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Economia filosofica ed economia naturalistica


Gli studi di economia hanno via via disegnato, in questi ultimi anni, un doppio moto, procurando, per una parte, di liberarsi del fardello di tutte le questioni d'indole pratica o politica, e restringersi alla semplice considerazione della realtà effettuale; e, per l'altra, disinteressandosi sempre più delle dispute intorno alla natura dei fatti economici e alle relazioni tra essi e gli altri aspetti della realtà, col rinserrarsi nella cerchia dei fenomeni e professare di non volerla in alcun modo trascendere.

Col primo moto, gli studi di economia hanno acquistato sempre più carattere teoretico o scientifico, che voglia dirsi. Col secondo, si sono avvicinati al tipo delle scienze naturali, o delle scienze matematiche della natura, applicando, come si suol dire, la matematica ai problemi economici.

Tra coloro che meglio rappresentano questa duplice tendenza è il Pareto, del quale non sarà mai a sufficienza lodalo l'indefesso lavorìo onde è venuto sempre correggendo e rendendo più rigorose le sue teorie, e il fermo quanto leale proposito di reprimere e disciplinare i propri sentimenti di battagliero scrittore di cose politiche, sacrificandoli alla severità della scienza, tutte le volte che scientifico e non politico era il suo assunto. Anche il Manuale, or ora venuto in luce1, segna progresso rispetto alle sue opere precedenti, e in particolare al Cours d'économie polìtique, di dieci anni innanzi. E qual divario dai trattati di economia, che si sono composti, e ancora si compongono, da liberisti, e socialisti, e socialisti di Stato, e democratici cristiani, nei quali tutti si osservava, e si osserva, l'incapacità a tenere distinte le dottrine scientifiche e i programmi pratici!

Qual divario, per non dir altro, tra questo manuale del Pareto e i volumi del prof. Loria, tanto immeritamente celebrati in Italia fino a poco tempo fa: volumi nei quali l'autore si valeva della scienza economica per bandire il suo «specifico sociale» della «terra libera».

Non abbiamo bisogno di dichiararci affatto d'accordo col Pareto sulla necessità di escludere i problemi pratici e politici dai quadri della scienza, perché già per più anni gli fummo alleati in tale polemica. E, quantunque cultori dell'Economia filosofica, nemmeno avremmo nulla da obiettare alla seconda parte della riforma che egli rappresenta in grado eminente; cioè, alla riduzione dell'economia a scienza naturalistica astratta, o naturalistico-matematica, che volge le spalle alla indagine filosofica dell'atto economico. Perché è evidente che, se quel modo di trattazione le volge le spalle, non è detto che un altro modo di trattazione non debba prender sopra di sé l'indagine, da esso trascurata.

La cosiddetta scienza naturalistica e fenomenalistica e matematica si chiude in sé stessa, si difende e fortifica contro le incursioni estranee; ma con ciò appunto lascia una distesa libera nella quale un'altra scienza (che, secondo il nostro modesto avviso, è poi la scienza vera e propria, perchè è quella che sola permette di comprendere), potrà formarsi e trincerarsi. E, pure armate l'una contro l'altra, non per ciò dovranno guerreggiarsi, bastando a ciascuna vigilare gelosamente i propri confini.

Senonchè, il Pareto cade nell'errore consueto a tutti i naturalisti e fenomenisti e matematici, di negare il diritto di quella trattazione che essi non vogliono dare e non sono adatti e preparati a dare; onde, dopo essersi mostrati seri e competenti nel corpo dei loro libri, si mostrano in veste contraria nella prefazione, introduzione o conclusione, che vi aggiungono; dopo aver escluso la filosofia dai loro fini, introducono, ora di soppiatto ora violentemente, una mala filosofia, che dovrebbe essere la negazione di quella filosofia, che essi non conoscono e, tuttavia, non si sa poi perchè, aborrono e vituperano; quasi si possa amare o odiare ciò che non si è studiato e non si conosce.

