Il materialismo storico è quel che si dice un tema di moda.
Nato or son cinquant'anni, visse per molto tempo vita ristretta ed
oscura; ma in questi ultimi sei o sette anni è giunto
rapidamente a grande notorietà, e ha dato origine a una
copiosa letteratura, che si accresce di giorno in giorno. Io non
intendo rifare ancora una volta la storia, già molte volte
fatta, della genesi di quella dottrina, né riferire e
criticare i luoghi, oramai notissimi, del Marx e dell'Engels che la
enunciano, e le varie opinioni degli oppositori, dei difensori, dei
divulgatori, e dei correttori o corruttori. Il mio scopo è
soltanto di sottoporre ai colleghi alcune poche osservazioni intorno
a essa, prendendola nella forma in cui si presenta in un libro
recentissimo del prof. Antonio Labriola, della università di
Roma1.
Per molte ragioni, a me non ispetta di lodare questo libro del
Labriola. Ma non posso non dire, quasi per necessario chiarimento,
che esso mi è sembrato la più ampia e profonda
trattazione dell'argomento: scevra di pedanterie e di piccinerie
erudite, eppure recante in ogni rigo i segni della conoscenza
perfetta che l'autore ha di quanto si è scritto a proposito;
tale, insomma, che risparmiala noia del polemizzare con vedute
erronee ed eccessive, che vi appaiono oltrepassate. La sua
opportunità è poi grandissima in Italia, dove il
materialismo storico è ditfaso quasi soltanto nella forma
spuria datagli da un ingegnoso professore d'economia, il quale se
n'è spacciato ritrovatore2.
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1 Del materialismo storico, dilucidazioni preliminari (Roma, E.
Loescher, 1896). Si veda lo scritto precedente dello stesso autore :
In memoria del «Manifesto dei comunisti» (2ª ediz.,
ivi, 1895).
2 II prof. Achille Loria; intorno al quale si veda, in questo
volume, il saggio II.
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I
A chi legga il libro del Labriola, e procuri cavarne un concetto
preciso della nuova dottrina storica, un primo risultamento dovrebbe
mostrarsi chiaro e ineluttabile, che io raccolgo nella seguente
proposizione: «Il cosiddetto materialismo storico non è
una filosofia della storia». Ciò il Labriola non dice
in modo esplicito, anzi, se si vuole, a parole, dice talora proprio
l'opposto3. Ma la negazione, se io non m'inganno, è implicita
nei limiti che egli viene ponendo al significato della dottrina.
La reazione filosofica dello spirito critico gettò a terra le
costruzioni innalzate dalla teologia e dall'arbitrarismo metafisico,
che aduggiavano il campo della storiografia. La vecchia filosofia
della storia fa colpita a morte. E, quasi dispregiativa e
deprecativa, nacque la frase: «far filosofia della
storia», per dire: fare storia fantastica e artificiosa, e
forse tendenziosa.
Vero è che, negli ultimi tempi, sono cominciati a rivedersi
libri che prendono a titolo appunto la «Filosofia della
storia», e che parrebbero accennare a una risurrezione, la
quale in verità non ha luogo, perché si tratta di cosa
assai diversa. Questa recente letteratura non vuol dare vita a una
nuova filosofia della storia, ma rappresenta semplicemente un
filosofare sulla storia: distinzione, che merita di essere in breve
ragionata.
La possibilità di una filosofia della storia presuppone la
possibilità di una riduzione concettuale del corso della
storia. Ora, se è possibile ridurre concettualmente i vari
elementi della realtà che appaiono nella storia, ed è
quindi possibile fare una filosofia della morale o del diritto,
della scienza o dell'arte, e insieme una filosofia delle loro
relazioni, non è possibile elaborare concettualmente il
complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto,
che è il corso storico. Nel suo complesso, il movimento
storico non si potrebbe ridurre se non a un sol concetto, che
è quello di sviluppo, reso vuoto di tutto ciò che
è contenuto proprio della storia. L'antica filosofia della
storia teneva possibile un'elaborazione concettuale della storia, o
perché, facendo intervenire l'idea di Dio e della
Provvidenza, leggeva nei fatti le intenzioni dell'intelletto divino;
o perché trattava il concetto formale dello sviluppo come
includente in sé in modo logico le sue determinazioni
contingenti.
