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SULLA FORMA SCIENTIFICA DEL MATERIALISMO STORICO



Il materialismo storico è quel che si dice un tema di moda. Nato or son cinquant'anni, visse per molto tempo vita ristretta ed oscura; ma in questi ultimi sei o sette anni è giunto rapidamente a grande notorietà, e ha dato origine a una copiosa letteratura, che si accresce di giorno in giorno. Io non intendo rifare ancora una volta la storia, già molte volte fatta, della genesi di quella dottrina, né riferire e criticare i luoghi, oramai notissimi, del Marx e dell'Engels che la enunciano, e le varie opinioni degli oppositori, dei difensori, dei divulgatori, e dei correttori o corruttori. Il mio scopo è soltanto di sottoporre ai colleghi alcune poche osservazioni intorno a essa, prendendola nella forma in cui si presenta in un libro recentissimo del prof. Antonio Labriola, della università di Roma1.

Per molte ragioni, a me non ispetta di lodare questo libro del Labriola. Ma non posso non dire, quasi per necessario chiarimento, che esso mi è sembrato la più ampia e profonda trattazione dell'argomento: scevra di pedanterie e di piccinerie erudite, eppure recante in ogni rigo i segni della conoscenza perfetta che l'autore ha di quanto si è scritto a proposito; tale, insomma, che risparmiala noia del polemizzare con vedute erronee ed eccessive, che vi appaiono oltrepassate. La sua opportunità è poi grandissima in Italia, dove il materialismo storico è ditfaso quasi soltanto nella forma spuria datagli da un ingegnoso professore d'economia, il quale se n'è spacciato ritrovatore2.

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1 Del materialismo storico, dilucidazioni preliminari (Roma, E. Loescher, 1896). Si veda lo scritto precedente dello stesso autore : In memoria del «Manifesto dei comunisti» (2ª ediz., ivi, 1895).


2 II prof. Achille Loria; intorno al quale si veda, in questo volume, il saggio II.

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I


A chi legga il libro del Labriola, e procuri cavarne un concetto preciso della nuova dottrina storica, un primo risultamento dovrebbe mostrarsi chiaro e ineluttabile, che io raccolgo nella seguente proposizione: «Il cosiddetto materialismo storico non è una filosofia della storia». Ciò il Labriola non dice in modo esplicito, anzi, se si vuole, a parole, dice talora proprio l'opposto3. Ma la negazione, se io non m'inganno, è implicita nei limiti che egli viene ponendo al significato della dottrina.

La reazione filosofica dello spirito critico gettò a terra le costruzioni innalzate dalla teologia e dall'arbitrarismo metafisico, che aduggiavano il campo della storiografia. La vecchia filosofia della storia fa colpita a morte. E, quasi dispregiativa e deprecativa, nacque la frase: «far filosofia della storia», per dire: fare storia fantastica e artificiosa, e forse tendenziosa.

Vero è che, negli ultimi tempi, sono cominciati a rivedersi libri che prendono a titolo appunto la «Filosofia della storia», e che parrebbero accennare a una risurrezione, la quale in verità non ha luogo, perché si tratta di cosa assai diversa. Questa recente letteratura non vuol dare vita a una nuova filosofia della storia, ma rappresenta semplicemente un filosofare sulla storia: distinzione, che merita di essere in breve ragionata.

La possibilità di una filosofia della storia presuppone la possibilità di una riduzione concettuale del corso della storia. Ora, se è possibile ridurre concettualmente i vari elementi della realtà che appaiono nella storia, ed è quindi possibile fare una filosofia della morale o del diritto, della scienza o dell'arte, e insieme una filosofia delle loro relazioni, non è possibile elaborare concettualmente il complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico. Nel suo complesso, il movimento storico non si potrebbe ridurre se non a un sol concetto, che è quello di sviluppo, reso vuoto di tutto ciò che è contenuto proprio della storia. L'antica filosofia della storia teneva possibile un'elaborazione concettuale della storia, o perché, facendo intervenire l'idea di Dio e della Provvidenza, leggeva nei fatti le intenzioni dell'intelletto divino; o perché trattava il concetto formale dello sviluppo come includente in sé in modo logico le sue determinazioni contingenti.

