Egregio amico,
La lettura della noterella, che aveste la cortesia di mandarmi,
intorno al modo di porre il problema dell'Economia pura1, mi dette
desiderio di discutere con voi quel punto; ma faccende varie mi
hanno costretto a differire fino a oggi l'attuazione del mio
proposito. Ed è stato bene. I saggi del vostro nuovo e ancora
inedito trattato di Economia pura, che sono stati pubblicati nel
fascicolo di marzo di questa Rivista2, hanno reso necessario disfare
in parte la trama d'idee che avevo tessuta in mente; perché in essi
voi avete modificato taluni dei punti, che a me parevano più
contestabili della vostra tesi.
Parecchie volte ho udito manifestare quasi un sentimento di fastidio
per codeste eterne discussioni sul valore e sul principio economico,
nelle quali s'indugia la scienza economica, quando potrebbe (si
dice), senza tante sottigliezze nell'elaborazione scolastica del
proprio principio, spargere lume sopra questioni storiche e
pratiche, che toccano il benessere delle società umane. Non sembra
che voi vi lasciate intimidire dal minacciato fastidio dei lettori;
e nemmeno io. E' forse in nostro potere comandare silenzio ai dubbi,
che agitano il nostro intelletto? E con qual criterio comandare
questo silenzio sì da essere poi sicuri di non danneggiare quelle
stesse questioni pratiche, che stanno a cuore ai più, e stanno a
cuore a noi stessi, che non siamo certo come i frati di altri tempi,
che si disinteressavano delle «faccende del secolo»? La scienza non
è forse, come Leibniz diceva, quo magis speculativa, magis
practica? — Dunque, tiriamo innanzi, cercando, col maggiore
scrupolo e con la maggiore autocritica di cui siamo capaci, di
risolvere i nostri dubbi, dacché troncarli non si può; e cercando,
d'altra parte, di non mettere in pubblico le nostre conclusioni se
non quando la cognizione possibilmente larga (e pur sempre
imperfetta) della «letteratura dell'argomento», ci dia qualche
fiducia che non ripetiamo cose già note ; o altre considerazioni ci
facciano sembrare opportuno ripetere e inculcare cose note sì, ma
non abbastanza.
Spetta alla nuova scuola economica, di cui voi siete così degno
rappresentante, il non piccolo merito di avere reagito contro le
tendenze antiscientifiche dello storicismo e dell'empirismo, e
restaurato il concetto di una scienza economica pura: il che poi non
vuol dir altro se non scienza che sia scienza; la parola «pura», se
non è pleonasmo, è schiarimento aggiunto per gl'ignoranti e per
gl'immemori di quel che scienza sia. L'Economia non è storia né
questioni pratiche; è scienza che ha principio proprio, designato
appunto come principio economico.
Ma, come ho avuto occasione di scrivere altra volta3, questo
principio, di cui si asserisce l'originalità, non mi pare che sia
stato ancora còlto nel suo carattere peculiare, né convenientemente
definito nelle sue relazioni con gli altri ordini di fatti, cioè coi
principi delle altre scienze. A quattro si potrebbero ridurre le
principali concezioni, che a me sembrano erronee, di esso; e le
chiamerei la concezione meccanica, l'edonistica, la tecnologica e
l'egoistica.
Voi ora mettete da parte le prime due, sembrandovi che le
considerazioni meccaniche e edonistiche appartengano alla Metafisica
e alla Psicologia. Ma vi confesso che non sono contento del modo con
cui eseguite questo pur lodevolissimo abbandono.
Certo, non dite più, come nello scritto precedente: «L'Èconomie pure
n'est pas seulement semblable à la Mécanique: c'est, à proprement
parler, un genre de Mécanique». Ma dite ancora che «l'Economia pura
adopera gli stessi procedimenti della Meccanica razionale, ed ha con
questa scienza parecchi punti di contatto». Se non vi fermate nella
considerazione della Meccanica, non è per la chiara coscienza che
l'attività economica è cosa del tutto diversa dai fatti concepiti da
essa, ma semplicemente perché vi sembra comodo prescindere da tale
considerazione, della quale non negate, anzi ammettete, la
possibilità.
Ora io, invece, dico recisamente che il fatto economico non è fatto
meccanico, ovvero che tra il lato meccanico di un fatto e il suo
lato economico non vi ha passaggio; e che la possibilità stessa
della considerazione meccanica viene esclusa, non come cosa dalla
quale si possa o no prescindere, ma come contradizione in termini,
che bisogna fuggire.
Volete la prova più semplice e lampante della natura non-meccanica
del principio economico? Considerate, di grazia, che nel fatto
economico si nota un carattere che ripugna affatto a quello
meccanico. Al fatto economico sono applicabili parole che suonano
approvazione o disapprovazione. L'uomo si conduce economicamente
bene o male, con vantaggio o con danno, con convenienza o senza
convenienza: si conduce, insomma, economicamente o
antieconomicamente. Il fatto economico è, perciò, fatto di
valutazione (positiva o negativa); laddove il fatto meccanico è
concepito come mero fatto bruto, cui non si possono attribuire
aggettivi di lode o di biasimo se non per metafora.
Mi pare che su questo punto dovremmo metterci facilmente d'accordo.
Per accettarlo, basta ricorrere all'osservazione interna. La quale
ci presenta questa distinzione profonda di meccanico e di
teleologico, di mero fatto e di valore. Voi, se non erro, rimettete
alla Metafisica il problema di ridurre il teleologico al meccanico,
il valore al mero fatto. Ma badate che la Metafisica non può
cancellare la distinzione; e solo si affaticherà, con maggiore o
minor fortuna, nella sua vecchia opera di conciliare gli opposti, o
di trarre i contrari dall'uno.
