Il prof. V. Racca, nella recensione dei miei saggi marxistici,
pubblicata nell'ultimo fascicolo della Bivista italiana di
Sociologia1, mi rimprovera di non aver il coraggio di abbandonare
puramente e semplicemente la teoria del valore del Marx, e di essere
in ciò illogico. Ma io, sin dalla prima volta che ho toccato
della questione (in nota allo scritto sul Loria), non ho fatto altro
se non ripetere che la teoria del Marx «non è una
teoria del valore», e che la teoria scientifica del valore non
può trovarsi se non nell'indirizzo puristico o «
austriaco» che si voglia dire. Non ho, dunque, bisogno di
«abbandonare» la teoria del valore del Marx,
perché non l'ho mai riconosciuta come tale.
Il Racca dice anche che io intendo valermi dei presupposti
dell'economia pura per ispiegare il sopravalore e altrettali
concetti che l'economia pura nega. Io ho scritto: «Sopravalore
in pura economia è una parola priva di senso, come è
mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore
è un extravalore, ed esce perciò fuori del campo della
pura economia» (Per la interpretazione e la critica, ecc., v.
questo vol., p. 68). E potrei citare almeno altri dieci passi dei
miei scritti, in cui si ribadisce questa affermazione. Dunque, non
solo non intendo valermi dei presupposti dell'economia pura,
né fare del sopravalore un concetto di economia pura; ma dico
anzi, espressamente, che, per intendere il pensiero del Marx,
bisogna uscire dall'economia pura.
Ciò che non mi rassegno ad accettare (e forse qui si trova il
punto di dissenso tra il Racca e me) è la pregiudiziale: —
che quello che non cape nell'economia pura non debba nemmeno
discutersi. — Lascio ai signori De Molinari e compagni la parola,
che vorrebbe parer modesta ed è orgogliosa, da essi adoperata
di solito innanzi al Marx: «Non capisco!», — con
l'aggiunta sottintesa: ciò che noi non comprendiamo a primo
tratto non è degno di esistere. Il punto d'onore
intellettuale deve consistere nel riflettere tanto sulle cose che
non si capiscono, da finire col capirle. E criticare uno sproposito
è capirlo: altrimenti, lo sproposito ci resta di sopra, come
una forza indomata. D'altra parte, non si vuol negare che vi siano
pretese dottrine scientifiche, consistenti in puri e semplici errori
; ma che quelle del Marx appartengano a siffatto ordine, mi permetto
di dubitare. Anche a giudicare solo per indizi, non è facile
persuadersi che dottrine che hanno avuto e hanno tanti seguaci, e
che tanto hanno affaticato e continuano ad affaticare gli avversari,
non contengano la loro parte di vero; che un uomo come il Marx, di
cui basta leggere qualche pagina per avvedersi subito di aver che
fare con un intelletto sopra dell'ordinario, abbia totalmente, ossia
volgarmente, spropositato in ciò ch'è stato il compito
scientifico della sua intera vita. Sarà; ma non bisogna
essere corrivi a crederlo. Sono, codesti, segni esterni, che non
bastano per un giudizio definitivo; ma che dovrebbero pur bastare a
rendere guardinghi.
Essendomi messo, dunque, a studiare, con piena libertà,
sebbene col presentimento che non si trattasse in nessun caso di un
errore volgare, la dottrina economica del Marx, sono venuto alla
conclusione, che in essa sono mescolati vero e falso. Non
ripeterò qui le lunghe esposizioni che ho già dato di
questo mio giudizio; ma dirò in breve e per accenni che
l'aspetto di vero consiste, a mio parere, nell'avere il Marx
richiamato fortemente alla coscienza la con-dizion alita sociale del
profìtto: di che lacrime grondi e di che sangue quel
profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di
coloro ch'egli chiamava i « commessi viaggiatori del
liberismo» pareva quasi nascesse per virtù miracolosa,
insita nel capitale. Riportare alla coscienza non è scoprire
una legge scientifica: è, semplicemente, riportare alla
coscienza. Perciò appunto ho applaudito alle giuste parole
del Sorel: che la legge del Marx «non ispiega
scientificamente», ma semplicemente «rischiara».
Il procedimento, del quale il Marx fa uso a questo fine, è
stato da me definito procedimento comparativo: parola alla quale do
importanza, perchò mi par che indichi il punto essenziale.
