VII

MARXISMO ED ECONOMIA PURA


Il prof. V. Racca, nella recensione dei miei saggi marxistici, pubblicata nell'ultimo fascicolo della Bivista italiana di Sociologia1, mi rimprovera di non aver il coraggio di abbandonare puramente e semplicemente la teoria del valore del Marx, e di essere in ciò illogico. Ma io, sin dalla prima volta che ho toccato della questione (in nota allo scritto sul Loria), non ho fatto altro se non ripetere che la teoria del Marx «non è una teoria del valore», e che la teoria scientifica del valore non può trovarsi se non nell'indirizzo puristico o « austriaco» che si voglia dire. Non ho, dunque, bisogno di «abbandonare» la teoria del valore del Marx, perché non l'ho mai riconosciuta come tale.

Il Racca dice anche che io intendo valermi dei presupposti dell'economia pura per ispiegare il sopravalore e altrettali concetti che l'economia pura nega. Io ho scritto: «Sopravalore in pura economia è una parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore è un extravalore, ed esce perciò fuori del campo della pura economia» (Per la interpretazione e la critica, ecc., v. questo vol., p. 68). E potrei citare almeno altri dieci passi dei miei scritti, in cui si ribadisce questa affermazione. Dunque, non solo non intendo valermi dei presupposti dell'economia pura, né fare del sopravalore un concetto di economia pura; ma dico anzi, espressamente, che, per intendere il pensiero del Marx, bisogna uscire dall'economia pura.

Ciò che non mi rassegno ad accettare (e forse qui si trova il punto di dissenso tra il Racca e me) è la pregiudiziale: — che quello che non cape nell'economia pura non debba nemmeno discutersi. — Lascio ai signori De Molinari e compagni la parola, che vorrebbe parer modesta ed è orgogliosa, da essi adoperata di solito innanzi al Marx: «Non capisco!», — con l'aggiunta sottintesa: ciò che noi non comprendiamo a primo tratto non è degno di esistere. Il punto d'onore intellettuale deve consistere nel riflettere tanto sulle cose che non si capiscono, da finire col capirle. E criticare uno sproposito è capirlo: altrimenti, lo sproposito ci resta di sopra, come una forza indomata. D'altra parte, non si vuol negare che vi siano pretese dottrine scientifiche, consistenti in puri e semplici errori ; ma che quelle del Marx appartengano a siffatto ordine, mi permetto di dubitare. Anche a giudicare solo per indizi, non è facile persuadersi che dottrine che hanno avuto e hanno tanti seguaci, e che tanto hanno affaticato e continuano ad affaticare gli avversari, non contengano la loro parte di vero; che un uomo come il Marx, di cui basta leggere qualche pagina per avvedersi subito di aver che fare con un intelletto sopra dell'ordinario, abbia totalmente, ossia volgarmente, spropositato in ciò ch'è stato il compito scientifico della sua intera vita. Sarà; ma non bisogna essere corrivi a crederlo. Sono, codesti, segni esterni, che non bastano per un giudizio definitivo; ma che dovrebbero pur bastare a rendere guardinghi.

Essendomi messo, dunque, a studiare, con piena libertà, sebbene col presentimento che non si trattasse in nessun caso di un errore volgare, la dottrina economica del Marx, sono venuto alla conclusione, che in essa sono mescolati vero e falso. Non ripeterò qui le lunghe esposizioni che ho già dato di questo mio giudizio; ma dirò in breve e per accenni che l'aspetto di vero consiste, a mio parere, nell'avere il Marx richiamato fortemente alla coscienza la con-dizion alita sociale del profìtto: di che lacrime grondi e di che sangue quel profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di coloro ch'egli chiamava i « commessi viaggiatori del liberismo» pareva quasi nascesse per virtù miracolosa, insita nel capitale. Riportare alla coscienza non è scoprire una legge scientifica: è, semplicemente, riportare alla coscienza. Perciò appunto ho applaudito alle giuste parole del Sorel: che la legge del Marx «non ispiega scientificamente», ma semplicemente «rischiara». Il procedimento, del quale il Marx fa uso a questo fine, è stato da me definito procedimento comparativo: parola alla quale do importanza, perchò mi par che indichi il punto essenziale. Quanto alla parte fallace, essa consiste nell'aver dato il Marx qua e là, al procedimento comparativo, valore di spiegazione scientifica, e nell'avere preteso di soppiantare, coi risultamenti di esso, la vera e propria teoria economica (diremo così, per intenderci, dell'economia pura).

