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Edizioni italiane delle Opere di Benedetto Croce


Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902)      

Filosofia dello spirito I Adelphi 1990 (a cura di Giuseppe Galasso)

Croce espone (con una scrittura italiana magistrale) la sua interpretazione della sfera estetica come Intuizione Pura, e poi racconta la storia dell'estetica dalle origini sino alla fine dell'800. L'edizione Adelphi segue quella Laterziana del 1908, che contiene alcune varianti rilevanti rispetto al testo del 1902. Il volume comprende un'Appendice bibliografica di Croce e una Nota del Curatore (Giuseppe Galasso).

Alberto Palazzi

Una presentazione informale

Per entrare nell'atmosfera dell'Estetica, leggiamo un brano dal saggio di Croce sulla grande silloge di favole napoletana del primo Seicento, Lo Cunto de li Cunti di Giovan Battista Basile:

Egli vi fa vedere un fascio di legna, che montatovi a cavalcioni l'uomo fortunato a cui ogni desiderio diventa realtà, si mette in moto come un cavallo, trotta, caracolla, fa salti e corvette, seguito dallo schiamazzo dei monelli, mentre le donne si affacciano curiose alle finestre; o l'accolta di tutta la pezzenteria, che il re chiama a banchetto nel suo palagio, e che si assidono gravi e contenti alla mensa, "come altrettanti bei conti"; o, alla cottura del cuore del dragone marino e all'odore che esso tramanda, il prodigioso ingravidarsi della cuoca e di tutti gli arredi della stanza, che partoriscono i loro simili e piccini, la tavola un tavolino, la trabacca un lettuccio, le sedie le sedioline, e perfino il càntero un bel canterello verniciato, che era una delizia; o le operazioni di perforate trincee e gli stratagemmi che il topo e lo scarafaggio compiono per giungere fino al corpo del grosso signore tedesco, di cui vogliono impedire le nozze (...) Ma altresì il Basile vi fa sentire la schiva onestà delle sue fanciulle, perseguitate dalla cattiveria e rimunerate dalla buona fortuna: come di Viola che, messa a pericolo dalla zia mezzana e salvata dalla sua risolutezza, va difilata alla vecchia e le taglia gli orecchi per castigo; e di Penta, che si fa troncare le belle mani, a cagion delle quali il fratello si era acceso di mala passione per lei, e gliele manda in dono in un bacile; e di Sapia, che sfugge a tutte le insidie con cui le sorelle procurano di farla cadere dov'esse erano cadute. (...) Vi dà un brivido di terrore per la vecchia mendicante, a cui uno scherzo crudele manda in frantumi la pignatta di fagiuoli a stento accattati, e che muore di fame, e ricompare a un tratto, ombra infesta, al principe spensierato nel mezzo del festino di nozze. (...) Vi presenta quasi il miracolo della maternità, nel racconto della bella dormente nel bosco, resa madre nel sonno, e alla quale, sempre dormente, i due bambini, che mette al mondo, Sole e Luna, vengono attaccati al petto, ed essi, cercando il capezzolo, le suggono invece il dito e ne traggono la lisca fatale, che l'aveva fatta cadere in letargo, e la ridestano alla vita. Vi adombra il misterioso fascino della poesia in quel principe, che ha perso la memoria della donna amata e sente dalla bocca di lei, non riconosciuta e travestita, la canzone del "bianco viso", e, non sa esso stesso perché, ne è tutto penetrato di dolcezza e di una vaga bramosia aspettante, e non si stanca mai di farsi ripetere quel canto.
[Benedetto Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Laterza, Bari, 1929; Adelphi, Milano, 1993, pp. 556 - 559]

Questo brano non appartiene all'Estetica, ma tuttavia è una pagina critica esemplare dell'atteggiamento estetico di Croce: ci fa toccare con mano quel che c'è di vivo, il materiale fantastico, in una raccolta favole piena di esuberanza e di poesia nonostante il suo impianto formale barocco, il quale "è insopportabile quando è fatto sul serio, pesante e vacuo al tempo stesso", ma qui diventa "piacente e festoso" perché "è percorso da un lampo di malizia, avvivato da una fontanella di buon umore".

L'arte e la bellezza, ci dice Croce, sono il luogo del materiale reale dei nostri pensieri: non sono un sostituto imperfetto di ciò che il pensare logico porterebbe a compiutezza, ma sono il luogo dell'acquisizione alla conoscenza dell'uomo dei materiali, delle percezioni e delle immagini ai quali il pensare si aggiunge poi, per darne giudizi oggettivi. L'arte è quella cosa per cui nella nostra mente entra l'immagine di un fascio di legna che si trasforma in un cavallo, o l'immagine della vendetta dello spettro della vecchia mendicante offesa sull'uomo superbo: e si chiama "intuizione", perché l'intuizione è il contenuto della rappresentazione umana prima di ogni oggettivazione del pensiero, e "pura" perché l'intuizione è artistica proprio quando è originaria, ingenua, ancora priva di coerenza con il sistema delle mie cognizioni della realtà, coerenza che nasce poi, dal pensiero. Insiste Croce a dire e ripetere che l'intuizione pura è fantastica: essa può essere intuizione di fatti e di cose reali del mondo, il paesaggio che ho davanti, la persona in carne e ossa di cui dipingo i tratti, oppure di cose non reali, come il mio sogno, o il fascio di legna che si trasforma in cavallo, ma ciò per l'arte è irrilevante: essa, intuizione pura, è il luogo della formazione di contenuti della coscienza, quale che ne sia l'origine, e il giudizio sulla loro realtà, ossia l'iscrizione in un sistema coerente di relazioni tra le cose del mondo, appartiene a tutt'altro ordine di attività dell'animo, quello del pensiero logico.

