III

PER LA INTERPRETAZIONE E LA CRITICA

DI ALCUNI CONCETTI DEL MARXISMO


I

Del problema scientifico nel «Capitale» del Marx.


Sebbene dell'opera di Carlo Marx si siano fatte molte esposizioni, analisi cistiche, compendi, e finanche estratti condensati in opuscoli di propaganda popolare, è cosa tutt'altro che facile, e richiede non piccolo sforzo d'ingegno filosofico ed astrattivo, intendere la natura propria della ricerca che il Marx venne eseguendo. All'intrinseca difficoltà della cosa si aggiunge, che non pare che l'autore stesso avesse sempre piena consapevolezza della peculiarità, ossia della differenza teorica della sua ricerca rispetto alle altre che si possono esercitare sui fatti economici; e, a ogni modo, disprezzò o trascurò tutte quelle spiegazioni preliminari e metodiche, che potevano chiarire il suo assunto. E si aggiunge anche la composizione dell'opera, mista di teorie generali, di polemiche e satire amare e di esemplificazioni o digressioni storiche, e disposta in modo che solo il professore Loria (lui beato!) poteva giudicare il Capitale uno dei libri «più belli e più simmetrici», che esistano; quando invece è veramente asimmetrico, disordinato, sproporzionato, urtante contro tutte le leggi dell'estetica: qualcosa di simile, per taluni rispetti, alla Scienza nuova del Vico.

E c'è, infine, altresì la fraseologia hegeliana, cara al Marx, di cui ora si è in certo modo smarrita la tradizione, e che, in quella tradizione stessa, egli adoperava con una libertà, che talvolta sembra non priva di una punta di scherzo. Onde non deve far che meraviglia  il Capitale sia passato, a volta a volta, per un trattato di economia, per una filosofia della storia, per un complesso di cosiddette leggi sociologiche, per una requisitoria morale e politica, e, finanche, nelle teste di alcuni, per un pezzo di storia raccontata.
Pure chi si domandi qual'è la forma e quale la comprensione della ricerca del Marx, e prescinda, com'è giusto, da tutto il materiale storico e polemico e descrittivo (che spetta bensì all'organismo del libro, ma non a quello della ricerca fondamentale), può scartare subito la maggior parte delle definizioni sopraccennate, e stabilire fermamente questi due punti:

1°) Come forma, non v'ha dubbio che il Capitale sia una ricerca astratta: la società capitalistica, che il Marx studia, non è la tale o tale altra società, storicamente esistente, della Francia o dell'Inghilterra, e neanche la società moderna delle nazioni più civili, dell'Earopa occidentale e dell'America. È una società ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che (diciamo così) potrebbero anche non essersi presentate mai come fatti reali nel corso della storia. È vero che queste ipotesi rispondono in buona parte alle condizioni storiche del mondo civile moderno; ma ciò, se conferisce importanza alla ricerca del Marx, perché giova a fare intendere organismi sociali che ci toccano assai da vicino, non ne cangia l'indole. In nessuna parte del mondo s'incontreranno le categorie del Marx come personaggi vivi e corpulenti, appunto perché quelle sono astrazioni, e, per vivere, hanno bisogno di perdere alcune parti e acquistarne altre.

2°) Come comprensione, la ricerca del Marx non abbraccia tutto il territorio dei fatti economici, e neanche quella sola regione ultima e dominante in cui tutti i fatti economici hanno la sorgente, quasi fiumi scendenti da una montagna. Essa si restringe invece a una particolare formazione economica, che è quella che si ha luogo in una società con proprietà privata del capitale, o, come il Marx dice (con espressione che gli è propria), «capitalistica». Restano fuori, non solo le altre formazioni storicamente accadute o teoricamente possibili, come le società a monopolio o le società comunistiche; ma benanche l'ordine delle operazioni economiche comuni alle varie società e alla economia individuale. Se, insomma, il Capitale come forma non è una descrizione storica, come comprensione non è un trattato di economia, e molto meno un'enciclopedia1.

Ma, stabiliti questi due punti, non si è ancora conosciuta la qualità propria della ricerca del Marx. Se il Capitale non fosse altro che ciò che abbiamo determinato sinora, sarebbe semplicemente una monografia economica delle leggi della società capitalistica. E una simile monografia il Marx non avrebbe potuto farla se non in un sol modo: descrivendo quelle leggi, e spiegandole con le leggi generali o coi concetti fondamentali dell'economia; riducendo, insomma, il complesso al semplice, o passando per deduzione, e con l'aggiunta di nuove ipotesi, dal semplice al complesso. Egli così avrebbe mostrato, con metodica esposizione, come i fatti apparentemente più diversi del mondo economico, siano retti, in ultimo, da una medesima legge; o, ch'è lo stesso, come codesta legge si rifranga variamente passando attraverso ordinamenti vari, senza mutare sé stessa, che altrimenti mancherebbe il modo e il criterio della spiegazione. Tale lavoro era stato già in gran parte compiuto al tempo del Marx, e dopo di lui è stato ancora proseguito dagli economisti, ed ha conseguito un alto grado di perfezione; come può vedersi, per esempio, nei trattati economici dei nostri italiani Pantaleoni e Pareto. Ma io dubito assai che il Marx sarebbe diventato economista per darsi a un genere di studi d'interesse soprattutto teorico o scolastico che si dica. A ciò ripugnava la sua personalità di uomo pratico e di rivoluzionario, impaziente delle ricerche che non avessero stretto legame con gl' interessi della vita storica e attuale. Se il Capitale fosse dovuto essere una monografia puramente economica, si potrebbe metter pegno che non sarebbe nato.

Che cosa, dunque, fece il Marx, e a quale trattazione sottopose i fenomeni della società capitalistica, che non sia la trattazione di pura teoria economica? Il Marx assunse, fuori del campo della pura teoria economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza di valore e lavoro; ossia la proposizione, che «il valore dei beni prodotti da lavoro è eguale alla quantità di lavoro socialmente necessaria per produrli». Solo in virtù di questa assunzione la ricerca sua propria prese cominciamento.
Ma quale legame questa proposizione ha con le leggi della società capitalistica? Ossia, quale ufficio essa compie nella ricerca? E qual è poi il suo intrinseco significato? — Ecco ciò che il Marx non dice mai espressamente: ed è questo anche il punto intorno a cui sono nate le maggiori confusioni e più si sono sbizzarriti gl'interpetri e i critici.
Alcuni dei quali hanno considerato la legge del valore-lavoro come legge storica, propria della società capitalistica, e che determinerebbe tutte le manifestazioni di questa2; ed altri, stimando giustamente che i fatti della società, capitalistica non sono punto determinati da una legge di quella sorta, ma ubbidiscono ai generali motivi economici propri della natura dell'uomo, hanno rifiutata la legge come un assurdo, al quale il Marx sarebbe pervenuto spingendo alle estreme conseguenze un concetto poco felice del Ricardo.

La critica si aggirava così tra l'accettazione totale, accompagnata da interpretazione evidentemente errata, e il rifiuto totale e sommario del procedere del Marx; quando, negli ultimi anni, e segnatamente dopo la comparsa del terzo volume postumo del Capitale, si è cominciato a tentare e a percorrere una via migliore. In verità, nonostante le calorose difese, la dottrina del Marx restava sempre oscura; e, nonostante le disdegnose e sommarie condanne, essa mostrava pur sempre una vita tenace, quale non hanno di solito gli spropositi e i sofismi. Ed è perciò merito del prof. Werner Sombart, della università di Breslavia, di aver affermato, in un lucido scritto, che le conclusioni pratiche del Marx si possono rigettare per ragioni politiche, ma che, scientificamente, occorre anzi tutto intendere il pensiero di lui3.

Il Sombart, dunque, rompendola apertamente con la interpretazione della legge del valore del Marx come legge reale dei fatti economici, e dando espressione più compiuta e più coraggiosa agli accenni timidi già fatti da talun altro (C. Schmidt), disse: che la legge del valore del Marx non è un fatto empirico, ma un fatto del pensiero (keine empirische, soudern eine gedankliche Thatsache); che il valore del Marx è un fatto logico (eine logische Thatsache), il quale serve di aiuto al nostro pensiero per intendere le cose della vita economica4.

Questa interpretazione fa, nella sua linea generale, accettata dall'Engels, in uno scritto composto qualche mese prima della sua morte e pubblicato postumo. All'Engels sembrava che «essa non potesse appuntarsi d'inesattezza, ma che, tuttavia, fosse troppo vaga e convenisse esporla con maggiore precisione»5.

Per la stessa via accennano a mettersi le acute e dubitose osservazioni che, intorno alla teoria del valore, ha pubblicato di recente un valente marxista francese, il Sorel, in un articolo del Journal des économistes. Nel quale riconosce, che dalla teoria del Marx non c'è modo di passare ai fatti reali della vita economica, e che, se essa può dare «schiarimenti» in senso assai ristretto, non sembra, per altro, che possa mai «spiegare», nel senso sciontiiìco della parola6.

E, or ora, il prof. Labriola, in un rapido accenno alla stessa quesiione, alludendo di certo al Sombart, e parte accettando e parte criticando, scrive anch'esso che «la teoria del valore non rappresenta un factum empirico, né esprime una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato; ma è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile»7.

Questa espressione del Labriola a me sembra, invero, assai più esatta di quella del Sombart; il quale, per altro, si mostrava esso stesso scontento della sua denominazione, come chi ancora non abbia in mente un concetto a pieno determinato, e non riesca perciò a trovare una locuzione soddisfacente. «Fatto del pensiero, fatto logico», è dir troppo poco, perché si sa bene che tutte le scienze sono tessuti di fatti logici, ossia di concetti. Il valore-lavoro del Marx non è solo una logica generalità, ma anche è un concetto pensato ed assunto come tipo, ossia qualcosa di più o di diverso da un mero concetto logico. Esso non ha già l'inerzia dell'astrazione, ma la forza di qualcosa determinato e particolare, che compie rispetto alla società capitalistica, nell'indagine del Marx, l'ufficio di termine di comparazione, di misura, di tipo8.

Assunta questa misura o tipo, la ricerca, pel Marx, si configurò a questo modo:—Posto che il valore è eguale al lavoro socialmente necessario, mostrare con quali divergenze da tale misura si formino i prezzi delle merci nella società capitalistica, e come la stessa forza-lavoro acquisti un prezzo ediventi una merce. — Il Marx formolo tale problema con modi, a dir vero, impropri; giacche il valore tipico, assunto da lui come misura, egli lo presentò come la legge dei fatti economici della società capitalistica. Ed è, se si vuole, la legge, ma nella sua concezione, non già nella realtà economica. È ben chiaro che si possono concepire le divergenze rispetto a una misura come le ribellioni della realtà di fronte a quella misura, che ha ricevuto da noi dignità di legge.

Formalmente considerando, non vi ha nulla da ridire contro la ricerca istituita dal Marx. Non è forse procedimento solito di analisi scientifica quello che prende a considerare un fatto non solo così come è dato, ma anche in ciò che sarebbe se uno dei fattori di esso venisse a variare, e nel paragonare il fatto ipotetico col reale, trattando il primo come divergente dal secondo che si assume fondamentale, 0 il secondo dal primo, che si assume nel senso medesimo? Se io costruissi per deduzione le massime morali che si svolgono in due gruppi sociali in condizione di lotta l'uno contro l'altro, e se le mostrassi divergenti dalle massime morali che si svolgono nello stato di pace, farei qualche cosa di analogo al raccostamento compiuto dal Marx. E non sarebbe neanche gran male (benché non sarebbe espressione felice e precisa) dire, in senso figurato: che la legge delle massime morali del tempo di guerra è quella stessa delle massime del tempo di pace, accomodata alle nuove condizioni e trasformata in modo, che pare, in ultimo, contraddizione di sé stessa. Il Marx, finché si aggira nei limiti della ipotesi, procede con perfetta correttezza. L'errore potrebbe cominciare solo quando, esso o altri, confondesse l'ipotesi con la realtà, e il modo del porre e del misurare col modo dell'essere. Finche non si cade in siffatto errore, il procedimento è incensurabile.

Senonchè, questa giustificazione formale non basta: ci vuole dell'altro. Con processo metodico corretto si può pervenire a risultamenti senza importanza, e compiere semplici giochetti di pensiero. Assumere una misura di comparazione arbitraria, e paragonare, e dedurre, e finir con lo stabilire una serie di divergenze da quella misura; a che mena? Ciò, dunque, che occorre giustificare è la misura stessa: ossia occorre determinare l'utilità che può avere per noi.

Anche tale questione, sebbene non formolata proprio a questo modo, si è presentata ai critici del Marx; e una soluzione se ne è data già da un pezzo, e da molti, col dire che l'uguaglianza del valore col lavoro è un ideale etico-sociale, un ideale morale. Ma niente di più erroneo in sé, come niente di più lontano dal pensiero del Marx si potrebbe concepire di codesta interpretazione. Dalla premessa che il valore è eguale al lavoro socialmente necessario, quale illazione morale si può mai cavare? Se ci si riflette alquanto, proprio nessuna. Lo stabilimento di quel fatto non dice nulla sui bisogni delle società, che rendano conveniente l'uno o l'altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e del modo della ripartizione. Il valore sarà bene eguale al lavoro; e non pertanto condizioni storiche speciali renderanno necessaria la società di caste o di classi, divisa in governanti e governati, dominatori e dominati, con conseguente ineguale ripartizione dei prodotti del lavoro. Il valore sarà bene eguale al lavoro; ma, anche ammesso che nuove condizioni storiche rendano mai possibile la sparizione della società di classi, e l'avvento della società comunistica, ed anche ammesso che in questa società la ripartizione possa aver luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita, tale ripartizione non sarebbe già una illazione dalla stabilita eguaglianza del valore col lavoro, ma una misura adottata per ragioni speciali di convenienza sociale9. 

