V
RECENTI INTERPETRAZIONI DELLA TEORIA MARXISTICA DEL VALORE E
POLEMICHE INTORNO AD ESSE
I
Ho sempre liberamente discusso le idee manifestate nei suoi scritti
dal mio egregio amico prof. Antonio Labriola; a mi fa piacere
ch'egli abbia usato la medesima libertà, sottoponendo a
critica vivace (nell'edizione francese del suo libro sul Socialismo
e la filosofia)1 l'interpretazione che io ho data della teoria
marxistica del valore2. Il Labriola dice di essere stato a
ciò mosso dal desiderio d'impedire che le mie opinioni
passino «agli occhi dei lettori» per un compimento, da
lui accettato, di quelle sue personali; e, "quantunque io non
intenda come «agli occhi dei lettori» (soggiungiamo pure
« intelligenti») tal cosa sia possibile, perché
ho sempre garbatamente ma attentamente segnato i non pochi e non
lievi punti nei quali dissento dai suoi giudizi, nondimeno, persuaso
che la chiarezza non è mai soverchia, plaudo al suo proposito
di mettere in più viva luce che io non sono lui, e che,
s'egli pensa con la sua testa, io penso con la mia.
Il Labriola rigetta anzitutto il metodo da me tenuto, che qualifica
variamente di «scolastica», di «metafisica»,
di « metaforismo», di « astrattismo», di
«logica formale». Se io mi son dato la cura di accennare
alle differenze tra homo oeconomicus ed uomo morale o
immorale, tra interesse personale ed egoismo3, egli si stringe nelle
spalle, non rifiuta una certa indulgenza a codesta «scolastica
tradizionale» e mi paragona all'uomo del volgo, che parla del
sorgere o del coricarsi del sole, o della «luce
luminosa» e del «calore caldo». Se io ho tenuto
fermo alla necessità teorica di una Economia generale accanto
alle varie considerazioni di economia sociologica, egli mi rinfaccia
di creare, «oltre tutti gli animali visibili e palpabili, un
animale in sé». E mi accusa ancora di voler dare un
calcio alla storia, alla filologia comparata e alla fisiologia, per
sostituire a tutto ciò la semplice Logica di Portoreale, come
se, «in luogo di studiare le epigenesi realiter avvenute,
quali il passaggio dall'invertebrato al vertebrato, dal comunismo
primitivo alla proprietà privata del suolo, dalla
indifferenza delle radici alla differenziazione tematica del nome e
del verbo nel gruppo arioseraitico», possa bastare iscrivere
questi fatti in concetti dal più generale al più
particolare, nella serie di A a1 a2 a3 e via dicendo.
Ma io non saprei difendermi sul serio da queste accuse,
perché dovrei ripetere cose troppo ovvie: che formare
concetti non importa «creare entità»; che
giovarsi di metafore (e la lingua è da capo a fondo metafora)
non importa credere alla mitologia; che fare esperimenti ideali e
astrazioni scientifiche non importa sostituire queste e quelli alla
realtà concreta; che adoperare, dove occorra, la logica
formale, non importa sconoscere il fatto, il divenire, la storia. E,
quando il Marx espone fatti storici, io non so altro modo di
avvicinarmegli se non quello della critica storica; e, quando fissa
concetti e formola leggi, non so altro modo se non di venire
esaminando il contenuto dei suoi concetti e verificando la
correttezza delle sue illazioni e deduzioni. Questo secondo modo ho,
dunque, tenuto nell'esaminare la sua teoria del valore. Se il
Labriola ne ha un altro migliore, lo proponga. Ma quale potrà
essere mai quest'altro? La logica reale? E, in tal caso, restauriamo
pure francamente Hegel e sarà il minor male: almeno
c'intenderemo. Ovvero (variante peggiorata) quel mostruoso metodo
empirico-dialettico 0 evoluzionistico che si dica, il quale confonde
insieme e maltratta due procedimenti distinti e si presta
così bene agli amatori di profezie? 0 si tratta semplicemente
di una nuova fraseologia, per la quale, continuandosi a lavorare
più o men bene coi metodi antichi, si scansano le vecchie
parole? 0, ancora, codesto disdegno per la logica formale è
nient'altro che un comodo pretesto per dispensarsi dal mostrare le
carte di giustificazione dei concetti che si adoperano?