II

Il Racca ricorda di avermi invitato, nel Giornale degli economisti, a dimostrargli che il Marx la pensava per l'appunto come me, suo critico. Veramente egli non m'invitava a questo: diceva invece, se ben ricordo io, che restava da chiarire «se a me spettasse solo il merito di aver bene interpetrato il pensiero del Marx, o l'altro assai maggiore di averlo completato». La dimostrazione, che pretende ora, non posso dargliela, perché la tesi da me sostenuta esclude che il Marx la pensasse come me, salvo che in parte. Né dalla mia memoria Per l'interpretazione e la critica ecc., sino allo scritto Recenti interpetrazioni ecc., io ho « spostato la questione», come il Racca crede. Esordivo, in quella memoria, col dire che il Marx non aveva avuto «chiara coscienza» del suo pensiero; e dimostravo (nel 2° paragrafo) che l'antitesi con l'economia pura e l'affermazione dell'assurdità di questa (svolta poi specialmente per opera dell'Engels) era infondata, perché non si poteva dedurla dalla genuina natura delle premesse del Marx. Con ciò venivo riconoscendo la parte fallace, ch'è nei libri del Marx e della scuola. Nello scritto Recenti interpetrazioni, addirittura ho taciuto della forma mista di vero e di falso, che il Marx ha data alla sua dottrina: e ho procurato di meglio mostrare come sia pensabile ciò che ho chiamato di sopra il suo aspetto di vero. Non mi par che ciò sia uno spostare la questione; è un battere ora più da un lato, ed ora più da un altro, secondo l'occasione e l'intento delle scritture.

Che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno scrittore? Uno scrittore ha creduto di pensare tutto ciò che ha scritto e che dicono le sue parole: osservazioni, ragionamenti, ghiribizzi sentimentali e fantasticherie. Ma, quando noi diciamo: «Il vero pensiero di Aristotele fu...», o «Il vero pensiero del Kant fu...», facciamo una scelta, oltrepassando la materialità della parola: abbandoniamo una parte come scoria, e cerchiamo, non ciò che lo scrittore ha creduto di pensare, ma ciò che ha realmente pensato per la forza delle premesse da cui moveva.

A Carlo Marx, che scrisse quei tali libri ed opuscoli e fece quei tali discorsi, appartiene così ciò ch'egli pensò realmente come quel tanto che s'illuse di cavare dai suoi pensieri, e che rappresenta invece una contraddizione di quelli, 0 un'appendice ingiustificata. Ma nella storia della scienza economica egli entra solamente per la parte reale del suo pensiero, e non già per le debolezze e i miscugli sentimentali e politici che si notano nelle sue trattazioni. Questa distinzione tra pensiero reale ed elementi estranei è nota a tutti coloro che indagano la storia delle scienze, e non potrebbe scriversi storia di scienza senza valersene. In Italia abbiamo due modelli di storie condotte a questo modo: gli scritti di Bertrando Spaventa sulla filosofia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, e la Storia della letteratura italiana di Francesco de Sanctis, che un criterio analogo adoperava nel dominio estetico, e i poeti considerava non secondo ciò che vollero fare, ma secondo ciò che obbiettivamente fecero. Nostra vergogna non pregiare abbastanza quei libri, e non averli additati agli stranieri come frutti, tra i più degni, dell'ingegno italiano.

Ecco perché il Racca non può pretendere che io gli mostri nell'introduzione e nei primi capitoli del Capitale quei presupposti, che io ho cercato di mostrare necessari e immanenti al pensiero del Marx, ma reconditi e al Marx restati oscuri. Se fossero esposti chiaramente nelle prime pagine del Capitale, quanto lavoro risparmiato ai critici! Ne io, per mio conto, mi sarei dato l'incomodo di scrivere i miei poveri opuscoli, ma avrei, tutt'al più, semplicemente tradotto o fatto ristampare quelle prime pagine del Capitale.

