli questa ragione,
quando bene fussimo obbligati, a giustificarci? Non so di che siamo
piú oltre debitori al re di Francia poiché prima siamo stati
abbandonati noi: non so a che piú oltre sia tenuto uno confederato
per l'altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non
affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la
guerra, ma né ardirei affermare il contrario, considerato la
necessità che hanno del nutrire lo esercito nello stato degli altri,
la speranza che potrebbono avere di tirarci per questa via alla loro
congiunzione, massime se il re di Francia non passerà: di che chi
dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per la loro
negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di
là da' monti con due tali príncipi; né può essere ripreso chi di
questo presta fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori
sono l'occhio e l'orecchio degli stati. Replico insomma il medesimo,
che con sommo studio debbiamo cercare che di Francesco Sforza sia il
ducato di Milano: donde ne nasce, in conseguenza, che sia piú utile
quella deliberazione che ci può condurre a questo effetto che quella
che totalmente ce ne esclude. -
L'autorità di due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva
renduto piú presto piú perplessi che piú resoluti gli animi de'
senatori, donde il senato allungava quanto piú poteva il
determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la gravità della
cosa, il desiderio di vedere piú innanzi de' progressi del re di
Francia; e ne erano anche causa molte difficoltà che nascevano di
necessità nella concordia con l'arciduca. Accresceva la sospensione
degli animi loro che il re di Francia, preparandosi sollecitamente
alla guerra, avea mandato il vescovo di Baiosa a pregargli che
differissino tutto il mese prossimo a deliberare, affermando che
innanzi alla fine del termine passerebbe con maggiore esercito che
mai avesse veduto in Italia l'età presente. Nella quale ambiguità
mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella
città, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che piú presto nocé
alle cose franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel
grado, lasciata meramente la deliberazione al senato, non volle mai
piú né con parole né con opere dimostrarsi inclinato in parte
alcuna. Finalmente, mandando il re al senato continuamente uomini
nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le medesime
cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di
Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a'
quali la dilazione era sospettissima, protestorono al senato che
dopo tre dí prossimi si partirebbono, lasciando imperfette tutte le
cose. Perciò il senato necessitato a determinarsi, e togliendo fede
alle promesse del re di Francia l'essere stati tanti mesi nutriti
con vane speranze, e molto piú quel che in contrario affermava lo
imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d'abbracciare
l'amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che
tra Cesare, Ferdinando arciduca d'Austria, Francesco Sforza duca di
Milano da una parte e il senato viniziano dall'altra fusse perpetua
pace e confederazione: dovesse il senato mandare, quando fusse il
bisogno, alla difesa del ducato di Milano secento uomini d'arme
secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per la difesa
del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da'
cristiani, perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente
per non irritare contro a sé l'armi de' turchi: la medesima
obligazione avesse Cesare, per la difesa contro a qualunque, di
tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia: pagassino
all'arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e
concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come
furno convenute, il senato, avendo già rimosso dagli stipendi suoi
Teodoro da Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia,
con le condizioni medesime, Francesco Maria duca di Urbino.
Lib.15, cap.3
Tentativi del pontefice di unire in concordia i príncipi cristiani
contro i turchi. Come il cardinale di Volterra cade in disgrazia del
pontefice. Confederazione di príncipi di cui fa parte il pontefice.
Attentato contro Francesco Sforza. Moto nella fortezza di Valenza.
Defezione del connestabile di Borbone. Spedizione del Bonnivet in
Italia; occupazione delle terre alla destra del Ticino. Sorpresa di
Prospero Colonna: sue prime deliberazioni. I francesi vicino a
Milano. Morte di papa Adriano.
Fu giudicio quasi comune degli uomini per tutta Italia che il re di
Francia, vedendo dovergli essere contrari quegli aiuti i quali primi
gli doveano essere propizi, avesse a desistere d'assaltare per
quello anno il ducato di Milano; nondimeno, intendendosi che non
solamente continuava di prepararsi ma che già cominciava a muoversi
l'esercito, quegli che temevano della vittoria sua feciono insieme
per resistergli nuova confederazione, inducendo il pontefice a
esserne capo e principale. Aveva il pontefice, desideroso della pace
comune, ricercato, quando venne in Italia, Cesare il re di Francia e
il re di Inghilterra che, atteso i successi prosperi de' turchi,
deponessino l'armi tanto perniciose alla republica cristiana, e che
ciascuno spedisse a Roma agli oratori suoi sopra queste cose
pienissima autorità; la qual cosa da tutti fu nell'apparenza
eseguita prontamente, ma cominciato poi a trattarsi le cose
particolarmente fu conosciuto presto che erano fatiche vane, perché
nel fare la pace si trovavano infinite difficoltà: la tregua per
tempo breve non piaceva a Cesare, senza che pareva quasi di niuna
utilità; e il re di Francia la rifiutava per tempo lungo. Onde il
pontefice, o ridestandosi in lui l'antica benivolenza verso Cesare o
parendogli che i pensieri del re di Francia fussino alieni dalla
concordia, cominciò piú che il solito a inclinare l'orecchie a
coloro che lo confortavano a non permettere che da quel re fusse di
nuovo posseduto il ducato di Milano. Da queste cagioni preso animo
il cardinale de' Medici, il quale prima, temendo le persecuzioni
degli emuli suoi e specialmente del cardinale di Volterra a cui
pareva che il pontefice credesse molto, dimorava a Firenze, venne a
Roma, ricevuto con grandissimo onore quasi da tutta la corte: ove,
congiuntamente col duca di Sessa imbasciadore di Cesare e con gli
oratori del re di Inghilterra, favoriva questa medesima causa
appresso al pontefice.
Nel qual tempo la mala fortuna del cardinale di Volterra, che quasi
sempre perturbava la prudenza l'astuzia e gli artifici suoi, partorí
a lui danno e pericolo, e al cardinale de' Medici facoltà di
acquistare maggiore grazia e autorità appresso al pontefice,
inclinato prima molto al volterrano, perché con la sua sagacità e
con parole non meno nervose che ornate gli avea impresso nell'animo
di essere molto desideroso della pace universale della cristianità.
Conciossiaché, essendo stato, per opera del duca di Sessa, ritenuto
a Castelnuovo appresso a Roma Francesco Imperiale, sbandito di
Sicilia che andava in Francia, gli furno trovate lettere scritte dal
cardinale predetto al vescovo di Santes suo nipote, per le quali
confortava il re di Francia ad assaltare con armata marittima
l'isola di Sicilia, perché volgendosi l'armi di Cesare a difenderla
gli sarebbe piú facile a ricuperare il ducato di Milano: della qual
cosa maravigliandosi molto il pontefice e riputandosi ingannato
dalle sue simulazioni, incitandolo ancora ardentemente il duca di
Sessa e il cardinale de' Medici, chiamatolo a sé lo fece custodire
in Castel Sant'Angelo; e dipoi deputò giudici a esaminarlo come reo
d'avere violato la maestà pontificale, concitando il re di Francia
ad assaltare coll'armi la Sicilia feudo della sedia apostolica.
Nella quale cognizione benché si procedesse lentamente, e finiti gli
esamini gli fusse data facoltà di difendersi per avvocati e
procuratori, non si procedé però con la medesima moderazione alla
roba; perché, il dí stesso che il cardinale fu ritenuto, il
pontefice occupò tutte le ricchezze che erano nella sua casa. Venne
ancora a luce, per la incarcerazione del medesimo Imperiale, un
trattato che per il re di Francia si teneva in Sicilia; per il quale
furno squartati il conte di Camerata il maestro portulano e il
tesoriere di quella isola.
Per le quali cose il pontefice commosso tanto piú contro al re di
Francia, e cominciando quotidianamente a consultare col cardinale
de' Medici, finalmente, risonando ogni dí piú la fama della venuta
de' franzesi, deliberando di opporsi loro, narrò nel collegio de'
cardinali, fatta prima la solita prefazione de' pericoli imminenti
dal principe de' turchi, il re di Francia solo essere cagione che
dalla cristianità non si rimovesse tanto pericolo, perché
pertinacemente ricusava di consentire alla tregua che si trattava; e
che appartenendo a lui, come a vicario di Cristo e successore del
principe degli apostoli, provedere quanto per lui si poteva alla
conservazione della pace, il zelo della salute comune lo costrigneva
a unirsi con coloro che s'affaticavano acciò che Italia non si
turbasse, perché dalla quiete o dalla turbazione di quella nasceva
la quiete o la turbazione di tutto il mondo. In conformità del quale
ragionamento, ed essendo per tale effetto venuto il viceré di Napoli
a Roma, fu stipulata, il terzo dí d'agosto, lega e confederazione
tra il pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra, l'arciduca d'Austria,
il duca di Milano, il cardinale de' Medici e lo stato di Firenze
congiunti insieme, e i genovesi, per la difesa d'Italia, da durare
durante la vita de' confederati e uno anno dopo la morte di
qualunque di loro; riservato luogo a ciascuno di entrarvi, pure che
fusse accettato dal pontefice, Cesare, il re d'Inghilterra e lo
arciduca, e desse cauzione di usare nelle querele sue la via della
ragione e non dell'armi. Congregassesi per opporsi contro a chi
volesse assaltare in Italia alcuno de' collegati, uno esercito, nel
quale il pontefice mandasse dugento uomini d'arme, Cesare ottocento,
i fiorentini dugento, il duca di Milano dugento e dugento cavalli
leggieri; provedessino il pontefice, Cesare e il duca di Milano
l'artiglierie e le munizioni con tutte le spese appartenenti: che,
per soldare i fanti necessari all'esercito e per fare l'altre spese
che bisognano nelle guerre, pagasse il papa ciascuno mese ducati
ventimila, altrettanti il duca di Milano e la medesima somma i
fiorentini, pagassene Cesare trentamila, tra Genova Siena e Lucca
diecimila, restando però i genovesi obligati all'armata e all'altre
spese necessarie per la difesa loro; alla quale contribuzione
fussino tutti obligati per tre mesi, e per quello tempo piú che
dichiarassino il pontefice, Cesare e il re d'Inghilterra: fusse in
facoltà del pontefice e di Cesare dichiarare chi avesse a essere
capitano generale di tutta la guerra; il quale si trattava che fusse
il viceré di Napoli, sforzandosene massime il cardinale de' Medici,
l'autorità del quale appresso a' cesarei era grandissima, per l'odio
che aveva contro a Prospero Colonna. A questa confederazione fu
congiunto per modo indiretto il marchese di Mantova, perché il
pontefice e i fiorentini lo condussono per loro capitano generale a
spese comuni.
Ma non raffreddorno già, né la lega fatta da' viniziani con Cesare
né l'unione di tanti príncipi fatta con tanti provedimenti, l'ardore
del re di Francia; il quale, venuto a Lione, si preparava per
passare con grandissimo esercito personalmente in Italia: ove già,
per la fama della venuta sua, cominciavano ad apparire nuovi
tumulti. Lionello fratello di Alberto Pio ricuperò furtivamente la
terra di Carpi, custodita negligentemente da Giovanni Coscia
prepostovi da Prospero Colonna; a cui Cesare, spogliatone Alberto
come rebelle dello imperio, l'aveva donata. Ma maggiore accidente fu
per succedere nel ducato di Milano, perché cavalcando in su una
muletta Francesco Sforza da Moncia a Milano, ed essendosi, come
facevano per l'ordinario, allontanati da lui i cavalli della sua
guardia perché il principe fusse meno noiato dalla polvere, la quale
per i tempi estivi si solleva grandissima da' cavalli nelle pianure
di Lombardia, Bonifazio Visconte, giovane noto piú per la nobiltà
della famiglia che per ricchezze onori o altre condizioni, mosso per
lo sdegno conceputo perché pochi mesi innanzi era stato ammazzato
per opera di Ieronimo Morone, non senza volontà, (cosí si credeva)
del duca, Monsignorino Visconte in Milano; essendo propinquo a lui
in su uno cavallo turco, come furono pervenuti a uno quadrivio,
mosso con impeto il cavallo, l'assaltò con uno pugnale per
percuoterlo in sulla testa; ma movendosi per paura la muletta né
stando anche fermo per la ferocia sua il cavallo, e Bonifazio per
essere di maggiore statura e per l'altezza del cavallo
sopraffacendolo molto, il colpo destinato alla testa lo percosse in
sulla spalla. Trasse dipoi la spada fuora per dargli un altro colpo.
Ma la ferita fu piccolissima e di taglio; ed essendo già concorsi
molti si messe in fuga, seguitato dai cavalli della guardia, ma
avanzandogli per la velocità del suo cavallo si salvò nel Piemonte.
Cosa, se allo ardire e alla industria fusse stata corrispondente la
fortuna, certamente accaduta rarissime volte e forse non mai, che
uno uomo solo avesse, a mezzodí, in sulla strada publica, ammazzato
uno principe sí grande, accompagnato da tante armi e da tanti
soldati, in mezzo dello stato suo, e si fusse fuggito a salvamento.
Ritirossi il duca cosí ferito a Moncia, non potendo credere che in
Milano non fusse congiurazione: dove Prospero e il Morone, per il
medesimo sospetto, avevano subito fatto ritenere il vescovo di
Alessandria fratello di Monsignorino, il quale, messosi
volontariamente in mano di Prospero sotto la fede sua, ed essendo
esaminato, fu poi mandato prigione nella fortezza di Cremona;
essendo vari i giudizi degli uomini se e' fusse stato conscio o no
di questa cosa. Succedette, quasi ne' medesimi dí, che Galeazzo da
Birago seguitato da altri fuorusciti dello stato di Milano, con
l'aiuto di alcuni soldati franzesi che già erano nel paese del
Piemonte, fu dal castellano della fortezza di Valenza, di nazione
savoino, introdotto nella terra: il che inteso da Antonio de Leva,
il quale con una parte de' cavalli leggieri e de' fanti spagnuoli
era in Asti, vi andò subito a campo; ed essendo la terra debole, la
quale gli inimici non avevano avuto tempo a riparare, piantate le
artiglierie, la espugnò il secondo dí, e dipoi battuta la fortezza
ebbe il medesimo successo: restando nell'una e l'altra espugnazione
morti circa quattrocento uomini e molti prigioni, tra' quali
Galeazzo capo di questo moto.
Passava del continuo i monti l'esercito franzese, dietro al quale
avea destinato passare il re; ma turbò il suo consiglio la
congiurazione che venne a luce del duca di Borbone. Il quale, per la
nobiltà del sangue regio per la grandezza dello stato e per la
degnità dell'ufficio del gran conestabile e per la fama molto
prospera del suo valore essendo il maggiore e piú stimato signore di
tutto il regno di Francia, non era già, piú anni innanzi, in grazia
del re, e però non promosso a quegli gradi né introdotto a quegli
segreti che meritava tanta grandezza; ma si era aggiunto che la
madre del re, suscitate certe ragioni antiche, gli dimandava nel
parlamento di Parigi il suo stato: donde egli, poiché vedde non
essere posto dal re a questa cosa alcuno rimedio, pieno di
indegnazione, si era, per mezzo di Beuren gran cameriere e molto
confidato di Cesare, confederato pochi mesi innanzi
occultissimamente con Cesare e col re d'Inghilterra; con patto che,
per stabilire le cose con vincolo piú fedele, Cesare gli
congiugnesse Elionora sua sorella, rimasta per la morte di Emanuello
re di Portogallo senza marito. La esecuzione de' consigli loro era
fondata in sull'avere destinato il re Francesco di andare
personalmente alla guerra, nella quale deliberazione perché
perseverasse gli avea il re di Inghilterra artificiosamente data
speranza di non molestare la Francia per quello anno. Doveva
Borbone, subito che il re avesse passati i monti, entrare nella
Borgogna con dodicimila fanti, che occultissimamente co' danari di
Cesare e del re di Inghilterra si preparavano; né dubitava, per
l'occasione della assenza del re e per la grazia universale che
aveva per tutto il reame di Francia, dovere fare grandissimi
progressi. Di quello che s'acquistava avea a ritenere per sé la
Provenza, permutando il titolo di conte in titolo di re di Provenza;
la quale contea appartenersegli per ragioni dependenti dagli
Angioini pretendeva: l'altre cose tutte doveano pervenire nel re di
Inghilterra. Però, per escusarsi dal seguitare in Italia il re,
fermatosi a Molins terra principale del ducato di Borbone, fingeva
di essere ammalato. Donde passando il re, quando andava a Lione, al
quale era già pervenuto qualche leggiero indizio di questo trattato,
non dissimulò seco di essere stato procurato da altri di mettergli
questo sospetto, ma potere in lui sopra ogn'altra cosa l'opinione
tante volte esperimentata della sua virtú e della sua fede; donde il
duca, ringraziandolo efficacissimamente che con tanta libertà e
sincerità di animo avesse parlato seco, e ringraziando Dio che gli
avesse conceduto uno tale re, la gravità del quale non avessino
forza di sollevare le accusazioni e le calunnie false, gli aveva
promesso che, come prima fusse libero (il che per la leggierezza
della infermità sperava dovere essere fra pochissimi dí), andrebbe a
Lione per accompagnarlo dovunque andasse. Ma come il re fu venuto a
Lione, inteso che a' confini della Borgogna si accumulavano fanti
tedeschi, e aggiunto a questo sospetto agli indizi avuti prima e
allo essersi intercette certe lettere che davano lume piú chiaro,
fece incarcerare San Valerí, Boisí fratello della Palissa, il
maestro delle poste, il vescovo d'Autun, consci della congiurazione,
e mandò subito il gran maestro con cinquecento cavalli e quattromila
fanti a Molins a prendere Borbone; ma tardi, perché egli, già
insospettito e dubitando non fussino guardati i passi, era in abito
incognito passato occultissimamente nella Francia Contea. Per il
qual caso tanto importante deliberò il re non proseguire l'andata
sua; e nondimeno, ritenute appresso a sé parte delle genti preparate
alla nuova guerra, mandò in Italia [monsignore] di Bonivet
ammiraglio di Francia, con mille ottocento lancie seimila svizzeri
dumila grigioni dumila vallesi seimila fanti tedeschi dodicimila
franzesi e tremila italiani: col quale esercito passato i monti, e
accostatosi a' confini dello stato di Milano, fece dimostrazione di
volere dirizzarsi a Novara. Per il che quella città, non munita né
di soldati né di ripari a sufficienza, si arrendé con licenza del
duca di Milano, ritenendosi per lui la fortezza; il medesimo, e per
la medesima cagione, fece Vigevano: donde tutta la regione che è di
là dal fiume del Tesino pervenne in potestà de' franzesi.
Non aveva creduto Prospero Colonna, già implicato in lunga
infermità, che il re di Francia, essendosi confederati contro a lui
i viniziani e dipoi venuta a luce la congiurazione del duca di
Borbone, perseverasse nella deliberazione di assaltare per quello
anno il ducato di Milano; perciò non avea con la diligenza e
celerità conveniente raccolti i soldati alloggiati in vari luoghi,
né fatto i provedimenti necessari a tanto movimento. Ora,
approssimandosi gli inimici, chiamava con sollecitudine genti,
intento tutto a proibire il passo del Tesino; il che, non si
riducendo alla memoria quel che al fiume dell'Adda era succeduto a
lui contro a Lautrech, si prometteva con tanta confidenza. Di
riordinare i bastioni e i ripari de' borghi di Milano, de' quali la
maggiore parte non essendo stati attesi erano quasi per terra, [non]
poneva alcuna sollecitudine. Congregava l'esercito in sul fiume, tra
Biagrassa, Bufaloro e Turbico, sito comodo a quello effetto e
opportuno ancora a Pavia e a Milano. Ma i franzesi che erano venuti
a Vigevano, avendo trovato l'acque del fiume piú basse che non era
stata l'opinione di Prospero, cominciorono a passare, parte a guazzo
parte per barche, quattro miglia lontano dal campo imperiale;
gittato anche uno ponte per l'artiglierie, in luogo dove non
trovorono né guardia né ostacolo alcuno. Però Prospero, mutati per
questo inopinato accidente necessariamente tutti i consigli della
guerra, mandò subito Antonio da Leva con cento uomini d'arme e
tremila fanti alla guardia di Pavia; egli col resto dello esercito
si ritirò in Milano, dove fatto consiglio co' capitani, tutti
vennono concordemente in questa sentenza: non essere possibile, se i
franzesi si accostavano senza indugio, difendere Milano, perché i
bastioni e ripari de' borghi, strascurati dopo l'ultima guerra,
erano la maggiore parte caduti per terra, e la troppa confidenza che
aveva avuto Prospero di difendere il passo del Tesino era stata
cagione che non si fusse data opera a rassettargli; né era possibile
condurgli, se non in ispazio di tre dí, in grado da potergli
difendere; doversi fare deliberazione aspettante all'uno caso e
all'altro; fare lavorare con somma sollecitudine a' ripari, e
nondimeno stare preparati a partirsi (se i franzesi venissino il
primo il secondo o il terzo dí) per ritirarsi in Como, se i franzesi
venivano per la via di Pavia; se per il cammino di Como, andare a
Pavia. Ma il fato avverso a franzesi, ottenebrando come altre volte
aveva fatto lo intelletto loro, non permesse che usassino cosí
fortunata occasione. Perché, o per negligenza o per raccorre tutto
l'esercito, del quale non piccola parte era rimasta indietro,
soprastettono tre dí in su il fiume del Tesino; donde dipoi, unitisi
tutti insieme tra Milano, Pavia e Binasco, vennono (credo) a Santo
Cristoforo a uno miglio presso a Milano, tra porta Ticinese e porta
Romana e avendo fatte le spianate, e passata l'artiglieria nella
vanguardia, feciono dimostrazione di volere combattere la terra; e
nondimeno, non tentato altro, fermorono in quel luogo
l'alloggiamento; dal quale levatisi pochi dí poi alloggiorono alla
badia di Chiaravalle, donde guastorono le mulina e tolseno l'acqua a
Milano, pensando piú ad assediarlo che ad assaltarlo: perché, oltre
alla moltitudine abbondantissima d'armi (nella quale si dicevano
essere mille cavalli utili) e con la consueta disposizione contro al
nome del re di Francia, erano allora in Milano circa ottocento
uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila fanti spagnuoli
seimila cinquecento tedeschi e tremila italiani.
In questo stato delle cose passò all'altra vita, il quartodecimo dí
di settembre, il pontefice Adriano, non senza incomodo de'
collegati, al favore de' quali mancava oltre alla autorità
pontificale la contribuzione pecuniaria alla quale, per i capitoli
della confederazione, era tenuto. Morí, lasciato di sé, o per la
brevità del tempo che regnò o per essere inesperto delle cose,
piccolo concetto; e con piacere inestimabile di tutta la corte,
desiderosa vedere uno italiano, o almanco nutrito in Italia, in
quella sedia.
Lib.15, cap.4
Disordini e fazioni di guerra nel modenese e nel reggiano. Il
presidio di Modena rafforzato con fanti spagnuoli contro il duca di
Ferrara. Pronti provvedimenti del commissario Guicciardini per
difendere la città. Reggio e Rubiera occupate dal duca di Ferrara.
Per la morte del pontefice cominciorno a perturbarsi le terre della
Chiesa; nelle quali, innanzi alla infermità sua, erano cominciate a
dimostrarsi piccole faville di futuro incendio, atto ad ampliarsi
vivente lui se, parte per caso parte per altrui diligenza, non vi
fusse stato ovviato. Perché avendo il collegio de' cardinali,
innanzi che il pontefice passasse in Italia, commessa ad Alberto Pio
la custodia di Reggio e di Rubiera, si tenevano ancora da lui le
fortezze di quegli luoghi; avendo, con vari colori e diverse scuse e
per l'occasione della poca esperienza di Adriano, schernito molti
mesi la instanza fatta da lui che gliene restituisse. Però era stato
trattato che, subito che apparisse il principio della guerra, Renzo
da Ceri, seguitato da alcuni cavalli e molti fanti, si fermasse in
Rubiera, per correre con la opportunità di quel luogo la strada
romana tra Modena e Reggio, a effetto di impedire i danari e gli
spacci che da Roma, Napoli e Firenze andavano a Milano; e procedere
secondo l'occasione a maggiori imprese. Ma avendo Francesco
Guicciardini, governatore di quelle città, presentito a buona ora
questo disegno, e dimostrato al pontefice a che fini tendessino le
mansuete parole e prieghi di Alberto e il pericolo in che
incorrerebbe tutto lo stato ecclesiastico da quella parte, aveva
tanto operato che il pontefice, sdegnato e con minaccie e
dimostrazioni di volere usare la forza, aveva costretto Alberto a
restituirgliene; il quale, non essendo ancora le cose franzesi tanto
innanzi, non aveva avuto ardire di opporsegli. Ma avendo dipoi i Pii
recuperato la terra di Carpi, Prospero, desideroso di racquistarla,
fu autore che in nome della lega si conducesse Guido Rangone con
cento uomini d'arme cento cavalli leggieri e mille fanti, e che si
ordinasse che mille fanti spagnuoli, che il duca di Sessa aveva
soldati a Roma perché andassino a unirsi con gli altri a Milano, si
fermassino per la medesima cagione a Modena. Le quali cose mentre si
preparavano, Renzo da Ceri, a cui per la sua autorità e per la
speranza del predare concorrevano molti cavalli e fanti, cominciò a
correre la strada e a perturbare tutto il paese. Assaltò anche, già
morto il pontefice, una notte all'improviso con dumila fanti la
terra di Rubiera; ma difendendola gli uomini francamente, ed essendo
molto difficile il pigliarla d'assalto, non l'ottenne: ove fu preso
Tristano Corso, uno de' capitani de' suoi fanti.
Le quali forze, raccolte per diverse cagioni in questi luoghi,
dettono occasione a cose maggiori. Perché, morto il pontefice, il
duca di Ferrara, stracco dalle speranze che gli erano state date
della restituzione di quelle terre, e considerando per la
assoluzione ottenuta da Adriano essere manco difficile ottenere la
venia delle cose tolte che la restituzione delle perdute, e
persuadendosi quel medesimo che comunemente si credeva per tutti,
che per le discordie de' cardinali, cresciute continuamente dopo la
morte di Lione, avesse molto a differirsi la elezione del pontefice
futuro, deliberò di attendere alla recuperazione di Modona e di
Reggio: alla qual cosa, oltre all'altre opportunità, lo invitava la
comodità di unire a sé Renzo da Ceri, che già avea congregati
dugento cavalli e piú di dumila fanti. Però il duca, soldati tremila
fanti e mandati a Renzo tremila ducati, si mosse verso Modena, nella
qual città non era altro presidio che il conte Guido Rangone colle
genti con le quali era stato condotto dalla lega; e benché nel
popolo fusse esoso il dominio della casa da Esti, nondimeno, essendo
le mura deboli e fabbricate senza fianchi al modo antico, ripiene le
fosse, né fattavi già molto tempo alcuna riparazione, pareva
bisognasse maggiore presidio. Però per il governatore e per il
conte, che deposte alcune dissensioni state tra loro procedevano
unitamente, si faceva estrema diligenza perché, secondo la
deliberazione fatta prima, entrassino in Modona i fanti spagnuoli; i
quali arrivati già in Toscana camminavano lentamente, facendo varie
e ambigue risposte circa al volere fermarsi in Modena o andare
innanzi: pure, con molti prieghi, furono contenti finalmente di
entrarvi. La qual cosa intesa dal duca di Ferrara, che con dugento
uomini d'arme quattrocento cavalli leggieri e tremila fanti era
venuto al Finale, lo ritenne quasi dal procedere piú oltre; pure,
non essendo la cosa intera, e sperando potergli almeno coll'unione
di Renzo da Ceri succedere [di] ottenere Reggio, non disperando
ancora, che per la difficoltà de' pagamenti avesse a nascere ne'
fanti degli inimici qualche disordine, deliberò di andare innanzi.
Né erano queste speranze concepute leggiermente, perché non facendo
il collegio de' cardinali, a cui il governatore avea con celerità
significato i pericoli imminenti, provedimento alcuno, anzi, non che
altro, non rispondendo a' messi e alle lettere ricevute, non vi era
facoltà di potere co' danari publici pagare i soldati; e per sorte
era venuto al dí che gli spagnuoli doveano ricevere lo stipendio del
secondo mese, e quando pure si pagassino tutti niuna vi era speranza
di soldarne maggiore numero; dividendo questi tra Modona e Reggio,
niuna delle due città rimaneva sicura; né erano in Reggio soldati, e
la disposizione del popolo diversa da quella de' modonesi. Nelle
quali difficoltà avendo il governatore e il conte Guido deliberato
di conservare Modena principalmente, come terra piú importante per
la vicinità di Bologna, piú congiunta collo stato della Chiesa e ove
piú facilmente potevano condursi i soccorsi e i provedimenti,
mandarono a Reggio cinquecento fanti sotto Vincenzio Maiato
bolognese, soldato del conte Guido; al quale commessono che non si
potendo difendere la terra si ritirasse nella cittadella: la quale
perché speravano che si difendesse almeno per qualche dí, mandò il
governatore danari a Giovambatista Smeraldo da Parma castellano,
perché chiamasse trecento fanti e pregò, benché invano, la comunità
di Reggio che, trattandosi non meno della sicurtà loro che dello
stato della Chiesa, prestassino alcuna quantità di danari per
soldarne altri fanti. Al pericolo di Modona non potendo per
mancamento di danari provedere altrimenti, il governatore, convocati
molti cittadini espose loro le cose essere ridotte in grado che, non
si pagando i fanti spagnuoli né avendo danari per provedere a molte
altre spese, era necessario lasciare cadere la terra nelle mani del
duca di Ferrara; la quale se vi fusse la provisione de' danari si
difenderebbe, né essere altro modo di provedervi se essi medesimi
non soccorrevano al bisogno presente, perché si rendeva certo che a
quello che occorresse per l'avvenire o il nuovo pontefice o il
collegio de' cardinali provederebbe. Non essere in quella
congregazione alcuno che non avesse provato il dominio del duca di
Ferrara e quello della Chiesa; però, quale de' due fusse piú amabile
o piú acerbo essere superfluo il dimostrarlo, con gli argomenti o
col discorso delle ragioni, a coloro a' quali l'aveva insegnato in
memoria. Pregargli solamente che non gli movesse quella piccola
quantità di danari che si dimandava loro in prestanza, perché
questo, e quanto allo interesse publico e quanto all'utilità de'
privati, era cosa di piccolissima considerazione a comparazione
dello interesse di avere uno signore che piú loro sodisfacesse. Le
quali parole ricevute volentieri negli animi di quegli che avevano
la medesima inclinazione, providdono, con distribuzione fatta, tra
loro medesimi il medesimo dí, a cinquemila ducati: co' quali avendo
pagati gli spagnuoli e fatto altri provedimenti, niuno timore aveano
dell'armi del duca di Ferrara.
Il quale, non presumendo delle forze proprie piú che si convenisse,
lasciata Modona a mano sinistra ed essendosi unito seco nel camino
Renzo da Ceri, si accostò a Reggio; la quale città subitamente
l'accettò, e il dí seguente il castellano, aspettati pochi colpi
d'artiglieria, gli dette la cittadella, allegando per sua
giustificazione che Vincenzio Maiato chiamato da lui aveva ricusato
di entrarvi, e che i danari mandatigli dal governatore gli erano
stati tolti appresso a Parma, ove avea mandato per soldare i fanti.
Dal duca, come prima ebbe ottenuto Reggio, si partí Renzo da Ceri,
chiamato dall'ammiraglio di Francia; onde rimasto con pochi fanti,
poi che per alcuni dí fu dimorato in sul fiume della Secchia, pose
il campo alla terra di Rubiera: alla custodia della quale era stato
diputato, dal conte Guido, il Vecchio da Coniano con dugento fanti.
Né avea il duca se non piccola speranza di ottenerla, perché il
castello è piccolo e molto munito per la larghezza e profondità
delle fosse, e perché alle mura che lo circondano si unisce per
tutto uno terrato grande; e nondimeno, avendo il dí seguente
cominciato a battere con l'artiglierie il muro contiguo alla porta,
il capitano de' fanti, o secretamente convenuto o spaventato, perché
già gli uomini del castello cominciavano a sollevarsi, gittatosi
dalle mura si appresentò innanzi al duca, ponendo in arbitrio suo la
terra e se stesso: il quale entrato subito nella terra, accostate
l'artiglierie alla rocca, spaventò in modo il castellano, che si
diceva Tito Tagliaferro da Parma, che, benché la rocca fusse forte e
sufficientemente proveduta d'uomini, d'artiglierie e di tutte le
cose necessarie, non aspettato pure un colpo d'artiglieria, la dette
innanzi alla notte. La quale ricevuta, il duca fermò l'esercito,
sperando che per la vacazione lunga della sedia s'avessino a
dissolvere i fanti che erano in Modona, e nutrendosi nel tempo
medesimo, come di sotto si dirà, di speranza d'altre cose.
Lib.15, cap.5
I francesi occupano Lodi; vani tentativi contro Cremona. Fatti di
guerra in Lombardia; fazioni sfavorevoli ai francesi. Accordi fra
Prospero Colonna ed il duca di Ferrara per la cessione di Modena
venuti a conoscenza del commissario Guicciardini. Monza ricuperata
dagli imperiali; disposizione delle forze avversarie. Vano tentativo
di tregua; ritirata dei francesi.
In questo mezzo, Bonivetto disperato di potere per forza prendere
Milano, alloggiato a San Cristoforo tralle porte Ticinese e Romana,
luogo circondato da acque e da fossi, occupata Moncia avea mandato
monsignore di Baiardo e con lui Federico da Bozzole con trecento
lancie e ottomila fanti a prendere Lodi; ove, con cinquecento
cavalli e cinquecento fanti della condotta che avea dalla Chiesa e
da' fiorentini, era venuto il marchese di Mantova: il quale temendo
di se medesimo si ritirò a Pontevico, e la città abbandonata
ricevette dentro i franzesi. Preso Lodi, Federigo, gittato il ponte
in su Adda, passò con le genti medesime nel cremonese per soccorrere
il castello; il quale stretto dalla fame, non sapendo quegli che vi
erano dentro che in Italia fusse passato l'esercito del re, si era,
in quegli medesimi dí che l'ammiraglio si appropinquò a Milano,
convenuto di arrendersi se per tutto il dí vigesimo sesto di
settembre non fussino soccorsi. Accostossi Federico al castello, e
poi che l'ebbe rinfrescato di vettovaglie e d'altri bisogni deliberò
di assaltare la terra, confidandosi nell'avervi Prospero Colonna
lasciato piccolo presidio: benché il marchese di Mantova v'avesse,
per questo timore, mandato cento uomini d'arme cento cavalli
leggieri e quattrocento fanti. Battuto che ebbe Federigo
coll'artiglierie le mura, dette la battaglia invano, e dipoi fatta
con l'artiglierie maggiore ruina dette un'altra battaglia ma col
successo medesimo; onde si ridusse a San Martino, aspettando Renzo
da Ceri che con dugento cavalli e duemila fanti veniva del reggiano:
il quale come fu venuto, ritornati alle mura le batterono per molte
ore con grande progresso, ma impediti da grandissime pioggie e
conoscendo potere difficilmente ottenere la vittoria non tentorno
piú oltre. Nel qual dí Mercurio, co' cavalli leggieri de viniziani,
le genti de' quali si univano a Pontevico, passato l'Oglio corse
insino a' loro alloggiamenti. Tentate queste cose invano, e avendo
nell'esercito strettezza di vettovaglie, e risolvendosi i fanti
condotti da Renzo perché non aveano ricevuti altri danari che quegli
che avea dati a Renzo il duca di Ferrara, partitisi da Cremona,
andorno a campo a Sonzino, ma con evento non dissimile.
Saccheggiorno dipoi la terra di Caravaggio, ove dimororno alcuni dí:
dalla quale dimora nasceva o scusa o impedimento al senato viniziano
di non mandare a Milano gli aiuti a' quali erano tenuti; perché
scusata la lentezza del raccorre le genti per la credenza stata
comune a' capitani di Cesare che, per la separazione loro dal re di
Francia, i franzesi quell'anno non passerebbono, affermava di
mandargli come prima quegli che erano nel cremonese avessino
ripassato il fiume dell'Adda.
In questo stato delle cose, diffidando ciascuna delle parti di porre
con celerità fine alla guerra, niuno tentava di mettere in pericolo
la somma delle cose. L'ammiraglio, non pensando all'espugnazione di
Milano, avea collocata la speranza o che gl'inimici s'avessino a
dissolvere per mancamento di danari o che fussino costretti, per
carestia di vettovaglie, abbandonare Milano; ove con tutto fusse
copia di frumento, nondimeno, in tanto popolosa città, la
moltitudine di coloro che se n'aveano a nutrire era quasi
innumerabile; e avendo egli levate l'acque e impediti i mulini, vi
era difficoltà grande di macinare. Per questa cagione richiamate le
genti dalla Ghiaradadda le fece fermare tra Moncia e Milano, acciò
che i milanesi, i quali erano privati delle vettovaglie che solevano
concorrere per le strade di Lodi e di Pavia, rimanessino privati
eziandio di quelle che solevano ricevere dal monte di Brianza. Ma
non bastavano queste cose a fare l'effetto desiderato dallo
ammiraglio. Da altra parte, per consiglio di Prospero Colonna, con
tutto che avesse oppresso il corpo da grave infermità né meno
affaticato l'animo, non potendo tollerare, per la cupidità di
conservarsi il primo luogo, la venuta del viceré di Napoli, si
faceva diligenza per interrompere le vettovaglie agli inimici, le
quali venivano dalla parte di là dal fiume del Tesino, perché la
fortezza del sito nel quale alloggiavano non lasciava speranza
alcuna di cacciargli con l'armi. Perciò procurò Prospero che in
Pavia entrasse il marchese di Mantova. Per la venuta del quale, i
franzesi temendo del ponte loro gittorno un altro ponte a Torligo,
distante da Pavia venticinque miglia. Sollecitava oltre a questo
Vitello, che con la compagnia delle genti d'arme che avea da'
fiorentini (i quali nel principio della guerra l'aveano mandato a
Genova) e con tremila fanti pagati da' genovesi avea occupato,
eccetto Alessandria, tutto il paese di là dal Po, passasse il fiume,
per turbare le vettovaglie che della Lomellina a' franzesi si
conducevano. Ma questo non consentí il doge di Genova, temendo alle
cose proprie per la propinquità dell'Arcivescovo Fregoso, il quale
era in Alessandria. E perché i viniziani, le genti de' quali aveano
passato l'Oglio, ricusavano per il pericolo di Bergamo passare Adda,
mentre che quella parte de' franzesi che era partita da Caravaggio
dimorava appresso a Moncia, Prospero ottenne che a Trezzo mandassino
quattrocento cavalli leggieri e cinquecento fanti per impedire le
vettovaglie con le quali si sostentavano.
Alle quali cose mentre che da ciascuna delle parti si attende non si
faceva altre azioni di guerra che battaglie leggiere, prede e
scorrerie; nelle quali quasi sempre rimanevano inferiori i franzesi,
e talvolta con danno memorabile. Conciossiacosaché essendo uscito,
per fare scorta alle vettovaglie che venivano a Milano da Trezzo,
Giovanni de' Medici con dugento uomini d'arme trecento cavalli
leggieri e mille fanti, incontratosi in ottanta lancie franzesi, la
maggiore parte della compagnia di Bernabò Visconte, e messosi a
seguitargli e poi astutamente ritirandosi, gli condusse in una
imboscata, fatta da sé, di cinquecento scoppiettieri, e rottigli con
poca difficoltà ne ammazzò o prese la maggiore parte. Similmente in
una altra battaglia Zucchero borgognone roppe sessanta uomini d'arme
della compagnia del grande scudiere. Assaltorno ancora piú volte i
fanti spagnuoli i fanti franzesi che erano a guardia delle trincee
che si facevano per andare coperti insino a' ripari, e ne ammazzorno
non piccolo numero; e nel tempo medesimo Paolo Luzzasco, che con
cento cinquanta cavalli leggieri era rimasto a Pizzichitone,
scorrendo per tutto il paese circostante, dava molestia gravissima a
quegli che erano in Cremona. Né succedevano allo ammiraglio piú
felicemente l'insidie che l'altre cose. Perché essendosi
occultamente convenuto con Morgante da Parma, uno de' capi di
squadra di Giovanni de' Medici, essendone solamente conscio
Gianniccolò de' Lanzi, uno de' suoi cavalli leggieri, e quattro
altri, che come prima gli toccasse la guardia del bastione di una
porta, il quale usciva fuora de' ripari, vi ricevesse dentro le sue
genti, accadde, la notte destinata, che Morgante, parendogli avere
bisogno a eseguire tal cosa di piú compagni, lo conferí con un altro
de' suoi; il quale, simulando di consentire a questa perfidia, lo
consigliò che andasse a comandare in nome di Prospero Colonna alle
sentinelle che sentendo cosa alcuna non si movessero, acciocché non
impedissino l'uomo il quale manderebbe a chiamare i soldati del
campo che doveano venire al bastione: perché l'ammiraglio avea la
notte medesima accostati da quella parte cinquemila fanti, perché
stessino preparati quando riceveano il segno del muoversi, e messo
in arme tutto l'esercito. Ma mentre che Morgante va a dare questo
ordine l'altro corse subitamente a rivelare la cosa a Giovanni de'
Medici; dal quale, andato al bastione, presi i consci ed esaminati,
furono secondo il costume della giustizia militare passati per le
picche. Ma già pareva che da ogni parte cominciassino a declinare le
cose de' franzesi: perché, per la fertilità del paese circostante a
Milano e per avere con mulini domestici sollevata la difficoltà del
macinato, diminuiva del continuo la speranza che in quella città
avessino a mancare le vettovaglie; e per gli spessi danni ricevuti
intorno a Milano si credeva che avessino perduti tra utili e inutili
mille cinquecento cavalli, onde spaventati non uscivano degli
alloggiamenti, se non per la necessità di fare la scorta alle
vettovaglie e a' saccomanni, e sempre molto grossi. La infamia della
quale viltà l'ammiraglio convertendo in gloria sua, usava dire che
non governava la guerra secondo l'impeto degli altri capitani
franzesi ma con la moderazione e maturità italiana: e nondimeno,
qualunque volta o cavalli o fanti di loro si riscontravano con gli
inimici, dimostravano prontezza molto maggiore a fuggire che a
resistere.
Assicurati adunque i capitani di Cesare dal timore dell'armi e della
fame, anzi sperando di mettere in difficoltà delle vettovaglie gli
inimici, niuna cosa piú gli tormentava che il mancamento de' danari;
senza i quali era malagevole nutrire i soldati in Milano ma quasi
impossibile menargli, quando cosí ricercassino l'occorrenze della
guerra, fuora. Alla quale difficoltà cercando di provedere per molte
vie, ma trall'altre Prospero, consentendogli occultamente il viceré
di Napoli e il duca di Sessa, avea, quasi subito dopo la morte del
pontefice, cominciato a trattare col duca di Ferrara: il quale,
ricusato molte offerte fattegli dall'ammiraglio perché, ottenuto che
ebbe Reggio, andasse all'espugnazione di Cremona, convenne
finalmente con Prospero che, ricuperando per opera sua Modona,
pagasse incontinente trentamila ducati e ventimila altri fra due
mesi. La cosa pareva facile a eseguire, perché comandando Prospero
al conte Guido Rangone soldato della lega e a' fanti spagnuoli che
si partissino di Modona niuno rimedio era che quella città
abbandonata non inclinasse subito il collo al duca: e movevano
Prospero con maggiore ardire a questa cosa, oltre alla causa
publica, le cupidità private l'amicizia con Alfonso da Esti il
desiderio comune a tutti i baroni romani di deprimere la grandezza
de' pontefici e la speranza che, alienata Modona e Reggio dalla
Chiesa, Parma e Piacenza piú agevolmente al duca di Milano
pervenissino. La qual cosa, mentre che secretissimamente si
trattava, pervenuta agli orecchi del conte Guido e da lui
manifestata al Guicciardino, conobbe non potersi in alcuno modo
interrompere se non si persuadeva a' capitani spagnuoli (i quali
bene trattati e largamente pagati stavano volentieri in quella
città) che, allegando non essere sottoposti all'autorità di Prospero
Colonna insino a tanto non fussino pervenuti allo esercito,
recusassino di partirsi da Modona se non per comandamento del duca
di Sessa, per il cui comandamento entrati vi erano; con saputa del
quale benché il governatore tenesse per certo trattarsi questa cosa,
si persuadeva che, essendo oratore di Cesare a Roma e reclamando il
collegio, non solamente si vergognerebbe a dare tale commissione ma
non potrebbe negare, alla richiesta de' cardinali, di comandare
apertamente il contrario. E succedette la cosa appunto secondo il
disegno. Perché, quando Prospero mandò a comandare al conte Guido e
agli spagnuoli che andassino per le necessità della guerra a Milano,
il conte si scusò con molte ragioni allegando essere suddito della
Chiesa e modonese, e i capitani spagnuoli, persuasi da lui e dal
governatore, risposono a niuno altro che al duca di Sessa dovere in
tal cosa ubbidire: le quali cose significate dal governatore al
collegio de' cardinali, chiamato subito al conclave il duca di
Sessa, egli, non volendo rendere sospetto sé e per conseguente
Cesare, non potette negare di non comandare per sue lettere a quegli
capitani che non partissino. Anzi, come spesso succedono le cose
contrarie a' pensieri degli uomini, ne succedette che, leggendosi
nel collegio certe lettere di Prospero intercette dal governatore,
per le quali si palesava tutto il progresso della cosa, i cardinali
aderenti al re di Francia, per l'opposizione de' quali si
difficultavano prima le provisioni de' danari che per opera del
cardinale de' Medici si erano cominciati a mandare a Modona,
conoscendo essere pernicioso al re che tal cosa avesse effetto,
diventorno apertamente fautori che a Modona si mandassino danari; e
il simigliante fece il cardinale Colonna, per dimostrare agli altri
di anteporre a ogn'altro rispetto l'utilità della sedia apostolica.
La quale diligenza benché fusse bastata a differire l'esecuzione
delle convenzioni fatte con Alfonso da Esti, nondimeno, non essendo
perciò rimosso il fondamento di questi pensieri, avevano in animo
che il viceré di Napoli, il quale benché camminando lentamente
veniva a Milano con quattrocento lancie e duemila fanti, quando
passava da Modena ne levasse i fanti spagnuoli.
Ma a Milano, in questi tempi medesimi, augumentò la copia delle
vettovaglie: perché, temendo l'ammiraglio che da' soldati che erano
in Pavia non fusse occupato il ponte fatto da lui in sul Tesino, per
il quale venivano all'esercito le cose necessarie, rimosse
l'esercito minore da Moncia per mandare alla custodia del ponte
tremila fanti; degli altri una parte chiamò a sé, gli altri
distribuí parte in Marignano parte a Biagrassa vicina al ponte; onde
agli imperiali, ricuperata Moncia, perveniva piú copiosamente la
facoltà del cibarsi. Erano in questo tempo nell'esercito franzese
(l'alloggiamento fortissimo del quale si distendeva dalla badia di
Chiaravalle insino alla strada di Pavia, accostandosi da quella
strada a Milano per minore spazio di un tiro di artiglieria)
ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri duemila fanti italiani
diecimila tra guasconi e franzesi; aveano al ponte del Tesino mille
fanti tedeschi mille italiani, il medesimo numero a Biagrassa, ove
era Renzo da Ceri; in Noara dugento lancie, tra in Alessandria e in
Lodi duemila fanti: in Milano erano ottocento lancie ottocento
cavalli leggieri cinquemila fanti spagnuoli seimila fanti tedeschi e
quattromila italiani, oltre alla moltitudine del popolo ardentissima
con l'animo e con le opere contro a' franzesi; in Pavia il marchese
di Mantova, con cinquecento lancie seicento cavalli leggieri dumila
fanti spagnuoli e tremila italiani; a Castelnuovo di Tortonese erano
con Vitello tremila fanti, benché poco dipoi, essendo passate alcune
genti franzesi verso Alessandria, si ritirò a Serravalle per timore
che non gli fusse impedita la facoltà del ritornarsi a Genova; e i
viniziani avevano seicento uomini d'arme cinquecento cavalli
leggieri e cinquemila fanti, de' quali mandorno mille fanti a
Milano, a richiesta di Prospero desideroso di servirsi della fama
de' loro aiuti, e poco dipoi un'altra parte a Cremona, per il
sospetto di un trattato tenuto da Niccolò Varolo, il quale, per
timore di non essere incarcerato, fuggí di quella città.
Finalmente l'ammiraglio, costretto dalla difficoltà delle
vettovaglie, da' tempi freddissimi e nevi grandissime, e dalla
instanza e protesti che gli facevano i svizzeri perché non voleano
tollerare piú tante incomodità, deliberò discostarsi da Milano: ma
innanzi publicasse il suo consiglio procurò che Galeazzo Visconte
dimandasse facoltà di andare a vedere madonna Chiara, famosa per la
forma egregia del corpo ma molto piú per il sommo amore che gli
portava Prospero Colonna. Entrato in Milano introdusse ragionamenti
di tregua, per i quali convennono insieme, il dí seguente, allato a'
ripari, Alarcone, Paolo Vettori commissario fiorentino e Ieronimo
Morone, e per l'ammiraglio Galeazzo Visconte e il generale di
Normandia; i quali proposono che si sospendessino l'armi per tutto
maggio, obligandosi a distribuire l'esercito per le terre: e
arebbono alla fine consentito di ridursi tutti di là dal Tesino, ma
dannando i capitani di Cesare l'interrompere colla tregua la
speranza che aveano della vittoria risposono non potere deliberare
cosa alcuna senza la volontà del viceré. Onde l'ammiraglio, due dí
poi, mosse innanzi all'aurora verso la riva del Tesino
l'artiglierie, seguitò, come fu chiaro il giorno, con tutto
l'esercito, procedendo con tale ordine che pareva non recusasse di
combattere. La qual cosa come fu veduta nella città, non solo i
soldati e il popolo chiedevano con altissime voci di essere menati
ad assaltargli ma i capitani e gli uomini di maggiore autorità
faceano appresso a Prospero Colonna instanza del medesimo,
dimostrandogli la facilità della vittoria, perché né di forze si
riputavano inferiori agli inimici e di animo sarebbono molto
superiori; non potendo essere che la ritirata non avesse messo
timidità grande nella maggiore parte di quello esercito, della quale
molti fanti italiani, che all'ora medesima si partivano, riferivano
il medesimo. Ricordavangli la gloria infinita, la perpetuazione
eterna del nome suo, se tante vittorie già acquistate confermasse
con questa ultima gloria e trionfo. Ma nell'animo di Prospero era
sempre fisso di fuggire quanto poteva di sottomettersi all'arbitrio
della fortuna; e perciò, immobile nella sua sentenza non altrimenti
che uno edificio solidissimo al soffiare de' venti, rispondeva non
essere ufficio di savio capitano lasciarsi muovere dalle voci
popolari, non menare i soldati suoi ad assaltare gli inimici quando
niuna altra speranza restava loro che difendersi. Assai essersi
vinto, assai gloria acquistata, avendo senza pericolo e senza sangue
costretto gli inimici a partirsi; né dovere essere infinita la
cupidità degli uomini, e potere ciascuno facilmente conoscere che
senza comparazione maggiore sarebbe la perdita se le cose
succedessino sinistramente che il guadagno se le succedessino
prosperamente. Avere sempre con queste arti condotte a onorato fine
le cose sue, sempre per esperienza conosciuto piú nuocere a'
capitani la infamia della temerità che giovargli la gloria della
vittoria: perché in parte di quella non veniva alcuno, tutta e
intera s'attribuiva al capitano; ma la laude de' successi prosperi
della guerra, almeno secondo la opinione degli uomini, comunicarsi a
molti. Non volere, quando era già vicino alla morte, andare dietro a
nuovi consigli, né abbandonare quegli i quali, seguitati da lui per
tutta la vita passata, gli aveano dato gloria utilità e grandezza.
Divisonsi i franzesi in due parti: l'ammiraglio con la parte
maggiore si fermò a Biagrassa, terra distante da Milano quattordici
miglia, gli altri mandò a Rosa distante da Milano sette miglia e,
intra se medesime, miglia...
Lib.15, cap.6
Il conclave e l'elezione di Clemente VII. Aspettazione dell'opera
del nuovo pontefice. Vano tentativo di Renzo da Ceri contro la rocca
di Arona. Morte di Prospero Colonna; giudizio dell'autore.
Variazioni nel modo di condurre le guerre dopo Carlo VIII.
Fallimento dell'impresa di Cesare contro la Francia.
Ma pochissimi dí poi che l'ammiraglio si era levato di quello
alloggiamento, nel quale era stato circa..., succedette la creazione
del nuovo pontefice, essendo già stati nel conclave cinquanta dí:
nel quale entrati da principio trentasei cardinali e sopravenuti poi
tre cardinali, consumorno tanto tempo con varie contenzioni;
dividendo gli animi loro non solamente le volontà diverse di Cesare
e del re di Francia ma eziandio la grandezza del cardinale de'
Medici. Il quale, oppugnato da tutti quegli che seguitavano
l'autorità del re, da alcuni di coloro ancora che dipendevano da
Cesare, aveva in arbitrio suo le voci concordi di sedici cardinali,
disposti assolutamente a eleggere lui e a non eleggere alcuno altro
senza il suo consentimento, e promesse occulte da cinque altri di
dare il voto alla elezione che si facesse di lui proprio; e lo
favorivano oltre a questo lo imbasciadore di Cesare e tutti gli
altri che l'autorità d'esso seguitavano: i quali fondamenti benché
avesse avuti quasi tutti alla morte del pontefice Lione, nondimeno,
era ora entrato nel conclave con la deliberazione piú costante di
non abbandonare, né per lunghezza di tempo né per qualunque
accidente, le sue speranze, fondate principalmente perché alla
elezione del pontefice è necessario concorrino i due terzi delle
voci de' cardinali presenti. Né gli ritraeva da queste divisioni o
il pericolo comune d'Italia o proprio dello stato della Chiesa;
anzi, secondo che variavano i progressi della guerra, andava
ciascuna delle parti differendo la elezione, sperando favore dalla
vittoria di quegli che gli erano propizi; e si sarebbe differita
molto piú tempo se ne' cardinali avversi al cardinale de' Medici, i
quali erano quasi tutti dei piú vecchi del collegio, fusse stata la
medesima unione a eleggere qualunque di loro che era in non eleggere
lui, e deposte le cupidità particolari si fussino contentati di
questo fine, che il cardinale de' Medici non ascendesse al
pontificato. Ma è molto difficile che mediante la concordia nella
quale è mescolata discordia e ambizione si pervenga al fine che
comunemente si cerca. Il cardinale Colonna, inimico acerbissimo del
cardinale de' Medici, ma per natura impetuoso e superbissimo,
sdegnato co' cardinali congiunti seco perché recusavano di eleggere
pontefice il cardinale Iacobaccio romano, uomo della medesima
fazione e molto dependente da lui, andò spontaneamente a offerire al
cardinale de' Medici di aiutarlo al pontificato: il quale, per una
cedola di mano propria, secretissimamente gli promesse l'officio
della vicecancelleria che risedeva in persona sua, e il palazzo
suntuosissimo il quale, edificato già dal cardinale di San Giorgio,
era stato conceduto a lui dal pontefice Lione: donde acceso tanto
piú il cardinale della Colonna indusse nella sentenza sua il
cardinale Cornaro e due altri. La inclinazione de' quali come fu
nota cominciorono molti degli altri, tirati, come spesso interviene
ne' conclavi, da viltà o ambizione, a fare a gara di non essere
degli ultimi a favorirlo; in modo che la notte medesima fu adorato
per pontefice, di concordia comune di tutti, e la mattina seguente,
che fu il giorno decimonono di novembre, fatta secondo la
consuetudine la elezione per solenne scrutinio; il dí medesimo
precisamente che due anni innanzi era vittorioso entrato in Milano.
Credettesi che trall'altre cagioni gli avesse giovato l'entrata
grande di benefici e uffici ecclesiastici, perché i cardinali quando
entrorno nel conclave feciono concordemente una costituzione che
l'entrate di quel che fusse eletto pontefice si distribuissino con
eguale divisione negli altri. Voleva continuare nel nome di Giulio;
ma ammonito da alcuni cardinali essersi osservato che quegli che,
eletti pontefici, non aveano mutato il nome avevano tutti finita la
vita loro infra uno anno, assunse il nome di Clemente settimo, o per
essere vicina la festività di quel santo o perché alludesse allo
avere, subito che fu eletto, perdonato e ricevuto in grazia il
cardinale di Volterra con tutti i suoi: il quale cardinale benché
Adriano avesse, negli ultimi dí della vita, dichiarato inabile a
intervenire nel conclave, vi era entrato per concessione del
collegio, e stato insino all'estremo pertinace perché Giulio non
fusse eletto.
Grandissima certamente per tutto il mondo era l'estimazione del
nuovo pontefice; però la tardità della elezione, maggiore che già
fusse accaduto lunghissimo tempo, pareva ricompensata con l'avere
posto in quella sedia una persona di somma autorità e valore; perché
aveva congiunta ad arbitrio suo la potenza dello stato di Firenze
alla potenza grandissima della Chiesa, perché aveva tanti anni a
tempo di Lione governato quasi tutto il pontificato, perché era
riputato persona grave e costante nelle sue deliberazioni, e perché,
essendo state attribuite a lui molte cose che erano procedute da
Lione, ciascuno affermava esso essere uomo pieno di ambizione, di
animo grande e inquieto e desiderosissimo di cose nuove; alle quali
parti aggiugnendosi lo essere alieno dai piaceri e assiduo alle
faccende, non era alcuno che non aspettasse da lui fatti
estraordinari e grandissimi. La elezione sua ridusse subito in somma
sicurtà lo stato della Chiesa. Perché il duca di Ferrara, spaventato
che in quella sedia fusse asceso un tale pontefice, né sperando piú
di ottenere Modena per la venuta del viceré di Napoli, meno sperando
ne' franzesi, i quali prima per mezzo di Teodoro da Triulzi venuto
nel campo suo gli facevano, perché aderisse a loro, grandissime
offerte, lasciata sufficiente custodia in Reggio e in Rubiera,
ritornò a Ferrara. Quietoronsi similmente le cose della Romagna;
ove, sotto nome di opprimere la fazione inimica ma in verità
stimolato da' franzesi, era col seguito de' guelfi entrato Giovanni
da Sassatello, scacciatone nel pontificato di Adriano per la potenza
de' ghibellini.
Ma diviso che fu l'esercito franzese tra Biagrassa e Rosa,
l'ammiraglio, appresso al quale non erano rimasti piú che
quattromila svizzeri, licenziò come inutili i fanti del Delfinato e
di Linguadoca e mandò l'artiglierie grosse di là dal Tesino, con
intenzione di aspettare in quello alloggiamento le genti che il re
preparava per soccorrerlo, perché non temeva potervi essere sforzato
e vi aveva abbondanza di vettovaglie: e nondimeno, per non perdere
del tutto il tempo, mandò Renzo da Ceri con settemila fanti italiani
a pigliare Arona, terra fortissima ne' confini del Lago Maggiore,
posseduta da Anchise Visconte; in soccorso del quale Prospero
Colonna mandò da Milano mille dugento fanti. La rocca di Arona
soprafà tanto la terra che è inutile il possedere questa a chi non
possiede quella: però Renzo attendeva a battere la rocca, e avendovi
dati piú assalti ove furno morti molti de' suoi, finalmente, poiché
invano v'ebbe consumato circa a un mese, si partí; confermata
l'opinione, che già molti anni era ampliata per tutta Italia, che
piú, in niuna parte, le azioni sue corrispondessino alla fama
acquistata nella difesa di Crema.
Camminava in questo tempo alla morte Prospero Colonna, stato già
ammalato otto mesi, non senza sospetto di veleno o di medicamento
amatorio: però, dove prima gli era molestissima la venuta del
viceré, non potendo poi piú reggere le cure della guerra, l'aveva
continuamente sollecitata. Venne adunque il viceré; ma accostatosi a
Milano, per mostrare reverenza alla virtú e fama di tale capitano,
soprastette qualche dí a entrarvi: pure, intendendo essere ridotto
allo estremo e già alienato dello intelletto, entrò, per desiderio
di vederlo, in tempo che sopravisse poche ore poi; benché altri
dichino che ritardò a entrarvi dopo la morte, che succedette il
penultimo dí di quello anno. Capitano certamente, in tutta la sua
età, di chiaro nome, ma salito negli ultimi anni della vita in
grandissima riputazione e autorità; perito dell'arte militare e in
quella di grandissima esperienza; ma non pronto a pigliare con
celerità l'occasioni che gli potessino porgere i disordini o la
debolezza degli inimici, come anche per il suo procedere cautamente
non lasciava facile a loro l'occasione di opprimere lui; lentissimo
per natura nelle sue azioni e a cui tu dia meritamente il titolo di
cuntatore: ma se gli debbe la laude d'avere amministrato le guerre
piú co' consigli che con la spada, e insegnato a difendere gli stati
senza esporsi, se non per necessità, alla fortuna de' fatti d'arme.
Perché all'età nostra ha avute molte varietà il governo della
guerra: conciossiaché, innanzi che Carlo re di Francia passasse in
Italia, sostenendosi la guerra molto piú co' cavalli di armadura
grave che co' fanti, ed essendo le macchine che si usavano contro
alle terre incomodissime a condurre e a maneggiare, se bene tra gli
eserciti si commettevano spesso le battaglie, piccolissime erano le
uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva, e le terre
assaltate tanto facilmente si difendevano (non per la perizia della
difesa ma per la imperizia dell'offesa) che non era alcuna terra
cosí piccola o cosí debole che non sostenesse per molti dí gli
eserciti grandi degli inimici: di maniera che con grandissima
difficoltà si occupavano con l'armi gli stati posseduti da altri. Ma
sopravenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la
ferocia de' fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra
tutto il furore delle artiglierie, empié di tanto spavento tutta
Italia che a chi non era potente a resistere alla campagna niuna
speranza di difendersi rimaneva; perché gli uomini, imperiti a
difendere le terre, subito che s'approssimavano gli inimici
s'arrendevano, e se alcuna pure si metteva a resistere era in
brevissimi dí spugnata. Cosí il reame di Napoli e il ducato di
Milano furno quasi in un dí medesimo vinti e assaltati; cosí i
viniziani, vinti in una battaglia sola, abbandonorno subitamente
tutto lo imperio che aveano in terra ferma; cosí i franzesi, non
veduti non che altro gli inimici, lasciorno il ducato di Milano.
Cominciorno poi gli ingegni degli uomini, spaventati dalla ferocia
delle offese, ad aguzzarsi a' modi delle difese, rendendo le terre
munite con argini con fossi con fianchi con ripari con bastioni;
onde, aiutando anche molto questo effetto la moltitudine delle
artiglierie, nocive piú nelle difensioni che nelle oppugnazioni,
sono ridotte a grandissima sicurtà, le terre che sono difese, di non
potere essere spugnate. A queste invenzioni dette, a tempo de' padri
nostri, forse in Italia principio la recuperazione di Otranto; dove
Alfonso duca di Calavria entrato trovò, fatti da' turchi, molti
ripari incogniti agli italiani; ma rimasono piú nella memoria degli
uomini che nell'esempio. Prospero con queste arti difese due volte
piú chiaramente il ducato di Milano, esso medesimo, o solo o primo
di alcuno altro, e offendendo e difendendo, coll'impedire agli
inimici le vettovaglie, con l'allungare la guerra, tanto che 'l
tedio la lunghezza la povertà i disordini gli consumavano; e vinse e
difese senza tentare giornate, senza combattere, non traendo non che
altro fuori la spada, non rompendo una sola lancia: onde aperta la
via da lui a quegli che seguitorno, molte guerre, continuate molti
mesi, si sono vinte piú con la industria con l'arti con la elezione
provida de' vantaggi, che con l'armi.
Queste cose si feciono in Italia l'anno mille cinquecento ventitré.
Preparoronsi per l'anno medesimo con grande espettazione molte cose
di là da' monti, le quali non partorirno effetti degni di tanti
príncipi. Perché Cesare e il re di Inghilterra aveano convenuto
insieme e promesso al duca di Borbone di rompere con armi potenti la
guerra, l'uno in Piccardia l'altro nella Ghienna; ma i movimenti del
re di Inghilterra furno nella Piccardia quasi di niuno momento, e
quel che tentò il duca di Borbone nella Borgogna si dimostrò subito
vano, perché, mancandogli i danari per pagare i fanti tedeschi,
alcuni de' capitani convenuti col re di Francia ne ritrassero una
parte, onde egli andò a Milano: ove Cesare, non gli piacendo che
passasse in Ispagna forse per non dare perfezione al matrimonio,
come era il suo desiderio, mandatogli per Beuren il titolo di
luogotenente suo generale in Italia, lo confortò che si fermasse. Né
dalla parte di Spagna procederono a Cesare le cose felicemente. Il
quale, benché ardente alla guerra fusse venuto a Pampalona per
entrare in Francia personalmente, e di già avesse mandato l'esercito
di là da' monti Pirenei, il quale avea occupato Salvatierra non
molto distante da San Gianni di Piè di Porto, nondimeno, essendo
stata maggiore la prontezza che non era la potenza (perché, per
mancamento di danari, né poteva sostentare tante forze quanto
sarebbe stato necessario a tanta impresa né aveva, per la medesima
cagione, potuto raccorre l'esercito se non quasi alla fine
dell'anno, donde ne' luoghi freddi la stagione dell'anno gli
moltiplicava le difficoltà, impedivano la strettezza delle
vettovaglie difficili a condursi per tanto cammino), fu costretto a
dissolvere l'esercito, ragunato contro al consiglio quasi di tutti:
tanto che Federigo di Tolleto duca di Alva, principe vecchio e di
autorità, diceva, nel fervore della guerra, Cesare, in molte cose
simile al re Ferdinando avolo materno, rappresentare piú in questa
deliberazione Massimiliano avolo paterno.
Lib.15, cap.7
Accordi fra i collegati per condurre a fine la guerra. Contegno del
pontefice. Fortunate azioni del marchese di Pescara e di Giovanni
de' Medici. Movimenti degli eserciti avversari. Azione dei veneziani
a Garlasco e di Giovanni d'Urbino a Sartirana. Altri fatti di guerra
nel ducato di Milano.
Séguita l'anno mille cinquecento ventiquattro; nel principio del
quale, invitando le difficoltà de' franzesi i capitani cesarei a
pensare di porre fine alla guerra, chiamorno a Milano il duca di
Urbino e Pietro da Pesero proveditore viniziano, per consultare come
s'avesse a procedere nella guerra: nel quale consiglio fu unitamente
deliberato che, subito a Milano giugnessino seimila fanti tedeschi,
i quali il viceré aveva mandato a soldare, l'esercito cesareo e de'
viniziani unito insieme si avvicinasse agli inimici per cacciargli,
o coll'armi o colla fame, di quello stato. Alla qualcosa, giudicando
avere forze sufficienti, niente altro repugnava che la difficoltà
de' danari; de' quali dovendosi, per gli stipendi corsi, quantità
grande a' soldati, non si sperava potergli fare muovere di Milano e
dell'altre terre se prima non si pagavano; né manco era necessario,
avendo a stare l'esercito alla campagna, provedere che per
l'avvenire corressino ordinatamente di tempo in tempo i pagamenti.
Sollevorono questa difficoltà in parte i milanesi, desiderosi di
liberarsi dalle molestie della guerra, i quali prestorno al duca
[novanta]mila ducati: disponendogli a questo piú facilmente
l'esempio de' danari prestati quando Lautrech stette intorno a
Milano, [i quali] erano stati dipoi, dell'entrate ducali, restituiti
prontamente. Porse similmente a questa difficoltà la mano il
pontefice; il quale, avendo sospettissima per la memoria delle cose
passate la vittoria del re di Francia (benché con sommo artificio
agli uomini che il re gli avea mandati dimostrasse il contrario),
numerò occultissimamente all'oratore di Cesare ventimila ducati, e
volle che i fiorentini, a' quali il viceré dimandava, per virtú
della confederazione fatta vivente Adriano, nuova contribuzione,
pagassino come per ultimo residuo trentamila ducati.
Né aveva perciò il pontefice nell'animo di dimostrarsi per
l'avvenire piú favorevole all'una parte che all'altra; anzi, con
tutto che Cesare e il re, mandatogli, subito che e' fu assunto al
pontificato, l'uno Beuren l'altro San Marsau, si sforzassino
congiugnerlo a sé, deliberava, rimossi che fussino i pericoli
presenti, usando quella moderazione che nelle discordie de'
cristiani conviene a' pontefici, attendere come non inclinato piú
all'uno che all'altro a procurare la pace: la quale deliberazione,
grata al re, che aveva temuto che pontefice non avesse contro a lui
la medesima disposizione che aveva avuto cardinale, dispiaceva per
il contrario a Cesare, parendogli che, per la passata congiunzione,
per l'averlo favorito dopo la morte di Lione e nella assunzione al
pontificato, fusse conveniente che non si separasse da lui. Però gli
fu molestissimo quel che gli fu significato per parte del pontefice,
che, benché non spogliasse l'animo della benivolenza portatagli
insino a quel dí, nondimeno, che avendo deposta la persona privata e
diventato padre comune, era necessitato in futuro a non fare offici
se non comuni.
Ma mentre che il viceré si prepara per andare contro agli inimici
mandò Giovanni de' Medici a campo a Marignano, la quale terra
insieme con la fortezza si arrendé; e non molti dí poi il marchese
di Pescara, il quale, disposto a non militare sotto Prospero
Colonna, non prima che nell'estremità della sua vita era venuto alla
guerra, avendo notizia che nella terra di Robecco alloggiavano con
monsignore di Baiardo quattrocento cavalli leggieri e molti fanti,
chiamato in compagnia Giovanni de' Medici, assaltatigli
improvisamente, presa la maggiore parte degli uomini e de' cavalli,
e dissipati e messi in fuga gli altri, ritornò subito a Milano, per
non dare tempo agli inimici, che erano a Biagrassa, di seguitarlo:
lodato in questo fatto di industria e di ardore ma molto piú di
celerità, perché Robecco, distante non piú che due miglia da
Biagrassa, è distante da Milano, donde erano partiti, diciassette
miglia.
Ridotte a questo grado le cose della guerra, che la speranza de'
franzesi consisteva che agli inimici avessino a mancare danari,
quella degli imperiali che a' franzesi avessino a mancare le
vettovaglie, perché non speravano potergli cacciare per forza dello
alloggiamento fortissimo di Biagrassa, e nondimeno aspettando
ciascuno soccorso, questi de' fanti tedeschi quegli de' svizzeri e
altri fanti, l'ammiraglio, fatto abbruciare Rosa, ritirò quelle
genti a Biagrassa, attendendo per incomodare gli inimici a fare
correre e abbruciare tutto il paese. Ma venuti finalmente i fanti
tedeschi, l'esercito imperiale, nel quale erano principali il duca
di Milano il duca di Borbone il viceré di Napoli il marchese di
Pescara, con mille secento uomini d'arme mille cinquecento cavalli
leggieri settemila fanti spagnuoli dodicimila tedeschi e mille
cinquecento italiani, lasciati alla guardia di Milano quattromila
fanti, andò ad alloggiare a Binasco; ove, non molti dí poi, si uní
con loro il duca di Urbino con secento uomini d'arme secento cavalli
leggieri e seimila fanti de' viniziani. Nel quale tempo il castello
di Cremona, non potendo piú resistere alla fame e avendo Federigo da
Bozzole, che era in Lodi, tentato invano di soccorrerlo, s'arrendé
agli imperiali. Andò dipoi l'esercito a Casera, terra propinqua a
cinque miglia a Biagrassa; dove l'ammiraglio, il quale aveva
distribuito tra Lodi, Novara e Alessandria dugento lancie e
cinquemila fanti, stava fermo, con ottocento lancie, ottomila
svizzeri (a' quali pochi dí poi se ne aggiunsono piú di tremila
altri) e con quattromila fanti italiani e dumila tedeschi; né ancora
esausto di vettovaglie, perché n'avevano nell'esercito e ne' luoghi
vicini copia per due mesi. Impossibile era l'assaltargli, senza
grandissimo pericolo, in alloggiamento tanto forte. Però gli
imperiali, avendo piú volte tentato di passare il Tesino, per
interrompere che da quella parte non passassino vettovaglie, per
insignorirsi delle terre tenevano di là dal Tesino e per impedire
che venendo soccorso di Francia non si unisse con loro, ma
soprastando per timore che Milano non restasse in pericolo,
finalmente deliberorno di passare, giudicando che per la confidenza
che avevano nel popolo milanese non fusse necessario molto presidio
di soldati. Però ritornò il duca a Milano e con lui Giovanni de'
Medici, e vi restorno seimila fanti. Cosí passorno, il secondo dí di
marzo, il fiume del Tesino sotto Pavia, in su tre ponti: alloggiò la
battaglia a Gambalò, il resto dello esercito nelle ville vicine. Per
la passata de' quali, l'ammiraglio mandò subito Renzo da Ceri alla
guardia di Vigevano; e temendo di non perdere quella terra e gli
altri luoghi di Lomellina, i quali perduti sarebbe restato quasi
assediato, passò egli, a' cinque dí, con tutto lo esercito, lasciati
a Biagrassa cento cavalli e mille fanti, e alloggiò la vanguardia
sua intorno a Vigevano, la battaglia a Mortara a due miglia di
Gambalò, dove era il viceré; nel quale alloggiamento, molto sicuro,
aveva comode le vettovaglie, perché avevano sicura la strada di
Monferrato, Vercelli e Novara, e le vettovaglie venivano di terra in
terra, tutte vicine l'una a l'altra e quasi per condotto. Presentò
l'ammiraglio, due dí continui, la battaglia agli inimici; i quali,
benché si conoscessino superiori di numero e di virtú di soldati,
recusorno di farla, non volendo mettere in pericolo la speranza del
vincere quasi certa, perché per lettere intercette aveano presentito
che a essi cominciavano a mancare danari.
Passato che ebbe l'esercito imperiale il Tesino, il duca di Urbino
con le genti viniziane andò a campo a Garlasco, terra forte di sito,
fossi e ripari, dove erano quattrocento fanti italiani; il quale,
posto tra Pavia e Trumello di là dal Tesino, dove egli aveva
disegnato di alloggiare, interrompeva non solo a lui ma a tutto il
resto dello esercito le vettovaglie: e fatta la batteria gli dette
il dí medesimo l'assalto, nel quale essendo quasi ributtato, molti
de' suoi passorono per l'acqua de' fossi insino alla gola, essendovi
ancora alcuni de' fanti di Giovanni de' Medici; e assaltorono con
tale impeto che vi entrorono per forza, con grandissima uccisione di
quegli di dentro. Accostossi dipoi l'esercito a San Giorgio verso la
Pieve al Cairo, per accostarsi a Sartirano, terra forte situata in
sulla riva di qua dal Po, e opportuna a impedire loro le
vettovaglie; alla custodia della quale erano Ugo de' Peppoli e
Giovanni da Birago con alcuni cavalli e con [secento] fanti. Ma
andatovi Giovanni d'Urbina, coll'artiglierie e con dumila fanti
spagnuoli, espugnò prima la terra e poi la rocchetta, uccisi quasi
tutti i fanti e presi i capitani. Mossonsi i franzesi per soccorrere
Sartirano, ma prevenuti dalla celerità degli inimici, inteso nel
cammino quel che era succeduto, fermorno tutto l'esercito a Mortara.
Né ancora nell'altre parti del ducato di Milano procedevano
felicemente le cose loro. I soldati lasciati in Milano costrinsono
ad arrendersi la terra di San Giorgio sopra Moncia, dalla quale
andavano vettovaglie a Biagrassa; Vitello ricuperò la terra della
Stradella, gli uomini della quale costretti dalla iniquità de'
soldati aveano chiamato fanti da Lodi; Paolo Luzzasco scontratosi in
molti cavalli de' franzesi gli messe in fuga; e Federico da Bozzole
andato da Lodi ad assaltare Pizzichitone ne riportò, in cambio della
vittoria, ferite e morti di molti de' suoi. Solamente, alcuni
cavalli de' franzesi, scorrendo tra Piacenza e Tortona, tolsono
quattordicimila ducati mandati allo esercito di Cesare.
Lib.15, cap.8
I grigioni assoldati dai francesi giunti a Cravina ritornano in
patria. I francesi perdono Biagrassa; la peste a Milano. Bonnivet a
Novara, quindi a Romagnano, ed al di là della Sesia inseguito dai
nemici; assalti e scaramuccie; ferita e morte di Baiardo. Ritorno di
Bonnivet in Francia. L'Italia liberata pel momento dalle molestie
della guerra, ma non dal sospetto che si rinnovino.
In queste difficoltà due erano le speranze dell'ammiraglio, l'una
della diversione l'altra del soccorso; perché il re mandava per la
montagna di Monginevra quattrocento lancie alle quali doveano unirsi
diecimila svizzeri, e Renzo da Ceri conduceva per la via di Val di
Sasina nel territorio di Bergamo cinquemila fanti grigioni, onde
doveano passare a Lodi a congiugnersi con Federico da Bozzole col
quale erano molti fanti italiani: persuadendosi l'ammiraglio che
l'esercito di Cesare sarebbe costretto a ripassare, per la sicurtà
di Milano, il fiume del Tesino. Incontro a questi mandò il duca di
Milano Giovanni de' Medici con cinquanta uomini d'arme trecento
cavalli leggieri e tremila fanti; il quale, unitosi con trecento
uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila fanti de'
viniziani, si accostò agli inimici venuti alla villa di Cravina, tra
i fiumi dell'Adda e del Brembo, e lontana otto miglia da Bergamo; e
corse con una parte delle genti insino a' loro alloggiamenti: i
quali, il terzo dí dappoi, querelandosi non avere trovato a Cravina
né danari né cavalli né altri fanti, come dicevano essere stato
promesso da Renzo, ritornorno al paese loro. Risoluto il movimento
de' grigioni, Giovanni de' Medici spugnò Caravaggio, e di poi
passato Adda messe con l'artiglierie in fondo il ponte che i
franzesi aveano a Bufaloro in sul Tesino. Rimaneva ancora in potestà
de' franzesi, tra Milano e il Tesino, la terra di Biagrassa, ove
erano molte vettovaglie e a guardia mille fanti sotto Ieronimo
Caracciolo napoletano. Alla spugnazione della quale, perché posta in
sul canale grande impediva le vettovaglie che molte [si] sogliono
per quello canale condurre a Milano, si mosse Francesco Sforza,
chiamato a sé Giovanni de' Medici; e seguitandolo oltre a' soldati
tutta la gioventú del popolo milanese. Dettono l'assalto alla terra,
avendola prima battuta con l'artiglierie da' primi raggi del sole
insino a mezzo il giorno, e l'espugnarono il dí medesimo; con
singolare laude di Giovanni de' Medici, nel quale apparí quel dí non
solamente la ferocia, colla quale avanzava tutti gli altri, ma
prudenza e maturità degna di sommo capitano. Fu preso il Caracciolo,
ammazzati molti fanti, molti ne fece sospendere Giovanni de' Medici
per punizione di essersi prima fuggiti da lui. Spugnata la terra
s'arrendé la rocca, pattuita la salute di quegli che vi erano
dentro. Fu lietissima questa vittoria al popolo milanese; ma senza
comparazione maggiore fu la infelicità che la letizia, perché da
Biagrassa, dove era cominciata la peste, furno, per il commercio
delle cose saccheggiate trasportate a Milano sparsi in quella città
i semi di tanto pestifera contagione; la quale, pochi mesi poi, si
ampliò tanto che solamente in Milano tolse la vita a piú di
cinquantamila persone.
Ma di là dal Tesino, ove era la somma delle cose, l'ammiraglio, dopo
la perdita di Sartirano essendosegli di nuovo approssimati gli
inimici, abbandonata Mortara si ritiro in due alloggiamenti a
Novara; diminuito molto di forze, perché non solamente de' fanti ma
assai degli uomini d'arme erano alla sfilata ritornati in Francia:
onde niuno altro intento era in lui che temporeggiarsi insino a
tanto venisse il soccorso de' svizzeri, i quali in numero circa
ottomila erano già vicini a Ivrea. Da altra parte i capitani
[imperiali] intenti a impedire la venuta loro, intenti a ridurre gli
inimici in difficoltà di vettovaglie, occupavano le terre vicine a
Novara, ammazzando i franzesi ove gli trovavano lasciati alla
guardia delle terre; e avendo messo presidio in Vercelli, per torre
la facoltà a' svizzeri di entrarvi, si fermorno a Biandrà tra
Vercelli e Novara, in uno alloggiamento circondato da ogni parte di
fossi d'alberi e acque. Finalmente l'ammiraglio, intendendo i
svizzeri passata Ivrea essersi fermati in sul fiume della Sesia, il
quale per la copia che in quelli dí vi era d'acque non aveano potuto
passare, desideroso di unirsi con loro, piú (come si credeva) per
partirsi sicuro che per combattere, andò da Novara ad alloggiare a
Romagnana in sul fiume medesimo; ove, patendo di vettovaglie e
diminuendo continuamente il numero delle sue genti, fece gittare il
ponte tra Romagnana e Gattinara: e da altra parte gli inimici,
venuti da Biandrà a Briona, andorno ad alloggiare appresso a
Romagnana a due miglia. In queste angustie passorno i franzesi il
fiume il dí seguente: la mossa de' quali se fusse stata
sollecitamente vegghiata dagli inimici, si crede che quel dí
n'arebbono riportata pienissima vittoria. Ma erano diverse le
sentenze de' capitani, alcuni desiderando che si combattesse, alcuni
che senza molestargli si lasciassino partire. Né pareva che
nell'esercito fusse la providenza e il governo conveniente. Solo il
marchese di Pescara, procedendo in tutte l'azioni col solito valore,
pareva degno che a lui si riferisse la somma delle cose; gli altri,
invidiosi della virtú e gloria sua, cercavano di oscurarla piú
presto col detrarre e contradire che con la concorrenza delle opere.
Tardi pervenne allo esercito imperiale la notizia della partita de'
franzesi: la quale come fu intesa, molti cavalli leggieri e molti
fanti, senza ordine senza insegne, guadato il fiume gli seguitorno;
i quali pervenuti all'ultimo squadrone cominciorno a scaramucciare,
e benché i franzesi, combattendo e camminando, gli sostenessino per
lungo spazio di tempo, lasciorno finalmente sette pezzi di
artiglieria e copia di munizioni e di vettovaglie, oltre a molte
insegne di cavalli e di fanti, morti eziandio di essi non pochi nel
combattere. Feciono i franzesi dimostrazione di alloggiare a
Gattinara, terra distante un miglio da Romagnana, e intratanto
facevano occultamente andare innanzi i carriaggi e l'artiglierie; ma
come gli inimici, credendo che alloggiassino, furno cominciati a
ritirarsi, andorno piú oltre circa sei miglia ad alloggiare a
Ravisingo verso Ivrea. Alloggiorno la sera medesima gli imperiali
senza impedimenti in sul fiume, il quale passorno come prima
cominciò a lucere la luna; non gli seguitando i viniziani, a' quali,
essendo entrati nel territorio del duca di Savoia, pareva avere
trapassati gli oblighi della confederazione, per la quale non erano
tenuti a altro che alla difesa del ducato di Milano. Procedevano i
franzesi in battaglia bene ordinata con lento passo, avendo
collocati nel retroguardo i svizzeri; da' quali furno rimessi i
primi cavalli e fanti che venendo disordinatamente gli assaltorno,
essendo già i franzesi discostati da Ravisingo circa due miglia. Ma
sopravenendo il marchese di Pescara co' cavalli leggieri si rinnovò
la battaglia, non tale che fermasse il camminare de' franzesi; de'
quali in questo ultimo congresso fu ammazzato Giovanni Cabaneo e
fatto prigione monsignore di Baiardo, percosso da uno scoppietto,
della quale ferita morí poco di poi. Parve al marchese, ancora che
già fussino sopravenuti molti soldati, non seguitare gli inimici piú
oltre, perché non avea seco artiglierie né altro che una parte sola
dell'esercito. Cosí, rimasti i franzesi senza molestia ritornorno,
insieme co' svizzeri, alle case loro; avendo lasciato a Bauri di là
da Ivrea quindici pezzi d'artiglieria alla custodia di trecento
svizzeri e di uno de' signori del paese: ma né queste si salvorno,
perché i capitani di Cesare, avutane notizia, mandorno a prenderle.
Divisonsi poi i vincitori in piú parti: a Lodi fu mandato il duca di
Urbino, ad Alessandria il marchese di Pescara; le quali città sole
si tenevano in nome del re, perché Novara, accostandovisi il duca di
Milano e Giovanni de' Medici, si era arrenduta: al viceré rimase la
cura di andare incontro al marchese del Rotellino, il quale con
quattrocento lancie aveva passato i monti: ma questo, intesa la
partita dell'ammiraglio, ritornò subito in Francia. Né feciono
resistenza alcuna Boisí e Giulio da San Severino preposti alla
guardia di Alessandria. Similmente Federico, dimandato tempo di
pochi dí per certificarsi se era vero che l'ammiraglio avesse
passato i monti, convenne di lasciare Lodi; riservatasi facoltà,
come eziandio era stato conceduto a quegli di Alessandria, di
condurre in Francia i fanti italiani: i quali, in numero circa
cinquemila (che tanti erano nell'una e l'altra città), furno poi
alle cose del re di grandissimo giovamento.
Questo fine ebbe la guerra fatta contro al ducato di Milano sotto il
governo dell'ammiraglio: per il quale non essendo indebolita la
potenza del re di Francia né stirpate le radici de' mali, non si
rimovevano ma solamente si differivano in altro tempo tante
calamità; rimanendo in questo mezzo Italia liberata dalle molestie
presenti ma non dal sospetto delle future. Tentossi nondimeno per
Cesare, stimolato dal duca di Borbone e invitato dalla speranza che
l'autorità di quel duca avesse a essere di grandissimo momento, di
trasferire la guerra in Francia, dimostrandosi pronto al medesimo il
re di Inghilterra.
Lib.15, cap.9
I soldati di Cesare prendono Fonterabia; vani tentativi del
pontefice di condurre i príncipi alla pace o alla tregua; pretese
del re d'Inghilterra al trono di Francia, e ambizione del cardinale
eboracense. Accordi di Cesare e del re d'Inghilterra per muovere la
guerra in Francia; il pontefice avverso all'impresa. Occupazione di
Nizza. Vicende della guerra in Provenza. Deliberazione del re di
Francia di portare la guerra in Italia. Ritirata dei soldati di
Cesare dalla Provenza. Gli eserciti nemici nel ducato di Milano.
Aveva Cesare, nel principio dell'anno presente, mandato il campo a
Fonterabia, terra di brevissimo spazio, posta in sull'estuario che
divide il regno di Francia dalla Spagna; e ancora che quel luogo
fusse munitissimo d'uomini di artiglierie e di vettovaglie, né
mancasse tempo a coloro che lo difendevano di ripararlo, nondimeno,
per la imperizia de' franzesi, i ripari furno fatti tanto
inavvertentemente che, rimanendo esposti alle offese degli inimici,
la necessità gli costrinse a convenire di uscirsene salvi.
Recuperata Fonterabia si distendevano piú oltre i suoi pensieri,
rifiutati i conforti e l'autorità del pontefice; il quale, avendo
mandato nel principio dell'anno, per trattare o pace o sospensione
dell'armi, a Cesare al re di Francia e al re di Inghilterra, aveva
trovato gli animi mal disposti: perché il re, acconsentendo alla
tregua per due anni, ricusava la pace, non sperando potere ottenere
in quella condizioni che gli soddisfacessino; Cesare, dannando la
tregua per la quale si dava tempo al re di Francia a riordinarsi a
nuova guerra, desiderava la pace; e al re d'Inghilterra era molesta
qualunque convenzione si facesse per mezzo del pontefice, per il
desiderio che avea che il trattamento della concordia finalmente del
tutto si referisse a lui, inducendolo a questo gli ambiziosi
consigli del cardinale eboracense. Il quale, veramente esempio a'
nostri dí di immoderata superbia, benché nato di infima condizione e
di sangue sordidissimo, era salito appresso a quel re in tanta
autorità che era manifestissimo a ciascuno che la volontà del re
senza la approvazione di Eboracense fusse di niuno momento, e per
contrario fusse validissimo tutto quello che Eboracense solo
deliberasse. Ma dissimulavano il re e il cardinale con Cesare questo
pensiero, dimostrandosi ardenti a muovere la guerra contro al reame
di Francia; il quale il re di Inghilterra pretendeva legittimamente
appartenersegli per varie ragioni, pigliandone la prima origine da
Adovardo cognominato..., re d'Inghilterra. Il quale essendo, insino
nell'anno della salute nostra mille [trecento ventotto], morto senza
figliuoli maschi Carlo quarto, cognominato bello, re di Francia,
della sorella del quale era nato Adovardo, aveva fatto instanza,
come piú prossimo de' parenti maschi al re morto, essere dichiarato
re di quel reame; ma escluso dal parlamento universale di tutto il
regno, nel quale fu determinato che per virtú della legge salica,
legge antichissima di quel reame, fussino inabili a succedere non
solo le femmine ma ciascuno nato per linea femminina, assunto non
molto dipoi il titolo di re di Francia, assaltò il regno con
esercito potente; dove ottenute molte vittorie, e contro a Filippo
di Valois, il quale con consentimento comune era stato dichiarato
successore di Carlo bello, e contro a Giovanni suo figliuolo il
quale condusse prigione in Inghilterra, contrasse finalmente pace
con lui; per la quale, rimanendogli molte provincie e stati del
reame di Francia, rinunziò al titolo regio. Ma essendo a questa
pace, che non fu lungamente osservata, succedute ora lunghe guerre
ora lunghe tregue, ultimamente Enrico quinto re d'Inghilterra,
confederatosi con Filippo duca di Borgogna, alienato dalla corona di
Francia per la uccisione del duca Giovanni suo padre, ebbe successi
tanto prosperi contro a Carlo sesto, re alienato dallo intelletto,
che insieme con la città di Parigi occupò quasi tutto il reame di
Francia; nella quale città avendo trovato il re insieme con la
moglie e con Caterina sua figliuola, si congiunse in matrimonio con
quella, facendo al re demente consentire che, nonostante vivesse
Carlo suo figliuolo, il regno, morto il padre, si trasferisse in lei
e ne' suoi figliuoli: per virtú del quale titolo, benché invalido e
inetto, fu, dopo la morte di Enrico, coronato solennemente in Parigi
Enrico sesto suo figliuolo re di Francia e di Inghilterra. Ma
ancoraché poi Carlo, dopo la morte del padre nominato Carlo settimo,
per l'occasione dell'essere suscitate in Inghilterra tra quegli del
sangue regio gravissime guerre, cacciasse gli Inghilesi, eccettuata
la terra di Calès, di là dal mare Oceano, nondimeno non omessono per
questo i re di Inghilterra di usare il titolo di re di Francia.
Queste cagioni potevano muovere Enrico ottavo alla guerra, sicuro
piú che fusse stato alcuno degli antecessori nel suo reame: perché
essendo stati depressi dai re della famiglia di Iorch (era questo il
nome d'una fazione) i re della famiglia di Lancastro, nome
dell'altra, i seguaci della casa di Lancastro, non vi essendo
superstite piú alcuno di quel sangue, sollevorono al regno Enrico di
Richemont, come piú prossimo a loro; il quale, superati ed estinti i
re avversari, per regnare con maggiore fermezza e autorità si copulò
legittimamente con una figliuola di Adovardo penultimo re della casa
di Iorch, donde pareva che in Enrico ottavo, nato di questo
matrimonio, fussino trasferite tutte le ragioni dell'una e
dell'altra famiglia; le quali, per le insegne portavano, si
chiamavano volgarmente la rosa rossa e la rosa bianca. Nondimeno,
non incitava principalmente il re di Inghilterra la speranza di
conseguire con l'armi il reame di Francia, perché in questo
conosceva innumerabili difficoltà, quanto la cupidità di Eboracense
che la lunghezza de' travagli e la necessità delle guerre avesse
finalmente a partorire che nel suo re avesse a essere rimesso
l'arbitrio della pace, quale sapendo dovere dependere dalla sua
autorità, pensava, in uno tempo medesimo, e fare risonare
gloriosamente per tutto il mondo il nome suo e stabilirsi la
benivolenza del re di Francia, al quale occultamente inclinava. Però
non proponeva di obligarsi a quelle condizioni alle quali, se avesse
[avuto] l'animo ardente a tanta guerra, era conveniente si
obligasse.
Questa occasione incitava Cesare alla guerra, e molto piú la
speranza che la grazia l'autorità e il seguito grande che il duca di
Borbone soleva avere in quel reame avesse a sollevare molto il
paese. Perciò, con tutto che molti de' suoi lo consigliassino che,
mancandogli danari e avendo compagni di fede incerta, deposti i
pensieri di cominciare una guerra tanto difficile, consentisse che
il pontefice trattasse la sospensione dell'armi, convenne col re di
Inghilterra e col duca di Borbone: che il duca passasse nel reame di
Francia con parte dello esercito che era in Italia; al quale, come
avesse passato i monti, pagasse il re di Inghilterra ducati
centomila per le spese della guerra del primo mese, restando in
arbitrio suo o continuare di mese in mese questa contribuzione o di
passare in Francia con esercito potente, per fare guerra dal primo
dí di luglio per tutto il mese di dicembre, ricevendo dallo stato di
Fiandra tremila cavalli e mille fanti con sufficiente artiglieria e
munizione: che ottenendosi la vittoria, si restituisse al duca di
Borbone lo stato toltogli dal re di Francia; acquistassesi per lui
la Provenza, alla quale pretendeva per la cessione fatta dopo la
morte di Carlo ottavo dal duca dell'Oreno ad Anna duchessa di
Borbone, la quale tenesse con titolo di re; giurasse, innanzi al
pagamento de' centomila ducati, il re di Inghilterra in re di
Francia e prestassegli omaggio, il che non facendo, questa
capitolazione fusse nulla; né potesse Borbone trattare, senza
consenso di tutti due, col re di Francia: rompesse Cesare la guerra
nel tempo medesimo da' confini di Spagna, e che gli oratori di
Cesare e del re di Inghilterra procurassino che i potentati di
Italia, per assicurarsi in perpetuo dalla guerra de' franzesi,
concorressino con denari a questa impresa; cosa che riuscí vana,
perché il pontefice non solo recusò di contribuire ma dannò
espressamente questa impresa, predicendo che non solo non arebbe in
Francia prospero successo ma che eziandio sarebbe cagione che la
guerra ritornasse in Italia piú potente e piú pericolosa che prima.
La quale confederazione come fu fatta, benché il duca di Borbone, il
quale costantemente recusò di riconoscere il re di Inghilterra in re
di Francia, confortasse che piú presto si andasse con l'esercito
verso Lione per accostarsi al suo stato, nondimeno fu deliberato si
passasse in Provenza, per la facilità che arebbe Cesare di mandargli
soccorso di Spagna e per servirsi dell'armata che, per comandamento
e co' danari di Cesare, si preparava a Genova. I progressi di questa
spedizione furno che Borbone e con lui il marchese di Pescara,
dichiarato a quella guerra (perché di ubbidire a Borbone si
sdegnava) capitano generale di Cesare, passorno a Nizza; ma con
forze molto minori di quelle che erano destinate: perché a
cinquecento uomini d'arme ottocento cavalli leggieri quattromila
fanti spagnuoli tremila fanti italiani e cinquemila tedeschi si
doveano aggiugnere trecento uomini d'arme dell'esercito di Italia e
cinquemila altri fanti tedeschi, ma questi per mancamento di danari
non vennono; e il viceré, impotente a soldare nuovi fanti, come era
stato deliberato ne' primi consigli, per opporsi a Michelantonio
marchese di Saluzzo (il quale, cacciato del suo stato, era con mille
fanti in sulla montagna), riteneva gli uomini d'arme per la guardia
del paese. Aggiugnevasi che l'armata di Cesare, una delle principali
speranze, guidata da don Ugo di Moncada allievo del Valentino, uomo
di pravo ingegno e di pessimi costumi, appariva inferiore alla
armata del re di Francia; la quale partita da Marsilia si era
fermata nel porto di Villafranca. Entrorno nondimeno nella Provenza;
la Palissa la Foglietta Renzo da Ceri e Federigo da Bozzole,
capitani del re, perché non aveano forze sufficienti a opporsi si
andavano continuamente ritirando. Una parte, camminando allato al
mare, spugnò la torre imminente al porto di Tolone, dalla quale
furno condotti all'esercito due cannoni. Arrendessi Asais, città,
per la sua degnità e perché vi risiede il parlamento, principale
della Provenza, e molte altre terre del paese. Desiderava il duca di
Borbone che da Asais, discostandosi dal mare, si cercasse di passare
il fiume del Rodano, per entrare piú nelle viscere dello stato del
re di Francia, mentre che erano deboli le sue provisioni; perché le
genti d'arme sue, avendo patito molto e maltrattate ne' pagamenti
dal re, molto esausto di danari e che non aspettava che gli inimici
di Lombardia passassino in Francia, erano ridotte in tale disordine
che non si potevano cosí presto riordinare; e diffidando, come
sempre, della virtú de' fanti del suo reame era necessitato
aspettare, innanzi uscisse in campagna, la venuta di fanti svizzeri
e tedeschi: nel quale spazio di tempo pensava Borbone di potere,
passando il Rodano, fare qualche progresso importante. Ma altra fu
la sentenza del marchese di Pescara e degli altri capitani
spagnuoli; i quali per l'opportunità del mare desideravano, come
sapevano essere la intenzione di Cesare, che si acquistasse
Marsilia, porto opportunissimo a molestare con l'armate marittime la
Francia e a passare di Spagna in Italia. Alla volontà de' quali non
potendo repugnare il duca di Borbone, posero il campo a Marsilia;
nella quale città era entrato Renzo da Ceri con quegli fanti
italiani che da Alessandria e da Lodi erano stati menati in Francia.
Intorno a Marsilia dimororno vanamente quaranta dí, perché, benché
battessino da piú parti le mura con l'artiglierie e tentassino di
fare le mine, nondimeno si opponevano alla spugnazione molte
difficoltà: la muraglia assai forte di antica struttura, la virtú
de' soldati, la disposizione del popolo, divotissimo a' re di
Francia e inimicissimo al nome spagnuolo, per la memoria che Alfonso
vecchio d'Aragona, ritornando da Napoli con armata marittima in
Ispagna, avea all'improviso saccheggiata quella città, la speranza
del soccorso cosí dalla parte del mare come perché il re di Francia,
venuto in Avignone città del pontefice posta in sul Rodano,
raccoglieva continuamente grande esercito. Aggiugnevasi che
all'esercito mancavano danari. Mancavano similmente le speranze che
il re di Francia, assaltato da altre parti, fusse impedito a volgere
a una parte sola tutti i suoi provedimenti: perché il re di
Inghilterra, con tutto che appresso a Borbone avesse mandato
Riccardo Pacceo, ricusava di pagare i centomila ducati per il
secondo mese; meno faceva segni di muovere la guerra nella
Piccardia, anzi, avendo ricevuto nell'isola Giovan Giovacchino dalla
Spezie mandatogli dal re di Francia, e rispondendo il cardinale
sinistramente agli oratori di Cesare, dava dell'animo suo non
mediocre sospetto. Né dalla parte di Spagna corrispondeva la potenza
alla volontà: perché, avendo le corti di Castiglia (cosí chiamano la
congregazione de' deputati in nome di tutto il regno) negato a
Cesare di sovvenirlo di quattrocentomila ducati, come sogliono fare
ne' casi gravi del re, non avea potuto mandare danari all'esercito
che era in Provenza, né fare da' confini suoi contro al re di
Francia se non deboli movimenti e di pochissima riputazione. Onde i
capitani cesarei, disperati di ottenere Marsiglia e temendo, come il
re si accostava, non incorrere in gravissimo pericolo, levorno il
campo da Marsilia, il medesimo dí nel quale il re, raccolti seimila
svizzeri (la venuta de' quali aspettando avea tardato), si mosse
d'Avignone con tutto l'esercito. Levato il campo da Marsilia, i
capitani di Cesare voltorono subito la fronte a Italia, procedendo
con grandissima celerità, perché conoscevano in quanto pericolo si
ridurrebbono se nel paese inimico si fusse accostato loro o tutto o
parte dell'esercito del re di Francia; e da altra parte il re,
giudicando d'avere occasione molto opportuna di ricuperare il ducato
di Milano per l'esercito potente che avea, perché sapeva essere
deboli le cose degli inimici, e perché sperava andando per il
cammino diritto dovere essere in Italia innanzi all'esercito che si
partiva da Marsilia, deliberò seguitare quel beneficio che la
fortuna gli porgeva; la qual cosa manifestò agli uomini suoi con
queste parole: - Io ho stabilito di volere, senza indugio, passare
in Italia personalmente; qualunque mi conforterà al contrario non
solo non sarà udito da me ma mi farà cosa molto molesta. Attenda
ciascuno a eseguire sollecitamente quel che gli sarà commesso, o che
appartiene all'ufficio suo. Iddio, amatore della giustizia, e la
insolenza e temerità degli inimici ci ha finalmente aperta la via di
ricuperare quel che indebitamente ci era stato rapito. -
A queste parole corrispose e la costanza nella determinazione e la
celerità dell'esecuzione. Mosse subito l'esercito, nel quale erano
dumila lancie e ventimila fanti; fuggito il congresso della madre,
che da Avignone veniva per confortarlo che non passando i monti
amministrasse la guerra per capitani. Commesse a Renzo da Ceri che
co' fanti che erano stati seco a Marsilia salisse in sull'armata e,
o per non prestare l'orecchie a' ragionamenti della concordia o
diffidando del pontefice, vietò che l'arcivescovo di Capua, mandato
a lui per passare poi a Cesare, procedesse piú oltre, ma che o
trattasse seco per lettere, aspettando in Avignone appresso alla
madre, o ritornasse al pontefice. E se (come scrisse iattabondo in
Italia, presupponendo forse, secondo l'uso di molti, le cose
ragionate e disegnate per già fatte o eseguite) avesse col medesimo
ardore fatto seguitare gli inimici che si partivano, sarebbe per
avventura, con poco sangue e senza pericolo, rimasto vincitore di
tutta la guerra. Ma essi disprezzando le molestie date da' paesani e
seguitati da piccole forze del re, procedendo con grandissimo ordine
per la riviera del mare si condussono a Monaco; ove rotte in molti
pezzi l'artiglierie e caricatele in su' muli, per condurle piú
facilmente, pervennero al Finale: nel qual luogo intesa la mossa del
re, raddoppiorno, per essere a tempo a difendere il ducato di
Milano, nel quale non erano rimaste forze sufficienti a resistere,
quella celerità che prima aveano usata per salvarsi. Cosí,
procedendo l'uno e l'altro esercito verso Italia, pervennono, in un
dí medesimo, il re di Francia a Vercelli, il marchese di Pescara co'
cavalli e co' fanti spagnuoli ad Alva; seguitando il duca di Borbone
co' fanti tedeschi per intervallo di una giornata; il quale, non
dando spazio di respirare a se stesso, andò il dí seguente da Alva a
Voghiera, cammino di quaranta miglia, per andare il prossimo dí a
Pavia; ove si congiunse col viceré, venuto da Alessandria, ove avea
lasciato alla custodia duemila fanti, con grandissima prestezza, in
tempo che già l'esercito del re cominciava a toccare le ripe del
Teseno. Quivi consultando tra loro e con Ieronimo Morone delle cose
comuni, ebbono il primo pensiero, lasciata sufficiente guardia in
Pavia, di fermarsi come l'altre volte aveano fatto in Milano: però
ordinorno che subito vi andasse il Morone per provedere alle cose
necessarie, e che il duca di Milano, il quale aveano mandato a
chiamare, lo seguitasse; essi, lasciato Antonio de Leva a Pavia con
trecento uomini d'arme e circa cinquemila fanti, da pochi spagnuoli
in fuori, tutti tedeschi, si mossono verso Milano.
Lib.15, cap.10
Misere condizioni di Milano dopo la peste. Parole del Morone ai
milanesi. I francesi sotto Milano, dove pongono un presidio per
l'assedio del castello. Difficoltà di Cesare: contegno degli antichi
confederati. Vano assalto del re di Francia a Pavia; vani tentativi
di deviare le acque del Ticino; assedio della città.
Ma la città di Milano, afflitta dalla peste grandissima che l'avea
vessata quella state, non pareva piú simile a se medesima: perché
del popolo era morto numero grandissimo, di quegli che aveano
fuggito tanto infortunio molti erano assenti, non ridotta dentro la
copia delle vettovaglie consueta, difficili i modi del fare
provedimenti di danari; de' ripari, non avendo alcuni atteso a
conservargli, la maggiore parte per terra: e nondimeno, in tante
difficoltà, sarebbe stata la antica prontezza degli uomini alle
medesime fatiche e pericoli. Ma il Morone, conoscendo che il mettere
l'esercito in Milano piú tosto partorirebbe la ruina di quello che
la difesa della città, fatta altra deliberazione, fermatosi in mezzo
della moltitudine, parlò cosí: - Noi possiamo oggi dire, né con
minore molestia di animo, le parole medesime che nelle angustie sue
disse il Salvatore: “lo spirito certamente è pronto, la carne
inferma”. Voi avete il medesimo ardore che avete avuto sempre di
conservarvi per signore Francesco Sforza; a lui trafiggono, come
sempre, il cuore i pericoli e le calamità del suo diletto popolo;
egli è parato a mettere la vita propria per salvarvi, voi con non
minore prontezza l'esporreste al presente che molte volte l'avete
esposta per il passato. Ma alla volontà non corrispondono da parte
alcuna le forze; perché per l'essere la città quasi vota
d'abitatori, esserci strettezza di vettovaglie, mancamento di danari
e i bastioni quasi per terra, non ci è modo di proibire che i
franzesi non ci entrino. Duole al duca quanto la morte l'essere
necessitato ad abbandonarvi, ma molto piú che la morte gli dorrebbe
che il volervi difendere fusse cagione dell'ultimo eccidio vostro,
come senza dubbio alcuno sarebbe. Ne' mali tanto gravi è tenuto
prudente chi elegge il male minore, chi non si dispera tanto che
abbandoni con una sola deliberazione tutte le sue speranze. Però il
duca vi conforta a cedere alla necessità, che ubbidiate al re di
Francia per riserbarvi a tempi migliori; i quali abbiamo grandissime
cagioni di sperare che presto ritorneranno. Non abbandonerà il duca
al presente se medesimo, non abbandonerà in futuro voi. La potenza
di Cesare è grandissima, la fortuna inestimabile; la causa è
giustissima, gli inimici sono quegli medesimi che tante volte sono
stati vinti da noi. Risguarderà Iddio la pietà vostra verso il duca,
la pietà del duca verso la patria; e dobbiamo tenere per certo che,
permettendo ora a qualche buon fine quello a che ci costrigne la
necessità presente, ci darà presto contro all'inimico superbissimo
vittoria tale che felicemente con lunga pace ci ristoreremo da tante
molestie. - Dopo le quali parole, avendo fatto mettere vettovaglie
in castello, si uscí della città. Andava e il duca a Milano, non
sapendo quel che avesse fatto il Morone; ma a fatica uscito di
Pavia, scontrò Ferrando Castriota che guidava l'artiglieria, dal
quale avvertito che una grande parte degli inimici avea passato il
Tesino, e che avendo scontrato in sul fiume Zucchero borgognone co'
suoi cavalli leggieri l'aveano rotto, temendo non trovare il cammino
impedito, ritornò a Pavia. Nelle quali cose benché il duca e il
Morone fussino proceduti sinceramente, nondimeno i capitani di
Cesare, che erano coll'esercito a Binasco, insospettiti che
occultamente non fussero convenuti col re di Francia, mandorno
Alarcone con dugento lancie a Milano, per seguitarlo o no secondo
gli avvisi ricevessino da lui. Alla giunta del quale, il popolo, che
già concordava con alcuni fuorusciti che convenivano in nome del re,
ripreso animo chiamò il nome di Cesare e di Francesco Sforza. Ma
Alarcone, conoscendo essere vana la speranza del difendersi e
presentito approssimarsi già l'avanguardia franzese, uscí per la
porta Romana alla via di Lodi; ove eziandio si era voltato tutto
l'esercito imperiale, nel tempo medesimo che gli inimici
cominciavano a entrare per le porte Ticinese e Vercellina: i quali,
se non si volgendo a Milano avessino atteso a seguitare l'esercito
di Cesare, stracco per la lunghezza del cammino nel quale aveano
perdute molte armi e cavalli, si crede per certo che con somma
facilità l'arebbono dissipato; e se pure, poi che erano accostati a
Milano, fussino andati subito verso Lodi, non arebbono avuto i
capitani di Cesare ardire di fermarvisi; e forse, passando con
celerità il fiume dell'Adda, arebbono con la medesima facilità messo
in disordine grande le reliquie degli inimici. Ma il re, o
parendogli forse di molta importanza lo stabilire alla sua divozione
Milano, nella quale città gli era sempre stata fatta la resistenza
principale, o non conoscendo l'occasione o movendolo altra cagione,
non solamente si accostò a Milano, dove né entrò egli né volle che
l'esercito entrasse, ma si fermò per mettervi il presidio necessario
e ordinare l'assedio del castello, nel quale erano settecento fanti
spagnuoli; avendo, con laude grande di modestia e benignità,
proibito che a' milanesi non fusse fatta molestia alcuna.
Ordinate che ebbe le cose di Milano voltò l'esercito a Pavia,
giudicando essere inutile alle cose sue lasciarsi dopo le spalle una
città nella quale erano tanti soldati: e avea il re, secondo che era
la fama, computati quegli che rimanevano a Milano, dumila lancie
ottomila fanti tedeschi seimila svizzeri seimila venturieri
quattromila italiani, i quali italiani dipoi molto si augumentorono.
Nel qual tempo, de' capitani di Cesare, si era fermato il marchese
di Pescara in Lodi con duemila fanti; e il viceré, lasciate guardate
Alessandria, Como e Trezzo, si era ridotto a Sonzino, insieme con
Francesco Sforza e con Carlo di Borbone; i quali, intra tante
difficoltà e angustie ripreso alquanto d'animo per la andata del re
a Pavia, e pensando al riordinarsi se la difesa di quella città dava
loro tempo (perché altrimenti niuno rimedio conoscevano), mandorno
in Alamagna a soldare seimila fanti; allo stipendio de' quali, e a
altre spese necessarie, si provedeva con cinquantamila ducati che
Cesare, perché nella guerra di Provenza si spendessino, a Genova
mandati avea. Ma sopra tutte le cose disturbava i consigli loro la
penuria di danari, non avendo facoltà di trarne del ducato di
Milano, né sperando d'avere, per la impotenza sua, da Cesare altro
provedimento che commissione che a Napoli si vendesse il piú si
poteva dell'entrate del regno. Piccolo o forse niuno sussidio, o di
soldati o di danari, speravano dagli antichi confederati; perché dal
pontefice e dai fiorentini, richiesti di porgere danari, ottenevano
parole generali: perché il papa, dopo la partita dell'ammiraglio di
Italia deliberato al tutto di non si mescolare nelle guerre tra
Cesare e il re di Francia, non aveva mai voluto rinnovare la
confederazione fatta coll'antecessore né fare lega nuova con alcun
principe; anzi, benché si dimostrasse inclinato a Cesare e al re di
Inghilterra, aveva occultamente prima promesso al re di Francia di
non se gli opporre quando assaltasse il ducato di Milano; e i
viniziani, ricercati dal viceré che ordinassino le genti alle quali
erano tenuti per i capitoli della lega, benché non negassino
rispondevano freddamente, come quegli che aveano nell'animo di
accomodare i consigli a' progressi delle cose, o perché appresso a
molti di loro risorgesse la memoria della congiunzione antica col re
di Francia, o perché credessino egli passato in Italia con tante
forze contro a inimici imparatissimi dovere essere vittorioso, o
perché piú che il solito avessino a sospetto la ambizione di Cesare,
conciossiaché, con ammirazione e quasi querela di tutta Italia, non
avesse investito Francesco Sforza del ducato di Milano. Movevagli
oltre a questo l'autorità del pontefice, i cui consigli ed esempio
in questo tempo non mediocremente risguardavano.
Ma il re di Francia, accostatosi a Pavia dalla parte di sopra, tra
il fiume del Tesino e la strada per la quale si va a Milano, fermata
la vanguardia nel borgo di Santo Antonio di là dal Tesino, in sulla
strada che conduce a Genova, egli alloggiato alla abbazia di San
Lanfranco lontana un miglio dalle mura, batté con l'artiglierie da
due parti due dí le mura, e dipoi con l'esercito ordinato cominciò a
dare la battaglia; ma apparendo la terra dentro essere bene riparata
e dimostrandosi gli inimici molto valorosi a difendersi, e per
contrario vedendosi ne' suoi manifesti segni di temenza e già
essendone stati ammazzati molti, dette il segno di ritirarsi; e
comprendendo quanto fusse difficile l'espugnare una città, difesa da
tanti uomini di guerra, coll'impeto delle battaglie, si voltò a
opere di trincee e di cavalieri con grandissimo numero di
guastatori, intento a tagliare i fianchi perché i soldati piú
sicuramente vi si accostassino. A questa opera che si dimostrava
lunga e difficile aggiunse il fare le mine, per pigliarla, se
altrimenti non gli riuscisse, a palmo a palmo; e ultimatamente,
facendolo molto diffidare la virtú e il numero de' difensori, avuto
il consiglio di molti ingegnieri e periti del corso del fiume, il
quale due miglia sopra a Pavia si divide in due corni, e poi un
miglio di sotto, innanzi che entri nel Po, si ricongiugne, deliberò
di divertire il ramo che passa allato a Pavia nel ramo minore detto
il Gravalone, sperando dovergli poi essere facile spugnarla da
quella parte donde il muro, per la sicurtà che dava la profondità
dell'acque, niuno riparo aveva. Nella quale opera, tentata con
moltitudine quasi innumerabile d'uomini e con grandissima spesa, né
senza timore di quegli di dentro, consumò molti dí; ora rovinando
l'impeto dell'acqua, la quale per le pioggie immoderate grossissima
era divenuta, gli argini, che nel letto dove il fiume si divide si
lavoravano per sforzarlo a volgersi nel ramo minore, ora sperando il
re di superare con la possanza degli uomini e de' danari la violenza
del fiume. Finalmente l'esperienza dimostrò quel che quasi sempre
apparisce che piú può la rapidità del fiume che la fatica degli
uomini o la industria de' periti. Però il re, privato della
speranza, della forza e delle opere, determinò di perseverare
nell'assedio, colla lunghezza del quale sperava ridurre quegli di
dentro in necessità di arrendersi.
Lib.15, cap.11
Nuovi e inutili tentativi di concordia del pontefice: suoi accordi
col re di Francia; nuove angustie e difficoltà di Cesare.
Ma mentre che queste cose si fanno e si preparano, il pontefice, poi
che ebbe inteso il re avere occupato Milano, commosso dal principio
tanto prospero e perciò desideroso di assicurare le cose proprie,
mandò a lui Gianmatteo Giberto vescovo di Verona suo datario, uomo a
sé confidentissimo ma né anche ingrato al re. Commessegli che prima
andasse a Sonzino a confortare il viceré e gli altri capitani alla
concordia, dimostrando dovere andare al re di Francia per la
medesima cagione; i quali, già cresciuti di speranza per la
resistenza di Pavia, gli risposono ferocemente non volere prestare
orecchie ad alcuna composizione per la quale il re avesse a ritenere
un palmo di terra nel ducato di Milano. Simile e forse piú dura
disposizione trovò nel re di Francia, enfiato per la grandezza
dell'esercito e per la facoltà non solamente di sostentarlo ma di
accrescerlo; col quale fondamento principalmente affermava essere
passato in Italia e non per la speranza sola d'avere a prevenire gli
inimici, benché dicesse e questo essergli in buona parte succeduto.
Sperare al certo di ottenere Pavia, la quale tuttavia continuava di
battere aspramente, per l'opere faceva intorno alle mura; alle quali
confidava che gli inimici, avendo, come si comprendeva per la
infrequenza del tirare, mancamento di munizioni, non potrebbono
resistere, e per la derivazione che ancora non era disperata del
Tesino e per la carestia del pane che era dentro; né stimare premio
degno di tante fatiche e di spesa cosí immoderata la ricuperazione
sola del ducato di Milano e di Genova, ma pensare non meno ad
assaltare il regno di Napoli.
Trattossi dipoi tra loro, e con piccola difficoltà se gli dette la
perfezione, la cagione principale per la quale il datario era stato
mandato; perché il pontefice s'obligò a non dare aiuto manifesto o
occulto contro al re e che il medesimo farebbono i fiorentini, e il
re ricevette in protezione il pontefice e i fiorentini, inserendovi
specialmente l'autorità che avea in Firenze la famiglia de' Medici:
la quale concordia convennono non si publicasse se non quando
paresse al pontefice; e nondimeno, ancora che non pervenisse allora
alla notizia de' capitani di Cesare, cresceva in essi continuamente
il sospetto conceputo di lui. Però, per certificarsi al tutto della
sua mente, mandorno a lui Marino abate di Nagera commissario del
campo, a proporgli insieme speranza e timore: perché da una parte
gli offerivano cose grandissime, dall'altra gli dimostravano che,
essendo Cesare e il re venuti all'ultima contenzione, non poteva
Cesare altro che riputare che fusse stato contro a sé chiunque non
fusse stato con lui. Ma il pontefice rispondeva, niuna cosa meno
convenire a sé che il partire dalla neutralità nelle guerre tra
príncipi cristiani, perché cosí richiedeva lo ufficio pastorale e
perché potrebbe con maggiore autorità trattare la pace: per la
quale, nel tempo medesimo, procurava con Cesare; a cui, avuta
licenza dalla madre del re di passare da Lione in Spagna, dopo
l'acquisto di Milano, pervenne l'arcivescovo di Capua, e scusato che
ebbe con le medesime ragioni il pontefice del non avere voluto
rinnovare la lega, come Cesare, intesa la andata del re verso Italia
aveva instantemente dimandato, lo confortò efficacemente in suo nome
che o con la tregua o con la pace si deponessino l'armi. Inclinavano
l'animo suo alla concordia le difficoltà nelle quali vedeva essere
ridotto: non avere modo di fare in Ispagna provedimento alcuno di
danari per le cose di Italia, la prosperità che si dimostrava del re
di Francia, il sospetto che il re di Inghilterra non fusse
occultamente convenuto con l'inimico; perché quel re non solamente
ricusava che cinquantamila ducati, i quali finalmente aveva
proveduti a Roma per la guerra di Provenza, si mandassino
all'esercito di Lombardia, ma (quel che causava sospetto maggiore)
dimandava a Cesare, costituito in tante necessità, che gli
restituisse i danari prestati e che gli pagasse tutti quegli a'
quali era tenuto: perché Cesare, insino quando passò in Ispagna,
cupidissimo della sua congiunzione, per rimuovere tutte le
difficoltà che lo potevano tenere sospeso, si obligò a pagargli la
pensione che ciascuno anno gli dava il re di Francia e ventimila
ducati per le pensioni che il medesimo re pagava al cardinale
eboracense e ad alcuni altri, e trentamila ducati che per il doario
si pagavano alla reina bianca, stata moglie del re Luigi; delle
quali promesse non avea insino a quel dí pagata cosa alcuna. E
nondimeno Cesare, con tutto che alla afflizione dell'animo si
aggiugnesse la infermità del corpo, perché il dolore conceputo
quando cominciorno ad apparire le difficoltà della spugnazione di
Marsilia gli avea generata la quartana, o perché la mente sua
indisposta a cedere all'inimico non si piegasse naturalmente per
alcune difficoltà o perché confidasse nella virtú del suo esercito,
se si conducessino mai a fare giornata con gli inimici, o
promettendosi dovere essere per l'avvenire favorito non meno
immoderatamente dalla fortuna che per il passato stato fusse,
rispondeva non essere secondo la degnità sua fare alcuna convenzione
mentre che il re di Francia vessava coll'armi il ducato di Milano.
Lib.15, cap.12
Disegni e preparativi del re di Francia per la spedizione contro il
reame di Napoli: obiezioni del pontefice. I preparativi sospesi e
ripresi; proposte del pontefice al viceré. Discussione nel consiglio
dell'esercito di Cesare. Risposta del viceré al pontefice. Breve del
pontefice a Cesare; risposta dell'oratore pontificio alle querele di
Cesare.
Avea in questo mezzo deliberato il re di Francia di assaltare il
reame di Napoli, sperando o che il viceré, mosso dal pericolo perché
non vi era rimasto presidio alcuno, abbandonerebbe, per andare a
difenderlo, lo stato di Milano, o almeno cederebbe a deporre l'armi
con inique condizioni; il che il re, mosso dalle difficoltà di
ottenere Pavia cominciava a desiderare. Destinò che a questa guerra
andasse Giovanni Stuardo duca d'Albania, del sangue de' re di
Scozia, con dugento lancie [secento] cavalli leggieri e quattromila
fanti che si levassino dall'esercito, la metà italiani quattrocento
svizzeri e gli altri tedeschi; e che, per unirsi a lui, Renzo da
Ceri scendesse a Livorno co' fanti destinati per l'armata, la quale
ritardata dalle difficoltà de' provedimenti necessari dimorava
ancora nel porto di Villafranca; e che Renzo medesimo e gli altri
Orsini soldassino nel paese di Roma [quattro]mila fanti: la quale
deliberazione fece, per Alberto conte di Carpi oratore suo, nota al
pontefice, ricercandolo che permettesse che a Roma si soldassino i
fanti e consentisse che l'esercito passasse per lo stato della
Chiesa. Grave era questa dimanda al pontefice, a cui sarebbe stato
molestissimo che al re di Francia pervenisse oltre al ducato di
Milano il regno di Napoli, ma, non avendo ardire apertamente di
negarla, confortava il re che per allora non facesse questa impresa,
né mettesse lui in necessità di non gli concedere quello che per
giusti rispetti non poteva consentire; dimostrandogli con prudente
discorso questo pensiero essere contro alla propria utilità: perché
se la cupidità di ricuperare il ducato di Milano gli avea per il
passato concitati tanti inimici, che farebbe ora il vedersi che
aspirasse anche al regno di Napoli? che maraviglia sarebbe se questo
movesse i viniziani a prendere la guerra per Cesare, trapassando
ancora gli oblighi della loro confederazione? Considerasse che, se
per disavventura si difficultassino i progressi suoi in Lombardia,
con che riputazione potrebbono procedere nel regno di Napoli, e che
la declinazione in qualunque di questi luoghi partorirebbe la caduta
nell'altro; e che in ultimo si ricordasse d'averlo commendato di
essersi ritirato all'ufficio del pontefice, però non convenire che
ora lo astrignesse a fare il contrario. Ma invano si dicevano queste
cose, perché il duca, non aspettata la risposta, avea, come certo
della concessione del pontefice, passato il Po al passo della
Stellata che è nello stato di Milano: benché il quinto dí poi
ritornò indietro, perché il re, avendo notizia che già cominciavano
ad arrivare agli inimici i fanti tedeschi e che il duca di Borbone
era andato nella Alamagna per muoverne maggiore quantità, volle
serbarsi intero l'esercito insino non venisse nuovo supplemento di
svizzeri e grigioni, i quali avea mandati a soldare.
Nel quale tempo procedevano le cose di ciascuna delle parti quasi
oziosamente. Il re continuava l'assedio di Pavia, non intermettendo
i lavori delle trincee e il molestarla con l'artiglierie; gli
imperiali, aspettando il ritorno di Borbone, si riposavano: eccetto
che il marchese di Pescara, nella providenza e ardire del quale la
maggiore parte de' consigli ma certamente tutte l'esecuzioni si
riposavano, uscito una notte di Lodi con dugento cavalli e dumila
fanti, entrato all'improviso nella terra di Melzi, guardata
negligentemente da Ieronimo e da Gianfermo da Triulzi con dugento
cavalli, fece prigioni i capitani con la maggiore parte de' soldati;
de' quali Ieronimo, poco poi, morí di una ferita ricevuta nel
combattere. Arrivorno dipoi all'esercito del re i svizzeri e
grigioni; alla venuta de' quali il duca di Albania, mosso di nuovo,
passò il Po alla Stradella del piacentino.
Dalla quale inclinazione non potendo il pontefice divertire il re,
né forse, per non lo insospettire, non ne facendo molta instanza,
gli parve tempo opportuno a manifestare agli imperiali le
convenzioni fatte prima con lui e a rinnovare la menzione della
concordia; alla quale, per la difficoltà dell'ottenere Pavia e per
il pericolo del regno di Napoli, sperava dovere trovare minore
durezza in ciascuna delle parti. A' quali effetti mandò Paolo
Vettori, capitano delle sue galee, a significare al viceré: non
avere mai potuto, benché n'avesse fatto grandissima diligenza,
rimuovere il re dalla deliberazione di assaltare il reame di Napoli;
né potere, per non trasferire la guerra in sé (alla quale non
potrebbe resistere) vietargli il passo, anzi essere necessitato ad
assicurarsi con nuove convenzioni da lui; nelle quali non
consentirebbe mai condizione alcuna nociva a Cesare, a cui conoscere
niuna cosa essere piú utile, in tante difficoltà, che la pace; la
quale perché si potesse trattare innanzi che i disordini piú oltre
procedessino, confortare il viceré a consentire che l'armi si
sospendessino; deponendo (perché altrimenti il re non vi
condiscenderebbe) in mano di persona non sospetta quel che in nome
di Cesare e del duca si teneva ancora nel ducato di Milano. Sperare
che, fatto questo, si converrebbe in qualche modo onesto della pace:
per la quale proponeva che il ducato di Milano, separandosi in tutto
dalla corona di Francia, fusse con l'investitura di Cesare (il quale
in ricompenso ne ricevesse somma conveniente di pecunia) conceduto
al secondogenito del re; che con onesto modo si provedesse al duca
di Milano e al duca di Borbone; e che il pontefice i viniziani e i
fiorentini si obligassino a unirsi con Cesare contro al re, in caso
non osservasse le cose promesse.
Conoscevano i capitani di Cesare la grandezza delle difficoltà e de'
pericoli, avendo in un tempo medesimo a sostenere in tanta penuria
di danari la guerra in Lombardia e a pensare al regno di Napoli,
abbandonati manifestamente da' sussidi del pontefice e de'
fiorentini, e già certi che i viniziani farebbono il medesimo; i
quali, se bene soldando nuovi fanti si ingegnassino dare speranza di
volere osservare la lega, differivano con varie scuse l'esecuzione.
Però il viceré, non alieno con l'animo dalla concordia, inclinava
per la sicurtà del regno di Napoli a ritirarvisi con l'esercito. Ma
prevalse nel consiglio il parere del marchese di Pescara; il quale,
procedendo parimente con audacia e con prudenza, dimostrò essere
necessario, dispregiati gli altri pericoli, fermarsi alla guerra di
Lombardia, dalla vittoria della quale tutte l'altre cose
dipendevano. Non essere destinate tali forze ad assaltare il regno
di Napoli, né potere con tal celerità condursi là, ove erano molte
terre forti, e la resistenza di coloro la salute de' quali
consisteva nel difenderlo, che almeno non si dovesse per piú e piú
mesi sostenere; nel qual tempo verisimilmente si imporrebbe alla
guerra di Milano l'ultima mano: se con vittoria, chi dubitava che
vincendo libererebbono subito il reame di Napoli, quando bene per
Cesare non si tenesse altro che una torre sola? Stando fermi in
Lombardia potere essere vincessino a Milano e a Napoli, andando a
Napoli si perdeva al certo Milano né si liberava il regno dal
pericolo, ove incontinente tutta la guerra si trasferirebbe: e con
quale speranza, ritornandovi come vinti? donde con tanta riputazione
vi entrerebbono gli inimici, tanta sarebbe l'inclinazione de' popoli
(che per natura per odio per paura si fanno incontro alla fortuna
del vincitore), che non piú si difenderebbe il regno di Napoli che
il ducato di Milano. Né muovere altro il re di Francia, dubbio
ancora de' successi di Lombardia, a dividere l'esercito, a
cominciare una guerra nuova mentre pendeva la prima, che la speranza
che per troppa sollecitudine del regno di Napoli gli lasciassino in
preda tutto lo stato di Milano: per i cui consigli deliberarsi, per
i cui cenni muoversi l'esercito tante volte vincitore, che essere
altro che con eterna infamia concedere alle minaccie de' vinti
quella gloria che tante volte contro a loro s'aveano con l'armi
acquistata? La quale sentenza seguitando finalmente il viceré mandò
a Napoli il duca di Traietto, con ordine che, raccolti piú danari
che si potesse, Ascanio Colonna e gli altri baroni del regno
attendessino a difenderlo; e ancora che alla imbasciata fattagli in
nome del pontefice avesse risposto modestamente scrisse con molta
acerbità a Roma, ricusando volere udire ragionamento alcuno di
concordia donde il pontefice, mostrando essere menato dalla
necessità, perché il duca di Albania continuamente andava innanzi,
publicò, non come cosa fatta prima, essere convenuto col re di
Francia con una semplice promessa di non offendere l'uno l'altro: il
che significò eziandio per uno breve agli atti di Cesare, allegando
le cagioni e specialmente la necessità che l'avea indotto. Il quale
breve presentato da Giovanni Corsi oratore fiorentino e aggiunte
quelle parole che convenivano a tale materia, Cesare, il quale prima
dimostrava non si potere persuadere che il pontefice in tanto
pericolo l'abbandonasse, commosso molto di animo, rispose che né
odio né ambizione né alcuna privata cupidità l'avea indotto a
pigliare da principio la guerra contro al re di Francia, ma le
persuasioni e l'autorità del pontefice Leone, confortato a questo
(come si diceva) dal presente pontefice che allora era il cardinale
de' Medici, dimostrandogli importare molto alla salute publica che
quel re non possedesse cosa alcuna in Italia: il medesimo cardinale
essere stato autore della confederazione che, innanzi alla morte di
Adriano pontefice, si fece per la medesima cagione. Però essergli
sommamente molesto che colui che sopra tutti gli altri era tenuto a
non si separare da lui, ne' pericoli ne' quali era stato autore che
entrasse, avesse fatto una mutazione che tanto gli noceva, e senza
alcuna necessità: perché a che si potere attribuire altro che a
soperchio timore, mentre che Pavia si difendeva? Ricordò quel che
avea sempre, dopo la morte di Lione e specialmente in due conclavi,
operato per la sua grandezza, e il desiderio che avea avuto che e'
fusse assunto al pontificato, per mezzo del quale avea creduto
s'avesse a stabilire la libertà e il bene comune d'Italia; né si
persuadere che al pontefice fusse uscito della memoria la poca fede
del re di Francia, né quel che dalla sua vittoria potesse o temere o
sperare. Conchiuse che né per la deliberazione del pontefice, benché
indebita e inaspettata, né per qualunque altro accidente
abbandonerebbe se medesimo, né confidasse alcuno che per mancamento
di danari avesse a mutare sentenza, perché metterebbe prima a ogni
pericolo tutti i regni e la vita propria: ed essere tanto fisso in
questo che supplicava Iddio non fusse cagione della dannazione della
sua anima. Alle quali querele replicava l'oratore fiorentino: il
papa, poi che fu eletto alla suprema degnità, essere stato obligato
a procedere non piú come cardinale de' Medici ma come pontefice
romano, l'ufficio del quale era pensare e affaticarsi per la pace
de' cristiani; perciò non avere mai ricordato altro che la necessità
che se n'avea, scrittone sí spesso a lui e mandatogli l'arcivescovo
di Capua due volte, e protestato che il debito suo era non aderire
ad alcuno; avere ricordato il medesimo quando l'ammiraglio partí di
Italia, non si potendo in tempo alcuno trattare con maggiore onore
per lui: né avere riportata altra risposta che non si potere fare
senza consentimento del re di Inghilterra. Ricordassesi Cesare
quanto il pontefice avesse dissuaso il passare nella Provenza,
perché si turbava in tutto la speranza della pace e perché, come
indovino delle cose che erano succedute, avea predetto che la
necessità che si poneva al re di Francia di armarsi potrebbe essere
occasione di suscitare incendio in Italia di maggiori pericoli.
