Il prof. V. Racca, nella recensione dei miei saggi marxistici,
    pubblicata nell'ultimo fascicolo della Bivista italiana di
    Sociologia1, mi rimprovera di non aver il coraggio di abbandonare
    puramente e semplicemente la teoria del valore del Marx, e di essere
    in ciò illogico. Ma io, sin dalla prima volta che ho toccato
    della questione (in nota allo scritto sul Loria), non ho fatto altro
    se non ripetere che la teoria del Marx «non è una
    teoria del valore», e che la teoria scientifica del valore non
    può trovarsi se non nell'indirizzo puristico o «
    austriaco» che si voglia dire. Non ho, dunque, bisogno di
    «abbandonare» la teoria del valore del Marx,
    perché non l'ho mai riconosciuta come tale.
    
    Il Racca dice anche che io intendo valermi dei presupposti
    dell'economia pura per ispiegare il sopravalore e altrettali
    concetti che l'economia pura nega. Io ho scritto: «Sopravalore
    in pura economia è una parola priva di senso, come è
    mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore
    è un extravalore, ed esce perciò fuori del campo della
    pura economia» (Per la interpretazione e la critica, ecc., v.
    questo vol., p. 68). E potrei citare almeno altri dieci passi dei
    miei scritti, in cui si ribadisce questa affermazione. Dunque, non
    solo non intendo valermi dei presupposti dell'economia pura,
    né fare del sopravalore un concetto di economia pura; ma dico
    anzi, espressamente, che, per intendere il pensiero del Marx,
    bisogna uscire dall'economia pura.
    
    Ciò che non mi rassegno ad accettare (e forse qui si trova il
    punto di dissenso tra il Racca e me) è la pregiudiziale: —
    che quello che non cape nell'economia pura non debba nemmeno
    discutersi. — Lascio ai signori De Molinari e compagni la parola,
    che vorrebbe parer modesta ed è orgogliosa, da essi adoperata
    di solito innanzi al Marx: «Non capisco!», — con
    l'aggiunta sottintesa: ciò che noi non comprendiamo a primo
    tratto non è degno di esistere. Il punto d'onore
    intellettuale deve consistere nel riflettere tanto sulle cose che
    non si capiscono, da finire col capirle. E criticare uno sproposito
    è capirlo: altrimenti, lo sproposito ci resta di sopra, come
    una forza indomata. D'altra parte, non si vuol negare che vi siano
    pretese dottrine scientifiche, consistenti in puri e semplici errori
    ; ma che quelle del Marx appartengano a siffatto ordine, mi permetto
    di dubitare. Anche a giudicare solo per indizi, non è facile
    persuadersi che dottrine che hanno avuto e hanno tanti seguaci, e
    che tanto hanno affaticato e continuano ad affaticare gli avversari,
    non contengano la loro parte di vero; che un uomo come il Marx, di
    cui basta leggere qualche pagina per avvedersi subito di aver che
    fare con un intelletto sopra dell'ordinario, abbia totalmente, ossia
    volgarmente, spropositato in ciò ch'è stato il compito
    scientifico della sua intera vita. Sarà; ma non bisogna
    essere corrivi a crederlo. Sono, codesti, segni esterni, che non
    bastano per un giudizio definitivo; ma che dovrebbero pur bastare a
    rendere guardinghi.
    
    Essendomi messo, dunque, a studiare, con piena libertà,
    sebbene col presentimento che non si trattasse in nessun caso di un
    errore volgare, la dottrina economica del Marx, sono venuto alla
    conclusione, che in essa sono mescolati vero e falso. Non
    ripeterò qui le lunghe esposizioni che ho già dato di
    questo mio giudizio; ma dirò in breve e per accenni che
    l'aspetto di vero consiste, a mio parere, nell'avere il Marx
    richiamato fortemente alla coscienza la con-dizion alita sociale del
    profìtto: di che lacrime grondi e di che sangue quel
    profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di
    coloro ch'egli chiamava i « commessi viaggiatori del
    liberismo» pareva quasi nascesse per virtù miracolosa,
    insita nel capitale. Riportare alla coscienza non è scoprire
    una legge scientifica: è, semplicemente, riportare alla
    coscienza. Perciò appunto ho applaudito alle giuste parole
    del Sorel: che la legge del Marx «non ispiega
    scientificamente», ma semplicemente «rischiara».
    Il procedimento, del quale il Marx fa uso a questo fine, è
    stato da me definito procedimento comparativo: parola alla quale do
    importanza, perchò mi par che indichi il punto essenziale.
    Quanto alla parte fallace, essa consiste nell'aver dato il Marx qua
    e là, al procedimento comparativo, valore di spiegazione
    scientifica, e nell'avere preteso di soppiantare, coi risultamenti
    di esso, la vera e propria teoria economica (diremo così, per
    intenderci, dell'economia pura).
    