È curioso il caso del positivismo che, non essendo né
tanto grandiosamente fantastico da abbandonarsi alle concezioni
della teologia e della filosofia razionale, né tanto
severamente critico e intellettualmente agguerrito da tagliare il
male alla radice, si è fermato a mezza strada, ossia proprio
id concetto dello sviluppo e dell'evoluzione, e ha definito vera
filosofia della storia quella dell'evoluzione: come legge <;Iie
spieghi lo sviluppo, l'asserzione dello sviluppo stesso. Poco male
se si trattasse solo di codesta tautologia; ma il male è che,
per assai facile trapasso, il concetto della evoluzione, nelle mani
dei positivisti, esce sovente dalla vacuità formale, che pure
è la sua verità, e si riempie di un contenuto, o
meglio, della pretensione di un contenuto, molto simile ai contenuti
teologici e metafisici. E basti come prova la quasi religiosa
unzione e venerazione onde si ode dai democratici discorrere del
sacro mistero dell'Evoluzione.
Con tali vedute realistiche è stata fatta, ora e per sempre,
la confutazione di ogni e qualunque filosofia della storia.
Senonché la stessa critica delle vecchie costruzioni erronee
richiede una discussione di concetti, ch'è un filosofare,
sebbene sia un filosofare che va diritto a negare la filosofia della
storia; e, d'altro canto, la pratica storiografica fa sorgere
molteplici quesiti metodologici. I lavori pubblicati in questi
ultimi anni, in senso prettamente realistico, col titolo di
filosofia della storia, e dei quali ricorderò come esempi
l'opuscolo del Simmel in Germania e, presso di noi, una prolusione
universitaria dello stesso Labriola, contengono per l'appunto
nient'altro che tali ordini di ricerche e dilucidazioni. I filosofi
della storia, che, continuando nell'antica maniera, offrono disegni
di storia universale razionalmente dedotti, sono voci clamantium in
deserto, cui si può lasciar la consolazione di reputarsi
apostoli solitari di una grandiosa verità disconosciuta.
Ora il materialismo storico, nella forma in cui lo presenta il
Labriola, ha abbandonato nel fatto ogni pretesa di stabilire la
legge della storia, di ritrovare il concetto al quale si riducano i
complessi fatti storici.
Dico «nella forma in cui egli lo presenta»,
perché il Labriola non ignora, che parecchie correnti, nel
seno della scuola materialistica della storia, tendono a
ravvicinarsi a quelle concezioni viete.
Una di queste correnti, che potrebbe chiamarsi del monismo o del
materialismo astratto, introduce nella concezione della storia il
materialismo metafisico. Come si sa, il Marx, discorrendo delle
relazioni del suo pensiero con lo hegelismo, usò una volta
una frase a punta, che è stata presa troppo per la punta.
Egli disse che lo Hegel pone la Storia sulla testa, e che bisogna
capovolgerla per rimetterla sui piedi. Per lo Hegel, l'Idea è
la realtà, laddove nella concezione di lui (Marx)
l'idealità non è se non la materialità
trasformata e tradotta nella testa dell'uomo. Di qui l'affermazione,
tante volte ripetuta, che la concezione materialistica sia la
negazione o l'antitesi della concezione idealistica della storia.
Sarebbe forse opportuno ristudiare una buona volta, con precisione e
con critica, codeste affermate relazioni del socialismo scientifico
con lo hegelismo. Per accennare l'opinione che io me ne son fatta,
il legame tra le due concezioni a me sembra, più che altro,
meramente psicologico, perché lo hegelismo era la precoltura
del giovine Marx, ed è naturale che ciascuno riattacchi i
nuovi ai vecchi pensieri come svolgimento, come correzione, come
antitesi. In realtà, l'Idea dello Hegel (e il Marx doveva ben
saperlo) non sono le idee degli uomini; e il capovolgimento della
filosofia hegeliana della storia non può consistere
nell'affermare, che le idee nascano come riflesso delle condizioni
materiali. L'inverso sarebbe logicamente questo: la storia non
è un processo dell'Idea, ossia di una trascendente
realtà razionale, sibbene un sistema di forze: alla
concezione trascendente si opporrebbe la concezione immanente. E,
quanto alla dialettica hegeliana dei concetti, a me sembra che essa
abbia somiglianza puramente esteriore ed approssimativa con la
concezione storica dei periodi economici e delle condizioni
antitetiche della società.
Ma, checché sia di queste obiezioni, — che esprimo in modo
dubitativo, sapendo la difficoltà dei problemi
d'interpretazione e di genesi storica, — se è certo che il
materialismo metafisico, cui il Marx e l'Engels dall'estrema
sinistra hegeliana facilmente pervennero, ha dato il nome ed alcuni
particolari alla loro concezione della storia, altrettanto certo mi
sembra che così il nome come quei particolari sono estranei
al significato vero della dottrina. Questa non può essere
né materialistica né spiritualistica, né
dualistica né monadistica: nel suo campo ristretto non si
hanno innanzi gli elementi delle cose, in modo che si possa
discutere filosoficamente se siano riducibili l'uno all'altro e se
si unifichino in un principio ultimo. Si hanno innanzi oggetti
particolari, la terra, la produzione naturale, gli animali; si ha
innanzi l'uomo, in cui appaiono differenziati i cosiddetti processi
psichici dai cosiddetti fisiologici. Parlare in questo caso di
monismo e di materialismo, è dir cosa priva di senso.
