V

RECENTI INTERPETRAZIONI DELLA TEORIA MARXISTICA DEL VALORE E POLEMICHE INTORNO AD ESSE


I

Ho sempre liberamente discusso le idee manifestate nei suoi scritti dal mio egregio amico prof. Antonio Labriola; a mi fa piacere ch'egli abbia usato la medesima libertà, sottoponendo a critica vivace (nell'edizione francese del suo libro sul Socialismo e la filosofia)1 l'interpretazione che io ho data della teoria marxistica del valore2. Il Labriola dice di essere stato a ciò mosso dal desiderio d'impedire che le mie opinioni passino «agli occhi dei lettori» per un compimento, da lui accettato, di quelle sue personali; e, "quantunque io non intenda come «agli occhi dei lettori» (soggiungiamo pure « intelligenti») tal cosa sia possibile, perché ho sempre garbatamente ma attentamente segnato i non pochi e non lievi punti nei quali dissento dai suoi giudizi, nondimeno, persuaso che la chiarezza non è mai soverchia, plaudo al suo proposito di mettere in più viva luce che io non sono lui, e che, s'egli pensa con la sua testa, io penso con la mia.

Il Labriola rigetta anzitutto il metodo da me tenuto, che qualifica variamente di «scolastica», di «metafisica», di « metaforismo», di « astrattismo», di «logica formale». Se io mi son dato la cura di accennare alle differenze tra  homo oeconomicus ed uomo morale o immorale, tra interesse personale ed egoismo3, egli si stringe nelle spalle, non rifiuta una certa indulgenza a codesta «scolastica tradizionale» e mi paragona all'uomo del volgo, che parla del sorgere o del coricarsi del sole, o della «luce luminosa» e del «calore caldo». Se io ho tenuto fermo alla necessità teorica di una Economia generale accanto alle varie considerazioni di economia sociologica, egli mi rinfaccia di creare, «oltre tutti gli animali visibili e palpabili, un animale in sé». E mi accusa ancora di voler dare un calcio alla storia, alla filologia comparata e alla fisiologia, per sostituire a tutto ciò la semplice Logica di Portoreale, come se, «in luogo di studiare le epigenesi realiter avvenute, quali il passaggio dall'invertebrato al vertebrato, dal comunismo primitivo alla proprietà privata del suolo, dalla indifferenza delle radici alla differenziazione tematica del nome e del verbo nel gruppo arioseraitico», possa bastare iscrivere questi fatti in concetti dal più generale al più particolare, nella serie di A a1 a2 a3 e via dicendo.

Ma io non saprei difendermi sul serio da queste accuse, perché dovrei ripetere cose troppo ovvie: che formare concetti non importa «creare entità»; che giovarsi di metafore (e la lingua è da capo a fondo metafora) non importa credere alla mitologia; che fare esperimenti ideali e astrazioni scientifiche non importa sostituire queste e quelli alla realtà concreta; che adoperare, dove occorra, la logica formale, non importa sconoscere il fatto, il divenire, la storia. E, quando il Marx espone fatti storici, io non so altro modo di avvicinarmegli se non quello della critica storica; e, quando fissa concetti e formola leggi, non so altro modo se non di venire esaminando il contenuto dei suoi concetti e verificando la correttezza delle sue illazioni e deduzioni. Questo secondo modo ho, dunque, tenuto nell'esaminare la sua teoria del valore. Se il Labriola ne ha un altro migliore, lo proponga. Ma quale potrà essere mai quest'altro? La logica reale? E, in tal caso, restauriamo pure francamente Hegel e sarà il minor male: almeno c'intenderemo. Ovvero (variante peggiorata) quel mostruoso metodo empirico-dialettico 0 evoluzionistico che si dica, il quale confonde insieme e maltratta due procedimenti distinti e si presta così bene agli amatori di profezie? 0 si tratta semplicemente di una nuova fraseologia, per la quale, continuandosi a lavorare più o men bene coi metodi antichi, si scansano le vecchie parole? 0, ancora, codesto disdegno per la logica formale è nient'altro che un comodo pretesto per dispensarsi dal mostrare le carte di giustificazione dei concetti che si adoperano?