Il Marx ha posto un suo concetto del valore; ha esposto un processo
di trasformazioni del valore in prezzo; ha riposto la natura del
profitto nel sopravalore. Tutto il problema della critica marxistica
per me si riduce in questi termini: — La concezione del Marx
è sostanzialmente erronea (totalmente, per l'erroneità
delle premesse, parzialmente, per l'erroneità delle
deduzioni)? Ovvero la concezione del Marx è sostanzialmente
giusta, ma è stata sussunta a una categoria alla quale non
appartiene, e si è in essa cercato ciò ciie non
può dare, sconoscendosi ciò che effettivamente
dà? — Essendo venuto a questa seconda conclusione, mi sono
domandato: — Sotto quali condizioni e presupposti è pensabile
la teoria del Marx? — E alla domanda ho procarato rispondere nel mio
scritto intorno alla interpetrazione e la critica di alcuni concetti
del marxismo.
Ciò che il Marx ha voluto fare, o si è illuso di fare,
mi par che alla critica interessi fino a un certo segno,
perché la storia della scienza prova che non sempre i
pensatori hanno avuta piena e chiara coscienza del proprio pensiero,
e che altro è scoprire una verità, altro definire e
collocare al suo luogo la scoperta fatta. Può darsi che chi
confonde la ricerca ideologica con la ricerca storica riproduca
meglio lo «spirito» del Marx; ma il lavoro sarà
in tal caso non una critica, ma un bozzetto artistico o un
rifacimento psicologico, e ritrarrà, con la parte sana, la
parte inferma del pensiero dell'autore.
Entrando nei particolari, il Labriola cerca di mostrare la
vacuità e l'oscurità di alcune mie definizioni e
l'errore di alcuni raziocini. Avendo io affermato che l'economia
capitalistica è un caso particolare dell'economia generale,
il Labriola nota en passant, ch'è pure il solo caso che abbia
dato luogo a una teoria e a divisioni di scuole; e io confesso di
non intendere a che miri questa osservazione sebbene si confessi
fatta «en passant». Il Marx e l'Engels invece
lamentavano che le economie antiche e medievali non fossero state
studiate al modo stesso della moderna. Dunque, saranno concepibili
almeno tre teorie economiche, dell'economia antica, dell'economia
medievale, dell'economia moderna: e non sarà lecito costruire
un'economia generale, ossia studiare in sé stesso quel quid
comune, che fa sì che i tre ordini di fatti siano designati,
tutti e tre, da un comune sostantivo ? — Si domanda poi il Labriola
che cosa possa contenere codesta Economia generale e sopra-storica,
e se mai non sia buona a servire alla « psicologia
congetturale dell'uomo preistorico»: barzelletta nello stile
dell'Engels, il quale, a dir vero, ha talvolta abusato di
barzellette nella discussione di cose serie. Credete che non ne
sappia dire anch'io? Ma non mi pare il caso.
— Si maraviglia della mia «insaziabilità», che,
dopo aver accettato le teorie edonistiche, voglia accettare anche le
teorie del Marx: come se tutta la mia dimostrazione non fosse
diretta appunto a mettere in chiaro, che l'antitesi tra quelle
teorie è solo nella fantasia e nelle parole di chi ne ha
discorso, ma obiettivamente non sussiste; e che la teoria del Marx
non deve considerarsi sistema economico totale di fronte agli altri
sistemi («quelque chose de tont-à-fait
opposé», sono le parole proprie del Labriola), ma
ricerca particolare e parziale; e come se per «
edonismo» io intendessi tutte le personali convinzioni
filosofiche, storiche e politiche di coloro che seguono 0 dicono di
seguire quella scuola, e non già soltanto ciò che
discende legittimamente dal suo principio.
— Avendo io chiamato « spiegazione economica» quella che
la scuola edonistica dà della natura del profitto, egli
interroga sarcasticamente: «Dovrebbe essere forse
non-economica?». Ma in quella mia proposizione non c'è
pleonasmo: l'aggettivo «economica» è messo per
distinguere la spiegazione dell'edonismo da quella del Marx, che, a
mio parere, non è più meramente economica, ma
storico-comparativa o sociologica che si voglia dire. Si maraviglia
altresì che io discorra di una «società
lavoratrice», e domanda: «In opposizione a che? Forse ai
santi del paradiso?». Ma l'opposizione è da me additata
tra un'ipotetica società lavoratrice, ossia tale che tutti i
suoi beni siano prodotti di lavoro, e una società, economica
bensì, ma non esclusivamente lavoratrice, perché
godente di beni dati naturalmente accanto a quelli prodotti dal
lavoro.