III

Certo, si potrebbe provare, contro di me, che quelli, che io ho stimati presupposti necessari, tali non sono. Il Racca tenta ciò quando oppugna la mia affermazione che la ricerca del Marx sia intrinsecamente ricerca astratta. Non è astratta (egli dice): il Marx « volle studiare dal punto di vista economico la società capitalistica attuale così come è: naturalmente non analizzò una sola società, ma ne astrasse il tipo, in cui fuse tutti i caratteri reali comuni, a suo avviso». Astrasse il tipo? E non è proprio, questo, condurre una ricerca astratta? Il tipo esiste forse nella realtà? È forse qualcosa di più che una nostra costruzione per fini scientifici? Ricerca astratta è qui opposto di ricerca storica, ma non già di ricerca scientifica positiva, come par che creda il Racca. Che poi il Marx credesse di fare una ricerca storica, o anche una ricerca non comparativa ma scientifica ed esplicativa; ch'egli «credesse vedere (la sua legge) nei fatti come un centro di gravità naturale, cui tendono i valori all'infuori dell'azione di cause perturbatrici»; tutto ciò è verissimo: l'ho detto anch'io; ma siamo sempre lì: fu la sua illusione. Al Racca, che reca più oltre l'esempio del metro, dirò che, se uno dopo aver misurato esattamente un pezzo di tela e aver trovato ch'è lungo dieci metri, s'immagina perciò solo di aver prodotto lui quei dieci metri di tela, certo cade in una illusione e commette un grosso sbaglio; ma non per questo la misurazione da lui eseguita diventa inesatta.

Il Racca scende a dimostrare falsa una mia particolare affermazione: quella cioè che la premessa del valore-lavoro sia pura di contenuto morale. « perché? (egli scrive). Io confesso di non capirlo affatto. Invece quando vedo tutti i predicatori di riforme o di rivoluzioni, da che mondo è mondo, far la critica del loro tempo paragonandolo o ai tempi trascorsi (pochi) o a quelli futuri quali la loro immaginazione li vede (sono i più), e so che il Marx aveva gli occhi fissi nel futuro, la logica m'insegna a non creare un'ipotesi speciale pel Marx». Qui il Racca si mette in opposizione non solo con lo spirito, ma anche con la lettera del marxismo: con la lettera, essendo notissimi i luoghi nei quali il Marx dichiara che la legge del valore-lavoro nou è una legge morale, a cominciare dalla polemica del 1847 col Proudhon; con lo spirito, per le ragioni da me svolte nella mia memoria, le quali meritavano confutazione un po' minuta. La supposta eguaglianza del valore col lavoro non ha natura morale, e non dà luogo ad alcuna regola morale, non riferendosi a una relazione tra esseri umani. Il valore è eguale al lavoro. Bene: e che cosa se ne dedurrà ai fini della morale? Che a ciascuno spetti il frutto del suo lavoro? Si? E come questa regola si connette con quel fatto? Si faccia la prova di connetterla e si sarà costretti a ricorrere a una serie di presupposti sociali, nonché a una generale legge etica che li domini. E si vedrà anche che, secondo le varie condizioni sociali, la morale potrà imporre quella particolare regola di ripartizione, o un'altra affatto diversa. In una società, p. es., in cui tutti lavorino, ma che sia composta per metà di uomini fortissimi dal facile lavoro largamente produttivo, e per metà di deboli o di malati, la regola «a ciascuno il godimento dei frutti del suo lavoro» sarebbe regola tutt'altro che caritatevole e morale.

Questa indifferenza morale della premessa del Marx non esclude però ch'egli, nell'opera sua, fosse mosso da vivo interessamento morale, come ho scritto io, o da spirito di rivendicazione giuridica, come eccellentemente ha mostrato il Sorel. Altro è il movente psicologico, e altro il prodotto intellettuale. Il sopra valore è il semplice stabilimento di una differenza tra due tipi di società: il Marx nel chiamarlo «lavoro non pagato» ha torto, perché è lavoro, nella società presente, pagato pel prezzo che ha sul mercato. Ma quell' erronea espressione sta a indicare le sollecitudini morali e giuridiche di lui. — E a proposito: vorremo noi sconoscere, in omaggio alle negazioni che il Marx e l'Engels hanno fatto degli ideali morali, tutta la parte che l'idealità morale ha nel loro pensiero? Ecco un altro caso, mi sembra, in cui bisogna distinguere tra pensiero apparente e pensiero reale.