Prevedo ciò che si può addurre contro l'affermata natura
non-meccanica del principio economico. Si può dir questo. Ciò che
non è meccanico, non è misurabile: e i valori economici, invece, si
misurano; e, se finora non si è ritrovata l'unità di misura, sta in
linea di fatto che noi distinguiamo molto bene valori più grandi e
valori più piccoli, massimi e minimi, e formiamo scale di valori. Il
che basta per istabilire la misurabilità, e, di conseguenza,
l'intrinseca natura meccanica del valore economico. Ecco l'uomo
economico, che ha innanzi una serie di possibili azioni, a, b,
e, d, e, f, ...: le quali hanno per lui valore decrescente,
indicato dai numeri 10, 9, 8, 7, 6 . . . Appunto perché egli misura
i valori, si risolve per l'azione a = 10, e non per c = 8, o per f=:
6.
La deduzione non fa una grinza, posto il fatto della scala dei
valori, che viene illustrata dall'esempio. Posto il fatto: ma se
quel fatto fosse invece una nostra illusione? Se l'uomo
dell'esempio, invece di essere l'homo oeconomicus, fosse l'homo
outopicus o heterocosmicus, non trovabile neppure nelle costruzioni
della immaginazione?
Tale è appunto il mio parere. La pretesa scala dei valori è cosa
assurda. Allorché l'homo oeconomicus dell'esempio soprarecato
sceglie a, tutte le altre azioni [b, e, d, e, f, . . . ) non
sono per lui valori minori di a: sono semplicemente non-a;
sono ciò ch'egli scarta: sono non-valori.
Che se poi l'homo oeconomicus non potesse avere a, egli
opererebbe in condizioni diverse: in condizioni senza a.
Mutate le condizioni, l'atto economico cangerebbe, s'intende bene,
anch'esso. E poniamo che le condizioni siano tali che, per
l'individuo agente, b rappresenti l'azione da lui scelta, e e,
d, e, f, . . . quelle ch'egli tralascia di compiere, e che
sono tutte non-b, cioè non hanno valore. Si facciano ancora
mutare le condizioni, e si supponga che l'individuo si risolva per e,
e poi per d, e poi per e, e così via.—Questi vari
atti economici, ciascuno nato in particolari condizioni, sono tra
loro incommensurabili. Sono vari: ma ciascuno è perfettamente
rispondente alle condizioni date, e non può giudicarsi se non
rispetto a queste condizioni.
Ma, in tal caso, che cosa sono quei numeri 10, 9, 8, 7, 6...? — Sono
simboli. — Simboli di che? Che cosa vi ha di reale sotto il simbolo
numerico? — Ciò che vi ha di reale è il cangiar delle condizioni di
fatto; e quei numeri designano il seguirsi dei cangiamenti: né più
né meno di ciò che designa la serie alfabetica, alla quale vengono
surrogati.
L'assurdo contenuto nel concetto dei valori maggiori o minori è,
insomma, il presupposto, che un individuo possa trovarsi
contemporaneamente in condizioni diverse. L'homo ceconomicus non é
nel tempo stesso in a, b, c, d, e, f, . . . ; ma, quando è
in b, non è più in a; quando è in c, non è più in b.
Egli non ha innanzi se non un'azione da lui accettata, la quale
esclude tutte le altre, che sono infinite, e che per lui
rappresentano solamente azioni non prescelte (non-valori).
Certo, nel fatto economico entrano oggetti fisici, i quali, appunto
perché fisici, sono misurabili. Ma l'Economia non conosce cose e
oggetti fisici, sibbene azioni. L'oggetto fisico è semplice materia
bruta dell'atto economico: misurando esso, si resta nel mondo
fisico, non si passa all'economico. Ovvero, quando si comincia a
misurare, l'atto economico è già, volato via. — Voi dite che
«l'Economia politica non si occupa se non delle scelte, che cadono
su cose le cui quantità sono variabili e suscettibili di
misurazione»; ma perdonatemi, egregio amico, sareste assai
imbarazzato se doveste giustificare questa restrizione affatto
arbitraria; e se doveste mostrare che la misurabilità operi in
qualche modo sull'economicità.
Credo di avere spiegato, brevemente ma a sufficienza per un buon
intenditore quale voi siete, le ragioni per le quali la concezione
meccanica del principio economico è insostenibile. Se nelle
questioni che si dicono economiche entrano calcoli e misurazioni, vi
entrano appunto perché ed in quanto non sono questioni di Economia
pura.
Questo fatto non-meccanico, ch'è il fatto economico, voi lo chiamate
la scelta. E sta bene. Ma scegliere importa scegliere
consapevolmente. Una scelta che si faccia inconsapevolmente, o non è
scelta o non è inconsapevole. Voi parlate di «azioni inconscie»
dell'uomo; ma queste non possono essere azioni dell'uomo in quanto
uomo, sibbene, tutt'al più, fatti dell'uomo in quanto è trattato
come animale o come macchina. Saranno fatti istintivi; e l'istinto
non è scelta, fuor che per metafora. E perciò gli esempì che
adducete di cani, di gatti, di passeri, di topi e di asini di
Buridano, non sono atti di scelta; e per conseguenza neanche atti
economici. A voi pare che l'economia degli animali sia una scienza
poco feconda, che si esaurisce nelle descrizioni. Guardate meglio e
v'accorgerete che quella scienza non esiste. Un'economia degli
animali, naturalisticamente concepiti, non è stata scritta, non già
perché non ne franchi la spesa, ma perché non si può scriverla.