I santi del paradiso sono un'altra barzelletta fuori luogo.
Ho chiamato il concetto del sopravalore del Marx un concetto di
differenza; e il Labriola mi rimprovera di non poter «dire
esattamente ciò ch'io intenda con queste parole». Pure,
non è mia consuetudine aprir la bocca o maneggiare la penna
quando non so bene ciò che voglio dire, e qui credevo di
avere espresso chiaramente un pensiero, che ho in mente molto
chiaro. Prendiamo due tipi di società: il tipo A, composto di
100 individui, che con capitale comune e con eguale lavoro producano
beni che ripartiscono in proporzioni eguali; il tipo B, composto di
100 individui, di cui 50 in possesso del suolo e dei mezzi di
produzione, ossia capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia
proletari e lavoratori; i primi dei quali nella ripartizione
abbiano, in misura dei capitali che ciascuno impiega, una parte dei
prodotti del lavoro dei secondi 50. Che nel tipo A non abbia luogo
sopravalore, è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete
diritto di chiamare sopravalore quella parte di prodotto che
è riscossa dai capitalisti, se non quando paragoniate il tipo
B col tipo A e trattiate il primo a contrasto col secondo.
Considerando il tipo B in sé stesso (come appunto fanno, e
debbono fare, gli economisti puri), il prodotto che si appropriano i
50 capitalisti, ossia il profitto di questi, è un effetto di
reciproca convenienza, nascente dal diverso grado comparato di
utilità. Voltate e rivoltate, e in pura economia non
troverete altro. La natura usurpatrice del profitto si può
affermare solamente quando si applichi, quasi reagente chimico, alla
seconda società la misura, ch'è invece propria di un
tipo di società fondato sulla umana eguaglianza, tipo
«che ha raggiunte la saldezza di un convincimento
popolare» (Marx). «È sopralavoro non
pagato», dice il Marx, e sia pure; ma non pagato rispetto a
che? Nella società presente è ben pagato, pel prezzo
che realmente ha. Si tratta, dunque, di stabilire in quale
società avrebbe quel prezzo, che nella società
presente gli è negato. E, dunque, benedetto Dio!, si tratta
di un paragone.
Non è originale, ma è tuttavia affatto gratuita
l'affermazione del Labriola: «L'economia pura è
così poco una soprastoria, che da questa storia attuale ha
preso in prestito due dati, di cui fa due postulati assoluti: la
libertà del lavoro e la libertà della concorrenza,
spinte al loro massimo per ipotesi». Se apro il noto trattato
del Pantaleoni, leggo, proprio nel paragrafo primo della Teoria del
valore, il teorema fondamentale del Ferrara: che «il valore
è innanzi tutto un fenomeno dell'economia individuale o
isolata». Tanto poco la condizione storico-giuridica della
società entra tra i presupposti necessari dell'economia pura.
Dopo di che, il Labriola non dovrebbe scandolezzarsi se io ho
scritto «che il Marx ha preso fuori del campo della teoria
economica pura la celebre eguaglianza4 del valore col
lavoro». Mi domanderà: donde propriamente l'ha presa?
Ed io gli risponderò: da un tipo particolare e determinato di
società, in cui l'ordinamento giuridico e le presupposte
condizioni di fatto rendano il valore corrispondente alla
quantità di lavoro.
Il Labriola non trova giusto il ravvicinamento che io (metafora per
metafora) ho fatto tra le merci, che nella economia marxistica
appaiono « cristallizzazioni di lavoro», e i beni, che
in economia pura potrebbero ben dirsi « quantità di
possibili soddisfazioni di bisogni cristallizzate».
«Finora (egli esclama) solo gli stregoni hanno potuto credere
o far credere che coi soli desideri si possa conglutinare una parte
di noi stessi in un bene qualunque». Ma che cosa significa
«conglutinare»? Il bene a, per procacciarcelo, ci costa
x lavoro di un dato genere: ecco la «gelatina di lavoro»
del Marx. L'economia pura dice, con formola più generale, che
ci costa quella massa di bisogni che dobbiamo lasciare
insoddisfatti: ecco la « gelatina», che potrebbe
cucinare l'economia pura. Non si tratta, nell'un caso, di una
realtà obiettiva, come par che creda il Labriola, e nel
secondo di una immaginata stregoneria; ma e nell'uno e nell'altro
caso dell'uso letterario di espressioni immaginose per designare
atteggiamenti ed elaborazioni del nostro spirito.