È curioso il caso del positivismo che, non essendo né tanto grandiosamente fantastico da abbandonarsi alle concezioni della teologia e della filosofia razionale, né tanto severamente critico e intellettualmente agguerrito da tagliare il male alla radice, si è fermato a mezza strada, ossia proprio id concetto dello sviluppo e dell'evoluzione, e ha definito vera filosofia della storia quella dell'evoluzione: come legge <;Iie spieghi lo sviluppo, l'asserzione dello sviluppo stesso. Poco male se si trattasse solo di codesta tautologia; ma il male è che, per assai facile trapasso, il concetto della evoluzione, nelle mani dei positivisti, esce sovente dalla vacuità formale, che pure è la sua verità, e si riempie di un contenuto, o meglio, della pretensione di un contenuto, molto simile ai contenuti teologici e metafisici. E basti come prova la quasi religiosa unzione e venerazione onde si ode dai democratici discorrere del sacro mistero dell'Evoluzione.

Con tali vedute realistiche è stata fatta, ora e per sempre, la confutazione di ogni e qualunque filosofia della storia. Senonché la stessa critica delle vecchie costruzioni erronee richiede una discussione di concetti, ch'è un filosofare, sebbene sia un filosofare che va diritto a negare la filosofia della storia; e, d'altro canto, la pratica storiografica fa sorgere molteplici quesiti metodologici. I lavori pubblicati in questi ultimi anni, in senso prettamente realistico, col titolo di filosofia della storia, e dei quali ricorderò come esempi l'opuscolo del Simmel in Germania e, presso di noi, una prolusione universitaria dello stesso Labriola, contengono per l'appunto nient'altro che tali ordini di ricerche e dilucidazioni. I filosofi della storia, che, continuando nell'antica maniera, offrono disegni di storia universale razionalmente dedotti, sono voci clamantium in deserto, cui si può lasciar la consolazione di reputarsi apostoli solitari di una grandiosa verità disconosciuta.

Ora il materialismo storico, nella forma in cui lo presenta il Labriola, ha abbandonato nel fatto ogni pretesa di stabilire la legge della storia, di ritrovare il concetto al quale si riducano i complessi fatti storici.

Dico «nella forma in cui egli lo presenta», perché il Labriola non ignora, che parecchie correnti, nel seno della scuola materialistica della storia, tendono a ravvicinarsi a quelle concezioni viete.

Una di queste correnti, che potrebbe chiamarsi del monismo o del materialismo astratto, introduce nella concezione della storia il materialismo metafisico. Come si sa, il Marx, discorrendo delle relazioni del suo pensiero con lo hegelismo, usò una volta una frase a punta, che è stata presa troppo per la punta. Egli disse che lo Hegel pone la Storia sulla testa, e che bisogna capovolgerla per rimetterla sui piedi. Per lo Hegel, l'Idea è la realtà, laddove nella concezione di lui (Marx) l'idealità non è se non la materialità trasformata e tradotta nella testa dell'uomo. Di qui l'affermazione, tante volte ripetuta, che la concezione materialistica sia la negazione o l'antitesi della concezione idealistica della storia.

Sarebbe forse opportuno ristudiare una buona volta, con precisione e con critica, codeste affermate relazioni del socialismo scientifico con lo hegelismo. Per accennare l'opinione che io me ne son fatta, il legame tra le due concezioni a me sembra, più che altro, meramente psicologico, perché lo hegelismo era la precoltura del giovine Marx, ed è naturale che ciascuno riattacchi i nuovi ai vecchi pensieri come svolgimento, come correzione, come antitesi. In realtà, l'Idea dello Hegel (e il Marx doveva ben saperlo) non sono le idee degli uomini; e il capovolgimento della filosofia hegeliana della storia non può consistere nell'affermare, che le idee nascano come riflesso delle condizioni materiali. L'inverso sarebbe logicamente questo: la storia non è un processo dell'Idea, ossia di una trascendente realtà razionale, sibbene un sistema di forze: alla concezione trascendente si opporrebbe la concezione immanente. E, quanto alla dialettica hegeliana dei concetti, a me sembra che essa abbia somiglianza puramente esteriore ed approssimativa con la concezione storica dei periodi economici e delle condizioni antitetiche della società.

Ma, checché sia di queste obiezioni, — che esprimo in modo dubitativo, sapendo la difficoltà dei problemi d'interpretazione e di genesi storica, — se è certo che il materialismo metafisico, cui il Marx e l'Engels dall'estrema sinistra hegeliana facilmente pervennero, ha dato il nome ed alcuni particolari alla loro concezione della storia, altrettanto certo mi sembra che così il nome come quei particolari sono estranei al significato vero della dottrina. Questa non può essere né materialistica né spiritualistica, né dualistica né monadistica: nel suo campo ristretto non si hanno innanzi gli elementi delle cose, in modo che si possa discutere filosoficamente se siano riducibili l'uno all'altro e se si unifichino in un principio ultimo. Si hanno innanzi oggetti particolari, la terra, la produzione naturale, gli animali; si ha innanzi l'uomo, in cui appaiono differenziati i cosiddetti processi psichici dai cosiddetti fisiologici. Parlare in questo caso di monismo e di materialismo, è dir cosa priva di senso.

