L'Italia meridionale ha dato alla storia del comunismo il contributo
di un pensatore. E — curioso riscontro — questo pensatore, Tommaso
Campanella, nasceva su quella stessa terra di Calabria, dalla quale,
sul finire del secolo XII, sorgeva l'abate Gioacchino di Fiore (il
« calabrese abate Giovacchino»), la cui profezia fu
segnacolo in vessillo a tanti movimenti eretico-comunistici
medievali.
Il comunismo del Campanella è stato molte volte comentato e
criticato, e, da quando si scrivono storie generali del comunismo,
il frate di Stilo ha preso in esse posto cospicuo, quale si conviene
alle straordinarie sue doti intellettuali, alla forte
personalità, alle vicende tragiche della sua vita1. Che
ci sia ancora qualcosa da dire in tal materia, sembrerà
naturale a chi ripensi, per una parte, al rinnovamento della
biografia del Campanella e all'interpetrazione nuova del suo
pensiero politico, che si debbono negli ultimi anni alle ricerche
dell'Amabile; e, per l'altra, al sempre crescente svolgimento
scientifico e pratico del socialismo moderno, che rende possibili
nuove osservazioni e nuovi giudizi2.
E sarebbero ben venuti due lavori, che escono in luce quasi
contemporaneamente sul comunismo del Campanella, se l'uno e l'altro
non fossero, pur troppo, assai mediocri, e tali che non conferiscono
nulla alla migliore conoscenza dell'argomento. L'uno proviene dal
campo dei socialisti, l'altro da quello dei conservatori o
«borghesi»; ma è il caso di ripetere che si
è questa volta peccato dentro e fuori le mura d'Ilio.
I
Il primo di questi lavori è una monografia del signor Paolo
Lafargue, che fa parte della recente Geschichte des Sozialismus in
Einzeln-Darstellungen, che si va pubblicando in Germania3.
Quest'opera, redatta dai signori Bernstein e Kautsky, dovrebbe
offrire la prima storia scientifica del socialismo; e ha parti
abbastanza buone, e, presa nel complesso, offre lettura istruttiva.
Ma ne ha anche di scadenti; e, fra le peggiori, bisogna annoverare
il capitolo sul Campanella, come l'altro dello stesso autore sullo
Stato gesuitico del Paraguay4.
Il Lafargue non conosce punto la
vasta letteratura campanelliana. Egli ha attinto i materiali della
sua monografia a qualche trattazione antiquata o di seconda mano,
che sarà stata probabilmente il volume della Colet, stampato
cinquantanni fa, o qualcosa di simile, dello stesso tempo.
Dell'opera fondamentale dell'Amabile, che pure ha dato origine a
molteplici discussioni, non sospetta nemmeno l'esistenza.
Cosicché la breve biografia, che egli tesse del Campanella,
è piena di asserzioni, che sono da un pezzo provate erronee,
E si comincia fin dalle prime parole, concernenti i particolari
della nascita e dell'adolescenza: il nome del Campanella era Gian
Domenico, non Tommaso (p. 469), che fu il nome che prese nel farsi
frate; non si fece q frate a uindici anni presso i domenicani di
Cosenza (ivi), ma nel convento di Placanica presso Nicastro: e via
dicendo. Né é esatto che il Campanella per dieci anni
percorresse l'Italia, di città in città, per disputare
di teologia e filosofia, ottenendo grandi trionfi (p. 470);
perché i dieci anni di viaggio passarono in un primo
imprigionamento e processo d'eresia, pel qaale da Napoli fu condotto
a Roma; donde, uscito dal carcere, si recò a Firenze, e a
Padova; e qui ebbe altri processi e fu daccapo trasferito a Roma
prigione. Né è vero che, per opera dei Gesuiti,
ricevesse l'ordine di tornare al convento di Stilo per aver dato
scandalo in Roma (p. 470); tornato volontariamente a Napoli, vi si
trattenne altri sette mesi, e volontariamente ne partì nel
luglio 1598 per la nativa Calabria, perché malato (egli
disse), ma di certo non solo per questo. Sul punto capitale, che la
congiura fu cosa effettiva, il Lafargue si trova ad esser nel vero:
ma ciò gli accade, in verità, per la povertà
stessa della erudizione storica della quale dispone. La sua fonte
antiquata si riferisce per la congiura ai ragguagli del Gian-none; i
quali, impugnati dal D'Ancona e da altri, che negarono la
realtà della congiura, dopo lungo giro sono stati in fine
dimostrati veridici dai documenti ritrovati dall'Amabile. Del resto,
anche qui il Lafargue cade in non poclìi errori, per esempio
quando fa morire giustiziato il principale collaboratore del
Campanella, il frate Dionisio Ponzio (p. 473), il quale invece,
imprigionato col Campanella, dopo alcuni anni riuscì a
fuggire, e, passato in Turchia, si fece musulmano. E lascio di
notare le altre inesattezze relative alla prigionia: l'odio dei
Gesuiti, l'amicizia dei Papi, la libertà dovuta ad Urbano
Vili, ecc.: tutte cose che sono state riconosciute favole. E favola
è la stretta relazione del Campanella col Duca d'Ossuna e la
parte che avrebbe avuta nel moto preparato dal celebre cospiratore
Genoino5.
Molto alla lesta, con vaglie generalità circa la filosofia
medievale e della Rinascenza, si sbriga il Lafargue della filosofia
del Campanella; per la quale è inutile dire che ignora i
lavori dello Spaventa, e anche uno scritto assai più
divulgato qual ò l'articolo, edito più volte, del
prof. Sigwart6. Come si fa, del resto, a metter bocca, in cose di
filosofia, quando, accadendo di citar san Tommaso, si scrivono
queste precise parole: «San Tommaso d'Aquino, che era un po'
meno goffo e meno sciocco (plump und einfoltig) dei Padri della
Chiesa...» (p. 495)?
—Il Lafargue, peraltro, ha fatto una
scoperta, sulla quale insiste con singolare predilezione. La
metafisica del Campanella, secondo lui, si svolse sotto il modello
della Kabbala. Quando (egli ricorda come prova di fatto) il
Campanella nel chiostro dei domenicani di Cosenza studiava
filosofia, conobbe un vecchio rabbino, che gli svelò, tra
l'altre cose, i principi della Kabbala (p. 484). Ora, lasciando
stare che dal processo si seppe che il vecchio rabbino era invece
«un ebreo, a nome Adamo, giovane sui trent'anni», ed
altri e curiosi particolari, qui il Lafargue (o la sua fonte
prossima) è caduto in un bell'equivoco. La notizia risale,
come ho riscontrato, a una lettera di Carlo Caffa, pubblicata dal Cjprianus, dove si
racconta che l'ebreo, strettosi a colloquio col Campanella. «cabbalae cuiusdam beneficio per pauca et brevissima principia tantum
Carapanellae lumen indiderat, ut in tantum virum tamque admirandum
excrescere brevi potuerit»7. Si tratta, insomma, di una
delle solite storielle, nate per ispiegare un ingegno e una
dottrina, che apparivano prodigiosi. Pel Campanella, il miracolo fu
fatto dall'artificio, cabbalae cuiusdam beneficio, dell'ebreo:
un'altra storiella voleva che egli avesse ricevuto la scienza dal
demonio, ed egli rispondeva ai detrattori di aver consumato
più olio che non essi vino.
Senonchè il Lafargue, preso l'aire, discorre per lunghe
pagine della Kabbala, con notizie punto peregrine e che risentono
assai di dizionario enciclopedico. E, secondo lui, il principio
della dottrina della conoscenza proviene al Campanella dalla
Kabbala, «nella quale l'essere infinito, generando il primo
Sephiroth, riconosce sé stesso dicendo: Io
sono». E Campanella comincia col dire: «Quello di cui io
sono certo, è ch'io sono». La Kabbala avrebbe
preceduto, per tal modo, e Campanella e Cartesio. Ma un altro
curioso equivoco ò il tentativo di spiegazione del nome di
Hoh, che porta il sommo reggente o il Metafisico nella Città
del Sole. «Hoh è una specie di papa — dice il
Lafargue: — nella Kabbala il puro essere si chiama En Soph: tra
questo nome e quello del supremo governatore della Città del
Sole c'è una certa somiglianza di suono (?), e qui forse si
cela un significato di speciale importanza» (p. 497). Ma, nei
manoscritti del testo originale della Città del Sole è
detto: «È un Prencipe Sacerdote tra loro che s'appella
0, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo è capo di
tutto in spirituale et temporale: et tutti li negotii in lui si terminano»8. Nella prima edizione latina, che fu pubblicata
dall'Adami nel 1623 a Francoforte si legge: «Princeps magnus
inter eos est sacerdos, quem vocant suo idiomate Sol: nostro autem
diceremus Metaphysicum»9. E nel corso della stampa è
chiamato sempre Sol, ovvero è indicato figurativamente con O.
Nelle posteriori edizioni O è divenuto un o tra due h, e
quindi Hoh Ma l'Hoh non è se non il Sole; donde il titolo
dello scritto, la Città del Sole, e il fregio del Sole
raggiante, che sta nel mezzo del frontespizio della prima edizione10.
Venendo a discorrere della Città del Sole, il Lafargue non
par che conosca le Questioni dell'ottima Repubblica, che sono
complemento importante di quella, e gettano tanta luce sul pensiero
comunistico del frate di Stilo. Non mi fermerò poi a notare
la materialità dell'esposizione, e qualche inesattezza che
pur vi s'incontra11; ma non voglio tacere che, in uno scritto di
storia, il continuo riferirsi a sentimenti e passioni dei giorni
nostri, e il tono acrimonioso verso il passato, non sono di buon
gusto.
Nel corso del suo lavoro, il Lafargue va applicando colla mag-ior
facilità, come se suonasse un organino, la nuova concezione
materialistica della storia, da lui ridotta a comoda formola, che
basta pronunciare perché tutto sia spiegato. Anche qui le sue
disquisizioni sulla Kabbala offrono gli esempì più
sbalorditivi. Si ascolti: «Il panteismo e la trasmigrazione
delle anime nella Kabbala non sono se non espressioni metafisiche
del valore delle merci e del loro scambio... Il Marx ha dimostrato
che lo scambio capitalistico comincia col danaro per riuscire al
danaro, ma al danaro con un dippiù: la teosofia della Kabbala parte
dall'unità, il primo Sephiroth, per riuscire col decimo
Sephiroth all'unità complessa, perché esso accumula
gli attributi dei nove Sephiroth precedenti». Questo significa
dare, agli avversari del «materialismo storico», buona
occasione di ridere.