IV

Proseguendo nelle mie indagini sugli elementi costitutivi e sulle deduzioni erronee nelle dottrine del Marx, ho preso in esame la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, finora non criticata o malamente criticata. La conclusione, a cui sono pervenuto, è, che quella legge del Marx sia affatto erronea, per aver esso, col proporsi un tal problema, sforzato la natura delle sue premesse.

Il Racca si dice d'accordo con me nel giudizio dell'erroneità di quella legge; ma non è poi d'accordo nel modo in cui ho condotto la mia dimostrazione. Egli mi muove tre obiezioni: 1°) la riduzione proporzionale da me ammessa in tutti i coefficienti di produzione essere infondata e contradetta dai bilanci di qualsiasi intrapresa industriale; 2°) non esser vero che il progresso tecnico diminuisca il valore del capitale impiegato nella produzione, giacché, dopo un progresso tecnico, il capitalista ritira una parte del capitale esuberante e l'impiega ad altro scopo produttivo; 3°) avere io considerato solo il caso di monopolio e non quello di concorrenza, nel quale ultimo non è sempre possibile, con capitale minore, sfruttare la stessa o maggiore quantità di lavoro.

Mi perdoni il Racca; ma queste tre obiezioni mi provano che egli non ha còlto il punto della questione. Il Marx non considera il singolo capitale o il singolo capitalista; ma il complesso di tutti i capitali, ossia l'intera classe capitalistica. A questo caso si riferisce la sua legge, e ad esso la mia confutazione. La stessa elementarità ed enormità degli errori economici che avrei dovuto commettere, lo avrebbero dovuto far accorto deirequivoco in cui egli è caduto. Se egli rilegge la sezione III del libro III del Capitale, e poi rilegge il mio scritto Un'obiezione ecc., vedrà meglio in che consiste la questione; e mi permetta intanto ch'io mi risparmi la fatica di riesporla, tanto più che dovrei ripetermi. Quel mio scritterello è brevissimo; e lo riscrissi più volte per ridurlo alla sua più semplice e breve formula, persuaso che le troppe parole e i soverchi svolgimenti imbroglino il lettore invece di aiutarlo.

È curioso un rimprovero che qui mi fa il Racca. Io ho detto che, nell'esame della legge del Marx della caduta del saggio di profitto, non si può tener conto della legge generale della domanda ed offerta, dalla quale il Marx prescinde e in opposizione alla quale costruisce la sua nuova legge. Dunque (dice il Racca), il Croce non vuol tener conto della buona, perché il Marx, lui, non ha voluto saperne. — Non ne voglio tener conto? Se dico, anzi, ch'è la sola buona! E dimostro che il tentativo del Marx di costruirne un'alti'a è fallace! Ma è chiaro che, per criticare il Marx, non dovevo tenerne conto, perché dovevo collocarmi nel suo punto di partenza, e mostrare che da quel punto non si giunge a nulla di ciò che egli cercava.

È curioso altresì che un economista-puro come il Racca mi richiami allo studio dei fatti concreti in un dibattito, ch'è di pura deduzione. Il Marx aveva creduto di trovare una certa relazione tra i concetti di progresso tecnico e di diminuzione del saggio di profitto («col progresso tecnico cresce il capitale costante rispetto al capitale variabile, onde, per aumenti che possa ricevere la massa del profìtto, diminuisce il saggio di questo»): io li ho riesaminati, dimostrando che da essi non si può ricavare la legge proposta dal Marx; e che, accadendo un progresso tecnico, e tutte le altre condizioni restando pari, diminuirà la massa del profitto, ma non mai il saggio; e che questo anzi aumenterà, se, tutte le altre condizioni restando pari, neanche il tenore di vita dei lavoratori si sarà elevato; e che per conseguenza la legge del Marx è, in ogni rispetto, erronea. Come c'entrano qui i fatti e le statistiche? Ho io bisogno di guardare le misurazioni degli agrimensori per ragionare il teorema sulla somma dei tre angoli del triangolo? 