Alcuni scrittori socialistici hanno espresso la loro meraviglia
perché il Lange, nella sua classica Storia del materialismo,
non tratti del materialismo storico. Che il Lange conoscesse
il socialismo marxistico non occorre ricordare; ma egli era uomo
troppo avveduto da confondere col materialismo metafisico, che era
il suo assunto, il materialismo storico, che non ha con quello
nessuna relazione intrinseca, ed è un semplice modo di dire.
Senonché, il materialismo metafisico dei fondatori della
nuova concezione storica, e il nome che a quest'ultima è
stato dato, hanno sviato non pochi. Citerò come esempio un
libercolo recente, che è per questo rispetto degno di nota,
dovuto a uno scrittore socialista assai reputato, il Plechanow4; il
quale, prendendo a studiare il materialismo storico, sente il
bisogno di risalire agli Holbach ed agli Helvétius. E si
scaglia contro il dualismo e il pluralismo metafisici, affermando
che «i più notevoli sistemi filosofici furono sempre
monistici, cioè intesero per materia e spirito solo due
classi di fenomeni di cui la causa è una ed
inseparabile». E, contro i sostenitori della distinzione dei
fattori storici, esclama: «Si vede qui l'antica storia, sempre
rinascente, della lotta dell'eclettismo contro il monismo, la storia
dei muri di separazione; qui la natura, hi lo spirito, ecc.».
Non pochi resteranno sbalorditi a questo balzo inaspettato dalla
considerazione della storia alle braccia del monismo, in cui non
sapevano di dover aver tanta fede.
Il Labriola si guarda accuratamente dal cadere in codeste
confusioni. «La società è un dato (egli scrive):
la storia non è se non la storia della società».
E polemizza con pari vivacità e buon effetto contro i
naturalisti, che pretendono ridurre la storia umana alla storia
naturale, e contro i verbalisti, che dalla denominazione di
«materialismo» si argomentano d'inferire il significato
proprio della nuova concezione. Ma dovrà parere anche a lui
che la denominazione dovrebbe essere cangiata, perché la
confusione è in essa, per così dire, intrinseca.
Certo, si possono piegare le vecchie parole ai nuovi
significati; ma fino a un certo grado e coi debiti avvedimenti.
Innanzi alla tendenza a ricostruire una filosofia materialistica
della storia, sostituendo alla onnipresente Idea l'onnipresente
Materia, conviene riaffermare l'impossibilità d'ogni
costruzione di tal genere, che, quando non si perde nell'arbitrario,
si risolve in una pura superfluità e tautologia. — Ma da un
altro sviamento, che si nota tra i seguaci della scuola
materialistica della storia, e che si congiunge col primo, è
da aspettare un danno, non solo per la comprensione della storia, ma
anche per l'azione pratica. Parlo delle correnti teleologiche (di
teleologia astratta), contro le quali anche si oppone, con tagliente
polemica, il Labriola. La stessa idea di progresso, che è
parsa a molti la sola legge storica da salvare dalle tante
escogitate dai pensatori filosofi e non filosofi, è per lui
resa priva della dignità di legge e ridotta a significato
assai particolare. La nozione di esso (dice il Labriola) è
«non solo empirica, ma sempre circostanziale e perciò
limitata»; il progresso «non istà sul corso delle
cose umane come un destino od un fato, né qual comando di
legge». La storia c'insegna che gli uomini sono capaci di
progredire; e noi possiamo guardare le svariate serie dei fatti
sotto quest'angolo visuale: non altro. Né meno circostanziale
ed empirica è l'idea della necessità storica, dalla
quale bisogna cancellare ogni traccia di razionalismo e di
trascendenza, per vedervi il semplice riconoscimento del
piccolissimo campo che nel corso delle cose è lasciato
all'arbitrio individuale.
Dei fraintendimenti teleologici e fatalistici si deve riconoscere,
che un po' di colpa spetta allo stesso Marx; il quale, come una
volta ebbe a dichiarare, amava di civettare (kokettiren) con la
terminologia hegeliana: arma pericolosa, con cui sarebbe stato
meglio non giocare troppo, onde ora si stima necessario fornire di
parecchie sue affermazioni una interpretazione assai larga e
conforme allo spirito generale delle sue dottrine5.