Al qual proposito il Labriola, quasi per restringere la portata di
quelle immagini che sono diventate usuali nel marxismo, dice che il
Marx, come scrittore, era un «secentista». Permetta a
me, modesto studioso di letteratura e autore di parecchie ricerche
sulla natura e la genesi del secentismo5 di protestare. Il
secentismo consiste nella ingegnosità, ossia
nell'introduzione della fredda intellettualità nella forma
estetica; donde il paragone sforzato, la metafora continuata, il
gioco e l'equivoco verbale. Ma il Marx abusa invece di espressioni
poetiche, che rendono con efficacia sfrenata il contenuto del suo
pensiero. Si ha in lui proprio l'inverso del secentismo: non il
disinteresse della forma rispetto al pensiero, ma un abbraccio
così violento di questo con quella, che la povera forma
rischia talvolta di rimanerne soffocata6.
Il lettore sarà stanco di queste repliche a una critica
negativa; ma la critica negativa è pure la sola che offra il
Labriola. Quale è la sua interpretazione del pensiero del
Marx? o quale accetta, di quelle messe in circolazione? Qui il
Labriola tace. È vero che altra volta mi parve scorgere nel
suo detto, che «il valore-lavoro è in Marx la premessa
tipica senza cui tutto il resto non è pensabile», un
consenso con la mia tesi. Ma veggo ora che debbo essermi ingannato,
e che quelle sue parole debbono avere un altro senso; il quale
però, avvertito dalla mala prova fatta, non cercherò
più oltre d'investigare. Intanto, il Sombart ha
«almanaccato»; il Sorel ha fatto «elucubrazioni
frettolose o premature»; il sottoscritto «non ha
capito» (p. 224 in fine). Siamo dunque innanzi a un mistero?
L'amico Labriola si compiace di ricordare (p. 50) l'aneddoto dello
Hegel, il quale avrebbe dichiarato che «un solo suo scolaro
l'aveva capito» (l'aneddoto, mi permetto aggiungere, è
narrato da Errico Heine, e in modo ben più spiritoso)7.
Si rinnova il caso per la teoria del valore del Marx?
In verità, pur non volendo sconoscere le difficoltà
che oppone il pensiero, e la forma del pensiero, del Marx, a me pare
che il mistero sia ormai chiarito. E dico ciò, non solo per
la ferma persuasione che ho circa la verità della mia
interpretazione, ma anche per l'accordo in cui mi trovo con parecchi
critici, che quasi al tempo stesso e con procedere indipendente sono
pervenuti a conclusioni simili alle mie. Una medesima tendenza
appare in ciò che scrisse sul proposito il Sombart nel 1894,
l'Engels nel 1895, io nel 1896, il Sorel nel 1897, io stesso
più a lungo nel 1897, e di nuovo il Sorel nel giugno del
passato anno 18988. Di certo, il vero e il falso non possono
stabilirsi per segni esteriori, essendo unico giudice di essi il
pensiero, che è giudice il quale concede infiniti appelli. Ma
è pur naturale che nelle condizioni sopraindicate sorga un
sentimento di fiducia, come se la discussione stia per esser chiusa,
e la questione prossima a esser collocata tra quelle risolute.
---
1 Socialisme et philosophie par Antonio Labriola (Paris, Giard et
Brière, 1899). Si veda pp. 207-224, Postscriptum à
l'édition française.
2 Si vedano i saggi II e III.
3 Distinzione che mi propongo di ribadire ancora, non
già per ostinatezza, ma perché la stimo necessaria e
urgente per la solida fondazione dei principi dell'Economia, e mi
è accaduto di osservare sovente i cattivi efletti che la
trascuranza di essa porta nelle discettazioni degli economisti.
4 Scrivo «eguaglianza», perché così scrive
il Marx e perchè alla questione presente è affatto
indifferente l'altra: se il rapporto di valore possa mettersi sotto
la forma matematica di un rapporto di eguaglianza. Per mia parte (e
seguendo in ciò gli edonisti), nego recisamente che il
rapporto di valore sia rapporto di eguaglianza. La dimostrazione
è stata già fatta da altri, e non è il caso di
ripeterla.
5 Croce, Giambattista Basile e il «Canto de li Canti»
(Napoli, 1891); Ricerche ispano-italiane, serie I, paragrafo ultimo
(Atti dell'Acc. Pontan., t. XXVIII, 1898); I predicatori italiani
del Seicento e il gusto spagnolo (Napoli, Pierre, 1899); I trattati
italiani del «concettismo» e Baltasar Gracian {Atti
dell'Acc. Pontan., t. XXIX, 1899).