Donde si potrebbe cavarla se non da libri come il Roman de
Renart e gli Animali parlanti?
Questa critica deve menarci a concepire il fatto economico come atto
dell'uomo: ossia come pertinente all'attività umana.
E da questo riconoscimento si desume a sua volta la vera critica da
rivolgere alla concezione edonistica del principio economico. Voi
dite che «le equazioni dell'economia pura esprimono semplicemente il
fatto di una scelta, e possono essere ricavate indipendentemente
dalla nozione di piacere e di dolore»; ma ammettete insieme che il
fatto della scelta «si possa esprimere egualmente bene col fatto del
piacere».
Il vero è, che ogni atto di scelta economica è, insieme, un fatto di
sentimento: di sentimento piacevole, se la scelta è economicamente
ben condotta; di sentimento spiacevole, se ò mal condotta.
L'attività dell'uomo si svolge non sotto la capanna pneumatica, ma
nella psiche umana; e un'attività, che si svolge bene, reca come
riflesso un sentimento di piacere, e quella che si svolge male, un
dispiacere. L'utile economico è, insieme, piacevole.
Senonchè questo giudizio non è convertibile. Il piacevole non è
l'utile economico. Nell'aver fatto questa conversione consiste
l'errore della teoria edonistica. Il piacevole può apparire
scompagnato dall'attività propriamente umana, o accompagnarsi a una
forma di umana attività, che non sia l'economica. Qui è la
distinzione profonda tra piacere e scelta. La scelta è, in concreto,
inseparabile
dal sentimento di piacere e di dispiacere; ma questo sentimento è
separabile dalla scelta, e s'incontra, infatti, indipendentemente da
essa.
Se la Psicologia s'intende (come di solito s'intende) quale scienza
del meccanismo psichico, l'Economia non è scienza psicologica. Ciò
non ha compreso il signor von Ehrenfels, di cui non so se abbiate
letto i due volumi, che ha fin oggi messi fuori, di Sistema della
teoria del valore4. L'Ehrenfels, dopo essersi ravvolto per centinaia
di pagine in disquisizioni psicologiche, vuole, in ultimo,
dimostrare che la sua definizione del valore rimane salda, quale che
sia la teoria psicologica che si accetta. Il che egli fa, come
dichiara (§ 87), non perché dubiti di sé stesso, ma per assicurare
le conclusioni economiche, così importanti ai problemi pratici della
vita, contro gli assalti ingiustificati, che vengono da scuole
psicologiche diverse dalla sua. Procedere da avvocato, che scriva
una comparsa conclusionale e chieda parecchie cose congiunte
col subordinatamente» . Che all'economista non occorra
indugiarsi nei particolari delle dottrine psicologiche, è vero:
tanto vero che il prof, von Ehrenfels poteva risparmiar le sue: ma
non mi par vero che l'Economia resti la medesima qualunque teoria
psicologica si ammetta. L'unità della scienza importa che una
modificazione sopra un punto abbia sempre qualche ripercussione
sugli altri; e massima è la ripercussione allorché si tratta del
modo di concepire due fatti, distinti ma inseparabili, come il fatto
economico e il fatto psichico.
Il fatto economico non è, dunque, fatto edonistico, né, in genere,
meccanico. Ma, come fatto dell'attività dell'uomo, resta ancora da
determinare se sia di conoscenza o di volontà, se teoretico o
pratico.
Per voi, che lo concepite come scelta, non può esser dubbio che sia
fatto di attività pratica, ossia di volontà. E questa conclusione è
anche la mia. Scegliere qualcosa non può significare se non volerla.
Ma voi venite ad oscurare alquanto siffatta conclusione, quando
parlate di azioni logiche e di azioni illogiche, e le azioni
propriamente economiche ponete tra le prime. Logico e illogico
rimandano chiaramente all'attività teoretica. Un'azione «logica» o
«illogica» sarà modo di dire comune, ma non certo esatto e rigoroso.
Il lavoro logico del pensiero è ben distinto dall'atto della
volontà. Ragionare non è volere.
Né volere è ragionare: ma il volere suppone il pensiero, e perciò la
logica. Chi non pensa non può nemmeno volere. Intendo di una volontà
quale ci è nota per coscienza ed esperienza; non di un metafisico Wille
alla Schopenhauer.
Nella conoscenza, in quanto necessario presupposto dell'azione
economica, trova, se non giustificazione, spiegazione il vostro
distinguere «azioni logiche e illogiche». Le azioni economiche sono
sempre (diciamo pure così) azioni « logiche», cioè precedute da atti
logici: ma bisogna tener ben distinti i due momenti, il fatto dal
suo presupposto. Giacché dalla mancata distinzione dei due momenti è
nata l'erronea concezione del principio economico come fatto
tecnologico. Ho criticato a lungo in altri miei scritti questa
confusione di tecnica ed economia; e mi permetto di rimandare a quel
che ne ho scritto, così nella recensione del libro dello Stammler
sulla Economia e il Diritto, come alle più esatte analisi contenute
nella mia recente memoria sull'Estetica. Lo Stammler sostiene
appunto che il principio economico non può essere se non concetto
tecnologico.