Alcuni scrittori socialistici hanno espresso la loro meraviglia perché il Lange, nella sua classica Storia del materialismo, non  tratti del materialismo storico. Che il Lange conoscesse il socialismo marxistico non occorre ricordare; ma egli era uomo troppo avveduto da confondere col materialismo metafisico, che era il suo assunto, il materialismo storico, che non ha con quello nessuna relazione intrinseca, ed è un semplice modo di dire. Senonché, il materialismo metafisico dei fondatori della nuova concezione storica, e il nome che a quest'ultima è stato dato, hanno sviato non pochi. Citerò come esempio un libercolo recente, che è per questo rispetto degno di nota, dovuto a uno scrittore socialista assai reputato, il Plechanow4; il quale, prendendo a studiare il materialismo storico, sente il bisogno di risalire agli Holbach ed agli Helvétius. E si scaglia contro il dualismo e il pluralismo metafisici, affermando che «i più notevoli sistemi filosofici furono sempre monistici, cioè intesero per materia e spirito solo due classi di fenomeni di cui la causa è una ed inseparabile». E, contro i sostenitori della distinzione dei fattori storici, esclama: «Si vede qui l'antica storia, sempre rinascente, della lotta dell'eclettismo contro il monismo, la storia dei muri di separazione; qui la natura, hi lo spirito, ecc.». Non pochi resteranno sbalorditi a questo balzo inaspettato dalla considerazione della storia alle braccia del monismo, in cui non sapevano di dover aver tanta fede.

Il Labriola si guarda accuratamente dal cadere in codeste confusioni. «La società è un dato (egli scrive): la storia non è se non la storia della società». E polemizza con pari vivacità e buon effetto contro i naturalisti, che pretendono ridurre la storia umana alla storia naturale, e contro i verbalisti, che dalla denominazione di «materialismo» si argomentano d'inferire il significato proprio della nuova concezione. Ma dovrà parere anche a lui che la denominazione dovrebbe essere cangiata, perché la confusione è in essa, per così dire, intrinseca. Certo, si possono piegare  le vecchie parole ai nuovi significati; ma fino a un certo grado e coi debiti avvedimenti.

Innanzi alla tendenza a ricostruire una filosofia materialistica della storia, sostituendo alla onnipresente Idea l'onnipresente Materia, conviene riaffermare l'impossibilità d'ogni costruzione di tal genere, che, quando non si perde nell'arbitrario, si risolve in una pura superfluità e tautologia. — Ma da un altro sviamento, che si nota tra i seguaci della scuola materialistica della storia, e che si congiunge col primo, è da aspettare un danno, non solo per la comprensione della storia, ma anche per l'azione pratica. Parlo delle correnti teleologiche (di teleologia astratta), contro le quali anche si oppone, con tagliente polemica, il Labriola. La stessa idea di progresso, che è parsa a molti la sola legge storica da salvare dalle tante escogitate dai pensatori filosofi e non filosofi, è per lui resa priva della dignità di legge e ridotta a significato assai particolare. La nozione di esso (dice il Labriola) è «non solo empirica, ma sempre circostanziale e perciò limitata»; il progresso «non istà sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando di legge». La storia c'insegna che gli uomini sono capaci di progredire; e noi possiamo guardare le svariate serie dei fatti sotto quest'angolo visuale: non altro. Né meno circostanziale ed empirica è l'idea della necessità storica, dalla quale bisogna cancellare ogni traccia di razionalismo e di trascendenza, per vedervi il semplice riconoscimento del piccolissimo campo che nel corso delle cose è lasciato all'arbitrio individuale.

Dei fraintendimenti teleologici e fatalistici si deve riconoscere, che un po' di colpa spetta allo stesso Marx; il quale, come una volta ebbe a dichiarare, amava di civettare (kokettiren) con la terminologia hegeliana: arma pericolosa, con cui sarebbe stato meglio non giocare troppo, onde ora si stima necessario fornire di parecchie sue affermazioni una interpretazione assai larga e conforme allo spirito generale delle sue dottrine5.