6 Il Labriola, (che riproduce qua e là assai bene nel suo
stile quello del Marx) scrive nel saggio sul Manifesto dei
comunisti, 2ª ediz., p. 79: «Il Manifesto... non spande
lacrime su niente. Le lacrime delle cose si sono già rizzate
in piedi da sé, come forza spontaneamente
rivendicatrice». Le «lacrime» , che si rizzano
«in piedi», possono far rizzare i capelli «sulla testa» a un uomo di gusto
moderato; pure, anche questa espressione, se é violentemente
immaginosa, non è secentesca.
7 «Als Hegel auf dem Todbette lag, sagte er: — Nur Einer hat
mich verstanden ! — Aber gleich darauf fügte er verdriesslich
hinzu : — Und der hat mich auch nicht verstanden ! » (Heine,
Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland, libro
III).
8 Sombart, nell'Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik,
vol. VII, 1894, pp. 555-594; Engels, nella Neue Zeit, XIV, voi. I,
4-11, 37-44; Croce, Le teorie storiche del prof. Loria (ora in
questo vol., s. II): Sorel, nel Journal des économistes,
fase, del 15 maggio 1897 ; Croce, Per la interpetrazione e la
critica di alcuni concetti del marxismo (ora in questo voi., s.
III); Sorel, Nuovi contributi alla teoria marxistica del valore (nel
Giornale degli economisti), giugno 1898.
---
II
Credo perciò opportuno rivolgermi a quelle
«elucubrazioni» del Sorel, che il Labriola giudica
così severamente e sommariamente, per far intorno a esse
alcune avvertenze, non di confutazione, ma di sostegno, e per
chiarire qualche punto in cui può apparire ancora un
disaccordo, che forse non ha ragion d'essere.
Ma qui mi si conceda una protesta. Anche col Sorel il Labriola
è ora in guerra guerreggiata: il suo libro Discorrendo ecc.,
nato come una serie di lettere amichevoli al Sorel delle quali mi
feci io editore in Italia, si pubblica in francese con un'appendice
contro di me e una prefazione contro il Sorel. Causa del dissenso
è particolarmente ciò che si chiama oggi crisi del
marxismo.
Ora, se per «crisi del marxismo» s'intende l'affermata
necessità di una revisione e correzione delle idee
scientifiche, delle credenze storiche, del materiale di osservazioni
di fatto, che hanno corso nella letteratura marxistica, bene: a tale
crisi credo anch'io. Se s'intende anche una mutazione di programmi e
di metodi pratici, non -nego e non affermo, non essendomi mai
versato di proposito nell'argomento. Se il pericolo, dal timor del
quale sembra compreso e agitato il Labriola, che una qualsiasi crisi
del marxismo, o l'annunzio di essa, possa essere adoprata da coloro
che hanno interesse a sviare e a far disperdere il moto proletario,
esiste davvero, provideant consules. Ma, crisi o non crisi,
scientifica solamente o anche pratica, timori fondati o timori
fantastici ed eccessivi, sono tutte cose che non hanno che vedere
con le questioni da me mosse; le quali concernono l'erroneità
di tale o tale altra proposizione teorica o storica del marxismo, e
il modo in cui tale o tale altra di esse deve intendersi per tenersi
vera. Io sto su questo terreno, e sopra questo solamente accetto la
discussione. Potrò sbagliare, ma mi si deve dimostrare. Se mi
si dice invece, in cambio di risposta, che la crisi del marxismo
è opera della reazione internazionale, della quale gli
ingenui critici fanno il gioco, resterò certamente assai
stupito; ma non per questo mi sarò persuaso che la teoria
marxistica del valore sia vera, nel senso maccheronico, per esempio,
in cui è esposta nel noto opuscoletto di propaganda dello
Stern.
Il Sorel aveva prima supposto9, in modo molto ingegnoso, che il Marx
avesse costruito diverse sfere economiche, di cui la prima (quella
del valore-lavoro) fosse la più semplice: la seconda,
comprendente il fenomeno della rata media del profitto e la
formazione del costo di produzione, più complicata; la terza,
in cui si considera l'azione della rendita della terra, anche
più complicata. Passando dalla sfera più semplice alla
più complicata, si sarebbero ritrovate le leggi della
precedente, modificate dai nuovi dati introdotti, che avrebbero dato
origine a fenomeni nuovi.