A quale intento, infatti, il Pareto ha scritto i due primi capitoli del suo Manuale? Né l'uno né l'altro di quei due capitoli concerne la scienza economica in quanto tale, la quale comincia solo nel terzo, intitolato: «Concetto generale dell'equilibrio economico». Ma il primo capitolo, che tratta dei «Principi generali», offre, come a dire, la Gnoseologia del Pareto; e il secondo capitolo, «Introduzione alla scienza sociale», la sua Etica. Ora l'autore, ben preparato a esporre i problemi dell'Economia pura, non è punto preparato per quelli della Gnoseologia e dell'Etica; e accade perciò che in quei due capitoli formicolino le più rischiose e ingiustificabili asserzioni. Eccone qualche prova.

L'autore divide le proposizioni in due classi, scientifiche e non scientifiche: scientifiche sono quelle, che possono verificarsi sperimentalmente; non scientifiche, quelle non suscettibili di siffatta verificazione (pp. 25-27). Ma che cosa significa qui «sperimentalmente»? E, se per esperienza s' intende la condizione necessaria di ogni conoscenza umana, che cosa mai potranno essere le proposizioni non scientifiche, se non proposizioni false? che cosa altro mai sono le proposizioni non false, ma fuori dell'esperienza umana?

Il curioso è, che il Pareto adduce come esempio di proposizione scientifica, cioè sperimentalmente verificata, questa: «L'area di un rettangolo è uguale alla base moltiplicata per l'altezza»; e di proposizione non scientifica, non verificabile sperimentalmente, quest'altra: «Si deve amare il prossimo come sé stesso». E, a farlo apposta, la prima è sperimentalmente inverificabile, perchè, com'è noto, nessun rettangolo geometrico esiste o può esistere nella realtà, essendo esso nient' altro che costruzione arbitraria, per quanto comoda, del geometra; laddove la seconda si può farla scaturire dall'animo del Pareto e di ogni altro galantuomo, anzi perfino da quello dei non galantuomini e degli inquilini delle galere.

— «Le leggi scientifiche non hanno un'esistenza oggettiva. L'imperfezione della mente umana non ci consente di considerare nel loro insieme i fenomeni; siamo costretti a considerarli partitamente. Quindi, invece di uniformità generali, che ci sono e ci rimarranno sempre incognite, siamo costretti a considerare infinite uniformità parziali, ecc. ecc.» (p. 7).

Che cosa è l'imperfezione della mente umana? Si conosce forse una mente perfetta, al paragone della quale si possa stabilire che quella umana è imperfetta?2 «Noi non conosciamo, non conosceremo mai, un fenomeno concreto in tutti i suoi particolari: vi è sempre un residuo» (p. 8). E chi mai lo conoscerà, se l'uomo non lo conosce? — «Tutte le scienze naturali sono ora giunte allo stadio in cui i fatti si studiano direttamente. L'economia politica vi è pure, in gran parte almeno, pervenuta. Solo nelle altre scienze sociali c'è chi si ostina a porre in relazioni concetti e vocaboli ; ma occorre smettere di ciò fare, se si vuole che quelle scienze progrediscano» (p. 12).

Come se poi il Manuale stesso del Pareto non fosse un tessuto di «concetti» , e di «vocaboli»! L'uomo pensa per concetti ed esprime i concetti nei vocaboli.

— Il Pareto usa i termini «necessità» e «verità assoluta»; ma dichiara (p. 32) che fa ciò solo perchè altri li adopera, perchè dal canto suo «non sa quali sieno le cose che si vuole indicare con quei termini». E perchè, non avendo chiaro ciò, adoperarli ? O perchè, adoperandoli, non apprenderne il significato da quei maestri che si chiamano Platone, Aristotele, Cartesio, Leibniz, Kant, e via dicendo, e dei quali ognuno può tenersi onorato di diventare discepolo?

— In genere, attraverso tutto il capitolo, corre l'idea prettamente naturalistica, che ciò che si afferma senza che sia intimamente compreso è scienza; e ogni tentativo di comprendere è metafisica, è sentimento, è misticismo, è verbalismo, è chiacchiera da letterato, e via obbrobriando.