II
L'altro lavoro sul socialismo del Campanella è dovuto non
più a un socialista militante, quale il Lafargue. ma a un
prefetto del regno d'Italia, al senatore Andrea Calenda dei Tavani,
e s'intitola: Fra Tommaso Campanella e la sua dottrina sociale e
politica di fronte al socialismo moderno12. E io non vorrei
giudicarlo con troppa severità, giacché, per la
qualità stessa del suo autore, non si presenta con pretesa
scientifica: è l'opera, o forse il passatempo, di un uomo che
spende negli studi letterari gli ozi lasciatigli dai pubblici
uffizi. Ma poiché pur debbo discorrere delle pubblicazioni
recenti sul Campanella, e questa del Calenda forma un volume
abbastanza grosso, e mi è già accaduto di accennare al
poco pregio di essa, mi corre l'obbligo di dimostrare il mio giudizio. Per confrontare le teorie del
Campanella col socialismo moderno, sarebbe d'uopo conoscere due
cose, i due termini del paragone: il Campanella e il socialismo
moderno; e da ogni pagina dello scritto del Calenda traspare,
invece, la scarsa e confusa conoscenza ch'egli ha del socialismo
moderno. Afferma, per esempio, che « i socialisti
d'oggidì considerano il Campanella come l'Omero delle idee
comuniste» (p. 4); e si potrebbe domandargli in quali
scrittori socialisti si trovi espresso così strano giudizio.
Formola poi a questo modo l'obbietto della sua ricerca: «Il
socialismo d'oggidì può esso vantare per padre
legittimo il Campanella, del quale (?) tra i molti che si contendono
l'onore (!), si dice (!) legittimo (!) fondatore Carlo Marx»
(p. 170). Tante parole, tanti errori. E chiama la dottrina del Marx
il «socialismo moderno cioè il vero» (p. 163),
ignaro delle ironie e dei sarcasmi coi quali il Marx
perseguitò il cosiddetto «socialismo vero»13.
E spiega: «Il godimento dei beni in comune, volgarmente
comunismo» .(p. 162); come se «comunismo» non
fosse il nome classico e scientifico di quello che
«volgarmente» si chiama «socialismo». A p.
156 nota che il Campanella non si propose il problema del diritto al
lavoro, né quello «della limitazione del lavoro
commisurato al salario»: quasiché ciò fosse
stato possibile in uno scrittore che descriveva una società
comunistica, nella quale e disoccupazione e salariato sono esclusi
in forza dell'ipotesi stessa. Del resto, il Calenda stesso dichiara
(p. 171 n) che, pel confronto col socialismo moderno, egli si
è valso di un opuscolo del Ferri, che, secondo lui, contiene
«le norme del socialismo scientifico», il «vero
manuale della dottrina»; laddove, in effetto, è
disgraziata compilazione di persona che non conosce il socialismo nelle fonti e lo mescola e scambia con le
cose più diverse14.
Mettendo da banda il confronto col socialismo moderno, dirò
che il libro del Calenda si divide in tre parti: una sulla vita (pp.
1-57), la seconda sulle dottrine politiche (59-184), e la terza
sulle opere politiche e religiose del Campanella (185-290).
Veramente, non si vede chiaro che cosa l'autore abbia inteso fare.
Un libro popolare o un libro originale? A udirlo, par che il
Campanella l'abbia scoperto lui: «M'è paruto di essere
arrivato al punto di sceverare il vero dal falso negli eventi della
sua travagliata esistenza, e distinguere, tra le varie che gli si
attribuiscono, quale sia la vera dottrina sociale o politica di fra
Tommaso Campanella» (p. VII, e cfr. pp. 24-5, 102, 285-286,
ecc.). Ma per la biografia, egli non «scevera» niente,
seguendo l'opera dell'Amabile, di cui, per altro, non conosce se
non solo i tre primi volumi (cfr. p. 115); donde gli errori che
s'incontrano nell'ultima parte del cenno biografico (pp. 47-57), per
la quale non gli sono di guida i due volumi sul Campanella nel
castelli di Napoli, in Roma e in Parigi. Pur attenendosi
all'Amabile, egli, per inesperienza di metodo, sente il bisogno di
citare da capo le fonti ricercate da quello: Carteggio del residente
veneto, Registri Curiae, Rubricario del carteggio di
Costantinopoli, Archivio di Simancos (sic), ecc., quasi
offra ricerche sue di prima mano. Quanto alle opere, il Calenda riferisce a lungo vari giudizi
dati da critici vari, e si prova qua e là a discuterli, senza
dir mai niente di nuovo e rilevante15. Della Città del Sole fa
minuta analisi, ripartendone le istituzioni in speciali categorie,
politiche, amministrative, economiche, educative, di sanità
pubblica, di polizia urbana, ecc.; con predilezioni classificatorie
e terminologiche, che ci fanno ricordare che l'autore è stato
prefetto. Come il Lafargue, egli non è informato della
letteratura filosofica sul Campanella; ed è per lui, italiano
e napoletano, fallo meno perdonabile l'avere trascurato gli scritti
dello Spaventa. E conclude col-l'assicurare i lettori che il
Campanella fu «vero patriota» (p. 290): quel Campanella
ch'era comunista, voleva la Repubblica universale, e credeva che
l'Italia avesse finito di rappresentare la propria parte nella
storia. Si vada, fra tutte queste cose, a trovare posto pel
«patriottismo»!
III
Ma, tornando alla Geschichte des Sozialismus, nella quale
è stata pubblicata la monografia del Lafargue, per procedere
con ordine sarebbe da domandare, in primo luogo, se il Campanella
appartenga veramente alla storia del comunismo, e in qual senso vi appartenga. I nuovi scrittori di tale
storia hanno concepito il loro compito in modo assai semplicistico:
hanno chiamato «Storia del socialismo» una sorta di
antologia di tutte le ribellioni di proletari e di tutte le teorie
sociali, che più o meno prendono a fondamento il comunismo
dei beni. E hanno ristretto la scelta al nostro mondo occidentale,
cominciando dal comunismo greco di Platone, a venire in giù; ma
questa antologia, o libro d'oro, potrebbe parimente contenere
notizie sul comunismo persiano o cinese. E evidente che di una
storia, nel senso vero e proprio della parola, qui non è il
caso di parlare. Storia suppone connessione di fatti, genesi,
svolgimento; e, se si può far la storia, poniamo, del
socialismo moderno, che forma una serie ben collegata, non si
può far la storia del socialismo in generale, formata da
tanti tentativi slegati, e spesso intimamente diversi, che non
ebbero per lo più l'un sull'altro efficacia, o l'ebbero assai
debole. Il primo volume è intitolato dei Precursori del
socialismo moderno: ma perché precursori? Precursore dovrebbe
significare chi .dà l'avviata a un moto storico16.
Ora
né fra Dolcino né Giovanni Huss né Tommaso Moro
ne Tommaso Münzer hanno dato, ch'io sappia, l'avviata al movimento
storico del socialismo. Connettere il socialismo con quanti si sono
trovati a disegnare un castello in aria comunistico, o con quante
plebi ribelli si sono mosse contro coloro che le opprimevano,
è puro giuoco di fantasia, che può indurre alla
concezione di una falsa causalità storica. E, per questa via,
si finisce con l'accogliere (come ha fatto il Malon) tra i
«precursori del socialismo» quel bizzarro prete spretato
ed arguto scrittore che fu Anton Francesco Doni, il quale anche si dilettò di fantasie
comunistiche
Presa, peraltro, la storia del socialismo nel senso largo che
abbiamo ricordato, non è dubbio che Tommaso Campanella debba
avere in essa il suo posto, come scrittore apertamente comunista17.
Ma qua!'è l'importanza storica, quale il significato teorico
del suo comunismo? Ecco due altre domande, che nessuno si è
finora proposte in modo chiaro.
Alla prima di esse si dovrebbe forse rispondere col negare alla
concezione del Campanella importanza storica. Veramente, essa non
è la forma ideale di un moto sociale, come accade, per
esempio, del comunismo del Münzerr e degli Anabattisti18. E non
è neanche l'espressione di una situazione storica singolare,
della quale ci resti come monumento; il che dà importanza
all'Utopia di Tommaso Moro, che si fonda sopra una descrizione e una
critica assai viva e particolare delle condizioni sociali
dell'Inghilterra al dissolversi dell'economia feudale18.
Il comunismo del Campanella muove dalla generica osservazione dei mali che affliggono le società umane, dal vecchio contrasto di ricchi e poveri, di oziosi e lavoratori, di sfruttatori e sfruttati, dalla considerazione dei vizi e delle malvage passioni che nascono dal «mio» e dal «tuo». «In vero (egli dice nella Monarchia di Spagna) si trova in tutta la Cristianità questo errore: che alcuni sono poverissimi ed altri ricchissimi, cosa odiata sopra modo da Platone; perché l'eguaglianza leva di mezzo l'invidia, la rapacità, superbia e mollezza de' popoli, e l'odio; onde Moisè istituì ogni sette anni il ritorno dell'eredità alla sua famiglia e la libertà dei servi della nazione, con qualche guadagno uscendo dalla casa dei padroni, cui disse esser congruo alla legge e volontà divina. E per questo le elemosine ed opere pie e spedali son fatte per mantenere l'amore tra essi e l'egualità». E, dopo avere ricordato che l'ineguaglianza estrema delle ricchezze determinò le rivoluzioni in Roma antica, e che per la stessa ragione «in Germania si sollevarono i rustici contro la nobiltà a tempo di Lutero e Calvino», continua: «Anzi anche oggidì si vede che un uomo ha centomila scudi di rendita, e poi mille uomini non hanno tre scudi per uno. Or questo delli centomila occupa la rendita di mille, la spende in cani, cavalli, buffoni, staffe dorate, o puttane, ch'è peggio. E se litiga il povero contro loro, non può avere giustizia, onde si fa fuoruscito, o more in carcere, ed il ricco deprime chi gli piace, perché il giudice da lui dipende, mentre per favore si fanno i giudici, o per danaro per lo più, massime in terre piccole: cosa molto dannosa a' Stati, perché diffidi cosa è che un giudice, che riceve presenti, sia nell'uffizio suo leale, perché, come dice Dio, i presenti acciecano anche gli uomini savi». Contro il governo baronale, del quale aveva più diretta esperienza, torna all'assalto in altra parte dello stesso libro.