Le statistiche e le osservazioni dei fatti particolari occorrono quando si voglia conoscere per quali circostanze particolari diminuisce il saggio di profitto in questo o quel paese, nella tale o tal'altra epoca. E questa questione, che ha carattere d'indagine storica, è stata da me espressamente distinta dall'altra, e riserbata ai competenti.

Al principio della sua recensione il Racca, dandomi partita vinta nella mia polemica contro il prof. Labriola, dice che ciò accade «per quel tanto del metodo e dei risultati rigidamente scientifici, che il Croce, primo tra i socialisti in Italia, seppe assimilare dall'economia pura».

Lasciamo stare se io, per la natura delle mie occupazioni, possa dirmi socialista: ciò non importa ai lettori della Rivista italiana di Sociologia, e, a ogni modo, il titolo è di quelli che onorano, nel presente periodo della vita pubblica italiana. Ma non mi onora l'essere ricordato come tale in una discussione meramente scientifica: quasi che io sia dei credenti in una scienza, adepta di questo o quel partito politico. Crederei più facilmente a un minerale socialistico 0 all'elettricità socialistica.

E non vorrei che si esagerassero i meriti dell'Economia pura, la quale non ha fondato nessun metodo scientifico, ma ha applicato, meglio che non si fosse fatto da altre scuole nel campo dell'economia, quei metodi che sono di tutte le scienze. Contro la scuola storica è stata una reazione benefica. Perciò aderisco alla scuola puristica; ma in questa adesione mi permetto di prendere alcune cautele, delle quali non sarà inutile l'accenno.

In primo luogo, io credo che ci sia ancora da elaborare filosoficamente il concetto di Valore, e che bisogni percorrere fino al fondo quella strada, che gli economisti puri hanno percorso solo fino a un certo punto. Si veda co-m'essi siano ancora perplessi tra i concetti di egoismo, legge del minimo mezzo, soggettivismo, psicologismo, edonismo, eudemonismo, e via dicendo. Trovare il fatto primo economico, l'elemento irriducibile che fa dell'economia una scienza indipendente, è un problema non ancora risoluto, benché sia avviato alla soluzione. Non mi pare che la soluzione sia soddisfacente nemmeno nel recente System der Werttheorie del prof, von Ehrenfels.

In secondo luogo, credo che l'economia pura debba sciogliersi dal connubio col liberismo, essendo il liberismo una persuasione morale-sociale-politica, ottima, giustificatissima, santissima, tutto quel che volete; ma non già scientifica. Bisogna lasciare che i puristi in economia siano poi quel che vogliono in ogni altro campo, com'è loro diritto, senz'accusarli di contraddizione con l'economia pura, perché la comune accettazione di leggi generalissime si presta ai più vari ed opposti programmi pratici e concreti.

In terzo luogo, credo che bisogni porre termine alla falsificazione matematica dei principi economici. L'unione tra matematica ed economia pura è accaduta pel fatto che parecchi valenti cultori di matematiche si sono occupati di scienza economica. Ciascuno traduce le proprie idee nel linguaggio che gli è più familiare; e come i matematici hanno tradotto le leggi economiche in formole matematiche, così un naturalista potrebbe tradurle in un frasario tratto dalla fisiologia, e un poeta in personificazioni e simboli poetici.