Quanto alla parte fallace, essa consiste nell'aver dato il Marx qua
e là, al procedimento comparativo, valore di spiegazione
scientifica, e nell'avere preteso di soppiantare, coi risultamenti
di esso, la vera e propria teoria economica (diremo così, per
intenderci, dell'economia pura).
II
Il Racca ricorda di avermi invitato, nel Giornale degli economisti,
a dimostrargli che il Marx la pensava per l'appunto come me, suo
critico. Veramente egli non m'invitava a questo: diceva invece, se
ben ricordo io, che restava da chiarire «se a me spettasse
solo il merito di aver bene interpetrato il pensiero del Marx, o
l'altro assai maggiore di averlo completato». La
dimostrazione, che pretende ora, non posso dargliela, perché
la tesi da me sostenuta esclude che il Marx la pensasse come me,
salvo che in parte. Né dalla mia memoria Per
l'interpretazione e la critica ecc., sino allo scritto Recenti
interpetrazioni ecc., io ho « spostato la questione»,
come il Racca crede. Esordivo, in quella memoria, col dire che il
Marx non aveva avuto «chiara coscienza» del suo
pensiero; e dimostravo (nel 2° paragrafo) che l'antitesi con
l'economia pura e l'affermazione dell'assurdità di questa
(svolta poi specialmente per opera dell'Engels) era infondata,
perché non si poteva dedurla dalla genuina natura delle
premesse del Marx. Con ciò venivo riconoscendo la parte
fallace, ch'è nei libri del Marx e della scuola. Nello
scritto Recenti interpetrazioni, addirittura ho taciuto della forma
mista di vero e di falso, che il Marx ha data alla sua dottrina: e
ho procurato di meglio mostrare come sia pensabile ciò che ho
chiamato di sopra il suo aspetto di vero. Non mi par che ciò
sia uno spostare la questione; è un battere ora più da
un lato, ed ora più da un altro, secondo l'occasione e
l'intento delle scritture.
Che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno
scrittore? Uno scrittore ha creduto di pensare tutto ciò che
ha scritto e che dicono le sue parole: osservazioni, ragionamenti,
ghiribizzi sentimentali e fantasticherie. Ma, quando noi diciamo:
«Il vero pensiero di Aristotele fu...», o «Il vero
pensiero del Kant fu...», facciamo una scelta, oltrepassando
la materialità della parola: abbandoniamo una parte come
scoria, e cerchiamo, non ciò che lo scrittore ha creduto di
pensare, ma ciò che ha realmente pensato per la forza delle
premesse da cui moveva.
A Carlo Marx, che scrisse quei tali libri ed opuscoli e fece quei
tali discorsi, appartiene così ciò ch'egli
pensò realmente come quel tanto che s'illuse di cavare dai
suoi pensieri, e che rappresenta invece una contraddizione di
quelli, 0 un'appendice ingiustificata. Ma nella storia della scienza
economica egli entra solamente per la parte reale del suo pensiero,
e non già per le debolezze e i miscugli sentimentali e
politici che si notano nelle sue trattazioni. Questa distinzione tra
pensiero reale ed elementi estranei è nota a tutti coloro che
indagano la storia delle scienze, e non potrebbe scriversi storia di
scienza senza valersene. In Italia abbiamo due modelli di storie
condotte a questo modo: gli scritti di Bertrando Spaventa sulla
filosofia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, e la Storia
della letteratura italiana di Francesco de Sanctis, che un criterio
analogo adoperava nel dominio estetico, e i poeti considerava non
secondo ciò che vollero fare, ma secondo ciò che
obbiettivamente fecero. Nostra vergogna non pregiare abbastanza quei
libri, e non averli additati agli stranieri come frutti, tra i
più degni, dell'ingegno italiano.
Ecco perché il Racca non può pretendere che io gli
mostri nell'introduzione e nei primi capitoli del Capitale quei
presupposti, che io ho cercato di mostrare necessari e immanenti al
pensiero del Marx, ma reconditi e al Marx restati oscuri. Se fossero
esposti chiaramente nelle prime pagine del Capitale, quanto lavoro
risparmiato ai critici! Ne io, per mio conto, mi sarei dato
l'incomodo di scrivere i miei poveri opuscoli, ma avrei, tutt'al
più, semplicemente tradotto o fatto ristampare quelle prime
pagine del Capitale.