A chi voglia scorgere a colpo d'occhio la differenza tra il tecnico
e l'economico, suggerirei di considerare bene in che consista un
errore tecnico, ed in che un errore economico. È errore tecnico
l'ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare:
per esempio, ritenere che si possano porre travi di ferro molto
pesanti sopra mura sottili senza che queste ultime rovinino. È
errore economico non mirar diritto al proprio fine: voler questo e
insieme quello, ossia non voler veramente né questo né quello.
L'errore tecnico è errore di conoscenza; l'errore economico è errore
di volontà. Chi sbaglia tecnicamente sarà chiamato (se lo sbaglio ò
grossolano) ignorante; chi sbaglia economicamente, è uomo che non si
sa condurre nella vita: fiacco e inconcludente. perché, come è noto
e proverbiale, si può esser «dotti» senz'essere «uomini» (pratici, o
compiuti).
Dunque, il fatto economico è un fatto di attività pratica. Siamo
giunti al porto con questa definizione? Non ancora. La definizione è
ancora incompleta, e, per compierla, ci conviene non solamente
percorrere un altro tratto di mare, ma evitare un altro scoglio:
ch'è quello della concezione del fatto economico come fatto
egoistico.
Il quale errore sorge così: se il fatto economico è un'attività
pratica, bisogna pur dire in che cosa quest'attività si distingua
dall'attività morale. Ma l'attività morale viene definita come
altruistica: dunque, si conclude, il fatto economico sarà egoistico.
In quest'errore ò caduto, tra gli altri, il nostro valente prof.
Pantaleoni nei suoi Principi d'economia pura e in altri
scritti.
L'egoistico non è qualcosa di semplicemente diverso dal fatto
morale, ma è l'antitesi del fatto morale: è l'immorale. Per questa
via, col fare del principio economico il medesimo dell'egoismo,
anziché a distinguere l'economia dalla morale, si viene a
subordinare quella a questa, e perfino a negarle diritto
all'esistenza, riconoscendola come qualcosa di moramente negativo,
come un pervertimento dell'attività stessa morale.
Tutt'altro è il fatto economico. Esso non sta in antitesi col fatto
morale, ma nel rapporto pacifico di condizione a condizionato; come,
cioè, la condizione generale, che rende possibile il sorgere
dell'attività etica. In concreto, ogni azione (volizione) dell'uomo
è o morale o immorale, non potendosi concepire azioni moralmente
indiffe renti. Ma tanto il morale quanto l'immorale sono azioni
economiche; il che vuol dire che l'azione economica, per sé presa,
non è né morale ne immorale. La fermezza del carattere, per esempio,
è attributo così dell'onest'uomo come del birbante.
Mi pare che voi, a tentoni, vi avviciniate a questa concezione del
principio economico, come dell'azione pratica che, presa in
astratto, non è né morale né immorale; quando, in un punto del
vostro ultimo scritto, escludete dalla considerazione economica le
scelte che abbiano motivo altruistico; e, più innanzi, eseludete
anche quelle che siano immorali. Ora, poiché le scelte sono di
necessità o altruistiche o egoistiche, o morali o immorali, per
uscir d'impaccio non vi resta se non la via che io vi apro: di
considerare cioè l'azione economica come l'azione pratica in quanto
viene, per astrazione, vuotata di ogni contenuto, morale o immorale.
Potrei ancora estendermi sopra questa distinzione, e mostrare
com'essa abbia il suo analogo nell'attività teoretica, dove il
rapporto dell'economico all'etico si ripete nella forma del rapporto
dell'estetico al logico. E potrei addurre la ragione per la quale le
produzioni scientifiche ed estetiche non possono esser oggetto della
scienza economica, ossia non sono prodotti economici. E, a dir poco,
stravagante quella che reca in proposito il prof. von Ehrenfels; il
quale osserva che «i rapporti di valore sopra cui riposano i fatti
logici ed estetici sono così semplici (!) e trasparenti (!) che non
richiedono (!) speciale teoria economica». Non dovrebbe esser
difficile avvedersi che i valori logici od estetici sono valori
teoretici, e non pratici, come è invece l'economico; e che non si
può fare un'economia del teoretico in quanto tale.
— Allorché, qualche anno fa, il compianto Mazzola mi mandò la
prolusione nella quale egli aveva discorso dell'Economia e
dell'Arte, ebbi occasione di scrivergli, e poi di dirgli a voce, che
ben più profonde relazioni si potevano scoprire tra i due ordini di
fatti; ed egli mi esortò ad esporre le mie osservazioni e ricerche.
Il che ho adempiuto nello scritto snìì'Estetica, citato di sopra; e
mi duole di essermi dovuto citare tante volte verso di voi e innanzi
al pubblico, ma qui mi ci costringe bisogno di brevità e di
chiarezza.
Ecco, ottimo amico, rapidamente spiegato come io giunga alla
definizione del fatto economico, che mi piacerebbe vedere a capo dei
trattati di Economia: Il fatto economico è l'attività pratica
dell'uomo in quanto si consideri per sé indipendentemente da ogni
determinazione morale o immorale.
Posta questa definizione, si vedrà anche che il concetto di utile, o
di valore, o di ofelimo, non è altro se non l'azione economica
stessa, in quanto ben condotta, ossia in quanto è veramente
economica. Allo stesso modo che il vero è l'attività stessa del
pensiero, e il buono è l'attività stessa morale.