Un'altra cagione è in quell'impeto, in quella fede che accompagna, come ogni azione pratica, anche l'azione pratica del socialismo, e genera credenze ed aspettazioni che non sempre vanno d'accordo col cauto pensiero critico e scientifico. Ed è curioso osservare come i positivisti di fresco convertiti al socialismo superino tutti gli altri (che cosa vuol dire la buona scuola!) nei loro concetti teleologici, nei loro schemi predeterminati, e riassorbano in quel che ha di peggio lo hegelismo, che avevano un tempo così violentemente combattuto senza conoscerlo. Il Labriola ha detto benissimo che le stesse previsioni del socialismo sono semplicemente d'indole morfologica; e, invero, né il Marx ne l'Engels avrebbero mai astrattamente affermato che il comunismo debba accadere per una necessità ineluttabile nel modo che essi disegnavano. Se la storia è sempre circostanziale, perché, in questa nostra Europa occidentale, non potrebbe, per l'azione di forze ora incalcolabili, sopravvenire una nuova barbarie? perché l'avvento del comunismo non potrebbe essere o reso superfluo o affrettato da taluna di quelle scoperte tecniche, che hanno finora prodotto, come il Marx stesso ha mostrato, i maggiori rivolgimenti storici?

A me, dunque, sembra che si faccia migliore lode alla concezione materialistica della storia, non già col dirla «l'ultima e definitiva filosofia della storia», ma con l'affermare che addirittura essa «non è una filosofia della storia». Questa intima sua natura, che si svela a chi ben l'intende, spiega la repulsione ch'essa mostra a una formola dottrinale soddisfacente, e come al Labriola stesso sembri appena agli inizi e ancora bisognosa di molto sviluppo. E spiega anche come l'Engels abbia detto (e il Labriola fa suo quel detto), che essa non sia altro che un nuovo metodo; con che si vuol negare che sia una nuova teoria. Ma è poi un nuovo metodo? Debbo confessare che anche il nome di metodo non mi pare del tutto giusto. Quando i filosofi idealistici si provavano a dedurre razionalmente i fatti storici, quello, si, era un nuovo metodo; ma gli storici della scuola materialistica adoprano gli stessi strumenti intellettuali e seguono le stesse vie degli storici, dirò così, filologi, e solamente recano nel loro lavoro alcuni dati nuovi, alcune nuove esperienze. E diverso, dunque, il contenuto e non già la forma metodica.

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3 Lo chiama una volta : «l'ultima e definitiva filosofia della storia».

4 Beiträge zur Geschichte dea Materiaìismus (Stuttgart, 1896).

5 Si vedano, per esempio, le osservazioni intorno ad alcune proposizioni del Marx, contenute nell'articolo Progrès et développement, nel Devenir social del marzo 1896.

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II

Ed eccoci al punto, che è da stimare sostanziale. Il materialismo storico non è, e non può essere, una nuova filosofìa della storia, né un nuovo metodo, ma è, e dev'essere, proprio questo: una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico.

È appena necessario rammentare come si venga via via superando l'ingenua veduta comune dell'obbiettività dello storico: quasi che le cose parlino e lo storico stia ad ascoltare e a registrare le loro voci. Chi si mette a comporre storie ha innanzi documenti e racconti, ossia piccole parti e segni di ciò che è realmente accaduto; e, per provarsi a ricostruire l'intero processo, gli è necessario ricorrere a una serie di presupposti, che sono le idee e le notizie che egli possiede delle cose della natura, dell'uomo, delle società. I pezzi necessari per compiere l'oggetto, di cui non ha innanzi se non frammenti, li deve ritrovare in sé stesso; e nell'esattezza dell'adattamento si manifesta il valor suo, la sua genialità di storico. Onde riesce evidente che l'arricchimento di quelle idee e di quelle esperienze è condizione di progresso per la storiografia.

La parte del libro del Labriola, che tratta delle nuove esperienze e concetti, offertici dal materialismo storico, a me pare assai bella ed efficace. Il Labriola mostra come la storiografia fosse già pervenuta, nel suo svolgimento, alla teoria dei fattori storici; cioè alla concezione che il processo storico sia effetto di una serie di forze, che si chiamano le condizioni fisiche, le formazioni sociali, le istituzioni politiche, gl'individui dirigenti. 11 materialismo storico procede oltre, all'indagine delle relazioni di questi fattori tra loro, o, meglio, li considera tutti insieme come parti di un unico processo. Secondo questa teoria (com'è detto in un brano, tante volte trascritto, del Marx), sostrato della storia sono i rapporti della produzione ossia le condizioni economiche, che danno luogo alla divisione delle classi, alla formazione dello Stato e del diritto, e alle ideologie delle costumanze e dei sentimenti sociali e morali, il cui riflesso si ritrova poi nell'arte, nella scienza, nella religione.