E non si può dir nemmeno che tale eguaglianza contenga in se un ideale di giustizia perfettase pure non attuabile), perché il criterio del giusto non ha nessun rapporto con le differenze, spesso meramente naturali, nella capacità di compiere un maggior o minor lavoro sociale e di produrre un maggiore o minor valore. Dall'eguaglianza del valore col lavoro non si può trarre, dunque, né una massima di astratta giustizia, ne una massima di convenienza ed opportunità sociale. Entrambe queste massime non possono fondarsi se non sopra ordini di considerazione affatto diversi da quello di una semplice equazione economica.

Assai meglio il Sombart, tenendosi immune di questa confusione, ha cercato il significato della misura posta dal Marx nel seno stesso della società, e fuori dei nostri giudizi morali. Egli dice perciò che il lavoro è «il fatto economico oggettivamente più rilevante», e che il valore, nel pensiero del Marx, non è «se non l'espressione economica del fatto della forza produttiva sociale del lavoro, come fondamento dell'esistenza economica».
Ma questa ricerca a me pare che sia stata piuttosto iniziata che condotta a buon fine; e, se dovessi dire in qual verso essa dovrebbe essere perfezionata, direi che bisognerebbe sforzarsi di determinare e chiarire quella parola «oggettivo», ch'è o vaga o metaforica. Che cosa significa un fatto economicamente oggettivo? Non indica questa parola piuttosto il presentimento di un concetto, che la formazione distinta di questo concetto stesso?

Solo in via di tentativo, aggiungerò che l' «oggettivo» (che ha per termine di relazione il «soggettivo»), a me non pare che convenga al caso. Prendiamo, invece, a considerare, in una società, solo ciò ch'è propriamente vita economica; ossia, nella società complessiva, solamente la società economica. Togliamo poi da quest'ultima, per astrazione, tutti i beni che non sono aumentabili col lavoro. Togliamo, per un'altra astrazione, tutte le differenze di classi, le quali possono riguardarsi come accidenti rispetto al concetto generale di società economica. Prescindiamo da ogni modo di distribuzione della ricchezza prodotta, che, come abbiamo detto, può essere determinato solo da ragioni di convenienza o anche di giustizia, e sempre dalla considerazione di tutto il complesso sociale e non già dalla considerazione esclusiva della società economica. Che cosa resta, dopo aver fatto queste successive astrazioni? Niente altro che: la società economica in quanto società lavoratrice10.  E per questa società senza differenza di classi, ossia per una società economica in quanto tale, e i cui soli beni consistano in prodotti di lavoro, che cosa può essere il valore? Evidentemente, la somma degli sforzi, ossia la quantità di lavoro, che le costa la produzione delle diverse categorie di beni. E poiché qui si parla dell'organismo sociale economico, e non già dei singoli individui viventi in esso, è naturale, che questo lavoro non possa essere se non calcolato per medie, epperò come lavoro socialmente (di società, ripetiamo, qui si tratta) necessario.
Cosicché il valore-lavoro apparirebbe in questo caso come quella determinazione del valore, propria della società economica in sé stessa, considerata solo in quanto produttrice di beni aumentabili col lavoro.

Da questa definizione si può trarre un corollario, che e il seguente: la determinazione del valore-lavoro avrà una certa rispondenza nei fatti sempre che esisterà una società, che produca beni per mezzo del lavoro. Nel fantastico Paese di Cuccagna questa determinazione non avrebbe nessuna rispondenza nei fatti, perché tutti i beni esisterebbero in quantità superiore ai bisogni; come è chiaro anche che la stessa determinazione non avrebbe modo di attuarsi in una società, i cui beni fossero inferiori ai bisogni, ma non aumentabili per lavoro. Ma la storia ci mostra finora solamente società che, accanto al godimento dei beni non aumentabili per lavoro, hanno provveduto a soddisfare i loro bisogni col lavoro.

Cosicché questa eguaglianza del valore col lavoro ha avuto finora, ed avrà ancora per un tempo indefinito, rispondenza nei fatti. Ora, di quale natura è questa rispondenza? Avendo noi escluso: 1°) che si tratti di ideale morale, e 2°) che si tratti di legge scientifica; e avendo tuttavia concluso che quella eguaglianza è un fatto (del quale il Marx si vale poi come tipo), dobbiamo dire, come sola via di uscita : che è un fatto, ma un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze, la quale dia risultante diversa da quella che darebbe se le altre forze cessassero di operare. Non è un fatto dominante assoluto, ma non è nemmeno un
fatto inesistente e semplicemente immaginario11.

Anche bisogna notare, che nel corso della storia questo fatto è andato sottomesso a varie vicende, ossia è stato più o meno contrastato; e qui è il luogo di far ragione all'osservazione dell'Engels a proposito del Sombart: che cioè il modo come quest'ultimo definisce la legge del valore «non lasci risaltare tutta l'importanza, che ha questa legge, per gli stadi dello sviluppo economico in cui essa domina».

L'Engels faceva un'escursione nel campo della storia economica per mostrare che la legge del valore del Marx, ossia l'eguaglianza del valore col lavoro socialmente necessario, ha «dominato» per parecchie migliaia di anni 12.

«Dominato», è forse dir troppo; ma è vero che i contrasti degli altri fatti contro questa legge sono, stati minori in numero ed intensità nel comunismo primitivo e nell'economia medievale e domestica, laddove hanno raggiunto il massimo nella società basata sul capitale privato e sulla più o meno libera concorrenza mondiale, ossia nella società che produce quasi esclusivamente merci13.

Il Marx, dunque, nell'assumere a tipo l'eguaglianza del valore col lavoro e nell'applicarlo alla società capitalistica, istituiva paragone della società capitalistica con una parte di sé stessa, astratta e innalzata ad esistenza indipendente: ossia, paragone tra la società capitalistica con la società economica in sé stessa (ma solo in quanto società lavoratrice). In altri termini, egli studiava il problema sociale del lavoro, e mostrava, col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene risoluto nella società capitalistica. Qui è la giustificazione, non più formale, ma reale, del suo procedimento.

Solo in forza di questo procedimento, e alla luce proiettata dal tipo da lui assunto, il Marx potè giungere a porre a definire l'origine sociale del profitto, ossia del sopravalore.

«Sopravalore», in pura economia, è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore è un extra-valore, ed esce fuori del campo della pura economia. Ma ha bene un senso, e non è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragonare che si fa una società economica con un'altra, un caso con un altro, o due ipotesi tra di loro.

Anche in forza della stessa premessa gli fu possibile giungere alla proposizione: che i prodotti del lavoro nella società capitalistica non si vendono se non eccezionalmente al loro valore, ma di solito per più o per meno, e talora con deviazioni grandissime dal loro valore; il che, espresso in breve, si direbbe: il valore non coincide col prezzo. Se, per ipotesi, cangiasse d'un tratto l'ordinamento della produzione di capitalistico in comunistico, si assisterebbe, di colpo, non solo a quel mutamento delle fortune degli individui che colpisce tanto le fantasie della gente, ma anche a più mirabile mutamento: a quello della fortuna delle cose. Si formerebbe allora una scala di prezzi in gran parte diversissima da quella che ora vige. In qual modo il Marx dimostri questa proposizione, con l'analisi della varia composizione del capitale nelle varie industrie, ossia della parte del capitale costante (macchine, ecc.) e di quella del capitale variabile (salari), non è il caso qui di esporre in particolare.

Per la stessa via, ossia mercè la dimostrazione del crescere continuo del capitale costante rispetto al variabile, il Marx procura di stabilire un'altra legge della società capitalistica, ch'è quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il progresso tecnico, che in una astratta società economica si esprimerebbe nel minor lavoro occorrente a produrre la medesima ricchezza, nella società capitalistica si esprime nel graduale abbassamento della rata di profitto14. Ma questa sezione del terzo volume del Capitale è tra le meno elaborate di quel così poco elaborato libro postumo; e a me par degna di uno speciale esame critico, che mi propongo di fare in altra occasione, non volendone trattare ora di passata15.

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1 «Una colossale monografia» (intendi: di economia), lo chiama il più autorevole dei marxisti italiani, il prof. Antonio Labriola, nel suo nuovo libro (Discorrendo di filosofia e socialismo, Roma, Loescher, 1898). Ma in uno scritto precedente (In memoria del «Manifesto dei comunisti”, 2ª ediz., Roma, 1895, p. 36 n) lo aveva definito, come già abbiamo avuto occasione di notare, «una filosofia della storia».

2 Lascio da parte coloro che considerano la legge del valore-lavoro come legge generale del valore, ai quali basta domandare come mai quella legge potrebbe essere «generale“, se esclude dalla considerazione una intera categoria di beni economici, cioè i beni non aumentabili per lavoro? Del resto, sull'argomento, si veda il § 2 di questa Memoria.
 3 Werner Sombart, Zur Kritik des oekonomischen Systems von Karl Marx (nell'Archiv für soziale Gesetzgebungng uind Statistik, volume VII, 1894, pp. 555-594). — Non ho ora a mano la critica (condotta secondo i concetti della scuola edonistica), che di questo articolo del Sombart fece l'anno scorso, a proposito del terzo volume del Capitale il Bõhm-Bawerk, nella Miscellanea per le onoranze allo Kuies.
4 L. c, p. 571 sgg.
5 Nella Neue Zeit, XIV, vol. I, pp. 4-11, 37-41. Cito dalla trad. ital.: Dal terzo volume del «Capitale», prefazione e commenti di F. Engels (Roma, 1896), p. 39.
6 Sur la théorie marxiste de la valeur (nel Journal des économistes, fascicolo di maggio 1897, pp. 222-31, si veda p. 228).
7 Discorrendo di socialismo e di filosofia, p. 21.
8 Tanto più facilmente accetto l'espressione usata dal Labriola in quanto è la medesima di cui mi servii anch' io un anno fa. Si veda il saggio precedente sul Loria, pp. 82-3.
9 Facendo un' ipotesi di questa sorta, il Marx distingueva nettamente che, in tal caso, «il tempo di lavoro compirebbe una duplice funzione: per un verso, come misura del valore, per l'altro come misura della parte individuale spettante a ciascun producente sul lavoro comune» (andrerseits dient die Arbeitzeit zugleich als Mass des individuellen Antheils des Producenten au der Gemeinarbeit, und daher auch an dem individuell verzehbareu Theil des Gemeinprodukts): si veda Das Kapital, I, p. 45.
10 La quale è cosa diversa dai lavoratori od operai nella nostra società capitalistica, che sono una classe ossia un frammento di società economica, e non già la società economica generica ed astratta, produttrice di beni aumentabili col lavoro.
11  Potrebbe dubitarsi di questo intendimento generale del valore-lavoro per ogni società economica lavoratrice, nel pensiero del Marx e dell'Engels, ricordando i molti luoghi, nei quali e l'uno e l'altro
hanno più volte affermato: che nella società comunistica futura sparirà il criterio del valore e la produzione sarà regolata dall'utilità sociale; cfr. già gli Umrisse dell'Engels del 1844 (trad. ital. in Critica sociale, a. V, 1895); Marx, Misere de la philosophie (2ª ediz., Paris, Giard et Brière, 1896), p. 83; Engels, Antidühring, p. 335. Ma ciò é da intendere nel senso che, non essendo una tale ipotetica società comunistica fondata sullo scambio, l'ufficio del valore (di scambio) perderebbe importanza pratica; non già nell'altro senso, che per la coscienza della società comunistica il valore dei beni non sarebbe più eguale al lavoro che alla società essi costano.
Che anzi, in una simile forma di ordinamento economico, il valore-lavoro sarebbe la legge economica imperante pienamente nel giudizio dei singoli beni, prodotti di lavoro. Si avrebbe una limpidezza
di valutazione, quale il Marx descrive nella sua «robinsonata» :cfr. Das Kapital, I, 43.
12 Dal terzo volume del «Capitale», pp. 42-55.
13 Per ciò anche il Marx, nel § 4 del cap. I: Der Fetischcharakter der Waare und sein Geheneniss (I, pp. 37-50) si faceva a delineare sommariamente le altre formazioni economiche, della società medievale
e dell'economia domestica: « Ailer Mysticismus der Waarenwelt, all der Zauber und Spuk, welcher Arbeitsprodukte auf Grundlage der Waarenproduktion umnebelt, verschwindet daher sofort, sobald wir zu ander Produktionsformen flüchten » (p. 42). La relazione del valore col lavoro, negli ordinamenti economici meno complessi, è più evidente, perchè meno contrastata ed offuscata da altri fatti.
14 Das Kapital. L. III, capp. XIII, XIV, XV: Gesetz des tendentieìlen Falls der Profitrate (vol. III, P. I, pp. 191-249).
15 Compito dei marxisti dovrebbe essere sciogliere il pensiero del Marx dalla forma letteraria che prese in lui, e ristudiare da capo le questioni ch'egli si propose, ed elaborarle con nuova e più precisa trattazione, e con nuove esemplificazioni storiche. In ciò solo può consistere il progresso scientifico. Le «esposizioni», che si hanno finora del sistema del Marx, sono semplicemente materiali; e taluna (come quella dell'Aveling) consiste addirittura in una serie di sun-terelli, che seguono capitolo per capitolo l'originale e riescono più oscuri di questo. — Sulla legge della caduta del saggio di profitto, si veda ora, in questo volume, il saggio VI.