Il Marx ha posto un suo concetto del valore; ha esposto un processo di trasformazioni del valore in prezzo; ha riposto la natura del profitto nel sopravalore. Tutto il problema della critica marxistica per me si riduce in questi termini: — La concezione del Marx è sostanzialmente erronea (totalmente, per l'erroneità delle premesse, parzialmente, per l'erroneità delle deduzioni)? Ovvero la concezione del Marx è sostanzialmente giusta, ma è stata sussunta a una categoria alla quale non appartiene, e si è in essa cercato ciò ciie non può dare, sconoscendosi ciò che effettivamente dà? — Essendo venuto a questa seconda conclusione, mi sono domandato: — Sotto quali condizioni e presupposti è pensabile la teoria del Marx? — E alla domanda ho procarato rispondere nel mio scritto intorno alla interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo.

Ciò che il Marx ha voluto fare, o si è illuso di fare, mi par che alla critica interessi fino a un certo segno, perché la storia della scienza prova che non sempre i pensatori hanno avuta piena e chiara coscienza del proprio pensiero, e che altro è scoprire una verità, altro definire e collocare al suo luogo la scoperta fatta. Può darsi che chi confonde la ricerca ideologica con la ricerca storica riproduca meglio lo «spirito» del Marx; ma il lavoro sarà in tal caso non una critica, ma un bozzetto artistico o un rifacimento psicologico, e ritrarrà, con la parte sana, la parte inferma del pensiero dell'autore.

Entrando nei particolari, il Labriola cerca di mostrare la vacuità e l'oscurità di alcune mie definizioni e l'errore di alcuni raziocini. Avendo io affermato che l'economia capitalistica è un caso particolare dell'economia generale, il Labriola nota en passant, ch'è pure il solo caso che abbia dato luogo a una teoria e a divisioni di scuole; e io confesso di non intendere a che miri questa osservazione sebbene si confessi fatta «en passant». Il Marx e l'Engels invece lamentavano che le economie antiche e medievali non fossero state studiate al modo stesso della moderna. Dunque, saranno concepibili almeno tre teorie economiche, dell'economia antica, dell'economia medievale, dell'economia moderna: e non sarà lecito costruire un'economia generale, ossia studiare in sé stesso quel quid comune, che fa sì che i tre ordini di fatti siano designati, tutti e tre, da un comune sostantivo ? — Si domanda poi il Labriola che cosa possa contenere codesta Economia generale e sopra-storica, e se mai non sia buona a servire alla « psicologia congetturale dell'uomo preistorico»: barzelletta nello stile dell'Engels, il quale, a dir vero, ha talvolta abusato di barzellette nella discussione di cose serie. Credete che non ne sappia dire anch'io? Ma non mi pare il caso.

— Si maraviglia della mia «insaziabilità», che, dopo aver accettato le teorie edonistiche, voglia accettare anche le teorie del Marx: come se tutta la mia dimostrazione non fosse diretta appunto a mettere in chiaro, che l'antitesi tra quelle teorie è solo nella fantasia e nelle parole di chi ne ha discorso, ma obiettivamente non sussiste; e che la teoria del Marx non deve considerarsi sistema economico totale di fronte agli altri sistemi («quelque chose de tont-à-fait opposé», sono le parole proprie del Labriola), ma ricerca particolare e parziale; e come se per « edonismo» io intendessi tutte le personali convinzioni filosofiche, storiche e politiche di coloro che seguono 0 dicono di seguire quella scuola, e non già soltanto ciò che discende legittimamente dal suo principio.

— Avendo io chiamato « spiegazione economica» quella che la scuola edonistica dà della natura del profitto, egli interroga sarcasticamente: «Dovrebbe essere forse non-economica?». Ma in quella mia proposizione non c'è pleonasmo: l'aggettivo «economica» è messo per distinguere la spiegazione dell'edonismo da quella del Marx, che, a mio parere, non è più meramente economica, ma storico-comparativa o sociologica che si voglia dire. Si maraviglia altresì che io discorra di una «società lavoratrice», e domanda: «In opposizione a che? Forse ai santi del paradiso?». Ma l'opposizione è da me additata tra un'ipotetica società lavoratrice, ossia tale che tutti i suoi beni siano prodotti di lavoro, e una società, economica bensì, ma non esclusivamente lavoratrice, perché godente di beni dati naturalmente accanto a quelli prodotti dal lavoro.

