da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Guerra di posizione e guerra di movimento

Il concetto di «guerra di posizione» è parte della teoria dell'egemonia e risponde all'esigenza di definire i caratteri storici nuovi della lotta politica nel mondo, dopo la grande guerra e la Rivoluzione d'ottobre. «Il passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione», afferma Gramsci, appare «la quistione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopoguerra e la più difficile a essere risolta giustamente». La «rivoluzione in due tempi», egli aveva affermato fin dal '20 in un celebre articolo dell' Ordine Nuovo («Due rivoluzioni»), e cioè la conquista dello Stato in una battaglia campale risolutiva e l'impiego della macchina statale per trasformare coercitivamente la società, non può costituire l'archetipo della rivolu­zione proletaria. La Rivoluzione d'ottobre, quindi, era da considera­re l'ultima rivoluzione ottocentesca.

Il passo in cui il concetto di «guerra di posizione sul terreno politico» è formulato nel modo più pregnante, fa riferimento — così come accade quando Gramsci enuncia la concezione dell'egemonia — alla disputa che aveva contrapposto Lenin (tattica del «fronte unico») a Trotsckij (teoria della «rivoluzione permanente») circa i modi di sviluppare la lotta rivoluzionaria dopo il «grande atto metafisico» dell'Ottobre:

«Mi pare che Ilici aveva compreso — afferma Gramsci nel Quaderno n. 7 — che occorreva un mutamento dalla guerra manovra­ta, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente (...). In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura di società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata rico­gnizione di carattere nazionale».

Il passo è denso di riferimenti storici e di rimandi teorici che si possono cogliere alle voci «egemonia», «rivoluzione passiva», «ame­ricanismo», «intellettuali». Qui vorrei richiamare l'attenzione solo su un punto.

La distinzione fra Oriente e Occidente riprende un tema che già era stato al centro della elaborazione culminata nelle Tesi di Lione. Esso riguarda le caratteristiche del rapporto fra produzione e politica nelle società capitalistiche sviluppate e chiarisce l'impossibilità di concepire la rivoluzione socialista in Occidente come un processo «puramente politico». «Nei paesi a capitalismo avanzato — aveva affermato Gramsci nel rapporto al Comitato centrale dell'agosto 1926 — la classe dominante possiede delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico. La politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull'economia. L'apparato statale è molto più resi­stente di quanto non si può credere e riesce ad organizzare nei momenti di crisi forze fedeli al regime più di quanto la profondità della crisi potrebbe lasciar supporre».

Sviluppando la distinzione fra Oriente e Occidente, nel Quaderno 13 («Notereile sulla politica del Machiavelli»), Gramsci perviene ad una enunciazione teorica di valore generale circa i rapporti fra politica ed economia. Nel celeberrimo Par. 17, Rapporti di forza: analisi delle situazioni, alla domanda «se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche», egli risponde: «si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo della vita statale».

L'importanza del concetto di «guerra di posizione» si coglie dunque nel punto d'arrivo e di massima generalizzazione del ragio­namento. Questo modo di dissolvere teoricamente l'economicismo si può considerare l'aspetto di maggiore originalità della tradizione comunista italiana e di massima differenza dalle altre correnti del movimento comunista e socialista internazionale.

Giuseppe Vacca

docente di storia delle dottrine politiche all'Università di Bari

deputato del Pci