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II

Il problema del Marx e l'Economia pura.

Dunque, l'economia marxistica è quella che studia l'astratta società lavoratrice, mostrando le variazioni che questa soffre nei diversi ordinamenti economico-sociali. Tale ricerca il Marx ha compiuta di proposito per un solo di questi ordinamenti, ossia per quello capitalistico, contentandosi per l'economia a schiavi e a servaggio, pel comunismo primitivo e per l'economia domestica e naturale, di semplici accenni1.
In questo senso egli e l'Engels affermavano che l'economia (l'economia da essi coltivata) era una scienza storica2. Ma anche qui la loro definizione è stata meno felice della ricerca stessa; noi sappiamo che le indagini del Marx non sono storiche, ma ipotetiche ed astratte, ossia teoriche. Meglio si potrebbe dire che sono ricerche di sociologia economica, se questa parola «sociologia» non fosse di quelle che più variamente ed arbitrariamente si adoperano.

Se la ricerca del Marx è così determinata, se la legge del valore da lui assunta è la legge particolare dell'astratta società lavoratrice, che solo frammentariamente si attua nelle società economiche storicamente date e in altre società economiche ipotetiche o possibili, sembrano chiare e facili conseguenze: 1°) che l'economia marxistica non è la scienza economica generale; 2°) che il valore-lavoro non è il concetto generale del valore. Accanto, dunque, alla ricerca marxistica può, anzi deve vivere e prosperare una scienza economica generale, che stabilisca un concetto del valore, deducendolo da principi affatto diversi e più comprensivi di quelli particolari del Marx. E se gli economisti puri, chiusi nella loro specialità, hanno mostrato una sorta di gretta repulsione intellettuale verso le ricerche del Marx, i marxisti, a loro volta, hanno a torto disconosciuto un ordine di ricerche a essi estranee, dichiarandole ora oziose ora addirittura assurde.

Tale è, infatti, la mia opinione; e dico, in verità, di non aver potuto mai scoprire altra antitesi o inimicizia tra questi due ordini di ricerche, che non sia quella, meramente accidentale, della reciproca antipatia e del reciproco ignorarsi di due gruppi di studiosi. Vero è che alcuni han fatto ricorso a una spiegazione politica; ma, pur non volendo negare che le passioni politiche siano spesso cause di errori teorici, non mi riesce persuasiva questa taccia data a gran numero di studiosi di lasciarsi ciecamente e scioccamente dominare da impulsi estranei alla scienza; o, ch'è peggio, di falsificare consapevolmente il loro pensiero, e di costruire interi sistemi economici per motivi extrascientifici.

Veramente, il Marx stesso non ebbe tempo e modo di prendere posizione, per così dire, rispetto alle ricerche dei puristi, o edonisti, o utilitari, o deduttivisti , o austriaci, o come altro variamente si chiamino. Ma era in lui sommo il disprezzo per l'oeconomia vulgaris, sotto il qual nome soleva comprendere anche le ricerche di economia generale, le quali, a suo avviso, spiegano quel che di spiegazione non ha bisogno ed è intuitivamente chiaro, e lasciano senza spiegazione ciò che è più diffìcile ed importa davvero. E neanche l'Engels ne ha trattato di proposito; ma quel che egli ne pensasse si può ritrarre dalla polemica contro il Dühring. Il quale Dühring si affaticava nel cercare una legge generale del valore, che dominasse tutte le possibili forme dell'economia: e l'Engels a ribattere: «Chi vuol ridurre sotto una stessa legge l'economia politica della Terra del fuoco e quella dell'Inghilterra moderna, non può produrre altro che i più volgari luoghi comuni». E scherniva le « verità di ultima istanza», le «eterne leggi della natura», gli assiomi tautologici e vuoti, che avrebbe messi in luce, col suo metodo, il signor Dühring3.  Leggi fisse ed eterne non esistono: manca, dunque, ogni possibilità di costruire una scienza generale dell'economia, valida per tutti i tempi e luoghi. —

E se l'Engels avesse inteso riferirsi a coloro che asserivano l'insuperabilità od eternità delle leggi proprie della società capitalistica, avrebbe avuto ragione, e avrebbe raddoppiato i colpi contro un pregiudizio, che la storia basta da sola a smentire col mostrarci come il capitalismo sia apparso in vari tempi, sostituendosi a forme diverse d'ordinamento economico, o sia anche scomparso, sostituito da altre forme. Ma, nel caso del Dühring, la critica andava lungi dal segno; perché il Dühring non intendeva porre già come ferme ed eterne le leggi della società capitalistica, sibbene stabilire un concetto generale del valore, ch'è tutt'altra cosa; o, in altre parole, mostrare come, sotto il rispetto puramente economico, la società capitalistica si spieghi con gli stessi concetti generali, che spiegano le altre forme di ordinamenti. Nessuno sforzo, neanche quello dell'Engels, potrà impedire che tale questione venga posta e risoluta, perché non si può convellere la mente umana, che cerca il generale, il più generale e l'universale.

E sarebbe considerazione istruttiva quella dei «rimandi», che sono nel Capitale del Marx, ad analisi non fatte ed estranee alla sua particolare trattazione; nelle quali necessità di analisi mettono radice le ricerche dell'economia pura. Che cosa è, per esempio, l'astratto lavoro umano (abstrakt menschliche Arbeit), concetto di cui il Marx si vale come di un presupposto? Con qual processo si compie quella riduzione del lavoro complicato al semplice, alla quale egli accenna come a cosa ordinaria ed ovvia? E se, nell'ipotesi del Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro o lavoro cristallizzato, perché, in altra ipotesi, tutti i beni economici, e non le sole merci, non potrebbero apparire come gelatine di mezzi per soddisfazione di bisogni, o bisogni cristallizzati? — Leggo in un punto del Capitale: «Cose che in sé e per sé non sono merci, per es., la scienza, l'onore, ecc., possono essere vendute dai loro possessori; e così, per mezzo del loro prezzo, ricevere la forma di merci. Una cosa può avere formalmente un prezzo, senza avere un valore. L'espressione del prezzo diventa qui immaginaria, come certe grandezze della matematica»4.  Ecco ancora una difficoltà, ch'è additata ma non superata. Vi sono dunque prezzi formali o immaginari? E che cosa sono? A quali leggi ubbidiscono? 0 sono forse come le parole greche nella prosodia latina, che, secondo la regoletta di scuola, per Ansoniae fines sine lege vagantur? — A tali questioni rispondono le indagini dell'economia pura.

Anche il filosofo Lange, il quale respingeva la legge del valore del Marx, che gli sembrava un «parto sforzato», un «figlio del dolore», reputandola impropria (e in ciò diceva il vero) come legge generale del valore, molto tempo prima che venissero in fiore le ricerche dei puristi si orientava verso le soluzioni, che sono state poi date da costoro. «Alcuni anni fa (scriveva nel suo libro sulla Questione operaia), ho lavorato anch' io a una nuova teoria del valore, la quale dovesse essere in grado di far apparire i casi più estremi delle variazioni del valore come casi speciali di una medesima formola». E, pur soggiungendo di non averla condotta a maturità, avvertiva che la via da lui tentata era quella stessa, percorsa poi dal Jevons nella sua Theory of political economy, venuta fuori nel 18715.

A qualche marxista più cauto e temperato è apparso chiaro, che le ricerche degli edonisti non sono cose da rigettare semplicemente come erronee o mal fondate; ed ha cercato perciò di giustificarle rispetto alla dottrina marxistica come una psicologia economica, sorta accanto all'economia vera e propria. Ma in questa definizione si racchiude un equivoco curioso. L'economia pura è tutt'altro che una psicologia; anzi persino il senso delle parole «psicologia economica» è difficile a determinare, perché la scienza psicologica si divide in formale e descrittiva, e in quella formale non può trovare luogo né il fatto economico né alcun altro fatto che rappresenti un particolare contenuto; e in quella descrittiva sono di certo compresi anche le rappresentazioni, i sentimenti, le volizioni di contenuto economico, ma così come appaiono nella realtà, misti con gli altri fenomeni psichici di diverso contenuto, e inseparabili da questi. Onde la psicologia economica descrittiva può essere, al più, una delimitazione approssimativa con la quale facciamo oggetto di descrizione speciale il modo di concepire, di sentire e di appetire degli uomini (in un dato tempo e luogo, o anche in genere, quali finora si sono presentati nella storia), per rispetto ad alcune categorie di beni che si dicono di solito materiali o economici, e che occorre in ogni modo specificare e determinare.

Terreno più adatto, veramente, alla storia che non alla scienza, la quale non vi coglie se non vuote ed insignificanti generalità, come può vedersi nella lunga trattazione, fatta di questa materia dal pedantissimo e pesantissimo Wagner nel suo noto Manuale, che, di quanto si è scritto sull'argomento, è ciò che si conosce di più notevole, ed è pure, in sé stesso, cosa tanto poco notevole e conclusiva6.  La enumerazione e descrizione delle varie tendenze, che sono negli uomini quali si osservano nella vita ordinaria: tendenze egoistiche e antiegoistiche, amore del proprio vantaggio e timore dello svantaggio, timore della pena e speranza del premio, sentimento di onore e timore della disistima e del disprezzo pubblico, amore dell'attività e odio della inerzia, sentimento di reverenza verso la legge morale, e simili: ecco quanto il Wagner chiama psicologia economica, e che meglio si direbbe: varie osservazioni di psicologia descrittiva da tenersi presenti nel risolvere questioni pratiche di economia7.

Ma l'economia pura, che cosa ha essa, di grazia, di comune con la psicologia? I puristi muovono dal postulato edonistico, ossia dalla stessa natura economica dell'uomo; e deducono da questa i concetti di utilità (utilità economica, che opportunamente il Pareto ha proposto di designare con un nome speciale, «ofelimità», dal greco ofélimos), di valore, e man mano tutte le altre particolari leggi secondo le quali si governa l'uomo in quanto astratto homo oeconomicus. Fanno proprio ciò che lo scienziato dell'etica fa per la natura morale, e lo scienziato della logica per la natura logica; e così via. A questa stregua l'Etica sarebbe, dunque, una psicologia dell'eticità, e la Logica una psicologia della logicità? E, poiché tutto ciò che conosciamo passa attraverso la psiche, l'Ontologia sarebbe una psicologia dell'essere, la matematica una psicologia della matematica. E avremmo in questo modo confuso le cose più diverse, compiendo uno sconvolgimento di cui non s'intenderebbe il perché. — Onde noi concludiamo che, se ben si consideri la cosa e vi si rifletta sopra alquanto, si dovrà riconoscere che l'economia pura non è una psicologia, ma è la vera e propria scienza generale dei fatti economici.

Anche il prof. Labriola mostra un certo malumore, che a me sembra non del tutto giustificato, contro gli economisti puri, «i quali (dic'egli) traducono in concettualismo psicologico la ragione del risico ed altre analoghe considerazioni dell'ovvia pratica commerciale». E fanno bene (io risponderei), perché anche delle ragioni del risico e della pratica commerciale la mente vuol rendersi conto, e spiegarsene la natura e l'ufficio. E poi, concettualismo psicologico: o non è questa una transazione poco felice tra ciò che la vostra mente vi mostra ch'è davvero l'economia pura (scienza che mette capo a un concetto suo proprio), e l'indebita inclusione, che si è criticata di sopra, di essa nella psicologia? Sostantivo e aggettivo non contrastano tra loro? E il Labriola parla ancora sdegnosamente dell' «astratta atomistica» degli edonisti, nella quale « non si sa più che cosa sia la storia e il progresso si risolve in una mera parvenza»8.  E qui nemmeno mi pare che il disdegno sia giustificato; perché il Labriola sa benissimo che in tutte le scienze astratte spariscono le cose concrete e individuali, e restano solo oggetto di considerazione i loro elementi; onde non si può di ciò muovere particolare rimprovero alla scienza economica. Ma storia e progresso, se sono estranei alla considerazione dell'astratta economia, non cessano perciò di sussistere e di formare oggetto di altre elaborazioni dello spirito umano ; e questo solo importa.

Per mio conto, tengo fermo alla costruzione economica della scuola edonistica, all'utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e finanche alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri. Ma ciò non appaga il desiderio di un chiarimento, per così dire, sociologico del profitto del capitale; e questo chiarimento con altri della medesima natura, non si può averlo se non dalle considerazioni comparative, che ci mette innanzi il Marx9.