Un'altra cagione è in quell'impeto, in quella fede che
accompagna, come ogni azione pratica, anche l'azione pratica del
socialismo, e genera credenze ed aspettazioni che non sempre vanno
d'accordo col cauto pensiero critico e scientifico. Ed è
curioso osservare come i positivisti di fresco convertiti al
socialismo superino tutti gli altri (che cosa vuol dire la buona
scuola!) nei loro concetti teleologici, nei loro schemi
predeterminati, e riassorbano in quel che ha di peggio lo hegelismo,
che avevano un tempo così violentemente combattuto senza
conoscerlo. Il Labriola ha detto benissimo che le stesse previsioni
del socialismo sono semplicemente d'indole morfologica; e, invero,
né il Marx ne l'Engels avrebbero mai astrattamente affermato
che il comunismo debba accadere per una necessità
ineluttabile nel modo che essi disegnavano. Se la storia è
sempre circostanziale, perché, in questa nostra Europa
occidentale, non potrebbe, per l'azione di forze ora incalcolabili,
sopravvenire una nuova barbarie? perché l'avvento del
comunismo non potrebbe essere o reso superfluo o affrettato da
taluna di quelle scoperte tecniche, che hanno finora prodotto, come
il Marx stesso ha mostrato, i maggiori rivolgimenti storici?
A me, dunque, sembra che si faccia migliore lode alla concezione
materialistica della storia, non già col dirla
«l'ultima e definitiva filosofia della storia», ma con
l'affermare che addirittura essa «non è una filosofia
della storia». Questa intima sua natura, che si svela a chi
ben l'intende, spiega la repulsione ch'essa mostra a una formola
dottrinale soddisfacente, e come al Labriola stesso sembri appena
agli inizi e ancora bisognosa di molto sviluppo. E spiega anche come
l'Engels abbia detto (e il Labriola fa suo quel detto), che essa non
sia altro che un nuovo metodo; con che si vuol negare che sia una
nuova teoria. Ma è poi un nuovo metodo? Debbo confessare che
anche il nome di metodo non mi pare del tutto giusto. Quando i
filosofi idealistici si provavano a dedurre razionalmente i fatti
storici, quello, si, era un nuovo metodo; ma gli storici della
scuola materialistica adoprano gli stessi strumenti intellettuali e
seguono le stesse vie degli storici, dirò così,
filologi, e solamente recano nel loro lavoro alcuni dati nuovi,
alcune nuove esperienze. E diverso, dunque, il contenuto e non
già la forma metodica.
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3 Lo chiama una volta : «l'ultima e definitiva filosofia della
storia».
4 Beiträge zur Geschichte dea Materiaìismus (Stuttgart,
1896).
5 Si vedano, per esempio, le osservazioni intorno ad alcune
proposizioni del Marx, contenute nell'articolo Progrès et
développement, nel Devenir social del marzo 1896.
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II
Ed eccoci al punto, che è da stimare sostanziale. Il
materialismo storico non è, e non può essere, una
nuova filosofìa della storia, né un nuovo metodo, ma
è, e dev'essere, proprio questo: una somma di nuovi dati, di
nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico.
È appena necessario rammentare come si venga via via
superando l'ingenua veduta comune dell'obbiettività dello
storico: quasi che le cose parlino e lo storico stia ad ascoltare e
a registrare le loro voci. Chi si mette a comporre storie ha innanzi
documenti e racconti, ossia piccole parti e segni di ciò che
è realmente accaduto; e, per provarsi a ricostruire l'intero
processo, gli è necessario ricorrere a una serie di
presupposti, che sono le idee e le notizie che egli possiede delle
cose della natura, dell'uomo, delle società. I pezzi
necessari per compiere l'oggetto, di cui non ha innanzi se non
frammenti, li deve ritrovare in sé stesso; e nell'esattezza
dell'adattamento si manifesta il valor suo, la sua genialità
di storico. Onde riesce evidente che l'arricchimento di quelle idee
e di quelle esperienze è condizione di progresso per la
storiografia.
La parte del libro del Labriola, che tratta delle nuove esperienze e
concetti, offertici dal materialismo storico, a me pare assai bella
ed efficace. Il Labriola mostra come la storiografia fosse
già pervenuta, nel suo svolgimento, alla teoria dei fattori
storici; cioè alla concezione che il processo storico sia
effetto di una serie di forze, che si chiamano le condizioni
fisiche, le formazioni sociali, le istituzioni politiche,
gl'individui dirigenti. 11 materialismo storico procede oltre,
all'indagine delle relazioni di questi fattori tra loro, o, meglio,
li considera tutti insieme come parti di un unico processo. Secondo
questa teoria (com'è detto in un brano, tante volte
trascritto, del Marx), sostrato della storia sono i rapporti della
produzione ossia le condizioni economiche, che danno luogo alla
divisione delle classi, alla formazione dello Stato e del diritto, e
alle ideologie delle costumanze e dei sentimenti sociali e morali,
il cui riflesso si ritrova poi nell'arte, nella scienza, nella
religione.