I baroni «vengono in Napoli o in Corte e quivi spendono e spandono per comparire e per aggraziarsi con li amici del Re, e poi tornano poveri a casa, e rubano per mille maniere, e si rifanno, e poi tornano in Corte nel medesimo circolo e si vede che le terre loro sono meno abitate che le regie (terre regie) italiane, e certo per i mali trattamenti loro. Come pure, patendo il popolo male da' Turchi o da peste, domandano dal Re li pagamenti fiscali per qualche anno; ed essi se li esigono per parte del Re con più gravezza: come ha fatto il principe della Roccella, dopo aver combattuto col Turco. Finalmente, sotto specie di far, come dicono, la camera per non alloggiare soldati, si fanno pagare più migliaia ducati dalle terre dove stanno, ed estor cono con mille modi, ed attendono a lussurie e spendere...» 19. Sembra anche che lo avesse reso pensoso lo spettacolo delle disuguaglianze sociali in una grande città come Napoli: al qual proposito scrive nella Città del Sole: «In Napoli, sono settantamila persone20, e non faticano se non li diece o quindicimila, e questi patiscono fatica assai, e si struggono; e l'otiosi si perdono anche per l'otio, avaritia, lascivia, usura, e molta gente guastano, tenendole in servitiù e povertà, o facendole partecipi de lor vitii. Tal che manca il servitio pubblico, et non si può il campo, le militie e l'arli fare, se non male e con stento...»21.
— Ho scelto i luoghi che più
si riferiscono all'osservazione di fatti particolari, e che contengono una sorta di critica concreta; ma è facile notare
che, né per la qualità dei fatti notati né per
il modo dell'osservazione, essi escono dal genere dei soliti lamenti
che si trovano in tanti documenti di quel tempo, e di tutti i tempi.
Parrebbe talvolta che i concetti comunistici del Campanella fossero
il pensiero di un veggente che, gettando lo sguardo sul gran secolo
al finir del quale gli era toccato nascere, scorgesse disegnarsi il
processo di una nuova storia, che doveva riuscire alla mutazione
totale degli ordini presenti. In quel secolo, infatti, nasceva il
mondo moderno, che, come la più radicale delle sue tendenze,
produce ora il comunismo. E a chi volesse, alquanto sofisticamente,
sostenere tale opinione, non mancherebbero argomenti. Il Campanella
è tutto scosso dai grandi avvenimenti, che si sono succeduti
nel suo secolo. «O se sapessi (è detto nella
Città del Sole) cosa dicono per Astrologia e per li stessi
Profeti nostri et Hebrei et d'altre genti di questo secolo nostro
che ha più historia in cento anni che non hebbe il mondo in
quattromila, et più libri si fecero in questi cento che in
cinquemillia, e dell'inventioni stupende de la calamita e stampe,
archibugi, gran segni dell'union del mondo»22.
La scoperta del Nuovo Mondo è da lui continuamente ricordata. Nella Monarchia di Spagna: «L'ammirabile invenzione del Mondo nuova (previsto da santa Brigida e chiaramente predetto da Seneca in Medea a punto con quei nomi e modi che si ritrovò, secondo lui dalle Sibille aveva inteso) ha fatto maravigliare il nostro emisfero tutto»23. E nella Città del Sole: gli spagnuoli «trovaro il resto del mondo, benché il primo trovatore fu il Colombo nostro genovese, per unirlo tutto ad una legge»24.
— Il Lafargue è pronto a dire che il
Campanella «esprimeva così, senza saperlo, in forma
filosofica, l'imperioso bisogno della borghesia capitalistica, la
quale non poteva svilupparsi economicamente se non colla formazione
degli Stati nazionali, col distruggere le barriere interne, con
l'abolire i privilegi locali e corporativi, col regolare la moneta
ed unificare i pesi e le misure...»25. Ma pochi ne saranno
persuasi, e tra questi pochi non sarò io: pel Campanella,
imbevuto di profezie e predizioni astrologiche, pieno della propria
missione provvidenziale di riformatore del mondo, tutto ciò
ch'egli vedeva era segno dei prossimi rivolgimenti; e la scoperta
dell'America e le invenzioni valevano innanzi al suo spirito quanto
i terremoti, le pesti e la «congiunzione magna». Non
faceva, e non poteva fare, una diagnosi delle condizioni del suo
secolo, e dei germi di futuro svolgimento che portava in seno26. Egli
aspettava l'aurea età felice, che doveva precedere la fine
del mondo; e sentiva che all'avvicinarsi di quella, la terra
tremava.
IV
Ma la riforma del Campanella, nata nella sua mente, frutto del suo
pensiero solitario, se non ha importanza né come documento storico né come indizio sociale, avrebbe
tuttavia potuto forse dar luogo a un bizzarro episodio storico.
Oramai è dimostrato che fine della congiura calabrese, per la
quale tanti furono messi a morte e il frate pati ventinove anni di
prigionia, era appunto rattuazione delle idee espresse nella
Città del Sole27. E la congiura non era poi cosa tutta da
giuoco. Vi partecipavano frati, cavalieri, banditi, i Turchi: il
Campanella aveva al fianco uomini di parola e d'intrighi, come fra
Dioniso Ponzio; uomini d'azione, come Maurizio de Rinaldi, il capo
«secolare» della congiura28. Al tempo stabilito,
sarebbero entrati di notte in Catanzaro tre o quattrocento uomini
armati, che avrebbero dato principio all'insurrezione; in caso di un
primo insuccesso, si sarebbero ritirati sui monti, non facilmente
dominabili dalle soldatesche; il movimento era concordato col
contemporaneo arrivo dei Turchi, guidati dal bassà Cicala
(trenta galere turche, non sapendo del fallito tentativo, si
presentarono, infatti, il 13 settembre alla marina di Stilo); il
danaro necessario si sarebbe trovato. Il Viceré di Napoli
sapeva ciò che diceva, quando scriveva a Madrid «
essere stata misericordia divina l'averla scoperta in tempo».
Certo, i congiurati par che seguissero il Campanella presi dal fascino della sua persona, pieni di fede nelle sue doti meravigliose. Il Campanella e i suoi emissari avevano detto che sarebbero accaduti rivolgimenti, che bisognava tenersi pronti, prender le armi, ritirarsi sui monti e fare una Repubblica per vivere in comune e serbar la generazione ai soli forti, indicando nei più minuti particolari il nuovo costume di vita; e quelli lavorarono al trionfo del frate colla speranza di toccare lo stato di felicità, che ei faceva risplendere innanzi alle loro fantasie28. Comunisti non erano di sicuro; e, in tutte le deposizioni dei processi, è impossibile sorprendere traccia di sentimenti ed aspirazioni comunistiche tra i componenti della congiura: vi si trova solo la materiale ripetizione delle parole del frate: il Campanella, alludendo forse all'inferiorità dei suoi compagni, disse poi che «guastarono ogni suo pensier grande». Ma che cosa sarebbe accaduto, quando la congiura fosse scoppiata? Quale indirizzo avrebbe dato a essa l'intervento dei Turchi? E se i Turchi, com'era stabilito, si fossero contentati di aiutar la ribellione e di trarne alcuni vantaggi senza procedere a una conquista per loro conto, che cosa avrebbero fatto le popolazioni? Come avrebbero risposto al verbo del Campanella predicante la comunione dei beni?
Il materiale d'uomini per un moto proletario non mancava nell'Italia meridionale, e in particolare nelle Calabrie: era lo stesso cbe forniva così grossi contingenti al brigantaggio. Quali fossero le condizioni dei sudditi dei baroni, si è udito dallo stesso Campanella; e forse più eloquentemente dicono poche note, che leggiamo nelle cronache del tempo. Apriamo i Giornali di Giuliano Passaro: «1512. De lo mese di giuglio 1512 se revoltai una terra in Calabria nominata Martorano, et se revoltai contra lo Conte suo signore de casa de Jennaro, per causa che d. Conte era multo tiranno et male signore». Ancora nello stesso anno: «De lo mese di decembre 1512 se revoltai una terra di Calabria nominata Santa Severina contro lo signore Andrea Carrafa suo patrone, per causa che detto signore era multo tiranno»29.
Alcune decine di anni prima della congiura del Campanella, nel 1563, si era avuto in Calabria il caso di un fuoruscito, Marco Berardi, detto «Re Marcone», che aveva messo insieme in poco tempo un migliaio e mezzo di uomini, ed era mosso ad occupare la città di Cotrone. Ke Marcone, brigante di grande stile, aveva istituito una sorte di governo: esigeva i pagamenti fiscali, ministrava giustizia, dava regolarmente le paghe ai suoi uomini, e metteva taglie sui capitani spagnuoli mandatigli contro. «Et avendo trovato un povero dottore di Cotrone, il Re Marcone gli ha fatto stracciare il privilegio che portava, e gliene ha fatto fare un altro, come quello fosse il suo regno»30.
— Insomma, chi guardi col desiderio della esperimentazione storica non può non rimpiangere che la congiura fosse stata scoperta prima dello scoppio. Sarebbe stato curioso vedere un tentativo di ordinamento comunistico nelle Calabrie del 1599. — Ma la congiura fu sventata a tempo; e agli ideali del Campanella mancò l'occasione di discendere nei fatti.
V
Rimane, dunque, la pura costruzione teorica, e questa conviene
esaminare. A far da guida nei concetti politici del Campanella e a
mostrarne le radici filosofiche, viene opportuno un altro libro,
ch'è stato pubblicato anche in questi giorni, del dottor G.
S. Felici, ch'è tanto ben fatto, quanto sono fatti male i due
lavori che abbiamo esaminati di sopra. Il libro è intitolato:
Le dottrine filosofico-religiose di Tommaso Campanella con
particolare riguardo alla filosofia della Rinascenza italiana31; e
prende veramente un posto ragguardevole nella letteratura sul
Campanella. Fondato sopra una conoscenza accuratissima delle opere
del filosofo e della bibliografia dell'argomento, con continue
riferenze alle dottrine degli altri rappresentanti del movimento
filosofico italiano della Rinascenza, esso non lascia nulla da
desiderare, neppure rispetto alla forma letteraria che si presenta
nitida e ordinata, come si conviene a un contenuto così bene
elaborato. Non essendo questa una rivista filosofica32, non posso
farne l'ampia recensione che meriterebbe; e debbo restringermi a
dare un cenno solo della parte che concerne la politica del
Campanella33.