E discorrere di cose (oggetti fisici), che hanno o non hanno valore,
si svelerà semplice uso metaforico per significare quelle cause che
reputiamo efficaci a produrre gli effetti, che noi vogliamo, e che
sono perciò i nostri fini. — A vale b, il valore di
a è b, non significa (gli economisti della nuova
scuola ben lo riconoscono) a = b; ma neanche, com'essi
dicono, a>b; ma che a ha per noi valore, e b
non ne ha punto. E il valore (come voi sapete) non esiste altro che
nell'istante dello scambio, cioè della scelta.
Riallacciare a queste proposizioni generali le varie questioni che
si dicono di scienza economica, è assunto di chi scriva uno speciale
trattato di Economia. E assunto vostro, egregio amico, se, dopo
averle esaminate, vi sembreranno accettabili. A me pare ch'esse
soltanto valgano ad assicurare l'indipendenza dell'Economia non solo
verso la Storia e la Pratica, ma verso la Meccanica, la Psicologia,
la Gnoseologia e l'Etica.
Napoli, 15 maggio 19001.
----
1 Comment se pose le problème de l'economie pure. Mémoire presente
en décembre 1898 à la Société Stella.
2 Giornale degli economisti, marzo 1900, pp. 216-235.
3 Rivista di sociologia, a. III, fasc. VI, pp. 746-8; si veda
ora in questo vol., p. 173.
4 Dott. Christian v. Ehrenfels (professore nell'università di
Praga), System der Werttheorie. vol. I, Allgemeine
Werttheorie, Psychologie des Begehrens (Leipzig, Reisland,
1897), vol. II, Grundziige einer Ethik (ivi, 1898).
5 A questa lettera il Pareto rispose nello stesso Giornale deigli
econominti, agosto 1900, pp. 139-162.
----
II
Egregio amico,
Il nostro dissenso sul modo di concepire il fatto economico ha la
più forte radice nel dissenso sopra una questione di metodo e
un'altra di presupposti. Vi confesso che uno degli intenti della mia
prima lettera era appunto di spingervi a tali spiegazioni, che il
dissenso sui due punti accennati si facesse evidente. Ridurre le
controversie alla loro più semplice espressione, mettere a nudo i
contrasti ultimi, è, voi ne converrete, un lavorare verso la verità.
Accennerò brevemente alle due questioni. In quella di metodo, se
sono d'accordo con voi nel rivendicare i diritti della elaborazione
logica, astrattiva e scientifica di fronte all'elaborazione storica
(o sintetica, come voi dite), non posso poi ammettere che quella
prima elaborazione porti seco alcunché di arbitrario, né che si
possa compierla indifferentemente per una via o per l'altra. Voi
parlate di ritagliare da un fenomeno concreto una fetta, e studiare
questa soltanto; ed io vi domando come farete a ritagliare quella
fetta? Giacché si tratta in questo caso non di un pezzo di pane o di
cacio in cui possiamo introdurre materialmente il coltello, ma di
una serie di rappresentazioni, che abbiamo nella nostra coscienza,
nelle quali non possiamo far penetrare se non la luce del nostro
intelletto analizzatore. Voi dovrete, dunque, per tagliare la fetta,
compiere un'analisi logica; ossia far prima ciò che vi proponete far
dopo. Il vostro «tagliar la fetta» è già un risolvere la questione
del quid, nel quale consiste il fatto economico. Voi presupponete un
criterio per distinguere ciò che assumete come oggetto della vostra
esposizione e ciò che lasciate in disparte. Ma il criterio, o il
concetto direttivo, non può esservi dato se non dalla natura stessa
della cosa, e dovrà a questa conformarsi.
Sarebbe, per esempio, conforme alla natura della cosa ritagliare,
come voi volete fare, solo quel gruppo di fatti economici che cadono
sopra oggetti suscettibili di misurazione? Quale legame intrinseco
ha questa circostanza, meramente accidentale, della misurabilità
degli oggetti che entrano nell'azione economica, con l'azione
economica in sé stessa? Induce forse la misurabilità una
modificazione nel fatto economico, cangiandone la natura, ossia
dando luogo a un altro fatto? Se sì, dovete mostrarlo. Per mio conto
non vedo che l'azione economica cangi natura, o che concerna un
sacco di patate o che consista in uno scambio — di attestazioni di
tenerezza!
Nella vostra risposta voi parlate della opportunità di non fermarsi
sopra fatti troppo semplici, pei quali «non vale la pena di mettere
in moto la gran mole dei ragionamenti matematici». Ma questa
opportunità si riferisce alla pedagogica della cattedra o del libro,
non già alla scienza in sé stessa, della quale solamente ora
discorriamo. È ben chiaro che chiunque parli o scriva insiste più
sopra quelle parti che crede più difficili a essere intese dai suoi
uditori e lettori, 0 di maggior utile a essere risapute. Ma chi
pensa, ossia chi parla con sé medesimo, ha l'occhio a tutte le
parti, senza predilezioni e senza esclusioni. A noi ora importa il
pensare, ch'è il farsi della scienza, e non il modo di comunicare
questa. E, nel pensare, non possiamo concedere arbitri.
Né bisogna lasciarsi traviare dall'analogia con le classi di fatti,
formate dalia zoologia e da altre discipline naturali. Le
classificazioni della zoologia e della botanica non sono operazioni
scientifiche, ma semplici prospetti, e, considerate in rapporto alla
cognizione veramente scientifica, sono arbitrarie. Chi ricerca la
natura dei fatti economici non intende già a mettere insieme,
prospetticamente e grossamente, gruppi di casi economici, come il
zoologo o il botanico usano, manipolando e mutilando le
inesauribili, infinite varietà e determinazioni delle creature
viventi.