I santi del paradiso sono un'altra barzelletta fuori luogo.

Ho chiamato il concetto del sopravalore del Marx un concetto di differenza; e il Labriola mi rimprovera di non poter «dire esattamente ciò ch'io intenda con queste parole». Pure, non è mia consuetudine aprir la bocca o maneggiare la penna quando non so bene ciò che voglio dire, e qui credevo di avere espresso chiaramente un pensiero, che ho in mente molto chiaro. Prendiamo due tipi di società: il tipo A, composto di 100 individui, che con capitale comune e con eguale lavoro producano beni che ripartiscono in proporzioni eguali; il tipo B, composto di 100 individui, di cui 50 in possesso del suolo e dei mezzi di produzione, ossia capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia proletari e lavoratori; i primi dei quali nella ripartizione abbiano, in misura dei capitali che ciascuno impiega, una parte dei prodotti del lavoro dei secondi 50. Che nel tipo A non abbia luogo sopravalore, è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete diritto di chiamare sopravalore quella parte di prodotto che è riscossa dai capitalisti, se non quando paragoniate il tipo B col tipo A e trattiate il primo a contrasto col secondo. Considerando il tipo B in sé stesso (come appunto fanno, e debbono fare, gli economisti puri), il prodotto che si appropriano i 50 capitalisti, ossia il profitto di questi, è un effetto di reciproca convenienza, nascente dal diverso grado comparato di utilità. Voltate e rivoltate, e in pura economia non troverete altro. La natura usurpatrice del profitto si può affermare solamente quando si applichi, quasi reagente chimico, alla seconda società la misura, ch'è invece propria di un tipo di società fondato sulla umana eguaglianza, tipo «che ha raggiunte la saldezza di un convincimento popolare» (Marx). «È sopralavoro non pagato», dice il Marx, e sia pure; ma non pagato rispetto a che? Nella società presente è ben pagato, pel prezzo che realmente ha. Si tratta, dunque, di stabilire in quale società avrebbe quel prezzo, che nella società presente gli è negato. E, dunque, benedetto Dio!, si tratta di un paragone.

Non è originale, ma è tuttavia affatto gratuita l'affermazione del Labriola: «L'economia pura è così poco una soprastoria, che da questa storia attuale ha preso in prestito due dati, di cui fa due postulati assoluti: la libertà del lavoro e la libertà della concorrenza, spinte al loro massimo per ipotesi». Se apro il noto trattato del Pantaleoni, leggo, proprio nel paragrafo primo della Teoria del valore, il teorema fondamentale del Ferrara: che «il valore è innanzi tutto un fenomeno dell'economia individuale o isolata». Tanto poco la condizione storico-giuridica della società entra tra i presupposti necessari dell'economia pura.

Dopo di che, il Labriola non dovrebbe scandolezzarsi se io ho scritto «che il Marx ha preso fuori del campo della teoria economica pura la celebre eguaglianza4  del valore col lavoro». Mi domanderà: donde propriamente l'ha presa? Ed io gli risponderò: da un tipo particolare e determinato di società, in cui l'ordinamento giuridico e le presupposte condizioni di fatto rendano il valore corrispondente alla quantità di lavoro.

Il Labriola non trova giusto il ravvicinamento che io (metafora per metafora) ho fatto tra le merci, che nella economia marxistica appaiono « cristallizzazioni di lavoro», e i beni, che in economia pura potrebbero ben dirsi « quantità di possibili soddisfazioni di bisogni cristallizzate». «Finora (egli esclama) solo gli stregoni hanno potuto credere o far credere che coi soli desideri si possa conglutinare una parte di noi stessi in un bene qualunque». Ma che cosa significa «conglutinare»? Il bene a, per procacciarcelo, ci costa x lavoro di un dato genere: ecco la «gelatina di lavoro» del Marx. L'economia pura dice, con formola più generale, che ci costa quella massa di bisogni che dobbiamo lasciare insoddisfatti: ecco la « gelatina», che potrebbe cucinare l'economia pura. Non si tratta, nell'un caso, di una realtà obiettiva, come par che creda il Labriola, e nel secondo di una immaginata stregoneria; ma e nell'uno e nell'altro caso dell'uso letterario di espressioni immaginose per designare atteggiamenti ed elaborazioni del nostro spirito.