Su questo punto regna discordia tra i critici; e, se Bertrando
Spaventa definì il Campanella «filosofo cattolico e
sostenitore acerrimo della gerarchia», e, pei suoi tentativi
di conciliazione tra il vecchio e il nuovo, lo chiamò
«il filosofo della restaurazione cattolica»34; e il De
Sanctis similmente giudicò, che, «in quel tempo che la
monarchia assoluta si sviluppa nella Spagna e nella Francia col
favore e l'appoggio del papato, egli era la voce dell'assolutismo
europeo, e ci mettea una sola condizione, che quell'assolutismo
fosse il potere esclusivo del papa, il braccio del papato»,
onde ritrovava in lui il principio di ciò che nel nostro
secolo doveva riuscire al neoguelfismo35, l'Amabile, invece, dopo
avere ricostruito la biografia di lui, e avere riconosciuto che il
suo carattere fu «quello di un simulatore continuo,
perché cospiratore continuo», venne a stabilire,
esaminando le carte dei processi, che il Campanella aveva concetti
politici riposti, la somma dei quali è raccolta nella
Città del Sole. Rispetto a questa, gli altri scritti
campanelliani debbono considerarsi semplici ripieghi, consigliati
dalle condizioni di vita nelle quali il filosofo si trovò via
via36. E tale interpretazione difese gagliardamente contro il prof.
R. Mariano, che cercò di riprendere la posizione dello
Spaventa, e volle considerare la Città del Sole come un vago
ideale di fantasia37. Il Felici, nel ritentare la questione crede
necessario un esame più accurato delle opinioni religiose del
Campanella,, nel corso del quale gli accade anche di correggere
taluna interpretazione dello Spaventa e del Fiorentino.
Egli si rifa dall'esporre quale fosse il concetto preciso della
mente nel Campanella, che in questo punto è in contrasto con
lo stesso Telesio. La mente (riassumo brevissimamente) è la
vera e specifica anima umana; e funzione fondamentale della mente
è la religione naturale o innata. La religione naturale, nel
corso della storia, è offuscata dalla religione addita,
sopraggiunta, ossia dalle religioni positive. Il cristianesimo
è la religione che più si accosta alla religione naturale,
anzi, spogliato degli abusi, è la stessa religione naturale.
Il Felici discorre a lungo del modo nel quale il Campanella
concepisce il movimento della storia; e, pure escludendo ch'egli
abbia intuito la legge del progresso, come altri (il Mamiani) aveva
affermato, viene alla conclusione ch'egli sorpassi la teoi'ia dei
circoli storici, concependo i particolari circoli storici come
inclusi in un circolo più ampio, che deve ricondurre
l'umanitri a una forma perfetta di convivenza sociale. Questa forma
perfetta è la teocrazia, che reggerà i popoli uniti in
una sola famiglia al lume della religione naturale 38.
Posta tale concezione della religione e dello svolgimento sociale,
al Felici sembra che il Campanella non sia, come parve all'Amabile,
un novatore sostanzialmente contrario alla Chiesa, quantunque non
possa dirsi punto il filosofo della restaurazione cattolica. La sua
aspirazione era la religione naturale, o, è lo stesso, il cristianesimo spogliato
degli abusi; e il papato era chiamato a darle compimento.
Così il riformatore della Città del Sole è
sostanzialmente di accordo col politico che escogitava ogni sorta di mezzi per
fondare sulla terra la universale monarchia del papato.
Veramente, qualche osservazione si potrebbe muovere anche a codesta conclusione. Il punto d'accordo tra le idee
del Campanella e il papato sarebbe dato dalla religione naturale, ossia dal cristianesimo spogliato degli abusi. Ma
era codesto un punto d'accordo? Dove il Campanella intendeva fermarsi nella riforma degli abusi? Bisogna riporre,
per esempio, tra essi anche la fede nella divinità di Cristo, che egli certo non accoglieva nel suo cuore? E non
sembra quasi un'ironia l'idea di un papa, razionalista o deista, sommo pontefice della religione naturale? — Una
delle due: o il Campanella, nell' immaginare la possibilità di quell'accordo, simulava; e allora si torna alla tesi so-
stenuta dall'Amabile. non simulava, e allora resta il semplice problema, piuttosto psicologico che logico, come
mai egli potesse fare a sé stesso la curiosa illusione che la teocrazia, da lui sognata, fosse qualche cosa di sostan-
zialmente identico col papato, istituzione storica? come mai nel suo animo non entravano in contrasto due cose, che, nella realtà, erano di certo in contrasto? — Ma in questo ginepraio non occorre cacciarsi, tanto più che, per opera par-
ticolare del Felici, si sa ormai quel che più premeva: il contenuto preciso dell'ideale religioso-sociale del Campanella. A noi importa poco indagare se il papa che doveva metterlo in atto fosse il Metafisico della Città del Sole (lo
stesso Campanella), ovvero un papa eletto di conclave, un Clemente o un Urbano VII; e quanta buonafede il Campanella portasse nell'affermare questa seconda cosa.
VI
Principale regola di vita nel reggimento teocratico, go-vernato dalla Metafisica o dalla Religione, è la comunità dei beni. Il Campanella difende il comunismo coi soliti argomenti: dalla proprietà privata prende origine l'egoismo (l'«amor proprio»), e da questo tutti gli altri mali sociali; l'abolizione della proprietà genera la fratellanza (l'«amor comune»).
«Dicono essi (scrive nella Città del Sole) che tutta la proprietà nasce dal far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l'amor proprio che, per sublimare a ricchezza e dignità il figlio o per lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace puliblico se non ha timor sendo potente, o avaro et insidioso o hipocrito, s'è impotente; ma, quando perdono l'amor proprio, resta il comune solo»39. E si studia di rispondere alle vecchie obiezioni di Aristotele e di altri contro il comunismo dei beni.
Egli conosceva la storia di tutte le forme del comunismo, così teorico come pratico: dalla repubblica platonica alle opinioni dei padri della Chiesa, e via via fino all'opera geniale del predecessore suo grande, Tommaso Moro, alla quale più direttamente si riferisce40; dal primitivo comunismo cri-stiano a quello delle sètte eretiche antiche e recenti. Della vita dei primi cristiani dice: « La comunanza dei beni fu stabilita sotto gli apostoli, secondo testifica san Luca e san Clemente; e in Alessandria si è osservato lo stesso modo di vivere sotto, san Marco, come testificano Filone e san Girolamo. Tale fu la vita del clero fino ad Urbano I ed anche sotto sant'Agostino; e tale è ora la vita dei monaci, che san Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in tutta la città, di Costantinopoli, e ch'io spero doversi in futuro realizzare dopo la ruina dell'Anticristo, come nei miei profetali»40.
Le opere di Gioacchino di Fiore furono stimolo alle sue speranze di rinnovamento, e le ricorda di frequente tra le autorità che cita in sostegno nel processo. Ripensa anche a Giovanni Huss, che «nega potersi possedere qualche cosa in particolare»41. Intorno agli Anabattisti si esprime con cautela, ma con lode: «Vivono in comune, che, se ritenessero i veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo di vita; e volesse il cielo che non fossero eretici e praticassero la giustizia come noi professiamo, che sarebbero un esempio della sua verità: ma non so per qual stoltezza rifiutano il migliore»42
Ed è notevole la sua sim-patia per Francesco d'Assisi, al quale in un sonetto, dopo aver detto:
Ma chi all'amor del comun padre ascende
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende — ,
si rivolge con questa semplice apostrofe, così piena di tenerezza :
Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
frati appelli (o beato chi ciò intende!):
né ti fur, come a noi, schifi o rubelli!43
Il Lafargue vuole anche che il Campanella avesse notizie, dalle relazioni dei viaggiatori, circa le istituzioni comunistiche dei popoli selvaggi; ma di ciò non si ha nessuno indizio, neanche nelle Questioni, dove raccogliendo, si può dire tutta la letteratura dell'argomento, non avrebbe mancato di discorrerne44. Nelle sue opere sono parecchi accenni ai costumi di popoli selvaggi, ma non già a istituti comunistici 45. Salvo tale pienezza di erudizione storica, niente di veramente nuovo e importante è nel suo comunismo, che, in certo senso, è inferiore a quello del Moro, perchè non ha la posizione centrale ed essenziale per l'ordinamento della società, che il Moro riconosce alla forma della proprietà46.
Il Sigwart loda il sistema comunistico del Campanella come fondato con profondità filosofica e svolto con piena consequenza47; ma non è gran lode, perchè nelle discipline politiche, come in ogni campo speciale di studi, quel che conta è l'idea o la scoperta nuova, non il merito di ragionarla formalmente con generali principi filosofici. Altri ancora (per es., il Malon) ammira il cosmopolitismo del Campanella, «qui devancait les temps»48; ma quel cosmopolitismo, anziché avanzare i tempi, guardava all' indietro, verso le idee medievali dell'Impero universale. Di particolari pregi relativi allo studio del concetto economico della proprietà privata e del comunismo non è poi da parlare, per le ragioni esposte di sopra.
Più originale è, senza dubbio, l'ordinamento della generazione, che, accanto al comunismo dei beni, forma il secondo sostegno della sua Repubblica ideale. E infatti, nei processi, le due affermazioni principali, che ritornano sempre in bocca ai congiurati, sono: la vita in comune, e la generazione serbata ai forti. Anche nella Monarchia di Spagna egli non lascia di escogitare modi coi quali si possa ottenere, da ventre di donna, un valente re di Spagna; e ai viceré raccomanda di «copulare», per produrre l'unione degli animi, donne spagnuole con uomini italiani, e all'inverso. Non si può sconoscere alcunché di giusto in fondo all'esigenza ch'egli esprime vivacemente nelle parole; «Noi, affaticandoci pel miglioramento delle razze dei cani e dei cavalli, totalmente trasandiamo quella degli uomini». Il problema della generazione e della popolazione è ancora di quelli pei quali i teorici non vedono via sicura; ma la soluzione proposta dal Campanella si fa notare, più che per altro, per la sua bizzarria. Egli, per l'appunto, tratta la razza umana come cavalli e cani, sembrando dimenticare che gli incrociamenti dei cavalli e dei cani sono regolati dalla costrizione degli uomini, e che, per quelli degli uomini, l'allevatore non si è ancora trovato (se pur non debba esser Mor, il ministro del dicastero dell'Amore nella sua Repubblica ideale).