E se questa è la definizione dell'arte, non occorre cercare lontano per capire cosa sia la bellezza: è tutt'uno con l'arte, è l'accadere del formarsi di intuizioni, è il riuscire del tentativo di rendere espresso ciò che prima è subito passivamente: può essere ciò il desiderio di riscatto da antiche ingiustizie che si esprime nell'immagine della vendetta fantastica dell'ombra "infesta" della vecchia mendicante, può essere la percezione dei lineamenti delle persone che ho attorno, i quali diventano espressi quando apprendo a mettere sulla carta i tratti che li qualificano e li rendono riconoscibili, può essere ogni altra attività del genere. Anche qui la bellezza è una transizione di stato, ed è un fenomeno psicologicamente reale: non quella della finalità senza scopo, ma quella che avviene dove la passività sensibile si trasforma in immagini che non sono più mere modificazioni subite dalla psiche individuale, ma sono espressioni, immagini a cui io do significato e a cui lo possono dare anche gli altri, quindi immagini che al tempo stesso sono espressioni e comunicazione, e che stanno alla base di tutta la cultura umana.

Se così è, ogni moralismo e ogni interpretazione strumentale e degradante dell'arte e della bellezza sono fuori di luogo, perché il momento artistico non è altro che la condizione di realtà di ogni cultura umana, importante e vitale come il nutrimento. Ma ne segue anche che l'arte in fondo non è nulla di speciale, nulla che abbia una qualità particolare, e che la capacità di creare ed esprimere intuizioni può differire solo in quantità tra un uomo e un altro. Lasciamolo dire a Croce:

Anche niente più che una differenza quantitativa possiamo ammettere nel determinare il significato della parola genio, o genio artistico, distinto dal non genio, dall'uomo comune. Si dice che i grandi artisti rivelino noi a noi stessi. Ma come ciò sarebbe possibile se non ci fosse identità di natura tra la nostra fantasia e la loro, e se la differenza non fosse di semplice quantità? Meglio che: poëta nascitur, andrebbe detto: homo nascitur poëta; poeti piccoli gli uni, poeti grandi gli altri. L'aver fatto di questa differenza quantitativa una differenza qualitativa ha dato origine al culto e alla superstizione del genio, dimenticandosi che la genialità non è qualcosa di disceso dal cielo, ma è l'umanità stessa. L'uomo di genio, che si atteggi o venga rappresentato come lontano da questa, trova la sua punizione nel diventare, o nell'apparire, alquanto ridicolo. Tale il genio del periodo romantico, tale il superuomo dei tempi nostri.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo II, Milano, Adelphi, 1990, p. 29]

E' grandioso, a suo modo, tutto questo, perché ci mette in pace con l'esperienza dell'arte, e ci conferma in quello che sentiamo confusamente come una asserzione giusta e doverosa: che l'arte non possa essere soltanto qualcosa di strumentale e di servile rispetto alla cultura umana in genere, e che quando la si interpreta in questo modo si dà prova di empia meschinità, per qualche ragione. Però dopo che Croce ci ha detto tutte queste cose, ci resta un motivo di insoddisfazione per la sua argomentazione dell'intuizione pura, come se ci fossimo lasciati persuadere dalla bella forma letteraria di un discorso in fondo generico, non rigoroso ma suggestivo. Questo del resto è stato l'atteggiamento della cultura italiana verso Croce, questo il motivo del declino della fortuna dei suoi libri. Eppure, a ben vedere il problema non è di Croce, ma siamo noi a non capire fino in fondo, perché la teorizzazione dell'intuizione pura si completa in un'osservazione estremamente spregiudicata sulla natura del linguaggio e dell'espressione, la quale da un lato ha il problema di essere a sua volta espressa con i mezzi di cui Croce disponeva cento anni fa, e dall'altro urta con un pregiudizio secolare riguardo al quale nemmeno la cultura del Novecento non ha saputo svolgere una critica completamente consapevole. Questo pregiudizio antico, che i linguisti del Novecento hanno continuato a perpetuare, e persino a sforzarsi di ridimostrare quando è saltato loro in mente il sospetto che lo avrebbero potuto abbandonare, è quello che ammette una natura eterogenea del linguaggio a doppia articolazione rispetto a tutti gli altri mezzi di espressione, e di conseguenza ammette che il linguaggio a doppia articolazione possegga una natura logica obiettiva in quanto mezzo espressivo.