Al qual proposito il Labriola, quasi per restringere la portata di quelle immagini che sono diventate usuali nel marxismo, dice che il Marx, come scrittore, era un «secentista». Permetta a me, modesto studioso di letteratura e autore di parecchie ricerche sulla natura e la genesi del secentismo5 di protestare. Il secentismo consiste nella ingegnosità, ossia nell'introduzione della fredda intellettualità nella forma estetica; donde il paragone sforzato, la metafora continuata, il gioco e l'equivoco verbale. Ma il Marx abusa invece di espressioni poetiche, che rendono con efficacia sfrenata il contenuto del suo pensiero. Si ha in lui proprio l'inverso del secentismo: non il disinteresse della forma rispetto al pensiero, ma un abbraccio così violento di questo con quella, che la povera forma rischia talvolta di rimanerne soffocata6.

Il lettore sarà stanco di queste repliche a una critica negativa; ma la critica negativa è pure la sola che offra il Labriola. Quale è la sua interpretazione del pensiero del Marx? o quale accetta, di quelle messe in circolazione? Qui il Labriola tace. È vero che altra volta mi parve scorgere nel suo detto, che «il valore-lavoro è in Marx la premessa tipica senza cui tutto il resto non è pensabile», un consenso con la mia tesi. Ma veggo ora che debbo essermi ingannato, e che quelle sue parole debbono avere un altro senso; il quale però, avvertito dalla mala prova fatta, non cercherò più oltre d'investigare. Intanto, il Sombart ha «almanaccato»; il Sorel ha fatto «elucubrazioni frettolose o premature»; il sottoscritto «non ha capito» (p. 224 in fine). Siamo dunque innanzi a un mistero? L'amico Labriola si compiace di ricordare (p. 50) l'aneddoto dello Hegel, il quale avrebbe dichiarato che «un solo suo scolaro l'aveva capito» (l'aneddoto, mi permetto aggiungere, è narrato da Errico Heine, e in modo ben più spiritoso)7.  Si rinnova il caso per la teoria del valore del Marx?

In verità, pur non volendo sconoscere le difficoltà che oppone il pensiero, e la forma del pensiero, del Marx, a me pare che il mistero sia ormai chiarito. E dico ciò, non solo per la ferma persuasione che ho circa la verità della mia interpretazione, ma anche per l'accordo in cui mi trovo con parecchi critici, che quasi al tempo stesso e con procedere indipendente sono pervenuti a conclusioni simili alle mie. Una medesima tendenza appare in ciò che scrisse sul proposito il Sombart nel 1894, l'Engels nel 1895, io nel 1896, il Sorel nel 1897, io stesso più a lungo nel 1897, e di nuovo il Sorel nel giugno del passato anno 18988. Di certo, il vero e il falso non possono stabilirsi per segni esteriori, essendo unico giudice di essi il pensiero, che è giudice il quale concede infiniti appelli. Ma è pur naturale che nelle condizioni sopraindicate sorga un sentimento di fiducia, come se la discussione stia per esser chiusa, e la questione prossima a esser collocata tra quelle risolute.

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1 Socialisme et philosophie par Antonio Labriola (Paris, Giard et Brière, 1899). Si veda pp. 207-224, Postscriptum à l'édition française.

2 Si vedano i saggi II e III.

3  Distinzione che mi propongo di ribadire ancora, non già per ostinatezza, ma perché la stimo necessaria e urgente per la solida fondazione dei principi dell'Economia, e mi è accaduto di osservare sovente i cattivi efletti che la trascuranza di essa porta nelle discettazioni degli economisti.

4 Scrivo «eguaglianza», perché così scrive il Marx e perchè alla questione presente è affatto indifferente l'altra: se il rapporto di valore possa mettersi sotto la forma matematica di un rapporto di eguaglianza. Per mia parte (e seguendo in ciò gli edonisti), nego recisamente che il rapporto di valore sia rapporto di eguaglianza. La dimostrazione è stata già fatta da altri, e non è il caso di ripeterla.

5 Croce, Giambattista Basile e il «Canto de li Canti» (Napoli, 1891); Ricerche ispano-italiane, serie I, paragrafo ultimo (Atti dell'Acc. Pontan., t. XXVIII, 1898); I predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnolo (Napoli, Pierre, 1899); I trattati italiani del «concettismo» e Baltasar Gracian {Atti dell'Acc. Pontan., t. XXIX, 1899).

