Sebbene dell'opera di Carlo Marx si siano fatte molte esposizioni,
analisi cistiche, compendi, e finanche estratti condensati in
opuscoli di propaganda popolare, è cosa tutt'altro che
facile, e richiede non piccolo sforzo d'ingegno filosofico ed
astrattivo, intendere la natura propria della ricerca che il Marx
venne eseguendo. All'intrinseca difficoltà della cosa si
aggiunge, che non pare che l'autore stesso avesse sempre piena
consapevolezza della peculiarità, ossia della differenza
teorica della sua ricerca rispetto alle altre che si possono
esercitare sui fatti economici; e, a ogni modo, disprezzò o
trascurò tutte quelle spiegazioni preliminari e metodiche,
che potevano chiarire il suo assunto. E si aggiunge anche la
composizione dell'opera, mista di teorie generali, di polemiche e
satire amare e di esemplificazioni o digressioni storiche, e
disposta in modo che solo il professore Loria (lui beato!) poteva
giudicare il Capitale uno dei libri «più belli e
più simmetrici», che esistano; quando invece è
veramente asimmetrico, disordinato, sproporzionato, urtante contro
tutte le leggi dell'estetica: qualcosa di simile, per taluni
rispetti, alla Scienza nuova del Vico.
E c'è, infine, altresì la fraseologia hegeliana, cara
al Marx, di cui ora si è in certo modo smarrita la
tradizione, e che, in quella tradizione stessa, egli adoperava con
una libertà, che talvolta sembra non priva di una punta di
scherzo. Onde non deve far che meraviglia il Capitale sia
passato, a volta a volta, per un trattato di economia, per una
filosofia della storia, per un complesso di cosiddette leggi
sociologiche, per una requisitoria morale e politica, e, finanche,
nelle teste di alcuni, per un pezzo di storia raccontata.
Pure chi si domandi qual'è la forma e quale la comprensione
della ricerca del Marx, e prescinda, com'è giusto, da tutto
il materiale storico e polemico e descrittivo (che spetta
bensì all'organismo del libro, ma non a quello della ricerca
fondamentale), può scartare subito la maggior parte delle
definizioni sopraccennate, e stabilire fermamente questi due punti:
1°) Come forma, non v'ha dubbio che il Capitale sia una ricerca
astratta: la società capitalistica, che il Marx studia, non
è la tale o tale altra società, storicamente
esistente, della Francia o dell'Inghilterra, e neanche la
società moderna delle nazioni più civili, dell'Earopa
occidentale e dell'America. È una società ideale e
schematica, dedotta da alcune ipotesi, che (diciamo così)
potrebbero anche non essersi presentate mai come fatti reali nel
corso della storia. È vero che queste ipotesi rispondono in
buona parte alle condizioni storiche del mondo civile moderno; ma
ciò, se conferisce importanza alla ricerca del Marx,
perché giova a fare intendere organismi sociali che ci
toccano assai da vicino, non ne cangia l'indole. In nessuna parte
del mondo s'incontreranno le categorie del Marx come personaggi vivi
e corpulenti, appunto perché quelle sono astrazioni, e, per
vivere, hanno bisogno di perdere alcune parti e acquistarne altre.
2°) Come comprensione, la ricerca del Marx non abbraccia tutto il
territorio dei fatti economici, e neanche quella sola regione ultima
e dominante in cui tutti i fatti economici hanno la sorgente, quasi
fiumi scendenti da una montagna. Essa si restringe invece a una
particolare formazione economica, che è quella che si ha
luogo in una società con proprietà privata del
capitale, o, come il Marx dice (con espressione che gli è
propria), «capitalistica». Restano fuori, non solo le
altre formazioni storicamente accadute o teoricamente possibili,
come le società a monopolio o le società comunistiche;
ma benanche l'ordine delle operazioni economiche comuni alle varie
società e alla economia individuale. Se, insomma, il Capitale
come forma non è una descrizione storica, come comprensione
non è un trattato di economia, e molto meno un'enciclopedia1.
Ma, stabiliti questi due punti, non si è ancora conosciuta la
qualità propria della ricerca del Marx. Se il Capitale non
fosse altro che ciò che abbiamo determinato sinora, sarebbe
semplicemente una monografia economica delle leggi della
società capitalistica. E una simile monografia il Marx non
avrebbe potuto farla se non in un sol modo: descrivendo quelle
leggi, e spiegandole con le leggi generali o coi concetti
fondamentali dell'economia; riducendo, insomma, il complesso al
semplice, o passando per deduzione, e con l'aggiunta di nuove
ipotesi, dal semplice al complesso. Egli così avrebbe
mostrato, con metodica esposizione, come i fatti apparentemente
più diversi del mondo economico, siano retti, in ultimo, da
una medesima legge; o, ch'è lo stesso, come codesta legge si
rifranga variamente passando attraverso ordinamenti vari, senza
mutare sé stessa, che altrimenti mancherebbe il modo e il
criterio della spiegazione. Tale lavoro era stato già in gran
parte compiuto al tempo del Marx, e dopo di lui è stato
ancora proseguito dagli economisti, ed ha conseguito un alto grado
di perfezione; come può vedersi, per esempio, nei trattati
economici dei nostri italiani Pantaleoni e Pareto. Ma io dubito
assai che il Marx sarebbe diventato economista per darsi a un genere
di studi d'interesse soprattutto teorico o scolastico che si dica. A
ciò ripugnava la sua personalità di uomo pratico e di
rivoluzionario, impaziente delle ricerche che non avessero stretto
legame con gl' interessi della vita storica e attuale. Se il
Capitale fosse dovuto essere una monografia puramente economica, si
potrebbe metter pegno che non sarebbe nato.
Che cosa, dunque, fece il Marx, e a quale trattazione sottopose i
fenomeni della società capitalistica, che non sia la
trattazione di pura teoria economica? Il Marx assunse, fuori del
campo della pura teoria economica, una proposizione, che è la
famigerata eguaglianza di valore e lavoro; ossia la proposizione,
che «il valore dei beni prodotti da lavoro è eguale
alla quantità di lavoro socialmente necessaria per
produrli». Solo in virtù di questa assunzione la
ricerca sua propria prese cominciamento.
Ma quale legame questa proposizione ha con le leggi della
società capitalistica? Ossia, quale ufficio essa compie nella
ricerca? E qual è poi il suo intrinseco significato? — Ecco
ciò che il Marx non dice mai espressamente: ed è
questo anche il punto intorno a cui sono nate le maggiori confusioni
e più si sono sbizzarriti gl'interpetri e i critici.
Alcuni dei quali hanno considerato la legge del valore-lavoro come
legge storica, propria della società capitalistica, e che
determinerebbe tutte le manifestazioni di questa2; ed altri,
stimando giustamente che i fatti della società, capitalistica
non sono punto determinati da una legge di quella sorta, ma
ubbidiscono ai generali motivi economici propri della natura
dell'uomo, hanno rifiutata la legge come un assurdo, al quale il
Marx sarebbe pervenuto spingendo alle estreme conseguenze un
concetto poco felice del Ricardo.
La critica si aggirava così tra l'accettazione totale,
accompagnata da interpretazione evidentemente errata, e il rifiuto
totale e sommario del procedere del Marx; quando, negli ultimi anni,
e segnatamente dopo la comparsa del terzo volume postumo del
Capitale, si è cominciato a tentare e a percorrere una via
migliore. In verità, nonostante le calorose difese, la
dottrina del Marx restava sempre oscura; e, nonostante le disdegnose
e sommarie condanne, essa mostrava pur sempre una vita tenace, quale
non hanno di solito gli spropositi e i sofismi. Ed è
perciò merito del prof. Werner Sombart, della
università di Breslavia, di aver affermato, in un lucido
scritto, che le conclusioni pratiche del Marx si possono rigettare
per ragioni politiche, ma che, scientificamente, occorre anzi tutto
intendere il pensiero di lui3.
Il Sombart, dunque, rompendola apertamente con la interpretazione
della legge del valore del Marx come legge reale dei fatti
economici, e dando espressione più compiuta e più
coraggiosa agli accenni timidi già fatti da talun altro (C.
Schmidt), disse: che la legge del valore del Marx non è un
fatto empirico, ma un fatto del pensiero (keine empirische, soudern
eine gedankliche Thatsache); che il valore del Marx è un
fatto logico (eine logische Thatsache), il quale serve di aiuto al
nostro pensiero per intendere le cose della vita economica4.
Questa interpretazione fa, nella sua linea generale, accettata
dall'Engels, in uno scritto composto qualche mese prima della sua
morte e pubblicato postumo. All'Engels sembrava che «essa non
potesse appuntarsi d'inesattezza, ma che, tuttavia, fosse troppo
vaga e convenisse esporla con maggiore precisione»5.
Per la stessa via accennano a mettersi le acute e dubitose
osservazioni che, intorno alla teoria del valore, ha pubblicato di
recente un valente marxista francese, il Sorel, in un articolo del
Journal des économistes. Nel quale riconosce, che dalla
teoria del Marx non c'è modo di passare ai fatti reali della
vita economica, e che, se essa può dare
«schiarimenti» in senso assai ristretto, non sembra, per
altro, che possa mai «spiegare», nel senso
sciontiiìco della parola6.
E, or ora, il prof. Labriola, in un rapido accenno alla stessa
quesiione, alludendo di certo al Sombart, e parte accettando e parte
criticando, scrive anch'esso che «la teoria del valore non
rappresenta un factum empirico, né esprime una semplice
posizione logica, come qualcuno ha almanaccato; ma è la
premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è
pensabile»7.
Questa espressione del Labriola a me sembra, invero, assai
più esatta di quella del Sombart; il quale, per altro, si
mostrava esso stesso scontento della sua denominazione, come chi
ancora non abbia in mente un concetto a pieno determinato, e non
riesca perciò a trovare una locuzione soddisfacente.
«Fatto del pensiero, fatto logico», è dir troppo
poco, perché si sa bene che tutte le scienze sono tessuti di
fatti logici, ossia di concetti. Il valore-lavoro del Marx non
è solo una logica generalità, ma anche è un
concetto pensato ed assunto come tipo, ossia qualcosa di più
o di diverso da un mero concetto logico. Esso non ha già
l'inerzia dell'astrazione, ma la forza di qualcosa determinato e
particolare, che compie rispetto alla società capitalistica,
nell'indagine del Marx, l'ufficio di termine di comparazione, di
misura, di tipo8.
Assunta questa misura o tipo, la ricerca, pel Marx, si
configurò a questo modo:—Posto che il valore è eguale
al lavoro socialmente necessario, mostrare con quali divergenze da
tale misura si formino i prezzi delle merci nella società
capitalistica, e come la stessa forza-lavoro acquisti un prezzo
ediventi una merce. — Il Marx formolo tale problema con modi, a dir
vero, impropri; giacche il valore tipico, assunto da lui come
misura, egli lo presentò come la legge dei fatti economici
della società capitalistica. Ed è, se si vuole, la
legge, ma nella sua concezione, non già nella realtà
economica. È ben chiaro che si possono concepire le
divergenze rispetto a una misura come le ribellioni della
realtà di fronte a quella misura, che ha ricevuto da noi
dignità di legge.
Formalmente considerando, non vi ha nulla da ridire contro la
ricerca istituita dal Marx. Non è forse procedimento solito
di analisi scientifica quello che prende a considerare un fatto non
solo così come è dato, ma anche in ciò che
sarebbe se uno dei fattori di esso venisse a variare, e nel
paragonare il fatto ipotetico col reale, trattando il primo come
divergente dal secondo che si assume fondamentale, 0 il secondo dal
primo, che si assume nel senso medesimo? Se io costruissi per
deduzione le massime morali che si svolgono in due gruppi sociali in
condizione di lotta l'uno contro l'altro, e se le mostrassi
divergenti dalle massime morali che si svolgono nello stato di pace,
farei qualche cosa di analogo al raccostamento compiuto dal Marx. E
non sarebbe neanche gran male (benché non sarebbe espressione
felice e precisa) dire, in senso figurato: che la legge delle
massime morali del tempo di guerra è quella stessa delle
massime del tempo di pace, accomodata alle nuove condizioni e
trasformata in modo, che pare, in ultimo, contraddizione di
sé stessa. Il Marx, finché si aggira nei limiti della
ipotesi, procede con perfetta correttezza. L'errore potrebbe
cominciare solo quando, esso o altri, confondesse l'ipotesi con la
realtà, e il modo del porre e del misurare col modo
dell'essere. Finche non si cade in siffatto errore, il procedimento
è incensurabile.
Senonchè, questa giustificazione formale non basta: ci vuole
dell'altro. Con processo metodico corretto si può pervenire a
risultamenti senza importanza, e compiere semplici giochetti di
pensiero. Assumere una misura di comparazione arbitraria, e
paragonare, e dedurre, e finir con lo stabilire una serie di
divergenze da quella misura; a che mena? Ciò, dunque, che
occorre giustificare è la misura stessa: ossia occorre
determinare l'utilità che può avere per noi.