III
Certo, si potrebbe provare, contro di me, che quelli, che io ho
stimati presupposti necessari, tali non sono. Il Racca tenta
ciò quando oppugna la mia affermazione che la ricerca del
Marx sia intrinsecamente ricerca astratta. Non è astratta
(egli dice): il Marx « volle studiare dal punto di vista
economico la società capitalistica attuale così come
è: naturalmente non analizzò una sola società,
ma ne astrasse il tipo, in cui fuse tutti i caratteri reali comuni,
a suo avviso». Astrasse il tipo? E non è proprio,
questo, condurre una ricerca astratta? Il tipo esiste forse nella
realtà? È forse qualcosa di più che una nostra
costruzione per fini scientifici? Ricerca astratta è qui
opposto di ricerca storica, ma non già di ricerca scientifica
positiva, come par che creda il Racca. Che poi il Marx credesse di
fare una ricerca storica, o anche una ricerca non comparativa ma
scientifica ed esplicativa; ch'egli «credesse vedere (la sua
legge) nei fatti come un centro di gravità naturale, cui
tendono i valori all'infuori dell'azione di cause
perturbatrici»; tutto ciò è verissimo: l'ho
detto anch'io; ma siamo sempre lì: fu la sua illusione. Al
Racca, che reca più oltre l'esempio del metro, dirò
che, se uno dopo aver misurato esattamente un pezzo di tela e aver
trovato ch'è lungo dieci metri, s'immagina perciò solo
di aver prodotto lui quei dieci metri di tela, certo cade in una
illusione e commette un grosso sbaglio; ma non per questo la
misurazione da lui eseguita diventa inesatta.
Il Racca scende a dimostrare falsa una mia particolare affermazione:
quella cioè che la premessa del valore-lavoro sia pura di
contenuto morale. « perché? (egli scrive). Io confesso
di non capirlo affatto. Invece quando vedo tutti i predicatori di
riforme o di rivoluzioni, da che mondo è mondo, far la
critica del loro tempo paragonandolo o ai tempi trascorsi (pochi) o
a quelli futuri quali la loro immaginazione li vede (sono i
più), e so che il Marx aveva gli occhi fissi nel futuro, la
logica m'insegna a non creare un'ipotesi speciale pel Marx».
Qui il Racca si mette in opposizione non solo con lo spirito, ma
anche con la lettera del marxismo: con la lettera, essendo notissimi
i luoghi nei quali il Marx dichiara che la legge del valore-lavoro
nou è una legge morale, a cominciare dalla polemica del 1847
col Proudhon; con lo spirito, per le ragioni da me svolte nella mia
memoria, le quali meritavano confutazione un po' minuta. La supposta
eguaglianza del valore col lavoro non ha natura morale, e non
dà luogo ad alcuna regola morale, non riferendosi a una
relazione tra esseri umani. Il valore è eguale al lavoro.
Bene: e che cosa se ne dedurrà ai fini della morale? Che a
ciascuno spetti il frutto del suo lavoro? Si? E come questa regola
si connette con quel fatto? Si faccia la prova di connetterla e si
sarà costretti a ricorrere a una serie di presupposti
sociali, nonché a una generale legge etica che li domini. E
si vedrà anche che, secondo le varie condizioni sociali, la
morale potrà imporre quella particolare regola di
ripartizione, o un'altra affatto diversa. In una società, p.
es., in cui tutti lavorino, ma che sia composta per metà di
uomini fortissimi dal facile lavoro largamente produttivo, e per
metà di deboli o di malati, la regola «a ciascuno il
godimento dei frutti del suo lavoro» sarebbe regola tutt'altro
che caritatevole e morale.
Questa indifferenza morale della premessa del Marx non esclude
però ch'egli, nell'opera sua, fosse mosso da vivo
interessamento morale, come ho scritto io, o da spirito di
rivendicazione giuridica, come eccellentemente ha mostrato il Sorel.