Sullo scambio tra scienza ed esposizione della scienza è fondata
anche la credenza che si possono tenere diverse strade per giungere
a dimostrare la medesima verità. Se pure in voi, che siete un
matematico, quella credenza non nasce da una falsa analogia col
calcolo. Ora, il calcolo non è scienza, perché non dà le ragioni
delle cose; e perciò la logica matematica è logica per modo di dire,
una varietà della logica formalistica, e non ha che vedere con la
logica scientifica o inventiva.
Passando alla questione dei presupposti, voi certo vi meraviglierete
se vi dirò, che qui il dissenso tra noi consiste nel voler voi
introdurre nella scienza economica un presupposto metafisico,
laddove io voglio escludere ogni presupposto metafisico e tenermi
alla sola analisi del fatto. L'accusa di « metafisico» vi sembra
quella che meno d'ogni altra possa mai colpirvi. Pure, il vostro
latente presupposto metafisico è: che i fatti dell'attività
dell'uomo siano della stessa natura dei fatti fisici; che per gli
uni come per gli altri noi non possiamo se non osservare regolarità
e dedarre da codeste regolarità conseguenze, senza penetrarne mai
l'intima natura; che questi fatti siano tutti egualmente fenomeni
(il che vuol dire che presupporrebbero un noumeno, che ci sfugge e
del quale sarebbero manifestazioni). Perciò, mentre io ho intitolato
il mio sciitto: «sul principio economico», voi avete intitolato il
vostro: «sul fenomeno economico».
In qual modo giustificherete voi questo presupposto se non con una
metafisica monistica, per es., con quella spenceriana? Ma, se lo
Spencer è stato antimetaflsico e positivista a parole, io dico che
bisogna esser tale coi fatti; e perciò non accetto nemmeno la sua
metafisica e il suo monismo, e mi attengo all'esperienza. La quale
mi attcsta la distinzione fondamentale tra esterno ed interno, tra
fisico e spirituale, tra meccanico e teleologico, tra passività e
attività; e distinzioni secondarie nel seno di questa, fondamentale.
Ciò che la Metafisica mette insieme confondendo, la Filosofia
distingue (e unisce nell'atto stesso); l'astratta considerazione
unitaria è morte della filosofia. Fermandoci alla distinzione di
fisico e di spirituale, se i fatti esterni, posti dalle scienze
empiriche, fisiche e naturali, sono sempre fenomeni, perché il loro
principio è fuori di loro per definizione, i fatti interni o
dell'attività dell'uomo non possono dirsi fenomeni, perché essi sono
il loro principio stesso.
Con quest'appello all'esperienza e con questo rifiuto di ogni
mescolanza metafisica, mi metto sul terreno adatto a combattere le
obiezioni che voi movete alla mia concezione del fatto economico. —
Voi credete che l'oscurità del termine «valore» venga da ciò, che
esso designa un fatto molto complesso, una collezione di fatti
compresi in un'unica parola. Per me, invece, la difficoltà di esso
nasce dal designare un fatto semplicissimo, un summum genus, ch'è il
fatto dell'attività stessa dell'uomo. Attività è valore. Per noi non
vale se non ciò che è sforzo di fantasia, di pensiero, di volontà,
dell'attività nostra in ogni sua forma. Come il Kant diceva che non
v' ha altra cosa nell'universo che possa dirsi buona se non la buona
volontà, così, estendendo, si può dire che non v'ha altra cosa
nell'universo, che valga, se non il valore dell'attività umana. Del
valore, come dell'attività, non potete chiedere una definizione,
come si dice, genetica, ossia composita: il semplice e l'originario
è, geneticamente, indefinibile. Il valore si osserva e si pensa in
noi, nella nostra coscienza1.
Questa osservazione mostra anche che il summum genus «
valore» o « attività spirituale» dà luogo a forme irriducibili, che
sono, in primo luogo, quelle dell'attività teoretica o dell'attività
pratica, dei valori teoretici e dei valori pratici. — Ma che cosa
significa pratico? — voi ora mi domandate. Ed io credo di aver già
risposto, chiarendo, ch'è teoretico tutto ciò ch'è opera di
contemplazione, e pratico tutto ciò ch'è opera di volontà. Volontà è
termine oscuro? Oscuri saranno piuttosto i termini di luce, calore,
o simili, ma non quello di volontà. Che cosa sia la volontà, conosco
bene: mi ci trovo a faccia a faccia in tutta la mia vita d'uomo.
Anche per scrivere questa lettera, oggi, in una stanza d'albergo, e
scotendo da me la pigrizia della villeggiatura, ho voluto; e, se ho
tardato per due mesi la risposta, gli è che sono stato così fiacco
da non saper volere.