Avere per il vescovo di Verona confortato il re, già possessore di
Milano, e il viceré, alla concordia; ma in niuno avere trovato
inclinazione alla pace. Avere dipoi negato, con molte ragioni e con
grandissima efficacia, di consentire il passo per lo stato della
Chiesa alle genti che andavano contro al regno di Napoli; ma il re
non solo essere stato sordo alle parole sue ma, non aspettata la sua
risposta, averle già fatte passare nel piacentino. Perciò avere
ultimamente mandato Paolo Vettori a confortare il viceré alla
sospensione dell'armi, proponendogli le condizioni conformi al
tempo; e a certificarlo della necessità che avea di assicurarsi dal
pericolo imminente, vedendo massime stare sospesi i viniziani, e il
re di Inghilterra alieno dal concorrere alla difesa del ducato di
Milano se, nel tempo medesimo, per Cesare e per lui non si muoveva
la guerra di là da' monti: ma vedendo il viceré ricusare tutti i
modi proposti e le genti del re procedere sempre innanzi, era stato
costretto pigliare la fede e sicurtà da lui, non si obligando ad
altro che a non l'offendere. Lamentavasi Cesare, la condizione
proposta al viceré essere stata molto dura: aversi a dipositare
dalla sua parte quello si teneva, senza fare menzione che dal re di
Francia si facesse il medesimo. E finalmente, ancora che il marchese
di Pescara, confortandolo alla concordia, gli avesse significato
essere nel campo molti disordini e le cose in gravissimo pericolo,
nondimeno non piegava l'animo alla pace, sperando per il valore de'
suoi soldati la vittoria se gli eserciti si conducessino l'un
contr'all'altro a combattere.
Lib.15, cap.13
Invio di munizioni del duca di Ferrara al re di Francia; il duca di
Albania, capo della spedizione contro il reame di Napoli, presso
Lucca. Fazione di Varagine. Il duca di Albania a Siena:
riordinamento del governo della città. Fanti assoldati in Roma e dal
duca e dai Colonnesi suoi avversari.
Perseverava in questo tempo l'assedio di Pavia, benché cessato
alquanto per mancamento di munizioni il molestarla con
l'artiglierie. Alla quale difficoltà il re per provedere era stato
contento che il duca di Ferrara, ricevuto nuovamente da lui in
protezione, con obligo di pagargli in pecunia numerata settantamila
ducati, ne convertisse ventimila in valore di tante munizioni; le
quali si conducevano per il parmigiano e piacentino, con animali e
carra de' paesani prestate per commissione del pontefice: non senza
grave querela del viceré, come se questo fusse prestare
espressamente aiuto al re di Francia. Le quali perché sicuramente si
conducessino avea mandato a incontrarle, con dugento cavalli e mille
cinquecento fanti, Giovanni de' Medici: il quale, nel principio
della guerra, querelandosi di essere veduto con malo occhio dal
viceré né gli essere dati tanti danari che bastassino a muovere i
soldati, era dagli stipendi di Cesare passato agli stipendi del re.
E pareva che ad assicurare le munizioni bastasse questo presidio,
per la propinquità del duca di Albania il quale nel tempo medesimo
avea passato il Po; ma il viceré e il marchese di Pescara per
impedirle, gittato il ponte presso a Cremona, passorno il Po con
secento uomini d'arme e ottomila fanti, alloggiando a Monticelli il
primo dí: nondimeno, ritornorno presto di là dal fiume, avendo
sentito che il re per opporsi loro mandava Tommaso di Fois con una
parte dello esercito. Dopo la partita de' quali il duca di Albania
passò, per il territorio di Reggio e la Carfagnana, l'Apennino; ma
procedendo con lentezza tale che confermava l'opinione che il re,
piú per indurre con questo timore i capitani di Cesare o a concordia
o ad abbandonare le cose di Lombardia che per speranza di fare
progressi, tentasse questa impresa. Unissi con lui presso a Lucca
Renzo da Ceri con [tre]mila fanti venuti in sulla armata, alla quale
nel passare si era arrenduta Savona e Varagine; e ritornata l'armata
nella riviera occidentale di Genova teneva in sospetto quella città.
Séguita l'anno mille cinquecento venticinque. Nel principio del
quale don Ugo di Moncada, partito da Genova con l'armata, scese in
terra con tremila fanti a Varagine, dove erano a guardia alcuni
fanti de' franzesi; ma venendovi al soccorso l'armata franzese,
della quale era capitano il marchese di Saluzzo, l'armata inimica
essendo restata senza fanti si ritirò, però i fanti franzesi, scesi
in terra, assaltati gli inimici e mortine molti, gli roppono, e
presono don Ugo.
Nel principio dell'anno medesimo, il duca di Albania astrinse i
lucchesi a pagargli dodicimila ducati e a prestargli certi pezzi di
artiglierie; e dipoi proceduto piú innanzi per il dominio de'
fiorentini, da' quali fu raccolto come amico, si fermò con lo
esercito appresso a Siena: pregato a questo dal pontefice, il quale,
poi che né con l'autorità né con le armi poteva ovviare a quel che
gli era molesto, si sforzava di condurre i suoi disegni con l'arte e
con la industria. Non dispiaceva al pontefice che il re di Francia
conseguisse il ducato di Milano, parendogli che, mentre stavano in
Italia Cesare e il re, che la sedia apostolica e il suo pontificato
fussino sicuri dalla grandezza di ciascuno di loro. Questa medesima
ragione causava che gli fusse molesto che il re di Francia
acquistasse il regno di Napoli, acciò che in mano di uno principe
tanto potente non fusse in uno tempo medesimo quello reame e il
ducato di Milano: però, cercando occasione di differire l'andata del
duca di Albania, fece instanza col re che nel transito riordinasse
il governo di Siena; il quale il pontefice, essendo quella città
situata in mezzo tra Roma e Firenze, desiderava sommamente che fusse
in mano degli amici suoi, come per opera sua era stato pochi mesi
innanzi. Perché essendo, nel pontificato di Adriano morto il
cardinale Petruccio e pretendendo alla successione sua nel governo
Francesco suo nipote, se gli opposono per la sua insolenza i
principali del Monte de' nove, con tutto che fussero della medesima
fazione; facendo instanza col duca di Sessa, oratore cesareo, e col
cardinale de' Medici che fusse data altra forma al governo, o
riducendola a libertà o volgendo quella autorità a Fabio figliuolo
di Pandolfo Petrucci, benché non molto innanzi si fusse occultamente
fuggito da Napoli: la quale cosa, ventilata lungamente, fu
finalmente, come Clemente fu assunto al pontificato, per
consentimento comune suo e di Cesare, restituito Fabio nel luogo
paterno. Ma non avendo l'autorità che aveva avuta il padre, la città
quasi tutta inclinata alla libertà, quegli del Monte de' nove non
molto uniti con lui né molto concordi tra loro, la debolezza che ha
la potenza di uno quando non è fondata in sulla benivolenza de'
cittadini né si regge totalmente e senza rispetti a uso di tiranno,
partorí (non ostante che alla piazza fusse la guardia dependente da
lui) che suscitato uno giorno per opera de' suoi avversari, senza
aiuto alcuno de' forestieri, tumulto popolare, fu con piccola
difficoltà cacciato della città; donde il pontefice, il quale non
confidava né nella moltitudine né in altra fazione, deliberò ridurre
in loro l'autorità, per costituirne poi capo o Fabio o chi altri di
loro gli paresse: cosa che agli imperiali (come il sospetto
cominciato fa che tutte le cose si ripigliano in mala parte)
accrebbe l'opinione che la capitolazione tra il pontefice e il re di
Francia contenesse da ogni parte maggiori effetti e obligazioni che
di neutralità. Dal fermarsi il duca d'Albania intorno a Siena
procedette che i sanesi, per liberarsi dalle molestie dell'esercito,
dettono amplissima autorità a quegli cittadini che erano confidenti
al pontefice sopra l'ordinazione del governo: la qual cosa come fu
fatta, ricevute da' sanesi artiglierie e certa quantità di danari,
passò piú oltre, ma procedendo colla consueta tardità. Andò da
Montefiascone a Roma a parlare al pontefice, e di poi passato il
Tevere a Fiano si fermò nelle terre degli Orsini, dove si
raccoglievano i fanti che si soldavano in Roma con permissione del
pontefice; il quale permetteva medesimamente che i Colonnesi, i
quali per la difesa del regno di Napoli facevano la massa a Marino,
soldassino in Roma fanti. Ma per la tardità del procedere, e perché
da ogni parte apparivano pochissimi danari, era questo movimento in
piccolissimo concetto: gli occhi l'orecchie gli animi degli uomini
erano tutti attenti alle cose di Lombardia; le quali cominciando ad
affrettarsi al fine, accrescevano per vari accidenti a ciascuna
delle parti ora la speranza ora il timore.
Lib.15, cap.14
Difficoltà degli assediati in Pavia; risposta dei veneziani
all'oratore di Cesare. Scarsezza di danari nell'esercito di Cesare.
Milizie cesaree in marcia verso Pavia. Diversità di pareri nel
consiglio del re di Francia. Il re delibera di perseverare
nell'assedio della città; nuove disposizioni delle forze assedianti.
Le forze del re di Francia. Gli imperiali prendono il castello di
Sant'Angelo. Casi sfortunati per i francesi. Perché i grigioni
richiamano gli uomini propri soldati dal re. Appoggio del re
d'Inghilterra a Cesare.
Erano gli assediati in Pavia angustiati dalla carestia de' danari,
aveano strettezza di munizioni per l'artiglierie, cominciava a
mancare il vino e, dal pane in fuori, tutte l'altre vettovaglie;
onde i fanti tedeschi già quasi tumultuosamente dimandavano danari,
concitati dal capitano loro, oltre a quello che per se stessi
faceano: del quale si temeva che secretamente non fusse convenuto
col re di Francia. Da altra parte il viceré, avvicinandosi il duca
di Borbone, il quale conduceva dell'Alamagna cinquecento cavalli
borgognoni e seimila fanti tedeschi, soldati co' danari del re de'
romani, era andato a Lodi, ove pensavano raccorre tutto l'esercito;
riputando dovere avere esercito non inferiore agli inimici. Ma per
muovere i soldati e per sostentargli non aveano né danari né facoltà
alcuna di provederne, degli aiuti del pontefice e de' fiorentini
erano del tutto disperati, medesimamente di quegli de' viniziani. I
quali, dopo aver interposto varie scuse e dilazioni, aveano
finalmente risposto al protonotario Caracciolo, oratore di Cesare
appresso a loro, volere procedere secondo che procedesse il
pontefice, per mezzo del quale si credeva che secretamente avessino
convenuto col re di Francia di stare neutrali; anzi confortavano
occultamente il pontefice a fare scendere in Italia agli stipendi
comuni diecimila svizzeri, per non avere a temere della vittoria di
ciascuno de' due eserciti: cosa approvata da lui, ma per carestia di
danari e per sua natura, eseguita tanto lentamente che molto tardi
mandò in Elvezia il vescovo di Veroli a preparare gli animi loro.
Sollevò alquanto le difficoltà di Pavia la industria del viceré e
degli altri capitani: perché mandati nel campo franzese alcuni a
vendere vino, Antonio de Leva, avuto il segno, mandò a scaramucciare
da quella parte; donde levato il romore, i venditori, rotto il vaso
grande, corsono in Pavia con uno piccolo vasetto messo in quello,
nel quale erano rinchiusi tremila ducati: per la quale piccola somma
fatti capaci, i tedeschi della difficoltà del mandargli, stettono in
futuro piú pazienti. E levò anche il fomento de' tumulti la morte
del capitano, proceduta in tempo tanto opportuno che si credette
fusse stato, per opera di Antonio de Leva, morto di veleno. Nel qual
tempo, o poco prima, il marchese di Pescara, andato a campo a
Casciano, alla custodia della qual terra erano cinquanta cavalli e
quattrocento fanti italiani, gli costrinse ad arrendersi senza
alcuna condizione. Ma essendo venuto co' soldati tedeschi il duca di
Borbone, niuna altra cosa ritardava i capitani, ansii del pericolo
di Pavia, che il mancamento tanto grande di danari che non solamente
non potevano pensare agli stipendi dell'esercito ma aveano
difficoltà de' danari necessari a condurre le munizioni e
l'artiglierie: nella quale necessità, proponendo a' fanti la gloria
e le ricchezze che perverrebbono loro della vittoria, riducendo in
memoria quel che vincitori aveano conseguito per il passato,
accendendogli con gli stimoli dell'odio contro a' franzesi,
indussono i fanti spagnuoli a promettere di seguitare un mese intero
l'esercito senza ricevere danari, e i tedeschi a contentarsi di
tanti che bastassino a comperare le vettovaglie necessarie. Maggiore
difficoltà era negli uomini d'arme e ne' cavalli leggieri alloggiati
per le terre del cremonese e della Ghiaradadda; perché non avendo,
già molto tempo, ricevuti danari allegavano non potere, seguitando
l'esercito ove sarebbe necessario comperare tutte le vettovaglie,
sostentare sé e i cavalli. Lamentavansi essere meno grata e meno
stimata l'opera loro che quella de' fanti, ne' quali era stata, pur
qualche volta, distribuita alcuna quantità di danari, in essi, già
tanto tempo, niuna; e nondimeno non essere inferiori né di virtú né
di fede, ma molto superiori di nobiltà e di meriti passati. Mitigò,
gli animi di costoro il marchese di Pescara, andato a' loro
alloggiamenti; ora scusando ora consolandogli ora riprendendogli:
che quanto erano di virtú piú chiari, quanto piú era manifesto il
loro valore, tanto piú si doveano sforzare di non essere superati
da' fanti né di fede né di affezione verso Cesare, di cui si
trattava non solamente l'onore e la gloria ma di tutti gli stati che
aveva in Italia: la cui grandezza quanto amassino, a cui quanto
desiderassino servire, non dovere mai avere maggiore occasione di
dimostrarlo; e se tante volte aveano per Cesare esposta la vita
propria, che vergogna essere, che cosa nuova, che ora recusassino
mettere per lui vile quantità di pecunia? Dalle quali persuasioni e
dalla autorità del marchese mossi, consentirono di ricevere per un
mese quasi minima quantità di danari. Cosí raccolto tutto
l'esercito, nel quale si diceano essere settecento uomini d'arme,
pari numero di cavalli leggieri, mille fanti italiani e piú di
sedicimila tra spagnuoli e tedeschi, partiti da Lodi il vigesimo
quinto dí di gennaio, andorno il dí medesimo a Marignano;
dimostrando volere andare verso Milano, o perché il re mosso dal
pericolo di quella città si levasse da Pavia o per dare causa di
partirsi da Milano a' soldati che vi erano alla custodia: nondimeno,
passato poi appresso a Vidigolfo il fiume del Lambro, si dirizzorno
manifestamente verso Pavia.
Pagava il re nell'esercito [mille trecento] lancie diecimila
svizzeri quattromila tedeschi cinquemila franzesi e settemila
italiani, benché, per le fraudi de' capitani e per la negligenza de'
suoi ministri, il numero de' fanti era molto minore. Alla guardia di
Milano era Teodoro da Triulzi con [trecento] lancie semila fanti tra
grigioni e vallesi e tremila franzesi; ma quando gli imperiali si
voltorno verso Pavia richiamò, da duemila in fuori, tutti i fanti
all'esercito. All'uscita degli imperiali alla campagna, si disputava
nel consiglio del re quello che fusse da fare; e... della
Tramoglia,... della Palissa, Tommaso di Fois e molti altri capitani
confortavano che il re si levasse coll'esercito dall'assedio di
Pavia, e si fermasse o al monasterio della Certosa o a Binasco,
alloggiamenti forti (come ne sono spessi nel paese) per i canali
dell'acque derivate per annaffiare i prati. Dimostravano che in
questo modo si otterrebbe presto, e senza sangue e senza pericolo,
la vittoria; perché l'esercito inimico, non avendo danari, non
poteva sostentarsi insieme molti dí ma era necessitato o a
dissolversi o a ridursi ad alloggiare sparso per le terre: che i
tedeschi che erano in Pavia, i quali, per non essere imputati di
coprire la timidità con la scusa del non essere pagati, sopportavano
pazientemente, creditori già dello stipendio di molti mesi, subito
che e' fusse levato l'assedio dimanderebbono il pagamento; al quale
non avendo i capitani modo di provedere né speranza apparente colla
quale gli potessino, benché vanamente, nutrire, conciterebbono
qualche pericoloso tumulto: non conservarsi insieme gli inimici con
altro che colla speranza di fare presto la giornata; i quali, come
vedessino allungarsi la guerra e discostarsi l'opportunità del
combattere, si empierebbono di difficoltà e di confusione.
Dimostravano quanto fusse pericoloso stare con l'esercito in mezzo
di una città, nella quale erano cinquemila fanti di nazione
bellicosissima, e di uno esercito che veniva per soccorrerla,
potente e di numero d'uomini e di virtú e di esperienza di capitani
e di soldati, e feroce per le vittorie ottenute per il passato, e il
quale avea collocato tutte le speranze sue nel combattere. Non
essere infamia alcuna il ritirarsi quando si fa per prudenza non per
timidità, quando si fa per ricusare di non mettere in dubbio le cose
certe, quando il fine propinquo della guerra ha a dimostrare a tutto
il mondo la maturità del consiglio; e niuna vittoria essere piú
utile piú preclara piú gloriosa che quella che s'acquista senza
danno e senza sangue de' suoi soldati; e la prima laude nella
disciplina militare consistere piú nel non si opporre senza
necessità a' pericoli, nel rendere, con la industria con la pazienza
e con l'arti, vani i conati degli avversari, che nel combattere
ferocemente. Il medesimo era consigliato al re dal pontefice, a cui
il marchese di Pescara, temendo di tanta povertà, aveva prima
significato, le difficoltà dell'esercito di Cesare essere tali che
gli troncavano quasi tutta la speranza di prosperi successi.
Nondimeno il re, le cui deliberazioni si reggevano solamente co'
consigli dell'ammiraglio, avendo piú innanzi agli occhi i romori
vani, e per ogni leggiero accidente variabili, che la sostanza salda
degli effetti, si riputava ignominia grande che l'esercito, nel
quale egli si trovava personalmente, dimostrando timore cedesse alla
venuta degli inimici; e lo stimolava (quello di che quasi niuna cosa
fanno piú imprudentemente i capitani) che si era quasi obligato a
seguitare co' fatti le parole dette vanamente: perché e palesemente
aveva affermato, e molte volte in Francia e per tutta Italia
significato, che prima eleggerebbe la morte che muoversi senza la
vittoria da Pavia. Sperava nella facilità di fortificare il suo
alloggiamento di maniera che non potria essere disordinato allo
improviso da assalto alcuno; sperava che, per l'inopia de' danari,
ogni piccola dilazione disordinerebbe gli inimici, i quali, non
avendo facoltà di comperare le vettovaglie e necessitati di andare
predando i cibi per il paese, non potrebbono stare fermi agli
alloggiamenti; sperava similmente dare impedimento alle vettovaglie
che s'arebbono a condurre al campo, delle quali sapeva la maggiore
parte essere destinata da Cremona, perché di nuovo avea soldato
Giovanlodovico Palavicino, acciò che o occupasse Cremona, dove era
piccolo presidio, o almeno interrompesse la sicurtà che da quella
città si movessino le vettovaglie. Queste ragioni confermorno il re
nella pertinacia di perseverare nell'assedio di Pavia, e per
impedire agli inimici l'entrarvi ridusse in altra forma
l'alloggiamento dell'esercito. Alloggiava prima il re, dalla parte
di Borgoratto, alla badia di San Lanfranco, posta circa un mezzo
miglio di là da Pavia e oltre alla strada per la quale da Pavia si
va a Milano e in sul fiume del Tesino, vicino al luogo dove fu
tentata la diversione dell'acque; la Palissa, e con l'avanguardia e
co' svizzeri, alle Ronche, nel borgo appresso alla porta di Santa
Iustina, fortificatosi alle chiese di San Piero di Sant'Appollonia e
di San Ieronimo; alloggiava Giovanni de' Medici, co' cavalli e fanti
suoi, alla chiesa di San Salvadore. Ma intesa la partita degli
inimici da Lodi, andò ad alloggiare nel barco, al palagio di
Mirabello situato di qua da Pavia; lasciati a San Lanfranco i fanti
grigioni, ma non mutato l'alloggiamento della avanguardia.
Ultimatamente, passò il re ad alloggiare a' monasteri di San Paolo e
di San Iacopo luoghi comodi ed eminenti e cavalieri alla campagna,
vicinissimi a Pavia ma alquanto fuori del barco; trasferito ad
alloggiare a Mirabello [monsignore] d'Alansone col retroguardo. E
per potere soccorrere l'un l'altro roppono il muro del barco da
quella parte, occupando lo spazio del campo insino al Tesino, dalla
parte di sotto, e dalla parte di sopra insino alla strada milanese;
di maniera che, tenendo circondata intorno intorno Pavia, e il
Gravelone e il Tesino e la Torretta, che è dirimpetto alla darsina
in mano del re, non potevano gli imperiali entrare in Pavia se o non
passavano il Tesino o non entravano per il barco.
Risedeva il peso del governo dell'esercito nell'ammiraglio: il re,
consumando la maggiore parte del tempo in ozio e in piaceri vani, né
ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri
capitani, si consigliava con lui; udendo ancora Anna di Memoransí,
Filippo Ciaboto di Brione e... di San Marsau, persone al re grate ma
di piccola esperienza nella guerra. Né corrispondeva il numero
dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio
a quello che ne credeva esso medesimo: perché, essendo della
cavalleria una parte andata col duca di Albania un'altra parte
rimasta con Teodoro da Triulzi alla guardia di Milano, molti
alloggiando sparsi per le ville e terre circostanti, non
alloggiavano fermamente nel campo oltre ottocento lancie, e de'
fanti, de' quali si pagava, per le fraudi de' capitani e per la
negligenza de' ministri del re, numero immoderato, era diversissima
la verità dall'opinione, ingannando sopra tutti gli altri i capitani
italiani, i quali lo stipendio per moltissimi fanti ricevevano ma
pochissimi ne tenevano: il medesimo accadeva ne' fanti franzesi.
Duemila valligiani, che alloggiavano a San Salvadore tra San
Lanfranco e Pavia, assaltati all'improviso da quegli di dentro,
erano stati dissipati.
In questo stato delle cose i capitani imperiali, passato che ebbero
il Lambro, si accostorno al castello di Santangelo; il quale,
situato tra Lodi e Pavia, arebbe dato, se non fusse stato in potestà
loro, impedimento grandissimo al condurre delle vettovaglie da Lodi
allo esercito. Guardavalo Pirro fratello di Federico da Bozzole con
[du]cento cavalli e [otto]cento fanti; e il re, pochi dí prima, per
non mettere i suoi temerariamente in pericolo, aveva mandato a
considerare il luogo il medesimo Federico e Iacopo Cabaneo, i quali
riferirono quel presidio essere bastante a difenderlo. Ma
l'esperienza dimostrò la fallacia de' discorsi loro: perché
essendovisi accostato Ferdinando Davalo co' fanti spagnuoli e avendo
con l'artiglierie levate alcune difese, quegli di dentro impauriti
si ritirorno il dí medesimo nella rocca, e poche ore dappoi
pattuirono che, rimanendo prigioni Pirro, Emilio Cavriana e tre
figliuoli di Febus da Gonzaga, gli altri tutti, lasciate l'armi e i
cavalli e promesso non militare per un mese contro a Cesare, si
partissero.
Chiamò ancora il re dumila fanti italiani di quegli di Marsilia, che
erano a Savona; i quali (secondo scrive il Capella) essendo arrivati
nello alessandrino presso al fiume di Urbe, Gaspar Maino, che con
mille settecento fanti era a guardia di Alessandria, uscito fuora
con poca gente, gli assaltò; e avendogli trovati stracchi per il
cammino e senza guardie, perché non avevano sospetto di essere
assaltati, gli ruppe con poca fatica; e fuggendo nel Castellaccio,
entrò dentro alla mescolata con loro: i quali si arrenderono con
diciassette insegne. Né ebbe migliore successo la cura data a Gian
Lodovico Palavicino; il quale, entrato con quattrocento cavalli e
dumila fanti in Casalmaggiore, dove non erano mura, e fattivi ripari
e occupato dipoi San Giovanni in Croce, cominciò di quel luogo a
correre il paese, attendendo quanto poteva a rompere le vettovaglie.
Però Francesco Sforza, che era a Cremona, fatto con difficoltà mille
quattrocento fanti, gli mandò con pochi cavalli di Ridolfo da
Camerino e co' cavalli della sua guardia verso Casalmaggiore, sotto
Alessandro Bentivoglio; i quali accostatisi, il Palavicino col quale
era Niccolò Varolo soldato de' franzesi, il decimo ottavo dí di
febbraio, confidando nello avere piú gente, non aspettato Francesco
Rangone che doveva venire con altri fanti e cavalli, uscito fuora si
attaccò con loro; e volendo sostenere i suoi che già si ritiravano,
fatto cadere da cavallo, fu fatto prigione e tutti i suoi rotti e
dissipati.
Aggiunsesi alle cose del re di Francia un'altra difficoltà: perché
Gian Iacopo de' Medici da Milano, castellano di Mus, dove era stato
mandato dal duca di Milano per l'omicidio fatto di Monsignorino
Ettor Visconte, posto di notte uno agguato a canto alla rocca di
Chiavenna, situata in su uno colle a capo del lago e distante dalle
case del castello, prese il castellano, uscito fuora a passeggiare,
e condotto subito alla porta della rocca minacciando di ammazzarlo,
indusse la moglie a dargli la rocca; il che fatto, egli, immediate,
scopertosi di un altro agguato con trecento fanti ed entrato per la
rocca nella terra, la prese: donde le leghe de' grigioni, pochi dí
innanzi al conflitto, revocorno i seimila grigioni che erano nello
esercito del re.
Arrivò in questo tempo nello esercito imperiale il cavaliere da
Casale, mandato dal re d'Inghilterra con promesse grandi, e con
ordine di levare i cinquantamila ducati di Viterbo: perché quel re,
cominciando ad avere invidia alla prosperità del re di Francia, e
mosso ancora che nel mare di verso Scozia erano state prese dai
franzesi certe navi inghilesi, minacciava rompere la guerra in
Francia, e desiderava sostenere l'esercito imperiale. Però commesse
al Pacceo, che era a Trento, che andasse a Vinegia a protestare in
nome suo la osservanza della lega; alla quale si sperava gli avesse
a indurre piú facilmente che Cesare aveva mandato la investitura di
Francesco Sforza in mano del viceré, con ordine ne disponesse
secondo le occorrenze delle cose. Fece ancora il re d'Inghilterra
pregare dall'oratore suo il pontefice che aiutasse le cose di
Cesare; a che il pontefice si scusò per la capitolazione fatta col
re di Francia, per sua sicurtà, senza offesa di Cesare; dolendosi
ancora che, dopo il ritorno dello esercito di Provenza, era stato
venti dí innanzi avesse potuto intendere i loro disegni, e se
avevano animo di difendere o di abbandonare lo stato di Milano.
Lib.15, cap.15
Gli imperiali, occupati i luoghi vicini a Pavia, si accostano
all'esercito nemico; sussidio di munizioni agli assediati.
Scaramuccie fra i soldati nemici; trattative di tregua per opera dei
nunzi del pontefice presso i due eserciti. Ferita di Giovanni de'
Medici. Battaglia di Pavia.
Ma erano già di piccolo momento i trattamenti e le pratiche de'
príncipi e le diligenze e sollecitudini degli imbasciadori, perché
approssimandosi gli eserciti si riduceva la somma di tutta la
guerra, e delle difficoltà e pericoli sostenuti molti mesi, alla
fortuna di poche ore. Conciossiaché l'esercito imperiale, dopo
l'acquisto di Santo Angelo, spingendosi innanzi andò ad alloggiare,
il primo dí di febbraio, a Vistarino e il secondo dí a Lardirago,
Santo Alesso e le due porte del barco, passato la Lolona piccolo
fiumicello; il quale alloggiamento era propinquo quattro miglia a
Pavia e a tre miglia del campo franzese: e il terzo o quarto dí di
febbraio venne ad alloggiare in Prati, credo verso porta Santa
Iustina, distendendosi tra Prati, Trelevero e la Motta, e in uno
bosco a canto a San Lazzero; alloggiamenti vicini a due miglia e
mezzo di Pavia, a uno miglio della vanguardia franzese e a mezzo
miglio de' ripari e fosse del campo loro, e tanto vicini che molto
si danneggiavano con l'artiglierie. Avevano gli imperiali occupato
Belgioioso e tutte le terre e il paese che avevano alle spalle
eccetto San Colombano, nel quale perseverava la guardia franzese, ma
assediata, che niuno poteva uscirne: avevano in Santo Angelo e in
Belgioioso trovata quantità grande di vettovaglie; e si sforzavano,
per esserne piú copiosi, acquistare il Tesino come avevono
acquistato il Po, donde le impedivano a' franzesi: tenevano Santa
Croce; e avendo il re, quando andò ad alloggiare a Mirabello,
abbandonata la Certosa, non vi andavano gli imperiali perché non
fussino impedite loro le vettovaglie. Tenevano San Lazzero i
franzesi, ma per l'artiglierie degli inimici non ardivano di starvi.
Correva in mezzo tra l'uno e l'altro alloggiamento una roza, cioè
uno rivolo di acqua corrente detto la Vernacula, che ha origine nel
barco; il quale passando in mezzo tra San Lazzero e San Piero in
Verge entra nel Tesino: il quale, come molto importante, sforzandosi
gli imperiali di passare per potere con minore difficoltà procedere
piú innanzi, i franzesi valorosamente lo difendevano; e ciascuno
sollecitamente il proprio alloggiamento fortificava. Il canale della
Vernacula era alquanto profondo, con le ripe alte in modo non si
poteva passare senza ponte; e passava tra Santa Croce e San Lazzero.
Aveva lo alloggiamento del re grossi ripari a fronte alle spalle e
al fianco sinistro, circondati da fossi e fortificati con bastioni,
e al fianco destro il muro del barco di Pavia; in modo era riputato
fortissimo. Simigliante fortificazione aveva l'alloggiamento degli
imperiali, quali tenevano tutto il paese da San Lazzero verso
Belgioioso insino al Po; in modo che l'esercito abbondava di
vettovaglie. Vicini i ripari dell'uno alloggiamento all'altro a
quaranta passi, e i bastioni sí propinqui che si tiravano con gli
archibusi. In questo modo stavano alloggiati gli eserciti l'ottavo
dí di febbraio, e scaramucciavano a ogn'ora; ma ciascuno teneva il
campo nel forte suo, non volendo fare giornata a disavvantaggio; e
pareva a' capitani imperiali avere insino a quel dí guadagnato
assai, poiché si erano accostati tanto a Pavia che facendosi
giornata potevano essere aiutati dalle genti che vi erano dentro.
Pativasi in Pavia di munizioni; però gli imperiali mandorno
cinquanta cavalli, ciascuno con uno valigiotto in groppa pieno di
polvere; i quali entrati di notte per la via di Milano, aspettando
che per ordine di quegli del campo si facesse dare all'arme a'
franzesi, si condussono salvi in Pavia: donde spesso uscendo Antonio
de Leva, e infestando quegli di fuora, assaltati i grigioni che
erano alla guardia di Borgoratto e di San Lanfranco, tolse loro tre
pezzi di artiglieria e parecchie carra cariche di munizioni. I
quali, pochi dí poi, revocati da' loro superiori si partirno
dall'esercito.
In questo stato delle cose era incredibile la vigilanza la industria
e le fatiche del corpo e dell'animo del marchese di Pescara, il
quale dí e notte non cessava, con scaramuccie col dare all'arme con
fare nuovi lavori, di infestare gli inimici; spingendosi sempre
innanzi, con cavamenti con fossi e con bastioni. Lavoravano uno
cavaliere sopra il canale, e danneggiandogli molto i franzesi con
due pezzi piantati a San Lazzero, voltatavi l'artiglieria lo
rovinorno, e gli costrinsono ad abbandonarlo. Però pativano i
franzesi molto da uno cavaliere fatto nel campo, e il simigliante da
un altro che era fatto a Pavia. Ed eransi fortificati in modo con
bastioni e con ripari, e fatti tali cavalieri, che offendevano assai
il campo franzese ed erano poco offesi: però i franzesi mutavano
artiglierie, per battergli per fianco, facendo continuamente ogni
opera gli spagnuoli per andare innanzi a palmo a palmo. Erano anche,
in tanta vicinità, frequenti le scaramuccie, nelle quali quasi
sempre i franzesi restavano inferiori; non si intermettendo in parte
alcuna le fazioni per la pratica della tregua, la quale
continuamente si trattava per i nunzi del pontefice che erano
nell'uno esercito e nell'altro; né mancando anche, assiduamente,
molti de' piú intimi del re, e il pontefice molte volte, di
confortarlo che per fuggire tanto pericolo si discostasse con
l'esercito da Pavia, per essere necessario che, per la penuria che
avevano gli inimici di danari, ottenesse in brevissimo tempo e senza
sangue la vittoria. Il decimo settimo dí di febbraio, quegli di
Pavia usciti fuora scaramucciorno con la compagnia di Giovanni de'
Medici, il quale onorevolmente gli rimesse dentro; e ritornando poi
a mostrare all'ammiraglio il luogo e le cose accadute nella fazione,
essendo ascosti alcuni scoppettieri in una casa, fu ferito con uno
scoppio sopra 'l tallone e rottogli l'osso, con dispiacere grande
del re; per la quale ferita fu necessitato farsi portare a Piacenza.
Per la ferita del quale si rimesse, nelle scaramuccie e negli
assalti subiti, tutta la ferocia del campo franzese; e quegli di
Pavia, uscendo ogni dí fuora con maggiore ardire, e avendo
abbruciata la badia di San Lanfranco, sempre battevano i franzesi, i
quali parevano molto inviliti; e la notte de' diciannove venendo i
venti, il marchese di Pescara con tremila fanti spagnuoli assaltò i
bastioni de' franzesi, e salito (secondo scrive il Numaio) su per i
ripari, ammazzò piú di cinquecento fanti e inchiodò tre pezzi di
artiglieria.
Finalmente, non essendo possibile a' capitani imperiali sostenere
piú, per mancamento di danari, l'esercito loro in quello
alloggiamento, e considerando che ritirandosi non solo si perdeva
Pavia ma restavano senza speranza di difendere l'altre cose che
possedevano del ducato di Milano, avendo anche grandissima
confidenza di ottenere la vittoria per la virtú de' soldati loro e
perché nell'esercito franzese erano moltissimi disordini, e oltre a
esserne partiti molti fanti non corrispondendo il numero, di
lunghissimo intervallo, a quegli che erano pagati: la notte avanti
il vigesimoquinto dí di febbraio, giorno dedicato secondo il rito
de' cristiani all'apostolo Matteo e il medesimo dí natale di Cesare,
deliberati, secondo dicono alcuni, di assaltare l'esercito del re,
altri dicono, di andare a Mirabello dove alloggiavano alcune
compagnie di cavalli e di fanti, con intenzione, non si movendo i
franzesi, di avere liberato lo assedio di Pavia, e movendosi,
tentare la fortuna della giornata, - però avendo (secondo scrivono
alcuni) fatto dare nelle prime parti della notte piú volte all'armi
per straccare i franzesi, fingendo volergli assaltare verso il Po,
Tesino e San Lazzero, dipoi, a mezza notte, essendosi per
comandamento de' capitani tutti i soldati messi una camicia bianca
sopra l'armi per segno di riconoscersi da' franzesi, fatto (secondo
scrive il Cappella) due squadre di cavalli e quattro di fanti, nella
prima seimila fanti divisi in parti eguali di tedeschi spagnuoli e
italiani sotto il marchese del Guasto, la seconda solo di fanti
spagnuoli, la terza e quarta di tedeschi; - e arrivati al muro del
barco, con muratori ed eziandio con aiuto de' soldati, essendo
qualche ora innanzi giorno, gittorno in terra sessanta braccia di
muro, secondo il Cappella: il Numaio, che andorno alle due porte del
barco, presonle ed etiam gittorno a terra piú braccia di mura
secondo il Barba, roppeno in piú luoghi il muro del barco per fare
in uno tempo tre assalti: uno con tremila fanti tra lanzi e
spagnuoli alla volta di Mirabello, dove (secondo lui) alloggiava il
re con parte dello esercito; l'altro nel resto delle genti d'arme
che erano piú a basso co' svizzeri, nel bosco grande del barco, e
questi due assalti non con grande sforzo ma tanto che intratenesse;
e col resto del campo assaltare al traverso del campo franzese. E
scrive il Cappella che il muro fu gittato in terra con tanto
silenzio che i franzesi non sentirno, ma di questo il re poi disse
il contrario; e che entrati nel barco, la prima squadra andò alla
volta di Mirabello, il resto dello esercito alla volta del campo; ma
che il re, intesa la entrata nel barco, pensando andassino a
Mirabello, uscí degli alloggiamenti e venne a combattere in su la
campagna, la quale credo fusse aperta e spianata dal re, desideroso
si combattesse piú presto quivi che altrove, per la superiorità di
cavalli. E secondo il Numaio, presono il cammino verso Mirabello e
castel di Pavia; e che i franzesi, credendo volessino andare a
Milano, voltorno subito l'artiglierie e feciono grande danno al
retroguardo; e che gli imperiali avevano nella vanguardia
quattrocento cavalli leggieri e quattromila tra archibusieri e
scoppiettieri, che si attaccorno con lo squadrone del re, che
ordinariamente era la battaglia ma, secondo camminavano gli
spagnuoli, fu la vanguardia. Scrive il Cappella che, scontrato il re
nella prima squadra degli spagnuoli, i suoi furno costretti dagli
scoppi a piegare, insino a tanto che, sopravenendo i svizzeri, gli
spagnuoli furno ributtati da' svizzeri e dalla cavalleria che gli
assaltò per fianco; e che sopragiunsero i tedeschi e ruppeno con
molta uccisione i svizzeri: ed essendo il re con grande numero di
gente d'arme entrato nella battaglia, e sforzandosi fermare i suoi,
dopo avere combattuto alquanto, ferito il cavallo ed egli caduto in
terra, fu preso da cinque soldati che non lo conoscevano; ma
sopravenendo il viceré, dandosi a conoscere venne in sua mano. Nel
quale tempo, il Guasto con la prima squadra aveva rotto i cavalli
che erano a Mirabello; e il Leva, il quale (secondo dicono alcuni)
aveva a questo effetto gittato in terra tanto spazio di muro che
potevano uscirne in uno tempo medesimo cento e cinquanta cavalli,
uscito di Pavia aveva assaltato i franzesi alle spalle, in modo che
tutti si messono in fuga, e quasi tutti svaligiati eccetto il
retroguardo de' cavalli, il quale, sotto Alanson, nel principio
della battaglia si ritirò intero. Scrive il Barba che quella terza
parte piú grossa, che assaltò al traverso del campo franzese, fu
piegata dalle artiglierie di sorte che se il viceré, per avviso di
Pescara, non soccorreva erano rotti, ma la sua giunta gli ricompose
e seguitò lo assalto gagliardo; che la scoppietteria spagnuola dette
ne' svizzeri, e gli voltò di sorte che fece fare il medesimo alla
gente d'arme; che quegli di Pavia con sei bandiere assaltorono i
fanti franzesi che alloggiavano quasi al diritto del castello, e con
l'aiuto dell'artiglierie gli ruppeno subito; che al re fu morto il
cavallo sotto, e ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente
nel volto. Il Numaio: che lo squadrone del re, assaltato da detti
scoppiettieri, si messe in rotta, e nel ritirarsi disordinò gli
altri fanti e il resto dello esercito; che al re fu morto il cavallo
sotto, ed essendo in mezzo di molti che lo volevano prigione vi
corse il viceré, e con molte riverenze gli baciò la mano, e [lo]
ricevé prigione in nome dello imperadore, ferito leggiermente in una
mano e piú leggiermente nel volto; e che di Pavia uscirno tutti i
cavalli e tremila fanti. Il Cappella: che in questa giornata
morirno, tra di ferro e di essere affogati, fuggendo, nel Tesino,
piú di ottomila nel campo franzese e circa venti de' primi signori
di Francia, tra' quali l'ammiraglio, Iacopo Cabanneo, il marisciallo
di Francia (credo sia la Palissa), la Tramoglia, il grande scudiere,
Obigní, Boisí e lo Scudo; il quale, pervenuto ferito in potestà
degli inimici, espirò presto. Furono fatti prigioni il re di
Navarra, il bastardo di Savoia, Memoransí, San Polo, Brione, La
Valle, Ciandé, Ambricort, Galeazzo Visconte, Federigo da Bozzole,
Bernabò Visconte, Guidanes e infiniti gentiluomini, e quasi tutti i
capitani che non furono ammazzati; fu preso anche Ieronimo Leandro
vescovo di Brindisi, nunzio del pontefice, ma per comandamento del
viceré fu liberato: de' quali prigioni San Polo e Federigo da
Bozzole, condotti nel castello di Pavia, non molto dipoi, corrotti
gli spagnuoli che gli guardavano, si liberorno con la fuga. Che
degli imperiali morirno circa settecento, ma nessuno capitano
eccetto Ferrando Castriota marchese di Santo Angelo; e che la preda
fu sí grande che mai furno in Italia soldati piú ricchi. Il marchese
di Pescara ebbe due ferite di picca e una di scoppio, e Antonio da
Leva fu ferito leggiermente in una gamba. E de' franzesi annegorno
molti nel Tesino; e Pavia si poteva poco piú tenere, mancandovi
massime il vino. E i genovesi avevano poco innanzi fatto tregua co'
franzesi per tempo di uno mese. E il Numaio: che nella giornata
morirno in tutto seimila uomini. Salvossi di tanto esercito il
retroguardo guidato da Alanson, di [quattrocento] lancie; il quale,
senza combattere o essere assaltato o seguitato, intero, ma lasciati
i carriaggi, si ritirò con grandissima celerità nel Piamonte. Della
quale vittoria subito che fu pervenuto il rumore a Milano, Teodoro
da Triulzi restatovi in presidio con quattrocento lancie, se ne
partí verso Musocco, seguitandolo tutti i soldati alla sfilata: in
modo che, il dí medesimo che fu fatta la giornata, restò libero dai
franzesi tutto il ducato di Milano. Fu il re condotto, il dí
seguente dopo la vittoria, nella rocca di Pizzichitone; perché il
duca di Milano per sicurtà propria malvolentieri consentiva che e'
fusse condotto nel castello di Milano: dove, dalla libertà [in
fuori], che era guardato con somma diligenza, era in tutte l'altre
cose trattato e onorato come re.
E fu di questo successo attribuita per tutto colpa grande o alla
avarizia o alla pusillanimità del pontefice: il quale, se al
desiderio che ebbe di sospendere l'armi tra gli eserciti, insino a
tanto che tra i príncipi si fusse convenuto delle differenze
principali, avesse accompagnato l'armarsi potentemente e spignere le
genti a Parma e Piacenza, non solo arebbe conservato sé in maggiore
riputazione, e con piú sicurtà per tutti i casi che potessino
succedere, ma eziandio arebbe maneggiato con piú autorità la
concordia: trattandola in modo che ciascuna delle parti avesse causa
di dubitare che egli pigliasse l'arme in favore di coloro che
fussino manco alieni dalla concordia. Ma mentre che, rinvolto nelle
sue irresoluzioni e nella cupidità di non spendere, differisce di dí
in dí l'armarsi, e però con piccola autorità si interpone alla
concordia, avendo la giornata posto fine alla guerra, e in tempo che
stimolato dai viniziani e confortato da molti altri e ammonito dal
pericolo che gli era imminente da chi restasse vincitore si
risolveva a soldare in compagnia de' viniziani diecimila svizzeri...
Lib.16, cap.1
Apprensioni dei governi italiani per la potenza di Cesare dopo la
battaglia di Pavia. Particolari ragioni di apprensione dei veneziani
e del pontefice. Ragioni del pontefice di temere dell'inimicizia di
Cesare. Proposte di accordi dei veneziani al pontefice.
Essendo adunque, nella giornata fatta nel barco di Pavia, non solo
stato rotto dall'esercito cesareo l'esercito franzese ma restato
ancora prigione il re cristianissimo e morti o presi appresso al suo
re la maggiore parte de' capitani e della nobiltà di Francia,
portatisi cosí vilmente i svizzeri i quali per il passato aveano
militato in Italia con tanto nome, il resto dello esercito spogliato
degli alloggiamenti non mai fermatosi insino al piede de' monti, e
(quello che maravigliosamente accrebbe la riputazione de' vincitori)
avendo i capitani imperiali acquistato una vittoria sí memorabile
con pochissimo sangue de' suoi, non si potrebbe esprimere quanto
restassino attoniti tutti i potentati d'Italia; a' quali, trovandosi
quasi del tutto disarmati, dava grandissimo terrore l'essere restate
l'armi cesaree potentissime in campagna, senza alcuno ostacolo degli
inimici: dal quale terrore non gli assicurava tanto quel che da
molti era divulgato della buona mente di Cesare, e della
inclinazione sua alla pace e a non usurpare gli stati di altri,
quanto gli spaventava il considerare essere pericolosissimo che
egli, mosso o da ambizione, che suole essere naturale a tutti i
príncipi, o da insolenza che comunemente accompagna le vittorie,
spinto ancora dalla caldezza di coloro che in Italia governavano le
cose sue, dagli stimoli finalmente del consiglio e di tutta la
corte, voltasse, in tanta occasione bastante a riscaldare ogni
freddo spirito, i pensieri suoi a farsi signore di tutta Italia;
conoscendosi massime quanto sia facile a ogni principe grande, e
molto piú degli altri a uno imperadore romano, giustificare le
imprese sue con titoli che apparischino onesti e ragionevoli.
Né erano travagliati da questo timore solamente quegli di autorità e
forze minori ma, quasi piú che gli altri, il pontefice e i
viniziani: questi, non solo per la coscienza di essergli mancati,
senza giusta causa, ai capitoli della loro confederazione ma molto
piú per la memoria degli antichi odii e delle spesse ingiurie state
tra loro e la casa d'Austria e delle gravi guerre avute, pochi anni
innanzi, con l'avolo suo Massimiliano, per le quali si era, nello
stato che e' posseggono in terra ferma, rinfrescato
maravigliosamente il nome e la memoria delle ragioni, quasi
dimenticate, dello imperio; e per conoscere che ciascuno che avesse
in animo di stabilire grandezza in Italia era necessitato a pensare
di battere la potenza loro, troppo eminente: il papa, perché, dalla
maestà del pontificato in fuora, la quale ne' tempi ancora della
antica riverenza che ebbe il mondo alla sedia apostolica fu spesso
mal sicura dalla grandezza degli imperadori, si trovava per
ogn'altro conto molto opportuno alle ingiurie, perché era disarmato,
senza danari e con lo stato della Chiesa debolissimo nel quale sono
rarissime terre forti, non popoli uniti o stabili alla divozione del
suo principe, ma diviso quasi tutto il dominio ecclesiastico in
parte guelfa e ghibellina e i ghibellini, per inveterata e quasi
naturale impressione, inclinati al nome degli imperadori, e la città
di Roma sopra tutte l'altre debole e infetta di questi semi.
Aggiugnevasi il rispetto delle cose di Firenze, le quali, dependendo
da lui ed essendo grandezza propria e antica della sua casa, non gli
erano forse manco a cuore che quelle della Chiesa; né era manco
facile lo alterarle, perché quella città, poiché nella passata del
re Carlo ne furono cacciati i Medici, avendo sotto nome della
libertà gustato diciotto anni il governo popolare, era stata
malcontenta del ritorno loro, in modo che pochi vi erano a' quali
piacesse veramente la loro potenza.
Alle quali occasioni, tanto potenti, temeva sommamente il pontefice
che non si aggiugnesse volontà non mediocre di offenderlo, non tanto
perché dalla ambizione de' piú potenti non è mai sicuro in tutto chi
è manco potente quanto perché temeva che, per diverse cagioni, non
fusse in questo tempo esoso a Cesare il nome suo: discorrendo seco
medesimo che, se bene, e vivente Lione e poi mentre era cardinale,
si fusse affaticato molto per la grandezza di Cesare, anzi Lione ed
egli con grandissime spese e pericoli gli avessino aperta in Italia
la strada a tanta potenza, e che, come fu assunto al pontificato,
avesse dato danari, mentre che l'ammiraglio era in Italia, a' suoi
capitani e fattone dare da' fiorentini, né levate dell'esercito le
genti della Chiesa e di quella republica; nondimeno, che presto, o
considerando che allo offizio suo si apparteneva essere padre e
pastore comune tra i príncipi cristiani, e piú presto autore di pace
che fomentatore di guerre, o cominciando tardi a temere di tanta
grandezza, si era ritirato da correre la medesima fortuna; in modo
che non aveva voluto rinnovare la confederazione fatta per la difesa
d'Italia dal suo antecessore; e quando, l'anno dinanzi, l'esercito
suo entrò col duca di Borbone in Provenza non aveva voluto aiutarlo
con denari; il che se bene non dette giusta querela a' ministri di
Cesare (non essendo egli, anche per la lega di Adriano, tenuto a
concorrere contro a' franzesi [che] nelle guerre di Italia),
nondimeno erano stati princípi di fare che non lo riputassino piú
una cosa medesima con Cesare, anzi diminuissino assai della fede che
insino a quel dí in lui avuta avevano; come quegli che, menati solo
o dallo appetito o dal bisogno, avevano quasi per offesa se alle
imprese loro particolari, fatte per occupare la Francia, non
mettevano le spalle anche gli altri, come prima si era fatto alle
universali cominciate sotto titolo di assicurare Italia dalla
potenza de' franzesi. Ma cominciorono e scopersonsi le querele e i
dispiaceri quando il re di Francia passò alla impresa di Milano.
Perché se bene il papa, secondo che scrisse poi nel breve suo
querelatorio a Cesare, desse occultamente qualche quantità di danari
nel ritorno di Marsilia, nondimeno dipoi non si era stretto e inteso
con loro, ma subito che il re ebbe acquistato la città di Milano,
parendogli che le cose sue procedessino prosperamente, aveva
capitolato con lui; e ancora che egli se ne scusasse con Cesare,
allegando che in quel tempo, non avendo i capitani suoi per spazio
di venti dí significatogli alcuno de' loro disegni, e dipoi
disperando della difesa di quello stato e temendo eziandio di
Napoli, e spingendosi il duca d'Albania con le genti verso Toscana,
era stato necessitato pensare alla sicurtà sua, ma non avere però
potuto in lui tanto il rispetto del proprio pericolo che e' non
avesse accordato con condizioni per le quali non manco si provedeva
alle cose di Cesare che alle sue, e che e' non avesse disprezzato
partiti grandissimi offertigli dal re di Francia perché entrasse
seco in confederazione; nondimeno non avevano operato le sue
escusazioni che e' non se ne fusse turbato molto Cesare e i suoi
ministri, non tanto perché e' si veddono privati al tutto della
speranza di avere piú da lui sussidio alcuno quanto perché e'
dubitorno che la capitolazione non contenesse piú oltre che
obligazione di neutralità, e perché e' parve loro che in ogni caso
l'avesse dato troppa riputazione alla impresa franzese, e perché
temerono ancora che il papa non fusse mezzo che i viniziani
seguitassino lo esempio suo; il che essere stato vero si
certificorono dipoi, per lettere e per brevi che dopo la vittoria
furono trovati nel padiglione del re prigione. Aveva in ultimo
acceso questi sospetti e mala sodisfazione quando il papa acconsentí
che per il dominio suo passassino, e fussino aiutate a condurre, le
munizioni delle quali il duca di Ferrara accomodò il re di Francia
mentre era a campo a Pavia, ma molto piú l'andata del duca di
Albania alla impresa del reame di Napoli, perché non solo come amico
fu per tutto lo stato della Chiesa e de' fiorentini ricettato e
onorato, ma ancora si fermò molti giorni intorno a Siena per
riformare a stanza sua il governo di quella città: il che se bene
allungava l'andata del duca al reame di Napoli, e a questo effetto
principalmente era stato procurato da lui per essergli molesto che
uno medesimo diventasse signore di Napoli e di Milano; nondimeno gli
imperiali avevano per questo fatta interpretazione che tra il re di
Francia e lui fusse stato fatto altro legame che semplice promessa
di non offendere. Però temeva giustamente il pontefice non solo di
essere offeso, come temevano tutti gli altri, dai cesarei, col tempo
e con l'occasione, ma che ancora, senza aspettare opportunità
maggiore, non assaltassino subito o lo stato della Chiesa o quello
di Firenze. E gli accrebbe il timore che, essendosi il duca
d'Albania, come ebbe avviso della calamità del re, ritirato, per
salvarsi, da Monteritondo verso Bracciano, e fatti ancora andare là
cento cinquanta cavalli che erano in Roma, i quali il papa fece
accompagnare insino là dalla sua guardia, perché il duca di Sessa e
gli imperiali si preparavano per rompere le genti sue, accadde che,
venendo da Sermoneta circa quattrocento cavalli e mille dugento
fanti delle genti degli Orsini, seguitati da Giulio Colonna con
molti cavalli e fanti, furno rotti da lui alla abbazia delle Tre
Fontane; ed entrati fuggendo in Roma per la porta di San Paolo e di
San Sebastiano, le genti di Giulio, entrate dentro con loro, ne
ammazzorono insino in Campo di Fiore e in altri luoghi della città:
la quale con tumulto grande si levò tutta in arme, prima con grande
timore e poi con grande indignazione del pontefice, che all'autorità
sua non fusse avuto né rispetto né riverenza alcuna.
Ma in questa sospensione e ansietà grandissima dell'animo, gli
sopravenneno i conforti e offerte de' viniziani: i quali, costituiti
nel medesimo timore di se medesimi, con efficacissima instanza si
sforzavano persuadergli che, congiunti insieme, facessino calare
subito in Italia diecimila svizzeri, e soldato una grossa banda di
genti italiane si opponessino a cosí gravi pericoli; promettendo,
come è costume loro, di fare per la loro parte molto piú che poi non
sogliono osservare. Allegavano che i fanti tedeschi che erano stati
alla difesa di Pavia, né avevano, già molti mesi, avuto denari,
veduto che dopo la vittoria continuavano le medesime difficoltà de'
pagamenti che prima, si erano ammutinati, avevano tolto
l'artiglierie e fattisi forti in Pavia; che per la medesima cagione
tutto il resto dello esercito di Cesare era sollevato e per
sollevarsi ogni dí piú, non avendo i capitani facoltà di pagarlo: in
modo che, armandosi e loro e lui potentemente, e si assicuravano gli
stati comuni e si nutriva l'occasione che gli imperiali, impegnati
in queste difficoltà e necessitati a tenere del continuo grosse
forze alla guardia del re prigione, si disordinassino per loro
medesimi. Aggiugnersi, che e' non era da dubitare che madama la
reggente, in mano della quale era il governo di Francia,
desiderosissima di questa unione, non solo farebbe subito cavalcare,
a stanza loro, il duca di Albania con le sue genti e quelle
quattrocento lancie del retroguardo che si erano ritirate dalla
giornata a salvamento, ma ancora, con volontà di tutto il regno di
Francia, concorrerebbe alla salute d'Italia con grossa somma di
denari, conoscendo che da quella dependeva in grande parte la
speranza della recuperazione del re suo figliuolo. Essere ottima
senza dubbio questa deliberazione se si facesse con prestezza, ma la
lunghezza dare a' cesarei facoltà di riordinarsi; e tanto piú che
chi non si risolveva ad armarsi era necessitato di accordarsi con
loro e porgergli denari, che non era altro che essere instrumento di
liberargli da tutte le difficoltà e stabilirsi da se medesimo in
perpetua suggezione. Davano anche speranza d'avere a essere
seguitati dal duca di Ferrara, il quale, e per la dependenza antica
da' franzesi e per gli aiuti dati in questa guerra al re, non era
senza grandissimo timore: la congiunzione del quale pareva di non
piccolo momento, per la opportunità grande del suo stato alle guerre
di Lombardia; [per essere] la città di Ferrara fortissima ed egli
abbondantissimo di munizioni e di artiglierie e, come era fama,
ricchissimo di denari.
Lib.16, cap.2
Il pontefice si volge con tutto l'animo alla concordia con Cesare.
Difficoltà di comprendere nella concordia i veneziani. Ritorno del
duca d'Albania in Francia. Confederazione fra il pontefice e Cesare.
Diversità di giudizi sulla confederazione; giudizio dell'autore.
Né la speranza di avere a vincere una impresa sí difficile né la
considerazione de' pericoli piú lontani, a' quali il tempo suole
spesso partorire rimedi non pensati, arebbe inclinato Clemente a
prestare orecchi a questi ragionamenti, se non l'avesse indotto il
timore di non essere assaltato di presente, a volere piú presto
esporsi al pericolo manco certo che al pericolo che appariva
maggiore e piú presente; e perciò si ristrinsono tanto le pratiche
tra loro che, essendosi condotte insino allo estendere i capitoli,
si aspettava che a ogn'ora si stipulassino; e in modo che il papa,
persuadendosene la conclusione, spedí in poste al re d'Inghilterra
Ieronimo Ghinuccio sanese, auditore della camera apostolica, per
cercare destramente di disporlo a opporsi a tanta grandezza di
Cesare. Quando opportunamente sopravenne lo arcivescovo di Capua,
antico segretario e consigliere suo, e che molti anni era stato
appresso a lui di grandissima autorità; il quale, subito che aveva
udito la vittoria degli imperiali, era da Piacenza andato in campo a
don Carlo del Lanoi viceré di Napoli, e risoluto della sua
intenzione corse subito in poste al pontefice, portandogli speranza
certa di accordo. Perché il viceré e gli altri capitani avevano per
allora due pensieri: l'uno di provedere a' denari per sodisfare
l'esercito, col quale per non avere modo di pagarlo si trovavano in
grandissima confusione; l'altro di condurre la persona del re di
Francia in luogo che la difficoltà del guardarlo non gli avesse a
tenere in continuo travaglio; e stabilite bene queste due cose,
giudicavano restare in grado da potere sempre mettere a effetto i
disegni loro: però desideravano l'accordo col papa, presupponendo di
cavarne quantità grande di denari. E per disporvelo tanto piú col
fargli spavento, e anche per sgravare degli alloggiamenti de'
soldati lo stato di Milano che era molto consumato, avevano mandata
ad alloggiare in piacentino quattrocento uomini d'arme e ottomila
tedeschi, non come inimici, ma ora dicendo che il ducato di Milano
non poteva nutrire sí grosso esercito ora minacciando di volergli
fare passare in terra di Roma a trovare il duca di Albania, in caso
che le genti condotte dagli Orsini non si dissolvessino. Ma erano
superflue queste diligenze; perché come il papa fu certificato
potere fuggire i pericoli presenti, lasciati gli altri pensieri, si
voltò con tutto l'animo alla concordia: perciò, subito udito
l'arcivescovo, fece fermare l'auditore della camera per il cammino;
e per levare tutte l'occasioni che potessino interromperla operò che
il duca di Albania dissolvesse, dai cavalli e fanti oltramontani in
fuora, tutto 'l resto dello esercito e gli dette le stanze a
Corneto, ricevuta promessa da' ministri di Cesare di licenziare
anche essi le genti loro che erano intorno a Roma, e fermare Ascanio
Colonna e altre genti che venivano del regno; e si interpose ancora
che i Colonnesi, che cominciavano a molestare le terre degli Orsini,
desistessino dall'armi.
Desiderava il pontefice e faceva ogni opera perché nella concordia
che e' trattava col viceré si includessino i viniziani, ma la
difficoltà era che essi ricusavano di volere pagare i denari
dimandati loro dal viceré; perché dimandava che gli pagassino tanti
danari quanti arebbono spesi nelle genti che avevano a contribuire,
e che in futuro contribuissino non con gente, ma con danari;
dimandando anche il medesimo a tutti quegli i quali erano compresi
nella confederazione fatta con Adriano. Ma la durezza de' viniziani
facevano beneficio al pontefice, dando sospizione al viceré che
pensassino a nuovi movimenti. Le quali cose mentre si trattano, con
speranza certissima d'aversi a conchiudere, i fiorentini, per ordine
del pontefice, mandorono al marchese di Pescara, per intrattenimento
dello esercito, venticinquemila ducati; ricevuta promessa il
pontefice da Giambartolomeo da Gattinara, il quale appresso a lui
trattava per il viceré, che questa quantità sarebbe computata nella
somma maggiore che arebbono a pagare per vigore della nuova
capitolazione.
La quale innanzi si conchiudesse, pochissimi dí, il duca di Albania,
il quale per tornarsene in Francia aveva aspettato l'armata, venuta
quella al Porto di Santo Stefano e mandategli le galee, si imbarcò a
Civitavecchia sopra quelle e sopra le galee del pontefice,
prestategli con consentimento del viceré, benché né all'armata né
alle galee non dessino salvocondotto; e con lui Renzo da Ceri, con
l'artiglieria avuta da Siena e da Lucca, con quattrocento cavalli
mille fanti tedeschi e pochi italiani, perché il resto della gente
si era sfilata e il resto de' cavalli parte venduti parte lasciati.
I progressi del quale erano stati tali che si comprese apertamente
essere stato mandato, o perché gli imperiali, temendo del regno di
Napoli, partissino, per soccorrerlo, del ducato di Milano o perché
per questo timore si inducessino alla concordia; e per questa
cagione essere proceduto lentamente, mancando forse al re [denari]
bastanti a mandarlo con esercito potente.
Ma finalmente, lasciati da parte i viniziani, si conchiuse il primo
dí di aprile in Roma, tra il pontefice e il viceré di Napoli come
luogotenente cesareo generale in Italia (per il quale era in Roma
con pieno mandato Giambartolomeo da Gattinara, nipote del gran
cancelliere di Cesare), confederazione per sé e per i fiorentini da
una parte e per Cesare dall'altra. La somma de' capitoli piú
importanti fu: che tra il papa e Cesare fusse perpetua amicizia e
confederazione, per la quale l'uno e l'altro di loro fusse obligato
a difendere da ciascuno con certo numero di gente il ducato di
Milano, posseduto allora sotto l'ombra di Cesare da Francesco
Sforza, il quale fu nominato come principale in questa
capitolazione; e che l'imperadore avesse in protezione tutto lo
stato che teneva la Chiesa, quello che possedevano i fiorentini, e
particolarmente la casa de' Medici con l'autorità e preminenze che
aveva in quella città; pagandogli però i fiorentini, di presente,
centomila ducati per ricompenso quello che arebbono auto a
contribuire nella guerra prossima, per virtú della lega fatta con
Adriano, la quale pretendeva non essere estinta per la sua morte,
per essere specificato ne' capitoli che la durasse uno anno dopo la
morte di ciascuno de' confederati: che i capitani cesarei levassino
genti dello stato ecclesiastico, né mandassino di nuovo ad
alloggiarvene dell'altre senza consentimento del pontefice: a'
viniziani fu lasciato luogo di entrare in questa confederazione, in
termine di venti dí, con oneste condizioni, che avessino a essere
dichiarate dal papa e da Cesare: e che il viceré fusse tenuto a fare
venire, fra quattro mesi, la ratificazione di Cesare di tutti questi
capitoli. E obligorono i mandatari del viceré, in uno capitolo da
parte confermato con giuramento, che, caso che Cesare non
ratificasse fra il tempo questi capitoli, avesse il viceré a
restituire i centomila ducati; dovendosi però, insino che i danari
non si restituissino, osservare la lega interamente. Alla quale
furono aggiunti tre articoli, non connessi nella capitolazione ma
posti in scrittura separata, confermati eziandio per giuramento, che
contennono: che in tutte, le cose beneficiali del regno di Napoli
fusse permesso a' pontefici usare quella autorità e giurisdizione
che si disponeva per le investiture del regno; che il ducato di
Milano pigliasse in futuro il sale delle saline di Cervia, per quel
prezzo e modi che altre volte fu convenuto tra Lione e il presente
re di Francia, e confermato nella capitolazione che l'anno mille
cinquecento ventuno fece il medesimo Lione con l'imperadore; e che
il viceré fusse obligato a fare sí e talmente che il duca di Ferrara
restituisse, immediate, alla Chiesa Reggio, Rubiera, l'altre terre
che aveva prese, vacante la sedia romana per la morte di Adriano; e
che per questo il pontefice, subito che e' ne fusse reintegrato,
avesse a pagare a Cesare centomila ducati, e a ogni sua requisizione
assolvere il duca dalle censure e privazioni nelle quali era
incorso, ma non già dalla pena di centomila ducati promessa in caso
di contravenzione allo instrumento fatto con Adriano: e nondimeno,
ricuperata che il papa ne avesse la possessione, si avesse a vedere
di ragione se quelle terre e Modena appartenevano alla Chiesa o allo
imperio; e appartenendosi allo imperio si avessino a riconoscere in
feudo da Cesare, appartenendosi alla Chiesa restassino libere alla
sedia apostolica.
Fu questa deliberazione del pontefice interpretata variamente dagli
uomini, secondo che sono varie le passioni e i giudizi. La
moltitudine massime, alla quale sogliono piacere piú i consigli
speciosi che i maturi, e che spesso ha per generosi quegli che non
misurano le cose prudentemente, tutti coloro ancora che facevano
professione di desiderare la libertà di Italia, lo biasimorono, come
se per viltà d'animo avesse lasciato l'occasione di unirla contro a
Cesare, e aiutato co' danari propri l'esercito suo a liberarsi da
tutti i disordini; ma la maggiore parte degli uomini piú prudenti
giudicorono molto diversamente, perché consideravano che il volersi
opporre con genti nuove a uno esercito grossissimo e vincitore non
era consiglio prudente. Non potere essere che la venuta de' svizzeri
non fusse cosa lunga, e da arrivare facilmente passato che fusse il
bisogno, quando bene fussino prontissimi a venire: di che, atteso la
natura loro e la percossa ricevuta sí di fresco, non si aveva
certezza alcuna. Né si dovere sperare meglio del reame di Francia,
dove per tanta rotta non era restato né animo né consiglio; non vi
era in pronto provisione di danari, non di gente d'arme, e quelle
poche ancora che si erano salvate il dí della giornata, avendo
perduto i carriaggi, avevano bisogno di tempo e di denari a
riordinarsi: però, non avere questa unione altro probabile
fondamento che la speranza che l'esercito inimico, per non essere
pagato, non avesse a muoversi; il che quando bene succedesse non
restare per questo privati del ducato di Milano, il quale mentre si
reggeva a divozione di Cesare arebbe sempre il pontefice causa
grandissima di temerne. Ma questa essere anche speranza molto
incerta, perché era da temere che i capitani, con l'autorità e arti
loro, col proporre il sacco di qualche città ricca della Chiesa o di
Toscana, non lo disponessino a camminare: essersi già veduto che una
parte de' tedeschi, solo per avere piú grassi alloggiamenti, aveva
passato il fiume del Po e venuta in parmigiano e piacentino; in modo
che se si fussino deliberati di spingersi innanzi non potere essere
se non tardi rimedio alcuno, e fondarsi con troppo pericolo una
tanta deliberazione in su la speranza sola de' disordini degli
inimici, dalla volontà de' quali dependevano finalmente lo
svilupparsene. Fu adunque il consiglio di Clemente, secondo il tempo
che correva, prudente e bene considerato. Ma sarebbe stato forse piú
laudabile se in tutti gli articoli della capitolazione avesse usato
la medesima prudenza, e voltato l'animo piú presto a saldare tutte
le piaghe di Italia che ad aprire e inasprirne qualcuna di momento;
imitando i savi medici, i quali, quando i rimedi che si fanno per
sanare la indisposizione degli altri membri accrescono la infermità
del capo o del cuore, posposto ogni pensiero de' mali piú leggieri e
che aspettano tempo, attendono con ogni diligenza a quello che è piú
importante e piú necessario alla salute dello infermo. Il che perché
s'intenda meglio è necessario ripetere piú da alto parte delle cose
già narrate, ma sparsamente, di sopra, riducendole in uno luogo
medesimo.
Lib.16, cap.3
La politica dei pontefici verso il duca d'Este, e loro ambizione su
Ferrara. Apprensioni del duca dopo l'elezione di Clemente; timori di
suoi accordi con Cesare.
La casa da Esti, oltre ad avere tenuto lunghissimamente sotto titolo
di vicari della Chiesa il dominio di Ferrara, aveva molto tempo
posseduto Reggio e Modena con le investiture degli imperadori, non
si facendo allora dubbio che quelle due città non fussino di
giurisdizione imperiale; e le possedé pacificamente insino che
Giulio secondo, suscitatore delle ragioni già morte della sedia
apostolica e sotto pietoso titolo autore di molti mali, per ridurre
totalmente Ferrara in dominio della Chiesa, roppe guerra al duca
Alfonso: nella quale avendo avuto occasione di torgli Modena, la
ritenne al principio per sé, come cosa che insieme con tutte l'altre
terre insino al fiume del Po appartenesse alla sedia apostolica, per
essere parte dello esarcato di Ravenna; ma poco poi, per timore de'
franzesi, la dette a Massimiliano imperadore. Né per questo cessò la
guerra contro ad Alfonso; ma avendogli, non molto poi, tolto ancora
Reggio, si crede che se fusse vivuto piú lungamente arebbe preso
Ferrara; inimico acerbissimo di Alfonso, sí per la pietà che e'
pretendeva alla ambizione di volere ricuperare alla Chiesa ciò che
si dicesse essere mai stato suo in tempo alcuno, come per lo sdegno
che egli avesse seguitato piú presto l'amicizia franzese che la sua;
e forse ancora per l'odio implacabile portato da lui alla memoria e
alle reliquie di Alessandro sesto suo predecessore, Lucrezia
figliuola del quale era maritata ad Alfonso ed eranne di questo
matrimonio nati già parecchi figliuoli. Lasciò Giulio, morendo, a'
successori suoi non solo l'eredità di Reggio ma la medesima cupidità
di acquistare Ferrara, stimolandogli la memoria gloriosa che pareva
che appresso ai posteri avesse lasciata di sé. Però, fu piú potente
in Lione suo successore questa ambizione che il rispetto della
grandezza che aveva in Firenze la casa de' Medici, alla quale pareva
piú utile che si diminuisse la potenza della Chiesa che,
aggiugnendogli Ferrara, farla piú formidabile a tutti i vicini:
anzi, avendo comperato Modena, indirizzò totalmente l'animo ad
acquistare Ferrara, piú con pratiche e con insidie che con aperta
forza; perché questo era diventato troppo difficile, avendo Alfonso,
poi che si vidde in tanti pericoli, atteso a farla fortissima,
lavorato numero grandissimo di artiglierie e di munizioni, e
trovandosi, come si credeva, quantità grossa di denari. E furono le
inimicizie sue forse maggiori ma trattate piú occultamente che
quelle di Giulio; e oltre a molte pratiche tenute spesso da lui per
pigliarla, o allo improviso o con inganni, obligò sempre i príncipi,
co' quali si congiunse, in modo che almanco non potevano impedirgli
quella impresa; né solo viventi Giuliano suo fratello e Lorenzo suo
nipote, per l'esaltazione de' quali si credeva che avesse avuto
questa cupidità, ma non manco dopo la morte loro: donde si può
facilmente comprendere che da niuna cosa ha l'ambizione de'
pontefici maggiore fomento che da se stessa. Il quale desiderio fu
tanto ardente in lui che molti si persuasono che quella sua ultima,
piú presto precipitosa che prudente, deliberazione di unirsi con
Cesare contro al re di Francia fusse in grande parte spinta da
questa cagione. In modo che la necessità costrinse Alfonso per
sodisfare al re di Francia, unico fondamento e speranza sua, di
rompere la guerra in modenese quando lo esercito di Lione e di
Cesare era accampato intorno a Parma; nella quale avendo cattivo
successo si sarebbe presto ridotto in gravissime difficoltà se, in
ne' medesimi dí, non fusse inopinatamente, nel corso delle vittorie,
morto Lione; morte certo per lui non manco salutifera che quella di
Giulio. Né io so se, alla fine, fusse totalmente mancato Adriano suo
successore di questa cupidità; benché per essere nuovo e inesperto
nelle cose d'Italia [lo] avesse, ne' primi mesi che e' venne a Roma,
assoluto dalle censure, concessagli di nuovo la investitura e
permesso che e possedesse eziandio tutto quello che aveva occupato
nella vacazione della Chiesa, e gli avesse ancora dato speranza di
restituirgli Modena e Reggio: da che di poi, informato meglio delle
cose, si alienò con l'animo ogni dí piú. In modo che Alfonso, avendo
compreso che piú facilmente si induce a perdonare chi è offeso che a
restituire chi possiede, fu piú ardito, vacando la sedia per la
morte di Adriano, che non era stato prima nelle altre occasioni che
aveva avute. Ma per la creazione di Clemente entrò in grandissimo
timore che per lui non fussino ritornati gli antichi tempi; e
meritamente, perché in lui, se gli fussino succedute le cose
prospere, sarebbe stata la medesima disposizione che era stata in
Giulio e in Lione: ma non avendo ancora occasione per Ferrara, era
tutto intento a riavere Reggio e Rubiera, come cosa piú facile e piú
giustificata per la possessione fresca che ne aveva avuto la Chiesa,
e come se per questo gli risultasse ignominia non piccola del non le
ricuperare. Da questo nacque che, prima in molti altri modi e
ultimamente nella capitolazione col viceré, ebbe piú memoria di
questo che non desideravano molti; i quali, conoscendo il pericolo
che soprastava a tutti della grandezza di Cesare e che nissuno
rimedio era piú salutifero che una unione molto sincera e molto
pronta di tutta Italia, e che tutto dí potevano succedere o
occasioni o necessità di pigliare l'armi, arebbono giudicato essere
meglio che il pontefice non esasperasse né mettesse in necessità di
gittarsi in braccio allo imperadore il duca di Ferrara, principe
che, per la ricchezza per l'opportunità del sito e per l'altre sue
condizioni, era, in tempi tali, da tenerne molto conto; e che piú
presto l'avesse abbracciato, e fatto ogni diligenza di levargli
l'odio e la paura: se però il fare benefizio a chi si persuade avere
ricevute tante ingiurie è bastante a cancellare degli animi, sí male
disposti e inciprigniti, la memoria delle offese; massime quando il
benefizio si fa in tempo che pare causato piú da necessità che da
volontà.
Lib.16, cap.4
Il vescovo di Pistoia inviato dal pontefice a visitare e consolare
il re di Francia. Cesare riceve in protezione i lucchesi; nuovo
mutamento di govemo in Siena. Accordi di altri principi italiani con
Cesare; rinvio di soldati tedeschi in Germania.
Fatta la capitolazione, il pontefice, per non mancare degli offici
convenienti verso tanto principe, mandò, con permissione del viceré,
il vescovo di Pistoia a visitare e consolare in nome suo il re di
Francia. Il quale, dopo le parole generali avute insieme presente il
capitano Alarcone, e l'avere il re supplicato il pontefice che per
lui facesse buono officio con Cesare, gli domandò con voce sommessa
quel che fusse del duca di Albania; udendo con grandissima molestia
la risposta, che risoluta una parte dell'esercito era con l'altra
passato in Francia.
Convennono in questo tempo medesimo i lucchesi col viceré, il quale
gli ricevé nella protezione di Cesare, di pagare diecimila ducati.
Convennono e i sanesi di pagarne quindicimila, senza obligarlo a
mantenere piú una forma che un'altra di governo: perché da uno canto
quegli del Monte de' nove, a instanza del pontefice, per mezzo del
duca d'Albania, avevano riassunta, benché non ancora consolidata,
l'autorità; da altro, quegli che per fare professione di desiderare
la libertà si chiamavano volgarmente i libertini, preso, per la
giornata di Pavia, animo contro al governo introdotto per le forze
del re di Francia, avevano mandato diversamente uomini al viceré per
renderlo propizio a' disegni loro; né auta da lui certa risoluzione
circa la forma del governo, avevano tutti sollecitata
prontissimamente la composizione. La quale essendo fatta, e venuti a
ricevere i danari gli uomini mandati dal viceré, nel tempo medesimo
che i danari si annoveravano, e in presenza loro, Girolamo Severini
cittadino sanese, che era stato appresso al viceré, ammazzò
Alessandro Bichi, principale del nuovo reggimento e a chi il
pontefice aveva disegnato che per allora si volgesse tutta la
riputazione; donde preso l'armi da altri cittadini che erano
congiurati seco, e levato in arme il popolo che era male contento
che il governo ritornasse alla tirannide, cacciati i principali del
Monte de' nove, riformorono la città a governo del popolo, inimico
del pontefice e aderente di Cesare: essendo procedute queste cose
non senza saputa, come si credette, del viceré, o almeno con somma
approbazione di quello che era stato fatto, per considerare quanto
fusse opportuno alle cose di Cesare avere a sua divozione quella
città potente, che ha opportunità di porti di mare, fertile di
paese, vicina al reame di Napoli e situata tra Roma e Firenze; non
ostante che il viceré e il duca di Sessa avessino dato speranza al
pontefice di non alterare il governo introdotto col favore suo.
Seguitorono molti altri di Italia la inclinazione de' sopradetti e
la fortuna de' vincitori: co' quali il marchese di Monferrato
compose in quindicimila ducati; e il duca di Ferrara, non si potendo
sí presto stabilire le cose sue per i rispetti che avevano alla
capitolazione fatta col pontefice, e perché era necessario
intenderne prima la volontà di Cesare, fu contento di prestare al
viceré cinquantamila ducati, con promessa di riavergli se non
capitolassino insieme. Co' quali danari, e con centomila ducati
promessi loro dallo stato di Milano e quegli che promessono i
genovesi e i lucchesi, e con quegli ancora rimessi da Cesare a
Genova per sostentazione della guerra ma arrivati dopo la vittoria,
attendevano i capitani, secondo che i danari venivano, a pagare i
soldi corsi dello esercito; rimandando di mano in mano, secondo che
erano pagati, i tedeschi in Germania. In modo che, non si vedendo
segni che avessino in animo di seguitare contro ad alcuno per allora
il corso della vittoria, anzi avendo il viceré ratificato la
capitolazione fatta con suo mandato col pontefice, e trattando nel
tempo medesimo di fare appuntamento nuovo co' viniziani il quale
molto desiderava, si voltorono gli occhi di tutti a risguardare in
che modo Cesare ricevesse sí liete novelle e a che fini si
indirizzassino i suoi pensieri.
Lib.16, cap.5
Come Cesare accoglie la notizia della vittoria sul nemico;
convocazione del consiglio; parole del vescovo di Osma; parole del
duca d'Alba. Cesare fa notificare al re di Francia a quali
condizioni gli concederebbe la libertà; risposta del re.
Nel quale, per quello che si potette comprendere dalle dimostrazioni
estrinseche, apparirono indizi grandi di animo molto moderato e atto
a resistere facilmente alla prosperità della fortuna, e tale che non
era da credere in uno principe sí potente, giovane e che mai aveva
sentito altro che felicità. Perché avuto avviso di tanta vittoria,
che gli pervenne il decimo dí di marzo, e con esso lettere di mano
propria del re di Francia, scritte supplichevolmente e piú presto
con animo di prigione che con animo di re, andò subito alla chiesa a
rendere grazie a Dio, con molte solennità, di tanto successo, e con
segni di somma devozione prese la mattina seguente il sagramento
della eucarestia e andò in processione alla chiesa di Nostra Donna
fuora di Madril, dove allora si trovava con la corte; né consentí
che, secondo l'uso degli altri, si facessino, con campane o con
fuochi o in altro modo, dimostrazioni di allegrezza, dicendo essere
conveniente fare feste delle vittorie avute contro agl'infedeli non
di quelle che si avevano contro a cristiani. E non mostrando ne'
gesti o nelle parole segno alcuno di troppa letizia o di animo
gonfiato, rispose alle congratulazioni degli imbasciadori e uomini
grandi che erano appresso a lui, che ne aveva preso piacere perché
lo aiutarlo Dio sí manifestamente gli pareva pure indizio di essere,
benché immeritamente, nella sua grazia; e perché sperava che ora
sarebbe l'occasione di mettere la cristianità in pace, e di
apparecchiare la guerra contro agli infedeli; e perché arebbe
facoltà maggiore di fare beneficio agli amici e di perdonare agli
inimici. Soggiugnendo che benché questa vittoria gli potesse parere
giustamente tutta sua, per non essere stato seco ad acquistarla
alcuno degli amici, voleva nondimeno che la fusse comune a tutti;
anzi, avendo udito l'oratore viniziano che gli giustificava le cose
fatte dalla sua republica, disse poi a' circostanti, le scuse sue
non essere vere ma che voleva accettarle e riputarle per vere. Nelle
quali parole e dimostrazioni, significatrici di somma sapienza e
bontà, poiché si fu continuato qualche dí, egli, per procedere
maturamente come era consueto, chiamato uno giorno il consiglio,
propose lo consigliassino in che modo fusse da governarsi col re di
Francia e a che fine dovesse indirizzarsi questa vittoria;
comandando che per ciascuno si consigliasse liberamente alla
presenza sua. Dopo il quale comandamento il vescovo di Osma, che
teneva la cura del confessarlo, parlò cosí:
- Se bene, gloriosissimo principe, tutte le cose che accaggiono in
questo mondo inferiore procedono dalla providenza del sommo Dio e da
quella hanno giornalmente il moto suo, pure questo talvolta in
qualcuna si scorge piú chiaramente: ma se si vedde mai
manifestamente in alcuna, si è veduto nella presente vittoria;
perché, per la grandezza sua e per la facilità con la quale è stata
acquistata, e per essersi vinti inimici potentissimi e molto piú
abbondanti di noi delle provisioni necessarie alla guerra, non può
negare alcuno che non sia stata espressa volontà di Dio e quasi
miracolo. Però, quanto il beneficio suo è stato piú manifesto e
maggiore tanto piú è obligata la Maestà vostra a riconoscerlo e a
dimostrarne la debita gratitudine; il che principalmente consiste
nello indirizzare la vittoria secondo che piú sia il servigio di
Dio, e a quel fine per il quale si può credere che egli ve la abbia
conceduta. E certamente, quando io considero in che grado sia
ridotto lo stato della cristianità, non veggo che cosa alcuna sia né
piú santa né piú necessaria né piú grata a Dio che la pace
universale tra i príncipi cristiani: conciossiaché si tocchi con
mano che senza questa la religione, la fede sua, il bene vivere
degli uomini ne vanno in manifestissima ruina. Abbiamo da una parte
i turchi, che per le nostre discordie hanno fatto contro a'
cristiani tanto progresso, e ora minacciano l'Ungheria, regno del
marito della sorella vostra; e se pigliano l'Ungheria (come, se i
príncipi cristiani non si uniscono, senza dubbio piglieranno) aranno
aperta la strada alla Germania e alla Italia. Dall'altra parte,
questa eresia luteriana, tanto inimica a Dio, tanto vituperosa a chi
la può opprimere, tanto pericolosa a tutti i príncipi, ha già preso
tale piede che se non si provede si empie il mondo di eretici, né si
può provedere se non con l'autorità e potenza vostra; le quali
mentre che voi siate impegnato in altre guerre non possono
adoperarsi a estirpare questo perniciosissimo veleno. Dipoi, quando
bene al presente né di turchi né di eretici si temesse, che cosa piú
brutta piú scelerata piú pestifera, che tanto sangue de' cristiani,
che si potrebbe spendere gloriosamente per augumentare la fede di
Cristo o almanco riserbare a tempi piú necessari, si spanda per le
passioni nostre inutilmente, accompagnato da tanti stupri da tanti
sacrilegi e opere nefande: mali che chi ne è cagione per volontà non
può sperarne da Dio perdono alcuno, chi gli fa per necessità non
merita di essere escusato, se almanco non ha determinata intenzione
di rimediare come prima ne arà la facoltà. Debbe adunque essere il
fine e la mira vostra la pace universale de' cristiani, come cosa
sopra tutte l'altre onorevole santa e necessaria. La quale vediamo
ora in che modo si possa conseguire. Tre sono le deliberazioni che
può prendere la Maestà vostra del re di Francia: l'una, di tenerlo
perpetuamente prigione; l'altra, di liberarlo amorevolmente e
fraternalmente, senza altre convenzioni che quelle che appartenghino
a fermare tra voi perpetua pace e amicizia e a sanare i mali della
cristianità; la terza, liberarlo ma cercando di trarne piú profitto
che sia possibile: delle quali, se io non mi inganno, l'altre due
prolungano e accrescono le guerre, la liberazione amorevole e
fraterna è solo quella che le estirpa in eterno. Perché chi può
dubitare che il re di Francia, usandosegli tanta generosità, sí
singolare liberalità, non rimanga per tanto beneficio piú legato
coll'animo e piú in potestà vostra che non è al presente col corpo?
e se tra voi e lui sarà vera unione e concordia tutto il resto de'
cristiani andrà a quello cammino che da voi due sarà mostrato. Ma il
risolversi a tenerlo sempre prigione, oltre che sarebbe pure con
infamia troppo grande di crudeltà e segno di animo che non
conoscesse la potestà della fortuna, non fa egli nascere guerre di
guerre? perché presuppone volere acquistare o tutta o parte della
Francia, che senza nuove e grandissime guerre non si può fare. Se si
piglia il partito di mezzo, cioè liberarlo ma con piú vantaggiosi
patti che si possa, credo che sia il piú implicato il piú pericoloso
partito di tutti gli altri; perché, faccisi che parentado che
capitoli che obligazioni si voglia, resterà sempre inimico, né gli
mancherà mai la compagnia di tutti quegli che temano della grandezza
vostra; in modo che ecco nuove guerre, e piú sanguinose e piú
pericolose che le passate. Conosco quanto questa opinione sia
diversa dal gusto degli uomini, quanto sia nuova e senza esempli; ma
si convengono bene a Cesare deliberazioni estraordinarie e
singolari. Né è da maravigliarsi che l'animo cesareo sia capacissimo
di quello a che i concetti degli altri uomini non arrivano, i quali
quanto avanza di degnità tanto debbe avanzare di magnanimità; e però
conoscere, sopra tutti gli altri, quanto sia piena di vera gloria
una tanta generosità, quanto sia piú officio di Cesare il perdonare
e il beneficare che l'acquistare; che non invano Dio gli ha dato
quasi miracolosamente la potestà di mettere la pace nel mondo; che a
lui si appartiene, dopo tante vittorie, dopo tante grazie che Dio
gli ha fatte, dopo il vedere inginocchiato a' piedi suoi ognuno,
procedere non piú come inimico di persona ma provedere come padre
comune alla salute di tutti. Piú fece glorioso il nome di Alessandro
magno, il nome di Giulio Cesare, la magnanimità di perdonare agli
inimici, di restituire i regni a' vinti, che tante vittorie e tanti
trionfi; lo esempio de' quali debbe molto piú seguitare chi, non
avendo per fine unico la gloria, ancora che sia premio grandissimo,
desidera principalmente di fare quel che è il proprio il vero
ufficio di ciascuno principe cristiano. Ma consideriamo piú innanzi,
per convincere coloro che misurano le cose umane solamente con fini
umani, quale deliberazione sia piú conforme ancora a questi. Io
certamente giudico che in tutta la grandezza della Maestà vostra non
sia la piú maravigliosa la piú degna parte che questa gloria di
essere stato insino a oggi invitto, di avere condotto a felicissimo
fine, con tanta riputazione con tanta prosperità, tutte le imprese
vostre. Questa è senza dubbio la piú preziosa gioia, il piú
singolare tesoro che sia tra tutti i vostri tesori; adunque, come
meglio si stabilisce come meglio si assicura come piú certamente si
conserva che col posare le guerre con fine sí generoso e sí
magnanimo, col levare la gloria acquistata dalla potestà della
fortuna, e di mezzo il mare ridurre in sicuro porto questo navilio
carico di mercie di inestimabile valore? Ma diciamo piú oltre: non è
piú desiderabile quella grandezza che si conserva volontariamente
che quella che si mantiene con violenza? Niuno ne dubita, perché è
piú stabile piú facile piú piacevole piú onorevole. Se Cesare si
obliga il re di Francia con tanta liberalità, con tanto beneficio,
non sarà egli sempre padrone di lui e del regno suo? se e' dà sí
manifesta certezza al papa e agli altri príncipi di contentarsi
dello stato che ha, né avere altro pensiero che della salute
universale, non resteranno eglino senza sospetto? e non avendo piú
né da temere né da contendere con lui, non solo ameranno ma
adoreranno tanta bontà. Cosí con volontà di tutti darà le leggi a
tutti, e senza comparazione disporrà piú de' cristiani con la
benivolenza e con l'autorità che non farebbe con le forze e con
l'imperio. Arà facoltà, aiutato e seguitato da tutti, voltare le
armi contro a luterani e contro agl'infedeli, con piú gloria e con
piú occasione di maggiori acquisti; i quali non so perché non si
debbino anche desiderare nella Affrica o nella Grecia o nel levante,
quando bene lo ampliare il dominio fra i cristiani avesse quella
facilità che molti, a giudizio mio, vanamente si immaginano. Perché
la potenza della Maestà vostra è augumentata tanto che è troppo
formidabile a ciascuno; e come si vegga che si disegni maggiore
progresso tutti di necessità si uniranno contro a voi. Ne teme il
papa, ne temono i viniziani, ne teme Italia tutta; e, per i segni
che spesso si sono veduti, è da credere che abbia a essere molesta
al re d'Inghilterra. Potrannosi intrattenere qualche mese, con
speranze e pratiche vane, i franzesi, ma bisognerà in ultimo che il
re si liberi o che si disperino; disperati, si uniranno con tutti
questi altri. Se il re si libera con condizioni per la Maestà vostra
di poca utilità, e che guadagno si sarà fatto a perdere l'occasione
di usare tanta magnanimità? la quale se non si mostra in questo
principio, ancora che si mostrasse poi, non arà seco piú né laude né
gloria né grazia pari; se con condizioni che vi sieno utili, non le
osserverà, perché nessuna sicurtà che vi abbia data gli potrà
importare tanto che non gli importi molto piú che lo inimico suo non
diventi sí grande che poi lo possi opprimere: cosí aremo o una
inutile pace o una pericolosa guerra, i fini delle quali sono
incerti; ed [è] da temere piú da chi ha avuto sí lunga felicità la
mutazione della fortuna, e da dispiacere piú quando le cose
succedono male a chi ha avuto potestà di stabilirle tutte bene.
Penso, Cesare, avere sodisfatto al comandamento vostro, se non con
la prudenza almanco con l'affezione e con la fede; né mi resta altro
che pregare Dio che vi dia mente e facoltà di fare quella
deliberazione che sia piú secondo la sua volontà, sia piú secondo la
vostra gloria, piú, finalmente, secondo il bene della republica
cristiana: della quale, e per la degnità suprema che voi avete e
perché si vede essere cosí la volontà divina, a voi conviene esserne
padre e protettore. -
Fu udito questo consiglio da Cesare con grande attenzione, e senza
fare segno alcuno di dispiacergli o di approvarlo; ma, poi che stato
alquanto tacito ebbe accennato che gli altri seguitassino di
parlare, [Federico duca d'Alva, uomo] e appresso a Cesare di grande
autorità, disse cosí:
- Io sarò scusato, invittissimo imperadore, se io confesserò che in
me non sia giudizio diverso dal giudizio comune, né capacità di
aggiugnere con lo intelletto a quello a che gl'intelletti degli
altri uomini non arrivano; anzi sarò forse piú lodato se consiglierò
che si proceda per quelle vie medesime che sono proceduti sempre i
padri e gli avoli vostri, perché i consigli nuovi e inusitati
possono al primo aspetto parere forse piú gloriosi e piú magnanimi
ma riescono poi senza dubbio piú pericolosi e piú fallaci di quegli
che in ogni tempo ha, appresso a tutti gli uomini, approvato la
ragione e l'esperienza. La volontà di Dio principalmente, e dipoi la
virtú de' vostri capitani e del vostro esercito, vi ha data la
maggiore vittoria che avesse, già sono molte età, alcuno principe
cristiano; ma tutto il frutto dello avere vinto consiste nello usare
la vittoria bene, e il non fare questo è tanto maggiore infamia che
il non vincere, quanto è piú colpa lo essere ingannato da quelle
cose che sono in potestà di chi si inganna che da quelle che
dependono dalla fortuna: dunque, tanto piú è da avvertire di non
fare deliberazione che vi abbia alla fine a dare appresso agli altri
vergogna, appresso a voi medesimo penitenza; e quanto piú grave è la
importanza di quello che si tratta tanto si debbe procedere piú
circospetto, e fare maturamente quelle deliberazioni che, errate una
volta, non si possano piú ricorreggere: e ricordarsi che se il re si
libera non si può piú ritenere, ma mentre che è in prigione è sempre
in potestà vostra il liberarlo: né doverrebbe la tardità dargli
ammirazione, perché, se io non mi inganno, è conscio a se medesimo
quel che farebbe se Cesare fusse suo prigione. È stata certo cosa
grandissima a pigliare il re di Francia, ma chi considererà bene la
troverà senza comparazione maggiore a lasciarlo; né sarà mai tenuto
prudenza il fare una deliberazione di tanto momento senza
lunghissime consulte e senza rivoltarsela infinite volte per la
mente. Né sarei forse in questa sentenza se io mi persuadessi che il
re, liberato al presente, riconoscesse tanto benefizio con la debita
gratitudine; e che il papa e gli altri d'Italia deponessino insieme
col sospetto la cupidità e l'ambizione: ma chi non conosce quanto
sia pericoloso fondare una risoluzione tanto importante in su uno
presupposito tanto fallace e tanto incerto? anzi, chi considera bene
la condizione e costumi degli uomini ha piú presto a giudicare il
contrario, perché di sua natura niuna cosa è piú breve niuna ha vita
minore che la memoria de' benefici; e quanto sono maggiori tanto
piú, come è in proverbio, si pagano con la ingratitudine: perché chi
non può o non vuole scancellargli con la remunerazione, cerca spesso
di scancellargli o col dimenticarsegli o col persuadere a se
medesimo che e' non sieno stati sí grandi; e quegli che si
vergognano di essersi ridotti in luogo che abbino avuto bisogno del
benefizio si sdegnano ancora di averlo ricevuto, in modo che può piú
in loro l'odio, per la memoria della necessità nella quale sono
caduti, che l'obligazione per la considerazione della benignità che
a loro è stata usata. Dipoi, di chi è piú naturale la insolenza piú
propria la leggerezza, che de' franzesi? dove è la insolenza è la
cecità; dove è la leggerezza non è cognizione di virtú, non giudizio
di discernere le azioni d'altri, non gravità da misurare quello che
convenga a se stesso. Che adunque si può sperare di uno re di
Francia, enfiato di tanto fasto quanto ne può capere in uno re de'
franzesi, se non che arda di sdegno e di rabbia di essere prigione
di Cesare, nel tempo che e' pensava di avere a trionfare di lui?
sempre gli sarà innanzi agli occhi la memoria di questa infamia né,
liberato, crederà mai che il mezzo di spegnerla sia la gratitudine,
anzi il cercare sempre di esservi superiore: persuaderà a se
medesimo che voi lo abbiate lasciato per le difficoltà del
ritenerlo, non per bontà o per magnanimità. Cosí è quasi sempre la
natura di tutti gli uomini, cosí sempre quella de' franzesi, da'
quali chi aspetta gravità o magnanimità aspetta ordine e regola
nuova nelle cose umane. In luogo adunque di pace e di riordinare il
mondo sorgeranno guerre maggiori e piú pericolose che le passate,
perché la vostra riputazione sarà minore e lo esercito vostro che
aspetta il frutto debito di tanta vittoria, ingannato delle speranze
sue, non arà piú la medesima virtú e vigore, né le cose vostre la
medesima fortuna, la quale difficilmente sta con chi la ritiene non
che con chi la scaccia. Né sarà di altra sorte la bontà del papa e
de' viniziani; anzi, pentiti di avervi lasciato conseguire la
passata vittoria, cercheranno di impedirvi le future, e la paura che
hanno ora di voi gli sforzerà a fare ogni opera di non avere a
ritornare in nuova paura; e, dove è in potestà vostra di tenere
legato e attonito ognuno, voi medesimo con una dissoluta bontà
sarete quello che gli farete sciolti e arditi. Non so quale sia la
volontà di Dio, né credo la sappino gli altri; perché e' si suole
pure dire che i giudíci suoi sono occulti e profondi. Ma, se si può
congetturare da quello che tanto chiaramente si dimostra, credo che
sia favorevole alla vostra grandezza; non credo già che abbondino
tante sue grazie a fine che voi le dissipiate da voi medesimo ma per
farvi superiore agli altri, cosí in effetto come siete in titolo e
in ragione: però, perdere sí rara occasione che Dio vi manda non è
altro che tentarlo, e farvi indegno della sua grazia. Ha sempre
dimostrato l'esperienza, e lo dimostra la ragione, che mai succedino
bene le cose che dependano da molti; però, chi crede con l'unione di
molti príncipi spegnere gli eretici o domare gl'infedeli non so se
misura bene la natura del mondo. Sono imprese che hanno bisogno di
uno principe sí grande che dia la regola agli altri; senza questo,
se ne tratterà e farà per l'innanzi con quello successo che se ne è
trattato e fatto per l'addietro. Per questo credo che Dio vi mandi
tante vittorie, per questo credo che Dio vi apra la via alla
monarchia, con la quale sola si possono fare sí santi effetti; e
meglio è che si tardi a dare loro principio per fargli con migliori
e piú certi fondamenti. Né vi alieni da questa deliberazione il
timore di tante unioni che si minacciano, perché troppo grande è
l'occasione che avete in mano; né mai, se le cose saranno bene
negoziate, la madre del re, per la pietà materna e per la necessità
di ricuperare il figliuolo, si spiccherà dalle speranze di riaverlo
da voi per accordo; né mai i príncipi d'Italia si unirarno col
governo di Francia, conoscendo che sempre sia in potestà vostra, col
liberare il re, separarlo anzi voltarlo contro a loro. Bisogna
stieno attoniti e sospesi, e alla fine faccino a gara di ricevere le
leggi da voi: a quali sarà glorioso usare la clemenza, e la
magnanimità quando le cose restino in grado che e non possino
mancare di riconoscervi per superiore. Cosí la usorono Alessandro e
Cesare, che furno liberali a perdonare le ingiurie, non
inconsiderati a rimettersi da se stessi in quelle difficoltà e
pericoli che avevano già superati. È laudabile chi fa cosí perché fa
cosa che ha pochi esempli, ma per avventura imprudente chi fa quello
che non ha alcuno esempio. Però, Cesare, il parere mio è che di
questa vittoria si tragga piú frutto che si può; e che perciò il re,
trattandolo sempre con onori convenienti a re, sia condotto, se non
si può in Spagna, almeno a Napoli. In risposta della lettera sua si
mandi a lui uno uomo con benignissime parole, per il quale si
proponghino le condizioni della sua liberazione; tali che, come
particolarmente si potrà consultare, sieno premi degni di tanta
vittoria. Cosí, fermati questi fondamenti e questi fini del vostro
procedere, la giornata e gli accidenti che si scopriranno, farà piú
presta o piú tarda la liberazione del re, lo stare in guerra o in
pace con gl'italiani; a' quali si diano per ora buone speranze: e si
augumenti quanto si può il favore e la riputazione dell'armi con
l'arte e con la industria, per non avere a tentare ogni dí di nuovo
la fortuna; e stiamo parati ad accordare con questo o con quello o
con tutti insieme o con nessuno, secondo che le occasioni
consiglieranno. Queste sono le vie per le quali sempre sono
camminati i savi príncipi, e particolarmente quegli che vi hanno
fondato tanta grandezza; i quali non hanno mai gittato via gli
instrumenti del crescere né allentato, quando l'hanno avuto
propizio, il favore della fortuna. Cosí dovete fare voi, al quale
appartiene per giustizia quello che in qualcuno di loro poteva
parere ambizione. Ricordatevi, Cesare, che voi siete principe e che
è ufficio vostro di procedere per la via de' príncipi; e che nessuna
ragione, o divina o umana, vi conforta a omettere l'opportunità di
fare risorgere l'autorità usurpata e oppressa dello imperio, ma vi
obliga solamente ad avere animo e intenzione di usarla rettamente. E
ricordatevi sopra tutto quanto sia facile a perdere l'occasioni
grandi e quanto sia difficile ad acquistarle; e però, mentre che si
hanno, essere necessario di fare ogni opera per ritenerle né
fondarsi in su la bontà o in su la prudenza de' vinti, poi che il
mondo è pieno di imprudenza e di malignità, e giudicando che o dalla
grandezza vostra o da nessuno altro mezzo si ha a difendere la
religione cristiana, accrescerla quanto si può, non piú per
interesse della autorità e gloria vostra che per servigio di Dio e
per zelo del bene universale. -
Impossibile sarebbe esprimere con quanto favore di tutto il
consiglio fusse udito [il duca d'Alva], avendosi già ciascuno
proposto nell'animo lo imperio di quasi tutti i cristiani: però, non
fu alcuno degli altri che senza replica non confermasse la medesima
sentenza; approvandola ancora Cesare, piú presto sotto specie di non
volere discostarsi dal consiglio de' suoi che con dichiarare quale
fusse per se stessa la sua inclinazione. Espedí adunque, Beuren,
cameriere intimo e molto accetto, a notificare a' capitani la sua
deliberazione e a visitare in suo nome il re di Francia, e a
proporre le condizioni con le quali poteva ottenere la liberazione.
Il quale, fatto il cammino per terra (perché la madre del re, acciò
che piú comodamente si potessino trattare le cose del figliuolo, non
impediva piú il transito agli uomini e a' corrieri che andassino e
venissino da Cesare), andò insieme col Borbone e col viceré a
Pizzichitone, dove era ancora il re, [e] gli offerse la liberazione;
ma con condizioni tanto gravi che dal re furono udite con
grandissima molestia: perché, oltre alla cessione delle ragioni
quali pretendeva avere in Italia, gli dimandava la restituzione del
ducato di Borgogna come cosa propria, che al duca di Borbone desse
la Provenza, e per il re di Inghilterra e per sé altre condizioni di
grandissimo momento. Alle quali dimande rispose il re,
costantemente, avere deliberato piú presto morire prigione che di
privare i figliuoli di parte alcuna del reame di Francia; ma, che
quando bene avesse deliberato altrimenti, che in potestà sua non
sarebbe di eseguirlo, non comportando l'antiche costituzioni di
Francia che si alienasse cosa alcuna appartenente alla corona senza
il consentimento de' parlamenti, e degli altri appresso a' quali
risedeva l'autorità di tutto il reame; i quali erano consueti, in
casi simiglianti, anteporre la salute universale allo interesse
particolare delle persone de' re. Dimandassingli condizioni che gli
fussino possibili, perché non potrebbono trovare in lui maggiore
prontezza e a congiugnersi con Cesare e a favorire la sua grandezza:
né cessò di proporre condizioni diverse, non facendo difficoltà di
concedere larghissimamente degli stati di altri pure che ottenesse
la liberazione, senza promettere de' suoi. La somma fu: offerirsi a
pigliare per moglie la sorella di Cesare che era restata vedova del
re di Portogallo, confessando di avere la Borgogna in nome di sua
dote, nella quale succedessino i figliuoli che nascerebbono di
questo matrimonio; restituire al duca di Borbone il ducato che gli
era stato confiscato e aggiugnergli qualche altro stato, e in
ricompenso della sorella di Cesare che gli era stata promessa dargli
la sorella sua, restata nuovamente vedova per la morte di Alanson:
sodisfare al re d'Inghilterra con danari, e a Cesare pagarne per la
taglia sua grandissima quantità; cedergli le ragioni del regno di
Napoli e del ducato di Milano; promettere di farlo accompagnare con
armata di mare e con esercito per terra quando andasse a Roma a
pigliare la corona dello imperio, che era come promettere di dargli
in preda tutta Italia. Con la quale forma di capitoli Beuren ritornò
a Cesare: e vi andò con lui monsignore di Memoransí, persona insino
allora accettissima al re, e il quale fu dipoi promosso da lui prima
all'uficio del gran maestro e poi alla degnità del gran conestabile
di Francia.
Lib.16, cap.6
Dolore in Francia per la sconfitta e la prigionia del re; proposte
della reggente a Cesare; proposte ai veneziani e al papa. Difficoltà
di accordi fra Cesare e il re d'Inghilterra. Accordi fra il re
d'Inghilterra e la reggente di Francia. Insolenza dei capitani
cesarei in Italia.
Ma venuta in Francia la nuova della rotta dello esercito e della
cattura del re, sarebbe quasi impossibile immaginare quanta fusse la
confusione e la disperazione di tutti; perché al dolore smisurato
che dava il caso miserabile del suo re a quella nazione,
affezionatissima naturalmente e devotissima al nome reale, si
aggiugnevano infiniti dispiaceri privati e publici: privati, perché
nella corte e nella nobiltà pochissimi erano quegli che non avessino
perduto, nella giornata, figliuoli fratelli o altri congiunti o
amici non volgari; publichi, per tanta diminuzione dell'autorità e
dello splendore di sí glorioso regno (cosa tanto piú loro molesta
quanto piú per natura si arrogano e presumono di se medesimi), e
perché temevano che tanta calamità non fusse principio di rovina
maggiore, trovandosi prigione il re, e con lui o presi o morti nella
giornata i capi del governo e quasi tutti i capitani principali
della guerra, disordinato il regno di danari e circondato da
potentissimi inimici. Perché il re di Inghilterra, ancora che avesse
tenuto diverse pratiche e dimostrato in molte cose variazione di
animo, nondimeno, pochi dí innanzi alla giornata, esclusi tutti i
maneggi che aveva avuti col re, aveva publicato di volere passare in
Francia se in Italia succedesse qualche prosperità: però era grande
il timore che, in tanta opportunità, Cesare ed egli non rompessino
la guerra in Francia; dove, per non essere altro capo che una donna
e i piccoli figliuoli del re, del quale il primogenito non aveva
ancora finiti otto anni, e per avere loro seco il duca di Borbone,
signore di tanta potenza e autorità nel regno di Francia, era
pericolosissimo ogni movimento che e' facessino. Né alla madre, in
tanti affanni che aveva per l'amore del figliuolo e per i pericoli
del regno, mancavano le passioni sue proprie; perché, ambiziosa e
tenacissima del governo, dubitava che, allungandosi la liberazione
del re e sopravenendo in Francia qualche nuova difficoltà, non fusse
costretta cedere l'amministrazione a quegli che fussino deputati dal
regno. Nondimeno, in tanta perturbazione raccolto l'animo da lei e
da quegli che gli erano piú appresso, oltre al provedere, piú presto
potettono, le frontiere di Francia e ordinare gagliarde provisioni
di danari, scrisse madama la reggente, per ordine e in nome della
quale si spedivano tutte le faccende, a Cesare lettere supplichevoli
e piene di compassione, con introdurre e poi sollecitare, di mano in
mano, quanto potette le pratiche dello accordo. Per le quali anche,
poco dipoi liberato don Ugo di Moncada, lo mandò a Cesare a
offerire: che il figliuolo rinunzierebbe alle ragioni del regno di
Napoli e dello stato di Milano; sarebbe contento che si vedesse di
ragione a chi apparteneva la Borgogna, e in caso che appartenesse a
Cesare, riconoscerla in nome di dota della sorella; restituire a
Borbone lo stato suo, co' mobili di grandissimo valore e i frutti
stati occupati dalla camera reale; dargli per donna la sorella, e
consentire che avesse la Provenza se fusse giudicato avervi migliore
ragione. Le quali pratiche perché fussino piú facili, piú che per
avere volto l'animo a' pensieri della guerra, spedí madama subito in
Italia a raccomandare al papa e a' viniziani la salute del
figliuolo; offerendo, se per la sicurtà propria volevano
ristrignersi seco e pigliare l'armi contro a Cesare, cinquecento
lancie e grossa contribuzione di danari. Ma il principale suo
desiderio e di tutto il regno di Francia sarebbe stato di mitigare
l'animo del re d'Inghilterra; giudicando, come era vero, che non
avendo inimico lui il regno di Francia non avesse a essere
molestato, ma che se egli da uno canto dall'altro Cesare movessino
l'armi, avendo con loro Borbone e tante occasioni, che ogni cosa si
empierebbe di difficoltà e di pericoli.
Ma di questo cominciò presto a dimostrarsi a madama qualche
speranza. Perché, se bene il re di Inghilterra avesse, subito che
intese la nuova della vittoria, fatti segni grandissimi di
allegrezza e publicato di volere passare in Francia personalmente,
mandati anche a Cesare oratori per trattare e sollecitare di muovere
comunemente la guerra, nondimeno, procedendo in questo tempo col
medesimo stile che altre volte aveva proceduto, ricercò anche madama
che gli mandasse uno uomo proprio; la quale lo spedí subito con
amplissime commissioni, usando tutte le sommissioni e arti possibili
a mitigare l'animo di quel re: il quale, non partendo dal consiglio
del cardinale eboracense, pareva che avesse per fine principale di
diventare talmente cognitore delle differenze tra gli altri príncipi
che tutto il mondo potesse conoscere dependere da lui il momento
della somma delle cose. Però, e nel tempo medesimo offeriva a Cesare
di passare in Francia con esercito potente, offeriva di dare
perfezione al parentado conchiuso altre volte tra loro e, per
levarne ogni scrupolo, consegnare di presente a Cesare la figlia,
che non era ancora negli anni nubili. Ma avevano queste cose non
piccole difficoltà, parte dependenti da lui medesimo parte
dependenti da Cesare, non pronto a convenire con lui come era stato
per il passato; perché quel re dimandava per sé quasi tutti i premi
della vittoria, la Piccardia la Normandia la Ghienna e la Guascogna,
con titolo di re di Francia; e che Cesare, ancora che i premi
fussino ineguali, passasse personalmente in Francia, partecipe
egualmente delle spese e de' pericoli. Turbava la inegualità di
queste condizioni l'animo di Cesare, e molto piú che, ricordandosi
che negli anni prossimi aveva ne' maggiori pericoli del re di
Francia allentato sempre l'armi contro a lui, si persuadeva non
potere fare fondamento in questa congiunzione; ed essendo
esaustissimo di danari e stracco da tanti travagli e da tanti
pericoli, sperava potere conseguire piú dal re di Francia col mezzo
della pace che col mezzo delle armi, movendole in compagnia del re
di Inghilterra. Né era piú appresso a lui in tanta estimazione in
quanta soleva essere il matrimonio della figliuola, collocata ancora
negli armi minori, e nella dota della quale s'aveva a computare quel
che Cesare aveva ricevuto in prestanza dal re di Inghilterra: anzi,
mosso dal desiderio d'avere figliuoli, dalla cupidità de' danari,
aveva inclinazione a congiugnersi con la sorella di [Giovanni] re di
Portogallo, di età nubile e dalla quale sperava ricevere in dote
grandissima quantità di danari; e molti ancora, in caso facesse
questo matrimonio, gliene offerivano i popoli suoi, desiderosi di
avere una regina della medesima lingua e nazione, e che presto
procreasse figliuoli. Per le quali cose difficultandosi ogni dí piú
la pratica tra l'uno e l'altro principe, e aggiugnendosi la
inclinazione che ordinariamente aveva al re di Francia il cardinale
eboracense, le querele ancora che già palesemente faceva di Cesare,
sí per gli interessi del suo re come perché gli pareva cominciare a
essere disprezzato da Cesare, il quale, solendo innanzi alla
giornata di Pavia non mandargli mai se non lettere scritte tutte di
sua mano sottoscrivendosi: “il vostro figliuolo e cugino Ciarles”,
avuta quella vittoria, cominciò a fargli scrivere lettere nelle
quali non vi era piú scritto di mano propria altro che la
sottoscrizione, non piú piena di titoli di tanta riverenza e
sommissione ma solamente con il proprio suo nome: “Ciarles”; tutte
queste cose furono cagione che il re d'Inghilterra, raccolto con
umanissime parole e dimostrazioni l'uomo mandatogli da madama la
reggente, e confortatola a sperare bene delle cose future, non molto
poi, alienato totalmente l'animo dalle cose di Cesare, contrasse
confederazione con madama contraente in nome del figliuolo; nella
quale volle inserisse espressa condizione che non si potesse
concedere a Cesare, eziandio per la liberazione del re, cosa alcuna
posseduta allora dal reame di Francia. Questa fu la prima speranza
di salute che cominciasse ad avere il regno di Francia, questo il
principio di respirare da tante avversità augumentato poi
continuamente per i progressi de' capitani cesarei in Italia: i
quali, diventati insolentissimi per tanta vittoria, e persuadendosi
che alla volontà loro avessino a cedere tutti gli uomini e tutte le
difficoltà, perderono l'occasione di concordare i viniziani,
contravennono al pontefice nelle cose gli avevano promesse, ed
empiendo lui il duca di Milano e tutta Italia di sospetto sparsono i
semi di nuove turbazioni; le quali messono finalmente Cesare in
necessità di fare deliberazione precipitosa, con pericolo
grandissimo dello stato suo d'Italia, se non avesse potuto piú la
sua antica felicità o il fato malignissimo del pontefice: cose
certamente degnissime di particolare notizia, perché di accidenti
tanto memorabili si intendino i consigli e i fondamenti; i quali
spesso sono occulti, e divulgati il piú delle volte in modo molto
lontano da quel che è vero.
Lib.16, cap.7
Il pontefice pubblica l'accordo concluso col viceré; sue ragioni di
malcontento verso il viceré. Cesare ratifica solo in parte l'accordo
col pontefice, il quale ricusa perciò le lettere di ratifica.
Atteggiamento di attesa dei veneziani. Il re di Francia condotto in
Ispagna; contegno di Cesare verso di lui. Tregua fra Cesare ed il
governo di Francia; disposizioni riguardanti le cose d'Italia e le
milizie cesaree.
Non aveva adunque il pontefice capitolato appena col viceré che
sopravennono le offerte grandi di Francia per incitarlo alla guerra;
e se bene non gli mancassino allo effetto medesimo i conforti di
molti, né gli fusse diminuita la diffidenza che prima aveva degli
imperiali, deliberò di procedere in tutte le cose talmente che dalle
azioni sue non avessino cagione di prendere sospetto alcuno. Perciò,
subito che intese il viceré avere accettato e publicato lo
appuntamento fatto in Roma, lo fece ancora egli publicare in San
Giovanni Laterano, senza aspettare che prima fusse venuta la
ratificazione promessa di Cesare, onorando, per piú efficace
dimostrazione dell'animo suo, la publicazione, che fu fatta il primo
dí di maggio, con la presenza sua e con la solennità della sua
incoronazione; sollecitò che i fiorentini pagassino i danari
promessi, e si interpose quanto potette perché i viniziani
appuntassino ancora loro co' cesarei. Ma da altra parte, gli furono
date da loro molte giuste cause di querelarsi: perché nel pagamento
de' danari promessi non vollono accettare i venticinquemila ducati
pagati per ordine suo da' fiorentini mentre si trattava l'accordo,
allegando il viceré, impudentemente, se altrimenti fusse stato
promesso essere stato fatto senza sua commissione; non rimossono i
soldati del dominio della Chiesa, anzi empierono il piacentino di
guarnigioni. Alle quali cose, che si potevano forse in qualche parte
scusare per la carestia che avevano di danari e di alloggiamenti,
aggiunsono che non solo, nella mutazione dello stato di Siena,
dettono sospetto di avere l'animo alieno dal pontefice, ma ancora
dipoi comportorono che i cittadini del Monte de' nove fussino male
trattati e spogliati de' beni loro da i libertini, non ostante che
molte volte, lamentandosene lui, gli dessino speranza di provedervi.
Ma quello che sopra ogni cosa gli fu molestissimo fu l'avere subito
prestato il viceré orecchi al duca di Ferrara, e datagli speranza di
non lo sforzare a lasciare Reggio e Rubiera e di operare che Cesare
piglierebbe in protezione lo stato suo; e ancora che ogni dí
promettesse al pontefice che finito il pagamento de' fiorentini lo
farebbe reintegrare di quelle terre, e che il pontefice, per
sollecitare lo effetto e per ottenere che le genti si levassino
dello stato della Chiesa, mandasse a lui il cardinale Salviati,
legato suo in Lombardia e deputato legato a Cesare, al quale il
viceré dette intenzione di fargli restituire Reggio con le armi se
il duca ricusasse di farlo volontariamente, nondimeno gli effetti
non corrispondevano alle parole: cosa che, non si potendo scusare
con la necessità de' danari, perché maggiore quantità perveniva loro
per la restituzione di quelle, dava materia di interpretare,
probabilmente procedere dal desiderio che avessino della bassezza
sua o di guadagnarsi il duca di Ferrara, o perché e' s'andassino
continuamente preparando alla oppressione d'Italia. Davano queste
cose sospezione e molestia di animo quasi incredibile al pontefice,
ma molto maggiore il parergli non essere da queste operazioni
diversa la mente di Cesare. Il quale, avendo mandato al pontefice le
lettere della ratificazione della confederazione fatta in suo nome
dal viceré, differiva di ratificare i tre articoli stipulati
separatamente dalla capitolazione, allegando che quanto alla
restituzione delle terre tenute dal duca di Ferrara non aveva
facoltà di pregiudicare alle ragioni dello imperio, né sforzare quel
duca che asseriva tenerle in feudo dallo imperio; e però offeriva
che questa differenza si trattasse per via di giustizia o di
amicabile composizione: e si intendeva che il desiderio suo sarebbe
stato che le restassino al duca sotto la investitura sua, per la
quale gli pagasse centomila ducati, pagandone anche al pontefice
centomila altri per la investitura di Ferrara e per la pena apposta
nel contratto che aveva fatto con Adriano. Allegava essere stato
impertinente convenire co' ministri suoi sopra il dare i sali al
ducato di Milano, perché il dominio utile di quel ducato, per la
investitura concessa benché non ancora consegnata, apparteneva a
Francesco Sforza; e però, che il viceré non si era obligato
semplicemente, nello articolo, a farlo obligare a pigliargli ma a
curare che e' consentisse; la quale promessa, per contenere il fatto
del terzo, era notoriamente, quanto allo effetto dello obligare o sé
o altri, invalida; e nondimeno, che per desiderio di gratificare al
pontefice arebbe procurato di farvi consentire il duca, se non fusse
fatto e interesse non piú suo ma alieno, perché già il duca di
Milano, in ricompenso degli aiuti avuti dallo arciduca, aveva
convenuto di pigliare i sali da lui: e pure che si interporrebbe
perché il fratello, ricevendo ricompenso onesto di danari,
consentisse, non in perpetuo, come diceva l'articolo, ma durante la
vita del pontefice. Né ammetteva anche l'articolo delle cose
beneficiali, se con quello che si esprimeva nelle investiture non si
congiugneva quel che fusse stato osservato dai re suoi antecessori.
Per queste difficoltà recusò il pontefice di accettare le lettere
della ratificazione e di mandare a Cesare le sue; dimandando che poi
che Cesare non aveva ratificato nel termine de' quattro mesi secondo
la promessa del viceré, fussino restituiti a' fiorentini i centomila
ducati: alla quale dimanda si rispondeva (piú presto cavillosamente
che con solidi fondamenti) la condizione della restituzione de'
centomila ducati non essere stata apposta nello instrumento ma
promessa per uno articolo da parte dagli agenti del viceré con
giuramento, né referirsi alla ratificazione de' tre articoli
stipulati separatamente dalla confederazione ma alla ratificazione
della confederazione, la quale Cesare aveva nel termine de' quattro
mesi ratificata e mandatone le lettere nella forma debita. Perveniva
anche alla notizia del pontefice che le parole di tutta la corte di
Cesare erano piene di mala disposizione contro alle cose d'Italia; e
seppe anche che i capitani dello esercito suo cercavano di
persuadergli che, per assicurarsi totalmente d'Italia, era bene fare
restituire Modena al duca di Ferrara, rimettere i Bentivogli in
Bologna, pigliare il dominio di Firenze di Siena e di Lucca come di
terre appartenenti allo imperio. Però, trovandosi pieno di ansietà e
di sospetto ma non avendo dove potersi appoggiare, e sapendo che i
franzesi [si] offerivano a dargli Italia in preda, andava per
necessità temporeggiando e simulando.
Trattavasi in questo tempo continuamente l'accordo tra i viniziani e
il viceré; il quale, oltre al riobligargli alla difesa in futuro del
ducato di Milano, dimandava, per sodisfazione della inosservanza
della confederazione passata, grossissima somma di danari. Molte
erano le ragioni che inclinavano i viniziani a cedere alla
necessità, molte che incontrario gli confortavano a stare sospesi;
in modo che i consigli loro erano pieni di varietà e di
irresoluzione: pure, alla fine, dopo molte dispute, attoniti come
gli altri per tanta vittoria di Cesare e vedendosi restare soli da
ogni banda, commessono all'oratore suo Pietro da Pesero, che era
appresso al viceré, che riconfermasse la lega nel modo che era stata
fatta prima ma pagando a Cesare, per sodisfazione del passato,
ottantamila ducati. Ma instando determinatamente il viceré di non
rinnovare la confederazione se non ne pagavano centomila, accadde,
come interviene spesso nelle cose che si deliberano male volontieri,
che in disputare questa piccola somma si interpose tanto tempo che
a' viniziani pervenne la notizia che il re d'Inghilterra non era piú
contro a' franzesi in quella caldezza di che da principio si era
temuto; e già, per avere ricevuto i pagamenti, erano stati
licenziati tanti fanti tedeschi dell'esercito imperiale che il
senato viniziano, assicurato di non avere per allora a essere
molestato, deliberò di stare ancora sospeso, e riservare in sé, piú
che poteva, la facoltà di pigliare quelle deliberazioni che per il
progresso delle cose universali potessino conoscere essere migliori.
Queste cagioni, oltre al desiderio che n'avevano avuto
continuamente, stimolavano tanto piú l'animo del viceré e degli
altri capitani di trasferire la persona del re di Francia in luogo
sicuro; giudicando che, per la mala disposizione di tutti gli altri,
non si custodisse senza pericolo nel ducato di Milano: però
deliberorono di condurlo a Genova e da Genova per mare a Napoli, per
guardarlo nel Castelnuovo, nel quale già si preparavano l'abitazioni
per lui. La qual cosa era sommamente molestissima al re, perché
insino dal principio aveva ardentemente desiderato di essere
condotto in Spagna; persuadendosi (non so se per misurare altri
dalla natura sua medesima, o pure per gli inganni che facilmente si
fanno gli uomini da se stessi in quello che e' desiderano) che, se
una volta era condotto al cospetto di Cesare, d'avere, o per la
benignità sua o per le condizioni che egli pensava di proporre, a
essere facilmente liberato. Desiderava e il medesimo, per
amplificare la gloria sua, ardentemente il viceré; ma ritenendosene
per timore della armata de' franzesi, andò, di comune consentimento,
Memoransí a madama la reggente, e avute da lei sei galee sottili, di
quelle che erano nel porto di Marsilia, con promissione che, subito
che e' fusse arrivato in Spagna, sarebbono restituite, ritornò con
esse a Portofino, dove era già condotta la persona del re: le quali
aggiunte a sedici galee di Cesare, con le quali avevano prima
deliberato di condurlo a Napoli, e armatele tutte di fanti
spagnuoli, preso a' sette dí di giugno il cammino di Spagna, in
tempo che non solo i príncipi d'Italia ma tutti gli altri capitani
cesarei e Borbone tenevano per certo che il re si conducesse a
Napoli, si condussono con prospera navigazione, l'ottavo giorno, a
Roses porto della Catalogna, con grandissima letizia di Cesare,
ignaro insino a quel dí di questa deliberazione. Il quale, subito
che n'ebbe notizia, comandato che per tutto donde passava fusse
ricevuto con grandissimi onori, commesse nondimeno, insino a tanto
che altro se ne determinasse, che fusse custodito nella rocca di
Sciativa appresso a Valenza, rocca usata anticamente da i re di
Aragona per custodia degli uomini grandi, e nella quale era stato
tenuto ultimamente piú anni il duca di Calavria. Ma parendo questa
deliberazione inumana al viceré e molto aliena dalle promesse che in
Italia gli aveva fatte, ottenne per lettere da Cesare che insino a
nuova deliberazione fusse fermato in una villa vicina a Valenza,
dove erano comodità di caccie e di piaceri. Nella quale poi che
l'ebbe con sufficiente guardia collocato, lasciato con lui il
capitano Alarcone, il quale continuamente aveva avuta la sua
custodia, andò insieme con Memoransí a Cesare, a referirgli lo stato
di Italia e le cose trattate col re insino a quel dí, confortandolo
con molte ragioni a voltare l'animo alla concordia con lui, perché
con gli italiani non poteva avere fedele amicizia e congiunzione.
Donde Cesare, udito che ebbe il viceré e Memoransí, determinò che il
re di Francia fusse condotto in Castiglia nella fortezza di Madril,
luogo molto lontano dal mare e da' confini di Francia; dove, onorato
con la cerimonia e con le riverenze convenienti a tanto principe,
fusse nondimeno tenuto con diligente e stretta guardia, avendo
facoltà di uscire qualche volta il dí fuora della fortezza
cavalcando in su una mula. Né consentiva Cesare di ammettere il re
al cospetto suo se prima la concordia non fusse o stabilita o
ridotta in speranza certa di stabilirsi: la quale perché si
trattasse per persona onorata e che quasi fusse la medesima che il
re, fu espedito in Francia con grandissima celerità Memoransí, per
fare venire la duchessa di Alanson sorella vedova del re, con
mandato sufficiente a convenire; e perché non avessino a ostare
nuove difficoltà si fece, poco poi, tra Cesare e il governo di
Francia tregua per tutto dicembre prossimo. Ordinò ancora Cesare che
una parte delle galee venute col viceré ritornassino in Italia, per
condurre il duca di Borbone in Spagna, senza la presenza del quale
affermava non volere fare alcuna convenzione (benché per mancamento
di danari si spedivano lentamente); e dimostrandosi molto disposto
alla pace universale de' cristiani, e volere in uno tempo medesimo
dare forma alle cose d'Italia, sollecitava con molta instanza il
pontefice che accelerasse l'andata del cardinale de' Salviati o di
altri con sufficiente mandato: al quale anche, essendo già
deliberato di pigliare per moglie la infante di Portogallo, cugina
sua carnale e cosí congiunta seco in secondo grado, espedí Lopes
Urtado a dimandare al pontefice la dispensa; essendosi prima scusato
col re di Inghilterra di non potere resistere alla volontà de'
popoli suoi. Per il medesimo Lopes, il quale partí alla fine di
luglio, mandò i privilegi della investitura del ducato di Milano a
Francesco Sforza, con condizione che di presente pagasse centomila
ducati e si obligasse a pagarne cinquecentomila altri in vari tempi,
e a pigliare i sali dall'arciduca suo fratello: e il medesimo portò
commissione che, dai fanti spagnuoli in fuora, i quali alloggiassino
nel marchesato di Saluzzo, si licenziassino tutti gli altri; e che
secento uomini d'arme ritornassino nel reame di Napoli, gli altri
rimanessino nel ducato di Milano; e che del suo esercito fusse
capitano generale il marchese di Pescara. Aggiunse Cesare a questa
commissione che certi danari, quali aveva mandati a Genova per
armare quattro caracche con intenzione di passare subito in Italia
personalmente, si convertissino ne' bisogni dello esercito, perché
deliberava di non partire per allora di Spagna; e che il
protonotario Caracciolo andasse da Milano a Vinegia in nome di
Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almeno
perché ciascuno restasse certificato tutte le azioni sue tendere
alla pace universale de' cristiani.
Lib.16, cap.8
Diverse ragioni di malcontento, pel trasferimento del re di Francia
in Ispagna, dei veneziani del pontefice del Borbone e del marchese
di Pescara. Condizione di soggezione a Cesare del duca di Milano;
malcontento dei sudditi; occulte proposte del Morone contro Cesare
al marchese di Pescara, al pontefice ed ai veneziani. Contegno del
marchese di Pescara: sua rivelazione della congiura a Cesare.
Promesse della reggente di Francia. Cesare invia la patente di
capitanato al marchese di Pescara. Investitura del ducato a
Francesco Sforza. Infermità del duca; raccolta di nuove milizie da
parte del marchese di Pescara.
Ma l'andata del re di Francia in Spagna aveva dato grandissima
molestia al pontefice e a' viniziani. Perché, poi che lo esercito
cesareo era assai diminuito, pareva loro che, in qualunque luogo di
Italia si fermasse la persona del re, che la necessità di guardarlo
bene tenesse molto implicati i cesarei, in modo che o facilmente si
potesse presentare qualche occasione di liberarlo o almanco che la
difficoltà di condurlo in Spagna e la poca sicurtà di tenerlo in
Italia costrignesse Cesare a dare alle cose universali onesta forma.