6 Il Labriola, (che riproduce qua e là assai bene nel suo stile quello del Marx) scrive nel saggio sul Manifesto dei comunisti, 2ª ediz., p. 79: «Il Manifesto... non spande lacrime su niente. Le lacrime delle cose si sono già rizzate in piedi da sé, come forza spontaneamente rivendicatrice». Le «lacrime» , che si rizzano «in piedi», possono far rizzare i capelli «sulla testa» a un uomo di gusto moderato; pure, anche questa espressione, se é violentemente immaginosa, non è secentesca.

7 «Als Hegel auf dem Todbette lag, sagte er: — Nur Einer hat mich verstanden ! — Aber gleich darauf fügte er verdriesslich hinzu : — Und der hat mich auch nicht verstanden ! » (Heine, Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland, libro III).


8 Sombart, nell'Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik, vol. VII, 1894, pp. 555-594; Engels, nella Neue Zeit, XIV, voi. I, 4-11, 37-44; Croce, Le teorie storiche del prof. Loria (ora in questo vol., s. II): Sorel, nel Journal des économistes, fase, del 15 maggio 1897 ; Croce, Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (ora in questo voi., s. III); Sorel, Nuovi contributi alla teoria marxistica del valore (nel Giornale degli economisti), giugno 1898.

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II

Credo perciò opportuno rivolgermi a quelle «elucubrazioni» del Sorel, che il Labriola giudica così severamente e sommariamente, per far intorno a esse alcune avvertenze, non di confutazione, ma di sostegno, e per chiarire qualche punto in cui può apparire ancora un disaccordo, che forse non ha ragion d'essere.

Ma qui mi si conceda una protesta. Anche col Sorel il Labriola è ora in guerra guerreggiata: il suo libro Discorrendo ecc., nato come una serie di lettere amichevoli al Sorel delle quali mi feci io editore in Italia, si pubblica in francese con un'appendice contro di me e una prefazione contro il Sorel. Causa del dissenso è particolarmente ciò che si chiama oggi crisi del marxismo.

Ora, se per «crisi del marxismo» s'intende l'affermata necessità di una revisione e correzione delle idee scientifiche, delle credenze storiche, del materiale di osservazioni di fatto, che hanno corso nella letteratura marxistica, bene: a tale crisi credo anch'io. Se s'intende anche una mutazione di programmi e di metodi pratici, non -nego e non affermo, non essendomi mai versato di proposito nell'argomento. Se il pericolo, dal timor del quale sembra compreso e agitato il Labriola, che una qualsiasi crisi del marxismo, o l'annunzio di essa, possa essere adoprata da coloro che hanno interesse a sviare e a far disperdere il moto proletario, esiste davvero, provideant consules. Ma, crisi o non crisi, scientifica solamente o anche pratica, timori fondati o timori fantastici ed eccessivi, sono tutte cose che non hanno che vedere con le questioni da me mosse; le quali concernono l'erroneità di tale o tale altra proposizione teorica o storica del marxismo, e il modo in cui tale o tale altra di esse deve intendersi per tenersi vera. Io sto su questo terreno, e sopra questo solamente accetto la discussione. Potrò sbagliare, ma mi si deve dimostrare. Se mi si dice invece, in cambio di risposta, che la crisi del marxismo è opera della reazione internazionale, della quale gli ingenui critici fanno il gioco, resterò certamente assai stupito; ma non per questo mi sarò persuaso che la teoria marxistica del valore sia vera, nel senso maccheronico, per esempio, in cui è esposta nel noto opuscoletto di propaganda dello Stern.

Il Sorel aveva prima supposto9, in modo molto ingegnoso, che il Marx avesse costruito diverse sfere economiche, di cui la prima (quella del valore-lavoro) fosse la più semplice: la seconda, comprendente il fenomeno della rata media del profitto e la formazione del costo di produzione, più complicata; la terza, in cui si considera l'azione della rendita della terra, anche più complicata. Passando dalla sfera più semplice alla più complicata, si sarebbero ritrovate le leggi della precedente, modificate dai nuovi dati introdotti, che avrebbero dato origine a fenomeni nuovi.