Nel capitolo sull'Etica, il Pareto divide le azioni in due classi: azioni logiche e azioni non logiche: esempio delle prime, la deliberazione in virtìi della quale si fa acquisto di una certa quantità di grano; esempio delle seconde, l'uniformarsi a una regola di galateo o a un atto di culto (p. 36). Ma egli sarebbe assai impacciato se fosse invitato a dimostrare che nelle seconde non entri la logica, o che non v'entri al modo stesso che nelle prime. Le proposizioni non logiche hanno, al dir del Pareto, parte notevolissima e di gran momento nella vita sociale. «Ciò che dicesi morale e costume ne dipende interamente. Sta di fatto che sinora nessun popolo ha avuto una morale scientifica e sperimentale. I tentativi, fatti da filosofi moderni per ridurre la morale a tale forma, riuscirono vani; ma, quando anche si volesse ritenerli concludenti, rimarrebbe sempre che non escono da un ristrettissimo cerchio e che i piti degli uomini, quasi tutti, li ignorano interamente» (p. 45). Come se i filosofi della morale fossero costruttori di programmi morali, e non già semplicemente indagatori di ciò che la morale è realmente !

«Moral predigen ist leicht» (scriveva lo Schopenhauer, proprio nell'epigrafe della sua dissertazione sul fondamento della morale), «Moral begründen schiver »; e sul begründen si sono affaticati i filosofi, con fortuna per lo meno non inferiore a quella dei cultori delle altre discipline.

— «Molti sono i sistemi di morale, che ebbero ed hanno corso ; né per lungo contendere dei loro fautori alcuno di essi ha acquistato decisa prevalenza sugli altri, onde è rimasta pendente la questione quale sia il migliore e ancora pende: come pei tre anelli, di cui ragiona il Boccaccio in una sua novella; né potrebbe essere altrimenti, perchè manca ogni criterio sperimentale e scientifico per decidere tale questione» (p. 66).

Ma, nella storia della filosofia morale, il criterio scientifico c'è, ed è quello appunto col quale si fa la critica delle varie teorie etiche. Nella vita poi (se per «sistema di morale» si vuol intendere la morale in atto), non si sa che cosa mai possa essere la «contesa tra le varie morali ».

«Vi sono certi fenomeni ai quali nella nostra società si dà il nome di etici o morali, che tutti credono conoscere perfettamente e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire» (p. 46)^ Nessuno? Certo, è facile dire «nessuno», quando si crede di essersi sbrigati della teoria etica di Kant con poche parole, come queste: «Un principio di legislazione propriamente universale non può aver valore in una società, come quella degli uomini, costituita da individui diversi per sesso, per età, per qualità fìsiche e intellettuali, ecc.; e se quel principio s'intende soggetto a restrizioni, che tengano conto di tali ed altre simili circostanze, il problema principale diventa quello di conoscere quali di tali restrizioni occorre accogliere e quali respingere; e le premesse che avevamo poste, diventano perfettamente inutili» (pp. 63-64).

Così si passa sopra, senza soverchi complimenti, a problemi gravissimi e a pensieri di menti altissime, che vengono trattati come inezie e vuoti giuochi di parole. E a noi sembra opportuno mettere in guardia i lettori contro siffatto non lodevole atteggiamento mentale, sia perchè lo troviamo in un libro, per altri riguardi degno di nota, di scrittore giustamente reputato; sia perchè vediamo che esso viene suscitando imitatori.

Anche l'opuscolo del Calderoni sulle Disarmonie economiche e le disarmonie morali, uscito contemporaneamente al saggio del Pareto3 pecca per questo verso. L'autore combatte a sua volta l'imperativo categorico kantiano (formola che ha, indubbiamente, manchevolezze, ma di ben altra sorta), interpetrandolo in modo strabiliante, cioè come se il Kant per mezzo di esso inculcasse a tutti gli uomini di fare — le medesime azioni! (pp. 57-66). «Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame, fatto rigorosamente in base a questo criterio. Molte azioni sono per noi un dovere appunto perchè gli altri uomini non le fanno, e rimangono tali a condizione che njn siano troppi gli uomini capaci, volenterosi di imitarle» (p. 65).