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1 «Per eseguire completamente questa critica dell'economia borghese, non basta la conoscenza sola della forma capitalistica della produzione, dello scambio e della ripartizione. Debbono essere egual-mente indagate, almeno nei loro tratti essenziali, e prese come ter-mini di comparazione, le altre forme, che hanno preceduto quella nel tempo, o vivono accanto ad essa nei paesi meno sviluppati. Una tale ricerca e comparazione è stata finora, sommariamente, esposta
solo dal Marx; e noi dobbiamo quasi esclusivamente alle sue ricerche ciò che sappiamo sulla economia teoretica preborghese » . (Engels, Antidhüring, p. 154).
2 «L'economia politica è essenzialmente una scienza storica». (Engels, 1. e, p. 150).
3 Antidühring . pp. 150, 155.
4 Das Kapital, 1, p. 67.
5 F. A. Lange, Die Arbeiterfrage (5ª ediz., Winterthur, 1894: l'ultima curata dall'autore è del 1874): p. 332; cfr. a pp. 248 e 124 n, la citazione dell'opera, allora pochissimo nota, del Gossen.
6 Adolf Wagner, Grundlegung der politischen Oekonomie {3ª ediz., Leipzig, 1892), vol. I, parte I, libro 1, cap. I: Die wirthschaftliche Natur des Menschen, pp. 70-137.
7 Mi si conceda di notare che, in simili trattazioni, si commette di solito dagli economisti un errore grave, eh' è di far coincidere il concetto dell'economico con quello dell'egoistico. Ma l'economia è una sfera indipendente, accanto alle altre, dell'attività umana, come la sfera etica, estetica, logica, ecc. I beni morali e la soddisfazione dei più alti bisogni morali dell'uomo, appunto perchè beni e bisogni, rientrano nella considerazione economica; ma anche solo in quanto beni e bisogni, non in quanto morali o immorali, egoistici o altruistici. Parimente una manifestazione con la parola, o con altro qualsiasi mezzo di espressione, rientra nella considerazione estetica; ma solo in quanto espressione, non in quanto vera, falsa, morale, immorale, utile, nociva, ecc. E cosi via. Gli economisti si trovano ancora sotto l'impressione del fatto, che Adamo Smith scrisse un libro di teoria etica ed un altro di teoria economica; il che molti traducono a questo modo: che si occupò nell'una teoria dei fatti altruistici e, nell'altra, degli egoistici. Ma, se fosse cosi, Adamo Smith avrebbe trattato, nell'una e nell'altra delle sue opere fondamentali, di fatti di natura etica, pregevoli o riprovevoli, e non sarebbe stato punto economista: conseguenza stravagante, che riduce all'assurdo l'identificazione dell'attività economica con l'egoismo.
8 Discorrendo di socialismo e di filosofia, lett. VI
9 È curioso come anche negli studiosi dell'economia pura si faccia sentire questo bisogno di una diversa considerazione ; il che li induce poi ad affermazioni contradittorie o ad imbarazzi insuperabili. PANTALEONI, Principi di economia pura (Firenze, Barbèra, 1889), parte III, § 3 (pp. 299-302), combatte il Bõhm-Bawerk, domandando donde il mutuatario del capitale riesca a rendere di che pagare l'interesse. Pareto, Introd. critica agli Estratti del Capitale del Marx (trad. ital., Palermo, Sandron, 1894), p. XXX n: «I fenomeni del plus valore sono in contraddizione con la teoria di Marx, che determina il valore solamente dal lavoro. Ma, d'altra parte, vi è un'appropriazione del genere di quella che condanna Marx. Non è affatto dimostrato che questa appropriazione sia utile per ottenere il maximum edonistico. Ma è un problema difficile trovare il mezzo di evitare questa appropriazione». Un dotto e accurato lavoro italiano, che tende a conciliare i concetti delia scuola edonistica con quelli della ricardiano-marxistica, è la memoria del Prof. G. Ricca Salerno, La teoria del valore nella storia delle dottrine e dei fatti economici (Roma., 1894: estr. dalle Memorie dei Lincei, s. V, vol. I, parte I).

III

Della circoscrizione della dottrina del materialismo storico.


Se il materialismo storico deve esprimere alcunché di criticamente accettabile, esso, come altra volta ebbi occasione di esporre1 non dev'essere né una nuova costruzione a priori di filosofia della storia, né un nuovo metodo del pensiero storico, ma semplicemente un canone d'interpretazione storica. Questo canone consiglia di rivolgere l'attenzione al cosiddetto sostrato economico dello società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende.

Il concetto di «canone» non dovrebbe incontrare difficoltà, specie quando non si perda di vista ch'esso non importa nessuna anticipazione di risultati, ma solamente un aiuto a cercarli, e che é di origine afi'atto empirica. Quando il critico del testo della Comedia dantesca adopera il noto canone del Witte, che suona: «la lezione difficile è da preferirsi alla facile», sa bene di possedere un semplice strumento, che gli può essere utile in molti casi, inutile in altri, e il cui uso retto e proficuo dipende sempre dal suo discernimento. Allo stesso modo e nello stesso senso deve dirsi che il materialismo storico é un semplice canone; quantunque sia, in verità, un canone di ricca suggestione.

Ma era poi questo il modo in cui lo intendevano il Marx e l'Engels? Ed è questo il modo in cui l'intendono, di solito, i marxisti?

Cominciamo dalla prima questione, difficile veramente, e di molteplici difficoltà, delle quali la prima direi che provenga dallo «stato delle fonti». La dottrina del materialismo storico non è chiusa già in un libro classico e definitivo, col quale si sia come identificata, di tal che discutere quel libro e discutere la dottrina possa sembrare tutt'uno; ma è disseminata in una serie di scritti, composti nel periodo di un mezzo secolo a lunghi intervalli, e dove di essa si fa menzione per lo più occasionale, e talora è semplicemente sottintesa o implicita. Chi volesse mettere d'accordo tutte le formole che il Marx e l'Engels ne hanno date urterebbe in espressioni contraddittorie, che renderebbero difficile al cauto e metodico interpotre stabilire che cosa fosse per essi, così, in generale, il materialismo storico.

D'altra parte, non mi pare che sia stata fatta la debita attenzione a quella che potrebbe dirsi la forma mentale del Marx, col quale l'Engels aveva somiglianze, alcune di natura, altre d'imitazione. Il Marx, come ho già notato di sopra, provava una sorta di fastidio per le ricerche d'interesse puramente teorico. Assetato della conoscenza delle cose (delle cose concrete e individuali), dava poco peso alle disquisizioni sui concetti e sulle forme dei concetti; il che talvolta riusciva a indeterminatezza o deformazione dei concetti stessi. Onde si hanno in lui molte proposizioni che, prese alla lettera, sono erronee, e nondimeno sembrano, e sono infatti, piene di verità2. Conviene dunque intendere alla lettera le sue parole, correndo il rischio di dar loro significato diverso da quello che avevano nell' intimo pensiero dello scrittore? 0 conviene interpetrarle con larghezza, con l'altro rischio di ottenere un significato teoricamente forse più accettabile, ma storicamente meno genuino?

Certo, queste stesso difficoltà si presentano per gli scritti di altri pensatori; ma in grado assai notevole per quelli del Marx. E l'interprete deve procedere con cautela: fare il suo lavoro caso per caso, libro per libro, proposizione per proposizione, mettendo bensì i vari testi in relazione l'uno con l'altro, ma tenendo conto dei vari tempi, delle circostanze di fatto, delle impressioni fuggevoli, degli abiti mentali e letterari; e deve rassegnarsi a riconoscere le incertezze e le incompiutezze, dove sono le une e le altre, resistendo alla tentazione di accertare e compiere di proprio arbitrio. Può darsi, per esempio, come a me sembra per parecchie ragioni, che il senso nel quale è enunciato di sopra il materialismo storico sia quello stesso in cui lo intendevano il Marx e l'Engels nel fondo del loro pensiero ; o quello almeno che avrebbero accettato come proprio, se avessero avuto maggior tempo a loro uso per siffatti lavori di elaborazione scientifica, e la critica li avesse meno tardivamente raggiunti. Ma tutto ciò importa sino a un certo segno all'interpetre e allo storico delle idee; perché, per la storia della scienza, il Marx e l'Engels sono né più né meno di quel che si dimostrano nei libri e nell'opera loro, personaggi reali e non ipotetici o possibili3.

Senonchè, per la scienza in sé stessa, e non per la storia di essa, anche i Marx e gli Engels ipotetici o possibili ritengono uso e valore. Ossia, ciò che a noi ora importa soprattutto è farci presenti i vari modi possibili d'interpretazione delle questioni proposte e delle soluzioni escogitate dal Marx e dall'Engels, per scegliere tra queste ultime, con la critica, quelle che ci sembrano teoricamente vero e sostenibili.— Quale fu la posizione intellettuale, che prese il Marx verso la filosofia della storia hegeliana? In che consistette la critica ch'egli ne fece? E' sempre il medesimo il senso di questa critica nello scritto pubblicato nei Deutsch-französische Jahrbücher del 1844, nella Heilige Familie del 1845, nella Misere de la philosophie del 1847, nell'appendice al Manifesto dei comunisti del 1848, nella prefazione al Zur Kritik del 1859, e nella prefazione alla seconda edizione del Capitale del 1873? E parimente, per il pensiero dell'Engels, nell'Antidühring, nello scritto sul Feuerbach, e negli altri vari suoi? Pensò mai il Marx davvero a fare una sostituzione, come alcuni hanno creduto, della idea hegeliana con la Materia, o col fatto materiale? E quale relazione aveva poi nella sua mente il concetto di materiale con quello di economico? E la spiegazione, da lui data, della sua posizione rispetto ad Hegel: «le idee sono determinate dai fatti e non i fatti dalle idee», può dirsi un'inversione della teoria dello Hegel, o non è piuttosto l'inversione di quella degli ideologi e dei dottrinari?4. Ecco alcune questioni di storia delle idee, che saranno risolute una volta o l'altra5.

Mettendo da parte l'aspetto più propriamente storico dell'indagine, a noi preme ora avanzare nella conoscenza teorica; e ciò ho tentato di fare, domandando in qual modo ci possiamo valere scientificamente del materialismo storico, e rispondendo con le ricerche critiche ricordate in principio di questo paragrafo. Senza tornare sulle quali, darò qui altri esempi, attinti allo stesso campo della letteratura marxistica. Come si deve intendere scientificamente la neodialettica del Marx? Il pensiero ultimo, esposto dall'Engels sull'argomento, sembra essere questo: la dialettica è il ritmo dello svolgimento delle cose, ossia la legge interna delle cose nel loro svolgersi. Questo ritmo non si determina a priori, e per metafisica deduzione, ma anzi si osserva e si coglie a posteriori; e solo per le ripetute osservazioni e verifiche che se ne son fatte nei vari campi della realtà, si può concludere che tutti i fatti si svolgano per negazioni e negazioni di negazioni6.  La dialettica sarebbe, dunque, la scoperta di una grande legge naturale, meno vuota e formale della cosiddetta legge dell'evoluzione. E non avrebbe altro di comune con la vecchia dialettica hegeliana se non il nome, che conserverebbe il ricordo storico del modo come il Marx pervenne ad essa. Ma questo ritmo naturale di svolgimento ha realtà? Ciò non potrebbe esser stabilito se non dall'osservazione, alla quale si appellava già l'Engels per affermarne l'esistenza. E che cosa è una legge, che viene ricavata dalla osservazione? Può esser mai una legge che domini assoluta sulle cose, o non è una di quelle che ora si chiamano leggi di tendenza, o non è anche, piuttosto, una semplice e circoscritta generalizzazione? E la raffigurazione di quel ritmo naturale per negazione di negazione non è per caso una scoria di vecchia metafisica, della quale giovi mondarsi?7. —Questa è l'indagine che occorre per l'avanzamento della scienza.

E nella stessa guisa si debbono esaminare altre proposizioni del Marx e dell'Engels. Che cosa penseremo noi della polemica dell'Engels contro il Dühring circa il principio della storia: se questo sia la forza politica o il fatto economico? Non ci parrà che quella polemica possa conservare bensì qualche valore contro l'affermazione del Dühring, che diceva «essere il fatto politico ciò che vi è di storicamente fondamentale», ma in se non abbia quella importanza generale che accenna ad assumere? Si rifletta per un momento che la tesi dell'Engels: «la forza protegge (schutzt), ma non causa (verursacht) lo sfruttamento», potrebbe esattamente invertirsi nell'altra che: «la forza causa lo sfruttamento, ma l'interesse economico lo protegge»; e ciò pel noto principio dell' interdipendenza e reciprocanza dei fattori sociali.

E la lotta di classe? In che senso è vero il generale enunciato che la storia è una lotta di classe? Sarei quasi tentato a dire che la storia è lotta di classe: 1°) quando vi sono le classi; 2°) quando hanno interessi antagonistici; 3°) quando hanno coscienza di questo antagonismo. Il che darebbe, in fondo, l'umoristica eguaglianza, che la storia è lotta di classe, sol quando è lotta di classe. In verità, talvolta le classi non hanno avuto interessi antagonistici, e molto spesso non ne hanno la chiara coscienza; il che sanno bene i socialisti che si adoprano, con isforzi non sempre coronati da successo (coi contadini, p. es., non sono ancora riusciti), a formarla nei moderni proletari. Quanto alla possibilità della non esistenza delle classi, i socialisti, che presagiscono questa non esistenza per la società avvenire, debbono per lo meno ammettere, che essa non è cosa intrinsecamente necessaria allo svolgimento storico; perché anche nell'avvenire, e senza le classi, la storia, giova sperare, continuerà. Insomma, anche l'enunciato particolare, che «la storia è lotta di classe», ha quel circoscritto valore di canone e di orientamento, che abbiamo riconosciuto in genere alla concezione materialistica8.