Nel nuovo suo scritto, abbandona questa interpetrazione per essersi persuaso che l'esperimento ideale del Marx non mirava già a conseguire la spiegazione totale dei fenomeni economici per mezzo della crescente complessità delle combinazioni. E, a mio credere,, fa bene ad abbandonarla; non solo per la ragione verissima da lui addotta, che la ricerca del Marx non è un sistema economico totale, ma anche perché il procedimento da lui supposto non spiegava come mai il Marx, nel considerare i fenomeni economici della seconda e della terza sfera, si valesse di concetti che hanno il loro posto solo nella prima. Non spiegava, insomma, quello che io chiamai paragone ellittico, e che è la difficoltà dell'opera del Marx, o, se si vuole, dell'esposizione letteraria del suo pensiero. Se la rispondenza del valore al lavoro si "attua solo nella semplificata società economica della prima sfera, perché insistere nel tradurre in termini della prima i fenomeni della seconda? perché chiamare trasformazione del sopravalore ciò che si presenta come naturale effetto economico di capitali, che debbono avere, per la loro natura stessa di capitali, un profìtto? E, quella del Marx, una spiegazione da principio a conseguenza, o non è piuttosto un parallelo tra due fatti diversi, di cui si mettono in risalto le diversità, rischiarandone le scaturigini sociali?

Ma il Sorel s'avvia ora appunto a siffatta conclusione, riprendendo una felice espressione del suo primo scritto: che l'opera del Marx non è rivolta a spiegare con leggi analoghe a quelle fisiche, ma solo a dare «schiarimenti» parziali e indiretti intorno alla realtà economica.

Il mezzo, del quale il Mai'x si vale nella ricerca (dice ora il Sorel), è uno strumento metafisico: egli foggia una metafisica dell'economia. Questa espressione potrà o no piacere, secondo il vario senso che si dia alla parola «metafisica»; ma il pensiero è giusto e vero. Il Marx costruisce un esperimento ideale, che gli serve a fare comprendere le sorti del lavoro nella società capitalistica.

Quali sono i termini dell'esperimento ideale del Marx, e in che consiste la sua ipotesi? Io avevo scritto che il concetto del valore-lavoro è vero per una società ideale, i cui soli beni consistano in prodotti di lavoro, e in cui non siano differenze di classi. Al Sorel non sembra necessario eliminare, come ho fatto io, la divisione delle classi. Ma, poiché egli scrive: «Il Marx concepisce, come il Ricardo, una società meccanica, perfettamente automatica, nella quale la concorrenza sia sempre al massimo di efficacia e gli scambi si effettuino in ragione di rapporti generali; ed immagina che le diverse qualità sociologiche abbiano intensità misurabili e che questi numeri possano essere collegati da formole matematiche; onde, in una simile società, l'utilità, il bisogno, l'uso dei prodotti sono conseguenze della divisione in classi e il valore perciò non sarà una funzione di questa qualità, laddove esso è ben funzione delle qualità di produzione; e l'utilità, il bisogno, non possono apparire se non nelle forme della funzione, nei parametri che si riferiscono alla divisione sociale», poiché egli, dico, non fa, nella sua ipotesi, dipendere il valore-lavoro dalla divisione delle classi, mi pare che ciò sia in sostanza un prescinderne effettivo. Ed è, forse, più chiaro prescinderne espressamente.

Avremmo dunque: 1°) Società economica lavoratrice senza differenze di classi. Legge del valore-lavoro, 2°) Divisione sociale delle classi. Origine del profìtto, il quale, solo in comparazione col tipo precedente e in quanto del primo si trasportino i concetti nel secondo, si può considerare sopravalore. 3°) Differenza tecnica tra le varie industrie richiedenti varia composizione di capitale (vario rapporto di capitale costante e variabile). Origine del saggio medio del profìtto, che, in confronto col tipo precedente, può considerarsi come una trasformazione ed egualizzazione dei sopra valori. 4°) Appropriazione della terra per parte di una classe sociale. Rendita assoluta. 5°) Diversità qualitativa delle terre. Rendita differenziale. Le quali rendite assoluta e differenziale, solo in comparazione coi tipi precedenti appariranno come ritagliate sulla massa dei sopravalori o dei profitti.