L'ordinamento politico è appena accennato; e il Sigwart ha notato giustamente che non s'intende con chiarezza in chi propriamente risieda il potere dello Stato, se nell'Assemblea nel Metafisico49. L'ufficio del sommo reggente o Metafisico, e quelli dei suoi tre ministri, sarebbero dovuti essere regolati, a quanto sembra, da una specie di successione dinastica, non del sangue, ma dell'intelligenza: i quattro sapienti avrebbero designato anticipatamente i loro successori. Circa il governo della sapienza e dei sapienti, solo chi si contenta di somiglianze esteriori può vederci qualche cosa di simile al concetto moderno del governo tecnico. Il governo dei sapienti (che, del resto, è di provenienza platonica), come l'obbligo del lavoro e simili, non hanno il significato pregnante, che si potrebbe esser tentati di attribuir loro, ma sono ovvie costruzioni intellettuali e morali.
Più rilevanti le idee del Campanella sull'educazione, in opposizione al modo pedantesco nel quale soleva intendersi ai suoi tempi. Ma, in generale, si è assai esagerato nell 'affermare che quel libriccino del Campanella abbondi di pensieri nuovi e di gran peso: il Felici, che pur muove da questo preconcetto favorevole, ma è per disposizione mentale assai cauto e temperato, nel criticare uno per uno i concetti della Città del Sole finisce col poterne indicare assai pochi, che abbiano qualche importanza; dopo di che, ci lascia alquanto freddi la sua conclusione, che il Campanella fu «non che uomo nuovo, profeta dei tempi nuovi»50.
— Essendo la costruzione del Campanella fondata sulla conoscenza di tutta la letteratura politica51 e delle storie, non è meraviglia che, in molti particolari, le istituzioni dei suoi Solari siano semplici reminiscenze, di svariata origine: non poche derivano da Platone, e dai costumi spartani e romani; dalla chiesa cattolica toglie la confessione auricolare, e via discorrendo. Il Campanella, come tutti i riformatori entusiastici, aveva una visione così precisa del nuovo Stato immaginario, da saper determinare anche le fogge del vestire che avrebbero adottate i suoi uomini dell'avvenire52; e che questo fosse un argomento prediletto nei suoi discorsi coi congiurati si vede dal fatto, che nelle deposizioni dei processi si parla spesso della «tabanella bianca» e del «coppolicchio» a forma di turbante turco, che si sarebbero portati nella «repubblica di fra Tommaso »!
Ma qual è poi il valore politico dell'ideale del Campanella? Con quali mezzi egli credeva che potesse tradursi in pratica? Sta bene ch'egli vanti la sua repubblica come più perfetta di tutte le altre fin'allora ideate, perchè era dedotta dalla dottrina delle «primalità». Ma l'opera del politico consiste, non già nelle costruzioni piìi o meno ingegnose e di bella apparenza, ma nel trovare i punti di congiungimento tra l'ideale e la realtà. E la ragione, per la quale le utopie hanno scarso interesse nella scienza politica, sta appunto in ciò, che le vie dell'attuazione o sono taciute o fantasticamente tracciate53. Ora, fra tutti gli utopisti, chi più utopista del Campanella? Il quale, quando non contava sugli astri, escogitava espedienti politici che non possono non sembrare stravaganti. È stato spesso affermato che ciò proveniva dalla sua condizione di frate, dalla poca sua pratica delle cose del mondo54; ma il Campanella stesso diceva che non i monaci valenti, ma solo i volgari, ignorano il mondo55; ed egli in ispecie, trabalzato da giovane di città in città, ne aveva avuto esperienza abbastanza larga; e, a ogni modo, libri come la Monarchia di Spagna riboccano di conoscenza diretta del mondo reale56.
Più esatto forse sarebbe dire che la sua testa immaginosa trasformava i fatti e attril»uiva loro virtù e qualità che non avevano57.
Tutto sommato, l'interesse della Città del Sole si riduce principalmente all'essere una delle espressioni del bisogno, continuamente risorgente nel corso dei secoli, di vagheggiare istituzioni sociali astrattamente razionali; tra le quali, posta la razionalità, non può mancare, in prima linea, l'eguaglianza dei diritti e dei doveri, con l'abolizione della proprietà privata, causa di perturbamento.
Come opera letteraria, è comune e giusto giudizio che essa non sostenga il confronto con l'Utopia del Moro. Nello scritto dell'umanista inglese, si ammirano una plasticità artistica, una vivacità ed arguzia di stile, dalle quali era lontano il frate calabrese, che aveva anch'esso la sua scintilla artistica, ma d'altro fuoco. Il dialogo ò tra un Hospitalario ed un Marinaio genovese, che restano un interrogatore e un risponditore, un A e nn B qualsiasi; nessuna messa in scena, nessuna motivazione. S'introduce secco secco con un: «Dimmi, per gratia, tutto quello che t'avvenne in questa navigazione...». E finisce, non meno bruscamente: « Aspetta, aspetta ». — « Non posso, non posso »57.
Un'altra ricerca, che non è ancora stata fatta compiutamente, concerne la fortuna letteraria della Città del Sole, e la efficacia che esercitò sugli utopisti e i riformatori dei secoli seguenti. Il Sigwart ci dà notizia di alcuni effetti prossimi degli scritti del Campanella in Germania; dove, com'è noto, furono per la prima volta pubblicate le sue poesie e le opere politiche, per cura del tedesco Tobia Adami. Un amico dell'Adami, il Bezold, tradusse in tedesco la Monarchia di Spagna, un altro, Giovan Valentino Andrea, allora diacono in Vahingen sull'Enz58 alcune poesie; e, ancor prima che fosse edita la Civitas Solis (1623), avendo avuta occasione di leggerla sul manoscritto, nel 1620 ne pubblicava un' imitazione col titolo: Reipublicae Christianopolitancae descriptio. In quest'opera le idee del Campanella sono sottomesse a una riforma: l'autore moveva dalla concezione pietistica, e nella sua repubblica regna il disprezzo pei beni della terra, onde vengono a mancare gli stimoli al lavoro e al sapere, che pur si fan vivi in quella del Campanella. L'Andrea (dice il Sigwart, da cui togliamo la notizia di questo libro) idealizzava la comunità piccolo-borghese del pastore evangelico. In luogo del gran Metafisico governa un triumvirato, composto di un teologo, di un giudice e di un dotto. Rigetta l'ordinamento sessuale del Campanella, conservando il matrimonio, ed accetta la comunanza dei beni. Ma il suo comunismo è l'umiltà e temperanza cristiana, è una virtìi di uomini moralmente perfetti, e non già un istituto intrinsecamente necessario alla buona convivenza sociale, come nel Campanella59.
Assai interessante, se fosse vero, sarebbe quel che asserisce un recente scrittore: che la Città del Sole venne attuata dai Gesuiti nello Stato del Paraguay. I Gesuiti (dice il Gothein. che è lo scrittore al quale alludo60) avevano in comune col Campanella la tendenza a riformare la Chiesa cattolica, accogliendo in essa gli elementi della cultura moderna; e lo Stato del Paraguay risponde, nel generale e in molti piccoli particolari, alla Città del Sole. Ivi, il lavoro stimato e praticato da tutti, l'esclusione dei mezzi di pagamento, la cura dello scambio dei beni affidata allo Stato, la completa abolizione della proprietà privata, le coltivazioni, gli opifìci e i magazzini in comune, la distribuzione sociale dei mezzi di sussistenza, e via. Come nella Città del Sole, gli abitanti andavano ai lavori della campagna in gruppi, a bandiera spiegata e con musica alla testa. Nella Città del Sole l'ammissione degli stranieri era assai difficile; e dallo Stato dei Gesuiti erano addirittura esclusi.
È impossibile non pensare a un'efficacia delle idee del Campanella su quell'opera dei Gesuiti; tanto più che due gesuiti italiani, Cataldini e Maestà, furono quelli che disegnarono le costituzioni introdotte nel Paraguay. Ma il Gothein stesso s'avvede, benché noi dica chiaramente61, dell'incongruenza di date fra il tempo in cui fu pubblicata l'opera del Campanella e il principio delle missioni gesuitiche, che risale al primo decennio del secolo decimosettimo; e cerca di prevenire la difficoltà dicendo che: «se anche i due Gesuiti non ebbero notizia dell'opera del loro compatriota, tuttavia il loro disegno nacque dalla stessa radice, e la concordanza prova quanto siffatti pensieri fossero propri agli uomini appartenenti al periodo del massimo impeto della Controriforma». Il Gothein intende di certo non dei pensieri comunistici, ma di quelli del regolare autoritariamente la vita delle società. Senonchè le somiglianze notate o sono affatto superficiali o cadono su cose intrinseche a qualsiasi ordinamento comunistico, senza le quali esso non sarebbe. E, per contro, nello Stato dei Gesuiti non si nota nessuna delle istituzioni caratteristiche del Campanella, come il regolamento sessuale, la partecipazione delle donne alle guerre, i metodi educativi, e altri 62. Il colpo di grazia poi tale congettura lo riceverebbe dal tentativo recente di spiegare lo Stato dei Gesuiti, non più come sperimento storico ed applicazione di disegni prestabiliti, ma come semplice accomodamento dei Gesuiti alle abitudini comunistiche delle tribù selvagge dei Guarani. I Gesuiti istruivano i selvaggi nel lavoro dei campi; e il loro preteso comunismo campanelliano si riduceva a un savio sfruttamento capitalistico, che era, per l'Ordine, fonte di ricchi proventi63.
Non si può dire che la Città del Sole avesse, nel secolo decimosettimo, la voga e diffusione che ebbe, nel secolo precedente, l' Utopia del Moro. Dopo le edizioni che se ne fecero in vita dell'autore, non se ne conosce se non un'altra di Utrecht del 1643. Sotto l'aspetto letterario (né altro interesse quel libro suscitava fuori del letterario), l'invenzione e il latino del frate si giudicavano, come abbiamo detto, inferiori a quelli del Moro64. Cadde poi quasi in perfetto oblio nel secolo decimottavo 65.