Nel nuovo suo scritto, abbandona questa interpetrazione per essersi
persuaso che l'esperimento ideale del Marx non mirava già a
conseguire la spiegazione totale dei fenomeni economici per mezzo
della crescente complessità delle combinazioni. E, a mio
credere,, fa bene ad abbandonarla; non solo per la ragione verissima
da lui addotta, che la ricerca del Marx non è un sistema
economico totale, ma anche perché il procedimento da lui
supposto non spiegava come mai il Marx, nel considerare i fenomeni
economici della seconda e della terza sfera, si valesse di concetti
che hanno il loro posto solo nella prima. Non spiegava, insomma,
quello che io chiamai paragone ellittico, e che è la
difficoltà dell'opera del Marx, o, se si vuole,
dell'esposizione letteraria del suo pensiero. Se la rispondenza del
valore al lavoro si "attua solo nella semplificata società
economica della prima sfera, perché insistere nel tradurre in
termini della prima i fenomeni della seconda? perché chiamare
trasformazione del sopravalore ciò che si presenta come
naturale effetto economico di capitali, che debbono avere, per la
loro natura stessa di capitali, un profìtto? E, quella del
Marx, una spiegazione da principio a conseguenza, o non è
piuttosto un parallelo tra due fatti diversi, di cui si mettono in
risalto le diversità, rischiarandone le scaturigini sociali?
Ma il Sorel s'avvia ora appunto a siffatta conclusione, riprendendo
una felice espressione del suo primo scritto: che l'opera del Marx
non è rivolta a spiegare con leggi analoghe a quelle fisiche,
ma solo a dare «schiarimenti» parziali e indiretti
intorno alla realtà economica.
Il mezzo, del quale il Mai'x si vale nella ricerca (dice ora il
Sorel), è uno strumento metafisico: egli foggia una
metafisica dell'economia. Questa espressione potrà o no
piacere, secondo il vario senso che si dia alla parola
«metafisica»; ma il pensiero è giusto e vero. Il
Marx costruisce un esperimento ideale, che gli serve a fare
comprendere le sorti del lavoro nella società capitalistica.
Quali sono i termini dell'esperimento ideale del Marx, e in che
consiste la sua ipotesi? Io avevo scritto che il concetto del
valore-lavoro è vero per una società ideale, i cui
soli beni consistano in prodotti di lavoro, e in cui non siano
differenze di classi. Al Sorel non sembra necessario eliminare, come
ho fatto io, la divisione delle classi. Ma, poiché egli
scrive: «Il Marx concepisce, come il Ricardo, una
società meccanica, perfettamente automatica, nella quale la
concorrenza sia sempre al massimo di efficacia e gli scambi si
effettuino in ragione di rapporti generali; ed immagina che le
diverse qualità sociologiche abbiano intensità
misurabili e che questi numeri possano essere collegati da formole
matematiche; onde, in una simile società, l'utilità,
il bisogno, l'uso dei prodotti sono conseguenze della divisione in
classi e il valore perciò non sarà una funzione di
questa qualità, laddove esso è ben funzione delle
qualità di produzione; e l'utilità, il bisogno, non
possono apparire se non nelle forme della funzione, nei parametri
che si riferiscono alla divisione sociale», poiché
egli, dico, non fa, nella sua ipotesi, dipendere il valore-lavoro
dalla divisione delle classi, mi pare che ciò sia in sostanza
un prescinderne effettivo. Ed è, forse, più chiaro
prescinderne espressamente.
Avremmo dunque: 1°) Società economica lavoratrice senza
differenze di classi. Legge del valore-lavoro, 2°) Divisione
sociale delle classi. Origine del profìtto, il quale, solo in
comparazione col tipo precedente e in quanto del primo si
trasportino i concetti nel secondo, si può considerare
sopravalore. 3°) Differenza tecnica tra le varie industrie
richiedenti varia composizione di capitale (vario rapporto di
capitale costante e variabile). Origine del saggio medio del
profìtto, che, in confronto col tipo precedente, può
considerarsi come una trasformazione ed egualizzazione dei sopra
valori. 4°) Appropriazione della terra per parte di una classe
sociale. Rendita assoluta. 5°) Diversità qualitativa
delle terre. Rendita differenziale. Le quali rendite assoluta e
differenziale, solo in comparazione coi tipi precedenti appariranno
come ritagliate sulla massa dei sopravalori o dei profitti.