Intendere esattamente questa concezione non è facile, e la
fraintendono tutti coloro che, anziché prenderla in concreto,
la enunciano astrattamente, al modo che si enuncia una verità
filosofica ed assoluta. In astratto, la teoria non si può
sostenere senza distruggerla, ossia senza tornare alla teoria dei
fattori, che è l'ultima parola dell'analisi astratta6.
Parecchi hanno immaginato che il materialismo storico voglia dire:
la storia non essere altro che la storia economica, e tutto il resto
una semplice maschera, un'apparenza senza sostanza. E si affannano
poi a cercare quale sia il vero dio della storia, se l'istrumento
produttivo o la terra, con discussioni che ricordano in ogni punto
quella, proverbiale, dell'uovo e della gallina.
Federico Engels era assediato da gente che gli si rivolgeva per
domandargli come si dovesse intendere l'azione del tale o tal altro
fattore storico rispetto al fattore economico. Ed egli, nelle non
poche lettere responsive che scrisse, e che ora, dopo la sua morte,
si vedono comparire su per le riviste, lasciava intendere che,
quando insieme col Marx, sotto la lezione dei fatti, concepiva
quella nuova interpretazione storica, non aveva inteso formolare una
teoria rigorosa. In una di queste lettere, si scusava di quel tanto
di esagerazione che potevano, egli e il Marx, aver messo
nell'affermazione polemica delle loro idee, e raccomandava di badar
piuttosto alle interpretazioni storiche da loro date, che non alle
adoperate espressioni teoriche. Bella cosa (egli esclamava), se si
potesse dar la formola per intendere tutti i fatti storici!
Applicando quella formola, l'intelligenza di qualsiasi periodo
storico diventerebbe tanto facile quanto la soluzione di una
equazione di primo grado7.
Il Labriola concede che la pretesa riduzione della storia al fattore
economico sia un'idea balzana, che può esser venuta in mente
a taluno dei troppo frettolosi propugnatori della dottrina, o dei
non meno frettolosi oppositori8. Ammette la complicatezza
della storia, il successivo fissarsi e isolarsi dei prodotti di
primo grado che diventano indipendenti, le ideologie che si
cristallizzano in tradizioni, le ostinate sopravvivenze,
l'elasticità del meccanismo psichico che rende l'individuo
irriducibile al tipo della classe o dello stato sociale,
l'inconsapevolezza ed inintelligenza nella quale gli uomini sovente
si sono trovati circa le loro proprie situazioni, l'insapute e
l'inconoscibile di credenze e superstizioni nate per istrani
accidenti e ravvolgimenti. E poiché l'uomo vive non solo
nella società ma anche nella natura, ammette la forza della
razza, del temperamento e delle suggestioni naturali. E, finalmente,
non chiude gli occhi innanzi all'efficacia degli individui, ossia
dell'opera di quelli che si chiamano grandi uomini, i quali, se non
sono dominatori, sono certo collaboratori di cui la storia non
potrebbe far di meno.
Con tutte queste concessioni egli viene a riconoscere, se non
m'inganno, che nel materialismo storico non bisogna cercare una
teoria da prendere in senso rigoroso; e, anzi che in esso non
è punto quel che si dice, propriamente, una teoria. E ci
conferma in questa persuasione col narrare il nascimento della
dottrina sotto l'impulso di quella «grande scuola di
sociologia», com'egli dice, che fu la Rivoluzione francese. Il
materialismo storico surse dal bisogno di rendersi conto di una
determinata configurazione sociale, non già da un proposito
di ricerca dei fattori della vita storica: e si formò nella
testa di politici e di rivoluzionari, non già di freddi e
compassati scienziati di biblioteca.
A questo punto alcuno dirà: — Ma se la teoria, in senso
rigoroso, non è vera, qual'è dunque la scoperta? in
che sta la novità? — Chi dicesse così, mostrerebbe di
credere che il progresso intellettuale consista solamente nel
perfezionamento dei concetti rigorosi e filosofici.
Accanto a tali concetti, non hanno forse valore altresì le
osservazioni approssimative, la conoscenza di quel che di solito
accade, tutto ciò insomma che si chiama l'esperienza della
vita, e che si può esprimere in formole generali ma non
assolute? Con questa limitazione, col sottintendere sempre un
«press'a poco» e un «all'incirca», sono
feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l'affermazione
della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della
genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può
dire che di storie ce n'è una sola ; il ritrovamento della
forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi
aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe
dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi
di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi
periodi economici; e le tante altre osservazioni, ond'è ricca
la scuola del materialismo storico. E, sempre con le predette
cautele, si può ripetere con l'Engels: «che gli uomini
fanno la loro storia essi stessi, ma in un dato ambiente
circostanziato, sulla base di condizioni reali preesistenti, tra le
quali le condizioni economiche, per quanto possano risentire
l'influsso delle altre, politiche e ideologiche, pure, in ultima
analisi, sono le decisive, e formano il filo rosso, che attraversa
tutta la storia e ne guida l'intendimento».