Una rifioritura d' interesse per la Città del Sole si ebbe intorno al 1840, nel qual tempo furono pubblicate due edizioni di una traduzione italiana di essa, ristampata poi dal D'Ancona nel 1854 e da Eugenio Camerini nel 1863 presso il Daelli: e due traduzioni francesi66. Il Sudre mette ciò in relazione, giustamente, col nuovo comunismo utopistico della prima metà del nostro secolo67. In uno degli utopisti di quel tempo, nel tedesco Weitling (che procedeva con certo eclettismo nelle sue costruzioni), il Mario nota come imitazione dal Campanella il governo dei filosofi.68 Senonchè l'andar ricercando nei libri degli utopisti le tracce del Campanella è opera non solo assai incerta, ma poco concludente, perchè, dato l'indirizzo razionalistico costruttivo, le somiglianze si spiegano, e, se pure taluno ha imitato, non ce ne sarebbe stato forse bisogno.
Quel è certo, di un'efficacia della Città del Sole sullo svolgimento del socialismo moderno non si può parlare se non in questo senso negativo: che l'opera campanelliana appartiene a quel gruppo di costruzioni fantastiche, alle quali il socialismo moderno ha guardato per rigettarne il punto di partenza. Aver contribuito a suscitare il discredito delle utopie: ecco la sola efficacia che il Campanella, con gli altri utopisti, può rivendicare. E, in questo senso, la sua ideale costruzione non è stata vana69.
VII
Ma, se il Campanella come filosofo appartiene al passato e come riformatore sociale è piuttosto bizzarro che originale e il fondo delie sue idee ci rimane estraneo, la sua personalità, così ricca, così esuberante, ci attrae sempre. Le idee non erano per lui freddo prodotto dell' intelletto, ma cosa sentita, voluta, vissuta. A questa intensità passionale dette sfogo nei rozzi e vigorosi versi italiani, che andò via via componendo, per la maggior parte nel carcere70. Versi «più con la naturalezza calabrese che con la eleganza toscana adornati», come diceva il loro primo editore, il tedesco Adami; ma che, per la semplicità robusta delle immagini e delle espressioni, hanno proprio quel carattere che noi siamo soliti di chiamare dantesco. Agli occhi del poeta, tutto l'uaiverso appariva animato: il Sole era il volto di Dio, pompa e suprema face; e con parola commossa ne celebrava l'opera nella natura:
Tu sublimi, avvivi e chiami a festa novella
ogni segreta cosa, languida, morta e pigra...
Esca io dal chiuso, mentre al lume sereno
d'ime radici sorge la verde cima.
Le virtù ascose nei tronchi d'alberi in alto,
in fior conversi, a prole soave tiri.
Le gelide vene ascose si risolvono in acqua
pura, che sgorgando tutta la terra riga.
I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo;
a minimi vermi spirito e moto dai.
Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive...
Così, il mare gli appariva come sangue della terra:
Sangue ti posso dir che nutre e viene,
va tra le vene...
Pieno della propria missione mondiale, il Campanella sentiva di avere ricevuto «sette monti, arti nuove e voglia ardente » , come segno di predestinazione e forze di attuazione; e alla sua «settimontana testa»71, apportatrice di tanta opera, si rivolgeva con alta intonazione, quasi di riverenza:
Tre canzon, nate a un parto
da questa mia settimontana testa,
al suon dolente di pensosa squilla...
Egli era venuto a combattere i tre vizi, la «trina bugia»,
sotto cui tu piangendo, Mondo, fremi.
Il vero dominatore (diceva) non è chi ha gran dominio di terre, ma chi è tutto pieno di bontà, di sapienza,
di valore, di Gesù, Pallade e Marte,
benché sia schiavo, e figlio di bastaso72
E a petto a lui, sapiente e sovrano per diritto di ragione, che cosa erano i sovrani della terra?
Principi finti, contro i veri, armati.
Nella miseria e ignoranza universale, la sua riforma era un lume di speranza:
Stavano tutti ai buio, altri sopiti
d'ignoranza nel sonno, e i sonatori
pagati raddolcirò il sonno infame;
altri vegghianti rapivan gli onoi-i,
la roba, il sangue, e si facean mariti
d'ogni sesso, e schernian le genti grame.
Io accesi un lume...
Nel carcere, la fede nei propri ideali non gli venne mai meno, e ripeteva a sé stesso:
E, perchè taccia il vero, in career tetro
io sto; ma con san Paolo e con san Pietro
canto un occulto metro,
che nel secreto orecchio alle persone
la campanella mia fa che risone:
— Ch'or l'Eterna Ragione
pria tutti i regni uman compogua in uno,
che renda il caos tutte cose all'uno.
E immaginava il trionfo, e udiva, talora, risonare le grida di «Viva, viva Campanella!73. E sospirava:
Oh voglia Dio ch'io arrivi a si gran sorte,
di veder lieto quel famoso giorno,
ch'ha a scompigliar i figli della Morte!
Può dirsi che non il Campanella riformatore e comunista, ma il Campanella poeta della riforma e del comunismo, è per noi ancora vivo. L'alto ideale di giustizia e di felicita umana da lui vagheggiato ci sta innanzi con la forza di una aspirazione e visione poetica74.
---
1 Basta accennare alle storie del Sudre e del Malon, e alle trattazioni dei «Romanzi di stato» del Mohl, del Kleinwaechter e di altri, all'anonimo volumetto Schlaraffia politica, Geschichte der Dichtumgen vom besten Staate (Leipzig, 1893), e anche al libretto del Di Castro, Vecchie utopie (Milano, 1895), pp. 107-127, che per altro contiene un cenno assai magro e inesatto della Città del Sole. Per la più vecchia letteratura, si veda il D'Ancona, Opere del Campanella (Torino, 1854), pref. Se ne sono occupati, più o meno largamente, tutti coloro che hanno scritto, negli ultimi decenni, intorno alla vita e alle opere del Campanella (Spaventa, Ferrari, Berti, Fiorentino, Amabile, Franck, Sigwart ed altri), ed è sempre tema prediletto per articoli di riviste.
Conosco, per la citazione di un catalogo, il titolo di un opuscolo del Tröbst, Der Sonnenstaat des Campanella, stampato a Weimar nel 1860; ma, per ricerche che ne abbia fatte, non mi è stato possibile procacciarmelo. Ho saputo che l'autore, morto pochi anni or sono, lo pubblicò per conto proprio, e l'opuscolo non si trova in commercio.
Posteriormente al mio scritto, sono stati pubblicati uno studio di M. Kovalewski, Botero et Campanella (negli Annales de l'Institut international de Sociologie, vol. III), un altro del Felici, Campanella e la Riforma (nei Rendiconti dei Lincei, 1897), un discorso di N. Arnone (Reggio di Calabria, 1898), e una conferenza di I. Sanksi (Pistoia, 1898).
2 L'Amabile, che meglio di tutti ha ricercato i concetti politici del Campanella, non poteva per le sue tendenze politiche conservatrici (cfr. I processi, 1, pref., XLI, p. 122, e Camp, nei Cast., II, 273n, Del carattere di T. C, p. 89, ecc.) fermarsi a studiare con amore e interessamento la dottrina comunistica del suo eroe, sulla quale passa rapidamente, spacciandosene col dirla «generosa follia».
3 Stuttgart, Dietz, 1895. Se uè veda il vol. I: Die Vorläufer des neueren Sozialismus, parte II, pp. 469-506. La monografìa del Lakak-ouE è stata ristampata in francese nella rivista Le Devenir social, a. I, 1895, fasc. IV-VI. Qui è preceduta da una introdunzioncella sulle sètte eretiche (comunistiche) del medio evo, ch'è affatto fuor di luogo, non essendo vero che «les aspirations de cette douloureuse agitation populaire» siano state consegnate, come in testamento, nell' Utopia del Moro e nella Città del Sole del Campanella (pp. 309-310): opere, che hanno altre motivazioni storiche.
4 I compilatori, del resto, non si nascondono l'incompiutezza dell'opera loro, che rimane ancora semplice abbozzo; si veda la prefazione, e cfr. una lettera dell'Engels pubbl. nella Neue Zeit, XllI, n. 17, p. 647.
5 II quale, presso il Lafargue, diventa uu «Germino». A p. 481 si attribuisce ancora al Bruno il sonetto: « Poiché spiegate ho l'ale al bel desio», che ora da un pezzo è provato esser del Tansillo, e non di contenuto filosofico, ma relativo all'adorazione del poeta per la superba marchesana del Vasto. A p. 491, si afferma che il Campanella credeva che la semplice descrizione della sua Repubblica avrebbe convertito i popoli della terra «come Fourier che voleva convocare un congresso di re e di capitalisti ad Aquisgrana per far loro adottare il suo Falansterio». Che il Campanella avesse tanto semplice credenza non pare, perché si dette la pena di congegnare un complesso di operazioni, di astuzie e finanche di delitti politici, coi quali si sarebbe dovuto giungere all'attuazione della monarchia universale. Quanto al paragone, è strano che il Lafargue scambi il Fourier coll'Owen; il qual ultimo, del resto, non voleva già convocare un congresso ad Aquisgrana, ma presentò di persona, ai sovrani radunati il 1818 ad Aquisgrana, proposte per risolvere la questione sociale.
6 Thomas Campanella und seine politischen Ideen. Fu pubblicato la prima volta nei Preussiche Jahrbücher, e se ne ha la terza ristampa nella 2ª ediz. delle Kleine Schriften del Sigwart (Freiburg in B., 1889), I, 125-181.
7 Cyprianus, Vita Th. Campanelae (2ª ediz., Amstel., 1722), pp. 4-5.
8 Nel Codice delle lett. autogr., Bibl. Naz , XII. D. 81, f. 65 t.°; nel ms. della stessa Bibl., XII. E. 53, f. 3.
9 Real. Phil., epilogisticae partes quatuor (Francof., 1622), p. 425; cir. p. 472, e passim..
10 II Campanella in nota all'elegia al Sole: «Il Sole è insegna della semblea d'esso autore» (Opere, ed. D'Ancona, I, 170).