La seconda delle due questioni, proposte in principio, è: — Come intendono il materialismo storico i marxisti? — A me non pare che si possa negare che, nella letteratura marxistica, ossia dei seguaci ed interpreti del Marx, sia davvero un pericolo metafisico, contro il quale bisogna star vigili. Anche negli scritti del prof. Labriola s'incontrano talune proposizioni, le quali hanno porto di recente occasione a un critico assai rigoroso ed esatto di concludere: che il Labriola intende il materialismo storico nel senso genuino ed originario di una metafisica, e di quella della peggiore specie, quale sarebbe una metafisica del contingente9. Ma, quantunque io stesso abbia altra volta messo in risalto proposizioni e formole che negli scritti del Labriola mi sembravano disputabili, mi pare ancora, come mi parve allora, ch'esse siano escrescenze superficiali di un pensiero realisticamente sano; o, per dirlo in modo conforme alle considerazioni svolte di sopra, che il Labriola, educandosi nel marxismo, ne abbia preso anche alcune di quelle andature troppo assolate, e, talora, una certa quale noncuranza nell'elaborazione formale dei concetti: cosa che fa un po' meraviglia in un antico herbartiano quale esso è10, ma che poi egli corregge con osservazioni e restrizioni, se pure lievemente contradittorie. sempre beneficile, perché riconducono sul terreno della realtà.

Il Labriola, per altro, ha un pregio speciale, che lo distingue dai soliti esplicatori ed applicatori del materialismo storico. Se le sue formole teoriche scoprono qua e là il fianco alla critica, quando poi egli si accosta alla storia, ossia ai fatti concreti, muta di atteggiamento, quasi getta via il fardello delle teorie, diventa cauto e riguardoso, perché ha in alto grado il rispetto della storia. E non cessa di manifestare il suo aborrimento per gli schematismi d'ogni sorta, là dove si tratta di appurare e di approfondire determinati processi; né lascia di avvertire che non esiste «alcuna teoria, tanto buona ed eccellentissima per sé, che ne abiliti alla sommaria cognizione di ogni storia particolare»11.

Nel suo ultimo libro, è particolarmente notevole un'auìpia disquisizione su ciò che possa mai essere una Storia del Cristianesimo. Il Labriola critica coloro i quali assumono a subietto di storia l'ente Cristianesimo, che non si sa dove 0 quando sia esistito; giacché la storia degli ultimi secoli di Roma (egli dice) mostra semplicemente il nascere e il crescere di quella che fu l'associazione cristiana o la chiesa, variante gruppo di fatti tra condizioni storiche varianti.

Certo, chi fa la storia del Cristianesimo intende qualcosa di simile alla storia della letteratura, della filosofia, dell'arte; ossia a trascegliere una serie di fatti, che rientrano in un determinato concetto, e disporli per ordine cronologico, senza perciò negare o sconoscere le radici che quei fatti hanno in altri fatti della vita, ma guardandoli da parte per comodo di più minuta considerazione. Senonchè letteratura, filosofia, arte e simili sono concetti determinati o determinabili; e il Cristianesimo è quasi soltanto un motto  o una bandiera, di cui si sono coperte credenze spesso intrinsecamente assai diverse; e, facendo la storia del Cristianesimo, si rischia di far sovente proprio la storia di un «nome vano senza soggetto»12.

Ma che cosa direbbe poi il Labriola, se rivolgesse la sua lente critica su quella Storia dell'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, ch' è una delle più grosse «applicazioni» storiche fatte dai marxisti: desiderata dal Marx, schizzata dall'Engels sulla traccia delle ricerche del Morgan, proseguita da altri? Ahimè, in questo campo non si è voluto far semplicemente, come forse si poteva, un utile manuale di fatti storici che rientrano in quei tre concetti, ma si è creata addirittura una soprastoria: una storia, per usare il linguaggio stesso del Labriola, dell'ente Famiglia, dell'ente Stato, e dell'ente Proprietà privata, con ritmo predeterminato. Una «storia della famiglia» (per fermarci sopra uno solo dei tre gruppi di fatti) non potrebbe esser altro se non un'enumerazione e descrizione delle forme particolari assunte dalla famiglia presso i vari popoli e nel corso dei tempi: una serie di storie particolari, classificate sotto un concetto generale. È questo forse ciò che offrono le teorie del Morgan, ripresentate dall'Engels, le quali la critica moderna ha ora corrose da tutti i lati?13. Non si è giunti a presupporre come stadio storico, percorso fatalmente da tutti i popoli, quel fantastico matriarcato, nel quale si sono confase così la semplice filiazione materna, come la preminenza della donna nella famiglia e quella della donna nella società? Non abbiamo udito i rimproveri, e anzi le derisioni, di cui sono stati fatti segno da alcuni marxisti quegli storici prudenti, che negano di poter affermare, nello stato presente della ci'itica delle fonti, un comunismo primitivo 0 un matriarcato presso il popolo ellenico? In verità, non mi pare che, in tutta codesta indagine, si sia data prova di molta avvedutezza critica.

Vorrei similmente richiamare l'attenzione del Labriola sopra un'altra confusione, frequentissima nella letteratura marxistica, ch'è quella tra le forme economiche e le epoche economiche. Sotto l'efficacia del positivismo evoluzionistico, le partizioni che il Marx enunciò all'ingrosso, economia asiatica, antica, feudale e borghese, sono diventate quattro epoche storiche: comunismo, economia a schiavi, economia a serv , e economia a salariati. Ma la storiografia moderna (che non è poi quella superficiale cosa, che i marxisti volentieri dicono, risparmiandosi con quel dire la fatica di prendere parte ai suoi difficili avanzamenti) sa bene che quelle son quattro forme di ordinamento economico, le quali si seguono e s'incrociano nella storia reale, formando spesso le miscele e le successioni più bizzarre. E conosce un medioevo o feudalismo egiziano come conosce un medioevo o feudalismo ellenico; e sa anche di un neomedioevo tedesco succeduto alla fioritura borghese delle città tedesche prima della Riforma e delie scoperte transoceaniche; e paragona volentieri le generali condizioni economiche del mondo greco-romano nel suo apogeo a quelle dell'Europa dei secoli decimosesto e decimosettimo.

Connessa a questa arbitraria concezione delle epoche storiche è l'altra che pone la causa (si noti bene: la causa) del passaggio dall'una forma all'altra. E si ricerca, per esempio, la causa dell'abolizione della schiavitù, che dovrebbe essere poi la stessa, o che si tratti del decrepito mondo greco-romano o dell'America moderna; e così del servaggio, e del comunismo primitivo, e della forma capitalistica: nelle quali ricerche mal dirette si è reso insigne presso di noi il Loria, scopritore perpetuo della causa unica, che poi non sa bene esso stesso se sia la terra, o la popolazione, o che cos'altro. Pure, non ci vorrebbe molto a persuadersi (basterebbe leggere perciò, con un po' di attenzione, libri di storia raccontata), che il passaggio dall'una forma all'altra economica o, in genere, sociale, non è effetto di causa unica, e neanche di un gruppo di cause che siano sempre le medesime; ma accade per cause e modi che bisogna esaminare caso per caso, perché sogliono variare da caso a caso. La morte è la morte, ma si muore di tante malattie, e ogni malattia è individuale.

Ma basti di ciò; e mi sia lecito chiudere questo paragrafo con l'accenno a una questione, che anche mette innanzi il Labriola nel suo recente libro, e che egli riattacca alla critica del materialismo storico.

Il Labriola distingue il materialismo storico in quanto interpretazione della storia, e in quanto concezione generale della vita e del mondo (Lebens und Weltanschauung). E si domanda, quale sia la filosofia immanente nel materialismo storico, e, fatte intorno a ciò parecchie osservazioni, conclude, che questa filosofìa è la tendenza al monismo, e tendenza formale.
Qui io mi permetto di osservare che, se nella denominazione di «materialismo storico» si mettono due cose diverse, ossia: 1°) un procedimento d'interpretazione, e 2°) una determinata concezione della vita e del mondo, è naturale che si ritroverà in esso una filosofia, e magari con tendenza monistica, perché prima vi è stata messa. Quale legame logico è tra quei due ordini di pensiero? A me pare che il Labriola, questa volta, a proposito del materialismo storico, venga esponendo quello ch'egli reputa l'orientaniento necessario del pensiero moderno verso le questioni ontologiche, o quello che, secondo lui, deve essere l'atteggiamento della coscienza socialistica verso le concezioni ottimistiche e pessimistiche; e che la sua non sia un'indagine, che metta in chiaro la concezione filosofica giacente in fondo al materialismo storico, ma una semplice digressione.

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1 Si vedano i saggi I e II.
2 Non a torto quel troppo flagellato Dühring notava che nelle opere del Marx sono frequenti le espressioni, «che paiono generali senza esser tali» (allgemein aussehen oline es zu sein): Kritische Geschichte der Nalionalokonomie und des Socialismus (Berlino, 1871), p. 527.
3 Il Gentile, Una critica del materialismo storico (in Studi storici del Crivellucci, voi. VI, 1897, pp. 379-423), muove dubbi sull'interpretazione da me data del pensiero del Marx e dell'Engels, e sul metodo stesso dell' interpretazione. Riconosco volentieri che, nei miei due scritti precedenti, non è chiaramente indicato il punto preciso in cui finisce la interpretazione dei testi e comincia la parte propriamente teorica; la quale esposizione teorica solo poi per congettura, e nel senso sopraindicato, si può dire conforme al pensiero intimo del Marx e dell'Engels. Nel suo recente volume, La filosofia di Marx (Pisa, Spoerri, 1899j, nel quale lo scritto citato è ristampato, il Gentile osserva (p. 104) che, se è una maniera molto comoda, ed in parecchi casi legittima e necessaria, «quella d' interpretare le dottrine, dichiarando parte dei loro enunciati scoria o forma accidentale ed esteriore e caduca, e parte sostanza vera e propria e vitale, bisogna però in qualche modo giustificarla». Egli intende di certo chiedere che sia giustificata come «interpretazione storica», perché la giustificazione come correzione teorica non può esser dubbia. A me pare che anche storicamente l'interpretazione si giustifichi non difficilmente quando si consideri che sulla sua costruzione metafisica il Marx (come dice lo stesso Gentile) «non insistette», ed insistette bensì sulle concezioni storiche, che formano il nerbo della sua critica della società presente, e dell'indirizzo politico da lui propugnato. La personalità del Marx, in quanto osservatore socio- logo e promotore di azione politica, è certo preponderante su quella del Marx metafisico, quale egli fu quasi soltanto da giovane. Che poi giovi studiare il Marx sotto tutti gli aspetti, qui non si nega; ed il Gentile ne ha ora egregiamente esposto e criticato la giovanile concezione metafisica.
4 Confesso di non essere riuscito finora a ben intendere, per quanto ci abbia pensato su, il senso di questo passaggio (che dev'essere però molto chiaro, perchè è citato da tanti e senza nessun comento) della prefazione alla seconda edizione del Capitale: «Meine dialektische Methode ist der Grundlage nach von des Hegel'schen nicht nur verschieden, sondern ihr direktes Gegentheil. Für Hegel ist der Denkprocess, den er sogar unter dem Namen Idee in ein selbstandiger Subjekt verwandelt, der Demjurg des Wirklichen, das nur seine äussere Erscheinung bildet. Bei mir ist umgekehrt das
Ideelle nichts Andres als das ini Menschenkopf umgesetzte und übersetzte Materiele» (Dan Kapital, I, p. XVII). Ora a me sembra che l'Ideelle dell'ultimo periodo non abbia nessuna relazione col Denkprocexs e con l'Idea hegeliana del penultimo periodo. Cfr. il saggio I, p. 5. Ad alcuni è parso che, con le obiezioni ivi esposte, avessi inteso negare l' ispirazione hegeliana del Marx. È bene ripetere che oppugno semplicemente l'affermata relazione logica tra le due teorie filosofiche, perché negare l'ispirazione hegeliana del Marx sarebbe negare l'evidenza.
5 A parecchie delle questioni sopraindicate risponde ora il libro citato del Gentile, La filosofia di Marx.
6 Antidühring, parte I, cap. XIII, specie da p. 138 a p. 145, il quale brano è tradotto in  italiano in appendice al citato libro del Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia. Cfr. Das Kapital, Iª p. XVII: «Gelingt diess und spiegelt sich nun das Leben des Stoffs ideell wieder, so mag es aussehen, als habe man es mit einer Konstruktion a priori zu thun »
7 Già il Lange, a proposito del Capitale del Marx, osservava che la dialettica hegeliana, «lo svolgimento per antitesi e conciliazioni, si potrebbe quasi chiamare una scoperta antropologica. Soltanto che nella storia, come nella vita dell'individuo, lo svolgimento per antitesi non si compie di certo cosi facilmente e radicalmente, né con tanta precisione e simmetria, come nella costruzione speculativa» (Die Arbeiterfrage, pp. 248-9).
8 Sulle classi astratte dell'economia marxistica e le classi reali o storiche, si vedano alcune osservazioni del Souel, art. cit. del Journal des économistes, p. 229.
9 G. Gentile, op. cit., in Studi storici, p. 421, cfr. 400-401.
10 L'odio per ciò che chiama «scolastica» è davvero eccessivo nel Labriola; ma non sembrerà, nemmeno in questo eccesso, al tutto inopportuno, come reazione contro il modo che sogliono tenere negli studi i puri letterati, 1 gretti eruditi, i vuoti ragionatori, i giocolieri del pensiero astratto, e tutti coloro che smarriscono il senso del nesso intimo tra la scienza e la vita.
11 Discorrendo dì socialismo e di filosofia, lett. IX
12 «Se altri intende per Cristianesimo il solo complesso delle credenze e delle aspettazioni circa il destino umano, queste credenze (scrive il Labriola), in verità, varian tanto, quanto è il divario, per dirne una sola, tra il libero arbitrio del cattolicismo post-tridentino, e il determinismo assoluto di Calvino ». (Ivi lett. IX).
13.  Senza citare l'opera, non molto metodica, del Westermarck, History of human marriage, si veda in ispecie II libro di Ernust Grossk, Die Formen der Familie und die Formen des Wirthschaft (Freiburg in B., 1896).