Altro è il movente psicologico, e altro il prodotto
intellettuale. Il sopra valore è il semplice stabilimento di
una differenza tra due tipi di società: il Marx nel chiamarlo
«lavoro non pagato» ha torto, perché è
lavoro, nella società presente, pagato pel prezzo che ha sul
mercato. Ma quell' erronea espressione sta a indicare le
sollecitudini morali e giuridiche di lui. — E a proposito: vorremo
noi sconoscere, in omaggio alle negazioni che il Marx e l'Engels
hanno fatto degli ideali morali, tutta la parte che
l'idealità morale ha nel loro pensiero? Ecco un altro caso,
mi sembra, in cui bisogna distinguere tra pensiero apparente e
pensiero reale.
IV
Proseguendo nelle mie indagini sugli elementi costitutivi e sulle
deduzioni erronee nelle dottrine del Marx, ho preso in esame la
legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, finora non
criticata o malamente criticata. La conclusione, a cui sono
pervenuto, è, che quella legge del Marx sia affatto erronea,
per aver esso, col proporsi un tal problema, sforzato la natura
delle sue premesse.
Il Racca si dice d'accordo con me nel giudizio dell'erroneità
di quella legge; ma non è poi d'accordo nel modo in cui ho
condotto la mia dimostrazione. Egli mi muove tre obiezioni: 1°)
la riduzione proporzionale da me ammessa in tutti i coefficienti di
produzione essere infondata e contradetta dai bilanci di qualsiasi
intrapresa industriale; 2°) non esser vero che il progresso
tecnico diminuisca il valore del capitale impiegato nella
produzione, giacché, dopo un progresso tecnico, il
capitalista ritira una parte del capitale esuberante e l'impiega ad
altro scopo produttivo; 3°) avere io considerato solo il caso di
monopolio e non quello di concorrenza, nel quale ultimo non è
sempre possibile, con capitale minore, sfruttare la stessa o
maggiore quantità di lavoro.
Mi perdoni il Racca; ma queste tre obiezioni mi provano che egli non
ha còlto il punto della questione. Il Marx non considera il
singolo capitale o il singolo capitalista; ma il complesso di tutti
i capitali, ossia l'intera classe capitalistica. A questo caso si
riferisce la sua legge, e ad esso la mia confutazione. La stessa
elementarità ed enormità degli errori economici che
avrei dovuto commettere, lo avrebbero dovuto far accorto
deirequivoco in cui egli è caduto. Se egli rilegge la sezione
III del libro III del Capitale, e poi rilegge il mio scritto
Un'obiezione ecc., vedrà meglio in che consiste la questione;
e mi permetta intanto ch'io mi risparmi la fatica di riesporla,
tanto più che dovrei ripetermi. Quel mio scritterello
è brevissimo; e lo riscrissi più volte per ridurlo
alla sua più semplice e breve formula, persuaso che le troppe
parole e i soverchi svolgimenti imbroglino il lettore invece di
aiutarlo.
È curioso un rimprovero che qui mi fa il Racca. Io ho detto
che, nell'esame della legge del Marx della caduta del saggio di
profitto, non si può tener conto della legge generale della
domanda ed offerta, dalla quale il Marx prescinde e in opposizione
alla quale costruisce la sua nuova legge. Dunque (dice il Racca), il
Croce non vuol tener conto della buona, perché il Marx, lui,
non ha voluto saperne. — Non ne voglio tener conto? Se dico, anzi,
ch'è la sola buona! E dimostro che il tentativo del Marx di
costruirne un'alti'a è fallace! Ma è chiaro che, per
criticare il Marx, non dovevo tenerne conto, perché dovevo
collocarmi nel suo punto di partenza, e mostrare che da quel punto
non si giunge a nulla di ciò che egli cercava.
È curioso altresì che un economista-puro come il Racca
mi richiami allo studio dei fatti concreti in un dibattito,
ch'è di pura deduzione. Il Marx aveva creduto di trovare una
certa relazione tra i concetti di progresso tecnico e di diminuzione
del saggio di profitto («col progresso tecnico cresce il
capitale costante rispetto al capitale variabile, onde, per aumenti
che possa ricevere la massa del profìtto, diminuisce il
saggio di questo»): io li ho riesaminati, dimostrando che da
essi non si può ricavare la legge proposta dal Marx; e che,
accadendo un progresso tecnico, e tutte le altre condizioni restando
pari, diminuirà la massa del profitto, ma non mai il saggio;
e che questo anzi aumenterà, se, tutte le altre condizioni
restando pari, neanche il tenore di vita dei lavoratori si
sarà elevato; e che per conseguenza la legge del Marx
è, in ogni rispetto, erronea. Come c'entrano qui i fatti e le
statistiche? Ho io bisogno di guardare le misurazioni degli
agrimensori per ragionare il teorema sulla somma dei tre angoli del
triangolo?