Il Sorel consente con me che, ottenutosi nel modo che si è descritto il concetto del valore-lavoro, questo concetto non solo non sia una legge nel senso di una legge fìsica, ma non sia una legge neanche in senso etico, ossia tale che debba intendersi come regola di ciò che dovrebbe essere. È una legge (egli dice) «in senso tutto marxistico». Ciò anch'io cercai di esprimere quando scrissi nella mia Memoria: «E legge nella concezione del Marx, ma non già nella realtà economica. È evidente che noi possiamo concepire le divergenze rispetto a una misura come le ribellioni della realtà di fronte a quella misura, la quale ha ricevuto da noi dignità di legge».

Nell'errore d'interpetrare il concetto del Marx come una legge ideale o etica ò caduto, a me pare, anche il giurista prof. Stammler nella sua opera: Diritto ed economia secondo la concezione materialistica della storia10. Egli è pienamente nel vero quando, respingendo il paragone del Kautsky tra il concetto del valore-lavoro e la legge di gravità (la quale si attua pienamente negli spazi vuoti d'aria, perché la resistenza che questa oppone produce poi effetti speciali), sostiene, che quella non è nulla di analogo a una legge fisica. Per lui, invece, la legge del Marx si giustifica (almeno formalmente) come tentativo di ricerca di ciò che nei giudizi economici, posto l'ordinamento della società capitalistica, sia obiettivamente retto. I giudizi soggettivi possono differire; e ciò non toglie che debba esservi un criterio obiettivo, che dirima il diritto e il torto. Ma il campo economico può dar luogo mai a un criterio obiettivo? Chi ha inteso bene il principio deireconomia edonistica, deve rispondere di no. E se lo Stammler affaccia quel concetto, è perché egli ha malamente negato carattere e ufficio originale all'attività economica e, di conseguenza, all'Economia in quanto scienza11.

Il Sorel crede che il procedimento del Marx abbia reso ormai i servigi che poteva rendere, e non dia alcun aiuto nello studio, al quale bisogna accingersi, delle moderne condizioni economiche. Se non isbaglio, egli vuol dire che le speranze dei marxisti circa la fecondità del metodo del Marx si vanno mostrando vane; e che le pagine che quegli ha scritto nella storia della Economia sono press'a poco tutto ciò che da quel metodo si poteva cavare. Buona parte del terzo volume, in cui il Marx si comporta come un semplice economista classico, e la grama e stentata produzione della letteratura economica marxistica posteriore al Marx, sembrerebbero comprovare col fatto il giudizio del Sorci.

Ma, se a me pare opera salutare questa del Sorel nel cercare d'intendere e circoscrivere la portata delle ricerche economiche del Marx, non potrei giudicare allo stesso modo i tentativi d'altri per riformare le basi del sistema del Marx, non accettandone il metodo e parte dei risultamenti. Alludo a un libro recente del dottor Antonio Graziadei12, ch'è stato molto discusso in questi ultimi mesi II Graziadei mira a dedurre il profitto indipendentemente dalla teoria del valore: via già indicata dal prof. Loria, e la cui fallacia dovrebbe apparire a primo sguardo cvidetite, senza aspettare che tale venga provata dalla vanità del viaggio. Un'economia, nella quale si prescinda dal valore, è una Logica in cui si prescinda dal concetto, un'Etica in cui si prescinda dall'obbligazione, un'Estetica in cui si prescinda dalla espressione. Ma vediamo un po' come il Graziadei svolge il suo pensiero.

Egli tenta, in primo luogo, di provare che nel Marx stesso la teoria del profìtto è sostanzialmente indipendente da quella del valore. Il profìtto (dice) consiste nel sopralavoro, ossia nella differenza tra lavoro totale e lavoro necessario; onde si può farlo nascere dal sopralavoro senza muovere dalla forma valore. Ma distrugge egli stesso questa argomentazione, quando più oltre (p. 10) obbietta, che, se il lavoro non è lavoro produttivo, non dà luogo a profìtto. Appunto perciò (rispondiamo noi), per essere in grado di parlare di lavoro che sia produttivo, il Marx doveva muovere dal valore; e appunto perciò, nel pensiero del Marx, teoria del profìtto e teoria del valore sono indissolubilmente connesse.