    II
    
    Il Racca ricorda di avermi invitato, nel Giornale degli economisti,
    a dimostrargli che il Marx la pensava per l'appunto come me, suo
    critico. Veramente egli non m'invitava a questo: diceva invece, se
    ben ricordo io, che restava da chiarire «se a me spettasse
    solo il merito di aver bene interpetrato il pensiero del Marx, o
    l'altro assai maggiore di averlo completato». La
    dimostrazione, che pretende ora, non posso dargliela, perché
    la tesi da me sostenuta esclude che il Marx la pensasse come me,
    salvo che in parte. Né dalla mia memoria Per
    l'interpretazione e la critica ecc., sino allo scritto Recenti
    interpetrazioni ecc., io ho « spostato la questione»,
    come il Racca crede. Esordivo, in quella memoria, col dire che il
    Marx non aveva avuto «chiara coscienza» del suo
    pensiero; e dimostravo (nel 2° paragrafo) che l'antitesi con
    l'economia pura e l'affermazione dell'assurdità di questa
    (svolta poi specialmente per opera dell'Engels) era infondata,
    perché non si poteva dedurla dalla genuina natura delle
    premesse del Marx. Con ciò venivo riconoscendo la parte
    fallace, ch'è nei libri del Marx e della scuola. Nello
    scritto Recenti interpetrazioni, addirittura ho taciuto della forma
    mista di vero e di falso, che il Marx ha data alla sua dottrina: e
    ho procurato di meglio mostrare come sia pensabile ciò che ho
    chiamato di sopra il suo aspetto di vero. Non mi par che ciò
    sia uno spostare la questione; è un battere ora più da
    un lato, ed ora più da un altro, secondo l'occasione e
    l'intento delle scritture. 
    
    Che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno
    scrittore? Uno scrittore ha creduto di pensare tutto ciò che
    ha scritto e che dicono le sue parole: osservazioni, ragionamenti,
    ghiribizzi sentimentali e fantasticherie. Ma, quando noi diciamo:
    «Il vero pensiero di Aristotele fu...», o «Il vero
    pensiero del Kant fu...», facciamo una scelta, oltrepassando
    la materialità della parola: abbandoniamo una parte come
    scoria, e cerchiamo, non ciò che lo scrittore ha creduto di
    pensare, ma ciò che ha realmente pensato per la forza delle
    premesse da cui moveva.
    
    A Carlo Marx, che scrisse quei tali libri ed opuscoli e fece quei
    tali discorsi, appartiene così ciò ch'egli
    pensò realmente come quel tanto che s'illuse di cavare dai
    suoi pensieri, e che rappresenta invece una contraddizione di
    quelli, 0 un'appendice ingiustificata. Ma nella storia della scienza
    economica egli entra solamente per la parte reale del suo pensiero,
    e non già per le debolezze e i miscugli sentimentali e
    politici che si notano nelle sue trattazioni. Questa distinzione tra
    pensiero reale ed elementi estranei è nota a tutti coloro che
    indagano la storia delle scienze, e non potrebbe scriversi storia di
    scienza senza valersene. In Italia abbiamo due modelli di storie
    condotte a questo modo: gli scritti di Bertrando Spaventa sulla
    filosofia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, e la Storia
    della letteratura italiana di Francesco de Sanctis, che un criterio
    analogo adoperava nel dominio estetico, e i poeti considerava non
    secondo ciò che vollero fare, ma secondo ciò che
    obbiettivamente fecero. Nostra vergogna non pregiare abbastanza quei
    libri, e non averli additati agli stranieri come frutti, tra i
    più degni, dell'ingegno italiano. 
    
    Ecco perché il Racca non può pretendere che io gli
    mostri nell'introduzione e nei primi capitoli del Capitale quei
    presupposti, che io ho cercato di mostrare necessari e immanenti al
    pensiero del Marx, ma reconditi e al Marx restati oscuri. Se fossero
    esposti chiaramente nelle prime pagine del Capitale, quanto lavoro
    risparmiato ai critici! Ne io, per mio conto, mi sarei dato
    l'incomodo di scrivere i miei poveri opuscoli, ma avrei, tutt'al
    più, semplicemente tradotto o fatto ristampare quelle prime
    pagine del Capitale.
    