11 A p. 505 si afferma che il Campanella confuta sant'Agostino, quando invece, così nella Città del Sole come più volte nelle Questioni, lo chiama a conferma delle sue dottrine comunistiche (cita, tra l'altro, il detto di lui: Amputatio proprietatis est augmeentim caritatis, ed. D'Ancona, II, 306). In quel punto, e più ancora nelle Questioni, il Campanella si rivolge contro Aristotele, non contro sant'Agostino. Onde il Lafargue combatte contro i mulini a vento, allorché soggiunge: « Questo santo, che considerava la schiavitù come un' istituzione divina, aveva una povera idea dell'amicizia, ch'egli faceva consistere solo nell'interesse: ch'è poi l'opinione d'uno schietto cristiano». Lo «schietto cristiano» verrebbe così ad essere Aristotele!
12 Nocera inferiore, A. Angora. 1895.
13 Das kommunistiche Manifest (6 ediz., Berlino, 1894), pp. 26-8.
14 E. Ferri, Socialismo e scienza positiva (Roma, 18.91). Una critica spietata ne fa il Kautsky nella Neue Zeit, XIII, vol. I. pp. 709-716, che finisce col considerare il libro come sintomo del periodo confusionario che la teoria del socialismo percorre ora in Italia. Il Ferri fa sapere che «la sua educazione scientifica al socialismo» è stata compiuta sulle opere del Loria, «tutte sostanziate di teorie marxiste, fecondate con un corredo meraviglioso di erudizione scientifica e con profondità geniale di vedute» (p. 39 «): e tanto basta, per chi conosca quale socialista sia il Loria, e quale la sua forza critica e scientifica.
15 A p. 244 si dice: «Il Giaunoue... avendo scritto sotto il doppio giogo della gerarchia e della dominazione spagnuola può meritare qualche scusa dello scherno lanciatogli». Ma il Giannone pubblicò la sua Storia nel 1724, quando gli spagnuoli non erano più a Napoli da un pezzetto; e, se per gerarchia si deve intendere la Chiesa, non era certo il Giannone che schivasse di attirar sopra sé la collera della Chiesa. A p. 110: « Pietro Giannone dall'ultimo vertice del secolo passato...»: parole che io cito per proporre la questione fraseologica: se il principio d'un secolo se ne possa chiamare il «vertice»?
16 Su questo punto si vedano le considerazioni di A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti (2ª ediz., Roma, E. Loescher, 1895), p. 25.
17 Sul Doni, cfr. E. Bertana, Un socialista del cinquecento (in Giornale ligustico, XIX, fasc. IX-X, sett.-ott. 1892, pp. 336-372).
18 Non so come al Calenda venga in mente di affermare che il Campanella esprimeva nella sua teoria le aspirazioni comunistiche e i desideri sessuali dei contadini calabresi (op. cit. p. 165 segg.). Anche la comunanza delle donne rispondeva ai desideri delle popolazioni calabresi, che sono tra le più terribilmente gelose dell'Italia meridionale?
19 A questo mi pare si riduca l'importanza delll'Utopia del Moro; e già il Marx l'aveva adoperata come fonte storica nel Capitale (cfr. 4 ediz., Hamburg, 1890, I, 635, 701-2 n). Si veda il libro del Kautsky, Thomas More und seine Utopie mit einer historischen Einleitung (Stuttgart, Dietz, 1890); dove, per altro, mi sembra che si esageri il carattere affatto proprio, che assumerebbe il comunismo del Moro per effetto del suo riferirsi a una critica di condizioni sociali. Ogni utopia si riferisce sempre, per espresso o per sottinteso, a una critica di condizioni sociali; sebbene sia da concedere che nell'opera del Moro questa critica è assai svolta e offre da sola una pagina storica cospicua.
20 Monarchia di Spagna, c. XIV e XVII (in Opere, ed. D'Ancona. II, 127-8, 148).
21 Veramente, ai cominciamenti del secolo decimosettimo Napoli contava intorno a dugentocinquantamila abitanti, oltre cinquantamila nei suoi borghi (cfr. Capasso, Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica e sulla popolazione della città di Napoli, Napoli, 1883, pp. 43-46); sicché non si comprende come il Campanella potesse scrivere un numero così lontano dal vero.
22 Così nel Codice delle lettere, f. 50, e cfr. ed. D'Ancona, II, 256-7. Nell'altro manoscritto XIII. E. 53, f. 17, non si nomina Napoli: «perché in una città saranno tante migliaia d'anime, et non fatica se non la quarta parte, et questi patiscono fatica assai, ecc.».
23 Cod. delle lettere, f. 78.
24 Monarchia di Spagna, c. XXXI (Opere, ed. cit., II. 216).
25 Ms. citato, f. 78.
26 Lafaugu, l. c, pp. 488-9.
27 Del resto, i concetti economici del Campanella erano alquanto poveri. Una diligente esposizione se ne ha in T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napoletane dal sec. XIII al MDCCXXXIV, studi storici (Milano, 1882), pp. 16.5-191. È stato favoleggiato della sua amicizia con Antonio Serra, il quale avrebbe preso parte alla congiura campanelliana, e certo stava in carcere negli anni nei quali c'era anche il Campanella; ma, dopo le ricerche dell'Amabile, ciò non può più ripetersi. Il Serra era in carcere sotto l'accusa (vera o calunniosa che fosse) di falsa moneta.
28 Si veda, alla fine del vol. II dell'opera dell'AMABILE, I processi, pp. 609-12, il confronto tra le idee esposte nella Città del Sole e quelle che risultarono sparse tra i congiurati. Il Falletti (Del carattere di T. C, in Rivista storica italiana, 1889, p. 209 so-g.) sostiene la verità della tesi, che il Campanella addusse a sua difesa: che, cioè, la congiura fosse diretta a servir di «cautela» pel caso che avvenissero i profetati rivolgimenti e le invasioni dei Turchi: contra, si veda I'Amabile, Del carattere di T. C, in Atti dell'Acc. Fontan., vol. XX, p. 49 e sgg.
29 Quando a Napoli fu giustiziato (4 febbraio 1600) Maurizio de Rinaldi, il residente veneto scriveva: «Le attioni fatte da costui, et vivendo et morendo, sono generalmente stimate di tanto momento, che da esse si possa far giudicio qual fossero stati i suoi progressi, se fosse riuscito l'effetto della congiura» (Amabile, I processi, II, 60).
30 Ecco un brano di dialogo fra il Campanella ed uno dei congiurati, secondo la confessione del Campanella: «La prima volta che esso fra Tommaso ne parlò con detto fra Giov. Battista fu l'anno passato de mese de Settembre 1598 in Stilo, conferendo certe conclusioni che esso fra Giov. Battista havea da tenere nel Capitolo». In queste conclusioni «trattò de statu optimae Reipuhlicae, et dicendoci Io la legge di quella, lui disse: 'volesse Dio che si trovasse, ma è quella di Platone che non si trovò mai'; et io le risposi che ' s'haverà da trovare innanzi la fine del mondo per compir li desideri humani del secolo d'oro, et che così era profetato...'» (Amabile. I processi, II, 68).
31 G. Passaro, Giornali (Napoli, 1785), pp. 184, 187.
32 Si veda una lettera da Napoli 15 agosto 1563 pubblicata dal Palermo in Arch. stor. ital.., 1ª serie, vol. IX, pp. 195-6, e Parrino, Teatro dei viceré, ed. Gravier, I, 171. — Del Berardi discorre piuttosto a lungo David Andreotti. Storia dei Cosentini (Napoli, 1869), II, 256 sgg., il quale vuole che esso fosse un eretico luterano fuggito dalle carceri dell'Inquisizione, e racconta di lui parecchi particolari che hanno del romanzesco. L'Andreotti, scrittore non degno di molta fede, si riferisce a una cronaca del Frugali, che ho saputo esistere manoscritta in Cosenza presso un privato, ma della quale non ho potato avere finora comunicazione. La fama di « Re Marco» è viva presso il popolo; e tra gli scheletri del cimitero del convento di San Francesco se ne addita uno come quello di lui.
32 Lanciano, Carabba, 1895.
33 Il presente scritto fu pubblicato la prima volta, come ho avvertito, nell'Archivio storico per le prov. napoletane.
34 Non avrei mai pensato che, nel ristampare dopo qualche anno il mio scritto, dovessi qui segnare che il mio caro e valente amico prof. Giovanni Sante Felici è morto, in giovane età, il 5 settembre 1897. E con lui sono cadute le molte speranze, che i primi frutti del suo vigoroso ingegno facevano sorgere.
35 B. Spaventa, Saggi di critica filos. e relig. (Napoli, 1867), pp. 19- 25. Cfr. Prol. e introd. alle lezioni di filosofia (Napoli, 1862), pp. 64-70.
36 F. De Sanctis, Storia della lett. ital., II, 262-284.
37 Amabile, opp. citt., passim, e specialmente Campanella nei castelli, II, 166-179.
38 Mariano, in Atti dell'Accad. Reale di Napoli, Sezione scienze morali e poliliche, vol. XXIII, pp. 156-163; cfr. Amabile, Osservazioni (Napoli, 1888), pp. P-19.
39 In questo modo di considerare la religione rispetto alla società sta la vera ragione dell'avversione del Campanella al Machiavelli, pel quale ultimo la religione era semplice astuzia di governo. Si veda principalmente Atheismus triumphatus (ed. di Parigi, 16.3fì), pp. 226-252. Il Lafargue non mancherebbe di dire, che l'odio del Campanella contro il Machiavelli rappresentava la ribellione dell'etica proletaria contro l'etica borghese.
40 Ms. cit., f. 6.
41 «In nostro favore sta l'esempio di Tommaso Moro, martire recente, che scrisse la sua repubblica Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le istituzioni della nostra». (Quest., ed. D'Ancona, II, 288).
42 Questioni, ed. cit., II, 291.
43 Questioni, ed. cit , II, 294.
44 Questioni, ed. cit., II, 292.
45 Poesie filos., in Opere, ed. cit., I, 28.
46 1 Lafargue, op. cit., pp. 503, 504. Cita a prova i nomi di padre e figlio, fratelli e sorelle, che si davano tra loro gli abitanti della Città del Sole: «il che non è uscito dal suo capriccio, perchè si è ritrovato presso le orde australiane, e probabilmente così Platone come il Campanella hanno ricavato il fatto da notizie di viaggiatori». Da costumi dell'impero degl'Incas nel Perù avrebbe tolto le cerimonie che accompagnano la coltivazione della terra, il culto del Sole, e il nome stesso del suo Stato.