Vedete da ciò che la questione da me mossa, se voi per « scelta»
intendiate la scelta conscia o l' inconscia, non è punto questione
indifferente. Essa si risolve in quest'altra, se il fatto economico
sia o no atto di volontà. «Ciò non muta il fatto della scelta», dite
voi. Altro che lo muta! Se parliamo di scelta conscia, abbiamo
innanzi un fatto spirituale; se di scelta inconscia, un atto
naturale; e le
leggi del primo non sono quelle del secondo. Plaudo al concetto
vostro che il fatto economico sia l'atto della scelta; ma sono
costretto a intendere per scelta la scelta volontaria. Altrimenti,
finiremmo col parlare non solo delle scelte dell'uomo che dorme
(quando si tramuta da un lato sull'altro), ma di quelle degli
animali, e poi, perché no?, delle piante, e perché no ancora?, dei
minerali, percorrendo la china ruinosa per la quale è scivolato il
mio amico prof. C. Trivero in una sua di recente pubblicata, Teoria
dei bisogni, che Dio gli perdoni!2
Quando io ho definito il fatto economico: «l'attività pratica
dell'uomo in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni
determinazione morale o immorale», non ho già compiuto un atto di
arbitrio, che possa facoltare altri a compierne di simili nella
scienza, la quale non tollera arbitri; ma ho semplicemente distinto
ancora, nella forma attività pratica, due sottoforme o gradi:
attività pratica pura (economica) ed attività pratica morale
(etica): volontà meramente economica e volontà morale. C'è equivoco
nel vostro rimprovero che, quando io parlo di approvazione o
disapprovazione destate dall'attività economica, consideri il fatto
dal punto di vista sintetico e non analitico, e che l'approvazione o
la disapprovazione sia un elemento estraneo. Non parlavo già (e
credevo d'essermi bene spiegato) di approvazione o disapprovazione
morale, intellettuale o estetica. No. Dicevo, e ripeto, che
all'attività economica va congiunto necessariamente un giudizio di
approvazione, o riprovazione, meramente economico. « Col dire che il
vino del Reno mi è utile, ha un valore per me, mi è ofelimo, voglio
solo dire che mi piace; e non intendo come questa relazione
semplicissima possa essere bene o mal condotta». Perdonatemi se, in
questo vostro periodo, ho dato spicco alle parole: col dire.
Qui sta il punto. Certo, il semplice dire non dà luogo a un interno
giudizio di approvazione, o di disapprovazione economica: darà luogo
a un'approvazione o disapprovazione grammaticale e linguistica,
ossia estetica, secondo che il dire sarà chiaro o confuso, bene
esprimente o male esprimente. Ma non si tratta del dire: si tratta
del fare, ossia dell'azione voluta nell'atto ch'evoluta, della
scelta in atto. E vi pare che l'acquistare e consumare una bottiglia
di vin del Reno non implichi un giudizio di approvazione o di
disapprovazione? Se io sono molto ricco, se è mio scopo nella vita
procacciarmi diletti sensuali momentanei, e il vin del Reno so che
me ne procaccia uno, compro e bevo il vin del Reno e approvo il mio
atto: sono soddisfatto di me. Ma se io non voglio indulgere alla
gola, e se ho il mio danaro tutto disposto ad altri fini che voglio
come preferibili, e, a dispetto di ciò, cedendo alla tentazione
dell'istante, compro e consumo il vin del Reno, eccomi in
contradizione con me stesso, dentro me stesso, e il momentaneo
diletto sensuale sarà seguito da un giudizio di disapprovazione, da
un vero e proprio rimorso economico.
Per mostrarvi come in tutto ciò io prescinda da ogni considerazione
morale, vi darò un altro esempio: quello di un briccone, che reputi
ofelimo a sé di assassinare un uomo per derubarlo di una somma di
danaro, e che sul punto dell'assassinio, pur restando briccone
nell'animo, ceda a un commovimento di paura o a un'impressione, per
lui patologica, di pietà, e non assassini. Badate ai termini
dell'ipotesi. Il briccone si darà poi dell'asino e dell'imbecille, e
proverà rimorso per la sua condotta contradittoria e inconcludente;
ma non già rimorso morale (che non ne è capace, per ipotesi),
sibbene, per l'appunto, rimorso meramente economico.
Un'altra confusione, facile a dissipare, mi sembra che sia nella
vostra controcritica alla mia critica della scala dei valori
(economici). Voi dite che «non occorre che uno si possa trovare
contemporaneamente in condizioni diverse: basta che possa figurarsi
quelle diverse condizioni». Davvero voi potete figurarvi di essere
contemporaneamente in condizioni diverse? La fantasia ha le proprie
leggi, e non permette la figurazione del non figurabile. Voi potete
ben dire che vi figurate la cosa: la parola è docile; ma, quanto al
figurarvela realmente, perdonatemi, è un altro paio di maniche. Non
vi riuscirete, come non vi riesco io. Ditemi di figurarmi un leone
con una testa d'asino, e vi servo subito: ma ditemi di figurarmi un
leone che stia nel tempo stesso in due posti diversi, non vi riesco.
Mi figurerò, se vi piace, due leoni simili, due menecmi; ma non un
medesimo in due posti diversi a un tempo. La fantasia ritrae la
realtà, ma la realtà possibile, non l'impossibile o quella che è
contradittoria. Dunque, la mia dimostrazione dell'assurdità della
scala dei valori si estende così alla realtà accaduta come alla
realtà possibile. Anzi, discorrendosi di scienza, in astratto, essa
era riferita appunto alla mera considerazione dei possibili.
Non so se ho risposto a tutte le vostre obiezioni; ma mi sono
industriato di rispondere a tutte quelle che mi sembrano
fondamentali. Una disputa, nella quale siano in gioco questioni di
metodo e di principi, non è necessario sia spinta pedantescamente
alle estreme minuzie; e si deve fare assegnamento in certo modo
sull'aiuto di tali lettori, che, mettendosi nella situazione di
spirito dei due disputanti, eseguano da sé le ulteriori inferenze.