Anche per questa parte, io sono pienamente d'accordo col Labriola
nel giudicare assai strane le ricerche che si sono tentate dei
pretesi precursori ed inventori remoti del materialismo storico, ed
affatto errate le illazioni che da siffatte ricerche si vogliono
trarre contro l'importanza e la novità della dottrina. Quel
professore di economia italiana, cui ho alluso in principio,
còlto in fallo di plagio, stimò scagionarsi con
l'asserire che, in fondo, l'idea di Marx non era propria del Marx,
onde, se mai, egli avrebbe rubato al ladro; e snocciolò un
catalogo di precursori, risalendo fino ad Aristotele. Or ora, un
altro professore italiano rimprovera, e forse più
giustamente, al suo collega di aver dimenticato che la
interpretazione economica era stata, già prima del Marx,
illustrata da Lorenzo Stein. E potrei moltiplicare gli esempi.
Tutto ciò mi ricorda un detto di Gian Paolo Kichter: che noi
facciamo collezione di pensieri come gli avari di monete, e solo
tardi cambiamo le monete in godimenti, i pensieri in esperienze e
sentimenti. Solo la presenza nella coscienza, la visione della
pienezza del loro contenuto, dà importanza effettiva alle
sentenze che si sogliono ripetere; e questa presenza e questa
visione sono state nel caso presente imposte dal moto del socialismo
moderno e dai suoi duci intellettuali, il Marx e l'Engels. Finanche
in Tommaso Moro si può leggere che lo Stato è una
congiura di ricchi, che trattano dei propri comodi: «quoedam
conspiratio
divitum, de suis commodis reipublicae nomine tituloque
tractantium», e che i loro intrighi si chiamano leggi:
«machinamenta iam leges fiunt-»9.
E, lasciando stare Tommaso Moro (che in fin dei conti, si
dirà, era un comunista), chi non sa a mente i versi del
Manzoni: «Un'odiosa Forza il mondo possiede e fa nomarsi
Dritto...»? Ma l'interpretazione materialistica e socialistica
dello Stato e del diritto non è perciò meno nuova. E,
certo, è noto per comune proverbit) che l'interesse è
fortissimo movente delle azioni degli uomini e si cela sotto le
forme più varie; ma non è men vero che a chi si faccia
a studiare la storia dopo essere passato attraverso le lezioni della
critica socialistica, accade come al miope che si sia fornito di un
buon paio di occhiali: vede ben altrimenti, e tante ombre incerte
gli svelano i loro contorni precisi.
Rispetto alla storiografia, il materialismo storico si risolve,
dunque, in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da
esso come nuovo sussidio a intendere la storia. Pochi problemi sono
più difficili di quello che ha da risolvere lo storico. Esso
è simile, per un rispetto, al problema dell'uomo di Stato, e
consiste nel comprendere nelle loro cagioni e nel loro operare le
condizioni di un dato popolo in un dato periodo: con questa
differenza, che lo storico si ferma ad esporle, e l'uomo distato va
oltre a modificarle; che il primo non paga direttamente la pena
dell'aver mal compreso, laddove l'altro è soggetto alla dura
correzione dei fatti. Innanzi a siffatto problema, la maggior parte
degli storici (e mi riferisco in particolare alle condizioni di
questi studi in Italia) si conducono a casaccio, press'a poco come
gli eruditi di vecchia scuola facevano la filologia e cercavano le
etimologie.
Gli aiuti per una comprensione più intima e profonda sono
venuti finora in più volte, da diverse parti; ma grande
è quello che giunge ora dal campo del materialismo storico, e
adeguato all'importanza del movimento del socialismo moderno. Certo,
la coordinazione e subordinazione dei fattori, che il materialismo
storico afferma in genere, per la più parte dei casi e in
modo approssimativo, deve essere dallo storico resa chiara e
determinata per ogni singolo caso; e qui è il compito suo,
qui le difficoltà, che possono essere insormontabili in
taluni casi. Ma ormai la via è indicata a cercare la
soluzione di alcuni dei maggiori problemi della storia, almeno quale
si è svolta sinora.
Non dirò nulla dei vari tentativi recenti di mettere in
pratica storiografica la concezione materialistica, perché
non è da sbrigarsene di passata, e penso di trattarne in
qualche altra occasione. Mi restringo intanto a far eco al Labriola,
il quale nota saggiamente un difetto comune a molti di essi, che
consiste nel ritradurre, com'egli dice, in fraseologia economica le
vecchie storie prospettiche, le quali, negli ultimi tempi, sono
state tante volte tradotte in fraseologia darviniana. Veramente, per
ottenere un simile risultamento, non varrebbe la pena di promuovere
un nuovo indirizzo negli studi storici.
