da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987
Cultura «popolare»
L'analisi della cultura «popolare» (cioè di
quella propria delle classi subalterne) è un momento
essenziale del pensiero di Gramsci. Al centro dei Quaderni del
carcere vi è la convinzione che in quella fase di sconfitta
del movimento operaio, e quindi di «guerra di
posizione», fosse necessaria una battaglia culturale che
costituisse un blocco storico in grado di assicurarsi l'egemonia: il
momento del consenso indispensabile per arrivare a quello del
dominio.
In questa prospettiva diventava centrale lo studio non solo del
ruolo avuto storicamente dai gruppi intellettuali, ma, anche, della
mentalità e della cultura delle classi popolari fino allora
tenute lontane dal potere e dalla cultura.
Per Gramsci quella cultura (nel senso largo: concezione del mondo)
è essenzialmente «folklore»: un concetto e un
termine per i quali egli non prova i compiacimenti generosi ma
interessati dei romantici né, tanto meno, il misto di
disprezzo sostanziale e di mitizzazione estetizzante dei decadenti.
Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con burbanzosa
fatuità, non era «populista», e
«folklore» è per lui un concetto negativo. Esso,
costituito come è in massima parte dai cascami della cultura
egemone, è sempre «contraddittorio e
frammentario» (Q.d.C. 1105); si avvicina al
«provinciale» in quanto particolaristico e anacronistico
(ivi, 1660); rappresenta «una fase relativamente irrigidita
delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo» (ivi,
2271); corrisponde a ciò che in filosofia è il senso
comune, cioè «una convinzione disgregata, incoerente,
inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle
masse di cui esso è la filosofia» (ivi, 1396). Pertanto
non è né può essere «nazionale», se
nazionale è solo una cultura contemporanea e a livello
mondiale o almeno europeo (ivi, 1660). E compito della filosofia
della prassi, in quanto «espressione» delle
«classi subalterne» (ivi, 1320), è
precisamente «educare le masse», liberandole dalla
loro cultura arretrata (ivi, 1858) e portandole a una visione del
mondo moderna e universale.
Due tesi dunque solo in apparenza contrastanti; svalutazione della
cultura popolare per la sua arretratezza, ma pure
riconoscimento della sua serietà (ivi, 2314) e della
necessità di studiarla se si voglia compiere «un
calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella
società». E perciò Gramsci, pure con gli
strumenti limitati a sua disposizione, pone le premesse per uno
studio della cultura popolare, nuovo nel metodo, nella scelta e
analisi del materiale, nelle conclusioni. Elabora criteri
metodologici che tengano conto dei caratteri peculiari delle classi
subalterne e delle loro strutture sociali e mentali (ivi, 2268 sg;
2283 sg.), e ne distinguano le esigenze rispetto a quelle delle
classi colte ed egemoni: ciò che è un ferrovecchio in
città — scrive icasticamente — può essere un utensile
in provincia. E intraprende un'analisi, del tutto nuova nella nostra
cultura, della letteratura popolare, studiandone sia i generi (il
melodramma, il romanzo d'appendice, poliziesco, nero), sia gli
strumenti di produzione e diffusione (l'editoria popolare), sia
particolari autori (Guerrazzi, Mastriani, la Invernizio ecc.),
sia alcune opere e la loro circolazione.
I limiti di queste ricerche sono, com'è naturale, tanto nella
loro stessa novità e nella mancanza perciò di modelli,
quanto nelle condizioni nelle quali Gramsci lavorava. E
perciò se molte delle sue analisi sono ancora oggi di
pungente attualità, altre paiono imprecise, carenti di
dimostrazione, non persuasive. Ma restano la novità geniale
delle tesi di fondo, l'assunto della necessità di un sistema
letterario organico nel quale tutti i livelli trovino posto e siano
visti nelle loro reciproche implicazioni, l'avvio a un tipo di
ricerche e di studi che ha dato già tanti frutti e che
è ancora in pieno svolgimento.
Giuseppe Petronio
docente di letteratura italiana all'Università di Trieste