Anche tale questione, sebbene non formolata proprio a questo modo,
si è presentata ai critici del Marx; e una soluzione se ne
è data già da un pezzo, e da molti, col dire che
l'uguaglianza del valore col lavoro è un ideale
etico-sociale, un ideale morale. Ma niente di più erroneo in
sé, come niente di più lontano dal pensiero del Marx
si potrebbe concepire di codesta interpretazione. Dalla premessa che
il valore è eguale al lavoro socialmente necessario, quale
illazione morale si può mai cavare? Se ci si riflette
alquanto, proprio nessuna. Lo stabilimento di quel fatto non dice
nulla sui bisogni delle società, che rendano conveniente
l'uno o l'altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e
del modo della ripartizione. Il valore sarà bene eguale al
lavoro; e non pertanto condizioni storiche speciali renderanno
necessaria la società di caste o di classi, divisa in
governanti e governati, dominatori e dominati, con conseguente
ineguale ripartizione dei prodotti del lavoro. Il valore sarà
bene eguale al lavoro; ma, anche ammesso che nuove condizioni
storiche rendano mai possibile la sparizione della società di
classi, e l'avvento della società comunistica, ed anche
ammesso che in questa società la ripartizione possa aver
luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita,
tale ripartizione non sarebbe già una illazione dalla
stabilita eguaglianza del valore col lavoro, ma una misura adottata
per ragioni speciali di convenienza sociale9.
E non si può dir nemmeno che tale eguaglianza contenga in se
un ideale di giustizia perfettase pure non attuabile), perché
il criterio del giusto non ha nessun rapporto con le differenze,
spesso meramente naturali, nella capacità di compiere un
maggior o minor lavoro sociale e di produrre un maggiore o minor
valore. Dall'eguaglianza del valore col lavoro non si può
trarre, dunque, né una massima di astratta giustizia, ne una
massima di convenienza ed opportunità sociale. Entrambe
queste massime non possono fondarsi se non sopra ordini di
considerazione affatto diversi da quello di una semplice equazione
economica.
Assai meglio il Sombart, tenendosi immune di questa confusione, ha
cercato il significato della misura posta dal Marx nel seno stesso
della società, e fuori dei nostri giudizi morali. Egli dice
perciò che il lavoro è «il fatto economico
oggettivamente più rilevante», e che il valore, nel
pensiero del Marx, non è «se non l'espressione
economica del fatto della forza produttiva sociale del lavoro, come
fondamento dell'esistenza economica».
Ma questa ricerca a me pare che sia stata piuttosto iniziata che
condotta a buon fine; e, se dovessi dire in qual verso essa dovrebbe
essere perfezionata, direi che bisognerebbe sforzarsi di determinare
e chiarire quella parola «oggettivo», ch'è o vaga
o metaforica. Che cosa significa un fatto economicamente oggettivo?
Non indica questa parola piuttosto il presentimento di un concetto,
che la formazione distinta di questo concetto stesso?
Solo in via di tentativo, aggiungerò che l'
«oggettivo» (che ha per termine di relazione il
«soggettivo»), a me non pare che convenga al caso.
Prendiamo, invece, a considerare, in una società, solo
ciò ch'è propriamente vita economica; ossia, nella
società complessiva, solamente la società economica.
Togliamo poi da quest'ultima, per astrazione, tutti i beni che non
sono aumentabili col lavoro. Togliamo, per un'altra astrazione,
tutte le differenze di classi, le quali possono riguardarsi come
accidenti rispetto al concetto generale di società economica.
Prescindiamo da ogni modo di distribuzione della ricchezza prodotta,
che, come abbiamo detto, può essere determinato solo da
ragioni di convenienza o anche di giustizia, e sempre dalla
considerazione di tutto il complesso sociale e non già dalla
considerazione esclusiva della società economica. Che cosa
resta, dopo aver fatto queste successive astrazioni? Niente altro
che: la società economica in quanto società
lavoratrice10. E per questa società senza differenza di
classi, ossia per una società economica in quanto tale, e i
cui soli beni consistano in prodotti di lavoro, che cosa può
essere il valore? Evidentemente, la somma degli sforzi, ossia la
quantità di lavoro, che le costa la produzione delle diverse
categorie di beni. E poiché qui si parla dell'organismo
sociale economico, e non già dei singoli individui viventi in
esso, è naturale, che questo lavoro non possa essere se non
calcolato per medie, epperò come lavoro socialmente (di
società, ripetiamo, qui si tratta) necessario.
Cosicché il valore-lavoro apparirebbe in questo caso come
quella determinazione del valore, propria della società
economica in sé stessa, considerata solo in quanto
produttrice di beni aumentabili col lavoro.
Da questa definizione si può trarre un corollario, che e il
seguente: la determinazione del valore-lavoro avrà una certa
rispondenza nei fatti sempre che esisterà una società,
che produca beni per mezzo del lavoro. Nel fantastico Paese di
Cuccagna questa determinazione non avrebbe nessuna rispondenza nei
fatti, perché tutti i beni esisterebbero in quantità
superiore ai bisogni; come è chiaro anche che la stessa
determinazione non avrebbe modo di attuarsi in una società, i
cui beni fossero inferiori ai bisogni, ma non aumentabili per
lavoro. Ma la storia ci mostra finora solamente società che,
accanto al godimento dei beni non aumentabili per lavoro, hanno
provveduto a soddisfare i loro bisogni col lavoro.
Cosicché questa eguaglianza del valore col lavoro ha avuto
finora, ed avrà ancora per un tempo indefinito, rispondenza
nei fatti. Ora, di quale natura è questa rispondenza? Avendo
noi escluso: 1°) che si tratti di ideale morale, e 2°) che
si tratti di legge scientifica; e avendo tuttavia concluso che
quella eguaglianza è un fatto (del quale il Marx si vale poi
come tipo), dobbiamo dire, come sola via di uscita : che è un
fatto, ma un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che
empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri
fatti, quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante diversa
da quella che darebbe se le altre forze cessassero di operare. Non
è un fatto dominante assoluto, ma non è nemmeno un
fatto inesistente e semplicemente immaginario11.
Anche bisogna notare, che nel corso della storia questo fatto
è andato sottomesso a varie vicende, ossia è stato
più o meno contrastato; e qui è il luogo di far
ragione all'osservazione dell'Engels a proposito del Sombart: che
cioè il modo come quest'ultimo definisce la legge del valore
«non lasci risaltare tutta l'importanza, che ha questa legge,
per gli stadi dello sviluppo economico in cui essa domina».
L'Engels faceva un'escursione nel campo della storia economica per
mostrare che la legge del valore del Marx, ossia l'eguaglianza del
valore col lavoro socialmente necessario, ha «dominato»
per parecchie migliaia di anni 12.
«Dominato», è forse dir troppo; ma è vero
che i contrasti degli altri fatti contro questa legge sono, stati
minori in numero ed intensità nel comunismo primitivo e
nell'economia medievale e domestica, laddove hanno raggiunto il
massimo nella società basata sul capitale privato e sulla
più o meno libera concorrenza mondiale, ossia nella
società che produce quasi esclusivamente merci13.
Il Marx, dunque, nell'assumere a tipo l'eguaglianza del valore col
lavoro e nell'applicarlo alla società capitalistica,
istituiva paragone della società capitalistica con una parte
di sé stessa, astratta e innalzata ad esistenza indipendente:
ossia, paragone tra la società capitalistica con la
società economica in sé stessa (ma solo in quanto
società lavoratrice). In altri termini, egli studiava il
problema sociale del lavoro, e mostrava, col paragone implicito da
lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene
risoluto nella società capitalistica. Qui è la
giustificazione, non più formale, ma reale, del suo
procedimento.
Solo in forza di questo procedimento, e alla luce proiettata dal
tipo da lui assunto, il Marx potè giungere a porre a definire
l'origine sociale del profitto, ossia del sopravalore.
«Sopravalore», in pura economia, è parola priva
di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa;
giacché un sopravalore è un extra-valore, ed esce
fuori del campo della pura economia. Ma ha bene un senso, e non
è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragonare che
si fa una società economica con un'altra, un caso con un
altro, o due ipotesi tra di loro.
Anche in forza della stessa premessa gli fu possibile giungere alla
proposizione: che i prodotti del lavoro nella società
capitalistica non si vendono se non eccezionalmente al loro valore,
ma di solito per più o per meno, e talora con deviazioni
grandissime dal loro valore; il che, espresso in breve, si direbbe:
il valore non coincide col prezzo. Se, per ipotesi, cangiasse d'un
tratto l'ordinamento della produzione di capitalistico in
comunistico, si assisterebbe, di colpo, non solo a quel mutamento
delle fortune degli individui che colpisce tanto le fantasie della
gente, ma anche a più mirabile mutamento: a quello della
fortuna delle cose. Si formerebbe allora una scala di prezzi in gran
parte diversissima da quella che ora vige. In qual modo il Marx
dimostri questa proposizione, con l'analisi della varia composizione
del capitale nelle varie industrie, ossia della parte del capitale
costante (macchine, ecc.) e di quella del capitale variabile
(salari), non è il caso qui di esporre in particolare.
Per la stessa via, ossia mercè la dimostrazione del crescere continuo del capitale costante rispetto al variabile, il Marx procura di stabilire un'altra legge della società capitalistica, ch'è quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il progresso tecnico, che in una astratta società economica si esprimerebbe nel minor lavoro occorrente a produrre la medesima ricchezza, nella società capitalistica si esprime nel graduale abbassamento della rata di profitto14. Ma questa sezione del terzo volume del Capitale è tra le meno elaborate di quel così poco elaborato libro postumo; e a me par degna di uno speciale esame critico, che mi propongo di fare in altra occasione, non volendone trattare ora di passata15.
---
1 «Una colossale monografia» (intendi: di economia), lo
chiama il più autorevole dei marxisti italiani, il prof.
Antonio Labriola, nel suo nuovo libro (Discorrendo di filosofia e
socialismo, Roma, Loescher, 1898). Ma in uno scritto precedente (In
memoria del «Manifesto dei comunisti”, 2ª ediz., Roma,
1895, p. 36 n) lo aveva definito, come già abbiamo avuto
occasione di notare, «una filosofia della storia».
2 Lascio da parte coloro che considerano la legge del valore-lavoro
come legge generale del valore, ai quali basta domandare come mai
quella legge potrebbe essere «generale“, se esclude dalla
considerazione una intera categoria di beni economici, cioè i
beni non aumentabili per lavoro? Del resto, sull'argomento, si veda
il § 2 di questa Memoria.
3 Werner Sombart, Zur Kritik des oekonomischen Systems von
Karl Marx (nell'Archiv für soziale Gesetzgebungng uind
Statistik, volume VII, 1894, pp. 555-594). — Non ho ora a mano la
critica (condotta secondo i concetti della scuola edonistica), che
di questo articolo del Sombart fece l'anno scorso, a proposito del
terzo volume del Capitale il Bõhm-Bawerk, nella Miscellanea
per le onoranze allo Kuies.
4 L. c, p. 571 sgg.
5 Nella Neue Zeit, XIV, vol. I, pp. 4-11, 37-41. Cito dalla trad.
ital.: Dal terzo volume del «Capitale», prefazione e
commenti di F. Engels (Roma, 1896), p. 39.
6 Sur la théorie marxiste de la valeur (nel Journal des
économistes, fascicolo di maggio 1897, pp. 222-31, si veda p.
228).
7 Discorrendo di socialismo e di filosofia, p. 21.
8 Tanto più facilmente accetto l'espressione usata dal
Labriola in quanto è la medesima di cui mi servii anch' io un
anno fa. Si veda il saggio precedente sul Loria, pp. 82-3.
9 Facendo un' ipotesi di questa sorta, il Marx distingueva
nettamente che, in tal caso, «il tempo di lavoro compirebbe
una duplice funzione: per un verso, come misura del valore, per
l'altro come misura della parte individuale spettante a ciascun
producente sul lavoro comune» (andrerseits dient die
Arbeitzeit zugleich als Mass des individuellen Antheils des
Producenten au der Gemeinarbeit, und daher auch an dem individuell
verzehbareu Theil des Gemeinprodukts): si veda Das Kapital, I, p.
45.
10 La quale è cosa diversa dai lavoratori od operai nella
nostra società capitalistica, che sono una classe ossia un
frammento di società economica, e non già la
società economica generica ed astratta, produttrice di beni
aumentabili col lavoro.
11 Potrebbe dubitarsi di questo intendimento generale del
valore-lavoro per ogni società economica lavoratrice, nel
pensiero del Marx e dell'Engels, ricordando i molti luoghi, nei
quali e l'uno e l'altro
hanno più volte affermato: che nella società
comunistica futura sparirà il criterio del valore e la
produzione sarà regolata dall'utilità sociale; cfr.
già gli Umrisse dell'Engels del 1844 (trad. ital. in Critica
sociale, a. V, 1895); Marx, Misere de la philosophie (2ª ediz.,
Paris, Giard et Brière, 1896), p. 83; Engels, Antidühring, p. 335. Ma ciò é da intendere nel
senso che, non essendo una tale ipotetica società comunistica
fondata sullo scambio, l'ufficio del valore (di scambio) perderebbe
importanza pratica; non già nell'altro senso, che per la
coscienza della società comunistica il valore dei beni non
sarebbe più eguale al lavoro che alla società essi
costano.