IV

Della conoscenza scientifica rispetto ai programmi sociali.

È diventato luogo comune, che il socialismo per opera del Marx sia passato da utopia a scienza, come dice il titolo di un libriccino popolare dell'Engels; ed è una denominazione corrente quella di socialismo Il scientifico.  Labriola non nasconde la sua scarsa simpatia per con simile denominazione.
D'altra parte, noi udiamo i seguaci di altri indirizzi, per esempio i liberisti estremi (i quali cito di preferenza honoris causa, perché sono anch'essi tra gli «idealisti» dei nostri tempi), nello stesso nome della scienza, condannare il socialismo come «antiscientifico», e affermare sola concezione scientifica quella del liberismo.

Non sarebbe opportuno che, dall'una parte e dall'altra, si facesse un ritorno sopra se stessi, e una piccola mortificazione di superbia, e si confessasse che socialismo e liberismo si diranno bensì scientifici per metafora o per iperbole, ma che né l'uno né l'altro sono o possono esser mai deduzioni scientifiche? e, riconosciuto ciò, si trasportasse il dibattito del socialismo e del liberismo, e di qualsiasi programma pratico sociale, sopra un altro terreno, che non è quello della pura scienza, ma ch'è tuttavia il solo ad essi conveniente?

Fermiamoci un istante sul liberismo. Esso si presenta in una duplice forma intellettuale, ossia con due diverse giustificazioni. Nella forma più vecchia, non si può negare che abbia un fondamento metafisico, ch'è in quella persuasione della bontà delle leggi naturali e in quel concetto di natura (diritto di natura, stato di natura, ecc.), che, sorto nella filosofia del secolo decimosettimo, fu dominante nel decimottavo1. «Non impedite la natura nel suo operare, e tutto andrà nel miglior modo». Simile concezione è colpita, in verità, solo di sbieco dalla critica del Marx, il quale, analizzando il concetto di natura, mostrava com'esso fosse il complemento ideologico dello svolgimento storico della borghesia, un'arma potentissima di cui questa si valse contro i privilegi e le oppressioni, che mirava ad abbattere2. Quel concetto potrebbe essere sorto come strumento per un fine pratico e occasionale ed essere nondimeno intrinsecamente vero.

«Leggi naturali» equivale, in quel caso, a «leggi razionali»; e la razionalità e l'eccellenza di esse leggi occorre negare. Ora, appunto, per essere di origine metafisica, quel concetto si può rigettare radicalmente, ma non si può confutare in particolare. Esso tramonta con la metafisica di cui faceva parte; e pare ormai che sia tramontato davvero. Sia pace alla «gran bontà» delle leggi naturali. Ma ben diversa è la forma, che il liberismo prende nei suoi seguaci più recenti, i quali, abbandonati i presupposti metafisici, stabiliscono due tesi, praticamente importanti: a) quella di un massimo edonistico economico, che essi assumono come identico col massimo desiderabile sociale3; e b) l'altra, che questo massimo edonistico non si possa affermare pienamente se non per la via della più completa libertà economica.

Con queste due tesi, noi siamo bensìfuori della metafisica, e sopra il terreno della realtà, ma non già sopra un terreno scientifico. Infatti, la prima di esse ha per contenuto una determinazione dei fini della vita sociale, che sarà forse accettabile, ma non è deduzione di nessuna proposizione scientifica. La seconda tesi poi non è dimostrabile se non con un ricorso all'esperienza, ossia a ciò che sappiamo della psicologia umana, e a ciò che possiamo congetturare che questa psicologia sarà ancora probabilmente in futuro. Congettura che si può fare, ed è stata fatta, con grande acume, con grande dottrina, con grande cautela, e che perciò può anche «dirsi» scientifica, ma solo in senso metaforico ed enfatico, come abbiamo già notato4. 

Il Pareto, che fra i recenti espositori e sostenitori del liberismo, com'è dei più intelligenti, così è anche dei più leali5, non nasconde il carattere ristretto ed approssimativo, che serbano le conclusioni del liberismo; il che a lui si mostra tanto più evidente, in quanto egli si serve di formole matematiche, le quali non illudono sul grado di certezza a cui possono pretendere affermazioni di quella sorta.

In effetti, il comunismo (che ha avuto anch'esso il suo periodo metafisico, e, prima ancora, un periodo teologico) può opporre, con pieno diritto, alle due tesi del liberismo le due altre sue, che consistono: a) in una diversa concezione, che non sia quella puramente economica, del massimo desiderabile sociale; b) nell'affermazione che questo massimo si possa ottenere, non col liberismo estremo, ma anzi con l'organizzazione delle forze economiche: ch'è il senso della famosa sentenza del salto dal regno della necessità (= libera concorrenza o anarchia) in quello della libertà (= dominio dell'uomo sulle forze della natura, anche nell'ambito della vita sociale-naturale).

Ma neanch'esso può dimostrare queste sue tesi, e per le medesime ragioni. Gli ideali non si dimostrano, e le empiriche congetture e le persuasioni pratiche non sono scienza. Il Pareto ha ben riconosciuto questo carattere del socialismo moderno; ed ammette che il sistema comunistico, come sistema, sia perfettamente pensabile, ossia teoricamente non offra interne contraddizioni (§ 446). Secondo lui, esso urta non contro leggi scientifiche, ma contro «difficoltà pratiche immense» (ivi), come l'adottare i progressi tecnici senza l'esperienza e la selezione che la libera concorrenza compie, la mancanza di stimoli al lavoro, la scelta degli impiegati, che in una società comunistica sarebbe guidata non da ragioni esclusivamente tecniche, come nell'industria moderna, ma da ragioni politiche e sociali (§ 837).

Egli ammette la critica che fanno i socialisti degli sperperi prodotti dalla libera concorrenza; ma li crede inevitabili come modi pratici di giungere a ottenere l'equilibrio della produzione. Il vero problema da risolvere, egli dice, è: se, senza i tentativi della libera concorrenza, si possa giungere a conoscere la linea (la linea, che egli chiama mn del completo adattamento della produzione ai bisogni, e se la spesa pel funzionamento della produzione unificata (comunistica) non sarebbe superiore a quella richiesta dalla soluzione per tentativi delle equazioni di produzione (§§ 718, 867). Anche riconosce quel che c'è di parassitario nel capitalista («il cavaliere dalla trista figura», del Marx); ma sostiene, nel tempo medesimo, che il capitalista rende servigi sociali, che non si sa come altrimenti surrogare6.  E se si volesse ridurre in brevi termini l'antitesi dei due diversi modi di vedere, si potrebbe dire, che i liberisti considerano la psicologia umana come molto fissa, e i socialisti come molto mutevole e adattabile. Ora è certo che la psicologia umana cangia e si adatta; ma l'estensione e la rapidità di questi cangiamenti sono sottratte a determinazioni sicure e abbandonate alle opinioni e alle passioni. Potranno formare mai oggetto di calcolo esatto?

Se passiamo ad altro ordine di considerazioni, ch'è quello non del desiderabile, cioè dei fini e dei mezzi da noi vagheggiati e reputati eccellenti, ma di ciò che, nella condizione presente, la storia promette, ossia delle tendenze obiettive della società moderna, non so davvero con qual animo molti liberisti gratifichino il socialismo della taccia di utopia. Con ben altra ragione i socialisti potrebbero ricambiare con la stessa taccia il liberismo, se  lo studiassero qual è presentemente e non già qual era cinquanta anni fa, quando il Marx pensava la sua critica. Il liberismo si rivolge con le sue esortazioni a un ente che, ora almeno, non esiste, all'interesse nazionale o generale della società; perché la società presente è divisa in gruppi antagonistici e conosce l'interesse di ciascuno di questi gruppi, ma non già, o solo assai debolmente, un interesse generale. Sopra chi contano i liberisti? sui proprietari di terre o sugl'industriali, sugli operai o sui detentori di titoli pubblici? Il socialismo invece, dal Marx in poi, ha fatto ben piccolo assegnamento sulle buone intenzioni e il buon senso degli uomini, ed ha affermato che la rivoluzione sociale deve compiersi principalmente per la forza di una classe dirottannmte interessata, che è il proletariato. E i progressi del socialismo sono tali, che il pensatore si deve domandare: se l'esperienza che abbiamo del passato giustifichi il supporre che un movimento sociale, di tanta estensione ed intensità, possa riassorbirsi o disperdersi, senza fare larga prova di sé nel campo dei fatti.

Anche per questo rispetto ricorro con piacere ai Pareto, il quale riconosceche, finanche nel paese del sogno dei liberisti, nell'Inghilterra, il sistema si mantiene non per persuasione che sia negli animi della sua intrinseca bontà, ma perché esso è favorevole agl'interessi di alcuni imprenditori7.  E riconosce altresì che, facendosi il movimento sociale al modo stesso di tutti gli altri movimenti, secondo la linea della minore resistenza, è ben probabile che sia necessario passare per uno stato socialistico, per arrivare (aggiunge lui) a uno stato di libera concorrenza (§ 791).

Ho detto che i liberisti estremi sono, ben più dei socialisti, idealisti, o, se si vuole, ideologi. E noi perciò assistiamo in Italia a questo curioso spettacolo, di una sorta di affratellamento e di spirituale simpatia fra socialisti e liberisti, in quanto gli uni e gli altri si dimostrano critici acerbi e penetranti dello stesso fatto, che i primi chiamano «tirannia borghese», e i secondi « socialismo borghese». Ma, laddove nel campo dell'azione pratica i socialisti (e qui non parlo più del caso speciale dell'Italia) compiono passi innanzi, i liberisti debbono star contenti alle frasche e ai fiori della maldicenza e dei sospiri, formando un piccolo gruppo di persone di eletta intelligenza e di buone intenzioni, che si ascoltano tra loro8. Con ciò non intendo dir nulla in biasimo di questi onesti e radicali e consequenti liberisti: che anzi la mia sincera ammirazione va ad essi, né l'insuccesso è loro colpa individuale, ila voglio semplicemente affermare che, se gl'ideali, al dir del filosofo, hanno le gambe corte, quelle dell'ideale dei liberisti sembrano poi cortissime.
Potrei proseguire siffatta esemplificazione, ricordando altri programmi sociali, come quello del socialismo di Stato, che consiste nell'accettare l'ideale socialistico, ma come scopo ultimo e forse non mai pienamente conseguibile, distribuendone la parziale attuazione sopra una lunga scala di secoli, e nel porre la forza efficiente, non in una classe rivoluzionaria, e nemmeno semplicemente nell'opinione dei ben pensanti, ma nello Stato, concepito come potere creatore, indipendente e superiore alle volontà individuali. Non può di certo negarsi che anche l'ufficio dello Stato, come tutti gli uffici sociali, per un complesso di circostanze tra le quali entrano la tradizione, la reverenza, la coscienza di qualcosa che supera gl'individui, e altre impressioni e sentimenti che la psicologia collettiva analizza, acquisti indipendenza e sviluppi forza propria; ma nel misurare questa forza si cade nei maggiori inganni, come in molti casi ha provato la critica socialistica; e, a ogni modo, grande o piccola che essa sia, siamo sempre dinanzi a un calcolo, e, di nuovo, nel campo dell'opinione, in quel campo che la scienza, in parte, può ancora acquisire al suo dominio, ma che, per un'altra gran parte, le sarà sempre ribelle.

Oh gli abusi che si fanno di questo nome «Scienza»! Un tempo, questi abusi erano monopolio della metafisica, alla cui natura dispotica parevano consentanei. E si potrebbero arrecare esempi curiosissimi, anche di grandi filosofi, di Hegel, di Schopenhauer, di Rosmini, dai quali si vedrebbe come le più umili conclusioni pratiche, fatte di passioni e interessi degli uomini, siano state spesso metafisicamente convertite in deduzioni dallo Spirito, dall'Ente divino, dalla Natura delle cose, dalla finalità dell'Universo. La metafisica ipostatava ciò che poi trionfalmente deduceva. E già il giovane Marx spiritosamente scopriva nell'hegelismo di Bruno Bauer l'«armonia prestabilita della Critica criticamente condotta (kritische Kritik) con la Censura tedesca».

Ora coloro, che più hanno la bocca piena della parola «Scienza», fanno di una particolare forma dell'intelletto una sorta di Sibilla o di Pitonessa. Ma il desiderabile non è scienza, e non è scienza il fattibile9.

La cognizione scientifica è, dunque, cosa affatto superflua nelle questioni pratiche? A questo paradosso si vuol giungere? — Il lettore attento si sarà già accorto, che qui non si disputa dell'utili ti della scienza, sibbene della possibilità di dedurre, come alcuni pretendono, programmi pratici da proposizioni scientifiche; e solo codesta possibilità si nega.