Le statistiche e le osservazioni dei fatti particolari occorrono
quando si voglia conoscere per quali circostanze particolari
diminuisce il saggio di profitto in questo o quel paese, nella tale
o tal'altra epoca. E questa questione, che ha carattere d'indagine
storica, è stata da me espressamente distinta dall'altra, e
riserbata ai competenti.
Al principio della sua recensione il Racca, dandomi partita vinta
nella mia polemica contro il prof. Labriola, dice che ciò
accade «per quel tanto del metodo e dei risultati rigidamente
scientifici, che il Croce, primo tra i socialisti in Italia, seppe
assimilare dall'economia pura».
Lasciamo stare se io, per la natura delle mie occupazioni, possa
dirmi socialista: ciò non importa ai lettori della Rivista
italiana di Sociologia, e, a ogni modo, il titolo è di quelli
che onorano, nel presente periodo della vita pubblica italiana. Ma
non mi onora l'essere ricordato come tale in una discussione
meramente scientifica: quasi che io sia dei credenti in una scienza,
adepta di questo o quel partito politico. Crederei più
facilmente a un minerale socialistico 0 all'elettricità
socialistica.
E non vorrei che si esagerassero i meriti dell'Economia pura, la
quale non ha fondato nessun metodo scientifico, ma ha applicato,
meglio che non si fosse fatto da altre scuole nel campo
dell'economia, quei metodi che sono di tutte le scienze. Contro la
scuola storica è stata una reazione benefica. Perciò
aderisco alla scuola puristica; ma in questa adesione mi permetto di
prendere alcune cautele, delle quali non sarà inutile
l'accenno.
In primo luogo, io credo che ci sia ancora da elaborare
filosoficamente il concetto di Valore, e che bisogni percorrere fino
al fondo quella strada, che gli economisti puri hanno percorso solo
fino a un certo punto. Si veda co-m'essi siano ancora perplessi tra
i concetti di egoismo, legge del minimo mezzo, soggettivismo,
psicologismo, edonismo, eudemonismo, e via dicendo. Trovare il fatto
primo economico, l'elemento irriducibile che fa dell'economia una
scienza indipendente, è un problema non ancora risoluto,
benché sia avviato alla soluzione. Non mi pare che la
soluzione sia soddisfacente nemmeno nel recente System der
Werttheorie del prof, von Ehrenfels.
In secondo luogo, credo che l'economia pura debba sciogliersi dal
connubio col liberismo, essendo il liberismo una persuasione
morale-sociale-politica, ottima, giustificatissima, santissima,
tutto quel che volete; ma non già scientifica. Bisogna
lasciare che i puristi in economia siano poi quel che vogliono in
ogni altro campo, com'è loro diritto, senz'accusarli di
contraddizione con l'economia pura, perché la comune
accettazione di leggi generalissime si presta ai più vari ed
opposti programmi pratici e concreti.
In terzo luogo, credo che bisogni porre termine alla falsificazione
matematica dei principi economici. L'unione tra matematica ed
economia pura è accaduta pel fatto che parecchi valenti
cultori di matematiche si sono occupati di scienza economica.
Ciascuno traduce le proprie idee nel linguaggio che gli è
più familiare; e come i matematici hanno tradotto le leggi
economiche in formole matematiche, così un naturalista
potrebbe tradurle in un frasario tratto dalla fisiologia, e un poeta
in personificazioni e simboli poetici.