Che anzi, in una simile forma di ordinamento economico, il
valore-lavoro sarebbe la legge economica imperante pienamente nel
giudizio dei singoli beni, prodotti di lavoro. Si avrebbe una
limpidezza
di valutazione, quale il Marx descrive nella sua
«robinsonata» :cfr. Das Kapital, I, 43.
12 Dal terzo volume del «Capitale», pp. 42-55.
13 Per ciò anche il Marx, nel § 4 del cap. I: Der
Fetischcharakter der Waare und sein Geheneniss (I, pp. 37-50) si
faceva a delineare sommariamente le altre formazioni economiche,
della società medievale
e dell'economia domestica: « Ailer Mysticismus der Waarenwelt,
all der Zauber und Spuk, welcher Arbeitsprodukte auf Grundlage der
Waarenproduktion umnebelt, verschwindet daher sofort, sobald wir zu
ander Produktionsformen flüchten » (p. 42). La relazione
del valore col lavoro, negli ordinamenti economici meno complessi,
è più evidente, perchè meno contrastata ed
offuscata da altri fatti.
14 Das Kapital. L. III, capp. XIII, XIV, XV: Gesetz des
tendentieìlen Falls der Profitrate (vol. III, P. I, pp.
191-249).
15 Compito dei marxisti dovrebbe essere sciogliere il pensiero del
Marx dalla forma letteraria che prese in lui, e ristudiare da capo
le questioni ch'egli si propose, ed elaborarle con nuova e
più precisa trattazione, e con nuove esemplificazioni
storiche. In ciò solo può consistere il progresso
scientifico. Le «esposizioni», che si hanno finora del
sistema del Marx, sono semplicemente materiali; e taluna (come
quella dell'Aveling) consiste addirittura in una serie di
sun-terelli, che seguono capitolo per capitolo l'originale e
riescono più oscuri di questo. — Sulla legge della caduta del
saggio di profitto, si veda ora, in questo volume, il saggio VI.
Dunque, l'economia marxistica è quella che studia l'astratta
società lavoratrice, mostrando le variazioni che questa
soffre nei diversi ordinamenti economico-sociali. Tale ricerca il
Marx ha compiuta di proposito per un solo di questi ordinamenti,
ossia per quello capitalistico, contentandosi per l'economia a
schiavi e a servaggio, pel comunismo primitivo e per l'economia
domestica e naturale, di semplici accenni1.
In questo senso egli e l'Engels affermavano che l'economia
(l'economia da essi coltivata) era una scienza storica2. Ma anche
qui la loro definizione è stata meno felice della ricerca
stessa; noi sappiamo che le indagini del Marx non sono storiche, ma
ipotetiche ed astratte, ossia teoriche. Meglio si potrebbe dire che
sono ricerche di sociologia economica, se questa parola
«sociologia» non fosse di quelle che più
variamente ed arbitrariamente si adoperano.
Se la ricerca del Marx è così determinata, se la legge
del valore da lui assunta è la legge particolare
dell'astratta società lavoratrice, che solo frammentariamente
si attua nelle società economiche storicamente date e in
altre società economiche ipotetiche o possibili, sembrano
chiare e facili conseguenze: 1°) che l'economia marxistica non
è la scienza economica generale; 2°) che il valore-lavoro
non è il concetto generale del valore. Accanto, dunque, alla
ricerca marxistica può, anzi deve vivere e prosperare una
scienza economica generale, che stabilisca un concetto del valore,
deducendolo da principi affatto diversi e più comprensivi di
quelli particolari del Marx. E se gli economisti puri, chiusi nella
loro specialità, hanno mostrato una sorta di gretta
repulsione intellettuale verso le ricerche del Marx, i marxisti, a
loro volta, hanno a torto disconosciuto un ordine di ricerche a essi
estranee, dichiarandole ora oziose ora addirittura assurde.
Tale è, infatti, la mia opinione; e dico, in verità,
di non aver potuto mai scoprire altra antitesi o inimicizia tra
questi due ordini di ricerche, che non sia quella, meramente
accidentale, della reciproca antipatia e del reciproco ignorarsi di
due gruppi di studiosi. Vero è che alcuni han fatto ricorso a
una spiegazione politica; ma, pur non volendo negare che le passioni
politiche siano spesso cause di errori teorici, non mi riesce
persuasiva questa taccia data a gran numero di studiosi di lasciarsi
ciecamente e scioccamente dominare da impulsi estranei alla scienza;
o, ch'è peggio, di falsificare consapevolmente il loro
pensiero, e di costruire interi sistemi economici per motivi
extrascientifici.
Veramente, il Marx stesso non ebbe tempo e modo di prendere
posizione, per così dire, rispetto alle ricerche dei puristi,
o edonisti, o utilitari, o deduttivisti , o austriaci, o come altro
variamente si chiamino. Ma era in lui sommo il disprezzo per
l'oeconomia vulgaris, sotto il qual nome soleva comprendere anche le
ricerche di economia generale, le quali, a suo avviso, spiegano quel
che di spiegazione non ha bisogno ed è intuitivamente chiaro,
e lasciano senza spiegazione ciò che è più
diffìcile ed importa davvero. E neanche l'Engels ne ha
trattato di proposito; ma quel che egli ne pensasse si può
ritrarre dalla polemica contro il Dühring. Il quale
Dühring si affaticava nel cercare una legge generale del
valore, che dominasse tutte le possibili forme dell'economia: e
l'Engels a ribattere: «Chi vuol ridurre sotto una stessa legge
l'economia politica della Terra del fuoco e quella dell'Inghilterra
moderna, non può produrre altro che i più volgari
luoghi comuni». E scherniva le « verità di ultima
istanza», le «eterne leggi della natura», gli
assiomi tautologici e vuoti, che avrebbe messi in luce, col suo
metodo, il signor Dühring3. Leggi fisse ed eterne non
esistono: manca, dunque, ogni possibilità di costruire una
scienza generale dell'economia, valida per tutti i tempi e luoghi. —
E se l'Engels avesse inteso riferirsi a coloro che asserivano
l'insuperabilità od eternità delle leggi proprie della
società capitalistica, avrebbe avuto ragione, e avrebbe
raddoppiato i colpi contro un pregiudizio, che la storia basta da
sola a smentire col mostrarci come il capitalismo sia apparso in
vari tempi, sostituendosi a forme diverse d'ordinamento economico, o
sia anche scomparso, sostituito da altre forme. Ma, nel caso del
Dühring, la critica andava lungi dal segno; perché il
Dühring non intendeva porre già come ferme ed eterne le
leggi della società capitalistica, sibbene stabilire un
concetto generale del valore, ch'è tutt'altra cosa; o, in
altre parole, mostrare come, sotto il rispetto puramente economico,
la società capitalistica si spieghi con gli stessi concetti
generali, che spiegano le altre forme di ordinamenti. Nessuno
sforzo, neanche quello dell'Engels, potrà impedire che tale
questione venga posta e risoluta, perché non si può
convellere la mente umana, che cerca il generale, il più
generale e l'universale.
E sarebbe considerazione istruttiva quella dei
«rimandi», che sono nel Capitale del Marx, ad analisi
non fatte ed estranee alla sua particolare trattazione; nelle quali
necessità di analisi mettono radice le ricerche dell'economia
pura. Che cosa è, per esempio, l'astratto lavoro umano
(abstrakt menschliche Arbeit), concetto di cui il Marx si vale come
di un presupposto? Con qual processo si compie quella riduzione del
lavoro complicato al semplice, alla quale egli accenna come a cosa
ordinaria ed ovvia? E se, nell'ipotesi del Marx, le merci appaiono
come gelatine di lavoro o lavoro cristallizzato, perché, in
altra ipotesi, tutti i beni economici, e non le sole merci, non
potrebbero apparire come gelatine di mezzi per soddisfazione di
bisogni, o bisogni cristallizzati? — Leggo in un punto del Capitale:
«Cose che in sé e per sé non sono merci, per
es., la scienza, l'onore, ecc., possono essere vendute dai loro
possessori; e così, per mezzo del loro prezzo, ricevere la
forma di merci. Una cosa può avere formalmente un prezzo,
senza avere un valore. L'espressione del prezzo diventa qui
immaginaria, come certe grandezze della matematica»4.
Ecco ancora una difficoltà, ch'è additata ma non
superata. Vi sono dunque prezzi formali o immaginari? E che cosa
sono? A quali leggi ubbidiscono? 0 sono forse come le parole greche
nella prosodia latina, che, secondo la regoletta di scuola, per
Ansoniae fines sine lege vagantur? — A tali questioni rispondono le
indagini dell'economia pura.
Anche il filosofo Lange, il quale respingeva la legge del valore del
Marx, che gli sembrava un «parto sforzato», un
«figlio del dolore», reputandola impropria (e in
ciò diceva il vero) come legge generale del valore, molto
tempo prima che venissero in fiore le ricerche dei puristi si
orientava verso le soluzioni, che sono state poi date da costoro.
«Alcuni anni fa (scriveva nel suo libro sulla Questione
operaia), ho lavorato anch' io a una nuova teoria del valore, la
quale dovesse essere in grado di far apparire i casi più
estremi delle variazioni del valore come casi speciali di una
medesima formola». E, pur soggiungendo di non averla condotta
a maturità, avvertiva che la via da lui tentata era quella
stessa, percorsa poi dal Jevons nella sua Theory of political
economy, venuta fuori nel 18715.
A qualche marxista più cauto e temperato è apparso
chiaro, che le ricerche degli edonisti non sono cose da rigettare
semplicemente come erronee o mal fondate; ed ha cercato
perciò di giustificarle rispetto alla dottrina marxistica
come una psicologia economica, sorta accanto all'economia vera e
propria. Ma in questa definizione si racchiude un equivoco curioso.
L'economia pura è tutt'altro che una psicologia; anzi persino
il senso delle parole «psicologia economica» è
difficile a determinare, perché la scienza psicologica si
divide in formale e descrittiva, e in quella formale non può
trovare luogo né il fatto economico né alcun altro
fatto che rappresenti un particolare contenuto; e in quella
descrittiva sono di certo compresi anche le rappresentazioni, i
sentimenti, le volizioni di contenuto economico, ma così come
appaiono nella realtà, misti con gli altri fenomeni psichici
di diverso contenuto, e inseparabili da questi. Onde la psicologia
economica descrittiva può essere, al più, una
delimitazione approssimativa con la quale facciamo oggetto di
descrizione speciale il modo di concepire, di sentire e di appetire
degli uomini (in un dato tempo e luogo, o anche in genere, quali
finora si sono presentati nella storia), per rispetto ad alcune
categorie di beni che si dicono di solito materiali o economici, e
che occorre in ogni modo specificare e determinare.
Terreno più adatto, veramente, alla storia che non alla
scienza, la quale non vi coglie se non vuote ed insignificanti
generalità, come può vedersi nella lunga trattazione,
fatta di questa materia dal pedantissimo e pesantissimo Wagner nel
suo noto Manuale, che, di quanto si è scritto sull'argomento,
è ciò che si conosce di più notevole, ed
è pure, in sé stesso, cosa tanto poco notevole e
conclusiva6. La enumerazione e descrizione delle varie
tendenze, che sono negli uomini quali si osservano nella vita
ordinaria: tendenze egoistiche e antiegoistiche, amore del proprio
vantaggio e timore dello svantaggio, timore della pena e speranza
del premio, sentimento di onore e timore della disistima e del
disprezzo pubblico, amore dell'attività e odio della inerzia,
sentimento di reverenza verso la legge morale, e simili: ecco quanto
il Wagner chiama psicologia economica, e che meglio si direbbe:
varie osservazioni di psicologia descrittiva da tenersi presenti nel
risolvere questioni pratiche di economia7.
Ma l'economia pura, che cosa ha essa, di grazia, di comune con la
psicologia? I puristi muovono dal postulato edonistico, ossia dalla
stessa natura economica dell'uomo; e deducono da questa i concetti
di utilità (utilità economica, che opportunamente il
Pareto ha proposto di designare con un nome speciale,
«ofelimità», dal greco ofélimos), di
valore, e man mano tutte le altre particolari leggi secondo le quali
si governa l'uomo in quanto astratto homo oeconomicus. Fanno proprio
ciò che lo scienziato dell'etica fa per la natura morale, e
lo scienziato della logica per la natura logica; e così via.
A questa stregua l'Etica sarebbe, dunque, una psicologia
dell'eticità, e la Logica una psicologia della
logicità? E, poiché tutto ciò che conosciamo
passa attraverso la psiche, l'Ontologia sarebbe una psicologia
dell'essere, la matematica una psicologia della matematica. E
avremmo in questo modo confuso le cose più diverse, compiendo
uno sconvolgimento di cui non s'intenderebbe il perché. —
Onde noi concludiamo che, se ben si consideri la cosa e vi si
rifletta sopra alquanto, si dovrà riconoscere che l'economia
pura non è una psicologia, ma è la vera e propria
scienza generale dei fatti economici.
