da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Boria di partito

L'espressione «boria di partito» è entrata nel nostro linguaggio politico, come tante altre di Gramsci, senza che spesso ci si ricordasse in quale senso il termine fosse impiegato. In una nota dei Quaderni Gramsci ragiona intorno al processo di sviluppo di un partito politico, al momento in cui esso ha raggiunto il suo «compito preciso e permanente». Quando questo momento sia arrivato dà luogo a molte discussioni e spesso «purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la boria delle nazioni di cui parla il Vico». E, nella stessa nota, più avanti, l'autore torna sul termine: «Occorre disprezzare la boria di partito e alla boria sostituire i fatti concreti».

A quali partiti si riferiscono precisamente il giudizio e l'avvertenza gramsciana? Il suo discorso è di carattere generale e per intenderne l'ambito storico e la complessità dei ragionamenti conviene riguardarsi (con l'aiuto prezioso dell'indice per argomenti dell'edizione Gerratana) tutte le note che toccano il tema del partito politico, del cesarismo, del parlamentarismo, e che hanno davvero un andamento circolare. Il riferimento più preciso in questo caso va forse ai partiti democratici e socialdemocratici per i quali già il Gramsci dirigente, in una sua rela­zione dell'agosto 1926, aveva indicato «tre strati»: lo strato ristretto di dirigenti e intellettuali, la massa influenzata dal partito, e quello strato, noi diremmo oggi, di militanti, che collega, mette in contatto, «il grup­po dei capitani» e la massa.

Nella nota dei Quaderni, nonostante il linguaggio forzatamente criptico, il discorso di Gramsci investe però anche la natura del partito operaio, rivoluzionario. Con un richiamo non solo alla disciplina e alla fedeltà necessarie ma alle soluzioni che il partito deve sapere indicare per i vari problemi sul tappeto; in altri termini, alla funzione dirigente, nazionale, che il partito può assolvere. Solo in questo caso si può dire che esso «è formato».

E qui, se si abbraccia l'insieme delle osservazioni, la costante dell'ispirazione di Gramsci, ci si avvede che egli parte da una concezione terzinternazionalista del partito, che sottolinea il primato del gruppo dirigente, ma tende a superarla sia col rilievo che dà alla questione dell'egemonia, dell'influenza culturale che va esercitata, sia con la messa in guardia di un distacco dalla massa sociale che il partito vuole rappresentare, pena il trasformarsi in «un corpo solidale che sta a sé». Il partito quindi deve «reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico». La burocrazia interna rischia altrimenti di diventare «una forza conservatrice pericolosa».

La concezione di un partito aperto alla società, che sa muoversi in essa, di un partito di massa, la ritroviamo in un'altra importantis­sima nota, quella in cui Gramsci precisa che «nella politica di massa dire la verità è una necessità politica». Cioè, non si tratta soltanto di un principio morale, bensì di una condizione per mantenere un legame con le proprie radici, per condurre un'azione nella società. Gramsci non ama i miti come tessuto connettivo, né i carismi di questo o quel capo, né considera un partito «eterno». Una società senza classi sarà una società senza partiti. Quindi egli non ipotizza il partito unico come espressione di questa nuova società. Al tempo stesso, la vita politica, quella parlamentare, sono studiate come riflesso delle mutazioni avvenute, delle crisi che intercorrono «in momenti storicamente vitali».

Non vi è in Gramsci nessuna sottovalutazione del valore delle istituzioni rappresentative. E in questo, bisogna aggiungere, usa un metro di giudizio non diverso da quello che impiegava Lenin quando questi analizzava, in uno scritto del 1912, i partiti politici esistenti nella Russia zarista. Lenin polemizzava contro quanti consideravano «le istituzioni rappresentative, i parlamenti, le assemblee di rappre­sentanti del popolo come inutili e persino nocive». «No — scriveva — dove non vi sono istituzioni rappresentative le mistificazioni, le menzogne politiche e le soperchierie di ogni specie sono ancora più diffuse e il popolo ha molto meno mezzi per smascherare l'inganno e scoprire la verità». Per Gramsci «distruggere il parlamentarismo non è così facile come pare», e il parlamentarismo «implicito» è molto più pericoloso che non quello «esplicito», poiché «ne ha tutte le deficienze senza averne i valori positivi».

Ciò non significa, beninteso, che, ad esempio, oggi il Pei non sia andato al di là di Gramsci o di Lenin nella concezione del partito o in quella della democrazia politica. Significa, però, che quei due grandi teorici rifuggivano dallo schematismo nell'indagare il rappor­to tra rappresentanti e rappresentati.

Paolo Spriano

storico - docente di storia dei partiti politici all'Università di Roma «La Sapienza»