Il Sorel consente con me che, ottenutosi nel modo che si è
descritto il concetto del valore-lavoro, questo concetto non solo
non sia una legge nel senso di una legge fìsica, ma non sia
una legge neanche in senso etico, ossia tale che debba intendersi
come regola di ciò che dovrebbe essere. È una legge
(egli dice) «in senso tutto marxistico». Ciò
anch'io cercai di esprimere quando scrissi nella mia Memoria:
«E legge nella concezione del Marx, ma non già nella
realtà economica. È evidente che noi possiamo
concepire le divergenze rispetto a una misura come le ribellioni
della realtà di fronte a quella misura, la quale ha ricevuto
da noi dignità di legge».
Nell'errore d'interpetrare il concetto del Marx come una legge
ideale o etica ò caduto, a me pare, anche il giurista prof.
Stammler nella sua opera: Diritto ed economia secondo la concezione
materialistica della storia10. Egli è pienamente nel vero
quando, respingendo il paragone del Kautsky tra il concetto del
valore-lavoro e la legge di gravità (la quale si attua
pienamente negli spazi vuoti d'aria, perché la resistenza che
questa oppone produce poi effetti speciali), sostiene, che quella
non è nulla di analogo a una legge fisica. Per lui, invece,
la legge del Marx si giustifica (almeno formalmente) come tentativo
di ricerca di ciò che nei giudizi economici, posto
l'ordinamento della società capitalistica, sia obiettivamente
retto. I giudizi soggettivi possono differire; e ciò non
toglie che debba esservi un criterio obiettivo, che dirima il
diritto e il torto. Ma il campo economico può dar luogo mai a
un criterio obiettivo? Chi ha inteso bene il principio deireconomia
edonistica, deve rispondere di no. E se lo Stammler affaccia quel
concetto, è perché egli ha malamente negato carattere
e ufficio originale all'attività economica e, di conseguenza,
all'Economia in quanto scienza11.
Il Sorel crede che il procedimento del Marx abbia reso ormai i
servigi che poteva rendere, e non dia alcun aiuto nello studio, al
quale bisogna accingersi, delle moderne condizioni economiche. Se
non isbaglio, egli vuol dire che le speranze dei marxisti circa la
fecondità del metodo del Marx si vanno mostrando vane; e che
le pagine che quegli ha scritto nella storia della Economia sono
press'a poco tutto ciò che da quel metodo si poteva cavare.
Buona parte del terzo volume, in cui il Marx si comporta come un
semplice economista classico, e la grama e stentata produzione della
letteratura economica marxistica posteriore al Marx, sembrerebbero
comprovare col fatto il giudizio del Sorci.
Ma, se a me pare opera salutare questa del Sorel nel cercare
d'intendere e circoscrivere la portata delle ricerche economiche del
Marx, non potrei giudicare allo stesso modo i tentativi d'altri per
riformare le basi del sistema del Marx, non accettandone il metodo e
parte dei risultamenti. Alludo a un libro recente del dottor Antonio
Graziadei12, ch'è stato molto discusso in questi ultimi mesi
II Graziadei mira a dedurre il profitto indipendentemente dalla
teoria del valore: via già indicata dal prof. Loria, e la cui
fallacia dovrebbe apparire a primo sguardo cvidetite, senza
aspettare che tale venga provata dalla vanità del viaggio.
Un'economia, nella quale si prescinda dal valore, è una
Logica in cui si prescinda dal concetto, un'Etica in cui si
prescinda dall'obbligazione, un'Estetica in cui si prescinda dalla
espressione. Ma vediamo un po' come il Graziadei svolge il suo
pensiero.
Egli tenta, in primo luogo, di provare che nel Marx stesso la teoria
del profìtto è sostanzialmente indipendente da quella
del valore. Il profìtto (dice) consiste nel sopralavoro,
ossia nella differenza tra lavoro totale e lavoro necessario; onde
si può farlo nascere dal sopralavoro senza muovere dalla
forma valore. Ma distrugge egli stesso questa argomentazione, quando
più oltre (p. 10) obbietta, che, se il lavoro non è
lavoro produttivo, non dà luogo a profìtto. Appunto
perciò (rispondiamo noi), per essere in grado di parlare di
lavoro che sia produttivo, il Marx doveva muovere dal valore; e
appunto perciò, nel pensiero del Marx, teoria del
profìtto e teoria del valore sono indissolubilmente connesse.