Tale censura culmina nel paragone: «In una barca sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende strettamente dal numero di persone sedute dalla parte opposta; se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle buone volontà dei passeggieri» (p. 66). Ora, basta ricordare che l' imperativo kantiano vuol essere meramente formale, per intendere come questa critica sia fuori di luogo. Il Calderoni immagina che l'assolutezza dell'attività morale formi contrasto con la relatività delle azioni morali (p. 57); laddove quell'assolutezza non esclude, anzi include, il variare degli atti morali, non solo da età ad età e da popolo a popolo, ma da individuo a individuo, e a ogni istante della vita di ciascun individuo.

Così anche, secondo il Calderoni, vien dissipata o cangia totalmente aspetto «la celebre questione se il fondamento della morale stia nella ragione o nel sentimento: se cioè le azioni morali sieno il prodotto di sentimenti e di previsioni di piacere o di dolore, oppure, secondo la dottrina kantiana, debbano dipendere esclusivamente dal proposito di uniformarsi ad una norma, ad una specie di misterioso comando interiore, la cui origine ed autorità, si sottrae ad ogni analisi e ad ogni discussione. Entrambe le diverse teorie non fanno che esprimere i medesimi fatti... in maniera diversa» (pp. 99-101). E si tratta, invece, del problema capitale dell'autonomia o eteronomia della morale.

Ma, secondo il Calderoni, lo studio della morale dovrebbe condursi mercè l'«esperienza esteriore», e la ricerca delle condizioni intime dell'azione morale non avrebbe importanza se non in quanto si rifletta nella esperienza esteriore (pp. 97, 99). Con l'«esperienza esteriore» non si riesce a concepire, non che la morale, nemmanco l'economia; e ciò mantengo fermo anche contro l'osservazione del Calderoni (pp. 94-5 n), il quale per equivoco suppone cosa che da mia parte non ho mai pensata; cioè, che io intenda introdurre nella scienza economica le approvazioni o disapprovazioni personali dell'autore della teoria; laddove io bo detto e dico che ad ogni atto economico sono applicabili parole che suonano approvazione o disapprovazione (contento e scontento, soddisfazione e insoddisfazione, ecc.), ma ciò, anzitutto, nella coscienza di colui che lo compie.

In altri termini, le scelte economiche sono atti di coscienza e di volontà; e col considerarle meccanicamente e matematicamente si ottiene solo di falsificarle. Potrà giovare anche talvolta falsificarle; ma non certo pel fine della conoscenza intima e filosofica.

Venendo all'argomento proprio dell'opuscolo del Calderoni, in esso, come appare dal titolo, si vuol mostrare che, nel campo della morale, si riscontrano gli stessi fatti di disarmonie, che nell'economia si chiamano fatti di rendite (dei quali la rendita ricardiana della terra è notoriamente solo un caso particolare); come vi si riscontra il fatto della diversa intensità dei sacrifici che gl'individui compiono in rapporti di scambio i quali sul mercato sono equivalenti. — Senonchè, è poi passato davvero il Calderoni, come si proponeva, dal campo dell'economia al campo della morale? A me non pare.

Egli pone da un canto le leggi morali, i codici morali della società, formati sopra una sorta di media, e di- retti a indurre col biasimo e con la lode, coi premi e coi castighi, i meno proclivi alla virtù a coltivarla, e i più proclivi al vizio a distogliersi da questo; e dall'altro canto, le varietà delle condizioni individuali. E osserva che accade, in conseguenza di ciò, che alcuni si trovino a godere di lode o di gloria assai superiore al loro merito individuale, per aver compiuto azioni che rispondevano semplicemente alle proprie inclinazioni; ed altri soffrano biasimo o infamia di gran lunga sproporzionati alla propria colpa (pp. 70-3). Ma codice morale, lodi, premio, gloria, biasimo, infamia, castigo sono qui divenuti, a me sembra, tutti concetti meramente economici, e non sono più morali; e perciò non si può qui parlare di un'estensione dell'economia alla morale, sibbene di fatti economici che si fanno rientrare, com'è naturale, nelle già note leggi dell'economia.