Anche il prof. Labriola mostra un certo malumore, che a me sembra
non del tutto giustificato, contro gli economisti puri, «i
quali (dic'egli) traducono in concettualismo psicologico la ragione
del risico ed altre analoghe considerazioni dell'ovvia pratica
commerciale». E fanno bene (io risponderei), perché
anche delle ragioni del risico e della pratica commerciale la mente
vuol rendersi conto, e spiegarsene la natura e l'ufficio. E poi,
concettualismo psicologico: o non è questa una transazione
poco felice tra ciò che la vostra mente vi mostra ch'è
davvero l'economia pura (scienza che mette capo a un concetto suo
proprio), e l'indebita inclusione, che si è criticata di
sopra, di essa nella psicologia? Sostantivo e aggettivo non
contrastano tra loro? E il Labriola parla ancora sdegnosamente dell'
«astratta atomistica» degli edonisti, nella quale
« non si sa più che cosa sia la storia e il progresso
si risolve in una mera parvenza»8. E qui nemmeno mi pare
che il disdegno sia giustificato; perché il Labriola sa
benissimo che in tutte le scienze astratte spariscono le cose
concrete e individuali, e restano solo oggetto di considerazione i
loro elementi; onde non si può di ciò muovere
particolare rimprovero alla scienza economica. Ma storia e
progresso, se sono estranei alla considerazione dell'astratta
economia, non cessano perciò di sussistere e di formare
oggetto di altre elaborazioni dello spirito umano ; e questo solo
importa.
Per mio conto, tengo fermo alla costruzione economica della scuola
edonistica, all'utilità-ofelimità, al grado terminale
di utilità, e finanche alla spiegazione (economica) del
profitto del capitale come nascente dal grado diverso di
utilità dei beni presenti e dei beni futuri. Ma ciò
non appaga il desiderio di un chiarimento, per così dire,
sociologico del profitto del capitale; e questo chiarimento con
altri della medesima natura, non si può averlo se non dalle
considerazioni comparative, che ci mette innanzi il Marx9.
---
1 «Per eseguire completamente questa critica dell'economia
borghese, non basta la conoscenza sola della forma capitalistica
della produzione, dello scambio e della ripartizione. Debbono essere
egual-mente indagate, almeno nei loro tratti essenziali, e prese
come ter-mini di comparazione, le altre forme, che hanno preceduto
quella nel tempo, o vivono accanto ad essa nei paesi meno
sviluppati. Una tale ricerca e comparazione è stata finora,
sommariamente, esposta
solo dal Marx; e noi dobbiamo quasi esclusivamente alle sue ricerche
ciò che sappiamo sulla economia teoretica preborghese »
. (Engels, Antidhüring, p. 154).
2 «L'economia politica è essenzialmente una scienza
storica». (Engels, 1. e, p. 150).
3 Antidühring . pp. 150, 155.
4 Das Kapital, 1, p. 67.
5 F. A. Lange, Die Arbeiterfrage (5ª ediz., Winterthur, 1894:
l'ultima curata dall'autore è del 1874): p. 332; cfr. a pp.
248 e 124 n, la citazione dell'opera, allora pochissimo nota, del
Gossen.
6 Adolf Wagner, Grundlegung der politischen Oekonomie {3ª
ediz., Leipzig, 1892), vol. I, parte I, libro 1, cap. I: Die
wirthschaftliche Natur des Menschen, pp. 70-137.
7 Mi si conceda di notare che, in simili trattazioni, si commette di
solito dagli economisti un errore grave, eh' è di far
coincidere il concetto dell'economico con quello dell'egoistico. Ma
l'economia è una sfera indipendente, accanto alle altre,
dell'attività umana, come la sfera etica, estetica, logica,
ecc. I beni morali e la soddisfazione dei più alti bisogni
morali dell'uomo, appunto perchè beni e bisogni, rientrano
nella considerazione economica; ma anche solo in quanto beni e
bisogni, non in quanto morali o immorali, egoistici o altruistici.
Parimente una manifestazione con la parola, o con altro qualsiasi
mezzo di espressione, rientra nella considerazione estetica; ma solo
in quanto espressione, non in quanto vera, falsa, morale, immorale,
utile, nociva, ecc. E cosi via. Gli economisti si trovano ancora
sotto l'impressione del fatto, che Adamo Smith scrisse un libro di
teoria etica ed un altro di teoria economica; il che molti traducono
a questo modo: che si occupò nell'una teoria dei fatti
altruistici e, nell'altra, degli egoistici. Ma, se fosse cosi, Adamo
Smith avrebbe trattato, nell'una e nell'altra delle sue opere
fondamentali, di fatti di natura etica, pregevoli o riprovevoli, e
non sarebbe stato punto economista: conseguenza stravagante, che
riduce all'assurdo l'identificazione dell'attività economica
con l'egoismo.
8 Discorrendo di socialismo e di filosofia, lett. VI
9 È curioso come anche negli studiosi dell'economia pura si
faccia sentire questo bisogno di una diversa considerazione ; il che
li induce poi ad affermazioni contradittorie o ad imbarazzi
insuperabili. PANTALEONI, Principi di economia pura (Firenze,
Barbèra, 1889), parte III, § 3 (pp. 299-302), combatte
il Bõhm-Bawerk, domandando donde il mutuatario del capitale
riesca a rendere di che pagare l'interesse. Pareto, Introd. critica
agli Estratti del Capitale del Marx (trad. ital., Palermo, Sandron,
1894), p. XXX n: «I fenomeni del plus valore sono in
contraddizione con la teoria di Marx, che determina il valore
solamente dal lavoro. Ma, d'altra parte, vi è
un'appropriazione del genere di quella che condanna Marx. Non
è affatto dimostrato che questa appropriazione sia utile per
ottenere il maximum edonistico. Ma è un problema difficile
trovare il mezzo di evitare questa appropriazione». Un dotto e
accurato lavoro italiano, che tende a conciliare i concetti delia
scuola edonistica con quelli della ricardiano-marxistica, è
la memoria del Prof. G. Ricca Salerno, La teoria del valore nella
storia delle dottrine e dei fatti economici (Roma., 1894: estr.
dalle Memorie dei Lincei, s. V, vol. I, parte I).
Se il materialismo storico deve esprimere alcunché di
criticamente accettabile, esso, come altra volta ebbi occasione di
esporre1 non dev'essere né una nuova costruzione a priori di
filosofia della storia, né un nuovo metodo del pensiero
storico, ma semplicemente un canone d'interpretazione storica.
Questo canone consiglia di rivolgere l'attenzione al cosiddetto
sostrato economico dello società, per intendere meglio le
loro configurazioni e vicende.
Il concetto di «canone» non dovrebbe incontrare
difficoltà, specie quando non si perda di vista ch'esso non
importa nessuna anticipazione di risultati, ma solamente un aiuto a
cercarli, e che é di origine afi'atto empirica. Quando il
critico del testo della Comedia dantesca adopera il noto canone del
Witte, che suona: «la lezione difficile è da preferirsi
alla facile», sa bene di possedere un semplice strumento, che
gli può essere utile in molti casi, inutile in altri, e il
cui uso retto e proficuo dipende sempre dal suo discernimento. Allo
stesso modo e nello stesso senso deve dirsi che il materialismo
storico é un semplice canone; quantunque sia, in
verità, un canone di ricca suggestione.
Ma era poi questo il modo in cui lo intendevano il Marx e l'Engels?
Ed è questo il modo in cui l'intendono, di solito, i
marxisti?
Cominciamo dalla prima questione, difficile veramente, e di
molteplici difficoltà, delle quali la prima direi che
provenga dallo «stato delle fonti». La dottrina del
materialismo storico non è chiusa già in un libro
classico e definitivo, col quale si sia come identificata, di tal
che discutere quel libro e discutere la dottrina possa sembrare
tutt'uno; ma è disseminata in una serie di scritti, composti
nel periodo di un mezzo secolo a lunghi intervalli, e dove di essa
si fa menzione per lo più occasionale, e talora è
semplicemente sottintesa o implicita. Chi volesse mettere d'accordo
tutte le formole che il Marx e l'Engels ne hanno date urterebbe in
espressioni contraddittorie, che renderebbero difficile al cauto e
metodico interpotre stabilire che cosa fosse per essi, così,
in generale, il materialismo storico.
D'altra parte, non mi pare che sia stata fatta la debita attenzione
a quella che potrebbe dirsi la forma mentale del Marx, col quale
l'Engels aveva somiglianze, alcune di natura, altre d'imitazione. Il
Marx, come ho già notato di sopra, provava una sorta di
fastidio per le ricerche d'interesse puramente teorico. Assetato
della conoscenza delle cose (delle cose concrete e individuali),
dava poco peso alle disquisizioni sui concetti e sulle forme dei
concetti; il che talvolta riusciva a indeterminatezza o deformazione
dei concetti stessi. Onde si hanno in lui molte proposizioni che,
prese alla lettera, sono erronee, e nondimeno sembrano, e sono
infatti, piene di verità2. Conviene dunque intendere alla
lettera le sue parole, correndo il rischio di dar loro significato
diverso da quello che avevano nell' intimo pensiero dello scrittore?
0 conviene interpetrarle con larghezza, con l'altro rischio di
ottenere un significato teoricamente forse più accettabile,
ma storicamente meno genuino?
Certo, queste stesso difficoltà si presentano per gli scritti
di altri pensatori; ma in grado assai notevole per quelli del Marx.
E l'interprete deve procedere con cautela: fare il suo lavoro caso
per caso, libro per libro, proposizione per proposizione, mettendo
bensì i vari testi in relazione l'uno con l'altro, ma tenendo
conto dei vari tempi, delle circostanze di fatto, delle impressioni
fuggevoli, degli abiti mentali e letterari; e deve rassegnarsi a
riconoscere le incertezze e le incompiutezze, dove sono le une e le
altre, resistendo alla tentazione di accertare e compiere di proprio
arbitrio. Può darsi, per esempio, come a me sembra per
parecchie ragioni, che il senso nel quale è enunciato di
sopra il materialismo storico sia quello stesso in cui lo
intendevano il Marx e l'Engels nel fondo del loro pensiero ; o
quello almeno che avrebbero accettato come proprio, se avessero
avuto maggior tempo a loro uso per siffatti lavori di elaborazione
scientifica, e la critica li avesse meno tardivamente raggiunti. Ma
tutto ciò importa sino a un certo segno all'interpetre e allo
storico delle idee; perché, per la storia della scienza, il
Marx e l'Engels sono né più né meno di quel che si
dimostrano nei libri e nell'opera loro, personaggi reali e non
ipotetici o possibili3.
Senonchè, per la scienza in sé stessa, e non per la
storia di essa, anche i Marx e gli Engels ipotetici o possibili
ritengono uso e valore. Ossia, ciò che a noi ora importa
soprattutto è farci presenti i vari modi possibili
d'interpretazione delle questioni proposte e delle soluzioni
escogitate dal Marx e dall'Engels, per scegliere tra queste ultime,
con la critica, quelle che ci sembrano teoricamente vero e
sostenibili.— Quale fu la posizione intellettuale, che prese il Marx
verso la filosofia della storia hegeliana? In che consistette la
critica ch'egli ne fece? E' sempre il medesimo il senso di questa
critica nello scritto pubblicato nei Deutsch-französische
Jahrbücher del 1844, nella Heilige Familie del 1845, nella
Misere de la philosophie del 1847, nell'appendice al Manifesto dei
comunisti del 1848, nella prefazione al Zur Kritik del 1859, e nella
prefazione alla seconda edizione del Capitale del 1873? E parimente,
per il pensiero dell'Engels, nell'Antidühring, nello scritto
sul Feuerbach, e negli altri vari suoi? Pensò mai il Marx
davvero a fare una sostituzione, come alcuni hanno creduto, della
idea hegeliana con la Materia, o col fatto materiale? E quale
relazione aveva poi nella sua mente il concetto di materiale con
quello di economico? E la spiegazione, da lui data, della sua
posizione rispetto ad Hegel: «le idee sono determinate dai
fatti e non i fatti dalle idee», può dirsi
un'inversione della teoria dello Hegel, o non è piuttosto
l'inversione di quella degli ideologi e dei dottrinari?4. Ecco
alcune questioni di storia delle idee, che saranno risolute una
volta o l'altra5.
Mettendo da parte l'aspetto più propriamente storico
dell'indagine, a noi preme ora avanzare nella conoscenza teorica; e
ciò ho tentato di fare, domandando in qual modo ci possiamo
valere scientificamente del materialismo storico, e rispondendo con
le ricerche critiche ricordate in principio di questo paragrafo.
Senza tornare sulle quali, darò qui altri esempi, attinti
allo stesso campo della letteratura marxistica. Come si deve
intendere scientificamente la neodialettica del Marx? Il pensiero
ultimo, esposto dall'Engels sull'argomento, sembra essere questo: la
dialettica è il ritmo dello svolgimento delle cose, ossia la
legge interna delle cose nel loro svolgersi. Questo ritmo non si
determina a priori, e per metafisica deduzione, ma anzi si osserva e
si coglie a posteriori; e solo per le ripetute osservazioni e
verifiche che se ne son fatte nei vari campi della realtà, si
può concludere che tutti i fatti si svolgano per negazioni e
negazioni di negazioni6. La dialettica sarebbe, dunque, la
scoperta di una grande legge naturale, meno vuota e formale della
cosiddetta legge dell'evoluzione. E non avrebbe altro di comune con
la vecchia dialettica hegeliana se non il nome, che conserverebbe il
ricordo storico del modo come il Marx pervenne ad essa. Ma questo
ritmo naturale di svolgimento ha realtà? Ciò non
potrebbe esser stabilito se non dall'osservazione, alla quale si
appellava già l'Engels per affermarne l'esistenza. E che cosa
è una legge, che viene ricavata dalla osservazione?