Il linguaggio matematico avrà, in certi casi, taluni
vantaggi; ma il pericolo che porta seco è nel lasciar credere
che il concetto economico, il quale è essenzialmente concetto
di valore, di preferibile, di desiderabile, ossia di alcunché
qualitativamente distinto, sia, invece, concetto quantitativo. Tempo
fa, riferendo in un'accademia di Napoli sopra un concorso a un tema
di materia economica (a quell'accademia appartengono cultori di
tutte le discipline), e citando io e approvando la proposizione di
uno dei concorrenti: «che il valore essendo un rapporto, una
somma di valori, ossia di rapporti, non ha senso», un collega,
professore di geometria superiore, saltò su a dire: —Che
stravaganze sono queste? che cosa mai ti esce di bocca?
perché una somma di rapporti non ha senso? non ha senso una
somma di frazioni? — E un altro, astronomo valentissimo, lo
appoggiò nella protesta. — Che cosa volete? — rispos'io, —
Bisogna ringraziare i matematici, che hanno regalato all'economia
tutta codesta fraseologia confusionaria. E permettetemi che io vi
dimostri, con buona pace della matematica, che, in economia, una
somma di rapporti non ha senso. — E lo dimostrai con lo spiegare
come il rapporto del valore non sia rapporto aritmetico o in alcun
modo matematico, ma un rapporto sui generis, qualitativo; e che le
qualità diverse non si sommano, come non si sommano tre bovi
con quattro cavalli.
In quarto luogo, a me pare che molti economisti puri facciano il
possibile per iscreditare la loro scuola, perché prendono
proposizioni facilissime, di verità intuitiva, e si sforzano
di rivestirle di un'inutile armatura di teoremi e corollari. Non so
chi possa durare a leggere i loro libri, i quali saranno forse buoni
titoli per concorsi universitari, o anche abili giuochi di pazienza:
ma, francamente, non ci s'impara nulla. Gli autori stessi dovrebbero
accettare questo giudizio, perché non possono non sentire di
aver faticato, non già a scoprire il vero, ma a metterlo
nelle forinole regolamentari e di moda universitaria.
E in quinto luogo, e tornando a un pensiero già accennato a
proposito del Marx, credo che bisogni provvedere a che l'economia
pura non soffra troppo dei malanni di tutte le scuole; e
cioè, non chiuda le menti ai problemi e alle verità,
che non rientrano nei quadri della scuola. Il Racca mi esorta a
lasciare da banda l'ozioso lavoro d'interpetrazione del Marx, e a
rivolgere ad altro la mia operosità. Or bene, egli
sarà contentato. Ho raccolto in un volume (che pubblica il
Sandron di Palermo) tutti i miei scritti sul Marx e ve li ho
composti — come in una bara. E credo di avere chiuso la parentesi
marxistica della mia vita. Ma dico bene «parentesi»? Chi
vive, come me, la vita delle discipline morali e psicologiche e
storiche, può non fare i conti col movimento intellettuale
che prende origine dal Marx? Può, dopo aver fatto questi
conti, non riconoscere il molto che vi ha appreso, sia pure
giungendo a conclusioni parzialmente negative? Anche il materialismo
storico è, come generale tesi scientifica, erroneo. Ma io
sono lieto di esser passato attraverso quella dottrina; e, se non ci
fossi passato, avvertirei come un vuoto nella mia mente di uomo
moderno. E, quanto al lavoro da me e da altri eseguito intorno al
Marx, mi sembra cosa ingiusta qualificarlo di vana esegesi: quasi
che ci fossimo affaticati a metter d'accordo, per intenti religiosi
o settari, il Genesi con la Paleontologia. Studiare uno scrittore
come il Marx, e tentare di penetrarne il genuino pensiero e di
sceverare in lui, come meglio si può, il vero dal falso, non
ha che vedere con l'esegesi teologica. La scienza progredisce, io
credo, con l'osservare la realtà, e col criticare i pensieri
propri e altrui intorno ad essa; né le due operazioni possono
disgiungersi, perché, insomma, gli economisti puri si
affannano tanto ad esortare di metter da banda il Marx?
Questa esortazione non sarà seguita da nessuno; e non la
seguono essi stessi, costretti di continuo a fare il contrario e a
iinmi-scliiarsi nelle polemiche marxistiche. Verrà tempo che
il Marx si eliminerà da sé. Ma ciò
accadrà quando sarà stato ben digerito; onde si
può prevedere che verrà ancora discusso per qualche
tempo.
Con questo facile prognostico, termino, non senza avere prima
ringraziato il prof. Racca delle sue obiezioni, e della molta
cortesia verso di me con la quale ha voluto accompagnarle.
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' Cfr. V. Racca, Recenti interpetrazioni del marxismo, nella Rivista
italiana di Sociologia^ anno III, fase. IV, p. 476 e sg.
---
Ottobre 1899.