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6 Per questa ragione, non chiamerei, come fa il Labriola, la teoria
dei fattori una «semidottrina»; né mi pare del
tutto calzante l'analoogia con le vecchie dottrine, sorpassate in
fisica, in fisiologia e in psicologia, delle forze fisiche, delle
forze vitali, delle facoltà dell'anima.
7 V. sua lettera in data 21 settembre 1890, pubblicata nella rivista
Der socialistiscke Akademiker di Berlino, n. 19, 1° ottobre
1895. Un'altra, del 25 gennaio 1894, è stampata nel n. 20, 16
ottobre, della stessa rivista.
8 Anzi egli distingue fra «interpretazione economica» e
«concezione materialistica della storia». Con la prima
designazione intende «quei tentativi analitici che, pigliando
a parte, di qua i dati delle forme e categorie economiche, e di
là, p. es., il diritto, la legislazione, la politica, il
costume, studiano poi i vicendevoli influssi dei vari lati della
vita, cosi astrattamente e così soggettivamente
distinti». Con la seconda, invece, «la concezione
organica della storia», della «totalità ed
unità della vita sociale», dove l'economia stessa
«vien risoluta nel flusso di un processo, per apparire poi in
tanti stadi morfologici, in ciascun dei quali fa da relativa
sostruzione del resto, che le è corrispettivo e
congruo».
9 Utopia, I. II (Thomae Mori angli Opera. Lovanii, 1566, f. 18).
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III
Due punti mi pare che meritino ancora qualche dilucidazione. Quale
relazione intercede tra materialismo storico e socialismo? Il
Labriola, se non erro, inclina a connettere strettamente, e quasi a
identificare, le due cose: tutto il socialismo è, a suo
parere, nell'interpretazione materialistica della storia, eh'
è la verità stessa del socialismo ; e chi accetta
l'una e rifiuta l'altro, non ha inteso né l'una né
l'altro. Io credo queste affermazioni alquanto esagerate, o almeno,
bisognose di schiarimento.
Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di
finalità e di disegni provvidenziali, esso non può
dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro
indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue determinazioni
storiche particolari, nella osservazione che per mezzo dì
esso sarà possibile fare, si potrà eventualmente
trovare un legame tra materialismo storico e socialismo.
L'osservazione sarà, p. es., la seguente: — la società
è ora così conformata che la più adatta
soluzione, che contiene in sé, è il socialismo. —
Osservazione la quale, per altro, non potrà diventare azione
e fatto senza una serie di complementi, che sono motivi di interesse
economico non meno che etici e sentimentali, giudizi morali ed
entusiasmi di fede. Per sé stessa, è fredda e
impotente, e non basterà, p. es., a muovere l'indifferente,
lo scettico, il pessimista, ma servirà a mettere sull'avviso
e a impegnare in una lotta lunga, se pur vana nel risultamento
finale, tutte le classi sociali che in quel processo storico
scorgono la loro rovina; tranne i proletari, che desiderano appunto
la fine della loro classe. A darle avviamento positivo, a
trasformarla in imperativo ideale per chi non senta la spinta cieca
dell'interesse di classe o non si lasci avvolgere turbinosamente
dalle correnti del suo tempo, occorre dunque che vi si aggiungano la
persuasione morale e la forza del sentimento.
E questa è l'ultima questione che mi pare da mettere in
chiaro, quantunque anche per essa la divergenza tra me e il Labriola
non sembra possa essere di sostanza, A quali conclusioni conduce il
materialismo storico rispetto ai valori ideali dell'uomo, rispetto
cioè alla verità scientifica e a ciò che si
chiama verità morale?
Senza dubbio, la storia della genesi della verità scientifica
viene anch'essa rischiarata dal materialismo storico, che tende a
mostrare l'efficacia delle condizioni di fatto sulle scoperte e
sullo svolgimento stesso della mente umana. La storia così
delle opinioni come della scienza è in parte da rifare sotto
questo aspetto, e se ne cominciano a vedere saggi notevoli. Ma
coloro che per tale considerazione di genesi storica tornano
trionfalmente al vecchio relativismo e scetticismo, confondono due
ordini di questioni affatto diversi. La geometria è nata, di
certo, in date condizioni, che importa determinare ; ma non per
questo le verità geometriche sono qualcosa di relativo e
contingente. L'avvertenza parrebbe superflua; ma anche qui gli
equivoci sono frequenti e curiosissimi. Non ho letto finanche, in
qualche scrittore socialista, che le stesse «scoperte»
del Marx sono un semplice «momento» storico, che deve
essere necessariamente «negato»? Il che, se non ha il
significato abbastanza ovvio di un riconoscimento della
incompiutezza e provvisorietù e transitorietà di ogni
opera umana, o non si riduce alla non meno ovvia osservazione che il
pensiero del Marx è figlio dei suoi tempi, io non so quale
significato possa avere.