Ma vedutolo andare in Spagna, e che egli medesimo, ingannato da vane
speranze, aveva dato agli inimici facoltà di condurlo in sicura
prigione, si accorsono che tutto quello che si trattava era
assolutamente in mano di Cesare, e che nelle pratiche e offerte de'
franzesi non si poteva fare alcuno fondamento; donde, augumentandosi
ogni dí la riputazione di Cesare, si cominciò ad aspettare da quella
corte le leggi di tutte le cose. Né so se e' fusse minore il
dispiacere che ebbono, benché per diverse cagioni, il duca di
Borbone e il marchese di Pescara, che il viceré senza saputa loro
avesse condotto il re cristianissimo in Spagna: Borbone, perché
trovandosi per l'amicizia fatta con l'imperadore scacciato di
Francia aveva piú interesse che nissuno altro di intervenire a tutte
le pratiche dello accordo, e però si dispose a passare ancora egli
in Spagna (benché, essendo necessitato aspettare il ritorno delle
galee che erano andate col viceré, tardò a partirsi piú che non
arebbe desiderato); e il marchese era sdegnato per la poca
estimazione che aveva fatta di lui il viceré, ma ancora male
contento di Cesare, dal quale gli pareva che e' non fussino
riconosciuti quanto si conveniva i meriti suoi e l'opere egregie
fatte da lui in tutte le prossime guerre, e specialmente nella
giornata di Pavia, della vittoria della quale aveva il marchese solo
conseguito piú gloria che tutti gli altri capitani: e nondimeno era
paruto che Cesare, con molte laudi e dimostrazioni, l'avesse
riconosciuta assai dal viceré. Il che non potendo tollerare scrisse
a Cesare lettere contumeliosissime contro al viceré lamentandosi di
essere stato immeritamente tanto disprezzato da lui che non l'avesse
giudicato degno di essere almeno conscio di una tale deliberazione;
e che se nella guerra e ne' pericoli avesse riferito al consiglio e
arbitrio proprio la deliberazione delle cose non solo non sarebbe
stato preso il re di Francia ma, subito che fu perduto Milano, lo
esercito cesareo, abbandonata la difesa di Lombardia, si sarebbe
ritirato a Napoli. Essere il viceré andato a trionfare di una
vittoria nella quale era notissimo a tutto l'esercito che esso non
aveva parte alcuna, e che essendo nell'ardore della giornata restato
senza animo e senza consiglio, molti gli avevano udito dire piú
volte: - noi siamo perduti; - il che quando negasse si offeriva
parato a provargliene, secondo le leggi militari, con l'arme in
mano. Accresceva la mala contentezza del marchese che avendo, subito
dopo la vittoria, mandato a pigliare la possessione di Carpi, con
intenzione di ottenere quella terra per sé da Cesare, non era
ammesso questo suo desiderio; perché Cesare, avendola conceduta due
anni innanzi a Prospero Colonna, affermava che benché mai ne avesse
avuta la investitura, volere, in beneficio di Vespasiano suo
figliuolo, conservare alla memoria di Prospero morto quella
remunerazione che aveva fatto alla virtú e opere di lui vivo: la
quale ragione ancora che fusse giusta e grata, e al marchese
dovessino piacere gli esempli di gratitudine se non per altro perché
gli accrescevano la speranza che avessino a essere remunerate tante
sue opere, non era nondimanco accettata da lui; il quale, come
sentiva molto di se medesimo, giudicava conveniente che questo suo
appetito, nato da cupidità e da odio implacabile che e' portava al
nome di Prospero, fusse anteposto a ogni altro benché giustissimo
rispetto. Però, e con Cesare e con tutto il consiglio erano
gravissime le sue querele, e tanto palesi in Italia i suoi lamenti,
e con tale detestazione della ingratitudine di Cesare, che dettono
animo ad altri di tentare nuovi disegni: donde a Cesare, se e' non
pensava a occupare piú oltre in Italia, si presentò giusta cagione
anzi quasi necessità di fare altri pensieri; e se pure aveva fini
ambiziosi ebbe occasione di coprirgli con la piú onesta occasione e
col piú giustificato colore che avesse saputo desiderare. Il che,
poiché fu origine di grandissimi movimenti, è necessario che molto
particolarmente si dichiari.
La guerra che, vivente Leone decimo, fu cominciata da lui e da
Cesare per cacciare il re di Francia d'Italia fu presa sotto titolo
di restituire Francesco Sforza nel ducato di Milano; e benché in
esecuzione di questo, ottenuta la vittoria, gli fusse consegnata la
ubbidienza dello stato e il castello di Milano e l'altre fortezze,
quando si recuperorono, nondimeno, essendo quello ducato tanto
magnifico e tanto opportuno, non cessava il timore avuto nel
principio da molti che Cesare aspirasse a insignorirsene,
interpretando che lo ostacolo potente che aveva del re di Francia
fusse cagione che per ancora tenesse occulta questa cupidità, perché
arebbe alterato i popoli che ardentemente desideravano Francesco
Sforza per signore, e concitatasi contro tutta Italia che non
sarebbe stata contenta di tanto suo augumento. Teneva adunque
Francesco Sforza quello ducato, ma con grandissima suggezione e pesi
quasi incredibili: perché, consistendo tutto il fondamento della
difesa sua dai franzesi in Cesare e nel suo esercito, era
necessitato non solo a osservarlo come suo principe ma ancora a
stare sottoposto alla volontà de' capitani; e gli bisognava
sostentare quelle genti che non erano pagate da Cesare, ora col dare
loro danari, che si traevano dai sudditi con grandissime angherie e
difficoltà, ora col lasciargli vivere a discrizione quando in una
quando in un'altra parte, eccetto la città di Milano, dello stato:
le quali cose, per sé gravissime, faceva intollerabili la natura
degli spagnuoli avara e fraudolente e, quando hanno facoltà di
scoprire gli ingegni loro, insolentissima; nondimeno il pericolo che
si correva da' franzesi, a' quali i popoli erano inimicissimi, e la
speranza che queste cose avessino qualche volta finalmente a
terminare facevano tollerare agli uomini sopra le forze ancora, e
sopra la loro possibilità. Ma dopo la vittoria di Pavia non potevano
i popoli piú tollerare che non continuando le medesime necessità,
poiché era prigione il re, continuasse nondimeno il pericolo delle
medesime calamità; e perciò dimandavano che di quello ducato si
rimovesse o tutto o la maggiore parte dello esercito: il medesimo
ardentemente desiderava il duca, non avendo insino allora sentito
del dominare altro che il nome, e non manco perché temeva che
Cesare, assicurato del re di Francia, o non lo occupasse per sé o
non lo concedesse a persone che da lui totalmente dependessino. Alla
quale suspizione, procreata dalla natura stessa delle cose, davano
non piccolo nutrimento le parole insolenti dette dal viceré, innanzi
che conducesse il re di Francia in Spagna, e cosí dagli altri
capitani, e le dimostrazioni che e' facevano di disprezzare il duca
e di desiderare apertamente che Cesare lo opprimesse; e molto piú
che, avendo Cesare dopo molte dilazioni mandati in mano del viceré i
privilegi della investitura, egli, offerendola al duca, aveva
dimandato che, per ristoro delle spese fatte da Cesare per lo
acquisto e per la difesa di quello stato, si pagassino in certi
tempi uno milione e dugento migliaia di ducati, peso tanto eccessivo
che il duca fu costretto ricorrere a Cesare perché si riducesse a
quantità tollerabile. Ma queste difficoltà facevano dubitare che le
dimande sí esorbitanti fussino interposte per differire. Allegoronsi
poi, da quegli i quali si sforzavano di escusare la necessità di
Francesco Sforza, molte altre cagioni di averlo fatto giustamente
sospettare, e particolarmente di avere auto notizia che i capitani
avevano ordinato di ritenerlo; per il che egli, chiamato dal viceré
a certa dieta, aveva ricusato di andarvi fingendosi ammalato, e il
medesimo aveva osservato in tutti i luoghi dove essi potessino
fargli violenza. Il quale sospetto, o vero o vano che e fusse, fu
cagione che egli, vedendo che nello stato di Milano non erano
restate molte genti, per essere andata una parte de' fanti spagnuoli
prima col viceré e poi con Borbone in Spagna, e perché molti ancora,
arricchiti per tante prede, si erano alla sfilata ritirati in vari
luoghi, considerando ancora la indegnazione grandissima la quale si
dimostrava nel marchese di Pescara, voltato l'animo ad assicurarsi
da questo pericolo, entrò in speranza che, con consentimento suo, si
potesse disfare quello esercito. Autore di questo consiglio fu
Ieronimo Morone, suo gran cancelliere e appresso a lui di somma
autorità; il quale, per ingegno eloquenza prontezza invenzione ed
esperienza, e per avere fatto molte volte egregia resistenza alla
acerbità della fortuna, fu uomo a' tempi nostri memorabile; e
sarebbe ancora stato piú se queste doti fussino state accompagnate
da animo piú sincero e amatore dello onesto, e da tale maturità di
giudizio che i consigli suoi non fussino spesso stati piú presto
precipitosi o impudenti che onesti o circospetti. Costui, odorando
la mente del marchese, si condusse co' ragionamenti seco tanto
innanzi che venneno in parole di tagliare a pezzi quelle genti e di
fare il marchese re di Napoli, pure che il pontefice e i viniziani
vi concorressino. Al quale consiglio il pontefice, essendo pieno di
sospetto e di ansietà, tentato per ordine del Morone, non si mostrò
punto alieno; benché da altra parte, non per scoprire la pratica ma
per prepararsi qualche rifugio se la cosa non succedesse, avvertí
sotto specie di affezione Cesare che tenesse bene contenti i suoi
capitani. Mostroronsi i viniziani caldissimi: e si persuadevano
anche tutti che v'avesse a essere non manco pronta la madre del re
di Francia; la quale già si accorgeva che, arrivato il figliuolo in
Spagna, la sua liberazione non procedeva con quella facilità che si
erano immaginati.
Non è dubbio che tali consigli sarebbono facilmente succeduti se il
marchese di Pescara fusse, in questa congiurazione contro a Cesare,
proceduto sinceramente; il quale se da principio ci prestasse
orecchi, con simulazione o no, sono state varie le opinioni insino
tra gli spagnuoli, e nella corte medesima di Cesare; e i piú,
calcolando i tempi e gli andamenti delle cose, hanno creduto che
egli da principio concorresse veramente con gli altri ma che poi,
considerando molte difficoltà che potevano sorgere in progresso di
tempo, e spaventandolo massime il trattare continuamente i franzesi
con Cesare, e dipoi la deliberazione della andata della duchessa di
Alanson a Cesare, facesse nuove deliberazioni. Anzi, affermano
alcuni avere tardato tanto a dare avviso a Cesare del trattarsi in
Italia cose nuove che, avendone già ricevuto avviso da Antonio de
Leva e da Marino abate di Nagera commissario nello esercito cesareo,
non si stava nella corte senza ammirazione del silenzio del
marchese. Ma quel che fusse allora, certo è che, non molto poi,
mandato Giovambatista Castaldo suo uomo a Cesare, gli manifestò
tutto quello che si trattava, e con consentimento suo continuò la
medesima pratica: anzi, per avere notizia de' pensieri di ciascuno e
a tutti levare la facoltà di potere mai negare di avervi
acconsentito, ne parlò da se medesimo col duca di Milano, e operò
che il Morone procurasse tanto che il pontefice, il quale poco
innanzi gli aveva dato in governo perpetuo la città di Benevento, e
con chi egli intratteneva grandissima amicizia e servitú, mandò
Domenico Sauli con uno breve di credenza a parlargli del medesimo.
Le conclusioni che si trattavano erano: che tra il papa il governo
di Francia e gli altri di Italia si facesse una lega della quale
fusse capitano generale il marchese di Pescara, e che egli, avendo
prima alloggiata la fanteria spagnuola separatamente in diversi
luoghi del ducato di Milano, ne tirasse seco quella parte che lo
volesse seguitare; gli altri con Antonio de Leva, che dopo lui era
restato il primo dello esercito, fussino svaligiati e ammazzati; e
che con le forze di tutti i confederati si facesse per lui la
impresa del regno di Napoli, del quale il papa gli concedesse la
investitura. Alle quali cose il marchese dimostrava di non
interporre altra difficoltà che il volere, innanzi a tutto, essere
bene certificato se, senza maculare l'onore e la fede sua, potesse
pigliare questa impresa in caso gli fusse comandato dal pontefice;
sopra che veniva in considerazione, a chi, egli che era uomo e
barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a obbedire, o a
Cesare, che per la investitura Alle quali cose il marchese
dimostrava di non interporre altra difficoltà che il volere, innanzi
a tutto, essere bene certificato se, senza maculare l'onore e la
fede sua, potesse pigliare questa impresa in caso gli fusse
comandato dal pontefice; sopra che veniva in considerazione, a chi,
egli che era uomo e barone del reame di Napoli, fusse piú obligato a
obbedire, o a Cesare, che per la investitura avuta dalla Chiesa
aveva il dominio utile di quel regno, o al pontefice, che per
esserne supremo signore aveva il dominio diretto. Sopra il quale
articolo, e a Milano per ordine di Francesco Sforza, e a Roma per
ordine di Clemente, ne furono, segretissimamente e con soppressione
de' nomi veri, fatti consigli da eccellenti dottori. Accrescevansi
queste speranze contro a Cesare per le offerte di madama la
reggente; la quale, giudicando che la necessità o almanco il timore
di Cesare fusse utile a quel che per la liberazione del figliuolo si
trattava con lui, sollecitava il pigliare l'armi, promettendo di
mandare cinquecento lance in Lombardia e concorrere alle spese della
guerra con somma grande di danari: né cessava il Morone di
confermare gli animi degli altri in questa sentenza; perché, oltre
al dimostrare la facilità che si aveva, senza l'aiuto ancora del
marchese di Pescara, di disfare quello esercito che era diminuito
assai di numero, prometteva in nome del duca, se il marchese non
stesse fermo nelle cose trattate, subito che gli altri disegni
fussino in ordine, fare prigione nel castello di Milano lui e gli
altri capitani che vi andavano quotidianamente a consultare. Le
quali occasioni, se bene paressino grandi, non sarebbono però state
bastanti a fare che il pontefice pigliasse l'armi senza il marchese
di Pescara, se nel medesimo tempo, intesa la provisione mandata a
Genova per armare le quattro caracche, non avesse anche avuto
indizio di Spagna della inclinazione di Cesare di passare in Italia;
la quale cosa affliggendolo maravigliosamente, e per le condizioni
del tempo presente e per la disposizione inveterata de' pontefici
romani, a' quali niuna cosa soleva essere piú spaventosa che la
venuta degli imperadori romani armati in Italia, desiderando di
ovviare a questo pericolo spacciò, con consenso de' viniziani,
segretamente in Francia, per conchiudere le cose trattate con madama
la reggente, Sigismondo segretario di Alberto da Carpi, uomo destro
e molto confidato al pontefice. Il quale, correndo la posta fu di
notte da certi uomini di male affare ammazzato, per cupidità di
rubare, appresso al lago di Iseo nel territorio bresciano: il che,
essendo stato occultissimo molti dí, non fu piccola la dubitazione
del pontefice che e' non fusse stato preso secretamente in qualche
luogo per ordinazione de' capitani imperiali, e forse del marchese
medesimo; il procedere del quale, per le dilazioni che interponeva,
cominciava non mediocremente a essere sospetto.
In questo stato delle cose sopravenne la espedizione data da Cesare
a Lopes Urtado; il quale, essendo ammalato in Savoia, la mandò
subito per messo proprio a Milano, con la patente del capitanato
nella persona del marchese di Pescara (il quale, per continuare
nella simulazione medesima con gli altri, dimostrò non essergli
molto grata, ancora che subito accettasse il capitanato), e
commissione ancora al protonotario Caracciolo che andasse a Vinegia
in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o
almanco perché ciascuno restasse giustificato del desiderio che
aveva Cesare di stare in pace con tutti. Accettò Francesco Sforza,
al quale era già cominciata infermità di non piccolo momento, la
investitura del ducato, e ne pagò cinquantamila ducati; ma non
perciò pretermesse di continuare le pratiche medesime col marchese.
Varie sono state le opinioni se questa espedizione di Cesare fusse
sincera o artificiosa; perché molti credettono che avesse volto
veramente l'animo ad assicurare quegli di Italia, altri dubitorono
che egli, per paura di nuovi movimenti, volesse tenere gli uomini
sospesi con varie speranze e andare guadagnando tempo, col concedere
la investitura e col dare in apparenza la commissione del levare lo
esercito, tanto grata a tutta Italia; ma che da parte avesse dato a'
suoi capitani ordinazione che non lo rimovessino. Né mancò dipoi chi
credesse che egli avesse già notizia dal marchese delle pratiche
tenute col Morone, e però commettesse cosí non per essere ubbidito
ma per acquistare qualche giustificazione, e posare con queste
speranze gli animi degli uomini insino a tanto gli paresse il tempo
opportuno a eseguire i suoi disegni. Nella quale dubietà essendo
molto difficile il pervenirne alla vera notizia, massime non sapendo
se al tempo che Giovambatista Castaldo, mandato dal marchese a
significare il trattato, arrivò alla corte, fusse ancora stato
espedito Lopes Urtado, e considerato quali in molte cose siano poi
stati i progressi di Cesare, è senza dubbio manco fallace il tenere
per vera la migliore e piú benigna interpretazione.
Non cessava intratanto il marchese di intrattenere con le speranze
medesime il Morone e gli altri, e nondimeno differire con varie
scuse la esecuzione: alla qual cosa gli dette occasione l'essere
talmente aggravata la infermità del duca di Milano che si fece per
tutti giudizio quasi certo della sua morte. Perché pretendendo tutti
i capitani che, in caso tale, quello stato ricadesse a Cesare,
supremo signore del feudo, non solo gli fu lecito non rimuovere
l'esercito ma ebbe necessità di chiamarvi di nuovo dumila fanti
tedeschi, e ordinare che ne stesse preparato maggiore numero: donde,
essendo nel ducato di Milano i soldati tanto potenti, restava
privato della facoltà di dissolvergli di offendergli; dando speranza
di eseguire i consigli della congiurazione come prima ne ritornasse
la facoltà. La quale mentre che si aspetta, publicando di volere
procedere con rispetto grandissimo col pontefice, levò dello stato
della Chiesa le guarnigioni delle quali egli si querelava
gravemente.
Lib.16, cap.9
Infermità del re di Francia; visita e promessa di Cesare. Difficoltà
di trattative fra Cesare e madama d'Alanson. Trattative fra il
pontefice e Cesare.
Ma nel tempo medesimo, per nuovo accidente succeduto in Spagna, si
variorono quasi tutte le cose. Perché il re di Francia, pieno di
gravissimi dispiaceri, poiché invano aveva desiderata la presenza di
Cesare, si ridusse, per infermità sopravenutagli nella rocca di
Madril, in tale estremità della vita che i medici deputati alla sua
curazione feciono intendere a Cesare diffidarsi totalmente della
salute, se già non veniva egli in persona a confortarlo e dargli
speranza della liberazione. Dove preparandosi di andare, il gran
cancelliere suo lo dissuase, dicendo che lo onore suo ricercava di
non vi andare se non con disposizione di liberarlo subito e senza
alcuna convenzione, altrimenti essere una umanità non regia ma
mercenaria, e uno desiderio di farlo guarire non per carità della
salute sua ma mosso solamente da interesse proprio, per non perdere
per la sua morte la occasione de' guadagni sperati dalla vittoria;
consiglio certamente memorabile e degno di essere accettato da tanto
principe: nondimeno, consigliato diversamente da altri, andò in
poste a visitarlo. La visitazione fu breve, perché il cristianissimo
era già quasi allo estremo, ma piena di parole grate, e di speranza
certissima, come e' fusse sanato, di liberarlo; e, quel che ne fusse
cagione, o questo conforto o che la gioventú fusse per se stessa
superiore alla natura della infermità, cominciò dopo questa
visitazione ad alleggierirsi in modo che in pochi dí restò liberato
dal pericolo, ancora che non ritornasse se non con tardità alla
prima valitudine.
Ma né le difficoltà che apparivano dell'animo di Cesare né le
speranze date dagli italiani avevano impedita la andata di madama di
Alanson in Spagna; perché niuna cosa era piú difficile a' franzesi
che abbandonare le pratiche della concordia con quegli che potevano
restituirgli il suo re, niuna piú facile a Cesare che, col dare
speranza a' franzesi, divertirgli dai pensieri del pigliare l'armi e
con questa arte tenere sospesi gli italiani in modo che non
ardissino di fare nuove deliberazioni; e cosí, ora allentando ora
strignendo, tenere confusi e implicati gli animi di tutti. Fu madama
di Alanson ricevuta da Cesare con grate dimostrazioni e speranze, ma
gli effetti riuscirono duri e difficili. Perché gli parlò, il quarto
dí di ottobre, ricercandolo del matrimonio della sorella vedova col
re; alla quale dimanda rispose Cesare non potere farlo senza
consentimento del duca di Borbone. L'altre particolarità si
trattavano da' deputati dell'una parte e dell'altra, facendo Cesare
ostinatamente instanza che, come proprio, gli fusse restituito il
ducato di Borgogna, i franzesi non consentendo se non o di
accettarla per dote o che giuridicamente si vedesse a quale de' due
príncipi apparteneva. Nelle altre condizioni si sarebbono facilmente
concordati; ma restando tanta discrepanza nelle cose della Borgogna,
madama di Alanson alla fine se ne ritornò in Francia, senza avere
riportato altro che facoltà di vedere il fratello. Il quale, alla
partita di lei, diffidando già ogni dí piú della sua liberazione, si
dice avergli commesso che per sua parte ricordasse alla madre e agli
uomini del consiglio che pensassino bene al beneficio della corona
di Francia, non avendo considerazione alcuna della persona sua come
se piú non vivesse. Né si troncorono perciò per la partita sua al
tutto le pratiche, perché vi rimasono il presidente di Parigi i
vescovi di Ambrone e di Tarba, i quali insino ad allora l'avevano
trattate, ma con leggiera speranza, non si inclinando Cesare a
condizione alcuna senza la restituzione della Borgogna, né
consentendo il re di concederla se non per ultima necessità.
Arrivò adunque il cardinale alla corte, dove, ricevuto da Cesare con
grandissimo onore, trattava le sue commissioni, le quali
principalmente contenevano la ratificazione degli articoli promessi
dal viceré; confortando anche che al duca di Milano fusse conceduta
la investitura per la sicurtà comune. Ma il viceré medesimo
dissuadeva la restituzione di Reggio e di Rubiera; per i conforti e
sotto la speranza del quale, il duca di Ferrara, desideroso di
trattare per se medesimo appresso a Cesare la causa sua, ottenuta
dal pontefice promessa che per sei mesi non sarebbe molestato da lui
lo stato suo, si condusse insino a' confini del regno di Francia,
con determinazione di passare piú innanzi; ma negandogli madama il
salvocondotto, se ne ritornò finalmente a Ferrara. Trattavasi ancora
tra il pontefice e Cesare la causa della dispensazione, per potere
fare matrimonio con la sorella del re di Portogallo; il quale
Cesare, non ostante che al re di Inghilterra avesse già promesso con
giuramento di non ricevere per moglie altri che la figliuola, era
determinato di contrarre. Alla quale dispensazione concedere il
pontefice procedeva lentamente, essendogli persuaso da molti che il
desiderio di ottenere questa grazia renderebbe Cesare piú facile a'
desideri suoi nelle cose che si trattavano; o almeno essere cosa
imprudente, in caso s'avesse a fare guerra seco, dargli facoltà di
accumulare tanti danari quanti accumulerebbe per mezzo di questo
matrimonio: perché il re di Portogallo gli offeriva in dote
novecentomila ducati, de' quali, detratta quella parte che s'aveva
d'accordo a compensare in debiti contratti con lui, si pensava
gliene perverebbono in mano almanco cinquecentomila ducati; e oltre
a quattrocentomila ducati consentivano di dargli i popoli di
Castiglia, per quello che essi chiamavano servizio, quale,
cominciato anticamente dalla volontà propria de' popoli per
soccorrere alle necessità de' suoi re, era ridotto in ordinaria
prestazione, offerivano di donargli quattrocentomila altri ducati in
caso desse perfezione a questo matrimonio. Da altra parte il
pontefice non sapeva resistere alla importunità del duca di Sessa
oratore cesareo, perché in lui era quasi sempre repugnanza grande
dalla disposizione alla esecuzione; conciossiaché, alienissimo per
sua natura dal concedere qualunque grazia dimandatagli, non sapeva
anche difficultarle, o negarle costantemente; ma lasciando spesso
vincere la volontà sua dalla importunità di quegli che dimandavano,
e in modo che e' pareva che il piú delle volte concedesse piú per
paura che per grazia, non procedeva in questo con quella costanza né
con quella maestà che ricercava la grandezza della sua degnità né la
importanza delle faccende che si trattavano. Cosí accadde nella
dispensa dimandata; che combattendo in lui da uno canto la utilità
propria dall'altro la sua mollizie, scaricò, come spesso era usato
di fare, addosso ad altri quello che a lui non bastava non so se la
fronte o l'animo di sostenere. Spedí per uno breve la dispensa nella
forma dimandata da Cesare, e la mandò al cardinale de' Salviati, con
commissione che, se le cose sue si risolvevano con Cesare secondo la
speranza che aveva data di volere fare, subito che il cardinale
arrivasse alla corte, gli desse il breve, altrimenti lo ritenesse:
commissione nella quale il ministro, come in suo luogo si dirà, non
fu né piú nervoso né piú costante che fusse stato il padrone.
Lib.16, cap.10
Il Morone fatto prigione dal marchese di Pescara. Il Pescara,
occupato il ducato, costringe i milanesi a giurare fedeltà a Cesare,
e cinge con trincee il castello di Milano ove trovasi il duca;
timori d'Italia tutta per la potenza di Cesare; come fu giudicato
l'operato del marchese di Pescara. Risposta dei veneziani
all'inviato di Cesare.
Ma mentre che il cardinale trattava le commissioni del pontefice con
Cesare, essendogli data continuamente speranza di desiderata
espedizione, succederono in Lombardia effetti molto diversi. Perché
essendo il duca di Milano alleggierito in modo della infermità che
si teneva per certo che almanco fusse liberato dal pericolo di
presta morte, deliberò il marchese di Pescara (il quale per il
Castaldo medesimo aveva avuto commissione da Cesare di provedere a
questi pericoli, secondo che gli paresse piú opportuno) di
impadronirsi del ducato di Milano, sotto colore che il duca, per le
pratiche tenute per il mezzo del Morone, era caduto dalle ragioni
della investitura, e che il feudo era ricaduto a Cesare supremo
signore. Però, essendo il marchese a Novara, benché oppresso da non
piccola infermità, e avendo una parte dello esercito in Pavia, i
tedeschi alloggiati appresso a Lodi (le quali due città aveva fatte
fortificare), chiamò inaspettatamente a Novara il resto delle genti
che alloggiavano nel Piemonte e nel marchesato di Saluzzo, il quale
quasi subito dopo la vittoria avevano occupato; e sotto specie di
volere compartire gli alloggiamenti per tutto lo stato di Milano,
chiamò a Novara il Morone, nella persona del quale si può dire che
consistesse la importanza d'ogni cosa; perché era certo che, come
egli fusse fatto prigione, il duca di Milano, spogliato d'uomini e
di consiglio, non farebbe resistenza alcuna; dove, se fusse libero,
poteva dubitare che, con lo ingegno con l'esperienza con la
riputazione, difficultasse molto i suoi disegni. Era ancora
necessario che Cesare avesse in potestà sua la persona del Morone,
stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo
processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di
Milano. Non è cosa alcuna piú difficile a schifare che il fato,
nessuno rimedio è contro a' mali determinati. Poteva già conoscere
il Morone che la pratica tenuta col marchese di Pescara era vana;
sapeva di essere in grandissimo odio appresso a tutti i soldati
spagnuoli, tra i quali già molte cose della sua infedeltà si
dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo
ammazzare; non è credibile non considerasse la importanza della sua
persona, che non vedesse in che grado si trovava il duca di Milano,
inutile allora e quasi come morto; tra loro, già molti dí innanzi,
era ogni cosa sospesa e piena di sospizione: ognuno lo confortava a
non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno, o avendo
ancora occupato l'animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese
o facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere
contratta con lui, o confidandosi della fede la quale disse poi
avere avuta per una sua lettera, o per dire meglio tirato da quella
necessità, che trascina gli uomini che non vogliono lasciarsi
menare, si risolvé di andare quasi a una carcere manifesta: cosa a
me tanto piú maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi il
Morone detto piú volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere
uomo in Italia né di maggiore malignità né di minore fede del
marchese di Pescara. Fu ricevuto da lui benignamente; e soli, in
camera, parlorono delle prime pratiche e di ammazzare gli spagnuoli
e Antonio de Leva, ma in luogo che Antonio, che dal marchese era
stato occultato dietro a uno panno d'arazzo, udiva tutti i
ragionamenti; dal quale, partito che fu dal marchese, che fu il
quartodecimo dí di ottobre, fu fatto prigione e mandato nel castello
di Pavia. Nel quale luogo andò il marchese proprio a esaminarlo
sopra quelle cose che insieme avevano trattate; messe in processo
tutto l'ordine della congiurazione, accusando il duca di Milano come
conscio di ogni cosa; che era quello che principalmente si cercava.
Incarcerato il Morone, il marchese, in mano del quale erano prima
Lodi e Pavia, ricercò il duca che per sicurtà dello stato dello
imperadore gli facesse consegnare Cremona e le fortezze di Trezzo,
Lecco e Pizzichitone, che per essere in su il passo di Adda sono
tenute le chiavi del ducato di Milano; promettendo, avute queste, di
non innovare piú altro: le quali il duca, trovandosi ignudo di ogni
cosa, abbandonato di consiglio e di speranza, gli fece subito
consegnare. Avute queste, ricercò piú oltre di essere ammesso in
Milano (diceva) per parlare seco; che gli fu consentito con la
medesima facilità: ed entrato che fu in Milano, gli mandò a fare
instanza che gli facesse consegnare il castello di Cremona; e che
non ricercava il medesimo di quello di Milano per non essere dimanda
conveniente, poi che vi era dentro la sua persona, ma che dimandava
bene che, per sicurtà dello esercito di Cesare, il duca consentisse
che il castello fusse serrato con le trincee. Dimandò ancora che gli
desse in mano Gian Angelo Riccio suo segretario e Poliziano
segretario del Morone, acciò che si potessino esaminare sopra le
imputazioni che erano date a lui di avere macchinato contro a
Cesare. Alle quali dimande rispose il duca che teneva le castella di
Milano e di Cremona in nome e a instanza di Cesare, al quale era
stato sempre fedelissimo vassallo, e che non le voleva consegnare ad
alcuno se prima non intendeva la sua volontà; la quale per intendere
chiaramente gli manderebbe subito uno uomo proprio, pure che il
marchese gli concedesse sicurtà di passare; e che non gli pareva
onesto consentire di essere, in questo mezzo, serrato in castello;
dalla quale violenza si difenderebbe in qualunque modo potesse.
Avere bisogno per sé di Gian Angelo, per essere egli instrutto di
tutte le cose sue importanti, né essere per allora appresso a sé
altro ministro; e avere anche maggiore necessità di quello del
Morone per poterlo presentare innanzi a Cesare, e giustificare con
questo mezzo che, nella infermità sua, il padrone aveva fatto in suo
nome, senza saputa sua, molte espedizioni che gli potrebbono essere
di carico, se con questo mezzo non giustificasse la innocenza sua; e
che le pratiche del Morone erano diverse e separate dalle pratiche
sue. Lo effetto fu che, dopo molte repliche e protesti fatti da
l'uno a l'altro per scrittura, il marchese costrinse il popolo di
Milano a giurare fedeltà allo imperadore contro alla volontà sua, e
con incredibile dispiacere di tutti messe per tutto lo stato
officiali in nome di Cesare, e cominciò con le trincee a serrare il
castello di Cremona e quello di Milano; nel quale il duca, con
grandissimi conforti e speranze di soccorso dategli dal pontefice e
da' viniziani, era risoluto di fermarsi, avendovi seco ottocento
fanti eletti, e messevi quelle vettovaglie che comportò la brevità
del tempo. Né mancò di impedire, quanto potette, con l'artiglierie
che e' non si lavorasse alle trincee; le quali si lavoravano dalla
parte di fuora, col fosso piú lontano dal castello che non aveva
fatto Prospero Colonna. Spaventò, e ragionevolmente, l'occupazione
del ducato di Milano Italia tutta; la quale conosceva andarne in
manifesta servitú ogni volta che Cesare fusse padrone di Milano e di
Napoli; e sopra tutti afflisse il pontefice, vedendo scoperte quelle
pratiche con le quali aveva trattato non solo di assicurare Milano
ma ancora di distruggere l'esercito di Cesare e torgli il regno di
Napoli. Al marchese di Pescara conciliò forse grazia appresso a
Cesare, ma nel cospetto di tutti gli altri eterna infamia; non solo
perché restò nella opinione della maggiore parte che da principio
avesse avuto intenzione di mancare a Cesare, ma ancora perché,
quando gli fusse stato sempre fedele, parve cosa di grande infamia
che avesse dato animo agli uomini, e allettatigli con tanta arte e
con tante fraudi a fare pratiche seco, per avere occasione di
manifestargli, e farsi grande de' peccati d'altri procurati con le
lusinghe e con l'arti sue.
Difficultò questa innovazione la speranza della concordia la quale
si trattava per il protonotario Caracciolo col senato viniziano,
ridotta già in termini che pareva propinqua alla conclusione, di
rinnovare la prima confederazione con le medesime condizioni e di
pagare a Cesare, per ricompensazione della omissione del passato,
ottantamila ducati; escluse in tutto le dimande di contribuire in
futuro con danari, e di restituire i fuorusciti di Padova e
dell'altre terre che avevano seguitato Massimiliano. Ma il caso
sopravenuto di Milano empié quello senato di grandissima
perplessità, essendo da una parte molestissimo restare soli in
Italia contro a Cesare, con pericolo che, come minacciava il
marchese di Pescara di volere fare, la guerra non si trasferisse nel
loro dominio (e già ne appariva qualche preparazione), da altra, non
manco, di accrescere col loro accordo la facilità a Cesare di
insignorirsi totalmente di quel ducato; il quale, aggiuntogli a
tanti stati e a tante altre opportunità, era la scala di soggiogare
loro con tutto il resto d'Italia. Né cessava di confortargli al
medesimo efficacemente il vescovo di Baiosa, mandato da madama la
reggente per trattare la unione sua con gli italiani contro a
Cesare; nel quale frangente le consulte loro erano spesse ma dubbie,
e piene di varie opinioni; e se bene lo accettare l'accordo fusse
piú conforme alla consuetudine loro, perché rimoveva i pericoli
presenti, donde potevano sperare nella lunghezza del tempo e nelle
occasioni che possono aspettare le republiche, le quali a
comparazione de' príncipi sono immortali, pure pareva anche loro
troppo importante che Cesare si confermasse nello stato di Milano, e
che i franzesi restassino esclusi di ogni speranza di avere alcuna
congiunzione in Italia. Però, determinati finalmente di non si
obligare a cosa alcuna, risposono al protonotario Caracciolo che i
progressi loro passati facevano fede a tutto il mondo (ed egli
ancora, che si era trovato a conchiudere la confederazione, ne era
buono testimonio) quanto avessino sempre desiderato la amicizia di
Cesare, col quale si erano collegati in tempo che lo accostarsi loro
a' franzesi sarebbe stato, come sapeva ciascuno, di grandissimo
momento; e che sempre avevano perseverato e ora piú che mai
perseveravano nella medesima disposizione; ma che di necessità gli
teneva sospesi il vedere che in Lombardia si fusse fatta innovazione
di tanta importanza, e massime ricordandosi che e la confederazione
loro con Cesare e tanti altri movimenti, che si erano fatti a questi
anni in Italia, non avevano avuto altro fine che il volere che il
ducato di Milano fusse di Francesco Sforza, come fondamento
necessario alla libertà d'Italia e alla sicurtà universale: e però
pregare Sua Maestà che, imitando in questo caso se medesima e la sua
bontà, volesse rimuovere questa innovazione e stabilire la quiete
d'Italia come era in potestà sua di fare, perché gli troverebbe
sempre dispostissimi, e con l'autorità e con le forze, a seguitare
questa santa inclinazione; né gli darebbono mai causa che da loro
avesse a desiderare uffizio alcuno cosí al proposito del bene
universale come degli interessi suoi particolari. La quale risposta
essendo senza speranza alcuna di conclusione non partorí però
rottura di guerra, perché e lo aggravare tutto dí la infermità del
marchese di Pescara e il desiderio di insignorirsi prima di tutto lo
stato di Milano e di stabilire bene quello acquisto, e il volere
prima Cesare risolvere tante altre cose che aveva in mano, non
lasciava dare principio a impresa di tanto momento.
Lib.16, cap.11
Il Borbone in Ispagna; disprezzo dei nobili spagnuoli per lui; morte
del marchese di Pescara; giudizio dell'autore. Incertezza del
pontefice sull'opportunità della confederazione contro Cesare.
Era in questo tempo arrivato Borbone (il quale arrivò il
quintodecimo dí di novembre) alla corte di Cesare. Circa il quale
non merita di essere preterito con silenzio che, benché da Cesare
fusse ricevuto con tutte le dimostrazioni e onori possibili e
carezzato come cognato, nondimeno, che tutti i signori della corte,
soliti come sempre accade a seguitare nell'altre cose l'esempio del
suo principe, l'aborrivano come persona infame, nominandolo
traditore al proprio re; anzi uno di loro, ricercato in nome di
Cesare che consentisse che il suo palazzo gli fusse conceduto per
alloggiamento, rispose, con grandezza di animo castigliana: non
potere dinegare a Cesare quanto voleva, ma che sapesse che, come
Borbone se ne fusse partito, l'abbrucierebbe, come palazzo infetto
dalla infamia di Borbone e indegno di essere abitato da uomini
d'onore. Ma gli onori fatti da Cesare al duca di Borbone
accrescevano la diffidenza de' franzesi; i quali, per questo, e piú
per il ritorno senza effetto di madama di Alanson, sperando poco
nello accordo, ancora che continuamente per uomini propri che
avevano appresso a Cesare si praticasse, instavano quanto potevano
di fare la lega col pontefice: a che intervenivano i conforti e
l'autorità del re d'Inghilterra, le spesse ed efficaci instanze de'
viniziani. E si aggiunse una opportunità senza dubbio grande, che in
questi dí, che fu al principio di dicembre, morí il marchese di
Pescara; forse per giusto giudizio di Dio, che non comportò che egli
godesse il frutto di quel seme che aveva seminato con tanta
malignità.
Era costui di casa di Avalos, di origine catelano; i maggiori suoi
erano venuti in Italia col re don Alfonso di Aragona, che primo di
quella casa acquistò il reame di Napoli; e cominciando dalla
giornata di Ravenna, nella quale ancora giovanetto fu fatto
prigione, era intervenuto in tutte le guerre che avevano fatte gli
spagnuoli in Italia; in modo che, giovane di età, che non passava
trentasei anni, era già vecchio di esperienza. Ingegnoso, animoso,
molto sollecito e molto astuto, e in grandissimo credito e
benivolenza appresso alla fanteria spagnuola, della quale era stato
lungamente capitano generale; in modo che e la vittoria di Pavia e,
già qualche anno, tutte le onorevoli fazioni fatte da quello
esercito erano principalmente succedute per il consiglio e per la
virtú sua. Capitano certamente di valore grande, ma che con artifici
e simulazioni sapeva assai favorire e augumentare le cose sue. Il
medesimo, altiero insidioso maligno, senza alcuna sincerità, e
degno, come spesso diceva desiderare, di avere avuto per patria piú
presto Spagna che Italia.
Confuse adunque assai la morte sua quello esercito, appresso al
quale egli era in tanta grazia e riputazione, e agli altri dette
speranza di poterlo molto piú facilmente opprimere poiché gli era
mancato uno capitano di tale autorità e valore. Però appresso al
pontefice erano tanto piú calde e importune le instanze di coloro
che desideravano che la lega si facesse; ma non erano minori le sue
sospensioni e debitamente, perché da ogni parte combattevano ragioni
efficacissime, e da tenere confuso ogn'uomo bene caldo e deliberato
non che Clemente, che nelle cose sue procedé sempre tardo e sospeso.
Non si aspettava piú da Cesare deliberazione alcuna che assicurasse
Italia: vedevasi attentissimo a pigliare il castello di Milano,
quale preso, tutti gli altri e il papa massime, che aveva lo stato
debole e posto in mezzo della Lombardia e del regno di Napoli, gli
restavano manifestamente in preda; e presupposto che in facoltà sua
fusse di opprimerlo, era molto dubitabile che e' non l'avesse a
fare, o per ambizione (che è quasi naturale agli imperadori contro
a' pontefici) o per assicurarsi o per vendicarsi; trovandosi, come
era credibile, pieno di sdegno e di diffidenza per le pratiche
tenute col marchese di Pescara: e se la necessità di provedere a
questo pericolo era grande non parevano anche leggieri i fondamenti
e le speranze di poterlo fare, perché o il rimedio aveva a succedere
per mezzo di una lega e congiunzione sí potente o si aveva a
disperarsene in eterno. Prometteva il governo di Francia cinquecento
lance, e ogni mese, mentre durava la guerra, quarantamila ducati;
co' quali si ragionava soldare diecimila svizzeri. Disegnavasi che
il papa e i viniziani mettessino insieme mille ottocento uomini
d'arme ventimila fanti e dumila cavalli leggieri, uscissino i
franzesi e i viniziani in mare con una grossa armata per assaltare o
Genova o il reame di Napoli. Prometteva madama la reggente di
rompere subito con potente esercito la guerra alle frontiere di
Spagna, acciò che Cesare fusse impedito a mandare gente e danari per
la guerra d'Italia. Lo esercito restato in Lombardia non era grosso,
non aveva capitani della autorità soleva, essendo morto il marchese,
e il Borbone e il viceré di Napoli in Spagna; non vi era modo di
danari non abbondanza di vettovaglie; i popoli inimicissimi per il
desiderio del suo duca e per le intollerabili esazioni che si
facevano dai soldati e nella città di Milano e in tutto lo stato, il
castello di Milano e di Cremona in mano del duca; e i viniziani
davano speranza che anche il duca di Ferrara entrerebbe in questa
confederazione, pure che Clemente si contentasse di concedergli
Reggio, quale a ogni modo possedeva. Da altro canto faceva
difficoltà la astuzia, la virtú degli inimici, lo essere soliti a
stare lungamente, quando era necessario, con pochi danari e a
tollerare molti disagi e incomodità, le terre fortificate in che
erano e la facilità, per essere terre in piano, da potere anche
meglio ripararle e fortificarle, nelle quali potersi intrattenere
tanto che gli venisse soccorso di Germania, di qualità da ridurre
tutta la guerra alla fortuna d'una giornata; le genti della lega non
potere essere altro che genti nuove e di poco valore a comparazione
di quello esercito veterano e nutrito in tante vittorie. Aversi
difficoltà di capitano generale, non avendo il marchese di Mantova,
che allora era capitano della Chiesa, spalle da sostenere tanto
peso; né potendo sicuramente commettersi alla fede del duca di
Ferrara né di quello di Urbino, che avevano ricevuto tante offese,
né potevano essere contenti della grandezza del pontefice. Tagliare
male di sua natura l'arme della Chiesa, tagliare medesimamente male
l'arme de' viniziani; e se ciascuna male, separata e dispersa,
quanto peggio accompagnate e congiunte insieme? E negli eserciti
delle leghe non concorrere mai le provisioni in uno tempo medesimo;
e tra tante volontà, dove sono vari interessi e vari fini, nascere
facilmente disordini sdegni dispareri e diffidenze; e, almanco, non
vi essere mai né prontezza a seguitare gagliardamente, quando si
mostra benigno, il favore della fortuna, né disposizione da
resistere costantemente quando si volge il disfavore. Ma quello che
sopratutto causava, in questa deliberazione, difficoltà grandissima
e timore era il sospetto che i franzesi, ogni volta che Cesare
vedendosi strignere offerisse di liberare il loro re, non solo
abbandonassino la lega ma ancora lo aiutassino contro a' collegati.
E se bene il re d'Inghilterra obligava per loro la fede sua, che e'
non si accorderebbono, e si trattava che e' dessino, in Roma in
Firenze o in Vinegia, sicurtà di pagamenti per tre mesi, nondimeno
non si trovava mezzo alcuno da assicurare da questa sospizione:
perché non avendo essi altro fine che la ricuperazione del re, ed
essendo notorio che e' non avevano inclinazione alla guerra se non
quando non avevano speranza dell'accordo, pareva verisimile che ogni
volta che Cesare volesse consentirlo loro preporrebbono la concordia
seco a ogn'altro interesse e rispetto, anzi si conosceva che quanto
fussino maggiori gli apparati e le forze della lega tanto piú
inclinerebbe Cesare ad accordare col re di Francia. E però pareva
pericolosissimo partito collegarsi a una guerra nella quale le
provisioni potenti de' confederati potessino cosí nuocere come
giovare. Combattevano il pontefice da ogni parte con queste ragioni
gl'imbasciadori e agenti de' príncipi ma non manco i ministri suoi
medesimi, perché la casa e il consiglio suo era diviso; de' quali
ciascuno favoriva la propria inclinazione con tanto minore rispetto
quanto era maggiore l'autorità che s'avevano arrogata con lui, ed
egli insino a quel tempo assuefattosi a lasciarsi in grande parte
portare da coloro che arebbono avuto a obbedire a' cenni suoi, né
essere altro che ministri ed esecutori delle volontà e ordini del
padrone. Per intelligenza di che, e di molte altre cose che
occorsono, è necessario dichiarare piú da alto.
Lib.16, cap.12
Diversità dei caratteri di Leone decimo e di Giulio de' Medici;
stima generale delle doti di Giulio e grande attesa per la sua
elezione a pontefice; sua incertezza nel deliberare e nell'eseguire.
Suoi consiglieri e loro modo d'agire. Il pontefice già deciso alla
confederazione contro Cesare sospende gli accordi per la notizia
dell'arrivo d'un ambasciatore cesareo.
Lione, che portò primo grandezza ecclesiastica nella casa de'
Medici, e con l'autorità del cardinalato sostenne tanto sé e quella
famiglia, caduta di luogo eccelso in somma declinazione, che e'
potetteno aspettare il ritorno della prospera fortuna, fu uomo di
somma liberalità; se però si conviene questo nome a quello spendere
eccessivo che passa ogni misura. In costui, assunto al pontificato,
apparí tanta magnificenza e splendore e animo veramente regale che
e' sarebbe stato maraviglioso eziandio in uno che fusse per lunga
successione disceso di re o di imperadori: né solo profusissimo di
danari ma di tutte le grazie che sono in potestà di uno pontefice;
le quali concedeva sí smisuratamente che faceva vile l'autorità
spirituale, disordinava lo stile della corte, e per lo spendere
troppo si metteva in necessità di avere sempre a cercare danari per
vie estraordinarie. A questa tanta facilità era aggiunta una
profondissima simulazione, con la quale aggirava ognuno nel
principio del suo pontificato, e lo fece parere principe ottimo; non
dico di bontà apostolica, perché ne' nostri corrotti costumi è
laudata la bontà del pontefice quando non trapassa la malignità
degli altri uomini; ma era riputato clemente, cupido di beneficare
ognuno e alienissimo da tutte le cose che potessino offendere
alcuno. Il medesimo fu deditissimo alla musica alle facezie e a'
buffoni; ne' quali sollazzi teneva il piú del tempo immerso l'animo,
che altrimenti sarebbe stato volto a fini e faccende grandi, delle
quali aveva lo intelletto capacissimo. Credettesi per molti, nel
primo tempo del pontificato, che e' fusse castissimo; ma si scoperse
poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli
piaceri che con onestà non si possono nominare. Ebbe costui, tra le
altre sue felicità, che furono grandissime, non piccola ventura di
avere appresso di sé Giulio de' Medici suo cugino; quale, di
cavaliere di Rodi, benché non fusse di natali legittimi, esaltò al
cardinalato. Perché essendo Giulio di natura grave, diligente,
assiduo alle faccende, alieno da' piaceri, ordinato e assegnato in
ogni cosa, e avendo in mano per volontà di Lione tutti i negozi
importanti del pontificato, sosteneva e moderava molti disordini che
procedevano dalla sua larghezza e facilità; e quel che è piú, non
seguendo il costume degli altri nipoti e fratelli de' pontefici,
preponendo l'onore e la grandezza di Lione agli appoggi potesse
farsi per dopo la sua morte, gli era in modo fedelissimo e
ubbidientissimo che pareva che veramente fusse un altro lui; per il
che fu sempre piú esaltato dal pontefice, e rimesse a lui ogni dí
piú le faccende: le quali, in mano di due nature tanto diverse,
mostravano quanto qualche volta convenga bene insieme la mistura di
due contrari. L'assiduità la diligenza l'ordine la gravità di
costui, la facilità la prodigalità i piaceri e la ilarità di
quell'altro, facevano credere a molti che Lione fusse governato da
Giulio, e che egli per se stesso non fusse uomo da reggere tanto
peso, non da nuocere ad alcuno e desiderosissimo di godersi i comodi
del pontificato; e allo incontro, che in Giulio fusse animo
ambizione cupidità di cose nuove, in modo che tutte le severità
tutti i movimenti tutte le imprese che si feceno a tempo di Lione si
credeva procedessino per istigazione di Giulio, riputato uomo
maligno ma di ingegno e di animo grande. La quale opinione del
valore suo si confermò e accrebbe dopo la morte di Lione; perché, in
tante contradizioni e difficoltà che ebbe, sostenne con tanta
dignità le cose sue che pareva quasi pontefice, e si conservò in
modo l'autorità appresso a molti cardinali che, entrato in due
conclavi assoluto padrone di sedici voti, aggiunse finalmente,
nonostante infinite contradizioni della maggiore parte e de' piú
vecchi del collegio, dopo la morte di Adriano, al pontificato, non
finiti ancora due anni dalla morte di Lione: dove entrò con tanta
espettazione che fu fatto giudizio universale che avesse a essere
maggiore pontefice e a fare cose maggiori che mai avesse fatte
alcuni di coloro che avevano insino a quel dí seduto in quella
sedia. Ma si conobbe presto quanto erano stati vani i giudizi fatti
di Lione e di lui. Perché in Lione fu di grande lunga piú
sufficienza che bontà, ma Giulio ebbe molte condizioni diverse da
quello che prima era stato creduto di lui: con ciò sia che e' non vi
fusse né quella cupidità di cose nuove né quella grandezza e
inclinazione di animo a fini generosi e magnanimi che prima era
stata l'opinione, e fusse stato piú presto appresso a Lione
esecutore e ministro de' suoi disegni che indirizzatore e
introduttore de' suoi consigli e delle sue volontà. E ancora che
avesse lo intelletto capacissimo e notizia maravigliosa di tutte le
cose del mondo, nondimeno non corrispondeva nella risoluzione ed
esecuzione; perché, impedito non solamente dalla timidità
dell'animo, che in lui non era piccola, e dalla cupidità di non
spendere ma eziandio da una certa irresoluzione e perplessità che
gli era naturale, stesse quasi sempre sospeso e ambiguo quando era
condotto alla determinazione di quelle cose le quali aveva da
lontano molte volte previste, considerate e quasi risolute. Donde, e
nel deliberarsi e nello eseguire quel che pure avesse deliberato,
ogni piccolo rispetto che di nuovo se gli scoprisse, ogni leggiero
impedimento che se gli attraversasse, pareva bastante a farlo
ritornare in quella confusione nella quale era stato innanzi
deliberasse; parendogli sempre, poi che aveva deliberato, che il
consiglio stato rifiutato da lui fusse il migliore: perché,
rappresentandosegli allora innanzi solamente quelle ragioni che
erano state neglette da lui, non rivocava nel suo discorso le
ragioni che l'avevano mosso a eleggere, per la contenzione e
comparazione delle quali si sarebbe indebolito il peso delle ragioni
contrarie; né avendo, per la memoria di avere temuto molte volte
vanamente, presa esperienza di non si lasciare soprafare al timore.
Nella quale natura implicata e modo confuso di procedere,
lasciandosi spesso trasportare da' ministri, pareva piú presto
menato da loro che consigliato.
Di questi furono appresso a lui in somma potenza Niccolò Scombergh
germano e Giammatteo Giberto da Genova: quello reverito e quasi
temuto dal pontefice, questo gratissimo e molto amato da lui.
Quello, seguitando l'autorità di Ieronimo Savonarola, dedicatosi,
mentre studiava nelle leggi, nell'ordine de' frati predicatori, ma
dipoi partitosi dalla religione benché ritenendo l'abito e il nome,
[aveva] seguitate le faccende secolari; questo, nella età puerile
dedicatosi alla religione ma dipoi partitosene per la autorità
paterna, benché non fusse di legittimi natali, aveva abdicato in
tutto, e con l'abito e col nome, quella professione. Questi,
concordi nel suo cardinalato e poi nel principio del pontificato,
guidorono ad arbitrio loro il pontefice; ma cominciando poi a
discordare, o per ambizione o per la diversità delle nature, lo
distrassono e lo confusono. Perché fra' Niccolò, affezionatissimo,
per il vincolo della nazione o per qualunque altro rispetto, al nome
di Cesare, e per natura fisso nelle opinioni proprie, le quali
spesso discordavano dalle opinioni degli altri uomini, favoriva
tanto immoderatamente le cose di Cesare che spesso venne in sospetto
al pontefice come piú amatore degli interessi di altri che de' suoi;
l'altro, non conoscendo in verità né altro amore né altro padrone,
ma per natura ardente nelle cose sue, se in qualche cosa errava,
procedeva piú presto da volontà che da giudicio; e se bene nel tempo
di Lione fusse stato inimico acerrimo de' franzesi e fautore delle
cose di Cesare, morto Leone, era diventato tutto l'opposito: donde,
essendo questi due ministri potentissimi tra loro in manifesta
dissensione né procedendo con maturità o con rispetto dell'onore del
pontefice, e facendo notorio a tutta la corte la sua freddezza e
irresoluzione, lo rendevano appresso alla maggiore parte degli
uomini disprezzabile e quasi ridicolo.
Essendo egli adunque di natura irresoluto, e in una deliberazione sí
perplessa e sí difficile aiutato confondere da coloro che dovevano
aiutarlo risolvere, non sapeva egli medesimo dove si volgere:
finalmente, piú perché era necessario deliberare qualche cosa che
per risoluzione e giudicio fermo, trovandosi massime in termine che
anche il non deliberare era specie di deliberare, si inclinò a fare
la lega, e a rompere in compagnia degli altri la guerra a Cesare.
Concordoronsi e distesonsi i capitoli, né mancava altro che lo
stipulargli, quando ebbe nuove che a Genova era arrivato il
comandatore Errera mandato a lui da Cesare; quale avvisava che
veniva subito in diligenza, e con grata e buona espedizione:
deliberò adunque di aspettarlo, con gravissima querela degli
imbasciadori, a' quali aveva dato ferma intenzione di stipulare il
dí medesimo la confederazione.
Lib.16, cap.13
Ragioni dell'invio dell'ambasciatore di Cesare al pontefice.
Obiezioni del pontefice alle proposte di Cesare e promesse
dell'ambasciatore. Accordo provvisorio fra il pontefice e Cesare.
La cagione della venuta sua fu che Cesare, poi che ebbe dato
commissione tale al marchese di Pescara che almanco era in arbitrio
suo lo occupare lo stato di Milano, dubitando che per questo non si
facessino in Italia nuovi movimenti, ristrinse le pratiche
dell'accordo col legato Salviato: in modo che tra loro fu fatta
capitolazione, riservata però la condizione della ratificazione del
pontefice, nella quale se gli sodisfaceva della restituzione di
Reggio e di Rubiera, e vi si includeva la difesa e conservazione del
duca di Milano, che erano le cose state principalmente desiderate da
Clemente, ma con condizione espressa che, nel caso della sua morte,
non potesse ritenere per sé quel ducato né darlo allo arciduca suo
fratello, ma ne investisse monsignore di Borbone; il quale il
pontefice medesimo, assai inconsideratamente, per conforti dello
arcivescovo di Capua, gli aveva, insieme con Giorgio di Austria
fratello naturale di Massimiliano Cesare, proposto, nel tempo che
per la infermità fu quasi disperata la vita di Francesco Sforza. La
quale capitolazione fatta, il legato, non aspettato che da Clemente
avesse la perfezione, non potette o non seppe negare di dare a
Cesare il breve tanto desiderato della dispensa: la quale essendo
stata fatta prima con espressione solamente dello impedimento in
secondo grado senza nominare la figliuola del re di Portogallo, per
manco offendere il re di Inghilterra, o perché, essendo tra loro
vincolo doppio di affinità, non fusse fatta menzione se non del
vincolo piú potente, fu necessario farne un'altra che con espressa
nominazione delle persone comprendesse tutti gli impedimenti.
Con la espedizione di questa confederazione partí il comandatore
Errera dalla corte cesarea, uno giorno o due dipoi che Cesare aveva
ricevuto l'avviso della cattura del Morone: e condotto, il sesto dí
di dicembre, innanzi al pontefice, oltre a molte offerte e fede
larghissima della buona disposizione di Cesare, gli presentò i
capitoli [dell'accordo]; del quale se bene i capitoli che trattavano
del sale e delle cose beneficiali del reame di Napoli erano
discrepanti da quello che aveva appuntato col viceré, pure, perché
il principale suo fine era di assicurarsi da' sospetti, gli arebbe
accettati se avesse conosciuto procedersi sinceramente nelle cose
del ducato di Milano. Ma poi che nel capitolo che trattava di
Francesco Sforza non si faceva menzione della imputazione che gli
era stata data, né si prometteva di restituire lo stato tolto né di
perdonargli gli errori che avesse commesso (anzi Cesare, nella
conclusione fatta col legato e nella istruzione data a questo suo
agente, non aveva dimostrato di saperne cosa alcuna), fu conosciuta
facilmente la astuzia e arte loro: perché la confederazione e la
promessa di conservare e difendere Francesco Sforza nel ducato di
Milano non privava Cesare della potestà di procedergli contro come
suo vassallo, e dichiarare il feudo divoluto, per la imputazione
dello avere macchinato contro alla Maestà sua; e Borbone, surrogato
in caso della sua morte, veniva anche a succedere in caso della sua
privazione, perché dalle leggi è considerata la morte naturale e la
morte civile, della quale dicono morire chi è condennato per tale
delitto. Però rispose il pontefice, con gravissime parole: non avere
con Cesare causa alcuna particolare di discordia, anzi, che di ogni
differenza e disputa che potesse essere tra loro non eleggerebbe mai
altro giudice che lui; ma che era anche necessario fermare in modo
le cose comuni che Italia restasse sicura, il che non poteva essere
se non si rilasciava a Francesco Sforza il ducato di Milano; e gli
mostrò le ragioni per le quali quello capitolo cosí generale non era
bastante; conchiudendo che a lui sarebbe grandissimo dispiacere di
essere necessitato a pigliare nuove deliberazioni, e discostarsi da
Cesare col quale era stato sempre congiuntissimo. Replicò il duca di
Sessa che la mente di Cesare era sincerissima, e che senza dubbio
era contento che, non ostante tutto quello fusse accaduto, il ducato
di Milano restasse a Francesco Sforza, ma che per inavvertenza non
era stato disteso il capitolo in ampia forma; ma facesse il
pontefice riformarlo a modo suo, che gli promettevano presentargli
in termine di due mesi la ratificazione, pure che anche egli
promettesse che, durante questo tempo, non conchiuderebbe la lega
che si trattava col governo di Francia e co' viniziani. Fu
conosciuto chiaramente per ciascuno che questa offerta non aveva
altro fondamento che il desiderio di guadagnare dilazione di due
mesi, acciò che Cesare avesse spazio di potere meglio deliberarsi e
provedere i rimedi contro a tanta unione; e nondimeno il pontefice,
dopo molte dispute e con grandissimo dispiacere degli altri
imbasciadori, acconsentí a questa dimanda, sí per desiderio di
allungare quanto poteva lo entrare nelle spese e nelle molestie come
perché gli pareva che, mentre che il cristianissimo era prigione,
fusse pericolosissima ogni congiunzione che si facesse con la madre,
essendo in potestà di Cesare dissolverla ogni volta che gli
piacesse; e questa dilazione potere pure portare, ancorché poco se
ne sperasse, la conclusione desiderata; e se pure causasse la
concordia tra i due re, considerò profondamente (ancora che molti
altri giudicassino in contrario) che meglio era che si facesse in
tempo che Cesare avesse minore necessità; perché quanto fusse in
grado migliore tanto sarebbono piú gravi le condizioni che egli
porrebbe al re di Francia; l'asprezza delle quali dava speranza che
il re, poiché fusse liberato, non le avesse a osservare. Fu aggiunto
ancora in questo trattato che nel medesimo tempo non si innovasse né
di lavorare né di altro contro al castello di Milano, se Francesco
Sforza si obligava a non offendere e molestare quegli di fuora; la
quale condizione egli non volle accettare.
Lib.16, cap.14
Lettera del pontefice a Cesare a favore del duca di Milano.
Matrimonio di Cesare con la principessa di Portogallo. Discussione
nel consiglio di Cesare sulla politica da seguirsi riguardo al re di
Francia, ed in Italia; parole del gran cancelliere; parole del
viceré.
Consumato con queste azioni, disposte piú alla guerra che alla pace,
l'anno della natività del Figliuolo del sommo Dio mille cinquecento
venticinque, cominciò l'anno mille cinquecento ventisei, pieno di
grandi accidenti e di maravigliose perturbazioni. Nel principio del
quale anno ritornando Errera a Cesare, il pontefice gli scrisse una
lunga lettera di propria mano, nella quale, non negando totalmente
né confessando le cose trattate contro a lui ma trasferendone la
colpa nel marchese di Pescara, si sforzò di escusare Francesco
Sforza, sedotto, se aveva fatto errore alcuno, dai consigli di
Ieronimo Morone; e supplicandolo efficacissimamente che, per quiete
e beneficio di tutta la cristianità, fusse contento di perdonargli.
Nel quale tempo Cesare, aspettando la risposta del pontefice, teneva
sospese tutte le pratiche degli altri; e ancora che Borbone, che era
carezzato assai e confermatagli la speranza del parentado, instesse
di consumare il matrimonio, gli era interposta dilazione, allegando
che Cesare voleva prima consumare il matrimonio suo con la sposa di
Portogallo, la quale di giorno in giorno aspettava: ma si faceva per
lasciarsi libera la facoltà di fare l'accordo col re di Francia, nel
quale si trattava dargli per moglie la medesima promessa a Borbone;
prevalendo, come è l'uso di tutti i príncipi, l'utilità alla onestà.
Sopravenne dipoi, avendo già Cesare consumato il matrimonio in
Sibilia, Errera da Roma, con la minuta del capitolo amplissimo
disteso dal pontefice in benefizio di Francesco Sforza: in modo che
Cesare, certificato anche che il legato non aveva commissione da
parte, diversa da quel capitolo, e concorrendo tutto il consiglio in
questa sentenza, che e' fusse necessario interrompere la lega che si
trattava e pericoloso l'avere a sostenere in uno tempo medesimo
tanti inimici, si ridusse in necessità o di sodisfare al pontefice e
a' viniziani della restituzione di Francesco Sforza o di concordarsi
col re di Francia. Il quale finalmente, dopo molte contenzioni avute
sopra la Borgogna, non potendo altrimenti sperare da Cesare la
liberazione, offeriva di restituirla con i contadi e pertinenze sue,
e cedere alle ragioni che aveva sopra il regno di Napoli e sopra il
ducato di Milano; e dare statichi, per l'osservanza delle promesse,
due suoi figliuoli.
Grandissime dispute erano in su la elezione dell'una o dell'altra
deliberazione. Il viceré, che aveva condotto in Spagna il re
cristianissimo, e dategli tante speranze e procurato sí ardentemente
la sua liberazione, faceva piú efficace instanza che mai; e
l'autorità sua, almanco per fede e per benivolenza, era grande
appresso a Cesare. Ma in contrario piú presto esclamava che
disputava Mercurio da Gattinara, gran cancelliere; uomo, benché nato
di vile condizione nel Piamonte, di molto credito ed esperienza, e
il quale già piú anni sosteneva tutte le faccende importanti di
quella corte. I quali essendo uno giorno ridotti in consiglio,
presente Cesare, per determinare finalmente tutte le cose che si
erano trattate tanti mesi, il gran cancelliere parlò cosí:
- Io ho bene sempre dubitato, invittissimo Cesare, che la nostra
troppa cupidità, e lo averci proposto noi fini male misurati, non
fusse causa che di vittoria tanto preclara e tanto grande noi non
riportassimo alla fine né gloria né utilità; ma non credetti perciò
già mai che l'avere vinto avesse a condurre in pericolo la
reputazione e lo stato vostro, come io veggo che manifestamente si
conduce: poi che si tratta di fare un accordo per il quale Italia
tutta si disperi e il re di Francia si liberi, ma con sígravi
condizioni che, se non per volontà almanco per necessità, ci resti
maggiore inimico che prima. Desidererei e io, con ardore pari a
quello degli altri, che in uno tempo medesimo si recuperasse la
Borgogna e si stabilissino i fondamenti di dominare Italia, ma
conosco che chi cosí presto vuole tanto abbracciare va a pericolo di
non stringere cosa alcuna, e che nessuna ragione comporta che il re
di Francia, liberato, vi attenda tanto importanti capitoli. Non sa
egli, che se e' vi restituisce la Borgogna, che vi apre una porta di
Francia? e che in potestà vostra sarà sempre di correre insino a
Parigi? e, che avendo voi facoltà di travagliare la Francia da tante
parti, che sarà impossibile che e' vi resista? Non sa egli, e
ognuno, che il consentirvi che voi andiate armato a Roma, che voi
mettiate il freno a Italia, che voi riduciate in arbitrio vostro lo
stato spirituale e temporale della Chiesa, è cagione di raddoppiare
la vostra potenza, che mai piú vi possino mancare né danari né armi
da offenderlo, e che egli sia necessitato ad accettare tutte le
leggi che a voi parrà d'imporgli? Adunque, ci è chi crede che vi
abbia a osservare uno accordo per il quale egli diventi vostro
schiavo e voi diventiate suo signore? Gli mancheranno i lamenti e le
esclamazioni di tutto il reame di Francia, le persuasioni del re
d'Inghilterra, gli stimoli di tutta Italia? l'amore forse che è tra
voi due sarà cagione che e' si fidi di voi, o vegga volentieri la
vostra potenza? O dove furono mai due príncipi tra i quali fussino
piú cause di odio e di contenzione? Ci è non solo la emulazione
della grandezza, che suole mettere l'armi in mano a' fratelli, ma
antiche e gravissime inimicizie cominciate insino dai padri e dagli
avoli degli avoli vostri, tante guerre state lungamente tra queste
due case, tante paci e accordi non osservati, tante ingiurie e
offese fatte e ricevute. Non crediamo noi che gli arda di sdegno
quando e' si ricorda di essere stato tanti mesi vostro prigione?
tenuto sempre con guardie sí strette, non avere mai avuto grazia di
essere stato condotto al cospetto vostro? che in questa carcere, per
i dispiaceri e incomodità, è stato vicino alla morte? e che ora non
si libera per magnanimità o per amore ma per paura di tanta unione
che si tratta contro a voi? Crediamo noi che sia piú potente di
tanti stimoli il parentado fatto per necessità? E chi non sa quanto
i príncipi stimano questi legami? e chi è migliore testimonio del
conto che si tiene de' parentadi che noi? Parrà forse a qualcuno che
assai ci assicuri la fede che e' darà di ritornare in prigione! e
che fondamenti inconsiderati, che speranze imprudenti sarebbeno
queste? Cosí mi sforza, Cesare, a parlare il dolore estremo che io
ho che e' si pensi di prendere uno partito tanto dannoso e
pericoloso. Sappiamo pure tutti quanto sia stimata la fede negli
interessi degli stati, che vagliano le promesse de' franzesi, i
quali, aperti in tutto il resto, sono maestri perfettissimi di
ingannare; che questo re è per natura tanto piú scarso di fatti
quanto è piú abbondante di parole. Però conchiudiamo pure che, non
benivolenza tra due príncipi che hanno per antichissima eredità le
ingiurie e le inimicizie, non memoria de' benefizi de' quali non ci
è nissuno, non fede o promesse (che nelle importanze dello stato
sono appresso di molti di poco peso, appresso a' franzesi di niuno)
lo indurranno a eseguire un accordo che metta in cielo lo inimico
suo, e sé e il suo reame in manifesta suggezione. Risponderassi,
sento, che per timore di queste cose se gli dimanda la sicurtà di
due figliuoli e tra loro il primogenito, l'amore de' quali bisognerà
che gli stimi piú che la Borgogna; e io temo che l'amore de'
figliuoli opererà piú presto il contrario, quando se gli presenterà
nell'animo la memoria loro e la considerazione che l'osservare lo
accordo sarebbe il principio di fargli vostri schiavi. Non so se
questo pegno bastasse quando e' fusse al tutto disperato di
recuperargli in altro modo, perché troppo importa il mettere in
pericolo il regno suo, il quale perduto una volta è difficillimo il
recuperare; ma si può bene sperare di recuperare col tempo i
figliuoli o con accordo o con altra occasione, e per l'età loro
tenera sarà manco molesta la dilazione. Ma potendo egli avere uniti
seco contro a voi quasi tutti i príncipi cristiani, chi dubita che
si ristringerà con loro e cercherà di moderare questo accordo con la
via dell'armi? e che il guadagno che noi aremo conseguito di questa
vittoria sarà una guerra gagliardissima e pericolosissima? concitata
dall'odio, dalla necessità e dalla disperazione del re
d'Inghilterra, del re di Francia e di tutta Italia. Da' quali tutti
ci difenderemo, se Dio non si straccherà di fare ogni dí per noi di
quegli miracoli che tante volte ha fatti insino al presente, se la
fortuna muterà natura per noi, e la sua incostanza e mutazione
diventeranno in noi, contro a tutti gli esempli delle cose passate,
uno esempio di costanza e di stabilità. Abbiamo conchiuso, già tanti
mesi, in tutti i consigli nostri, che si faccia ogni opera perché
gl'italiani non si unischino col governo di Francia, e ora ci
precipitiamo a una deliberazione che leva tutte le difficoltà che
insino a ora gli hanno tenuti sospesi, che moltiplica i pericoli
nostri che moltiplica le forze degli inimici. Perché chi non sa
quanto piú potente sarà la lega che abbia per capo il re di Francia,
libero e nel regno suo, che quella che si facesse col governo di
Francia restando il re vostro prigione? Chi non sa che nissuna
ragione ha tenuto insino a ora il papa ambiguo a confederarsi contro
a voi se non il timore che voi non separiate i franzesi da loro con
offerirgli il suo re? di che temeranno manco quando aremo i
figliuoli e non lui. Cosí la medicina che noi prepariamo usare per
fuggire il pericolo sarà quella che senza comparazione lo
accrescerà, e in cambio di interrompere questa unione saremo il
mezzo noi che la si faccia, e piú stabile e piú potente. Sarammi
detto: che parere è adunque il tuo? consigli tu che di tanta
vittoria non si tragga alcuno profitto? abbiamo noi a stare
continuamente in queste perplessità? Io confermo quel che ho detto
molte volte: che è troppo nocivo il prendere in una volta tanto cibo
che lo stomaco non sia potente a comportarlo, e che è necessario o,
reintegrandosi con Italia (che non dimanda altro da noi che di
essere assicurata), cercare di avere dal re di Francia la Borgogna e
quel piú che noi possiamo, o fare uno accordo con lui per il quale
ci resti Italia a discrezione, ma sí dolce, in quanto agli interessi
suoi, che gli abbi causa di osservarlo; e nella elezione tra queste
due vie bisogna, Cesare, che la prudenza e la bontà vostra preponga
quello che è stabile e piú giusto a quello che al primo aspetto
paresse forse piú utile e maggiore. Confesso che piú ricco stato e
piú opportuno a molte cose è quel di Milano che la Borgogna, e che
non si può fare amicizia con Italia che non si lasci Milano o a
Francesco Sforza o a uno altro del quale il papa si contenti; e
nondimeno lodo molto piú il fare questo che lo accordare co'
franzesi: perché di giustizia piú è vostra la Borgogna che non è
Milano, piú facile a mantenere che quella, dove non è alcuno che vi
voglia. Cercare la Borgogna, vostra antica eredità, è somma laude;
volere Milano, o per voi o per uno che dependa in tutto da voi, non
è senza nota di ambizione: il primo ricerca da voi la memoria di
tanti gloriosi vostri progenitori, l'ossa de' quali sepolte in
cattività non gridano altro che essere da voi liberate e ricuperate:
e sí giusti sí pietosi sí santi prieghi sono forse cagione di farvi
Dio piú propizio. Piú prudente e piú facile consiglio è cercare di
stabilire una amicizia con chi malvolentieri vi diventa inimico che
con chi in tempo alcuno non vi può essere amico. Perché nel re di
Francia non sarà mai se non odio e desiderio di opporsi a disegni
vostri; ma il papa e gli altri d'Italia, come si leva l'esercito di
Lombardia, assicurati dal sospetto, non aranno da contendere con voi
né per emulazione né per timore, e restandovi amici ne arete, ora e
sempre, comodità e profitto. Vi inclina dunque piú a questa amicizia
l'onore l'utilità la sicurtà, ma, se io non mi inganno, non meno la
necessità: perché, quando bene voi facciate accordo col re senza
obligarlo ad altro che ad aiutarvi alle imprese d'Italia, a me non è
verisimile che e' ve lo abbia a osservare; perché gli parrà che il
lasciarvi Italia in preda metta in troppo pericolo il suo reame, e
da altro canto grandissime saranno le opportunità e le speranze che,
per mezzo di sí potente unione, gli parrà avere di travagliarvi e
ridurvi a uno accordo di manco gravi condizioni. Cosí di uno re
prigione lo faremo libero e inimico nostro, e daremo capo al regno
di Francia acciò che, congiunto a tanti altri, vi faccia con piú
forze e con maggiore autorità la guerra. Quanto è meglio accordare
con gl'italiani! fare una buona e vera congiunzione col pontefice,
che l'ha continuamente desiderata, e levare a franzesi ogni speranza
della compagnia degli italiani! perché allora non la necessità o il
timore di nuove leghe, ma la volontà vostra e la qualità delle
condizioni, vi arà a tirare ad accordo co' franzesi; allora vedrete
che il bisogno e la disperazione gli sforzerà non solo a rendervi la
Borgogna e farvi patti maggiori ma ancora a mettervi in mano tale
sicurtà che non abbiate a temere dell'osservanza. Perché non bastano
i figliuoli mentre che e' possono sperare tanta congiunzione, né
basterebbe, appena, se vi mettessino in mano Baiona, Nerbona e
l'armata. A questo modo caverete frutto grande, onorevole, giusto e
sicuro, di questa vittoria; altrimenti, o io non ho intelligenza di
cosa alcuna o questo accordo metterà lo stato vostro in sí grave
pericolo che io non so conoscere che cosa ve ne possa liberare, se
già la imprudenza del re di Francia non sarà maggiore che la nostra.
-
Aveva il gran cancelliere, con questo parlare accurato e veemente e
con la riputazione della prudenza sua, commosso gli animi di una
grande parte del consiglio, quando il viceré, autore della contraria
opinione, parlò, secondo si dice, cosí:
- Non è già da lodare, gloriosissimo Cesare, chi, per appetito di
avere troppo, abbraccia piú che non può tenere, ma non merita di
essere manco biasimato chi, per superchio sospetto e diffidenza, si
priva da se stesso delle occasioni grandi acquistate con tante
difficoltà e pericoli; anzi, essendo l'uno e l'altro errore
gravissimo, è piú dannabile, in uno tanto principe, quello che
procede da timidità e abiezione di animo che quello che nasce da
generosità e grandezza, e piú laudabile è cercare, con pericolo, di
acquistare troppo che, per fuggire pericolo, annichilare le
occasioni rarissime che l'uomo ha: e questo è proprio il consiglio
del cancelliere, che dubitando non si possa conseguire con questo
accordo la Borgogna e Milano (perché di lui non è già da sospettare
che lo muova o l'amore di Italia sua patria o la benivolenza che ha
al duca di Milano) si risolve a una via che, secondo lui, si
guadagna la Borgogna e si perde Milano, stato senza comparazione di
maggiore importanza, ma, secondo me, si perde Milano e non si
guadagna la Borgogna; e dove questa vittoria vi ha aperta
gloriosissimamente la strada al principato de' cristiani, non ci
resterà, se seguiteremo il consiglio suo, altro che danno e infamia.
E certo io non veggo nel consiglio suo sicurtà alcuna, anzi pericolo
grandissimo, piccolissima utilità, e quella facile a uscirci di
mano, veggola piena di indegnità e di vergogna; e, per contrario,
nell'accordo col re di Francia mi pare che sia grandissima gloria,
grandissima utilità, e sicurtà bastante. Perché io vi dimando,
cancelliere: che ragione avete voi, che sicurtà che fede, che
gl'italiani, poi che aremo lasciata la ducea di Milano, abbino a
osservare l'accordo nostro né si intromettere tra il re di Francia e
noi? e non piú presto, poiché aranno abbassato la nostra
riputazione, poiché aranno dissoluto quello esercito che è il freno
della loro malignità, poiché saranno sicuri che in Italia non
possino venire nuovi tedeschi (perché non sarà in Lombardia luogo
che gli riceva né dove si possino raccorre), che sicurtà, dico,
avete voi che gl'italiani, allora, continuando le sue pratiche, non
abbino, col minacciarci il regno di Napoli, che resterà quasi alla
loro discrezione, a sforzarci a liberare il re di Francia? Fidatevi
voi, cancelliere, nella gratitudine di Francesco Sforza? che dopo
tanti benefici vi ha rimeritato, Cesare, con sí scellerato
tradimento! che farà ora che vi ha conosciuto desideroso di punire
con la giustizia tanta iniquità, ora che da voi teme la pena, dagli
inimici vostri aspetta la salute? Fidatevi voi, cancelliere, della
amicizia de' viniziani, che nascono inimici dello imperio e della
casa d'Austria; e tremano ricordandosi che, quasi ieri, Massimiliano
vostro avolo tolse loro tante terre di quelle che ora posseggono?
Fidatevi voi della bontà di Clemente o della inclinazione sua allo
imperadore, col quale il principio della congiunzione di Lione fu,
dopo avere tentato contro a noi molte cose, per desiderio di
vendicarsi e di assicurarsi de' franzesi, e per ambizione di
occupare Ferrara? Morto Lione, costui, cardinale, inimicato da mezzo
il mondo, continuò per necessità la nostra amicizia; ma fatto papa,
ritornato subito al naturale de' pontefici, che è di temere e di
odiare gli imperadori, non ha cosa alcuna piú in orrore che il nome
di Cesare. Scusansi tutti questi che le macchinazioni loro non sono
procedute da odio o da altra cupidità ma solamente dal sospetto
della vostra grandezza, e che cessato questo, cesseranno tutte le
pratiche: il che o non è vero o, se pure da principio fu vero, è
necessario che abbia fatto poi altre radici e sia diventato altro
umore; perché è naturale che dietro al sospetto viene l'odio, dietro
all'odio l'offese, con l'offese la congiunzione e intrinsichezza con
gli inimici di chi si offende, i disegni non solo di assicurarsi ma
ancora di guadagnare della ruina dello offeso, la memoria delle
ingiurie, maggiore senza dubbio e piú implacabile in chi le fa che
in chi le riceve. Però, quando bene da principio si fussino mossi
solo dal sospetto, sarebbe questo stato causa diventassino inimici
vostri, volgessino gli animi e le speranze alle cose franzesi,
cominciassino poi, in tutte le convenzioni che hanno trattate, a
dividersi il reame di Napoli. Ora, séguiti quale si voglia sicurtà e
accordo con noi, resterà sempre acceso ne' petti loro l'odio e il
timore; né confidando di quello che parrà loro fatto per necessità,
e parendogli avere maggiore facilità di strignerci alle voglie loro,
timidi che alla fine non si faccia tra il re di Francia e noi uno
nuovo appuntamento simile a quello che fu fatto a Cambrai, cupidi di
liberare (per usare i loro vocaboli) Italia da' barbari, ardiranno
di volere porvi le leggi, di dimandare la liberazione del re di
Francia: se la negherete, Cesare, come difenderete da loro il regno
di Napoli? se la concederete, perduti tutti i frutti della vittoria,
resterete il piú disonorato il piú sbattuto principe che fusse mai.
Ma pogniamo che Italia fusse per osservarvi l'accordo, e che voi
strignesse la necessità o di lasciare Milano o di non riavere la
Borgogna, che comparazione è tra l'uno partito e l'altro? La
Borgogna è piccola provincia, di poca entrata, né anche tanto
opportuna quanto molti si persuadono; il ducato di Milano, per la
ricchezza e bellezza di tante città, per il numero e nobiltà de'
sudditi, per l'entrate grandi, per la capacità di notrire tutti gli
eserciti del mondo, è superiore a molti reami: ma, ancora che e' sia
sí ampio e sí potente, sono da stimare piú le opportunità che
nascono da acquistarlo che quello che e' vale per se medesimo;
perché, essendo a vostra divozione Milano e Napoli, bisognerà che i
pontefici dependino, come già solevano, dagli imperadori, la Toscana
tutta il duca di Ferrara e il marchese di Mantova vi sieno sudditi;
i viniziani, circondati dalla Lombardia e dalla Germania, saranno
necessitati ad accettare le leggi vostre. Cosí, non dico con l'armi
o con gli eserciti ma con la riputazione del vostro nome, con uno
araldo solo, con le insegne imperiali comanderete Italia tutta. E
chi non sa che cosa sia Italia? provincia regina di tutte l'altre,
per l'opportunità del sito per la temperie dell'aria per la
moltitudine e ingegni degli uomini, attissimi a tutte le imprese
onorevoli, per la fertilità di tutte le cose convenienti al vivere
umano, per la grandezza e bellezza di tante nobilissime città, per
le ricchezze per la sedia della religione per l'antica gloria dello
imperio, per infiniti altri rispetti; la quale se voi dominerete
tremeranno sempre di voi tutti gli altri príncipi. Cercare questo si
appartiene piú alla grandezza, piú alla gloria vostra, piú è grato
all'ossa degli avoli vostri: poi che questi anche hanno a venire in
consiglio; i quali, e per la bontà e per la pietà loro, non è da
credere desiderino altro che quello che è piú comodo a voi e piú
glorioso al vostro nome. Seguitando adunque il consiglio del
cancelliere perderemmo uno acquisto grandissimo per uno acquisto
piccolo, e questo piccolo è incertissimo: di che ci doverebbe pure
ammonire quel che fu per accadere a' mesi passati. Non ci ricorda
egli, quando il re di Francia fu in tanto pericolo di morte, in
quanto dispiacere noi stemmo? per conoscere che con la morte sua si
perdeva tutto il frutto sperato per la vittoria: chi ci assicura che
ora non possa intervenire il medesimo? e piú facilmente, perché gli
restano le reliquie del male di allora, perché, mancandogli la
speranza che insino al presente l'ha sostentato, gli torneranno
maggiori i dispiaceri da' quali la infermità sua ebbe cagione; e
massime che, avendosi a trattare di condizioni e di sicurtà
inestricabili, le pratiche nuove bisognerà che abbino lunghezza, che
sarà sottoposta a questo accidente e forse ad altri non minori né
manco facili. Non sappiamo noi che nessuna cosa ha tanto tenuto
fermo il governo di Francia quanto opinione della sua presta
liberazione? per la quale i grandi di quel regno sono stati quieti e
ubbidienti alla madre: come questa speranza mancasse, sarebbe facile
cosa che il regno si risenta, e alteri il governo; e quando i grandi
ne avessino la briglia in mano non sarà in loro cura alcuna di
liberare il re, anzi, per mantenersi sciolti e padroni, aranno
piacere della sua cattività. Cosí, in cambio della Borgogna e di
tanti acquisti, non potremmo piú sperare né della sua prigione né
della sua liberazione. Ma io dimando piú oltre, cancelliere: ha
Cesare, in questa deliberazione, a tenere conto alcuno della dignità
e maestà sua? e che maggiore infamia può egli avere, che piú
diminuzione di onore, che essere costretto a perdonare a Francesco
Sforza? che uno uomo mezzo morto, rebelle vostro, esempio singolare
di ingratitudine, non con l'umiliarsi e fuggire alla vostra
misericordia ma col gettarsi in braccio agli inimici vostri, vi
sforzi a cedergli a restituirgli lo stato, sí giustamente toltogli,
a pigliare le leggi da lui? Meglio è, Cesare, e piú conviene alla
dignità dello imperio, alla vostra grandezza, sottoporsi di nuovo
alla fortuna, mettere di nuovo ogni cosa in pericolo, che,
dimenticatovi il grado vostro, l'autorità di principe supremo di
tutti i príncipi e il nome cesareo, e vincitore tante volte d'un
potentissimo re, accettare da preti e da mercatanti quelle
condizioni che, se voi fussi stato vinto, né piú gravi né piú
indegne vi sarebbono state poste. Però, considerando io tutte queste
ragioni, e quanto sia piccola l'utilità che ci può risultare dello
accordo con gl'italiani e per quanti accidenti ci possa facilmente
uscire di mano, e quanto sia poco sicuro il fidarsi di loro, e di
quanta indignità sia pieno il lasciare lo stato di Milano, e che a
noi è necessario risolversi e avere una volta considerazione del
fine, e che la carcere del re non ci dà utilità se non per i frutti
che si possono trarre della liberazione, ho confortato e conforto
l'accordare prima con lui che con gli italiani; che nessuno può
negare non essere piú glorioso piú ragionevole piú utile: pure che
ci assicuriamo della osservanza (in che io fo qualche fondamento) e
della gratitudine sua, per il beneficio che egli riceverà da voi, e
del vincolo del parentado e della virtú della sorella vostra,
instrumento abile a mantenere questa amicizia, ma molto piú del
pegno de' due figliuoli, e tra questi il primogenito; del quale non
so che maggiore pegno, né piú importante a lui, si possa ricevere.
E, poi che la necessità ci strigne a deliberarci, si debbe pure
fidarsi piú di uno re di Francia con tanto pegno che degli italiani
senza alcuno pegno, piú della fede e parola di uno tanto re che
della cupidità immoderata de' preti e della sospettosa viltà de'
mercatanti; e piú facilmente possiamo avere, come molte volte hanno
avuto i passati nostri, congiunzione per qualche tempo co' franzesi
che con gli italiani, inimici nostri naturali ed eterni. Né solo in
questa via veggo maggiore speranza che ci abbia a essere atteso, ma
ancora minore pericolo in caso vi fusse mancato. Perché quando bene
il re non vi desse la Borgogna non ardirà, restando per ostaggio i
suoi figliuoli, di farvi nuove offese, ma cercherà, con pratiche e
con prieghi, di moderare l'accordo: senza che, vinto da voi ieri, e
oggi uscito di prigione, temerà ancora dell'armi vostre né arà piú
ardire di tentare la vostra fortuna; e se egli non piglia l'armi
contro a voi, Cesare, certo e che tutti gli altri staranno fermi,
tanto che acquisterete il castello di Milano e vi confermerete in
modo in quello stato che non arete piú da temere di malignità di
alcuno. Ma agl'italiani, se accordate ora seco e vi voglino mancare,
non resta freno alcuno che gli ritenga; e cresciuta la facoltà dello
offendervi, sarà libera e crescerà la volontà. Però, a giudicio mio,
sarebbe somma e timidità e imprudenza perdere, per troppo sospetto,
uno accordo pieno di tanta gloria di tanta grandezza e con sicurtà
bastante, pigliando in cambio di quello di una deliberazione
pericolosissima, se io non mi inganno, e dannosissima. -
Lib.16, cap.15
Cesare delibera di accordarsi col re di Francia. Patti dell'accordo.
Impressioni destate dalle condizioni dell'accordo; rifiuto del gran
cancelliere di sottoscriverle. Dimostrazioni di familiarità fra
Cesare e il re di Francia.
Varie furono l'opinioni degli altri del consiglio, parlato che ebbe
il viceré; parendo a tutti quelli che erano di sincero giudizio che
lo accordare col re di Francia, nel modo proposto, fusse
deliberazione molto pericolosa. Nondimeno, poteva ne' fiamminghi
tanto il desiderio di recuperare la Borgogna, come antico patrimonio
e titolo de' príncipi suoi, che non gli lasciava discernere la
verità; e fu anche fama che in molti potessino assai i donativi e le
promesse larghe fatte da' franzesi. E sopra tutto Cesare, o perché
cosí fusse la prima sua inclinazione o perché appresso a lui
l'autorità del viceré, congiunta massime con quella di Nassau che
sentiva il medesimo, fusse di grandissimo momento, o perché gli
paresse troppa indegnità essere costretto di perdonare a Francesco
Sforza, udiva volentieri chi consigliava l'accordo col re di
Francia: in modo che, poi che di nuovo ebbe fatto tentare il legato
Salviato se e' voleva consentire che lo stato di Milano si desse al
duca di Borbone e si certificò che non aveva commissione di
accettare questo partito (nel quale caso arebbe preposta l'amicizia
del pontefice), deliberò di concordarsi col re di Francia. Col
quale, essendo già innanzi le cose discusse e quasi resolute, si
venne in pochissimi dí alla conclusione; non intervenendo a cosa
alcuna il legato del pontefice: avendo prima Cesare ottenuto dal
duca di Borbone il consentimento che la sorella promessa a lui si
maritasse al re di Francia. Il quale, pregato assai, consentí, non
tanto per la cupidità di avere il ducato di Milano, come, contro
alla autorità del gran cancelliere e del viceré, benché con
obligazione di gravi pagamenti, gli fu promesso, quanto per essere
le cose sue ridotte in termine che, non avendo né potendo avere
dependenza da altri che da Cesare, era necessitato accomodarsi alla
sua volontà: e consentito che ebbe, perché in tempo tanto incomodo
non si trovasse alla corte, partí subito, per ordine di Cesare, alla
volta di Barzalona, per aspettare le provisioni necessarie a passare
in Italia; le quali, per mancamento di navili (non essendo allora in
Spagna altre galee sottili che tre) e di danari, erano per procedere
lentamente.
Contenne la capitolazione, stipulata il quartodecimo dí di febbraio
dell'anno mille cinquecento ventisei: che tra Cesare e il re di
Francia fusse pace perpetua, nella quale fussino compresi tutti
quegli i quali di consentimento comune si nominassino: che il re di
Francia, a dieci dí di marzo prossimo, fusse posto libero ne' suoi
confini, nella costa di Fonterabia e, in termine di sei settimane
seguenti, consegnasse a Cesare la ducea di Borgogna, la contea di
Ciarolois, la signoria di Neiers e Castello Chimu, dependenti della
detta ducea, la viscontea di Ausonia, il Resort di San Lorenzo,
dependenti dalla Francia Contea, tutte le pertinenze solite della
detta ducea e viscontea; quali tutte fussino in futuro separate ed
esenti dalla sovranità del regno di Francia: che, nell'ora e nel
punto medesimo che il re si liberasse, si mettessino in mano di
Cesare il Delfino e, oltre a lui, o il duca di Orliens secondogenito
del re o dodici de' principali signori di Francia, i quali furono
nominati da Cesare, rimettendo in elezione di madama la reggente
[di] dare o il secondogenito o i dodici baroni; i quali avessino a
stare per statichi insino a tanto fusse fatta la restituzione delle
terre predette, e ratificata e giurata la pace con tutti i suoi
capitoli dagli stati generali di Francia, e registrata (il che essi
dicono interinata) in tutti i parlamenti di quel reame, con le
solennità necessarie, alle quali era prefisso termine di quattro
mesi; al quale tempo, facendosi la restituzione degli staggi, si
consegnasse a Cesare Angolem, il terzo figliuolo del re, acciò che
per maggiore intrattenimento della pace si nutrisse appresso a lui:
rinunziasse il re cristianissimo e cedesse a Cesare tutte le ragioni
del regno di Napoli, eziandio quelle che gli fussino pervenute per
le investiture della Chiesa; e il medesimo facesse delle ragioni
dello stato di Milano, di Genova, di Asti, di Arazo e di Tornai, di
Lilla e di Douai: restituisse ancora la terra e castello di Esdin,
come membro della contea di Artois, con tutte le munizioni,
artiglierie e mobili che vi erano quando ultimamente era stato
preso; rinunziasse alla sovranità di Fiandra e di Artois e di ogni
altro luogo posseduto da Cesare: e da altra parte, cedesse Cesare a
tutte le ragioni di qualunque luogo posseduto da' franzesi, e
specialmente di Perona, Mondiviere e Roia, e della contea di Bologna
e di Pontieuri, e le terre di qua e di là della riviera di Somma:
fusse tra loro lega e confederazione perpetua a difesa degli stati,
con obligazione di aiutare l'uno l'altro, quando fusse di bisogno,
con cinquecento uomini d'arme e diecimila fanti: che Cesare
promettesse madama Elionora sua sorella per moglie al re
cristianissimo, della quale, subito che fusse ottenuta dal pontefice
la dispensa, si facesse lo sposalizio con parole obligatorie di
presente, e si conducesse in Francia per consumare il matrimonio,
nel tempo medesimo che, secondo i capitoli, si avevano a liberare
gli ostaggi; e la sua dote fusse scudi dugentomila con i donamenti
convenienti, da pagarsi la metà tra sedici mesi l'altra metà di poi
infra uno anno prossimo: che tra il Delfino e la figliuola del re di
Portogallo, nata di madama Elionora, si facesse sposalizio come
fussino in età abile: facesse il re di Francia il possibile che il
re antico di Navarra cedesse a Cesare le ragioni di quel reame, e
non volendo cedere non potesse il re dargli aiuto alcuno: che il
duca di Ghelleri e conte di Zulf e le terre principali di quegli
stati promettessino, con sicurtà sufficiente, che dopo la morte sua
si dessino a Cesare: che il re non desse aiuto al duca di Vertimberg
né eziandio a Ruberto della Marcia; desse a Cesare, quando vorrà
passare in Italia e infra due mesi che ne sarà ricercato da lui,
dodici galee quattro navi e quattro galeoni, proviste di tutto a
spese sue eccetto che di uomini di guerra, che gli avessino a essere
restituite infra tre mesi dal dí che s'imbarcasse: che in luogo
delle genti di terra offertegli per Italia gli desse scudi
dugentomila, la metà infra sedici mesi l'altra infra uno anno
prossimo; e al tempo della liberazione degli ostaggi fusse tenuto a
dargli cedole di banchi della paga di seimila fanti per sei mesi,
subito che arrivasse in Italia; servendolo eziandio a spese sue di
cinquecento lance con una banda di artiglierie: cavasselo di danno
della promessa fatta al re d'Inghilterra per le pensioni gli pagava
il re di Francia, che importavano cinquecentomila scudi, o vero gli
desse a Cesare in denari contanti: supplicasse l'uno e l'altro di
loro il pontefice a intimare, piú presto si potesse, uno concilio
universale, per trattare la pace de' cristiani e la impresa contro
agli infedeli ed eretici, a tutti concedere la crociata per tre
anni: restituisse il re, fra sei settimane, il duca di Borbone, in
ampla forma, eziandio in tutti gli stati, beni mobili e immobili e
frutti presi, né potesse molestarlo per le cose passate né
astrignerlo ad abitare o a andare nel reame di Francia, lasciandogli
la facoltà di potere procedere per giustizia sopra la contea di
Provenza; e restituisse tutti quegli che lo avevano seguitato, e
nominatamente il vescovo di Autun e San Valerio: liberassinsi da
ogni parte, fra quindici dí, i prigioni presi per conto di guerra; e
a madama Margherita fusse restituito tutto quello possedeva innanzi
alla guerra: fusse libero il principe di Oranges, e gli fusse
restituito il principato di Oranges e quanto possedeva alla morte
del padre, statogli tolto per avere seguitato le parti di Cesare; e
medesimamente, alcuni altri baroni: che al marchese di Saluzzo fusse
restituito il suo stato: che il re, come arrivasse nella prima terra
del regno suo, ratificasse questa capitolazione, e fusse obligato
farla ratificare al Dalfino come pervenisse alla età di quattordici
anni. Nominoronsi molti di comune consentimento, eziandio i
svizzeri, ma nessuno de' potentati italiani, eccetto il pontefice,
quale chiamorono per conservatore di questa concordia; cosa piú
presto di cerimonia che di sostanzialità. Aggiunsesi la fede data
dal re di ritornare spontaneamente in carcere quando, per qualunque
cagione, non adempiesse le cose promesse.
Grandissima fu l'ammirazione che ebbe di questo accordo tutta la
cristianità: perché, come si intese che la prima esecuzione aveva a
essere la liberazione del cristianissimo, fu giudizio universale di
ciascuno che, liberato, non avesse a dare la Borgogna, per essere
membro di troppa importanza al reame di Francia; e, da quegli pochi
in fuora che ne avevano confortato Cesare, la corte sua tutta ebbe
la medesima opinione. E il gran cancelliere, sopra gli altri,
riprendeva e detestava, e con tale veemenza che ancora che avesse
comandamento di sottoscrivere la capitolazione, come è uffizio de'
gran cancellieri, ricusò di farlo, allegando che l'autorità che gli
era stata data non doveva essere usata da lui nelle cose pericolose
e perniciose come questa; né si potette rimuoverlo dal suo proposito
con tutta la indegnazione di Cesare: il quale, poi che lo vidde
stare in questa pertinacia, egli proprio la sottoscrisse; e pochi dí
poi andò a Madril per stabilire il parentado, e con famigliari e
dimestichi parlamenti fondare col re amicizia e benivolenza. Grandi
furono le cerimonie e le dimostrazioni di timore tra loro: stetteno
molte volte insieme in publico, ebbono soli in segreto piú volte
lunghissimi ragionamenti; andorono, portati da una medesima
carretta, a uno castello vicino a mezza giornata, dove era la regina
Elionora, con la quale contrasse, credo, lo sposalizio. Ma non però,
in tanti segni di pace e di amicizia, gli furono allentate le
guardie, non allargata la libertà ma, in uno tempo medesimo,
carezzato da cognato e guardato da prigione; in modo che si potesse
facilmente giudicare che questa fusse una concordia piena di
discordia, uno parentado senza amore, e che, in ogni occasione,
potrebbeno piú le antiche emulazioni e passioni tra loro che il
rispetto delle cose fatte piú per violenza che per altra cagione. Ma
avendo consumato piú dí in questi andamenti, ed essendo già venuta
la ratificazione di madama la reggente, con la dichiarazione che in
compagnia del Delfino di Francia darebbeno piú presto il
secondogenito che i dodici signori, il re partí da Madril, per
trovarsi a' confini dove si aveva a fare il baratto della persona
sua co' piccoli figlioli, e in compagnia sua il viceré autore della
sua liberazione; al quale Cesare aveva donato la città di Asti e
altri stati in Fiandra e nel reame di Napoli.
Lib.16, cap.16
Cesare comunica al pontefice l'accordo col re di Francia e le
intenzioni sue riguardo al ducato di Milano. Il pontefice delibera
di mantenersi libero nelle decisioni e spedisce in Francia un
proprio ambasciatore per conoscere le intenzioni del re. Identica
politica dei veneziani.
Nel quale tempo Cesare scrisse al pontefice una lettera cerimoniale,
significandogli che, per il desiderio della pace e del bene comune
della cristianità, dimenticate tante ingiurie e inimicizie, aveva
restituita la libertà al re di Francia e datagli la sorella sua per
moglie, e che aveva eletto lui per conservadore della pace, di chi
sempre voleva essere obedientissimo figliuolo. E gli scrisse, pochi
dí poi, un'altra lettera di mano propria, la quale gli mandò per il
medesimo Errera che aveva portato la lettera scritta a lui di mano
propria del pontefice; rispondendogli parte con parole dolci, parte
mescolate di qualche acerbità: conchiudendo che restituirebbe il
ducato a Francesco Sforza in caso non avesse fatto il delitto di che
era imputato, e che voleva che questo si vedesse per giustizia dai
giudici deputati da sé come da suo superiore; ma constando che
avesse fallito non poteva mancare di investirne il duca di Borbone,
a chi egli medesimo era stato cagione che e' lo avesse promesso,
avendogliene nel tempo della infermità di Francesco Sforza proposto;
e che per sodisfare a lui, e per assicurare dello animo [suo]
Italia, non aveva voluto né ritenerlo per sé né darlo al fratello
proprio; affermando, sopra la fede sua, questa essere veramente la
sua intenzione; la quale pregava efficacemente che approvasse,
offerendogli sempre l'autorità e le forze sue, come obbediente
figliuolo della sedia apostolica. Portò ancora il medesimo Errera la
risposta alla minuta del capitolo stato disteso dal pontefice in
favore di Francesco Sforza, il quale Cesare, perseverando nella sua
prima deliberazione, non aveva voluto approvare; anzi indirizzò per
lui al duca di Sessa la forma dello accordo al quale per ultimo si
risolveva, con autorità di stipularlo in caso che da lui fusse
accettato. Contenevasi in essa che Francesco Sforza fusse compreso
nella loro confederazione in caso non avesse lesa la maestà di
Cesare, ma in caso della sua morte o privazione succedesse nella
confederazione il duca di Borbone, investito da lui del ducato di
Milano: confermavasi la obligazione fatta dal viceré della
restituzione delle terre che teneva il duca di Ferrara, ma con
condizione che il pontefice fusse tenuto a concedergli la
investitura di Ferrara e rimettergli la pena della contravenzione;
cosa contraria ai pensieri del pontefice, che aveva disegnato di
esigere la pena de' centomila ducati, per pagare con questa i
centomila promessi a Cesare in caso di quella restituzione: non
ammetteva che lo stato di Milano avesse a levare i sali della
Chiesa, né di riferirsi, in quanto alle collazioni benefiziali del
reame di Napoli, al tenore delle investiture ma allo uso de' re
passati, i quali in molti casi avevano disprezzato le ragioni e
l'autorità della sedia apostolica. E perché col legato era stato
trattato che, per levare di Lombardia lo esercito, grave a tutta
Italia, si pagassino dal papa e da lui, come re di Napoli, e dagli
altri d'Italia, ducati cento cinquantamila, e si conducesse a Napoli
o dove, fuora d'Italia, paresse a Cesare, che diceva volerlo fare
passare in Barberia, fu aggiunto che, essendo lo esercito creditore
di maggiore quantità che non era allora, fussino ducati dugentomila.
Presentorono il duca di Sessa ed Errera al pontefice la copia di
questi capitoli, con protestazione che in potestà loro non era di
variarne pure una sillaba; e nondimeno arebbeno facilmente preso
forma tutte l'altre difficoltà pure che del ducato di Milano fusse
stato disposto in modo che il pontefice e gli altri non avessino
causa d'avere sospetto. Ma si considerava che il duca di Borbone era
inimico cosí implacabile del re di Francia che, o per sicurtà sua o
per cupidità di entrare in Francia, starebbe sempre soggettissimo a
Cesare, né si potrebbe mai sperare che la troppa grandezza sua gli
fusse molesta; e che il capitolo di levare lo esercito di Lombardia,
che tanto era stato desiderato da tutti, e per il quale effetto non
sarebbe paruto grave pagare ogni quantità di denari, riusciva di
nissuna utilità, poiché a Milano restava uno duca che non solo a
ogni cenno di Cesare ve lo arebbe accettato, anzi forse, per
interesse proprio, desiderato e stimolatolo. Però il pontefice, il
quale, perché nella concordia fatta col re di Francia non si faceva
menzione sostanziale di lui, né della sicurtà degli stati di Italia
memoria alcuna, si era confermato nella persuasione fattasi prima
che la grandezza di Cesare avesse a essere la servitú sua, deliberò
di non accettare lo accordo nel modo che gli era proposto, ma di
conservarsi libero insino a tanto che avesse certezza quello che
facesse il re di Francia circa alla osservazione del suo
appuntamento: nella quale sentenza si determinò con maggiore animo
perché, oltre a quello che pareva verisimile, gli penetrò agli
orecchi, per parole dette dal re innanzi fusse liberato, e da altri
a' quali erano noti i consigli suoi, egli avere l'animo alieno dalla
osservanza delle cose promesse a Cesare. Nella quale deliberazione
per confermarlo, come cosa dalla quale avesse a dependere la sicurtà
propria, espedí in Francia in poste Paolo Vettori fiorentino,
capitano delle sue galee, acciò che nel tempo medesimo che
arriverebbe il re fusse alla corte: usando questa celerità non solo
per sapere, il piú presto si poteva, la mente sua ma perché il re,
avuta subito speranza di potersi congiugnere il pontefice e i
viniziani contro a Cesare, avesse causa di deliberare piú
prontamente. Fu adunque commesso a Paolo che in nome del pontefice
si rallegrasse seco della sua liberazione, facessegli intendere
l'opere fatte da lui perché seguisse questo effetto, e quanto le
pratiche tenute di collegarsi con la madre avessino fatto inclinare
Cesare a liberarlo; mostrassegli poi, il pontefice essere
desiderosissimo della pace universale de' cristiani, e che Cesare ed
egli facessino unitamente la impresa contro al turco; quale si
intendeva prepararsi molto potentemente per assaltare l'anno
medesimo il reame di Ungheria. Queste furono le commissioni
apparenti, ma la sostanziale e segreta fu che, tentato prima
destramente di sapere bene la inclinazione del cristianissimo, in
caso lo trovasse volto a osservare lo accordo fatto non passasse piú
innanzi, per non fare vanamente piú perdita con Cesare che si fusse
fatta per il passato; ma trovandolo inclinato altrimenti, o vero
ambiguo, si sforzasse confermarvelo e con ogni occasione lo
confortasse a questo cammino; mostrando il desiderio che il
pontefice aveva, per benefizio comune, di congiugnersi seco. Spedí
ancora in Inghilterra il protonotario da Gambara, per fare uffizio
con quel re al medesimo fine; e per ricordo suo i viniziani
mandorono in Francia, con le medesime commissioni, Andrea Rosso suo
segretario. E perché Paolo, subito che fu arrivato in Firenze, si
ammalò e morí, il pontefice, benché pigliasse in malo augurio che
già due volte i ministri mandati da lui in Francia per questa
pratica fussino periti nel cammino, vi mandò in luogo suo Capino da
Mantova. Né mancavano intratanto, i viniziani e lui, di usare ogni
diligenza per tenere confortato e in piú speranza che e' si potesse
il duca di Milano, acciò che la paura della pace di Madril non lo
facesse precipitare a qualche accordo con Cesare.
Lib.16, cap.17
Come avvenne la liberazione del re di Francia dalla prigionia e la
consegna dei figliuoli; il re si reca prestamente a Baiona, donde
spedisce lettere al re d'Inghilterra.
Era arrivato in questo tempo il re di Francia a Fonterabia, terra di
Cesare che è posta in sul mare Oceano in su i confini tra la Biscaia
e il ducato di Ghienna; e da altro canto la madre co' due figliuoli
era venuta a Baiona presso a Fonterabia a poche leghe, soggiornata
qualche dí piú che il dí determinato a fare la permutazione, perché
era stata in cammino oppressata dalla podagra. Adunque, il decimo
ottavo dí di marzo, il re, accompagnato dal viceré e dal capitano
Alarcone e da circa cinquanta cavalli, si condusse in su la riva del
fiume che divide il reame di Francia dal reame di Spagna; e al
medesimo tempo, si presentò in su l'altra riva Lautrech con gli due
figlioletti e con numero pari di cavalli: in mezzo al fiume era una
barca grande, fermata con le ancore, in su la quale non era persona
alcuna. Accostossi a questa barca il re in su uno battello, dove era
egli, il viceré e Alarcone e otto altri, armati tutti di armi corte;
e dall'altra banda della barca si accostò in su un altro battello
Lautrech, gli statichi e altri otto compagni, armati nel modo
medesimo. Montò dipoi in su la barca il viceré con tutti i suoi e
con loro il re, e immediate poi Lautrech con gli otto compagni; in
modo che in su la barca si trovò il numero pari da ogni parte,
essendo col viceré Alarcone e otto altri, e col re Lautrech e altri
otto. I quali come furono saliti tutti nella barca, Lautrech tirò
del battello in barca il Delfino; quale, consegnato al viceré e da
lui ad Alarcone, fu posto subito nel loro battello; e nel medesimo
istante era tirato in barca il piccolo duca d'Orliens. Il quale non
vi fu prima che il cristianissimo saltò di barca in su il suo
battello, con tanta prestezza che questa permutazione venne a essere
fatta in uno momento medesimo; e tiratosi a riva, montò subito, come
se temesse di aguato, in su uno cavallo turco di maravigliosa
velocità, preparato per questo effetto, e senza fermarsi corse a San
Giovanni del Lus, terra sua, vicina a quattro leghe; dove
rinfrescatosi prestamente, si condusse con la medesima velocità a
Baiona, raccolto con incredibile letizia di tutta la corte. Donde
subito espedí in diligenza uno uomo al re di Inghilterra,
significandogli con lettere di mano propria la sua liberazione, e
con umanissime commissioni di riconoscerla totalmente dalle opere
che aveva fatte; offerendo di volere essere seco una cosa medesima e
di procedere in tutte le occorrenze co' suoi consigli: e poco dipoi
gli espedí altri imbasciadori per ratificare solennemente la pace
fatta dalla madre con lui, perché nella amicizia di quel re faceva
grandissimo fondamento.
Lib.17, cap.1
Viva attesa in Italia delle decisioni del re di Francia liberato
dalla prigionia. Ragioni di rammarico contro Cesare esposte dal re
di Francia agli inviati del pontefice e dei veneziani; veri intenti
del re. Difficili condizioni del duca di Milano assediato nel
castello, e gravezze degli abitanti del ducato per il mantenimento
dei soldati di Cesare. Malcontento e tumulti in Milano.
La liberazione del re di Francia, ancora che alla solennità dei
capitoli fatti e alla religione de' giuramenti e delle fedi date tra
loro, e al vincolo del nuovo parentado, fusse aggiunto il pegno di
due figliuoli, e in quegli il primogenito destinato a tanta
successione, sollevò i príncipi cristiani in grandissima
espettazione, e fece volgere inverso di lui gli occhi di tutti gli
uomini, i quali prima erano solamente volti verso Cesare; dependendo
diversissimi né manco importanti effetti dalla deliberazione sua
dello osservare o no la capitolazione fatta a Madril. Perché,
osservandola, si vedeva che Italia impotente a difendersi per se
medesima se ne andava senza rimedio in servitú, e si accresceva
maravigliosamente l'autorità e la grandezza di Cesare: non
osservando, era necessitato Cesare o dimenticare, per la
inosservanza del re di Francia, le macchinazioni fattegli contro dal
duca di Milano, restituirgli quel ducato perché il pontefice e i
viniziani non avessino causa di congiugnersi col re, e perdere tanti
guadagni sperati dalla vittoria; o pure, potendo piú in lui la
indegnazione conceputa col duca di Milano e il desiderio di non
avere in Italia l'ostacolo de' franzesi, stabilire la concordia col
re, convertendo in pagamento di danari l'obligazione della
restituzione della Borgogna; o veramente, non volendo cedere né
all'una cosa né all'altra, ricevere contro a tanti inimici una
guerra, eziandio quasi per confessione sua molto difficile, poiché
per fuggirla si era ridotto a lasciare con tanto pericolo il re di
Francia.
Ma non si stette lungamente in ambiguità quale fusse la mente del
re. Perché essendo, subito che arrivò a Baiona, ricercato da uno
uomo del viceré di ratificare lo appuntamento, come aveva promesso
di fare subito che e' fusse in luogo libero, differiva di giorno in
giorno con varie escusazioni: con le quali per nutrire la speranza
di Cesare, mandò uno uomo proprio a significargli non avere fatta
subito la ratificazione, perché era necessario, innanzi procedesse a
questo atto, mollificare gli animi [de'] suoi, malcontenti delle
obligazioni che tendevano alla diminuzione della corona di Francia;
ma che non ostante tutte le difficoltà osserverebbe indubitatamente
quanto aveva promesso. Da che potendosi assai comprendere quello che
avesse nello animo, sopravenneno pochi dí poi gli uomini mandati dal
pontefice e da' viniziani; a' quali non fu necessario usare molta
diligenza per chiarirsi della sua inclinazione. Perché il re,
avendogli ricevuti benignamente, ne' primi ragionamenti che poi ebbe
con l'uno e con l'altro di loro separatamente, si querelò molto
della inumanità che, nel tempo che era stato prigione, lo imperadore
gli aveva usata, non trattandolo come principe tale quale era, né
con quello animo che doverebbe fare uno principe che avesse
commiserazione delle calamità di uno altro principe, o
considerazione che quello che era accaduto a lui potesse anche
accadere a se medesimo. Allegava lo esempio di Adovardo, re
d'Inghilterra, quello che fu chiamato Adovardo Gambiglione: che,
essendogli presentato Giovanni re di Francia, preso nella giornata
di Pottieri, dal principe di Gales suo figliuolo, non solo lo aveva
ricevuto benignamente ma eziandio lasciatolo in libera custodia in
tutto il tempo che stette prigione nella isola, aveva sempre
familiarmente, conversato seco, ammessolo alle sue caccie e a suoi
conviti; né però per questo avere perduto il prigione, o conseguito
accordo manco favorevole per lui: da che essere nato tra loro tanta
dimestichezza e confidenza che Giovanni, eziandio poi che, liberato,
era stato piú anni in Francia, ritornasse volontariamente in
Inghilterra per desiderio di rivedere l'ospite suo. Aversi memoria
solo di due re di Francia che fussino stati fatti prigioni in
battaglia, Giovanni e lui; ma essere non manco notabile la diversità
degli esempli, poiché l'uno poteva essere allegato per esempio della
benignità, l'altro per esempio della acerbità del vincitore. Ma non
avere trovato animo piú placato o mansueto verso gli altri; anzi
essersi, per i parlamenti avuti seco a Madril, certificato che egli,
occupato da somma ambizione, non pensava ad altro che a mettere in
servitú la Chiesa, Italia tutta e gli altri príncipi. Desiderare che
il papa e i viniziani avessino animo di pensare alla salute propria,
perché dimostrerebbe loro quanto fusse desideroso di concorrere alla
salute comune, e di restrignersi con loro a pigliare l'armi contro a
Cesare; non per ricuperare per sé lo stato di Milano o accrescere
altrimenti la sua potenza, ma solo perché, col mezzo della guerra,
potesse conseguire i figliuoli e Italia la libertà: poi che la
troppa cupidità non aveva lasciato lume a Cesare di obligarlo in
modo che e' fusse tenuto a stare nella capitolazione. Conciossiaché,
e prima quando era nella rocca di Pizzichitone e poi in Spagna nella
fortezza di Madril, avesse molte volte protestato a Cesare, poiché
vedeva la iniquità delle dimande sue, che, se stretto dalla
necessità cedesse a inique condizioni o quali non fusse in potestà
sua di osservare, che non solo non le osserverebbe, anzi,
reputandosi ingiuriato da lui per averlo astretto a promesse
inoneste e impossibili, se ne vendicherebbe se mai ne avesse
l'occasione. Né avere mancato di dire molte volte quello che per
loro stessi potevano sapere, e che credeva anche essere comune a gli
altri regni: che in potestà del re di Francia non era obligarsi,
senza consentimento degli stati generali del reame, ad alienare cosa
alcuna appartenente alla corona: non permettere le leggi cristiane
che uno prigione di guerra stesse in carcere perpetua, per essere
pena conveniente agli uomini di male affare, non trovata per
supplizio di chi fusse battuto dalla acerbità della fortuna; sapersi
per ciascuno essere di nessuno valore le obligazioni fatte
violentemente in prigione, ed essendo invalida la capitolazione non
restare anche obligata la sua fede, accessoria e confermatrice di
quella; precedere i giuramenti fatti a Remes, quando con tanta
cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i re di Francia, per i
quali si obligano di non alienare il patrimonio della corona: però
non essere manco libero che pronto a moderare la insolenza di
Cesare. E il medesimo desiderio mostrò di avere la madre, e la
sorella di Alanson, che per essere stata vanamente in Spagna si
lamentava assai della asprezza di Cesare, e tutti i principali della
corte che intervenivano nelle faccende segrete; conchiudendo che, se
e' venivano i mandati del pontefice e de' viniziani, si verrebbe
subito alla conclusione della lega: la quale dicevano essere bene si
maneggiasse in Francia, per avere piú facilità di tirarvi il re
d'Inghilterra, come mostravano speranza grande dovesse succedere.
Queste cose si dicevano con grande asseverazione dal re di Francia e
da' suoi, ma in secreto erano molto diversi i suoi pensieri: perché,
disposto totalmente a non dare a Cesare la Borgogna, aveva anche
l'animo alieno di non muovere, se non costretto da necessità, le
armi contro a lui; ma trattando di confederarsi con gli italiani,
sperava che Cesare, per non cadere in tante difficoltà si indurrebbe
a convertire in obligazione di danari l'articolo della restituzione
della Borgogna; nel quale caso nessuno rispetto delle cose d'Italia
l'arebbe ritenuto, per desiderio di riavere [i figliuoli], a
convenire seco.
Ma i messi del pontefice e i viniziani, ricevuta tanta speranza da
lui, significorono subito la risposta avuta, in tempo che in Italia
crescevano la necessità e l'occasione del congiugnersi contro a
Cesare. La necessità, perché il duca di Milano, il quale da
principio, parte per colpa de' ministri suoi parte per il breve
tempo che ebbe a provedersi, aveva messo poca vettovaglia in
castello, né quella poca era stata dispensata con quella moderazione
che si suole usare per gli uomini collocati in tale stato, faceva
tutto dí intendere (come ebbe sempre mezzo di scrivere, ancora che
e' fusse assediato nel castello) non avere da mangiare per tutto il
mese di giugno prossimo, e che non si facendo altra provisione
sarebbe necessitato rimettersi alla discrezione di Cesare: e se bene
si credeva che, come è costume degli assediati, proponesse maggiore
strettezza che in fatto non aveva, nondimeno si avevano molti
riscontri che gli avanzava poco da vivere; e il lasciare andare il
castello in mano di Cesare, oltre alla riputazione che si
accresceva, faceva molto piú difficile la recuperazione di quello
stato. Ma non meno pareva che crescesse l'occasione, per essere
ridotti i popoli tutti in estrema disperazione. Conciossiaché, non
mandando Cesare denari per pagare la sua gente, alla quale si
dovevano già molte paghe, né vi essendo modo di provederne di altro
luogo, avevano i capitani distribuito gli alloggiamenti della gente
d'arme e de' cavalli per tutto il paese, gravandolo a contribuire,
qual terra a questa compagnia quale a quell'altra; le quali erano
necessitate ad accordare co' capitani e co' soldati questo peso con
denari: il che si esercitava sí intollerabilmente che allora fusse
costante fama, affermata da molti che avevano notizia delle cose di
quello stato, che il ducato di Milano pagasse ciascuno dí a' soldati
di Cesare ducati cinquemila, e si diceva che Antonio de Leva
riscoteva per sé solo trenta ducati ciascuno giorno. La fanteria
ancora, alloggiata in Milano e per l'altre terre, non solo voleva
essere provista da' padroni delle case dove abitavano di tutto il
vitto loro ma, riducendosi spesso molti fanti in una casa medesima,
era il padrone di quella necessitato di provedere al vivere di
tutti; e l'altre case, non avendo da dare loro gli alimenti,
bisognava si componessino con denari: e toccavano talvolta a uno
fante solo piú alloggiamenti, che, da uno in fuora che gli provedeva
del vitto, gravava gli altri a pagargli denari.
Questa condizione miserabile, ed esercitata con tanta crudeltà,
aveva disperato gli animi di tutto il ducato e specialmente quegli
del popolo di Milano, non assuefatto, innanzi alla entrata del
marchese di Pescara in Milano, a essere gravato di alimenti o di
contribuzione per gli alloggiamenti de' soldati; e il quale, essendo
potente di numero e di armi, ancoraché non in quella frequenza che
soleva essere innanzi alla peste, non poteva tollerare tanta
insolenza e acerbissime esazioni: dalle quali per liberarsi, o
almeno per moderarle in qualche parte, benché i milanesi avevano
mandati a Cesare imbasciadori, erano stati espediti con parole
generali ma senza alcuna provisione. Né mancava anche Milano, non
gravato secondo la sua proporzione di quel numero di soldati che
l'altre terre, avere a pagare denari per le spese publiche, cioè di
quelle che accadesse fare per ordine de' capitani per conservazione
delle cose di Cesare: i quali denari esigendosi difficilmente, si
usavano per i ministri proposti alle esazioni molte acerbità. Per le
quali cose essendo condotto il popolo in estrema disperazione si
convenneno popolarmente tra loro medesimi di resistere con l'armi in
mano alle esazioni, e che ciascuno che fusse gravato dagli esattori
chiamasse i vicini a difenderlo; i quali tutti, e dietro a loro gli
altri che fussino chiamati, concorressino, al comandamento de'
capitani deputati per molte parti della città, per resistere a
quegli che facessino le esazioni e a' soldati che volessino
favorirgli. Il quale ordine poi che fu dato, accadde che uno fabbro
della città, essendo andati gli esattori a gravarlo, concitò per sua
difesa i vicini; dietro a' quali concorrendo gli altri del popolo si
fece per la città grandissima sollevazione: per la quale sedare
essendo concorsi Antonio de Leva e il marchese del Guasto, e in
compagnia loro alcuni de' principali gentiluomini di Milano, si
quietò finalmente il tumulto, ma ricevuta promessa da' capitani che,
contenti delle entrate publiche, non graverebbeno alcuno per altre
imposizioni né metterebbeno in Milano altri soldati. Non durò questa
concordia se non insino a l'altro giorno, perché essendo venuto
avviso che alla città si accostavano nuovi soldati il popolo di
nuovo prese l'armi, ma con maggiore tumulto e molto piú ordinato e
con maggiore concorso che non si era fatto il dí precedente. Al
quale impeto cominciando i capitani a temere di non potere
resistere, ebbeno (cosí affermano molti) inclinazione di partirsi
con la gente da Milano; e si crede che cosí arebbeno messo in
esecuzione se il popolo avesse unitamente dimostrato di volere
procedere alla offensione loro e de' soldati. Ma cominciorno
imperitamente a saccheggiare la corte vecchia, dove risedeva il
capitano della giustizia criminale con certo numero di fanti;
cominciando a volere fare il principio da quello che doveva essere
l'ultimo della loro esecuzione: dal quale disordine i capitani
imperiali avendo ripreso animo, fortificate le loro strade e
chiamata la maggiore parte de' fanti che stavano allo assedio del
castello, si congregorono insieme per resistere se il popolo volesse
assaltargli. Questo dette occasione a quegli che erano assediati di
uscire fuora del castello ad assaltare i ripari fatti dalla parte di
dentro, ma si ritirorono presto non vedendo avere soccorso dal
popolo; il quale, parte per essere inesperto all'armi parte per
portare alle case loro le robe guadagnate nel sacco di corte
vecchia, non solo non faceva l'operazioni convenienti ma si andava
piú presto risolvendo: con la quale occasione i capitani,
interponendosi alcuni de' gentiluomini, sedorono anche questo
tumulto, ma con promissione di cavare tutti i soldati della città e
del contado di Milano, eccetto i fanti tedeschi che erano allo
assedio del castello. Cosí facilmente dalla astuzia degli uomini
militari si era fuggito uno gravissimo pericolo, elusa la imperizia
dell'armi de' popolari, e i disordini ne' quali facilmente la
moltitudine tumultuosa, e che non ha capi prudenti o valorosi, si
confonde. Ma non essendo per queste concordie né dissolute le
intelligenze né deposte l'armi del popolo, anzi dimostrandosi ogni
dí disposizione di maggiore sollevazione, pareva a chi pensava di
travagliare le cose di Cesare occasione di grandissimo momento;
considerando massime le poche forze e l'altre difficoltà che avevano
gli imperiali, e ricordandosi che, nelle guerre prossime, l'ardore
maraviglioso che il popolo di Milano e dell'altre terre avevano
avuto in favore loro era stato grandissimo fondamento alla
difensione di quello stato.
Lib.17, cap.2
Ragioni per cui il pontefice propende ad accordi col re di Francia
contro Cesare. Decisione del pontefice e dei veneziani di
conchiudere la confederazione col re di Francia. Assoldamento di
milizie.
Erano in questi termini le cose d'Italia quando sopravenneno gli
avvisi di Francia della pronta disposizione e offerte del re, e
della richiesta fatta da lui che e' si mandassino i mandati; e nel
tempo medesimo gli imbasciadori del re d'Inghilterra che erano
appresso al pontefice lo confortorono assai a pensare che si
moderasse la grandezza di Cesare, e a dare animo al re di Francia di
non osservare la capitolazione. Per le quali cose non solo i
viniziani, che in ogni tempo e in occasioni molto minori avevano
confortato a pigliare l'armi, ma il pontefice ancora, che molto
difficilmente si disponeva a entrare in questo travaglio, gli parve
essere necessitato a raccorre la somma de' discorsi suoi e non
differire piú di fare qualche deliberazione. Le ragioni, che a' mesi
passati l'avevano inclinato alla guerra, non solo erano le medesime
ma ancora piú considerabili e piú potenti: perché e quanto tempo piú
si erano allungate le pratiche Cesare aveva potuto scoprire meglio
l'animo del pontefice essere alieno dalla grandezza sua; e il
pontefice, per lo accordo che egli aveva fatto col re di Francia,
era entrato in giusto sospetto di non potere ottenere condizioni
eque da lui, e che gli avesse in animo di opprimere il resto
d'Italia; e il pericolo ogni dí piú era presente, approssimandosi il
castello di Milano alla dedizione. Incitavano l'animo suo le
ingiurie che si rinnovavano dai capitani imperiali; i quali, dopo la
capitolazione fatta a Madril, avevano mandato ad alloggiare nel
piacentino e nel parmigiano uno colonnello di fanti italiani, dove
facevano infiniti danni; e querelandosene il pontefice, rispondevano
che per non essere pagati vi erano venuti di propria autorità.
Commovevanlo eziandio le cose forse piú leggiere ma interpretate,
come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore:
perché Cesare aveva publicato in Spagna certi editti pragmatici
contro alla autorità della sedia apostolica, per virtú de' quali
essendo proibito a' sudditi suoi trattare cause beneficiali di
quegli regni nella corte romana, ebbe ardire uno notaio spagnuolo,
entrato nella ruota di Roma il dí deputato alla udienza, intimare in
nome di Cesare ad alcuni che desistessino di litigare in quello
auditorio. Né solo pareva che per la liberazione del cristianissimo
fusse sciolto quel nodo che aveva tenuto implicati gli animi di
ciascuno, che i franzesi per riavere il suo re fussino per
abbandonare la lega, e la compagnia del re di Francia si conosceva
di molto piú importanza alla impresa che non sarebbe stata quella
della madre e del governo, ma ancora si vedevano maggiori l'altre
occasioni. Perché la sollevazione del popolo di Milano pareva di non
piccolo momento e, per la carestia che era di vettovaglie in quello
stato, si giudicava fusse vantaggio grande assaltare gl'imperiali
innanzi che per la ricolta avessino comodità di vettovagliare le
terre forti, innanzi si perdesse il castello di Milano e che Cesare
avesse piú tempo di mandare in Italia nuove genti o provisione di
danari. E veniva in considerazione che il re di Francia, il quale
per la memoria delle cose passate verisimilmente si diffidava del
pontefice, non vedendo in lui ardore alla guerra, non si risolvesse
a osservare la concordia fatta a Madril o a rifermarla di nuovo; né
si dubitava che, congiunte insieme tante forze terrestri e marittime
e la facoltà di continuare nelle spese, benché gravi, lungamente,
che le condizioni di Cesare, abbandonato da tutti gli altri ed
esausto di danari, sarebbeno molto inferiori nella guerra. Solamente
faceva scrupolo in contrario il timore che il re, per il rispetto
de' figliuoli non abbandonasse gli altri collegati, come si era
dubitato non facesse il governo di Francia quando il re era
prigione. Pure il caso si riputava diverso: perché, pigliando l'armi
contro a Cesare con tante occasioni, pareva che sí grande fusse la
speranza di ricuperargli con le forze, e con questo avesse a
succedere con tanta sua riputazione, che e' non avesse causa di
prestare orecchi a concordia particolare, la quale succederebbe non
solo con ignominia sua ma eziandio con pregiudicio proprio, se non
presente almeno futuro; perché il permettere che Cesare riducesse
Italia ad arbitrio suo non poteva, alla fine, essere se non molto
pericoloso al reame di Francia. Dalla quale ragione si inferiva
similmente che avesse a esercitare ardentissimamente la guerra:
perché pareva inutilissimo consiglio, confederandosi contro a
Cesare, privarsi della recuperazione de' figliuoli con l'osservanza
della concordia; e nondimeno, da altra parte, pretermettere quelle
cose per le quali poteva sperare di conseguirgli gloriosamente con
l'armi.
Considerorno forse, quegli che discorsono in questo modo, piú quello
che ragionevolmente si doveva fare che non considerorno quale sia la
natura e la prudenza de' franzesi: errore, nel quale certamente
spesso si cade nelle consulte e ne' giudizi che si fanno della
disposizione e volontà di altri. Anzi forse non considerorono
perfettamente quanto i príncipi, consci il piú delle volte della
inclinazione propria ad anteporre l'utilità alla fede, siano facili
a persuadersi il medesimo degli altri príncipi; e che però il re di
Francia, sospettando che il pontefice e i viniziani, come per
l'acquisto del ducato di Milano fussino assicurati della potenza di
Cesare, diventassino negligenti o alieni dagli interessi suoi,
giudicasse essergli piú utile la lunghezza della guerra che la
vittoria, come mezzo piú facile a indurre Cesare, stracco dai
travagli e dalle spese, a restituirgli con nuova concordia i
figliuoli. Ma movendo il pontefice le ragioni precedenti, e molto
piú la penitenza di avere aspettato oziosamente il successo della
giornata di Pavia, e lo essere statone morso e ripreso di timidità
da ciascuno, le voci di tutti i suoi ministri, di tutta la corte, di
tutta Italia, che lo increpavano che la sedia apostolica e Italia
tutta fussino ridotte in tanti pericoli per colpa sua, deliberò
finalmente non solo di confederarsi col re di Francia e con gli
altri contro a Cesare ma di accelerarne la conclusione, e per gli
altri rispetti e per questo massime, che le provisioni potessino
essere a tempo a soccorrere il castello di Milano innanzi che per la
fame si arrendesse agli inimici. La quale necessità fu cagione di
tutti i mali che seguitorono: perché altrimenti, procedendo piú
lentamente, il pontefice, dalla autorità del quale dependevano in
questa agitazione non poco i viniziani, arebbe aspettato se Cesare,
commosso dalla inosservanza del re di Francia, proponesse per
sicurtà comune quelle condizioni che prima aveva denegate. E quando
pure fusse stato necessitato a pigliare le armi, non essendo
costretto a dimostrarne al re di Francia tanta necessità, arebbe
facilmente ottenute da lui per sé e per i viniziani migliori
condizioni; ma senza dubbio sarebbono stati meglio distinti gli
articoli della confederazione, stabilita maggiore sicurtà della
osservanza, e ultimatamente non cominciata la guerra se prima non si
fussino mossi i svizzeri e ridotte in essere tutte le provisioni
necessarie, e forse entrato nella confederazione il re di
Inghilterra: col quale, per la distanza del cammino, non s'ebbe
tempo a trattare. Ma parendo al pontefice e al senato viniziano, per
il pericolo del castello, di somma importanza la celerità,
espedirono subito ma secretissimamente i mandati di fare la
confederazione agli uomini loro; con condizione che, per minore
dilazione, si riferissino quasi a quegli medesimi capitoli che prima
erano stati trattati con madama la reggente.