Chi, per meritare la lode sociale (per acquistare la merce-lode sociale), deve compiere uno sforzo minore di un altro che pure acquista lo stesso grado di lode (la stessa quantità di merce-lode), e beneficia perciò, rispetto a costui, di un vantaggio (di una rendita), è, sotto questo rispetto, un homo oeconomicus, non un homo moralis. La morale, in quanto morale, qui non entra.

Sfugge al Calderoni la peculiarità dell'atto morale, e perciò è condotto anche a immaginare una scienza economica, con la quale la filosofia morale s'identifichi (pp. 9-10). Ma, se ogni azione morale è insieme, di necessità, azione economica, e si può guardarla in tale aspetto, un'azione economica non è di necessità azione morale. Le due considerazioni, l'economica e la morale, sono, insieme, unite e distinte tra loro : nesso questo altamente speculativo, che non si lascia afferrare da chi usa metodi empirici, quando anche sia ingegno acuto e sottile, quale è, senza dubbio, il Calderoni.

Per altro lo stesso Calderoni, con le osservazioni che fornisce circa la grossolanità dei valori di mercato e delle norme e dei codici morali, e col richiamar l'attenzione sull'individualità dell'agente e dell'azione economica e morale, viene a mettere in mostra i limiti e l' insufiflcienza di ogni trattazione empirica così della morale come dell'economia. Ed è questo forse il meglio del suo scritto. Non importa che egli cerchi di consolarsi col dichiarare «inessenziale » la conoscenza degli interiori moventi e condizioni (p. 97), o di rassegnarsi, dicendola impossibile a conseguire e segno solo di sforzi inani (p. 101). Dal suo scritto risulta proprio questo: che c'è, di là dalle categorie empiriche, una realtà economica e morale, la quale domanda di essere conosciuta.

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1 Manuale di economia politica, con una introduzione alla scienza sociale (Milano, Società editrice libraria, 1906).

2 «Non vi possono essere due ragioni e due spiriti, non una ragione divina ed una umana, non uno spirito divino ed uno umano,^ che siano semplicemente diversi. La ragione umana, la coscienza della sua» essenza, è ragione in genere, è il divino nell'uomo; e lo spirito, in quanto è spirito di JDio, non è uno spirito di là dalle stelle, ma è Dio presente, onnipresente, è spirito in tutti gli spiriti. Dio è un Dio vivente, che è efficiente ed attivo». (Hegel, Philosophie der lìeligion, Berlino, 1840, I, 34). Tolgo queste parole da un filosofo dei più dilTamati come metafisici; e domando chi sia più metafisico e trascendente, se lo Hegel, che non ammetteva una mente divina di là dall'umana, o i naturalisti come il Pareto, che riconoscono per l'appunto (e chi sa per qual via giungano a tale conoscenza) una mente perfetta di là dalla nostra imperfetta.

3 Mario Calderoni, Disarmonie economiche e disarmonie morali, saggio di un'estensione della teoria ricardiana della rendita (Firenze, Lumachi, 1906).

Febbraio 1906.

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Nota finale. — Sulle dottrine e la storia del marxismo e del socialismo ho avuto posteriormente occasione di svolgere e ampliare le mie osservazioni in vari scritti, che si trovano ora raccolti nelle Conversazioni critiche (Bari, Laterza, 1918), serie I, sez. XI: «Socialismo e filosofia». Sulla fase ultima del socialismo è da vedere anche Cultura e vita morale (ivi, 1914), pp. 169-79. Sul materialismo storico, oltre gli accenni che vi ho fatti nella Teoria e storia della storiografia (ivi, 1917), torno di proposito nella mia storia della Storiografia italiana nel secolo decimonono (Bari, 1922), e propriamente nei capp. XVII e XVIII. Circa la costruzione della scienza economica, si veda la Filosofia della pratica (2» ed., ivi, 1915), parte II, sez. I.