Anche più pericolosa è codesta unilateralità
storica rispetto alle verità morali. La scienza della morale
sembra che sia ora in un periodo di rivolgimento: l'etica
imperativa, che ha le sue opere classiche nella Critica della ragion
pratica del Kant e nella Filosofia pratica dello Herbart, non
soddisfa a pieno, e accanto ad essa sorgono una scienza storica ed
una scienza formale della morale, che considerano la morale come un
fatto, e ne studiano l'universale natura fuori di ogni
preoccupazione di catechismo e di precetti. Questo movimento si
manifesta non solo nella cerchia socialistica, ma anche altrove, e
mi basti ricordare gli acuti lavori del Simmel.
Il Labriola ha perciò ragione nel rivendicare nuovi modi di
considerazione della morale. «L'etica (egli dice) si riduce
per noi allo studio storico delle condizioni soggettive ed oggettive
del come la morale si sviluppi, o trovi impedimento a
svilupparsi». Ma cautamente soggiunge: «In ciò
solo, ossia entro questi termini, ha valore l'enunciato che la
morale è corrispettiva alle situazioni sociali, ossia, in
ultima analisi, alle condizioni economiche». La questione del
pregio intrinseco e assoluto dell'ideale morale, della sua
riducibilità o irriducibilità alla verità
intellettuale o al bisogno utilitario, rimane intatta.
E forse sarebbe stato opportuno che il Labriola avesse battuto un
po' più su questo punto. Nella letteratura socialistica si
nota una forte corrente di relativismo morale, non già
storico ma sostanziale, di quello che considera la morale come una
vana imaginatio. Questa corrente è stata principalmente
determinata dalla necessità in cui il Marx e l'Engels si
trovarono, di fronte alle varie categorie di utopisti, di affermare,
che la cosiddetta questione sociale non è una questione
morale (ossia, secondo ch'è da interpretare, non si risolve
con predicozzi e coi cosiddetti mezzi morali), e dalla loro critica
acerba delle ideologie ed ipocrisie di classe 10. E stata poi
aiutata, per quel che a me sembra, dalla origine hegeliana del
pensiero del Marx e dell'Engels, essendo noto che nella filosofia
hegeliana l'etica perde la rigidezza datale dal Kant e serbatale
dallo Herbart. E, finalmente, non è forse in ciò senza
efficacia la denominazione di «materialismo», che fa
ripensare subito e all'interesse ben inteso al calcolo dei
piaceri. Ma è evidente che l'idealità o l'assolutezza
della morale, nel senso filosofico di tali parole, sono presupposto
necessario del socialismo. L'interesse, che ci muove a costruire un
concetto del sopra valore, non ò forse un interesse morale, o
sociale che si voglia dire? In pura economia, si può parlare
di sopra valore? Non vende il proletario la sua forza di lavoro
proprio per quel che vale, data la sua situazione nella presente
società? E, senza quel presupposto morale, come si
spiegherebbe, nonché l'azione politica del Marx, il tono di
violenta indignazione e di satira amara, che si avverte in ogni
pagina del Capitale? — Ma basti di ciò, perché mi
avvedo di dir cose assai elementari, e che solo per equivoci o per
esagerazioni verbali si possono sconoscere o sembra che vengano
disconosciute.
E, nel concludere, torno al lamento, che ho già fatto contro
questa denominazione di «materialismo», che non ha
ragion d'essere nel caso presente, e fa nascere tanti malintesi e
serve al gioco degli avversari. Per quel che riguarda la storia, io
mi fermerei volentieri alla denominazione di «concezione
realistica della storia», che segna le opposizioni a tutte le
teologie e metafisiche nel campo della storia, ed è tale da
accogliere in sé così il contributo che alla coscienza
storica ha recato il socialismo, come quelli che le si potranno
recare, in futuro, da ogni altra parte. perché l'amico
Labriola non deve dare, nel fondo del suo pensiero, troppa
importanza agli aggettivi «ultimo» e «
definitivo», che gli sono sfuggiti dalla penna. Non mi ha
raccontato egli stesso una volta, che l'Engels aspettava ancora
altre scoperte che ci aiutino a intendere questo mistero che noi
stessi facciamo, e che è la Storia?
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10 È notevole, sotto questo riguardo, l'antipatia che
traspare nella letteratura socialistica contro lo Schiller, il poeta
della morale kantiana esteticamente temperata, divenuto poeta del
cuore dei borghesi tedeschi.
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Maggio 1896.