    III
    
    Certo, si potrebbe provare, contro di me, che quelli, che io ho
    stimati presupposti necessari, tali non sono. Il Racca tenta
    ciò quando oppugna la mia affermazione che la ricerca del
    Marx sia intrinsecamente ricerca astratta. Non è astratta
    (egli dice): il Marx « volle studiare dal punto di vista
    economico la società capitalistica attuale così come
    è: naturalmente non analizzò una sola società,
    ma ne astrasse il tipo, in cui fuse tutti i caratteri reali comuni,
    a suo avviso». Astrasse il tipo? E non è proprio,
    questo, condurre una ricerca astratta? Il tipo esiste forse nella
    realtà? È forse qualcosa di più che una nostra
    costruzione per fini scientifici? Ricerca astratta è qui
    opposto di ricerca storica, ma non già di ricerca scientifica
    positiva, come par che creda il Racca. Che poi il Marx credesse di
    fare una ricerca storica, o anche una ricerca non comparativa ma
    scientifica ed esplicativa; ch'egli «credesse vedere (la sua
    legge) nei fatti come un centro di gravità naturale, cui
    tendono i valori all'infuori dell'azione di cause
    perturbatrici»; tutto ciò è verissimo: l'ho
    detto anch'io; ma siamo sempre lì: fu la sua illusione. Al
    Racca, che reca più oltre l'esempio del metro, dirò
    che, se uno dopo aver misurato esattamente un pezzo di tela e aver
    trovato ch'è lungo dieci metri, s'immagina perciò solo
    di aver prodotto lui quei dieci metri di tela, certo cade in una
    illusione e commette un grosso sbaglio; ma non per questo la
    misurazione da lui eseguita diventa inesatta. 
    
    Il Racca scende a dimostrare falsa una mia particolare affermazione:
    quella cioè che la premessa del valore-lavoro sia pura di
    contenuto morale. « perché? (egli scrive). Io confesso
    di non capirlo affatto. Invece quando vedo tutti i predicatori di
    riforme o di rivoluzioni, da che mondo è mondo, far la
    critica del loro tempo paragonandolo o ai tempi trascorsi (pochi) o
    a quelli futuri quali la loro immaginazione li vede (sono i
    più), e so che il Marx aveva gli occhi fissi nel futuro, la
    logica m'insegna a non creare un'ipotesi speciale pel Marx».
    Qui il Racca si mette in opposizione non solo con lo spirito, ma
    anche con la lettera del marxismo: con la lettera, essendo notissimi
    i luoghi nei quali il Marx dichiara che la legge del valore-lavoro
    nou è una legge morale, a cominciare dalla polemica del 1847
    col Proudhon; con lo spirito, per le ragioni da me svolte nella mia
    memoria, le quali meritavano confutazione un po' minuta. La supposta
    eguaglianza del valore col lavoro non ha natura morale, e non
    dà luogo ad alcuna regola morale, non riferendosi a una
    relazione tra esseri umani. Il valore è eguale al lavoro.
    Bene: e che cosa se ne dedurrà ai fini della morale? Che a
    ciascuno spetti il frutto del suo lavoro? Si? E come questa regola
    si connette con quel fatto? Si faccia la prova di connetterla e si
    sarà costretti a ricorrere a una serie di presupposti
    sociali, nonché a una generale legge etica che li domini. E
    si vedrà anche che, secondo le varie condizioni sociali, la
    morale potrà imporre quella particolare regola di
    ripartizione, o un'altra affatto diversa. In una società, p.
    es., in cui tutti lavorino, ma che sia composta per metà di
    uomini fortissimi dal facile lavoro largamente produttivo, e per
    metà di deboli o di malati, la regola «a ciascuno il
    godimento dei frutti del suo lavoro» sarebbe regola tutt'altro
    che caritatevole e morale. 
    
    Questa indifferenza morale della premessa del Marx non esclude
    però ch'egli, nell'opera sua, fosse mosso da vivo
    interessamento morale, come ho scritto io, o da spirito di
    rivendicazione giuridica, come eccellentemente ha mostrato il Sorel.
    Altro è il movente psicologico, e altro il prodotto
    intellettuale. Il sopra valore è il semplice stabilimento di
    una differenza tra due tipi di società: il Marx nel chiamarlo
    «lavoro non pagato» ha torto, perché è
    lavoro, nella società presente, pagato pel prezzo che ha sul
    mercato. Ma quell' erronea espressione sta a indicare le
    sollecitudini morali e giuridiche di lui. — E a proposito: vorremo
    noi sconoscere, in omaggio alle negazioni che il Marx e l'Engels
    hanno fatto degli ideali morali, tutta la parte che
    l'idealità morale ha nel loro pensiero? Ecco un altro caso,
    mi sembra, in cui bisogna distinguere tra pensiero apparente e
    pensiero reale. 
    