Intendere esattamente questa concezione non è facile, e la fraintendono tutti coloro che, anziché prenderla in concreto, la enunciano astrattamente, al modo che si enuncia una verità filosofica ed assoluta. In astratto, la teoria non si può sostenere senza distruggerla, ossia senza tornare alla teoria dei fattori, che è l'ultima parola dell'analisi astratta6. Parecchi hanno immaginato che il materialismo storico voglia dire: la storia non essere altro che la storia economica, e tutto il resto una semplice maschera, un'apparenza senza sostanza. E si affannano poi a cercare quale sia il vero dio della storia, se l'istrumento produttivo o la terra, con discussioni che ricordano in ogni punto quella, proverbiale, dell'uovo e della gallina.

Federico Engels era assediato da gente che gli si rivolgeva per domandargli come si dovesse intendere l'azione del tale o tal altro fattore storico rispetto al fattore economico. Ed egli, nelle non poche lettere responsive che scrisse, e che ora, dopo la sua morte, si vedono comparire su per le riviste, lasciava intendere che, quando insieme col Marx, sotto la lezione dei fatti, concepiva quella nuova interpretazione storica, non aveva inteso formolare una teoria rigorosa. In una di queste lettere, si scusava di quel tanto di esagerazione che potevano, egli e il Marx, aver messo nell'affermazione polemica delle loro idee, e raccomandava di badar piuttosto alle interpretazioni storiche da loro date, che non alle adoperate espressioni teoriche. Bella cosa (egli esclamava), se si potesse dar la formola per intendere tutti i fatti storici! Applicando quella formola, l'intelligenza di qualsiasi periodo storico diventerebbe tanto facile quanto la soluzione di una equazione di primo grado7.

Il Labriola concede che la pretesa riduzione della storia al fattore economico sia un'idea balzana, che può esser venuta in mente a taluno dei troppo frettolosi propugnatori della dottrina, o dei non meno frettolosi oppositori8.  Ammette la complicatezza della storia, il successivo fissarsi e isolarsi dei prodotti di primo grado che diventano indipendenti, le ideologie che si cristallizzano in tradizioni, le ostinate sopravvivenze, l'elasticità del meccanismo psichico che rende l'individuo irriducibile al tipo della classe o dello stato sociale, l'inconsapevolezza ed inintelligenza nella quale gli uomini sovente si sono trovati circa le loro proprie situazioni, l'insapute e l'inconoscibile di credenze e superstizioni nate per istrani accidenti e ravvolgimenti. E poiché l'uomo vive non solo nella società ma anche nella natura, ammette la forza della razza, del temperamento e delle suggestioni naturali. E, finalmente, non chiude gli occhi innanzi all'efficacia degli individui, ossia dell'opera di quelli che si chiamano grandi uomini, i quali, se non sono dominatori, sono certo collaboratori di cui la storia non potrebbe far di meno.

Con tutte queste concessioni egli viene a riconoscere, se non m'inganno, che nel materialismo storico non bisogna cercare una teoria da prendere in senso rigoroso; e, anzi che in esso non è punto quel che si dice, propriamente, una teoria. E ci conferma in questa persuasione col narrare il nascimento della dottrina sotto l'impulso di quella «grande scuola di sociologia», com'egli dice, che fu la Rivoluzione francese. Il materialismo storico surse dal bisogno di rendersi conto di una determinata configurazione sociale, non già da un proposito di ricerca dei fattori della vita storica: e si formò nella testa di politici e di rivoluzionari, non già di freddi e compassati scienziati di biblioteca.

A questo punto alcuno dirà: — Ma se la teoria, in senso rigoroso, non è vera, qual'è dunque la scoperta? in che sta la novità? — Chi dicesse così, mostrerebbe di credere che il progresso intellettuale consista solamente nel perfezionamento dei concetti rigorosi e filosofici.

Accanto a tali concetti, non hanno forse valore altresì le osservazioni approssimative, la conoscenza di quel che di solito accade, tutto ciò insomma che si chiama l'esperienza della vita, e che si può esprimere in formole generali ma non assolute? Con questa limitazione, col sottintendere sempre un «press'a poco» e un «all'incirca», sono feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l'affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storie ce n'è una sola ; il ritrovamento della forza reale dello Stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi periodi economici; e le tante altre osservazioni, ond'è ricca la scuola del materialismo storico. E, sempre con le predette cautele, si può ripetere con l'Engels: «che gli uomini fanno la loro storia essi stessi, ma in un dato ambiente circostanziato, sulla base di condizioni reali preesistenti, tra le quali le condizioni economiche, per quanto possano risentire l'influsso delle altre, politiche e ideologiche, pure, in ultima analisi, sono le decisive, e formano il filo rosso, che attraversa tutta la storia e ne guida l'intendimento».