Quanto al costruire esso, con sua responsabilità, una teoria
del profìtto che sia indipendente da quella del valore, il
Graziadei vi riesce in modo molto curioso: con lo scansare,
cioè, accuratamente le parole «valore» e
«lavoro», e col parlare invece solamente di
«prodotto». Il profìtto, secondo lui, non nasce
dal sopralavoro o dal sopravalore, ma dal sopraprodotto;
sicché si può, e si deve, nella teoria, partire dal
concetto di prodotto e mettere da banda il valore, ch'è
formazione superficiale, dell'ultimo stadio, del mercato.
Sopraprodotto! Ma il sopraprodotto in tanto è sopraprodotto
economico in quanto è un valore. Certo, il capitalista che
paghi il salario in natura, e, nel riprendere i beni da lui
anticipati, si appropri anche l'altra parte del prodotto
(sopraprodotto), può, invece di portare questa sul mercato,
consumarla esso direttamente (come nell'ipotesi del Graziadei). Ma
che il prodotto non venga portato sul mercato non vuol già.
dire che non abbia valore di scambio: tanto vero che il capitalista
l'ha ottenuto per mezzo di uno scambio tra lui e il lavoratore, e
perciò l'ha valutato in qualche modo.
Ed eccoci daccapo alla teoria del valore, alla quale si era cercato
invano di sfuggire. Anzi, poiché il Graziadei considera
esclusivamente l'economia del lavoro, eccoci daccapo al concetto
preciso del Marx del valore-lavoro13.
Il libro del Graziadei contiene anche talune correzioni alle
particolari teoriche del Marx sul profitto e sui salari.
Senonchò mi sia lecito notare che le correzioni, per dirsi
tali, dovrebbero concernere i principi direttivi e i concetti
scientifici. I nuovi fatti, che si vengano osservando, non infirmano
una teoria solidamente stabilita per mezzo dell'analisi degli
elementi; sebbene sia naturale che, col cangiare delle condizioni di
fatto, sorga una nuova casistica, che il ]Marx non poteva
considerare. Per quanto egli, nella sua varia e lunga vita di
scrittore e di agitatore politico, abbia fatto talvolta previsioni
dimostratesi in prosieguo fallaci, non credo abbia mai preteso (come
quel tale «sguaiato» Giosuè) « fermare il
Sole».
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9 Nel citato articolo del Journal des économistes.
10 Wirtschaft und Recht ecc., pp. 266-8, 658-9.
11 Si veda il saggio IV.
12 La produzione capitalistica (Torino, Bocca, 1899).
13 Permetta il Graziadei ch'io noti che non è la prima volta
ch'egli fa scoperte, che sono poi equivoci. Alcuni anni fa,
dibattendosi nella rivista La Critica sociale una polemica sulla
teoria della formazione del profitto nella dottrina del Marx, il
Graziadei (voi. IV, n. 22, 16 novembre 1894, p. 348) scriveva:
«Noi possiamo benissimo ideare una società, in cui, non
già col sopralavoro, ma col non lavoro esista il profitto.
Se, infatti, tutto il lavoro compiuto ora dall'uomo fosse surrogato
dall'opera delle macchine, queste, con una quantità di merci
relativamente piccola, ne produrrebbero una quantità enormemente maggiore. Ora, dato un assetto capitalistico della
società, questo fatto tecnico offrirebbe la base al fatto
sociale, che la classe dominante, potendo godere per sé sola
la differenza tra il
prodotto ed il consumo della macchina, verrebbe a disporre di una
eccedenza di prodotti sul consumo dei lavoratori, cioè di una
sovraproduzione, cioè di un profitto, molto più
considerevole di quanto alla produzione concorreva ancora la debole
forza muscolare dell'uomo». Ma qui il Graziadei dimenticava di
spiegare come mai potrebbero
esistere lavoratori, ed ottenersi profitto dal lavoro in una
società ipotetica, fondata sul non lavoro e in cui tutto il lavoro, già compiuto dall'uomo, verrebbe compiuto dalle
macchine. Che cosa farebbero ivi i lavoratori? L'opera di Sisifo o
delle Danaidi?
Nella sua ipotesi, i proletari o sarebbero mantenuti per
carità della classe dominante o finirebbero per isparire
rapidamente, distrutti dalla fame. Che se poi egli intendeva che le
macchine producessero automaticamente beni esuberanti per gli uomini
tutti di quella società, in tal caso faceva la semplice
ipotesi del Paese di Cuccagna.