    IV
    
    Proseguendo nelle mie indagini sugli elementi costitutivi e sulle
    deduzioni erronee nelle dottrine del Marx, ho preso in esame la
    legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, finora non
    criticata o malamente criticata. La conclusione, a cui sono
    pervenuto, è, che quella legge del Marx sia affatto erronea,
    per aver esso, col proporsi un tal problema, sforzato la natura
    delle sue premesse.
    
    Il Racca si dice d'accordo con me nel giudizio dell'erroneità
    di quella legge; ma non è poi d'accordo nel modo in cui ho
    condotto la mia dimostrazione. Egli mi muove tre obiezioni: 1°)
    la riduzione proporzionale da me ammessa in tutti i coefficienti di
    produzione essere infondata e contradetta dai bilanci di qualsiasi
    intrapresa industriale; 2°) non esser vero che il progresso
    tecnico diminuisca il valore del capitale impiegato nella
    produzione, giacché, dopo un progresso tecnico, il
    capitalista ritira una parte del capitale esuberante e l'impiega ad
    altro scopo produttivo; 3°) avere io considerato solo il caso di
    monopolio e non quello di concorrenza, nel quale ultimo non è
    sempre possibile, con capitale minore, sfruttare la stessa o
    maggiore quantità di lavoro.
    
    Mi perdoni il Racca; ma queste tre obiezioni mi provano che egli non
    ha còlto il punto della questione. Il Marx non considera il
    singolo capitale o il singolo capitalista; ma il complesso di tutti
    i capitali, ossia l'intera classe capitalistica. A questo caso si
    riferisce la sua legge, e ad esso la mia confutazione. La stessa
    elementarità ed enormità degli errori economici che
    avrei dovuto commettere, lo avrebbero dovuto far accorto
    deirequivoco in cui egli è caduto. Se egli rilegge la sezione
    III del libro III del Capitale, e poi rilegge il mio scritto
    Un'obiezione ecc., vedrà meglio in che consiste la questione;
    e mi permetta intanto ch'io mi risparmi la fatica di riesporla,
    tanto più che dovrei ripetermi. Quel mio scritterello
    è brevissimo; e lo riscrissi più volte per ridurlo
    alla sua più semplice e breve formula, persuaso che le troppe
    parole e i soverchi svolgimenti imbroglino il lettore invece di
    aiutarlo. 
    
    È curioso un rimprovero che qui mi fa il Racca. Io ho detto
    che, nell'esame della legge del Marx della caduta del saggio di
    profitto, non si può tener conto della legge generale della
    domanda ed offerta, dalla quale il Marx prescinde e in opposizione
    alla quale costruisce la sua nuova legge. Dunque (dice il Racca), il
    Croce non vuol tener conto della buona, perché il Marx, lui,
    non ha voluto saperne. — Non ne voglio tener conto? Se dico, anzi,
    ch'è la sola buona! E dimostro che il tentativo del Marx di
    costruirne un'alti'a è fallace! Ma è chiaro che, per
    criticare il Marx, non dovevo tenerne conto, perché dovevo
    collocarmi nel suo punto di partenza, e mostrare che da quel punto
    non si giunge a nulla di ciò che egli cercava.
    
    È curioso altresì che un economista-puro come il Racca
    mi richiami allo studio dei fatti concreti in un dibattito,
    ch'è di pura deduzione. Il Marx aveva creduto di trovare una
    certa relazione tra i concetti di progresso tecnico e di diminuzione
    del saggio di profitto («col progresso tecnico cresce il
    capitale costante rispetto al capitale variabile, onde, per aumenti
    che possa ricevere la massa del profìtto, diminuisce il
    saggio di questo»): io li ho riesaminati, dimostrando che da
    essi non si può ricavare la legge proposta dal Marx; e che,
    accadendo un progresso tecnico, e tutte le altre condizioni restando
    pari, diminuirà la massa del profitto, ma non mai il saggio;
    e che questo anzi aumenterà, se, tutte le altre condizioni
    restando pari, neanche il tenore di vita dei lavoratori si
    sarà elevato; e che per conseguenza la legge del Marx
    è, in ogni rispetto, erronea. Come c'entrano qui i fatti e le
    statistiche? Ho io bisogno di guardare le misurazioni degli
    agrimensori per ragionare il teorema sulla somma dei tre angoli del
    triangolo?  
    