Voglio solo aggiungere essere mia fermissima convinzione che la
reazione contro la metafisica (provvida reazione in quanto ha
liberato l'opera della scienza dalle mescolanze con gli arbitri del
sentimento e della fede) è stata da molti portata tant'oltre da
danneggiare la scienza stessa. I matematici, che hanno vivo il senso
della purezza scientifica, hanno recato gran beneficio nella scienza
economica col rialzare in essa la dignità dell'analisi astratta,
offuscata ed oppressa dalla congerie degli aneddoti della scuola
storica. Ma, come accade, vi hanno introdotto anche i pregiudizi
della loro professione; ed, essendo essi studiosi delle condizioni
generali del mondo fisico, il pregiudizio, che le matematiche
possano prendere di fronte all'Economia (ch'è scienza dell'uomo, di
una forma dell'attività cosciente dell'uomo) l'atteggiamento
medesimo, che legittimamente prendono di fronte alle scienze
empiriche della natura.
Da ciò che son venuto esponendo, voi ricaverete agevolmente per
quale e quanto gran tratto andiamo d'accordo nello stabilimento dei
principi dell'Economia, e per quanto e quale divergiamo. Se le mie
nuove osservazioni contribuissero a ridurre ancora il tratto di
divergenza, ne sarei ben lieto.
Perugia, 20 ottobre 19003.
---
1 Mi viene sott'occhio l'articolo del prof. A. Graziadei, Intorno
alla teoria edonistica del valore (in Riforma sociale. 15
settembre 1900), nel quale l'A. mostra che non si riesce, per
isforzi che si facciano, a trovare l'addentellato della teoria
puristica del valore con le dottrine della Psicofisica e della
Psicologia. Credo bene che debba esser così. La Psicofisica e la
Psicologia sono discipline naturalistiche e non possono dar lume sul
fatto economico, che è atto spirituale e di valore. Mi sia lecito
ricordare che, son già tre anni (si veda saggio III), io mettevo in
guardia contro la confusione della Economia pura con la Psicologia.
Chi ricorra alla Psicologia (naturalistica) per intendere l'atto
economico, andrà sempre incontro alla delusione, provata questa
volta dal Graziadei. Avevo arrecato le ragioni per le quali
l'Economia non può star di casa dove gli psicologisti e gli edonisti
dicono: ora il Graziadei ha interrogato i portinai (Fechner, Wundt.
ecc.), ed ha appreso — che non sta di casa colà. Alla buon'ora!
2 Camillo Trivero, La teoria dei bisogni (Torino, Bocca,
1900). L'autore intende per «bisogno» «lo stato di un essere
qualsiasi conscio o inconscio (uomo, animale, pianta, cosa), in cui
esso non può rimanere»: tanto che può dirsi «che tutti i bisogni si
condensino da ultimo nel bisogno o fine supremo di essere o di
diventare». Il bisogno per lui è, dunque, la realtà stessa. Ma
poiché, d'altra parte, asserisce di non volere, nonché risolvere,
nemmeno toccare il problema filosofico, non si comprende che cosa
possa essere una teoria dei bisogni (cioè, della realtà), e per
quale ragione egli sia risalito così in alto.
Vero è che il Trivero crede che, risalendo al concetto generale di
bisogno, potrà stabilire la teoria madre, sulla quale poggiano le
particolari dottrine dei bisogni, e tra esse l'Economia, che tratta
dei bisogni economici. Se questi sono una specie (egli dice),
occorre determinare di qual genere sono specie. Ma egli mi
permetterà di osservare che, in ogni caso, il genere da cercare è,
come insegna la logica, il genere prossimo. Saltando a quello
lontanissimo, ch'è la realtà o il fatto, si può raggiungere soltanto
la bella scoperta: che i bisogni economici sono una parte della
realtà, sono un ordine di fatti.
Una scoperta dello stesso valore è l'altra ch'egli fa: che la vera
teoria della storia è la teoria dei bisogni. Il che, posta la sua
definizione dei bisogni, vai quanto dire che la storia è storia
della realtà, e la teoria ne é la teoria.
Non ho dunque nulla da opporre al significato che il Trivero vuol
dare alla parola «bisogno»; ma debbo osservare che, dandole questo
significato, egli non ha poi fatto la teoria di nessuna cosa, né
sparso lume sopra alcun ordine speciale di fatti.
Per la teoria propriamente economica, il suo libro resta del tutto
inutile. Gli economisti non conoscono bisogni di cose e di piante e
di animali, ma solo bisogni umani, o dell'uomo in quanto hoeomo
conomicus, e perciò essere consapevole. Credo anch'io, che sia bene
elaborare filosoficamente i principi dell'Economia: ma, per far
questo, il Trivero avrebbe dovuto studiare la scienza economica.
Egli dichiara che «non vuol tenersi stretto ai panni di alcuno»:
dichiarazione non necessaria, se per essa s'intende il dovere che
ciascuno ha di fondare i propri convincimenti scientifici sopra
ragioni e non sopra autorità; ma inammissibile, se importa invece il
proposito di risparmiarsi la fatica dello studiarsi libri degli
altri, e di rifar tutto da capo con le proprie forze individuali e
col sussidio della sola cultura generale. Il risultato ottenuto,
tutt'altro che soddisfacente, dovrebbe sconsigliare l'autore (il
quale non si dorrà che io gli parli chiaro) dal ricorrere per
l'avvenire a questo metodo sterile.
3 II Pareto replicò a questa seconda lettera nel Giornale degli
economisti, febbraio 1901, pp. 131-138.