Il linguaggio matematico avrà, in certi casi, taluni vantaggi; ma il pericolo che porta seco è nel lasciar credere che il concetto economico, il quale è essenzialmente concetto di valore, di preferibile, di desiderabile, ossia di alcunché qualitativamente distinto, sia, invece, concetto quantitativo. Tempo fa, riferendo in un'accademia di Napoli sopra un concorso a un tema di materia economica (a quell'accademia appartengono cultori di tutte le discipline), e citando io e approvando la proposizione di uno dei concorrenti: «che il valore essendo un rapporto, una somma di valori, ossia di rapporti, non ha senso», un collega, professore di geometria superiore, saltò su a dire: —Che stravaganze sono queste? che cosa mai ti esce di bocca? perché una somma di rapporti non ha senso? non ha senso una somma di frazioni? — E un altro, astronomo valentissimo, lo appoggiò nella protesta. — Che cosa volete? — rispos'io, — Bisogna ringraziare i matematici, che hanno regalato all'economia tutta codesta fraseologia confusionaria. E permettetemi che io vi dimostri, con buona pace della matematica, che, in economia, una somma di rapporti non ha senso. — E lo dimostrai con lo spiegare come il rapporto del valore non sia rapporto aritmetico o in alcun modo matematico, ma un rapporto sui generis, qualitativo; e che le qualità diverse non si sommano, come non si sommano tre bovi con quattro cavalli.

In quarto luogo, a me pare che molti economisti puri facciano il possibile per iscreditare la loro scuola, perché prendono proposizioni facilissime, di verità intuitiva, e si sforzano di rivestirle di un'inutile armatura di teoremi e corollari. Non so chi possa durare a leggere i loro libri, i quali saranno forse buoni titoli per concorsi universitari, o anche abili giuochi di pazienza: ma, francamente, non ci s'impara nulla. Gli autori stessi dovrebbero accettare questo giudizio, perché non possono non sentire di aver faticato, non già a scoprire il vero, ma a metterlo nelle forinole regolamentari e di moda universitaria.

E in quinto luogo, e tornando a un pensiero già accennato a proposito del Marx, credo che bisogni provvedere a che l'economia pura non soffra troppo dei malanni di tutte le scuole; e cioè, non chiuda le menti ai problemi e alle verità, che non rientrano nei quadri della scuola. Il Racca mi esorta a lasciare da banda l'ozioso lavoro d'interpetrazione del Marx, e a rivolgere ad altro la mia operosità. Or bene, egli sarà contentato. Ho raccolto in un volume (che pubblica il Sandron di Palermo) tutti i miei scritti sul Marx e ve li ho composti — come in una bara. E credo di avere chiuso la parentesi marxistica della mia vita. Ma dico bene «parentesi»? Chi vive, come me, la vita delle discipline morali e psicologiche e storiche, può non fare i conti col movimento intellettuale che prende origine dal Marx? Può, dopo aver fatto questi conti, non riconoscere il molto che vi ha appreso, sia pure giungendo a conclusioni parzialmente negative? Anche il materialismo storico è, come generale tesi scientifica, erroneo. Ma io sono lieto di esser passato attraverso quella dottrina; e, se non ci fossi passato, avvertirei come un vuoto nella mia mente di uomo moderno. E, quanto al lavoro da me e da altri eseguito intorno al Marx, mi sembra cosa ingiusta qualificarlo di vana esegesi: quasi che ci fossimo affaticati a metter d'accordo, per intenti religiosi o settari, il Genesi con la Paleontologia. Studiare uno scrittore come il Marx, e tentare di penetrarne il genuino pensiero e di sceverare in lui, come meglio si può, il vero dal falso, non ha che vedere con l'esegesi teologica. La scienza progredisce, io credo, con l'osservare la realtà, e col criticare i pensieri propri e altrui intorno ad essa; né le due operazioni possono disgiungersi, perché, insomma, gli economisti puri si affannano tanto ad esortare di metter da banda il Marx?

Questa esortazione non sarà seguita da nessuno; e non la seguono essi stessi, costretti di continuo a fare il contrario e a iinmi-scliiarsi nelle polemiche marxistiche. Verrà tempo che il Marx si eliminerà da sé. Ma ciò accadrà quando sarà stato ben digerito; onde si può prevedere che verrà ancora discusso per qualche tempo.

Con questo facile prognostico, termino, non senza avere prima ringraziato il prof. Racca delle sue obiezioni, e della molta cortesia verso di me con la quale ha voluto accompagnarle.

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' Cfr. V. Racca, Recenti interpetrazioni del marxismo, nella Rivista italiana di Sociologia^ anno III, fase. IV, p. 476 e sg.

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Ottobre 1899.