La scienza, in quanto è conoscenza delle leggi dei fatti, può essere valido istrumento a semplificare le questioni, rendendo agevole distinguere in esse quel che è scientificamente accertabile da quel che si può conoscere solo incompiutamente. Un gran numero di problemi, sui quali si disputa comunemente, vengono, con tale procedere, schiariti e risoluti. Per dar un esempio, quando il Marx mostrava, contro il Proudhon e i suoi predecessori inglesi (Bray, Gray, ecc.), l'assurdità della creazione dei boni di lavoro, ossia del lavoro-moneta; e quando l'Engels moveva critiche analoghe al Dühring, e poi altre, forse meno giustificate, al Rodbertus10; o quando entrambi stabilivano la stretta connessione tra modo di produzione e modo di distribuzione, essi si aggiravano nel campo proprio della dimostrazione scientifica, mirando a provare l'incongruenza delle illazioni con le premesse, ossia le interne contraddi-zìodì dei concetti criticati.

Lo stesso è da dire della dimostrazione, che rigorosamente conducono i liberisti, della proposizione: che ogni sorta di protezionismo importa distruzione di ricchezza. E, se fosse esattamente stabilita quella legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, con la quale il Marx intese correggere e allargare la legge ricardiana dedotta dall'usurpazione progressiva della rendita fondiaria, potrebbe dirsi, sotto alcune condizioni, scientificamente certa la fine dell'ordinamento capitalistico borghese, pure restando dubbio ciò che potrebbe succedergli.

Quella clausola «sotto alcune condizioni» è il punto da osservare. Tutte le leggi scientifiche sono leggi astratte; e fra l'astratto e il concreto non c'è ponte di passaggio, appunto perché l'astratto non è una realtà, ma uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare, direi quasi, abbreviato. E, se la conoscenza delle leggi rischiara la nostra percezione del reale, essa non può diventare questa percezione stessa.

Nel che si può vedere come ben sentisse il Labriola, quando, mostrandosi scontento della denominazione di «socialismo scientifico», proponeva, pur senza dirne le ragioni, che fosse sostituita da quella di «comunismo critico»11.

Se poi dalle leggi astratte e dai concetti passiamo all'osservazione della realtà storica, noi troviamo, di certo, i punti di congiungimento dei nostri ideali con le cose, ma entriamo anche in quelle previsioni e congetture, nelle quali resta sempre non eliminabile, come si è detto di sopra, la varietà delle opinioni e delle tendenze.

Di fronte all'avvenire delle società, di fronte alle vie da seguire, è il caso di ripetere con Fausto: — Chi può dire io credo? Chi può dire io non credo?
Non già che qui si voglia raccomandare o in alcun modo giustificare il volgare scetticismo. Ma occorre, nel tempo stesso, essere consapevoli della relatività delle nostre credenze, e praticamente risolversi quando il non risolversi è colpa. Questo è il punto; e in esso son tutte le angosce degli uomini adusati a meditare, e di qui nasce spesso la loro impotenza pratica, che l'arte ha simboleggiata in Amleto. Né si vorrà, di certo, imitare quel tale magistrato, famoso per molte miglia all'intorno del paese in cui amministrava giustizia per la giustezza delle sue sentenze, di cui racconta il Rabelais, che aveva il semplicissimo metodo, sul punto di prendere la decisione, di rivolgere una preghiera al Signore e giuocare il sì e il no a pari e caffo12. Ma bisogna sforzarsi di giungere a un convincimento subiettivo, e tener poi sempre presente, che le grandi personalità storiche hanno avuto il coraggio di osare. «Alea iacta est», disse Cesare; «Gott helfe mir, amen!», disse Lutero. L'ardimento storico non sarebbe ardimento, se fosse accompagnato dalla sicura visione anticipata degli effetti, come nei fanatici o negli ispirati dal Signore.

Per fortuna, la logica non è la vita, e l'uomo non è solo intelletto. E, se negli stessi uomini nei quali è svolta la facoltà critica, c'è l'uomo fantastico e passionale, nella vita delle società l'intelletto ha parte circoscritta, e con un po' d'iperbole si può anche dire, che le cose seguono il loro corso, indipendentemente dal giudizio nostro. Lasciamo ai chiacchieroni (che predicano, non dirò sulle piazze dove non sarebbero creduti, ma nelle aule universitarie o nelle sale dei congressi e delle conferenze) il gridare che la Scienza (e propriamente la loro scienza) è la regina e la dominatrice della vita. E noi contentiamoci di ripetere col Labriola, che «la Storia è la vera signora di noi uomini tutti, e che noi siamo come vissuti dalla Storia».

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1 Brevemente, ma esattamente, è toccata questa connessione dall'Ingram, Storia dell'economia politica (trad. it., Torino, Roux, 1892), p. 62.
2 Si vedano, fra i tanti luoghi: Marx, Misere de la philosophie, p. 167 sgg.; Engels, Antidühring, p. 1 sgg.
3 Sui massimi edonistici, cfr. Bertolini-Pantaleoni, Cenni sul concetto di massimi edonistici individuali e collettivi (in Giorn. degli econ., s. II, vol. IV), e Coletti, nello stesso Giorn., vol. V.
4 A proposito di questi usi metaforici della parola «scienza»: in Italia esiste finanche una Rivista di polizia scientifica.
5 Cours d'economie polilique (Lausanne, 1896-7).
6 Cfr. anche la sua citata critica del Marx, p. XVIII.
7 «Sauf l'Angleterre, où régne le libre échange, principalement parce qu'il est favorable aux intérèts de certains entrepreneurs, le reste des pays civilisés verse de plus en plus dans le protectionnisme» (§ 964).
8 Si veda il Giornale degli economisti, eccellente in tutta la parte critica; e specialmente in esso le «cronache » del Pareto.
9 Si può osservare che nella difficoltà di dividere il puramente scientifico dal pratico è la principale cagione dei pericoli e delle miserie delle discipline sociali e politiche. E si può anche sorridere di quei naturalisti o di quei loro ingenui ammiratori, che si offrono a compiere la salvazione delle scienze sociali e politiche con l'applicar loro i metodi, come dicono, delle scienze naturali. (Un candido quanto valente astronomo italiano ha proposto testé la creazione di «osservatori sociologici», che farebbero in pochi anni, dice lui, della Sociologia qualcosa di simile all'Astronomia).
10 Si veda la prefaz. alla traduz. tedesca della Misere de la philosophie (2ª ediz., Stuttgart, 1892); e ora anche in francese nella ristampa del testo originale della stessa opera (Paris, Giard et Briére. 1896).
11 Anche il sostantivo «comunismo» è più proprio, perché vi sono parecchi «socialismi» (democratico, di Stato, cattolico, ecc.). —
Sulle relazioni tra la dottrina materialistica della storia e il socialismo, si veda Gentile, op. cit., passim.
12  Pantagruel, III, 39-43.

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V

Del giudizio etico rispetto ai problemi sociali.

Il Labriola, con l'arguzia che gli è consueta, sferza coloro che riducono la storia a un caso di coscienza o a un errore di contabilità.
Con ciò egli richiama alla doppia considerazione: 1°) che pel Marx la questione sociale non era questione morale; e 2°) che l'analisi da lui fatta del capitalismo importava lo stabilimento delle leggi che regolano una determinata forma di società, e non già la denuncia di un furto, come alcuni semplicisticamente intendono, quasi che basti restituire all'operaio l'importo del sopralavoro indebitamente esatto, perché i conti tornino in regola e la questione sociale sia bella e risoluta1.
Lasciando questa seconda considerazione, che ci dice ancora una volta quali travestimenti burleschi si possano compiere di una dottrina scientifìea, fermiamoci un po' sulla prima formola, che suol destare d'ordinario i maggiori scandali nei non socialisti; tanto che molti si adoperano a riformare il socialismo con l'aggiungervi la moralità.

Invero, non mai scandolezzamento e indignazione sono stati messi innanzi con minoro proposito.

Quelle asserzioni, che paiono d'indifferentismo morale, hanno nel Marx significato ben determinato ed altresì ovvio. Si pensi per un istante, come è stato del resto pensato tante volte, che nessun ordinamento sociale, di nessuna sorta, possa sussistere che non abbia la base della schiavitù, ovvero del servaggio, ovvero del salariato; vale a dire, che schiavitù, servaggio o salariato siano condizioni naturali dell'ordinamento sociale, senza le quali non si ottenga quella cosa tanto necessaria all'uomo, che, da quando almeno è uomo, non ne ha fatto mai di meno: la società. Innanzi a tale condizione di fotto, qual valore avrebbero le nostre condanne morali contro quegli esseri umani dominatori, che si chiamano padroni di schiavi, signori feudali e capitalisti borghesi, e in favore di quegli esseri umani dominati, che si chiamano schiavi, servi, lavoratori liberi, i quali, gli uni come gli altri, non potrebbero essere diversi da quel che sono, né potrebbero compiere se non l'ufficio ad essi assegnato dalla natura stessa delle cose?2. Le nostre condanne sarebbero le condanne dell'ineluttabile: un imprecare leopardiano al «brutto Poter che ascoso a comun danno impera». Ma la lode o il biasimo morale si riferiscono sempre a un volere, buono o cattivo; e tali giudizi sarebbero invece diretti contro cosa che non è stata voluta da nessuno, ma è da tutti accettata e sopportata, perché non può essere diversamente. Si potrà, di certo, lamentarla; ma, col lamentarla, non viene distrutta e nemmeno intaccata; ossia, si perde tempo.
Questo è ciò che il Marx chiama impotenza della morale, che vale quanto dire inutilità di proporsì questioni, le quali nessuno sforzo può risolvere, e che sono perciò assurde.

Ma, quando invece quelle relazioni di assoggettamento non si concepiscono come necessarie per l'ordine sociale in genere, ma semplicemente come necessarie per uno stadio storico di esso; e quando cominciano a formarsi nuove condizioni che rendono possibile l'abolirle (come fu il caso del progresso industriale di fronte al servaggio, e come i socialisti stimano che sia per accadere per le fasi ulteriori della civiltù moderna rispetto al salariato ed al capitalismo), allora la condanna morale è giustificata, e in certa misura efficace ad accelerare il processo di dissoluzione e a spazzare gli ultimi rimasugli del passato.

Ecco il senso dell'altro detto del Marx: che la morale condanna il già condannato della storia3.

Quale difficoltà si opponga ad ammettere giudizi siffatti, anche da parte di chi accetti la più rigorosa delle dottrine etiche, non riesco a vedere. Qui non si tratta di sconoscere la dignità della morale, e di volerne fare qualcosa di accidentale o di relativo; ma, semplicemente, di stabilire le condizioni del progresso dell'umanità, riportando l'attenzione dagli effetti inevitabili alle cause fondamentali, ricercando i rimedi nella natura delle cose e non nelle nostre fantasticherie e pii desideri. E si deve credere che la ripugnanza venga, più che da un errore intellettuale, dall'umana superbia o vanità, per la quale molti iìramano conservare alle loro povere parole l'efficacia del verbo divino, che crea la luce col suo fiat4.

 Lo stesso sentimento deve trovarsi forse in fondo alla maraviglia onde si suole accogliere l'altra massima pratica dei socialisti: che l'operaio si educa con la lotta politica. Ma il Labriola ha ben ragione di ammirare, nella crescenza del socialismo tedesco, «questo caso veramente nuovo ed imponente di pedagogia sociale; e cioè che, in così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale concorrono in egual misura il sentimento diretto della situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come mèta o punto di approdo» Quali mezzi hanno a loro disposizione i predicatori di massime morali per ottenere un effetto pari? Che cosa sono quegli operai, che si uniscono in associazioni, che leggono i loro giornali, discutono gli atti dei loro delegati, accettano le decisioni dei loro congressi, se non uomini che si educano moralmente?

Ma in quel sentimento di ripugnanza, che anima molti verso le massime pratiche dei socialisti, e nel desiderio che essi mostrano di prendere in nome della morale o della religione la direzione spirituale educativa dell'operaio, c'è anche, direi, un timore e una paura. Il timore, cioè, che la forza politica del proletariato possa portare a uno sfrenamento bestiale di masse popolari e a non si sa quale sconquasso sociale; quasi che simili sfrenamenti la storia non li ricordasse appunto nei tempi pei quali maggiore si suol presumere l'impero della religione sulle coscienze, come nelle jacqueries del secolo decimoquarto in Francia, e poi nella guerra dei contadini della Germania, ed in cui era nulla la cultura politica delle plebi5.  E la paura, che viene dall'intendere che i moti proletari istintivi e ciechi si domano, laddove la coscienza rischiarata può ricevere solo sconfitte temporanee. Non osserva il Momrasen, a propositi> delle rivolte degli schiavi dell'antica Eoma: che gli Stati sarebbero ben felici se non avessero altri pericoli faori di quelli che ad essi possono venire dalle rivolte di proletari, «che non sono maggiori dei pericoli che danno branchi di orsi 0 di lupi affamati»?

Chiarite queste proposizioni di etica e di pedagogica socialistica, alcuno potrebbe ancora domandare: —Ma qual era il pensiero filosofico del Marx e dell'Engels intorno alla morale? Erano essi relativisti, utilitari, edonisti, idealisti, razionalisti, o che cosa altro?

Mi si permetta di rispondere che questa domanda non ha molta importanza, e nemmeno opportunità, perché uè il Marx né l'Engels furono filosofi dell'etica, né spesero molta parte del loro ingegno intorno a siff'atte questioni. Importa bene stabilire che le loro conclusioni rispetto all'ufficio della morale nei moti sociali, e rispetto al metodo di educazione del proletariato, non contengono nessuna contraddizione di principi etici generali, se pure qua e là urtano contro i pregiudizi della pseudomorale corrente. Le loro personali opinioni sui principi dell'etica non presero, nelle loro opere, forma scientificamente elaborata; e qualche frizzo e qualche sarcasmo non sono documenti bastevoli a instituire una discussione in proposito.