Ma sopravenendo pure tuttavia avvisi nuovi della necessità del
castello, entrò il pontefice in considerazione che, essendo
necessario che, per essere impedito il cammino diritto da Roma alla
corte di Francia, gli spacci andassino con lungo circuito per il
cammino de' svizzeri, e che essendo facil cosa che nel capitolare
nascesse qualche difficoltà per la quale di necessità si
interponesse tempo, che potrebbe accadere che e' si tardasse tanto a
conchiudere la confederazione che, se si differisse a cominciare
dopo la conclusione a fare le provisioni per soccorrere il castello,
era da dubitare non fussino fuora di tempo: e però, consultato
questo pericolo co' viniziani, stimolati ancora dagli agenti del
duca di Milano che erano a Roma e a Vinegia e da molti partigiani
suoi che proponevano vari partiti, si risolverono preparare tante
forze che paressino bastanti a soccorrere il castello, per usarle
subito che di Francia si fusse avuta la conclusione della lega; e
intratanto dare speranza al popolo di Milano, e fomentare varie
pratiche proposte loro nelle terre di quello stato. Però unitamente
conchiuseno che i viniziani spignessino a' confini loro, verso il
fiume dell'Adda, il duca d'Urbino con le loro genti d'arme e seimila
fanti italiani; e il pontefice mandasse a Piacenza il conte Guido
Rangone con seimila fanti. E perché e' pareva necessario avere uno
grosso numero di svizzeri (anzi il duca di Urbino faceva intendere
a' viniziani essere necessario a conseguire totalmente la vittoria
avere dodicimila svizzeri), e il pontefice e i viniziani, per non si
scoprire tanto contro a Cesare insino non avessino certezza che la
lega fusse fatta, non volevano mandare in Elvezia uomini loro a
levargli, fu udito Gianiacopo de' Medici milanese; il quale, mandato
dal duca di Milano (per essere intervenuto allo omicidio di
Monsignorino Visconte) castellano della rocca di Mus, conosciuta
l'occasione de' tempi e la fortezza del luogo, se ne era fatto
padrone. Il quale, facendo intendere che molti mesi innanzi aveva
tenute pratiche con vari capitani svizzeri per questo effetto,
offerse di fare muovere, subito che gli fussino mandati seimila
ducati, seimila svizzeri, non soldati per decreto de' cantoni ma
particolarmente; a' quali come fussino scesi nel ducato di Milano
s'avesse a dare il compimento della paga. E, come accade nelle
imprese che da uno canto sono reputate facili dall'altro sono
sollecitate dalla strettezza del tempo, non solo l'offerta di
costui, essendo massime approvata dai ministri del duca di Milano e
da Ennio vescovo di Veroli, al quale il pontefice prestava fede
nelle cose de' svizzeri per averle in nome della Chiesa trattate
lungamente, e però era stato per suo ordine molti mesi a Brescia, e
allora stava appresso al proveditore viniziano, donde continuamente
trattava con molti di quella nazione, fu senza pensare piú innanzi
accettata dal papa e da' viniziani; ma ancora fu udito in Vinegia
Ottaviano Sforza vescovo di Lodi che offeriva di levarne facilmente
numero grande, e da loro, subito, senza consultarne altrimenti col
pontefice, spedito in Elvezia per soldarne altri seimila, nel modo
medesimo e co' medesimi pagamenti. Dalle quali cose male intese
nacque, come di sotto si dirà, principio grande di mettere in
disordine la impresa che con tanta speranza si cominciava.
Lib.17, cap.3
Dichiarazioni e proposta del re di Francia al viceré riguardo alle
condizioni concluse con Cesare, e indugio della conclusione degli
accordi col pontefice e coi veneziani. Sdegno di Cesare per la
proposta del re di Francia e sue deliberazioni. Conclusione e patti
della lega fra il pontefice i veneziani ed il re di Francia. Il
pontefice ed i veneziani deliberano la rottura della guerra.
Ma mentre che queste cose si preparano in Italia, cominciando Cesare
a sospettare delle dilazioni interposte alla ratificazione, il
viceré di Napoli, il quale insieme con gli statichi e con la regina
Elionora si era fermato nella terra di Vittoria per condurgli al re
subito che avesse adempiuto le cose contenute nella capitolazione,
andò e con lui Alarcone, per commissione di Cesare, al re di
Francia, il quale da Baiona si era trasferito a Cugnach, per
certificarsi interamente della sua intenzione. Dal quale benché e'
fusse ricevuto con grandissimo onore e carezze, e come ministro di
Cesare e come quello da chi il re cristianissimo riconosceva in
grande parte la sua liberazione, lo trovò in tutto alieno da volere
rilasciare la Borgogna; scusandosi ora che non potrebbe mai avere il
consentimento del regno, ora che non arebbe mai volontariamente
consentito a una promessa che per essere di tanto pregiudizio alla
corona di Francia era impossibile a lui l'osservarla: ma che,
desiderando quanto poteva di mantenersi l'amicizia cominciata con
Cesare e dare perfezione al parentado, sarebbe contento, tenendo
fermo tutte l'altre cose convenute tra loro, pagare a Cesare in
luogo del dargli la Borgogna due milioni di scudi; dimostrando che
non altro lo indurrebbe a confermare con questa moderazione la
confederazione fatta a Madril che la inclinazione grande che aveva
di essere in bona intelligenza con Cesare, perché non gli mancavano
né offerte né stimoli del pontefice, del re d'Inghilterra e de'
viniziani per incitarlo a rinnovare la guerra. La quale risposta e
ultima sua deliberazione e il viceré significò a Cesare, e il re vi
mandò uno de' suoi segretari a esporgli il medesimo. Donde
procedette che, benché i mandati del pontefice e de' viniziani,
prima molto desiderati, fussino arrivati nel tempo medesimo, il re,
inclinato piú alla concordia con Cesare, e però deliberato di
aspettare la risposta sopra questo partito nuovo del quale il viceré
gli aveva dato speranza, cominciò apertamente a differire la
conclusione della confederazione: non dissimulando totalmente,
perché era impossibile tenerlo occulto, di trattare nuova concordia
con Cesare, la quale essendogli stata proposta dal viceré non poteva
fare nocumento alcuno l'udirla; e affermando efficacemente, benché
altrimenti avesse in animo, che non farebbe mai conclusione alcuna
se con la restituzione de' figliuoli non fusse anche congiunta la
relassazione del ducato di Milano e la sicurtà di tutta Italia. La
quale cosa sarebbe stata bastante a intepidire l'animo del pontefice
se, per il sospetto fisso nell'animo, non avesse giudicato che il
confederarsi col re di Francia fusse unico rimedio alle cose sue.
Ma è cosa maravigliosa quanto l'animo di Cesare si perturbasse
ricevuto che ebbe l'avviso del viceré, e intesa la esposizione del
segretario franzese; perché gli era molestissimo cadere della
speranza della recuperazione della Borgogna desiderata sommamente da
lui, per la amplificazione della sua gloria e per la opportunità di
quella provincia a cose maggiori. Indegnavasi grandemente che il re
di Francia, partendosi dalle promesse e dalla fede data, facesse
dimostrazione manifesta a tutto il mondo di disprezzarlo; e gli
pungeva anche l'animo non mediocremente una certa vergogna che,
avendo contro al consiglio di quasi tutti i suoi, contro al giudicio
universale di tutta la corte, contro a quello che, poi che si era
inteso l'accordo fatto, gli era stato predetto di Fiandra da madama
Margherita sorella del padre suo e da tutti i ministri suoi di
Italia, misurata male la importanza e la condizione delle cose, si
fusse persuaso che il re di Francia avesse a osservare. Ne' quali
pensieri, calcolato diligentemente quel che convenisse alla degnità
propria e in quali pericoli e difficoltà rimanessino in qualunque
caso le cose sue, deliberò di non alterare il capitolo che parlava
della restituzione di Borgogna: piú presto, concordandosi col
pontefice, consentire alla reintegrazione di Francesco Sforza, come
se piú fusse secondo il decoro suo perdonare a uno principe minore
che, cedendo alla volontà di uno principe potente ed emulo della
grandezza sua, fare quasi confessione di timore; piú presto avere la
guerra pericolosissima con tutti che rimettere la ingiuria ricevuta
dal re di Francia. Perché dubitava che il pontefice, vedendo essere
stata sprezzata l'amicizia sua, non avesse alienato totalmente
l'animo da lui; e gli accresceva il sospetto lo intendere che oltre
allo avere mandato uno uomo in Francia a congratularsi, vi mandava
publicamente uno imbasciadore; e molto piú che nuovamente aveva
condotto a' soldi suoi, sotto colore di assicurare le marine dello
stato della Chiesa dai mori, Andrea Doria con otto galee e con
trentacinquemila ducati di provisione l'anno: la quale condotta, per
la qualità della persona e per non avere mai prima il pontefice
pensato a potenza marittima, e per essere egli stato piú anni agli
stipendi del re di Francia, gli dava sospizione non fusse fatta con
intenzione di turbare le cose di Genova. Però, preparandosi a
qualunque caso, fece in uno tempo medesimo molte provisioni:
sollecitò la passata in Italia del duca di Borbone, la quale prima
procedeva lentamente, ordinando che di Italia venissino a Barzalona
sette galee sue che erano a Monaco per aggiugnerle alle tre galee di
Portondo, e sollecitando che in Italia portasse provisione di
centomila ducati, perché l'andata sua senza denari sarebbe stata
vana; destinò don Ugo di Moncada al pontefice, con commissione,
secondo publicava, da sodisfargli: ma questo limitatamente, perché
volle andasse prima alla corte del re di Francia, acciò che, inteso
dal viceré se vi era speranza alcuna che il re volesse osservare, o
non passasse piú innanzi o, passando, variasse le commissioni
secondo lo stato e la necessità delle cose.
Ma a ogni consiglio salutifero del pontefice si opponeva il pericolo
dello arrendersi il castello di Milano, già vicino alla consunzione;
il timore che tra il re di Francia e Cesare non si stabilisse, con
qualche mezzo, la congiunzione; la incertitudine di quel che avesse
a partorire la venuta di don Ugo di Moncada, nella quale era
sospetto l'avere prima a passare per la corte di Francia; sospette
di poi, quando bene passasse in Italia, le simulazioni e le arti
loro. Però, sollecitando insieme co' viniziani la conclusione della
confederazione, il re finalmente, poiché per la venuta di don Ugo
ebbe compreso Cesare essere alieno da alterare gli articoli della
capitolazione, temendo che il differire piú a confederarsi non
inducesse il pontefice a nuove deliberazioni, e giudicando che per
questa confederazione sarebbeno appresso a Cesare in maggiore
esistimazione le cose sue, e che forse il timore piegherebbe in
qualche parte l'animo suo, stimolato ancora a questo medesimo dal re
d'Inghilterra, il quale piú con le persuasioni che con gli effetti
favoriva questa conclusione, ristrinse le pratiche della lega. La
quale il decimosettimo dí di maggio dell'anno
millecinquecentoventisei si conchiuse, in Cugnach, tra gli uomini
del consiglio procuratori del re da una parte, e gli agenti del
pontefice e de viniziani dall'altra, in questa sentenza: che tra il
pontefice il re di Francia i viniziani e il duca di Milano (per il
quale il pontefice e i viniziani promesseno la ratificazione) fusse
perpetua lega e confederazione, a effetto di fare lasciare libero il
ducato di Milano a Francesco Sforza e di ridurre in libertà i
figliuoli del re: che a Cesare si intimasse la lega fatta, e fusse
in facoltà sua di entrarvi in termine di tre mesi, restituendo i
figliuoli al re, ricevuta per la liberazione loro una taglia onesta
che avesse a essere dichiarata dal re di Inghilterra, e rilasciando
anche il ducato di Milano interamente a Francesco Sforza, e gli
altri stati di Italia nel grado che erano innanzi si cominciasse
l'ultima guerra: che di presente, per la liberazione di Francesco
Sforza assediato nel castello di Milano e per la ricuperazione di
quello stato, si movesse la guerra con ottocento uomini d'arme
settecento cavalli leggieri e ottomila fanti per la parte del
pontefice, e per la parte de viniziani con ottocento uomini d'arme
mille avalli leggieri e ottomila fanti, e del duca di Milano con
quattrocento uomini d'arme trecento cavalli leggieri e quattromila
fanti, come prima ne avesse la possibilità; e intratanto mettessino
per lui i quattromila fanti il pontefice e i viniziani: il re di
Francia mandasse subito in Italia cinquecento lance, e durante la
guerra pagasse ogni mese al pontefice e a' viniziani quarantamila
scudi, co' quali si conducessino fanti svizzeri: che il re rompesse
subito la guerra a Cesare di là da i monti, da quella banda che piú
gli paresse opportuno, con esercito almanco di dumila lance e di
diecimila fanti e numero sufficiente d'artiglierie; armasse dodici
galee sottili e i viniziani tredici a spese proprie; unisse il
pontefice a queste le galee con le quali aveva condotto Andrea
Doria; e che la spesa delle navi necessarie per detta armata fusse
comune; con la quale armata si navigasse contro a Genova; e dipoi
vinto o indebolito in Lombardia l'esercito cesareo si assaltasse
potentemente per terra e per mare il reame di Napoli; del quale,
quando si acquistasse, avesse a essere investito re chi paresse al
pontefice, benché in uno capitolo separato si aggiugnesse che non
potesse disporne senza consenso de' collegati, riservatogli
nondimeno i censi antichi che soleva avere la sedia apostolica e uno
stato per chi paresse a lui, di entrata di quarantamila ducati: che,
acciò che il re di Francia avesse certezza che la vittoria che si
ottenesse in Italia e l'acquisto del reame di Napoli faciliterebbe
la liberazione de' figliuoli, che in tale caso, volendo Cesare infra
quattro mesi dopo la perdita di quel reame entrare nella
confederazione con le condizioni soprascritte, gli fusse restituito,
ma non accettando questa facoltà, avesse il re di Francia in
perpetuo sopra il reame di Napoli uno censo di ducati
settantacinquemila l'anno: non potesse il re di Francia, in tempo
alcuno né per qualunque cagione, molestare Francesco Sforza nel
ducato di Milano, anzi fusse obligato insieme con gli altri a
difenderlo contro a ciascuno e a procurare quanto potesse che tra i
svizzeri e lui si facesse nuova confederazione, ma avesse da lui
censo annuo di quella quantità che paresse al pontefice e a'
viniziani, non potendo però arbitrare manco di cinquantamila ducati
l'anno: avesse Francesco Sforza a ricevere ad arbitrio del re moglie
nobile di sangue franzese, e fusse obligato ad alimentare
condecentemente Massimiliano Sforza suo fratello in luogo della
pensione annua la quale riceveva dal re: fusse restituita al re la
contea di Asti, e ricuperandosi Genova vi avesse quella superiorità
che vi soleva avere per il passato; e che volendo Antoniotto Adorno,
che allora ne era doge, accordarsi con la lega, fusse accettato, ma
riconoscendo il re di Francia per superiore, nel modo che pochi anni
innanzi aveva fatto Ottaviano Fregoso: che da tutti i collegati
fusse richiesta a Cesare la restituzione de' figliuoli regi, e
ricusando farlo gli fusse dinunziato, in nome di tutti, che i
confederati non pretermetterebbeno cosa alcuna per conseguirla; e
che finita la guerra di Italia, o almanco preso il regno di Napoli,
e indebolito talmente lo esercito cesareo che e' non fusse da
temerne, fussino obligati aiutare il re di Francia di là da' monti
contro a Cesare, con mille uomini d'arme mille cinquecento cavalli
leggieri e diecimila fanti, o di danari in luogo delle genti, a
elezione del re: non potesse alcuno de' confederati senza
consentimento degli altri convenire con Cesare; al quale fusse
permesso, in caso entrasse nella confederazione, andare a Roma per
la corona imperiale, con numero di gente non formidabile, da
dichiararsi dal pontefice e da' viniziani: che morendo eziandio
alcuno de' collegati la lega restasse ferma, e che il re di
Inghilterra ne fusse protettore e conservatore, con facoltà di
entrarvi; ed entrandovi si desse a lui nel regno di Napoli uno stato
di entrata annua di ducati trentacinquemila, e uno di diecimila, o
nel regno medesimo o in altra parte d'Italia, al cardinale
eboracense. Recusò il pontefice che in questa confederazione fusse
compreso il duca di Ferrara, ancora che desiderato dal re di Francia
e da' viniziani; anzi ottenne che nella confederazione si
esprimesse, benché sotto parole generali, che i confederati fussino
obbligati ad aiutarlo alla recuperazione di quelle terre delle quali
era in disputa con la Chiesa. De' fiorentini non fu dubbio che
effettualmente non fussino compresi nella confederazione, disegnando
il pontefice non solo valersi delle genti d'arme e di tutte le forze
loro ma ancora di fargli concorrere seco, anzi sostentare per la
maggiore parte le spese della guerra: ma per non turbare a quella
nazione i commerci che avevano nelle terre suddite a Cesare, né
mettere in pericolo i mercatanti loro, non furono nominati come
principalmente collegati ma detto solamente che, per rispetto del
pontefice, godessino tutte le esenzioni privilegi e benefici della
confederazione come espressamente compresi, promettendo il pontefice
per loro che per modo alcuno non sarebbeno contro alla lega. Né si
providde chi avesse a essere capitano generale dello esercito e
della guerra, perché la brevità del tempo non patí che si disputasse
in sulle spalle di chi, per l'autorità e qualità sua, e per essere
confidente di tutti, fusse bene collocato tanto peso, non essendo
massime facile trovare persona in chi concorressino tante
condizioni.
Stipulata la lega, il re, il quale non aveva ancora in fatto rimosso
l'animo dalle pratiche col viceré di Napoli, differí di ratificarla
e di dare principio alla espedizione delle genti d'arme e de'
quarantamila ducati per il primo mese, insino a tanto venisse la
ratificazione del pontefice e de' viniziani; la quale dilazione
benché turbasse la mente loro, nondimeno, strignendoli a andare
innanzi le medesime necessità, fatta la ratificazione, deliberorno
di cominciare subitamente, sotto titolo di volere soccorrere il
castello di Milano, la rottura della guerra. E però il pontefice, il
quale prima aveva mandato a Piacenza con le sue genti d'arme e con
cinquemila fanti il conte Guido Rangone governatore generale dello
esercito della Chiesa, vi mandò di nuovo con altri fanti e con le
genti d'arme de' fiorentini Vitello Vitelli, che ne era governatore,
e Giovanni de' Medici, quale fece capitano generale della fanteria
italiana; e per luogotenente suo generale nello esercito e in tutto
lo stato della Chiesa, con pienissima e quasi assoluta potestà,
Francesco Guicciardini, allora presidente della Romagna. E i
viniziani da altra parte augumentorno l'esercito loro, del quale era
capitano generale il duca d'Urbino e proveditore Pietro da Pesero,
fermandolo a Chiari in bresciano, con commissione che l'uno e
l'altro esercito procedesse al danno de' cesarei senza rispetto o
dilazione alcuna.
Lib.17, cap.4
Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col duca di
Milano. Tentativi di accordi di Ugo di Moncada a nome di Cesare col
pontefice. Lettere di Antonio de Leva intercette dal luogotenente
del pontefice. Attesa in Italia di soldati svizzeri e ragioni del
loro ritardo. Tumulti provocati a Milano dai capitani cesarei.
Era intratanto arrivato a Milano don Ugo di Moncada; il quale,
benché la lega stipulata fusse ancora occulta al viceré e a lui,
nondimeno, diffidando per le risposte del re che le cose si
potessino piú ridurre alla sodisfazione di Cesare aveva seguitato il
suo cammino in Italia: dove, menato seco nel castello il
protonotario Caracciolo, fatta al duca ampia fede della benignità di
Cesare, lo tentò che si rimettesse alla volontà sua. Ma rispondendo
il duca che, per le ingiurie fattegli dai suoi capitani, era stato
necessitato a ricorrere agli aiuti del pontefice e de' viniziani,
senza partecipazione de' quali non era conveniente disponesse di se
medesimo, gli dette don Ugo speranza la intenzione di Cesare essere
che le imputazioni che egli erano date si vedessino sommariamente
per il protonotario Caracciolo, prelato confidentissimo a lui;
accennando farsi questo piú presto per restituirgli lo stato con
maggiore conservazione della riputazione di Cesare che per altra
cagione, e che parlato che avesse col pontefice darebbe perfezione a
queste cose: e nondimeno non consentí che prima si levasse
l'assedio, e si promettesse di non innovare cosa alcuna, come il
duca faceva instanza. Credettesi, e cosí divulgò poi la fama, che le
facoltà date da Cesare a don Ugo fussino molto ampie, non solo di
convenire col pontefice con la reintegrazione del duca di Milano ma
eziandio di convenire col duca solo, assicurandosi che, restituito
nello stato, non nocesse alle cose di Cesare; ma non commesso cosí
se non con limitazione di quello che consigliassino i tempi e la
necessità; e che don Ugo, considerando in che estremità fusse
ridotto il castello, e che la concordia col duca non giovava alle
cose di Cesare se non quanto fusse mezzo a stabilire la concordia
col pontefice e co' viniziani, giudicasse inutile il comporre con
lui solo. Feciono dipoi don Ugo e il protonotario condurre a Moncia
il Morone, che era prigione nella rocca di Trezo piú presto perché
il protonotario pigliasse informazione da lui, avendo a essere
giudice della causa, che per altra cagione.
Da Milano andò da poi don Ugo a Roma, avendo prima scritto a Vinegia
che mandassino autorità sufficiente allo oratore loro di Roma per
potere trattare le cose occorrenti: dove arrivato si presentò
insieme col duca di Sessa innanzi al pontefice, proponendogli con
parole magnifiche essere in potestà sua accettare la pace o la
guerra; perché Cesare, ancora che per la sua buona mente avesse
inclinazione piú alla pace, era nondimeno e con l'animo e con le
forze parato e a l'una e a l'altra. A che avendogli risposto il
pontefice generalmente, dolendosi però che i mali termini usati seco
dai suoi ministri e la tardità della venuta sua fussino cagione che,
dove prima era libero di se medesimo, si trovasse ora obligato ad
altri, ritornati a lui il dí seguente, gli esposeno la intenzione di
Cesare essere: lasciare libero il ducato di Milano a Francesco
Sforza, deponendosi però il castello in mano del protonotario
Caracciolo insino a tanto che, per onore di Cesare, avesse
conosciuto la causa, non sostanzialmente, ma per apparenza e
cerimonia; terminare con modo onesto le differenze sue co'
viniziani; levare lo esercito di Lombardia co' pagamenti altre volte
ragionati; né, in contracambio di queste cose, ricercare altro da
lui se non che non si intromettesse tra Cesare e il re di Francia. A
questa proposta rispose il pontefice: credere che e' fusse noto a
tutto il mondo quanto avesse sempre desiderato di conservare
l'amicizia con Cesare, né avere mai ricercatolo di maggiori cose di
quelle che spontaneamente gli offeriva; le quali, desiderando lui
piú il bene comune che lo interesse proprio, non potevano essere piú
secondo la sua sodisfazione: continuare e ora nel medesimo
proposito, ancora che gli fussino state date molte cagioni di
alterarlo; e nondimeno udire al presente con maggiore molestia
d'animo che le gli fussino concedute che non aveva udito quando gli
erano state denegate, perché non era piú in potestà sua, come era
stato prima, di accettarle: il che non essere proceduto per colpa
sua ma per l'avere Cesare tardato tanto a risolversene: la quale
[tardità] aveva causato che, non gli essendo mai stata porta
speranza alcuna di assicurare le cose comuni d'Italia, e in questo
mezzo [vedendo] consumarsi il castello di Milano, era stato
necessitato, per la salute sua e degli altri, confederarsi col re di
Francia; senza il quale, non volendo mancare alla osservanza della
fede, non poteva piú determinare cosa alcuna. Nella quale risposta
avendo, non ostante molte replicazioni in contrario, perseverato
costantemente, don Ugo, poiché gli ebbe parlato piú volte invano,
malcontento, ed egli e i capitani imperiali, che, esclusa la
speranza della pace, le cose tendessino a manifesta guerra, la
quale, per la potenza della lega e per le condizioni disordinate che
avevano, riputavano molto difficile il sostenere, [se ne andò nelle
terre dei Colonnesi].
Furono dal luogotenente del pontefice intercette lettere che Antonio
de Leva scriveva al duca di Sessa, avvisandolo della mala
disposizione del popolo di Milano, e che la cosa non teneva altro
rimedio che l'aiuto di Dio; e lettere di lui medesimo e del marchese
del Guasto scritte a don Ugo dopo la partita sua da Milano, dove lo
sollecitavano della pratica dello accordo, facendo instanza che e'
gli avvisasse subito del seguito, con ricordargli il pericolo loro e
dello esercito di Cesare.
Ma non era già tanta confidenza negli animi di chi aveva a disporre
delle forze della lega quanto era il timore de' capitani imperiali.
Perché il duca di Urbino, nel quale aveva in fatto a consistere il
governo degli eserciti, per il titolo di capitano generale che aveva
delle genti viniziane, e per non vi essere uomo eguale a lui di
stato, di autorità e di reputazione, stimando forse piú che non era
giusto la virtú delle genti spagnuole e tedesche e diffidando
smisuratamente de' soldati italiani, aveva fisso nello animo di non
passare il fiume della Adda se con l'esercito non erano almanco
cinquemila svizzeri; anzi dubitando che, se solamente con le genti
de' viniziani passava il fiume dell'Oglio, gli imperiali passassino
Adda e andassino ad assaltarlo, faceva instanza che lo esercito
ecclesiastico, che già era a Piacenza, passato il Po sotto Cremona,
si andasse a unire con quello de' viniziani, per accostarsi poi a
Adda e aspettare in su le rive di quel fiume e in alloggiamento
forte la venuta de' svizzeri. La quale, oltre alla natura loro,
aveva riscontrato in molte difficoltà, essendo stata data
imprudentemente al castellano di Mus e al vescovo di Lodi la cura
del condurli: perché la vanità del vescovo di Lodi era poco efficace
a questo maneggio, e il castellano era intento principalmente a
fraudare una parte de' danari mandatigli per pagarne i svizzeri; né
avevano, l'uno o l'altro di loro, tanta autorità appresso a quella
nazione che fusse bastante a farne levare, massime con sí piccola
quantità di danari, numero sí grande, cosí presto come sarebbe stato
di bisogno; e questa anche si corrompeva per la emulazione nata tra
loro, intenti piú ad ambizione e a gli interessi particolari che ad
altro. Aggiunsono anche qualche difficoltà gli agenti che erano per
il re di Francia nelle leghe di Elvezia, perché non avevano notizia
quale fusse sopra questa cosa la mente del re né se era contraria o
conforme alla sua intenzione; perché, non per inavvertenza ma
studiosamente, per quegli consigli che spesso parendo molto prudenti
riescono troppo acuti, si era pretermesso di dare notizia al re di
questa espedizione. Perché Alberto Pio, oratore regio appresso al
pontefice, aveva dimostrato essere pericolo che se il re intendesse,
innanzi alla conclusione della lega, l'ordine dato di soldare i
svizzeri non andasse piú tardo a conchiuderla, parendogli già a ogni
modo che senza lui fusse cominciata dal pontefice e da' viniziani la
guerra con Cesare. Cosí ritardandosi la venuta de' svizzeri si
ritardava il piú principale e il piú potente de' fondamenti
disegnati per soccorrere il castello di Milano, non ostante che il
vescovo e il castellano della venuta loro prestissima dessino
quotidianamente certa e presentissima speranza.
Ma i capitani cesarei, poi che veddeno prepararsi scopertamente la
guerra, per non avere in uno tempo medesimo a combattere con gli
inimici di dentro e di fuora, [deliberorono] di assicurarsi del
popolo di Milano; il quale diventando ogni dí piú insolente non solo
negava loro tutte le provisioni dimandavano, ma eziandio se alcuno
de' soldati spagnuoli fusse trovato per la città separato dagli
altri era ammazzato da i milanesi. Captata adunque occasione dai
disordini che si facevano per la terra, dimandorno che alcuni
capitani del popolo si uscissino di Milano; donde nata sollevazione
furono alcuni spagnuoli che andavano per Milano ammazzati da certi
popolari: e però Antonio de Leva e il marchese, fatto tacitamente
accostare le genti a Milano, protestato non essere piú obligati agli
accordi fatti a' dí passati, il dí decimosettimo di giugno fatto
ammazzare in loro presenza, per dare principio al tumulto, uno della
plebe che non aveva fatto loro reverenza, e dopo lui tre altri, e
usciti degli alloggiamenti con una squadra di fanti tedeschi,
detteno cagione al popolo di dare all'armi. Il quale, se bene nel
principio sforzò la corte vecchia e il campanile del vescovado dove
era guardia di fanti italiani, combattendo alla fine senza ordine,
come fanno i popoli imperiti, piú con le grida che con l'armi, ed
essendo offesi molto dagli scoppiettieri, posti ne' luoghi eminenti
che prima avevano occupati, ne erano feriti e ammazzati molti di
loro: in modo che, crescendo continuamente i disordini e il terrore,
e avendo i fanti tedeschi cominciato a mettere fuoco nelle case
vicine, e già approssimandosi alla città le fanterie spagnuole
chiamate da capitani, il popolo, temendo degli estremi mali,
convenne che i suoi capitani e molti altri de' popolari, i quali vi
consentirono, si partissino di Milano, e che la moltitudine
deponesse l'armi sottomettendosi alla obbedienza de' capitani. I
quali accelerorono di fare cessare con queste condizioni il tumulto
innanzi che i fanti spagnuoli entrassino dentro, dubitando che, se
entravano mentre che l'una e l'altra parte era in su l'armi, non
fusse in potestà loro di raffrenare l'impeto militare che la non
andasse a sacco: dalla quale cosa aveano l'animo alieno, e per
timore che lo esercito arricchito di sí grossa preda non si
dissolvesse o diminuisse notabilmente, come perché, considerando la
carestia de' danari e l'altre difficoltà che arebbeno nella guerra,
giudicavano essere piú utile conservare quella città, per potervi
lungamente dentro pascere lo esercito, che consumare in uno giorno
tutto il nervo e lo spirito che aveva.
Lib.17, cap.5
Acquisto di Lodi da parte dei collegati. Importanza di tale
acquisto; attesa degli svizzeri e spostamenti dell'esercito
veneto-pontificio; dispareri fra i capi dell'esercito. Arrivo di
soldati svizzeri all'esercito dei collegati; deliberazione di
accostarsi a Milano per gli aiuti al castello.
Pareva adunque che le cose della lega non procedessino con quella
prosperità che gli uomini si avevano promesso da principio,
essendosi già trovate tante difficoltà nella venuta de' svizzeri e
mancato il fondamento del popolo di Milano. Ma nuovo accidente che
sopravenne gli rendé la riputazione e la facilità del vincere molto
maggiore e piú manifesta che prima. Eransi, in tanta mala
contentezza anzi nella estrema disperazione del ducato di Milano,
tenute, già qualche mese, per mezzo di varie persone, diverse
pratiche di novità quasi in ogni città di quello stato; ma riuscendo
l'altre vane, ne ebbe effetto una, tenuta dal duca d'Urbino e dal
proveditore viniziano, nella città di Lodi, con Lodovico Vistarino
gentiluomo di quella città. Il quale, movendosi o per essere stato
antico servidore della casa Sforzesca o dalla compassione della sua
patria, trattata da Fabbrizio Maramaus, colonnello di mille
cinquecento (il Capella dice di settecento) fanti napoletani, con la
medesima asperità che dagli spagnuoli e da i tedeschi era trattato
Milano, deliberò di mettere dentro le genti de' viniziani, non
ostante che (secondo scrive il Capella) fusse soldato degli
imperiali: ma egli affermava, e il duca di Urbino lo confermava, che
aveva prima dimandato e ottenuto licenza, sotto escusazione di non
potere piú intrattenere senza danari i fanti a' quali era preposto.
L'ordine della cosa fu stabilito in questo modo: che la notte de'
ventiquattro di giugno, Malatesta Baglione, con tre o quattromila
fanti de' viniziani, si accostasse, quasi in sul fare del dí, alle
mura, dalla banda di certo bastione, per essere messo dentro dal
Vistarino. Il quale poco [innanzi], accostatosi con due compagni a
quello bastione il quale guardavano sei fanti, come per rivedergli,
e seguitato da alcuni i quali aveva occultati in certe case vicine,
occupò il bastione, ammazzate (secondo scrive il Capella) con tanta
prestezza le guardie che non fu sentito strepito alcuno; perché, se
bene aveva dato prima il nome secondo il costume militare, essi
sospettando erano venuti seco all'armi: né fu senza pericolo,
essendo concorsi alcuni allo strepito, di non riperdere il bastione,
perché cominciorno a combattere; nella quale quistione Lodovico fu
ferito. Ma essendo già ridotto all'ultima necessità, arrivò
Malatesta con le genti; le quali salite in sul bastione medesimo con
le scale entrorono nella terra: donde Fabrizio Maramaus, il quale,
sentito lo strepito, veniva verso le mura con una parte de' suoi
fanti, fu costretto a ritirarsi nella rocca. La terra fu vinta; e la
piú parte de' suoi fanti, che erano alloggiati separatamente per la
città, svaligiati e fatti prigioni. Nella quale arrivò non molto
poi, con una parte delle genti, il duca di Urbino; il quale essendo,
per approssimarsi piú, il dí precedente andato ad alloggiare a Orago
in sul fiume dell'Oglio, e passatolo per ponte fatto a tempo la
notte medesima, come intese l'entrata di Malatesta passò per ponte
simile il fiume dell'Adda, e posto in Lodi maggiore presidio perché
si difendesse se per la rocca entrava soccorso, ritornò subito
all'esercito: ma non perciò vi andò, secondo riferiva Pietro da
Pesero, senza qualche titubazione e perplessità. Ma venuto l'avviso
a Milano, il marchese del Guasto con alcuni cavalli leggieri e con
tremila fanti spagnuoli, co' quali era Giovanni d'Urbina, si spinse
a Lodi senza tardare; e messa la fanteria senza ostacolo per la
porta del soccorso nella rocca, situata in modo che si poteva
entrarvi per una via coperta naturale, senza pericolo di essere
battuto o offeso, da i fianchi della città (essendo già, come io
credo, statovi e partito il duca di Urbino), dalla rocca entrò
subito nella città, e si condusse insino in sulla piazza; in sulla
quale la gente menata da Malatesta e il rinfrescamento che era
venuto poi aveva fatto la sua testa, poste in guardia molte case e
la strada che andava alla porta donde erano entrati, per potersene
uscire salvi se gli imperiali gli soprafacessino. Combattessi al
principio gagliardamente, e fu opinione di molti che se gli
spagnuoli avessino perseverato nel combattere arebbeno ricuperato
Lodi; perché i soldati viniziani, ne' quali per l'ordinario non era
molta virtú, si trovavano assai stracchi. Ma il marchese diffidando,
o per avervi trovato piú numero di gente che da principio non aveva
creduto o per immaginarsi che lo esercito viniziano fusse propinquo,
si staccò presto dal combattere, e lasciata la guardia nel castello
si ritirò a Milano. Sopravenne dipoi il duca d'Urbino, il quale si
gloriava di avere fatto passare l'esercito, senza fermarsi, per
ponti in su due fiumi grossi; e attese a stabilire piú la vittoria,
ingrossandovi di gente, per resistere se gli inimici di nuovo vi
ritornassino, e facendovi piantare l'artiglierie; ma quegli di
dentro, perché non aspettavano soccorso e potevano difficilmente
difendere il castello, capace per il piccolo circuito di poca gente,
la notte seguente, essendo raccolti da i cavalli che a questo
effetto furno mandati da Milano, abbandonorono il castello.
Lo acquisto di Lodi fu di grandissima opportunità e di riputazione
non minore alle cose della lega, perché la città era bene
fortificata e una di quelle che sempre si era disegnato che gli
imperiali avessino a difendere insino allo estremo. Da Lodi si
poteva, senza alcuno ostacolo, andare insino in su le porte di
Milano e di Pavia; perché queste città, situate come in triangolo,
sono vicine l'una a l'altra venti miglia (però gli imperiali vi
mandorono subito da Milano mille cinquecento fanti tedeschi); e
trovavasi guadagnato il passo d'Adda, che prima era riputato di
qualche difficoltà; levato ogni impedimento dell'unione degli
eserciti; tolta la facoltà di soccorrere, quando fusse assaltata,
Cremona (nella quale città era a guardia il capitano Curradino con
mille cinquecento fanti tedeschi); e privati gli inimici di uno
luogo opportunissimo a travagliare lo stato della Chiesa e quello
de' viniziani: donde era voce comune per tutto l'esercito che,
procedendosi innanzi con prestezza, gli imperiali si ridurrebbono in
grandissima perplessità e confusione. Ma altrimenti sentiva il duca
d'Urbino, già risoluto che l'accostarsi a Milano senza una grossa
banda di svizzeri fusse cosa di molto pericolo. Ma non volendo
scoprire agli altri totalmente questa sua opinione, deliberò, con
fare poco cammino e soprasedere sempre almanco uno dí per
alloggiamento, dare tempo alla venuta de' svizzeri; sperando
dovessino arrivare allo esercito in pochissimi dí, e disprezzando
tutto quello che si proponeva fusse da fare in caso non venissino,
non ostante che per i progressi succeduti insino a quel dí fusse da
dubitarne. Perciò, essendo lo esercito ecclesiastico, il dí dopo
l'acquisto di Lodi, andato ad alloggiare a San Martino, a tre miglia
appresso a Lodi, fu conchiuso nel consiglio comune che, soprastati
ancora uno dí gli ecclesiastici e i viniziani ne' medesimi
alloggiamenti, andassino poi il dí prossimo ad alloggiare a Lodi
Vecchio, lontano da Lodi cinque miglia (dove dicono essere stato
edificato Lodi da Pompeio magno) e distante tre miglia dalla strada
maestra verso Pavia, a cammino che accennava a Milano e a Pavia, per
tenere in piú sospensione i capitani imperiali: il quale dí gli
eserciti ecclesiastici e viniziani camminando si unirono in su la
campagna, pari quasi di fanteria (che in tutto erano poco manco di
ventimila fanti), ma i viniziani piú abbondanti di genti d'arme e di
cavalli leggieri, de' quali gli ecclesiastici tuttavia si
provedevano, e ancora con molto maggiore provisione di artiglieria e
di munizioni e di tutte le cose necessarie. A Lodi Vecchio, dove si
dimorò il giorno seguente, mutato consiglio, fu deliberato di
camminare in futuro in su la strada maestra, per fuggire il paese
che fuora della strada è troppo forte di fosse e di argini, e perché
era riputato piú facile il soccorrere il castello per quella via,
che aveva a voltare verso porta Comasina, che per la via di
Landriano che aveva a voltare a porta Verzellina, dove il condursi,
per la qualità del paese, era piú difficile; e perché, andando da
quella banda era piú sicuro il condurre le vettovaglie e piú facile
il ricevere i svizzeri, perché erano piú alle spalle. Con questa
risoluzione si condusse, l'ultimo di giugno, l'esercito unito a
Marignano; dove consigliandosi quello si avesse a fare, inclinava il
duca d'Urbino ad aspettare la venuta de' svizzeri, la quale era
nella medesima e forse maggiore incertitudine che prima; parendogli
che senza queste spalle di ordinanza ferma fusse molto pericoloso,
con gente nuova e raccolta tumultuariamente, accostarsi a Milano;
benché vi fussino pochi cavalli, tremila fanti tedeschi e cinque in
seimila fanti spagnuoli, e questi senza denari e con poca provisione
di vettovaglie. Dal quale parere discrepavano i pareri di molti
degli altri capitani: i quali giudicavano che, procedendo con la
gente ordinata e con gli alloggiamenti sempre il dí precedente
riconosciuti, si potesse accostarsi a Milano senza pericolo, perché
il paese è per tutto sí forte che senza difficoltà si poteva sempre
alloggiare in sito munitissimo; né pareva loro verisimile che
l'esercito cesareo fusse per uscire in campagna ad assaltargli,
perché essendo necessario che e' lasciassino assediato il castello,
né potendo anche per sospetto del popolo spogliare al tutto di gente
la città di Milano, restava di numero troppo piccolo ad assaltare
uno esercito sí grosso; il quale, benché fusse raccolto nuovamente,
abbondava pure di molti fanti sperimentati alla guerra e dove erano
tanti capitani de' piú riputati di Italia. Ed essendo l'accostarsi a
Milano senza pericolo, non essere ancora senza speranza della
vittoria lo accostarsi: perché non essendo i borghi di Milano
fortificati, anzi, per la negligenza usata a riordinargli, aperti da
qualche parte, non pareva credibile che gli imperiali si avessino a
fermare a difendere circuito tanto grande (della quale [cosa] pareva
si vedessino indizi manifesti, con ciò sia che, atteso poco alla
riparazione de' borghi, si fussino tutti volti alla fortificazione
della città); e abbandonando i borghi, ne' quali l'esercito andrebbe
subito ad alloggiare, non pareva che la città potesse avere lunga
difesa; non solo per trovarsi lo esercito senza denari e con poca
vettovaglia, ma perché e Prospero Colonna e molti altri capitani
avevano sempre giudicato essere molto difficile il difendere Milano
contro a chi avesse occupato i borghi, si perché la città è
debolissima di muraglia (facendo muro in molti luoghi le case
private) sí eziandio perché i borghi sono vantaggiosi alla città: e
si aggiugneva l'avere il castello a sua divozione.
Dependevano principalmente questa e l'altre deliberazioni dal duca
di Urbino; perché, se bene fusse solamente capitano de' viniziani,
gli ecclesiastici, per fuggire le contenzioni e perché altrimenti
non si poteva fare, aveano deliberato di riferirsi a lui come a
capitano universale. Ma egli, benché non lo movessino queste ragioni
a andare innanzi, per le instanze efficacissime le quali, per ordine
de' loro superiori, gliene facevano il luogotenente del pontefice e
il proveditore viniziano (al parere de' quali poiché anche aderivano
molti altri capitani, gli pareva che il soprasedere quivi
lungamente, non avendo maggiore certezza della venuta de' svizzeri,
potesse essere con grave suo carico e infamia), però, sopraseduto
l'esercito due dí a Marignano, si condusse il terzo dí di luglio a
San Donato lontano cinque miglia da Milano, deliberato di andare
innanzi piú per sodisfare al desiderio e al giudizio di altri che
per propria deliberazione; ma con intenzione di mettere sempre uno
dí in mezzo tra l'uno alloggiamento e l'altro, per dare piú tempo
alla venuta de' svizzeri: de' quali mille, finalmente, scesi in
bergamasco, venivano alla via dello esercito; e continuavano,
secondo il solito, gli avvisi spessi della venuta degli altri. Però,
il quinto dí di luglio, andò l'esercito ad alloggiare a tre miglia
di Milano, passato San Martino, fuora di strada in su la mano
destra, in alloggiamento forte e bene sicuro; dove il dí medesimo si
fece una fazione piccola contro ad alcuni archibusieri spagnuoli
fattisi forti in una casa, e il dí seguente, stando il campo nel
medesimo alloggiamento, un altra simile: e il medesimo dí arrivorono
nel campo cinquecento svizzeri, condotti da Cesare Gallo. Quivi si
consultò del modo del procedere piú innanzi; e ancoraché la prima
intenzione fusse stata di andare dirittamente a soccorrere il
castello di Milano, dove le trincee che lo serravano di fuora non
erano sí gagliarde che non si potesse sperare di superarle,
nondimeno parve al duca d'Urbino, il consiglio del quale era alla
fine approvato da tutti gli altri (e che ne' consigli proponeva e
non aspettando che gli altri rispondessino diceva l'opinione sua, o
almanco nel proporre usava tali parole che per se stessa veniva a
scoprirsi, in modo che gli altri capitani non pigliavano assunto di
contradirgli) che gli eserciti camminassino per la diritta a' borghi
di Milano; allegando che, per le spianate che sarebbe necessario di
fare per la fortezza del paese, il volere condursi fuori della
strada maestra al soccorso del castello sarebbe cosa lunga né senza
pericolo di qualche disordine, perché si arebbe a mostrare troppo
dappresso il fianco agli inimici e si darebbe loro facoltà di fare
piú potente resistenza, perché unirebbeno tutte le forze loro dalla
banda del castello, dove, altrimenti, sarebbeno necessitati stare
divisi per resistere agli inimici e non abbandonare la guardia del
castello; e perché, conducendosi con gli eserciti a porta Romana,
sarebbe sempre in potestà de' capitani della lega voltarsi
facilmente, secondo che alla giornata apparisse essere opportuno, a
quale banda volessino. Secondo il quale consiglio si fece
deliberazione che il settimo dí si alloggiasse a Bufaleta e
Pilastrelli, ville vicine a mezzo miglio di Milano, sotto i tiri
dell'artiglierie loro, e le quali sono circostanti alla strada
maestra; con intenzione da quegli alloggiamenti pigliare i partiti
che fussino dimostrati buoni dall'occasione e da i progressi degli
inimici: i quali era opinione di molti che, veduto gli eserciti
alloggiati in luogo sí vicino, non avessino a volere mettersi alla
difesa, massime notturna, de' borghi, per essere in piú luoghi
ripieni i fossi e spianati i ripari, e da qualche banda tanto aperti
che difficilmente si potevano difendere.
Lib.17, cap.6
Arrivo del duca di Borbone con milizie spagnuole in Milano.
L'esercito veneto-pontificio sotto Milano; scaramuccie coi nemici.
Improvvisa deliberazione del duca d'Urbino di scostarsi da Milano.
Meraviglia generale per la ritirata dei collegati.
Ma la notte precedente al dí nel quale doveva farsi innanzi
l'esercito, il duca di Borbone, il quale pochi dí innanzi era
arrivato a Genova con sei galee e con lettere di mercatanti per
centomila ducati, entrò con circa ottocento o... fanti spagnuoli,
quali aveva condotti seco, in Milano; sollecitatone molto dal
marchese del Guasto e da Antonio de Leva: dalla venuta del quale i
soldati pigliorono molto animo. E per la medesima si potette
comprendere la negligenza o la fredda disposizione, studiosamente,
del re di Francia alla guerra. Perché avendo il pontefice, nel
principio quando condusse agli stipendi suoi Andrea Doria,
consultato seco con che forze e apparati si dovessino tentare le
cose di Genova, propose molta facilità tentandola in tempo che già
fusse cominciata la guerra nel ducato di Milano, e che con le sue
otto galee si congiugnessino le galee le quali il re di Francia
aveva nel porto di Marsilia, o che almanco impedissino la venuta,
con le galee, del duca di Borbone; perché, restando in tale caso con
le sue otto galee signore del mare, non poteva la città di Genova
stare molti dí col mare serrato per le mercatanzie, per gli esercizi
e per le vettovaglie: e benché il re promettesse che impedirebbe la
venuta del duca di Borbone furono parole vane, perché l'armata sua
non era in ordine, e i capitani delle galee, parte per carestia di
danari parte per negligenza e forse per volontà, erano stati
espediti tardi de' pagamenti; come poi anche succedette delle genti
d'arme.
Ma essendo incognita di fuori la venuta del duca di Borbone, la
deliberazione dello andare innanzi con l'esercito fu pervertita dal
duca di Urbino, o per avvisi ricevuti, secondo si credette, da
Milano o per relazione di qualche esploratore. Mutata la diffidenza
avuta insino a quel dí [in speranza] non minore, affermò al
luogotenente del pontefice, presente il proveditore veneto, tenere
per certo che il dí seguente sarebbe felicissimo; perché se gli
inimici uscivano a combattere (il che non credeva dovessino fare)
indubitatamente sarebbono vinti, ma non uscendo, che certamente, o
il dí medesimo abbandonerebbono Milano ritirandosi in Pavia o
almanco, abbandonata la difesa de' borghi, si ridurrebbono nella
città; la quale, perduti i borghi, non potrebbono totalmente
difendere: e ciascuna di queste tre cose bastare a conseguire la
vittoria della guerra. Però il dí seguente, che fu il settimo di
luglio, lasciato lo alloggiamento disegnato il dí dinanzi, con
speranza di guadagnare i borghi senza contrasto, e aspirando alla
gloria d'avergli presi camminando d'assalto, spinse qualche banda di
scoppiettieri a porta Romana e a porta Tosa; dove, non ostante gli
avvisi avuti i dí precedenti e il dí medesimo del volersi partire,
gli spagnuoli si erano fermi in quella parte de' borghi, non per
fare quivi, secondo si disse, continua resistenza ma per ritirarsi
in Milano piú presto come uomini militari, e con avere mostrato il
volto agli inimici, che volere che e' trovassino i borghi vilmente
abbandonati. Dalla quale resistenza non solo si conservava piú la
riputazione del loro esercito, essendo massime in facoltà sua
ritirarsi sempre nella città senza disordine, ma eziandio poteva
nascere loro occasione da pigliare animo a perseverare nella difesa
de' borghi; il che era di grandissima importanza, perché il
ritirarsi nella città era partito piú presto necessario che da
eleggere spontaneamente, e per l'altre ragioni e perché, riducendosi
dentro a circuito sí stretto, era piú facile impedire che
vettovaglie non entrassino in Milano; senza le quali non potevano,
per non essere ancora condotte le biade nuove, sostenersi
lungamente. Appresentatosi adunque [con] gli scoppiettieri alle due
porte, dove gli spagnuoli oltre al difendersi non cessavano
continuamente di lavorare, il duca, trovata, fuora dell'opinione che
aveva avuta, la resistenza, fece accostare a uno tiro di balestro a
porta Romana tre cannoni, quali piantati bravamente cominciò a
battere la porta e fare pruova di fare levare uno falconetto, il
quale fu levato; fece smontare molti de' suoi per dare l'assalto, e
ordinò si accostassino le scale: nondimeno, non continuando nel
proposito di dare l'assalto, si ridusse la fazione in scaramuccie
leggiere di scoppietti e di archibusi a' ripari; dove, avendo quelli
di dentro vantaggio grande rispetto al sito, furno morti di quegli
di fuora circa quaranta fanti e feritine molti. La porta era stata
battuta [con] molti colpi ma con poco danno per essere i cannoni
lontani: ma dicendo essere l'ora tarda ad alloggiare il campo non
dette l'assalto, e alloggiò lo esercito nel luogo medesimo, benché,
per la brevità del tempo, con qualche confusione; lasciò a' tre
cannoni buona guardia, e il resto del campo alloggiò quasi tutto a
mano destra della strada; sperando ciascuno molto della vittoria,
perché, per avvisi di molti e per relazione di prigioni presi da
Giovanni di Naldo soldato de' viniziani, si aveva nuove
gl'imperiali, caricate molte bagaglie, essere piú presto in moto di
partirsi che altrimenti; e a tempo arrivorno in campo la sera
medesima cannoni de' viniziani.
Ma si variò poco poi non solo la speranza ma tutto lo stato della
cosa. Perché essendo, quasi in su il principio della notte, usciti
fuora alcuni fanti spagnuoli ad assaltare l'artiglieria, furno
rimessi dentro da' fanti italiani che erano a guardia di quella:
ancora che il duca d'Urbino dicesse che erano stati messi in
disordine. Il quale, passate già poche ore della notte, trovandosi
ingannato dalla speranza conceputa che alle porte e a' ripari de'
borghi gli fusse stata fatta resistenza, e ritornandogli in
considerazione il timore che prima aveva della fanteria degli
inimici, fece precipitosamente deliberazione di discostarsi con lo
esercito; e cominciatala subito a mettere in esecuzione col dare
principio a fare partire l'artiglierie e le munizioni, e comandato
alle genti viniziane che si ordinassino per partirsi, mandò per il
proveditore a significare al luogotenente e ai capitani
ecclesiastici la deliberazione che aveva fatta; confortandogli a
fare anche essi, senza dilazione, il medesimo. Alla quale voce, come
di cosa non solo nuova ma contraria alla espettazione di ciascuno,
confusi e quasi attoniti, andorono a trovarlo, per intendere piú
particolarmente i suoi pensieri e fare pruova di indurlo a non si
partire. Il quale, con parole molto determinate e risolute, si
lamentò che contro al parere suo, solamente per sodisfare ad altri,
si fusse tanto accostato a Milano, ma che era piú prudenza
ricorreggere l'errore fatto che perseverarvi dentro; conoscere che,
per non essere stato per la brevità del tempo alloggiato il dí
dinanzi ordinatamente, e per la viltà de' fanti italiani
dimostratasi la sera medesima allo assalto delle artiglierie, che il
dimorare l'esercito quivi insino alla luce prossima sarebbe la
distruzione non solo della impresa ma di tutto lo stato della lega;
perché era sí certo vi sarebbeno rotti che, non ci avendo una minima
dubitazione, non voleva disputarla con alcuno; con ciò sia che
gl'imperiali avevano la sera medesima piantato uno sagro tra porta
Romana e porta Tosa, che batteva per fianco lo alloggiamento
pericolosissimo de' fanti de' viniziani, e che la notte medesima ne
pianterebbono degli altri, e come fusse il giorno, fatto dare
all'arme, e necessitato l'esercito a mettersi in ordinanza, lo
batterebbeno per fianco, e cosí disordinatolo, usciti fuora ad
assaltarlo, lo romperebbeno con grandissima facilità: dolergli che
la brevità del tempo, e lo essere nell'esercito suo molto maggiori
impedimenti di artiglierie e di munizioni che nello esercito
ecclesiastico, l'avesse costretto a cominciare prima a levarsi che a
comunicarlo con loro; ma ne' partiti che si pigliano per necessità
essere superfluo il fare escusazione: avere fatto maggiore
esperienza che avesse fatto mai capitano alcuno, essendosi messo di
cammino a dare lo assalto a Milano; bisognare ora usare la prudenza,
né disperare, per la ritirata, della vittoria della impresa: essersi
Prospero Colonna, e con forse manco giuste cagioni, levato da Parma
già mezza presa; e nondimeno avere poco poi gloriosamente acquistato
tutto il ducato di Milano: confortare gli ecclesiastici a seguitare
la sua deliberazione, né differire il levarsi; perché replicava loro
di nuovo che, trovandogli il sole in quello alloggiamento,
resterebbeno rotti senza rimedio; e che però ciascuno ritornasse
allo alloggiamento di San Martino. Rispose il luogotenente che,
benché ciascuno pensasse le deliberazioni sue essere fatte con somma
prudenza, nondimeno che nessuno di quegli capitani conosceva cagione
che necessitasse a levarsi con tanta prestezza; e ridurgli in
memoria quel che, veduta la ritirata loro, farebbe il duca di Milano
disperato di essere soccorso; quanto animo perderebbeno il pontefice
e i viniziani, e le imaginazioni che per la declinazione delle
imprese, massime ne' princípi, sogliono nascere nelle menti de'
príncipi; potersi, se lo alloggiamento fatto disordinatamente era
causa di tanto pericolo, rimediarvi facilmente, senza tôrre tanta
riputazione a quello esercito, con lo alloggiarlo di nuovo con
migliore ordine e con discostarlo tanto che bastasse ad assicurarlo
da' sagri piantati dagli inimici. Confermò il duca di nuovo la prima
conclusione; né potersi, secondo la ragione della guerra, pigliare
altra deliberazione: volere assumere in sé questo carico, e che e'
si sapesse per tutto il mondo egli esserne stato autore: né essere
bene consumare piú il tempo vanamente in parole, perché era
necessario essersi levati innanzi alla fine della notte. Con la
quale conclusione ciascuno, tornato a' suoi alloggiamenti, attese a
espedirsi e a sollecitare la partita delle genti. Delle quali quelle
che erano dinanzi si levorono con tanto spavento che, partendosi
quasi con dimostrazione di essere rotti, si sfilorono molti fanti e
molti cavalli de' viniziani, de' quali alcuni non si fermorono
insino fussino condotti a Lodi; e l'artiglierie de' viniziani
passorono di là da Marignano, ma rivocate si fermorono quivi: il
resto della gente, e il retroguardo massime, partí ordinato. Né
volle Giovanni de' Medici, che con la fanteria ecclesiastica era
nella ultima parte dello esercito, muoversi insino a tanto non fusse
bene chiaro il giorno, non gli parendo conveniente riportarne in
cambio della sperata vittoria la infamia del fuggirsi di notte: il
che fare non essere stato necessario dimostrò l'esperienza, perché
degli imperiali non uscí alcuno fuora de' ripari ad assaltare la
coda dello esercito; anzi, avendo, come fu dí, veduto tanto
tumultuosa levata, restorono pieni di somma ammirazione, non sapendo
immaginarne la cagione. E accrebbe ancora la infamia di questa
ritirata che, benché il duca avesse detto volere che le genti si
fermassino a San Martino, nondimeno ordinò tacitamente che i maestri
del campo de' viniziani conducessino le loro a Marignano, mosso dal
timore o che gli inimici non andassino ad assaltarlo allora in
quello alloggiamento, o almeno, come esso medesimo confessò poi,
tenendo per certo che il castello di Milano, veduto discostarsi il
soccorso dimostrato (di che niuna cosa spaventa piú gli assediati),
s'avesse ad arrendere (nel quale caso non arebbe avuto ardire di
stare fermo a San Martino), giudicasse essere manco disonorevole
ritirarsi in una sola volta che fare in sí breve spazio di tempo due
ritirate: e però, non si fermando le artiglierie e le bagaglie e le
prime squadre dello esercito viniziano a San Martino, camminavano
verso Marignano. Di che ricercando il luogotenente di intendere dal
duca la cagione, rispose che non faceva, in quanto alla sicurtà,
differenza dall'uno all'altro, perché giudicava tanto sicuro dagli
inimici l'alloggiamento di San Martino quanto quello di Marignano;
ma essere per questo da anteporre l'alloggiamento di Marignano,
perché le genti stracche dalle fazioni dei dí precedenti, non
ricevendo quivi travagli dagli inimici, potrebbeno con piú comodità
riposarsi e riordinarsi. E replicandosi, quanto, nella sicurtà pari
dell'uno e dell'altro alloggiamento, togliesse piú la speranza del
soccorso agli assediati nel castello di Milano il ritirarsi
l'esercito a Marignano che se si fermasse a San Martino, rispose,
con parole concitate, non volere, mentre che aveva in mano il
bastone de viniziani, lasciare usare ad altri l'autorità sua; volere
andare ad alloggiare a Marignano. In modo che l'uno e l'altro
esercito, assai disonoratamente e con grandissimi gridi di tutti i
soldati, potendo usare, ma per contrario, le parole di Cesare: -
Veni, vidi, fugi - si condusse ad alloggiare a Marignano; con
deliberazione del duca di stare fermo quivi insino a tanto che nel
campo arrivassino non solo il numero di cinquemila svizzeri, a'
quali si erano ristrette le promesse del castellano di Mus e del
vescovo di Lodi (che nell'ora medesima che il campo si levava era
arrivato con cinquecento), ma eziandio tanti altri che facessino il
numero di dodicimila; perché giudicava non si potere fare piú
fondamento nel castello di Milano, non si potere o sforzare o
ridurre alla necessità di arrendersi quella città, per mancamento
delle cose necessarie, senza due eserciti, e ciascuno da per sé sí
potente che fusse bastante a difendersi da tutte le forze unite
degli inimici.
Cosí si ritirorno dalle mura di Milano gli eserciti l'ottavo di
luglio; commovendo molti non solo l'effetto della cosa ma eziandio
la infelicità dello augurio, perché il dí medesimo, di consentimento
comune de' collegati, si publicava a Roma a Vinegia e in Francia,
con le cerimonie e solennità consuete, la lega. E a giudizio della
maggiore parte degli uomini ebbe sí poca necessità il pigliare uno
partito di tanta ignominia che molti dubitassino che il duca non
fusse stato mosso da ordinazione occulta del senato viniziano, il
quale, a qualche proposito incognito agli altri, desiderasse la
lunghezza della guerra; altri dubitassino che il duca, ritenendo
alla memoria le ingiurie ricevute da Lione e dal presente pontefice
quando era cardinale, e temendo che la grandezza sua non gli
mettesse in pericolo lo stato, non gli fusse o per odio o per timore
grata la vittoria sí presta della guerra; massime che gli dava
giusta cagione di timore dello animo del pontefice il tenere i
fiorentini Santo Leo con tutto il Montefeltro, e sapere che la
piccola figliuola restata di Lorenzo de' Medici riteneva
continuamente il nome di duchessa d'Urbino. Nondimeno, il
luogotenente del pontefice si certificò per mezzi indubitatissimi
che a' viniziani fu molestissima la ritirata, e che non avevano
cessato mai di sollecitare lo accostarsi lo esercito a Milano
sperando molto nella facilità della vittoria; e considerato non
essere verisimile che il duca, se avesse sperato di ottenere Milano,
avesse voluto privarsi di gloria tanto maggiore di quella che molto
innanzi avesse avuto alcuno altro capitano, quanto era maggiore la
fama e la riputazione dello esercito imperiale di quella che molti
anni innanzi avesse avuto alcuno altro esercito in Italia (alla
quale gloria seguiva dietro quasi per necessità la sicurtà del suo
stato, perché il pontefice, e per fuggire tanta infamia e per non
fare tale offesa a' viniziani, non arebbe avuto ardire di
assaltarlo); e considerato anche diligentemente i progressi di tutti
quegli dí, ebbe per piú verisimile (nella quale sentenza concorsono
molti altri) che il duca, caduto dalla speranza la quale due giorni
innanzi aveva conceputa del dovere gl'imperiali abbandonare almanco
i borghi, ritornasse con tanta veemenza alla sua prima opinione (per
la quale aveva temuto piú le forze loro e piú diffidatosi della
virtú de' fanti italiani che non facevano gli altri capitani) che,
rappresentandosegli maggiore timore che agli altri, cadesse
precipitosamente in quella deliberazione.
Lib.17, cap.7
Preoccupazione del pontefice per le vicende della guerra e per il
pericolo di tumulti in Roma. Vano tentativo del pontefice di mutare
il governo in Siena; milizie pontificie, fiorentine e di fuorusciti
sotto le mura della città.
Confuse questa ritirata molto il pontefice e i viniziani, condotti
già con la speranza in termine che di dí in dí aspettavano l'avviso
dello acquisto di Milano, ma il pontefice massime, non preparato né
co' denari né con la costanza dell'animo alla lunghezza della
guerra; al quale anche, a Roma e altrove nello stato suo, si
scoprivano di molte difficoltà. Perché essendo alla guardia di Carpi
trecento fanti spagnuoli e qualche numero di cavalli, cominciorono a
scorrere con gravissimi danni per tutto il paese circonstante della
Chiesa, dando anche impedimento grande a' corrieri e a' denari che
da Roma e da Firenze andavano allo esercito; a' quali non si poteva,
con mettere piccola guardia nelle terre, ovviare: e il pontefice,
entrato nella guerra con pochi denari e soprafatto dalle spese
grandissime, difficilmente poteva co' denari suoi e con quegli che
continuamente gli erano per conto della guerra porti da Firenze,
fare provedimenti bastanti a reprimergli; essendo massime occupato
in impresa nuova in Toscana, e necessitato a stare in sull'arme
dalla parte di Roma. Perché don Ugo, il duca di Sessa partitosi
dalla legazione, Ascanio, e Vespasiano Colonna ridottosi nelle
castella de' Colonnesi propinque a Roma, facevano molte
dimostrazioni di volere suscitare dalla parte di Roma qualche
travaglio; e già alcuni de' loro partigiani si erano fatti forti in
Alagna, terra della Campagna: i movimenti de' quali era sforzato a
stimare il pontefice, per rispetto della fazione ghibellina di Roma
quanto perché, pochi dí innanzi, si erano scoperti segni della mala
disposizione della plebe romana contro a lui. Perché avendo, quando
condusse Andrea Doria, sotto colore di assicurare i mari di Roma
dalle fuste de' mori, dalle quali era impedita non mediocremente
l'abbondanza della città, augumentati per sostentare quella spesa
certi dazi, i macellari, essendo renitenti a pagargli, si erano
tumultuosamente congregati all'abitazione del duca di Sessa, che
ancora non era partito da Roma; alla quale concorseno armati quasi
tutti gli spagnuoli che abitavano in Roma: benché questo tumulto
facilmente si quietasse.
Ma alla impresa [del] mutare lo stato di Siena era stato ambiguo il
pontefice, essendo vari i consigli di quegli che gli erano appresso.
Perché alcuni, confidandosi nel numero grande de' fuorusciti e nella
confusione del governo popolare, gli persuadevano fusse molto facile
il mutarlo, ricordando di quanta importanza fusse in questo tempo
l'assicurarsene, perché, in ogni disfavore che sopravenisse, il
ricetto che vi potessino avere gli inimici sarebbe molto pericoloso
alle cose di Roma e di Firenze; altri affermavano essere consiglio
piú prudente dirizzare le forze in uno luogo solo che implicarsi in
tante imprese, con piccola anzi quasi niuna diversificazione degli
effetti, perché alla fine quegli che rimanessino superiori in
Lombardia rimarrebbono superiori per tutto; né doversi tanto
confidare delle forze o del seguito de' fuorusciti (le speranze de'
quali riuscivano quasi sempre vanissime) che la mutazione di quello
stato si tentasse senza potenti provisioni, le quali gli era
difficile il fare, sí per la grandezza della spesa come perché aveva
mandati tutti i suoi capitani principali alla guerra di Lombardia:
le quali ragioni sarebbeno forse prevalute appresso a lui se quegli
che reggevano in Siena fussino proceduti con quella moderazione la
quale, nelle cose che importano poco, debbono usare i minori verso i
maggiori, avendo piú rispetto alla necessità che alla giusta
indegnazione. Ma accadde che, avendo molto prima uno certo
Giovambatista Palmieri sanese, il quale aveva dalla republica la
condotta in Siena di cento fanti, datogli speranza come le genti sue
si accostassino a Siena di introdurle per una fogna che passava
sotto le mura appresso a uno bastione, e avendo il pontefice
mandatovi, a sua richiesta, due fanti confidati, all'uno de' quali
Giovambatista commesse il portare la sua bandiera, i magistrati
della città (con saputa de' quali Giovambatista eludendo il
pontefice trattava questa cosa), quando parve loro il tempo
opportuno, presi i due fanti e fattone solennemente il processo, e
divulgato per tutto il trattato, ne presono publicamente il debito
supplicio, per infamare il pontefice quanto potettono. Aggiunsesi
che pochi dí poi mandorono gente ad assediare Giovanni Martinozzi,
uno de' fuorusciti, quale dimorava nel contado di Siena alla tenuta
sua di Montelifré. Dalle quali cose, come fatte in ingiuria sua,
esacerbato l'animo del pontefice, deliberò tentare di rimettere i
fuorusciti in Siena con le forze sue e de' fiorentini, ma con
provisioni piú deboli che non conveniva, massime di fanti pagati; e
perché alla debolezza dell'esercito non supplisse il valore o la
autorità de' capitani, vi prepose [Virginio] Orsino conte della
Anguillara, Lodovico conte di Pitigliano e [Giovan Francesco] suo
figliuolo, Gentile Baglione e Giovanni da Sassatello. I quali, fatta
la massa delle genti al ponte a Centina, e dipoi trasferitisi alle
Tavernelle in sul fiume della Arbia, fiume famoso appresso agli
antichi per la vittoria memorabile de' ghibellini contro a' guelfi
di Firenze, si accostorono, il decimo settimo dí di giugno, alle
mura di Siena con nove pezzi d'artiglieria de' fiorentini
milledugento cavalli e con piú di ottomila fanti, ma quasi tutti o
comandati del dominio della Chiesa e de' fiorentini o mandati senza
danari ai fuorusciti da amici loro del perugino e di altri luoghi: e
nel tempo medesimo Andrea Doria, con le galee e con mille fanti di
sopracollo, assaltò i porti de' sanesi. Ma non essendosi, nello
accostarsi alle mura di Siena, fatto dentro segno alcuno di tumulto,
come avevano sperato i fuorusciti, fu necessario fermarsi con
l'esercito per attendere alla espugnazione della città; nella quale
erano sessanta cavalli e trecento fanti forestieri: però,
accostatisi alla porta di Camollia, cominciorno a battere con
l'artiglierie le mura da quella parte. Ma nella città forte di sito
e la quale era stata fortificata, e di circuito sí grande che la
minore parte circondava l'esercito, era il popolo (prevalendo piú
in, lui l'odio del pontefice e de' fiorentini che l'affezione a'
fuorusciti) disposto e unito alla conservazione di quel governo; e
pel contrario nello esercito di fuora inutile la gente non pagata, i
capitani di poca riputazione e tra loro non piccole divisioni, i
fuorusciti divisi non solo nelle deliberazioni e nelle provisioni
quotidiane ma discordanti eziandio per la forma del futuro governo,
volendo già dividere e ordinare di fuora quel che non si poteva
stabilire se non da chi era di dentro. Per le quali condizioni, ed
essendo state battute le mura invano né avendo ardire di dare la
battaglia, si cominciava già a sperare poco nella vittoria.
Lib.17, cap.8
Difficoltà del re di Francia di ottenere soldati svizzeri. Tristi
condizioni dei milanesi alla mercé delle soldatesche cesaree;
speranze nel duca di Borbone e parole d'un milanese a lui. Vane
promesse del duca di Borbone ai milanesi. Licenza riprovevole delle
milizie de' collegati.
Ma, in questo tempo medesimo, in Lombardia crescevano le difficoltà
de' collegati. Perché se bene de' svizzeri condotti dal castellano
di Mus e dal vescovo di Lodi ne fussino finalmente arrivati allo
esercito cinquemila, nondimeno, non parendo numero bastante al duca
di Urbino, si aspettavano quegli i quali, in nome del re di Francia,
erano stati mandati a dimandare da' cantoni; sperando che, se non
per altro, almeno che per cancellare la ignominia ricevuta nella
giornata di Pavia, avessino a essere prontissimi a concedergli; e
che per la medesima cagione i fanti conceduti avessino a procedere
alla guerra (massime in tanta speranza della vittoria) con
immoderato ardore. Ma in quella nazione, la quale pochi anni
innanzi, per la ferocia sua e per la autorità acquistata, aveva
avuto opportunità grandissima ad acquistare amplissimo imperio, non
era piú né cupidità di gloria né cura degli interessi della
republica, ma pieni di incredibile cupidità si proponevano per
ultimo fine dello esercizio militare ritornare a casa carichi di
danari: però, trattando la milizia secondo il costume de'
mercatanti, e i cantoni, o pigliando publicamente le necessità di
altri per occasioni di loro utilità o pieni di uomini venali e
corrotti, concedevano o negavano i fanti secondo questi fini; e i
capitani che erano ricercati di condursi, per avere migliore
condizione quanto maggiore vedevano il bisogno di altri, piú si
tiravano in alto facendo dimande impudentissime e intollerabili. Per
queste cagioni, avendo il re ricercato i cantoni, secondo i capitoli
della confederazione che aveva con loro, che gli concedessino i
fanti i quali di consenso comune si avevano a pagare co'
quarantamila ducati che sborsava il re di Francia, avevano i
cantoni, dopo lunghe consulte, risposto, secondo l'uso loro, non
volergli concedere se prima non erano sodisfatti dal re di tutto
quello doveva loro per conto delle pensioni che era obligato a
pagare ciascuno anno: la quale essendo somma grande, e difficile a
pagare con brevità di tempo, furno necessitati, ottenuta anche non
senza difficoltà licenza dai cantoni, a soldare capitani
particolari. Le quali cose, oltre alla dilazione molto perniciosa,
nello stato che erano le cose, non riuscirno con quella stabilità e
riputazione che se si fussino ottenuti dalle leghe.
Con la quale occasione gli imperiali, non ricevendo intratanto
molestia alcuna dagli inimici, i quali oziosamente dimoravano a
Marignano, attendevano con somma sollecitudine a fortificare Milano;
non la città, come facevano da principio della guerra, ma i ripari e
i bastioni de' rifossi; non diffidando piú, per l'animo che avevano
preso e per la riputazione diminuita degli avversari, di potergli
difendere. E avendo spogliato delle armi il popolo di Milano e
mandate fuora le persone sospette, non solo non n'avevano piú
scrupolo o timore ma, avendolo ridotto in asprissima servitú, erano
restati senza pensieri de' pagamenti de' soldati; i quali,
alloggiati per le case de' milanesi, non solo costrignevano i
padroni delle case a provederli quotidianamente del vitto abbondante
e delicato ma eziandio a somministrare loro denari per tutte l'altre
cose delle quali avevano o necessità o appetito; non pretermettendo,
per esserne provisti, di usare ogni estrema acerbità. I quali pesi
essendo intollerabili, non avevano i milanesi altro rimedio che
cercare di fuggirsi occultamente di Milano, perché il farlo
palesemente era proibito: donde, per assicurarsi di questo, molti
de' soldati, massime gli spagnuoli, perché ne' fanti tedeschi era
piú modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de'
loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposta
alla libidine loro la maggiore parte di ciascuno sesso e età. Però,
tutte le botteghe di Milano stavano serrate, ciascuno aveva
occultate in luoghi sotterranei o altrimenti reconditi le robe delle
botteghe le ricchezze delle case e le ricchezze e ornamenti delle
chiese; le quali neanche per questo erano in tutto sicure, perché i
soldati, sotto specie di cercare dove fussino l'armi, andavano
diligentemente investigando per tutti i luoghi della città,
sforzando ancora i servi delle case a manifestarle: delle quali,
quando le trovavano, ne lasciavano a' padroni quella parte pareva
loro. Donde era sopramodo miserabile la faccia di quella città,
miserabile l'aspetto degli uomini ridotti in somma mestizia e
spavento: cosa da muovere estrema commiserazione, ed esempio
incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano
veduta pochi anni innanzi pienissima di abitatori, e per la richezza
de' cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizi,
per l'abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al
vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi ornamenti cosí
delle donne come degli uomini, per la natura degli abitatori
inclinati alle feste e a' piaceri, non solo piena di gaudio e di
letizia ma floridissima e felicissima sopra tutte l'altre città di
Italia; e ora si vedeva restata quasi senza abitatori, per il danno
gravissimo che vi aveva fatto la peste, e per quegli che si erano
fuggiti e continuamente si fuggivano; gli uomini e le donne con
vestimenti inculti e poverissimi, non piú vestigio o segno alcuno di
botteghe o di esercizi per mezzo de' quali soleva trapassare
grandissima ricchezza in quella città, e l'allegrezza e ardire degli
uomini convertito tutto in sommo dolore e timore.
Confortògli nondimeno alquanto la venuta del duca di Borbone,
persuadendosi che, poi che secondo era fama aveva portato provisione
di denari e che per la ritirata dello esercito de' collegati
parevano alquanto diminuite le necessità e i pericoli, avessi anche
in parte a mitigarsi tante gravezze e acerbità; e molto piú
sperorono che il duca, al quale era publicato essere dato da Cesare
il ducato di Milano, avesse, per benefizio suo e per conservarsi per
interesse proprio piú intere l'entrate e le condizioni della città,
a provedere che e' non fussino piú cosí miserabilmente lacerati. La
quale speranza restava loro sola, perché per gli imbasciadori
mandati a Cesare comprendevano non potere aspettare da lui rimedio
alcuno, o perché per essere troppo lontano non potesse per la salute
loro fare quelle provisioni che fussino necessarie o, per essere in
lui (come piú volte aveva dimostrato l'esperienza) molto minore la
compassione delle oppressioni e miserie de' popoli che il desiderio
di mantenere, per interesse dello stato suo, l'esercito; al quale
non provedendo, a' tempi, de' pagamenti debiti, non poteva né egli
né i capitani proibire che si astenessino dalle insolenze e dalle
ingiurie: e tanto piú che i capitani, e per acquistare la
benivolenza de' soldati e perché lo essere ogni cosa in preda era
anche con emolumento loro, non avevano ingrata questa licenza
militare; poiché, per mancare i pagamenti, avevano qualche scusa di
tollerarla. Però, congregati insieme in numero grande tutti quegli
che in Milano avevano qualche condizione piú eminente che gli altri,
dimostrando nel volto negli abiti ne' gesti lo stato miserabile
della patria e di ciascuno di loro, si condusseno con molte lacrime
e lamenti innanzi al duca di Borbone; al quale uno di loro, a chi fu
imposto dagli altri, parlò, secondo intendo, in questa sentenza:
- Se questa patria miserabile, la quale ha sempre per giustissime
cagioni desiderato d'avere uno principe proprio, non fusse al
presente oppressa da calamità piú acerbe e piú atroci che abbia mai
alla memoria degli uomini tollerato alcuna città, sarebbe stata,
illustrissimo duca, ricevuta con maraviglioso gaudio la vostra
venuta: perché quale maggiore felicità poteva avere la città di
Milano che ricevere uno principe datogli da Cesare, di sangue
nobilissimo, e del quale la sapienza la giustizia il valore la
benignità la liberalità abbiamo, in vari tempi, noi medesimi molte
volte esperimentata? Ma la iniquissima fortuna nostra ci costrigne a
esporre a voi, perché da altri non speriamo né aspettiamo rimedio
alcuno, le nostre estreme miserie, maggiori senza comparazione di
quelle che le città debellate per forza dagli inimici sogliono
patire dalla avarizia dall'odio dalla crudeltà dalla libidine e da
tutte le cupidità de' vincitori. Le quali cose, per se stesse
intollerabili, rende ancora piú gravi l'esserci a ogni ora
rimproverato che le si fanno [in] pena della infedeltà del popolo di
Milano verso Cesare; come se i tumulti concitati a' dí passati
fussino stati concitati con publico consentimento e non, come è
notorio, da alcuni giovani sediziosi i quali temerariamente
sollevorono la plebe, sicura, per la povertà, di potere perdere,
cupida sempre per sua natura di cose nuove; e la quale, facile a
essere ripiena di errori vani, di false persuasioni, si sospigne
all'arbitrio di chi la concita, come si sospigne al soffio de' venti
l'onda marina. Noi non vogliamo, per escusare o alleggerire le
imputazioni presenti, raccontare quali siano state gli anni passati
le operazioni del popolo milanese, dalla prima nobiltà insino alla
infima plebe, per servizio di Cesare: quando la città nostra, per la
devozione inveterata al nome cesareo, si sollevò con tanta prontezza
contro a governatori e contro all'esercito del re di Francia; quando
poi con tanta costanza sostenemmo due gravissimi assedi,
sottomettendo volontariamente le nostre vettovaglie le nostre case
alle comodità de' soldati, sostentandogli, perché mancavano gli
stipendi di Cesare, prontissimamente co' danari propri, esponendo
con tanta alacrità in compagnia de' soldati le nostre persone, il dí
e la notte, a tutte le guardie a tutte le fazioni militari a tutti i
pericoli; quando, il dí che si combatté alla Bicocca, il popolo di
Milano con tanta ferocia difese il ponte, per il quale passo solo
speravano i franzesi potere penetrare negli alloggiamenti
dell'esercito cesareo. Allora da Prospero Colonna dal marchese di
Pescara dagli altri capitani, insino da Cesare medesimo, era
magnificata la nostra fede, esaltata insino al cielo la nostra
costanza. Delle quali cose chi è migliore e piú certo testimonio che
voi che, presente nella guerra dello ammiraglio, vedesti, lodasti,
anzi spesso vi maravigliasti di tanta fedeltà, di tanto ardente
disposizione? Ma cessi in tutto la memoria di queste cose, non si
compensino i demeriti co' benemeriti. Considerinsi le azioni
presenti: non recusiamo pena alcuna se nel popolo di Milano
apparisce vestigio di malo animo contro a Cesare. Amava certamente
il popolo di Milano grandemente Francesco Sforza come principe stato
dato da Cesare, come quello del quale il padre l'avolo il fratello
erano stati nostri signori, e per l'espettazione che s'aveva della
sua virtú; e per queste cagioni ci fu molestissimo lo spoglio suo,
fatto subitamente senza conoscere la causa, non essendo noi
certificati che avesse macchinato contro a Cesare, anzi
affermandosi, per lui e per molti altri, essere stata piú presto
cupidità di chi allora governava l'esercito che commissione cesarea:
e nondimeno la città tutta giurò in nome di Cesare, sottoponendosi
alla ubbidienza de' capitani. Questa è stata la deliberazione della
città di Milano, questo il consentimento publico, questo il
consiglio, e specialmente della nobiltà; la quale che ragione, che
giustizia, che esempio consente che abbia a essere per i delitti
particolari con tanta atrocità lacerata? Ma non apparí anche ne' dí
medesimi de' tumulti la fede nostra? perché, nella sollevazione
della moltitudine, chi altri che noi si interpose con l'autorità e
co' prieghi a fargli deporre l'armi? chi altri che noi, l'ultimo dí
del tumulto, persuase a' capi e a' giovani sediziosi che si
partissino della città? alla moltitudine, che si sottomettesse alla
ubbidienza de' capitani? Ma e la commemorazione delle opere nostre e
la giustificazione dalle calunnie opposteci sarebbe forse necessaria
o conveniente se i supplíci che noi patiamo fussino corrispondenti
a' delitti de' quali siamo accusati, o almanco se non li
trapassassino di molto; ma che differenza è dall'una cosa all'altra!
Perché noi abbiamo ardire di dire, giustissimo principe, che se i
peccati di ciascuno di noi fussino piú gravi che fussino mai stati i
peccati e le sceleratezze commesse da alcuna città verso il suo
principe, che le pene, anzi l'acerbità de' supplíci che noi
immeritamente sopportiamo, sarebbono maggiori senza proporzione di
quello che avessimo meritato. Abbiamo ardire di dire che tutte le
miserie tutte le crudeltà tutte le immanità (taciamo per onore
nostro delle libidini) che abbia mai, alla memoria degli uomini,
sopportate alcuna città alcuno popolo alcuna congregazione
d'abitatori, raccolte insieme tutte, siano una piccola parte di
quelle che, ogni dí ogni ora ogni punto di tempo, sopportiamo noi;
spogliati in uno momento di tutta la roba nostra, costretti gli
uomini liberi, con tormenti con carceri private con catene messe a'
corpi di molti de' nostri dai soldati, a provedergli del vitto
continuamente, a uso non militare ma di príncipi, a provedergli di
tutte quelle cose che caggiono nella cupidità loro, a pagare ogni dí
a loro nuovi danari; li quali essendo impossibile a pagare, gli
costringono con minacci con ingiurie con battiture con ferite: in
modo che non è alcuno di noi che non ricevesse per somma grazia, per
somma felicità, nudo, a piede, lasciate in preda tutte le sostanze,
potersi salvo della persona fuggire da Milano, con condizione di
perdere in perpetuo e la patria e i beni. Desolò, a tempo de' proavi
nostri, Federigo Barbarossa questa città, crudelissimo contro agli
abitatori contro agli edifici contro alle mura: e nondimeno, che
furono le miserie di quegli tempi comparate alle nostre? non solo
per tollerarsi piú facilmente la crudeltà dello inimico come piú
giusta che la crudeltà ingiusta dell'amico, ma eziandio perché uno
dí, due dí, tre dí, saziorono l'ira e la acerbità del vincitore,
finirono i supplíci de' vinti; noi già perseveriamo piú di uno mese
in queste acerbissime miserie, accrescono ogni ora i nostri tormenti
e, simili a dannati nell'altra vita, sopportiamo senza speranza di
fine quello che prima aremmo creduto essere impossibile che la
condizione umana tollerasse. Speriamo pure che la magnanimità tua,
la tua clemenza abbia a soccorrere a tanti mali, che abbia a
provedere che una città diventata leggittimamente tua, commessa alla
tua fede, non sia con tanta immanità totalmente distrutta; che
comperando con questa pietà gli animi nostri, meritando perpetua
memoria di padre e risuscitatore di una città sí memorabile per
tutto il mondo, fonderai piú in uno dí il principato tuo con la
benivolenza e con la divozione de' sudditi che non fanno gli altri
príncipi nuovi in molti anni con l'armi e con le forze. La somma
della orazione nostra è che, se per qualunque cagione la volontà tua
è aliena da liberarci da tanta crudeltà, se qualche impedimento ti
interrompe, che noi ti supplichiamo con tutti gli spiriti che voi
spigniate addosso a tutto questo popolo, a tutti noi a ognuno a ogni
sesso a ogni età, il furore l'armi il ferro e l'artiglierie dello
esercito: perché a noi sarà incredibile felicità essere
impetuosamente morti, piú presto che continuare nelle miserie e ne'
supplíci presenti; né sarà manco celebrata la pietà tua, se in altro
modo non puoi soccorrerci, che infamata la loro immanità; né a noi
manco lieto il terminare in questo modo la nostra infelicissima
vita, né manco allegra a quegli che ci amano la nostra morte che
soglia essere a' padri e a' parenti la natività de' figliuoli e
degli altri congiunti cari. -
Seguitorono queste parole miserabili le lamentazioni e i pianti di
tutti gli altri. A' quali il duca rispose con grandissima
mansuetudine, dimostrando avere sommo dispiacere delle loro
infelicità né minore desiderio di sollevare e beneficare quella
città e tutto il ducato di Milano; scusando che quello che si faceva
non solo era contro alla volontà di Cesare ma ancora contro alla
intenzione di tutti i capitani, e che la necessità, per non avere
avuto modo a pagare i soldati, gli aveva indotti piú presto a
consentire questo che ad abbandonare Milano, o mettere in pericolo
la salute dello esercito, e tutto lo stato che aveva Cesare in
Italia in preda degli inimici. Avere portato seco qualche provisione
di denari, ma non tanta che bastasse, per l'essere creditori di
molte paghe; nondimeno, che se la città di Milano gli provedesse di
trentamila ducati per la paga di uno mese, che condurrebbe
l'esercito ad alloggiare fuora di Milano: affermando che, se bene
sapeva che altre volte fussino stati ingannati di simili promesse,
potrebbeno starne sicurissimi alla parola e alla fede sua; e
aggiugnendo, pregare Dio che se mancasse loro gli fusse levato il
capo dal primo colpo dell'artiglieria degli inimici. La quale somma,
benché alla città tanto esausta fusse gravissima, nondimeno
trapassando tutte l'altre calamità la miseria dello alloggiare i
soldati, accettata la condizione proposta, cominciorono con quanta
piú prestezza potettono a provedergli. Ma benché una parte de'
soldati, ricevuti i danari secondo che si pagavano, fusse mandata ad
alloggiare ne' borghi di porta Romana e di porta Tosa, per guardare
i ripari e attendere a fortificargli (come anche si lavorava alla
trincea di verso il giardino, nel luogo nel quale fu fatta da
Prospero Colonna), nondimeno ritenevano, non meno che quegli che
erano restati dentro, i medesimi alloggiamenti e continuavano nelle
medesime acerbità; o non tenendo conto Borbone della sua promessa o
non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza
de' soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che volentieri,
o per ambizione o per odio, difficultavano i suoi consigli. Della
quale speranza privato il popolo di Milano, non avendo piú né dove
sperare né dove ricorrere, cadde in tanta disperazione che è cosa
certissima alcuni, per finire tante acerbità e tanti supplizi
morendo, poiché vivendo non potevano, si gittorono da luoghi alti
nelle strade, alcuni miserabilmente si sospeseno da se stessi: non
bastando però questo a mitigare la rapacità e la fiera immanità de'
soldati.
Erano in questo tempo molto miserabili le condizioni del paese,
lacerato con grandissima empietà dai soldati de' collegati; i quali,
aspettati prima con grandissima letizia da tutti gli abitatori,
aveano per le rapine ed estorsioni loro convertita la benivolenza in
sommo odio: corruttela generale della milizia del nostro tempo, la
quale, preso esempio dagli spaguoli, lacera e distrugge non manco
gli amici che gli inimici. Perché se bene per molti secoli fusse
stata grande in Italia la licenza de' soldati, nondimeno l'avevano
in infinito augumentata i fanti spagnuoli, ma per causa se non
giusta almeno necessaria, perché in tutte le guerre di Italia erano
stati malissimo pagati: ma (come [per] gli esempli, benché abbino
principio escusabile, si procede sempre di male in peggio) i soldati
italiani, benché non avessino la medesima necessità perché erano
pagati, seguitando l'esempio degli spagnuoli, cominciorono a non
cedere in parte alcuna alle loro enormità. Donde, con grande
ignominia della milizia del secolo presente, non fanno i soldati piú
alcuna distinzione dagli inimici agli amici; donde non manco
desolano i popoli e i paesi quegli che sono pagati per difendergli
che quegli che sono pagati per offendergli.
Lib.17, cap.9
L'esercito de' collegati, per le condizioni difficili della
guarnigione del castello, si accosta di nuovo a Milano. Meraviglia
dei capitani svizzeri per la lentezza e l'indecisione dell'esercito.
Resa del castello di Milano; patti della resa. Ritirata
dell'esercito pontificio da Siena. L'Ungheria assalita dai turchi.
Andavansi in questo tempo consumando tanto le vettovaglie del
castello che già gli assediati si appropinquavano alla necessità
della dedizione; la quale desiderando di allungare quanto potevano,
perché erano da alcuni capi dello esercito de' collegati nutriti con
speranza di soccorso, la notte venendo il decimo settimo dí di
luglio, messeno fuora per la porta del castello, di verso le trincee
che lo serravano di fuora, piú di trecento tra fanti donne e
fanciulli e bocche disutili: allo strepito delle quali benché dalla
guardia degli inimici fusse dato all'arme, nondimeno, non essendo
fatta loro altra opposizione, ed essendo le trincee sí strette che
con l'aiuto delle picche si potevano passare, le passorono tutte
salve. Erano due trincee lontane due tiri di mano dal castello, e
tra l'una e l'altra uno riparo di altezza circa quattro braccia: il
quale riparo, cosí come faceva guardia contro al castello, dava
sicurtà a chi dal canto di fuora avesse assaltato le trincee. I
quali usciti del castello, andati a Marignano dove era l'esercito, e
fatto fede della estremità grande in che si trovavano gli assediati
e della debolezza delle trincee, poiché insino alle donne e
fanciulli le avevano passate, costrinseno i capitani a ritornare per
fare pruova di soccorrerlo; consentendo il duca di Urbino, per non
ricevere in sé solo questa infamia, di escusazione non tanto facile
quanto prima, perché, essendo nello esercito piú di cinquemila
svizzeri, non militava piú la causa principale che aveva allegata,
di essere pericoloso l'accostarsi senza altri fanti [che] italiani a
Milano. Perciò fu determinato nel consiglio, unitamente, che lo
esercito non piú da altra parte ma dirittamente si accostasse al
castello e che, preso, le chiese di San Gregorio e di Santo Angelo
vicine a' rifossi, alloggiasse sotto Milano. Con la quale
deliberazione partiti da Marignano si condusseno in quattro dí, per
cammino difficile a camminare per la fortezza delle fosse e degli
argini, il vigesimo secondo dí di luglio tra la badia di Casaretto e
il fiume del Lambro, in luogo detto volgarmente l'Ambra; nel quale
luogo il duca, variando quel che prima era stato deliberato nel
consiglio, volle che si facesse l'alloggiamento, ponendo la fronte
dello esercito alla badia a Casaretto vicina manco di due miglia a
Milano, col fiume del Lambro alle spalle, e distendendosi da mano
destra insino al navilio, dalla sinistra insino al ponte: in modo
che si poteva dire alloggiato tra porta Renza e porta Tosa, perché
teneva poco di porta Nuova e, per questi rispetti e per la natura
del paese, alloggiamento molto forte. E allegava il duca d'avere
fatto mutazione da questo alloggiamento a quello de' monasteri per
la vicinità del castello, per non essere tanto sotto le mura che
fusse necessitato a mettersi in pericolo e privato della facoltà di
voltarsi dove gli paresse, e perché il minacciargli da piú parti gli
necessitava a fare in piú luoghi guardie grandi; donde, rispetto al
numero delle genti che avevano, si augumentavano le loro difficoltà.
Condotto in questo alloggiamento l'esercito (del quale una piccola
parte, mandata il dí medesimo alla terra di Moncia, la ottenne per
accordo, e il dí seguente espugnò con l'artiglierie la fortezza
nella quale erano cento fanti napoletani), si ristrinseno i consigli
di quello fusse da fare per metter vettovaglie nel castello di
Milano, ridotto come si intendeva in estrema necessità; con
intenzione di farne uscire Francesco Sforza. E benché molti de'
capitani, o perché veramente cosí sentissino o per dimostrarsi
animosi e feroci in quelle cose che si avevano a determinare con piú
pericolo dello onore e della estimazione di altri che sua,
consigliassino che si assaltassino le trincee, nondimeno il duca di
Urbino il quale giudicava fusse cosa pericolosissima, non
contradicendo apertamente ma proponendo difficoltà e mettendo tempo
in mezzo, impediva il farne conclusione: donde essendo rimessa la
deliberazione al dí prossimo, i capitani svizzeri dimandorono di
essere introdotti nel consiglio, nel quale ordinariamente non
intervenivano. Le parole fece per loro il castellano di Mus, che
avendone condotto la maggiore parte riteneva titolo di capitano
generale tra loro. Il quale, avendo esposto che i capitani svizzeri
si maravigliavano che, essendosi cominciata questa guerra per
soccorrere il castello di Milano e trovandosi le cose in tanta
necessità, si stesse, dove era bisogno di animo e di esecuzione, a
consumare il tempo vanamente in disputare se era da soccorrere o no,
[disse] non potere credere non si facesse deliberazione opportuna
alla salute comune e all'onore di tanti capitani e di tanto
esercito; nel quale caso essi fare intendere che riceverebbeno per
grandissima vergogna e ingiuria se, nello accostarsi al castello,
non fusse dato loro quello luogo della fatica e del pericolo che
meritava la fede e l'onore della nazione degli elvezi; né volere
mancare di ricordare che, nel pigliare questa deliberazione, non
avessino tanto memoria di quegli che avevano perduto con ignominia
le imprese cominciate, che si dimenticassino la gloria e la fortuna
di coloro che avevano vinto.
Nelle quali consulte mentre che il tempo si consuma, conoscendosi
chiaramente per tutti la intenzione del duca aliena dal soccorrere,
sopravenneno nuove, benché non ancora in tutto certe, che il
castello era o accordato o in procinto di accordarsi: al quale
avviso il duca prestando fede, disse, presente tutto il consiglio,
questa cosa, se bene perniciosa per il duca di Milano, essere
desiderabile e utile per la lega; perché la liberava dal pericolo
che la cupidità o la necessità di soccorrere il castello non
inducesse quello esercito a fare qualche precipitazione, essendo
stata imprudenza grande di quegli che si erano mai persuasi che e'
si potesse soccorrere; che ora, essendo liberati da questo pericolo,
si aveva di nuovo a consultare, e ordinare la guerra nel medesimo
modo che se fusse il primo dí del principio di essa. Ebbesi poco poi
la certezza dello accordo: perché il duca di Milano, essendo ridotto
il castello in tanta estremità di vivere che appena poteva
sostenersi uno giorno, e disperato totalmente del soccorso, poi che
dallo esercito della lega, arrivato due dí innanzi in alloggiamento
sí vicino, non vedeva farsi movimento alcuno, continuate le pratiche
che già piú dí, per trovarsi preparato a questo caso, aveva tenute
col duca di Borbone (il quale, ritirato che fu l'esercito, aveva
mandato in castello a visitarlo), conchiuse lo accordo il
vigesimoquarto dí di luglio. Nel quale si contenne: che senza
pregiudizio delle sue ragioni desse il castello di Milano a'
capitani, riceventilo in nome di Cesare, avuta facoltà da loro di
uscirne salvo insieme con tutti quegli che erano nel castello; e gli
fusse lecito fermarsi a Como, deputatogli per stanza, col suo
governo ed entrate, insino a tanto che si intendesse sopra le cose
sue la deliberazione di Cesare; aggiugnendogli tante altre entrate
che a ragione di anno ascendessino in tutto a trentamila ducati:
dessigli salvocondotto per potere personalmente andare a Cesare; e
si obligorono pagare i soldati che erano nel castello di quel che si
doveva loro per gli stipendi corsi insino a quel dí, che si dicevano
ascendere a ventimila ducati: dessinsi in mano del protonotario
Caracciolo, Giannangiolo Riccio e il Poliziano, perché gli potesse
esaminare; avuta la fede da lui di rilasciargli poi e fargli
condurre in luogo sicuro: liberasse il duca di Milano il vescovo di
Alessandria, che era prigione nel castello di Cremona; e a Sforzino
fusse dato Castelnuovo di Tortonese. Non si parlò in questa
convenzione cosa alcuna del castello di Cremona; il quale il duca,
non potendo piú resistere alla fame, aveva commesso a Iacopo Filippo
Sacco mandato da lui al duca di Borbone che, non potendo ottenere
l'accordo altrimenti, lo promettesse loro. Ma egli accorgendosi, per
le parole e modi del loro maneggio, del desiderio grande che avevano
di convenire, mostrando il duca non essere mai per cedere questo,
ottenne non se ne parlasse: perché i capitani imperiali, ancora che
per molte congetture comprendessino non essere nel castello molte
vettovaglie, e che la necessità presto era per fargli ottenere lo
intento loro, nondimeno, desiderosi di assicurarsene, avevano
deliberato di accettarlo con ogni condizione, non essendo certi che
lo esercito della lega appropinquatosi non tentasse di soccorrerlo;
nel quale caso, non confidando del potersi bene difendere le
trincee, erano risoluti di uscire in su la campagna a combattere: il
quale evento dubbio della fortuna fuggirono volentieri con accettare
dal duca quello che potessino avere. Il quale, uscito il dí seguente
del castello e accompagnato da molti di loro insino alle sbarre
dello esercito, poiché vi fu dimorato uno dí, si indirizzò al
cammino di Como; ma allegando, gli imperiali avergli promesso di
dargli la stanza sicura in Como ma non già di levarne le genti che
vi avevano a guardia, non volendo piú fidarsi di loro, se bene prima
avesse deliberato non fare cosa che potesse irritare piú l'animo di
Cesare, se ne andò a Lodi: la quale città fu dai confederati
liberamente rimessa in sua mano. Né gli essendo stato de' capitoli
fatti osservata cosa alcuna, eccetto che lo avere lasciato partire
salvi egli con tutti i suoi e con le robe loro, ratificò per
instrumento publico la lega fatta dal pontefice e dai viniziani in
nome suo.
Ma in questo tempo medesimo il pontefice, benché per i movimenti de'
Colonnesi avesse publicato il monitorio contro al cardinale e contro
agli altri della famiglia della Colonna, nondimeno, vedendo molto
diminuita la speranza di mutare il governo di Siena, ed essendogli
molesto avere travagli nel territorio di Roma, prestò cupidamente
orecchi a don Ugo di Moncada; il quale, non con animo di convenire
ma per renderlo piú negligente alle provisioni, proponeva che sotto
certe condizioni si rimovessino le offese contro a' sanesi e tra i
Colonnesi e lui: a trattare le quali cose essendo venuto a Roma
Vespasiano Colonna, uomo confidente al pontefice, fu cagione che il
pontefice, il quale perduta in tutto la speranza di felice successo
intorno a Siena trattava di fare levare dalle mura l'esercito,
differí l'esecuzione di questo consiglio salutifero, aspettando, per
minore ignominia, di farlo partire subito che fusse conchiuso questo
accordo; e nondimeno moltiplicando continuamente i disordini e le
confusioni di quello esercito, fu deliberato in Firenze di farlo
ritirare. Accadde che il dí precedente a quello che era destinato a
partirsi, essendo usciti della città quattrocento fanti verso
l'artiglieria alla quale era a guardia Iacopo Corso, egli, subito,
con la sua compagnia voltò le spalle; e levato il romore e
cominciata la fuga, tutto il resto dello esercito nel quale non era
né ubbidienza né ordine, non avendo chi gli seguitasse né chi gli
assaltasse, si messe da se medesimo in fuga, facendo a gara i
capitani i commissari i soldati a cavallo e i fanti, ciascuno, di
levarsi piú presto dal pericolo, lasciate agli inimici le
vettovaglie i carriaggi e l'artiglierie; delle quali dieci pezzi,
tra grossi e piccoli, de' fiorentini e sette de' perugini furono
condotti con grandissima esultazione e quasi trionfando in Siena:
rinnovandosi con clamori grandi di quello popolo la ignominia delle
artiglierie le quali, grandissimo tempo innanzi perdute da i
fiorentini pure alle mura di Siena, si conservavano ancora in sulla
piazza publica di quella città. Ricevettesi questa rotta il dí
seguente nel quale in potestà de' capitani cesarei pervenne il
castello di Milano. E ne' medesimi dí il pontefice, acciò che alle
afflizioni particolari si aggiugnessino le calamità della republica
cristiana, ebbe avvisi di Ungheria, Solimanno ottomanno, il quale si
era mosso di Costantinopoli con potentissimo esercito per andare ad
assaltare quel reame, poiché aveva passato il fiume del Savo senza
contrasto (perché pochi anni innanzi aveva espugnato Belgrado),
avere ora espugnato il castello, credo, di Pietro Varadino passato
il fiume della Drava: donde, non gli ostando né monti né impedimenti
de' fiumi, si conosceva tutta l'Ungheria essere in manifestissimo
pericolo.
Lib.17, cap.10
Richiesta del duca d'Urbino che venga nominato un capitano generale
di tutta la lega; deliberazione di attendere gli svizzeri assoldati
dal re di Francia e di assalire Cremona. Ragioni di timori e di
apprensione del pontefice. Sollecitazioni e incitamenti del
pontefice al re di Francia. Trattative del pontefice anche col re
d'Inghilterra. Trattative col duca di Ferrara.
Ma in Italia l'essere pervenuto in potestà di Cesare il castello di
Milano pareva che avesse variato molto dello stato della guerra;
essendo necessario, come diceva il duca di Urbino, fare nuovi
disegni e nuove deliberazioni, come si arebbe avuto a fare se al
principio non fusse stato in mano di Francesco Sforza il castello.
Con la quale occasione, il dí medesimo che fu fatta la dedizione,
discorrendo al luogotenente del pontefice e al proveditore veneto lo
stato delle cose, soggiunse bisognare uno capitano generale di tutta
la lega, al quale fusse commesso il governo degli eserciti; né
dimandare questo piú per sé che per altri, ma avere bene deliberato
di non prendere piú, senza questa autorità, pensiero alcuno se non
di comandare alle genti viniziane; ricercandogli lo significassino a
Roma e a Vinegia: dalla quale dimanda, fatta in tempo tanto
importuno e con grandissima iracondia del pontefice, per rimuoverlo
fu necessario che il senato viniziano mandasse in campo Luigi
Pisano, gentiluomo di grande autorità; per opera del quale si
moderò, piú presto alquanto che si estinguesse, questo ardore. Ma
quanto al modo del procedere in futuro nella guerra, si deliberò che
l'esercito non si rimovesse di quello alloggiamento insino a tanto
venissino i svizzeri i quali si soldavano col nome e per mezzo del
re di Francia; alla venuta de' quali affermava il duca essere
necessario fare due alloggiamenti da due bande diverse intorno a
Milano, non per assaltare né per tentare di sforzarlo ma per farlo
cadere per mancamento delle vettovaglie, il che diceva confidare
potere succedere in termine di tre mesi: ribattendo sempre
caldamente l'opinione di quegli che consigliavano che, fatti che
fussino questi alloggiamenti, si tentasse di espugnare quella città;
perché, essendo la lega potentissima di danari e avendone gli
imperiali grandissima difficoltà, tutte le ragioni promettevano la
vittoria della impresa, nessuna fare timore del contrario se non il
desiderio di accelerarla, perché col tempo e con la pazienza
consumandosi gli avversari non poteva mancare che le cose non si
conducessino a felice fine. Ed essendogli qualche volta risposto, il
discorso essere verissimo ogni volta che si potesse stare sicuro che
di Germania non venisse soccorso di nuovi fanti (il quale quando
venisse, tale che gli imperiali potessino uscire alla campagna, non
si potere negare che le cose restassino totalmente sottoposte allo
arbitrio della fortuna), replicava, in quello caso promettersi la
vittoria non manco certa, perché conoscendo la caldezza di Borbone
giudicava che ogni volta che e' si reputasse pari di forze allo
esercito de' confederati si spignerebbe tanto innanzi che e' darebbe
a loro occasione di avere con facilità qualche prospero successo che
accelererebbe la vittoria. Ma perché, per le difficoltà che si
intendevano essere nella condotta de' svizzeri, si dubitava che la
venuta loro non tardasse molti dí, e però essere molto dannosa la
perdita di tanto tempo, fu deliberato, per consiglio principalmente
del duca di Urbino e instando anche al medesimo il duca di Milano,
di mandare subito Malatesta Baglione, con trecento uomini d'arme
trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, alla espugnazione di
Cremona; impresa giudicata facile, perché vi erano dentro poco piú
di cento uomini d'arme dugento cavalli leggieri mille elettissimi
fanti tedeschi e trecento spagnuoli, pochissime artiglierie e minore
copia di munizioni, non molta vettovaglia, il popolo della città,
benché invilito e sbattuto, inimico, il castello contrario; il quale
benché fusse stato separato dalla città con una trincea, nondimeno,
per relazione di Annibale Picinardo castellano, si poteva sperare di
torgli i fianchi, e però facilmente di espugnarla. Andò Malatesta
con questi consigli a Cremona: per la partita del quale essendo
diminuite le genti dello esercito, non stava il duca di Urbino con
leggiero sospetto che le genti che erano in Milano non assaltassino
una notte gli alloggiamenti, tanto erano lontane le cose dalla
speranza della vittoria. Commettevansi nondimeno spessissime
scaramuccie, per ordine di Giovanni de' Medici; nelle quali benché
apparisse molto la sua ferocia e la sua virtú, e il valore de' fanti
italiani stati oscuri insino che cominciorno a essere retti da lui;
nondimeno non giovavano, anzi piú presto nocevano, alla somma della
guerra, per le frequenti uccisioni de' fanti esercitati e di
maggiore animo.
Ma in questo mezzo i successi avversi delle cose avevano indebolito
molto dell'animo del pontefice, non bene proveduto di danari alla
lunghezza, la quale già appariva, della guerra, né disposto a
provederne con quegli modi che ricercava la importanza delle cose, e
co' quali erano soliti a provederne gli altri pontefici, non era
bene sicuro della fede del duca di Urbino, né confidava molto della
sua virtú: ricevuta anche grandissima alterazione che nella
declinazione delle cose avesse dimandato il capitanato generale,
onore solito a dimandarsi piú presto per premio della vittoria. Ma
lo turbava ancora molto piú il non si vedere che gli effetti del re
di Francia corrispondessino alle obligazioni della lega, e a quello
che ciascuno si era promesso di lui. Perché, oltre all'essere
proceduto molto lentamente al pagamento de' quarantamila ducati per
il primo mese, e la tardità usata alle provisioni necessarie per la
espedizione de' svizzeri, non si vedeva preparazione alcuna per dare
principio a muovere la guerra di là da' monti, allegando essere
necessario che prima si facesse la intimazione a Cesare, secondo che
si disponeva per i capitoli della confederazione; perché, facendo
altrimenti, il re di Inghilterra, il quale aveva lega particolare
con Cesare a difensione comune, per avventura lo aiuterebbe, ma
fatta la intimazione cesserebbe questo rispetto; e che però
prontamente moverebbe la guerra, e sperava che il re di Inghilterra
farebbe il medesimo: il quale prometteva, subito che fusse fatta la
intimazione, protestare a Cesare, e dipoi entrare nella
confederazione fatta a Cugnach. Procedeva anche il re freddamente a
preparare l'armata marittima, e, quel che manifestava piú l'animo
suo, tardavano molto a passare i monti le cinquecento lancie le
quali era obligato a mandare in Italia. E benché si allegasse
procedere questa tardità o dalla negligenza de' franzesi o dalla
impotenza de' danari e dal credito perduto negli anni prossimi co'
mercatanti di Lione, o dallo essere le genti d'arme in grandissimo
disordine per il danno ricevuto nella giornata di Pavia, e perché da
poi avevano avuto niuno o pochissimi denari, in modo che, avendosi a
rimettere quasi del tutto in ordine, non potevano espedirsi senza
lunghezza di tempo, nondimeno chi considerava piú intrinsecamente i
progressi delle cose cominciava a dubitare che il re avesse piú cara
la lunghezza della guerra che la celerità della vittoria, dubitando
(com'è piccola la fede e confidenza che è tra' príncipi) che gli
italiani, ricuperato che avessino il ducato di Milano, tenendo
piccolo conto degli interessi suoi, o non facessino senza lui
concordia con Cesare o veramente fussino negligenti a travagliarlo
in modo che avesse a restituirgli i figliuoli. Accresceva la
sospensione del pontefice che il re di Inghilterra, ricercato di
entrare nella confederazione, della quale era stato confortatore,
non corrispondendo alle persuasioni e promesse che aveva fatto
prima, dimandava, piú presto per interporre dilazione che per altra
cagione, che i confederati si obligassino a pagargli i danari
dovutogli da Cesare, e che lo stato e l'entrata promessagli nel
regno di Napoli si trasferisse nel ducato di Milano. Temeva anche il
pontefice che i Colonnesi, i quali con vari moti lo tenevano in
continuo sospetto, con le forze del reame di Napoli non
l'assaltassino. Però, raccolte insieme tutte le difficoltà, tutti i
pericoli, faceva instanza co' collegati che, oltre al sollecitare
ciascuno per la sua parte le provisioni terrestri e marittime
espresse ne' capitoli della lega, si assaltasse comunemente il regno
di Napoli con mille cavalli leggieri e dodicimila fanti e con
qualche numero di gente d'arme; giudicando, per gli effetti
succeduti insino a quel dí, che le cose non potessino succedere
prosperamente se Cesare non fusse molestato in altro luogo che nel
ducato di Milano.
Per le quali cagioni mandò al re di Francia Giovambatista Sanga
romano, uno de' suoi secretari, per incitarlo a pigliare la guerra
con maggiore caldezza, dimostrandogli quanto esso si trovasse
esausto e impotente a continuare nelle spese medesime se non era
anche soccorso da lui di qualche quantità di denari: che, non
ostante che nella confederazione non fusse stato trattato di
assaltare il reame di Napoli mentre durava la guerra di Lombardia,
si disponesse a fare questa impresa di presente; alla quale benché i
viniziani, per non si aggravare di tante spese, avessino da
principio fatto difficoltà, nondimeno, vinti dalla sua instanza,
avevano consentito di concorrervi, eziandio senza il re ma con tanto
minore numero di gente quanto importava la sua porzione: che il re
per questa cagione, oltre alle cinquecento lance, alle quali aveva
disegnato per capo il marchese di Saluzzo, mosso piú, secondo
diceva, dalla buona fortuna che dalla virtú dell'uomo, mandasse
altre trecento lance in Lombardia, per poterne trasferire una parte
nel reame di Napoli: che si sollecitasse la venuta dell'armata di
mare, o per strignere con essa Genova o per voltarla al regno di
Napoli; la quale benché dai franzesi fusse spedita con la medesima
lentezza che si spedivano l'altre provisioni, nondimeno si andava
continuamente sollecitando. Ed era l'armata del re quattro galeoni e
sedici galee sottili, i viniziani tredici galee, il papa undici;
della quale tutta era deputato capitano generale, a instanza del re,
Pietro Navarra, non ostante che il papa avesse avuta piú
inclinazione a Andrea Doria. Fu oltre a tutte queste [cose] commesso
al Sanga, secretissimamente, che tentasse il re a fare la impresa di
Milano per sé, per dargli cagione che con tutte le forze sue si
risentisse alla guerra.
Ebbe anche il Sanga commissione di andare poi al re di Inghilterra,
per domandargli sussidio di denari: con ciò sia che quel re, che da
principio desiderava tanto la guerra contro a Cesare che se la lega
si fusse trattata in Inghilterra, come egli ed Eboracense
desideravano, si crede sarebbe entrato nella confederazione; ma non
avendo patito il tempo e la necessità del castello di Milano che si
facesse lunga pratica, poiché vidde fatta la lega per gli altri, gli
parve potersi stare di mezzo come spettatore e giudice.
Trattava anche il pontefice, stimolato da' viniziani e non meno dal
re di Francia, il quale a questo effetto aveva mandato il vescovo di
Baiosa a Ferrara, di comporre le differenze con quello duca, benché
piú presto in apparenza che in effetto; opponendogli diversi
partiti, e tra gli altri di dargli Ravenna in contracambio di Modona
e di Reggio: cosa disprezzata dal duca, non solo perché, avendo già
preso animo dalla ritirata dello esercito dalle porte di Milano, si
rendeva piú difficile che il solito a' partiti propostigli, e a
questo di Ravenna specialmente; e per essere molto diverse le
entrate, e perché questo gli pareva mezzo da farlo venire, a qualche
tempo, in contenzione co' viniziani.
Lib.17, cap.11
Provvedimenti di Cesare per la guerra. Vani assalti di milizie dei
collegati a Cremona. Deliberazione del duca d'Urbino di recarvisi
con nuove milizie. Giudizi sfavorevoli intorno al modo con cui è
stata condotta l'impresa contro Milano. Le armate veneziana,
pontificia e francese dominano il mare intorno a Genova. Resa di
Cremona.
Queste erano le pratiche le preparazioni e le opere de' confederati,
differite interrotte e variate, secondo le forze secondo i fini e i
consigli de' príncipi. Ma non era già in Cesare, le deliberazioni
del quale dependevano da se stesso, né negligenza né irresoluzione
di quello che comportassino le forze sue. Perché avendo il re di
Francia, a instanza degli oratori de' confederati, denegato licenza
al viceré (che la dimandò insino con le lacrime) di passare in
Italia, egli, rifiutati doni di valore di ventimila ducati, se ne
era ritornato in Spagna, portando seco (publicò lui) cedola di mano
del re di Francia di essere parato all'osservanza dell'accordo di
Madril, permutando la restituzione della Borgogna in pagamenti di
due milioni di ducati: al ritorno del quale, Cesare, perduta ogni
speranza che il re di Francia osservasse la capitolazione, deliberò
mandarlo in Italia con una armata che portasse i fanti tedeschi, i
quali in numero poco manco di tremila si stavano a Perpignano, e
tanti altri fanti spagnuoli che in tutto facessino il numero di
seimila; provedeva di mandare di nuovo a Milano centomila ducati,
sollecitando la espedizione dell'armata, la quale non poteva essere
sí presto perché, oltre al tempo che andava a metterla insieme e a
preparare i fanti spagnuoli, era necessario pagare a' tedeschi
centomila ducati de' quali erano creditori per gli stipendi passati;
commetteva anche assiduamente in Germania che a Milano si mandasse
soccorso di nuovi fanti, ma non vi provedendo a' denari per
pagargli, ed essendo il fratello per la povertà sua impotente a
provedergli, procedeva molto tardi questa espedizione.
E nondimeno la tardità e i successi poco prosperi de' confederati
facevano che si potesse aspettare ogni dilazione. Perché Malatesta,
condotto a Cremona, piantò, la notte de' sette di agosto,
l'artiglierie alla porta della Mussa, giudicando quel luogo essere
debole perché era male fiancheggiato e senza terrapieno; e volendo
nel tempo medesimo dare lo assalto dalla banda del castello,
giudicava a proposito battere in luogo lontano, perché fussino
necessitati quegli di dentro a dividere tanto piú le genti loro.
Nondimeno, battuto che ebbe, parendogli che quel luogo fusse forte e
bene riparato, e (credo) la batteria fatta tanto alto che restava
troppo eminente da terra l'altezza del muro, si risolvé di non gli
dare lo assalto ma cominciare, con consiglio diverso, una batteria
nuova vicina al castello, in luogo detto Santa Monica, dove già
aveva battuto Federigo da Bozzole: e nel tempo medesimo faceva due
trincee in su la piazza del castello, una che tirava a mano destra
verso il Po, dove quegli di dentro avevano fatto due trincee; e
sperava, con la sua, tôrre loro uno bastione al quale già si era
avvicinato a sei braccia, il quale bastione quale già si era
avvicinato a sei braccia, il quale bastione era nella prima trincea
loro appresso alla muraglia della terra; e pigliandolo, disegnava
servirsene per cavaliere a battere a lungo della muraglia dove
batterono i franzesi. Però gli imperiali facevano un altro bastione
dietro all'ultima trincea loro. L'altra trincea di Malatesta era da
mano sinistra verso la muraglia, e già tanto vicina alla loro che si
aggiugnevano co' sassi. E condotto le trincee al disegno suo,
determinava fare la batteria. Né lo impedivano a fare lavorare
l'artiglierie degli inimici, perché in Cremona non erano piú che
quattro falconetti, poca munizione, e traevano molto poco. Nondimeno
i fanti di dentro non restavano, uscendo fuora, di travagliare
quegli che lavoravano alle trincee, mettendogli spesso, non ostante
avessino grossa guardia, in molte difficoltà: donde Malatesta, quasi
incerto di quello che avesse da fare, confondeva, con non molta sua
laude, con vari giudíci scritti nelle sue lettere, i capitani dello
esercito. I quali, vedendo la oppugnazione riuscire continuamente
piú difficile, feciono andare nel campo suo mille dugento fanti
tedeschi, condotti di nuovo dai viniziani a spese comuni del
pontefice e loro, sotto Michele Gusmuier rebelle di Cesare e del
fratello; e pochi dí poi, per provedere alla discordia ed emulazione
che era tra Malatesta e Giulio Manfrone, vi andò dallo esercito con
tremila fanti il proveditore Pesero, che di somma benivolenza era
già diventato poco accetto al duca di Urbino. Ma la notte venendo i
tredici dí di agosto, fece Malatesta piantare quattro pezzi di
artiglieria tra la porta di santo Luca e il castello, per pigliare
uno bastione; dove, essendosi battuto quasi tutto il dí, fece
sboccare la trincea con speranza di pigliare la notte medesima il
bastione. Ma alla quarta ora della notte, pochi fanti tedeschi
assaltorno la guardia delle trincee che era, tra dentro e fuora, piú
di mille fanti, e disordinati gli costrinseno ad abbandonarla
(benché il dí seguente furono costretti a partirsene); in modo che
la trincea, fatta con tanta fatica restò abbandonata dall'una parte
e dall'altra. Ma la fortuna volle mostrarsi favorevole a quegli di
fuori, se avessino saputo o conoscere o pigliare l'occasione: perché
la notte, venendo i quindici, cascorono da se medesime circa
cinquanta braccia di muraglia tra la porta di Santo Luca e il
castello, insieme con uno pezzo della loro artiglieria; dove se con
prestezza, venuto che fu il dí, si fusse presentata la battaglia
erano quegli di dentro, spaventati da accidente sí improviso, senza
speranza di resistere, perché il luogo dove arebbeno avuto a stare
alla difesa restava scoperto dall'artiglieria del castello. Ma
mentre che Malatesta tarda, prima a risolversi poi a mettere in
ordine di dare lo assalto, i soldati, lavorando di dentro
sollecitamente, e copertisi, la prima cosa, co' ripari dalla
artiglieria del castello, si riparorono anche alla fronte degli
inimici; in modo che quando fu presentato lo assalto, che erano già
venti ore del dí, ancora che a quella banda si voltasse la maggiore
parte del campo, nondimeno si accostorono, perché andavano troppo
scoperti, con gravissimo danno; e accostatisi, erano, oltre
all'altre difese, battuti da infiniti sassi gittati da quegli di
dentro, in modo vi restò morto Giulio Manfrone il capitano Macone e
molti altri soldati di condizione. Dettesi anche nel tempo medesimo
un altro assalto per la via del castello, dove furno ributtati,
benché con poco danno: ed era anche ordinato che alla batteria fatta
da Santa Monica si desse un altro assalto, con ottanta uomini d'arme
cento cavalli leggieri e mille fanti; ma, avendo trovato il fosso
pieno di acqua e il luogo bene fortificato, si ritirorono senza
tentare. Sopravenne poi il proveditore Pesero, con tremila fanti
italiani con piú di mille svizzeri e con nuova artiglieria, per
potere fare due batterie gagliarde; in modo che, trovandosi piú di
ottomila fanti, disegnavano fare due batterie, dando l'assalto a
ciascuna con tremila fanti, e assaltare anche dalla parte del
castello con dumila fanti: e avendo condotto in campo grandissima
quantità di guastatori, lavoravano sollecitamente alle trincee;
delle quali essendo spuntata una a' ventitré di agosto, ottenneno
dopo lunga battaglia di coprire uno fianco degli inimici. La notte
dipoi, precedente al dí vigesimo sesto, furno fatte due batterie;
una guidata da Malatesta, di là dal luogo dove aveva battuto
Federigo, l'altra alla porta della Mussa, guidata da Cammillo
Orsino: l'una e l'altra delle quali ebbe poco successo; perché il
terreno dove piantò Malatesta, per essere paludoso, non teneva ferma
l'artiglieria, e acconsentendo, ogni volta che la tirava, i colpi
battevano troppo alto; quella di Cammillo fu bassa, ma si trovò che
vi era la fossa con l'acqua e tanti fianchi di archibusi che non si
poteva andare innanzi. Però, ancora che non ostante queste
difficoltà si desse la battaglia, si ricevé quivi molto danno; e
benché dal canto di Malatesta i fanti si conducessino alla muraglia,
passati una fossa dove era l'acqua dentro piú profonda che non si
era inteso, furono facilmente ributtati. Fu anche dal canto del
castello tirata giú una parte del cavaliere, e vi montorono su i
fanti; ma la scesa dal lato di dentro era troppo alta, e avevano
fatto gli imperiali da quella parte innanzi al castello tre mani di
trincee con due mani di cavalieri e con fianchi, e dopo quegli
ancora ripari: però da ogni banda, e da un altro canto ancora sotto
uno riparo, furono ributtati gli assaltatori, che per tutto avevano
assaltato con poco ordine e con piccolissimo danno degli inimici,
morti e feriti molti di loro.
Costrinseno questi disordini e il perdersi la speranza di pigliare
altrimenti Cremona (perché in quel campo mancava governo e
obbedienza) il duca di Urbino a andarvi personalmente. Il quale,
levato dello esercito che era intorno a Milano quasi tutti i fanti
de' viniziani, e lasciatavi una parte delle genti d'arme con tutte
le genti ecclesiastiche e i svizzeri, che erano già arrivati in
numero di tredicimila, sprezzando (ora che vi restava minore numero
di gente, e spogliata di uno capo di tale autorità) quello pericolo
che prima, quando vi era egli con maggiori forze, dimostrava
continuamente di temere, e affermando non essere uso di genti di
guerra, e degli spagnuoli manco che degli altri, assaltare altre
genti di guerra nella fortezza de' loro alloggiamenti, si condusse
intorno a Cremona; disegnando di vincerla non per forza sola di
batteria e di assalti, perché i ripari degli inimici erano troppo
gagliardi, ma col cercare con numero grandissimo di guastatori
accostarsi alle trincee e bastioni loro, e con la forza delle zappe
piú che con l'armi insignorirsene.
Fu imputato il governo di questa impresa contro allo stato di Milano
dai capitani imperiali in molte cose, e principalmente della
ritirata da porta Romana, ma non manco dello avere tentata da
principio debolmente e con poche forze la oppugnazione di Cremona,
confidandosi vanamente che fusse facile il pigliarla, e che dipoi
scoprendosi le difficoltà avessino, continuandola, impegnatovi tale
parte dello esercito che avesse impedito loro le occasioni maggiori
che nel tempo che si consumò quivi si presentorono. Perché, essendo
già arrivato in campo il numero intero tanto desiderato de'
svizzeri, si poteva facilmente, serrando Milano (secondo che sempre
si era disegnato) con due eserciti, impedire la copia grande delle
vettovaglie che per la via di Pavia continuamente vi entravano; le
quali l'esercito solo che era a Lambrà, per avere a fare circuito
grande, non poteva impedire. Ma molto piú importò perdere
l'occasione che si aveva, forse, di sforzare Milano; perché nella
gente che vi era dentro erano sopravenute tante infermità che,
bastando con difficoltà quegli che erano sani a fare le fazioni e le
guardie ordinarie, fu giudicio di molti, e degli imperiali medesimi,
che se in quel tempo fussino stati travagliati strettamente
portavano pericolo grande di non si perdere.
Ma maggiore e piú certa occasione era anche quella di pigliare
Genova. Perché essendo l'armata viniziana congiunta con quella del
pontefice a Civitavecchia, e di poi fermatesi nel porto di Livorno
per aspettare l'armata franzese, la quale con sedici galee quattro
galeoni e quattro altri navili, condotta nella riviera di ponente,
aveva, per accordo anzi per volontà della città, ottenuta Savona e
tutta la riviera di ponente, e presi dipoi piú navili carichi di
grano che andavano a Genova, passò a Livorno a unirsi con l'altre.
Erasi anche deliberato che, a spese comuni de' collegati, si
armassino nel porto di Marsilia dodici navi grosse, o per assaltare,
secondo il consiglio di Pietro Navarra, insieme con le galee
franzesi, l'armata la quale si preparava nel porto di Cartagenia, o
almeno per rincontrarla nel mare. Dove fatta vela le tre armate, a'
ventinove di agosto, si fermorono l'ecclesiastica e la viniziana a
Portofino, la franzese ritornò a Savona; donde senza contrasto,
scorrendo tutti i mari, strignevano in modo Genova, dove era
mancamento di vettovaglie, che non potendo entrarvi piú per mare
cosa alcuna non è dubbio che, se si fusse mandato qualche numero di
gente per la via di terra a impedire quello che era solo il loro
rifugio, bisognava che Genova s'accordasse: né i capitani delle
armate, ora con lettere ora con messi propri, facevano instanza di
altro; chiedendo che almanco si mandassino per la via di terra
quattromila fanti. Ma né del campo di Cremona si poteva levare
gente, e parendo al duca e agli altri pericoloso il diminuire
l'esercito che era a Milano, si intrattenevano con la speranza che,
spedita Cremona, si manderebbe una banda di gente sufficiente.
La quale impresa (come era gagliarda la virtú de' difensori, e come
le opere grandi che si fanno co' guastatori ricercano molto tempo)
procedeva ogni dí con maggiore lunghezza che non era stato creduto.
Perché il duca, avendo voluto avere in campo dumila guastatori,
molte artiglierie e munizioni e grandissima copia di instrumenti
atti a lavorare, di ogni sorte, faceva assiduamente lavorare nelle
trincee del castello e al bastione di verso il Po, per guadagnarlo e
servirsene per cavaliere; ancora che gli inimici, avendone dubitato
piú dí, si erano tirati addietro con uno riparo gagliardo. E si
lavorava ancora alle due teste della trincea che attraversava la
piazza del castello, per rovinare i cavalieri che vi avevano; e tra
le due trincee del campo si lavorava un'altra trincea larga sei
braccia, coprendosi col terreno, innanzi e dal lato, per fare uno
cavaliere, come si arrivasse alla fossa della trincea degli inimici.
Lavoravasi ancora uno fosso fuora del castello verso il muro della
terra, per andare a trovare il bastione di verso la muraglia
rovinata; e dalla porta di Santo Luca insino alla muraglia medesima
si lavorava un altra trincea, né si cessava di battere con
l'artiglierie piantate nel castello i ripari degli inimici; i quali
per la malignità del terreno, che era terra molto trita, erano
passati facilmente da quelle: non stando anco oziosi quegli di
dentro, perché, per diffidenza di potere tenere lungamente le loro
trincee e cavalieri, lavoravano uno fosso verso le case della città;
e nondimeno uscivano spesso fuora con molto vigore, assaltando i
lavori. E la notte venendo i sette, assaltorno le trincee che si
lavoravano dalla banda del castello, da tre parti: dove trovato i
fanti che le guardavano quasi tutti a dormire ne ammazzorono piú di
cento e parecchi capitani, e si condussero insino al rivellino del
castello. E nondimeno le cose loro continuamente si strignevano.
Perché fattosi il duca d'Urbino la via con le trincee insino a'
ripari loro, che separavano il castello dalla città, assaltandogli
dipoi con qualche scoppiettiere e con qualche buono soldato coperto
con gli scudi, faceva loro grande danno; e l'artiglieria anche,
dalle torri del castello, faceva il medesimo. Però gli imperiali
abbruciorono il loro riparo che si faceva di contro al cavaliere,
perché non fusse parapetto a quelli di fuora; ed essendosi, a'
diciannove, sboccate due trincee nelle fosse loro, si ritiravano con
altre trincee: delle quali il duca d'Urbino teneva poco conto,
perché per la brevità del tempo non potevano essere bene fortificate
e perché, ritirandosi piú al largo, era necessaria a difenderle
maggiore guardia; e nondimeno dalla banda del campo, se bene le
opere fussino finite, si procedeva con qualche lentezza, essendo
necessario riordinare e rinnovare i fanti de' viniziani, stati molto
tempo senza danari e però diminuiti molto di numero, sopravenendo
sempre nelle cose de' collegati disordine sopra disordine. A che
mentre si attendeva uscivano spesso la notte a tentare le trincee,
ma indarno, perché l'esperienza della percossa ricevuta aveva
insegnato agli altri. Ma ricondotti i fanti a bastanza, cominciò il
duca di Urbino, a' ventidue, a battere a una torre a canto alla
batteria di Federigo; dove avendo battuto pochissimi colpi,
conoscendo gli inimici essere ridotti in termine che non potevano
ricusare di accordarsi, mandò dentro uno trombetto a ricercare la
città, col quale usciti fuora uno capitano tedesco uno capitano
spagnuolo e Guido Vaina, il dí seguente fu fatta capitolazione: che,
non avendo soccorso per tutto il mese, avessino a lasciare Cremona,
e che a' tedeschi fusse permesso andarsene in Germania, agli
spagnuoli nel regno di Napoli, promettendo non andare fra quattro
mesi alla difesa dello stato di Milano; lasciassino tutte le
artiglierie e munizioni, e partissinsi con le bandiere serrate senza
sonare tamburi o trombe, eccetto che nel levarsi.
Lib.17, cap.12
Risultato delle pratiche del pontefice coi re di Francia e
d'Inghilterra. Grigioni al servizio dei collegati. Tiepide azioni di
guerra fra gli avversari in Lombardia. Gravezze dei fiorentini e
molestie dei senesi.
Aveva in questo mezzo il re di Francia, alla corte del quale si
fermò, pochi dí poi, come legato, il cardinale de' Salviati,
partitosi di Spagna con licenza di Cesare, risposto alle richieste
fattegli in nome del pontefice, escusandosi se le opere non
sarebbono eguali alla volontà, per essere molto esausto di danari;
ma nondimeno, se gli concedeva facoltà di riscuotere una decima
dell'entrate beneficiali per tutto il regno, lo sovverrebbe, con una
parte de' danari che se ne riscotessino, di ventimila ducati il
mese, e che concorrerebbe alla guerra di Napoli: cosa che ebbe molta
dilazione, perché il pontefice, allegando la degnità della sedia
apostolica, recusava di concederla. Denegava, benché da principio vi
dimostrasse inclinazione, di attendere per sé all'acquisto del
ducato di Milano, dissuadendonelo massime Lautrech e la madre: del
rompere la guerra di là da' monti dava speranza, ma diceva (il che
si negava) essere necessario che precedesse la intimazione; la quale
fatta, offeriva di muovere la guerra a' confini della Fiandra e di
Perpignano, benché si comprendeva non v'avesse disposizione, non
essendo in questo diverso l'animo suo da quello del re di
Inghilterra. Appresso al quale l'espedizione fatta per parte del
pontefice fece piccolissimo frutto: perché volendo il cardinale
eboracense intrattenere ciascuno ed essere pregato da tutti, non
procedevano a conclusione alcuna; anzi e il re e il cardinale
rispondevano spesso: - A noi non appartengono le cose di Italia. -
Anzi il re di Francia offeriva, consentendogli il pontefice le
decime, volere convertire tutti i danari nella guerra di Italia; non
lo consentendo, ne offeriva il mese ventimila, con condizione che
non si spendessino se non o contro a Milano o contro al regno di
Napoli.
Nel quale tempo temendosi che i grigioni, i quali nell'assedio del
castello di Milano avevano recuperato e spianato Chiavenna, non si
conducessino col duca di Borbone, o almanco permettessino che i
tedeschi che si aspettavano al soccorso suo passassino per il paese
loro, il pontefice e i viniziani si obligorno di condurre dumila
fanti grigioni agli stipendi loro, pagare al castellano di Mus (il
quale, temendo del duca di Milano quando venne nell'esercito, si era
fuggito di campo, e dipoi, pretendendo essere creditore per i
pagamenti fatti a' svizzeri, aveva fatti prigioni due imbasciadori
viniziani che andavano in Francia) ducati cinquemila cinquecento che
sforzati gli avevano promessi, restituirne a loro altrettanti che
aveva estorti; fargli liberare da' dazi nuovi imposti a chi navigava
per il lago di Como da lui. I quali si obligorno di impedire il
passo a tedeschi, e operorno che Tegane, condotto dal duca di
Borbone con dumila fanti, non andasse.