Può esser mai una legge che domini assoluta sulle cose, o non
è una di quelle che ora si chiamano leggi di tendenza, o non
è anche, piuttosto, una semplice e circoscritta
generalizzazione? E la raffigurazione di quel ritmo naturale per
negazione di negazione non è per caso una scoria di vecchia
metafisica, della quale giovi mondarsi?7. —Questa è
l'indagine che occorre per l'avanzamento della scienza.
E nella stessa guisa si debbono esaminare altre proposizioni del
Marx e dell'Engels. Che cosa penseremo noi della polemica
dell'Engels contro il Dühring circa il principio della storia:
se questo sia la forza politica o il fatto economico? Non ci
parrà che quella polemica possa conservare bensì
qualche valore contro l'affermazione del Dühring, che diceva
«essere il fatto politico ciò che vi è di
storicamente fondamentale», ma in se non abbia quella
importanza generale che accenna ad assumere? Si rifletta per un
momento che la tesi dell'Engels: «la forza protegge (schutzt),
ma non causa (verursacht) lo sfruttamento», potrebbe
esattamente invertirsi nell'altra che: «la forza causa lo
sfruttamento, ma l'interesse economico lo protegge»; e
ciò pel noto principio dell' interdipendenza e reciprocanza
dei fattori sociali.
E la lotta di classe? In che senso è vero il generale
enunciato che la storia è una lotta di classe? Sarei quasi
tentato a dire che la storia è lotta di classe: 1°)
quando vi sono le classi; 2°) quando hanno interessi
antagonistici; 3°) quando hanno coscienza di questo antagonismo.
Il che darebbe, in fondo, l'umoristica eguaglianza, che la storia
è lotta di classe, sol quando è lotta di classe. In
verità, talvolta le classi non hanno avuto interessi
antagonistici, e molto spesso non ne hanno la chiara coscienza; il
che sanno bene i socialisti che si adoprano, con isforzi non sempre
coronati da successo (coi contadini, p. es., non sono ancora
riusciti), a formarla nei moderni proletari. Quanto alla
possibilità della non esistenza delle classi, i socialisti,
che presagiscono questa non esistenza per la società
avvenire, debbono per lo meno ammettere, che essa non è cosa
intrinsecamente necessaria allo svolgimento storico; perché
anche nell'avvenire, e senza le classi, la storia, giova sperare,
continuerà. Insomma, anche l'enunciato particolare, che
«la storia è lotta di classe», ha quel
circoscritto valore di canone e di orientamento, che abbiamo
riconosciuto in genere alla concezione materialistica8.
La seconda delle due questioni, proposte in principio, è: —
Come intendono il materialismo storico i marxisti? — A me non pare
che si possa negare che, nella letteratura marxistica, ossia dei
seguaci ed interpreti del Marx, sia davvero un pericolo metafisico,
contro il quale bisogna star vigili. Anche negli scritti del prof.
Labriola s'incontrano talune proposizioni, le quali hanno porto di
recente occasione a un critico assai rigoroso ed esatto di
concludere: che il Labriola intende il materialismo storico nel
senso genuino ed originario di una metafisica, e di quella della
peggiore specie, quale sarebbe una metafisica del contingente9. Ma,
quantunque io stesso abbia altra volta messo in risalto proposizioni
e formole che negli scritti del Labriola mi sembravano disputabili,
mi pare ancora, come mi parve allora, ch'esse siano escrescenze
superficiali di un pensiero realisticamente sano; o, per dirlo in
modo conforme alle considerazioni svolte di sopra, che il Labriola,
educandosi nel marxismo, ne abbia preso anche alcune di quelle
andature troppo assolate, e, talora, una certa quale noncuranza
nell'elaborazione formale dei concetti: cosa che fa un po'
meraviglia in un antico herbartiano quale esso è10, ma che
poi egli corregge con osservazioni e restrizioni, se pure lievemente
contradittorie. sempre beneficile, perché riconducono sul
terreno della realtà.
Il Labriola, per altro, ha un pregio speciale, che lo distingue dai
soliti esplicatori ed applicatori del materialismo storico. Se le
sue formole teoriche scoprono qua e là il fianco alla
critica, quando poi egli si accosta alla storia, ossia ai fatti
concreti, muta di atteggiamento, quasi getta via il fardello delle
teorie, diventa cauto e riguardoso, perché ha in alto grado
il rispetto della storia. E non cessa di manifestare il suo
aborrimento per gli schematismi d'ogni sorta, là dove si
tratta di appurare e di approfondire determinati processi; né
lascia di avvertire che non esiste «alcuna teoria, tanto buona
ed eccellentissima per sé, che ne abiliti alla sommaria
cognizione di ogni storia particolare»11.
Nel suo ultimo libro, è particolarmente notevole
un'auìpia disquisizione su ciò che possa mai essere
una Storia del Cristianesimo. Il Labriola critica coloro i quali
assumono a subietto di storia l'ente Cristianesimo, che non si sa
dove 0 quando sia esistito; giacché la storia degli ultimi
secoli di Roma (egli dice) mostra semplicemente il nascere e il
crescere di quella che fu l'associazione cristiana o la chiesa,
variante gruppo di fatti tra condizioni storiche varianti.
Certo, chi fa la storia del Cristianesimo intende qualcosa di simile
alla storia della letteratura, della filosofia, dell'arte; ossia a
trascegliere una serie di fatti, che rientrano in un determinato
concetto, e disporli per ordine cronologico, senza perciò
negare o sconoscere le radici che quei fatti hanno in altri fatti
della vita, ma guardandoli da parte per comodo di più minuta
considerazione. Senonchè letteratura, filosofia, arte e
simili sono concetti determinati o determinabili; e il Cristianesimo
è quasi soltanto un motto o una bandiera, di cui si
sono coperte credenze spesso intrinsecamente assai diverse; e,
facendo la storia del Cristianesimo, si rischia di far sovente
proprio la storia di un «nome vano senza soggetto»12.
Ma che cosa direbbe poi il Labriola, se rivolgesse la sua lente
critica su quella Storia dell'origine della famiglia, della
proprietà privata e dello Stato, ch' è una delle
più grosse «applicazioni» storiche fatte dai
marxisti: desiderata dal Marx, schizzata dall'Engels sulla traccia
delle ricerche del Morgan, proseguita da altri? Ahimè, in
questo campo non si è voluto far semplicemente, come forse si
poteva, un utile manuale di fatti storici che rientrano in quei tre
concetti, ma si è creata addirittura una soprastoria: una
storia, per usare il linguaggio stesso del Labriola, dell'ente
Famiglia, dell'ente Stato, e dell'ente Proprietà privata, con
ritmo predeterminato. Una «storia della famiglia» (per
fermarci sopra uno solo dei tre gruppi di fatti) non potrebbe esser
altro se non un'enumerazione e descrizione delle forme particolari
assunte dalla famiglia presso i vari popoli e nel corso dei tempi:
una serie di storie particolari, classificate sotto un concetto
generale. È questo forse ciò che offrono le teorie del
Morgan, ripresentate dall'Engels, le quali la critica moderna ha ora
corrose da tutti i lati?13. Non si è giunti a presupporre
come stadio storico, percorso fatalmente da tutti i popoli, quel
fantastico matriarcato, nel quale si sono confase così la
semplice filiazione materna, come la preminenza della donna nella
famiglia e quella della donna nella società? Non abbiamo
udito i rimproveri, e anzi le derisioni, di cui sono stati fatti
segno da alcuni marxisti quegli storici prudenti, che negano di
poter affermare, nello stato presente della ci'itica delle fonti, un
comunismo primitivo 0 un matriarcato presso il popolo ellenico? In
verità, non mi pare che, in tutta codesta indagine, si sia
data prova di molta avvedutezza critica.
Vorrei similmente richiamare l'attenzione del Labriola sopra
un'altra confusione, frequentissima nella letteratura marxistica,
ch'è quella tra le forme economiche e le epoche economiche.
Sotto l'efficacia del positivismo evoluzionistico, le partizioni che
il Marx enunciò all'ingrosso, economia asiatica, antica,
feudale e borghese, sono diventate quattro epoche storiche:
comunismo, economia a schiavi, economia a serv , e economia a
salariati. Ma la storiografia moderna (che non è poi quella
superficiale cosa, che i marxisti volentieri dicono, risparmiandosi
con quel dire la fatica di prendere parte ai suoi difficili
avanzamenti) sa bene che quelle son quattro forme di ordinamento
economico, le quali si seguono e s'incrociano nella storia reale,
formando spesso le miscele e le successioni più bizzarre. E
conosce un medioevo o feudalismo egiziano come conosce un medioevo o
feudalismo ellenico; e sa anche di un neomedioevo tedesco succeduto
alla fioritura borghese delle città tedesche prima della
Riforma e delie scoperte transoceaniche; e paragona volentieri le
generali condizioni economiche del mondo greco-romano nel suo apogeo
a quelle dell'Europa dei secoli decimosesto e decimosettimo.
Connessa a questa arbitraria concezione delle epoche storiche
è l'altra che pone la causa (si noti bene: la causa) del
passaggio dall'una forma all'altra. E si ricerca, per esempio, la
causa dell'abolizione della schiavitù, che dovrebbe essere
poi la stessa, o che si tratti del decrepito mondo greco-romano o
dell'America moderna; e così del servaggio, e del comunismo
primitivo, e della forma capitalistica: nelle quali ricerche mal
dirette si è reso insigne presso di noi il Loria, scopritore
perpetuo della causa unica, che poi non sa bene esso stesso se sia
la terra, o la popolazione, o che cos'altro. Pure, non ci vorrebbe
molto a persuadersi (basterebbe leggere perciò, con un po' di
attenzione, libri di storia raccontata), che il passaggio dall'una
forma all'altra economica o, in genere, sociale, non è
effetto di causa unica, e neanche di un gruppo di cause che siano
sempre le medesime; ma accade per cause e modi che bisogna esaminare
caso per caso, perché sogliono variare da caso a caso. La
morte è la morte, ma si muore di tante malattie, e ogni
malattia è individuale.
Ma basti di ciò; e mi sia lecito chiudere questo paragrafo
con l'accenno a una questione, che anche mette innanzi il Labriola
nel suo recente libro, e che egli riattacca alla critica del
materialismo storico.
Il Labriola distingue il materialismo storico in quanto
interpretazione della storia, e in quanto concezione generale della
vita e del mondo (Lebens und Weltanschauung). E si domanda, quale
sia la filosofia immanente nel materialismo storico, e, fatte
intorno a ciò parecchie osservazioni, conclude, che questa
filosofìa è la tendenza al monismo, e tendenza
formale.
Qui io mi permetto di osservare che, se nella denominazione di
«materialismo storico» si mettono due cose diverse,
ossia: 1°) un procedimento d'interpretazione, e 2°) una
determinata concezione della vita e del mondo, è naturale che
si ritroverà in esso una filosofia, e magari con tendenza
monistica, perché prima vi è stata messa. Quale legame
logico è tra quei due ordini di pensiero? A me pare che il
Labriola, questa volta, a proposito del materialismo storico, venga
esponendo quello ch'egli reputa l'orientaniento necessario del
pensiero moderno verso le questioni ontologiche, o quello che,
secondo lui, deve essere l'atteggiamento della coscienza
socialistica verso le concezioni ottimistiche e pessimistiche; e che
la sua non sia un'indagine, che metta in chiaro la concezione
filosofica giacente in fondo al materialismo storico, ma una
semplice digressione.
---
È diventato luogo comune, che il socialismo per opera del
Marx sia passato da utopia a scienza, come dice il titolo di un
libriccino popolare dell'Engels; ed è una denominazione
corrente quella di socialismo Il scientifico. Labriola non
nasconde la sua scarsa simpatia per con simile denominazione.
D'altra parte, noi udiamo i seguaci di altri indirizzi, per esempio
i liberisti estremi (i quali cito di preferenza honoris causa,
perché sono anch'essi tra gli «idealisti» dei
nostri tempi), nello stesso nome della scienza, condannare il
socialismo come «antiscientifico», e affermare sola
concezione scientifica quella del liberismo.
Non sarebbe opportuno che, dall'una parte e dall'altra, si facesse
un ritorno sopra se stessi, e una piccola mortificazione di
superbia, e si confessasse che socialismo e liberismo si diranno
bensì scientifici per metafora o per iperbole, ma che
né l'uno né l'altro sono o possono esser mai deduzioni
scientifiche? e, riconosciuto ciò, si trasportasse il
dibattito del socialismo e del liberismo, e di qualsiasi programma
pratico sociale, sopra un altro terreno, che non è quello
della pura scienza, ma ch'è tuttavia il solo ad essi
conveniente?
Fermiamoci un istante sul liberismo. Esso si presenta in una duplice
forma intellettuale, ossia con due diverse giustificazioni. Nella
forma più vecchia, non si può negare che abbia un
fondamento metafisico, ch'è in quella persuasione della
bontà delle leggi naturali e in quel concetto di natura
(diritto di natura, stato di natura, ecc.), che, sorto nella
filosofia del secolo decimosettimo, fu dominante nel decimottavo1.