Quanto al costruire esso, con sua responsabilità, una teoria del profìtto che sia indipendente da quella del valore, il Graziadei vi riesce in modo molto curioso: con lo scansare, cioè, accuratamente le parole «valore» e «lavoro», e col parlare invece solamente di «prodotto». Il profìtto, secondo lui, non nasce dal sopralavoro o dal sopravalore, ma dal sopraprodotto; sicché si può, e si deve, nella teoria, partire dal concetto di prodotto e mettere da banda il valore, ch'è formazione superficiale, dell'ultimo stadio, del mercato.

Sopraprodotto! Ma il sopraprodotto in tanto è sopraprodotto economico in quanto è un valore. Certo, il capitalista che paghi il salario in natura, e, nel riprendere i beni da lui anticipati, si appropri anche l'altra parte del prodotto (sopraprodotto), può, invece di portare questa sul mercato, consumarla esso direttamente (come nell'ipotesi del Graziadei). Ma che il prodotto non venga portato sul mercato non vuol già. dire che non abbia valore di scambio: tanto vero che il capitalista l'ha ottenuto per mezzo di uno scambio tra lui e il lavoratore, e perciò l'ha valutato in qualche modo.

Ed eccoci daccapo alla teoria del valore, alla quale si era cercato invano di sfuggire. Anzi, poiché il Graziadei considera esclusivamente l'economia del lavoro, eccoci daccapo al concetto preciso del Marx del valore-lavoro13.

Il libro del Graziadei contiene anche talune correzioni alle particolari teoriche del Marx sul profitto e sui salari. Senonchò mi sia lecito notare che le correzioni, per dirsi tali, dovrebbero concernere i principi direttivi e i concetti scientifici. I nuovi fatti, che si vengano osservando, non infirmano una teoria solidamente stabilita per mezzo dell'analisi degli elementi; sebbene sia naturale che, col cangiare delle condizioni di fatto, sorga una nuova casistica, che il ]Marx non poteva considerare. Per quanto egli, nella sua varia e lunga vita di scrittore e di agitatore politico, abbia fatto talvolta previsioni dimostratesi in prosieguo fallaci, non credo abbia mai preteso (come quel tale «sguaiato» Giosuè) « fermare il Sole».

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9  Nel citato articolo del Journal des économistes.

10 Wirtschaft und Recht ecc., pp. 266-8, 658-9.

11  Si veda il saggio IV.

12 La produzione capitalistica (Torino, Bocca, 1899).

13 Permetta il Graziadei ch'io noti che non è la prima volta ch'egli fa scoperte, che sono poi equivoci. Alcuni anni fa, dibattendosi nella rivista La Critica sociale una polemica sulla teoria della formazione del profitto nella dottrina del Marx, il Graziadei (voi. IV, n. 22, 16 novembre 1894, p. 348) scriveva: «Noi possiamo benissimo ideare una società, in cui, non già col sopralavoro, ma col non lavoro esista il profitto. Se, infatti, tutto il lavoro compiuto ora dall'uomo fosse surrogato dall'opera delle macchine, queste, con una quantità di merci relativamente piccola, ne produrrebbero una quantità enormemente maggiore. Ora, dato un assetto capitalistico della società, questo fatto tecnico offrirebbe la base al fatto sociale, che la classe dominante, potendo godere per sé sola la differenza tra il
prodotto ed il consumo della macchina, verrebbe a disporre di una eccedenza di prodotti sul consumo dei lavoratori, cioè di una sovraproduzione, cioè di un profitto, molto più considerevole di quanto alla produzione concorreva ancora la debole forza muscolare dell'uomo». Ma qui il Graziadei dimenticava di spiegare come mai potrebbero
esistere lavoratori, ed ottenersi profitto dal lavoro in una società ipotetica, fondata sul non lavoro e in cui tutto il lavoro, già compiuto dall'uomo, verrebbe compiuto dalle macchine. Che cosa farebbero ivi i lavoratori? L'opera di Sisifo o delle Danaidi?
Nella sua ipotesi, i proletari o sarebbero mantenuti per carità della classe dominante o finirebbero per isparire rapidamente, distrutti dalla fame. Che se poi egli intendeva che le macchine producessero automaticamente beni esuberanti per gli uomini tutti di quella società, in tal caso faceva la semplice ipotesi del Paese di Cuccagna.