Anche per questa parte, io sono pienamente d'accordo col Labriola nel giudicare assai strane le ricerche che si sono tentate dei pretesi precursori ed inventori remoti del materialismo storico, ed affatto errate le illazioni che da siffatte ricerche si vogliono trarre contro l'importanza e la novità della dottrina. Quel professore di economia italiana, cui ho alluso in principio, còlto in fallo di plagio, stimò scagionarsi con l'asserire che, in fondo, l'idea di Marx non era propria del Marx, onde, se mai, egli avrebbe rubato al ladro; e snocciolò un catalogo di precursori, risalendo fino ad Aristotele. Or ora, un altro professore italiano rimprovera, e forse più giustamente, al suo collega di aver dimenticato che la interpretazione economica era stata, già prima del Marx, illustrata da Lorenzo Stein. E potrei moltiplicare gli esempi.

Tutto ciò mi ricorda un detto di Gian Paolo Kichter: che noi facciamo collezione di pensieri come gli avari di monete, e solo tardi cambiamo le monete in godimenti, i pensieri in esperienze e sentimenti. Solo la presenza nella coscienza, la visione della pienezza del loro contenuto, dà importanza effettiva alle sentenze che si sogliono ripetere; e questa presenza e questa visione sono state nel caso presente imposte dal moto del socialismo moderno e dai suoi duci intellettuali, il Marx e l'Engels. Finanche in Tommaso Moro si può leggere che lo Stato è una congiura di ricchi, che trattano dei propri comodi: «quoedam conspiratio
divitum, de suis commodis reipublicae  nomine tituloque tractantium», e che i loro intrighi si chiamano leggi: «machinamenta iam leges fiunt-»9.

E, lasciando stare Tommaso Moro (che in fin dei conti, si dirà, era un comunista), chi non sa a mente i versi del Manzoni: «Un'odiosa Forza il mondo possiede e fa nomarsi Dritto...»? Ma l'interpretazione materialistica e socialistica dello Stato e del diritto non è perciò meno nuova. E, certo, è noto per comune proverbit) che l'interesse è fortissimo movente delle azioni degli uomini e si cela sotto le forme più varie; ma non è men vero che a chi si faccia a studiare la storia dopo essere passato attraverso le lezioni della critica socialistica, accade come al miope che si sia fornito di un buon paio di occhiali: vede ben altrimenti, e tante ombre incerte gli svelano i loro contorni precisi.

Rispetto alla storiografia, il materialismo storico si risolve, dunque, in un ammonimento a tener presenti le osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la storia. Pochi problemi sono più difficili di quello che ha da risolvere lo storico. Esso è simile, per un rispetto, al problema dell'uomo di Stato, e consiste nel comprendere nelle loro cagioni e nel loro operare le condizioni di un dato popolo in un dato periodo: con questa differenza, che lo storico si ferma ad esporle, e l'uomo distato va oltre a modificarle; che il primo non paga direttamente la pena dell'aver mal compreso, laddove l'altro è soggetto alla dura correzione dei fatti. Innanzi a siffatto problema, la maggior parte degli storici (e mi riferisco in particolare alle condizioni di questi studi in Italia) si conducono a casaccio, press'a poco come gli eruditi di vecchia scuola facevano la filologia e cercavano le etimologie.

Gli aiuti per una comprensione più intima e profonda sono venuti finora in più volte, da diverse parti; ma grande è quello che giunge ora dal campo del materialismo storico, e adeguato all'importanza del movimento del socialismo moderno. Certo, la coordinazione e subordinazione dei fattori, che il materialismo storico afferma in genere, per la più parte dei casi e in modo approssimativo, deve essere dallo storico resa chiara e determinata per ogni singolo caso; e qui è il compito suo, qui le difficoltà, che possono essere insormontabili in taluni casi. Ma ormai la via è indicata a cercare la soluzione di alcuni dei maggiori problemi della storia, almeno quale si è svolta sinora.

Non dirò nulla dei vari tentativi recenti di mettere in pratica storiografica la concezione materialistica, perché non è da sbrigarsene di passata, e penso di trattarne in qualche altra occasione. Mi restringo intanto a far eco al Labriola, il quale nota saggiamente un difetto comune a molti di essi, che consiste nel ritradurre, com'egli dice, in fraseologia economica le vecchie storie prospettiche, le quali, negli ultimi tempi, sono state tante volte tradotte in fraseologia darviniana. Veramente, per ottenere un simile risultamento, non varrebbe la pena di promuovere un nuovo indirizzo negli studi storici.