«Non impedite la natura nel suo operare, e tutto andrà
nel miglior modo». Simile concezione è colpita, in
verità, solo di sbieco dalla critica del Marx, il quale,
analizzando il concetto di natura, mostrava com'esso fosse il
complemento ideologico dello svolgimento storico della borghesia,
un'arma potentissima di cui questa si valse contro i privilegi e le
oppressioni, che mirava ad abbattere2. Quel concetto potrebbe essere
sorto come strumento per un fine pratico e occasionale ed essere
nondimeno intrinsecamente vero.
«Leggi naturali» equivale, in quel caso, a «leggi
razionali»; e la razionalità e l'eccellenza di esse
leggi occorre negare. Ora, appunto, per essere di origine
metafisica, quel concetto si può rigettare radicalmente, ma
non si può confutare in particolare. Esso tramonta con la
metafisica di cui faceva parte; e pare ormai che sia tramontato
davvero. Sia pace alla «gran bontà» delle leggi
naturali. Ma ben diversa è la forma, che il liberismo prende
nei suoi seguaci più recenti, i quali, abbandonati i
presupposti metafisici, stabiliscono due tesi, praticamente
importanti: a) quella di un massimo edonistico economico, che essi
assumono come identico col massimo desiderabile sociale3; e b)
l'altra, che questo massimo edonistico non si possa affermare
pienamente se non per la via della più completa
libertà economica.
Con queste due tesi, noi siamo bensìfuori della metafisica, e
sopra il terreno della realtà, ma non già sopra un
terreno scientifico. Infatti, la prima di esse ha per contenuto una
determinazione dei fini della vita sociale, che sarà forse
accettabile, ma non è deduzione di nessuna proposizione
scientifica. La seconda tesi poi non è dimostrabile se non
con un ricorso all'esperienza, ossia a ciò che sappiamo della
psicologia umana, e a ciò che possiamo congetturare che
questa psicologia sarà ancora probabilmente in futuro.
Congettura che si può fare, ed è stata fatta, con
grande acume, con grande dottrina, con grande cautela, e che
perciò può anche «dirsi» scientifica, ma
solo in senso metaforico ed enfatico, come abbiamo già
notato4.
Il Pareto, che fra i recenti espositori e sostenitori del liberismo,
com'è dei più intelligenti, così è anche
dei più leali5, non nasconde il carattere ristretto ed
approssimativo, che serbano le conclusioni del liberismo; il che a
lui si mostra tanto più evidente, in quanto egli si serve di
formole matematiche, le quali non illudono sul grado di certezza a
cui possono pretendere affermazioni di quella sorta.
In effetti, il comunismo (che ha avuto anch'esso il suo periodo
metafisico, e, prima ancora, un periodo teologico) può
opporre, con pieno diritto, alle due tesi del liberismo le due altre
sue, che consistono: a) in una diversa concezione, che non sia
quella puramente economica, del massimo desiderabile sociale; b)
nell'affermazione che questo massimo si possa ottenere, non col
liberismo estremo, ma anzi con l'organizzazione delle forze
economiche: ch'è il senso della famosa sentenza del salto dal
regno della necessità (= libera concorrenza o anarchia) in
quello della libertà (= dominio dell'uomo sulle forze della
natura, anche nell'ambito della vita sociale-naturale).
Ma neanch'esso può dimostrare queste sue tesi, e per le
medesime ragioni. Gli ideali non si dimostrano, e le empiriche
congetture e le persuasioni pratiche non sono scienza. Il Pareto ha
ben riconosciuto questo carattere del socialismo moderno; ed ammette
che il sistema comunistico, come sistema, sia perfettamente
pensabile, ossia teoricamente non offra interne contraddizioni
(§ 446). Secondo lui, esso urta non contro leggi scientifiche,
ma contro «difficoltà pratiche immense» (ivi),
come l'adottare i progressi tecnici senza l'esperienza e la
selezione che la libera concorrenza compie, la mancanza di stimoli
al lavoro, la scelta degli impiegati, che in una società
comunistica sarebbe guidata non da ragioni esclusivamente tecniche,
come nell'industria moderna, ma da ragioni politiche e sociali
(§ 837).
Egli ammette la critica che fanno i socialisti degli sperperi
prodotti dalla libera concorrenza; ma li crede inevitabili come modi
pratici di giungere a ottenere l'equilibrio della produzione. Il
vero problema da risolvere, egli dice, è: se, senza i
tentativi della libera concorrenza, si possa giungere a conoscere la
linea (la linea, che egli chiama mn del completo adattamento della
produzione ai bisogni, e se la spesa pel funzionamento della
produzione unificata (comunistica) non sarebbe superiore a quella
richiesta dalla soluzione per tentativi delle equazioni di
produzione (§§ 718, 867). Anche riconosce quel che
c'è di parassitario nel capitalista («il cavaliere
dalla trista figura», del Marx); ma sostiene, nel tempo
medesimo, che il capitalista rende servigi sociali, che non si sa
come altrimenti surrogare6. E se si volesse ridurre in brevi
termini l'antitesi dei due diversi modi di vedere, si potrebbe dire,
che i liberisti considerano la psicologia umana come molto fissa, e
i socialisti come molto mutevole e adattabile. Ora è certo
che la psicologia umana cangia e si adatta; ma l'estensione e la
rapidità di questi cangiamenti sono sottratte a
determinazioni sicure e abbandonate alle opinioni e alle passioni.
Potranno formare mai oggetto di calcolo esatto?
Se passiamo ad altro ordine di considerazioni, ch'è quello
non del desiderabile, cioè dei fini e dei mezzi da noi
vagheggiati e reputati eccellenti, ma di ciò che, nella
condizione presente, la storia promette, ossia delle tendenze
obiettive della società moderna, non so davvero con qual
animo molti liberisti gratifichino il socialismo della taccia di
utopia. Con ben altra ragione i socialisti potrebbero ricambiare con
la stessa taccia il liberismo, se lo studiassero qual è
presentemente e non già qual era cinquanta anni fa, quando il
Marx pensava la sua critica. Il liberismo si rivolge con le sue
esortazioni a un ente che, ora almeno, non esiste, all'interesse
nazionale o generale della società; perché la
società presente è divisa in gruppi antagonistici e
conosce l'interesse di ciascuno di questi gruppi, ma non già,
o solo assai debolmente, un interesse generale. Sopra chi contano i
liberisti? sui proprietari di terre o sugl'industriali, sugli operai
o sui detentori di titoli pubblici? Il socialismo invece, dal Marx
in poi, ha fatto ben piccolo assegnamento sulle buone intenzioni e
il buon senso degli uomini, ed ha affermato che la rivoluzione
sociale deve compiersi principalmente per la forza di una classe
dirottannmte interessata, che è il proletariato. E i
progressi del socialismo sono tali, che il pensatore si deve
domandare: se l'esperienza che abbiamo del passato giustifichi il
supporre che un movimento sociale, di tanta estensione ed
intensità, possa riassorbirsi o disperdersi, senza fare larga
prova di sé nel campo dei fatti.
Anche per questo rispetto ricorro con piacere ai Pareto, il quale
riconosceche, finanche nel paese del sogno dei liberisti,
nell'Inghilterra, il sistema si mantiene non per persuasione che sia
negli animi della sua intrinseca bontà, ma perché esso
è favorevole agl'interessi di alcuni imprenditori7. E
riconosce altresì che, facendosi il movimento sociale al modo
stesso di tutti gli altri movimenti, secondo la linea della minore
resistenza, è ben probabile che sia necessario passare per
uno stato socialistico, per arrivare (aggiunge lui) a uno stato di
libera concorrenza (§ 791).
Ho detto che i liberisti estremi sono, ben più dei
socialisti, idealisti, o, se si vuole, ideologi. E noi perciò
assistiamo in Italia a questo curioso spettacolo, di una sorta di
affratellamento e di spirituale simpatia fra socialisti e liberisti,
in quanto gli uni e gli altri si dimostrano critici acerbi e
penetranti dello stesso fatto, che i primi chiamano «tirannia
borghese», e i secondi « socialismo borghese». Ma,
laddove nel campo dell'azione pratica i socialisti (e qui non parlo
più del caso speciale dell'Italia) compiono passi innanzi, i
liberisti debbono star contenti alle frasche e ai fiori della
maldicenza e dei sospiri, formando un piccolo gruppo di persone di
eletta intelligenza e di buone intenzioni, che si ascoltano tra
loro8. Con ciò non intendo dir nulla in biasimo di questi
onesti e radicali e consequenti liberisti: che anzi la mia sincera
ammirazione va ad essi, né l'insuccesso è loro colpa
individuale, ila voglio semplicemente affermare che, se gl'ideali,
al dir del filosofo, hanno le gambe corte, quelle dell'ideale dei
liberisti sembrano poi cortissime.
Potrei proseguire siffatta esemplificazione, ricordando altri
programmi sociali, come quello del socialismo di Stato, che consiste
nell'accettare l'ideale socialistico, ma come scopo ultimo e forse
non mai pienamente conseguibile, distribuendone la parziale
attuazione sopra una lunga scala di secoli, e nel porre la forza
efficiente, non in una classe rivoluzionaria, e nemmeno
semplicemente nell'opinione dei ben pensanti, ma nello Stato,
concepito come potere creatore, indipendente e superiore alle
volontà individuali. Non può di certo negarsi che
anche l'ufficio dello Stato, come tutti gli uffici sociali, per un
complesso di circostanze tra le quali entrano la tradizione, la
reverenza, la coscienza di qualcosa che supera gl'individui, e altre
impressioni e sentimenti che la psicologia collettiva analizza,
acquisti indipendenza e sviluppi forza propria; ma nel misurare
questa forza si cade nei maggiori inganni, come in molti casi ha
provato la critica socialistica; e, a ogni modo, grande o piccola
che essa sia, siamo sempre dinanzi a un calcolo, e, di nuovo, nel
campo dell'opinione, in quel campo che la scienza, in parte,
può ancora acquisire al suo dominio, ma che, per un'altra
gran parte, le sarà sempre ribelle.
Oh gli abusi che si fanno di questo nome «Scienza»! Un
tempo, questi abusi erano monopolio della metafisica, alla cui
natura dispotica parevano consentanei. E si potrebbero arrecare
esempi curiosissimi, anche di grandi filosofi, di Hegel, di
Schopenhauer, di Rosmini, dai quali si vedrebbe come le più
umili conclusioni pratiche, fatte di passioni e interessi degli
uomini, siano state spesso metafisicamente convertite in deduzioni
dallo Spirito, dall'Ente divino, dalla Natura delle cose, dalla
finalità dell'Universo. La metafisica ipostatava ciò
che poi trionfalmente deduceva. E già il giovane Marx
spiritosamente scopriva nell'hegelismo di Bruno Bauer
l'«armonia prestabilita della Critica criticamente condotta
(kritische Kritik) con la Censura tedesca».
Ora coloro, che più hanno la bocca piena della parola
«Scienza», fanno di una particolare forma
dell'intelletto una sorta di Sibilla o di Pitonessa. Ma il
desiderabile non è scienza, e non è scienza il
fattibile9.
La cognizione scientifica è, dunque, cosa affatto superflua
nelle questioni pratiche? A questo paradosso si vuol giungere? — Il
lettore attento si sarà già accorto, che qui non si
disputa dell'utili ti della scienza, sibbene della
possibilità di dedurre, come alcuni pretendono, programmi
pratici da proposizioni scientifiche; e solo codesta
possibilità si nega.
La scienza, in quanto è conoscenza delle leggi dei fatti,
può essere valido istrumento a semplificare le questioni,
rendendo agevole distinguere in esse quel che è
scientificamente accertabile da quel che si può conoscere
solo incompiutamente. Un gran numero di problemi, sui quali si
disputa comunemente, vengono, con tale procedere, schiariti e
risoluti. Per dar un esempio, quando il Marx mostrava, contro il
Proudhon e i suoi predecessori inglesi (Bray, Gray, ecc.),
l'assurdità della creazione dei boni di lavoro, ossia del
lavoro-moneta; e quando l'Engels moveva critiche analoghe al
Dühring, e poi altre, forse meno giustificate, al Rodbertus10;
o quando entrambi stabilivano la stretta connessione tra modo di
produzione e modo di distribuzione, essi si aggiravano nel campo
proprio della dimostrazione scientifica, mirando a provare
l'incongruenza delle illazioni con le premesse, ossia le interne
contraddi-zìodì dei concetti criticati.
Lo stesso è da dire della dimostrazione, che rigorosamente
conducono i liberisti, della proposizione: che ogni sorta di
protezionismo importa distruzione di ricchezza. E, se fosse
esattamente stabilita quella legge della caduta tendenziale del
saggio del profitto, con la quale il Marx intese correggere e
allargare la legge ricardiana dedotta dall'usurpazione progressiva
della rendita fondiaria, potrebbe dirsi, sotto alcune condizioni,
scientificamente certa la fine dell'ordinamento capitalistico
borghese, pure restando dubbio ciò che potrebbe succedergli.