47 L'ipotesi, che il Campanella avesse conoscenza della costituzione degli Incas del Perù, è anche messa innanzi da G. De Greef, L'évolution des croyances et dex doctrines politiques (Bruxelles-Paris, 1895), pp. 161-2 n. Il quale, su notizie fornitegli dal Réclus, fa notare che se l'opera di Garcilaso da la Vega fu pubblicata per la prima volta nel 1609-1617, la Chronica del Perù nuevamente escrita di Pedro de Cieza de Leon era stata già pubblicata ad Anversa nel 1554, e, tradotta in italiano, a Roma nel 1555 e a Venezia nel 1.560; e di nuovo, Historia delle nuove Indie occidentali, Venezia, 1576. Il Campanella doveva certo conoscerla; come anche egli fu senza dubbio in relazione con viaggiatori spagnuoli e italiani, i cui racconti erano sparsi nel pubblico. «Ceci n' implique pas — soggiunge il De Greef — que les utopies socialistes de Campanella n'aient pas eu des facteurs internes; ceux-ci restent au contraire le plus importants; mais, dans notre hypothèse, le Pérou, au commencement du XVII siècle, aurait exercé sur les publicistes européens, Campanella par exemple, la mème influence que l'Angleterre sur Montesquieu et Voltaire, la Suisse sur J.J. Rousseau, et toutes deux avec le Républiques américaines et les formes communautaires primitives sur la démocratie contemporaine».
48 Pel Moro, in una sola cosa è l'origine di tutti i mali della nostra società (ed. Daelli, p. 32); definisce gli Stati «una congiura di ricchi, la quale tratta dei propri comodi» (p. 86).
49 SlGWART, op. cit., p. 158.
50 B. Malon, Social, intégral (Paris, 1890), I, 115.
51 SlGWART, op. cit., p. 167.
52 Op. cit., in fine dell'ultimo capitolo.
52 «E finalmente tutti i difetti che si sono notati nelle repubbliche di Minosse, di Licurgo, di Solone, di Caronda, di Romolo, di Platone e di Aristotele e di altri autori, nella nostra repubblica. a chi ben vi guarda, non si trovano... » (Questioni, ed. D'Ancona, II, 290).
53 «Vesteno dentro camicia bianca di lino, poi un vestito ch'è giubbone e calze insieme senza pieghe et spaccato per mezzo del lato e di sotto et di poi imbottonato et arriva la calza sino al talone, a cui si pone un pedal grande come bolzacchino, e la scarpa sopra; e son ben attillate che, quando si spogliano la sopraveste, si scorgono le fattezze della persona... » (Ms. cit., f. 6S t.°; cfr. l'altro ms., f. 12).
54 L'Utopia del Moro non sembra giuoco letterario, com'è stata di solito cousiderata, ma ideale seriamente sentito; e il Kautsky sostiene che il Moro vedeva la via di una possibile attuazione nell'opera di un sovrano assoluto. Recentemente G. Louis, Thomas More und seine Utopia (Berlino, 1895, progr.), torna a negare all' Utopia del Moro valore politico, ne mette in rilievo i lati scherzosi, afferma che rappresenta un ideale statico, non dinamico (der Ruhe, non des Strebens), come la poesia pastorale.
55 Già il Sudre, Hist. du communisme (Bruxelles, 1850), p. 176: «On sent, en le lisant, que Campanella n'est pas sorti de l'enceinte du cloître et qu' il n'a vu les hommes qu'à travers Pétroite ogive de sa cellule». Anche il Lafargue ripete le stesse cose.
56 «Né i monaci si privano di questi beni (la conoscenza del mondo), mutando spesso città e provincia, né l'ignoranza dell'esperienza si dà a vedere nei migliori monaci, ma solo nei volgari » (Questioni, ed. D'Ancona, II, 29B).
57 Non riesco tuttavia a scorgere l'importanza politica, che in quel libro ritrova il Sigwakt, l. c, p. 173.
58 Il GOTHEiN, che citeremo più oltre, afferma che il
Campanella abbia guardato al Nuovo Mondo, come a campo opportuno di
esperimento.
Ma ignoro sopra qual documento fondi quest'affermazione secondo la
quale il Campanella avrebbe preceduto (nel campo delle idee, se non dei fatti) gli owenisti, i forieristi e i cabetisti,
esperimentatori in America.
59 È noto che la Città del Sole fu scritta nel 1602 in lingua italiana, verso il 1613 tradotta in latino, nel 1628 pubblicata dall'Adami a Francoforte, e poi di nuovo dall'autore nel 1636 in Parigi. L'edizione italiana, più volte ristampata in questo secolo, è traduzione dall'edizione latina. Il testo originale italiano è ancora inedito in parecchi manoscritti, e presenta non poche e non insignificanti varietà. Intorno ad esso Amabile, Il codice delle lettere, pp. 30-33, I processi, II, 300-305, Campanella nei cast., I, 156-7, dove si vale dei due manoscritti italiani dame adoprati; e Felici, l. c, pp. xxvi-xxviii, che tiene presente un codice Casanatense (n. 1587).
60 Su Johan Valentin Andrea, si veda la Allgem. Encyclop. der
Wisnenschaften
und Kunste, di Ersch e Gkubek (Leipzig, 1820), IV parte, pp. 38-4. All'Andrea si fa risalire, ma forse a torto, T
istituzione della società dei RosaCroce.
61 SIGWART, op. cit., 1, 174-77.
62 D.r E. GOTHEIN, Der christlich-sociale Staat der Jesuiten in Paraguay (Leipzig, 1883: nelle Staats-und socialwissenschafiliche Forschunmgen dello SCHMOLLER, vol. IV, fasc. IV). — Anche il Loria, Problemi sociali contemp., pp. 6.5-66: «Tommaso Campanella, frate napoletano, nella sua Città del Sole, vagheggia una costituzione comunista che plasmerebbe la società umana sul modello di un chiostro, e che venne applicata (!), alcuni secoli dopo(!!), dai Gesuiti nei loro stabilimenti del Paraguay. Anche Giordano Bruno difende l' ideale comunista {?), mentre Tomaso Moro riprodvice (?) ]a Bepuhblica di Platone nella sua Utopia »
63 È da notare, nella dissertazione del Gothein, la completa
mancanza di date.
64 Si veda uu articolo di K. Kautsky, Zukunfsstaaden der Verganenheit, nella Neue Zeit, a. XI, voi. I, 1892-8, n, 21 e 22, p. 653 sgg., spec. a p. 684 sgg.
65 Tale è l'opinione sostenuta dal Kautsky, 1. e, ma che già nel secolo passato era stata proposta in certo modo dal Raynal, il quale pensava che i Gesuiti avessero preso a modello le istituzioni degli Incas.
66 Cfr. per tutti J. Bruckeri, Hist. critica phil., IV, Pars altera, pp. 143-144; e i pjiudizì raccolti nel Cvprianus, Vita, pp. 156-158.
67 Il SiGWArT, p. 151, dice che il Campanella fu il vero padre dei romanzi utopici, perchè dopo di lui, e non dopo l' Utopia, si seguirono senza interruzione: osservazione che in verità non sembra ben fondata.
68 Del ViLLEGARDELLE e di G. ROSSET, quest'ultima pubblicata nel libro della Colet. — È notevole per la voga del Campanella in quel tempo la menzione che di lui fa George Sand, La Comtesse de Rudolstadt (séguito di Consuelo), II, 318: «Lis donc Trismegiste et Platon, et ceux qui ont médité après eux sur le grand mystère. Dans ce nombre je te recommande le noble moine Campanella, qui souffrit d' horribles tortures, pour avoir rèvé ce que tu rèves, Porganisation humaine fondée sur la vérité et la science ». Nel 1885, H. Morlky raccolse in un volume inglese quattro Utopie, tra le quali la Città del Sole, traduzione da Th. W. Halliday. ma con parecchie mutilazioni (si veda una nota nella Geschichte des Sozialismus, p. 492).
69 Sudre, l. c., p. 181.
70 K. MARLO, Untersuchungen über die Organisation der Arbeit (2a ediz. Tubingen, Laupp, 1SS4), voi. II, p. 571.
71 Sulle relazioni tra il socialismo utopistico ed il socialismo moderno, e il passaggio del primo al secondo, si veda il libro dell' Engels, Herrn Eugen Dühring's Umwälzung der Wissenschaft (3ª ediz., Stuttgart, Dietz, 1894), p. 274 sgg.
72 Oltre la Scelta dell'Adami (ristamp. dall' Orelli, dal Leoni e dal D'Ancona, e in parte trad. in tedesco dall'Andrea e dallo Herder, e ora dal Gothein, e in francese dalla Colet), si vedano le poesie inedite pubblicate dall'AMABILE, nel vol. III dell'opera I processi, pp. 549-81. (Delle Poesie ha dato ora una edizione completa e critica il Gentile, Bari, Laterza, 1914].
73 La «settimontana testa» (dalle sette ijrominenze) del Campanella si può vederla nella ricostruzione che ne fece fare l'Amabile in un busto in bronzo, ch'egli legò al Museo di S. Martino di Napoli.
74 «Bastaso»: bastagio, facchino.
75 Anche di recente è stato pubblicato uno studio sul Campanella poeta, dovuto allo stesso Gothein, autore dello scritto sullo Stato dal Paraguay (Th. Campanella, ein Dichterphilosoph der ital. Renaissance, nella Zeitschr. fur Kulturgeschichte dello Steinhausen, Berlino, voil IV, N. S., pp. 50-92. Ma il Gothein (eh' è anche autore di un libro egregio sullo svolgimento della cultura nell'Italia meridionale) non par che abbia la mano felice nel trattare del Campanella. Egli, il quale pure afferma che gli scrittori italiani che hanno studiato il Campanella, sono stati piuttosto panegiristi che critici obbiettivi, dà prova di non conoscere codesti scrittori, come si vede dagli errori della parte biografica (cfr. spec. pp. 5S, 63-4, 86, ecc.). E nello studiare le poesie, non gli era lecito prescindere dalle indagini sulla cronologia e dal comento storico di esse, per opera dell'Amabile. Del resto, lo scritto del Gothein è specialmente notevole per le accurate e belle versioni metriche, che offre ai tedeschi, di parecchie poesie campanelliane.
Ottobre 1895.