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6 Per questa ragione, non chiamerei, come fa il Labriola, la teoria dei fattori una «semidottrina»; né mi pare del tutto calzante l'analoogia con le vecchie dottrine, sorpassate in fisica, in fisiologia e in psicologia, delle forze fisiche, delle forze vitali, delle facoltà dell'anima.

7 V. sua lettera in data 21 settembre 1890, pubblicata nella rivista Der socialistiscke Akademiker di Berlino, n. 19, 1° ottobre 1895. Un'altra, del 25 gennaio 1894, è stampata nel n. 20, 16 ottobre, della stessa rivista.


8 Anzi egli distingue fra «interpretazione economica» e «concezione materialistica della storia». Con la prima designazione intende «quei tentativi analitici che, pigliando a parte, di qua i dati delle forme e categorie economiche, e di là, p. es., il diritto, la legislazione, la politica, il costume, studiano poi i vicendevoli influssi dei vari lati della vita, cosi astrattamente e così soggettivamente distinti». Con la seconda, invece, «la concezione organica della storia», della «totalità ed unità della vita sociale», dove l'economia stessa «vien risoluta nel flusso di un processo, per apparire poi in tanti stadi morfologici, in ciascun dei quali fa da relativa sostruzione del resto, che le è corrispettivo e congruo».


9 Utopia, I. II (Thomae Mori angli Opera. Lovanii, 1566, f. 18).

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III

Due punti mi pare che meritino ancora qualche dilucidazione. Quale relazione intercede tra materialismo storico e socialismo? Il Labriola, se non erro, inclina a connettere strettamente, e quasi a identificare, le due cose: tutto il socialismo è, a suo parere, nell'interpretazione materialistica della storia, eh' è la verità stessa del socialismo ; e chi accetta l'una e rifiuta l'altro, non ha inteso né l'una né l'altro. Io credo queste affermazioni alquanto esagerate, o almeno, bisognose di schiarimento.


Spogliato il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita. Solamente nelle sue determinazioni storiche particolari, nella osservazione che per mezzo dì esso sarà possibile fare, si potrà eventualmente trovare un legame tra materialismo storico e socialismo. L'osservazione sarà, p. es., la seguente: — la società è ora così conformata che la più adatta soluzione, che contiene in sé, è il socialismo. — Osservazione la quale, per altro, non potrà diventare azione e fatto senza una serie di complementi, che sono motivi di interesse economico non meno che etici e sentimentali, giudizi morali ed entusiasmi di fede. Per sé stessa, è fredda e impotente, e non basterà, p. es., a muovere l'indifferente, lo scettico, il pessimista, ma servirà a mettere sull'avviso e a impegnare in una lotta lunga, se pur vana nel risultamento finale, tutte le classi sociali che in quel processo storico scorgono la loro rovina; tranne i proletari, che desiderano appunto la fine della loro classe. A darle avviamento positivo, a trasformarla in imperativo ideale per chi non senta la spinta cieca dell'interesse di classe o non si lasci avvolgere turbinosamente dalle correnti del suo tempo, occorre dunque che vi si aggiungano la persuasione morale e la forza del sentimento.

E questa è l'ultima questione che mi pare da mettere in chiaro, quantunque anche per essa la divergenza tra me e il Labriola non sembra possa essere di sostanza, A quali conclusioni conduce il materialismo storico rispetto ai valori ideali dell'uomo, rispetto cioè alla verità scientifica e a ciò che si chiama verità morale?

Senza dubbio, la storia della genesi della verità scientifica viene anch'essa rischiarata dal materialismo storico, che tende a mostrare l'efficacia delle condizioni di fatto sulle scoperte e sullo svolgimento stesso della mente umana. La storia così delle opinioni come della scienza è in parte da rifare sotto questo aspetto, e se ne cominciano a vedere saggi notevoli. Ma coloro che per tale considerazione di genesi storica tornano trionfalmente al vecchio relativismo e scetticismo, confondono due ordini di questioni affatto diversi. La geometria è nata, di certo, in date condizioni, che importa determinare ; ma non per questo le verità geometriche sono qualcosa di relativo e contingente. L'avvertenza parrebbe superflua; ma anche qui gli equivoci sono frequenti e curiosissimi. Non ho letto finanche, in qualche scrittore socialista, che le stesse «scoperte» del Marx sono un semplice «momento» storico, che deve essere necessariamente «negato»? Il che, se non ha il significato abbastanza ovvio di un riconoscimento della incompiutezza e provvisorietù e transitorietà di ogni opera umana, o non si riduce alla non meno ovvia osservazione che il pensiero del Marx è figlio dei suoi tempi, io non so quale significato possa avere.