Quella clausola «sotto alcune condizioni» è il
punto da osservare. Tutte le leggi scientifiche sono leggi astratte;
e fra l'astratto e il concreto non c'è ponte di passaggio,
appunto perché l'astratto non è una realtà, ma
uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare, direi quasi,
abbreviato. E, se la conoscenza delle leggi rischiara la nostra
percezione del reale, essa non può diventare questa
percezione stessa.
Nel che si può vedere come ben sentisse il Labriola, quando,
mostrandosi scontento della denominazione di «socialismo
scientifico», proponeva, pur senza dirne le ragioni, che fosse
sostituita da quella di «comunismo critico»11.
Se poi dalle leggi astratte e dai concetti passiamo all'osservazione
della realtà storica, noi troviamo, di certo, i punti di
congiungimento dei nostri ideali con le cose, ma entriamo anche in
quelle previsioni e congetture, nelle quali resta sempre non
eliminabile, come si è detto di sopra, la varietà
delle opinioni e delle tendenze.
Di fronte all'avvenire delle società, di fronte alle vie da
seguire, è il caso di ripetere con Fausto: — Chi può
dire io credo? Chi può dire io non credo?
Non già che qui si voglia raccomandare o in alcun modo
giustificare il volgare scetticismo. Ma occorre, nel tempo stesso,
essere consapevoli della relatività delle nostre credenze, e
praticamente risolversi quando il non risolversi è colpa.
Questo è il punto; e in esso son tutte le angosce degli
uomini adusati a meditare, e di qui nasce spesso la loro impotenza
pratica, che l'arte ha simboleggiata in Amleto. Né si
vorrà, di certo, imitare quel tale magistrato, famoso per
molte miglia all'intorno del paese in cui amministrava giustizia per
la giustezza delle sue sentenze, di cui racconta il Rabelais, che
aveva il semplicissimo metodo, sul punto di prendere la decisione,
di rivolgere una preghiera al Signore e giuocare il sì e il
no a pari e caffo12. Ma bisogna sforzarsi di giungere a un
convincimento subiettivo, e tener poi sempre presente, che le grandi
personalità storiche hanno avuto il coraggio di osare.
«Alea iacta est», disse Cesare; «Gott helfe mir,
amen!», disse Lutero. L'ardimento storico non sarebbe
ardimento, se fosse accompagnato dalla sicura visione anticipata
degli effetti, come nei fanatici o negli ispirati dal Signore.
Per fortuna, la logica non è la vita, e l'uomo non è
solo intelletto. E, se negli stessi uomini nei quali è svolta
la facoltà critica, c'è l'uomo fantastico e
passionale, nella vita delle società l'intelletto ha parte
circoscritta, e con un po' d'iperbole si può anche dire, che
le cose seguono il loro corso, indipendentemente dal giudizio
nostro. Lasciamo ai chiacchieroni (che predicano, non dirò
sulle piazze dove non sarebbero creduti, ma nelle aule universitarie
o nelle sale dei congressi e delle conferenze) il gridare che la
Scienza (e propriamente la loro scienza) è la regina e la
dominatrice della vita. E noi contentiamoci di ripetere col
Labriola, che «la Storia è la vera signora di noi
uomini tutti, e che noi siamo come vissuti dalla Storia».
---
1 Brevemente, ma esattamente, è toccata questa connessione
dall'Ingram, Storia dell'economia politica (trad. it., Torino, Roux,
1892), p. 62.
2 Si vedano, fra i tanti luoghi: Marx, Misere de la philosophie, p.
167 sgg.; Engels, Antidühring, p. 1 sgg.
3 Sui massimi edonistici, cfr. Bertolini-Pantaleoni, Cenni sul
concetto di massimi edonistici individuali e collettivi (in Giorn.
degli econ., s. II, vol. IV), e Coletti, nello stesso Giorn., vol.
V.
4 A proposito di questi usi metaforici della parola
«scienza»: in Italia esiste finanche una Rivista di
polizia scientifica.
5 Cours d'economie polilique (Lausanne, 1896-7).
6 Cfr. anche la sua citata critica del Marx, p. XVIII.
7 «Sauf l'Angleterre, où régne le libre
échange, principalement parce qu'il est favorable aux
intérèts de certains entrepreneurs, le reste des pays
civilisés verse de plus en plus dans le
protectionnisme» (§ 964).
8 Si veda il Giornale degli economisti, eccellente in tutta la parte
critica; e specialmente in esso le «cronache » del
Pareto.
9 Si può osservare che nella difficoltà di dividere il
puramente scientifico dal pratico è la principale cagione dei
pericoli e delle miserie delle discipline sociali e politiche. E si
può anche sorridere di quei naturalisti o di quei loro
ingenui ammiratori, che si offrono a compiere la salvazione delle
scienze sociali e politiche con l'applicar loro i metodi, come
dicono, delle scienze naturali. (Un candido quanto valente astronomo
italiano ha proposto testé la creazione di «osservatori
sociologici», che farebbero in pochi anni, dice lui, della
Sociologia qualcosa di simile all'Astronomia).
10 Si veda la prefaz. alla traduz. tedesca della Misere de la
philosophie (2ª ediz., Stuttgart, 1892); e ora anche in
francese nella ristampa del testo originale della stessa opera
(Paris, Giard et Briére. 1896).
11 Anche il sostantivo «comunismo» è più
proprio, perché vi sono parecchi «socialismi»
(democratico, di Stato, cattolico, ecc.). —
Sulle relazioni tra la dottrina materialistica della storia e il
socialismo, si veda Gentile, op. cit., passim.
12 Pantagruel, III, 39-43.
----
Il Labriola, con l'arguzia che gli è consueta, sferza coloro
che riducono la storia a un caso di coscienza o a un errore di
contabilità.
Con ciò egli richiama alla doppia considerazione: 1°) che
pel Marx la questione sociale non era questione morale; e 2°)
che l'analisi da lui fatta del capitalismo importava lo stabilimento
delle leggi che regolano una determinata forma di società, e
non già la denuncia di un furto, come alcuni
semplicisticamente intendono, quasi che basti restituire all'operaio
l'importo del sopralavoro indebitamente esatto, perché i
conti tornino in regola e la questione sociale sia bella e
risoluta1.
Lasciando questa seconda considerazione, che ci dice ancora una
volta quali travestimenti burleschi si possano compiere di una
dottrina scientifìea, fermiamoci un po' sulla prima formola,
che suol destare d'ordinario i maggiori scandali nei non socialisti;
tanto che molti si adoperano a riformare il socialismo con
l'aggiungervi la moralità.
Invero, non mai scandolezzamento e indignazione sono stati messi
innanzi con minoro proposito.
Quelle asserzioni, che paiono d'indifferentismo morale, hanno nel
Marx significato ben determinato ed altresì ovvio. Si pensi
per un istante, come è stato del resto pensato tante volte,
che nessun ordinamento sociale, di nessuna sorta, possa sussistere
che non abbia la base della schiavitù, ovvero del servaggio,
ovvero del salariato; vale a dire, che schiavitù, servaggio o
salariato siano condizioni naturali dell'ordinamento sociale, senza
le quali non si ottenga quella cosa tanto necessaria all'uomo, che,
da quando almeno è uomo, non ne ha fatto mai di meno: la
società. Innanzi a tale condizione di fotto, qual valore
avrebbero le nostre condanne morali contro quegli esseri umani
dominatori, che si chiamano padroni di schiavi, signori feudali e
capitalisti borghesi, e in favore di quegli esseri umani dominati,
che si chiamano schiavi, servi, lavoratori liberi, i quali, gli uni
come gli altri, non potrebbero essere diversi da quel che sono,
né potrebbero compiere se non l'ufficio ad essi assegnato
dalla natura stessa delle cose?2. Le nostre condanne sarebbero le
condanne dell'ineluttabile: un imprecare leopardiano al
«brutto Poter che ascoso a comun danno impera». Ma la
lode o il biasimo morale si riferiscono sempre a un volere, buono o
cattivo; e tali giudizi sarebbero invece diretti contro cosa che non
è stata voluta da nessuno, ma è da tutti accettata e
sopportata, perché non può essere diversamente. Si
potrà, di certo, lamentarla; ma, col lamentarla, non viene
distrutta e nemmeno intaccata; ossia, si perde tempo.
Questo è ciò che il Marx chiama impotenza della
morale, che vale quanto dire inutilità di proporsì
questioni, le quali nessuno sforzo può risolvere, e che sono
perciò assurde.
Ma, quando invece quelle relazioni di assoggettamento non si
concepiscono come necessarie per l'ordine sociale in genere, ma
semplicemente come necessarie per uno stadio storico di esso; e
quando cominciano a formarsi nuove condizioni che rendono possibile
l'abolirle (come fu il caso del progresso industriale di fronte al
servaggio, e come i socialisti stimano che sia per accadere per le
fasi ulteriori della civiltù moderna rispetto al salariato ed
al capitalismo), allora la condanna morale è giustificata, e
in certa misura efficace ad accelerare il processo di dissoluzione e
a spazzare gli ultimi rimasugli del passato.
Ecco il senso dell'altro detto del Marx: che la morale condanna il
già condannato della storia3.
Quale difficoltà si opponga ad ammettere giudizi siffatti,
anche da parte di chi accetti la più rigorosa delle dottrine
etiche, non riesco a vedere. Qui non si tratta di sconoscere la
dignità della morale, e di volerne fare qualcosa di
accidentale o di relativo; ma, semplicemente, di stabilire le
condizioni del progresso dell'umanità, riportando
l'attenzione dagli effetti inevitabili alle cause fondamentali,
ricercando i rimedi nella natura delle cose e non nelle nostre
fantasticherie e pii desideri. E si deve credere che la ripugnanza
venga, più che da un errore intellettuale, dall'umana
superbia o vanità, per la quale molti iìramano
conservare alle loro povere parole l'efficacia del verbo divino, che
crea la luce col suo fiat4.
Lo stesso sentimento deve trovarsi forse in fondo alla
maraviglia onde si suole accogliere l'altra massima pratica dei
socialisti: che l'operaio si educa con la lotta politica. Ma il
Labriola ha ben ragione di ammirare, nella crescenza del socialismo
tedesco, «questo caso veramente nuovo ed imponente di
pedagogia sociale; e cioè che, in così stragrande
numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si
formi una coscienza nuova, nella quale concorrono in egual misura il
sentimento diretto della situazione economica, che induce alla
lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come mèta o
punto di approdo» Quali mezzi hanno a loro disposizione i
predicatori di massime morali per ottenere un effetto pari? Che cosa
sono quegli operai, che si uniscono in associazioni, che leggono i
loro giornali, discutono gli atti dei loro delegati, accettano le
decisioni dei loro congressi, se non uomini che si educano
moralmente?
Ma in quel sentimento di ripugnanza, che anima molti verso le
massime pratiche dei socialisti, e nel desiderio che essi mostrano
di prendere in nome della morale o della religione la direzione
spirituale educativa dell'operaio, c'è anche, direi, un
timore e una paura. Il timore, cioè, che la forza politica
del proletariato possa portare a uno sfrenamento bestiale di masse
popolari e a non si sa quale sconquasso sociale; quasi che simili
sfrenamenti la storia non li ricordasse appunto nei tempi pei quali
maggiore si suol presumere l'impero della religione sulle coscienze,
come nelle jacqueries del secolo decimoquarto in Francia, e poi
nella guerra dei contadini della Germania, ed in cui era nulla la
cultura politica delle plebi5. E la paura, che viene
dall'intendere che i moti proletari istintivi e ciechi si domano,
laddove la coscienza rischiarata può ricevere solo sconfitte
temporanee. Non osserva il Momrasen, a propositi> delle rivolte
degli schiavi dell'antica Eoma: che gli Stati sarebbero ben felici
se non avessero altri pericoli faori di quelli che ad essi possono
venire dalle rivolte di proletari, «che non sono maggiori dei
pericoli che danno branchi di orsi 0 di lupi affamati»?
Chiarite queste proposizioni di etica e di pedagogica socialistica,
alcuno potrebbe ancora domandare: —Ma qual era il pensiero
filosofico del Marx e dell'Engels intorno alla morale? Erano essi
relativisti, utilitari, edonisti, idealisti, razionalisti, o che
cosa altro?
Mi si permetta di rispondere che questa domanda non ha molta
importanza, e nemmeno opportunità, perché uè il
Marx né l'Engels furono filosofi dell'etica, né
spesero molta parte del loro ingegno intorno a siff'atte questioni.
Importa bene stabilire che le loro conclusioni rispetto all'ufficio
della morale nei moti sociali, e rispetto al metodo di educazione
del proletariato, non contengono nessuna contraddizione di principi
etici generali, se pure qua e là urtano contro i pregiudizi
della pseudomorale corrente. Le loro personali opinioni sui principi
dell'etica non presero, nelle loro opere, forma scientificamente
elaborata; e qualche frizzo e qualche sarcasmo non sono documenti
bastevoli a instituire una discussione in proposito.