E dirò ancora di più: a me che, in fatto di etica, non son riuscito ancora a liberarmi dalla prigionia ddla critica kantiana, e che non veggo ancora superata la posizione assunta dal Kant, e anzi la veggo da alcune tendenze modernissime rafforzata, non può molto garbare il modo in cui l'Engels discettò contro il Dühring sui principi della morale nel suo noto libro6. Anche qui si ripete il procedere, che abbiamo già censurato a proposito delle discussioni sul concetto generale del valore. Dove il Dühring, per bisogni di scientifica astrazione, prende a considerare l'individuo isolato, ed esplicitamente dichiara trattarsi di una costruzione astratta (Denkschema), l'Engels dice (spiritosamente, se si vuole, ma erroneamente), che quell'uomo isolato non è se non una nuova edizione del primitivo Adamo nel Paradiso terrestre. Anche in quella critica sono molti colpi bene aggiustati ; ed anzi essa potrebbe in generale dirsi esatta, se la si riferisse solamente alle concezioni etiche nel senso di complessi di particolari regole e giudizi morali, relativi a determinate situazioni sociali, i quali complessi non possono pretendere a validità per tutti i tempi e per tutti i luoghi, appunto perché sono sempre nati per certi tempi e per certi luoghi. Ma, oltre queste particolari regole, l'analisi presenta i principi fondamentali e direttivi della morale, che danno origine a problemi 1 quali possono essere, sì, variamente risoluti, ma, di certo, non sono dal Marx e dall'Engels presi in considerazione. E, veramente, se alcuno potrà mai dissertare della «dottrina della conoscenza secondo il Marx»7, dissertare del principio dell'etica secondo il Marx mi pare fatica vana per mancanza di materia.

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1 L'assurdità di questa interpetrazione si farà evidente sol che si rifletta che si hanno frequenti casi, nei quali il capitalista industriale paga pel lavoro dell'operaio un prezzo superiore a quello che poi realizza sul mercato: casi, è vero, nei quali esso capitalista va incontro alla rovina e al fallimento, ma che non però gli riesce sempredi evitare. «Marx part des recherches faites par cette école anglaise, dont il avait fait une étude approfondie; et il veut expliquer le profit sans admettre aucun brigandage» (Sorel, art. cit, p. 227).
2  Si veda nell'Antidühring. p. 303, la giustificazione storica della divisione delle classi.
3 Tra i molti luoghi, che confermano questa interpetrazione, si vedano Antidühring , pp. 152-3, 206, e specialmente pp. 61-2, e la prefaz. alla traduz. tedesca della Misere della Misère de la philosophie, (2ª ediz., Stuttgart, 1892), pp. IX-X. Cfr. anche Labriola, op. cit., lett. Vili.
4  Si vedano in Labriola, lett. cit., le osservazioni sulle difficoltà che incontra la dottrina del materialismo storico nelle disposizioni degli animi, e intorno a coloro che vogliono «moraliser le socialisme ».
Un caso, per certi rispetti analogo a questo delle discussioni sull'etica del Marx, è la critica tradizionale all'etica del Machiavelli: critica che fu superata dal De Sanctis (nel capitolo intorno al Machiavelli, della sua Storia della letteratura), ma che ritorna di continuo e si afferma anche nell'opera del prof. Villari, il quale ripone l'imperfezione del Machiavelli in ciò: ch'egli non si propose la questione morale. E a me è accaduto sempre di domandarmi per qual ragione, per qual obbligo, per qual contratto il Machiavelli dovesse trattare ogni sorta di questioni, anche quelle per le quali non provava interessamento o sulle quali non credeva di aver nulla di nuovo da dire. Sarebbe il medesimo che rimproverare a chi faccia
ricerche di chimica di non risalire alle indagini generali metafìsiche sui principi del reale, —
Il Machiavelli muove dallo stabilire un fatto: la condizione di lotta, nella quale si trova la società, e dà regole conformi a questa condizione di fatto. Perchè doveva fare, lui che non era tagliato a filosofo moralista, l' etica della lotta? Egli va diritto alle conclusioni pratiche. Gli uomini sono tristi (dice), e coi tristi occorrono procedimenti tristi. Tu ingannerai chi t' ingannerebbe di certo. Tu farai violenza a chi farebbe violenza a te. —
Queste massime non sono né morali né immorali, né benefiche né malefiche; diventano tali secondo i fini subiettivi e gli effetti obiettivi dell'azione, secondo cioè le intenzioni e i risultamenti. Quel ch' è certo, una morale che volesse introdurre per la guerra le massime della pace sarebbe una morale per agnelli da sgozzare, non per uomini che lottano per affermare il loro diritto. «E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non saria buono, ecc. ecc. », dice lo stesso Machiavelli (Principe, cap. XVIIl).
Il Villari è ancora impigliato nella vieta formola del «fine che giustifica i mezzi», e del «fine morale» e dei «mezzi immorali». Pur basta considerare che i mezzi, appunto perché sono mezzi, non si possono distinguere in morali e immorali, ma semplicemente in adatti e disadatti; e che «mezzo immorale», quando non è un'espressione del linguaggio
volgare, è una contradizione in termini, perchè la qualifica di morale e immorale non appartiene se non al fine. E, negli esempi che si sogliono citare ad terrenduni, un'analisi un po' accurata riconosce subito, che non si tratta mai di mezzi immorali, ma di fini immorali. — Il culmine della confusione viene poi attinto da coloro, che introducono nel problema l'assurda distinzione di morale privata e di morale pubblica.
Mi si perdoni la digressione; ma, come dicevo, dubbi affatto analoghi ricompaiono ora a proposito delle massime etiche del marxismo.
5 E sarebbe il caso di chiamare a paragone le rivolte di contadini, delle quali ci ha presentato ancora esempì l'Italia odierna, con le lotte politiche degli operai tedeschi, o con quelle economiche delle Trades Unions in Inghilterra.
6 Si veda in particolare parte I, cap. IX, Moral und Recht. Ewige Wahrheiten.
7 Si vedono i pensieri del Marx: Ueber Feuerbach, del 1845, in appendice allo scritto dell'ENGELS, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (2ª ediz., Stuttgart, 1895), pp. 59-62; e cfr. Andler, in Revue de mètaphisique, 1897, Labriola, op. cit., passim, e Gentile, l. c, p. 391. Sotto quest'aspetto (ossia restringendo l'affermazione alla dottrina della conoscenza) si potrebbe parlare col Labriola di un materialismo storico in quanto filosofia della praxis, ossia come di un modo particolare di concepire e di risolvere, anzi di superare, il problema del pensiero e dell'essere. —
8. La «filosofia della praxis » è ora studiata di proposito dal Gentile, nel citato volume.

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VI

Conclusione.


Le osservazioni precedenti sono in parte tentativi di interpretazione, e in parte di correzione critica di alcuni concetti e dottrine del Marx e della letteratura marxistica. Ma altri punti meriterebbero di essere sottomessi a revisione: a cominciare da quel concentramento della proprietà privata in poche mani, che minaccia di diventare qualcosa di simile alla screditata ferrea legge del salario, fino a quella ardita proposizione di storia della filosofia, cheil proletariato sia l'erede della filosofia classica tedesca. E si potrebbe portare l'attenzione sopra altri gruppi di quesiti che noi non abbiamo considerati (p. es., sulla concezione della società futura), e sugli svolgimenti particolari e le applicazioni storiche e pratiche del marxismo1. Se la «dissoluzione del marxismo», che alcuni preannunziano -, dovesse significare una rigorosa revisione critica di esso, sarebbe davvero la benvenuta.

Intanto, per offrire in compendio i principali concetti esposti in questa memoria, dirò che in essa si propugna:

1° Sotto il rispetto della scienza economica, la giustificazione della economia marxistica, intesa non in quanto scienza economica generale, ma in quanto economia sociologica comparativa, che tratta delle condizioni del lavoro nelle società ;

2° Sotto il rispetto della teoria della storia, la liberazione del materialismo storico da ogni concetto aprioristico (sia esso eredità hegeliana o contagio di volgare evoluzionismo), e l'intendimento della dottrina come fecondo bensì, ma semplice canone d'interpretazione storica;

3° Sotto il rispetto pratico, l'impossibilità di dedurre il programma sociale marxistico (ma anche ogni altro programma sociale) da proposizioni di pura scienza, dovendosi portare il giudizio dei programmi sociali nel campo dell'osservazione empirica e delle pratiche persuasioni;

4° Sotto il rispetto etico, la negazione della intrinseca amoralità o dell'intrinseca antieticità del marxismo.

Aggiungerò un'osservazione sul secondo punto. A molti sembrerà che, ridotto il materialismo storico nei confini in cui l'abbiamo ristretto, esso non solo non sia più una vera e propria teoria scientifica (il che siamo ben disposti a concedere), ma perda addirittura qualsiasi importanza; e contro questa seconda conseguenza noi, come già altra volta, torniamo a protestare vivamente.. È, senza dubbio, cervellotico l'aborrimento che professano taluni per la scienza pura e per le astrazioni, giacché quei procedimenti intellettuali sono indispensabili alla conoscenza stessa della realtà concreta; ma non è meno cervellotica l'esclusiva stima delle proposizioni astratte, delle definizioni, dei teoremi, dei corollari: quasi che in ciò consista non si sa quale aristocrazia dello spirito umano.

I puristi economici (per non togliere esempi da altri campi, e si potrebbe trovarne in copia nelle matematiche pure) mostrano col fatto come non sia poi sovente cosa troppo importante, e neanche troppo ardua, la «scoperta» di «teoremi scientifici», severamente, impeccabilmente scientifici, e nondimeno poco sapidi: basti considerare, per persuadersene, quanti e quanti eponimi di nuovi teoremi sbuchino fuori da ogni angolo delle scuole di Germania o d'Inghilterra. E dalle reti a larghe maglie delle astrazioni e delle ipotesi scivola, inafferrabile, la realtà concreta, ossia il mondo stesso in cui noi viviamo e ci moviamo, e che c'importa conoscere. Il Marx, come sociologo, non ci ha dato, di certo, definizioni sottilmente elaborate della «socialità», come se ne possono trovare nei libri di qualche sociologo contemporaneo, dei tedeschi Simmel e Stammler o del francese Durckheim: ma egli insegna, pur con le sue proposizioni approssimative nel contenuto e paradossali nella forma, a penetrare in ciò ch'è la società nella sua realtà effettuale. Anzi, per questo rispetto, mi meraviglio come nessuno finora abbia pensato a chiamarlo, a titolo di onore, il «Machiavelli» del proletariato.

Ed aggiungerò anche un'osservazione sul terzo punto. Se il programma sociale del marxismo non può essere contenuto tutto nella scienza marxistica né in alcun'altra scienza, anche la pratica quotidiana della politica socialistica non può essere, a sua volta, contenuta tutta nei principi generali del programma. Il qual programma, ad analizzarlo, offre: 1°) un fine ultimo (l'ordinamento tecnico della società); 2°) una motivazione storica di questo fine, cercata nelle tendenze obiettive della società moderna (necessità della dissoluzione capitalistica e dell'ordinamento comunistico come il solo progressivamente possibile); 3°) un metodo (aiutare lo svolgimento estremo della borghesia ed educare politicamente la classe destinata a succederle).

Il Marx, mercè la sua politica genialità, ha per molti anni accompagnato e guidato, col consiglio e con l'opera, il movimento socialistico internazionale; ma non poteva dare precetti e catechismi buoni per tutte le contingenze e complicazioni storiche. Ora, la continuazione dell'opera politica del Marx è assai più difficile della continuazione della sua opera scientifica. E se in questa seconda continuazione i cosiddetti marxisti sono caduti talvolta in un poco ammirevole dommatismo scientifico, taluni casi recenti chiamano a meditare il pericolo, che anche la continuazione della prima possa pervertirsi in un dommatismo di pessimi effetti, qual è il dommatismo politico. Ciò rende pensosi tutti i più avveduti marxisti, il Kautsky e il Bernstein in Germania, il Sorel in Francia; e riempie di gravi ammonimenti il nuovo libro del Labriola, dal quale questo scritto ha preso le mosse.

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1 Alcune interpetrazioui potrebbero essere semplici spiegazioni verbali, come circa l'ostica proposizione che il socialismo miri ad abolire lo Stato. Pur basta riflettere che «Stato» pei socialisti è sinonimo di differenza di classi, e di esistenza di classi dominatrici, per comprendere che, come si può parlare in tal caso dell'origine dello Stato, così si può parlare della sua firte; il che non significa la fine della società regolata (cfr. Antidilhring, p. 302). — Non poca elaborazione ci-itica i-ichiede la concezione del modo in cui viene concepita la fine della società capitalistica, sul qual punto il pensiero del Marx e dell'Engels non é senza oscurità e contraddizioni (efr. Anliflilhrinri, pp. 287 sgg., e 297).
2 Ch. Andler, Les origines du socialisme d'état en Allemagne (Paris, Alcan, 18.97). L'Andler promette un libro, e fa ora un corso di lezioni, sulla «dissoluzione del marxismo».


Novembre 1897.