Ma intanto procedevano l'altre cose di Lombardia tiepidamente.
Perché l'esercito intorno a Milano, nel quale era diminuito molto il
numero, ma non le paghe, de' svizzeri, stava ozioso, non facendo
altro che le consuete scaramuccie. Piú sollecite e maggiori molestie
partorivano l'opere degli spagnuoli che erano in Carpi; i quali,
avendo tacitamente avvisi di spie e comodità di ricetti nel
territorio del duca di Ferrara, davano impedimento grandissimo a'
corrieri e all'altre persone che andavano all'esercito; e correndo
per tutti i paesi circostanti, insino nel bolognese e nel mantovano,
non però contro ad altri che contro a' sudditi ecclesiastici,
facevano danni innumerabili. Era pure, finalmente, il marchese di
Saluzzo con le cinquecento lancie franzesi passato nel Piemonte; per
la venuta del quale Fabrizio Maramaus, che posto a campo a Valenza,
nella quale era a guardia Giovanni da Birago, la batteva con
l'artiglierie, si ritirò a Basignana: ma recusando il marchese
passare piú innanzi se dai confederati non gli erano pagati, per
eguale porzione, quattromila fanti, i quali aveva con questa
intenzione menati di Francia, e facendone il re grandissima
instanza, per sicurtà delle sue genti d'arme e per maggiore
riputazione del marchese, fu necessario acconsentirlo. Occupò nel
tempo medesimo Sinibaldo dal Fiesco la terra di Pontriemoli,
posseduta da Sforzino; ma con la medesima facilità fu presto
recuperata per mezzo della rocca. In Milano pativano assai di
danari, perché da Cesare non ne veniva provisione alcuna; e la
povertà e le spese intollerabili de' milanesi erano tali che con
difficoltà si riscotevano i trentamila ducati stati promessi dal
popolo al duca di Borbone: col quale si condussono, per non essere
accettati agli stipendi de' confederati per le spese grandissime che
avevano, Galeazzo da Birago e Lodovico conte da Belgioioso i quali
insino a quel dí avevano in ogni accidente seguitata la parte
franzese. Giovanni da Birago occupò Novi. Ne' quali movimenti lo
stato del marchese di Mantova era come comune a ciascuno, scusandosi
per essere soldato del pontefice e feudatario di Cesare; anzi,
essendo propinqua al fine la condotta sua, si ricondusse per altri
quattro anni col pontefice e co' fiorentini, con espressa condizione
di non essere tenuto di fare né con la persona né con lo stato suo
contro a Cesare: benché nel principio della guerra avesse desiderato
di andare personalmente nello esercito; il che non piacendo al
pontefice perché non confidava del suo governo, gli aveva risposto
che, essendo feudatario di Cesare, non voleva metterlo in questo
pericolo.
Questo era allora lo stato delle cose di Lombardia. In Toscana i
fiorentini, non avendo né eserciti né armi nel territorio loro,
sentivano con lo spendere le molestie della guerra; [perché il
pontefice], non avendo co' modi ordinari danari, e ostinato a non ne
provedere con gli estraordinari, lasciava con grandissima empietà
addosso a loro quasi tutte le spese che si facevano in Lombardia. I
sanesi non stavano senza molestia nelle parti marittime, perché
Andrea Doria, il quale da principio aveva occupato Talamone e
Portoercole, gli faceva continuamente guardare, benché Talamone, non
molto poi, dal capitano preposto alla guardia fusse dato a' sanesi;
e i fuorusciti, fomentati dal pontefice, facevano nella Maremma
qualche molestia: nella quale Giampaolo figliuolo di Renzo da Ceri,
soldato del pontefice, presa furtivamente con alcuni cavalli la
porta della terra di Orbatello, sopravenendo poi con i suoi cavalli
e fanti occupò la terra.
Lib.17, cap.13
Capitolazione fra il pontefice ed i Colonna. Notizia della vittoria
dei turchi sugli ungheresi; effetti sul pontefice. Perfidia dei
Colonnesi contro il pontefice; tumulto provocato in Roma; tregua fra
il pontefice, gli imperiali ed i Colonnesi. Conseguenza di essa in
Lombardia; partenza dei soldati tedeschi e spagnuoli da Cremona.
Ma a Roma succederono cose di grandissimo momento, causate non per
virtú di armi ma per
insidie e per fraude, con ignominia grande del pontefice e con
disordinare le speranze di Lombardia; dove si sperava, per
l'acquisto di Cremona, condurre a fine la impresa di Genova e di
potere, secondo i disegni fatti prima, fare due diversi
alloggiamenti intorno a Milano. Perché dopo la rotta ricevuta a
Siena, non sperando il pontefice potere travagliare con grandi
effetti i Colonnesi, e avendo volto l'animo ad assaltare con
maggiori forze, come è detto, il regno di Napoli, e da altro canto
non sperando i Colonnesi né gli agenti di Cesare potere fare effetti
notabili contro a lui, e desiderando ancora di torgli tempo insino a
tanto venisse il viceré con l'armata di Spagna, mandato a Roma
Vespasiano Colonna, alla fede del quale il papa credette, avevano,
a' ventidue di agosto, capitolato insieme: che i Colonnesi
rendessino Anagnia e gli altri luoghi presi; ritirassino le genti
nel reame di Napoli, né tenessino piú soldati nelle terre le quali
posseggono nel dominio ecclesiastico; non pigliassino l'armi a
offesa del pontefice se non come soldati di Cesare, nel quale caso
fussino tenuti a deporre in mano del pontefice gli stati che hanno
nella giurisdizione ecclesiastica; potessino liberamente servire
Cesare contro a ciascuno alla difensione del reame napoletano; e da
altro canto il pontefice perdonasse a tutti l'offese fatte, abolisse
il monitorio fatto al cardinale Colonna, non offendesse gli stati
loro né gli lasciasse offendere dagli Orsini. Sotto la quale
capitolazione mentre che il papa, tenendo conto piú che di altro
della fede di Vespasiano, incauto si riposa, avendo licenziato i
cavalli e quasi tutti i fanti che aveva soldato, e quegli pochi che
gli restavano mandati ad alloggiare nelle terre circostanti, e
raffreddato anche i disegni dello assaltare il regno di Napoli, le
spesse querele e protesti che avevano da Cremona e da Genova (donde
era significato che, se i progressi de' confederati non si
interrompevano con potente diversione, quelle città non potevano piú
sostenersi); però, non avendo modo a fare scopertamente guerra
gagliarda e che partorisse rimedi sí subiti, volsono l'animo e i
pensieri a opprimere con insidie il pontefice.
Le quali mentre che si preparano, acciò che alla afflizione che
aveva per le cose proprie si aggiugnesse anche l'afflizione per le
cose publiche, sopravenneno nuove che Solimanno ottomanno principe
de' turchi aveva rotto in battaglia ordinata Lodovico re di
Ungheria, conseguendo la vittoria non manco per la temerità degli
inimici che per le forze sue; perché gli ungheri, ancora che
pochissimi di numero a comparazione di tanti inimici, confidatisi
piú nelle vittorie avute qualche volta per il passato contro a'
turchi che nelle cose presenti, persuasono al re, giovane di età ma
di consiglio anche inferiore alla età, che per non oscurare la fama
e l'antica gloria militare de' popoli suoi, non aspettato il
soccorso che veniva di Transilvania, si facesse incontro agli
inimici, non recusando anche di combattere in campagna aperta, nella
quale i turchi per la moltitudine innumerabile de' cavalli sono
quasi invitti. Corrispose adunque l'evento alla temerità e
imprudenza: fu rotto l'esercito raccolto di tutta la nobiltà e
uomini valorosi di Ungheria, commessa di loro grandissima uccisione,
morto il re medesimo e molti de' principali prelati e baroni del
regno. Per la quale vittoria tenendosi per certo che il turco avesse
a stabilire per sé tutto il regno di Ungheria con grandissimo
pregiudizio di tutta la cristianità, della quale quello reame era
stato moltissimi anni lo scudo e lo antemurale, si commosse il
pontefice maravigliosamente: come negli animi già perturbati e
afflitti fanno maggiore impressione i nuovi dispiaceri che non fanno
negli animi vacui dalle altre passioni. Però, rivolgendo nella mente
sua nuovi pensieri, e dimostrando ne' gesti nelle parole e nella
effigie del volto smisurato dolore, chiamati i cardinali in
concistorio, si lamentò efficacissimamente con loro di tanto danno e
ignominia della republica cristiana; alla quale non era mancato egli
di provedere, sí col confortare e supplicare assiduamente i príncipi
cristiani della pace sí col soccorrere in tanti altri gravi bisogni
suoi quel regno di non piccola quantità di denari. Essere stata, per
la difesa di quel regno e per il pericolo del resto de' cristiani,
molto incomoda e importuna la guerra presente, e averlo egli detto e
conosciuto insino da principio; ma la necessità averlo indotto
(poiché vedeva essere sprezzate tutte le condizioni oneste della
quiete e sicurtà della sedia apostolica e di Italia) a pigliare
l'armi, contro a quello che sempre era stata sua intenzione: perché
e la neutralità usata per lui innanzi a questa necessità, e le
condizioni della lega che aveva fatta, risguardanti tutte al
benefizio comune, dimostrare a bastanza non lo avere mosso alcuna
considerazione degli interessi propri e particolari suoi e della sua
casa. Ma poiché a Dio, forse a qualche buono fine, era piaciuto che
e' fusse ferito il corpo della cristianità, e in tempo che tutti gli
altri membri di questo corpo erano distratti da altri pensieri che
da quello della salute comune, credere la volontà sua essere che per
altra via si cercasse di sanare sí grave infermità. E però, toccando
questa cura piú allo offizio suo pastorale che ad alcuno altro,
avere disposto, posposte tutte le considerazioni della incomodità
del pericolo e della dignità sua, procurata il piú presto potesse e
con qualunque condizione una sospensione dell'armi in Italia, salire
in su l'armata e andare personalmente a trovare i príncipi
cristiani, per ottenere da loro, con persuasioni con prieghi con
lagrime, la pace universale de' cristiani. Confortare i cardinali ad
accingersi a questa espedizione, e ad aiutare il padre comune in sí
pietoso offizio; pregare Dio che fusse favorevole a sí santa opera:
la quale quando per i peccati comuni non si potesse condurre a
perfezione, gli piacesse almeno concedergli grazia che, nel
trattarla, innanzi ne fusse escluso dalla speranza gli sopravenisse
la morte; perché nissuna infelicità nissuna miseria gli potrebbe
essere maggiore che perdere la speranza e la facoltà di potere
porgere la mano salutare in incendio tanto pernicioso e tanto
pestifero. Fu udita con grande attenzione ed eziandio con non minore
compassione la proposta del pontefice, e commendata molto; ma
sarebbe stata commendata anche molto piú se le parole sue avessino
avuta tanta fede quanta in sé avevano degnità; perché la maggiore
parte de' cardinali interpretava che, avendo prese l'armi contro a
Cesare nel tempo che già, per le preparazioni palesi de' turchi, era
imminente e manifesto il pericolo dell'Ungheria, lo commovesse piú
la difficoltà nella quale era ridotta la guerra che il pericolo di
quel reame: di che non si potette fare vera esperienza.
Perché i Colonnesi, cominciando a eseguire la perfidia disegnata,
avevano mandato Cesare Filettino seguace loro con dumila fanti ad
Anagnia, dove per il pontefice erano dugento fanti pagati; con
dimostrazione, per occultare i loro pensieri, di volere pigliare
quella terra. Ma avendo in fatto altro animo, occupati tutti i
passi, e fatto estrema diligenza che a Roma non venissino altri
avvisi de' progressi loro, raccolte le genti mandate intorno ad
Anagnia, e con quelle e con l'altre loro, che erano in tutto circa
ottocento cavalli e tremila fanti, ma quasi tutte genti comandate,
camminando con grande celerità, né si presentendo in Roma cosa
alcuna della venuta loro, arrivativi la notte che precedeva il dí
vigesimo di settembre, preseno improvisamente tre porte di Roma; ed
entrati per quella di San Giovanni Laterano, essendovi in persona
non solo Ascanio e don Ugo di Moncada, perché il duca di Sessa era
morto molti giorni innanzi a Marino, ma ancora Vespasiano, stato
mezzano della concordia e interpositore, per sé e tutti gli altri,
della sua fede, e il cardinale Pompeio Colonna, traportato tanto
dalla ambizione e dal furore che avesse cospirato nella morte
violenta del pontefice, disegnando anche, come fu comune e costante
opinione, costretti con la violenza e con l'armi i cardinali a
eleggerlo, occupare con le mani sanguinose e con l'operazioni
scelerate e sacrileghe la sedia vacante del pontefice. Il quale,
intesa che già era giorno la venuta loro, che già erano raccolti
intorno a San Cosimo e Damiano, pieno di terrore e di confusione,
cercava, vanamente, di provedere a questo tumulto; perché né aveva
forze proprie da difendersi, né il popolo di Roma, parte lieto de'
suoi sinistri parte giudicando non attenere a sé il danno publico,
faceva segno di muoversi. Perciò, accresciuto l'animo degli inimici,
venuti innanzi, si fermorono con tutte le genti a Santo Apostolo,
donde spinseno per ponte Sisto in Trastevere circa cinquecento fanti
con qualche cavallo; i quali, ributtato dopo qualche resistenza
Stefano Colonna di Pilestrina dal portone di Santo Spirito, che
soldato del pontefice era ridotto quivi con dugento fanti, si
indirizzorono per Borgo vecchio alla volta di San Piero e del
palazzo pontificale, essendovi ancora dentro il pontefice. Il quale,
invano chiamando l'aiuto di Dio e degli uomini, inclinando a morire
nella sua sedia, si preparava, come già aveva fatto Bonifazio ottavo
nello insulto di Sciarra Colonna, di collocarsi con l'abito e con
gli ornamenti pontificali nella cattedra pontificale; ma rimosso con
difficoltà grande da questo proposito dai cardinali che gli erano
intorno, che lo scongiuravano a muoversi, se non per sé almanco per
la salute di quella sedia e perché nella persona del suo vicario non
fusse sí sceleratamente offeso l'onore di Dio, si ritirò insieme con
alcuni di loro, de' suoi piú confidenti, in Castello, a ore
diciassette, e in tempo che già non solo i fanti e i cavalli venuti
prima ma eziandio tutto il resto della gente saccheggiavano il
palazzo e le cose e ornamenti sagri della chiesa di San Piero: non
avendo maggiore rispetto alla maestà della religione e allo orrore
del sacrilegio che avessino avuto i turchi nelle chiese del regno di
Ungheria. Entrorono dipoi nel Borgo, del qual saccheggiorono circa
la terza parte; non procedendo piú oltre per timore dell'artiglierie
del Castello. Sedato poi il tumulto, che durò poco piú di tre ore
perché in Roma non fu fatto danno o molestia alcuna, don Ugo, sotto
la fede del pontefice e ricevuti per statichi della sicurtà sua i
cardinali Cibo e Ridolfi nipoti cugini del pontefice, andò a
parlargli in Castello; dove usate parole convenienti a vincitore,
propose condizioni di tregua. Sopra che, essendo differita la
risposta al dí seguente, fu conchiusa la concordia, cioè tregua, tra
il pontefice in nome suo e de' confederati e tra Cesare, per quattro
mesi, con disdetta di due altri mesi, e con facoltà a' confederati
di entrarvi infra due mesi; nella quale fussino inclusi non solo lo
stato ecclesiastico e il regno di Napoli ma eziandio il ducato di
Milano i fiorentini i genovesi i sanesi e il duca di Ferrara, e
tutti i sudditi della Chiesa mediate e immediate. Fusse obligato il
pontefice ritirare subito di qua da Po le genti sue che erano
intorno a Milano, e rivocare dall'armata Andrea Doria con le sue
galee, e gli imperiali e i Colonnesi a levare le genti di Roma e di
tutto lo stato della Chiesa e ritirarle nel reame di Napoli;
perdonare a Colonnesi e a chiunque fusse intervenuto in questo
insulto; dare per statichi della osservanza Filippo Strozzi e uno
de' figliuoli di Iacopo Salviati, il quale si obligò a mandarlo a
Napoli infra due mesi, sotto pena di trentamila ducati. Alla quale
tregua concorse l'una parte e l'altra cupidamente: il pontefice per
non essere in Castello vettovaglia da sostentarsi; don Ugo, benché
reclamando i Colonnesi, perché gli pareva fatto assai a benefizio di
Cesare, e perché quasi tutta la gente con che era entrato in Roma,
carica della preda, si era dissipata in diverse parti.
Da questa tregua si interroppeno tutti i disegni di Lombardia e
tutto il frutto della vittoria di Cremona: perché non ostante che,
quasi ne' medesimi dí, arrivasse allo esercito con le lancie
franzesi il marchese di Saluzzo, nondimeno, mancando le genti del
pontefice, che per la tregua, il settimo dí di ottobre, si
ritirorono la maggiore parte a Piacenza, si disordinò non meno il
disegno del mandare gente a Genova che il disegno fatto di strignere
Milano con due eserciti. Dette anche qualche disturbo che il duca
d'Urbino, fatto che ebbe l'accordo con quegli di Cremona, non
aspettata la consegnazione andò in mantovano, ancora che già sapesse
la tregua fatta a Roma, a vedere la moglie; e avendo consentito alle
genti che erano in Cremona prorogazione di tempo a partirsi, aspettò
la partita loro intorno a Cremona tanto tempo che non fu allo
esercito prima che a mezzo il mese di ottobre, con gravissimo
detrimento di tutte le faccende; perché si trattava di mandare gente
a Genova, ricercate piú che mai da Pietro Navarra e dal proveditore
dell'armata viniziana, ed essendo nello esercito, ricongiunte vi
fussino le genti viniziane, tante forze che bastavano a fare questo
effetto senza partirsi di quello alloggiamento. Perché e col
marchese di Saluzzo erano venute cinquecento lancie e quattromila
fanti, e vi si aspettavano di giorno in giorno i duemila fanti
grigioni condotti per l'accordo che si fece con loro; e il
pontefice, ancora che facesse palese dimostrazione di volere
osservare la tregua, nondimeno, avendo occultamente diversa
intenzione, aveva lasciato nello esercito quattromila fanti sotto
Giovanni de' Medici, sotto pretesto che fussino pagati dal re di
Francia: scusa che aveva apparente colore, perché Giovanni de'
Medici era continuamente soldato del re, e sotto suo nome riteneva
la compagnia delle genti d'arme. Partironsi finalmente le genti di
Cremona, della quale città fu consegnata la possessione a Francesco
Sforza; e i tedeschi col capitano Curadino se ne andorono alla volta
di Trento: ma i cavalli e i fanti spagnuoli, avendo passato Po per
tornarsene nel regno di Napoli, ed essendo fatta loro qualche
difficoltà dal luogotenente di concedere le patenti e i
salvocondotti sufficienti (perché era molesto al pontefice che
andassino a Napoli), preso allo improviso il cammino per la montagna
di Parma e di Piacenza, e dipoi ripassato con celerità il Po alla
Chiarella, si condussono salvi nella Lomellina e dipoi a Milano. Né
solo partí dalle mura di Milano, per l'osservanza della tregua, il
luogotenente con le genti del pontefice, ma eziandio si discostò da
Genova Andrea Doria con le sue galee: contro alle quali erano, pochi
dí prima, usciti di Genova seimila fanti tra pagati e volontari
(perché in Genova erano quattromila fanti pagati), con ordine di
assaltare prima secento fanti, i quali con Filippino dal Fiesco
erano in terra, sperando che rotti quegli le galee, perché il mare
era molto turbato, non si potessino salvare; ma Filippino aveva
fatto, nella sommità delle montagne appresso a Portofino, tali
fortificazioni di ripari e di bastioni che gli costrinse a ritirarsi
con non piccolo danno. E nondimeno, non molti dí poi, non so sotto
quale colore, Andrea Doria con sei galee ritornò a Portofino, per
continuare insieme con gli altri nell'assedio marittimo di Genova.
Lib.17, cap.14
Intimazione a Cesare della lega conclusa fra il pontefice il re di
Francia ed i veneziani. Spostamenti delle milizie dei collegati in
Lombardia. Il Frondsperg raccoglie in Germania milizie per scendere
in Italia; nuove deliberazioni del duca d'Urbino.
Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano con vari eventi in
Italia, gli oratori del pontefice del re di Francia e de' viniziani
intimorono il quarto dí di settembre (tanta dilazione era stata
interposta a fare questo atto), a Cesare la lega fatta, e la facoltà
che gli era data di entrarvi con le condizioni espresse ne'
capitoli; al quale atto essendo stato presente l'oratore del re di
Inghilterra, gli dette una lettera del suo re che lo confortava
modestamente a entrare nella lega. Il quale, udita la intimazione,
rispose agli imbasciadori, non comportare la degnità sua che
entrasse in una confederazione fatta principalmente contro allo
stato e onore suo; ma che, essendo stato sempre dispostissimo alla
pace universale, di che aveva fatto dimostrazione sí evidente, si
offeriva a farla di presente se essi avevano i mandati sufficienti:
da che si credeva avesse l'animo alieno, ma che proponesse questa
pratica per maggiore sua giustificazione, e per dare causa al re di
Inghilterra di soprasedere l'entrare nella lega; raffreddare con
questa speranza le provisioni de' collegati; e indurre poi, co'
mezzi del trattarla, qualche gelosia e diffidenza tra loro. E
nondimeno sollecitava da altro canto le provisioni dell'armata, che
si diceva essere di quaranta navi e di seimila fanti pagati. Per
sollecitare la partita della quale, che si metteva insieme nel porto
tanto memorabile di Cartagenia, partí a' ventiquattro dí di
settembre dalla corte il viceré; dimostrandosi Cesare molto piú
pronto e piú sollecito alle faccende che non faceva il re di
Francia: il quale, ancora che stretto da interessi sí gravi,
consumava la maggiore parte del tempo in piaceri di caccie di balli
e di intrattenimenti di donne. I figliuoli del quale, disperata la
osservanza dell'accordo, erano stati condotti a Vagliadulit.
Costrinse la venuta di questa armata il pontefice, sospettoso della
fede del viceré e degli spagnuoli, ad armarsi. Però non solo chiamò
a Roma Vitello con la compagnia sua e de' nipoti, ma eziandio cento
uomini d'arme del marchese di Mantova e cento cavalli leggieri di
Pieromaria Rosso, e dallo esercito gli furono mandati dumila
svizzeri a spese sue e tremila fanti italiani; e nondimeno
continuava in affermare di volere andare in Spagna ad abboccarsi con
Cesare: da che lo dissuadevano quasi tutti i cardinali, massime non
andando a cosa certa, e confortandolo a mandare prima legati.
Ritornato il duca d'Urbino all'esercito, e senza speranza alcuna di
ottenere o con la forza dell'armi o con la fame Milano, e facendo i
capitani dell'armate grandissima instanza che si mandassino genti a
molestare per terra Genova, deliberò, per potere fare questo
effetto, discostarsi con l'esercito dalle mura di Milano; ma
disposte le cose in modo che continuamente fussino impedite le
vettovaglie che andassino a quella città. Però dette principio alla
fortificazione di Moncia, per potervi lasciare genti le quali
attendessino a molestare le vettovaglie che si conducevano del monte
di Brianza e di altri luoghi circostanti; e fortificata l'avesse,
trasferire l'esercito in uno alloggiamento donde si impedissino le
vettovaglie che continuamente vi andavano da Biagrassa e da Pavia:
il quale alloggiamento come fusse fortificato, andasse verso Genova
il marchese di Saluzzo co' fanti suoi e con una banda di svizzeri.
Ma essendo, o per arte o per natura del duca, tali queste
deliberazioni che non si potevano mettere a esecuzione se non con
lunghezza molto maggiore che non conveniva allo stato delle cose e
alla necessità nella quale era Genova, ridotta in tanta estremità di
vettovaglie che con difficoltà si poteva piú sostenere, né mancando
a ottenerla altro che il dare impedimento alle vettovaglie che vi si
conducevano per terra, non si conducevano le cose disegnate a
effetto; non ostante che nello esercito si trovassino quattromila
svizzeri, dumila grigioni, quattromila fanti del marchese di
Saluzzo, quattromila pagati dal pontefice sotto Giovanni de' Medici,
e i fanti de' viniziani; i quali secondo gli oblighi e secondo
l'affermazione loro erano diecimila, ma secondo la verità numero
molto minore. Levossi finalmente lo esercito, l'ultimo dí di
ottobre, dallo alloggiamento nel quale era stato lungamente, e si
ridusse a Pioltello, lontano cinque miglia dal primo alloggiamento;
essendosi nel levare fatto una grossa scaramuccia con quegli di
Milano, co' quali uscí Borbone in persona. Ed era la intenzione del
duca soprastare a Pioltello tanto che fusse dato fine alla
fortificazione di Moncia, nella quale pensava lasciare dumila fanti
con alcuni cavalli, e dipoi condursi a Marignano; dove deliberato
l'altro alloggiamento, e presolo e fortificato, e forse prima,
secondo diceva, preso Biagrassa, mandare dipoi le genti a Genova:
cose di tanta lunghezza che davano giustissima cagione o di
accusarlo di timidità o di avere sospetto di qualche fine piú
importante, non ostante che egli allegasse per parte di sua scusa le
male provisioni de' viniziani; i quali non pagando i fanti a' tempi
debiti non avevano mai se non molto difettivo il numero
promettevano, e partendosene, di quegli che avevano, sempre, per il
soprastare delle paghe, molti, erano necessitati rimetterne di nuovo
molti quando davano la paga: in modo che, come verissimamente
diceva, aveva sempre una nuova milizia e uno nuovo esercito.
Ma quella dilazione, che insino a qui pareva stata volontaria,
cominciò ad avere cagione e colore di necessità. Perché, dopo molte
pratiche tenute in Germania di mandare soccorso di fanti in Italia,
le quali per la impotenza dello arciduca e per non avere Cesare
mandatovi provisione di danari erano state vane, Giorgio Fronspergh,
affezionato alle cose di Cesare e alla gloria della sua nazione, e
che due volte capitano di grosse bande di fanti era stato con somma
laude in Italia per Cesare contro a' franzesi, deliberato con le
facoltà private sostenere quello in che mancavano i príncipi,
concitò con l'autorità sua molti fanti e col mostrare la occasione
grande di predare e di arricchirsi in Italia, che, con ricevere da
lui uno scudo per uno, lo seguitassino al soccorso di Cesare; e
ottenuto dallo arciduca sussidio di artiglierie e di cavalli si
preparava a passare, facendo la massa di tutte le genti tra Bolzano
e Marano. In Lomellina erano stati qualche mese cavalli e fanti
della lega. La fama del quale apparato, penetrata in Italia, dette
cagione al duca di Urbino di levare il pensiero da molestare Genova,
ridotta quasi in ultima estremità; non ostante che Andrea Doria,
diminuite le dimande [fatte] prima, non facesse instanza di avere
piú di mille cinquecento fanti, disegnando di farne egli
altrettanti: i quali anche il duca gli negò, allegando per scusa la
necessità che aveva avuto di fare andare dallo esercito mille
cinquecento fanti de' viniziani in vicentino, per timore che i
viniziani avevano che il soccorso tedesco non si dirizzasse a quel
cammino; la quale opinione il duca confutava, persuadendosi
farebbeno la via di Lecco. Per la quale cagione stava fermo a
Pioltello, per essere piú propinquo a Adda; publicando volere andare
a incontrargli e combattere con loro di là da Adda, all'uscita di
Valle di Sarsina.
Lib.17, cap.15
Nuovi inviati del pontefice al re di Francia; trattative con lui e
col re d'Inghilterra. Milizie pontificie contro le terre dei
Colonna. Vani tentativi di trattative del pontefice col duca di
Ferrara. L'esercito del Frondspergh nel mantovano; deliberazioni del
duca d'Urbino.
Cosí, cominciando a tornare in nuove e maggiori difficoltà le cose
di Lombardia, era anche acceso nuovo fuoco in terra di Roma. Perché
il pontefice, costernato di animo per lo accidente de' Colonnesi,
inclinato con l'animo alla pace, e allo andare con l'armata a
Nerbona per trattarla personalmente con Cesare, aveva, subito
partiti che furono gli inimici di Roma, mandato Paolo da Arezzo suo
cameriere al re di Francia perché, con consentimento suo, passasse a
Cesare, per la pratica della pace e per fare anche intendere al re
le sue necessità e i suoi pericoli e dimandargli centomila ducati
per sua difesa. Nelle quali cose era tanto discordante da se
medesimo che, volendo dal re denari e maggiore prontezza alla
guerra, non solo gli negava le decime, instando di volerne per sé la
metà (il che il re recusava, dicendo non si essere mai costumato nel
reame di Francia), ma ancora non si risolveva a creare cardinale il
gran cancelliere; il quale, per l'autorità che aveva ne' consigli
del re, e perché per sua mano passavano tutte le espedizioni di
denari, poteva essergli in tutti i suoi disegni di grandissimo
momento. Non mancò il re condolersi con Paolo e con gli altri nunzi
del caso di Roma, offerire le forze sue alla sua difesa, mostrargli
che non poteva piú fidarsi di Cesare, dargli animo e confortarlo a
non perseverare nella tregua; nel quale caso, e non altrimenti,
diceva volere pagare i ventimila ducati promessi per ciascuno mese:
a che anche, e a non andare a Nerbona, lo confortò il re di
Inghilterra; il quale, inteso lo accidente seguito, gli mandò
venticinquemila ducati. Sconfortava il re di Francia l'andata del
pontefice a' príncipi, come cosa che per la importanza sua meritava
molta considerazione; e dinegò da principio che Paolo andasse a
Cesare, o perché avesse sospetto che il pontefice non cominciasse
con lui pratiche separate o perché, come diceva, fusse piú onorevole
trattare la pace per mezzo del re di Inghilterra che parere di
mendicarla da Cesare: benché, non molto poi, essendo fatta da Roma
di nuovo instanza della sua andata, la consentí, o perché pure
desiderava la pace o perché cominciasse a dispiacergli che la fusse
trattata dal re di Inghilterra. I progressi del quale erano tali che
meritamente dubitava di non essere, per gli interessi suoi propri,
tirato a condizioni non convenienti: con ciò sia che quel re, anzi
sotto il suo nome il cardinale eboracense, pieno di ambizione e
desideroso di essere giudice del tutto, proponesse condizioni
estravaganti; e avendo anche fini diversi da' fini degli altri, si
lasciasse dare parole da Cesare, [e] non avesse l'animo alieno che
il ducato di Milano fusse, per mezzo della pace, del duca di
Borbone, pure che a lui si congiugnesse la sorella di Cesare, acciò
che a sé restasse facoltà libera di maritare la figliuola al re di
Francia. I conforti adunque fatti al pontefice dall'uno e l'altro
re, il dubbio di non perdere la fede co' collegati, e privato degli
appoggi loro restare in preda di Cesare e de' suoi ministri, gli
stimoli de' consultori suoi medesimi, lo sdegno conceputo contro a'
Colonnesi e il desiderio, col farne giusta vendetta, di ricuperare
in qualche parte l'onore perduto, lo indusseno a volgere contro alle
terre, de' Colonnesi quelle forze che prima solamente per sua
sicurtà aveva chiamate a Roma; giudicando nessuna ragione
costrignerlo a osservare quello accordo il quale aveva fatto non
volontariamente ma ingannato dalle loro fraudi e sforzato, sotto la
fede ricevuta, dalle loro armi.
Mandò adunque il pontefice Vitello con le genti sue a' danni de'
Colonnesi, disegnando di abbruciare e fare spianare tutte le terre
loro, perché, per l'affezione inveterata de' popoli e della parte,
il pigliarle solamente era di piccolo pregiudizio; e nel medesimo
tempo publicò uno monitorio contro al cardinale e agli altri della
casa, per virtú del quale privò poi (che fu il vigesimo primo dí
di...) il cardinale della dignità del cardinalato: il quale prima,
volendosi difendere con la bolla della simonia, aveva in Napoli
fatto publiche appellazioni e appellato al futuro concilio. Contro
agli altri Colonnesi, i quali nel reame di Napoli soldavano cavalli
e fanti, soprasedette la pronunziazione della sentenza. Le genti
entrate nelle terre loro abbruciorono Marino e Montefortino, la
fortezza del quale si teneva ancora per i Colonnesi, spianorono
Gallicano e Zagarolo; non pensando i Colonnesi a difendere altro che
i luoghi piú forti e specialmente la terra di Paliano, la quale
terra [è] di sito forte e da potere con difficoltà condurvi
l'artiglieria; né vi si poteva andare per altro che per tre vie che
l'una non poteva soccorrere l'altra; e ha la muraglia grossissima, e
gli uomini della terra bene disposti a difenderla: e nondimeno si
credette che se Vitello con prestezza fusse andato ad assaltarla,
non ostante vi fussino rifuggiti molti delle terre prese, l'arebbe
ottenuta, perché non vi erano dentro soldati. Ma mentre differisce
lo andarvi, secondando la natura sua, piena, nello eseguire, di
difficoltà e di pericoli, entratovi dentro cinquecento fanti tra
tedeschi e spagnuoli mandativi del reame di Napoli (i quali vi
entrorono di notte), e dugento cavalli, la renderono in modo
difficile che Vitello, che nel tempo medesimo aveva gente intorno a
Grottaferrata, non ardito di tentare piú la impresa di Paliano, né
anche quella di Rocca di Papa, ma mandate alcune genti a battere con
l'artiglierie la rocca di Montefortino guardata da' Colonnesi,
deliberò di unire tutte le genti a Valmontone, piú per attendere
alla difesa del paese, se del reame si movesse cosa alcuna, che con
speranza di potere fare effetto importante: di che appresso al
pontefice acquistò imputazione assai. Il quale, ne' tempi che aveva
disegno assaltare il regno di Napoli, e poi quando chiamò le genti a
Roma per sua difesa, aveva desiderato che vi andassino Vitello e
Giovanni de' Medici, capitani congiunti di benivolenza e di
parentado, e dell'uno de' quali la timidità pareva bastante a
temperare e a essere temperata dalla ferocia dell'altro: ma tirando
i fati Giovanni a presta morte in Lombardia, aveva, per consiglio
del luogotenente, servendosi intratanto nelle cose minori di
Vitello, differito a chiamarlo insino a tanto avesse cagione o di
maggiore necessità o di maggiore impresa, per non privare in questo
mezzo lo esercito di Lombardia di lui, che per lo animo e virtú sua
era di molto terrore agli inimici e di presidio agli amici; e tanto
piú, riscaldando la venuta de' fanti tedeschi.
La quale, congiunta agli avvisi che si avevano dello essere in
procinto di partirsi del porto di Cartagenia l'armata di Spagna,
costrinseno il pontefice, stimolatone molto da' collegati e dai
consiglieri suoi medesimi, a pensare a fare qualche composizione (da
che sempre era stato alienissimo) col duca di Ferrara; non tanto per
assicurarsi de' movimenti suoi quanto per trarne somma grande di
denari, e per indurlo a cavalcare nello esercito come capitano
generale di tutta la lega. Sopra che avendo praticato molte volte
con Matteo Casella faventino, oratore del duca appresso a lui, e
parendogli trovarne desiderio nel duca, commesse al luogotenente suo
che era a Parma che andasse a Ferrara, dandogli, in dimostrazione
uno breve di mandato amplissimo ma ristrignendo la commissione, a
consentire di reintegrare il duca di Modena e di Reggio, col
ricevere da lui in brevi tempi dugentomila ducati, obligarlo a
scoprirsi e cavalcare come capitano della lega, e che il figliuolo
suo primogenito pigliasse per moglie Caterina figliuola di Lorenzo
de' Medici; trattandosi anche se vi fusse modo di dare con dote
equivalente una figliuola del duca per moglie a Ippolito de' Medici,
figliuolo già di Giuliano; e con molte altre condizioni: le quali
non solo erano per se stesse quasi inestricabili, per la brevità del
tempo, ma ancora il pontefice, che non ci conscendeva se non per
ultima necessità, aveva commesso che non si facesse, senza suo nuovo
avviso e commissione, la intera conclusione. La quale commissione
allargò pochi dí poi, cosí nelle condizioni come nella facoltà del
conchiudere, perché ebbe avviso che il viceré di Napoli era con
trentadue navi arrivato nel golfo di San Firenze in Corsica, con
trecento cavalli dumila cinquecento fanti tedeschi e tre in
quattromila fanti spagnuoli. Ma era già diventata vana la volontà
del pontefice, perché in su l'armata medesima era uno uomo del duca
di Ferrara il quale, spedito dal luogo predetto con grande
diligenza, non solo significò al duca la venuta della armata ma gli
portò ancora da Cesare la investitura di Modena e di Reggio, e la
promissione, sotto parole del futuro, del matrimonio di Margherita
di Austria, figliuola naturale di Cesare, in Ercole primogenito del
duca. Per le quali cose Alfonso, che prima con grandissimo desiderio
aspettava la venuta del luogotenente, mutato consiglio, parendogli
anche che per l'approssimarsi i fanti tedeschi e l'armata le cose di
Cesare cominciassino molto a esaltarsi, significò, per Iacopo
Alvarotto padovano suo consigliere, al luogotenente (che partito il
vigesimo quarto dí da Parma era già condotto a Cento) la espedizione
ricevuta di Spagna; per la quale se bene non fusse obligato a
offendere né il pontefice né la lega, nondimeno, avendo ricevuto
tanto beneficio da Cesare, non era conveniente trattasse piú di
operargli contro; e che, essendo interrotta per quella la
negoziazione per la quale andava a Ferrara, aveva voluto
significargliene perché la taciturnità sua non desse giusta cagione
di sdegno al pontefice: non gli negando però ma rimettendo in lui lo
andare o non andare a Ferrara. Dalla quale proposta compreso il
luogotenente essere vana l'andata sua, non volendo mettervi piú
senza speranza di frutto della riputazione del pontefice, richiamato
anche dalla necessità delle cose di Lombardia, si ritornò,
interposti però nuovi ragionamenti di concordia in altra forma,
subito a Modena: riducendosi ogni dí piú tutto lo stato della Chiesa
da quella banda in maggiore pericolo. Conciossiaché Giorgio
Fronspergh co' fanti tedeschi, in numero di tredici in
quattordicimila, preso il cammino per Valdisabbio e per la Rocca di
Anfo, condotti verso Salò, erano già arrivati a Castiglione dello
Strivieri in mantovano. Contro a' quali il duca d'Urbino, che pochi
dí innanzi per essere spedito a andargli a incontrare aveva condotto
l'esercito a Vauri sopra Adda, tra Trezzo e Cassano, e gittato quivi
il ponte e fortificato lo alloggiamento, lasciatovi il marchese di
Saluzzo con le genti franzesi e co' svizzeri, grigioni e co' suoi
fanti, partí il decimonono di novembre da Vauri, conducendo seco
Giovanni de' Medici, seicento uomini d'arme molti cavalli leggieri e
otto in novemila fanti; con disegno non di assaltargli direttamente
alla campagna ma, infestandogli e incomodandogli delle vettovaglie
(il quale modo solo diceva essere a vincere gente di tale
ordinanza), condurgli in qualche disordine. Condussesi a' ventiuno a
Sonzino, donde spinse Mercurio con tutti i cavalli leggieri e una
banda di uomini d'arme per infestargli, e dare tempo allo esercito
di raggiugnergli; dubitando già, per essere quel dí medesimo
alloggiati alla Cavriana, di non arrivare tardi: di che, scusando la
tardità della partita sua da Vauri, trasferiva la colpa nella
negligenza e avarizia del proveditore Pisani, per la quale era stato
necessitato soprastare uno dí o due piú, per aspettare che in campo
fussino i buoi per levare l'artiglierie; dal quale difetto diceva
poi essere proceduto grandissimo disordine e quasi la rovina di
tutta la impresa.
Lib.17, cap.16
Fazione di Borgoforte; ferita e morte di Giovanni de' Medici.
Scontro delle flotte nemiche vicino a Codemonte; la flotta di Cesare
a Gaeta. Marcia dell'esercito tedesco; truppe imperiali inviate da
Milano a Pavia. Provvedimenti difensivi dei collegati; i tedeschi
alla Trebbia.
Si era insino a ora stato in ambiguo quale dovesse essere il cammino
de' tedeschi: perché si credette prima che per il bresciano e per il
bergamasco andassino alla volta di Adda, con disegno di essere
incontrati dalle genti imperiali, e accompagnati con loro andarsene
a Milano; erasi creduto di poi volessino passare Po a Casalmaggiore
e di quivi trasferirsi alla via di Milano. Ma essendo a' ventidua dí
venuti a Rivalta, otto miglia da Mantova tra il Mincio e Oglio (nel
quale dí alloggiò il duca a Prato Albuino), e non avendo passato il
Mincio a Goito, dava indizio volessino passare il Po a Borgoforte o
Viadana piú presto che a Ostia e nelle parti piú basse, e passando a
Ostia sarebbe stato segno di pigliare il cammino di Modena e di
Bologna; dove, nell'uno luogo e nell'altro, si soldavano fanti e
facevano provisioni. Preseno dipoi i tedeschi, a' ventiquattro, la
via di Borgoforte; dove, non avendo loro artiglieria, arrivorono
quattro falconetti, mandati loro per Po dal duca di Ferrara: aiuto
in sé piccolo ma che riuscí grandissimo per benefizio della fortuna.
Perché essendo il duca di Urbino, seguitandogli, entrato nel
serraglio di Mantova nel quale erano ancora loro, corse,
nell'accostarsi a Borgoforte, alla coda loro, benché con poca
speranza di profitto, Giovanni de' Medici co' cavalli leggieri; e
accostatosi piú arditamente perché non sapeva che avessino avute
artiglierie, avendo essi dato fuoco a uno de' falconetti, il secondo
tiro roppe la gamba alquanto sopra al ginocchio a Giovanni de'
Medici; del quale colpo, essendo stato portato a Mantova, morí pochi
dí poi, con danno gravissimo della impresa, nella quale non erano
state mai dagli inimici temute altre armi che le sue. Perché, se
bene giovane di ventinove anni e di animo ferocissimo, la esperienza
e la virtú erano superiori agli anni e, mitigandosi ogni dí il
fervore della età e apparendo molti indizi espressi di industria e
di consiglio, si teneva per certo che presto avesse a essere nella
scienza militare famosissimo capitano. Camminorono dipoi i tedeschi,
non infestati piú da alcuno, lasciato indietro Governo, alla via di
Ostia lungo il Po, essendo il duca d'Urbino a Borgoforte; e a' venti
otto dí, passato il Po a Ostia, alloggiorono a Revere: dove,
soccorsi di qualche somma di denari dal duca di Ferrara e di alcuni
altri pezzi di artiglieria da campagna, essendo già in tremore
grandissimo Bologna e tutta la Toscana, perché il duca di Urbino,
ancoraché innanzi avesse continuamente affermato che passando essi
Po lo passerebbe ancora egli, se ne era andato a Mantova, dicendo
volere aspettare quivi la commissione del senato viniziano se aveva
a passare Po o no. Ma i tedeschi, passato il fiume della Secchia, si
volseno al cammino di Lombardia per unirsi con le genti che erano a
Milano.
Nel quale tempo, il viceré partito da Corsica con venticinque
vaselli, perché due [navi] erano, per l'ira del mare, innanzi
arrivasse a San Firenze, andate a traverso e cinque sferrate dalle
altre andavano vagando, riscontrò a' ventidue dí, sopra Sestri di
Levante, con sei galee del re di Francia cinque del Doria e cinque
de' viniziani; le quali appiccatesi insieme, sopra Codemonte,
combatterono da ventidue ore del dí, insino alla notte: e scrisse il
Doria avere buttato in fondo una loro nave dove erano piú di
trecento uomini, e con l'artiglieria trattata male tutta l'armata; e
che per il tempo tristo le galee erano state sforzate a ritirarsi
sotto il monte di Portofino, e che aspettavano la notte medesima
l'altre galee che erano a Portovenere; e venendo o non venendo
volevano, alla diana, andare a cercarla. Nondimeno, benché la
seguitassino insino a Livorno, non potetteno raggiugnerla perché si
era dilungata dinanzi a loro per molte miglia: conciossiaché gli
inimici, credendo fusse corso o in Corsica o in Sardigna, non furono
presti a seguitarlo. Seguitò poi il cammino suo il viceré, ma
travagliato dalla fortuna; sparsa l'armata sua: una parte, dove era
don Ferrando da Gonzaga, stracorse in Sicilia, che dipoi si
ridusseno a Gaeta, dove poseno in terra certi fanti tedeschi; egli
col resto dell'armata arrivò al Porto di Santo Stefano. Donde, non
avendo certezza de' termini in che si trovassino le cose, mandò a
Roma al pontefice il comandatore Pignalosa, con buone parole della
mente di Cesare; egli, come il mare lo permesse, si condusse con
l'armata a Gaeta.
I fanti tedeschi intanto, passata Secchia e andati verso Razzuolo e
Gonzaga, alloggiorono il terzo di dicembre a Guastalla, il quarto a
Castelnuovo e Povi lontano dieci miglia da Parma; dove si congiunse
con loro il principe di Oranges, passato da Mantova con due
compagni, a uso di archibusiere privato. A' cinque, passato il fiume
dell'Enza al ponte in su la strada maestra, alloggiorno a
Montechiarucoli, standosi ancora il duca d'Urbino, non mosso da'
pericoli presenti, a Mantova con la moglie; e a' sette, i tedeschi
passato il fiume della Parma alloggiorno alle ville di Felina,
essendo le pioggie grandi e i fiumi grossi. Erano trentotto
bandiere, e per lettere intercette del capitano Giorgio al duca di
Borbone, si mostrava molto irresoluto di quello avesse a fare.
Passorono agli undici dí il Taro, alloggiorono a' dodici al Borgo a
San Donnino, dove contro alle cose sacre e l'immagini de' santi
avevano dimostrato il veleno luterano; a' tredici a Firenzuola,
donde con lettere sollecitavano quegli di Milano a congiugnersi con
loro: ne' quali era il medesimo desiderio, ma gli riteneva il
mancamento de' denari, perché gli spagnuoli minacciavano non volere
uscire di Milano se non erano pagati del vecchio, e già cominciavano
a saccheggiare. Ma finalmente furono accordati, con difficoltà, da'
capitani in cinque paghe: per le quali fu necessario spogliare le
chiese degli argenti e incarcerare molti cittadini. E secondo gli
pagavano gli mandavano a Pavia, con difficoltà grandissima perché
non volevano uscire di Milano. Le quali cose ricercando tempo,
mandorono di là da Po, per accostarsi a' tedeschi, alcuni cavalli e
fanti italiani.
Aveva fatta instanza il luogotenente che, per sicurtà dello stato
della Chiesa da quella banda, il duca di Urbino passasse Po con le
genti viniziane, il quale non solo aveva differito, ora dicendo
aspettare avviso della volontà de' viniziani ora allegando altre
cagioni, ma dimostrando al senato essere pericolo che, passando egli
il Po, gli imperiali non assaltassino lo stato loro, aveva ottenuto
gli commettessino che non passasse; anzi aveva intrattenuto piú dí i
fanti che erano stati di Giovanni de' Medici, sollecitati dal
luogotenente a passare Po per difesa delle cose della Chiesa. E
avendo il marchese di Saluzzo, richiesto dal luogotenente di
soccorso, passato Adda, mosso ancora perché, essendo diminuiti i
svizzeri e i fanti grigioni, gli pareva essere debole nello
alloggiamento di Vauri, i viniziani, che prima avevano consentito
che 'l marchese passasse Po in soccorso del pontefice con diecimila
fanti tra svizzeri e i suoi, pagati da loro de' quarantamila ducati
del re di Francia (de' quali ricevere e spendere restata la cura a
loro, quando il pontefice fece la tregua, era sospizioni, e fu poi
molto maggiore, che ne convertissino nel pagamento delle genti loro
qualche parte), lo pregavano, per consiglio del duca di Urbino, che
non passasse; e perciò il duca, chiamatolo a parlamento a Sonzino,
soprastette tanto a venirvi che il marchese si partí; nondimeno, non
solo fece ogni opera di farlo soprastare, per vedere meglio che
facessino i tedeschi, ma eziandio lo confortò apertamente a non
passare. A che lo ritardava anche che i pagamenti de' svizzeri, che
in condotta erano seimila ma in fatto poco piú di quattromila, non
erano in ordine: i quali pagare, insieme co' quattromila fanti del
marchese, apparteneva a' viniziani. Per la quale cagione se bene si
differisse insino al vigesimo settimo di dicembre il passare suo,
mandò nondimeno parte della cavalleria franzese con qualche fante ad
alloggiare in diversi luoghi del paese, per disturbare le
vettovaglie a' fanti tedeschi, stati già molti dí a Firenzuola. Per
quella cagione medesima fu mandato Guido Vaina con cento cavalli
leggieri al Borgo a San Donnino, e Paolo Luzasco uscito di Piacenza
si accostò a Firenzuola; donde una parte de' tedeschi, per piú
comodità del vivere, andò ad alloggiare a Castello Arquà. Per
sospetto de' quali si era prima proveduta Piacenza, ma non con
quelle forze le quali parevano convenienti; perché il luogotenente,
avendo sempre, dopo la venuta de' tedeschi, temuto che la difficoltà
del fare progresso in Lombardia non sforzasse gli imperiali al
passare in Toscana, desiderava pigliassino animo di andare a campo a
Piacenza. Per la quale cagione, incognita a qualunque altro,
eziandio al pontefice, differiva il provedere Piacenza talmente che
si disperassino di espugnarla, provedendola perciò in modo non
potessino occuparla con facilità, e sperando che quando v'andassino
non avesse a mancare modo di mettervi soccorso. Ma la lunga dimora
de' tedeschi ne' luoghi vicini, esclamando ciascuno del pericolo di
quella città, lo costrinse a consentire che vi andasse il conte
Guido con grossa gente: dove anche per ordine de' viniziani, che
avevano promesso, per soccorrere alle necessità del pontefice,
mandarvi a guardia mille fanti, vi fu mandato Babone di Naldo, uno
de' loro capitani; ma per i mali pagamenti tornorono presto a
quattrocento. Passò finalmente Saluzzo, non avendo in fatto piú che
quattromila tra svizzeri e grigioni e tremila fanti de' suoi; e
condotto al Pulesine, ancora che si desiderasse non partisse di
quivi per infestare lo alloggiamento di Firenzuola, dove anche
spesso scorreva il Luzasco, si ridusse per piú sicurtà a Torricella
e a Sissa. Ma due dí poi i tedeschi, partiti da Firenzuola, andorono
a Carpineti e luoghi circostanti; e il conte di Gaiazzo, presa
Rivolta, passò la Trebbia: né si intendeva quale fusse il disegno
del duca di Borbone, o di andare a campo a Piacenza, come fusse
uscito di Milano, o pure passare innanzi alla volta di Toscana.
Passorono poi, l'ultimo dí dell'anno, i tedeschi la Nura, per
passare la Trebbia e aspettare quivi Borbone, essendo alloggiamento
manco infestato dagli inimici.
Lib.17, cap.17
Brevi del pontefice a Cesare e risposte di questo; offerte del
generale di San Francesco al pontefice di trattare la tregua a nome
di Cesare; trattative di tregua e provvedimenti di guerra del
pontefice; mutamento di contegno del viceré verso il pontefice.
Maggiori esigenze di Cesare per la pace coi collegati. Capitolazione
del duca di Ferrara con Cesare.
Nella quale freddezza delle cose di Lombardia, procedente non tanto
dalla stagione asprissima dell'anno quanto dalla difficoltà che
aveva Borbone di pagare le genti, per la quale erano, per la
provisione de' denari, vessati e tormentati maravigliosamente i
milanesi (per la quale necessità Ieronimo Morone, condannato alla
morte, compose, la notte precedente alla mattina destinata al
supplicio, di pagare ventimila ducati, al quale effetto era stata
fatta la simulazione di decapitarlo; co' quali uscito di carcere
diventò subito, col vigore del suo ingegno, di prigione del duca di
Borbone suo consigliere e, innanzi passassino molti dí, quasi
assoluto suo governatore), erano tra il papa e il viceré grandi i
trattati di tregua o di pace; ma piú veri e piú sostanziali i
disegni del viceré di fare la guerra, preso animo, poi che fu
arrivato a Gaeta, dai conforti de' Colonnesi e dallo intendere che
il pontefice, perduto totalmente d'animo ed esausto di denari,
appetiva grandemente l'accordo, e predicando a tutti la sua povertà
e il suo timore, né volendo creare cardinali per denari come era
confortato da tutti, accresceva l'ardire e la speranza di chi
disegnava di offenderlo. Perché il pontefice, il quale non era
entrato nella guerra con la costanza dell'animo conveniente, aveva
scritto insino il vigesimo sesto dí di giugno [un brieve a Cesare]
acerbo e pieno di querele, escusandosi di essere stato necessitato
da lui alla guerra; ma parendogli, poi che l'ebbe espedito, che
fusse troppo acerbo, ne scrisse subito un altro piú mansueto,
commettendo a Baldassare da Castiglione suo nunzio che ritenesse il
primo; il quale, già arrivato, era stato presentato il decimosettimo
dí di settembre; fu dipoi presentato l'altro, e Cesare
separatamente, benché in una espedizione medesima, rispose all'uno e
all'altro secondo le proposte: allo acerbo acerbamente, al dolce
dolcemente. Aveva avidamente prestato orecchi al generale di San
Francesco, il quale, andandosene, quando si mosse la guerra, in
Spagna, ebbe dal papa imbasciate dolci a Cesare; e di nuovo
ritornato a Roma, per commissione di Cesare, aveva riferito assai
della sua buona mente: e che sarebbe contento venire in Italia con
cinquemila uomini e, presa la corona dello imperio, passare subito
in Germania per dare forma alle cose di Luter, senza parlare del
concilio; accordare co' viniziani con oneste condizioni; rimettere
in due giudici diputati dal papa e da lui la causa di Francesco
Sforza, il quale se fusse condannato, dare quello stato al duca di
Borbone; levare lo esercito di Italia, pagando il papa e i viniziani
trecentomila scudi o piú per le paghe corse (pure, che questo si
tratterebbe per ridurlo a somma piú moderata); restituire al re i
figliuoli, avuto da lui in due o piú termini due milioni d'oro:
mostrava essere facile lo accordare col re d'Inghilterra, per non
essere somma grande e il re di Francia averla già offerta. E per
trattare queste cose, le quali il pontefice comunicò tutte con gli
oratori franzesi e viniziani, offeriva il generale tregua per otto o
dieci mesi, dicendo avere da Cesare il mandato amplissimo in sé e
nel viceré o in don Ugo. Per la quale esposizione il pontefice,
udito Pignalosa e intesa la partita del viceré dal Porto di Santo
Stefano, mandò il generale a Gaeta per trattare seco; perché e i
viniziani non arebbono recusata la tregua, pure che vi avesse
consentito il re di Francia: il quale non se ne dimostrava alieno,
anzi la madre aveva mandato a Roma Lorenzo Toscano, dimostrando
inclinazione alla concordia nella quale fussino compresi tutti. E
parendogli nissuna pratica potere essere bene sicura senza la
volontà di Borbone, mandò a lui per le medesime cagioni uno suo
limosiniere che era a Roma; il quale il duca poco dipoi rimandò al
pontefice a trattare. E nondimeno, nel tempo medesimo, non
abbandonando la provisione dell'armi, mandò Agostino Triulzio
cardinale legato allo esercito di Campagna; e preparandosi ad
assaltare eziandio per mare il regno di Napoli, e per difesa
propria, arrivò, il terzo di dicembre, a Civitavecchia Pietro
Navarra, con ventotto galee del pontefice de' franzesi e de'
viniziani: nel quale tempo, o poco poi, era, con l'armata delle vele
quadre arrivato Renzo da Ceri a Savona, mandato dal re di Francia
per cagione della impresa disegnata contro al reame di Napoli. E da
altro canto, Ascanio Colonna con dumila fanti e trecento cavalli
venne in Valbuona, a quindici miglia di Tivoli, dove sono terre
dello abate di Farfa e di Giangiordano. Mandò anche il pontefice,
pochi dí poi, l'arcivescovo di Capua al viceré; il quale anche,
insino al vigesimo dí di ottobre, aveva mandato a Napoli, sotto nome
delle cose degli statichi, e particolarmente di Filippo Strozzi. Ma
il viceré, intesa la debolezza del pontefice, non parlava piú
umanamente. Preseno a' dodici di dicembre i Colonnesi, co' quali era
il cardinale, Cepperano, che non era guardato, e le genti loro
sparse per le castella di Campagna; e da altro canto Vitello, con le
genti del pontefice, ridotto fra Tivoli, Palestrina e Velletri.
Presono poi Pontecorvo, non guardato, e Ascanio poi dette la
battaglia invano a Scarpa, castello della badia di Farfa, luogo
piccolo e debole: ed egli e il cardinale con quattromila fanti
correvano per Campagna, ma ributtati da qualunque voleva difendersi.
Accostossi dipoi Cesare Filettino con mille cinquecento fanti, di
notte, ad Alagnia; nella quale intromessi già furtivamente da alcuni
uomini della terra cinquecento fanti, per una casa congiunta alle
mura, furono ributtati da Gianlione da Fano, capo de' fanti che vi
aveva il pontefice. Tornò poi il generale dal viceré, e riportò che
egli consentirebbe alla tregua per qualche mese, acciò che
intratanto si trattasse la pace, ma dimandare denari e, per sicurtà,
le fortezze di Ostia e di Civitavecchia. Ma in contrario di lui
scrisse l'arcivescovo di Capua (giunto a Gaeta dopo la partita sua,
e forse mandatovi con malo consiglio dal pontefice) che il viceré
non voleva, piú tregua ma pace col pontefice solo o con il pontefice
e co' viniziani, pagandogli denari per mantenere lo esercito per
sicurtà della pace, e poi trattare tregua con gli altri: o perché
veramente avesse mutato sentenza o per le persuasioni, come molti
dubitorono, dello arcivescovo.
Nel quale tempo Paolo da Arezzo, arrivato alla corte di Cesare co'
mandati del pontefice, de' viniziani e di Francesco Sforza (dove
anche il re di Inghilterra volle che per la medesima causa della
pace andasse l'auditore della camera, perché vi era anche prima il
mandato del re di Francia), lo trovò variato di animo, per avere
avuto avviso della arrivata de' tedeschi e dell'armata in Italia.
Però, partendosi dalle condizioni ragionate prima, dimandava che il
re di Francia osservasse in tutto l'accordo di Madril, e che la
causa di Francesco Sforza si vedesse per giustizia da i giudici
deputati da lui. Cosí la intenzione di Cesare riceveva variazione
dai successi delle cose; e le commissioni date lui a' ministri suoi
che erano in Italia avevano, per la distanza del luogo, o espressa o
tacita condizione di governarsi secondo la varietà de' tempi e delle
occasioni. Però il viceré, avendo deluso piú dí con pratiche vane il
pontefice, né voluto consentire una sospensione d'armi per pochi dí,
tanto si vedesse l'esito di questo trattato, partí, a' venti, da
Napoli per andare alla volta dello stato della Chiesa, proponendo
nuove condizioni estravaganti dello accordo. Seguitò, l'ultimo dí
dell'anno, la capitolazione del duca di Ferrara, fatta per mezzo di
uno oratore suo, col viceré e con don Ugo, che aveva il mandato da
Cesare; benché con poca sodisfazione di quello oratore, astretto
quasi con minacce e con acerbe parole dal viceré di consentire: che
il duca di Ferrara fusse obligato con la persona e con lo stato
contro a ogni inimico di Cesare; fusse capitano generale di Cesare
in Italia con condotta di cento uomini d'arme e di dugento cavalli
leggieri, ma obligato a mettergli insieme co' danari propri, i quali
gli avessino a essere o restituiti o accettati ne' conti suoi: che
per la dota della figliuola naturale di Cesare, promessa al
figliuolo, ricevesse di presente la terra di Carpi e la fortezza di
Novi, appartenente già ad Alberto Pio, ma che le entrate, insino
alla consumazione del matrimonio, si compensassino con gli stipendi
suoi; e che Vespasiano Colonna e il marchese del Guasto
rinunziassino alle ragioni vi pretendevano: pagasse, recuperato che
avesse Modona, dugentomila ducati, ma che in questi si computassino
quegli che dopo la giornata di Pavia aveva pagati al viceré; ma non
recuperando Modona gli fussino restituiti tutti i denari che prima
aveva sborsato: fusse Cesare obligato alla sua protezione, né
potesse fare pace senza comprendervi dentro lui, con l'assoluzione
delle censure e delle pene incorse poi che si era declarato
confederato di Cesare; e delle incorse innanzi, fare ogni opera per
fargliene consentire. Cosí, nella fine dell'anno mille cinquecento
ventisei, tutte le cose si preparavano a manifesta guerra.
Lib.18, cap.1
L'anno mille cinquecento ventisette ricco di avvenimenti e di
sciagure. Movimenti delle milizie imperiali riunitesi nell'Emilia.
Vicende di guerra nello stato pontificio. Richieste di aiuti del
pontefice ai collegati e al re d'Inghilterra; dubbi dei collegati
per le trattative del pontefice col viceré.
Sarà l'anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già
per piú secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di
príncipi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di
vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni
cosa di morte di fuga e di rapine. Alle quali calamità nessuna
difficoltà ritardava a dare il principio che le difficoltà che aveva
il duca di Borbone di potere muovere di Milano i fanti spagnuoli.
Perché avendo convenuto insieme che Antonio de Leva rimanesse alla
difesa del ducato di Milano con tutti i fanti tedeschi che prima vi
erano (nella sostentazione de' quali si erano consumati tutti i
danari raccolti da' milanesi, e quegli riscossi per virtú delle
lettere che aveva portate di Spagna) e con mille dugento fanti
spagnuoli e con qualche numero di fanti italiani sotto Lodovico da
Belgioioso e altri capi, e forse con qualche parte dei fanti
tedeschi, restavano i fanti spagnuoli; i quali, non avendo ricevuti
danari in nome di Cesare, ma sostentati con le taglie e con le
contribuzioni, e avendo in preda le case e le donne de' milanesi,
continuavano volentieri nel vivere con tanta licenza; ma non potendo
negarlo direttamente, dimandavano di essere prima sodisfatti degli
stipendi corsi insino a quello dí. Promessono finalmente di
seguitare la volontà del duca, ricevute prima da lui cinque paghe:
ma era molto difficile il farne provisione, non bastando né i
minacci né il votare delle case né le carceri a riscuotere danari
da' milanesi: dove anche, per nutrire l'esercito, erano citati gli
assenti, e i beni di quelli che non comparivano erano donati a'
soldati. Finalmente, superate tutte le difficoltà, passorno le genti
imperiali, il penultimo dí di gennaio, il fiume del Po, e il
seguente dí una parte de' tedeschi, i quali prima avevano passata la
Trebbia, ripassatala, andorono ad alloggiare a Pontenuro; il resto
dell'esercito si fermò di là da Piacenza: essendo allo incontro il
marchese di Saluzzo a Parma, e con tutte le genti distese per il
paese. E il duca di Urbino, venuto a Casalmaggiore (avendo i
viniziani rimesso in arbitrio suo il passare Po), cominciava a fare
passare le genti; affermando, in caso che gli imperiali andassino,
come da Milano si aveva avvisi, alla volta di Toscana, di volere
passare in persona con seicento uomini d'arme novemila fanti e
cinquecento cavalli leggieri, ed essere prima di loro a Bologna; e
che il simile facesse, con la sua gente e con quella della Chiesa,
il marchese di Saluzzo. Soprastette l'esercito imperiale circa venti
dí, parte di qua parte di là da Piacenza, sopratenendolo in parte la
difficoltà de' denari (de' quali insino a quel dí non avevano i
tedeschi avuto alcuno dal duca di Borbone) parte l'avere egli
inclinazione di porsi a campo a Piacenza, forse piú per le
difficoltà del procedere innanzi che per altra cagione. Però instava
col duca di Ferrara che lo accomodasse di polvere per l'artiglierie
e che venisse a congiugnersi seco, offerendo mandargli incontro
cinquecento uomini d'arme e il capitano Giorgio con seimila fanti.
Alla quale dimanda rispose il duca essere impossibile mandargli la
polvere per il paese inimico, né potere senza pericolo tentare di
unirsi seco per essere tutte le genti della lega in luogo vicino; ma
quando tutte queste cose fussino facili, dovere considerare,
Borbone, non potere fare cosa piú comoda agli inimici e piú
desiderata da loro che attendere a perdere tempo intorno a quelle
terre a una a una; e considerare, quando non pigliasse Piacenza, o
se pure la pigliasse ma con lunghezza di tempo, dove resterebbe la
sua riputazione, dove il modo di proseguire la guerra, avendo tanto
mancamento di denari e di tutte le provisioni: il benefizio di
Cesare, la via unica della vittoria essere camminare verso il capo,
condursi, lasciato ogni altra impresa indietro, una volta, a
Bologna; donde potrebbe deliberare o di cercare di sforzare quella
terra, a che non gli mancherebbeno gli aiuti suoi, o di passare piú
innanzi alla volta di Firenze o di Roma.
Le quali cose mentre si trattano, e che Borbone provede a denari non
solo per finire il pagamento degli spagnuoli ma eziandio per dare
qualche cosa a' fanti tedeschi, a' quali credo che al partire da
Piacenza desse due scudi per uno, era accesa gagliardamente la
guerra nello stato della Chiesa; essendo nel campo ecclesiastico
andato nuovamente Renzo da Ceri che era venuto di Francia, e il
campo del papa era vicino al viceré che era a' confini di Cepperano;
dove alcuni fanti italiani roppono trecento fanti spagnuoli. Ma nel
modo della difesa dello stato ecclesiastico era varietà di opinioni.
Perché Vitello, innanzi alla venuta di Renzo, aveva consigliato il
pontefice che, abbandonata la provincia della Campagna, si
mettessino in Tivoli dumila fanti, in Pelistrina dumila altri, e che
il resto dello esercito si fermasse a Velletri per impedire l'andata
del viceré a Roma. La qual cosa essendo già deliberata, Renzo,
sopravenendo, dannò il riserrarsi in Velletri, per essere terra
grande e male reparabile, e per non lasciare procedere gli inimici
tanto innanzi; ma che l'esercito si fermasse a Fiorentino, che non
avendo a guardare tanti luoghi sarebbe piú grosso, ed era luogo per
proibire che gli inimici non venissino piú innanzi: il quale
consiglio approvato, si messeno in Frusolone, residenza principale
della Campagna, lontano da Fiorentino cinque miglia, mille ottocento
fanti, di quegli di Giovanni de' Medici la piú parte, che avevano
preso il cognome delle bande nere, con Alessandro Vitello,
Giovambatista Savello e Pietro da Birago condottieri di cavalli
leggieri. Ma in questo mezzo i Colonnesi avevano occultamente
indotto Napolione Orsino, abbate di Farfa, a pigliare l'armi in
terra di Roma, come soldato di Cesare; la quale cosa dissimulando il
pontefice, al quale ne era penetrata occultamente la notizia, e da
chi prima aveva ricevuto danari, tiratolo con arte a andare a
incontrare Valdemonte, quando veniva di Francia, lo fece prendere
appresso a Bracciano e metterlo prigione in Castello Santangelo.
Attendeva il pontefice a provedere danari, né gli bastando i modi
ordinari vendeva i beni di molte chiese e luoghi pii; e supplicando
a' príncipi, ottenne di nuovo dal re di Inghilterra trentamila
ducati, i quali gli portò maestro Rossello suo cameriere: col quale
venne Robadanges, con diecimila scudi mandati dal re di Francia per
conto della decima; la quale il papa stretto dalla necessità gli
aveva concesso, con promissione di dargli, oltre a' pagamenti de'
quarantamila scudi alla lega e de' ventimila al papa ciascuno mese,
trentamila ducati di presente e trentamila altri fra uno mese.
Commesse anche il re di Inghilterra a maestro Rossello che intimasse
al viceré e al duca di Borbone una sospensione d'armi, per dare
tempo al trattato della pace che secondo la volontà di Cesare si
teneva in Inghilterra, altrimenti protestargli la guerra: e pareva
allora che quel re, cupido del matrimonio della figliuola col re di
Francia, inclinasse al favore de' collegati; il quale matrimonio
subito che fusse succeduto, prometteva di entrare nella lega e
rompere la guerra in Fiandra. Pareva anche molto inclinato
particolarmente al beneficio del pontefice; ma non si potevano
sperare i rimedi pronti da uno principe che non misurava bene le
forze sue e le condizioni presenti d'Italia, e che anche non si era
fermato in una determinata volontà; ritirandolo sempre in parte la
speranza datagli da Cesare di mettere in sua mano la pratica della
pace, benché non corrispondessino gli effetti: perché essendo andato
a lui per questo effetto l'auditore della camera, ancora che Cesare
si sforzasse di persuadergli con molte arti questa essere la sua
intenzione, nondimeno, aspettando di intendere prima quel che per la
passata de' tedeschi e dell'armata fusse succeduto in Italia, non
dava risposta certa, mettendo eccezione ne' mandati de' collegati
come se non fussino sufficienti. Mandò anche il re a Roma, per
favorire la impresa del regno di Napoli, Valdemonte fratello del
duca del Loreno, che per l'antiche ragioni del re Renato pretendeva
alla successione di quello reame. Ma al pontefice noceva appresso a
confederati il trattare continuamente la concordia col viceré,
dubitando che a ogn'ora non convenisse seco, e però parendo quasi
inutile al re di Francia e a' viniziani tutto quello che spendessino
per sostenerlo: la quale suspizione accresceva il timore estremo che
appariva in lui e i protesti cotidiani di non potere piú sostenere
la guerra, aggiunto all'ostinazione di non volere creare cardinali
per denari, né aiutarsi, in tanta necessità e in tanto pericolo
della Chiesa, co' modi consueti, eziandio nelle imprese ambiziose e
ingiuste, agli altri pontefici. Donde il re e i viniziani, per
essere preparati a qualunque caso, si erano particolarmente
riobligati di non fare concordia con Cesare l'uno senza l'altro; per
la quale cagione il re, e per la speranza grande datagli dal re di
Inghilterra di fare con lui, se convenivano del parentado, movimenti
grandi alla prossima primavera, diventava piú negligente a' pericoli
d'Italia.
Lib.18, cap.2
Inutili tentativi del viceré contro Frosinone. Tregua fra il
pontefice e il viceré, e offerte di Cesare al pontefice. Ritirata
dell'esercito del viceré da Frosinone.
Sollecitava in questo tempo il viceré di assaltare lo stato della
Chiesa: dal quale essendo stati mandati dumila fanti spagnuoli a
dare la battaglia a uno piccolo castello di Stefano Colonna, ne
furono ributtati; e per lo spignersi egli innanzi, gli ecclesiastici
lasciorno indietro la deliberazione fatta di battere Rocca di Papa;
le genti del quale luogo avevano occupato Castel Gandolfo, posseduto
dal cardinale di Monte, per essere male guardato. Finalmente il
viceré, messi insieme dodicimila fanti, de' quali, dagli spagnuoli e
tedeschi infuora condotti in su l'armata, la maggiore parte erano
fanti comandati, si pose con tutto lo esercito, il vigesimo primo dí
di dicembre, a campo a Frusolone, terra debole e senza muraglia ma
alla quale succedono in luogo di mura le case private e la grotta, e
stata messa in guardia dai capitani della Chiesa per non gli
lasciare pigliare piede nella Campagna; e vi era anche vettovaglia
per pochi dí: nondimeno il sito della terra, che è posta in su uno
monte, dà facoltà a chi è dentro di potere sempre salvarsi da una
parte avendo qualche poco di spalle; il che faceva piú arditi alla
difesa i fanti che vi erano dentro, oltre a essere de' migliori
fanti italiani che allora prendessino soldo. Né si potevano anche,
per l'altezza del monte, accostare tanto l'artiglierie degli inimici
(i quali vi avevano piantati tre mezzi cannoni e quattro mezze
colubrine) che vi facessino molto danno: ma delle diligenze
principali loro era lo impedire, quanto potevano, che non vi
entrassino vettovaglie. Da altro canto il pontefice, benché
esaustissimo di denari, e piú pronto a tollerare la indignità di
pregare di esserne proveduto da altri che la indignità di provederne
con modi estraordinari, augumentava quanto poteva le genti sue di
fanti pagati e comandati; e aveva di nuovo condotto Orazio Baglione,
dimenticate le ingiurie fatte prima al padre e poi a lui: il quale,
come disturbatore della quiete di Perugia, aveva lungamente tenuto
prigione in Castello Santo Agnolo. Con questi augumenti andava
l'esercito del pontefice accostandosi per fare la massa a
Fiorentino, e dare speranza di soccorso agli assediati. Fu finita a'
ventiquattro la batteria di Frusolone, ma non essendo tale che desse
al viceré speranza di vittoria non fu dato l'assalto; e nondimeno
Alarcone, travagliandosi intorno alle mura, fu ferito d'uno
archibuso, e vi fu anche ferito Mario Orsino. Ed era la principale
speranza del viceré nel sapere essere dentro poche vettovaglie:
delle quali anche pativa lo esercito che si ammassava a Fiorentino,
perché le genti de' Colonnesi, che erano in Paliano, Montefortino e
Rocca di Papa, che soli si tenevano per loro, travagliavano assai la
strada; e andando Renzo allo esercito, avevano rotto la compagnia
de' fanti di Cuio che gli faceva scorta. Uscirono nondimeno, uno
giorno, trecento fanti di Frusolone e parte de' cavalli, con
Alessandro Vitello Giambatista Savello e Pietro da Birago; e
approssimatisi a mezzo miglio di Larnata dove erano alloggiate
cinque insegne di fanti spagnuoli, ne tirorono due insegne in una
imboscata e gli ruppeno con la morte del capitano Peralta con
ottanta fanti, e prigioni molti fanti con le due insegne. Attendeva
intratanto il viceré a fare mine a Frusolone, e quegli di dentro
contraminavano tanto sicuri delle forze degli inimici che ricusorono
quattrocento fanti che i capitani volevano mandare dentro in loro
soccorso.
E nondimeno, nel tempo medesimo, non erano manco calde le pratiche
dello accordo: perché a Roma erano tornati il generale e lo
arcivescovo di Capua: co' quali era venuto Cesare Fieramosca
napoletano, il quale Cesare aveva, dopo la partita del viceré,
espedito di Spagna al pontefice, dandogli commissione che affermasse
principalmente essergli stata molestissima l'entrata di don Ugo e
de' Colonnesi in Roma, con gli accidenti che ne erano seguiti;
facessegli fede, Cesare essere desiderosissimo di comporre seco
tutte le controversie, e che trattasse in nome suo la pace, alla
quale dimostrandosi inclinato anche con gli altri collegati, diceva
(secondo scriveva il nunzio) che se il pontefice eseguiva, come
aveva detto, di andare a Barzalona, gli darebbe libera facoltà di
pronunziarla ad arbitrio suo. Proponevano questi per parte del
viceré sospensione d'armi per due o tre anni col pontefice e co'
viniziani, possedendo ciascuno come di presente possedeva, e pagando
il pontefice cento cinquantamila ducati e i viniziani cinquantamila:
cosa che benché fusse grave al pontefice, nondimeno tanto era
inclinato a liberarsi dai travagli della guerra che, per indurre i
viniziani a consentirvi, offeriva di pagare per loro i cinquantamila
ducati. La risposta de' quali per aspettare fece tregua, l'ultimo dí
di gennaio, col viceré per otto dí, con patto che le genti della
Chiesa non passassino Fiorentino, quelle del viceré non passassino
Frusolone né lavorassino contro alla terra; essendo medesimamente
proibito a quegli di dentro non fortificare, né mettere dentro
vettovaglia se non dí per dí. E parendo al Fieramosca avere scoperto
assai la intenzione del pontefice, e potere con degnità di Cesare
scoprirgli la sua, gli presentò una lunga lettera di mano propria di
Cesare, piena di buona mente, di offerte e divozione verso il
pontefice; e partito dipoi, per significare al viceré e al legato la
sospensione fatta e ordinare che la si mettesse a esecuzione, trovò
il dí seguente l'esercito che mosso da Fiorentino camminava alla
volta di Frusolone; e avendo fatto intendere al legato la cosa,
egli, non volendo interrompere la speranza grande che avevano i suoi
della vittoria, date a lui parole, mandò occultamente a dire alla
gente che continuasse di camminare.
Non poteva l'esercito arrivare a Frusolone se non si insignoriva di
uno passo a modo di uno ponte, situato alle radici del primo colle
di Frusolone, al quale erano a guardia quattro bandiere di fanti
tedeschi; ma arrivata la vanguardia guidata da Stefano Colonna, e
venuta con loro alle mani, gli roppe e messe in fuga, ammazzati
circa dugento di loro e presine quattrocento con le insegne; e cosí
guadagnato il primo colle, gli altri si ristrinseno in luogo piú
forte, lasciata libera l'entrata in Frusolone agli ecclesiastici. I
quali, essendo già vicina la notte, feceno l'alloggiamento in faccia
loro; con speranza grande di Renzo e di Vitello (le azioni del quale
in questa impresa procedevano con mala sodisfazione del pontefice)
di avergli a rompere, o fermandosi o ritirandosi; come si crede che
senza dubbio sarebbe seguito se avessino o fatto lo alloggiamento in
su il colle preso o se fussino stati avvertiti e desti a sentire la
ritirata degli inimici. Perché il viceré, non il giorno seguente ma
l'altro giorno, due ore innanzi dí, senza fare segno o suono di
levarsi, si partí con l'esercito, abbruciata certa munizione che gli
restava e lasciate molte palle di artiglierie, e ancora che, intesa
la partita sua, gli ecclesiastici gli spignessino dietro i cavalli
leggieri, che preseno delle bagaglie e qualche prigione di poco
conto, non furono a tempo a fargli danno notabile. Lasciò nondimeno
addietro qualche munizione, e si ritirò a Cesano e di quivi a
Cepperano.
Lib.18, cap.3
Deliberazione dei collegati di assalire il regno di Napoli. Princìpi
dell'impresa; irresoluzione del pontefice; azioni dell'armata dei
veneziani contro la Campania e dell'esercito negli Abruzzi. Ragioni
per cui non procede l'impresa contro il regno di Napoli.
Per la ritirata del quale, il papa, preso animo e stimolato dagli
imbasciadori de' confederati a' quali non poteva sodisfare
altrimenti, si risolvé a fare la impresa del regno di Napoli. Perché
e Robadanges, che aveva portato i diecimila ducati per conto della
decima e i diecimila per conto di Renzo, aveva commissione non si
spendessino senza consentimento di Alberto Pio, di Renzo e di
Langes, e in caso fussino sicuri che il pontefice non si accordasse;
e i viniziani, a' quali era andato maestro Rossello per indurgli ad
accettare la tregua proposta dal viceré e approvata dal papa (ma per
essersi in cammino rotto una gamba aveva mandato lo spaccio),
risposeno non volere fare la tregua senza la volontà del re di
Francia, con tanto maggiore animo quanto si intendeva le cose di
Genova essere ridotte in grandissima estremità di vettovaglie.
Deliberossi adunque di assaltare il regno di Napoli con lo esercito
per terra, e che per mare andasse l'armata con Valdemonte che
levasse dumila fanti; ma Renzo, secondo la deliberazione del quale
si spendevano i danari del re di Francia, deliberò, contro alla
volontà del pontefice (al quale pareva che tutte le forze si
volgessino in uno luogo medesimo) di fare seimila fanti per entrare
nello Abruzzi, sperando che per mezzo de' figlioli del conte di
Montorio, mandativi con tremila fanti, si occupasse l'Aquila
facilmente: il che subito succedette, fuggendosene Ascanio Colonna,
come intese si approssimavano.
Cominciorono con speranza grande i princìpi di questa impresa:
perché se bene il viceré, messa guardia ne' luoghi vicini,
attendesse a riordinarsi quanto poteva, nondimeno, essendosi
resoluta una parte delle sue genti, un'altra distribuita per
necessità alla custodia delle terre, si credeva che resterebbe
impegnato a resistere allo esercito terrestre; e però, che Renzo
nello Abruzzi e l'armata della Chiesa e de' viniziani, che erano
ventidue galee, non arebbeno contrasto, portando massime tremila
fanti di sopracollo, e andandovi Orazio con dumila fanti e la
persona di Valdemonte, al quale il pontefice aveva dato titolo di
suo luogotenente. Ma le cose procedevano con maggiore tardità,
perché l'esercito ecclesiastico non si era ancora il duodecimo dì di
febbraio discostato da Frusolone, aspettando da Roma l'artiglieria
grossa e che Renzo entrasse nello Abruzzi e che arrivasse l'armata;
e aveva anche dato qualche impedimento e fatto perdere tempo, che i
fanti di Frusolone, ammutinati, volsono la paga, come guadagnata per
la vittoria. Abbandonorno nondimeno, a' diciotto dì, le genti del
viceré Cesano e altri castelli circostanti, e si ritirorno a
Cepperano; per la ritirata de' quali l'esercito ecclesiastico, il
quale già cominciava a patire di vettovaglie, passò San Germano; e
il viceré, temendo della somma delle cose, si ritirò a Gaeta e don
Ugo a Napoli. E nondimeno il pontefice, per la necessità de' danari
e temendo della venuta innanzi del duca di Borbone, all'esercito del
quale non vedeva pronta la resistenza de' collegati, continuando
nella medesima inclinazione della concordia con Cesare, aveva
procurato che maestro Rossello in nome del suo re andasse al viceré:
da che nacque che Cesare Fieramosca ritornò a Roma il vigesimo primo
dì di febbraio; donde, esposte le sue commissioni, si partì il dì
seguente, lasciato l'animo del pontefice confusissimo e pieno di
irresoluzione. Al quale, perché non precipitasse all'accordo, i
viniziani, al principio di marzo, offersono di numerargli fra
quindici dì quindicimila ducati, quindicimila altri fra altri
quindici dì, ottenuto da lui il giubileo per il loro dominio. Ma
l'armata marittima del papa e de' viniziani, la quale, soprastata
con grave danno per aspettare l'armata franzese, si era il vigesimo
terzo di febbraio ritirata, per i venti, all'isola di Ponzo, fattasi
poi innanzi saccheggiò Mola di Gaeta; dipoi, a' quattro dì di marzo,
messi fanti in terra a Pozzuolo e trovatolo bene provisto, si
rimesse in mare. Dipoi, spintasi innanzi e posto in terra presso a
Napoli, per la riviera di Castello a mare di Stabbia, dove era
Diomede Caraffa con cinquecento fanti, combattutolo il terzo dì di
marzo per via del monte, lo sforzò e saccheggiò, e il dì seguente la
fortezza si arrendé. Sforzò, il decimo dì, la Torre del Greco e
Surrente; e molte altre terre di quella costa si detteno poi a
patti. E aveva prima prese alcune navi di grani, di che Napoli, dove
si faceva debole provisione, pativa assai, non avendo in mare
ostacolo alcuno; e il secondo dì della quadragesima si appressò
tanto al molo che il castello e le galee gli tiravano; e prima i
fanti andorono, per terra, tanto innanzi che fu forza che quegli di
Napoli si ritirassino per la porta del mercato e la serrassino.
Prese dipoi l'armata Salerno; ed essendo andato Valdemonte
coll'armata dietro a certe navi, lasciate a Salerno dove era Orazio
quattro galee, il principe di Salerno, entrato per via della rocca
con gente assai nella terra, fu rotto da Orazio, morti più di
dugento fanti e presi prigioni assai. E nello Abruzzi il viceré,
liberato di prigione il conte vecchio di Montorio perché ricuperasse
l'Aquila, fu fatto prigione da' figliuoli; e Renzo, a' sei di marzo,
preso Siciliano e Tagliacozzo, andava verso Sora. E nondimeno, in
tanta occasione, l'esercito terrestre, ridotto o per la negligenza
de' ministri o per le male provisioni del pontefice in carestia
grande di vettovaglie, aveva il quinto dì di marzo cominciato a
sfilarsi.
Ma continuandosi tuttavia le pratiche della pace, venneno a Roma, il
decimo di marzo, Fieramosca e Serone segretario del viceré: dove, il
dì dinanzi, era arrivato Langes, con parole e promesse assai ma
senza danari; non ostante che di Francia fusse stato significato che
si era partito con ventimila ducati, per mettere fanti in
sull'armata de' navili grossi, quale si aspettava a Civitavecchia, e
che ventimila altri ne portava al pontefice; confortandolo a fare la
impresa del reame per uno de' figliuoli, al quale si maritasse
Caterina figliuola di Lorenzo de' Medici nipote del pontefice.
Perché il re, confidando nella pratica con Inghilterra e
persuadendosi che il viceré, per il disordine di Frusolone, non
potesse fare effetti, e che lo esercito imperiale, poiché tanto
tardava a muoversi, non avendo anche denari, non fusse per andare
più in Toscana, non voleva più la tregua, eziandio per tutti, quando
bene non si avesse a pagare denari, per non dare tempo a Cesare di
riordinarsi: e nondimeno, trovandosi senza denari, né de' ventimila
ducati promessi al pontefice ciascuno mese né de' danari della
decima non gli aveva mandato altro che diecimila ducati, né a' sette
di marzo aveva ancora mandati i denari per i fanti dell'armata
grossa, che era spesa comune tra lui e i viniziani; ed essendo di
animo di non fare motto insino non conchiudeva con il re
d'Inghilterra, gli pareva ragionevole che il pontefice aspettasse
quello tempo. Però la impresa del regno di Napoli, cominciata con
grande speranza, andava ogni dì raffreddando: perché l'armata, non
essendo ingrossata né di legni nuovi né di gente e avendo a guardare
i luoghi presi, poteva fare poco progresso; e lo esercito di terra,
al quale le vettovaglie mandate da Roma per mare non erano, a'
quattordici di marzo, condottesi ancora, per il tempo, non solo non
andava innanzi, ma diminuendo per il disordine delle vettovaglie, si
ritirò finalmente a Piperno; e i fanti che erano con Renzo diminuiti
per non avere denari, in modo che egli, non avendo potuto mettere in
mezzo il viceré, secondo il disegno, se ne ritornò a Roma:
accrescendo questi disordini la pratica stretta che aveva il
pontefice dello accordo, perché indeboliva le provisioni, fredde per
sua natura, de' collegati: il che da altro canto accresceva la
inclinazione del pontefice allo accordo, indotto a qualche maggiore
speranza dell'animo di Cesare, per essere stata intercetta una sua
lettera nella quale commetteva al viceré che si sforzasse di
concordare col pontefice, se già lo stato delle cose non lo
consigliasse a fare altrimenti.
Lib.18, cap.4
Piano d'azione propostosi dal duca d'Urbino. Fazioni militari in
Emilia e defezione del conte di Gaiazzo. Gli imperiali muovono il
campo dalla Trebbia; meravigliosa costanza dei soldati. Movimenti
degli eserciti avversari. Occupazione di Monza da parte del duca di
Milano, e subito abbandono della città da parte dei suoi. Difficoltà
dell'esercito tedesco in Emilia; inattività delle milizie dei
collegati e del duca d'Urbino. Malattia del Frundsperg.
Ma quello che lo moveva piú era il vedere farsi continuamente
innanzi Borbone con lo esercito imperiale, né le risoluzioni del
duca d'Urbino né le provisioni de' viniziani essere tali che lo
rendessino sicuro delle cose di Toscana; il timore delle quali lo
affliggeva sopramodo. Perché il duca d'Urbino, stando ancora le
genti imperiali parte di qua parte di là da Piacenza, mutata la
prima opinione di volere essere a Bologna con l'esercito veneto
innanzi a loro, aveva risoluto ne' suoi consigli che, come si
intendesse la mossa degli inimici, lo esercito ecclesiastico,
lasciato Parma e Modena bene guardate, si riducesse a Bologna; e che
egli con l'esercito de' viniziani camminasse alla coda degli
inimici, lontano però sempre da loro, per sicurtà delle sue genti,
venticinque o trenta miglia: col quale ordine, volendo gli inimici
pigliare poi la via di Romagna e di Toscana, si procedesse
continuamente, camminando sempre innanzi a loro l'esercito
ecclesiastico, col marchese di Saluzzo con le lance franzesi e co'
fanti suoi e de' svizzeri, lasciando sempre guardia nelle terre
donde gli inimici avessino dopo loro a passare, e raccogliendole poi
di mano in mano secondo fussino passati. Del quale consiglio suo,
mal capace agli altri capitani, allegava molte ragioni; prima, non
essere sicuro il mettersi con gli eserciti uniti in campagna per
fare ostacolo agli imperiali che non passassino, perché sarebbe o
pericoloso o inutile: pericoloso volendo combattere, perché essendo
superiore di forze e di virtú se non di numero conseguirebbero la
vittoria; inutile, perché se gli imperiali non volessino combattere
sarebbe in facoltà loro lasciare indietro l'esercito de' collegati,
ed essendo dipoi sempre innanzi a loro in ogni luogo farebbeno
grandissimi progressi. Parergli, quando bene le cose fussino in
potestà sua, migliore di tutte questa deliberazione; ma costrignerlo
a questo medesimo la necessità: perché essendo già, secondo si
credeva, quasi in moto l'esercito inimico, non essere tanto pronte
le provisioni delle genti sue che e' fusse certo di potere essere a
tempo a andare innanzi; e anche avere a considerare, poi che i
viniziani avevano rimessa in lui liberamente questa deliberazione,
di non lasciare lo stato loro in pericolo, il quale se gli inimici
vedessino sprovisti, potrebbeno, preso nuovo consiglio da nuova
occasione, passato Po, voltarsi a' danni loro. Con la quale ragione
convinceva il senato viniziano, che per natura ha per obietto di
procedere nelle cose sue cautamente e sicuramente; ma non
sodisfaceva già al pontefice, considerando che con questo consiglio
si apriva la via allo esercito imperiale di andare insino a Roma o
in Toscana, o dove gli paresse; perché l'esercito che aveva a
precedere, inferiore di forze, e diminuendone ogni dí per avere a
mettere guardia nelle terre, non gli potrebbe resistere; né era
certo che i viniziani, restando una volta indietro, avessino a
essere cosí pronti a seguitargli co' fatti come sonavano le parole
del duca, considerando massime i modi con che si era proceduto in
tutta la guerra; e giudicando che uniti tutti gli eserciti insieme,
ne' quali erano molto piú genti che in quello degli imperiali,
potessino piú facilmente proibire loro il passare innanzi, impedire
le vettovaglie e usare tutte le occasioni che si presentassino; né
avere mai a essere tanto lontani da loro che non fussino a tempo a
soccorrere, se si voltassino nelle terre de' viniziani. La quale
deliberazione gli dispiacque molto piú quando intese che il duca
d'Urbino, venuto il terzo dí di gennaio a Parma, sopravenutagli
leggiera malattia, si ritirò il quartodecimo dí a Casalmaggiore; e
di quivi, cinque dí poi, sotto nome di curarsi, a Gazzuolo; dove già
alleggierito della febbre ma aggravato, secondo diceva, della gotta,
aveva fatto venire la moglie. Il quale procedere, sospetto molto al
pontefice, chi voleva tirare a migliore senso arguiva che le
pratiche sue degli accordi erano causa del suo procedere con questa
sospensione. Ma il luogotenente, comprendendo, parte da quello che
era verisimile parte per relazione di parole dette da lui, che a
questi modi sinistri lo induceva anche il desiderio della
recuperazione del Montefeltro e di Santo Leo posseduto da'
fiorentini, giudicando che, se non si sodisfaceva di questo,
sarebbeno il pontefice e i fiorentini nelle maggiori necessità
abbandonati da lui, né gli parendo che queste terre fussino premio
degno di esporsi a tanto pericolo, sapendo anche che il medesimo si
desiderava a Firenze, gli dette speranza certa della restituzione
come se n'avesse commissione dal pontefice: la quale cosa non fu
approvata dal pontefice, indulgente piú, in questo caso, all'odio
antico e nuovo che alla ragione.
Stavano intanto gl'imperiali, avendo dato a' tedeschi pochissimi
denari, alloggiati vicini a Piacenza, dove era il conte Guido
Rangone con seimila fanti; donde correndo qualche volta Paolo
Luzasco e altri cavalli leggieri della Chiesa, uno giorno,
accompagnati da qualche numero di fanti e da alcuni uomini d'arme,
roppono gli inimici che correvano, preseno ottanta cavalli e cento
fanti, e restorono prigioni i capitani Scalengo, Zucchero e Grugno
borgognone. Mandò dipoi Borbone, il nono dí di febbraio, dieci
insegne di spagnuoli a vettovagliare Pizzichitone, e a' quindici dí,
il conte di Gaiazzo co' cavalli leggieri e fanti suoi venne ad
alloggiare al Borgo a San Donnino, abbandonato dagli ecclesiastici.
Il quale, il dí seguente, per pratica tenuta prima con lui, e
pretendendo egli di essere, perché non era pagato, libero dagli
imperiali, passò nel campo ecclesiastico: condotto dal luogotenente,
piú per sodisfare ad altri che per seguitare il giudizio suo
proprio, con mille ducento fanti e centotrenta cavalli leggieri, i
quali aveva seco, e con condizione che, essendogli tolto da Cesare
il contado suo di Gaiazzo, avesse dopo otto mesi il pontefice,
insino lo ricuperasse, a pagargli ciascuno anno l'entrata
equivalente.
Desiderava Borbone, seguitato il consiglio del duca di Ferrara (il
quale nondimeno recusò di cavalcare nello esercito) di andare piú
presto a Bologna e a Firenze che soprasedere in quelle terre, di
partire a ogn'ora; ma a' diciassette dí si ammutinorno i fanti
spagnuoli dimandando denari, e ammazzorno il sergente maggiore
mandato da lui a quietargli: e nondimeno, quietato il meglio
possette il tumulto, a' venti dí passò con tutto l'esercito la
Trebbia e alloggiò a tre miglia di Piacenza; avendo seco cinquecento
uomini d'arme e molti cavalli leggieri, i quali la piú parte erano
italiani, non mai pagati, i fanti tedeschi venuti nuovamente,
quattro o cinquemila fanti spagnuoli di gente eletta e circa dumila
fanti italiani, sbandati e non pagati; essendo restati de' tedeschi
vecchi una parte a Milano, gli altri andati verso Savona, per dare
favore alle cose di Genova, ridotta in grandissima angustia. Ed era
certo maravigliosa la deliberazione di Borbone e di quello esercito,
che, trovandosi senza danari senza munizioni senza guastatori senza
ordine di condurre vettovaglie, si mettesse a passare innanzi in
mezzo a tante terre inimiche e contro a inimici che avevano molto
piú gente di loro; e piú maravigliosa la costanza de' tedeschi, che
partiti di Germania con uno ducato solo per uno, e avendo tollerato
tanto tempo in Italia con non avere avuto in tutto il tempo piú che
due o tre ducati per uno, si mettessino, contro a l'uso di tutti i
soldati e specialmente della loro nazione, a camminare innanzi, non
avendo altro premio o assegnamento che la speranza della vittoria;
ancora che si comprendesse manifestamente che, riducendosi in luogo
stretto le vettovaglie e avendo i nimici propinqui, non potrebbeno
vivere senza denari: ma gli faceva sperare e tollerare assai
l'autorità grande che aveva il capitano Giorgio con loro, che
proponeva loro in preda Roma e la maggiore parte di Italia.
Spinsonsi, a' ventidue dí, al Borgo a San Donnino; e il dí seguente,
il marchese di Saluzzo e le genti ecclesiastiche, lasciato a guardia
di Parma alcuni fanti de' viniziani, si partirono da Parma per la
volta di Bologna, con undici in dodicimila fanti; lasciato ordine al
conte Guido che da Piacenza venisse a Modena e i fanti delle bande
nere a Bologna, restando in Piacenza guardia sufficiente. Cosí per
il reggiano si condusseno, in quattro alloggiamenti, tra Anzuola e
il ponte a Reno. Nel quale tempo Borbone era intorno a Reggio. E il
duca di Urbino, il quale, proponendogli il luogotenente a
Casalmaggiore che si accrescesse il numero de' svizzeri, l'aveva
come cosa inutile recusato, ora instava seco che si proponesse a
Roma e a Vinegia che si conducessino di nuovo quattromila svizzeri e
dumila tedeschi; scusando la contradizione fatta allora perché la
stagione non consentiva che si uscisse alla campagna, e avere
creduto che gli inimici si risolvessino prima: a' quali, con questo
augumento, prometteva di accostarsi. Consiglio disprezzato da tutti,
perché a' pericoli presenti non soccorrevano rimedi tanto tardi;
potendo anche egli essere certissimo che queste cose, per le
difficoltà de' denari e volontà già disunite de' collegati, non si
potevano mettere a esecuzione.
Nel quale tempo il duca di Milano, che fatti tremila fanti difendeva
Lodi e Cremona e tutto il di là da Adda, e scorreva nel milanese,
occupò con subito impeto la terra di Moncia; ma fu presto
abbandonata da i suoi, avuto avviso che Antonio da Leva, che aveva
accompagnato Borbone, ritornato a Milano andava a quella volta; e si
diceva avere seco dumila fanti tedeschi de' vecchi, mille
cinquecento de' nuovi, mille fanti spagnuoli e cinquemila fanti
italiani sotto piú capi.
Ma Borbone, passata Secchia, presa la mano sinistra, si condusse, a'
cinque di marzo, a Buonoporto; dove lasciato le genti andò al Finale
ad abboccarsi col duca di Ferrara, che lo confortò assai a
indirizzarsi, lasciati da parte tutti gli altri pensieri, alla volta
di Firenze o di Roma: anzi si crede che lo consigliasse a
indirizzarsi, lasciata ogni altra impresa, verso Roma. Nella quale
deliberazione cruciavano l'animo del duca di Borbone molte
difficoltà, e specialmente il timore che l'esercito, condotto in
terra di Roma, o per necessità o per desiderio di rinfrescarsi, o
incontrando in qualche difficoltà (come senza dubbio sarebbe
incontrato se il pontefice non si fusse disarmato) non pigliasse per
alloggiamento il regno di Napoli. Nel quale dí le genti de'
viniziani passorono Po, senza la persona del duca d'Urbino (il quale
benché quasi guarito era ancora a Gazzuolo) ma con intenzione di
camminare presto. Alloggiò, il settimo dí, Borbone a San Giovanni in
bolognese, donde mandò uno trombetto a Bologna, dove si erano
ritirate le genti ecclesiastiche, a dimandare vettovaglie, dicendo
volere andare al soccorso del reame; e il dí medesimo si unirono
seco gli spagnuoli che erano in Carpi, consegnata quella terra al
duca di Ferrara: e le genti de' viniziani erano in su la Secchia,
risolute a non passare piú innanzi se prima non intendevano la
partita di Borbone da San Giovanni. Al quale veniva vettovaglia di
quello di Ferrara, ma avendola a pagare e non avendo quasi denari,
alloggiavano, per mangiare il paese, molto larghi, e correvano per
tutto predando uomini e bestie, donde traevano il modo di pagare le
vettovaglie: in modo che si conosceva certissimo che se avessino
avuto riscontro potente, o se l'esercito ecclesiastico, il quale era
in Bologna e all'intorno, avesse potuto mettersi in uno
alloggiamento vicino a loro, si sarebbeno gli imperiali ridotti
presto in molte angustie; perché continuando di alloggiare cosí
larghi sarebbeno stati con molto pericolo, e ristrignendosi non
arebbeno avuto il modo a pagare le vettovaglie. Ma nelle genti che
erano a Bologna erano molti disordini, sí per la condizione del
marchese, atto piú a rompere una lancia che a fare offizio di
capitano, sí ancora perché i svizzeri e i fanti suoi non erano
pagati a' tempi debiti da' viniziani; e Borbone, per potere
camminare piú innanzi, attendeva a provedersi da Ferrara di
vettovaglie per piú dí, di munizioni, di guastatori e di buoi,
avendo seco insino allora quattro cannoni: e ancora che facesse
varie dimostrazioni di quello che avesse in animo, nondimeno si
ritraeva per cosa piú certa avere in animo di passare in Toscana per
la via del Sasso; e il medesimo confermava Ieronimo Morone il quale,
già molti dí, teneva segreta pratica col marchese di Saluzzo,
benché, a giudizio di molti, simulatamente e con fraude. Ma già
avendo statuito dovere partire a' quattordici dí di marzo, e perciò
rimandato al Bondino i quattro cannoni il dí precedente, i fanti
tedeschi, delusi da varie promesse de' pagamenti e seguitati poi da'
fanti spagnuoli, gridando denari, si ammutinorono con grandissimo
tumulto, e con pericolo non mediocre della vita di Borbone se non
fusse stato sollecito a fuggirsi occultamente del suo alloggiamento;
dove concorsi lo svaligiorno, ammazzatovi uno suo gentiluomo: per il
che il marchese del Vasto andò subito a Ferrara, donde tornò con
qualche somma, benché piccola, di denari. E sopravenne, a'
diciasette dí neve e acqua smisurata, in modo che era impossibile
che per la grossezza de' fiumi e per le male strade l'esercito per
qualche dí camminasse; e uno accidente di apoplessia sopravenuto al
capitano Giorgio lo condusse quasi alla morte con maggiore speranza
che non fu poi il successo che, avendo almeno a restare inutile a
seguitare il campo i fanti tedeschi, per la partita sua, non
avessino a sopportare piú le incomodità e il mancamento de' denari.
Erano in questo tempo le genti de' viniziani a San Faustino presso a
Rubiera: alle quali arrivò, il decimo ottavo dí di [marzo] il duca
di Urbino; promettendo, secondo l'uso suo, al senato viniziano,
quando era lontano dal pericolo, la vittoria quasi certa, non perciò
per virtú dell'armi de' confederati ma per le difficoltà degli
inimici.
Lib.18, cap.5
Sfiducia del pontefice per l'esito della guerra e per gli scarsi
aiuti del re di Francia e degli altri collegati; suoi timori per
Firenze e per lo stato della Chiesa; suoi accordi con i
rappresentanti di Cesare. Incauti provvedimenti del pontefice,
troppo fiducioso negli accordi conchiusi; ostinazione dell'esercito
imperiale nel volere seguitare la guerra. Inosservanza della tregua
da parte dell'esercito imperiale. Il viceré, rassicurato il
pontefice, tratta a Firenze con inviati del Borbone.
In questo stato essendo da ogni banda ridotte le cose, il pontefice,
invilito per non avere denari (alla quale difficoltà non voleva
porre rimedio col creare nuovi cardinali), invilito per non
succedere secondo i primi disegni la impresa del regno, perché già
le genti sue per mancamento di vettovaglia si erano ritirate a
Piperno, invilito perché le provisioni de' franzesi amplissime di
parole riuscivano, ogni dí piú, scarsissime di effetti, come
continuamente avevano fatto dal primo dí insino all'ultimo di tutta
la guerra. Perché, oltre alla tardità usata per il re in mandare il
primo mese della guerra i quarantamila ducati, in espedire le
cinquecento lancie e l'armata marittima, oltre al non avere voluto
rompere, come era obligato, la guerra di là da' monti, disegnato per
uno de' fondamenti principali di ottenere la vittoria, mancò
eziandio nelle promesse fatte quotidianamente. Aveva promesso di
pagare al pontefice, oltre alla contribuzione ordinaria, ventimila
ducati ciascuno mese, perché rompesse la guerra al reame di Napoli;
ed essendo dipoi succeduta la tregua fatta per lo insulto di don Ugo
e de' Colonnesi, confortandolo a non osservare la tregua, gli aveva
riconfermato la medesima promessa, per servirsene o per la guerra di
Napoli o per la difesa propria, e mandargli Renzo da Ceri, venuto
appresso a lui per la difesa di Marsilia in grande estimazione: le
quali cose, benché promesse insino al quinto dí di ottobre, si
differirono tanto, per la tardità loro per i pericoli terrestri e
per gli impedimenti del mare, che Renzo non prima che 'l quarto dí
di gennaio arrivò a Roma senza danari, e dieci dí poi arrivorono
ventimila ducati; de' quali avendone ritenuti Renzo quattromila per
le spese fatte da sé e sua pensione, diecimila per la impresa dello
Abruzzi, soli seimila ne pervennono nel pontefice: il quale sotto
queste promesse aveva, quasi tre mesi innanzi, rotta la tregua.
Promesse il re di pagargli per la concessione della decima, fra otto
dí, scudi venticinquemila e trentacinquemila altri fra due mesi; ma
di questi non ricevé mai il pontefice se non novemila portati da
Robadanges. Partí dal re di Francia, il duodecimo dí di febbraio,
Pagolo d'Arezzo; al quale, per dare maggiore animo alla guerra,
promesse, oltre a tutti i predetti, ducati ventimila: i quali,
mandati dietro a Langes non passorono mai Savona. Era obligato il re
per i capitoli della confederazione a mandare dodici galee sottili;
diceva averne mandate sedici, ma il piú del tempo tanto male
provedute e senza uomini da porre in terra che non partivano da
Savona: le quali se, nel principio che si roppe la guerra contro al
reame di Napoli, si fussino congiunte subito con le galee del
pontefice e de' viniziani, arebbono, secondo il giudicio comune,
fatto grandissimi progressi. L'armata de' grossi navili, certamente
molto potente, benché molte volte promettesse mandarla verso il
regno, per quale si fusse cagione, non si discostò mai dalla
Provenza o da Savona; e dopo avere concorso a dare due paghe a'
fanti del marchese di Saluzzo, concordò co' viniziani, i quali
tenevano minore numero di gente che quelle alle quali erano
obligati, che 'l pagamento loro si traesse della contribuzione de'
quarantamila ducati. E i conforti e gli aiuti del re di Inghilterra
erano troppo lontani e troppo incerti. Vedeva i viniziani tardi ne'
pagamenti delle genti; per colpa de' quali i fanti di Saluzzo e i
svizzeri, che alloggiavano in Bologna, erano quasi inutili.
Spaventavano le variazioni e il modo del procedere del duca
d'Urbino, per la quale [cosa] conosceva non si avere a fare ostacolo
alcuno che l'esercito imperiale non passasse in Toscana; donde, per
la mala disposizione del popolo fiorentino, per lo avere i cesarei
aderente la città di Siena, comprendeva cadere in gravissimo
pericolo lo stato di Firenze ed eziandio quello della Chiesa. Queste
ragioni lo commosseno: benché dopo molte pratiche e fluttazioni di
animo, perché conosceva anche quanto fusse pernicioso e pericoloso
il separarsi da' collegati e rimettersi alla discrizione degli
inimici. Nondimeno, non essendo aiutato a bastanza da altri né
volendo aiutarsi quanto arebbe potuto da se medesimo, e prevalendo
in lui il timore piú presente, né sapendo fare con l'animo
resistenza alle difficoltà e a' pericoli, [si risolvé] ad accordare
col Fieramosca e con Serone, che erano in Roma per questo effetto in
nome del viceré, di sospendere l'armi per otto mesi, pagando allo
esercito imperiale sessantamila ducati: restituissensi le cose tolte
della Chiesa e del regno di Napoli e de' Colonnesi, e a Pompeio
Colonna la degnità del cardinalato, con l'assoluzione dalle censure
(delle quali condizioni niuna fu piú grave al pontefice, e alla
quale condiscendesse con maggiore difficoltà): e avessino facoltà il
re di Francia e i viniziani a entrarvi fra certo tempo; nel quale
entrandovi, uscissino i fanti tedeschi di Italia; non vi entrando,
uscissino dello stato della Chiesa ed eziandio di quello di Ferrara:
pagassensi quarantamila ducati a' ventidue del presente, il resto
per tutto il mese; e che il viceré venisse a Roma: il che al papa
pareva quasi uno assicurarsi della osservanza di Borbone.
Fatto l'accordo, si richiamorono subito da ciascuna delle parti
tutte le genti e l'armata del mare, e si restituirono le terre
occupate, procedendo il pontefice con buona fede alla osservanza (le
condizioni del quale erano molto superiori nel regno di Napoli); ma
all'Aquila i figliuoli del conte di Montorio, diffidando potervi
stare sicuri altrimenti, liberorono il padre, il quale subito, col
favore della fazione imperiale, ne scacciò i figliuoli e la fazione
avversa. Arrivò poi il viceré a Roma; per la venuta del quale il
pontefice, giudicandosi assicurato del tutto della osservanza della
concordia, licenziò con pessimo consiglio tutte le genti che nelle
parti di Roma erano agli stipendi suoi, riservandosi solamente cento
cavalli leggieri e dumila fanti delle bande nere: dandogli a questo
maggiore animo il persuadersi che il duca di Borbone fusse inclinato
alla concordia, per le difficoltà che aveva a procedere nella guerra
(perché sempre aveva dimostrato a lui desiderarla) e per una sua
lettera al viceré, intercetta dal luogotenente, per la quale lo
confortava a concordare col pontefice quando si potesse farlo con
onore di Cesare. Al quale ritornò, pochi dí dopo la giunta del
viceré, a significare le cose fatte e a trattare della pace [il
generale di San Francesco].
Ma molto diversamente procedevano le cose intorno a Bologna: perché
avendo il pontefice, subito dopo la stipulazione della tregua,
espedito Cesare Fieramosca a Borbone perché approvasse la concordia,
e ricevuto che avesse i danari levasse l'esercito del territorio
della Chiesa, si scopersono, forse in Borbone ma senza dubbio ne'
soldati, infinite difficoltà, dimostrandosi ostinati a volere
seguitare la guerra, o perché s'avessino proposto speranza di
grandissimo guadagno o perché i danari promessi del pontefice non
bastassino a sodisfargli di due paghe; e però molti credettono che
se fussino stati centomila ducati arebbono facilmente accettata la
tregua. Quel che ne fusse la cagione certo è che, dopo la venuta del
Fieramosca, non cessavano di predare il bolognese come prima e fare
tutte le dimostrazioni degli inimici; e nondimeno Borbone, il quale
faceva fare le spianate verso Bologna, e il Fieramosca davano
speranza al luogotenente che non ostante tutte le difficoltà
l'esercito accetterebbe la tregua, affermando Borbone essere
necessitato a fare le spianate per intrattenere l'esercito con la
speranza del procedere innanzi, insino a tanto l'avesse ridotto al
desiderio suo, il quale era di conservarsi amico del pontefice. E
nondimeno, nel tempo medesimo, venivano, per ordine del duca di
Ferrara, allo esercito provisioni di farine guastatori carri polvere
e instrumenti simili; il quale si gloriò poi né i danari dati loro
né tutti questi aiuti passare il valore di sessantamila ducati. E da
altra parte, il duca di Urbino, simulando di temere che quello
esercito, accettata la tregua, non si volgesse al Pulesine di
Rovigo, ritirò le genti viniziane di là dal Po a Casale Maggiore.
Stettono cosí sospese le cose otto dí. Finalmente, o perché questa
fusse stata sempre la intenzione del duca di Borbone o perché non
fusse in potestà sua comandare all'esercito, scrisse Borbone al
luogotenente che la necessità lo costrigneva, poiché non poteva
ridurre alla volontà sua i soldati, di camminare innanzi; e cosí
mettendo a esecuzione andò, il dí seguente che fu l'ultimo dí di
marzo, ad alloggiare al ponte a Reno, con tanto ardore della
fanteria che venendo nel campo uno uomo mandato dal viceré per
sollecitare Borbone che accettasse la tregua sarebbe, se non si
fusse fuggito, stato ammazzato dagli spagnuoli. Ma maggiore fu la
dimostrazione contro al marchese del Guasto; il quale, essendosi
partito dallo esercito per andare nel reame di Napoli, mosso o da
indisposizione della persona o per non contravenire, secondo che
scrisse al luogotenente, alla volontà di Cesare come gli altri, o da
altra cagione, fu bandito dallo esercito per rebelle. Per la venuta
del duca di Borbone al ponte a Reno, il marchese di Saluzzo e il
luogotenente, essendo già certi che gli inimici andavano verso la
Romagna, lasciata una parte de' fanti italiani alla guardia di
Bologna, non senza difficoltà di condurre i svizzeri (per il
pagamento de' quali fu necessitato il luogotenente prestare a
Giovanni Vitturio diecimila ducati), si indirizzorono, la notte
medesima, col resto dello esercito a Furlí, dove entrorono il terzo
dí di aprile, lasciato in Imola presidio sufficiente a difenderla.
Sotto la quale città passò, il quinto dí, il duca di Borbone per
alloggiare piú basso sotto la strada maestra. Ma come a Roma
pervenne la certezza che Borbone non aveva accettata la tregua, il
viceré, dimostrandone grandissima molestia, e persuadendosi che,
secondo aveva ricevuto gli avvisi primi, procedesse perché fusse
necessaria maggiore somma di danari, mandò uno suo uomo a offerire,
di piú, ventimila ducati, quali pagava delle entrate di Napoli; ma
dipoi, inteso essere stato in pericolo, partí il terzo dí d'aprile
da Roma per abboccarsi con Borbone, avendo promesso al pontefice che
costrignerebbe Borbone ad accettare la tregua, se non con altro
modo, col separare da lui le genti d'arme e la maggiore parte de'
fanti spagnuoli. Ma arrivato a sei dí in Firenze, si fermò quivi per
trattare con uomini mandati da Borbone, come in luogo piú opportuno;
essendo già certo non si potere fermare lo esercito se non
pagandogli molto maggiore somma di denari, e avendo questi a pagarsi
da' fiorentini, sopra i quali il pontefice aveva lasciato tutto il
carico di provedervi.
Lib.18, cap.6
Vanità delle speranze del pontefice per la conclusione della tregua;
opera del suo luogotenente perché non sia abbandonato dai collegati;
incertezza di questi. Terre di Romagna prese dal Borbone;
comunicazione del viceré al Borbone della conferma della
capitolazione conchiusa a Roma. Il Borbone passa l'Apennino; il
luogotenente del pontefice convince i collegati a passare in
Toscana; maggior sicurezza di Firenze e maggior pericolo per Roma.
Il pontefice fiducioso nella tregua licenzia le milizie.
Augumentavano queste varietà sommamente le difficoltà e i pericoli
del pontefice, anzi già l'avevano augumentate molti dí: perché,
nella incertitudine delle deliberazioni del duca di Borbone e di
quello che avesse a partorire la venuta del viceré, aveva necessità
degli aiuti de' collegati; i quali raffreddavano le azioni sue,
sollecitandogli in contrario la instanza e gli stimoli del suo
luogotenente perché il pontefice con tutte le parole e dimostrazioni
manifestava il desiderio sommo che aveva dello accordo e la speranza
grande che aveva che per l'opere del viceré dovesse succedere; e il
luogotenente, da altro canto, comprendendo per molti segni che la
speranza del pontefice era vana, e conoscendo che il raffreddarsi le
provisioni de' collegati metteva in manifestissimo pericolo le cose
di Firenze e di Roma, faceva estrema instanza col marchese di
Saluzzo e co' viniziani per persuadere loro che l'accordo non arebbe
effetto e confortargli che, se non per rispetto di altri almanco per
interesse loro proprio, non abbandonassino le cose del pontefice e
di Toscana; né dissimulando, per avere maggiore fede, che il papa
ardentemente desiderava e cercava la tregua, e imprudentemente, non
conoscendo le fraudi aperte degli imperiali, vi sperava; e che
quando bene, col dargli aiuto, non ottenessino altro che
facilitargli le condizioni dello accordo, essere questo a loro
grandissimo benefizio, perché il papa, aiutato da loro, accorderebbe
per sé e per i fiorentini con condizioni che nocerebbeno poco alla
lega, abbandonato, sarebbe costretto per necessità obligarsi a dare
agli imperiali somma grandissima di denari e qualche contribuzione
grossa mensuale, che sarebbeno quelle armi con le quali in futuro si
farebbe la guerra contro a loro: e però dovere, se non volevano
nuocere a se stessi, qualunque volta Borbone si movesse per
offendere la Toscana, muoversi anche essi con tutte le forze loro
per difenderla. Stava molto perplesso il marchese di Saluzzo in
questa deliberazione; ma molto piú vi stavano perplessi i viniziani,
perché, scoperta a tutti la pusillanimità del pontefice, tenevano
per certo che, eziandio dopo gli aiuti avuti di nuovo da loro,
qualunque volta potesse conseguire lo accordo lo abbraccierebbe
senza rispetto de' confederati, e che però fussino astretti a cosa
molto nuova: aiutarlo per fargli facile il convenire con gli inimici
comuni. Consideravano che lo abbandonarlo causerebbe maggiore
pregiudizio alle cose comuni; ma giudicavano mettersi in manifesto
pericolo le genti loro, tra l'Apennino e gli inimici e nel paese già
diventato avverso, se, mentre che erano in Toscana, il pontefice
stabilisse o di nuovo facesse l'accordo; e poteva anche nel senato
quella dubitazione che il pontefice non facesse instanza che le
genti loro passassino in Toscana, per costrignergli ad accettare,
per pericolo di non le perdere, la sospensione. Le quali perplessità
aveva con minore difficoltà rimosse il luogotenente dall'animo del
marchese, ancora che molti del suo consiglio, per timore di non
mettere le genti in pericolo, lo confortassino al contrario: però,
come prima era stato pronto a venire a Furlí cosí non recusava, se
il bisogno lo ricercasse, di passare in Toscana. Stavanne molto piú
sospesi i viniziani; i quali, per tenere il papa e i fiorentini in
qualche speranza e da altro canto essere pronti a pigliare i partiti
di giorno in giorno, ordinorno che il duca di Urbino partisse il
quarto dí di aprile da Casalmaggiore, mandando la cavalleria per la
via di Po dalla parte di là e la fanteria per il fiume. Il quale,
dimostrando qualche timore per la andata degli imperiali in Romagna,
mandò dumila fanti de' viniziani a guardia del suo stato; benché per
molti si dubitasse, e per il pontefice particolarmente, che
secretamente non avesse promesso a Borbone di non gli dare
impedimento al passare in Toscana.
Il duca di Borbone in questo mezzo, cercando da ogni parte
vettovaglie, delle quali era in somma necessità, mandò una parte
dello esercito a Cotignuola: la quale terra benché forte di
muraglia, battuta che l'ebbe [con] pochi colpi, ottenne per accordo:
perché gli uomini della terra, come molti altri luoghi di Romagna,
temendo delle rapine de' soldati amici, gli avevano recusati. Presa
Cotignuola, mandò a Lugo i quattro cannoni; e per provedersi di
vettovaglie e per impedimento dell'acque, soprastette tre o quattro
dí in su il fiume di Lamone; dipoi, il terzodecimo dí di aprile,
passato il Montone, alloggiò a Villafranca, lontana cinque miglia da
Furlí: nel quale dí il marchese di Saluzzo svaligiò cinquecento
fanti, quasi tutti spagnuoli, che andavano sbandati cercando da
vivere, verso Monte Poggiuoli, come andava per la necessità quasi
tutto il resto dello esercito. Alloggiò Borbone, il quartodecimo dí,
sopra strada alla volta di Meldola, cammino da passare in Toscana
per la via di Galeata e di Val di Bagno; sollecitandolo molto i
sanesi, che gli offerivano copia di vettovaglie e di guastatori; e
camminando con l'abbruciare i tedeschi tutti i paesi donde
passavano, assaltorono la terra di Meldola, che si arrendé e
nondimeno fu abbruciata. Il quale dí ebbe la nuova che il viceré,
con consentimento del La Motta mandato a questo effetto da lui,
aveva, il dí dinanzi, capitolato in Firenze: che, non si partendo
nelle altre cose anzi riconfermando la capitolazione fatta in Roma,
dovesse il duca di Borbone cominciare infra cinque dí prossimi a
ritirarsi con l'esercito e, che, subito si fusse ritirato al primo
alloggiamento, gli fussino pagati da' fiorentini ducati
sessantamila, a' quali il viceré ne aggiugneva ventimila;
pagassinsegli altri settantamila per tutto maggio prossimo, de'
quali il viceré per cedola di mano propria obligò Cesare a
restituirne cinquantamila: ma questi ultimi non si pagassino se
prima non fusse liberato Filippo Strozzi, e assoluto Iacopo Salviati
dalla pena de' trentamila ducati, come il viceré aveva promesso al
pontefice, non ne' capitoli della tregua ma sotto semplici parole.
Non ritardò questa notizia il duca di Borbone dallo andare innanzi,
né la notizia ancora che il viceré si era partito di Firenze per
condursi a lui e per stabilire tutte le cose che fussino necessarie:
perché il viceré e per molte altre cagioni desiderava la concordia,
e perché (per quello che io ho udito da uomini degni di fede)
trattava che l'esercito si voltasse subito contro a' viniziani, non
per occupare le città del loro imperio ma per occupare la città
medesima di Vinegia; sperando, con le barche e con gli uomini periti
di quella navigazione che arebbe dal duca di Ferrara, e con le zatte
che essi fabbricherebbono, poterla opprimere. E benché il viceré
avesse promesso a Roma di rimuovere da Borbone la cavalleria e la
maggiore parte de' fanti spagnuoli, nondimeno, mentre che si
trattava in Firenze, recusava di farlo, dicendo non volere essere
causa della ruina dello esercito di Cesare: anzi andò ad alloggiare
il sesto[decimo] dí, a Santa Sofia, terra della valle di Galeata
suddita a' fiorentini; e sforzandosi, con la celerità e con la
fraude, di prevenire che nel passare delle alpi non gli fusse fatto
ostacolo alcuno (nelle quali, per il mancamento delle vettovaglie,
qualunque sinistro avesse avuto era bastante a disordinarlo), avendo
ricevuto, il decimo settimo dí, a San Piero in Bagno, lettere dal
viceré e dal luogotenente, della venuta sua, rispose all'uno e
all'altro di loro averlo quello avviso trovato in alloggiamento
tanto disagiato che era impossibile aspettarlo quivi, ma che il dí
seguente l'aspetterebbe a Santa Maria in Bagno sotto l'alpi:
mostrandosi, massime nelle lettere al luogotenente, desiderosissimo
dello accordo e di fare conoscere al pontefice il suo buono animo e
la sua divozione, benché altrimenti avesse nella mente. Andò il
viceré il dí destinato; e il medesimo dí il luogotenente,
insospettito del camminare di Borbone, acciò che non prima
entrassino gli inimici in Toscana che il soccorso, persuaso al
marchese di Saluzzo con molte ragioni l'andare innanzi, e confutati
efficacemente Giovanni Vitturio proveditore viniziano appresso al
marchese e gli altri (i quali, per timore che le genti non si
mettessino in pericolo, dimandavano che innanzi che si passasse in
Toscana si desse sicurtà per dugentomila ducati o pegni di
fortezze), lo condusse con tutte le genti a Berzighella: donde
scrisse al pontefice avere tanto pronta la disposizione del marchese
che non dubitava piú di farlo passare con le sue genti in Toscana, e
che teneva per certo che quelle de' viniziani farebbono il medesimo;
ma che quanto per la passata loro si assicuravano le cose di Firenze
tanto si mettevano in pericolo quelle di Roma, perché Borbone, non
gli restando altra speranza, sarebbe necessitato voltarsi a quella
impresa, e trovandosi piú propinquo a Roma, sarebbe difficile che il
soccorso che si mandasse pareggiasse la sua prestezza, per passare
in due alloggiamenti l'Apennino.
Al quale caso essendosi anche prima preparati, co' viniziani e col
duca d'Urbino, i fiorentini, avevano dato speranza e poi promesso,
in caso che le genti loro passassino in Toscana, entrare nella lega,
obligarsi a pagare certo numero di fanti, e non accordare con Cesare
eziandio quando volesse il pontefice; e al duca d'Urbino, che
passato il Po a Ficheruolo si era condotto a' tredici dí al Finale e
poi a Corticella, avevano, per Palla Rucellai mandato a trattare
queste cose, offerto di restituirgli le fortezze di Santo Leo e di
Maiuolo. Però fu manco difficile avere gli aiuti pronti come venne
l'avviso che il viceré non solo non aveva trovato nel luogo
destinato il duca di Borbone (il quale facendosi beffe di lui aveva,
il dí medesimo, atteso a passare l'alpi) ma ancora era stato in
grave pericolo di non essere morto dai contadini del paese,
sollevati e tumultuosi per i danni e per le ingiurie ricevute dallo
esercito: perché il marchese ancora che il duca d'Urbino, tiratolo a
parlamento a Castel San Piero, cercasse di interporre o difficoltà o
dilazione, fu pronto a passare l'alpi, in modo che a' ventidue
alloggiò al Borgo a San Lorenzo in Mugello; e il duca di Urbino, non
potendo onestamente discostarsene né volendo tirare a sé tutto il
carico, veduta la prontezza de' franzesi, e sapendosi i viniziani
essersi rimessi in lui (con commissione però, se subito che
arrivasse in Toscana i fiorentini non facessino la confederazione,
di ripassare subito l'esercito), passò ancora egli e alloggiò, il
vigesimo quinto dí del mese, a Barberino.
Borbone intanto, passate il medesimo dí l'alpi, alloggiò alla Pieve
a Santo Stefano; la quale terra dallo assalto de' suoi si difese
francamente: e al pontefice, per intrattenerlo con le medesime arti
e avere maggiore occasione di offenderlo, mandò uno uomo suo a
confermare il desiderio che aveva di accordare seco, ma che veduta
la pertinacia delle sue genti l'accompagnava per minore male; ma che
lo confortava a non rompere le pratiche dello accordo, né guardare
in qualche somma piú di denari. Ma era superfluo l'usare col
pontefice queste diligenze: il quale, credendo troppo a quello
desiderava, e troppo desiderando di alleggerirsi della spesa, subito
che ebbe avviso della conclusione fatta in Firenze, con la presenza
e consentimento del mandatario di Borbone, aveva
imprudentissimamente licenziati quasi tutti i fanti delle bande
nere; e Valdemonte, come in sicurissima pace, se ne era andato per
mare alla volta di Marsilia.
Lib.18, cap.7
Il Borbone presso ad Arezzo; deliberazioni dei collegati. Tumulto in
Firenze; pericolosa condizione della città; come il tumulto viene
sedato; calunnie contro il luogotenente del pontefice. Gravi
conseguenze del tumulto per le operazioni dei collegati. Nuova
confederazione del pontefice col re di Francia e coi veneziani.
Trovandosi adunque tutti gli eserciti in Toscana, e intendendosi da
i collegati che Borbone era andato in uno dí dalla Pieve a Santo
Stefano ad alloggiare alla Chiassa presso ad Arezzo, che fu il
vigesimoterzo dí, cammino di diciotto miglia, si consultò tra'
capitani, che convenneno a Barberino, quello che fusse da fare, e
facendo instanza molti di loro, e gli agenti del pontefice e de'
fiorentini, che gli eserciti uniti si trasferissino in qualche
alloggiamento di là da Firenze, per tôrre a Borbone la facoltà di
accostarsi a quella città, fu risoluto che il dí seguente, lasciate
le genti per riposarle ne' medesimi alloggiamenti, i capitani
andassino a l'Ancisa lontana tredici miglia da Firenze, per
trasferirvi dipoi le genti se lo trovassino alloggiamento da
fermarvisi sicuramente, come affermava Federico da Bozzole autore di
questo consiglio. Ma essendo l'altro dí in cammino, e già propinqui
a Firenze, uno accidente improviso e da partorire, se non si fusse
proveduto, gravissimi effetti, dette impedimento grande a questa e
all'altre esecuzioni che si sarebbeno fatte.
Perché, essendo in Firenze grandissima sollevazione d'animo e quasi
in tutto il popolo malissima contentezza del presente governo, e
instando la gioventú che, per difendersi, secondo dicevano, da'
soldati, i magistrati concedessino loro l'armi, innanzi se ne
facesse deliberazione, il dí ventisei, nato nella piazza publica
certo tumulto quasi a caso, la maggiore parte del popolo e quasi
tutta la gioventú armata cominciò a correre verso il palagio
publico. E dette fomento non piccolo a questo tumulto o la
imprudenza o la timidità di Silvio cardinale di Cortona; il quale
avendo ordinato di andare insino fuora della città a incontrare il
duca di Urbino per onorarlo, non mutò sentenza, ancora che, innanzi
che si movesse, avesse inteso essere cominciato questo tumulto:
donde spargendosi per la città egli essere fuggito, furono molti piú
pronti a correre al palazzo; il quale occupato dalla gioventú e
piena la piazza di moltitudine armata, costrinseno il sommo
magistrato a dichiarare rebelli con solenne decreto Ippolito e
Alessandro nipoti del pontefice, con intenzione di introdurre di
nuovo il governo popolare. Ma intratanto, entrati in Firenze il duca
e il marchese con molti capitani e con loro il cardinale di Cortona
e Ippolito de' Medici, e messi in arme mille cinquecento fanti, che
per sospetto erano stati tenuti piú dí nella città, fatta testa
insieme si indirizzorono verso la piazza; la quale, abbandonata
subito dalla moltitudine, pervenne in potestà loro: benché,
tirandosi sassi e archibusi da quegli che erano nel palagio, nessuno
ardiva di fermarvisi, ma tenevano occupate le strade circostanti. Ma
parendo al duca d'Urbino le genti che erano in Firenze non essere
abbastanza a espugnare il palazzo e giudicando essere pericoloso, se
non si espugnasse innanzi alla notte, che il popolo ripreso animo
non tornasse di nuovo in su l'armi, deliberò, con consentimento di
tre cardinali che erano presenti, Cibo, Cortona e Ridolfi, e del
marchese di Saluzzo e de' proveditori viniziani, congregati tutti
nella strada del Garbo contigua alla piazza, chiamare una parte
delle fanterie viniziane che erano alloggiate nel piano di Firenze
vicine alla città. Donde preparandosi pericolosa contesa, perché lo
espugnare il palazzo non poteva succedere senza la morte di quasi
tutta la nobiltà che vi era dentro, e anche era pericolo che,
cominciandosi a mettere mano all'armi e all'uccisioni, i soldati
vincitori non saccheggiassino tutto il resto della città, si
preparava dí molto acerbo e infelice per i fiorentini; se il
luogotenente con presentissimo consiglio non avesse espedito questo
nodo molto difficile, perché avendo veduto venire inverso loro
Federigo da Bozzole, immaginandosi quel che era, partendosi subito
dagli altri, se gli fece incontro per essere il primo a parlargli:
della quale cosa, benché paresse di niuno momento, ebbe origine
principale il liberarsi quel dí la città di Firenze da cosí evidente
pericolo. Era Federigo nel principio del tumulto andato in palagio,
sperando di quietare, con l'autorità sua e con la grazia che aveva
appresso a molti della gioventú, questo tumulto; ma non facendo
frutto, anzi essendogli dette da alcuni parole ingiuriose, non aveva
avuto piccola difficoltà a ottenere, dopo spazio di piú ore, che lo
lasciassino partire. Però uscito del palagio pieno di sdegno, e
sapendo quanto, per le piccole forze e piccolo ordine che vi era,
fusse facile di espugnarlo, veniva per incitare gli altri a
combatterlo subitamente. Ma il luogotenente, dimostrandogli con
brevissime parole quanto sarebbono molesti al pontefice tutti i
disordini che succedessino, e di quanto detrimento alle cose comuni
de' confederati, e quanto fusse meglio l'attendere piú tosto a
quietare che ad accendere gli animi, e perciò essere pernicioso il
dimostrare al duca di Urbino e agli altri tanta facilità di
espugnare il palagio, lo tirò senza difficoltà talmente nella
sentenza sua che Federico, parlando agli altri come precisamente
volle il luogotenente, propose la cosa in modo e dette tale speranza
di posare le cose senza armi che, eletta questa per migliore via,
pregorono l'uno e l'altro di loro che andando insieme in palazzo,
attendessino a quietare il tumulto, assicurando ciascuno da quello
che potessino essere imputati di avere macchinato, il dí, contro
allo stato: dove andati, col salvocondotto di quegli che erano
dentro, non senza molta difficoltà, gli indusseno ad abbandonare il
palagio il quale erano inabili a difendere. Cosí, posato il tumulto,
tornorono le cose allo essere di prima. E nondimeno (come è piú
presente la ingratitudine e la calunnia che la rimunerazione e la
laude alle buone opere) se bene allora ne fusse il luogotenente
celebrato con somme laudi da tutti, nondimeno e il cardinale di
Cortona si lamentò, poco poi, che egli, amando piú la salute de'
cittadini che la grandezza de' Medici, procedendo artificiosamente,
fusse stato cagione che in quel dí non si fusse stabilito in
perpetuo, con l'armi e col sangue de' cittadini, lo stato alla
famiglia de' Medici; e la moltitudine poi lo calunniò che,
dimostrando, quando andò in palagio, i pericoli maggiori che non
erano, gli avesse indotti, per beneficio de' Medici, a cedere senza
necessità.