    Le statistiche e le osservazioni dei fatti particolari occorrono
    quando si voglia conoscere per quali circostanze particolari
    diminuisce il saggio di profitto in questo o quel paese, nella tale
    o tal'altra epoca. E questa questione, che ha carattere d'indagine
    storica, è stata da me espressamente distinta dall'altra, e
    riserbata ai competenti.
    
    Al principio della sua recensione il Racca, dandomi partita vinta
    nella mia polemica contro il prof. Labriola, dice che ciò
    accade «per quel tanto del metodo e dei risultati rigidamente
    scientifici, che il Croce, primo tra i socialisti in Italia, seppe
    assimilare dall'economia pura».
    
    Lasciamo stare se io, per la natura delle mie occupazioni, possa
    dirmi socialista: ciò non importa ai lettori della Rivista
    italiana di Sociologia, e, a ogni modo, il titolo è di quelli
    che onorano, nel presente periodo della vita pubblica italiana. Ma
    non mi onora l'essere ricordato come tale in una discussione
    meramente scientifica: quasi che io sia dei credenti in una scienza,
    adepta di questo o quel partito politico. Crederei più
    facilmente a un minerale socialistico 0 all'elettricità
    socialistica.
    
    E non vorrei che si esagerassero i meriti dell'Economia pura, la
    quale non ha fondato nessun metodo scientifico, ma ha applicato,
    meglio che non si fosse fatto da altre scuole nel campo
    dell'economia, quei metodi che sono di tutte le scienze. Contro la
    scuola storica è stata una reazione benefica. Perciò
    aderisco alla scuola puristica; ma in questa adesione mi permetto di
    prendere alcune cautele, delle quali non sarà inutile
    l'accenno. 
    
    In primo luogo, io credo che ci sia ancora da elaborare
    filosoficamente il concetto di Valore, e che bisogni percorrere fino
    al fondo quella strada, che gli economisti puri hanno percorso solo
    fino a un certo punto. Si veda co-m'essi siano ancora perplessi tra
    i concetti di egoismo, legge del minimo mezzo, soggettivismo,
    psicologismo, edonismo, eudemonismo, e via dicendo. Trovare il fatto
    primo economico, l'elemento irriducibile che fa dell'economia una
    scienza indipendente, è un problema non ancora risoluto,
    benché sia avviato alla soluzione. Non mi pare che la
    soluzione sia soddisfacente nemmeno nel recente System der
    Werttheorie del prof, von Ehrenfels.
    
    In secondo luogo, credo che l'economia pura debba sciogliersi dal
    connubio col liberismo, essendo il liberismo una persuasione
    morale-sociale-politica, ottima, giustificatissima, santissima,
    tutto quel che volete; ma non già scientifica. Bisogna
    lasciare che i puristi in economia siano poi quel che vogliono in
    ogni altro campo, com'è loro diritto, senz'accusarli di
    contraddizione con l'economia pura, perché la comune
    accettazione di leggi generalissime si presta ai più vari ed
    opposti programmi pratici e concreti.
    
    In terzo luogo, credo che bisogni porre termine alla falsificazione
    matematica dei principi economici. L'unione tra matematica ed
    economia pura è accaduta pel fatto che parecchi valenti
    cultori di matematiche si sono occupati di scienza economica.
    Ciascuno traduce le proprie idee nel linguaggio che gli è
    più familiare; e come i matematici hanno tradotto le leggi
    economiche in formole matematiche, così un naturalista
    potrebbe tradurle in un frasario tratto dalla fisiologia, e un poeta
    in personificazioni e simboli poetici.
    