E dirò ancora di più: a me che, in fatto di etica, non
son riuscito ancora a liberarmi dalla prigionia ddla critica
kantiana, e che non veggo ancora superata la posizione assunta dal
Kant, e anzi la veggo da alcune tendenze modernissime rafforzata,
non può molto garbare il modo in cui l'Engels discettò
contro il Dühring sui principi della morale nel suo noto
libro6. Anche qui si ripete il procedere, che abbiamo già
censurato a proposito delle discussioni sul concetto generale del
valore. Dove il Dühring, per bisogni di scientifica astrazione,
prende a considerare l'individuo isolato, ed esplicitamente dichiara
trattarsi di una costruzione astratta (Denkschema), l'Engels dice
(spiritosamente, se si vuole, ma erroneamente), che quell'uomo
isolato non è se non una nuova edizione del primitivo Adamo
nel Paradiso terrestre. Anche in quella critica sono molti colpi
bene aggiustati ; ed anzi essa potrebbe in generale dirsi esatta, se
la si riferisse solamente alle concezioni etiche nel senso di
complessi di particolari regole e giudizi morali, relativi a
determinate situazioni sociali, i quali complessi non possono
pretendere a validità per tutti i tempi e per tutti i luoghi,
appunto perché sono sempre nati per certi tempi e per certi
luoghi. Ma, oltre queste particolari regole, l'analisi presenta i
principi fondamentali e direttivi della morale, che danno origine a
problemi 1 quali possono essere, sì, variamente risoluti, ma,
di certo, non sono dal Marx e dall'Engels presi in considerazione.
E, veramente, se alcuno potrà mai dissertare della
«dottrina della conoscenza secondo il Marx»7, dissertare
del principio dell'etica secondo il Marx mi pare fatica vana per
mancanza di materia.
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1 L'assurdità di questa interpetrazione si farà
evidente sol che si rifletta che si hanno frequenti casi, nei quali
il capitalista industriale paga pel lavoro dell'operaio un prezzo
superiore a quello che poi realizza sul mercato: casi, è
vero, nei quali esso capitalista va incontro alla rovina e al
fallimento, ma che non però gli riesce sempredi evitare.
«Marx part des recherches faites par cette école
anglaise, dont il avait fait une étude approfondie; et il
veut expliquer le profit sans admettre aucun brigandage»
(Sorel, art. cit, p. 227).
2 Si veda nell'Antidühring. p. 303, la giustificazione
storica della divisione delle classi.
3 Tra i molti luoghi, che confermano questa interpetrazione, si
vedano Antidühring , pp. 152-3, 206, e specialmente pp. 61-2, e
la prefaz. alla traduz. tedesca della Misere della Misère de
la philosophie, (2ª ediz., Stuttgart, 1892), pp. IX-X. Cfr.
anche Labriola, op. cit., lett. Vili.
4 Si vedano in Labriola, lett. cit., le osservazioni sulle
difficoltà che incontra la dottrina del materialismo storico
nelle disposizioni degli animi, e intorno a coloro che vogliono
«moraliser le socialisme ».
Un caso, per certi rispetti analogo a questo delle discussioni
sull'etica del Marx, è la critica tradizionale all'etica del
Machiavelli: critica che fu superata dal De Sanctis (nel capitolo
intorno al Machiavelli, della sua Storia della letteratura), ma che
ritorna di continuo e si afferma anche nell'opera del prof. Villari,
il quale ripone l'imperfezione del Machiavelli in ciò:
ch'egli non si propose la questione morale. E a me è accaduto
sempre di domandarmi per qual ragione, per qual obbligo, per qual
contratto il Machiavelli dovesse trattare ogni sorta di questioni,
anche quelle per le quali non provava interessamento o sulle quali
non credeva di aver nulla di nuovo da dire. Sarebbe il medesimo che
rimproverare a chi faccia
ricerche di chimica di non risalire alle indagini generali
metafìsiche sui principi del reale, —
Il Machiavelli muove dallo stabilire un fatto: la condizione di
lotta, nella quale si trova la società, e dà regole
conformi a questa condizione di fatto. Perchè doveva fare,
lui che non era tagliato a filosofo moralista, l' etica della lotta?
Egli va diritto alle conclusioni pratiche. Gli uomini sono tristi
(dice), e coi tristi occorrono procedimenti tristi. Tu ingannerai
chi t' ingannerebbe di certo. Tu farai violenza a chi farebbe
violenza a te. —
Queste massime non sono né morali né immorali,
né benefiche né malefiche; diventano tali secondo i
fini subiettivi e gli effetti obiettivi dell'azione, secondo
cioè le intenzioni e i risultamenti. Quel ch' è certo,
una morale che volesse introdurre per la guerra le massime della
pace sarebbe una morale per agnelli da sgozzare, non per uomini che
lottano per affermare il loro diritto. «E se gli uomini
fossero tutti buoni, questo precetto non saria buono, ecc. ecc.
», dice lo stesso Machiavelli (Principe, cap. XVIIl).
Il Villari è ancora impigliato nella vieta formola del
«fine che giustifica i mezzi», e del «fine
morale» e dei «mezzi immorali». Pur basta
considerare che i mezzi, appunto perché sono mezzi, non si
possono distinguere in morali e immorali, ma semplicemente in adatti
e disadatti; e che «mezzo immorale», quando non è
un'espressione del linguaggio
volgare, è una contradizione in termini, perchè la
qualifica di morale e immorale non appartiene se non al fine. E,
negli esempi che si sogliono citare ad terrenduni, un'analisi un po'
accurata riconosce subito, che non si tratta mai di mezzi immorali,
ma di fini immorali. — Il culmine della confusione viene poi attinto
da coloro, che introducono nel problema l'assurda distinzione di
morale privata e di morale pubblica.
Mi si perdoni la digressione; ma, come dicevo, dubbi affatto
analoghi ricompaiono ora a proposito delle massime etiche del
marxismo.
5 E sarebbe il caso di chiamare a paragone le rivolte di contadini,
delle quali ci ha presentato ancora esempì l'Italia odierna,
con le lotte politiche degli operai tedeschi, o con quelle
economiche delle Trades Unions in Inghilterra.
6 Si veda in particolare parte I, cap. IX, Moral und Recht. Ewige
Wahrheiten.
7 Si vedono i pensieri del Marx: Ueber Feuerbach, del 1845, in
appendice allo scritto dell'ENGELS, Ludwig Feuerbach und der Ausgang
der klassischen deutschen Philosophie (2ª ediz., Stuttgart,
1895), pp. 59-62; e cfr. Andler, in Revue de mètaphisique,
1897, Labriola, op. cit., passim, e Gentile, l. c, p. 391. Sotto
quest'aspetto (ossia restringendo l'affermazione alla dottrina della
conoscenza) si potrebbe parlare col Labriola di un materialismo
storico in quanto filosofia della praxis, ossia come di un modo
particolare di concepire e di risolvere, anzi di superare, il
problema del pensiero e dell'essere. —
8. La «filosofia della praxis » è ora studiata di
proposito dal Gentile, nel citato volume.
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Le osservazioni precedenti sono in parte tentativi di
interpretazione, e in parte di correzione critica di alcuni concetti
e dottrine del Marx e della letteratura marxistica. Ma altri punti
meriterebbero di essere sottomessi a revisione: a cominciare da quel
concentramento della proprietà privata in poche mani, che
minaccia di diventare qualcosa di simile alla screditata ferrea
legge del salario, fino a quella ardita proposizione di storia della
filosofia, cheil proletariato sia l'erede della filosofia classica
tedesca. E si potrebbe portare l'attenzione sopra altri gruppi di
quesiti che noi non abbiamo considerati (p. es., sulla concezione
della società futura), e sugli svolgimenti particolari e le
applicazioni storiche e pratiche del marxismo1. Se la
«dissoluzione del marxismo», che alcuni preannunziano -,
dovesse significare una rigorosa revisione critica di esso, sarebbe
davvero la benvenuta.
Intanto, per offrire in compendio i principali concetti esposti in
questa memoria, dirò che in essa si propugna:
1° Sotto il rispetto della scienza economica, la giustificazione
della economia marxistica, intesa non in quanto scienza economica
generale, ma in quanto economia sociologica comparativa, che tratta
delle condizioni del lavoro nelle società ;
2° Sotto il rispetto della teoria della storia, la liberazione del
materialismo storico da ogni concetto aprioristico (sia esso
eredità hegeliana o contagio di volgare evoluzionismo), e
l'intendimento della dottrina come fecondo bensì, ma semplice
canone d'interpretazione storica;
3° Sotto il rispetto pratico, l'impossibilità di dedurre il
programma sociale marxistico (ma anche ogni altro programma sociale)
da proposizioni di pura scienza, dovendosi portare il giudizio dei
programmi sociali nel campo dell'osservazione empirica e delle
pratiche persuasioni;
4° Sotto il rispetto etico, la negazione della intrinseca
amoralità o dell'intrinseca antieticità del marxismo.
Aggiungerò un'osservazione sul secondo punto. A molti
sembrerà che, ridotto il materialismo storico nei confini in
cui l'abbiamo ristretto, esso non solo non sia più una vera e
propria teoria scientifica (il che siamo ben disposti a concedere),
ma perda addirittura qualsiasi importanza; e contro questa seconda
conseguenza noi, come già altra volta, torniamo a protestare
vivamente.. È, senza dubbio, cervellotico l'aborrimento che
professano taluni per la scienza pura e per le astrazioni,
giacché quei procedimenti intellettuali sono indispensabili
alla conoscenza stessa della realtà concreta; ma non è
meno cervellotica l'esclusiva stima delle proposizioni astratte,
delle definizioni, dei teoremi, dei corollari: quasi che in
ciò consista non si sa quale aristocrazia dello spirito
umano.
I puristi economici (per non togliere esempi da altri campi, e si
potrebbe trovarne in copia nelle matematiche pure) mostrano col
fatto come non sia poi sovente cosa troppo importante, e neanche
troppo ardua, la «scoperta» di «teoremi
scientifici», severamente, impeccabilmente scientifici, e
nondimeno poco sapidi: basti considerare, per persuadersene, quanti
e quanti eponimi di nuovi teoremi sbuchino fuori da ogni angolo
delle scuole di Germania o d'Inghilterra. E dalle reti a larghe
maglie delle astrazioni e delle ipotesi scivola, inafferrabile, la
realtà concreta, ossia il mondo stesso in cui noi viviamo e
ci moviamo, e che c'importa conoscere. Il Marx, come sociologo, non
ci ha dato, di certo, definizioni sottilmente elaborate della
«socialità», come se ne possono trovare nei libri
di qualche sociologo contemporaneo, dei tedeschi Simmel e Stammler o
del francese Durckheim: ma egli insegna, pur con le sue proposizioni
approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare
in ciò ch'è la società nella sua realtà
effettuale. Anzi, per questo rispetto, mi meraviglio come nessuno
finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo di onore, il
«Machiavelli» del proletariato.
Ed aggiungerò anche un'osservazione sul terzo punto. Se il
programma sociale del marxismo non può essere contenuto tutto
nella scienza marxistica né in alcun'altra scienza, anche la
pratica quotidiana della politica socialistica non può
essere, a sua volta, contenuta tutta nei principi generali del
programma. Il qual programma, ad analizzarlo, offre: 1°) un fine
ultimo (l'ordinamento tecnico della società); 2°) una
motivazione storica di questo fine, cercata nelle tendenze obiettive
della società moderna (necessità della dissoluzione
capitalistica e dell'ordinamento comunistico come il solo
progressivamente possibile); 3°) un metodo (aiutare lo
svolgimento estremo della borghesia ed educare politicamente la
classe destinata a succederle).
Il Marx, mercè la sua politica genialità, ha per molti
anni accompagnato e guidato, col consiglio e con l'opera, il
movimento socialistico internazionale; ma non poteva dare precetti e
catechismi buoni per tutte le contingenze e complicazioni storiche.
Ora, la continuazione dell'opera politica del Marx è assai
più difficile della continuazione della sua opera
scientifica. E se in questa seconda continuazione i cosiddetti
marxisti sono caduti talvolta in un poco ammirevole dommatismo
scientifico, taluni casi recenti chiamano a meditare il pericolo,
che anche la continuazione della prima possa pervertirsi in un
dommatismo di pessimi effetti, qual è il dommatismo politico.
Ciò rende pensosi tutti i più avveduti marxisti, il
Kautsky e il Bernstein in Germania, il Sorel in Francia; e riempie
di gravi ammonimenti il nuovo libro del Labriola, dal quale questo
scritto ha preso le mosse.
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1 Alcune interpetrazioui potrebbero essere semplici spiegazioni
verbali, come circa l'ostica proposizione che il socialismo miri ad
abolire lo Stato. Pur basta riflettere che «Stato» pei
socialisti è sinonimo di differenza di classi, e di esistenza
di classi dominatrici, per comprendere che, come si può
parlare in tal caso dell'origine dello Stato, così si
può parlare della sua firte; il che non significa la fine
della società regolata (cfr. Antidilhring, p. 302). — Non
poca elaborazione ci-itica i-ichiede la concezione del modo in cui
viene concepita la fine della società capitalistica, sul qual
punto il pensiero del Marx e dell'Engels non é senza
oscurità e contraddizioni (efr. Anliflilhrinri, pp. 287 sgg.,
e 297).
2 Ch. Andler, Les origines du socialisme d'état en Allemagne (Paris, Alcan, 18.97). L'Andler promette un libro, e fa ora un corso
di lezioni, sulla «dissoluzione del marxismo».
Novembre 1897.