La tumultuazione di Firenze, benché si quietasse il dí medesimo e
senza uccisione, fu nondimeno origine di gravissimi disordini; e
forse si può dire che se non fusse stato questo accidente, non
sarebbe succeduta quella ruina che poi prestissimamente succedette:
perché il duca di Urbino e il marchese di Saluzzo, fermatisi in
Firenze per la occasione di questo tumulto (benché senza necessità),
non andorono a vedere, secondo la deliberazione che era stata fatta,
l'alloggiamento dell'Ancisa; e il seguente dí Luigi Pisano e Marco
Foscaro, oratore veneto appresso a' fiorentini, veduta la
instabilità della città, protestorono non volere che l'esercito
passasse Firenze se prima non si conchiudeva la confederazione
trattata, nella quale dimandavano contribuzione di diecimila fanti,
parendo loro tempo da valersi delle necessità de' fiorentini. Ma si
conchiuse finalmente il vigesimo ottavo dí, rimettendosi a quella
contribuzione che sarebbe dichiarata dal pontefice; il quale si
credeva che già si fusse ricongiunto co' collegati. Aggiunsesi che,
essendo venuto il tempo de' pagamenti de' svizzeri, né avendo Luigi
Pisano, secondo le male provisioni che facevano i viniziani, danari
da pagargli, passò qualche dí innanzi gli provedesse; in modo che si
pretermesse il consiglio salutifero di andare con gli eserciti ad
alloggiare all'Ancisa.
Nel quale stato delle cose il pontefice, inteso lo inganno usato al
viceré da Borbone e la passata sua in Toscana, volto per necessità
a' pensieri della guerra, aveva conchiuso, a' venticinque dí, di
nuovo confederazione col re di Francia e co' viniziani, obligandogli
a sovvenirlo di grosse somme di denari, né volendo obligare i
fiorentini o sé ad altro che a quello che comportassino le loro
facoltà; allegando la stracchezza in che era l'uno e l'altro di loro
per avere speso eccessivamente. Le quali condizioni, benché gravi,
approvate dagli oratori de' confederati per separare totalmente il
pontefice dagli accordi fatti col viceré, non erano approvate da'
principali: i viniziani improbavano Domenico Venereo, oratore loro,
di avere conchiuso senza commissione del senato una confederazione
di grave spesa e di piccolo frutto, per la vacillazione del
pontefice, il quale pensavano che a ogni occasione tornerebbe alla
prima incostanza e desiderio dello accordo, e il re di Francia
esausto di danari, e intento piú a straccare Cesare con la lunghezza
della guerra che alla vittoria, giudicava bastare ora che la guerra
si nutrisse con piccola spesa; anzi, se bene nel principio, quando
intese la tregua fatta dal pontefice, gli fusse molestissima,
nondimeno, considerando poi meglio lo stato delle cose, desiderava
che il pontefice disponesse i viniziani, senza i quali egli non
voleva fare convenzione alcuna, ad accettare la tregua fatta.
Lib.18, cap.8
Deliberazione del Borbone di marciare contro Roma, e lentezza del
pontefice nel prendere provvedimenti. Scarsa sollecitudine dei
romani alla richiesta d'aiuti del pontefice. Deliberazioni dei
collegati di inviare milizie a Roma; fiducia di Renzo da Ceri nella
possibilità di difendere Roma, e fiducia del pontefice in lui.
Assalto dell'esercito tedesco a Roma, morte del Borbone; sacco della
città. Milizie de' collegati sotto Roma, donde subito si ritirano.
Ma in questo tempo il pontefice, al quale era molesto essersi
trasferita la guerra in Toscana ma pure manco molesto che se si
fusse trasferita in terra di Roma, soldava fanti e provedeva a'
denari, ma lentamente; disegnando di mandare Renzo da Ceri con gente
contro a' sanesi e anche assaltargli per mare, acciò che Borbone,
implicato in Toscana, fusse impedito a pigliare il cammino di Roma:
benché di questo gli diminuisse ogni dí il timore, sperando che, per
le difficoltà che aveva Borbone di condurre inverso Roma le genti
senza vettovaglie e senza denari, e per l'opportunità che aveva
dello stato di Siena, dove almanco si nutrirebbono i soldati, fusse
per fermarsi alla impresa contro a' fiorentini. Ma, o fusse stato
altro il suo primo consiglio, stabilito, come molti hanno detto,
segretissimamente, insino al Finale, con l'autorità del duca di
Ferrara e di Ieronimo Morone, o diffidando, poiché alla difesa di
Firenze erano condotte le forze di tutta la lega, di potere fare
frutto in quella impresa, né potendo anche sostentare piú l'esercito
senza denari, condotto insino a quel dí per tante difficoltà con
vane promesse e vane speranze, e però necessitato o a perire o a
tentare la fortuna, deliberò di andare improvisamente e con somma
prestezza ad assaltare la città di Roma; dove e i premi della
vittoria e per Cesare e per i soldati sarebbono inestimabili, e la
speranza del conseguirgli non era piccola, poi che [il papa], con
cattivo consiglio, aveva licenziato prima i svizzeri e poi i fanti
delle bande nere, e ricominciato sí lentamente (disperato che fu
l'accordo) a provedersi che giudicava non sarebbe a tempo a raccorre
presidio sufficiente.
Partí adunque il duca di Borbone con tutto l'esercito, il dí
vigesimo [sesto] di aprile, spedito, senza artiglierie senza
carriaggi; e camminando con incredibile prestezza, non lo ritardando
né le pioggie, le quali in quegli dí furono smisurate, né il
mancamento delle vettovaglie, si appropinquò a Roma in tempo che
appena il pontefice avesse certa la sua venuta, non trovato ostacolo
alcuno né in Viterbo, dove il papa non era stato a tempo a mandare
gente, né in altro luogo. Però il pontefice, ricorrendo (come prima
gli era stato predetto avere a essere da uomini prudentissimi) nelle
ultime necessità, e quando non gli potevano piú giovare, a quegli
rimedi i quali, fatti in tempo opportuno, sarebbono stati alla
salute sua di grandissimo momento, creò per danari tre cardinali; i
quali per l'angustia delle cose non gli potettono essere numerati,
né, gli fussino stati numerati, potevano, per la vicinità del
pericolo, partorire piú frutto alcuno. Convocò anche i romani,
ricercandogli che in tanto pericolo della patria pigliassino
prontamente l'armi per difenderla, e i piú ricchi prestassino danari
per soldare fanti, alla quale cosa non trovò corrispondenza alcuna.
Anzi è restato alla memoria che Domenico di Massimo, ricchissimo
sopra a tutti i romani, offerse di prestare cento ducati: della
quale avarizia patí le pene, perché le figliuole andorono in preda
de' soldati, egli co' figliuoli fatti prigioni ebbono a pagare
grandissime taglie.
Ma in Firenze, avuta la nuova della partita di Borbone, la quale,
scritta da Vitello che era in Arezzo, ritardò uno dí piú che non era
conveniente a venire, si deliberò da' capitani che il conte Guido
Rangone, con i cavalli suoi e con quelli del conte di Gaiazzo e con
cinquemila fanti de' fiorentini e della Chiesa, andasse subito,
spedito, alla volta di Roma, seguitasse l'altro esercito appresso:
sperando che, se Borbone andava con artiglierie, sarebbe questo
soccorso a Roma innanzi a lui; se andava spedito, sarebbe sí presto
dopo lui che, non avendo artiglierie ed essendo mediocre difesa in
Roma, dove il papa aveva scritto avere seimila fanti, sarebbe
sopratenuto tanto che arrivasse questo primo soccorso; il quale
arrivato, non era pericolo alcuno che Roma si perdesse. Ma la
celerità di Borbone e le piccole provisioni di Roma pervertirono
tutti i disegni. Perché Renzo da Ceri, al quale il pontefice aveva
dato il carico principale della difesa di Roma, avendo per la
brevità del tempo condotto pochi fanti utili ma molta turba imbelle
e imperita, raccolta tumultuariamente dalle stalle de' cardinali e
de' prelati e dalle botteghe degli artefici e delle osterie, e
avendo fatto ripari al Borgo deboli, a giudizio di tutti, ma a
giudizio suo sufficienti, confidava tanto nella difesa che né
permettesse che si tagliassino i ponti del Tevere per salvare Roma,
se pure il Borgo e Trastevere non si potessino difendere; anzi,
giudicando essere superfluo il soccorso, presentita la venuta del
conte Guido, gli fece il quarto dí di maggio scrivere dal vescovo di
Verona in nome del pontefice che, per essere Roma provista e
fortificata a bastanza, vi mandasse solamente seicento o ottocento
archibusieri, egli col resto delle genti andasse a unirsi con
l'esercito della lega, col quale unito farebbe piú frutto che
rinchiuso in Roma: la quale lettera se bene non fece nocumento
alcuno, perché il conte non era tanto innanzi che potesse essere a
tempo, certificò pure quanto male si calcolassino da lui i pericoli
presenti. Ma non fu manco maraviglioso, se è maraviglia che gli
uomini non sappino o non possino resistere al fato, che il
pontefice, che soleva disprezzare Renzo da Ceri sopra tutti gli
altri capitani, si rimettesse ora totalmente nelle sue braccia e nel
suo giudizio; e molto piú che, solito a temere ne' minori pericoli,
era stato piú volte inclinato ad abbandonare Roma quando il viceré
andò col campo a Frusolone, ora, in tanto pericolo, spogliatosi
della natura sua, si fermasse costantemente in Roma, e con tanta
speranza di difendersi che, diventato quasi come procuratore degli
inimici, proibisse non solo agli uomini di partirsene ma eziandio
ordinasse non fussino lasciate uscirne le robe, delle quali molti
mercatanti e altri cercavano per la via del fiume di alleggierirsi.
Alloggiò Borbone con l'esercito, il quinto dí di maggio, ne' Prati
presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a
dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare
con l'esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il
fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente
poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo
della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra
battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú
sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi
al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu
cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi
innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché
non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma
perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare
l'assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso,
cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò
l'ardore de' soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per
spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non
solamente la debolezza grandissima de' ripari ma eziandio la mala
resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre
volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno
ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú
degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati
di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla
difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e
bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione
colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli
imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a
essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú
freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre
senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di
fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro,
mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al
Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de'
vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di
Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti
cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o
pure, per la via di Roma, accompagnati da' cavalli leggieri della
sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio
delle calamità che possono sopravenire a' pontefici e anco quanto
sia difficile a estinguere l'autorità e maestà loro, avuto nuove per
Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte
di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del
capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare
co' capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di
partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle
provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il
giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né
consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna,
v'entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera
medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di
Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della
fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato
le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto
il resto della corte e della città, come si fa ne' casi tanto
spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò
ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo
rispetto non solo al nome degli amici né all'autorità e degnità de'
prelati, ma eziandio a' templi a' monasteri alle reliquie onorate
dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe
impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di
quella città, destinata per ordine de' cieli a somma grandezza ma
eziandio a spesse direzioni; perché era l'anno......... che era
stata saccheggiata da' goti. Impossibile a narrare la grandezza
della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose
preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora
maggiore la qualità e numero grande de' prigioni che si ebbeno a
ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e
la infamia, che molti prelati presi da' soldati, massime da' fanti
tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e
insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne
delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per
tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne'
tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia,
finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello
impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i
palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non
era con l'esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i
mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone
e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari:
e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o
saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose
la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati,
che furono pagati da' mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti:
de' quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di
diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de'
suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo
palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da' tedeschi; e si
ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in
Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con
cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della
Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da' tedeschi pagorono la
taglia, menati prima l'uno e l'altro di loro a processione per tutta
Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi
sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati
non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla
miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da'
soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi
essere oscuri a' mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la
castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta
bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli
che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare
la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose
sacre, i sacramenti e le reliquie de' santi, delle quali erano piene
tutte le chiese, spogliate de' loro ornamenti, erano gittate per
terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E
quello che avanzò alla preda de' soldati (che furno le cose piú
vili) tolseno poi i villani de' Colonnesi, che venneno dentro. Pure
il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte
donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e
gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che
di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore. Arrivò, il
dí medesimo che gli imperiali preseno Roma, il conte Guido co'
cavalli leggieri e ottocento archibusieri al ponte di Salara, per
entrare in Roma la sera medesima; ma inteso il successo si ritirò a
Otricoli, dove si congiunse seco il resto della sua gente; perché,
non ostante le lettere avute di Roma che disprezzavano il suo
soccorso, egli, non volendo disprezzare la fama di essere quello che
avesse soccorso Roma, aveva continuato il suo cammino. Né mancò
(come è natura degli uomini, benigni e mansueti estimatori delle
azioni proprie ma severi censori delle azioni d'altri) chi
riprendesse il conte Guido di non avere saputo conoscere una
preclarissima occasione, perché gli imperiali, intentissimi tutti a
sí ricca preda, a votare le case, a ritrovare le cose occultate, a
fare prigioni e a ridurre in luogo salvo i fatti, erano dispersi per
tutta la città, senza ordine di alloggiamenti senza riconoscere le
loro bandiere senza ubbidire i segni de' capitani; in modo che molti
credetteno che se la gente che era col conte Guido si fusse condotta
con prestezza in Roma non solo arebbeno conseguito, presentandosi al
Castello non assediato né custodito di fuora da alcuno, la
liberazione del pontefice ma ancora sarebbe succeduta loro piú
gloriosa fazione, occupati tanto gli inimici alla preda che con
difficoltà, per qualunque accidente, se ne sarebbe messo insieme
numero notabile: essendo massime certo che, ancora poi per qualche
dí, quando per comandamento de' capitani o per qualche accidente si
dava alle armi, non si rappresentava alle bandiere alcuno soldato.
Ma gli uomini si persuadono spesso che se si fusse fatta o non fatta
una cosa tale sarebbe succeduto certo effetto, che se si potesse
vederne la esperienza si troverebbeno molte volte fallaci simili
giudizi.
Lib.18, cap.9
Avanzata dell'esercito dei collegati verso Roma; fallimento del
tentativo di liberare il pontefice. Lentezza dell'esercito dei
collegati; indugi nella conclusione degli accordi per la resa fra il
pontefice e gli imperiali. Inattività dell'esercito dei collegati;
inutili istanze del luogotenente del pontefice.
Restava adunque a' rinchiusi nel Castello solamente la speranza del
soccorso dello esercito della lega; il quale, partito da Firenze,
non prima (credo) che 'l terzo o il quarto dí di maggio (perché i
viniziani erano stati lenti a pagare i svizzeri), camminava,
precedendo una giornata il marchese di Saluzzo alle genti viniziane
ma con ordine accordato tra il duca e lui che seguitassino per il
medesimo cammino. Nondimeno, il settimo dí, il duca, contro
all'ordine dato, si dirizzò dallo alloggiamento di Cortona alla
volta di Perugia, per arrivare a Todi e poi a Orti, e quivi passato
il Tevere unirsi con gli altri. I quali, camminando per il cammino
disegnato, sforzorono e saccheggiorono Castello della Pieve, che
aveva recusato di alloggiare dentro i svizzeri, con morte di
seicento o ottocento uomini di quegli della terra. Per il quale
disordine, intenta la gente alla preda, non si condusseno prima che
a' dieci dí al ponte a Cranaiuolo, dove ebbeno avviso della perdita
di Roma, e agli undici a Orvieto: dove, per consiglio di Federigo da
Bozzole, si spinse il marchese di Saluzzo, egli e Ugo de' Peppoli,
con grossa cavalcata alla volta del Castello; disegnando egli e Ugo
andare insino al Castello, e restando il marchese dietro per fare
loro spalle; sperando trovare sprovisti gli imperiali e avere, col
subito arrivare, occasione di cavare di Castello il pontefice e i
cardinali: sapendosi massime i soldati, per la grandezza della
preda, posposti gli altri pensieri, non essere intenti ad altro. Ma
il disegno riuscí vano, perché a Federigo, non essendo già molto
lontani da Roma, cadde il cavallo addosso, dal quale offeso molto
non potette andare piú innanzi; e Ugo presentatosi presso al
Castello essendo già fatto il dí, dove l'ordine era dovessino
arrivare di notte, si ritirò: conoscendo, secondo diceva egli,
scoperta l'occasione, ma secondo diceva Federigo, temendo piú che
non sarebbe stato di bisogno.
Il duca di Urbino intratanto, inteso l'accidente di Roma, ancora che
affermasse volere soccorrere con tutte le forze il pontefice,
nondimeno, parendogli occasione di levare lo stato di Perugia di
mano di Gentile Baglione, mantenutovi con l'autorità del pontefice,
e rimetterlo in arbitrio de' figliuoli di Giampaolo, accostatosi con
le genti de' viniziani a Perugia, costrinse con minacce Gentile a
partirsene; e lasciatavi guardia sotto capi dependenti da Malatesta
e da Orazio, de' quali l'uno era rinchiuso in Castello Santo Agnolo
l'altro era in Lombardia con le genti de' viniziani, poiché, in
questa fazione ebbe consumato tre dí, si condusse, a' quindici o a'
sedici, a Orvieto, essendo stato causa di molta dilazione il cammino
preso da lui dall'alloggiamento di Cortona per andare di là dal
Tevere alla volta di Roma. A Orvieto si convenneno insieme tutti i
capi dello esercito per risolvere le fazioni future. Sopra le quali
il duca di Urbino, mostrato nel preambolo delle parole caldezza
grande, proponeva molte difficoltà, ricordando sopra tutto il
pensare alla sicurtà della ritirata se non riuscisse il soccorso del
Castello; però volle statichi da Orvieto, per assicurarsi che nel
ritorno non mancherebbeno di dare le vettovaglie allo esercito; e
interponendo a tutte le cose lunghezza di tempo, risolvé finalmente
di essere a' diciannove a Nepi, e che il dí medesimo il marchese con
le sue genti e il conte Guido co' fanti italiani fussino a
Bracciano, per andare tutti il dí seguente all'Isola, luogo lontano
da Roma nove miglia: dove non furono gli eserciti (perché il duca
soprastette a Nepi) prima che a' ventidue. La quale dilazione fu
causata dall'andata di Perugia, da essere stato alloggiato tre dí a'
piedi di Orvieto, e fermatosi uno dí nello alloggiamento di Nepi. La
venuta de' quali intendendosi dal pontefice, per lettere del
luogotenente scrittegli da Viterbo, fu cagione che, essendo quasi
conclusa la concordia tra gli imperiali e lui, recusò di
sottoscrivere i capitoli, non tanto per la speranza che egli
raccogliesse dalle lettere (le quali, benché scritte cautamente, gli
accennavano quel che, discorrendo il passato, potesse sperare del
futuro) quanto per fuggire la ignominia che alla sua o timidità o
precipitazione si potesse attribuire il non essere stato soccorso.
Era ne' franzesi prontezza di soccorrere, e i viniziani con lettere
calde augumentavano la medesima disposizione, avendone parlato
ardentemente il principe nel consiglio de' pregati; però, non
restando al duca altra scusa, volle che il dí seguente si facesse la
mostra di tutti gli eserciti; sperando trovare il numero diminuito
in modo che gli desse giusta cagione di ricusare il combattere:
disegno che riuscí vano, perché nello esercito, ancora che molti se
ne fussino partiti, erano restati piú di quindicimila fanti, e tutta
la gente dispostissima maravigliosamente a combattere. Consultossi,
fatto la mostra, quello che fusse da fare; ed essendo molti disposti
che si andasse a fare lo alloggiamento alla Croce di Montemari (come
con grande instanza ricercavano quegli del Castello), allegando che,
per essere alloggiamento forte e lontano da Roma tre miglia né
essere da temere che gli imperiali uscissino ad alloggiare fuora di
Roma, lo stare quivi e il ritirarsi potersi fare senza pericolo, e
da quello alloggiamento potersi meglio conoscere e meglio eseguire
l'occasione di soccorrere il Castello. Ma non piacendo al duca
questa risoluzione, accettò uno partito proposto innanzi al tempo da
Guido Rangone, che offeriva con tutti i cavalli e le fanterie
ecclesiastiche accostarsi la notte medesima al Castello per fare
pruova di trarne il pontefice; pure che il duca d'Urbino col resto
dello esercito si conducesse insino alle Tre Capanne per fargli
spalle. Ma non si eseguí la notte questo disegno, perché il duca,
stimolato dagli altri, cavalcò per riconoscere l'alloggiamento di
Montemari: e nondimeno, appropinquatosi la notte, non passò le Tre
Capanne. Ma essendosi per questa andata perdute molte ore vanamente,
fu necessario differire l'eseguire la deliberazione fatta alla notte
futura. Ma il dí medesimo, avendo il duca fatto riferire a certe
spie (o vere o subornate) che fussino le trincee fatte in Prati piú
gagliarde, che non era la verità, e lo avere rotto (il che anche era
falso) in piú luoghi il muro del corridore donde si va dal palazzo
di Vaticano a Castello Santo Angelo, per potere, se si scopriva
gente, soccorrere subito da piú bande, e proposto da lui molte
difficoltà, che tutte furono consentite da Guido e approvate da
quasi tutti gli altri capitani, si conchiuse essere cosa impossibile
di soccorrere allora il Castello; ributtati agramente dal duca
alcuni degli altri capitani che si sforzavano, disputando, di
sostentare la contraria opinione. Cosí restava in preda il
pontefice, non si rompendo pure solamente una lancia per cavare di
carcere colui che per soccorrere altri aveva soldato tanta gente e
speso somma infinita di denari e commosso alla guerra quasi tutto il
mondo. Trattossi nondimeno se quel che non si faceva di presente si
potesse fare in futuro con maggiori forze: alla qual cosa, proposta
dal duca, rispose esso medesimo che indubitatamente soccorrerebbe il
Castello qualunque volta nello esercito fusse il numero vero di
sedicimila svizzeri, condotti per ordinazione de' cantoni, non
computando in questi quegli che allora erano nello esercito, come
già fatti inutili per la lunga dimora in Italia; e oltre a'
svizzeri, diecimila archibusieri italiani tremila guastatori e
quaranta pezzi di artiglieria; ricercando il luogotenente che
confortasse il pontefice (che si intendeva avere da vivere per
qualche settimana) che aspettasse ad accordarsi tanto che si
mettessino insieme queste forze. E replicando il luogotenente che
intendeva la proposta sua in caso non si variasse intratanto lo
stato delle cose, ma essendo verisimile che, in questo tempo, quegli
che erano in Roma, con nuove trincee e fortificazioni, farebbeno il
soccorso piú difficile, e anche che del reame di Napoli verrebbeno a
Roma le genti che erano state condotte dal viceré in su l'armata,
desiderare di sapere che speranza potesse dare al pontefice quando,
come era verisimile, succedessino queste cose, rispose che in tale
caso si farebbe il possibile; e soggiugneva che congiungendosi le
genti che erano a Napoli a quelle di Roma sarebbeno in tutto piú di
dodicimila fanti tedeschi e otto in diecimila fanti spagnuoli: però,
perdendosi il Castello, non si potere disegnare di vincere la guerra
se non si avessino veramente almeno ventidue o ventiquattromila
svizzeri. Le quali dimande essendo come impossibili sprezzate da
tutti, lo esercito, il primo dí di giugno, molto diminuito di fanti,
si ritirò a Monteruosi; non ostante che il papa, per favorirsene
nelle pratiche dell'accordo, avesse fatto molta instanza che e'
soprasedesse a levarsi: e la notte medesima, Piermaria Rosso e
Alessandro Vitello con dugento cavalli leggieri passorono a Roma
agli inimici.
Lib.18, cap.10
Accordi fra il Pontefice e gli imperiali; stretta sorveglianza del
pontefice in Castel Sant'Angelo. Città che malgrado l'accordo
rimangono alla devozione del pontefice; il duca di Ferrara occupa
Modena, i veneziani Ravenna e Cervia, e Sigismondo Malatesta Rimini.
Restaurazione del governo popolare in Firenze. Ragioni di odio dei
fiorentini contro i Medici, e persecuzione ai loro fautori.
Aveva il pontefice, sperando sempre poco del soccorso, e temendo
alla vita propria da' Colonnesi e da' fanti tedeschi, mandato a
Siena a chiamare il viceré, sperando, anche, da lui migliore
condizione: il quale andò cupidamente, credendo essere capitano
dell'esercito. Arrivato a Roma, dove passò con salvocondotto de'
capitani dello esercito, veduto essere contro a sé mala disposizione
de' fanti tedeschi e spagnuoli, i quali dopo la morte di Borbone
avevano eletto per capitano generale il principe di Oranges, non
ebbe ardire di fermarvisi; ma andando verso Napoli, incontrato nel
cammino dal marchese del Guasto, don Ugo e Alarcone, vi ritornò per
consiglio loro: e nondimeno, non essendo grato all'esercito, non
ebbe piú autorità né nelle cose della guerra né nel trattato della
concordia col pontefice. Il quale finalmente, destituto di ogni
speranza, convenne il sesto dí di giugno con gli imperiali, quasi
con quelle medesime condizioni con le quali aveva potuto convenire
prima: che il pontefice pagasse allo esercito ducati
quattrocentomila, cioè centomila di presente, che si pagavano di
denari argento e oro rifuggito nel Castello, cinquantamila fra venti
dí, dugento cinquantamila fra due mesi, assegnando per il pagamento
di questi una imposizione pecuniaria da farsi per tutto lo stato
della Chiesa; mettesse in potestà di Cesare, per ritenerlo quanto
paresse a lui, Castel Santo Angelo, le rocche di Ostia di
Civitavecchia e di Civita Castellana, e le città di Piacenza di
Parma e di Modona; restasse egli prigione in Castello con tutti i
cardinali, che erano seco tredici, insino a tanto che fussino pagati
i primi cento cinquantamila, dipoi andassino a Napoli o a Gaeta per
aspettare quello che di loro determinasse Cesare; desse statichi
allo esercito per l'osservanza de' pagamenti (de' quali la terza
parte apparteneva agli spagnuoli) gli arcivescovi sipontino e
pisano, i vescovi di Pistoia e di Verona, Iacopo Salviati, Simone da
Ricasoli e Lorenzo fratello del cardinale de' Ridolfi: avessino
facoltà di partirsi sicuramente del Castello Renzo da Ceri, Alberto
Pio, Orazio Baglione, il cavaliere Casale oratore del re di
Inghilterra; e tutti gli altri che vi erano rifuggiti, eccetto il
pontefice e i cardinali: assolvesse il pontefice dalle censure
incorse i Colonnesi, e che quando fusse menato fuori di Roma vi
restasse uno legato in nome suo, e l'auditorio della ruota proposto
a rendere ragione. Il quale accordo come fu fatto, entrò nel
Castello con tre compagnie di fanti spagnuoli e tre compagnie di
fanti tedeschi il capitano Alarcone; il quale, deputato alla guardia
del Castello e della persona del pontefice, lo guardava con
grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste e con
piccolissima libertà.
Ma non furono con la medesima facilità consegnate l'altre fortezze e
terre promesse: perché quella di Civita Castellana era custodita in
nome de' collegati; quella di Civitavecchia recusò di consegnare
Andrea Doria, benché n'avesse comandamento dal pontefice, se prima
non gli erano pagati quattordicimila ducati, de' quali diceva di
essere creditore per gli stipendi suoi. A Parma e a Piacenza andò in
nome del pontefice Giuliano Leno romano, architettore, in nome de'
capitani Lodovico conte di Lodrone, con comandamento alle città di
obbedire alla volontà di Cesare; benché da altra parte avesse fatto
occultamente intendere loro il contrario: le quali città, aborrendo
lo imperio degli spagnuoli, recusorono di volergli ammettere. Ma i
modonesi non erano piú in potestà propria, perché il duca di
Ferrara, non pretermettendo l'occasione che gli davano le calamità
del pontefice, minacciando di dare il guasto alle biade già mature,
gli costrinse a dargli il sesto dí di giugno la città; non senza
infamia del conte Lodovico Rangone, il quale, benché il duca avesse
seco poca gente, se ne partí, non fatto segno alcuno di resistenza:
e disprezzò in questo il duca l'autorità de' viniziani, i quali lo
confortavano a non fare, in tempo tale, innovazione alcuna contro
alla Chiesa. E nondimeno essi, non contenendo se medesimi da quello
che dissuadevano agli altri, avuta intelligenza co' guelfi di
Ravenna, mandativi fanti sotto colore di guardarla per timore di
quelli di Cotignuola, appropriorono a sé quella città; e ammazzato
furtivamente il castellano, occuporono anche la fortezza, publicando
volerla tenere in nome di tutta la lega; occuporono e, pochi dí poi,
Cervia e i sali che vi erano del pontefice. Nello stato del quale,
non essendo né chi lo guardasse né chi lo difendesse, se non quanto
da se stessi per interesse proprio facevano i popoli, occupò
Sigismondo Malatesta con la medesima facilità la città e la rocca di
Rimini.
Ma non avevano le cose sue avuta nella città di Firenze migliore
fortuna. Perché, come vi fu la nuova della perdita di Roma, il
cardinale di Cortona, impaurito per trovarsi abbandonato da'
cittadini che facevano professione di essere amici de' Medici, non
avendo modo, senza termini violenti ed estraordinari, di provedere
a' denari, né volendo per avarizia mettere mano a' suoi, almeno
insino a tanto che si intendesse il progresso degli eserciti che
andavano per soccorrere il pontefice, non lo movendo alcuna
necessità, perché nella città erano molti soldati, e il popolo
spaventato per l'accidente seguito della occupazione del palazzo non
arebbe avuto ardire di muoversi, deliberò di cedere alla fortuna; e,
convocati i cittadini, lasciò libera a loro l'amministrazione della
republica, ottenuti certi privilegi ed esenzioni, e facoltà a'
nipoti del pontefice di stare come cittadini privati in Firenze, e
abolizione per ciascuno di tutte le cose perpetrate per il passato
contro allo stato. Le quali cose conchiuse, il sestodecimo dí di
maggio, egli co' nipoti se ne andò a Lucca; dove pentitosi presto
del partito preso con tanta timidità, fece pruova di ritenersi le
fortezze di Pisa e di Livorno, le quali erano in mano di castellani
confidenti al pontefice; e nondimeno questi, fra pochi giorni, non
sperando per la cattività del papa soccorso alcuno, ricevuta anche
qualche somma di denari, consegnorono quelle fortezze a' fiorentini.
I quali in questo mezzo, avendo ridotta la città al governo
popolare, creorono gonfaloniere di giustizia per uno anno, e con
facoltà di essere confermato insino in tre anni, Niccolò Capponi,
cittadino di grande autorità e amatore della libertà; il quale,
desiderando sopra modo la concordia de' cittadini e che il governo
si riducesse a forma piú perfetta che si potesse di republica,
convocato il prossimo dí il consiglio maggiore, nel quale risedeva
la potestà assoluta del deliberare le leggi e di creare tutti i
magistrati, parlò in questa sentenza.
Furono gravissime le parole del gonfaloniere e prudentissimi
certamente i consigli, a' quali se i cittadini avessino prestato
fede sarebbe forse durata piú lungamente la nuova libertà. Ma
essendo maggiore lo sdegno in chi ricupera la libertà che in chi la
difende, e grande l'odio contro al nome de' Medici per molte
cagioni, e massime per avere avuto a sostentare in gran parte co'
danari propri le imprese cominciate da loro (perché è manifesto
avere i fiorentini speso, nella occupazione e poi nella difesa del
ducato di Urbino, ducati piú di cinquecentomila, altanti nella
guerra mossa da Leone contro al re di Francia, e nelle cose che
succederono dopo la morte sua dependenti da detta guerra ducati
trecentomila, pagati a' capitani imperiali e al viceré, innanzi la
creazione di Clemente e poi, e ora piú di secentomila nella guerra
mossa contro a Cesare), cominciorono a perseguitare immoderatamente
quegli cittadini che erano stati amici de' Medici, perseguitare il
nome del pontefice. Scancellorno per tutta la città impetuosamente
le insegne della famiglia de' Medici, affisse eziandio negli edifizi
fabbricati da loro; roppeno le immagini di Leone e di Clemente che
stavano nel tempio della Annunziata, celebrato per tutto il mondo;
costrinseno i beni del pontefice, a esazione di debiti vecchi, non
pretermettendo cosa alcuna, la maggiore parte di loro, appartenente
a concitare lo sdegno del pontefice, e a nutrire divisione e
discordia nella città: e arebbono moltiplicato a maggiori disordini
se non si fusse interposta l'autorità e prudenza del gonfaloniere,
la quale però non bastava a rimediare a' molti disordini.
Lib.18, cap.11
Disordine e pestilenza fra le milizie imperiali in Roma; invio di
milizie francesi in Italia. Confederazione tra i re di Francia e
d'Inghilterra; accordi fra i collegati contro Cesare. Pestilenza in
molte parti d'Italia. Partenza dell'esercito francese per l'Italia.
Fazioni di guerra in Lombardia.
Ma in Roma erano venuti, col marchese del Guasto e con don Ugo,
tutti i fanti tedeschi e spagnuoli i quali erano nel reame di
Napoli, in modo si dicevano essere, raccolti insieme, ottomila fanti
spagnuoli dodicimila tedeschi e quattromila italiani; esercito, per
la riputazione acquistata, per il terrore degli altri, per le deboli
provisioni che si avevano da opporsi loro, da fare in Italia
qualunque progresso. Ma essendone capitano in titolo e in nome
solamente il principe di Oranges, ma in fatto governandosi da se
stesso, e intento tutto alle prede e alle taglie e a riscuotere i
danari promessi dal pontefice, non aveva pensiero alcuno degli
interessi di Cesare; però non voleva partirsi di Roma. Dove
governandosi tumultuosamente, il viceré e il marchese del Guasto,
temendo da' fanti alle persone proprie, se ne fuggirono: essi
restorono esposti alla pestilenza, la quale già cominciata vi fece
poi gravissimo danno; perderono la occasione di molte cose, e
specialmente di Bologna (la quale città, benché vi fusse, dopo la
perdita del Borgo, andato con mille fanti pagati da' viniziani il
conte Ugo de' Peppoli, tumultuando Lorenzo Malvezzi, con assenso
tacito di Ramazzotto e col seguito della fazione de' Bentivogli, non
senza difficoltà si conservò nella ubbidienza della sedia
apostolica); e, quel che non importò forse meno, dettono spazio al
re di Francia di mandare esercito potentissimo in Italia, con
pericolo grandissimo che Cesare, dopo avere acquistata tanta
vittoria, non perdesse il reame napoletano.
Perché indirizzandosi in Francia le cose a provisioni di nuova
guerra, si era conchiusa, il vigesimoquarto dí di aprile, la
confederazione trattata molti mesi tra il re di Francia e il re di
Inghilterra, con condizione: che la figliuola di Inghilterra si
maritasse al re di Francia o al duca di Orliens suo secondo genito,
e che nello abboccamento de' due re, disegnato di farsi alla
Pentecoste tra Cales e Bologna, convenissino a chi di loro due si
avesse a dare; rinunziasse il re di Inghilterra al titolo del regno
di Francia, ricevendo in ricompensa una pensione di cinquantamila
ducati l'anno; entrasse nella lega fatta a Roma, obligandosi a
muovere, per tutto luglio prossimo, la guerra a Cesare di là da'
monti con novemila fanti, e il re di Francia con diciottomila e con
numero di lance e di artiglierie conveniente; e che in questo mezzo
mandassino, l'uno e l'altro di loro, oratori a Cesare a intimargli
la confederazione fatta, a ricercargli la liberazione de' figli, e
lo entrare nella pace con oneste condizioni, e in caso non
accettasse infra uno mese, protestargli la guerra e dargli
principio: e fatto questo accordo, il re di Inghilterra entrò subito
nella lega; ed egli e il re di Francia mandorono in poste due uomini
a fare le intimazioni convenute a Cesare. I quali atti si feciono
con piú prontezza per Tarba e per l'oratore anglo, andati in poste,
che non si erano fatti per commissione del pontefice; perché
Baldassarre da Castiglione nunzio suo, dicendo non essere da
esacerbare tanto l'animo di Cesare, aveva recusato che se gli
protestasse la guerra. Ma dipoi, avuto in Francia l'avviso della
perdita di Roma, temperandosi il dispiacere minore del caso del
pontefice con l'allegrezza maggiore della morte di Borbone, non
parendo al re da lasciare cadere le cose di Italia, convenne a'
quindici di maggio co' viniziani di soldare a comune diecimila
svizzeri, pagando lui la prima paga e i viniziani la seconda e cosí
seguitando successivamente; e mandare diecimila fanti sotto Pietro
Navarra, e i viniziani ne soldassino diecimila altri tra loro e il
duca di Milano; mandare di nuovo cinquecento lance e diciotto pezzi
di artiglieria. E perché il re di Inghilterra, non ostante le
convenzioni fatte, non concorreva prontamente a rompere la guerra di
là da' monti, la quale anche non sodisfaceva al re di Francia,
desiderando ciascuno di loro di tenerla lontana da' regni suoi,
liberatisi da quella obligazione, convennono che quel re pagasse per
la guerra di Italia, per tempo di mesi [sei], diecimila fanti. Per
la instanza del quale principalmente, Lautrech, benché quasi contro
alla sua volontà, fu dichiarato capitano generale di tutto
l'esercito.
Il quale mentre si prepara per passare con le provisioni convenienti
di danari e delle altre cose necessarie, non succedeva in Italia
accidente alcuno di momento. Perché l'esercito imperiale non si
partiva di Roma, non ostante che quotidianamente ne morissino molti
per la acerbità della pestilenza, la quale nel tempo medesimo faceva
grandissimi progressi in Firenze e in molte parti di Italia; e
l'esercito della lega, nella quale, con offensione gravissima di
Cesare (perché, avendo per instanza fatta da loro commesso al duca
di Ferrara il comporre in nome suo co' fiorentini, ebbe quasi subito
notizia della contraria deliberazione), erano, per la instanza del
marchese di Saluzzo e de' viniziani, entrati di nuovo i fiorentini,
con obligazione di pagare cinquemila fanti, diminuito molto di
numero, per essere i fanti de' viniziani, quegli del marchese e i
svizzeri male pagati, ritiratosi a canto a Viterbo, attendeva a
temporeggiarsi; sforzandosi di mantenere alla divozione della lega
Perugia, Orvieto, Spuleto e l'altre terre vicine: dove avendo dipoi
inteso una parte dell'esercito imperiale essere uscito di Roma,
benché lo facessino per respirare alquanto collo allargarsi
dubitando non uscissino tutti, fatto il primo pagamento, si ritirò a
Orvieto e dipoi presso a Castello della Pieve; e sarebbesi ritirato
ne' terreni de' fiorentini se loro lo avessino consentito. Era anche
entrata la pestilenza in Castel Santo Angelo, con pericolo grande
della vita del pontefice; intorno [al quale] morirno alcuni di
quegli che servivano la sua persona. Il quale, afflitto da tanti
mali, né avendo speranza in altro che nella clemenza di Cesare, gli
destinò legato, con consentimento de' capitani, Alessandro cardinale
di Farnese: benché egli, uscito con questa occasione del Castello e
di Roma, recusò di andare alla legazione. Desideravano i capitani
condurre il pontefice a Gaeta coi tredici cardinali che erano con
lui; ma egli, con molta diligenza con prieghi e con arte, procurava
il contrario.
Finalmente Lautrech, fatte l'espedizioni necessarie, partí dalla
corte l'ultimo dí di giugno con ottocento lance, e con titolo,
perché cosí aveva voluto il re, di capitano generale di tutta la
lega; e il re di Inghilterra, in luogo de' diecimila fanti, si era
tassato a pagare, cominciando al principio di giugno, scudi
trentaduemila ciascuno mese, co' quali si pagassino diecimila fanti
tedeschi sotto Valdemonte, ottima banda e molto esercitata, per
avere rotto piú volte i luterani: e i diecimila fanti di Pietro
Navarra erano parte franzesi parte italiani. Condusse ancora il re
di Francia Andrea Doria, con otto galee e trentaseimila scudi
l'anno.
Ma innanzi che Lautrech avesse passato i monti, le genti de'
viniziani e del duca di Milano congiunte andorono a Marignano: donde
Antonio de Leva, uscito di Milano co' fanti tedeschi con ottocento
spagnuoli e altanti italiani, e con non molti cavalli, gli costrinse
a ritirarsi. Nel quale tempo il castellano di Mus, condotto agli
stipendi del re di Francia, mentre che in sul lago di Como aspetta
la venuta de' svizzeri, occupò per inganno la rocca di Monguzzo
posta tra Lecco e Como, nella quale abitava Alessandro Bentivogli
come in casa propria. Mandò Antonio de Leva Lodovico da Belgioioso a
recuperarla, il quale assaltatala invano tornò a Moncia. Ma avendo
dipoi Antonio de Leva sentito che il castellano con dumila
cinquecento fanti era venuto alla villa di Carato, distante da
Milano quattordici miglia, ritornò a Milano; dove lasciati solo
dugento uomini, benché i viniziani vi fussino propinqui a dieci
miglia, partitosi di notte col resto dell'esercito, assaltò
all'improviso in sul levare del sole le genti del castellano; le
quali sentito il romore, uscite delle case dove alloggiavano, si
ritirorno in uno piano circondato da siepi presso alla villa, non
credendo esservi tutte le genti inimiche; e benché si mettessino in
ordinanza, furono in quel luogo basso come in carcere senza difesa
presi e morti, eccetto molti i quali nel principio si fuggirono,
essendosi accorti che il castellano aveva subito fatto il medesimo.
Lib.18, cap.12
Azione di príncipi presso Cesare per la liberazione del pontefice.
Il cardinale eboracense in Francia e suoi accordi col re. Condizioni
ed inattività degli eserciti avversari in Italia. Atto degno
d'infamia compiuto a Perugia dai capitani dei confederati. Azioni
dei collegati nel Lazio e nell'Umbria.
Aveva in questo mezzo Cesare, per lettere del gran cancelliere, il
quale mandato da lui veniva in Italia, scrittegli da Monaco (il
quale richiamò subito), intesa la cattura del pontefice; e benché
con le parole dimostrasse essergli molestissima, nondimeno si
raccoglieva che in secreto gli era stata gratissima; anzi, non si
astenendo totalmente dalle dimostrazioni estrinseche, non aveva per
questo intermesso le feste cominciate prima per la natività del
figliuolo. Ma essendo la liberazione del pontefice desiderata
ardentissimamente dal re di Inghilterra e dal cardinale eboracense,
e per la autorità loro risentendosene anche il re di Francia (il
quale altrimenti, se avesse recuperato i figliuoli, si sarebbe poco
commosso per i danni del pontefice e di tutta Italia), mandorono
congiuntamente, l'uno e l'altro, oratori a Cesare a dimandargli la
sua liberazione, come cosa appartenente comunemente a tutti i
príncipi cristiani, e come debita particolarmente da Cesare, sotto
la fede del quale era stato da' suoi capitani e dal suo esercito
ridotto in tanta miseria; e in questo tempo medesimo ricercorono i
cardinali che erano in Italia, che insieme co' cardinali che erano
di là da' monti si congregassino in Avignone, per consultare in
tempo tanto difficile quel che s'avesse a fare per beneficio della
Chiesa: i quali, per non si mettere tutti in mano di príncipi tanto
potenti, recusorono, benché con diverse escusazioni, di andarvi. E
da altra parte il cardinale de' Salviati, legato appresso al re di
Francia, ricercato dal pontefice che andasse a Cesare per aiutare le
cose sue, alla venuta di don Ugo (il quale si era convenuto nella
capitolazione che vi andasse), ricusò di farlo, come se fusse cosa
perniciosa che tanti cardinali fussino in potestà di Cesare, ma
mandò per uno suo cameriere la istruzione ricevuta da Roma allo
auditore della camera; il quale riportò benignissime parole ma
incerta e varia risoluzione. Arebbe Cesare desiderato che la persona
del pontefice fusse condotta in Spagna; nondimeno, e perché era pure
cosa piena di infamia e per non irritare tanto l'animo del re di
Inghilterra, e perché tutti i regni di Spagna, i quali, e
principalmente i prelati e i signori, detestavano molto che dallo
imperadore romano, protettore e avvocato della Chiesa, fusse, con
tanta ignominia di tutta la cristianità, tenuto in carcere quello
che rappresentava la persona di Cristo in terra, però, avendo
risposto a quegli oratori benignamente, e alla instanza che gli
facevano della pace essere contento che la trattasse il re di
Inghilterra (il che da loro fu accettato), mandò il terzo dí di
agosto il generale in Italia e, di poi quattro dí, [Veri] di
Migliau, l'uno e l'altro, secondo si diceva, con commissione al
viceré per la liberazione del pontefice e restituzione di tutte le
terre e fortezze occupategli. Per la sostentazione del quale
consentí anche che il nunzio suo gli mandasse certa somma di danari,
esatta dalla collettoria di quegli reami i quali nelle corti avevano
denegato di dare a Cesare danari.
Passò in questo tempo, che era di luglio, il cardinale eboracense a
Cales con milledugento cavalli; incontra il quale il re di Francia,
volendo riceverlo onoratissimamente, mandò il cardinale del Loreno.
Andò dipoi il re in Amiens a' tre di agosto, dove il seguente dí
entrò Eboracense con grandissima pompa; accrescendogli ancora la
estimazione lo avere portato seco trecentomila scudi per le spese
occorrenti, e per prestarne al re di Francia, bisognando. Trattossi
tra loro quel che apparteneva alla pace e quello che apparteneva
alla guerra. E ancora che i fini del re di Francia fussino diversi
da quegli del re di Inghilterra (perché per conseguire i figliuoli
arebbe lasciato il pontefice e Italia in preda) nondimeno era stato
necessitato promettergli di non fare accordo alcuno con Cesare senza
la liberazione del pontefice. Però, avendo mandato Cesare al re di
Inghilterra gli articoli della pace, gli fu risposto, in nome
comune, che accetterebbono la pace con la restituzione de'
figliuoli, pagandogli in certi tempi due milioni di ducati, la
liberazione del pontefice e dello stato ecclesiastico, la
conservazione di tutti gli stati e governi di Italia come erano di
presente, e finalmente la pace universale. E si convenne tra loro
che, accettando Cesare questi articoli, la figlia di Inghilterra si
desse per moglie al duca d'Orliens, perché andrebbe innanzi il
matrimonio del re con la sorella di Cesare; ma non succedendo la
pace, si desse per moglie al re; i quali articoli mandati,
denegorono di concedere salvocondotto a uno uomo quale Cesare
dimandava di mandarvi, rispondendo bastare gli fussino stati mandati
quegli articoli. La quale conclusione fatta, fu, il decimo ottavo dí
di agosto, giurata e publicata solennemente la pace e la
confederazione tra l'uno re e l'altro. Deliberorono che la guerra di
Italia si facesse gagliardamente, avendo per obietto principale la
liberazione del pontefice, ma rimettendo liberamente i modi e i
mezzi del proseguirla nel consiglio di Lautrech; il quale, innanzi
alla partita sua, aveva ottenuto dal re tutte l'espedizioni
domandate: perché il re si metteva a fare sforzo ultimo, e quasi
perentorio. Volle ancora Eboracense che in campo andasse per il suo
re il cavaliere Casale, al quale si indirizzassino i
trentacinquemila ducati pagava ciascuno mese, per essere certo vi
fusse il numero intero degli alamanni. Cosí stabilito il modo della
guerra di Italia, e mandate unitamente le risposte in Spagna, partí
Eboracense, spedito alla partita sua il protonotario Gambero al
pontefice, per confortare a farlo suo vicario universale in Francia
in Inghilterra e in Germania, mentre stava in prigione: a che il re
di Francia dimostrava consentire ma in segreto contradiceva.
Facevansi intratanto poche fazioni di guerra in Italia, essendo
grande l'espettazione della venuta di Lautrech. Perché l'esercito
imperiale, disordinato e deposta l'ubbidienza a' capitani, grave
agli amici e alle terre arrendute, non si movendo, non era agli
inimici di alcuno terrore; i fanti spagnuoli e gli italiani,
fuggendo la contagione della peste, si stavano sparsi intorno a
Roma; il principe di Oranges con cento cinquanta cavalli era andato
a Siena, per quale si voglia cagione; dove prima aveva mandato
alcuni fanti, perché il popolo di quella città, sollevato da capi
sediziosi, aveva tumultuosamente saccheggiate le case de' cittadini
del Monte de' nove e ammazzato Pietro Borghesi, cittadino di
autorità, insieme con uno figliuolo e sedici o diciotto altri. In
Roma restavano solamente i tedeschi pieni di peste; i quali essendo
stati sodisfatti con grandissima difficoltà dal pontefice de' primi
cento cinquantamila ducati, parte con danari parte con partiti fatti
con mercatanti genovesi sopra le decime del regno di Napoli e sopra
la vendita di Benevento, dimandavano, per il resto de' denari
dovuti, altre sicurtà e altro assegnamento che la imposizione in su
lo stato ecclesiastico, cose impossibili al pontefice incarcerato;
[e] dopo molti minacci fatti agli statichi, e il tenergli incatenati
con grandissima acerbità, gli condussono ignominiosamente in Campo
di Fiore, dove rizzate le forche, come se incontinente volessino
prendere di loro quello supplicio. Uscirono dipoi tutti di Roma
senza capitani di autorità, per allargarsi e rinfrescarsi piú che
per fare fazioni di importanza: e avendo saccheggiato le città di
Terni e Narni, Spuleto si accordò di dare loro passo e vettovaglia.
Però l'esercito de' collegati, per sicurtà di Perugia, andò ad
alloggiare a Pontenuovo di là da Perugia; il quale prima alloggiava
in sul lago di Perugia, ma diminuito, rispetto alle obligazioni de'
collegati, molto di numero; perché col marchese di Saluzzo erano
trecento lancie e trecento arcieri franzesi tremila svizzeri e mille
fanti italiani, col duca d'Urbino cinquanta uomini d'arme trecento
cavalli leggieri mille fanti alamanni e dumila italiani: scusandosi,
impudentemente e contro alla verità, i viniziani, che supplivano
alle loro obligazioni con le genti tenevano nel ducato di Milano.
Avevanvi i fiorentini ottanta uomini d'arme cento cinquanta cavalli
leggieri e quattromila fanti, necessitandogli a stare meglio
proveduti che gli altri il timore che avevano continuamente che
l'esercito imperiale non assaltasse la Toscana: però pagavano a'
tempi debiti le genti loro, di che facevano il contrario tutti gli
altri. Ma il duca d'Urbino, oltre alle sue antiche difficoltà, era
in grandissimo dispiacere e quasi disperazione, sapendo che il re di
Francia e Lautrech, tassandolo eziandio di infedeltà, non parlavano
onoratamente di lui, ma molto piú perché era in malissimo concetto
appresso a' viniziani; i quali, insospettiti o della fede o della
instabilità sua, avevano messa diligente guardia alla moglie e al
figliuolo, che erano in Vinegia, perché non partissino senza licenza
loro; e dannavano scopertamente il suo consiglio, che era che
Lautrech, senza tentare le cose di Lombardia, andasse verso Roma.
Però dormiva ogni cosa oziosamente in quello esercito, avendo per
grazia che gli imperiali non venissino piú innanzi: i quali, non
molto poi, ricevuti dal marchese del Guasto, che andò all'esercito,
due scudi per uno, se ne ritornorono, i tedeschi, male concordi con
gli spagnuoli, a Roma, restando gli spagnuoli e gli italiani distesi
ad Alviano, Attigliano, Castiglione della Teverina e verso Bolsena;
ma diminuito tanto il numero massime de' tedeschi, per la peste, che
si credeva che in tutto l'esercito di Cesare non fussino restati piú
che diecimila fanti.
Ma innanzi alla partita loro feciono i capitani de' confederati uno
atto degno di eterna infamia. Perché essendo Gentile Baglione
ritornato in Perugia con volontà di Orazio, il quale, affermando che
le discordie tra loro erano perniciose a tutti, aveva dimostrato di
riconciliarsi seco, vi andò, con consentimento di tutti i capitani,
Federigo da Bozzole a fargli intendere che, avendo presentito che
egli trattava occultamente con gli inimici, intendevano di
assicurarsi di lui; [e] ancoraché egli si giustificasse, e
promettesse di andare a Castiglione del Lago, lo lasciò in guardia a
Gigante Corso, colonnello de' viniziani; ma la sera medesima fu
ammazzato, con due nipoti, da alcuni satelliti di Orazio, e per sua
commissione: il quale fece, ne' medesimi dí, ammazzare fuora di
Perugia Galeotto fratello di Braccio e nipote anche egli di Gentile.
Mandorono di poi gente per entrare in Camerino, inteso essere morto
il duca; ma era prevenuto Sforza Baglione in nome degli imperiali, e
vi entrò dipoi Sciarra Colonna per conto di Ridolfo genero suo,
figliuolo naturale del duca morto. Assaltorono dipoi il marchese di
Saluzzo e Federico con molti cavalli e con mille fanti, di notte, la
badia di San Piero vicina a Terni, dove erano Pietromaria Rosso e
Alessandro Vitello con dugento cavalli e quattrocento fanti: la
quale impresa per sé temeraria, perché con tale presidio non era
espugnabile se non con l'artiglierie, rendé felice o la fortuna o la
imprudenza o l'avarizia di quegli condottieri; i quali, avendo il dí
medesimo mandati cento cinquanta archibusieri a spogliare uno
castello vicino, si erano privati delle genti necessarie alla
difesa. Però, benché si fussino difesi molte ore, si detteno a
discrezione; salvo però Piermaria Rosso e Alessandro Vitello con le
robe loro, feriti l'uno e l'altro di archibusi, il primo in una
gamba l'altro in una mano. Nel quale tempo avendo rotto il fiume del
Tevere per tre o quattro bocche, inondò con grandissimo danno il
campo della lega; il quale andò ad alloggiare verso Ascesi, essendo
ancora gli imperiali fra Terni e Narni. Per la partita loro i
collegati fattisi innanzi, alloggiò il duca di Urbino a Narni, i
franzesi a Bevagna; le bande nere, governate da Orazio Baglione,
capitano generale della fanteria de' fiorentini, non avendo ricevuto
alloggiamento, entrate nella terra di Montefalco la saccheggiorono.
Assaltò poi una parte di questi fanti le Presse, nel quale castello
erano ritirati Ridolfo da Varano e Beatrice sua moglie; i quali non
potendo difendersi si arrenderono a discrezione: benché poco dipoi
recuperassino la libertà, perché Sciarra, non potendo piú sostenersi
in Camerino per le molestie riceveva da quello esercito, si convenne
di relassarlo, ricuperando il genero e la figliuola. Tentorono anche
il marchese di Saluzzo e Federigo, con la cavalleria franzese e con
dumila fanti, di svaligiare furtivamente la cavalleria spagnuola,
alloggiata in Monte Ritondo, e in Lamentano, senza guardie e senza
scolte, secondo riferiva Mario Orsino, cammino di tre giornate; ma
scoperti, perché procedettono con poco ordine, non tentata la
fazione tornorno indietro, avendo disegnato, per privargli della
facoltà del fuggire, di tagliare in uno tempo medesimo il ponte del
Teverone.
Lib.18, cap.13
Scarsa attività degli eserciti in Lombardia. Azioni del Lautrech in
Piemonte. Resa di Genova al re di Francia. Resa di Alessandria ai
francesi. L'acquisto di Alessandria causa di discordia fra i
collegati. Presa e sacco di Pavia; deliberazione del Lautrech di
marciare verso Roma e verso il reame di Napoli. Condizioni poste da
Cesare per la concordia e sue speranze di lieti successi.
Non erano state molto diverse da queste, tutta la state, le
operazioni de' soldati di Lombardia: dove le genti de' viniziani e
del duca, congiunte insieme appresso a Milano con intenzione di
tagliare i grani di quello contado, avevano rotto la scorta delle
vettovaglie, morti cento fanti, presi trenta uomini d'arme e
trecento cavalli tra utili e inutili; ma non procederono piú oltre
contro a' frumenti, perché le genti de' viniziani, secondo il
costume loro, presto diminuirono. Andrea Doria con l'armata sua si
era ritirato verso Savona, i genovesi avevano recuperata la Spezie.
Ma cominciorono poi a riscaldare le cose di Lombardia per la passata
di Lautrech nel Piemonte con una parte dell'esercito; il quale per
non stare ozioso, mentre aspetta il resto, si pose a campo, ne'
primi dí del mese di agosto, alla terra del Bosco nel contado di
Alessandria, nella quale erano a guardia mille fanti, la maggiore
parte tedeschi. Difendevansi con somma ostinazione, perché Lautrech,
sdegnato che avevano morti alcuni svizzeri, recusava di accettargli
se non si rimettevano liberamente alla sua discrezione; e
somministrava loro spessi aiuti e dava animo Lodovico conte di
Lodrone, proposto alla difesa di Alessandria, perché nel Bosco erano
rinchiusi la moglie e i figliuoli. Finalmente, vessati dí e notte
dalle artiglierie, e temendo delle mine, poi che ebbono tollerato
dieci dí tanto travaglio, si rimessono in arbitrio di Lautrech: il
quale ritenne prigioni i capitani, salvò la vita a' fanti, ma con
condizione che gli spagnuoli ritornassino in Spagna per via di
Francia, i tedeschi in Germania per il paese de' svizzeri; e che
ciascuno d'essi, secondo l'uso della iattanza militare, uscisse del
Bosco senza arme con una canna in mano; ma al conte Lodovico
restituí liberalmente la moglie e i figliuoli.
Seguitorono questo acquisto successi prosperi delle cose di Genova.
Perché essendo arrivate in Portofino cinque navi che andavano a
Genova, cariche quattro di frumenti e una di mercatanzie, e perché
si conducessino salve essendo andate nove galee da Genova per
accompagnarle, accadde che, avendo avuto avviso che Cesare Fregoso
si accostava per terra a Genova con dumila fanti, vi si ridussono
quasi tutti quegli che erano in Portofino, abbandonando l'armata; il
che dette occasione a Andrea Doria, condotto con tutte le condizioni
che aveva dimandate agli stipendi del re di Francia, di serrarle con
le galee sue nel porto medesimo; dove, conoscendo non potere
resistere, disarmorono le galee e messeno le genti in terra. Cosí
delle nove galee essendone abbruciata una, l'altre vennono in
potestà degli inimici, con le navi cariche di frumenti e con la
caracca Iustiniana, che venuta di levante si diceva essere ricca di
centomila ducati. Alla quale fazione furono anche altre galee
franzesi; le quali avendo prese prima cinque navi cariche di grani,
che andavano a Genova, si erano dipoi poste alla Chiappa a ridosso
di Codemonte, fra Portofino e Genova. Ne' quali dí ancora, certi
fanti condotti dagli Adorni per mettergli in Genova furno rotti a
Priacroce, luogo situato in quei monti. Questa calamità, oltre a
tante altre perdite e danni di vari legni, privò i genovesi, ridotti
in ultima estremità, totalmente di speranza di potersi piú
sostenere; non ostante che ne' medesimi dí Cesare Fregoso,
accostatosi a San Piero della Arena, fusse stato costretto a
ritirarsi: ma spaventandogli piú la fame che le forze degli inimici,
costretti dalla ultima necessità, mandorno a Lautrech imbasciadori a
capitolare. Ritirossi Antoniotto Adorno doge nel Castelletto; e
posati i tumulti, per opera massime di Filippino Doria che vi era
prigione, la città ritornò sotto il dominio del re di Francia, il
quale vi deputò governatore Teodoro da Triulzi. Ma il Capella scrive
che, infestando Cesare Fregoso Genova per terra, Andrea Doria con
diciassette galee aveva rinchiuso certe navi cariche di frumenti in
uno porto tra Genova e Savona; e mandando i genovesi sei galee per
soccorrerle, il vento spinse Andrea Doria a Savona: però le navi
andorno a Genova, e i soldati uscirno fuora contro al Fregoso. Col
quale mentre combattevano, il popolo genovese cominciò a chiamare
Francia; e ritornando i soldati dentro a fermare il tumulto, gli
inimici seguitandogli entrorno nella città con loro.
Accostossi dipoi Lautrech ad Alessandria, avendo nell'esercito suo
la condotta di ottomila svizzeri, i quali continuamente diminuivano,
diecimila fanti di Pietro Navarra e tremila guasconi, condotti di
nuovo in Italia dal barone di Bierna, e tremila fanti del duca di
Milano. Erano in Alessandria mille cinquecento fanti, i quali per la
perdita degli alamanni che erano nel Bosco si erano molto inviliti;
ma essendovi poi entrati, per i colli che erano vicini alla città,
cinquecento fanti con Alberigo da Belgioioso, avevano ripreso animo,
e difendevansi gagliardamente: ma raddoppiata la batteria da piú
parti, per la venuta all'esercito delle artiglierie e delle genti
de' viniziani (benché né per terra né per mare corrispondessino al
numero al quale erano obligati), e molestandola ferocemente nel
tempo medesimo con le trincee e con le mine, come sempre in
qualunque oppugnazione faceva Pietro Navarra, Batista da Lodrone,
non potendo piú difenderla, accordò di potersene andare in Piemonte,
e gli alamanni con le loro robe in Germania, non potendo per sei
mesi pigliare soldo contro allo esercito franzese.
L'acquisto di Alessandria dimostrò tra i confederati principio di
qualche contenzione. Perché, disegnando Lautrech lasciarvi a guardia
cinquecento fanti perché avessino in qualunque caso uno ricetto
sicuro le genti sue, e quelle che venivano di Francia comodità di
raccôrsi e riordinarsi in quella città, insospettito l'oratore del
duca di Milano che questo non fusse principio di volere occupare per
il suo re quello stato, contradisse con parole efficaci e con
protesti; e risentendosene quasi non meno di lui l'oratore
viniziano, interponendosene ancora quello di Inghilterra, cedé
Lautrech, benché con grave indignazione, di lasciarla libera al duca
di Milano: cosa che fu forse di molto pregiudizio a quella impresa,
perché è opinione di molti che piú negligentemente attendesse allo
acquisto di Milano o per sdegno o per riservarlo a tempo che, senza
rispetto d'altri, potesse tirarlo a suo profitto.
Dopo la perdita di Alessandria, non essendo dubbio che Lautrech si
dirizzerebbe alla impresa di Milano o di Pavia, è fama che Antonio
de Leva, col quale erano centocinquanta uomini d'arme e cinquemila
fanti tra tedeschi e spagnuoli, diffidandosi di potere difendere
Milano con sí poca gente e con tante difficoltà, pensò di ritirarsi
a Pavia; nondimeno, considerando essere poche vettovaglie in Pavia,
né potersi in quella città sostentare l'esercito con le estorsioni,
come acerbissimamente aveva fatto a Milano, deliberò finalmente di
fermarvisi, e mandò alla guardia di Pavia Lodovico da Belgioioso; e
a' milanesi, i quali vollono comperare con danari la licenza di
partirsi, la concedette. Ma Lautrech, per rimuovere le difficoltà le
quali potessino ritardarlo, fatta tregua con Cerviglione spagnuolo
il quale era alla guardia di Case, benché molto diminuito di
svizzeri, procedendo innanzi occupò Vigevano; e dipoi fatto uno
ponte sopra il Tesino, e per quello (secondo credo) passato
l'esercito, si inviò verso Benerola, villa propinqua a quattro
miglia a Milano; dimostrando di volere andare, come lo confortavano
i viniziani, a campo a quella città, ma veramente risoluto a quella
deliberazione che gli paresse piú facile. Ma avendo inteso, come fu
appropinquato a otto miglia a Milano, il Belgioioso avervi la notte
dinanzi mandati quattrocento fanti, in modo che in Pavia non erano
restati se non ottocento, voltato il cammino, andò il dí seguente,
che fu il vigesimo ottavo dí di settembre, al monasterio della
Certosa e dipoi con celerità grande si pose a campo a Pavia; al
soccorso della quale città avendo Antonio de Leva, come intese la
mutazione di Lautrech, mandato tre bandiere di fanti, non potettono
entrarvi, in modo che per il piccolo numero de' difensori non pareva
potersi resistere: e nondimeno il Belgioioso, supplicandolo il
popolo della città che permettesse loro che per fuggire il sacco e
la distruzione della città si accordassino, lo recusò. Ma avendo
Lautrech continuato di battere quattro dí, e gittato in terra tanto
muro che i pochi difensori non bastavano a ripararlo, alla fine il
Belgioioso mandò uno trombetto a Lautrech; il quale non avendo
potuto parlargli cosí presto, perché per sorte era andato nel campo
de' viniziani, i soldati accostatisi entrorono nella terra per le
rovine del muro: il che vedendo il Belgioioso, aperta la porta, uscí
fuora ad arrendersi a' franzesi, da' quali fu mandato prigione a
Genova. La città andò a sacco, e vi fu per otto dí continui usata
da' franzesi crudeltà grande e fatti molti incendi, per memoria
della rotta ricevuta nel barco. Disputossi poi se era da andare alla
impresa di Milano o da procedere verso Roma. Instavano i fiorentini
che andasse innanzi, per timore che, fermandosi Lautrech in
Lombardia, lo esercito imperiale non uscisse di Roma a' danni loro;
contradicevano i viniziani e il duca di Milano, venuto personalmente
a Pavia a fare questa instanza, allegando la opportunità grande che
si aveva di pigliare Milano e il profitto che se ne traeva ancora
alla impresa di Napoli, perché preso Milano non restava speranza
agli imperiali di avere soccorso di Germania, ma restando aperta
questa porta si aveva sempre a temere che, venuto da quella banda
grosso esercito, o non mettesse in pericolo Lautrech o non lo
divertisse dalla impresa di Napoli: il quale rispose essere
necessitato a andare innanzi per i comandamenti del suo re e del re
d'Inghilterra, che principalmente l'avevano mandato in Italia per la
liberazione del pontefice. Alla quale deliberazione si crede lo
potesse indurre il sospetto che, se si acquistava il ducato di
Milano, i viniziani, riputandosi assicurati dal pericolo della
grandezza di Cesare, non fussino negligenti ad aiutarlo alla impresa
del regno di Napoli; e forse non meno il parere al re essere utile
alle cose sue che Francesco Sforza non ricuperasse interamente
quello stato, acciò che, restando a lui facoltà di offerire di
lasciarlo a Cesare, conseguisse piú facilmente la liberazione de'
figliuoli per via di accordo: il quale continuamente si trattava,
appresso a Cesare, per gli oratori franzesi e inghilesi e viniziani.
Ma in questo trattato nascevano molte difficoltà, perché Cesare
faceva instanza che la causa di Francesco Sforza si vedesse di
ragione, e che pendente la cognizione fusse posseduto da sé tutto lo
stato; promettendo in ogni caso di non lo appropriare a se medesimo:
dimandava che i viniziani pagassino allo arciduca il resto de'
dugentomila ducati dovutigli per i capitoli di Vormazia; il che
l'oratore veneto non ricusava, adempiendo l'arciduca e restituendo i
luoghi a che era obligato: dimandava che a' fuorusciti loro, come
già era stato convenuto, o restituissino centomila ducati o
consegnassino entrata di cinquemila; pagassino a lui quello erano
debitori per la confederazione fatta seco, la quale voleva si
rinnovasse: restituissino alla Chiesa Ravenna, e rilasciassino
quanto tenevano nello stato di Milano: dimandava a' fiorentini
trecentomila ducati, per le spese fatte e danni avuti per la loro
inosservanza: consentiva che il re di Francia pagasse al re di
Inghilterra per lui il debito de' quattrocento cinquantamila ducati;
del resto, insino in due milioni, dimandava staggi: voleva le dodici
galee dal re di Francia per l'andata sua in Italia, ma non piú né
cavalli né fanti: e che, subito che fusse stipulata la concordia, si
partissino tutte le genti franzesi di Italia, il che il re recusava
se prima non gli erano restituiti i suoi figliuoli. Le quali dimande
quando si sperava mitigasse, lo fece (secondo il costume suo di non
cedere alle difficoltà) piú pertinace la perdita di Alessandria e di
Pavia, in modo che, essendo venuto a lui il quintodecimo dí di
ottobre, di Inghilterra, l'auditore della camera, a sollecitare in
nome di quello re la liberazione del pontefice, rispose avere
proveduto per il generale; e che quanto allo accordo non voleva, né
per amore né per forza, alterare le condizioni che aveva proposte
prima. Ma certamente si comprendeva non essere Cesare molto
inclinato alla pace, perché contro alla potenza degli inimici gli
davano animo molte cagioni: perché confidava avere a resistere in
Italia, per la virtú del suo esercito e per la facilità del
difendere le terre; potere sempre con piccola difficoltà fare
passare nuovi fanti tedeschi; essere esausti il re di Francia e i
viniziani per le lunghe spese, le provisioni loro (come è consueto
nelle leghe) interrotte e diminuite; confidarsi di potere esigere
danari di Spagna a bastanza, con ciò sia che sostentava la guerra
con spese molto minori (per le rapine de' soldati) che gli
avversari, e perché sperava di disunire o di fare piú negligenti i
collegati con qualche arte; e finalmente perché molto si prometteva
della sua grandissima felicità, comprovata con la esperienza di
molti anni, e pronunziatagli con innumerabili vaticini insino da
puerizia.
Lib.18, cap.14
Indugi di Lautrech per ordini del re di Francia. Condizioni con cui
il duca di Ferrara si allea ai confederati; entrata del marchese di
Mantova nella confederazione. Posizioni degli eserciti nemici
nell'Italia centrale; ancora della lentezza del Lautrech. Accordi
per la liberazione del pontefice dalla prigionia. Il pontefice a
Orvieto.
Ma in questo tempo Lautrech (per l'autorità del quale, come arrivò
in Italia, il duca di Ferrara aveva operato che i Mariscotti
restituissino a' bolognesi Castelfranco, e che i Bentivogli
deponessino l'armi) sollecitava che l'armate marittime, destinate a
assaltare o la Sicilia o il reame di Napoli, procedessino innanzi;
delle quali la viniziana, non essendo le provisioni loro né per
terra né per mare pari alle obligazioni, era a Corfú, e sedici galee
dovevano andare a unirsi con Andrea Doria, il quale aspettava nella
riviera di Genova Renzo da Ceri, destinato co' fanti a quella
impresa. Rimandò di poi Lautrech in Francia quattrocento lancie e
tremila fanti, e convenne co' viniziani, i quali confortava a
restituire Ravenna al collegio de' cardinali, e col duca di Milano
che, per difendere quello che si era acquistato, tenessino le genti
loro, con le quali erano Ianus Fregoso e il conte di Caiazzo, in
alloggiamento molto fortificato a Landriano, villa vicina a due
miglia a Milano; per la vicinità de' quali non potendo allargarsi le
genti che erano in Milano, si stimava aversi facilmente a guardare
Pavia, Moncia, Biagrassa, Marignano, Binasco, Vigevano e
Alessandria: egli, stabilite queste cose, passò, con mille
cinquecento svizzeri, altanti tedeschi e seimila tra franzesi e
guasconi, il decimo ottavo dí di ottobre, il Po a riscontro di
Castel San Giovanni, con intenzione di aspettare i fanti tedeschi,
de' quali era arrivata insino a quel dí piccola parte, e un'altra
banda pure di fanti della medesima nazione, i quali il re di Francia
aveva mandato a soldare di nuovo in luogo de' svizzeri, già resoluti
quasi tutti. Dal quale luogo fu necessitato fare ritornare di là dal
Po Pietro Navarra co' fanti guasconi e italiani, al soccorso di
Biagrassa; alla quale terra, custodita dal duca di Milano, Antonio
de Leva, intendendo essere male proveduta, era, il vigesimo ottavo
dí di ottobre, andato a campo con quattromila fanti e sette pezzi
d'artiglierie, e ottenutola il secondo dí per accordo, si preparava
per passare nella Lomellina alla recuperazione di Vigevano e di
Novara; ma intesa la venuta di Pietro Navarra con maggiori forze, si
ritornò a Milano: donde al Navarra fu facile recuperare Biagrassa,
nella quale Francesco Sforza messe migliori provisioni. Vedevasi già
manifestamente differire industriosamente Lautrech il partirsi; e
benché allegasse averlo ritenuto la espettazione de' fanti tedeschi,
con una banda de' quali era pure finalmente venuto Valdemonte (gli
altri si aspettavano), e si lamentasse per tutto delle piccole
provisioni de' viniziani, nondimeno si dubitava ne fusse stato
cagione l'aspettare danari di Francia: ma la cagione piú vera e piú
potente era che il re, sperando la pace, la pratica della quale era
stretta con Cesare, gli aveva commesso che, dissimulando questa
cagione, procedesse lentamente. Da che anche era nato che il re non
era stato pronto a pagare la parte sua degli alamanni, che si
conducevano in luogo de' svizzeri, né quegli che prima erano
destinati a venire con Valdemonte.
Con queste o necessità o escusazioni soprastando Lautrech a Piacenza
con le genti alloggiate tra Piacenza e Parma, si rimosse la
difficoltà avuta prima del duca di Ferrara: il quale che entrasse
nella confederazione aveva Lautrech, subito che arrivò in Italia,
fatto instanza grande; cosa da una parte desiderata dal duca per il
parentado che gli era proposto col re di Francia, da altra
ritenendolo la diffidenza che aveva del valore de' franzesi, e il
sospetto che il re finalmente per recuperare i figliuoli non
concordasse con Cesare; ma temendo de' minacci di Lautrech, aveva
dimandato che le cose sue si trattassino a Ferrara, perché voleva
maneggiare le cose che tanto gli importavano da se medesimo. Perciò
andorono a Ferrara gli imbasciadori di tutti i collegati, e in nome
de' cardinali congregati a Parma il cardinale Cibo: dove, alla fine,
mosso il duca dal procedere innanzi di Lautrech, sforzatosi di fare
capaci il capitano Giorgio e Andrea di Burgo, che molto onorati e
intrattenuti da lui erano a Ferrara, accordò, ma con condizioni che
dimostrorno o la industria sua nel sapere bene negoziare, e che non
invano avesse voluto tirare la pratica alla presenza sua, o la
cupidità grande che ebbeno gli altri di tirarlo nella
confederazione. Nella quale entrò con obligazione di pagare ogni
mese, per tempo di sei mesi, da sei a diecimila scudi secondo la
dichiarazione del re di Francia, il quale dichiarò poi di seimila; e
dare a Lautrech cento uomini d'arme pagati: e da altra parte, si
obligorno i confederati alla protezione di lui e del suo stato; a
dargli Cotignuola, tolta poco innanzi da' viniziani agli spagnuoli,
in cambio della città antica e quasi disabitata di Adria, la quale
instantemente dimandava; fargli restituire i palazzi che già
possedeva in Vinegia e in Firenze; permettergli contro ad Alberto
Pio l'acquisto della fortezza di Novi, posta appresso a' confini del
Mantuano, la quale allora teneva assediata; pagassingli i frutti
dello arcivescovado di Milano, se gli imperiali gli molestassino
all'arcivescovo suo figliuolo. Obligò il cardinale Cibo, in nome de'
cardinali i quali promettevano la ratificazione del collegio, il
pontefice a rinnovare la investitura di Ferrara, a renunziare alle
ragioni di Modena per la compra fatta da Massimiliano, ad annullare
le obligazioni de' sali, a consentire alla protezione che i
collegati preseno di lui, a promettere per bolle apostoliche di
lasciare possedere a lui e a' suoi successori tutto quello
possedeva; e che il pontefice farebbe cardinale il figliuolo, e gli
conferirebbe il vescovado di Modena, vacante per la morte del
cardinale Rangone. Con la quale confederazione si congiunse il
parentado di Renea, figliuola del re Luigi, in Ercole suo
primogenito, col ducato di Ciartres in dota e altre onorate
condizioni. Entrò anche il marchese di Mantova, per la instanza di
Lautrech, nella confederazione, benché prima si fusse condotto agli
stipendi di Cesare.
Ma era in questo tempo indebolito molto l'altro esercito de'
confederati, il quale stette ozioso molti dí tra Fuligno, Montefalco
e Bevagna; del quale il duca di Urbino, intesa la custodia che si
faceva in Vinegia della moglie e del figliuolo, partitosi contro
alla commissione del senato per andare in poste a giustificarsi,
ricevuto in cammino avviso della loro liberazione, e che il senato
sodisfatto di lui desiderava non andasse piú innanzi, ritornò allo
esercito: nel quale i svizzeri e i fanti del marchese non erano
pagati; e i viniziani, né quivi né in Lombardia, dove erano obligati
a tenere novemila fanti, ne tenevano la terza parte. Ritiroronsi di
poi in quello di Todi e all'intorno; e gli spagnuoli, alla fine di
novembre, erano verso Corneto e Toscanella; i tedeschi a Roma, a'
quali era ritornato il principe di Oranges da Siena: dove, andato
vanamente per riordinare quello governo, dimorò poco. Né si dubita,
che se l'esercito imperiale si fusse fatto innanzi, che il duca di
Urbino e il marchese di Saluzzo si sarebbono ritirati con l'esercito
alle mura di Firenze; benché per iattanza spesso parlassino che, per
impedire a loro la venuta in Toscana, farebbeno uno alloggiamento o
tra Orvieto e Viterbo o nel territorio sanese, verso Chiusi e
Sartiano. Ma Lautrech, non ostante fussino arrivati i fanti
tedeschi, procedendo, per la espettazione della pratica della pace,
con la consueta tardità, si era fermato a Parma: nella quale città,
benché vi fussino i cardinali, ridotte in potestà sua le fortezze, e
riscossi da tutt'a due quelle città e de' territori loro circa
cinquantamila ducati, si credeva che avesse in animo non solo tenere
in potestà sua Parma e Piacenza ma, perché Bologna dependesse dalla
autorità del re, volgere il primato di quella città nella famiglia
de' Peppoli. I quali disegni fece vani la liberazione del pontefice.
Alla quale benché da principio non paresse che Cesare condiscendesse
prontamente, perché dopo la nuova della cattività aveva tardato piú
di uno mese a farne deliberazione alcuna, nondimeno, intesa poi la
andata di Lautrech in Italia e la prontezza del re di Inghilterra
alla guerra, aveva mandato in Italia il generale di San Francesco e
Veri di Migliau con commissione sopra questo negozio al viceré; il
quale essendo, in quegli dí che arrivò il generale, morto a Gaeta,
fu necessario trattare il negozio con don Ugo di Moncada, al quale
anche si distendeva il mandato di Cesare, e il quale il viceré aveva
sostituito in suo luogo insino a tanto che sopra il governo del
regno venisse da Cesare nuova ordinazione: e avendo il generale
comunicato con don Ugo, andò a Roma, e insieme con lui [Migliau]
venuto di Spagna con le medesime commissioni che il generale.
Conteneva questo negozio due articoli principali: l'uno, che il
pontefice sodisfacesse all'esercito creditore di somma grossissima
di denari; l'altro, la sicurtà di Cesare che il pontefice, liberato,
non si aderisse co' suoi inimici; e in questo si proponevano dure
condizioni di statichi e di sicurtà di terre. Trattossi per queste
difficoltà la cosa lungamente: la quale per facilitare, il pontefice
aveva spesso sollecitato e continuamente sollecitava, ma
occultamente, Lautrech a farsi innanzi, affermando essere sua
intenzione di non promettere cosa alcuna agl'imperiali se non
forzato, e che in tale caso, uscito di carcere, non osserverebbe,
come prima potesse condursi in luogo sicuro; il che cercherebbe di
fare col dare loro manco comodità potesse; e se pure accordasse, lo
pregava che la compassione de' suoi infortuni e delle necessità
facessino la scusa per lui. La qual cosa mentre che si trattava, gli
statichi, con indegnazione gravissima de' fanti tedeschi, fuggirono
occultamente di Roma, alla fine di novembre. Lunga fu la
discettazione sopra questa materia, non essendo anche di una
medesima sentenza quegli che avevano a determinare: perché don Ugo,
benché avesse mandato a Roma Serone suo secretario insieme con gli
altri, v'aveva, per la malignità della sua natura e per avere
l'animo alieno dal pontefice, piccola inclinazione; il generale,
tutto il contrario, per la cupidità di diventare cardinale; Migliau
contradiceva come a cosa pericolosa a Cesare, e non potendo
resistere se ne andò, a Napoli; della quale empietà patí le pene,
perché ne' primi dí dello assedio, scaramucciando, fu morto di uno
archibuso. Né mancava il pontefice a se medesimo; perché tirò nella
sentenza sua Ieronimo Morone, il consiglio del quale era in tutte le
deliberazioni di grande autorità; conferito il vescovado di Modena
al figliuolo, e promessi a lui certi frumenti suoi che erano a
Corneto, di valore di piú di dodicimila ducati. Ma non con minore
industria si fece propizio il cardinale Colonna; promessagli la
legazione della Marca, e dimostrandogli, quando, venuto a Roma,
l'andò a visitare nel Castello, di volere essere a lui
principalmente debitore di tanto beneficio; e artificiosamente
instillandogli negli orecchi: che maggiore gloria o che maggiore
felicità potesse desiderare che farsi noto a tutto il mondo essere
in potestà sua deprimere i pontefici, in potestà sua, quando erano
annichilati, fargli ritornare nella pristina grandezza. Dalle quali
cose commosso quel cardinale, elatissimo e ventosissimo per natura,
aiutò prontamente la liberazione; credendo fusse cosí facile al
pontefice, liberato, dimenticarsi di tante ingiurie come facilmente
gli aveva, prigione, raccomandato umilissimamente con prieghi e con
lacrime la sua liberazione. Alleggerí in qualche parte le difficoltà
la nuova commissione di Cesare, il quale instava che il pontefice si
liberasse con piú sodisfazione sua che fusse possibile: soggiugnendo
bastargli che, liberato, non aderisse piú a' collegati che a lui. Ma
si crede giovasse piú che alcuna altra cosa la necessità che
avevano, per il timore della venuta di Lautrech, di condurre quello
esercito alla difesa del reame di Napoli; cosa impossibile se prima
non era assicurato degli stipendi decorsi, in ricompenso de' quali
recusavano ammettere tante prede e tanti guadagni fatti nel tempo
medesimo. Questa necessità del provedere a' pagamenti fu anche
cagione che manco si pensasse allo assicurarsi, per il tempo futuro,
del pontefice. Conchiusesi finalmente, credo l'ultimo dí di ottobre
dopo lunga pratica, la concordia in Roma col generale e con Serone
in nome di don Ugo, che poi ratificò: non avversasse il papa a
Cesare nelle cose di Milano e di Napoli; concedessegli la crociata
in Spagna, e una decima delle entrate ecclesiastiche in tutti i suoi
regni; rimanessino, per sicurtà della osservanza, in mano di Cesare
Ostia e Civitavecchia, stata prima rilasciata da Andrea Doria;
consegnassegli Civita Castellana, la quale terra, essendo entrato
nella rocca per commissione secretissima del pontefice, benché
simulasse il contrario, Mario Perusco procuratore fiscale, aveva
ricusato di ammettere gli imperiali; consegnassegli eziandio la
rocca di Furlí, e per statichi Ippolito e Alessandro suoi nipoti, e
insino a tanto venissino a Parma, i cardinali Pisano, Triulzio e
Gaddi, che furono condotti da loro nel regno di Napoli; pagasse
subito a' tedeschi credo ducati sessantasettemila, agli spagnuoli
trentacinquemila, con questo che lo lasciassino libero con tutti i
cardinali, e uscissinsi di Roma e del Castello, chiamandosi libero
ogni volta fusse condotto salvo in Orvieto, Spoleto o Perugia; e fra
quindici dí dopo l'uscita di Roma pagasse altanti danari a'
tedeschi, e il resto poi (che credo ascendeva, co' primi, a ducati
piú di trecento cinquantamila) pagasse infra tre mesi a' tedeschi e
spagnuoli, secondo le rate loro. Le quali cose per potere osservare,
il pontefice, ricorrendo per uscire di carcere a quegli rimedi a'
quali non era voluto ricorrere per non vi entrare, creò per danari
[alcuni] cardinali, persone la maggiore parte indegne di tanto
onore; per il resto, concedette nel reame di Napoli decime e facoltà
di alienare de' beni ecclesiastici: convertendosi per concessione
del vicario di Cristo (cosí sono profondi i giudíci divini) in uso e
in sostentazione di eretici quel che era dedicato al culto di Dio.
Co' quali modi avendo stabilito e assicurato di pagare a' tempi
promessi, dette anche per statichi, per la sicurtà de' soldati, i
cardinali Cesis e Orsino, che furono condotti dal cardinale Colonna
a Grottaferrata; ed essendo spedite tutte le cose, e stabilito che
il nono dí di dicembre dovessino gli spagnuoli accompagnarlo in
luogo sicuro, egli, temendo di qualche variazione per la mala
volontà che sapeva avere don Ugo, e per ogni altra cagione che
potesse interrompere, la notte dinanzi, uscito segretamente al
principio della notte, in abito di mercatante, del Castello, fu da
Luigi da Gonzaga soldato degli imperiali, che con grossa compagnia
di archibusieri l'aspettava ne' Prati, accompagnato insino a
Montefiascone: dove licenziati quasi tutti i fanti, Luigi medesimo
l'accompagnò insino a Orvieto, nella quale città entrò di notte, non
accompagnato da alcuno de' cardinali. Esempio certamente molto
considerabile e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande,
accaduto: uno pontefice, caduto di tanta potenza e riverenza, essere
custodito prigione, perduta Roma, e tutto lo stato ridotto in
potestà d'altri: il medesimo, in spazio di pochi mesi, restituito
alla libertà, rilasciatogli lo stato occupato, e in brevissimo tempo
poi ritornato alla pristina grandezza. Tanta è appresso a' príncipi
cristiani l'autorità del pontificato, e il rispetto che da tutti gli
è avuto.
Lib.18, cap.15
Fazioni di guerra in Lombardia. Sfortunata impresa delle navi dei
collegati contro la Sardegna; il Lautrech a Bologna e sue trattative
col pontefice. Condotta contradditoria del pontefice verso gli
alleati. Vane pratiche di pace fra gli ambasciatori dei collegati e
Cesare; intimazione di guerra.
Nel quale tempo Antonio de Leva, dopo la partita di Lautrech da
Piacenza, mandò fuora di Milano i fanti spagnuoli e italiani, perché
si pascessino, perché recuperassino i luoghi piú deboli del paese, e
perché aprissino le comodità del condursi le vettovaglie a Milano;
quali presono quella parte del contado di sopra che si chiama Sepri.
Mandò anche Filippo Torniello con mille dugento fanti e con alcuni
cavalli a Novara, nella quale città erano quattrocento fanti del
duca di Milano. Entrovvi il Torniello per la rocca, tenutasi sempre
in nome di Cesare; de' fanti sforzeschi si ridusse una parte in
Arona l'altra in Mortara. A' quali avendo il duca aggiunti altri
fanti per la difesa della Lomellina e del paese, non era libero al
Torniello lo allargarsi molto: in modo che, non si facendo per
quella vernata altre fazioni che spesse scaramuccie, attendevano
tutti a rubare, gli amici e i nimici, conducendo a ultimo eccidio
tutto il paese.
Eransi anche in questo tempo congiunte, a Livorno, [le galee
d']Andrea Doria e quattordici galee franzesi con le sedici galee de'
viniziani; e avendo ricevuto Renzo da Ceri con tremila fanti per
porre in terra, partirono il terzodecimo dí di novembre da Livorno:
e benché prima fusse stato determinato che assaltassino l'isola di
Sicilia, mutato consiglio, si voltorono alla impresa di Sardigna,
per i conforti, secondo si credette, di Andrea Doria, e perché già
avesse nel petto nuovi concetti. Acconsentí a questa impresa
Lautrech, per la speranza che presa la Sardigna si facilitasse molto
l'acquisto della Sicilia. Quello che ne fusse la cagione,
travagliate in mare da tristissimi tempi, separate, andorno vagando
per mare: una delle galee franzesi andò a traverso appresso a' liti
di Sardigna; quattro delle galee viniziane, molto battute,
ritornorono a Livorno; le franzesi scorsono per l'impeto de' venti
in Corsica, dove poi in Porto Vecchio si ricongiunsono seco quattro
galee de' viniziani; l'altre otto furono traportate a Livorno.
Finalmente la impresa risolvette, restando insieme in molta
discordia Andrea Doria e Renzo da Ceri. Ma Lautrech, il quale ricevé
quando era in Reggio avviso della, liberazione del pontefice,
rilasciata la fortezza di Parma a' ministri ecclesiastici, andò a
Bologna; nella quale città, arrivato il vigesimo dí del mese
medesimo, si fermò aspettando la venuta degli ultimi fanti tedeschi;
i quali pochi dí poi si condussono nel bolognese, non in numero
seimila, come era destinato, ma solamente tremila: e nondimeno
soggiornò venti dí in Bologna, aspettando avviso dal re di Francia
dell'ultima risoluzione circa la pratica della pace, e instando
intratanto con somma diligenza col pontefice, insieme con l'autorità
del re di Inghilterra, perché apertamente aderisse a' collegati.
Al quale ne' primi che arrivò a Orvieto, essendo andati a lui a
congratularsi il duca di Urbino il marchese di Saluzzo, Federigo da
Bozzole (il quale pochi dí poi morí di morte naturale a Todi) e
Luigi Pisano proveditore viniziano, gli aveva con grandissima
instanza ricercati che levassino le genti loro dello stato
ecclesiastico, affermando gli imperiali avergli promesso che si
partirebbono ancora essi dello stato della Chiesa in caso che
l'esercito de' confederati facesse il medesimo. Aveva anche scritto
uno breve a Lautrech, [ringraziandolo] dell'opere fatte per la sua
liberazione e dell'averlo confortato a liberarsi in qualunque modo;
le quali opere erano state di tanto momento a costrignere gli
imperiali a determinarsi che non meno si pretendeva obligato al re e
a lui che se fusse stato liberato con l'armi loro, i progressi delle
quali arebbe volentieri aspettato se la necessità non l'avesse
indotto, perché continuamente gli erano mutate in peggio le
condizioni proposte, e perché apertamente aveva compreso non potere
se non per mezzo della concordia conseguire la sua liberazione; la
quale quanto piú si differiva tanto procedeva in maggiore precipizio
la autorità e lo stato della Chiesa: ma sopra tutto averlo mosso la
speranza d'avere a essere instrumento opportuno a trattare col suo
re e con gli altri príncipi cristiani il bene comune. Queste furono
da principio le sue parole, sincere e semplici come pareva convenire
allo officio pontificale, e di uno pontefice specialmente che avesse
avuto da Dio sí gravi e sí aspre ammonizioni: nondimeno, ritenendo
la sua natura solita, né avendo per la carcere deposte né le sue
astuzie né le sue cupidità, arrivati che furono a lui (già
cominciato l'anno mille cinquecento ventotto) gli uomini mandati da
Lautrech e Gregorio da Casale oratore del re di Inghilterra, a
ricercarlo che si confederasse con gli altri, cominciò a dare varie
risposte: ora dando speranza ora scusandosi che, non avendo né
danari né gente né autorità, sarebbe a loro inutile il suo
dichiararsi, e nondimeno a sé potrebbe essere nocivo perché darebbe
causa agli imperiali di offenderlo in molti luoghi, ora accennando
di volere sodisfare a questa dimanda se Lautrech venisse innanzi:
cosa molto desiderata da lui perché i tedeschi avessino necessità di
partirsi di Roma; i quali, consumando le reliquie di quella misera
città e di tutto il paese circostante, e deposta totalmente la
obbedienza de' capitani, tumultuando spesso tra loro, ricusavano di
partirsi, dimandando nuovi denari e pagamenti.
Ma alla fine dell'anno precedente, e molto piú nel principio
dell'anno medesimo, cominciorono manifestamente ad apparire vane le
pratiche della pace, per le quali si esacerborono molto piú gli
animi de' príncipi: perché, essendo risolute quasi tutte le
difficoltà (con ciò sia che Cesare non negasse di restituire il
ducato di Milano a Francesco Sforza, e di comporre co' viniziani e
co' fiorentini e con gli altri confederati), si disputava solamente
quale cosa s'avesse prima a mettere in esecuzione, o la partita
dello esercito del re di Francia di Italia o la restituzione de'
figliuoli. Negava il re di obligarsi a Cesare, restando a lui
Genova, Asti e Edin, a levare l'esercito di Italia, se prima non
recuperava i figli, ma offeriva statichi in mano del re di
Inghilterra, per sicurtà della osservanza delle pene alle quali si
obligava se recuperati i figli non levasse subito l'esercito; Cesare
instava del contrario, offerendo le medesime cauzioni in mano del re
di Inghilterra. E disputandosi chi fusse piú onesto che si fidasse
dell'altro, diceva Cesare non si potere fidare di chi una volta
l'aveva ingannato; a che rispondevano argutamente gli oratori
franzesi che quanto piú si pretendeva ingannato dal re di Francia
tanto manco poteva il re di Francia fidarsi di lui; né la offerta di
Cesare, di dare le sicurtà medesime in mano del re di Inghilterra
che offeriva di dare il re di Francia, essere offerta pari perché
anche non era pari il caso, con ciò sia che fusse di tanto maggiore
momento quello che Cesare prometteva di fare che quello che
prometteva il re di Francia, e però non assicurare le sicurtà
medesime. Soggiunseno in ultimo che gli oratori del re di
Inghilterra, quali avevano mandato dal suo re di obligarlo a fare
osservare quello che promettesse il re di Francia, non avevano
mandato a obligarlo per l'osservanza di quello promettesse Cesare; e
che, essendo le facoltà loro terminate e con tempo prefisso, non
potevano né trasgredire né aspettare. Sopra la quale disputa non si
trovava risoluzione alcuna, perché Cesare non aveva la medesima
inclinazione alla pace che aveva il suo consiglio, persuadendosi,
eziandio perduto Napoli, poterlo riavere con la restituzione de'
figliuoli: ed era imputato molto il gran cancelliere, ritornato
molto prima in Ispagna, di avere turbato con punti e con sofistiche
interpretazioni. Finalmente gli oratori franzesi e inghilesi
deliberorono, secondo le commissioni che avevano in caso della
disperazione della concordia, di dimandare a Cesare licenza di
partirsi, e poi subito fare intimare la guerra. Con la quale
conclusione presentatisi, il vigesimo primo dí di gennaio,
seguitandogli gli oratori de' viniziani del duca di Milano e de'
fiorentini, innanzi a Cesare, residente allora con la corte a
Burgus, gli oratori inghilesi gli dimandorono i quattrocento
cinquantamila ducati prestatigli dal loro re, seicentomila per la
pena nella quale era incorso per il ripudio della figliuola e
cinquecentomila per le pensioni del re di Francia e per altre
cagioni: le quali cose proposte per maggiore giustificazione, tutti
gli oratori de' collegati gli dimandorono licenza di partirsi. A'
quali rispose che consulterebbe la risposta che avesse a fare, ma
essere necessario che, anche innanzi alla partita loro, gli oratori
suoi fussino in luogo sicuro. E partiti da lui gli imbasciadori,
entrorono subito gli araldi del re di Francia e del re di
Inghilterra a intimargli la guerra: la quale avendo accettata con
lieto animo, ordinò che gli imbasciadori del re di Francia de'
viniziani e de' fiorentini fussino condotti a una villa lontana
trenta miglia dalla corte, dove fu posta loro guardia di arcieri e
alabardieri, proibito ogni commercio e la facoltà dello scrivere; a
quello del duca di Milano, come a suo suddito, fece fare
comandamento che non partisse dalla corte; a l'inghilese non fu
fatta innovazione alcuna. E cosí, rotta ogni pratica della pace,
restorono accesi solamente i pensieri della guerra, condotta e
stabilita tutta in Italia.
Lib.18, cap.16
Il Lautrech muove con l'esercito da Bologna per il regno di Napoli.
Ragioni di diffidenza fra il pontefice e i collegati. Il Lautrech
sul Tronto; accordi fra il re di Francia e quello d'Inghilterra
restio a portare la guerra in Fiandra. Sfida dei re di Francia e
d'Inghilterra a Cesare. Desiderio del re d'Inghilterra che sia
annullato il matrimonio suo con Caterina d'Aragona e sue richieste
al pontefice. Atteggiamento del pontefice.
Dove Lautrech, stimolato dal suo re ma molto piú dal re di
Inghilterra, poiché cominciò a indebolire la speranza della pace,
era il nono dí di gennaio partito da Bologna, indirizzandosi al
reame di Napoli per il cammino della Romagna e della Marca; cammino
eletto da lui, dopo molta consultazione, contro alla instanza del
pontefice, desideroso, con l'occasione della passata sua, di fare
rimettere in Siena Fabio Petrucci e il Monte de' nove: e contro alla
instanza ancora de' fiorentini, i quali, per fuggire i danni del
loro paese, e nondimeno perché quello esercito fusse piú pronto a
soccorrergli se gli imperiali, per fare diversione, si movessino per
assaltare la Toscana, approvavano il cammino della Marecchia. Ma
Lautrech elesse di entrare piú tosto per la via del Tronto nel regno
di Napoli, per essere cammino piú comodo a condurre l'artiglierie e
piú copioso di vettovaglie, e per non dare occasione agli inimici di
fare testa a Siena o in altro luogo; desiderando di entrare, innanzi
che avesse alcuno ostacolo, nel regno di Napoli.
Ma come fu mosso da Bologna, Giovanni da Sassatello restituí la
rocca di Imola al pontefice, la quale quando era prigione aveva
occupata; e accostandosi dipoi a Rimini, Sigismondo Malatesta
figliuolo di Pandolfo si convenne seco di restituire quella città al
pontefice, con patto che fusse obligato a lasciare godere alla madre
la dota, a dare seimila ducati alla sorella non maritata e a
consegnare, tra il padre e lui, ducati dumila di entrata; partisse
subito di Rimini Sigismondo, e vi restasse il padre insino a tanto
che il pontefice avesse ratificato, e in questo mezzo stesse la
rocca in mano di Guido Rangone suo cugino; il quale, condotto agli
stipendi del re di Francia, seguitava Lautrech alla guerra. Ma
differendo il pontefice a adempiere queste promesse, Sigismondo
occupò di nuovo la rocca, non senza querela grave del pontefice
contro a Guido Rangone, come se tacitamente l'avesse permesso, né
senza sospetto ancora che non vi avessino consentito Lautrech e i
viniziani, come desiderassino tenerlo in continue difficoltà: i
viniziani per causa di Ravenna, la quale avendo il pontefice, subito
che fu liberato di Castello, mandato l'arcivescovo sipontino a
dimandare a quel senato, aveva riportato risposta generale, con
rimettersi a quello che gli esporrebbe Gaspare Contareno eletto
oratore a lui; perché se bene avessino prima affermato che la
ritenevano per la sedia apostolica, nondimeno aveano totalmente
l'animo alieno dal restituirla, mossi dallo interesse publico e
dallo interesse privato; perché quella città era molto opportuna ad
ampliare lo imperio in Romagna, fertile da se stessa di frumenti, e
per la fertilità delle terre vicine dava opportunità grande a
condurne ciascuno anno in Vinegia, e perché molti viniziani avevano
in quel territorio ampie possessioni. Sospettava dell'animo di
Lautrech: perché avendo Lautrech, oltre a molte instanze fattegli
prima, mandato, da poi che era partito da Bologna, Valdemonte
capitano generale di tutti i fanti tedeschi e Longavilla, a
ricercarlo strettissimamente che si dichiarasse contro a Cesare,
potendo, massime per l'approssimarsi l'esercito, farlo sicuramente,
non aveva potuto ottenerlo, non lo denegando il pontefice
espressamente ma differendo e escusando; per la quale cagione aveva
offerto al re di Francia di consentirvi, ma con condizione che i
viniziani gli restituissino Ravenna: condizione quale sapeva non
dovere avere effetto, non essendo i viniziani per muoversi a questo
per le persuasioni del re, né comportando il tempo che egli, per
sodisfare al pontefice, se gli provocasse inimici. Aggiugnevasi che
anche non udiva la instanza di Lautrech fatta perché ratificasse la
concordia fatta col duca di Ferrara, allegando essere cosa molto
indegna lo approvare, quando era vivo, le convenzioni fatte in nome
suo mentre che era morto; ma che non recuserebbe di convenire con
lui: donde il duca di Ferrara, pigliando questa occasione, faceva
difficoltà, benché ricevuto nella protezione del re di Francia e de'
viniziani, mandare a Lautrech i cento uomini d'arme e di pagargli i
danari promessi; come quello che, dubitando dell'esito delle cose,
si sforzava di non aderire tanto al re di Francia che non gli
restasse luogo di placare in qualunque evento l'animo di Cesare,
appresso al quale si era escusato della sua necessità; e
intratteneva continuamente a Ferrara Giorgio Fronspergh e Andrea de
Burgo.
Procedeva nondimeno innanzi Lautrech con l'esercito, col quale
arrivò il decimo dí di febbraio in sul fiume del Tronto, confine tra
lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli. Ma in Francia il re,
intesa la retenzione del suo imbasciadore, messe quello di Cesare
nel castelletto di Parigi, e ordinò che per tutta Francia fussino
ritenuti i mercatanti sudditi di Cesare. Il medesimo in quanto allo
oratore di Cesare fece il re di Inghilterra; benché, inteso dipoi il
suo non essere stato ritenuto, lo liberò. Ed essendo già bandita la
guerra in Francia in Inghilterra e in Spagna, instava il re in
Inghilterra che si rompesse comunemente la guerra in Fiandra; alla
quale egli per dare principio, aveva fatto correre e predare alcune
sue genti in sul paese della Fiandra: non si facendo per questo da
quegli di Fiandra movimento alcuno se non per difendersi; perché
madama Margherita, sforzandosi quanto poteva di estinguere le
occasioni di entrare in guerra col re di Francia, non permetteva che
gli uomini suoi uscissino del suo paese. Ma al re di Inghilterra era
anche molestissimo l'avere la guerra co' popoli di Fiandra: perché,
non ostante che acquistandosi certe terre promessegli prima da
Cesare, per sicurtà de' danari prestati, avessino a essere
consegnate a lui, nondimeno e alle entrate sue e al suo regno era di
molto pregiudizio lo interrompere il commercio de' suoi mercatanti
in quella provincia; ma non potendo per le convenzioni fatte
apertamente recusarlo, differiva quanto poteva, allegando che,
secondo i capitoli di quella obligazione, gli era lecito tardare
quaranta dí dopo la intimazione fatta, per dare tempo a' mercatanti
di ritirarsi. La quale sua volontà e la cagione essendo conosciuta
dal re cristianissimo, dopo avere trattato insieme di assaltare, in
luogo della guerra di Fiandra, con armate marittime le marine della
Spagna, affermando il re di Francia avere intelligenza in quelle
parti. Le quali cose partorirono finalmente che il re d'Inghilterra,
avendo mandato in Francia il vescovo batoniense per persuadere a
lasciare le imprese di là da' monti e a crescere le forze e la
guerra d'Italia, per consigli e conforti suoi si [convenne] che, per
tempo di otto mesi prossimi, si levassino le offese tra il re di
Francia il re di Inghilterra e il paese di Fiandra, con gli altri
stati circostanti sottoposti a Cesare: alla quale [tregua] perché il
re di Francia condiscendesse piú facilmente si obligò il re di
Inghilterra a pagare, ogni mese, trentamila ducati per la guerra di
Italia, per la quale era finita la contribuzione promessa prima per
sei mesi.
Ma cosí come continuamente si accrescevano le preparazioni alla
guerra si accendevano molto piú gli odii tra i príncipi, pigliando
qualunque occasione di ingiuriarsi e di contendere, non meno con
l'animo e con la emulazione che con l'armi. Perché avendo Cesare,
circa due anni innanzi, in Granata, in tempo che similmente si
trattava la pace tra il re di Francia e lui, detto al presidente di
Granopoli oratore del re di Francia certe parole le quali inferivano
che, volentieri, acciò che delle differenze loro non avessino a
patire piú i popoli cristiani e tante persone innocenti, le
diffinirebbe seco con battaglia singolare, e dipoi replicate
all'araldo, quando ultimatamente gli aveva intimata la guerra, le
parole medesime, aggiugnendogli di piú, il suo re essersi portato
bruttamente a mancargli della fede data, il re di Francia, avendo
intese queste parole, e parendogli di non potere senza sua ignominia
passarle con silenzio, ancora che la richiesta di Cesare fusse
richiesta forse piú degna tra cavalieri che tra tali príncipi,
convocati il vigesimo settimo dí di marzo in una grandissima sala
del palazzo suo (credo di Parigi) tutti i príncipi tutti gli
imbasciadori e tutta la corte, nella quale presentatosi dipoi lui
con grandissima pompa di vestimenti ricchissimi e di molto ornata
compagnia, e postosi a sedere nella sedia regale, fece chiamare
l'oratore di Cesare il quale, perché si era determinato che,
condotto a Baiona, fusse liberato nel tempo medesimo che fussino
liberati gli imbasciadori de' confederati, i quali per questo si
conducevano a Baiona, dimandava di espedirsi da lui. Parlò il re
scusandosi che principalmente Cesare, per avere con esempio nuovo e
inumano ritenuto gli imbasciadori suoi e de' suoi collegati, era
stato causa che anche egli fusse ritenuto; ma che dovendo ora andare
a Baiona, perché in uno tempo medesimo si facesse la liberazione di
tutti, desiderava portasse a Cesare una sua lettera ed esponesse una
ambasciata di questo tenore: che avendo Cesare detto allo araldo che
egli aveva mancato alla sua fede, aveva detto cosa falsa, e che
tante volte mentiva quante volte lo replicava; e che in luogo di
risposta, per non tardare la diffinizione delle loro differenze, gli
mandasse il campo dove avessino tutti due insieme a combattere. E
ricusando lo imbasciadore di portare e la lettera e la imbasciata,
soggiunse che gli manderebbe, a fare intendere il medesimo,
l'araldo; e che sapendo anche che aveva detto parole contro
all'onore del re di Inghilterra suo fratello, non parlava di questo
perché sapeva quel re essere bastante a difenderlo, ma che, se per
indisposizione del corpo fusse impedito, che offeriva di mettere al
cimento la sua persona per lui. La medesima disfida fece, pochi dí
poi, con le medesime solennità e cerimonie, il re d'Inghilterra: non
passando però con molto onore de' primi príncipi della cristianità
che, avendo insieme guerra tanto importante e di tanto pregiudizio a
tutta la cristianità, implicassino anche l'animo in simili pensieri.
E nondimeno, in tanto ardore di guerra e d'armi, non si divertiva il
re di Inghilterra dalle cure amatorie: le quali, cominciando a
empiere il petto suo di furore, partorirono in ultimo crudeltà e
sceleratezze orrende e inaudite; con infamia grandissima e eterna
del nome suo, che acquistato da Leone il titolo di difensore della
fede per dimostrarsi osservantissimo della sedia apostolica, e per
avere fatto scrivere in nome suo uno libro contro alla empietà e
velenosa eresia di Martino Luter, acquistò titolo e nome di empio
oppugnatore e persecutore della cristiana religione. Aveva per
moglie il re d'Inghilterra Caterina figliuola già di Ferdinando e di
Elisabella, re di Spagna, regina certamente degna di tali genitori,
e che per le virtú e prudenza sua era in sommo amore e venerazione
appresso a tutto quel regno: la quale, vivente Enrico padre suo, era
stata prima maritata ad Artú figliuolo suo primogenito; col quale
poi che ebbe dormito, restata vedova per la immatura morte del
marito, fu di comune consentimento del padre e del suocero maritata
a Enrico minore fratello, precedente, per l'impedimento della
affinità tanto stretta, la dispensazione di Giulio pontefice. Del
quale matrimonio essendone nato uno figliuolo maschio, che con
immatura morte fu tolto loro, non ne nacque altri figliuoli che una
figliuola femmina: susurrando già, massime alcuni per la corte, che,
per essere il matrimonio illecito e non dispensabile in primo grado,
erano miracolosamente privati di figliuoli maschi. Da che, e dal
desiderio che sapeva avere il re di figliuoli, presa occasione il
cardinale eboracense, cominciò a persuadere al re che, ripudiata la
prima moglie che giustamente non era moglie, contraesse un altro
matrimonio: movendolo a questo non la coscienza, né la cupidità per
se stessa che il re avesse successori maschi, ma il persuadersi di
potere indurre il re a pigliare Renea figliuola del re Luigi; il che
desiderava estremamente, perché, conoscendo essere esoso a tutto il
regno, desiderava di prepararsi a tutto quello che potesse succedere
e in vita e dopo la morte del re; e inducendolo anche l'odio grande
che aveva conceputo contro a Cesare, perché né con dimostrazioni né
con fatti sodisfaceva alla maravigliosa sua superbia: né dubitava,
per l'autorità grande che avevano il re ed egli nel pontefice, di
non ottenere da lui la facoltà di fare giuridicamente il divorzio.
Prestò gli orecchi il re a questo consiglio, non indotto a quel fine
che disegnava Eboracense ma mosso, come molti dissono, non tanto dal
desiderio di avere figliuoli quanto perché era innamorato di una
donzella della regina, nata di basso luogo, la quale inchinò l'animo
a pigliare per moglie; non essendo né a Eboracense né ad altri noto
questo suo disegno, il quale quando cominciò o a scoprirsi o a
congetturarsi non ebbe facoltà Eboracense di dissuadergli il fare
divorzio, perché non arebbe avuto autorità a consigliargli il
contrario di quello che prima gli aveva persuaso: e già il re,
avendo dimandato parere da teologi da giureconsulti e da religiosi,
aveva avuto risposta da molti che il matrimonio non era valido, o
perché cosí credessino o per gratificare, come è costume degli
uomini, al principe. Però, come il pontefice fu liberato di
prigione, gli destinò imbasciadori per confortarlo a entrare nella
lega, per operarsi, secondo che da lui fusse ordinato loro, per la
restituzione di Ravenna, ma principalmente per ottenere la facoltà
di fare il divorzio: che non si cercava per via di dispensa, ma per
via di dichiarazione che il matrimonio con Caterina fusse nullo. E
si persuase il re che il pontefice, per trovarsi debole di forze e
di riputazione né appoggiato alla potenza di altri príncipi, e mosso
ancora dal benefizio fresco de' favori grandi avuti da lui per la
sua liberazione, avesse facilmente a consentirgli; sapendo massime
che il cardinale, per avere favorito sempre le cose sue e prima
quelle di Lione, poteva molto in lui: e acciò che il pontefice non
potesse allegare scusa di timore per la offesa che ne risultava a
Cesare, figliuolo d'una sorella di Caterina, e per allettarlo con
questo dono, offerse pagargli per sua sicurtà una guardia di
quattromila fanti. Udí il pontefice questa proposta; ma ancora che
considerasse la importanza della cosa e la infamia grande che gliene
potesse risultare, nondimeno trovandosi a Orvieto, e neutrale ancora
tra Cesare e il re di Francia e in poca confidenza con ciascuno di
loro, e però stimando assai il conservarsi l'amicizia del re
d'Inghilterra, non ebbe ardire di contradire a questa dimanda; anzi,
dimostrandosi desideroso di compiacere al re ma allungando, col
difficultare i modi che si proponeva, accese la speranza e la
importunità del re e de' suoi ministri, la quale, origine di molti
mali, continuamente augumentava.
Ma quando il pontefice ebbe udito Valdemonte e Longavilla, il quale
gli era stato mandato dal re [di Francia], risposto a loro parole
generali, mandò al re insieme con Longavilla il vescovo di Pistoia,
per farlo capace che, per l'essere senza danari senza forze e senza
autorità, la dichiarazione sua non sarebbe di frutto alcuno a'
collegati; potergli solamente giovare nel trattare la pace, e che
però aveva commissione di andare a Cesare per esortarnelo con parole
rigorose: il che il re, benché non restasse male sodisfatto della
neutralità del pontefice, nondimeno, dubitando non lo mandasse per
trattare altro, non consentí. Né Cesare anche si lamentava del
pontefice se stava neutrale.
Lib.18, cap.17
Difficoltà delle armate alleate; cause di malcontento del Doria e
dei genovesi verso il re di Francia. Progressi delle milizie di
terra; deficienza di danari; occupazione dell'Abruzzi. Partenza
delle milizie imperiali da Roma; condizioni della città. L'esercito
dei collegati in Puglia. Azioni di guerra; presa di Melfi. Il papa a
Viterbo; occupazione dei castelli già appartenenti a Vespasiano
Colonna.
Ma nel tempo che Lautrech andava innanzi, e che era destinato che
l'armate facessino il medesimo, si opponevano a questo molte
difficoltà. Perché le dodici galee viniziane che prima si erano
ridotte a Livorno, avendo patito molto nella impresa di Sardigna, e
per i travagli del mare e per la carestia delle vettovaglie,
partirono il decimo dí di febbraio da Livorno per andare a Corfú a
rifornirsi: benché i viniziani promettevano mandarne in luogo loro
dodici altre, per unirsi con l'armata franzese. La quale anche aveva
delle difficoltà, per quello che aveva patito e per le differenze
nate tra Andrea Doria e Renzo da Ceri; per le quali, benché Renzo si
fusse fermato in Pisa ammalato, si trattava che il Doria, il quale
con tutte le galee aveva toccato a Livorno, andasse con le sue galee
a Napoli, Renzo con l'altre franzesi, con quattro di fra Bernardino
e con le quattro de' viniziani, che tutte erano insieme, assaltasse
la Sicilia: ma il Doria, con le otto sue galee e otto altre
dell'armata del re di Francia, si ritirò a Genova, allegando essere
necessario e alle galee e a lui concedere riposo; o perché questa
fusse veramente la cagione, o perché gli interessi delle cose di
Genova gli inclinassino già l'animo a nuovi pensieri. Con ciò sia
che, avendosi a Genova dimandato al re che concedesse loro che si
governassino liberamente da se stessi, offerendogli per il dono
della libertà dugentomila ducati, e avendolo il re recusato, si
credeva che al Doria, autore o almeno confortatore che facessino
queste dimande, non fusse grato che il re acquistasse la Sicilia se
la libertà non si concedeva a' genovesi. E pullulava anche un'altra
causa importante di controversia: perché, avendo il re smembrato la
città di Savona da' genovesi, si dubitava che, voltandosi infra non
molto tempo, per il favore del re e per la opportunità del sito, a
Savona la maggiore parte del commercio delle mercatanzie, e quivi
facendo scala l'armate regie, quivi fabricandosi i legni per lui,
Genova non si spogliasse di frequenza d'abitatori e di ricchezze:
però il Doria si affaticava molto col re che Savona fusse rimessa
nella antica subiezione de' genovesi.
Ma con maggiore felicità che le espedizioni marittime procedevano le
cose di Lautrech: il quale, come fu arrivato ad Ascoli, inviò Pietro
Navarra co' suoi fanti alla volta dell'Aquila; essendosi già, alla
fama della sua venuta, arrenduti Teramo e Giulianuova. Seguitavalo,
per la via della Lionessa, il marchese di Saluzzo con le sue genti;
e piú addietro cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti
delle bande nere de' fiorentini, con Orazio Baglione. Avevono anche
i viniziani promesso mandargli, senza la persona del duca d'Urbino,
quattrocento cavalli leggieri e quattromila fanti, delle genti le
quali avevano in terra di Roma; e, in supplemento delle altre con le
quali erano obligati di aiutare la guerra del regno di Napoli, si
erano convenuti di pagargli ciascuno mese ventitremila ducati; e
affermavano che, con l'armata disegnata per la impresa della
Sicilia, arebbono in mare trentasei legni; e nondimeno apparendo
manifestamente che erano stracchi, procedevano molto lentamente allo
spendere. Come similmente era il re di Francia; perché a Lautrech,
in questo tempo, vennono avvisi che l'assegnamento fattogli dal re,
quando partí di Francia, di cento trentamila scudi il mese per le
spese della guerra, e del quale aveva ancora a riscuoterne circa
dugentomila, era stato ridotto, né per piú che per tre mesi futuri,
solamente a ragione di sessantamila scudi il mese: di che era in
grandissima disperazione, lamentandosi che il re non si commovesse
né dalla ragione né dalla fede né dalla memoria ed esempio del danno
proprio; perché diceva che l'avere voltato il re i denari e le forze
che avevano a servire a lui, per la difesa del ducato di Milano,
alla impresa di Fonterabia, era stato cagione di fargli perdere
quello stato. Succedette la cosa dell'Aquila felicemente: perché,
come Pietro Navarra, il quale Lautrech vi aveva mandato insino da
Fermo, vi si accostò, il principe di Melfi se ne partí, e vi entrò
in nome del re di Francia il vescovo della città, figliuolo del
conte di Montorio. Occuporono per accordo e i fanti tedeschi de'
viniziani Civitella, piccola terra ma forte, posta di là dal Tronto
sette miglia; prevenuti dugento archibusieri spagnuoli i quali
camminavano per entrarvi dentro. Seguitò l'esempio della Aquila
tutto lo Abruzzi; e arebbe fatto il simigliante, in brevissimo
tempo, tutto il reame di Napoli se l'esercito imperiale non fusse
uscito di Roma.
Il quale, dopo molte difficoltà e molti tumulti, nati perché i
soldati dimandavano di essere pagati del tempo corso dopo la
liberazione del pontefice, uscí di Roma il decimosettimo dí di
febbraio; dí di grandissimo respiramento alle miserie tanto lunghe
del popolo romano se, subito dopo la partita loro, non vi fussino
entrati l'abate di Farfa e altri Orsini co' villani delle terre
loro, i quali vi feciono per molti dí gravissimi danni. Restò Roma
spogliata, dall'esercito, non solo di una parte grande degli
abitatori, con tante case desolate e distrutte, ma eziandio
spogliata di statue di colonne di pietre singolari e di molti
ornamenti della antichità; e nondimeno, non volendo partire i
tedeschi senza i danari di due paghe, perché gli spagnuoli
consentirono di uscirne senza altro pagamento, fu necessitato il
pontefice, desideroso che Roma restasse vacua, pagare prima
ventimila ducati, i quali pagò sotto colore di liberare i due
cardinali statichi, e poi ventimila altri ne riceverono sotto nome
del popolo romano; dubitandosi che anche questi non fussino pagati
dal pontefice, ma sotto questo nome per dare minore causa di
querelarsi a Lautrech: il quale nondimeno si querelò gravissimamente
che, co' danari suoi, fusse stato cagione della partita da Roma
dell'esercito, per la quale la vittoria manifestissima si riduceva
agli eventi dubbi della guerra. Uscirono, secondo che è fama, di
Roma mille cinquecento cavalli quattromila fanti spagnuoli dumila in
tremila fanti italiani e cinquemila fanti tedeschi, tanti di questi
aveva diminuiti la pestilenza.
La partita dell'esercito imperiale da Roma costrinse Lautrech, il
quale altrimenti sarebbe andato per il cammino piú diritto verso
Napoli, a pigliare il cammino piú lungo di Puglia a canto alla
marina, per la difficoltà di condurre l'artiglierie, se avesse avuto
in quegli luoghi l'opposizione degli inimici, per la montagna; e
molto piú per fare provisione di vettovaglie, acciò che non gli
mancassino se fusse necessitato fermare il corso della vittoria alle
mura di Napoli. Però venne a Civita di Chieta, capo dello Abruzzi
citra (perché il fiume di Pescara divide lo Abruzzi citra dallo
Abruzzi ultra), dove se gli erano date Sermona e molte altre terre
del paese, e con tanta inclinazione, o per l'affezione al nome de'
franzesi o per l'odio a quello degli spagnuoli, che quasi tutte le
terre anticipavano a darsi venticinque o trenta miglia innanzi alla
giunta dello esercito. Procedeva nondimeno piú lentamente di quello
arebbe potuto, per andare innanzi con maggiore stabilità e
sicurezza; e si credeva che, per assicurarsi di riscuotere per tutto
marzo l'entrata della dogana di Puglia, entrata di ottantamila
ducati la quale consisteva in cinque terre, v'avesse a mandare
Pietro Navarra co' suoi fanti, per la stranezza del quale, essendo
Lautrech necessitato a comportarla, non era nello esercito molto
ordine. Ma essendo partito dal Guasto, e inteso che una parte
dell'esercito inimico, col quale si era unito il principe di Melfi
con mille fanti tedeschi, di quegli che aveva menati di Spagna don
Carlo viceré, e con dumila fanti italiani usciti della Aquila, era
venuta a Nocera, lontana quaranta miglia da Termini verso la marina,
e un'altra a Campobasso, lontana trenta miglia da Termini in sul
cammino proprio di Napoli, mandato innanzi Pietro Navarra co' suoi
fanti, egli l'ultimo dí di febbraio andò alla Serra, lontana
diciotto miglia da Termini, donde il quarto dí di marzo arrivò a San
Severo. Ma Pietro Navarra, procedendo innanzi, entrò l'uno dí in
Nocera e l'altro dí in Foggia, entrando per una porta quando gli
spagnuoli, che si erano ritirati a Troia, Barletta e Manfredonia,
volevano entrarvi per l'altra: che giovò assai per le vettovaglie
dell'esercito. Erano con Lautrech in tutto quattrocento lancie e
dodicimila fanti, né di gente molto eletta; ma dovevansi unire seco
il marchese di Saluzzo, il quale camminava innanzi a tutti, le genti
de' viniziani e le bande nere de' fiorentini, desiderate molto da
Lautrech perché, avendo fama di essere fanteria destra e ardita agli
assalti quanto fanteria che allora fusse in Italia, facevano come
uno condimento [al suo esercito], nel quale erano genti ferme e
stabili a combattere. Ma inteso, per relazione di Pietro Navarra
mandato da lui a speculare il sito, che in Troia e all'intorno erano
cinquemila alamanni cinquemila spagnuoli e tremila cinquecento
italiani, e tra Manfredonia e Barletta mille cinquecento italiani,
né potendosi per i freddi grandissimi stare in campagna, Lautrech,
agli otto dí di marzo, andò a Nocera con tutti i fanti e cavalli
leggieri, e il marchese di Saluzzo nuovamente arrivato messe con le
genti d'arme e con mille fanti in Foggia; affermando di volere fare,
se la occasione si presentava, la giornata, e per altre ragioni e
perché, essendogli stati diminuiti dal re gli assegnamenti, non
poteva sostentare molto tempo le spese della guerra: e in San Severo
lasciò gl'imbasciadori e le genti non atte alla guerra, con poca
guardia. Cosí gli pareva stare sicuro né essere necessitato a fare
giornata se non con vantaggio. Né gli mancavano vettovaglie, benché
si pativa di macinato. Uscí dipoi, a dodici dí di marzo, in
campagna, tre miglia di là da Nocera e cinque miglia presso a Troia,
perché Nocera e Barletta distanti intra sé dodici miglia distano non
piú che otto miglia da Troia; e gli imperiali, i quali avevano
raccolte quasi tutte le genti che erano in Manfredonia e in
Barletta, ma non pagate eccetto i fanti tedeschi, e che in Troia
aveano copia di vettovaglie, uscirono a scaramucciare: dipoi il dí
seguente si messeno in campagna, senza artiglieria, in uno
alloggiamento forte in su il colle di Troia. Lautrech, a quattordici
dí, girò quello colle dalla banda di sopra che risguarda mezzodí
verso la montagna, e voltando il viso a Troia cominciò a salire, e
guadagnato il poggio con grossa scaramuccia fece uno alloggiamento
cavaliere a loro, e gli costrinse a colpi di artiglierie a
ritirarsi, guadagnando per sé lo alloggiamento loro, parte in Troia
parte a ridosso: in modo che Troia e lo esercito imperiale restorono
tra l'esercito franzese e San Severo, il che difficultava i soccorsi
che e' potessino avere da Napoli, e anche in grande parte impediva
le vettovaglie che potessino condursi a loro; benché, per essere
scarichi di bagaglie e di gente inutile, non consumassino molto. E
da altra parte erano impedite da essi le vettovaglie che andavano da
San Severo al campo franzese; e anche tenevano in pericolo San
Severo, il quale potevano assaltare con una parte delle loro genti
senza che i franzesi se ne accorgessino.
Cosí stando alloggiati gli eserciti, i franzesi di là da Troia di
verso la montagna, gl'imperiali dalla banda di qua verso Nocera a
ridosso della terra, in su la spiaggia molto fortificata, ed essendo
la piú parte de' luoghi circostanti in mano de' franzesi, dimororono
cosí insino a' diciannove dí, dandosi tutta notte all'arme e ogni dí
facendo scaramuccie, in una delle quali fu preso Marzio Colonna; e
interrompendo spesso le vettovaglie che andavano da San Severo e da
Foggia allo esercito franzese (che per questo ebbe qualche stretta),
né si potevano condurre senza grossa scorta. Nel quale tempo
(secondo scrive il Borgia), il marchese del Guasto consigliò che si
facesse la giornata, perché l'esercito franzese cresceva ogni giorno
e il loro diminuiva; ma ebbe piú autorità il consiglio di Alarcone,
che mostrava essere piú speranza nella vittoria nel stare alla
difesa, consumando tempo, che nel rimettersi allo arbitrio della
fortuna. A' diciannove dí, gli imperiali, per essere danneggiati
dall'artiglieria inimica, si ritirorono in Troia; ma riparato poi il
loro alloggiamento dalla artiglieria, al tempo buono vi ritornavano,
al sinistro si ritornavano in Troia. Ma a' ventuno, in su il fare
del dí, si levorono, e andorono verso la montagna ad Ariano con non
piccola giornata, ed essendosi, contro a quello che prima credevano
i franzesi, trovate in Troia vettovaglie assai, da che, per avere
serrato i passi da condurle, s'erano promessi vanamente la vittoria,
si interpretavano fussino levati o per volergli tirare in luogo dove
patissino di vettovaglie o per avere inteso che il dí seguente si
aspettavano nel campo franzese le bande nere: le quali, nel venire
innanzi, essendo alloggiate per transito nell'Aquila, aveano, senza
essere stati o ingiuriati o provocati ma meramente per cupidità di
rubare, saccheggiata sceleratamente quella città. A' ventidue,
Lautrech alloggiò alla Lionessa in su il fiume dello Ofanto, detto
da' latini Aufido, lontano sei miglia da Ascoli, mandate le bande
nere, e Pietro Navarra co' fanti suoi e con due cannoni, alla
oppugnazione di Melfi; dove, avendo fatto piccola rottura, i
guasconi s'appresentorono alle mura, e le bande nere con maggiore
impeto, contro all'ordine de' capitani, feciono il medesimo: e
facendo l'una nazione a gara con l'altra, battendogli gli archibusi
de' fianchi, furono ributtati, con morte di molti guasconi e di
circa sessanta delle bande nere. Ed ebbeno la sera medesima un altra
battitura quasi eguale, essendo tornati al tardi, poiché era stata
continuata la batteria, a dare un altro assalto. Ma la notte venneno
in campo nuove artiglierie da Lautrech, con le quali avendo la
mattina seguente fatte due batterie grandi, i villani, che ne erano
dentro molti, cominciorono per paura a tumultuare. Per timore del
quale tumulto occupati i soldati, che erano circa seicento,
abbandonorono la difesa; donde quegli del campo entrati dentro
ammazzorono tutti i villani e gli uomini della terra. Ritiroronsi i
soldati nel castello, col principe; e poco poi si arrenderono,
secondo disseno quegli del campo, a discrezione, benché essi
pretendessino esserne eccettuata la vita. Fu salvato il principe con
pochi de' suoi, gli altri tutti ammazzati, saccheggiata la terra e
morti in tutto tremila uomini. Nella quale si trovò vettovaglie
assai, con grandissimo comodo de' franzesi che avevano, per le loro
male provisioni, somma necessità in Puglia di quello di che vi è
somma abbondanza. A' ventiquattro, gli spagnuoli partirono da Ariano
e si fermorono alla Tripalda, lontana venticinque miglia da Napoli
in su il cammino diritto, e quaranta miglia da l'Ofanto: co' quali
si uní il viceré il principe di Salerno e Fabbrizio Maramaus, con
tremila fanti e con dodici pezzi di artiglieria; e si diceva che
Alarcone usciva di Napoli con dumila fanti, per soccorrere la
dogana. Soprastava nondimeno Lautrech in su l'Ofanto, per fare prima
grossa provisione di vettovaglie; e tutta la gente sua era
alloggiata tra Ascoli e Melfi: e dopo il caso di Melfi se gli erano
date Barletta, Trani e tutte le terre circostanti, eccetto
Manfredonia, dove erano mille fanti: donde mandato Pietro Navarra
con quattromila fanti a combattere la rocca di Venosa, guardata da
dugento cinquanta fanti spagnuoli che la difendevano gagliardamente,
l'ottenne a discrezione; e ritenuti prigioni i capitani, licenziò
gli altri senza armi. E aveva dato ordine tale che per lui si
riscoteva l'entrata della dogana di Puglia, ma per gli impedimenti
che dà la guerra non ascendeva alla metà di quello che era consueto
riscuotersi. In questo alloggiamento arrivò il proveditore Pisani
con le genti de' viniziani, che furno in tutto circa dumila fanti
(ma non so se i lanzi loro, che erano circa mille, si computino in
questo numero o se pure erano prima con Lautrech, come credo). Cosí
attendeva ad assicurarsi delle vettovaglie: di che ebbe piú facilità
poi che, per opera delle genti viniziane, ebbe Ascoli in suo potere.
Nel quale tempo, preso animo dalla prosperità de' successi,
strigneva con parole alte il papa a dichiararsi. Il quale, se bene
prima i viterbesi, per opera di Ottaviano degli Spiriti, non avevano
voluto ricevere il suo governatore, nondimeno, avendo poi per timore
ceduto, aveva trasferita la corte a Viterbo. Ed essendo nel tempo
medesimo morto Vespasiano Colonna, e disposto nella sua ultima
volontà che Isabella, sua unica figliuola, si maritasse a Ippolito
de' Medici, il pontefice occupò tutte le castella che possedeva in
terra di Roma: benché Ascanio pretendesse che, mancata la linea
mascolina di Prospero Colonna, appartenessino a lui.
Lib.18, cap.18
Resa di Monopoli ai veneziani. Il duca di Ferrara invia il figliuolo
in Francia per la perfezione del matrimonio. Raccolta di nuove
milizie imperiali da inviarsi in Italia; provvedimenti dei collegati
per far fronte ad esse. Miserrime condizioni e sofferenze dei
milanesi; defezione del castellano di Mus. Il Lautrech nella
Campania; la flotta dei Doria davanti al porto di Napoli; l'esercito
dei collegati sotto le mura della città.
Erasi in questo tempo Monopoli arrenduto a' viniziani, per i quali,
secondo l'ultime convenzioni fatte col re di Francia, si
acquistavano tutti quegli porti del regno di Napoli i quali
possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal re Luigi nella
Ghiaradadda.