Anche più pericolosa è codesta unilateralità storica rispetto alle verità morali. La scienza della morale sembra che sia ora in un periodo di rivolgimento: l'etica imperativa, che ha le sue opere classiche nella Critica della ragion pratica del Kant e nella Filosofia pratica dello Herbart, non soddisfa a pieno, e accanto ad essa sorgono una scienza storica ed una scienza formale della morale, che considerano la morale come un fatto, e ne studiano l'universale natura fuori di ogni preoccupazione di catechismo e di precetti. Questo movimento si manifesta non solo nella cerchia socialistica, ma anche altrove, e mi basti ricordare gli acuti lavori del Simmel.


Il Labriola ha perciò ragione nel rivendicare nuovi modi di considerazione della morale. «L'etica (egli dice) si riduce per noi allo studio storico delle condizioni soggettive ed oggettive del come la morale si sviluppi, o trovi impedimento a svilupparsi». Ma cautamente soggiunge: «In ciò solo, ossia entro questi termini, ha valore l'enunciato che la morale è corrispettiva alle situazioni sociali, ossia, in ultima analisi, alle condizioni economiche». La questione del pregio intrinseco e assoluto dell'ideale morale, della sua riducibilità o irriducibilità alla verità intellettuale o al bisogno utilitario, rimane intatta.

E forse sarebbe stato opportuno che il Labriola avesse battuto un po' più su questo punto. Nella letteratura socialistica si nota una forte corrente di relativismo morale, non già storico ma sostanziale, di quello che considera la morale come una vana imaginatio. Questa corrente è stata principalmente determinata dalla necessità in cui il Marx e l'Engels si trovarono, di fronte alle varie categorie di utopisti, di affermare, che la cosiddetta questione sociale non è una questione morale (ossia, secondo ch'è da interpretare, non si risolve con predicozzi e coi cosiddetti mezzi morali), e dalla loro critica acerba delle ideologie ed ipocrisie di classe 10. E stata poi aiutata, per quel che a me sembra, dalla origine hegeliana del pensiero del Marx e dell'Engels, essendo noto che nella filosofia hegeliana l'etica perde la rigidezza datale dal Kant e serbatale dallo Herbart. E, finalmente, non è forse in ciò senza efficacia la denominazione di «materialismo», che fa ripensare subito e all'interesse ben inteso  al calcolo dei piaceri. Ma è evidente che l'idealità o l'assolutezza della morale, nel senso filosofico di tali parole, sono presupposto necessario del socialismo. L'interesse, che ci muove a costruire un concetto del sopra valore, non ò forse un interesse morale, o sociale che si voglia dire? In pura economia, si può parlare di sopra valore? Non vende il proletario la sua forza di lavoro proprio per quel che vale, data la sua situazione nella presente società? E, senza quel presupposto morale, come si spiegherebbe, nonché l'azione politica del Marx, il tono di violenta indignazione e di satira amara, che si avverte in ogni pagina del Capitale? — Ma basti di ciò, perché mi avvedo di dir cose assai elementari, e che solo per equivoci o per esagerazioni verbali si possono sconoscere o sembra che vengano disconosciute.

E, nel concludere, torno al lamento, che ho già fatto contro questa denominazione di «materialismo», che non ha ragion d'essere nel caso presente, e fa nascere tanti malintesi e serve al gioco degli avversari. Per quel che riguarda la storia, io mi fermerei volentieri alla denominazione di «concezione realistica della storia», che segna le opposizioni a tutte le teologie e metafisiche nel campo della storia, ed è tale da accogliere in sé così il contributo che alla coscienza storica ha recato il socialismo, come quelli che le si potranno recare, in futuro, da ogni altra parte. perché l'amico Labriola non deve dare, nel fondo del suo pensiero, troppa importanza agli aggettivi «ultimo» e « definitivo», che gli sono sfuggiti dalla penna. Non mi ha raccontato egli stesso una volta, che l'Engels aspettava ancora altre scoperte che ci aiutino a intendere questo mistero che noi stessi facciamo, e che è la Storia?

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10 È notevole, sotto questo riguardo, l'antipatia che traspare nella letteratura socialistica contro lo Schiller, il poeta della morale kantiana esteticamente temperata, divenuto poeta del cuore dei borghesi tedeschi.


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Maggio 1896.