    Il linguaggio matematico avrà, in certi casi, taluni
    vantaggi; ma il pericolo che porta seco è nel lasciar credere
    che il concetto economico, il quale è essenzialmente concetto
    di valore, di preferibile, di desiderabile, ossia di alcunché
    qualitativamente distinto, sia, invece, concetto quantitativo. Tempo
    fa, riferendo in un'accademia di Napoli sopra un concorso a un tema
    di materia economica (a quell'accademia appartengono cultori di
    tutte le discipline), e citando io e approvando la proposizione di
    uno dei concorrenti: «che il valore essendo un rapporto, una
    somma di valori, ossia di rapporti, non ha senso», un collega,
    professore di geometria superiore, saltò su a dire: —Che
    stravaganze sono queste? che cosa mai ti esce di bocca?
    perché una somma di rapporti non ha senso? non ha senso una
    somma di frazioni? — E un altro, astronomo valentissimo, lo
    appoggiò nella protesta. — Che cosa volete? — rispos'io, —
    Bisogna ringraziare i matematici, che hanno regalato all'economia
    tutta codesta fraseologia confusionaria. E permettetemi che io vi
    dimostri, con buona pace della matematica, che, in economia, una
    somma di rapporti non ha senso. — E lo dimostrai con lo spiegare
    come il rapporto del valore non sia rapporto aritmetico o in alcun
    modo matematico, ma un rapporto sui generis, qualitativo; e che le
    qualità diverse non si sommano, come non si sommano tre bovi
    con quattro cavalli.
    
    In quarto luogo, a me pare che molti economisti puri facciano il
    possibile per iscreditare la loro scuola, perché prendono
    proposizioni facilissime, di verità intuitiva, e si sforzano
    di rivestirle di un'inutile armatura di teoremi e corollari. Non so
    chi possa durare a leggere i loro libri, i quali saranno forse buoni
    titoli per concorsi universitari, o anche abili giuochi di pazienza:
    ma, francamente, non ci s'impara nulla. Gli autori stessi dovrebbero
    accettare questo giudizio, perché non possono non sentire di
    aver faticato, non già a scoprire il vero, ma a metterlo
    nelle forinole regolamentari e di moda universitaria. 
    
    E in quinto luogo, e tornando a un pensiero già accennato a
    proposito del Marx, credo che bisogni provvedere a che l'economia
    pura non soffra troppo dei malanni di tutte le scuole; e
    cioè, non chiuda le menti ai problemi e alle verità,
    che non rientrano nei quadri della scuola. Il Racca mi esorta a
    lasciare da banda l'ozioso lavoro d'interpetrazione del Marx, e a
    rivolgere ad altro la mia operosità. Or bene, egli
    sarà contentato. Ho raccolto in un volume (che pubblica il
    Sandron di Palermo) tutti i miei scritti sul Marx e ve li ho
    composti — come in una bara. E credo di avere chiuso la parentesi
    marxistica della mia vita. Ma dico bene «parentesi»? Chi
    vive, come me, la vita delle discipline morali e psicologiche e
    storiche, può non fare i conti col movimento intellettuale
    che prende origine dal Marx? Può, dopo aver fatto questi
    conti, non riconoscere il molto che vi ha appreso, sia pure
    giungendo a conclusioni parzialmente negative? Anche il materialismo
    storico è, come generale tesi scientifica, erroneo. Ma io
    sono lieto di esser passato attraverso quella dottrina; e, se non ci
    fossi passato, avvertirei come un vuoto nella mia mente di uomo
    moderno. E, quanto al lavoro da me e da altri eseguito intorno al
    Marx, mi sembra cosa ingiusta qualificarlo di vana esegesi: quasi
    che ci fossimo affaticati a metter d'accordo, per intenti religiosi
    o settari, il Genesi con la Paleontologia. Studiare uno scrittore
    come il Marx, e tentare di penetrarne il genuino pensiero e di
    sceverare in lui, come meglio si può, il vero dal falso, non
    ha che vedere con l'esegesi teologica. La scienza progredisce, io
    credo, con l'osservare la realtà, e col criticare i pensieri
    propri e altrui intorno ad essa; né le due operazioni possono
    disgiungersi, perché, insomma, gli economisti puri si
    affannano tanto ad esortare di metter da banda il Marx? 
    
    Questa esortazione non sarà seguita da nessuno; e non la
    seguono essi stessi, costretti di continuo a fare il contrario e a
    iinmi-scliiarsi nelle polemiche marxistiche. Verrà tempo che
    il Marx si eliminerà da sé. Ma ciò
    accadrà quando sarà stato ben digerito; onde si
    può prevedere che verrà ancora discusso per qualche
    tempo. 
    
    Con questo facile prognostico, termino, non senza avere prima
    ringraziato il prof. Racca delle sue obiezioni, e della molta
    cortesia verso di me con la quale ha voluto accompagnarle.
    
    ---
    
    ' Cfr. V. Racca, Recenti interpetrazioni del marxismo, nella Rivista
    italiana di Sociologia^ anno III, fase. IV, p. 476 e sg.
    
    ---
    
    Ottobre 1899.