Indussono queste prosperità de' franzesi il duca di Ferrara a
mandare il figliuolo in Francia, per la perfezione del matrimonio:
il che prima, ricusando eziandio di essere capitano della lega,
aveva industriosamente differito.
Ma Cesare, non provedendo con le genti di Spagna a tanti pericoli
del regno napoletano, perché da quella parte mandò solamente
seicento fanti non molto utili in Sicilia, aveva ordinato che di
Germania passassino in Italia, per soccorso di quel reame, sotto il
duca di Brunsvich, nuovi fanti tedeschi; i quali si preparavano con
tanto maggiore sollecitudine quanto si intendeva essere maggiore,
per i progressi di Lautrech, la necessità del soccorso. Alla venuta
de' quali per opporsi, acciò che non perturbasse la speranza della
vittoria, fu, con consentimento comune del re di Francia del re di
Inghilterra e de' viniziani, destinato che in Italia passasse, per
seguitare i tedeschi se andavano nel reame di Napoli, se non per
fare la guerra con le genti de' viniziani e di Francesco Sforza
contro a Milano, Francesco monsignore di San Polo della famiglia di
Borbone, con quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri
cinquemila fanti franzesi dumila svizzeri e dumila tedeschi: alla
spesa del quale esercito, che si disegnava di sessantamila ducati il
mese, concorreva il re di Inghilterra con trentamila ducati ciascuno
mese. E i viniziani avevano fatto, nel consiglio de' pregati,
decreto di soldare diecimila fanti: aiuto molto incerto e molto
lento perché, secondo l'uso loro, non succedeva cosí presto il
soldare al deliberare. Tardava il muoversi, poi che erano soldati;
mossi che erano, restava la difficoltà, quasi inestricabile, del
passare i fiumi; e ultimamente, il volere mettersi al pericolo di
uscire alla campagna e lo impedire i passi de' monti, per
l'esperienze passate, era difficile, perché avevano infiniti modi e
vie da passare. Però il duca di Ferrara consigliava non si tentasse
neanche di combattergli in campagna, per essere gente animosa ed
efferata, ma che con uno esercito grosso gli andassino secondando,
per impedire loro le vettovaglie e l'unirsi con le genti che erano
in Milano.
Nella quale città, per l'acerbità di Antonio de Leva, era estremità
e suggezione miserabile; perché, per provedere a' pagamenti de'
soldati, aveva tirato in sé tutte le vettovaglie della città, delle
quali, fatti fondachi publichi e vendendole in nome suo, cavava i
denari per i pagamenti loro; essendo costretti tutti gli uomini, per
non morire di fame, di pagarle a' prezzi che paresse a lui: il che
non avendo la gente povera modo di poterlo fare, molti perivano
quasi per le strade. Né bastando anche questi denari a' soldati
tedeschi che erano alloggiati per le case, costrignevano i padroni
ogni dí a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano:
e perché, per fuggire queste acerbità e pesi intollerabili, molti
erano fuggiti e fuggivano continuamente della città, non ostante
l'asprezza de' comandamenti e la diligenza delle guardie, si
procedeva contro agli assenti alle confiscazioni de' beni; che erano
in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere, si
mettevano in stampa. Ed era stretta in modo la vettovaglia che
infiniti poveri morivano di fame, i nobili male vestiti e
poverissimi; e i luoghi già piú frequenti, pieni di ortiche e di
pruni. E nondimeno, a chi era autore di tante acerbità e di tanti
supplizi succedevano tutte le cose felicemente: perché essendo il
castellano di Mus accampatosi a Lecco come soldato della lega, con
seicento fanti, e tolte le navi, perché gli spagnuoli che erano in
Como non potessino soccorrerlo per la via del lago, Antonio de Leva,
chiamati i fanti di Novara, uscito di Milano, si fermò a quindici
miglia di Milano co' tedeschi; ed espugnata la rocca di Olgina che è
in ripa di Adda, stata presa prima da Mus, mandò Filippo Torniello
co' fanti italiani e spagnuoli a soccorrere Lecco, che è in su
l'altra ripa del lago; dove Mus, con aiuti fatti venire da'
viniziani e dal duca di Milano, e con artiglieria avuta da'
viniziani, aveva preso tutti i passi e fortificatogli, che per
l'asprezza de' luoghi e de' monti sono difficili. Ma gl'imperiali,
occupato allo opposito il monte imminente a Lecco, poi che ebbeno
fatto pruova invano di passare in piú luoghi, sforzorno finalmente
dove le genti de' viniziani guardavano; le quali Mus, o per
confidare manco nella virtú loro o per mettergli in manco pericolo,
aveva, posto ne' luoghi piú aspri. Però Mus, con l'artiglieria e co'
suoi salito in su le navi, salvò la gente; non stando senza sospetto
che i viniziani avessino fatto leggiera difesa per gratificare al
duca di Milano, al quale non piaceva che egli pigliasse Lecco: e
poco poi, per conseguire con la concordia quello che non aveva
potuto conseguire con l'armi, passato nelle parti imperiali, ebbe,
per virtú dell'accordo, Lecco e altri luoghi da Antonio de Leva,
ottenuto anche da Ieronimo Morone, che per lettere era stato autore
di questa pratica, la cessione delle sue ragioni. Dal quale accordo
ebbe Antonio de Leva, nella strettezza della fame, grandissima
comodità di vettovaglie e di danari; perché il castellano, il quale
aspirando a concetti piú alti assunse poi il titolo di marchese,
pagò trentamila ducati, e a Milano mandò tremila sacca di frumento.
Procedeva intanto Lautrech, e a' tre di aprile era a Rocca Manarda,
lasciati a guardia di Puglia cinquanta uomini d'arme dugento cavalli
leggieri mille cinquecento in dumila fanti, tutte genti de'
viniziani: dove non si teneva altro che Manfredonia in nome di
Cesare. Ma l'esercito imperiale, risoluto di attendere (abbandonato
tutto il paese circostante) [a difendere] Napoli e Gaeta, poi che,
per tôrre alimenti agli inimici, ebbe saccheggiato Nola e condotto a
Napoli le vettovaglie che erano in Capua, alloggiò in sul monte di
San Martino, donde di poi entrò in Napoli con diecimila fanti tra
tedeschi e spagnuoli, e licenziati tutti i fanti italiani, eccetto
secento i quali militavano sotto Fabrizio Maramaus, perché Sciarra
Colonna co' fanti suoi era andato nell'Abruzzi. Restorono in Napoli
pochissimi abitatori, perché tutti quegli che avevano o facoltà o
qualità si erano ritirati a Ischia a Capri e altre isole vicine:
dicevasi esservi frumento per poco piú di due mesi, ma di carne e di
strami piccola quantità. Arrenderonsi a Lautrech Capua, Nola,
l'Acerra, Aversa e tutte le terre circostanti. Il quale dimorò con
l'esercito quattro dí alla badia dell'Acerra distante sette miglia
da Napoli, essendo proceduto e procedendo lentamente per aspettare
le vettovaglie impedite da' cattivi cammini e dalle pioggie per le
quali era la campagna piena d'acqua; bisognandogli provederne
quantità grandissima perché era fama che nello esercito suo, secondo
la corruttela moderna della milizia, fussino piú di ventimila
cavalli e di ottantamila uomini, i due terzi gente inutile: e di
quivi mandò alla impresa della Calavria Simone Romano, con cento
cinquanta cavalli leggieri e cinquecento côrsi, non pagati, venuti
del campo imperiale. E già Filippino Doria, con otto galee di Andrea
Doria e due navi, venuto alla spiaggia di Napoli, aveva preso una
nave carica di grani, e fatto con l'artiglierie sdiloggiare
gl'imperiali dalla Maddalena; e benché poco di poi pigliasse due
altre navi cariche di grani, e fusse cagione di molte incomodità
agli inimici, nondimeno non bastavano le sue galee sole a tenere
totalmente assediato il porto di Napoli. Perciò Lautrech sollecitava
le sedici galee de' viniziani che venissino a unirsi con quelle; le
quali, dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfú, erano
venute nel porto di Trani: ma esse, benché già si fussino arrendute
loro le città di Trani e di Monopoli, preponendo i negozi propri
agli alieni, benché dalla vittoria di Napoli dependessino tutte le
cose, ritardavano, per pigliare prima Pulignano, Otranto e Brindisi.
A' diciassette, Lautrech a Caviano, cinque miglia presso a Napoli; e
il dí medesimo gl'imperiali che abbondavano di cavalli leggieri,
dimostrandosi maggiore la sollecitudine e la diligenza per la
negligenza de' franzesi, tolseno loro le vettovaglie, delle quali
pativano; e avevano fortificato Santo Erasmo, posto nella sommità
del monte di San Martino, per tôrlo a' franzesi, essendo cavaliere a
Napoli da poterlo danneggiare assai con l'artiglieria, e perché,
essendo padroni di quel monte, impedivano che quasi alla maggiore
parte della città non si potevano accostare i franzesi. A' quali
dette qualche speranza di discordia tra gli inimici l'avere il
marchese del Guasto, pure per cause private, ferito il conte di
Potenza e ammazzatogli il figliuolo. A' ventuno, a Casoria, a tre
miglia di Napoli in su la via di Aversa: nel quale dí si scaramucciò
sotto le mura di Napoli, e vi fu morto Migliau, quello che aveva
accerrimamente contradetto alla liberazione del pontefice; della
quale aveva esso medesimo portata la commissione di Cesare a'
capitani. A' ventidue, a uno miglio e mezzo di Napoli; dove Lautrech
proibí lo scaramucciare come inutile: e già se gli era arrenduto
Pozzuolo. Finalmente, il penultimo dí di aprile, pervenuto alla
città di Napoli, alloggiò l'esercito tra Poggio Reale, palazzo molto
magnifico, edificato da Alfonso secondo di Aragona, quando era duca
di Calavria, e il monte di San Martino; distendendosi le genti
insino a mezzo miglio di Napoli; la persona sua piú innanzi di
Poggioreale alla masseria del duca di Montealto: nel quale luogo si
era fortificato allargandosi verso la via di Capua: alloggiamento
fatto in sito molto forte, e dal quale si impediva a Napoli la
comodità degli aquedotti che si partono da Poggio Reale; donde
disegnava fare poi un altro alloggiamento piú innanzi, in sul colle
che è sotto il monte di Santo Ermo, per tôrre piú le comodità a
Napoli, e molestare di luogo piú propinquo la città. Delle quali
cose per intelligenza piú chiara, pare necessario descrivere il sito
della città di Napoli e del paese circostante.
Lib.19, cap.1
Il Lautrech decide non l'espugnazione ma l'assedio a Napoli.
Vittoria navale di Filippino Doria sugli imperiali. Condizioni degli
assediati; inopportuna ostinazione del Lautrech nel non ascoltare i
consigli altrui. Nuove azioni di guerra; progressi dei francesi in
Calabria. Difficoltà per un piú stretto assedio di Napoli.
Considerazioni dell'autore sull'ostinazione del Lautrech. Alcune
azioni di guerra sotto Napoli. Mutamento di fortuna per i francesi.
Vicende della guerra in Calabria ed in Puglia. Successi di Antonio
de Leva in Lombardia.
Alloggiato Lautrech con l'esercito appresso alle mura di Napoli, fu
la prima consultazione se era da tentare di sforzare con lo impeto
dell'artiglierie e con la virtú degli uomini quella città; come
molti, confortando che a questo effetto si augumentasse il numero
de' fanti, consigliavano. Allegavano questi molte difficoltà per le
quali non si poteva sperare di starvi intorno lungamente: la
difficoltà delle vettovaglie, perché gli inimici, copiosissimi di
cavalli leggieri e pronti a esercitargli, rompevano tutte le strade;
ed essere incerta la speranza che Napoli avesse ad arrendersi per la
fame, perché non essendo bastanti le galee del Doria a tenere
serrato il porto né venendo le galee de' viniziani, benché promesse
ciascuno giorno, erano entrate da Gaeta in Napoli, che pativa di
macinato, quattro galee cariche di farine, e ve ne entrava ciascuno
dí degli altri legni; vedersi fredde le provisioni de' viniziani, i
quali, per conto de' ventiduemila ducati che gli pagavano ciascuno
mese, erano già debitori di sessantamila ducati; essergli
somministrati parcamente i danari di Francia; ed empiersi già
l'esercito di infermità, le quali però non procedevano tanto dalla
gravezza ordinaria di quella aria, che suole cominciare a nuocere
alla fine della state, quanto perché i tempi erano andati molto
piovosi, alloggiando anche molti dello esercito in campagna.
Nondimeno Lautrech, considerando che in tanta moltitudine e virtú di
difensori, e per la fortificazione del monte il quale si poteva
soccorrere, l'espugnare o il monte o la città era cosa molto
difficile, né volendo forse spendere con piccolissima speranza i
danari, per timore che poi per sostentare le spese ordinarie non gli
mancassino, deliberò di attendere non alla espugnazione ma allo
assedio; sperando che innanzi passasse molto tempo avessino a
mancare agli inimici o le vettovaglie o [i] danari. Indirizzò
adunque e l'animo e tutte le provisioni all'assedio lento, intento a
impedire che per terra non vi entrassino vettovaglie, e a
sollecitare la venuta delle galee viniziane per privargli del tutto
delle vettovaglie marittime. Quivi, mutato consiglio, permesse si
facessino le scaramuccie, perché i soldati stando in ozio non
perdessino d'animo; e però se ne faceva spesso, e con grande laude
delle bande nere; le quali, eccellenti per la disciplina di Giovanni
de' Medici in questa specie di combattere, non avevano insino allora
dimostrato quel che in giornata ordinaria e in battaglia ferma e
stabile valessino in campagna. Arrivorno in questo tempo allo
esercito ottanta uomini d'arme del marchese di Mantova e cento del
duca di Ferrara; il quale duca benché fusse stato ricevuto in ampia
protezione del re di Francia e de' viniziani, nondimeno aveva
tardato quanto aveva potuto a fargli muovere, per regolare le sue
deliberazioni con quello che si potesse congetturare dello evento
futuro della guerra. In questo stato delle cose conceperono
gl'imperiali speranza di rompere Filippino Doria, che era con le
galee nel golfo di Salerno; non facendo tanto fondamento in su il
numero e in su la bontà de' legni loro quanto nella virtú de'
combattitori, perché empierono sei galee quattro fuste e due
brigantini di mille archibusieri spagnuoli, de' piú valorosi e de'
piú lodati dello esercito; co' quali vi entrorono don Ugo viceré e
quasi tutti i capitani e uomini d'autorità. A questa armata,
governata per consiglio del Gobbo, nelle cose marittime veterano e
famoso capitano, aggiunseno molte barche di pescatori, per
spaventare gli inimici da lontano col prospetto di maggiore numero
di legni; i quali, partiti tutti da Pausilipo, toccorono all'isola
di Capri; dove don Ugo, con grandissimo pregiudizio di questo
assalto, perdé tempo a udire uno romito spagnuolo, che concionando
accendeva gli animi loro a combattere come era degno della gloria
acquistata con tante vittorie da quella nazione. Di quivi, lasciato
a mano sinistra il Cavo della Minerva, entrati in alto mare,
mandorno innanzi due galee, con commissione che accostatesi agli
inimici simulassino poi di fuggire, per tirargli in alto mare a
combattere. Ma Filippino Doria, avendo il dí dinanzi per esploratori
fidati presentito il consiglio degli inimici, aveva, con grandissima
celerità, ricercato Lautrech che gli mandasse subito trecento
archibusieri; i quali, guidati da Croch, erano arrivati poco innanzi
che si scoprisse l'armata degli inimici. La quale come si scoperse
da lontano, Filippino, ancora che con grande animo avesse fatte
tutte le preparazioni necessarie per combattere, nondimeno commosso
dal numero grande de' legni che si scoprivano, stette molto sospeso;
ma in breve spazio di tempo lo liberò da questa dubitazione il
vedere, quando gli inimici si approssimavano, non vi essere altri
legni da gabbia che sei. Perciò, con animo forte e come capitano
peritissimo della guerra navale, fece allargare sotto specie di fuga
tre galee dalle altre sue, acciò che girando assaltassino col vento
prospero gli inimici per lato e da poppa, egli con cinque galee va
incontro agli inimici, i quali dovevano scaricare la loro
artiglieria per tôrre a lui col fumo la mira e la veduta. Ma
Filippino dette fuoco a uno grandissimo basalischio della sua galea,
il quale percotendo nella galea capitana, in sulla quale era don
Ugo, ammazzò al primo colpo quaranta uomini, tra' quali il maestro
della galea e molti uffiziali; e scaricate poi altre artiglierie ne
ammazzò e ferí molti. Da altro canto l'artiglierie scaricate dalla
galea di don Ugo ammazzorono nella galea di Filippino il maestro,
ferirono il padrone; ma i genovesi, esperimentati a queste
battaglie, schifavano meglio il pericolo, combattendo chinati e
cauti fra gli intervalli de' palvesi. Cosí, mentre combattono con
grandissima ferocia e spavento le due galee, tre altre galee degli
imperiali strignevano due genovesi, ed erano già molto superiori; ma
le tre prime genovesi, che simulando di fuggire erano andate in alto
mare, ritornate sopra gli inimici percosseno per lato la galea
capitana: delle quali la galea che era chiamata la Nettunna svelse
il suo albero, che gli fece grande danno. Quivi don Ugo, ferito nel
braccio e coperto, mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi
gittati dagli alberi delle galee inimiche, combattendo fu morto;
quivi la capitana di Filippino e la Mora spacciorno la capitana di
don Ugo, l'altre due con l'artiglierie affondorono la Gobba, dove
morí il Fieramosca; intratanto l'altre galee di Filippino avevano
ricuperato due delle loro oppressate dalle spagnuole, e prese le
loro fuste; due sole delle spagnuole, veduto la vittoria essere
degli inimici, male trattate, con fatica fuggirono. Nel quale tempo
il marchese del Guasto e Ascanio, affogata quasi e ardente la loro
galea, rotti i remi, morti quasi tutti ed essi feriti, furono fatti
prigioni, salvandogli dalla morte lo splendore dell'armi indorate.
Restorno presi venti condottieri, molti padroni delle galee. E giovò
assai a Filippino il liberare i forzati, la piú parte turchi e mori,
che combatterno eccellentemente. I prigioni furno mandati da
Filippino con tre galee al Doria; e una delle due galee, che si era
salvata, passò pochi dí poi da' franzesi, perché il padrone, che era
uno marchese Doria regnicola, fu imputato dagli spagnuoli di
mancamento nella battaglia. Ma scrisse l'oratore fiorentino a
Firenze, conformandosi nelle altre cose, che la battaglia durò da
ore ventidue insino a due ore di notte, e che gli imperiali oltre
alle sei galee avevano undici vele minori cariche di soldati; che da
principio furono prese due galee franzesi, con morte quasi di tutti;
ma che l'artiglieria, della quale i franzesi erano superiori, messe
in fondo due galee, due altre con alcune fuste furono prese, e morta
o ferita la piú parte delle ciurme e de' soldati; e che in una non
ne restorono non feriti piú che tre; l'altre due, dove era Curradino
co' tedeschi, molto danneggiate fuggirono a Napoli. Don Ugo fu morto
da due archibusate e gittato in mare, e cosí il Fieramosca.
Restorono prigioni il marchese del Guasto, Ascanio Colonna, il
principe di Salerno, Santa Croce, Cammillo Colonna, il Gobbo, Serone
e molti altri capitani e gentiluomini. Morirono piú di mille fanti,
e de' franzesi pochi che non restassino o morti o feriti.
Dette questa vittoria speranza grande a' franzesi del successo di
tutta la impresa, e forse maggiore che non sarebbe stato di bisogno,
perché fece in qualche parte Lautrech piú lento alle provisioni; ma
empié gli imperiali di molto terrore, dubitando del mancamento delle
vettovaglie, poi che restavano al tutto spogliati dello imperio del
mare, e per terra stretti da molte parti, massime dopo la perdita di
Pozzuolo, perché per quella strada si conduceva a Napoli copia
grande di vettovaglie: e già in Napoli era carestia grande di farina
e di carne e piccola quantità di vino: però, il dí seguente alla
rotta, cacciorono di Napoli numero grande di bocche inutili; e posto
ordine alla distribuzione delle vettovaglie, si sforzavano che i
fanti tedeschi patissino manco che gli altri soldati. Dalle quali
cose nutrendosi la speranza di Lautrech, si accrebbe molto piú per
uno brigantino intercetto, il settimo dí di maggio, con lettere de'
capitani a Cesare: per le quali significavano d'avere perduto il
fiore dell'esercito; non essere in Napoli grano per uno mese e
mezzo, ma fare le farine a forza di braccia; cominciare a fare
qualche tumulto i tedeschi, né vi essere danari da pagargli; né
avere piú le cose rimedio alcuno se non veniva presta provisione di
vettovaglie, di danari e di soccorso per mare e per terra:
aggiugnevasi l'essere cominciata in Napoli la peste, contagiosa
molto dove sono soldati tedeschi, perché non si astengono da
conversare con gli infetti né da maneggiare le cose loro. Pativa, da
altra parte, l'esercito di acque perché da Poggioreale alla fronte
dell'esercito non sono altro che cisterne, delle quali si serviva
l'esercito; augumentavanvisi le infermità; e gli inimici, essendo
molto superiori di cavalli leggieri, uscendo continuamente fuora,
massime per la via che va a Somma; non solo conducevano dentro copia
di carne e di vini ma spesso interrompevano le vettovaglie che
venivano all'esercito franzese, il quale per questa cagione qualche
volta ne pativa: né si facevano altre fazioni che scaramuccie.
Ricordavangli molti che conducesse cavalli leggieri per potersi
opporre a quegli degli inimici; il che recusava di fare, anzi
permetteva che la maggiore parte de' cavalli franzesi si stesse
distesa in Capua in Aversa e in Nola, il che agli inimici
augumentava la facoltà di fare gli effetti sopradetti. Altri
consigliavano che, essendo per le infermità diminuita la fanteria
dell'esercito, conducesse in supplemento di quello (come anche,
perché fusse piú potente, era stato desiderato insino da principio)
sette o ottomila fanti; e questo anche, avendo già cominciato a
denegarlo, recusava di fare, allegando mancargli danari; benché a
quel tempo n'avesse di Francia comoda provisione, avesse riscossa
l'entrata della dogana delle pecore di Puglia, riscotesse l'entrate
delle terre prese, e i signori del regno che gli erano appresso
fussino pronti a prestargli non piccola quantità di danari.
Scaramucciavasi ogni dí dalle bande nere, alloggiate nella fronte
dell'esercito; le quali, traportate da troppo animo, si accostavano
tanto alle mura di Napoli che da quelle erano offesi con gli
archibusi; e non avendo nel ritirarsi cavalli alle spalle, erano
ammazzati da' cavalli degli inimici: donde conoscendosi il
disavvantaggio grande di fare le scaramuccie senza cavalli sotto
alle mura di Napoli, cominciorono a non si fare cosí frequentemente.
Arrendessi a Lautrech dopo la vittoria, Castello a mare di Stabbia
ma non la fortezza; Gaeta si teneva per Cesare, nella quale era il
cardinale Colonna con novecento fanti italiani e con i secento fanti
che erano venuti di Spagna: benché il cardinale Colonna dimandasse a
Lautrech salvocondotto per andare a Roma, il quale non gli
concedette. Erasi similmente arrenduto San Germano; e avendo le
genti che erano in Gaeta recuperato Fondi e il paese circostante,
Lautrech vi mandò don Ferrando Gaietano, figliuolo del duca di
Traietto, e il principe di Melfi (nuovamente, per avere i capitani
imperiali tenuto poco conto di liberarlo, concordato co' franzesi);
i quali facilmente di nuovo l'occuporono. Faceva e in Calavria
Simone Romano progresso grande, per la prontezza de' popoli a
riconoscere il nome franzese: come arebbe anche fatto Napoli, se non
fusse stata la tardità di Lautrech; la quale almanco dette tempo a
mettervi le vettovaglie delle terre circostanti.
Ma non bastavano queste cose a ottenere la vittoria della guerra, la
quale dependeva totalmente o dallo acquisto o dalla difesa di
Napoli, se o non si espugnava quella città o non se gli impedivano
le vettovaglie con maggiore diligenza, per terra e per mare. Però,
intento principalmente allo assedio, né disperando anche in tutto di
potere prendere Napoli per forza, poiché erano morti tanti fanti
spagnuoli nella battaglia navale, sollecitava la venuta delle armate
franzese e viniziana, per privare del tutto quella città delle
vettovaglie marittime. Mosse anche la fronte dello esercito piú
innanzi, in su uno poggio piú vicino a Napoli e al monte di San
Martino, dove fu fatta dalle bande nere una trincea, non solo per
muovere da quel poggio una trincea la quale, distendendosi insino
alla marina e avendo nella estremità sua a canto al mare uno
bastione, chiudesse la strada di Somma, ma per tentare, come prima
fussino venute l'armate, di pigliare per forza il monte di Santo
Martino, fatta prima un'altra trincea tra la città e il monte di San
Martino, acciò che non potessino soccorrere l'uno all'altro; e poi
in uno tempo medesimo assaltare Napoli con l'armate dalla parte del
mare, e per terra, battendo dalla fronte dello alloggiamento di
dentro, e di fuora assaltarla con una parte dell'esercito, e con
l'altra assaltare il monte; acciò che gli inimici, divise per
necessità le forze in tanti luoghi, potessino piú facilmente essere
superati da qualche banda; non abbandonato però, per l'essersi
allungata la fronte dell'alloggiamento, Poggio Reale, perché gli
inimici recuperandolo non gli privassino della comodità delle acque,
ma ristrignendo per la coda l'alloggiamento. A' quali consigli bene
considerati si opponevano molte difficoltà. Perché né le trincee
lunghe piú di uno miglio insino al mare si potevano, per mancamento
di guastatori e per le infermità de' soldati, lavorare con celerità;
né venivano, come per l'assedio e per l'espugnazione sarebbe stato
necessario, l'armate: perché Andrea Doria con le galee che erano a
Genova non si moveva, dell'armata preparata a Marsilia non si
intendeva cosa alcuna, e la viniziana intenta piú allo interesse
proprio che al beneficio comune, anzi piú tosto agli interessi
minori e accessori che agli interessi principali, attendeva alla
espedizione di Brindisi e di Otranto. Delle quali città Otranto
aveva convenuto di arrendersi se fra sedici dí non era soccorso, e
Brindisi benché per accordo avesse ammesso i viniziani, si tenevano
ancora le fortezze in nome di Cesare: quella di mare, forte in modo
da non sperare di espugnarla; quella grande di dentro alla città,
avendo perduto due rocchette, pareva non potesse piú resistere.
Ma veramente non è opera senza mercede il considerare che disordini
partorisca la ostinazione di quegli che sono proposti alle cose
grandi. Lautrech, senza dubbio primo capitano del regno di Francia,
esperimentato lungamente nelle guerre e di autorità grandissima
appresso all'esercito, ma di natura altiero e imperioso, mentre che
credendo a sé solo disprezza i consigli di tutti gli altri, mentre
che non vuole udire niuno, mentre si reputa infamia che gli uomini
si accorghino che non sempre si governi per giudicio proprio, omesse
quelle provisioni le quali, usate, sarebbono state forse cagione
della vittoria, disprezzate, ridussono la impresa, cominciata con
tanta speranza, in ultima ruina.
Piantossi a' dodici di maggio l'artiglieria in su il poggio, e
batteva uno torrione che danneggiava molto la campagna. Tiravasi
anche spesso nella terra ma con poco frutto, e si scaramucciava
qualche volta a Santo Antonio. A' sedici, l'artiglieria piantata a
Capo di Monte tirava a certi torrioni tra la porta di San Gennaro e
la Capuana, e impediva fare uno bastione cominciato da quegli di
dentro; e Filippino, che era allo intorno, pigliava tutto dí navi
che andavano con grano a Napoli: dove la piú parte viveva di grano
cotto, e ne usciva ogni dí gente assai; e i tedeschi, ancora che
patissino manco che gli altri, protestavano spesso per mancamento di
pane e molto piú di vino e di carne, di che vi si pativa molto:
pure, oltre all'altre arti, erano intrattenuti assai con lettere
false di soccorso. E da altra banda, nello esercito crescevano ogni
dí l'infermità, delle quali morivano molti. Lavoravasi a' diciannove
alle trincee nuove, con le quali piantandosi due cannoni in su il
bastione, come e' fusse fatto, si sarebbeno rovinati due mulini
presso alla Maddalena guardati da due bandiere di tedeschi, che non
si erano mai tentati, per avere facile il soccorso di Napoli.
Intratanto si scaramucciava spesso a Santo Antonio.
Insino qui non procedevano se non felici le cose de' franzesi: ma
cominciorono per cagioni occulte, a piegarsi alla declinazione.
Perché Filippino Doria, per ordine avuto segretamente, come si
conobbe poi, da Andrea Doria, si era ritirato con le galee intorno a
Pozzuolo; donde in Napoli, dove erano restati pochi altri che
soldati, entrava sempre qualche quantità di vettovaglia in su le
barche: e se bene l'armata [de'] viniziani, acquistato Otranto, dava
speranza a ogn'ora di venire a Napoli, nondimeno differivano perché
erano in speranza di avere presto il castello grande di Brindisi.
Crescevano anche a ogn'ora nello esercito le malattie; e le bande
nere, dove prima alle fazioni si rappresentavano piú di tremila,
ora, tra feriti ammalati e morti, appena arrivavano a duemila. A'
ventidue gli spagnuoli assoltorono quegli di fuora che erano alla
difesa delle trincee nuove, dove si lavorava con speranza di finirle
fra sei o otto dí; ed essendovi Orazio Baglione con pochi compagni,
in luogo pericoloso, fu ammazzato combattendo: morte piú presto
degna di privato soldato che di capitano. Dal quale disordine
gl'imperiali presa speranza di maggiore successo uscirno di nuovo
fuora molto grossi: ma messosi il campo in arme e fattosi forte alle
trincee, si ritirorno. Ritornò pure di nuovo Filippino, per molta
instanza che gli fu fatta, nel golfo di Napoli. E a' ventisette non
erano ancora finite le trincee cominciate per serrare la via di
verso Somma; e gli spagnuoli ogni dí correvano e rompevano le
strade, conducendo dentro quantità grande di carnaggi: a che i
cavalli del campo gli facevano poco ostacolo, perché cavalcavano
rarissime volte. E Lautrech, cominciando a desiderare supplemento di
fanti ma non cedendo in tutto a' consigli degli altri, instava che
di Francia gli fussino mandati per mare seimila fanti di qualunque
nazione, perché per la carestia e infermità ne partivano molti del
campo; e in tante difficoltà cominciava a essere solo a sperare la
vittoria, fondandosi in su la fame: né aveva però fatto altro
progresso, intorno alle mura di Napoli, che levare l'acqua a uno
mulino di che quegli di dentro si servivano.
Procedeva in questo tempo in Calavria Simone Romano, con dumila
fanti tra corsi e paesani. Al quale benché si fussino opposti...
Sanseverino principe di bisignano e... figliuolo di Alarcone con
mille cinquecento fanti del paese, nondimeno difficilmente lo
sostenevano; donde il figliuolo di Alarcone si ritirò in Taranto,
lasciato il principe in campagna: ma poco dipoi Simone Romano
acquistò Cosenza per accordo; e dipoi, nella occupazione di una
terra vicina, prese il principe di Stigliano e il marchese di Laino
suo figliuolo con due altri suoi figliuoli. Ma in Puglia, quegli che
tenevano Manfredonia in nome di Cesare scorrevano per tutto il
paese, non resistendo loro i cavalli e i fanti de' viniziani, i
quali erano andati all'acquisto di quelle terre. Né erano al tutto
quiete le cose in terra di Roma; perché Sciarra Colonna avendo preso
Paliano, non ostante fusse stato difeso in nome del pontefice per la
figliuola di Vespasiano, lo recuperò l'abate di Farfa, facendo
prigioni Sciarra e Prospero da Cavi: benché Sciarra, per opera di
Luigi da Gonzaga, si fuggisse.
Ma mentre che intorno a Napoli si travaglia con queste difficoltà e
con queste speranze, Antonio de Leva, presentendo che la città di
Pavia, nella quale era Pietro da Longhena con quattrocento cavalli e
mille fanti de' viniziani, e Anibale Pizinardo castellano di
Cremona, con [trecento] fanti, il quale vi era andato per mantenere
a divozione del duca il paese di là dal Po, molto negligentemente si
guardava, una notte allo improviso, con le scale da tre bande, non
essendo sentito da i soldati, la prese di assalto. Restò prigione
Pietro da Longhena e uno figlio di Ianus Fregoso. Andò poi Antonio
de Leva a Biagrassa, e quegli di dentro aspettati pochissimi tiri
d'artiglierie si arrenderono; e volendo poi andare ad Arona,
Federigo Buorromei si accordò seco, obligandosi a seguitare le parti
di Cesare.
Lib.19, cap.2
Arrivo di milizie tedesche in Italia. Assalti ed assedio di Lodi.
Ritorno di quasi tutti i tedeschi in Germania; lentezza delle
operazioni dei veneziani e dei francesi. Vane istanze dei collegati
presso il pontefice perché si dichiari per loro. Brama del pontefice
che sia restituito alla sua famiglia il potere in Firenze.
Nel quale tempo Brunsvich, partito da Trento, aveva, il decimo dí di
maggio, passato l'Adice con l'esercito, nel quale erano diecimila
fanti, seicento cavalli bene armati, e tra loro molti gentiluomini,
e quattrocento moschetti, con le zatte, e ributtato dalla Chiusa era
sceso in veronese: e ancora che, presentendosi molto innanzi la
venuta sua, fusse stato trattato che San Polo andasse all'opposito,
nondimeno, non si usando maggiore diligenza in questa che nelle
altre provisioni, erano i tedeschi in Italia innanzi che San Polo
fusse in ordine di muoversi; il quale di poi fu necessitato a
soggiornare molti dí in Asti, per raccôrre le genti e per la
difficoltà delle vettovaglie, delle quali era, per tutta Italia ma
in Lombardia specialmente, grandissima carestia. Né si poteva alle
cose comuni sperare maggiore o piú pronto soccorso dal senato
viniziano, il quale, se bene avesse affermato che l'esercito suo
uscirebbe in campagna con dodicimila fanti, nondimeno il duca di
Urbino, entrato in Verona, non pensava ad altro che alla difesa
delle terre piú importanti del loro stato. Però discesi i tedeschi
in su il lago di Garda ottennono Peschiera per accordo; il medesimo,
Rivolta e Lunata: in modo che, padroni quasi di tutto il lago,
riscotevano in molti luoghi taglie di denari, abbruciando quegli che
erano impotenti a riscuotersi. Stimolavagli che andassino verso
Genova Antoniotto Adorno, venuto in quello esercito; ma non avendo
denari e avendo molte difficoltà, e per abboccarsi con Antonio de
Leva uscito a questo effetto di Milano, camminavano lentamente per
il bresciano; dove andorono a trovargli Andrea de Burgos e il
capitano Giorgio, per mezzo de' quali si dubitava che il duca di
Ferrara, il quale in tanto timore degli altri non faceva provisione
alcuna, non tenesse con loro occultamente qualche pratica.
Indirizzoronsi dipoi i tedeschi alla volta di Adda per unirsi con
Antonio de Leva: il quale, avendo il nono dí di giugno passato il
fiume di Adda, con seimila fanti e sedici pezzi grossi di
artiglieria, e alloggiato appresso a loro propinqui a Bergamo a tre
miglia (nella quale città il duca di Urbino, venuto a Brescia,
aveva, e in Brescia e in Verona, divise le sue genti), persuase
loro, per l'estremo desiderio che aveva di ricuperare Lodi, di
attendere prima a ricuperare lo stato di Milano che passare a
Napoli.
Cosí il vigesimo dí si posono col campo a quella città, della quale
partendosi il duca di Milano e ritiratosi a Brescia, vi aveva
lasciato Giampaolo fratello suo naturale con manco di tremila fanti;
e avendo piantato l'artiglieria, Antonio de Leva, al quale toccava
il primo assalto, accostò i fanti spagnuoli dove era la maggiore
rovina. Combatterno tre ore ferocemente, ma non si dimostrando
minore la costanza e la virtú de' fanti italiani che vi erano dentro
furono ributtati; e diffidandosi potere piú ottenerla per assalto,
ridusseno tutta la speranza del vincerla in su la fame: perché, non
essendo ancora fatta la ricolta, era in Lodi carestia tale che non
si distribuendo piú pane ad altri che a' soldati bisognava che
quegli della terra o morissino di fame o uscissino fuora con
grandissimo pericolo. Scrive in questo modo il Capella il progresso
del duca di Brunsvich. Ma i registri contengono che i tedeschi
batterono molti dí Sonzino, e che finalmente l'ottennono per
accordo; e che molti di loro, presentatisi sbandatamente a
Pizzichitone, furono ributtati. Tentorono dipoi invano Castellione,
nella quale oppugnazione fu ammazzato al duca di Brunsvich il
cavallo sotto; e che mentre che erano nel cremonese, il duca di
Urbino, uscito di Brescia, prese per forza la terra di Palazuolo,
nella quale erano Emilio e Sforza, fratelli, de' Mariscotti, con
alcuni cavalli leggieri e fanti non pagati: Emilio restò prigione e
Sforza si rifuggí nella rocca; alla quale venendo il soccorso, il
duca di Urbino si ritirò a Pontevico. Ne' quali dí, o forse prima,
in bresciano, il conte di Caiazzo condottiere de' viniziani prese il
luogotenente del capitano Zucchero con molti cavalli. Andò dipoi il
campo a Lodi, dove, per essere stata inondata gran parte del paese,
non si poteva battere se non di verso Pavia. Che il vigesimo nono dí
di giugno fu dato l'assalto eziandio da' tedeschi di Brunsvich e di
Antonio de Leva, nel quale i tedeschi nuovi riportorono piccola
laude.
Ma tra' tedeschi era già entrata la peste; e anche essendo carestia
nello esercito, molti partendosi ritornavano, per le terre de'
svizzeri e de' grigioni, alle patrie loro. A che non faceva molto
diligenza in contrario Enrico duca di Brunsvich loro capitano;
perché avendo in Germania, per l'esempio de' fanti condotti da
Giorgio Fronspergh, conceputo grandissime speranze, gli riuscivano
in Italia le cose piú difficili che non si aveva immaginato; ed
essendogli mancati i denari, gli restava quasi impossibile tenere i
fanti fermi intorno a Lodi non che condurgli nel regno di Napoli. Né
Antonio de Leva gli somministrava denari, anzi gliene toglieva ogni
speranza querelandosi sempre della povertà di Milano; perché, poiché
ebbe perduto la speranza di ottenere Lodi, non pensava né attendeva
ad altro che a dare loro causa di andarsene, dubitando non si
fermassino in quello stato, e cosí avervi compagni al governo e alle
prede: e aveva atteso, mentre che loro perdevano tempo, a fare
battere i grani e le biade per tutto lo stato di Milano e portare le
ricolte a Milano. Finalmente, dovendosi a' tredici di luglio dare
nuovo assalto a Lodi, i tedeschi si ammutinorno e mille se ne
andorono verso Como; gli altri, restati in grandissimo disordine,
allargorono l'artiglieria da Lodi. Per il che temendosi che non se
ne tornassino in Germania, il marchese del Guasto, avuto licenza da
Andrea Doria per dieci dí, sopra la fede, andò a Milano per
persuadere a Brunsvich che non ritornasse in Germania; ma non si
potendo intrattenere con le parole, se ne andorono per via di Como,
restandone di loro con Antonio da Leva, al quale si era in quegli dí
arrenduta Mortara, circa dumila: essendo cosa certa che se fussino
soprastati qualche dí piú lo pigliavano per mancamento di vivere.
Nella quale espedizione fu desiderato da molti la prontezza del duca
d'Urbino, di essersi, quando il campo era intorno a Lodi, accostato
o a Crema o a Pizzichitone, o almeno tenutovi qualche somma di
cavalli leggieri per infestargli; benché, quando erano nel
bresciano, gli avesse qualche volta costeggiati, ma non sí
accostando mai a loro piú di tre miglia e procedendo sicuramente:
nondimeno, contento di difendere lo stato de' viniziani, non passò
mai il fiume dell'Oglio. Non essendo anche stata piú pronta la
passata di San Polo; il quale, non ostante tutti i disegni e le
promesse fatte dal re di mandare per interesse suo gente contro a'
tedeschi, non arrivò in Piemonte se non in tempo che già i tedeschi
se ne andavano, e anche con numero di gente molto minore che non
avevano publicato.
Non restavano perciò i collegati di fare di nuovo instanza col
pontefice che si dichiarasse per loro, e che procedendo contro a
Cesare con l'armi spirituali lo privasse dello imperio e del reame
di Napoli. Il quale, poi che si fu scusato che, dichiarandosi, non
sarebbe piú mezzo opportuno alla pace, che la dichiarazione sua
susciterebbe maggiore incendio tra príncipi cristiani senza utilità
de' collegati, per la povertà e impotenza sua, e la privazione di
Cesare solleverebbe la Germania, per sospetto che e' non volesse
applicare a sé la autorità di eleggere, ed eleggesse il re di
Francia; dimostrava il pericolo imminente da' luterani, i quali
ampliavano: finalmente, non potendo piú resistere, si offerse parato
a entrarvi se i viniziani gli restituivano Ravenna, condizione
proposta da lui come impossibile; offerendo anche a obligarsi a non
molestare lo stato di Firenze. Però, il vigesimo dí di giugno,
arrivorno a Vinegia il visconte di Turrena e oratori del re di
Inghilterra a instare con quel senato: promettendo per lui
l'osservanza delle promesse; ma non avendo potuto ottenerne altro
partirono male sodisfatti.
Ricuperò in questi tempi il pontefice la città di Rimini; la quale,
tentata prima invano da Giovanni da Sassatello, si arrendé
finalmente con patti che fussino salve le robe e le persone. Ma già
cominciavano a non si potere piú dissimulare i suoi piú profondi e
piú occulti pensieri, dissimulati prima con molte arti: perché
essendogli infissa nell'animo la cupidità di restituire alla
famiglia sua la grandezza di Firenze, si era sforzato, publicando
efficacissimamente il contrario, persuadere a' fiorentini niuno
pensiero essere piú alieno da lui; né desiderare se non che quella
republica lo riconoscesse solamente, secondo l'esempio degli altri
príncipi cristiani, come pontefice e che nelle cose private non
perseguitassino i suoi, né l'onore, le insegne e gli ornamenti
propri della sua famiglia. Con le quali commissioni avendo, come fu
liberato, mandato a Firenze uno prelato fiorentino per imbasciadore,
né essendo stato udito, aveva molto instato, e per mezzo anche del
re di Francia, che mandassino a lui uno imbasciadore; sforzandosi,
con levare loro il sospetto e col dimesticarsi con loro, rendergli
piú opportuni alle sue insidie. Ma tentate invano queste cose, si
sforzò di persuadere a Lautrech che, essendo quegli che reggevano in
Siena dependenti da Cesare, era espediente alle cose sue rimettervi
Fabio Petrucci; il che, benché gli fusse capace, se ne astenne per
la contradizione de' fiorentini. Non gli succedendo per questa via,
operò occultamente che Pirro da Castel di Piero, pretendendo querele
contro a' sanesi, occupò con ottocento fanti, per mezzo di alcuni
fuorusciti di Chiusi, quella terra, per travagliare con questo mezzo
il governo di Siena; ma avendo i fiorentini fatto capace il visconte
di Turrena, oratore del re di Francia, il papa non tendere ad altro
fine che di perturbare con l'opportunità di Siena le cose di
Firenze, il visconte procurò col pontefice che 'l movimento di
Chiusi si posasse. Il quale, nella venuta de' tedeschi, aveva, con
l'aiuto del marchese di Mantova, guardato Parma e Piacenza.
Lib.19, cap.3
Vicende della guerra in Calabria e negli Abruzzi. Bolla secreta del
pontefice per l'annullamento del matrimonio del re d'Inghilterra.
Condizioni degli imperiali in Napoli; condizioni degli assedianti.
Fazioni di guerra sotto Napoli.
Procedevano in questi tempi le cose del reame di Napoli variamente.
Perché era venuto di Sicilia in Calavria il conte Burella con mille
fanti, e unitosi con gli altri; e da altra parte Simone Romano aveva
ottenuto con le mine la fortezza di Cosenza a discrezione (benché
l'esservi stato ferito di uno archibuso nella spalla ritardò in
qualche parte il corso della vittoria) e unitosi poi col duca di
Somma, il quale con fanti del paese assediava Catanzaro, terra molto
forte ma in necessità di vettovaglie, nella quale era il genero di
Alarcone con dugento cavalli e mille fanti; la quale ottenendo
restavano signori di tutto il paese insino alla Calavria soprana; ma
la necessità gli costrinse a volgersi contro alle genti unitesi col
soccorso venuto di Sicilia, le quali avevano già fatto qualche
progresso. Ma essendo stato Simone abbandonato da una parte de' suoi
fanti paesani, fu necessitato a ritirarsi nella rocca di Cosenza;
gli altri fanti suoi, con morte di qualcuno, si risolverono; i corsi
si andavano ritirando verso l'esercito: restando non solo la
Calavria in pericolo ma temendosi che i vincitori non si
indirizzassino verso Napoli. Ma per contrario ebbono nello Abruzzi
prosperità le cose de' franzesi; perché essendosi appropinquato a
dodici miglia all'Aquila il vescovo Colonna per sollevare lo Abruzzi
fu rotto e morto dallo abate di Farfa, morti quattrocento fanti e
circa ottocento prigioni. Intorno a Gaeta quegli di dentro, per la
giunta del principe di Melfi, si andavano ritirando; e quelli di
Manfredonia, per la poca virtú delle genti viniziane, facevano danno
assai.
Perseverava in questo tempo il pontefice nella deliberazione di non
dichiararsi per alcuno, ma, perché teneva diverse pratiche, già
sospetto al re di Francia; né anche grato a Cesare, se non per altro
perché aveva destinato legato in Inghilterra il cardinale Campegio,
per trattare in quella isola la causa delegata a lui e al cardinale
eboracense. Perché instando quel re per la declarazione della
invalidità del primo matrimonio, il pontefice, il quale si era molto
allargato di parole co' ministri suoi, perché trovandosi in piccola
fede appresso agli altri si sforzava di conservarsi il suo
patrocinio, fece secretissimamente una bolla decretale declaratoria
che il matrimonio fusse invalido; la quale dette al cardinale
Campegio e gli commesse che, mostratala al re e al cardinale
eboracense, dicesse avere commissione di publicarla se nel giudicio
la cognizione della causa non succedesse prosperamente; acciocché
piú facilmente consentissino che la causa si conoscesse
giuridicamente, e tollerassino con animo piú equo la lunghezza del
giudicio, il quale aveva commesso al cardinale Campegio che
allungasse quanto potesse, né desse la bolla se prima non aveva
nuova commissione da lui; ma si sforzò di persuadergli (come anche è
verisimile che allora avesse in animo) la intenzione sua essere che
finalmente s'avesse a dare. Della quale destinazione del legato e
delegazione della causa facevano querela grave in Roma gli
imbasciadori cesarei, ma con minore autorità per la difficoltà che
avevano le cose di Cesare nel regno napoletano.
Ma intorno a Napoli si scoprivano, per l'una parte e per l'altra,
molte difficoltà; ma tali che, raccolte tutte le ragioni, si sperava
piú presto la vittoria per i franzesi, ritardata dalla virtú e dalla
ostinazione degli inimici. Perché in Napoli augumentava giornalmente
la carestia, massime di vino e di carne, non vi entrando piú per
mare cosa alcuna; con ciò sia che le galee de' viniziani, in numero
ventidue, fussino, pure dopo sí lunga espettazione, giunte a' dieci
dí di giugno nel golfo di Napoli: perché se bene i cavalli di dentro
uscendo continuamente, non verso l'esercito ma in quelle parti nelle
quali credevano potere trovare vettovaglie, riportassino quasi
sempre prede, massime di carnaggi, nondimeno, benché giovassino
molto, non erano tante che, privati della comodità del mare,
potessino lungamente sostentarsi. Affliggevagli la peste grande, il
mancamento de' danari, la difficoltà di sostenere i fanti tedeschi,
ingannati molte volte da vane speranze e promesse, e de' quali
qualcuno alla sfilata andava nello esercito inimico: benché a
ritenergli potesse molto la grazia e l'autorità che aveva appresso a
loro il principe di Oranges, restato per la morte di don Ugo con
autorità di viceré: il quale fece prigione il capitano Catte
guascone, delle reliquie del duca di Borbone, con molti de' suoi; e
poco dipoi, per sospetto vano, fece il simigliante di Fabrizio
Maramaus, benché presto lo liberasse. Da altra parte, nell'esercito
franzese augumentavano continuamente le infermità; le quali erano
cagione che Lautrech, per non avere a guardare tanto, non procedesse
alla perfezione delle ultime trincee, le quali, anche per
l'impedimento di certe acque tagliate, avevano difficoltà di
finirsi. Era anche nello esercito carestia, piú per poco ordine che
per altro. Nondimeno Lautrech sperava piú nelle necessità che erano
in Napoli che non temeva delle sue difficoltà; e o per questa
cagione, persuadendosi aversi presto a finire, o per mancamento di
denari non faceva nuovi fanti, come da tutto lo esercito si
desiderava per la diminuzione grande, per i morti e per gli infermi
non solamente nelle genti basse e ne' soldati privati ma già nelle
persone grandi e di autorità; perché il quintodecimo dí erano
morti... nunzio del pontefice e Luigi Pisano proveditore viniziano.
Sperava anche di fare passare all'esercito tutti o la maggiore parte
de' fanti tedeschi, pratica nella quale, prima il marchese di
Saluzzo e dappoi egli, avevano lungo tempo vanamente confidato. Le
medesime cagioni, e la speranza che gli era data di fare passare
all'esercito alcuni cavalli leggieri che erano in Napoli, lo
ritenevano da soldare cavalli leggieri, sommamente necessari; i
quali, se pure n'avesse soldati almeno quattrocento, gli sarebbeno
stati di grandissima utilità. Però scorrevano i cavalli di dentro
piú liberamente; benché, ritornando uno giorno a Napoli con uno
grosso bottino di bestiame, rincontrate le bande nere che erano il
nerbo dello esercito, e senza le quali non si sarebbe stato intorno
a Napoli, lo tolsono loro con perdita di forse sessanta cavalli; non
ostante che gli spagnuoli uscissino tutti di Napoli, ma tardi, per
soccorrergli. Sperava Lautrech che gli inimici fussino necessitati a
partirsi presto da Napoli; e perciò, volendo privargli della facoltà
di ritirarsi in Gaeta, ordinò fusse guardata Capua e Castello a mare
di Volturno. E per tôrre anche loro la facoltà di ritirarsi in
Calavria, oltre al fare tagliare certi passi, ricominciò a fare
lavorare alla trincea ricordata piú volte ma intermessa per vari
dispareri; ripigliandola tanto alto che l'acque che impedivano
restassino di sotto. E disegnava anche di mettere in fortezza uno
casale molto vicino a Napoli e guardarlo con mille fanti, che per
questo voleva soldare; favorendosi eziandio delle galee viniziane
sorte al diritto della trincea: la quale serviva ancora a fare
venire piú facilmente allo esercito le vettovaglie dalla marina, e a
tagliare la strada agli inimici quando tornavano con le prede per
quel cammino, perché, per i fossi grandi e l'acque tagliate di
Poggioreale, si andava dallo esercito al mare per circuito grande e
pericoloso. Sforzavansi gli imperiali impedire quegli che lavoravano
alla trincea; alla quale essendo usciti uno dí molto grossi i
guastatori, per ordine di Pietro Navarra, il quale sollecitava
questa opera, si rifuggirono; in modo che seguitandogli incautamente
gli imperiali furono condotti in una imboscata, e ne fu tra morti e
feriti piú di cento. Nondimeno la trincea non era ancora ammezzata,
quando per mancamento de' guastatori quando per altra cagione;
perché la negligenza interrompeva spesso gli ordini buoni che spesso
si facevano: ne' quali, per essere la strettezza di Napoli
grandissima, se si fusse continuato, è giudicio di molti che
Lautrech arebbe indubitatamente ottenuta la vittoria.
Succedette, ne' dí medesimi, occasione di grandissimo momento se
tali fussino stati gli esecutori quali furono gli ordinatori: ma è
infelicità eccessiva di uno principe quando, come spesso accade al
re di Francia co' suoi franzesi, la negligenza e piccola cura de'
suoi ministri perverte i consigli buoni. Presentí Lautrech che i
soldati di Napoli erano, per predare, usciti fuora per la via di Piè
di Grotta molto grossi; però, per opprimergli, mandò, la notte de'
venticinque dí di giugno, i fanti delle bande nere i cavalli de'
fiorentini e settanta lancie franzesi e una banda di svizzeri,
tedeschi e guasconi alla volta di Belvedere e di Piè di Grotta per
incontrargli; e per impedire loro il ritirarsi ordinò che il
capitano Buria co' fanti guasconi, postosi in sul monte eminente
alla Grotta, scendesse subito levato il romore, per impedire che gli
inimici non potessino entrare nella Grotta. Succedette il principio
di questa fazione felicemente, perché le genti di Lautrech avendogli
incontrati gli combatterno e messeno in fuga; avendo tra morti e
presi piú che trecento uomini e cento cavalli utili e moltissime
bagaglie. Fu scavalcato nel combattere don Ferrando da Gonzaga e
fatto prigione, ma la furia de' tedeschi lo riscattò. Ma il capitano
Buria, o per negligenza o per timore, non si rappresentò al luogo
destinato; il che se avesse fatto si crede sarebbeno periti tutti.
Aveva anche Lautrech mandato a Gaeta sei galee de' viniziani, e due
ne erano restate alla bocca del Garigliano, per dare favore al
principe di Melfi; e perché le galee non potevano proibire che con
le fregate non entrasse in Napoli qualche rinfrescamento, messe in
mare certe piccole barchette per impedirle; ordinò anche che i
bestiami si discostassino, per tutto, quindici miglia da Napoli,
perché non fussino cosí facili a essere tolti dagli imperiali. I
quali in tutte le scaramuccie ricevevano danno, quando non si
facevano nel forte loro.
Lib.19, cap.4
Defezione di Andrea Doria dal re di Francia. Accordi del Doria con
Cesare; l'armata del Doria lascia il porto di Napoli. Insuccessi dei
collegati sotto Napoli. Tardi provvedimenti presi dal Lautrech.
Cattive condizioni dell'esercito dei collegati; morte del Lautrech.
Rotta dei collegati. Cause dell'infelice fine dell'impresa.
Ma nuovo accidente che si scoperse, e del quale era molto prima
apparito qualche indizio, perturbò gravemente le cose franzesi:
perché Andrea Doria deliberò di partirsi dagli stipendi del re di
Francia, ai quali era obligato per tutto il mese di giugno;
deliberazione, per quel che si potette congetturare, fatta piú mesi
innanzi; donde era proceduto che ritiratosi a Genova non era voluto
andare con le galee nel regno di Napoli, e che offerendogli il re di
farlo capitano della armata la quale si preparava a Marsilia lo
recusò, allegando che per la età era inabile a tollerare piú queste
fatiche. La origine di tale deliberazione si attribuiva poi, da lui
e da altri, a varie cagioni. Esso si lamentava che il re, dopo
l'averlo servito con tanta fedeltà cinque anni, avesse fatto
ammiraglio e dato la cura del mare a monsignore di Barbigios; quasi
parendogli conveniente che 'l re, dopo la sua recusazione, avesse
dovuto replicare e fargli instanza che la accettasse: che non lo
pagasse di ventimila ducati degli stipendi passati, senza i quali
non poteva sostentare le sue galee: non avere voluto sodisfare a'
giusti prieghi suoi di restituire a' genovesi la solita superiorità
di Savona, anzi essersi trattato nel consiglio regio di farlo
decapitare, come uomo che troppo superbamente usasse la sua
autorità. Altri allegavano essere stata la prima origine della sua
indignazione le contenzioni succedute tra Renzo da Ceri e lui nella
impresa di Sardegna, nella quale pareva che il re avesse piú udito
la relazione di Renzo che le sue giustificazioni: essersi sdegnato
per la instanza grande fattagli dal re che gli concedesse i
prigioni; i quali come cosa importante molto desiderava, massime il
marchese del Guasto e Ascanio Colonna, benché con offerta di
pagargli la taglia loro. Allegoronsi queste e altre cagioni; ma si
credette poi che la vera, la principale fusse non tanto lo sdegno di
non essere stato tenuto conto da' franzesi di lui quanto gli pareva
meritare, o qualche altra mala sodisfazione, quanto che, pensando
alla libertà di Genova, per introdurre sotto nome della libertà
della patria la sua grandezza né potendo conseguire questo fine con
altro modo, avesse deliberato non seguitare piú gli stipendi del re,
né aiutarlo di conseguire con le sue galee la vittoria di Napoli:
come si credeva che, per interrompere l'acquisto di Sicilia, avesse
proposta la impresa di Sardigna. Però, indirizzato l'animo a questi
pensieri, trattava per mezzo del marchese del Guasto di condursi con
Cesare; non ostante la professione dell'odio grande che, per la
memoria del sacco di Genova, aveva fatta, molti anni, contro alla
nazione spagnuola, e la acerbità con la quale gli aveva trattati,
quando alcuno di loro era venuto nelle sue mani. Ma procedendo
simulatamente, non era ancora noto al re il suo disegno; però non
era stato sollecito a procurare i rimedi a infermità tanto
importante, ancora che n'avesse conceputo qualche sospetto; perché
fu presa una sua galea che portava in Spagna uno spagnuolo mandato
sotto pretesto della taglia di certi prigioni, al quale si trovò una
lettera credenziale di Andrea Doria a Cesare: benché, per le querele
sue grandi, gli fu permesso che senza essere esaminato continuasse
il suo cammino. Finalmente, essendo arrivato Barbigios con
quattordici galee a Savona, Andrea Doria, temendo di lui, si ritirò
da Genova con le sue galee e co' prigioni a Lerice: la qualcosa come
il re intese, gustando il pericolo quando era fatto irrimediabile,
mandò a lui Pierfrancesco da Nocera per ricondurlo agli stipendi
suoi; per il quale gli offerse sodisfare al desiderio suo delle cose
di Savona, pagargli i ventimila ducati de' soldi corsi, pagargli
altri ventimila ducati per la taglia del principe di Oranges, preso
altre volte da lui e dipoi liberato dal re quando a Madril fece la
pace con Cesare; e in caso volesse concedergli i prigioni, pagare,
innanzi uscissino delle sue mani, la taglia loro; quando anche
recusasse di concedergli, non volere il re gravarnelo. Non prestò il
Doria orecchi a queste offerte, giustificando la partita sua dal re
con le querele; donde Barbigios fu forzato, con detrimento grande
delle cose del reame di Napoli, soprastare a Savona: nondimeno,
passando poi piú innanzi, lasciò per la guardia di Genova
cinquecento fanti a dieci miglia appresso a quella città, perché
dentro era peste grandissima; e per la medesima cagione pose in
terra, trenta miglia appresso a Genova, mille dugento fanti tedeschi
venuti nuovamente: i quali avevano avuta la prima paga da' franzesi,
ma per non avere i viniziani pagata la seconda, come erano obligati,
fu necessario che il Triulzio governatore di Genova gli provedesse.
In queste agitazioni del Doria, il pontefice, presentendo quel che
trattava con Cesare, significò il vigesimo primo dí di giugno la
cosa a Lautrech, dimandandogli il consenso di condurlo agli stipendi
suoi per privarne Cesare, e affermandogli che Filippino con le galee
partirebbe tra dieci dí da Napoli: perciò Lautrech restituí a
Filippino, per non lo esasperare, il secretario Serone, ritenuto
sempre per avere lume da lui di molte cose secrete; e nondimeno, per
sospetto già conceputo del pontefice, interpetrò sinistramente lo
avviso suo. Finalmente Andrea Doria, benché Barbigios, nel passare
innanzi con l'armata, che era di diciannove galee due fuste e
quattro brigantini e vi era su il principe di Navarra, avesse
parlato seco, non dissimulando piú quel che aveva in animo di fare,
mandò uno uomo suo a Cesare in compagnia del generale, creato
cardinale, mandato dal pontefice, a stabilire le sue convenzioni; le
quali furono: la libertà di Genova sotto la protezione di Cesare, la
suggezione di Savona a' genovesi, venia a lui che tanto aveva
perseguitato il nome spagnuolo, condotto a servizio di Cesare con
dodici galee e per soldo sessantamila ducati l'anno; e con altri
patti molto onorevoli. Per le quali cose Filippino con tutte le
galee partí, il quarto dí di luglio, da Napoli: la partita del
quale, procedendo come già aveva cominciato a procedere, non noceva
a' franzesi se non per la riputazione; perché, già molti dí, non
solo faceva mala guardia, anzi talvolta i suoi brigantini
conducevano furtivamente vettovaglia in Napoli; ed egli, oltre allo
avere parlato con alcuni di Napoli, aveva portato i figliuoli di
Antonio de Leva a Gaeta e fatto, molti dí, spalle che in Napoli
entrassino vettovaglie. Ma se avesse servito fedelmente, come nel
principio, n'arebbono ricevuto danno gravissimo. Perciò sollecitava
tanto piú Lautrech la venuta della armata franzese: la quale si era
fermata con somma imprudenza, per ordine del pontefice, a pigliare
Civitavecchia.
Per la partita di Filippino con le galee, l'armata viniziana, la
quale aveva preso l'assunto di lavorare dalla marina insino
rincontrasse la trincea di Pietro Navarra, fu necessitata
intermettere per attendere alla guardia del mare: il quale perché
stesse piú serrato, si era ordinato che alcune fregate armate
scorressino dí e notte la costa; e si usava anche per terra maggiore
diligenza, opponendosi agli spagnuoli, che ogni dí scorrevano ma
incontrati fuggivano senza combattere: in modo che Napoli era
ridotto in estrema necessità, e i tedeschi protestavano di partirsi
se presto non fussino soccorsi di danari e di vettovaglie. Donde
Lautrech, sostentandolo assai la speranza di queste cose, si
persuadeva che, per la pratica tenuta lungamente con loro, di giorno
in giorno passerebbono allo esercito. Ma il quintodecimo dí di
luglio le galee viniziane, eccetto quelle che erano intorno a Gaeta,
ritornorono in Calavria per provedersi di biscotti; e però, essendo
restato il porto aperto, entrorono in Napoli molte fregate con
vettovaglie di ogni sorte, da vino in fuora, cosa molto opportuna
perché in Napoli non era grano per tutto luglio. Ma nell'esercito,
nel quale era anche passata la peste per contagione di genti uscite
di Napoli, moltiplicavano grandemente le solite infermità.
Valdemonte era vicino alla morte, e ammalato Lautrech: per la
infermità del quale disordinandosi le cose, gl'imperiali, i quali
correvano senza ostacolo per tutte le strade, tolseno le vettovaglie
che venivano allo esercito che ne aveva strettezza. E nondimeno non
si soldavano nuovi cavalli leggieri, anzi Valerio Orsino,
condottiere de' viniziani, con cento cavalli leggieri si partí dello
esercito per non essere pagato, e gli altri cavalli leggieri parte
si erano partiti per non essere pagati parte per le infermità erano
inutili; la gente d'arme franzese si era ridotta in guarnigione alle
terre circostanti, e i guasconi sparsi per il paese attendevano a
fare le ricolte e guadagnare. Speravasi pure ne fanti, i quali si
diceva condurre l'armata: la quale, soprastata piú di venti dí da
poi che si era partita da Livorno, arrivò finalmente il decimo
ottavo dí di luglio con molti gentiluomini e con denari per lo
esercito; ma non aveva se non ottocento fanti, perché gli altri che
portava erano restati parte per la guardia di Genova parte alla
impresa della fortezza di [Civitavecchia]. Alla venuta della quale
avendo Lautrech mandato gente alla marina per ricevere i denari, non
potetteno le galee per il mare grosso venire a terra; però vi
ritornò, il dí seguente, il marchese di Saluzzo con le sue lance e
con grossa banda di guasconi svizzeri e tedeschi e con le bande
nere, ma nel ritorno loro incontrorono gl'imperiali che erano usciti
grossi di Napoli, i quali caricorono in modo i cavalli franzesi, che
voltorno le spalle e nel fuggirsi urtorono talmente i fanti loro
medesimi che gli disordinorono; e trovandosi il conte Ugo de'
Peppoli, che dopo la morte di Orazio Baglione era succeduto nel
governo delle genti de' fiorentini, a piede con quaranta
archibusieri, innanzi alla battaglia delle bande nere uno tiro di
archibuso, restò prigione de' cavalli: e fu tale lo impeto
degl'imperiali che se la battaglia delle bande nere non gli riteneva
facevano grande strage; perché combatterono, massime la cavalleria
loro, egregiamente. Restorono morti piú di cento e altrettanti
presi, tra' quali parecchi gentiluomini franzesi smontati
dall'armata; e fu preso anche Ciandalé nipote di Saluzzo: nondimeno,
i denari si condusseno salvi. E fu attribuito il disordine a'
cavalli franzesi, molto inferiori di virtú a' cavalli degl'inimici:
donde si diminuiva l'animo a' fanti dello esercito, conoscendo non
potersi fidare del soccorso de' cavalli.
Ma aveva nociuto sommamente all'esercito la infermità di Lautrech,
il quale benché si sforzasse di sostentare con la virtú dell'animo
la debolezza del corpo nondimeno non poteva né vedere né provedere a
tutte le cose, le quali continuamente declinavano; perché gli
imperiali, scorrendo fuori, non solo si provedevano di tutti i
bisogni, eccetto il vino che non potevano condurre, ma toglievano
spesso le vettovaglie dello esercito, toglievano le bagaglie e i
saccomanni insino in su' ripari e i cavalli insino allo
abbeveratoio; in modo che allo esercito, diminuito molto per le
infermità, cominciavano a mancare le cose necessarie, diventato di
assediante, assediato e in pericolo; e se non si fusse fatto guardia
a' passi tutti i fanti sarebbeno fuggiti: e per contrario in Napoli,
crescendo e le comodità e la speranza, i tedeschi non piú
tumultuavano, e gli altri pigliavano in gloria il patire. Da' quali
pericoli tanto manifesti vinta pure finalmente la pertinacia di
Lautrech (il quale, pochi dí innanzi, aveva spedito in Francia
perché mandassino per mare semila fanti), mandò Renzo, venuto credo
in su l'armata, verso l'Aquila perché conducesse quattromila fanti e
secento cavalli, assegnandogli il tesoriere dell'Aquila e dello
Abruzzi; il quale prometteva condurgli in campo in brevi dí;
provisione che, fatta prima, sarebbe stata di somma utilità.
A' ventinove erano rotte le strade, che, non che altro, insino a
Capua, quale avevano alle spalle, non si andava sicuro; e nello
esercito, ammalato quasi ognuno: Lautrech, sollevatosi prima dalla
febbre, ritornato in maggiore indisposizione che il solito; la gente
d'arme quasi tutta sparsa per le ville, o per essere ammalati o per
rinfrescarsi sotto quella scusa, e i fanti quasi ridotti a niente;
ed essendo in Napoli declinata la peste e l'altre infermità, per le
quali erano ridotti a settemila fanti (altri dicono a cinquemila),
si temeva non assaltassino il campo. Però Lautrech fermò i
cinquecento fanti di Renzo mandati dopo la rotta di Simone, per
impedire che le genti inimiche di Calavria non venissino verso
Napoli, e mandò intorno nel paese a soldarne mille; condusse il duca
di Nola con dugento cavalli leggieri e Rinuccio da Farnese con
cento, che promettevano menargli presto; chiamò dugento stradiotti
de' viniziani dalla impresa di Taranto, rivocò con gravi pene tutti
gli uomini d'arme sani: sollecitava ogni dí Renzo; e riscaldava, ma
tardi, con grandissima veemenza ed efficacia tutte le provisioni. A'
due di agosto non erano nel campo franzese pure cento cavalli, e gli
imperiali correvano ogni dí in su le trincee; e la notte dinanzi
avevano scalato e saccheggiato Somma, dove era una banda d'uomini
d'arme e di cavalli leggieri. Però Lautrech, vedendosi quasi
assediato, sollecitava San Polo che gli mandasse gente per mare, e i
fiorentini che voltassino a lui dumila fanti i quali avevano
ordinato di mandare a San Polo; i quali prontamente lo consentivano.
Era morto in campo Candela, lasciato in su la fede; era malato il
Navarra, Valdemonte, Paolo Cammillo da Triulzi, il maestro del campo
nuovo e vecchio, M. Ambrogio da Firenze; Lautrech era ricaduto;
ammalati tutti gli oratori, tutti i segretari e tutti gli uomini di
conto, da Saluzzo e il conte Guido in fuora; né si trovava in tutto
il campo quasi una persona sana. Morivano i fanti di fame, ed
essendo mancate quasi tutte le cisterne vi si pativa anche di acqua;
gli imperiali padroni di tutta la campagna; né poteva fare altro
l'esercito che starsi nel suo forte a buona guardia, aspettando il
soccorso, che non poteva esservi fra quindici dí: e la negligenza
anche accresceva i disordini. Roppeno poi gli spagnuoli l'acqua di
Poggioreale, e benché si rassettasse non si usava senza grave
pericolo. Aspettava Lautrech fra due dí il duca di Somma con mille
cinquecento fanti, e presto i cavalli e fanti dello abate di Farfa;
il quale Lautrech, poi che aveva rotto il vescovo Colonna, aveva
mandato a chiamare. E a' sei si era avuta per accordo la fortezza di
Castello a mare, importante per poter ridurre le galee in quel
porto; e si disegnava pigliare quella di Baia. Ritornorono le galee
de' viniziani malissimo armate, e sí male proviste di vettovaglie
che bisognava che per guadagnare da vivere, lasciata la cura del
guardare il porto di Napoli, scorressino per le marine circostanti.
Agli otto gli spagnuoli, tornati a Somma, di nuovo la spogliorono; e
preseno ogni resto di cavalli che vi aveva il conte Guido in
guarnigione: e spesso in campo non era da mangiare. Assaltorono due
dí innanzi la scorta delle vettovaglie con la quale erano dugento
tedeschi, che rifuggiti in due case si arrenderono vilmente. E
accresceva tutte le incomodità il circuito dello alloggiamento, che
insino da principio era stato giudicato troppo grande, il che faceva
pericolo e consumava i fanti per le troppe fazioni; e nondimeno
Lautrech, intrattenendosi in su la speranza di Renzo, non voleva
udire di ristrignerlo: e ancora non bene riavuto scorreva per tutto
il campo, per mantenere gli ordini e le guardie, temendo non fusse
assaltato. Declinavano le cose giornalmente, in modo che a'
quindici, per la troppa potenza de' cavalli imperiali, non era piú
commercio tra il campo e le galee; né potevano quegli del campo, per
non avere cavalli, uscire delle strade. Davasi ogni notte all'arme
due o tre volte: però gli uomini, consumati da tante fatiche e
incomodità, non potevano andare alle scorte delle vettovaglie quanto
bisognava. E quel che aggravò tutti i disordini fu che, la notte
medesima venendo i sedici, morí Lautrech, in su l'autorità e virtú
del quale si riposavano tutte le cose: credendosi per certo che le
fatiche grandi, che aveva, avessino rinnovato la sua infermità.
Restò il pondo del governo nel marchese di Saluzzo, non pari a tanto
peso. E moltiplicando ogni dí i disordini, e arrivato Andrea Doria,
come soldato di Cesare, con dodici galee a Gaeta, in modo che
l'armata franzese allentò la guardia, il conte di Sarni, con mille
fanti spagnuoli, prese Sarni; cacciatine trecento fanti che vi erano
alle stanze: dipoi andato il vigesimo secondo dí di agosto, con piú
gente, di notte, a Nola, la prese. E Valerio Orsino che vi era a
guardia si ritirò nella fortezza, dicendo essere ingannato da'
paesani. E avendo mandato a Saluzzo per soccorso, gli promesse
dumila fanti. Ma scrive il Borgia che il messo, preso nello andare,
per riavere la moglie e i figliuoli che erano in Nola, fece la spia
al conte di Sarni; e che però, venendo di notte, i fanti del campo,
assaltati dalle genti di Napoli furono rotti. Altri, non facendo
menzione di questo stratagemma, dicono che i franzesi vi andorono la
notte seguente, e non la pigliorono. A' ventitré il campo, quasi
senza gente e senza governo, si sostentava solo dalla speranza della
venuta di Renzo, che ancora era all'Aquila; non desiderato piú per
pigliare Napoli né per speranza di potere resistere in quello
alloggiamento, ma solo per potersi levare sicuramente. Era morto
Valdemonte, e il marchese di Saluzzo, conte Guido, conte Ugo e
Pietro Navarra ammalati. E Maramaus uscí fuora con quattrocento
fanti per privargli in tutto delle vettovaglie, e trovato Capua
quasi abbandonata vi entrò dentro: per il che i franzesi,
abbandonato Pozzuolo, messeno la guardia che vi era in Aversa, molto
importante al campo. Ma perduta Capua e Nola restavano serrate quasi
tutte le vettovaglie, in modo che, non potendo piú sostenersi, per
ultimo partito si levorono una notte per ritirarsi in Aversa; ma
presentita dagl'imperiali, che stavano intenti a questo caso, la
levata loro, gli ruppeno nel cammino: dove fu preso Pietro Navarra e
il principe di Navarra e molti altri capi e uomini di ogni
condizione; e il marchese di Saluzzo si ritirò con una parte in
Aversa. Dove avendolo seguitato gl'imperiali, non potendo
difendersi, mandato fuori il conte Guido Rangone a parlare col
principe di Oranges, capitolò per mezzo suo con lui: di lasciare
Aversa con la fortezza, artiglierie e munizioni; restasse lui e gli
altri capitani prigioni, dal conte Guido in fuora, al quale, in
premio della concordia o per altra causa, fu consentita la libertà;
facesse il marchese ogni opera che i franzesi e i viniziani
restituissino tutto il regno; i soldati e quegli che per lo accordo
restavano liberi lasciassino le bandiere l'armi i cavalli e le robe,
concedendo però a quegli di piú qualità ronzini muli e cortialti; i
soldati italiani non servissino per sei mesi contro a Cesare. Cosí
restò tutta la gente rotta, e tutti i capitani o morti o presi nella
fuga, o nello accordo restati prigioni. Aversa fu saccheggiata dallo
esercito imperiale, che si ritirò poi a Napoli, dimandando otto
paghe; Renzo che il dí seguente si era appressato a Capua, il
principe di Melfi, lo abate di Farfa, inteso il caso, se ne andorono
in Abruzzi: il quale paese solo e qualche terra di Puglia e di
Calavria si tenevano in nome de' confederati.
Questo fine ebbe la impresa del regno di Napoli, disordinata per
molte cagioni ma condotta all'ultimo precipizio per due cagioni
principalmente: l'una, per le infermità causate in grande parte
dallo avere tagliato gli acquidotti di Poggioreale per tôrre a
Napoli la facoltà del macinare, perché l'acqua sparsa per il piano,
non avendo esito, corroppe l'aria, donde i franzesi intemperanti e
impazienti del caldo si ammalorono (aggiunsesi la peste, la
contagione della quale penetrò per alcuni infetti di peste mandati
studiosamente da Napoli nello esercito); l'altra, che Lautrech, il
quale aveva menati di Francia la maggiore parte de' capi
esperimentati nelle guerre, sperando piú che non era conveniente, né
si ricordando essergli stato di poco onore l'avere, quando era alla
difesa dello stato di Milano, scritto al suo re che impedirebbe agli
inimici il passo del fiume dell'Adda, aveva in questo assedio
scrittogli molte volte che piglierebbe Napoli. Perciò, per non fare
da se stesso falso il suo giudicio, stette ostinato a non si levare,
contro al parere degli altri capitani, che vedendo il campo pieno di
infermità lo consigliavano a ritirarlo a Capua o in qualche altro
luogo salvo; perché avendo in mano quasi tutto il regno non gli
sarebbe mancato né vettovaglie né denari, e arebbe consumato gli
imperiali a' quali mancava ogni cosa.
Lib.19, cap.5
Accordi fra i comandanti dei francesi e dei veneziani in Lombardia.
Forze e movimenti degli eserciti avversari. Perdita di Genova da
parte dei francesi. Presa e sacco di Pavia da parte dei collegati.
Non erano in questo mezzo state le cose di Lombardia senza
travaglio: perché San Polo, raccolte le genti e la provisione delle
vettovaglie, prese di là dal Po alcune terre e castella occupate
prima da Antonio da Leva, che a' tre di agosto era alla Torretta
attendendo a condurre piú vettovaglie poteva in Milano, dove non era
piú persona di conto, e in tutto lo stato erano sí strette le
ricolte che non vi era da vivere per otto mesi solamente per gli
uomini del paese; dipoi si ritirò a Marignano, non potendo anche,
per mancamento di denari, soprastare molto in quel luogo. Al quale
tempo, il duca d'Urbino era ancora a Brescia e San Polo a
Castelnuovo di Tortona: donde venuto a Piacenza si abboccorono, agli
undici dí, a Monticelli in sul Po, dove si conchiuse che gli
eserciti si unissino intorno a Lodi. Passò poi San Polo il Po presso
a Cremona, essendogli comportato tacitamente a Piacenza che avesse
barche per fare il ponte; e però Antonio de Leva, che aveva il ponte
a Casciano e a sua divozione Caravaggio e Trevi, levò il ponte e
abbandonò i luoghi di Ghiaradadda, come prima anche aveva
abbandonata Novara; ma in Pavia aveva messi settecento fanti e in
Santo Angelo cinquecento. Fu anche deliberato che il Vistarino con
seicento fanti andasse alla impresa di Casé, in su la riva del Po
dicontro a Tortona, perché impediva assai le vettovaglie.
Aveva San Polo quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri mille
cinquecento fanti tedeschi a pagamento, ma in numero, per la
negligenza di San Polo e per la fraude de' ministri suoi, molto
minore; per i quali, e per gli altri tedeschi e svizzeri che si
aspettavano, avevano convenuto i viniziani di pagare ciascuno mese a
San Polo dodicimila ducati; e in campo trecento svizzeri, pagati a
Ivrea per novecento, e tremila fanti franzesi. Avevano i viniziani
trecento uomini d'arme mille cavalli leggieri e seimila fanti, e il
duca di Milano piú di duemila fanti eletti; il Leva quattromila
tedeschi mille spagnuoli tremila italiani e trecento cavalli
leggieri. Passorono le genti de' collegati Adda (avendo, secondo
scrive l'oratore fiorentino, avuto, se il duca di Urbino avesse
voluto, grande occasione di rompere Antonio de Leva), e si unirono
a' ventidue di agosto; stando ancora fermo Antonio de Leva a
Marignano. Da quello alloggiamento mandò il duca di Urbino a Santo
Angelo tremila fanti e trecento cavalli leggieri con sei cannoni,
sotto Giovanni di Naldo, che nello accamparsi fu morto da una
artiglieria: però vi andò egli in persona, e l'ottenne. Alloggiorono
il vigesimo quinto dí di agosto a San Zenone, in sul fiume del
Lambro, propinquo a due miglia e mezzo a Marignano. A' ventisette le
genti de' collegati, passato Lambro, si accostorono a Marignano; i
quali accostandosi, gli spagnuoli si ritrassono in Marignano a uno
riparo vecchio; e dopo scaramuccia di piú ore uscirono al largo, e
si credette volessino combattere; e tirato per una ora da ogni
banda, approssimandosi già la notte, si ritirorno in Marignano e
Riozzo, e in su lo alloggiare il campo l'assaltorono bravamente. E
a' ventiotto si ritirò Antonio de Leva con tutta la gente a Milano,
i collegati a Landriano. Consultossi dipoi se fusse da tentare di
sforzare Milano: il che mentre si praticava, andò lo esercito a
Loccà con disegno di entrare in Milano per furto; che fu interrotto
da una pioggia grossa che impedí, per la trista via, andare a porta
Vercellina dove si aveva a entrare. Però, esclusi da questo disegno,
ed essendo riferito, da chi fu mandato a riconoscere Milano, non
essere riuscibile quella impresa, si deliberò di andare, per il
cammino di Biagrassa, che altro non si poteva fare, a campo Pavia;
sperando pigliarla facilmente, perché non vi erano piú di dugento
fanti tedeschi e ottocento italiani. Cosí andando a quella volta,
spinti certi fanti di là dal Tesino, fu preso Vigevano; e a' nove dí
di settembre era San Polo a Santo Alesso, a tre miglia di Pavia:
dove accostatisi l'uno e l'altro esercito, sopravenne avviso che gli
messe in maggiore disputazione.
Perché, essendo in Genova la peste grandissima e per questo
abbandonata quasi da ciascuno, eziandio quasi da tutti i soldati, e
per il medesimo pericolo Teodoro governatore ritiratosi in castello,
Andrea Doria, presa questa occasione, si approssimò alla città con
alcune galee ma, non avendo piú che cinquecento fanti, con poca
speranza di sforzarla. Ma l'armata franzese che era nel porto,
temendo non gli fusse chiuso il cammino di andarsene in Francia,
senza avere cura alcuna di Genova, si partí verso Savona; dove la
prima che arrivasse fu la galea di Barbigios: benché alcuni dichino
che Andrea Doria l'assaltò e prese sei galee, l'altre fuggirono.
Donde essendo nella città pochi soldati, se bene Teodoro fusse
tornato ad abitare nel palazzo, e il popolo, per la ingiuria della
libertà data a Savona, inimico al nome di Francia, il Doria, avuta
poca resistenza, vi entrò dentro. Fu cagione di tanta perdita la
negligenza e il troppo promettersi del re, perché non pensando che
le cose sue nel regno di Napoli cadessino sí presto, e persuadendosi
che, in ogni caso, la ritirata dell'armata a Genova e la vicinità di
San Polo bastassino a salvarla, pretermesse di farvi le provisioni
necessarie. E Teodoro, ritirato nel castello, dimandava soccorso a
San Polo, dando speranza di ricuperare la terra se gli fussino
mandati subito tremila fanti. Sopra che consultandosi tra i capitani
de' collegati, i franzesi erano disposti a andarvi subito con tutto
il campo; e il duca d'Urbino mostrava che il provedere le barche per
fare uno ponte in su Po, e il provedere le vettovaglie, era cosa piú
lunga che non ricercava il bisogno presente: però, secondo il suo
consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria dove
erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri, i quali
venivano all'esercito di San Polo; e quando pure non volessino
andare gli conducesse in campo, e in cambio loro vi si mandassino
tremila altri fanti; che intratanto si attendesse a strignere Pavia.
E i viniziani davano intenzione, eziandio in caso non si pigliasse,
soccorrere Genova con tutte le genti, purché restassino assicurati
delle cose da quella banda.
Continuossi adunque la oppugnazione di Pavia: per la quale, a'
quattordici, erano stati piantati in su il Tesino, di qua, al piano
della banda di sotto, nove cannoni a uno bastione appiccato con
l'arzanà, che in poche ore lo rovinorono quasi mezzo; e di là dal
Tesino tre cannoni, per battere, quando si desse lo assalto, uno
fianco che risponde all'arzanà; e in su uno colle di qua dal Tesino
cinque cannoni che battevano due altri bastioni, e al finire del
colle tre altri che tiravano alla muraglia: tutta artiglieria de'
viniziani. Poi l'artiglieria di San Polo che levava le difese. E il
dí seguente, Annibale castellano di Cremona si era condotto con una
trincea in su il fosso del bastione del canto dell'arzanà, che era
già giú piú che i due terzi; in modo che quegli dentro l'avevano
quasi abbandonato: il quale dí fu morto da una artiglieria Malatesta
da Sogliano condottiere de' viniziani. Cosí, continuato a battere
tutto [il] dí e la notte seguente, si preparò l'esercito per dare la
battaglia, essendo da ogni banda de' tre bastioni gittata muraglia
assai; ma volendo la mattina cavare l'acqua de' fossi, vi trovorono
uno muro sí gagliardo che vi consumorono tutto il dí ed eziandio il
dí seguente, tanto che l'assalto si prolungò insino a' dí
diciannove, essendo levata quasi tutta l'acqua. Nel quale dí,
essendo al principio della mattina stato preso il bastione del
canto, si cominciò a dare l'assalto; del quale, essendo divisa la
gente in tre parti, toccava il primo assalto a Antonio da Castello
con le genti de' viniziani, il secondo a Lorges con quelle di San
Polo, l'ultimo al castellano con le genti di Milano, che (secondo il
Cappella) erano mille dugento fanti; e il duca d'Urbino si messe a
piede con dugento uomini d'arme e affrontò i bastioni, che si
difeseno piú di due ore. Scrive il Cappella che dentro non erano piú
che dugento tedeschi e ottocento italiani, che benché si portassino
egregiamente, pure, per il poco numero, si difendevano con
difficoltà. Ma il Martello scrive che dentro erano prima dumila
fanti, e che di piú, a' diciotto, all'apparita del dí, vi entrorono
cinquecento archibusieri eletti, in modo che fu difesa bravamente;
ma l'artiglieria piantata di là dal Tesino strisciava tutti i loro
ripari. E scrive il Cappella che e' fu ferito in una coscia, d'uno
scoppio, Pietro da Birago che morí fra pochi dí, che non volle
essere levato di terra acciò che i suoi non abbandonassino la
battaglia; e fu ferito anche di scoppio Pietro Botticella, che si
partí dalla battaglia: capitani tutt'e due del duca di Milano.
Finalmente, a ore ventidue, si entrò dentro con poco danno, e con
laude grande (secondo il Martello) del duca d'Urbino; e il Cappella
scrive, con laude grande del Pizinardo. E scrive il Martello che di
quegli di dentro furono ammazzati da seicento in ottocento, tra'
quali quasi tutti i tedeschi (che erano quattrocento) che erano
stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che, innanzi si entrasse,
mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta del
castello, furno rotti da' cavalli. Ma cominciato a entrare dentro
l'esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della
terra si ritirò in castello. La città tutta andò a sacco, poco utile
per i due sacchi precedenti. Il castello si accettò a patti, perché
era necessario batterlo e in campo non era munizione, e i fossi
larghissimi e profondissimi da non si riempiere sí presto, e dentro
rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti furono che gli
spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con
l'artiglierie e munizioni che e' potessino tirare a braccia e ogni
loro arnese, avessino facoltà, insieme co' tedeschi che erano
restati pochissimi, di andarsene a Milano; e gl'italiani, in ogni
luogo fuora che Milano.
Lib.19, cap.6
Proposito di San Polo di provvedere alle sorti di Genova.
Provvedimenti del de Leva ritornato in Milano. Fallimento
dell'impresa di San Polo; resa di Savona e del Castelletto di
Genova. Mutamento del governo in Genova; azione per togliere le
fazioni nella cittadinanza. Scontri fra le navi del Doria e quelle
francesi; dispareri fra i collegati. Mutamento di dominio nel
marchesato di Saluzzo. Vani tentativi dei francesi contro Andrea
Doria. Fazioni di guerra in Lombardia. Manifestazioni
dell'inclinazione del pontefice per Cesare.
Presa Pavia, consigliò il duca d'Urbino che non si pensasse a
sforzare Milano, perché bisognava esercito bastante a due batterie,
ma per fargli danno grande si pigliasse Biagrassa, San Giorgio,
Moncia e Como, e che si attendesse al soccorso di Genova: perché se
bene i tedeschi e svizzeri avevano risposto a Montigian di volere
andare a Genova, nondimeno i tedeschi, per non essere pagati, se ne
andorono a Ivrea; in modo che non si era mandato soccorso alcuno al
Castelletto, dove Andrea Doria minava sollecitamente. Però San Polo,
che era restato con cento lance e dumila fanti, partí a' ventisette
alla volta di Genova, passando il Po a Portostella in bocca del
Tesino, al cammino di Tortona; promettendo di ritornare indietro se
intendesse il soccorso essere non riuscibile, e che il duca d'Urbino
l'aspettasse in Pavia; al quale erano restati quattromila fanti. Ma
con le genti viniziane andavano sempre dumila fanti del duca di
Milano; ed erano anche in Savona mille fanti de' franzesi, ma senza
denari.
E Antonio de Leva, ritirato in Milano, proibí allora che alcuno non
potesse fare pane in casa o tenervi farina, eccetto i conduttori di
quello dazio; i quali gli pagorono, nove mesi continui, per ogni
moggio di farina tre ducati: co' quali denari pagò, tutto quello
tempo, i cavalli e i fanti spagnuoli e i tedeschi. Il che non solo
lo difese dal pericolo presente ma lo sostenne tutta la vernata
futura, avendo alloggiati i fanti italiani a Novara e in alcune
terre di Lomellina e per le ville del contado di Milano; ne' quali
luoghi comportò che tutta la vernata predassino e taglieggiassino.
Giunse, al primo d'ottobre, San Polo a Gavi, lontano venticinque
miglia da Genova, lasciata l'artiglieria a Novi, e il seguente prese
la rocca del Borgo de' Fornari; e fattosi piú innanzi verso Genova,
dove erano entrati settecento fanti corsi, si ritornò al Borgo de'
Fornari; non si trovando in tutto, per mancamento di denari,
quattromila fanti, tra i suoi quegli condotti da Montigian e mille
che erano stati mandati dal campo con Niccolò Doria; e quegli pochi
che gli erano restati continuamente passavano in Francia. Però
(potendo dire a imitazione di Cesare, ma per contrario, Veni vidi
fugi) mandò Montigian con trecento fanti a Savona, dove i genovesi
erano a campo; ma non vi poterono entrare, perché era serrata con le
trincee e presi attorno tutti i passi. Ritirossi, a' dieci dí
d'ottobre, in Alessandria e dipoi a Senazzara tra Alessandria e
Pavia, ad abboccarsi col duca di Urbino, ma restato quasi senza
gente: dove consultando le cose comuni, il duca, dimostrando che
tra' viniziani e il duca di Milano non erano restati quattromila
fanti, e che Antonio de Leva aveva tra Milano e fuori quattromila
tedeschi seicento spagnuoli e mille quattrocento italiani, si
risolvé di ritirarsi in Pavia e che San Polo si ritirasse in
Alessandria, che gli fu conceduta dal duca di Milano; ragionando di
soldare tutti nuovi fanti, e poi, se i tempi servissino, fare la
impresa di Biagrassa, di Mortara e del castello di Novara. Succedé
che, a' ventuno di ottobre, [Savona], veduto che Montigian non vi
era potuto entrare, s'arrendé in caso che fra certi dí non fusse
soccorsa. Però San Polo, desideroso di soccorrerla ma avendo da sé
in tutto mille fanti, dimandò tremila fanti al duca d'Urbino e al
duca di Milano; i quali gliene mandorono milledugento, in modo la
lasciò perdere. E il Castelletto di Genova si arrendé per la fame:
il quale acquistato fu spianato da' genovesi, e pieno di sassi il
porto di Savona, per renderlo inutile.
I quali, con la autorità di Andrea Doria, stabilirono in quella
città uno governo nuovo, trattato prima, sotto nome di libertà; la
somma del quale fu che da uno consiglio di quattrocento cittadini si
creassino tutti i magistrati e degnità della loro città, e il doge
principalmente e il supremo magistrato, per tempo di due anni;
levata la proibizione a' gentiluomini, che prima per legge ne erano
esclusi. Ed essendo il fondamento piú importante a conservare la
libertà che si provedesse alle divisioni de' cittadini, le quali vi
erano state lungamente maggiori e piú perniciose che in altra città
di Italia (con ciò sia che non vi fusse una divisione sola, ma la
parte de' guelfi e l'opposita de' ghibellini, quella tra i
gentiluomini e i popolari, né anche i popolari tra loro di una
medesima volontà, e la fazione molto potente tra gli Adorni e i
Fregosi; per le quali divisioni si poteva credere che quella città,
opportunissima per il sito e per la perizia delle cose navali allo
imperio marittimo, fusse stata depressa e molto tempo in quasi
continua soggezione), però per medicare dalle radici questo male,
spenti tutti i nomi delle famiglie e de' casati della città, ne
conservorono solamente il nome di ventotto delle piú illustri e piú
chiare, eccettuate l'Adorna e la Fregosa, che del tutto furono
spente. A' nomi e al numero delle quali famiglie aggregorono tutti
quegli gentiluomini e popolari che restavano senza nome di casato;
avendo rispetto, per confondere piú la memoria delle fazioni, di
aggregare de' gentiluomini nelle famiglie popolari, de' popolari
nelle famiglie de' gentiluomini, de' seguaci stati degli Adorni
nelle case che avevano seguitato il nome Fregoso, e cosí, per
contrario, de' Fregosi in quelle che erano state seguaci degli
Adorni: ordinato ancora che tra loro non fusse distinzione alcuna di
essere proibiti, piú questi che quegli, agli onori e a' magistrati.
Con la quale confusione degli uomini e de' nomi speravano conseguire
che, in progresso di non molti anni, si spegnesse la memoria
pestifera delle fazioni: restando in quel mezzo tra loro grandissima
l'autorità di Andrea Doria; senza il consenso del quale, per la
riputazione dell'uomo, per l'autorità delle galee che aveva da
Cesare (che ne' tempi che non andavano alle fazioni dimoravano nel
porto di Genova), e per l'altre sue condizioni, non si sarebbe fatto
deliberazione alcuna di quelle piú gravi; essendo manco molesto la
potenza e grandezza sua, perché per ordine suo non si amministravano
le pecunie, non si intrometteva nella elezione del doge e degli
altri magistrati e nelle cose particolari e minori. In modo che i
cittadini, quieti e intenti piú alle mercatanzie che alla ambizione,
ricordandosi massime de' travagli delle suggezioni passate, avevano
cagione di amare quella forma di governo.
Appiccoronsi poi l'armata franzese e quella di Andrea Doria tra
Monaco e Nizza, dove una galea del Doria fu messa in fondo.
Abboccoronsi, perduta Savona, di nuovo il duca di Urbino e San Polo
a Senazé, tra Alessandria e Pavia; dove il duca, con poca
sodisfazione di Francesco Sforza e di San Polo, risolvé di andarsene
di là da Adda, lasciando al duca di Milano la guardia di Pavia e
confortando San Polo a fermarsi quella vernata in Alessandria. Delle
quali cose non solo si sodisfaceva poco a' ministri, ma ancora il re
di Francia, non accettando alcune scuse leggiere dategli da'
viniziani, si lamentava sommamente che i viniziani non avessino dato
soccorso al Castelletto di Genova e alla città di Savona; la quale i
genovesi sfasciavano, e avevano anche preso Vitadé e Gavi. Venneno
dipoi a San Polo mille fanti tedeschi; co' quali, computati mille
fanti che aveva Valdicerca in Lomellina, si trovava quattromila
fanti.
Ed era anche nato nuovo tumulto nel marchesato di Saluzzo. Perché
avendone preso, dopo la morte del marchese Michele Antonio, il
dominio Francesco monsignore suo fratello, che era entrato dentro,
perché Gabriello secondogenito, eziandio vivente il fratello
maggiore, era stato tenuto prigione nella rocca di Ravel, per ordine
della madre che in puerizia aveva governato i figliuoli, sotto
titolo che e' fusse quasi mentecatto, il castellano di Ravel lo
liberò; però, presa la madre che lo teneva prigione, acquistò,
accettato da' popoli, tutto lo stato, del quale fuggí il fratello;
che poco dipoi entrò in Carmignuola, e raccolte genti roppe poco di
poi il fratello.
Non si fece piú in questo anno cosa di momento in Lombardia, se non
che il conte di Gaiazzo scorse insino a Milano. Ma i viniziani non
davano i fanti promessi a San Polo, per la impresa di Sarravalle,
Gavi e altri luoghi del genovese. Tentossi bene una fazione
importante, perché Montigian e Villacerca, con dumila fanti e
cinquanta cavalli, partirno a ore ventidue da Vitadé, per pigliare
Andrea Doria nel suo palazzo; il quale, posto accanto al mare, è
quasi contiguo alle mura di Genova. Non ebbe effetto, perché i
fanti, stracchi per la lunghezza del cammino che è ventidua miglia,
non arrivorno di notte ma che già era qualche ora di dí: però,
essendosi levato il romore, Andrea Doria, dalla banda di dietro
saltato in su una barca, campò il pericolo; e i franzesi, non fatto
altro effetto che saccheggiato il palazzo, salvi tornorono indietro.
E il conte di Gaiazzo, fatta una imboscata tra Milano e Moncia,
roppe cinquecento tedeschi e cento cavalli leggieri che andavano per
fare scorta a vettovaglie; benché di poi, mandato da loro a Bergamo,
afflisse con le ruberie in modo quella città che il senato
viniziano, il quale l'aveva fatto capitano generale delle fanterie
sue, non potendo piú tollerare tanta insolenza e avarizia lo rimosse
ignominiosamente dagli stipendi suoi. Nel quale tempo gli spagnuoli
anche preseno la terra di Vigevano. Ma sopravvenneno in quel di
Genova dumila fanti spagnuoli, che a' venticinque di dicembre erano
al Borgo de' Fornari, mandati di Spagna da Cesare per difendere
Genova o per andare a Milano, secondo fusse di bisogno. A' quali per
condurgli andò, per ordine di Antonio de Leva, il Belgioioso, che
era fuggito di mano de' franzesi; e il quale, pochi dí innanzi, si
era presentato una notte con dumila fanti e qualche artiglieria a
Pavia, dove non erano piú che cinquecento fanti del duca di Milano,
ma la cosa fu presentita, però si era ritirato senza frutto.
Preparavasi San Polo per impedire la venuta di questi fanti, i quali
accennavano fare il cammino o di Casé o di Piacenza, e instava che
le genti viniziane si facessino forti a Lodi perché da Milano non
fusse fatto loro spalle; e cercava anche persuadergli a fare
comunemente la impresa di Milano (la quale il duca di Urbino
dissuadeva), dove era carestia e tutte le calamità. Ma procedevano i
viniziani freddi per l'ordinario alle fazioni gagliarde, ma in
questo tempo molto piú, perché per le relazioni di Andrea Navaiero,
che era tornato loro oratore di Spagna, fatte in favore di Cesare, e
per qualche pratica che si teneva in Roma con l'oratore cesareo,
erano vari pareri nel loro senato, inclinandosi molti a concordare
con Cesare: pure finalmente fu risoluto continuare la confederazione
col re di Francia. Nel quale tempo il Torniello, passato Tesino con
dumila fanti, prese Basignana, e andava verso Lomellina; e l'abate
di Farfa, andato a Crescentino, luogo del ducato di Savoia, co' suoi
cavalli, fu di notte rotto e fatto prigione, ma liberato per opera
della marchesa di Monferrato; e il marchese di Mus roppe alcune
genti di Antonio de Leva e tolse loro le artiglierie.
Dubitavasi ancora che il pontefice non inclinasse alle parti di
Cesare; perché il cardinale di Santa Croce arrivato a Napoli fece
liberare i tre cardinali che erano statichi quivi, e si diceva che
aveva commissione da Cesare di fare restituire Ostia e
Civitavecchia; per opera del quale, avendone supplicato al
pontefice, Andrea Doria restituí Portoercole a' sanesi. Ma si
scopriva l'animo del pontefice a cose nuove: perché per opera sua,
benché occultamente, Braccio Baglione molestava nelle cose di
Perugia Malatesta, benché fusse agli stipendi suoi; e inteso il duca
di Ferrara essere venuto a Modena, tentò di pigliarlo nel ritorno a
Ferrara, con uno agguato di dugento cavalli, fatto da Paolo Luzasco
alla casa de' Coppi nel modonese: ma non essendo quel dí partito il
duca, la cosa si scoperse.
Lib.19, cap.7
Provvedimenti dei collegati per continuare la guerra nel regno di
Napoli; atti di terrore ed esazioni del principe d'Oranges; fazioni
di guerra. Indizi di disposizione alla pace; riconquiste del
principe d'Oranges negli Abruzzi. Promesse del pontefice ai
collegati e sue trattative con Cesare. Posizione degli eserciti in
Puglia. Vani tentativi degli imperiali contro Monopoli. Nuove
fazioni di guerra.
Ma in questo tempo il reame napoletano non era perciò, per la rotta
de' franzesi, liberato interamente dalle calamità della guerra.
Perché Simone Romano, raccolte di nuovo genti, aveva preso Nola,
Oriolo e Amigdalara, poste in sul mare nel braccio dello Apennino; e
unitosi con lui Federico Caraffa, mandato dal duca di Gravina con
mille fanti e molti altri del paese, aveva esercito non contennendo:
ma dopo la vittoria degli imperiali intorno a Napoli, abbandonato
dalle genti del duca di Gravina, saccheggiata Barletta (nella quale
città fu intromesso per la rocca), si fermò quivi; tenendosi nel
tempo medesimo per i viniziani Trani guardato da Cammillo, e
Monopoli guardato da Giancurrado, tutt'a due della famiglia degli
Orsini. Vennonvi poi Renzo da Ceri e il principe di Melfi con mille
fanti; i quali, essendosi ridotti tra Nocera e Gualdo, e dipoi
partitisi per comandamento del pontefice (il quale non voleva
offendere l'animo de' vincitori), imbarcatisi a Sinigaglia, si
condussono per mare a Barletta, con intenzione di rinnovare la
guerra in Puglia; cosa deliberata con consentimento comune de'
collegati, perché l'esercito imperiale fusse necessitato a fermarsi
nel regno di Napoli insino alla primavera: al quale tempo si
ragionava di fare per la salute comune nuove provisioni. Però il re
di Francia mandò a Renzo soccorso di danari; e i viniziani,
desiderando il medesimo, eziandio per ritenere piú facilmente con
gli aiuti degli altri le terre occupate nella Puglia, offerivano di
accomodarlo di dodici galee, ma instando che essi le armassino, e
che la spesa si computasse negli ottantamila ducati a' quali erano
tenuti per la contribuzione promessa a Lautrech, non udivano; e il
re di Inghilterra prometteva di non mancare delle provisioni
ordinarie, e i fiorentini si erano composti di pagare la terza parte
delle genti vi aveva condotte Renzo. Non erano pronti a estinguere
questo incendio gli imperiali, occupati in esigere de' danari, per
sodisfare a' soldati de' pagamenti decorsi: le quali esazioni per
fare piú facili, e per assicurare il reame con gli esempli della
severità, fece il principe di Oranges decapitare publicamente in
sulla piazza del mercato di Napoli, dove era la peste grande,
Federigo Gaetano figliuolo del duca di Traietto ed Enrico Pandone
duca di Boviano nato di una figliuola di Ferdinando vecchio re di
Napoli, e quattro altri napoletani; usando ancora simili supplíci in
altri luoghi del regno. Col quale esempio spaventati gli animi di
ciascuno, procedendo contro agli assenti che avevano seguitato i
franzesi, e confiscando i loro beni, gli componevano poi in danari;
non pretermettendo acerbità alcuna per esigerne maggiore quantità
potessino. Le quali cose tutte si trattavano da Ieronimo Morone, al
quale in premio delle opere sue fu donato il ducato di Boviano.
Aggiunsesi a questi movimenti che nello Abruzzi Giaiacopo Franco
entrò per il re di Francia nella Matrice, che è vicina alla Aquila:
per il che tutto il paese era sollevato, e nella Aquila si stava con
sospetto; dove era Sciarra Colonna, ammalato, con seicento fanti.
Provedevano anche i viniziani le cose di Puglia, e mandando per mare
alcuni cavalli leggieri per fornire Barletta dettono a traverso in
parte della spiaggia di Barletta e di Trani, dove il proveditore
loro annegò, che era montato in su uno battello; i cavalli, de'
quali era capo Giancurrado Orsino, maltrattati detteno nelle mani
degl'imperiali; e Giampaolo da Ceri, che roppe presso al Guasto,
restò prigione del marchese. Dettesi, nella fine dell'anno, l'Aquila
alla lega, per opera del vescovo di quella città e del conte di
Montorio e d'altri fuorusciti; a che dette causa l'essere
maltrattata dagl'imperiali.
Seguita l'anno mille cinquecento ventinove; nel principio del quale
cominciò ad apparire qualche indizio di disposizione, da qualunque
parte, alla pace; dimostrando di volerla trattare appresso al
pontefice: perché sapendosi che il cardinale di Santa Croce (cosí
era il titolo del generale spagnuolo) andava a Roma con mandato di
Cesare a potere conchiudere la pace, il re di Francia che ne aveva
sommo desiderio spedí il mandato agl'imbasciadori suoi, e il re di
Inghilterra mandò imbasciadori a Roma per la medesima cagione. Le
quali pratiche, aggiunte alla stracchezza de' príncipi, facevano che
i collegati alle provisioni della guerra procedevano lentamente.
Perché e in Lombardia era il maggiore pensiero se gli spagnuoli,
venuti a Genova, arebbeno facoltà di passare a Milano (donde per
mancamento, di denari erano partiti quasi tutti i tedeschi); a'
quali condurre andato il Belgioioso con cento cavalli insino a Casé,
passò di quivi sconosciuto a Genova, donde condusse i fanti a Savona
per raccôrre cinquecento fanti venuti di nuovo di Spagna e sbarcati
a Villafranca. Ma nel regno di Napoli, dubitando gli imperiali che
la rebellione dell'Aquila e della Matrice, e la testa fatta in
Puglia, non partorissino cosa di maggiore momento, deliberorno
voltare alla espugnazione di quegli luoghi le genti che aveano: però
fu deliberato che 'l marchese del Guasto andasse co' fanti spagnuoli
alla recuperazione delle terre di Puglia, e il principe co' fanti
tedeschi andasse alla recuperazione dell'Aquila e della Matrice. Il
quale come si accostò all'Aquila, quegli che erano nell'Aquila se ne
uscirono, e Oranges compose la città e tutto il suo contado in
centomila ducati; tolta ancora la cassa di argento, la quale Luigi
decimo re di Francia aveva dedicata a san Bernardino. Di quivi mandò
gente alla Matrice, dove era Cammillo Pardo con quattrocento fanti,
che se ne era uscito prima con promessa di tornare; ma o temendo
perché non vi era vino e tolto l'acqua, e discordia tra la terra e i
fanti, o per altra cagione, non solo non vi tornò ma non mandò anche
loro tutti i denari che gli mandorono i fiorentini per sostentare
quel luogo: però i fanti se ne uscirono per le mura, e la terra si
arrendé. E si temeva che Oranges non passasse in Toscana a instanza
del pontefice.
In quale, riconvaluto di pericolosissima benché breve infermità, non
desisteva di trattare e di dare speranza a ciascuno. Perché a'
franzesi prometteva aderire alla lega se gli era restituita Ravenna
e Cervia, componendo eziandio con oneste condizioni co' fiorentini e
col duca di Ferrara; il quale, nel pagamento de' danari a Lautrech,
aveva affermato pagargli per sua liberalità non già perché fusse
obligato, non avendo il pontefice ratificato. Da altra parte, avendo
recuperato, benché con grossi beveraggi, per la commissione portata
dal cardinale di Santa Croce, le fortezze di Ostia e di
Civitavecchia, aveva pratiche piú occulte e piú fidate con Cesare;
trattando piú insieme le cose particolari che le universali della
pace: le quali cominciavano ad avere piú secreto e piú fondato
maneggio per altre mani, perché, di febbraio, uno uomo di madama
Margherita venuto in Francia, parlato che ebbe al re, passò in
Spagna.
Ma in Puglia questo era lo stato delle cose. Tenevasi Barletta per
il re di Francia, nella quale era Renzo da Ceri, e con lui il
principe di Melfi, Federico Caraffa, Simone Romano, Cammillo Pardo,
Galeazzo da Farnese e Giancurrado Orsino e il principe di Stigliano.
Tenevano i viniziani Trani, Pulignano e Monopoli, avendo in questi
luoghi dumila fanti e secento cappelletti, de' quali ne erano in
Monopoli dugento. Tenevano anche il porto di Biestri. Ma a queste
genti il re di Francia, mandata che ebbe da principio piccola
quantità di danari, non faceva alcuna provisione, né aveva accettati
i corpi delle dodici galee offertigli da' viniziani; de' quali si
roppono, nella spiaggia di Bestrice, tre galee e una fusta grossa,
che andavano a provedere di vettovaglie Trani e Barletta: ma in piú
volte n'aveano perdute cinque, ma ricuperata l'artiglieria e gli
altri armamenti. Tenevasi ancora per i franzesi il monte di Santo
Angelo, Nardoa in terra di Otranto e Castro, dove era il conte di
Dugento, e facendo la guerra con gli uomini del regno e con le forze
del paese, erano adunati in vari luoghi molti rebelli di Cesare e
molti che seguitavano come soldati di ventura la guerra solamente
per rubare; donde era piú che non si potrebbe credere miserabile la
condizione del paese, sottoposto tutto a ruberie a prede a taglie e
incendi da ciascuna delle parti. Ma piú che di altri erano famose le
incursioni di Simone Romano, il quale, correndo co' suoi cavalli
leggieri e con dugento cinquanta fanti per tutti i luoghi
circostanti, conduceva spesso in Barletta bestiami frumenti e altre
cose di ogni sorte; talvolta, uscendo con maggiore numero di fanti,
ora per furto ora per forza saccheggiava questa e quell'altra terra:
come accadde di Canosa, nella quale terra entrato di notte con le
scale la svaligiò, e menonne molti cavalli di quaranta uomini d'arme
alloggiati nel castello. Finalmente il marchese di Guasto, non
tentata Barletta terra fortissima e bene fortificata, si pose, del
mese di marzo, a campo a Monopoli con quattromila fanti spagnuoli e
dumila fanti italiani, perché i tedeschi, in numero dumila
cinquecento, fermatisi nell'Abruzzi recusorono di andare in Puglia;
e alloggiò in una valletta coperta dal monte, in modo non poteva
essere offeso dalle artiglierie della terra: nella quale Renzo mandò
subito, in sulle galee, trecento fanti.
Ha Monopoli, terra di circuito piccolissimo, il mare da tre bande, e
di verso la terra è la muraglia di trecento o trecento cinquanta
passi, col fosso intorno. A rincontro della muraglia fece il
marchese uno bastione vicino a uno tiro di archibuso, e due altri in
sul lito del mare, uno da ogni parte; ma questi tanto lontani che
battevano il mare e la porta di verso il mare, per impedire che le
galee non vi mettessino soccorso o vettovaglia. Dette, di aprile, il
Guasto l'assalto a Monopoli; dove, secondo gli avvisi di Barletta,
perdé piú di cinquecento uomini e molti guastatori, e rotti tre
pezzi di artiglieria; e si discostò uno miglio e mezzo: perché i
viniziani, usciti fuora, scorseno tutti i bastioni suoi, ammazzando
piú di cento uomini; e l'artiglieria della terra gli danneggiava
assai, e avevano assicurato il porto con uno bastione fatto in su il
lito a rincontro del suo. E perché i viniziani non bastavano a
guardare quello e l'altre terre, Renzo aveva mandato gente a
Monopoli; e una delle due galee loro che andavano a Monopoli con
fanti e vettovaglie si roppe in porto.
Accostossi di nuovo il Guasto a Monopoli (dove era Cammillo Orsino e
Giovanni Vitturio proveditore), dove faceva due cavalieri per
battere per di dentro, e trincee per condursi in su' fossi e
riempiergli con seicento carra di fascine (ma poco poi, usciti di
Monopoli dugento fanti, abbruciorno il bastione o cavaliere di
mezzo); e accostatosi con una trincea al diritto della batteria, e
fatta una altra trincea al diritto degli alloggiamenti spagnuoli,
lontana al fosso uno tiro di mano, e dietro a quella fortificato uno
bastione, vi piantò su l'artiglieria, e batté sessanta braccia di
muro, a quattro braccia da terra vel circa. Ma inteso che la notte
vi era entrato Melfi, con genti mandate da Renzo, ritirò
l'artiglieria; e finalmente, essendo la fine di maggio, ne levò il
campo.
Seguitorono, e mentre stava il campo a Monopoli e dopo la ritirata,
varie fazioni e movimenti; perché e quegli di Barletta facevano
prede e danni grandissimi e i fanti che erano nel monte di Santo
Angelo, de' quali era capo Federico Caraffa, presono San Severo e,
soccorsa la terra di Vico, costrinsono gli imperiali a levarne il
campo. Andò poi il Caraffa per mare con ventisei vele a Lanciano,
dove erano alloggiati cento sessanta uomini d'arme; ed entratovi per
forza ne menò trecento cavalli da fazione e molta preda, non vi
lasciato alcuno presidio. Facevano anche molti fuorusciti danni
grandissimi in Basilicata. Per le quali difficoltà si impediva molto
agli imperiali l'esigere le imposizioni: né è dubbio, che se il re
di Francia avesse mandato danari e qualche soccorso, che sariano per
tutto il regno succeduti nuovi travagli, per i quali sarebbe stato
almeno implicato l'esercito cesareo alla difesa delle cose proprie.
Ma non potevano finalmente genti tumultuarie e collettizie, e senza
soccorso o rinfrescamento alcuno (perché soli i fiorentini davano a
Renzo qualche sussidio), fare cose di momento grande (anzi il duca
di Ferrara denegò a Renzo di mandargli per mare quattro pezzi di
artiglierie); perché in Barletta cominciava a mancare frumento e
danari; e circa secento rebelli assediati dal viceré della provincia
in Monte Lione, necessitati ad arrendersi per non avere né munizioni
né vettovaglie, furno condotti prigioni a Napoli. Andorono dipoi il
principe di Melfi con l'armate, e Federico Caraffa per terra, a
campo a Malfetta, terra già del principe; dove Federico combattendo
fu ammazzato da uno sasso: donde il principe sdegnato, sforzata la
terra, la saccheggiò. Simile infortunio accadde a Simone Romano:
perché essendo l'armata viniziana, la quale da Cavo di Otranto
infestava tutto il paese, accostatasi a Brindisi, e poste genti in
terra, dove anche era Simone Romano, occuporono la città; ma
combattendo la rocca, Simone fu morto di una artiglieria.
Lib.19, cap.8
Fazioni di guerra in Lombardia; accordi fra i collegati; arrivo di
fanti spagnuoli dal genovese ad Antonio de Leva. Aspirazioni del
pontefice su Perugia; timori di Malatesta Baglione e suoi accordi
coi fiorentini e coi francesi. Intrighi del pontefice contro il duca
di Ferrara. Il pontefice fa bruciare la bolla con cui accordava il
divorzio al re d'Inghilterra; disgrazia e morte del cardinale
eboracense.
Ma in Lombardia, di marzo, San Polo prese per forza Serravalle, e la
fortezza si accordò di stare neutrale. Ma essendovi gli inimici
rientrati di notte di furto, si temeva non potere piú impedire agli
spagnuoli il cammino per Milano, massime che ogni dí gli diminuivano
le genti per mancamento di denari; avendone pochi dal re, e di
quegli, come capitano di pochissimo governo, spendendone una parte
per sé (che diceva esserne creditore del re) un'altra parte fraudata
da' ministri. Disputavasi tra il re e i viniziani quale impresa
fusse da fare, e il re instava di Genova, per la importanza di
quella città, massime affermandosi già per cosa certa che Cesare
passerebbe la state prossima in Italia, e perché il re, veduto i
viniziani non l'avere mai aiutato né a soccorrere né a recuperare
quella città, non ostante si fussino escusati allegando essere stato
rumore della venuta in Italia di nuovi tedeschi, dubitava non fusse
molesta loro la vittoria di quella impresa: ma i viniziani,
allegando essere restata a Antonio de Leva pochissima gente, e
offerendo, acquistato che fusse Milano, mandare le genti alla
espugnazione di Genova, si deliberò fare, con suo consentimento, la
impresa di Milano con sedicimila fanti, provedendo ciascuno alla
metà. Fu questa deliberazione fatta di marzo, e assente il duca di
Urbino; il quale, per l'essersi approssimati a' confini del regno il
principe di Oranges e i fanti tedeschi, si era, quasi contro alla
volontà de' viniziani, ridotto nel suo stato: ma i viniziani lo
condussono di nuovo, con le condizioni medesime le quali aveano
prima ottenute da loro il conte di Pitigliano e Bartolommeo
d'Alviano, e gli mandorono trecento cavalli e tremila fanti per sua
difesa, come erano tenuti: e detteno il titolo di governatore a
Ianus Fregoso. Erano nell'esercito viniziano secento uomini d'arme
mille cavalli leggieri e quattromila fanti, benché fussino obligati
a tenerne dodicimila; il quale esercito prese, il sesto dí di
aprile, Casciano per forza e la rocca a discrizione: e Antonio de
Leva e il Torniello, usciti di Milano per divertire, vi si
ritirorono. Succedette la passata de' fanti spagnuoli, che erano
mille dugento, del genovese a Milano; per impedire la quale si erano
fatte tante pratiche e tante consulte. Perché, avendo creduto San
Polo e i viniziani che e' tentassino di passare per il tortonese e
lo alessandrino, partiti da Voltaggio, preseno, per ordine del
Belgioioso, cammino piú lungo per la montagna di Piacenza e luoghi
sudditi alla Chiesa; ed essendo venuti a Varzi nella montagna
predetta, non ostante che San Polo inviasse in là centocinquanta
cavalli, e desse avviso del cammino loro a Lodi e alle genti de'
viniziani (i quali, per ovviare, mandorono parte delle loro genti al
duca di Milano, ma piú tardi uno giorno di quello che era necessario
e minore numero di quelle che avevano promesso), passorono di notte
il Po ad Arena, serviti di navi di Piacenza (né si poteva piú
ovviare l'unione loro col Leva, che per facilitarla era venuto a
Landriano, dodici miglia da Pavia); e condottisi a Milano, essendo
sí poveri d'ogni cosa che si conveniva loro il nome di bisognoso,
accrebbeno le calamità de' milanesi, spogliandogli insino per le
strade. Cosí restorono vani i disegni de' franzesi e de' viniziani,
di tutta la vernata, che erano stati di impedire la passata di
questi fanti, pigliare Gavi e i luoghi circostanti per conto di
Genova, e Case, che faceva danno grande a tutto il paese. Prese
ancora Antonio de Leva a patti Binasco. Ma l'essere stati gli
spagnuoli accomodati di barche da Piacenza, e il credersi che non si
sarebbeno mossi se non avessino avuto certezza di potere in caso di
necessità ritirarsi in quella città, aggiunto a molti altri indizi,
accresceva a' collegati il sospetto (e massime veduta la
restituzione delle fortezze) che il pontefice non fusse accordato o
per accordare con Cesare.
Il quale avendo volto, benché occultamente, tutti i suoi pensieri a
ricuperare lo stato di Firenze, se bene aggirando gli oratori
franzesi tenesse varie pratiche e proponesse varie speranze, a loro
e agli altri confederati, di accostarsi alla lega, nondimeno, parte
movendolo il timore della grandezza di Cesare e la prosperità de'
suoi successi, parte lo sperare di indurre piú facilmente lui che
non arebbe indotto il re di Francia ad aiutarlo a rimettere i suoi
in Firenze, desiderava estremamente, per facilitare questo disegno,
tirare a sua divozione lo stato di Perugia: però si credeva che
fomentasse Braccio Baglione e Pirro, che tutto dí tentavano nuovi
travagli in quegli confini. Per il quale sospetto Malatesta,
dubitando che mentre stava a' soldi suoi non avesse a essere
oppresso con il suo favore, gli pareva necessario cercarsi di altra
protezione. E però, mosso o da questa cagione o da cupidità di
maggiori partiti, o dall'odio antico, negava di ricondursi seco,
pretendendo non essere tenuto all'anno del beneplacito, perché
diceva non apparirne scrittura, benché il pontefice affermasse che
gli era obligato: però trattando di condursi col re di Francia e co'
fiorentini, e lamentandosi eziandio di pratiche tenute dal cardinale
di Cortona contro a lui, e di una lettera, che aveva intercetta, del
cardinale de' Medici a Braccio Baglione. Ma il pontefice, volendo
per indiretto interrompere questa condotta, proibí per editti
publici che niuno suo suddito pigliasse senza sua licenza soldo da
altri príncipi, sotto pena di confiscazione. Nondimeno, non restò
per questo Malatesta di condursi. Al quale i franzesi si obligorono
di dare dugento cavalli, dumila scudi di provisione, l'ordine di San
Michele e dumila fanti in tempo di guerra; e i fiorentini gli
detteno titolo di governatore, dumila scudi di provisione, mille
fanti in tempo di guerra, cinquanta cavalli al figliuolo suo e
cinquanta al figliuolo di Orazio, e cinquecento scudi per il piatto
di tutti due; preseno la protezione del suo stato e di Perugia; e
tra il re di Francia e loro cento scudi il mese a tempo di pace, per
intrattenere dieci capitani. Pagavongli i fiorentini anche dugento
fanti per guardare Perugia; ed egli obligato, ne' bisogni loro, di
andare a servirgli con mille fanti soli, non avendo eziandio le
genti promesse da' franzesi. Querelossi molto appresso al re di
Francia il pontefice di questa condotta, come fatta direttamente per
impedirgli di potere disporre a suo arbitrio d'una città suddita
alla Chiesa. L'animo del quale non volendo il re offendere,
differiva il ratificarla; e il pontefice per questo sperando di
poterne rimuovere Malatesta, lo persuadeva che continuasse l'anno
del beneplacito, e nel tempo medesimo fomentava occultamente Braccio
Baglione, Sciarra Colonna e i fuorusciti di Perugia, i quali
raccogliendo gente si erano accampati a Norcia: cose tutte vane,
perché Malatesta era deliberato non continuare negli stipendi del
pontefice; e aiutandolo scopertamente i fiorentini, non temeva di
questi movimenti: i quali conoscendo il pontefice non bastare alla
sua intenzione, presto cessorono. Non lasciava anche il pontefice
stare quieto il duca di Ferrara, tanto alieno dalle convenzioni
fatte in nome del collegio de' cardinali con lui che, essendo vacato
di nuovo il vescovato di Modona per la morte del cardinale da
Gonzaga, promesso al figliuolo del duca in quella convenzione, lo
conferí a uno figliuolo di Ieronimo Morone; cercando, per la
denegazione del possesso, occasione di provocargli contro questo
ministro di autorità appresso allo esercito imperiale. Ma si crede
che ancora, per mezzo di Uberto da Gambara governatore di Bologna,
trattasse con Ieronimo Pio di occupare Reggio: del quale il duca,
pervenutogli indizio di questa pratica, fece pigliare il debito
supplicio. Trattava anche di recuperare furtivamente Ravenna, cosa
che medesimamente riuscí vana.
Nel quale tempo anche, o poco poi, il pontefice, inclinando ogni dí
piú con l'animo alle parti di Cesare, ed essendo già con lui in
pratiche molto strette, per le quali mandò il vescovo di Vasone suo
maestro di casa a Cesare, avocò in ruota la causa del divorzio di
Inghilterra: cosa che arebbe fatto molto innanzi se non l'avesse
ritenuto il rispetto della bolla che era in Inghilterra, in mano del
Campeggio. Perché, essendo augumentate le cose di Cesare in Italia,
non solamente non volendo offenderlo piú ma rivocare l'offesa che
gli aveva fatta, deliberato eziandio, innanzi che ammalasse, di
avocare la causa, mandò Francesco Campana in Inghilterra al
cardinale Campeggio, dimostrando al re mandarlo per altre cagioni
pure attenenti a quella causa, ma con commissione al Campeggio che
abbruciasse la bolla: il che benché differisse di eseguire, per
essere sopravenuta la infermità del pontefice, guarendo poi, messe a
effetto il comandamento suo. Però il pontefice, liberato da questo
timore, avocò la causa, con indegnazione grandissima di quel re,
massime quando dimandando la bolla al cardinale intese quello che ne
era successo. Partorirono queste cose la ruina del cardinale
eboracense, perché il re presupponeva la autorità del cardinale
essere tale appresso al pontefice che, se gli fusse stato grato il
matrimonio con Anna, arebbe ottenuto tutto quello che avesse voluto.
Per la quale indegnazione aperti gli orecchi alla invidia e alle
calunnie de' suoi avversari, toltogli i danari e le robe sue mobili
di immoderata valuta, e delle entrate ecclesiastiche lasciatagli una
piccola parte, lo relegò al suo vescovado con pochi servitori; né
molto poi, o per avere intercette sue lettere al re di Francia o per
altra cagione, istigato dai medesimi, i quali per certe parole dette
dal re, che dimostravano desiderio di lui, temevano che egli non
recuperasse la pristina autorità, lo citò a difendere una
accusazione introdotta contro a lui nel consiglio regio; per la
quale essendo menato alla corte come prigione, sopravenutogli, nel
cammino, flusso o per sdegno o per timore, morí il secondo dí della
sua infermità: esempio, a' tempi nostri, memorabile di quel che
possa la fortuna e la invidia nelle corti de' príncipi.
Lib.19, cap.9
Saggi indirizzi di politica del gonfaloniere fiorentino Niccolò
Capponi; opposizione di cittadini ambiziosi, che diffondono sospetti
fra la moltitudine; sostituzione del gonfaloniere.
Ma in questo tempo succedette in Firenze nuova alterazione contro a
Niccolò Capponi gonfaloniere, quasi alla fine del secondo anno del
suo magistrato, concitata principalmente dalla invidia di alcuni
cittadini principali, i quali usorono per occasione il sospetto vano
e la ignoranza della moltitudine. Aveva Niccolò avuto in tutto il
suo magistrato due obietti principali: difendere contro alla invidia
fresca quegli che erano stati onorati dai Medici, anzi, che co'
principali di loro si comunicassino, come con gli altri cittadini,
gli onori e i consigli publici; e nelle cose che non erano di
momento alla libertà non esacerbare l'animo del pontefice: cosa
l'una e l'altra molto utile alla republica, perché molti di quegli
medesimi che, come inimici del governo, erano perseguitati sarebbono
stati amicissimi, sapendo massime che il pontefice, per le cose
succedute ne' tempi che si mutò lo stato, aveva mala sodisfazione di
loro; e il pontefice, se bene desiderasse ardentissimamente il
ritorno de' suoi, pure, non provocato di nuovo, aveva minore causa
di precipitarsi e di querelarsi, come continuamente faceva, con gli
altri príncipi. Ma a queste cose si opponeva la ambizione di alcuni
i quali, conoscendo, se erano ammessi nel governo quegli altri,
uomini senza dubbio di maggiore esperienza e valore, dovere restare
minore la loro autorità, non attendevano ad altro che a tenere la
moltitudine piena di sospetto del pontefice e di loro; calunniando
il gonfaloniere per queste cagioni, e perché non ottenesse la
prorogazione nel magistrato per il terzo anno, che non avesse
l'animo alieno, quanto ricercava la autorità della republica, da'
Medici. Dalle quali calunnie egli inconcusso, e giudicando molto
utile che il pontefice non si esasperasse, intratteneva con lettere
e con imbasciate il pontefice privatamente; pratiche però non
cominciate né proseguite senza saputa sempre di alcuni de'
principali e di quegli che erano ne' primi magistrati, né a altro
fine che per rimuoverlo da qualche precipitazione. Ma essendogli per
caso caduta una lettera ricevuta da Roma, nella quale era qualche
parola da generare sospetto a quegli che non sapevano la origine e
il fondamento di queste cose, e pervenuta nelle mani di alcuni di
quegli che risedevano nel supremo magistrato, concitati alcuni
giovani sediziosi, occuporono con l'armi il palagio publico,
ritenendo quasi come in custodia il gonfaloniere; e chiamati i
magistrati e molti cittadini, quasi tumultuosamente deliberorno che
fusse privato del magistrato. La quale cosa approvata nel consiglio
maggiore, si cominciò poi a conoscere legittimamente la causa sua; e
assoluto dal giudicio fu con grandissimo onore accompagnato alle
case sue da quasi tutta la nobiltà: ma surrogato in luogo suo
Francesco Carducci, indegno, se tu riguardi la vita passata le
condizioni sue e i fini pravi, di tanto onore.
Lib.19, cap.10
Insuccesso dei collegati sotto Mortara. Disposizione del re di
Francia e di Cesare alla pace, e primi accordi. Progressi dei
collegati in Lombardia; discussioni e deliberazioni dei capitani dei
collegati; vittoria degli imperiali a Landriano.
A ventisette di aprile, passò Po a Valenza San Polo: per la passata
del quale gli imperiali abbandonorono il Borgo a Basignano e la
Pieve al Cairo. Di quivi mandò Guido Rangone, con parte dello
esercito, a Mortara, che era forte per fossi doppi, fianchi e acqua:
i quali, avendo la notte piantato l'artiglieria senza provisione di
gabbioni trincee e simili preparazioni, furono in su il dí assaltati
da quegli di dentro, che feciono loro danno assai e inchiodorno due
pezzi d'artiglierie, con pericolo di non le pigliare tutte; non
senza infamia di Guido, benché, indisposto del corpo, non si fusse
trovato presente quando si piantorono. Era allora in Milano mala
provisione; ma non erano migliori quelle de' franzesi e de'
viniziani, che ricercando e dolendosi l'uno dell'altro non facevano
alcuna provisione (pure San Polo diceva aspettare dumila alamanni):
donde, tra l'altre difficoltà, nasceva ne' collegati qualche dubbio
che il duca di Milano, veduta la poca speranza che gli restava di
avere con le forze e aiuti loro a ricuperare quello stato, non
facesse per mezzo del Morone qualche concordia con gli imperiali.
Ma erano i pensieri del re di Francia indiritti tutti alla pace,
diffidandosi di potere altrimenti recuperare i figliuoli. Alla quale
essendo anche inclinato Cesare, erano tornati di Spagna due uomini
di madama Margherita, con mandato amplissimo in lei per fare la
pace: di che essendo certificato il re da Lelu Baiard suo
segretario, quale per questa cagione aveva spedito in Fiandra,
dimandò a' collegati che mandassino anche loro i mandati. Ed
essendosi spiccato con l'animo effettualmente da tutte le provisioni
della guerra, cercando pure tirare a sé qualche giustificazione, si
lamentava che i viniziani ricusavano contribuire a' denari per la
passata sua: i quali, se bene da principio l'avessino stimolato
caldamente, passando Cesare, a passare, e il re avesse offerto di
farlo con dumila quattrocento lancie mille cavalli leggieri e
ventimila fanti, in caso che da' confederati gli [si] dessino danari
per pagare, oltre a questi, mille cavalli leggieri e ventimila
fanti, e concorressino alla metà della spesa delle artiglierie,
nondimeno poi, qual fusse la cagione, si ritiravano.
San Polo in questo tempo sforzò con quattro cannoni Santo Angelo,
dove erano quattrocento fanti; poi si volse a San Colombano, per
aprirsi le vettovaglie di Piacenza, che si accordò: e inteso Pavia
essere di nuovo provista insino a mille fanti e in Milano
quattromila, ma molti ammalati, volse il pensiero a Milano; e il
Leva messe fanti in Moncia. Arrendessi, a' due di maggio, Mortara a
San Polo a discrezione, battuta in modo che non poteva piú
difendersi; e il Torniello, lasciata la terra di Novara ma non la
rocca, dove messe pochissimi fanti, si ritirò a Milano: in modo che
gli imperiali non tenevano, di là dal Tesino, altro che Gaia e la
rocca di Bià, avendo San Polo anche presa la rocca di Vigevano.
