da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975

 UMANESIMO

Gramsci dedica molte pagine allo studio dell'umanesimo italiano rinascimentale per dimostrare come gli «umanisti» italiani, isolati dalla nazione-popolo, non superarono l'universalismo romano-medievale e non contribuirono quindi alla creazione di una coscienza nazionale. Non commentiamo qui, ma ci limitiamo a indicare, le penetranti osservazioni sugli studia humanitatis e la funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani (cfr. R, EI p. 11 e succ, ER p. 23 e succ, I, EI pp. 36-38, ER pp. 52-54). Per comprendere il senso dell'affermazione gramsciana secondo la quale la filosofia della prassi è un «umanesimo assoluto» bisognerà però spogliare il termine di «umanesimo» da tutte le associazioni con le nozioni di Uomo, Natura, Uomo Eterno... ereditate dalla romanitas, dal classicismo, dalla tradizione, appunto, «umanistica». Sarà dunque preferibile parlare di umanismo piuttosto che di umanesimo, termine che la tradizione accademica ha inquinato.

Queste premesse sono tanto più giustificate considerando che Gramsci parla di un «umanesimo assoluto della storia» senza mai parlare di umanesimo in senso assoluto. Così si esprime: «storicismo assoluto o umanesimo assoluto» (MS, EI p. 105, ER p. 123). Dunque l'umanesimo gramsciano va riportato alla storia: la sua rivendicazione «umanistica» si inserisce nel tentativo di definire il marxismo come storicismo, liberandolo da ogni snaturamento meccanicistico. Gramsci vuol pronunciare il definitivo elogio funebre del fatalismo (MS, EI p. 19, ER p. 22). Già nei suoi scritti giovanili egli proclamava: «No, le forze meccaniche non prevalgono mai nella storia: sono gli uomini, sono le coscienze, è lo spirito che plasma l'esteriore apparenza e finisce sempre col trionfare» («Il Grido del Popolo», 16 marzo 1918, in Scritti politici, op. cit., p. 115). A questo entusiasmo Gramsci si manterrà sempre fedele: alle inerti stratificazioni dell'ordinamento socio-economico, all'«oggettività» e alla «materialità» morte egli opporrà sempre gli elementi soggettivi, volontari, creativi: l'uomo terreno. Naturalmente la sua posizione implica il rifiuto di ogni trascendenza, cioè di ogni «causa» che intervenga al di fuori dell'attività umana. Gli interpreti fatalistici di Marx hanno desacralizzato tale «causa», l'hanno mondanizzata, ma non ne hanno abolito la esteriorità, l'alienazione (Entfremdung): Gramsci rifiuta la concezione che fa degli uomini, secondo le parole di Labriola (La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari, 1961, p. 140), «marionette i cui fili sono tirati non dalla Provvidenza ma dalle categorie economiche».

La storia non è l'armonico sviluppo di una legge naturale, determinata dalla presenza di un «fato» o dalla «spontaneità» dell'automatismo socio-economico; è il risultato dell'azione collettiva degli uomini sulla natura, attraverso la quale gli uomini si costituiscono; è autoriproduzione dell'uomo. In Gramsci abbiamo dunque una rivalutazione dell'elemento attivo entro i rapporti storico-sociali dati, la rivalutazione dell'attività umano-sensibile che riassume lo stesso oggetto, il reale che se non è coinvolto in tale attività teorico-pratica umana è insussistente, come già Marx osservava nella I tesi su Feuerbach. Per la filosofia della prassi, la realtà è la storia dell'autoproduzione dell'uomo. Solo in questo senso la filosofia della prassi è un «umanesimo assoluto della storia» (MS, EI p. 159, ER p. 188). Ma l'uomo di cui Gramsci parla non è né una definizione feticistica costituita in base all'appartenenza a una cosiddetta «condizione umana» predeterminata, né l'uomo astratto definito in base a coordinate metafisiche e speculative: l'uomo, secondo Gramsci (cfr. uomo), si definisce in base alla capacità di comprendersi e cogliersi nell'ambito dei rapporti storico-sociali e di porsi come forza modificatrice di tali rapporti. Si deve dunque parlare di umanesimo esclusivamente storico, perché la «natura» umana non è omogenea in tutti gli uomini e in tutti i tempi, ma è una «storia».

L'umanesimo gramsciano è dunque prima di tutto una specie di «interiorizzazione» del motore della storia: l'attività teorico-pratica dell'uomo, la sua volontà hanno sostituito l'influenza della trascendenza e l'autoregolazione naturale, e ne hanno realizzato la «mondanizzazione» (MS, EI p. 159, ER p. 188; cfr. storicismo). La valorizzazione dell'intervento volontario-cosciente dell'uomo ha, per Gramsci, soprattutto un'importanza politica. Potremmo dire che tutta l'opera di Gramsci abbia tentato di rispondere a questa domanda: «Quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazional-popolare?» (Mach, EI p. 6, ER p. 21). La formazione di una volontà collettiva, concepita come «coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale e effettuale dramma storico» (ivi) permette di concretizzare e rendere pratico l'intervento dell'uomo sul «corso» degli avvenimenti e di provocare così una trasformazione della prassi in senso rivoluzionario. Da questa esigenza nascono i testi sul momento catartico, sul giacobinismo, la rivoluzione, l'egemonia (cfr. i termini corrispondenti)... L'umanesimo gramsciano non ha nulla di astrattamente «umanitario», fonda le basi per una ricerca concreta delle condizioni in grado di autorizzare il «passaggio "logico" di ogni concezione del mondo alla morale che le è conforme, di ogni "contemplazione" all' "azione", di o-gni filosofia all'azione politica che ne dipende» (MS, EI P- 41, ER pp. 48-49).

La filosofia della prassi è uno storicismo e un umanesimo, perché è reale, cioè capace di realizzarsi nella pratica collettiva dell'uomo (cioè: del proletariato) e trasformare il mondo. La filosofia del marxismo è un umanesimo perché la lotta per il socialismo è una possibilità reale che la storia apre alla volontà collettiva degli uomini reali, qui e ora.