Andò, a' dieci, al Ponte a Loca con piú di seimila fanti vivi, per
unirsi, al borgo a San Martino, co' viniziani, che ne avevano manco
di quattro. Arrivò dipoi il duca di Urbino allo esercito; e venuti
insieme a parlamento, a Belgioioso, determinorono nel consiglio
comune di accamparsi a Milano con due eserciti da due parti, e che
perciò San Polo, passato il Tesino, girasse a Biagrassa per
sforzarla, e il dí medesimo i viniziani al borgo di San Martino,
lontano da Milano cinque miglia; affermando i viniziani avere
dodicimila fanti e San Polo otto, col quale dovevano unirsi i fanti
del duca di Milano. Però San Polo passò il Tesino, e avendo trovato
la terra di Biagrassa abbandonata ottenne per accordo la rocca; ed
essendo, il dí davanti alloggiato San Polo a Gazano, in su il
navilio grande, a otto miglia di Milano, parlorono di nuovo, il
terzo dí di giugno, a Binasco. Nel quale luogo, essendo certificati
che i viniziani non aveano la metà de' dodicimila fanti a' quali
erano tenuti per i capitoli della confederazione, e querelandosene
gravemente San Polo, fu deliberato di accostarsi con uno campo solo
a Milano dalla banda del lazaretto; non ostante che il conte Guido
dicesse che Antonio de Leva, il quale non teneva altro che Milano e
Como, usava dire che Milano non si poteva sforzare se non con due
campi. Ma pochi dí poi, congregati i capi dell'uno e l'altro
esercito in Lodi, per consultare di nuovo, il duca di Milano e il
duca di Urbino, benché prima avessino fatto instanza che si andasse
a campo a Milano e dissuaso lo andare a Genova, consigliorono il
contrario; allegando il duca di Urbino, per questa nuova
deliberazione, molte ragioni, ma principalmente che, poiché Cesare
si preparava a passare in Italia (per il quale condurre era partito
con le galee il Doria, agli otto di giugno, da Genova), e che si
intendeva che in Germania si faceva preparazione di mandare nuovi
tedeschi sotto il capitano Felix non sapeva quello che fusse meglio,
o pigliare Milano o non lo pigliare. Allegavansi da lui queste
ragioni, ma si credeva che veramente lo movesse l'antica sua
consuetudine di non fare né dell'animo né della virtú esperienza
alcuna, o che forse, persuadendosi dovere succedere la pace che si
trattava in Fiandra, avesse dimostrato al senato viniziano, il quale
fortificava Bergamo, essere inutile, o ammesso o escluso che ne
fussi, spendere per la recuperazione di Milano. La somma del suo
consiglio fu che le genti de' viniziani si fermassino a Casciano,
quelle del duca di Milano a Pavia, San Polo a Biagrassa, attendendo
a vietare co' cavalli che vettovaglie non entrassino a Milano, dove
si stimava fussino per mancare presto, perché era seminata
piccolissima parte di quello contado. Non potette San Polo
rimuovergli da questa sentenza, ma non approvò già il fermarsi col
suo esercito a Biagrassa, allegando che ad affamare Milano bastava
che le genti viniziane si fermassino a Moncia, le sforzesche a Pavia
e a Vigevano, e che il re lo stimolava, in caso non si andasse a
campo a Milano, di fare la impresa di Genova: la quale aveva in
animo di tentare con celerità grande, sperando che, in assenza del
Doria, Cesare Fregoso, che era accordato col re di Francia di
esserne governatore lui e non il padre, la volterebbe con pochi
fanti. I quali progressi, e il sapere quanto fussino diminuiti di
fanti, aveva assicurato, in modo Antonio de Leva del pericolo di
Milano che e' mandò Filippo Torniello, con pochi cavalli e trecento
fanti, a ricuperare Novara e i luoghi circostanti, mentre che i
franzesi e i viniziani erano tra il Tesino e Milano: il quale,
entrato per la rocca che si teneva per loro, ricuperò Novara, e
dipoi uscí fuora con le genti a predare e raccôrre vettovaglie. Ma
accadde che essendo uscito della rocca e andando per la terra il
castellano di Novara, due soldati sforzeschi e tre di Novara che
erano nella rocca prigioni, ammazzati, con aiuto di alcuni che
lavoravano nella rocca, e presi certi fanti spagnuoli, l'occuporono,
sperando essere soccorsi da' suoi; perché il duca di Milano, come
aveva inteso la partita del Torniello da Milano, dubitando di
Novara, aveva mandato a quella volta Giampaolo suo fratello con non
piccolo numero di cavalli e di fanti, che già era arrivato a
Vigevano. Ma il Torniello, come seppe il caso della rocca, tornò
subito a Novara, e con minacci e con preparazione di dare lo assalto
spaventò in modo quegli soldati sforzeschi che, pattuita solo la sua
salute senza curarsi di quella de' novaresi che erano con loro,
arrenderono la rocca. Deliberossi adunque di infestare Milano con le
genti de' viniziani e del duca di Milano: benché il duca di Urbino
disse che, per essere piú vicino allo stato de' viniziani, non si
fermerebbe a Moncia ma a Casciano; e San Polo, il quale era
alloggiato alla badia di Viboldone, deliberò di tornare di là dal Po
per andare verso Genova. Con questo consiglio andò ad alloggiare a
Landriano, lontano dodici miglia da Milano tra le strade di Lodi e
di Pavia. E volendo andare il dí seguente, che era ventiuno di
giugno, ad alloggiare a Lardirago alla volta di Pavia, scrive il
Cappella che mandò innanzi l'artiglierie e i carriaggi e la
vanguardia, e lui partí piú tardi con la battaglia e col
retroguardo; e che il Leva, avvisato dalle spie del ritardare suo e
della partita dell'antiguardia, uscí di notte di Milano con la gente
incamiciata (egli, perché aveva già lungamente il corpo impedito da
dolori, armato in su una sedia, portato da quattro uomini); e giunto
a due miglia di Landriano, andando senza suoni, avuto dalle spie San
Polo non essere ancora partito da Landriano, accelerato il passo gli
assaltò innanzi sapessino la sua venuta: essendo già il primo
squadrone, sotto Gian Tommaso da Gallerà, camminato tanto innanzi
che non era a tempo al soccorso de' suoi. E benché San Polo sperasse
ne' tedeschi, che ne aveva dumila cinquecento, loro cominciorno a
ritirarsi; ma furono sostenuti da Gianieronimo da Castiglione e da
Claudio Rangone capi di dumila italiani, che combatterno
egregiamente; ma al fine, voltando le spalle i cavalli e i tedeschi,
gli italiani feciono il medesimo. E San Polo, volendo passare col
cavallo una grande fossa restò prigione; e furno presi i cavalli e i
carriaggi quasi di tutto lo esercito, e l'artiglieria; e quegli che
fuggirono furono svaligiati, presso a Pavia, da' fanti del
Piccinardo che vi erano a guardia. Ma il Martello scrive: che,
essendo San Polo a mezzo il cammino tra Landriano e Lardirago,
gl'imperiali assaltorno il retroguardo che gli fece piegare, ma
scoprendosi una grossa imboscata di archibusieri incamiciati,
assaltò la battaglia per fianco e la roppe; che San Polo, smontato a
piè, combatté con la picca gagliardamente e restò prigione egli,
Gianieronimo da Castiglione, Claudio Rangone, Carbone, Lignach e
altri, e la vanguardia menata dal conte Guido, che era già
alloggiata, si salvò in Pavia; che i franzesi si portorono vilmente
e i tedeschi il medesimo, e anche gli italiani eccetto Stefano
Colonna e Claudio, che restò ferito in una spalla; che le lance si
salvorono quasi tutte, e si ridusseno a Pavia circa dumila fanti di
varie nazioni col conte Guido e, al principio della notte de'
ventitré, se ne andorno a Lodi, sí impauriti che furono per rompersi
da loro medesimi, e ne restorno assai in cammino; e i capitani si
scusavano per non essere pagate le genti, delle quali le franzesi se
ne ritornorono tutte in Francia.
Lib.19, cap.11
Pace di Barcellona fra il pontefice e Cesare; le condizioni della
pace e gli accordi presi. Pace di Cambrai fra il re di Francia e
Cesare; le condizioni della pace; contegno del re verso gli
ambasciatori dei collegati.
Cosí posate l'armi quasi per tutta Italia, per due rotte ricevute,
nella estremità di quella, da' franzesi, i pensieri de' príncipi
maggiori erano volti agli accordi. De' quali il primo che successe
fu quello del pontefice con Cesare, che si fece in Barzalona, molto
favorevole per il pontefice; o perché Cesare desiderosissimo di
passare in Italia, cercasse di rimuoversi gli ostacoli, parendogli
avere per questo rispetto bisogno dell'amicizia del pontefice, o
volendo, con capitoli molto larghi, dargli maggiore cagione di
dimenticare l'offese avute da' suoi ministri e dal suo esercito. Che
tra il pontefice e Cesare fusse pace e confederazione perpetua, a
mutua difensione; concedesse il pontefice il passo, per le terre
della Chiesa, all'esercito cesareo se volesse partire del regno di
Napoli: Cesare, per rispetto del matrimonio nuovo e per la quiete di
Italia rimetterà in Firenze i nipoti di Lorenzo de' Medici nella
medesima grandezza che erano innanzi fussino cacciati; avuto
nondimeno rispetto delle spese farà per la detta restituzione, come
tra il papa e lui sarà dichiarato: curerà, il piú presto si potrà, o
con le armi o in altro modo piú conveniente, che il pontefice sia
reintegrato nella possessione di Cervia e di Ravenna, di Modena di
Reggio e di Rubiera, senza pregiudicio delle ragioni dello imperio e
della sedia apostolica: concederà il pontefice, riavute le terre
predette, a Cesare, per rimunerazione del beneficio ricevuto, la
investitura del regno napoletano, riducendo il censo dell'ultima
investitura a uno cavallo bianco per ricognizione del feudo; e gli
conceda la nominazione di ventiquattro chiese cattedrali, delle
quali erano in controversia, restando al papa la disposizione delle
chiese che non fussino di padronato, e degli altri benefici: il
pontefice e Cesare, quando passerà in Italia, si abbocchino insieme
per trattare la quiete di Italia e la pace universale de' cristiani,
ricevendosi l'uno l'altro con le debite e consuete cerimonie e
onore: Cesare, se il pontefice gli domanderà il braccio secolare per
acquistare Ferrara, come avvocato, protettore e figliuolo
primogenito della sedia apostolica, gli assisterà insino alla fine
con tutto quello che sarà allora in sua facoltà, e converranno
insieme delle spese, modi e forme da tenersi, secondo la qualità de'
tempi e del caso: il pontefice e Cesare, di comune consiglio,
penseranno qualche mezzo che la causa di Francesco Sforza si vegga
di giustizia, legittimamente e per giudici non sospetti, acciò che
trovatolo innocente sia restituito; altrimenti Cesare offerisce che,
benché la disposizione del ducato di Milano appartenga a lui, ne
disporrà con consiglio e consentimento del pontefice e ne investirà
persona che gli sia accetta, o ne disporrà in altro modo come parrà
piú espediente alla quiete di Italia: promette Cesare che Ferdinando
re di Ungheria, suo fratello, consentirà che, vivente il pontefice e
due anni poi, il ducato di Milano piglierà i sali di Cervia, secondo
la confederazione fatta tra Cesare e Lione, confermata nell'ultima
investitura del regno di Napoli, non approvando perciò la
convenzione fattane col re di Francia, e senza pregiudizio delle
ragioni dello imperio e del re di Ungheria: non possi alcuno di
loro, in pregiudicio di questa confederazione, quanto alle cose di
Italia, fare leghe nuove né osservare le fatte contrarie a questa;
possino nondimeno entrarvi i viniziani, lasciando quello posseggono
nel regno di Napoli, e adempiendo quello a che sono obligati a
Cesare e a Ferdinando per l'ultima confederazione fatta tra loro, e
rendendo Ravenna e Cervia, riservate eziandio le ragioni de' danni e
interessi patiti per conto di queste cose: faranno Cesare e
Ferdinando ogni opera possibile perché gli eretici si riduchino alla
vera via, e il pontefice userà i rimedi spirituali; e stando
contumaci, Cesare e Ferdinando gli sforzeranno con le armi, e il
pontefice curerà che gli altri príncipi cristiani vi assistino
secondo le forze loro: non riceveranno il pontefice e Cesare
protezione di sudditi, vassalli e feudatari l'uno dell'altro, se non
per conto del diretto dominio che avessino sopra alcuno, né si
estendendo oltre a quello; e le protezioni altrimenti prese si
intendino derogate infra uno mese. La quale amicizia e congiunzione,
perché fusse piú stabile, la confermorno con stretto parentado;
promettendo di dare per moglie Margherita figliuola naturale di
Cesare, con dote di entrata di ventimila ducati l'anno, ad
Alessandro de' Medici figliuolo di Lorenzo già duca di Urbino, al
quale il pontefice disegnava di volgere la grandezza secolare di
casa sua; perché, nel tempo che era stato in pericolo di morte,
aveva creato cardinale Ippolito figliuolo di Giuliano. Convennono,
nel tempo medesimo, in articoli separati: concederà il pontefice a
Cesare e al fratello, per difendersi contro a' turchi, il quarto
delle entrate de' benefici ecclesiastichi, nel modo conceduto da
Adriano suo predecessore; assolverà tutti quegli che, in Roma o in
altri luoghi, hanno peccato contro alla sedia apostolica, e quegli
che hanno dato aiuto consiglio e favore, o che sono stati partecipi
o hanno avuto rate le cose fatte, approvatele tacitamente o
espressamente o prestato il consenso; non avendo Cesare publicato la
crociata, concessagli dal pontefice meno ampia che le altre concesse
innanzi, il pontefice, estinta quella, ne concederà un'altra in
forma piena e ampia, come furono le concedute da Giulio e da Leone
pontefici. Il quale accordo, essendo già risolute tutte le
difficoltà, innanzi si stipulasse sopravenne a Cesare l'avviso della
rotta di San Polo; e, ancora si dubitasse che per vantaggiare le sue
condizioni non volesse variare delle cose ragionate, nondimeno
prontamente confermò tutto quello che si era trattato; ratificando
il medesimo dí, che fu il vigesimo nono di giugno, innanzi
all'altare grande della chiesa cattedrale di Barzalona piena di
innumerabile moltitudine, e promettendo l'osservanza con solenne
giuramento.
Ma con non minore caldezza procedevano le pratiche della concordia
tra Cesare e il re di Francia. Per le quali, poi che furono venuti i
mandati, fu destinato Cambrai, luogo fatale a grandissime
conclusioni; nel quale si abboccassino madama Margherita e madama la
reggente madre del re di Francia; studiandosi il re, con ogni
diligenza e arte, e con promettere (ancora quello che aveva in animo
di non osservare) agli imbasciadori de' collegati di Italia (perché
il re di Inghilterra consentiva a questi maneggi) di non fare
concordia con Cesare senza consenso e sodisfazione loro; perché
temeva che, insospettiti della sua volontà, non prevenissino ad
accordare seco, e cosí di non restare escluso dalla amicizia di
tutti. Però si sforzava persuadere loro di non sperare nella pace,
anzi avere volto i pensieri alle provisioni della guerra. Sopra le
quali trattando continuamente aveva mandato il vescovo di Tarba in
Italia, con commissione di trasferirsi a Vinegia al duca di Milano a
Ferrara e a Firenze, per praticare le cose appartenenti alla guerra,
e promettere che passando Cesare in Italia passerebbe anche nel
tempo medesimo con esercito potentissimo il re di Francia;
concorrendo per la loro parte alle provisioni necessarie gli altri
collegati. E nondimeno si strigneva continuamente la pratica dello
accordo, per la quale, a' sette dí di luglio, entrorono, per diverse
porte, con grande pompa tutte due le madame in Cambrai; e alloggiate
in due case contigue, che avevano l'adito dell'una nell'altra,
parlorono il dí medesimo insieme, e si cominciorno per gli agenti
loro a trattare gli articoli; essendo il re di Francia (a chi i
viniziani, impauriti di questa congiunzione, facevano grandissime
offerte) andato a Compiagni, per essere piú presto a risolvere le
difficoltà che occorressino. Convenneno in quel luogo non solamente
le due madame ma eziandio, per il re di Inghilterra, il vescovo di
Londra e il duca di Soffolt, perché senza consenso e partecipazione
di quel re non si tenevano queste pratiche; e il pontefice vi mandò
anche l'arcivescovo di Capua, e vi erano gli imbasciadori di tutti i
collegati. Ma a questi riferivano i franzesi cose diverse alla
verità di quello che si trattava, essendo nel re o tanta empietà o
sí solo il pensiero dello interesse proprio (che consisteva tutto
nella ricuperazione de' suoi figliuoli) che facendogli instanza
grande i fiorentini che, seguitando l'esempio di quel che il re
Luigi suo suocero e antecessore aveva fatto l'anno mille cinquecento
dodici, consentisse che per salvarsi accordassino con Cesare, aveva
ricusato; promettendo che mai non conchiuderebbe l'accordo senza
includervegli, e che si trovava preparatissimo a fare la guerra;
come, anche nella maggiore strettezza del praticare, prometteva
continuamente a tutti gli altri. Sopravenne a' ventitré di luglio
l'avviso della capitolazione fatta tra il pontefice e Cesare, ed
essendo molto stretta la pratica, si turbò in modo, per certe
difficoltà che nacqueno sopra alcune terre della Francia Contea, che
madama la reggente si messe in ordine per partirsi; ma per opera del
legato del pontefice, ma piú principalmente dello arcivescovo di
Capua, si fece la conclusione; ancora che, essendo già conchiusa, il
re di Francia promettesse le cose medesime che aveva prima promesse
a' collegati. Finalmente, il quinto dí di agosto, si publicò nella
chiesa maggiore di Cambrai solennemente la pace. Della quale il
primo articolo fu: che i figliuoli del re fussino liberati, pagando
il re a Cesare per la taglia loro, credo, uno milione e dugento
migliaia di ducati; e per lui al re d'Inghilterra, credo,
dugentomila: restituire a Cesare, tra sei settimane dopo la
ratificazione, tutto quello possedeva nel ducato di Milano;
lasciargli Asti e cederne le ragioni; lasciare, piú presto potesse,
Barletta e quel teneva nel regno di Napoli; protestare a viniziani
che, secondo la forma de' capitoli di Cugnach, restituissino le
terre di Puglia; e in caso non lo facessino dichiararsi loro inimico
e aiutare Cesare, per la ricuperazione, con trentamila scudi il mese
e con dodici galee quattro navi e quattro galeoni pagati per sei
mesi: pagare quello che era in sua possanza delle galee prese a
Portofino, o la valuta, defalcato quello che poi avessino preso
Andrea Doria o altri ministri di Cesare; abolire, come prima erano
convenuti a Madril, la superiorità di Fiandra e di Artois, e cedere
le ragioni di Tornai e di Arazzo, il possesso di Nivers, per
disobligare Cesare dello stato sopra Brabante: annullare il processo
di Borbone, e restituire l'onore al morto e i beni a' successori
(benché Cesare si querelasse poi che il re, subito che ebbe
recuperati i figliuoli, di nuovo gli tolse loro): restituissinsi i
beni occupati ad alcuno per conto della guerra o a' suoi successori
(il che anche dette a Cesare causa di querela, perché il re non
restituí i beni occupati al principe di Oranges): intendessinsi
estinti tutti i cartelli, ed eziandio quello di Ruberto della
Marcia. Fu compreso in questa pace per principale il pontefice, e vi
fu incluso il duca di Savoia, sí generalmente come suddito dello
imperio sí specialmente come nominato da Cesare; e che il re non si
avesse a travagliare piú in cose di Italia né di Germania, in favore
di alcuno potentato, in pregiudicio di Cesare; benché il re di
Francia affermasse, ne' tempi seguenti, non essergli proibito per
questa concordia di recuperare quello che il duca di Savoia occupava
del regno di Francia, e quel che pretendeva appartenersegli per le
ragioni di madama la reggente sua madre. Vi fu ancora uno capitolo
che nella pace si intendessino inclusi i viniziani e i fiorentini in
caso che, fra quattro mesi, fussino delle differenze loro d'accordo
con Cesare (che fu come una tacita esclusione); e credo il simile
del duca di Ferrara. Né de' baroni e fuorusciti del regno di Napoli
fu fatto menzione alcuna. Di che il re, che, fatto l'accordo, andò
subito a Cambrai a visitare madama Margherita, non essendo però al
tutto di atto tanto brutto senza vergogna, fuggí per qualche dí, con
vari sotterfugi, il cospetto e l'udienza degli imbasciadori de'
collegati. A' quali poi finalmente, uditi in disparte, fece
escusazione che, per ricuperare i figliuoli, non aveva potuto fare
altro; ma che mandava l'ammiraglio a Cesare per benefizio loro, e
altre vane speranze: promettendo a' fiorentini di prestare loro,
perché si aiutassino dagli imminenti pericoli, quarantamila ducati;
che riuscivano come l'altre promesse. E dimostrando farlo per loro
sodisfazione, dette licenza a Stefano Colonna, del quale non
intendeva piú servirsi, che andasse agli stipendi loro.
Lib.19, cap.12
Nuovi progressi degli imperiali in Lombardia. Ordine di Cesare al
principe d'Oranges di assaltare lo stato dei fiorentini, ed accordi
fra il principe e il pontefice. Venuta di Cesare in Italia; i
fiorentini inviano a lui ambasciatori; contegno dei veneziani, del
duca di Ferrara e del duca di Milano. Preparativi dei fiorentini per
la difesa. Occupazione di Spelle da parte del principe d'Oranges.
Le quali cose mentre che si trattavano, Antonio de Leva aveva
ricuperato Biagrassa; e il duca di Urbino, standosi nello
alloggiamento di Casciano e attendendo con numero incredibile di
guastatori a fortificarlo, consigliava si tenesse Pavia e Santo
Angelo, allegando l'alloggiamento di Casciano essere opportuno a
soccorrere Lodi e Pavia. Andò dipoi Antonio de Leva a Enzago, a tre
miglia di Casciano, donde continuamente scaramucciava con le genti
viniziane; e ultimatamente, da Enzago a Vauri, o per correre nel
bergamasco o per essergli state rotte l'acque da' viniziani. Entrò
il Vistarino in questo tempo in Valenza, per il castello, e roppe
dugento fanti che vi erano; il marchese di Mantova era ritornato
alla devozione imperiale; e già erano arrivati, di luglio, per mare,
a Genova dumila fanti spagnuoli per aspettare la venuta di Cesare.
Ma Cesare, subito che ebbe fatto l'accordo col pontefice, commesse
al principe di Oranges che, a requisizione del pontefice, assaltasse
con l'esercito lo stato de' fiorentini: il quale, venuto all'Aquila,
raccoglieva a' confini del regno le genti sue. Ricercollo
instantemente il pontefice che passasse innanzi; perciò il principe,
senza le genti, l'ultimo dí di luglio, andò a Roma per stabilire
seco le provisioni. A Roma, dopo varie pratiche, le quali talvolta
furno vicine alla rottura per le difficoltà che faceva il papa allo
spendere, composeno finalmente che il pontefice gli desse di
presente trentamila ducati, e in breve tempo quarantamila altri;
perché egli, a sue spese, riducesse prima Perugia, cacciatone
Malatesta Baglione, a ubbidienza della Chiesa, dipoi assaltasse i
fiorentini per restituire in quella città la famiglia de' Medici;
cosa che il pontefice reputava facilissima, persuadendosi che,
abbandonati da ciascuno, avessino, secondo la consuetudine de' suoi
maggiori, piú presto a cedere che a mettere la patria in sommo e
manifestissimo pericolo. Però raccolse il principe le sue genti, le
quali erano tremila fanti tedeschi, ultime reliquie di quegli che
erano, e di Spagna col viceré e di Germania con Giorgio Fronspergh,
passati in Italia, e [quattro]mila fanti italiani non pagati, sotto
diversi colonnelli, Pieroluigi da Farnese, il conte di San Secondo e
il colonnello di Marzio e Sciarra Colonna; e il pontefice cavò di
Castel Santo Angelo, per accomodarlo, tre cannoni e alcuni pezzi di
artiglierie; e dietro a Oranges aveva a venire il marchese del
Guasto, co' fanti spagnuoli che erano in Puglia. Ma in Firenze era
deliberazione molto diversa, e gli animi ostinatissimi a difendersi.
La quale perché fu cagione di cose molto notabili, pare molto
conveniente descrivere particolarmente la causa di queste cose [e]
il sito della città
Le quali cose mentre da ogni parte si preparano, Cesare, partito di
Barzalona con grossa armata di navi e di galee (in sulla quale erano
mille cavalli e novemila fanti), poi che non senza travaglio e
pericolo fu stato in mare quindici dí, arrivò il duodecimo dí di
agosto a Genova; nella quale città ebbe notizia della concordia
fatta a Cambrai: e nel tempo medesimo passò in Lombardia agli
stipendi suoi il capitano Felix con ottomila tedeschi. Spaventò la
venuta sua con tanto apparato gli animi di tutta Italia, già certa
di essergli stata lasciata in preda dal re di Francia. Però i
fiorentini, sbigottiti in su' primi avvisi, gli elesseno quattro
imbasciadori de' principali della città, per congratularsi seco e
cercare di comporre le cose loro: ma dipoi, ripigliando
continuamente animo, moderorono le commissioni; ristrignendosi solo
a trattare seco degli interessi suoi e non delle differenze col
pontefice: sperando che a Cesare, per la memoria delle cose passate
e per la piccola confidenza che soleva essere tra i pontefici e
gl'imperadori, fusse molesta la sua grandezza, e però avesse a
desiderare che e' non aggiugnesse alla potenza della Chiesa
l'autorità e le forze dello stato di Firenze. Dispiacque molto a'
viniziani che, essendo i fiorentini collegati con loro, avessino
eletto al comune inimico, senza loro partecipazione, imbasciadori; e
se ne lamentò anche il duca di Ferrara, benché seguitando l'esempio
loro, ve ne mandò anche egli subitamente; e i viniziani consentirono
al duca di Milano che facesse il medesimo: il quale, molto innanzi,
aveva tenuto occultamente pratica col pontefice perché lo accordasse
con Cesare, conoscendo, eziandio innanzi alla rotta di San Polo,
potere sperare poco nel re di Francia e de' viniziani.
Fece Cesare sbarcare i fanti spagnuoli che aveva condotti seco a
Savona, e gli voltò in Lombardia, perché Antonio de Leva uscisse
potente in campagna; e aveva offerto di sbarcargli alla Spezie per
mandargli in Toscana. Ma al pontefice, per la impressione che si
aveva fatto, non parveno necessarie tante forze, desiderando
massime, per conservazione del paese, non volgere senza bisogno
tanto impeto contro a quella città. Contro alla quale e contro a
Malatesta Baglione già procedendo scopertamente, fece ritenere nelle
terre della Chiesa il cavaliere Sperello; il quale, spedito con
danari, innanzi alla capitolazione fatta a Cambrai, dal re di
Francia (il quale aveva ratificata la sua condotta), ritornava a
Perugia. Fece anche ritenere, appresso a Bracciano, i danari mandati
da' fiorentini allo abate di Farfa, condotto da loro con dugento
cavalli, perché soldasse mille fanti; ma fu necessitato presto a
restituirgli, perché avendo il pontefice deputati legati a Cesare i
cardinali Farnese, Santa Croce e Medici, e passando quello di Santa
Croce, l'abate avendolo fatto ritenere, non lo volle liberare se
prima non riaveva i danari. Ma i fiorentini continuavano nelle loro
preparazioni, avendo invano tentato con Cesare che, insino che
avesse udito gli imbasciadori loro, si fermassino l'armi.
Ricercorono don Ercole da Esti, primogenito del duca di Ferrara,
condotto da loro sei mesi innanzi per capitano generale, che venisse
con le sue genti, come era obligato loro. Il quale, benché avesse
accettato i danari mandatigli per soldare mille fanti, deputati,
quando cavalcava, per guardia sua, nondimeno, anteponendo il padre
le considerazioni dello stato alla fede, recusò di andare, non
restituiti anche i danari, benché mandò i suoi cavalli: donde i
fiorentini gli disdissono il beneplacito del secondo anno. Ma già il
principe di Oranges, il decimonono dí di agosto, era a Terni e i
tedeschi a Fuligno, dove si faceva la massa: essendo cosa ridicola
che, essendo fatta e publicata la pace tra Cesare e il re di
Francia, il vescovo di Tarba, come imbasciadore del re a Vinegia a
Ferrara a Firenze e a Perugia, magnificasse le provisioni
potentissime del re alla guerra, e confortasse loro a fare il
medesimo. Venne dipoi il principe, con seimila fanti tra tedeschi e
italiani, a campo a Spelle: dove, appresentandosi con molti cavalli
alla terra per riconoscere il sito, fu ferito in una coscia da
quegli di dentro Giovanni d'Urbina, che, esercitato in lunga milizia
di Italia, teneva il principato tra tutti i capitani di fanti
spagnuoli; della quale ferita morí in pochi dí, con grave danno
dello esercito, perché per consiglio suo si reggeva quasi tutta la
guerra. Piantoronsi poi l'artiglierie a Spelle, dove, sotto Lione
Baglione, fratello naturale di Malatesta, erano piú di cinquecento
fanti e venti cavalli: ma essendosi battuto pochi colpi a una torre
che era fuora della terra a canto alle mura, quegli di dentro,
ancora che Lione avesse dato a Malatesta speranza grande della
difesa, si arrenderono subito, con patto che la terra e gli uomini
suoi restassino a discrezione del principe, i soldati, salve le
persone e le robbe che potessino portare addosso, uscissino con le
spade solo, né potessino per tre mesi servire contro al pontefice o
contro a Cesare; ma nell'uscire furono quasi tutti svaligiati. Fu
imputato di questo accordo non mediocremente Giovanbatista Borghesi
fuoruscito sanese, che avendo cominciato a trattare con Fabio
Petrucci, il quale era nello esercito, gli dette la perfezione con
aiuto degli altri capitani: il che Malatesta attribuiva a infedeltà,
molti altri a viltà di animo.
Lib.19, cap.13
Risposta di Cesare agli ambasciatori dei fiorentini mandati a
trattare con lui. Contegno del re di Francia verso Cesare e verso i
collegati italiani. Trattative fra Cesare e il duca di Milano.
Azione del pontefice per la concordia fra i veneziani e Cesare.
Accordi del duca di Milano coi veneziani; resa di Pavia a Antonio de
Leva.
Ma gli imbasciadori fiorentini, presentatisi intanto a Cesare, si
erano nella prima esposizione congratulati della venuta sua, e
sforzatisi di farlo capace che la città non era ambiziosa, ma grata
de' benefici e pronta a fare comodità a chi la conservasse; aveano
scusato che era entrata nella lega col re di Francia per volontà del
pontefice che la comandava, e avere continuato per necessità; non
procedendo piú oltre, perché non aveano commissione [di conchiudere,
ma] di avvisare quello che fusse proposto loro, ed espresso
comandamento della republica che non udissino pratica alcuna col
pontefice; visitare gli altri legati suoi ma non il cardinale de'
Medici. A' quali innanzi fusse risposto, disse loro il gran
cancelliere, eletto nuovamente cardinale, che era necessario
satisfacessino al pontefice; e querelandosi essi della ingiustizia
di questa dimanda, rispose che, per essersi la città confederata con
gli inimici di Cesare e mandate le genti a offesa sua, era ricaduta
dai privilegi suoi e devoluta allo imperio, e che però Cesare ne
poteva disporre ad arbitrio suo. Finalmente fu risposto loro, in
nome di Cesare, che facessino venire il mandato abile a convenire
eziandio col pontefice, e che poi si attenderebbe alle differenze
tra il papa e loro; le quali se prima non si componevano, non voleva
Cesare trattare con loro gli interessi propri. Mandoronlo amplissimo
a convenire con Cesare, ma non a convenire col pontefice: però,
essendo Cesare (che partí da Genova a' trenta di agosto) andato a
Piacenza, gli imbasciadori seguitandolo non furono ammessi in
Piacenza poiché si era inteso non avere il mandato nel modo che
aveva chiesto Cesare. Cosí restorono le cose senza concordia.
E aveva anche Cesare, ricevuti che ebbe rigidamente gli imbasciadori
del duca di Ferrara, fattigli partire; benché ritornando poi con
nuove pratiche, e forse con nuovi favori, furono ammessi. Mandò
anche Nassau oratore al re di Francia, a congratularsi che con nuova
congiunzione avessino stabilito il vincolo del parentado, e a
ricevere la ratificazione: per le quali cause mandava anche a lui il
re l'ammiraglio, e a Renzo da Ceri mandò danari perché si levasse
con tutte le genti di Puglia; dove preparò anche dodici galee,
perché vi andassino sotto Filippino Doria contro a' viniziani
(contro a' quali Cesare mandò Andrea Doria con trentasette galee):
benché, giudicando dovere essere piú certa la recuperazione de'
figliuoli se a Cesare restasse qualche difficoltà in Italia, dava
varie speranze a' collegati; e a' fiorentini particolarmente
prometteva di mandare loro occultamente, per l'ammiraglio, danari,
non perché avesse in animo di sovvenire o loro o gli altri ma perché
stessino piú renitenti a convenire con Cesare.
Praticavasi intratanto continuamente tra Cesare e il duca di Milano,
per mano del protonotario Caracciolo, che andava da Cremona a
Piacenza; e parendo strano a Cesare che il duca si piegasse manco a
lui di quello che arebbe creduto, e il duca da altro canto
riducendosi difficilmente a fidarsi, fu introdotta pratica che
Alessandria e Pavia si deponessino in mano del papa, insino a tanto
fusse conosciuta la causa sua. A che scrive il Cappella che gli
imbasciadori del duca che erano appresso a Cesare non volleno
consentire; ma credo che la conclusione mancasse da Cesare, non gli
parendo potesse resistere alle forze sue, e tanto piú che Antonio de
Leva era andato a Piacenza e (come era inimico dell'ozio e della
pace), l'aveva confortato con molte ragioni alla guerra. Però Cesare
gli commesse che facesse la impresa di Pavia; disegnando anche che
nel tempo medesimo il capitano Felix, che [era] venuto co' nuovi
lanzi e con cavalli e artiglierie verso Peschiera, e dipoi entrato
in bresciano, rompesse da quella banda a' viniziani; avendo fatto il
marchese di Mantova capitano generale di quella impresa.
Trattava intanto il pontefice la pace tra Cesare e i viniziani, con
speranza di conchiuderla alla venuta sua di Bologna; perché avendo
avuto prima in animo di abboccarsi a Genova con lui, avevano poi
differito di comune consentimento, per la comodità del luogo, a
convenirsi a Bologna; inducendogli a essere insieme non solo il
desiderio comune di confermare e consolidare meglio la loro
congiunzione, ma ancora Cesare la necessità, perché aveva in animo
di pigliare la corona dello imperio, e il pontefice la cupidità
della impresa di Firenze; e l'uno e l'altro di loro il desiderio di
dare qualche forma alle cose d'Italia (che non poteva fare senza
[comporre] le cose de' viniziani e del duca di Milano); ed eziandio
di provedere a' pericoli imminenti del turco, il quale, con grande
esercito entrato in Ungheria, camminava alla volta di Austria per
attendere alla espugnazione di Vienna.
Nel quale tempo tra Cesare e i viniziani non si facevano fazioni di
momento; perché i viniziani, inclinati ad accordare seco, per non
irritare piú l'animo suo, avevano ritirato l'armata loro dalla
impresa del castello di Brindisi a Corfú, attendendo solo a guardare
le terre tenevano, e in Lombardia non si facendo per ancora se non
leggiere escursioni. Però, intenti solo alla guardia delle terre,
avevano messo in Brescia il duca d'Urbino, e in Bergamo il conte di
Gaiazzo con seimila fanti. Il quale (non so se innanzi entrasse in
Bergamo o poi), avendo fatto una imboscata presso a Valezzo, per
avere inteso farsi una cavalcata da' cavalli borgognoni, essendo
venuti grossi, lo ruppeno, preseno Gismondo Malatesta e Lucantonio;
egli, fatto prigione da quattro italiani, persuasogli con grandi
promesse che lo lasciassino fu da loro condotto a Peschiera e
liberato. Erano i tedeschi mille cavalli e otto in diecimila fanti;
i quali, stati dispersi qualche dí, si ritirorno a Lonata,
disegnandosi che insieme col marchese di Mantova facessino la
impresa di Cremona, dove era il duca di Milano. Il quale, vedendosi
escluso dallo accordo con Cesare, e che Antonio de Leva era andato a
campo a Pavia, e che già il Caracciolo andava a Cremona a
denunziargli la guerra, convenne co' viniziani di non fare concordia
con Cesare senza consentimento loro; i quali si obligorono dargli
per la difesa del suo stato dumila fanti pagati e ottomila ducati il
mese, e gli mandorono artiglierie e gente a Cremona; col quale aiuto
confidava il duca potere difendere Cremona e Lodi. Perché Pavia fece
contro a Antonio de Leva piccola resistenza, non solo perché non vi
era vettovaglia per due mesi ma eziandio perché il Pizzinardo,
proposto a guardarla, aveva mandato pochi dí innanzi quattro
compagnie di fanti a Santo Angelo, dove Antonio de Leva aveva fatto
dimostrazione di volersi accampare; e però, essendo restato dentro
con poca gente, diffidatosi poterla difendere, non aspettata né
batteria né assalto, come vedde prepararsi di piantare
l'artiglierie, si accordò, salve le persone e la roba sua e de'
soldati: con grande imputazione che avesse potuto piú in lui, e però
indottolo ad affrettarsi, la cupidità di non perdere le ricchezze
che aveva accumulate in tante prede che il desiderio di salvare la
gloria acquistata per molte egregie opere fatte in questa guerra, e
specialmente intorno a Pavia.
Lib.19, cap.14
Proposte del principe d'Oranges a Malatesta Baglioni discusse fra
questo e i fiorentini; accordi fra il principe e Malatesta per
Perugia. Scarsissimi aiuti dei collegati ai fiorentini.
Nel quale tempo era già accesa molto la guerra di Toscana: perché il
principe di Oranges, preso che ebbe Spelle, e che il marchese del
Guasto, il quale lo seguitava con fanti spagnuoli, di quegli che
erano stati a Monopoli, cominciò ad appropinquarsi allo esercito
suo, venne al ponte di San Ianni presso a Perugia in su il Tevere,
dove si unirono seco i fanti spagnuoli; nella quale città erano
tremila fanti de' fiorentini. Aveva il principe, innanzi si
accampasse a Spelle, mandato uno uomo a Perugia a persuadere
Malatesta che cedesse alle voglie del pontefice; il quale, per
ritirare a sé in qualunque modo la città di Perugia e per desiderio
che l'esercito procedesse piú innanzi, offeriva a Malatesta che,
uscendosi di Perugia, gli conserverebbe gli stati e beni suoi
propri, consentirebbe che liberamente andasse alla difesa de'
fiorentini, e si obligherebbe che Braccio e Sforza Baglioni e gli
altri inimici suoi non rientrassino in Perugia: e benché Malatesta
affermasse non volere accettare partito alcuno senza consentimento
de' fiorentini nondimeno udiva continuamente le imbasciate del
principe, il quale poiché aveva acquistato Spelle gli faceva
maggiore instanza. Comunicava queste cose Malatesta a' fiorentini:
inclinato senza dubbio alla concordia, perché temeva alla fine del
successo, e forse che i fiorentini non continuassino in porgergli
tutti gli aiuti desiderava; e quando avesse ad accordare non sperava
potere trovare accordo con migliori condizioni di quelle che gli
erano proposte; stimando molto meglio che, senza offendere il
pontefice e dargli causa di privarlo de' beni e delle terre che se
gli preservavano, gli restasse la condotta de' fiorentini che, col
volersi difendere, mettere in pericolo lo stato presente e le
condizioni tollerabili che poteva avere dello esilio, e farsi esosi
gli amici suoi e tutta la terra. Perseverava però sempre in dire di
non volere accordare senza loro, ma soggiugnendo che volendo
difendere Perugia era necessario che i fiorentini vi mandassino di
nuovo mille fanti, e che il resto delle genti loro facesse testa
all'Orsaia, lontana cinque miglia da Cortona, ne' confini del
cortonese e perugino (il che non potevano fare senza sfornire tutte
le terre), e nondimeno luogo sí debole che era necessario si
ritirassino a ogni movimento degli inimici. Dimostrava che se non si
accordava, e il principe, lasciata indietro Perugia, pigliasse il
cammino di Firenze, sarebbe necessario gli lasciassino in Perugia
mille fanti vivi e anche non basterebbeno, perché il pontefice
potrebbe travagliarla con altre forze che con le genti imperiali; ma
che accordando, i fiorentini ritirerebbeno a sé tutti i loro fanti,
e lo seguiterebbeno anche dugento o trecento uomini de' suoi eletti;
e che restandogli gli stati e beni suoi, ed esclusi gli inimici di
Perugia, attenderebbe alla difesa con animo piú quieto. A'
fiorentini sarebbe piaciuto molto il tenere la guerra a Perugia, ma
vedendo che Malatesta trattava continuamente col principe, e sapendo
anche che mai aveva intermesso di trattare col pontefice, dubitavano
che egli, per gli stimoli de' suoi, per i danni della città e del
paese e per sospetto degli inimici e della instabilità del popolo,
alla fine non cedesse; e pareva loro molto pericoloso il mettere in
Perugia quasi tutto il nervo e il fiore delle loro forze, sottoposte
al pericolo della fede di Malatesta, al pericolo dello essere
sforzate dagli inimici, e alla difficoltà del ritirarle in caso che
Malatesta si accordasse. E consideravano ancora la mutazione di
Perugia potergli poco offendere, restandovi gli amici di Malatesta e
a lui le sue castella, né vi ritornando Braccio e i fratelli: donde
il pontefice, mentre che la perseverava in quello stato, non poteva
se non starne con continuo sospetto. Nella quale titubazione di
animo, stimando sopra ogni cosa la salvazione di quelle genti, né si
confidando interamente della costanza di Malatesta, mandorono
segretissimamente, a' sei di settembre, uno uomo loro per levarle da
Perugia, temendo non fussino ingannate se si faceva l'accordo: e
inteso poi che per essere già vicini gli inimici non si erano potute
partire, spedirono a Malatesta il consenso che accordasse. Ma aveva
già, mentre che l'avviso era in cammino, prevenuto: perché Oranges,
il nono di settembre, passò il Tevere al ponte di San Ianni; ed
essendo alloggiato, dopo qualche leggiera scaramuccia, la notte
medesima, conchiuse l'accordo con Malatesta, obligandolo a partirsi
di Perugia, datagli facoltà che e' godesse i suoi beni, potesse
servire i fiorentini come soldato, ritirare salve le genti loro: le
quali perché avessino tempo a ridursi in su il dominio fiorentino
promesse Oranges stare fermo con l'esercito due dí. Cosí ne uscirno
a' dodici, e camminando con grandissima celerità si condusseno il dí
medesimo a Cortona per la via de' monti, lunga e difficile, ma
sicura.
Cosí si ridusse tutta la guerra nel terreno de' fiorentini. A' quali
benché i viniziani e il duca d'Urbino avessino dato speranza di
mandare tremila fanti, che per sospetto della venuta del principe a
quelle bande avevano mandato nello stato di Urbino, nondimeno, non
volendo dispiacere al pontefice, riuscí promessa vana: solamente
dettono i viniziani al commissario di Castrocaro danari per pagare
dugento fanti. E non ostante che quel senato e il duca di Ferrara
trattassino continuamente di comporre con Cesare, nondimeno, perché
questa difficoltà lo facesse piú facile alle cose loro, confortavano
i fiorentini a difendersi.
Lib.19, cap.15
Disegni dei fiorentini; perdita di Cortona e di Arezzo.
Dichiarazione di Cesare di non voler udire gli ambasciatori
fiorentini se non son rimessi i Medici in città. Richiesta del
pontefice che Firenze si rimetta in suo potere. Dispareri in
Firenze; decisione di resistenza. Il principe d'Oranges intorno a
Firenze; le forze dei fiorentini. Prime scaramuccie sotto Firenze.
Due erano allora principalmente i disegni de' fiorentini: l'uno, che
l'esercito ritardasse tanto a venire innanzi che avessino tempo a
riparare la loro città, alle mura della quale pensavano che
finalmente si avesse a ridurre la guerra; l'altro, cercare di
placare l'animo di Cesare, eziandio con l'accordare col pontefice,
pure che non fusse alterato la forma della libertà e del governo
popolare. Però, non essendo ancora successo l'esclusione de' loro
imbasciadori, avevano mandato uno uomo al principe di Oranges, ed
eletti imbasciadori al pontefice; instando, quando gli significorono
la elezione, che insino allo arrivare loro facesse soprasedere lo
esercito: il che ricusò di fare. Però il principe, fattosi innanzi,
batté e dette l'assalto al borgo di Cortona che va a l'Orsaia, nella
quale città erano settecento fanti; e ne fu ributtato. In Arezzo era
maggiore numero di fanti; ma Antoniofrancesco degli Albizi,
commissario, inclinato ad abbandonarlo per paura che il principe,
presa Cortona, lasciato indietro Arezzo, non andasse alla volta di
Firenze, e che prevenendo a quelle genti che erano seco in Arezzo,
la città, mancandogli la piú pronta difesa che avesse, spaventata
non si accordasse; però senza consenso publico, se bene forse con
tacita intenzione del gonfaloniere, si partí da Arezzo con tutte le
genti, lasciati solamente dugento fanti nella fortezza: ma giunto a
Feghine, per consiglio di Malatesta, che era quivi e approvava il
ridurre le forze alla difesa di Firenze, rimandò mille fanti in
Arezzo perché non restasse abbandonato del tutto. Ma a' diciasette
dí, Cortona, alla difesa della quale sarebbeno bastanti mille fanti,
non vedendo provedersi per i fiorentini gagliardamente, e inteso
anche forse la titubazione di Arezzo, si arrendé, ancora che poco
stretta dal principe; col quale compose di pagargli ventimila
ducati. La perdita di Cortona dette cagione a' fanti che erano in
Arezzo, non si reputando bastanti a difenderlo, di abbandonare
quella città: la quale, a' diciannove dí, si accordò anche ella col
principe: ma con capitoli e con pensieri di reggersi piú presto da
se stessa in libertà sotto l'ombra e protezione di Cesare che stare
piú in soggezione de' fiorentini, dimostrando essere falsa quella
professione che insino allora avevano fatto di essere amici della
famiglia de' Medici e inimici del governo popolare.
Nel quale tempo Cesare aveva negato espressamente non volere piú
udire gli imbasciadori fiorentini se non restituivano i Medici; e
Oranges, benché con gli oratori che erano appresso a lui detestasse
senza rispetto la cupidità del papa e la ingiustizia di quella
impresa, nondimeno aveva chiarito non potere mancare di continuarla
senza la restituzione de' Medici: e trovandosi avere trecento uomini
d'arme cinquecento cavalli leggieri dumila cinquecento tedeschi, di
bellissima gente, dumila fanti spagnuoli tremila italiani, sotto
Sciarra Colonna Piermaria Rosso Pierluigi da Farnese e Giovambatista
Savello (co' quali si uní poi Giovanni da Sassatello, defraudati i
danari ricevuti prima da' fiorentini, de' quali aveva accettata la
condotta), e poi Alessandro Vitelli, che avevano tremila fanti, ma
avendo poche artiglierie, ricercò i sanesi che l'accomodassino di
artiglierie. I quali, non potendo negare allo esercito di Cesare gli
aiuti chiesti, ma per l'odio contro al pontefice e per il sospetto
della sua grandezza malcontenti della mutazione del governo de'
fiorentini, co' quali per l'odio comune contro al papa avevano avuto
molti mesi quasi tacita pace e intelligenza, mettevano in ordine
l'artiglierie ma con quanta piú lunghezza potevano.
Aveva intratanto il papa udito gli oratori fiorentini, e risposto
loro che la intenzione sua non era di alterare la libertà della
città ma che, non tanto per le ingiurie ricevute da quel governo e
dalla necessità di assicurare lo stato suo quanto per la
capitolazione fatta con Cesare, era stato costretto a fare la
impresa; nella quale trattandosi ora dello interesse dell'onore suo,
non chiedeva altro se non che liberamente si rimettessino in potestà
sua, e che fatto questo dimostrerebbe il buono animo che aveva al
benefizio della patria comune. E intendendo poi che, crescendo a
Firenze il timore, massime poi che avevano inteso l'esclusione fatta
degli oratori loro da Cesare, avevano eletto a lui nuovi
imbasciadori, pensando fussino disposti a cedergli, e desideroso
della prestezza per fuggire i danni del paese, mandò in poste allo
esercito l'arcivescovo di Capua: il quale, passando per Firenze,
trovò disposizione diversa da quel che si era persuaso.
Fecesi intanto innanzi Oranges, e a' ventiquattro era a Montevarchi
nel Valdarno, lontano venticinque miglia da Firenze, aspettando da
Siena otto cannoni, che si mosseno il dí seguente; ma camminando con
la medesima lunghezza con la quale erano stati preparati, furono
cagione che il principe, che a' ventisette aveva condotto l'esercito
insino a Feghine e l'Ancisa, soprastette in quello alloggiamento
insino a tutto il dí quarto di ottobre: donde procedé la durezza di
tutta quella impresa. Perché, perduto Arezzo vedendosi mancare le
speranze e le promesse fatte loro da ogni banda, la fortificazione
che si faceva della città dalla banda del monte non ancora ridotta
in termine che, benché vi si lavorasse con grandissima
sollecitudine, non paresse a' soldati che prima che fra otto o dieci
dí potesse mettersi in difesa, e intendendo l'esercito inimico
camminare innanzi, ed essendosi dalla banda di Bologna mosso per
ordine del papa Ramazzotto con tremila fanti, saccheggiata
Firenzuola ed entrato nel Mugello, e temendosi non andasse a Prato,
i cittadini spaventati cominciorono a inclinarsi all'accordo, e
massime che molti se ne fuggivano per timore: in modo che, nella
consulta del magistrato de' dieci proposto alle cose della guerra,
nella quale consulta intervenneno i cittadini principali di quel
governo, fu parere di tutti di spedire a Roma libero e ampio mandato
per rimettersi nella volontà del pontefice. Ma avendone fatta
relazione al supremo magistrato, senza il consenso del quale non si
poteva farne la deliberazione, il gonfaloniere, che ostinatamente
era nella contraria sentenza, la contradisse; e congiugnendosi con
lui il magistrato popolare de' collegi, che partecipava della
autorità de' tribuni della plebe di Roma, nel quale per sorte erano
molte persone di mala mente e di grande temerità e insolenza,
potette tanto, fomentando anche la sua opinione l'ardire e le
minaccie di molti giovani, che impedí che per quei dí non si fece
altra deliberazione. E nondimeno è manifesto che se il dí seguente,
che fu il vigesimo ottavo di settembre, il principe si fusse spinto
piú innanzi uno alloggiamento, quegli che contradicevano all'accordo
non arebbeno potuto alla inclinazione di tutti gli altri resistere:
da tante piccole cagioni dependono bene spesso i momenti di cose
gravissime. Il soprasedere vano di Oranges, interpretato da alcuni
che per nutrire la guerra fusse fatto studiosamente, perché allo
accostarsi presso Firenze non gli erano necessarie l'artiglierie, fu
causa che in Firenze molti ripreseno animo; ma quel che importò piú
fu che la fortificazione, continuata senza una minima intermissione
di tempo con grandissimo numero d'uomini, si condusse in grado che,
innanzi che Oranges si movesse da quello alloggiamento, giudicorono
i capitani che i ripari si potessino difendere: donde cessata ogni
inclinazione allo accordo, si messe la città ostinatamente alla
difesa; essendosi anche aggiunto ad assicurare gli animi loro che
Ramazzotto, che aveva condotto seco villani senza denari e non
soldati, essendo venuto non con disposizione di combattere ma di
rubare, saccheggiato che ebbe tutto il Mugello, si ritirò nel
bolognese con la preda, dissolvendosi tutta la gente, la quale aveva
venduto a lui la maggiore parte delle cose predate. Cosí di una
guerra facile, e che si sarebbe finita con piccolo detrimento di
ciascuno, risultò una guerra gravissima e perniciosissima, che non
potette finirsi se non distrutto che fu tutto il paese, e condotta
quella città in pericolo dell'ultima sua desolazione.
Mossesi, a' cinque di ottobre, Oranges da Feghine; ma camminando
lentamente, per aspettare l'artiglierie di Siena che gli erano
vicine, non ebbe condotte tutte le genti e l'artiglierie nel Piano
di Ripoli, a due miglia di Firenze, prima che a' venti dí, e a'
ventiquattro alloggiato tutto l'esercito in su i colli vicini a'
ripari: i quali, movendosi dalla porta di Saminiato, occupavano i
colli eminenti alla città, insino alla porta di San Giorgio; e
movendosi anche una alia da Saminiato, che si distendeva insino in
su la strada della porta di San Niccolò. Erano in Firenze ottomila
fanti vivi; e la resoluzione era di difendere Prato, Pistoia,
Empoli, Pisa e Livorno, nelle quali terre tutte avevano messo
presidio sufficiente, e il resto de' luoghi lasciare piú presto alla
fede e disposizione de' popoli e alla fortezza de' siti che mettervi
grosse genti per guardargli. Ma già si empieva tutto il paese di
venturieri e di predatori; e i sanesi non solo predavano per tutto,
ma eziandio mandorono gente per occupare Montepulciano, sperando che
poi dal principe fusse consentito loro il tenerlo; ma essendovi
alcuni fanti de' fiorentini si difese facilmente: e vi sopragiunse
poco poi Napolione Orsino, soldato de' fiorentini, con trecento
cavalli, che non era voluto partirsi di terra di Roma insino a tanto
che il pontefice non si fusse indiritto al cammino di Bologna.
Alloggiato Oranges l'esercito, e distesolo molto largo in su i colli
di Montici, del Gallo e di Giramonte, e avuti guastatori e alcuni
pezzi piccoli di artiglieria da' lucchesi, fece lavorare uno riparo,
credevasi per dare uno assalto al bastione di Saminiato; e
all'incontro, per offenderlo, furono piantati nell'orto di Saminiato
quattro cannoni in su uno cavaliere. Arrenderonsi subito al principe
le terre di Colle e di San Gimignano, luoghi importanti per
facilitare le vettovaglie che venivano da Siena. Piantò, a'
ventinove, Oranges in su uno bastione del Giramonte quattro cannoni
al campanile di Saminiato per abbatterlo, perché da uno sagro che vi
era piantato era molto danneggiato l'esercito; e in poche ore se ne
roppeno due. Però, avendo il dí seguente condotto un altro, tratti
che vi ebbeno invano circa cento cinquanta colpi, né potuto levarne
il sagro, si astenneno dal tirarvi piú. E considerandosi per tutti
la oppugnazione di Firenze, massime da uno esercito solo, essere
difficillima, cominciorono le fazioni a procedere lentamente, piú
tosto con scaramuccie che con maniera di oppugnazione. Fecesi, a'
due di novembre, una grossa scaramuccia al bastione di San Giorgio e
a quello di San Niccolò e della strada Romana; e a' quattro fu
piantata in su il Giramonte una colubrina al palazzo de' signori,
che al primo colpo si aperse. E a' sette, i cavalli che erano dentro
scorseno in Valdipesa, e preseno cento cavalli la piú parte utili; e
cavalli e archibusieri, usciti dal Pontedera, preseno sessanta
cavalli, tra le Capanne e la torre di San Romano.
Lib.19, cap.16
Il pontefice e Cesare a Bologna. Accordi per continuare l'impresa
contro Firenze. La questione di Modena e di Reggio. Discussioni per
la pace coi veneziani e per il perdono di Cesare a Francesco Sforza.
Continuazione della guerra in Lombardia. Pace di Cesare col duca di
Milano e coi veneziani.
Nel quale tempo essendo giunto il pontefice a Bologna, Cesare,
secondo l'uso de' príncipi grandi, vi venne dopo lui; perché è
costume che, quando due príncipi hanno a convenirsi, quello di piú
degnità si presenta prima al luogo diputato, giudicandosi segno di
riverenza che quello che è inferiore vadi a trovarlo: dove ricevuto
dal papa con grandissimo onore, e alloggiato nel palazzo medesimo in
stanze contigue l'una all'altra, pareva, per le dimostrazioni e per
la dimestichezza che appariva tra loro, che fussino continuamente
stati in grandissima benivolenza e congiunzione. Ed essendo già
cessato il sospetto della invasione de' turchi, perché l'esercito
loro, presentatosi insieme con la persona [di Solimanno] innanzi a
Vienna, dove era grossissimo presidio di fanti tedeschi, non solo
avevano dati piú assalti invano ma ne erano stati ributtati con
grandissima uccisione, in modo che diffidandosi di potere ottenerla,
e massime non avendo artiglieria grossa da batterla e stretti da'
tempi che in quella regione erano asprissimi, essendo il mese di
ottobre, se ne levorono, non ritirandosi a qualche alloggiamento
vicino ma alla volta di Costantinopoli, cammino credo di tre mesi;
però trovandosi Cesare assicurato di questo sospetto, che l'aveva
prima inclinato, non ostante l'acquisto di Pavia, a concordare col
duca di Milano, e però mandato a Cremona il Caracciolo, ma ancora
indotto a persuadere al pontefice il pensare a qualche modo per la
concordia co' fiorentini, acciò che spedito dalle cose di Italia
potesse passare con tutte le genti in Germania a soccorso di Vienna
e del fratello: ma cessato questo sospetto, cominciorono a trattare
delle cose di Italia.
Nelle quali quella che premeva piú al pontefice era la impresa
contro a' fiorentini; e in questa anche Cesare era molto inclinato,
sí per sodisfare al pontefice di quello che si era capitolato a
Barzalona come perché, avendo la città in concetto di essere
inclinata alla divozione della corona di Francia, gli era grata la
sua depressione. Però, essendo in Bologna quattro oratori fiorentini
al pontefice e facendo anche instanza di parlare a lui, non volle
mai udirgli, se non una volta sola quando parve al pontefice; da chi
prese anche la sostanza della risposta che fece loro. Però si
conchiuse di continuare la impresa e (perché la riusciva piú
difficile che non era paruto al pontefice) di volgervi quelle genti
che erano in Lombardia, se nascesse occasione d'accordo co'
viniziani e con Francesco Sforza, le quali fussino pagate da Cesare,
e che il papa pagasse ciascuno mese al principe d'Oranges (il quale
per trattare queste cose venne a Bologna) ducati sessantamila,
perché, non potendo Cesare sostenere tante spese, mantenesse quelle
genti che erano già intorno a Firenze.
Parlossi poi dell'altro interesse del pontefice che erano le cose di
Modena e di Reggio; nella quale [pratica] il papa, per fuggire il
carico dell'ostinazione, avendo proposto quella cantilena medesima
che aveva pensata prima e usata molte volte, che se si trattasse
solo di quelle terre non farebbe difficoltà di farne la volontà di
Cesare, ma che alienando Modena e Reggio restavano Parma e Piacenza
in modo separate dallo stato ecclesiastico che venivano in
conseguenza quasi alienate; rispondeva Cesare essere rispetto
ragionevole, ma mentre che le forze erano occupate nella impresa di
Firenze non si potere tentare altro che l'autorità. Ma in segreto
sarebbe stato il desiderio suo che, con buona soddisfazione del
papa, fussino restate al duca di Ferrara; col quale, nel venire a
Bologna, aveva parlato a Modena, e datogli grande speranza di fare
ogni opera col pontefice di comporre le cose sue. E aveva anche quel
duca saputo conciliarsi in modo gli animi di quegli che potevano
appresso a Cesare che non gli mancavano fautori grandi in quella
corte.
Restavano i due articoli piú importanti e piú difficili, de'
viniziani e di Francesco Sforza; la concordia de' quali, massime
quella di Francesco, se bene non fusse secondo la inclinazione con
la quale prima [Cesare] era venuto in Italia, nondimeno, trovando
alle cose maggiore difficoltà che non si era immaginato in Spagna, e
vedendo difficile ad acquistare lo stato di Milano, dopo la
congiunzione che aveva fatto Francesco vo' viniziani, trovandosi in
spesa grossissima per tante genti che aveva condotto di Spagna e di
Germania, non era piú nella pristina durezza; massime che dal
fratello e da molti era, per i tumulti de' luterani e per altri semi
che apparivano di nuove cose, sollecitato a passare in Germania;
dove ancora poteva credere che a qualche tempo ritornerebbero i
turchi; massime che era notissimo che Solimanno, acceso dallo sdegno
e dalla ignominia, aveva al partirsi da Vienna giurato che presto vi
ritornerebbe molto piú potente. E parendo a Cesare non solo mal
sicuro ma meno onorevole il partirsi di Italia, lasciando le cose
imperfette, cominciò a inclinare l'animo a concordare non solo co'
viniziani, ma eziandio di perdonare a Francesco Sforza; a che
instava molto il pontefice, desideroso della quiete universale; e
anche perché le cose di Cesare, disoccupate dall'altre imprese, si
volgessino contro a Firenze. Riteneva Cesare piú che altro il
parergli non fusse con sua degnità il credersi che quasi la
necessità lo inducesse a perdonare a Francesco Sforza; e Antonio de
Leva, che era con lui a Bologna, faceva ogni instanza perché di
quello stato si facesse altra deliberazione, proponendo ora
Alessandro nipote del papa ora altri: nondimeno, essendo difficoltà
di collocare quello stato in persona di chi Italia si contentasse,
né avendo il papa inclinazione a pensarvi per i suoi, non essendo
cosa che si potesse spedire se non con nuove guerre e con nuovi
travagli, Cesare, in ultimo, inclinando a questa sentenza, consentí
di concedere a Francesco Sforza salvocondotto, sotto nome di venire
a lui a giustificarsi ma in fatto per ridurre le cose a qualche
composizione; consentendo ancora i viniziani alla venuta sua, perché
speravano che in uno tempo medesimo si introducesse la concordia
delle cose loro.
E nondimeno non cessavano però l'armi in Lombardia; perché il
Belgioioso, il quale per l'assenza di Antonio de Leva era restato
capo a Milano, andò con settemila fanti a campo a Santo Angelo, dove
erano quattro compagnie di fanti viniziani e di Milano; e avendolo
battuto con l'occasione di una pioggia continua che faceva inutili
gli archibusi, che allo scoperto difendevano il muro, accostato i
suoi, appoggiati agli scudi e con le spade e picche, dette
l'assalto, accostandosi anche egli valentemente con gli altri: ma
non potendo quegli di dentro tenere in mano le corde da dare il
fuoco, ed essendo necessitati gittargli in terra e combattere con
altre armi, sbigottiti cominciorono a ritirarsi e ad abbandonare le
mura; in modo che, entrati dentro gli inimici, restorono tutti o
morti o prigioni. Disegnò poi andare di là da Adda, e passata già
parte dello esercito per il ponte fatto a Casciano, alcune compagnie
de' nuovi spagnuoli si partirono per andare a Milano; ma lui
prevenendogli, fece pigliare l'armi alla terra, in modo che non
potendo entrare ritornorono indietro allo esercito.
Ma già, non ostante queste cose e lo essere i tedeschi ne' terreni
de' viniziani, si strignevano talmente le pratiche della pace che
raffreddavano tutti i pensieri della guerra. Perché Francesco
Sforza, presentatosi, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di
Cesare, e ringraziatolo della benignità sua in avergli conceduto
facoltà di venire a lui, gli espose confidare tanto nella giustizia
sua che, per tutte le cose succedute innanzi che il marchese di
Pescara lo rinchiudesse nel castello di Milano, non desiderava altra
sicurtà o presidio che la innocenza propria; e che perciò, in quanto
a queste, rinunziava liberamente il salvocondotto; la scrittura del
quale avendo in mano la gittò innanzi a lui, cosa che molto
sodisfece a Cesare. Trattoronsi circa a uno mese le difficoltà
dell'accordo suo e di quello de' viniziani; e finalmente, a'
ventitré di dicembre, essendosene molto affaticato il pontefice, si
conchiuse l'uno e l'altro: obligandosi Francesco a pagargli in uno
anno ducati quattrocentomila, e cinquecentomila poi in dieci anni
cioè ogni anno cinquantamila, restando in mano di Cesare Como e il
castello di Milano; quali si obligò a consegnare a Francesco come
fussino fatti i pagamenti del primo anno. E gli dette la
investitura, o vero confermò quella che prima gli era data. Per i
quali pagamenti osservare, e per i doni promessi a' grandi appresso
a lui, fece grandissime imposizioni alla città di Milano e a tutto
il ducato, non ostante che i popoli fussino consumati per sí atroci
e lunghe guerre e per la fame e per la peste. Restituischino i
viniziani al pontefice Ravenna e Cervia co' suoi territori, salve le
ragioni loro, e perdonando il pontefice a quelli che avessino
macchinato o operato contro a lui: restituischino a Cesare, per
tutto gennaio prossimo, tutto quello posseggono nel regno di Napoli:
paghino a Cesare il resto de' dugentomila ducati, debiti per il
terzo capitolo dell'ultima pace contratta tra loro, cioè
venticinquemila ducati infra uno mese prossimo e dipoi
venticinquemila ciascuno anno; ma in caso che infra uno anno siano
restituiti loro i luoghi, se non fussino restituiti secondo il
tenore di detta pace o giudicate per arbitri comuni le differenze:
paghino ciascuno anno a' fuorusciti cinquemila ducati per l'entrate
de' beni loro, come si disponeva nella pace predetta; a Cesare
centomila altri ducati, la metà fra dieci mesi l'altra metà dipoi a
uno anno. Decidinsi le ragioni del patriarca di Aquileia,
riservategli nella capitolazione di Vormazia, contro al re di
Ungheria; includasi in questa pace e confederazione il duca di
Urbino, per essere aderente e in protezione de' viniziani. Perdonino
al conte Brunoro da Gambara. Sia libero il commercio a' sudditi di
tutti, né si dia ricetto a' corsali i quali perturbassino alcuna
delle parti: sia lecito a' viniziani continuare pacificamente nella
possessione di tutte le cose tengono: restituischino tutti i fatti
ribelli per essersi aderiti a Massimiliano, a Cesare e al re di
Ungheria, insino all'anno mille cinquecento ventitré; ma non si
estenda la restituzione a' beni pervenuti nel fisco loro. Sia tra
dette parti non solo pace ma lega difensiva perpetua per gli stati
di Italia contro a qualunque cristiano. Promette Cesare che il duca
di Milano terrà continuamente nel suo stato cinquecento uomini
d'arme, e [egli stesso], per la difesa del duca e de' viniziani,
ottocento uomini d'arme computativi i cinquecento predetti,
cinquecento cavalli leggieri seimila fanti, con buona banda di
artiglierie, e i viniziani il medesimo alla difesa del duca di
Milano; ed essendo molestato ciascuno di questi stati, gli altri non
permettino che vadia vettovaglie munizioni corrieri imbasciadori di
chi offende, proibirgli ogni aiuto de' suoi stati e il transito a
lui e alle sue genti. Se alcuno principe cristiano, eziandio di
suprema dignità, assalterà il regno di Napoli, siano tenuti i
viniziani ad aiutarlo con quindici galee sottili bene armate. Siano
compresi i raccomandati di tutti, nominati e nominandi, non perciò
con altra obligazione de' viniziani alla difesa. Se il duca di
Ferrara concorderà col pontefice e con Cesare, si intenda incluso in
questa confederazione. Per la esecuzione de' quali accordi, Cesare
restituí a Francesco Sforza Milano e tutto il ducato, e ne rimosse
tutti i soldati; ritenendosi solamente quegli che erano necessari
per la guardia del castello e di Como; i quali restituí poi al tempo
convenuto. E i viniziani restituirono al pontefice le terre di
Romagna, e a Cesare le terre tenevano nella Puglia.
Lib.20, cap.1
Firenze sola in guerra; il principe d'Oranges prende la Lastra; resa
di terre dei fiorentini alle milizie imperiali e al pontefice.
Trattative palesi e occulte di Malatesta Baglioni col pontefice.
Disegni degli assedianti contro Firenze. Giuramento delle milizie in
Firenze di difendere la città fino alla morte; infedeltà di
Napoleone Orsini. Condotta ambigua del re di Francia per i maneggi
del pontefice. Incoronazione di Cesare; come vien definita la
questione fra il pontefice e il duca di Ferrara.
Posto, per la pace e confederazione predetta, fine a sí lunghe e
gravi guerre, continuate piú di otto anni con accidenti tanto
orribili, restò Italia tutta libera da' tumulti e da' pericoli delle
armi, eccetto la città di Firenze; la guerra della quale aveva
giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la
guerra loro. Perché, come le difficoltà che si trattavano furono in
modo digerite che non si dubitava la concordia dovere avere
perfezione, Cesare, levate le genti dello stato de' viniziani, mandò
quattromila fanti tedeschi, dumila cinquecento fanti spagnuoli,
ottocento italiani, piú di trecento cavalli leggieri, con
venticinque pezzi d'artiglieria, alla guerra contro a' fiorentini.
Nella quale si erano fatte pochissime fazioni, né a pena degne di
essere scritte: non bastando l'animo a quegli di fuora di combattere
la città, né essendo pronti quegli di dentro a tentare la fortuna;
perché, reputando d'avere modo a difendersi molti mesi, speravano
che, o per mancamento di danari o per altri accidenti, gli inimici
non avessino a starvi lungamente. Aveva perciò il principe mandato
mille cinquecento fanti quattrocento cavalli e quattro pezzi di
artiglieria a pigliare la Lastra, dove erano tre bandiere di fanti;
e innanzi arrivasse il soccorso di Firenze la prese, ammazzati degli
inimici circa dugento fanti. Succedé che la notte degli undici di
dicembre Stefano Colonna, con mille archibusieri e quattrocento tra
alabarde e partigiane, tutti in corsaletto e all'uso spagnuolo
incamiciati, assaltorono il colonnello di Sciarra, alloggiato nelle
case propinque alla chiesa di Santa Margherita a Montici,
sforzoronle, con morte di piú di dugento uomini e molti feriti, e
tutto il colonnello in sbaraglio, né perderono uno uomo solo. E
andando Pirro da Castel di Piero per pigliare Montopoli, terra del
contado di Pisa, i fanti che erano in Empoli, tagliatagli la strada
tra Palaia e Montopoli, lo roppono, fatti molti prigioni. E da uno
colpo di artiglieria fu morto, nell'orto di Saminiato, Mario Orsino
e Giulio da Santa Croce. E nel Borgo da Sansepolcro entrò Napolione
Orsino, soldato de' fiorentini, con cento cinquanta cavalli, perché
Alessandro Vitelli, verso il Borgo e Anghiari, andava distruggendo
il paese. Ma passate che ebbono l'Alpi le genti mandate nuovamente
da Cesare, Pistoia e poi Prato, abbandonate dalle genti de'
fiorentini, si arrendorono al pontefice: però l'esercito, non avendo
alle spalle impedimento, non si andò a unire con li altri, ma
fermatosi dall'altra parte di Arno alloggiò a Peretola presso alle
mura della città, sotto il governo del marchese del Guasto, benché a
tutti era superiore il principe di Oranges: essendo già ridotte le
cose piú presto in forma di assedio che di oppugnazione. Arrendessi
anche Pietrasanta al pontefice.
Nella fine di questo anno, il pontefice, ricercato da Malatesta
Baglione che gli dava speranza di concordia, mandò a Firenze
indiritto a lui Ridolfo Pio vescovo di Faenza; col quale furono
trattate varie cose, parte con saputa della città in beneficio,
parte occultamente da Malatesta contro alla città; le quali non
ebbono altro effetto, anzi si credette che Malatesta, che era al
fine della sua condotta, l'avesse tenute artificiosamente, acciò che
i fiorentini, per timore di non essere abbandonati da lui, lo
riconducessino con titolo di capitano generale; il che ottenne.
Seguitò l'anno mille cinquecento trenta la impresa medesima: dove
benché Oranges, con cominciare nuovi cavalieri e nuove trincee,
facesse dimostrazione di volere battere i bastioni piú d'appresso, e
massime quel di San Giorgio molto gagliardo, nondimeno, parte per la
imperizia sua parte per la difficoltà della cosa, non si messe a
esecuzione disegno alcuno; appartenendo a Stefano Colonna la guardia
di tutto il monte.
Nel principio di questo anno, i fiorentini, presa speranza dalle
cose trattate col vescovo di Faenza, mandorono di nuovo oratori al
pontefice e a Cesare; ma con precisa commissione di non udire cosa
alcuna per la quale si trattasse di alterare il governo o diminuire
il dominio: però, essendo discordi nello articolo principale, non
avendo anche potuto ottenere udienza da Cesare, ritornorono presto a
Firenze senza conclusione. Dove erano nove in diecimila fanti vivi,
ma pagati di sorte che ascendevano a piú di quattordicimila paghe.
Però i soldati difendevano la città con grande affezione e prontezza
di fede: i quali per stabilire tanto piú, i capitani tutti,
convocati nella chiesa di San Niccolò, dopo avere udita la messa,
feciono, presente Malatesta, uno solenne giuramento di difendere la
città insino alla morte. Solo in questa costanza e fedeltà de' fanti
italiani si dimostrò incostante e infedele Napolione Orsino; il
quale, ricevuti danari da' fiorentini, se ne ritornò a Bracciano, e
composte le cose sue col pontefice e con Cesare, fece opera che
alcuni capitani stativi mandati da lui si partissino da Firenze.
Ma il pontefice, non lasciando indietro diligenza alcuna per
ottenere lo intento suo, operò che il re di Francia mandò
Chiaramonte a Firenze a scusare l'accordo fatto, per la necessità di
riavere i figliuoli, e lo essere stato impossibile lo includervi
loro; confortandogli a pigliare gli accordi potevano, pure che
fussino utili e con la libertà: offerendo quasi di volersi
intromettere. Comandò ancora a Malatesta e a Stefano Colonna, come
uomini del re, e protestò loro che partissino di Firenze; benché da
parte segretamente dicesse il contrario. Ma quel che importò piú,
per la perdita della riputazione e spavento del popolo, fu che, per
sodisfare al pontefice e Cesare, levò monsignore di Viglí che
ordinariamente risedeva suo oratore in Firenze, lasciatovi però come
privato Emilio Ferretto per non gli disperare del tutto; e
promettendo anche loro segretamente di aiutargli, come avesse
ricuperato i figliuoli. E vacillò anche il re di fare partire
l'oratore fiorentino dalla sua corte: aiutandosi il pontefice con
tutte l'arti, perché per Tarbes mandò il cappello del cardinalato al
cancelliere, e non molto dipoi la legazione del regno di Francia.
Per il quale introdusse anche pratica di nuovo abboccamento, a
Turino, tra Cesare il re di Francia e lui. Ma fu risposto a Tarbes,
nel consiglio regio, che stando i figli in prigione era stoltizia
che il re andasse cercando di entrarvi anche lui.
Statuirono poi il pontefice e Cesare andare a Siena, per dare piú
dappresso favore alla impresa, e poi trasferirsi a Roma per la
corona: ma essendo già in procinto di partirsi, o vera o simulata
che fusse la deliberazione, sopravenneno lettere di Germania che lo
sollecitavano a trasferirsi di là facendone instanza gli elettori e
i príncipi per conto delle diete; Ferdinando per essere eletto re
de' romani, gli altri per rispetto del concilio. Però, omesso il
pensiero di andare innanzi, prese in Bologna, con concorso grande ma
con piccola pompa e spesa, la corona imperiale, il giorno di san
Mattia, giorno a lui di grandissima prosperità; perché in quel dí
era nato, in quel dí era stato fatto suo prigione il re di Francia,
in quel dí assunse i segni e ornamenti della degnità imperiale.
Attese nondimeno, innanzi partisse, alla concordia del duca di
Ferrara col pontefice; il quale a' sette di marzo venne a Bologna
con salvocondotto. Né si trovando altro esito a questa differenza,
fecieno compromesso di ragione e di fatto di tutte le loro
controversie in Cesare: inducendosi il pontefice a farlo perché,
essendo il compromesso generale, in modo che includeva ancora la
controversia di Ferrara, la quale non si dubitava che seconda i
termini giuridichi non fusse devoluta alla sedia apostolica, gli
parve che Cesare avesse il modo facile, col porgli silenzio sopra
Ferrara, a restituirgli Modena e Reggio; e perché Cesare gli impegnò
la fede, trovando che avesse ragione sopra quelle due città,
pronunziare il giudizio, trovando altrimenti lasciare spirare il
compromesso. E per sicurtà della osservanza del laudo, convenneno
che il duca deponesse Modena in mano di Cesare: il quale prima, a
instanza di Cesare, [aveva] rimosso l'oratore suo di Firenze e
mandato guastatori allo esercito. Partí dipoi Cesare da Bologna a'
ventidue, avuta intenzione dal pontefice di consentire al concilio
se si conoscesse essere utile per estirpare la eresia de' luterani;
e con lui andò legato il cardinale Campeggio. Ma arrivato a Mantova,
ricevuti dal duca di Ferrara sessantamila ducati, gli concedette la
terra di Carpi in feudo perpetuo. E il pontefice partí, a' trentuno,
alla volta di Roma; restando le cose di Firenze nelle medesime
difficoltà.
Lib.20, cap.2
Scaramuccie sotto Firenze. Francesco Ferruccio riconquista Volterra
arresasi al pontefice. Nuove scaramuccie tra fiorentini e imperiali.
Speranza de' fiorentini nel re di Francia e scarsi aiuti avutine.
Conquista della fortezza di Empoli da parte degli imperiali; ragioni
per cui i fiorentini non possono piú sperare negli aiuti del re di
Francia. Vani assalti degli imperiali a Volterra; sortita di
assediati da Firenze. Strettezze del vivere in Firenze; battaglia di
Gavinana; morte del principe d'Oranges e uccisione del Ferruccio.
Stato d'animo in Firenze; come Malatesta Baglioni forza i fiorentini
agli accordi; patti dell'accordo; mutamento del governo in Firenze.
Persecuzioni, e tristi condizioni della città.
Facevano [gli imperiali] molti segni di volere assaltare la città,
però si lavorava la trincea innanzi al bastione di San Giorgio; dove
essendosi fatta, a' ventuno di marzo, una grossa scaramuccia,
riceverono quegli di fuora assai danno. Batté Oranges a' venticinque
la torre di... a canto al bastione di San Giorgio verso la porta
Romana, perché offendeva molto l'esercito; ma trovandola
solidissima, dopo molte cannonate, se ne astenne. E accumulandosi
ogni dí nuova gente, poiché in Italia non erano né altre guerre né
altre prede, il Maramaus venne in quel di Siena, contro alla volontà
del pontefice, con dumila fanti.
Erasi la città di Volterra arrenduta al pontefice; ma tenendosi la
fortezza per i fiorentini, si batteva in nome degli imperiali con
due cannoni e tre colubrine venute da Genova: la quale desiderando i
fiorentini soccorrere, mandorono a Empoli cento cinquanta cavalli e
cinque bandiere di fanti, i quali, usciti di notte, passorono per il
campo tra Monte Uliveto e San Giorgio; ed essendo scoperti furno
mandati dietro a loro cavalli, i quali gli raggiunseno, ma
combattuti dagli archibusieri si ritirorono con qualche danno; e i
cavalli usciti di Firenze, per altra via dietro al campo, si
condusseno salvi. Entrorono adunque, a' ventisei di aprile a ventuna
ora, nella fortezza di...; e rinfrescati i soldati, assaltò subito
la terra: e prese, insino alla notte, due trincee; in modo che, la
mattina seguente, la città si dette. E guadagnò il Ferruccio
l'artiglieria venuta da Genova. E trovandosi in Volterra con
quattordici compagnie di fanti, arebbe fatto rivoltare Sangeminiano
e Colle e, interrompendo le vettovaglie che per quella via venivano
da Siena, messo lo esercito in grave difficoltà: i capitani del
quale non pensando piú se non allo assedio, il marchese del Guasto
ritirò in Prato l'artiglierie. Ma essendo opportunamente sopragiunto
in quelle bande il Maramaus, con dumila cinquecento fanti non
pagati, soccorso venuto (tanto sono incerte le cose della guerra)
contro alla volontà del pontefice, fermò l'impeto suo.
A' nove di maggio si fece una grossa scaramuccia fuora della porta
Romana: morti e feriti di quegli di dentro cento trenta, di quegli
di fuori piú di dugento; tra' quali il capitano Baragnino spagnuolo.
Speravano pure ancora i fiorentini dal re di Francia qualche
sussidio, il quale continuava di promettere grandissimo soccorso
recuperati che avesse i figliuoli; e per nutrirgli in questo mezzo
con speranza, dette assegnamento a mercatanti fiorentini per
ventimila ducati, dovuti loro molti anni innanzi, perché gli
prestassino alla città; i quali furono condotti a Pisa da Luigi
Alamanni, ma in piú volte, in modo che feceno poco frutto. Venne
anche a Pisa Giampaolo da Ceri, condotto da' fiorentini per la
guardia di quella città.
Ma l'acquisto di Volterra generò danno molto maggiore a fiorentini,
perché il Ferruccio, contro alla commissione avuta, aveva, per
andare piú forte a Volterra e per confidarsi troppo della fortezza
di Empoli, lasciatovi sí poca guardia che, dato animo agli imperiali
di espugnarlo, vi andorono a campo e lo preseno per forza e
saccheggioronlo. La perdita del quale luogo afflisse, piú che altra
cosa che fusse succeduta in quella guerra, i fiorentini; perché,
avendo disegnato fare in quel luogo massa di nuove genti, speravano
con l'opportunità del sito, che è grandissima, mettere in difficoltà
grande l'esercito alloggiato da quella parte d'Arno, e aprire la
comodità delle vettovaglie a' fiorentini che già molto ne pativano.
E si aggiunse nuova cagione di privargli tanto piú delle speranze
concepute, perché avendo il re di Francia, al principio di giugno,
pagato, secondo le loro convenzioni, i danari a Cesare e riavuti i
figliuoli, in luogo di tanti aiuti che aveva sempre detto di
riservare a quel tempo, mandò a instanza del pontefice (il quale per
gratificarsi totalmente i ministri suoi creò il vescovo di Tarba,
oratore appresso a lui, cardinale) Pierfrancesco da Pontriemoli,
confidente a lui in Italia, per trattare la pratica dello accordo
co' fiorentini; che, per questo, al tutto perderono la speranza
degli aiuti di quel re: il quale insieme col re di Inghilterra,
essendo congiunti insieme, facevano ogni opera per conciliarsi in
modo il pontefice che potessino sperare di separarlo da Cesare. E
però il re di Francia si sforzava avere, nel fare venire Firenze in
sua potestà, qualche grado e qualche partecipazione.
Preso che ebbe il marchese del Guasto Empoli, andò con quelle genti
a unirsi col Maramaus nel borgo di Volterra; ed essendo circa
seimila fanti cominciorono a battere la terra, ed essendo in terra
forse quaranta braccia di mura detteno tre assalti invano, con la
morte di piú di quattrocento uomini. Feciono poi nuova batteria, e
detteno uno assalto gagliardo co' fanti italiani e spagnuoli ma con
danno maggiore che negli assalti di prima; in modo che il campo si
levò. E il medesimo dí, un'ora innanzi giorno, uscirono Stefano
Colonna dalla porta a Faenza con una incamiciata di tremila fanti, e
Malatesta dalla porticciuola al Prato, per assaltare i tedeschi che
alloggiavano nel monasterio di San Donato, nel quale si erano
fortificati. Passò Stefano le trincee e ne ammazzò molti, ma gli
altri messisi in questo mezzo in battaglia si difeseno francamente;
e Stefano ferito in bocca e nel membro virile, ma leggiermente, si
ritirò, non potendo tardare molto per paura del soccorso, e
lamentandosi gravemente di Malatesta che non l'avesse seguitato.
Cresceva continuamente in Firenze, dove non entrava piú vettovaglia
da parte alcuna, la strettezza del vivere; e nondimeno non diminuiva
la ostinazione. Ed essendo andato da Volterra a Pisa il Ferruccio e
raccogliendo quanti piú fanti poteva, era ridotta tutta la speranza
loro nella venuta sua: perché gli avevano commesso che, per
qualunque via e con ogni pericolo, si mettesse a venire; disegnando,
come fusse unito con le genti che erano in Firenze, di andare a
combattere con gli inimici. Nel quale disegno non fu maggiore la
felicità del successo che fusse grande la temerità della
deliberazione, se temerari si possono chiamare i consigli spinti
dall'ultima necessità. Perché avendo a passare per paesi inimici, e
occupati da esercito molto grosso benché disperso in molti luoghi,
il principe, levata una parte dello esercito e raccolte piú bande di
fanti italiani, avuta (come i fiorentini sospettorono) fede
occultamente da Malatesta Baglione, col quale aveva pratiche
strettissime, che in assenza sua non assalterebbe l'esercito, andò a
incontrarlo; e trovatolo presso a Cavinana, nella montagna di
Pistoia (il quale cammino aveva preso passando da Pisa accanto a
Lucca, per la confidenza della fazione Cancelliera affezionata al
governo popolare), si attaccò con lui molto superiore di forze:
dove, nel primo impeto, facendo il principe offizio di uomo d'arme
non di capitano, spintosi temerariamente innanzi fu ammazzato.
Nondimeno ottenuta da' suoi la vittoria, restò prigione insieme con
molti altri Giampaolo da Ceri e il Ferruccio, che cosí prigione fu
ammazzato da Fabrizio Maramaus, per sdegno, secondo disse, conceputo
da lui quando, nella oppugnazione di Volterra, fece appiccare uno
trombetto, mandato in Volterra da Fabrizio con certa imbasciata.
Cosí abbandonati i fiorentini da ogni aiuto divino e umano, e
prevalendo la fame senza speranza alcuna che potesse piú essere
sollevata, era nondimeno maggiore la pertinacia di quegli che si
opponevano allo accordo: i quali, indotti dalla ultima disperazione
di non volere che senza l'eccidio della patria fusse la rovina loro,
né trattandosi piú che essi o altri cittadini morissino per salvare
la patria ma che la patria morisse insieme con loro, erano anche
seguitati da molti che avevano impresso nell'animo che gli aiuti
miracolosi di Dio si avessino a dimostrare, ma non prima che
condotte le cose a termine che quasi piú niente di spirito vi
avanzasse. Ed era pericolo che la guerra non finisse con l'ultimo
esterminio di quella città, perché in questa ostinazione
concorrevano i magistrati, e quasi tutti quegli che avevano in mano
la publica autorità; non restando luogo agli altri, che sentivano il
contrario, di contradire per timore de' magistrati e minacci
dell'arme: se Malatesta Baglioni, conoscendo le cose senza rimedio,
non gli avesse quasi sforzati a concordare; movendolo forse la pietà
di vedere totalmente perire, per la rabbia de' suoi cittadini, sí
preclara città, e il disonore e danno che gli risulterebbe a
trovarsi presente a tanta rovina; ma molto piú, secondo si credette,
la speranza di conseguire dal papa, per mezzo di questo accordo, di
ritornare in Perugia. Però, mentre che i magistrati e gli altri piú
caldi trattano che le genti uscissino della città a combattere con
gli inimici, molto maggiori di numero e alloggiati in luoghi forti,
ed egli recusa, moltiplicarono in tanta insania che cassatolo del
capitanato mandorono alcuni di loro de' piú pertinaci a
denunziargliene, e fargli comandamento che partisse con le sue genti
della città: alla quale esposizione concitato molto di animo, con
uno pugnale che aveva a canto ferí uno di loro, che con fatica gli
fu vivo tolto delle mani da' circostanti; di che spaventati gli
altri, e cominciatasi a sollevare la città, repressa da quegli di
minore insania la temerità del gonfaloniere che si armava, ora
dicendo volere assaltare Malatesta ora uscire a combattere con gli
inimici, finalmente l'ostinazione estrema di molti cedé alla
necessità estrema di tutti. Però, mandati a' nove di agosto quattro
oratori a don Ferrando da Gonzaga, che per la morte del principe
teneva il primo luogo dello esercito, perché il marchese del Guasto
molto prima si era partito, fu concluso il dí seguente l'accordo;
del quale, oltre a obligarsi la città a pagare in pochissimi dí
ottantamila ducati per levare l'esercito, furono gli articoli
principali che il papa e la città detteno autorità a Cesare che
infra tre mesi dichiarasse quale avesse a essere la forma del
governo, salva nondimeno la libertà: e che si intendessino perdonate
a ciascuno tutte le ingiurie fatte al papa e a' suoi amici e
servitori; e che, insino a tanto venisse la dichiarazione di Cesare,
restasse a guardia della città con dumila fanti Malatesta Baglione.
Il quale accordo fatto, mentre si espediscono i denari per dare allo
esercito, (bisognò si provedesse di somma molto maggiore, non
essendo il papa molto pronto ad aiutare la città di denari in tanto
pericolo), il commissario apostolico, che era Bartolomeo Valori,
intesosi con Malatesta, intento tutto al ritorno di Perugia,
convocato in piazza il popolo, secondo la consuetudine antica della
città, a fare parlamento, cedendo a questo i magistrati e gli altri
per timore, indusse nuova forma di governo; dandosi per il
parlamento autorità a dodici cittadini che aderivano a' Medici di
ordinare a modo loro il governo della città, che lo ridusseno a
quella forma che soleva essere innanzi all'anno mille cinquecento
ventisette. Levossi poi l'esercito, avendo ricevuto i denari; i
quali i capitani italiani, per convertirgli in uso suo e non pagarne
i soldati, con grande ignominia della milizia, si ritirorono con
essi in Firenze, licenziati con pochissimi denari i fanti: i quali
restando senza capo se ne andorono dispersi in varie parti; e lo
esercito degli spagnuoli e tedeschi, pagati del tutto e lasciato
vacue tutte le terre e dominio fiorentino, se ne andò in quel di
Siena per riordinare il governo di quella città; e Malatesta
Baglione, concedendogli il papa il ritornare in Perugia, non
aspettata altra dichiarazione di Cesare, lasciò la città libera in
arbitrio del pontefice.
Dove, come furono partiti tutti i soldati, cominciorono i supplizi e
le persecuzioni de' cittadini: perché quegli in mano di chi era il
governo, parte per assicurare meglio lo stato, parte per lo sdegno
conceputo contro agli autori di tanti mali e per la memoria delle
ingiurie ricevute privatamente, ma principalmente perché cosí fu
(benché lo manifestasse a pochi) la intenzione del pontefice,
interpretorono, osservando forse la superficie delle parole ma
cavillando il senso, che il capitolo per il quale si prometteva la
venia a chi avesse ingiuriato il pontefice e gli amici suoi non
cancellasse le ingiurie e i delitti commessi da loro nelle cose
della republica. Però, messa la cognizione in mano de' magistrati,
ne furono decapitati sei de' principali, altri incarcerati e
relegatine grandissimo numero. Per il che essendo indebolita piú la
città, e messi in maggiore necessità quegli che avevano partecipato
in queste cose, restò piú libera e piú assoluta e quasi regia la
potestà de' Medici in quella città, restata per sí lunga e grave
guerra esaustissima di denari, privata dentro e fuora di molti
abitatori, perdute le case e le sostanze, e piú che mai divisa in se
medesima: la quale povertà fece ancora maggiore la necessità di
provedere, per piú anni, di paesi esterni alle vettovaglie del
paese. Con ciò sia che quello anno non si fusse ricolto né dipoi
seminato, e i disordini di quello anno trasfusi negli altri; in modo
che piú denari uscirono di quella città, estenuata sopramodo e
afflitta, in fare venire frumenti di luoghi lontani e bestiami fuora
del dominio che non erano usciti per conto della guerra, sí grave e
piena di tante spese.
Lib.20, cap.3
La questione religiosa in Germania e il desiderio generale d'un
concilio; ragioni di avversione del pontefice al concilio, e
condizioni poste per la convocazione di esso. Pratiche del re di
Francia coi turchi.
Cesare intanto, in Germania, convocata la dieta in Augusta, aveva
fatto eleggere in re de' romani Ferdinando suo fratello. E
trattandosi delle cose de' luterani, sospette eziandio alla potenza
de' príncipi, e derivate, per la moltitudine e ambizione de'
settatori, in diverse eresie e quasi contrarie l'una a l'altra e a
Martino Luter, autore di questa peste (la vita e l'autorità del
quale, tanto era diffuso e radicato questo veleno, non era piú di
momento alcuno), nessuno occorreva a' príncipi di Germania migliore
rimedio che la celebrazione di uno concilio universale; perché e i
luterani, volendo coprire la causa loro con l'autorità della
religione, instavano che questo si facesse, e si credeva che
l'autorità de' decreti che facesse il concilio bastasse, se non a
piegare gli animi de' capi degli eretici da' loro errori, almeno a
ridurre una parte della moltitudine nella migliore sentenza.
Senzaché in Germania, eziandio da quegli che seguitavano le opinioni
cattoliche, era desiderato molto il concilio perché si riformassino
i gravamenti e gli abusi trascorsi della corte di Roma; la quale, e
con l'autorità delle indulgenze e con la larghezza delle dispense e
con volere l'annate de' benefizi che si conferivano, e con le spese
che nella espedizione d'essi si facevano negli uffizi tanto
moltiplicati di quella corte, pareva che non attendesse ad altro se
non a esigere, con questa arte, quantità grande di denari da tutta
la cristianità; non avendo intratanto cura alcuna della salute delle
anime né che le cose ecclesiastiche fussino governate rettamente:
perché e molti benefizi incompatibili si conferivano in una persona
medesima, né avendo rispetto alcuno a' meriti degli uomini si
distribuivano per favori, o in persone incapaci per la età o in
uomini vacui al tutto di dottrina e di lettere e (quel che era
peggio) spesso in persone di perditissimi costumi. Alla quale
instanza di tutta la Germania desideroso Cesare di sodisfare, e
perché anche era a proposito delle cose sue in quella provincia
sedare le cagioni de' tumulti e della contumacia de' popoli,
instette molto col papa, ricordandogli i ragionamenti avuti insieme
a Bologna, che indicesse il concilio, e promettendogli, acciò che
non temesse di avere a mettere in pericolo l'autorità e la degnità
sua, di trovarvisi presente per avere cura particolare di lui.
Nessuna cosa dispiaceva piú al papa di questa, ma per conservare la
esistimazione della buona mente sua dissimulava questa inclinazione:
o causata da temere che, per moderare le abusioni della corte e le
indiscrete concessioni de' pontefici, non si diminuisse troppo la
facoltà pontificale; o per ricordarsi che, se bene quando fu
promosso al cardinalato era stato provato con testimoni che i suoi
natali fussino legittimi, e nondimeno essere in verità il contrario
(il che se bene non si trovasse legge scritta che proibisse
ascendere al pontificato chi fusse nato in questo modo, nondimeno
era inveterata e comune opinione che chi non era legittimo non
potesse eziandio essere creato cardinale) o temendo che non senza
qualche sospetto di simonia, usata col cardinale Colonna, fusse
stato assunto al pontificato, o dubitando che la acerbità grande
usata contro alla patria, con tanti tumulti di guerra, non gli desse
infamia indelebile appresso al concilio, massime essendo apparito
per gli effetti averlo mosso non, come da principio publicava, il
desiderio di ridurla a buono e moderato governo ma la cupidità di
farla tornare nella tirannide de' suoi. Però, aborrendo il concilio,
né avendo per sicurtà bastante la fede di Cesare, comunicando le
cose con cardinali deputati alla discussione di questa materia,
sospettosi ancora loro della correzione del concilio, rispondeva
mostrando molte ragioni per le quali non era opportuno a trattarne,
non si vedendo ancora stabilita bene la pace tra i príncipi
cristiani, temendosi di nuovi moti del turco, i quali non sarebbe
utile che trovassino la cristianità occupata nelle disputazioni e
contenzioni del concilio: e nondimeno, mostrando rimettersene al
parere di Cesare, conchiudeva essere contento che e' promettesse
nella dieta la indizione del concilio, pure che si celebrasse in
Italia e presente lui, assegnato tempo congruo a congregarlo, e che
i luterani e altri eretici, promettendo di stare alla determinazione
del concilio, desistessino intratanto dalle corruttele loro, e
rimettendo la sedia apostolica nella possessione della sua obedienza
vivessino come solevano prima, e come cattolici cristiani. Da che si
difficultava tutta la pratica: perché i luterani non solo non erano
per desistere dalle opinioni e riti loro innanzi alla celebrazione
del concilio, ma si credeva comunemente che aborrissino il concilio
non potendo aspettarne altro che reprobazione delle opinioni loro
(conciossiaché la maggiore parte di quelle, e le piú principali,
fussino state reprobate piú volte come eretiche dagli antichi
concili), ma che dimandassino la convocazione di esso perché,
sapendo essere cosa spaventosa a' pontefici, si persuadessino non
avesse a essere concesso, e cosí sostentare con maggiore autorità
appresso a' popoli la causa loro.
Finí in queste agitazioni l'anno mille cinquecento trenta e
succedette il mille cinquecento trentuno, nel quale fu piccola
materia di movimenti. Perché, se bene per molti segni si
comprendesse il re di Francia essere malcontento degli accordi fatti
con Cesare e cupidissimo di nuovi tumulti, e a questo medesimo
inclinare anche il re di Inghilterra, sdegnato con Cesare che
difendendo la sorella di sua madre oppugnava la causa del divorzio,
nondimeno, essendo il re di Francia esausto di denari, né ancora
riposato da' travagli di sí lunghe guerre, non era ancora il tempo
opportuno a suscitare innovazioni; ma attendeva intratanto a
praticare, cosí in Germania co' príncipi che erano d'animo alieno da
Cesare come in Italia col pontefice, proponendogli, per farselo
benivolo, pratiche di matrimonio tra il figliuolo suo secondogenito
e la nipote di lui; e (quello che si trattava con maggiore offesa di
Dio e con orribile infamia della corona di Francia, che aveva fatto
sempre precipua professione di difendere la religione cristiana, per
i quali meriti aveva conseguitato il titolo del cristianissimo)
tenendo pratiche col principe de' turchi per irritarlo contro a
Cesare, contro al quale era per l'ordinario mal disposto, sí per
l'odio naturale contro al nome de' cristiani come per cagione delle
controversie che aveva col fratello, che erano quistioni per il
regno d'Ungheria col vaivoda di chi egli aveva preso la protezione,
come eziandio perché la grandezza di Cesare cominciava a essere
sospetta anche a lui.
Lib.20, cap.4
Movimenti politici in Siena. La forma di governo in Firenze
stabilita da Cesare. Giudizio di Cesare riguardo alle controversie
fra il pontefice e il duca di Ferrara; malcontento del pontefice;
sua ostilità verso il duca.
In Italia si levò l'esercito di quel di Siena per condurlo nel
Piemonte; avendo rimesso in Siena, per sodisfazione del papa, a
godere la patria e i beni loro quegli del Monte de' nove, ma non
alterata la forma del governo, e messovi per sicurtà loro una
guardia di trecento fanti spagnuoli, dependente dal duca di Malfi:
il quale per aversi saputo poco conservare la sua autorità,
ritornorno presto le cose ne' medesimi disordini; in modo che,
quegli che erano stati rimessi, per timore, se ne partirono.
Dichiarò eziandio Cesare in questo tempo la forma del governo di
Firenze, dissimulata quella parte dell'autorità concessagli che
limitava salva la libertà: perché, secondo la propria istruzione
mandatagli dal papa, espresse che la città si governasse con quegli
magistrati e con quel modo che era solita governarsi ne' tempi che
la reggevano i Medici, e che del governo fusse capo Alessandro
nipote del pontefice e genero suo, e mancando lui succedessino di
mano in mano i figliuoli e discendenti, e i piú prossimi della
medesima famiglia. Restituí alla città tutti i privilegi concessigli
altre volte da sé e da' suoi predecessori, ma con condizione che ne
ricadessino ogni volta che attentassino cosa alcuna contro alla
grandezza della famiglia de' Medici; inserendo in tutto il decreto
parole che mostravano fondarsi non solo nella potestà concessagli
dalle parti ma eziandio nell'autorità e degnità imperiale.
Nelle quali cose avendo sodisfatto al papa forse piú che alla
facoltà concessagli nel compromesso, lo offese incontinente in cosa
che gli fu molto grave. Perché, poi che da piú dottori, a' quali
l'aveva commesso, fu udita ed esaminata la controversia tra il
pontefice e il duca di Ferrara, sopra la quale erano stati per
tutt'e due le parti prodotti molti testimoni e scritture e fatto
lungo processo, pronunziò per consiglio e relazione loro, Modena e
Reggio con quelle terre appartenersi di ragione al duca di Ferrara;
e che il pontefice, ricevuti da lui centomila ducati e ridotto il
censo al modo antico, lo rinvestisse della giurisdizione di Ferrara.
Sforzossi Cesare fare capace al papa che se, contro alla promessa
fattagli in Bologna (di non pronunziare in caso trovasse la causa
sua non essere giusta), aveva pronunziato, doversi lamentare non di
sé ma del vescovo di Vasone nunzio suo; al quale non aveva mancato
di fare intendere che non voleva lodare per non essere costretto a
dargli il giudizio contro, ma che egli, persuadendosi il contrario,
e che questo si dicesse per scaricarsi dalla promessa fattagli di
lodare se le ragioni erano per lui, aveva fatto tanta instanza che
si pronunziasse che era stato necessitato di farlo per conservazione
dell'onore suo: la quale scusa sarebbe stata piú capace se il
giudizio non fusse stato in quel medesimo effetto nel quale Cesare
aveva tentato molte volte di ridurre la cosa per concordia. Ma
offese ancora molto piú il pontefice il vedere che Cesare, nel
pronunziare sopra le cose di Modena e Reggio, aveva seguitato la via
di giudice rigoroso; ma in quelle di Ferrara, nelle quali il rigore
era manifestamente per sé, aveva seguitato l'uffizio di amicabile
compositore. Però il papa non volle ratificare il lodo dato, non
pigliare il pagamento de' denari ne' quali era condennato il duca; e
nella prossima festività di san Piero non accettò il censo
offertogli, secondo il costume antico, publicamente. Ma non restò
per questo Cesare di consegnare al duca di Ferrara Modena, tenuta
insino a quel dí da lui in deposito, lasciando poi decidere tra loro
le altercazioni: donde, per molti mesi, né fu scoperta guerra tra il
papa e il duca né sicura pace, essendo tutto intento il pontefice o
a opprimerlo con insidie o ad aspettare occasione di potere, con
appoggio di maggiori príncipi, offenderlo scopertamente.
Lib.20, cap.5
Impresa dei turchi contro l'Ungheria; loro ritirata e lentezza di
Cesare; sedizione in Germania dei fanti italiani. Prigionia e
liberazione del cardinale dei Medici e di Piermaria Rosso. Rinuncia
dei re di Francia e d'Inghilterra a muover guerra a Cesare in
Italia.
Non ebbe questo anno trentuno altri accidenti; e si andò continuando
anche la quiete nel futuro anno, il quale fu piú pericoloso per
guerre esterne che per movimenti di Italia. Perché il turco, acceso
dall'ignominia della ributtata di Vienna e inteso Cesare essere in
Germania, preparò grossissimo esercito, magnificando gli apparati
con publicare di volere fare la guerra per costrignere Cesare a fare
giornata seco: per la fama delle quali preparazioni e Cesare si
messe in ordine quanto poteva, facendo eziandio passare il marchese
del Guasto in Germania con le genti spagnuole e con grossa banda di
cavalli e di fanti italiani; e il papa gli promesse soccorrerlo con
quarantamila ducati ciascuno mese, e mandò a quella espedizione per
legato apostolico il cardinale de' Medici suo nipote; e i príncipi e
terre franche di Germania preparorono, in favore di Cesare e per la
difensione comune della Germania, uno esercito molto grosso. Ma
riuscirono gli effetti molto dissimili alla fama e al terrore.
Perché Solimanno, entrato tardi in Ungheria, non avendo potuto
arrivarvi prima per la grandezza degli apparati e per la distanza
del cammino, non andò dirittamente con l'esercito alla volta di
Cesare, ma mostrata solamente la guerra e fatta una grossa scorreria
se ne ritornò in Costantinopoli: né si dimostrò anche in Cesare
maggiore prontezza, perché, inteso l'avvicinarsi de' turchi, non si
fece loro incontro, e come intese la ritirata non ebbe pensiero di
proseguire con tutte le forze l'occasione dell'acquistare per il
fratello l'Ungheria; ma ardente di desiderio di ritornare in Spagna,
ordinò che i fanti italiani con certo numero di tedeschi andassino
alla impresa d'Ungheria. Ma gli fu disordinato anche questo disegno;
perché i fanti italiani, sollevati da qualcuno de' capi loro che
veddeno preposti altri capitani a quella impresa, ammutinati, non
sapendo allegare cagione del loro tumulto, né bastando a placargli
l'autorità di Cesare che andò in persona a parlare loro, preseno
unitamente il cammino di Italia, camminando con grandissima celerità
per timore di non essere seguitati, e per il cammino ardendo molte
ville e case come terre degli inimici, in vendetta (secondo
dicevano) degli incendi fatti da' tedeschi in Italia.
Era già anche Cesare voltatosi al cammino di Italia; e avendo
disegnato con che ordine e in che alloggiamento dovesse procedere la
sua corte e tutto il suo traino, il cardinale de' Medici, mosso da
impeto giovinile, non volendo stare a quell'ordine che era dato, si
spinse innanzi, e con lui Piermaria Rosso, a chi principalmente si
attribuiva la colpa di quella sedizione: donde sdegnato Cesare, o
perché attribuisse l'origine di quella cosa al cardinale o perché
(secondo disse) temesse che il cardinale, che era malcontento che
Alessandro suo cugino fusse proposto allo stato di Firenze, non
andasse dietro a quegli fanti per condurgli a turbare le cose di là,
fece in cammino ritenere il cardinale e con lui Piermaria; ma
considerando poi meglio la importanza della cosa, scrisse subito che
fusse liberato, e ne fece seco e col papa molte escusazioni. Restò
prigione Piermaria ma non molto dipoi fu relassato, giovandogli,
come si credette, appresso a Cesare assai la ingiuria che gli pareva
avere fatto al cardinale.
La partita del turco alleggerí Italia dalla guerra imminente. Perché
il re di Francia e il re di Inghilterra, pieni di odio e di sdegno
contro a Cesare, si erano abboccati tra Cales e Bologna; dove,
persuadendosi che il turco avesse a fermarsi quella vernata in
Ungheria e cosí tenere implicate le forze di Cesare, trattavano che
il re di Francia assaltasse il ducato di Milano; e disposti a tirare
il papa nelle loro parti con asprezza e con spavento, poi che non
era insino allora potuto succedere per altra via, trattavano di
levargli l'ubbidienza de' regni loro in caso non consentisse a
quello desideravano, che era, nel re di Francia volere lo stato di
Milano, in quello di Inghilterra la sentenza per sé della causa del
divorzio: e già avevano disegnato mandare a lui con acerbe
commissioni i cardinali di Tornon e di Tarbes, grandi l'uno e
l'altro di autorità appresso al re di Francia. Ma mollificò questi
disegni lo intendere, innanzi partissino dallo abboccamento, la
ritirata del turco; e interroppe anche, che il re di Inghilterra non
facesse passare a Cales Anna, per celebrare publicamente in quel
convento il matrimonio con lei, non ostante che la lite pendesse
nella corte di Roma e che per brevi apostolici gli fusse proibito,
sotto pena di gravissime censure, lo attentare cosa alcuna in
pregiudizio del primo matrimonio: nondimeno il re di Francia, per
dimostrare al re di Inghilterra il male animo contro alla Chiesa
romana, ancora che la intenzione sua fusse cercare di guadagnarsi
con modi dolci il pontefice, impose di sua autorità decime al clero
per tutto il regno di Francia, ed espedí i due cardinali al papa, ma
con commissione molto diversa da quelle che da principio erano state
disegnate.
Lib.20, cap.6
Nuovo convegno del pontefice e di Cesare a Bologna; ragioni di
minore concordia. Politica dei delegati del pontefice; difficoltà di
accordi coi veneziani e col duca di Ferrara; condizioni della nuova
confederazione. Scarsi risultati della discussione fra il pontefice
e Cesare sull'opportunità della convocazione del concilio. Pratiche
pel matrimonio del figlio del re di Francia con la nipote del
pontefice; soddisfazione del pontefice e sospetti di Cesare.
Confederazione segreta fra il pontefice e Cesare.
Venne Cesare in Italia, e desiderando parlare col pontefice fu
statuito di nuovo tra loro il luogo di Bologna, accettato
cupidamente dal papa per non dare occasione a Cesare, come era
confortato da molti de' suoi, di andare nel regno di Napoli, e cosí
dimorare piú tempo in Italia: il che era anche contro alla mente di
Cesare, desideroso di andarsene in Spagna, e per altre ragioni; ma
principalmente per desiderio di procreare figliuoli, essendovi
restata la moglie. Però l'uno e l'altro di loro convenneno, alla
fine dell'anno, in Bologna, dove tra loro furono servate le medesime
dimostrazioni di amore e la medesima dimestichezza che era stata
usata l'altra volta. Ma non erano piú corrispondenti gli animi, come
era stato allora, nelle negoziazioni. Perché Cesare desiderava, per
quiete e sodisfazione di Germania, sommamente il concilio; instava
di volere dissolvere l'esercito, grave e a lui e agli altri, ma, per
poterlo fare sicuramente, che si rinnovasse l'ultima lega fatta in
Bologna per includervi dentro ognuno, e per tassare le quantità de'
denari in che ciascuno avesse a contribuire, se Italia fusse
assaltata da' franzesi; desiderava anche che Caterina nipote del
papa si maritasse a Francesco Sforza, sí per necessitare piú il papa
a attendere alla conservazione di quello stato, sí per interrompere
la pratica del parentado che si era trattato col re di Francia.
Delle quali cose nessuna piaceva al pontefice: perché il
confederarsi era contrario al desiderio suo di mantenersi il piú
poteva neutrale tra i príncipi cristiani, dubitando e degli altri
pericoli e specialmente che il re di Francia, essendone massime
istigato tanto dal re di Inghilterra, non gli levasse l'ubbidienza;
il concilio, per l'antiche cagioni, gli era molestissimo; né gli
piaceva il parentado col duca di Milano, per non pigliare quasi una
aperta inimicizia col re di Francia, e perché ardeva di desiderio di
congiugnere la nipote al secondogenito del re.
Trattossi di queste materie, principalmente quella della
confederazione; alla quale pratica, di piú mesi, furono diputati,
per la parte di Cesare, Cuovos comandatore maggiore di Leone,
Granvela e Prata, suoi principali consiglieri, e per la parte del
papa il cardinale de' Medici, Iacopo Salviati e il Guicciardino: i
quali, non negando la confederazione (perché era uno scoprire troppo
la intenzione del pontefice e dare causa a Cesare di avere
giustamente gravissimo sospetto di lui), instavano che si facesse
ogni opera per farvi condescendere i viniziani, allegando che e
senza gli aiuti loro la difesa sarebbe debole, e che con piú
riputazione si conservavano le cose comuni mantenendosi in su la
fama della prima confederazione che, facendone un'altra senza loro,
fare nascere per tutto opinione che tra Cesare il papa e i viniziani
fusse discordia. Però furono ricercati di consentire a nuova
confederazione per la difesa di tutta Italia; perché per la prima
non erano tenuti ad altro che alle cose dello stato di Milano e del
regno di Napoli; e desiderava sommamente Cesare che e' fussino anche
obligati alla difesa di Genova, dove si pensava che, quando avesse a
essere guerra, i franzesi facessino facilmente il primo assalto:
perché pretendevano, per cagioni e interessi particolari, poterlo
fare senza contravenire agli accordi di Madril e di Cambrai. Negò
quel senato volere fare nuova confederazione o ampliare le
obligazioni che in quella si contenevano, con grave sdegno di
Cesare, non ostante che affermassino volere osservare
inviolabilmente questa congiunzione. E nondimeno Cesare instette
tanto piú col papa, ribattendo le ragioni che per la parte sua si
allegavano in contrario, in modo che si entrò nel praticare gli
articoli della confederazione, e si chiamorono tutti i potentati di
Italia che mandassino imbasciadori a questa pratica; i quali furno
ricercati che entrassino nella confederazione, contribuendo al caso
della guerra secondo le forze e possibilità loro. A che non essendo
fatta per alcuno difficoltà, ma solamente sforzandosi ciascuno dí
alleggerire quello che gli era dimandato di contribuzione, solo
Alfonso da Esti propose non potere entrare in lega per difendere gli
stati di altri se prima non fusse assicurato del suo: perché, come
essere conveniente che avesse a guardarsi dal pontefice e entrare in
lega con lui? come potere contribuire co' suoi denari alla difesa di
Milano o di Genova se era necessitato spendergli continuamente per
tenere gente in Modena e in Reggio, e anche per essere sicuro di
Ferrara? Da questa dimanda nacque nuova pratica di concordarlo col
papa. Il quale, avendone l'animo alienissimo, né volendo cosí
apertamente resistere alla instanza di Cesare, proponeva condizioni
inesplicabili; perché, quando pure avesse a lasciare Modena e Reggio
ad Alfonso (che altrimenti non era per convenire) voleva le
riconoscesse in feudo dalla sedia apostolica: il che non si potendo
fare, in modo che fusse giuridicamente valido, senza consenso degli
elettori e príncipi dello imperio, metteva Cesare in una difficoltà
che non aveva esito. Però si ridusse a pregare il pontefice che,
almeno durante la lega, si obligasse di non offendere lo stato che
teneva Alfonso: in che, dopo molte dispute, il papa consentí, di
assicurarlo per diciotto mesi. E fu finalmente conchiusa la lega, la
quale fu stipulata il giorno, tanto felice a Cesare, di san Mattia.
Contenne la confederazione obligo, da' viniziani in fuora, di Cesare
del re de' romani e di tutti gli altri potentati d'Italia, alla
difesa d'Italia; non vi nominando però dentro i fiorentini, per
rispetto di non turbare i loro commerci, se non nel modo che erano
stati nominati nella lega di Cugnach. Fu espresso con che numero di
gente avesse ciascuno di loro a concorrere, e con che quantità di
denari a contribuire ciascuno mese: Cesare per trentamila ducati, il
pontefice, che si disegnava pagasse per sé e per i fiorentini, per
ventimila, il duca di Milano per quindicimila, il duca di Ferrara
per diecimila, genovesi per [seimila], sanesi per [dumila], lucchesi
per mille, e che, per trovarsi qualche preparazione a uno assalto
improviso, tanto che con contribuzioni si potesse poi difendersi, si
facesse allora uno deposito di somma quasi pari alle contribuzioni,
che non si potesse spendere se non in caso che si vedesse in pronto
le preparazioni di assaltare Italia. Ordinossi ancora una piccola
contribuzione annuale per intrattenere i capitani che restavano in
Italia, e per pagare certe pensioni a' svizzeri, acciò che non
avessino causa di dare fanti al re di Francia: e di comune consenso
fu dichiarato capitano generale di tutta la lega Antonio de Leva,
con ordine si fermasse nel ducato di Milano.
Del concilio non fu conchiuso con sodisfazione di Cesare, che
instava che il papa allora lo intimasse: il quale ricusava,
allegando che in questa mala disposizione degli animi era pericolo
non fusse ricusato da' re di Francia e di Inghilterra, e che
facendosi senza loro non poteva introdurre né unione né riformazione
della Chiesa, ma era pericolosissimo non ne nascesse lo scisma;
essere contento mandare nunzi a tutti i príncipi per indurgli a
opera sí santa. E replicando Cesare: che sarà adunque se essi
dissentiranno senza giusta cagione? e volendo che in tale caso il
papa gli proponesse di intimarlo, non potette disporlo. In modo che
si diputorono e mandorono i nunzi con poca speranza di riportarne
conclusione.
Ma non restò anche Cesare piú sodisfatto della pratica del
parentado. Perché essendo venuti a Bologna i due cardinali, e
introdotto di nuovo il ragionamento del parentado del re di Francia,
il pontefice replicava a quello del duca di Milano, che avendogli il
re molto prima proposto il matrimonio del suo figliuolo, ed egli
udita la pratica con consenso di Cesare (che allora dimostrò di
esserne contento), gli pareva fare troppa ingiuria al re di Francia
se, pendenti questi ragionamenti, la maritasse a uno inimico suo:
credere che questo fusse introdotto dal re artificiosamente, per
intrattenerlo e non con animo di conchiudere, essendovi tanta
disparità di grado e di condizione; ma che se prima non si escludeva
del tutto questa pratica non voleva fare offesa sí grave al re. Né
essendo capace a Cesare che il re di Francia volesse tôrre per uno
suo figliuolo una tanto dissimile a lui, confortò il papa che per
chiarirsi degli inganni del re, instesse co' due cardinali che
facessino venire il mandato a poterlo contraere; i quali,
dimostratisi prontissimi, lo fecieno in brevissimi dí venire in
forma amplissima: donde non solo si escluse ogni speranza del
parentado con Francesco Sforza, ma ancora si ristrinse la pratica
col re di Francia; aggiugnendovisi ancora che, come molto prima si
era tra loro ragionato, il papa e il re di Francia si convenissino
insieme a Nizza, città del duca di Savoia e posta appresso al fiume
del Varo, che è confine tra l'Italia e la Provenza. Le quali cose
erano molto moleste a Cesare; sí per sospetto che tra il papa e il
re di Francia non si facesse maggiore congiunzione in pregiudizio
suo, sapendo quale fusse l'animo del re contro a sé, e dubitando che
nel pontefice non risedesse ancora occultamente la memoria della sua
incarcerazione, del sacco di Roma e della mutazione dello stato di
Firenze; movendolo ancora lo sdegno che quello onore che gli pareva
che il papa gli avesse fatto, di andare ad abboccarsi seco due volte
a Bologna, si diminuisse, anzi si annichilasse, se andava a trovare
per mare il re di Francia insino a Nizza. Né dissimulava questo
dispiacere e le cagioni, ma invano: perché nel pontefice era fissa
nell'animo, anzi ardente, la cupidità di questo parentado; movendolo
piú presto l'ambizione e lo appetito della gloria, che essendo di
casa quasi privata avesse conseguito per uno nipote naturale una
figliuola naturale di sí potente imperadore, e ora conseguisse per
una nipote sua legittima uno figliuolo legittimo del re di Francia:
il che lo moveva piú che quello che gli era ricordato da molti che
con questo parentado darebbe colore di ragione, benché non vero ma
apparente, al re di Francia di pretendere, per il figliuolo e per la
nuora, sopra lo stato di Firenze.
A queste male sodisfazioni di Cesare si aggiunse, quasi per cumulo,
che facendo instanza che il papa creasse tre cardinali proposti da
lui, ottenne con difficoltà solamente l'arcivescovo di Bari;
scusandosi egli con la contradizione del collegio de' cardinali. Né
si mitigò Cesare perché il papa concorresse molto prontamente a fare
una confederazione segreta con lui, nella quale prometteva procedere
giuridicamente alle censure e a tutto quello che fusse di ragione
contro al re di Inghilterra e contro ad Anna Bolana, e si obligorono
di non fare nuove confederazioni e accordi con príncipi senza
consenso l'uno dell'altro.
Lib.20, cap.7
Ritorno di Cesare in Ispagna. Incontro del pontefice e del re di
Francia a Marsiglia; matrimonio del figlio del re con la nipote del
pontefice; desiderio del pontefice e del re che si conquisti lo
stato di Milano per il duca di Orliens; nomina di cardinali
francesi; ritorno del pontefice a Roma. Presagi del pontefice di
prossima morte; triste fine de' suoi nipoti. Torbidi in Germania
fomentati dal re di Francia; conquista di Tunisi da parte del
Barbarossa e saccheggio di Fondi. Morte del pontefice; giudizio
dell'autore. Elezione di Alessandro Farnese.
Partí adunque Cesare da Bologna, il dí da poi che fu stipulata la
confederazione, già assai certo in se medesimo che andrebbe innanzi
il parentado e lo abboccamento col re di Francia, e dubbio ancora di
maggiore congiunzione; e imbarcatosi a Genova passò in Spagna, con
intenzione assai ferma (secondo si disse) che se si contraeva il
parentado col re, che quello della figliuola con Alessandro de'
Medici non avesse luogo.
Partí pochi dí poi il papa per Roma, accompagnato da' due cardinali
franzesi, non turbati niente della nuova confederazione; perché il
pontefice, come era eccellente nelle simulazioni e nelle pratiche
nelle quali non fusse soprafatto dal timore, aveva dimostrato loro
che il conchiudere la lega partoriva la dissoluzione dello esercito
spagnuolo, il che faceva maggiore benefizio al re di Francia che non
faceva nocumento il contrarsi la confederazione, massime che tra le
obligazioni e la osservanza ed esecuzioni di esse potevano nascere
molte difficoltà e diversi impedimenti. Continuoronsi adunque tra
loro le pratiche cominciate; e desiderando il re, per onorarsene e
per ambizione piú che per altro, l'andata sua a Nizza, prometteva,
per tirarvelo, non lo ricercare di confederazione, non di tirarlo
alla guerra, non di deviare da' termini della giustizia nella causa
del re di Inghilterra, non di ricercarlo di nuova creazione di
cardinali. E lo spigneva anche a questo assai il re di Inghilterra.
Il quale, avendo occultamente ingravidato la innamorata, aveva, per
celare la infamia innanzi si publicasse, contratto con essa il
matrimonio solennemente; e avendo poco poi avutane una figliuola,
l'aveva, in pregiudizio della figliuola ricevuta della prima moglie,
dichiarata principessa del regno di Inghilterra, titolo che hanno
quegli che sono nella prima causa della successione; per il che, non
avendo potuto il papa dissimulare tanto disprezzo della sedia
apostolica, né negare giustizia a Cesare, aveva co' voti del
concistorio dichiarato quel re essere caduto nelle pene degli
attentati: donde egli desiderava il parentado e lo abboccamento col
re di Francia, sperando che il re fusse mezzo a medicare la causa
sua, e che inducendosi il pontefice a trattare cose nuove, come
sperava, contro a Cesare, avesse a desiderare di reintegrarlo e
tirarlo nella congiunzione loro; e, quasi per dare legge alle cose
di Italia, costituire uno triumvirato.
Conchiusesi finalmente l'andata, non a Nizza, perché il duca di
Savoia, per non dispiacere a Cesare, fece difficoltà di concedere al
pontefice la rocca, ma a Marsilia; cosa molto desiderata dal re, per
essergli molto piú onore tirarlo ad abboccarsi seco nel suo regno,
ma non molesta anche al pontefice, che desiderava sodisfarlo piú con
le dimostrazioni e col compiacere alla sua ambizione che con gli
effetti. E sforzavasi il pontefice di persuadere a ciascuno di
andare là principalmente per praticare la pace e trattare la impresa
contro agli infedeli, ridurre a buona via il re di Inghilterra, e
finalmente solo per gli interessi comuni; ma non potendo dissimulare
la vera cagione, mandò, innanzi che andasse egli, a Nizza la nipote,
in su le galee che il re di Francia mandò col duca di Albania, zio
della fanciulla, a levare lui. Le quali, poi che ebbeno condotto la
fanciulla a Nizza, ritornate in porto Pisano, levorono, il quarto dí
di ottobre, il pontefice con molti cardinali, e con navigazione
assai felice lo condusseno in pochi dí a Marsilia; dove poiché ebbe
fatto l'entrata solennemente, vi entrò poi il re di Francia, che
prima l'aveva visitato, di notte; e alloggiati in uno medesimo
palazzo, feciono dimostrazioni grandissime di amore. Ed essendo il
re tutto intento a guadagnare l'animo suo, lo ricercò che facesse
venire la nipote a Marsilia; il che fatto dal papa cupidissimamente
(che non lo ricercava per mostrare di volere prima trattare delle
cose comuni), come la fanciulla fu condotta, si fece lo sposalizio e
quasi immediate la consumazione del matrimonio, con allegrezza
incredibile del pontefice. Il quale, negoziando le cose sue col re
medesimo e con somma arte, gli venne in somma confidenza e
affezione; ancora che, contro a quello che hanno creduto molti e che
credette Cesare, non si stabilisse tra loro capitolazione alcuna.
Vero è che il papa se gli dimostrò sempre propenso nel desiderio che
si acquistasse lo stato di Milano per il duca di Orliens, cosa molto
desiderata dal re per l'odio e per lo sdegno contro a Cesare, ma
molto piú perché, mettendo Orliens in quello stato, gli pareva
spegnere le cause della contenzione tra' figliuoli dopo la morte
sua; le quali, altrimenti, era pericolo che non nascessino per causa
del ducato di Brettagna, il quale il re, l'anno precedente, aveva,
contra alle convenzioni fatte dal re Luigi con quei popoli, unito
alla corona di Francia, indottigli a consentire piú con l'autorità
regia che con spontanea volontà. Né solo il re non ottenne da lui
cosa alcuna nella causa del re di Inghilterra; ma per le inurbanità
usate da' ministri di quel re, e perché gli trovò nella camera del
papa che gli protestavano e appellavano da lui al concilio,
mostratane indignazione, disse al papa che a lui non sarebbe offesa
se proseguitasse quel che era di giustizia contro al re. Né offese
in cosa alcuna l'animo del pontefice, eccetto che, per sodisfare piú
a' suoi che a se medesimo, lo ricercò che gli creasse tre cardinali;
cosa molto molesta al pontefice, non solo per la reclamazione che
facea l'oratore cesareo ma perché gli pareva cosa di molto momento
(e per la elezione de' futuri pontefici e per le inobbedienze che
potessino nascere, in vita sua e poi) aggiugnere tanti cardinali
alla nazione franzese che allora n'aveva sei: nondimeno, per minore
male, acconsentí a questa dimanda; e oltre a questi creò uno
fratello del duca di Albania, al quale prima l'aveva promesso. Per
ogni altra cosa restati tra loro in grandissima fede e sodisfazione,
e avendogli comunicato il re di Francia molti de' suoi consigli, e
specialmente il disegno che aveva di concitare contro a Cesare
alcuni de' príncipi di Germania, massime il langravio d'Alsia e il
duca di Vertimbergh (i quali poi la state seguente si sollevorono),
poi che furono dimorati a Marsilia circa uno mese, partí il
pontefice in sulle galee medesime: con le quali, e con travaglio
grande del mare, arrivato a Savona, non confidando né nelle
provisioni delle galee né nella perizia degli uomini che le
reggevano, rimandatele indietro, fu condotto da quelle di Andrea
Doria a Civitavecchia. E ritornato a Roma con grandissima
riputazione e con maravigliosa felicità, a quegli massime che
l'avevano veduto prigione in Castel Sant'Angelo, godé molti pochi
mesi il favore della fortuna; avendo già l'animo presago di quello
che aveva a succedere. Perché è manifesto che, quasi incontinente
dopo il ritorno di Marsilia, come certo della morte imminente, fece
fare l'anello e tutti gli abiti consueti a' pontefici nel
seppellirsi; e a' suoi famigliari affermava con l'animo sedatissimo
dovere in breve spazio di tempo succedere la sua morte. E nondimeno,
non deponendo per questo i pensieri e gli studi consueti, sollecitò
che per maggiore sicurtà, come pareva a lui, della sua casa, si
fabricasse una cittadella munitissima in Firenze; incerto quanto
presto avesse a terminare la felicità de' nipoti; de' quali,
inimicissimi l'uno dell'altro, Ippolito cardinale morí non senza
sospetto di veleno, non finito ancora uno anno dalla sua morte e
Alessandro, l'altro nipote il quale dominava a Firenze, fu, con
grandissima nota di imprudenza, ammazzato in Firenze, occultamente
di notte, da Lorenzo della medesima famiglia de' Medici. Ammalò
adunque, nel principio della state, di dolori di stomaco; a' quali
sopravenendo febbre, conquassato da quella e da altri accidenti
lungamente, ora pareva quasi ridotto al punto della morte ora
sollevato in modo che dava agli altri, ma non a sé, speranza di
salute.
La quale infermità pendente, il duca di Vertimbergh, con l'aiuto del
langravio di Alsia e di altri príncipi, e aiutato con danari dal re
di Francia, recuperò il ducato di Vertimbergh posseduto dal re de'
romani. E temendosi di maggiore incendio, convennono col re de'
romani contro alla volontà del re di Francia, il quale aveva sperato
che Cesare per questo moto si implicasse in lunga e difficile
guerra, o forse che con l'armi vittoriose passassino a turbare il
ducato di Milano. Passò anche in questo tempo Barbarossa, diventato
bascià e capitano generale dell'armata di Solimanno, allo acquisto
del reame di Tunisi; ma nel cammino scorse i liti di Calavria e
passò sopra a Gaeta; donde alcuni de' suoi, posti in terra,
saccheggiorono Fondi: con tanto timore della corte e de' romani che
si crede che se fussino andati innanzi sarebbe stata abbandonata
quella città; non sapendo di questo accidente cosa alcuna il
pontefice.
Il quale finalmente, non potendo piú resistere alla infermità, si
partí il vigesimo quinto dí di settembre della vita presente;
lasciate in Castello Santo Angelo molte gioie e nella camera
pontificale moltissimi offici ma, contro alla opinione universale,
quantità piccolissima di danari. Pontefice, esaltato di grado basso
con ammirabile felicità al pontificato, ma in quello provata fortuna
molto varia; ma se si pesa l'una e l'altra, molto maggiore la
sinistra che la prospera. Perché, quale felicità si può comparare
alla infelicità della sua incarcerazione? all'avere veduto con sí
grave eccidio il sacco di Roma? allo essere stato cagione di tanto
esterminio della sua patria? Morí odioso alla corte, sospetto a'
príncipi, e con fama piú presto grave e odiosa che piacevole;
essendo riputato avaro, di poca fede e alieno di natura da
beneficare gli uomini. Però, benché nel suo pontificato creasse
trentuno cardinali, non ne creò alcuno per sodisfazione di se
medesimo, anzi sempre quasi necessitato, eccetto il cardinale de'
Medici; il quale, oppresso allora da pericolosa infermità, e in
tempo che morendo lasciava i suoi mendichi e destituti di ogni
presidio, creò piú tosto stimolato da altri che per propria e
spontanea elezione. E nondimeno nelle sue azioni molto grave molto
circospetto e molto vincitore di se medesimo, e di grandissima
capacità se la timidità non gli avesse spesso corrotto il giudicio.
Morto lui, i cardinali, la notte medesima che si serrorono nel
conclave, elessono tutti concordi in sommo pontefice Alessandro
della famiglia da Farnese, di nazione romano, cardinale piú antico
della corte; conformandosi i voti loro col giudicio e quasi instanza
che n'aveva fatto Clemente, come di persona degna di essere a tanto
grado preposta a tutti gli altri. Uomo ornato di lettere e di
apparenza di costumi, e che aveva esercitato il cardinalato con
migliore arte che non l'aveva acquistato; perché è certo che il
pontefice Alessandro sesto aveva conceduta quella degnità non a lui
ma a madonna Giulia sua sorella, giovane di forma eccellentissima. E
concorsono i cardinali piú volentieri a eleggerlo perché, essendo
già quasi settuagenario e riputato di complessione debole e non bene
sano (la quale opinione fu aiutata da lui con qualche arte),
sperorono avesse a essere breve pontificato. Le azioni e opere del
quale se saranno degne della espettazione conceputa di lui, e della
letizia immensa ricevuta dal popolo romano di avere, dopo [centotré]
anni e dopo tredici pontefici, riavuto uno pontefice del sangue
romano, ne faranno testimonio quegli che scriveranno le cose
succedute in Italia dopo la sua assunzione. Perché è verissimo e
degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto
il valore di chi lo esercita.
FINE