Per spiegarci, qui è il caso di fare uso di qualche termine della linguistica recente, usando un po' di terminologia che al tempo dell'Estetica non esisteva: e la cosa si giustifica perché il ragionamento di Croce riguardo al linguaggio sembra quasi preveggente della linguistica a venire. Come è noto, è invalso l'uso di chiamare lingue a doppia articolazione le lingue che si apprendono dall'ambiente nell'infanzia e si usano per parlare e per scrivere, quelle lingue che enumeriamo come italiano, inglese, eccetera e che sappiamo appartenere a un unico insieme, perché hanno tutte la caratteristica di disporre i suoni o le lettere per formare parole, e poi le parole per formare frasi: due livelli di articolazione, appunto. Opportuna denominazione, che definisce le lingue storiche distinguendole dai mezzi di espressione figurata, musicale e di ogni altro genere partendo da un carattere obiettivo ed empirico, e che proprio per questo potrebbe condurre a concepire l'espressione come un genere a cui appartengono diverse tipologie di mezzi espressivi funzionalmente diversi l'uno dall'altro e sviluppati utilizzando diverse specie di proprietà naturali, senza che ciò autorizzi a distinguere nessuna tipologia dalle altre se non per le sue caratteristiche empiriche specifiche.

L'idea di Croce è che il rapporto simbolico, per cui vi sarebbero l'espressione appropriata da un lato e l'espressione figurata dall'altro, sia un pregiudizio antico che eleva a categoria una distinzione di carattere assai relativo. La ragione è che la forma dei rapporti logici - cioè l'insieme delle strutture logiche e matematiche con le quali il pensiero si rende capace di emettere giudizi sulle cose - in se stessa non è passibile di nessun genere di espressione, perché risiede unicamente nella soggettività umana. La rappresentazione reale delle cose è fatta tutta di qualità percettive, di colori, di odori, di percezioni tattili e di quant'altro del genere, nonché di quelle qualità percettive d'altro genere che sono gli stati d'animo e le emozioni. Ma le strutture logiche che mettono in relazione le qualità percettive nei giudizi in cui conosciamo il mondo, in se stesse non sono oggetto di nessuna percezione e di nessuna rappresentazione reale. Nella mente umana non vi è spazio senza oggetti che lo popolano. Non vi è tempo senza eventi e senza mutamenti di stato di cose reali che lo scandiscono. Non vi sono relazioni di logica formale senza esempi che le applichino, e non vi è modo di apprendere alcuna legge logica se non applicando qualche schema operativo con cui si esegue l'operazione che le corrisponde. Si potrebbe obiettare: un'espressione che esprime un qualsiasi semplicissimo teorema elementare del calcolo delle proposizioni, ad esempio a & b = ~(~a v ~b) , o qualsiasi più complessa espressione algebrica, è l'espressione formalmente pura di una struttura logica. Non è vero: l'espressione a & b = ~(~a v ~b) che abbiamo davanti agli occhi è un oggetto fisico, un aggregato di inchiostro su un foglio di carta, il quale ha un significato che esula completamente da questa sua natura fisica solo se tu che lo guardi sei in grado di eseguire l'atto mentale che capisce la regola formale di relazione tra qualsiasi oggetto che esso esprime, cioè non di guardarlo, ma di leggerlo e capirlo. Ugualmente, non vi sono espressioni di punti geometrici, ma vi sono discorsi che esprimono il fatto che davanti a un problema di geometria non devi guardare la raffigurazione '.' come essa ti appare percettivamente, ma guardandola devi capire che non bisogna assegnare alcuna dimensione al '.', e considerarlo solo per la sua posizione relativa ad altri elementi geometrici.

L'essenziale di questo discorso è questo: che non appena riflettiamo su esempi anche semplicissimi come questi, ci accorgiamo che è concettualmente inconcepibile che alcunché di formale nel pensiero umano abbia rappresentazione ed espressione in se stesso. Il formale, sia esso logico o matematico, è la struttura della relazione tra elementi reali nella percezione, non è esso stesso oggetto della percezione, ed è il soggetto umano in se stesso che è fatto di strutture logiche, le quali sono solo nei suoi pensieri: la loro espressione non è mai appropriata, ma sempre e soltanto esemplare. Solo che questa elementare considerazione sfugge, perché si ritiene che il linguaggio a doppia articolazione sia capace di rappresentare alcunché di strutturale, o le cosiddette "astrazioni", o i concetti nella loro universalità, o le forme del pensiero logico. Ma torniamo a uno degli esempi accennati sopra a proposito dell'interpretazione simbolica della bellezza: la donna togata dallo sguardo austero e assorto (o preteso tale) che tiene in mano la bilancia e dovrebbe rappresentare la giustizia secondo gli artisti che un tempo vincevano i concorsi per l'abbellimento degli uffici pubblici. Sappiamo benissimo perché questo a suo modo sia vero: vi è un complesso di nozioni che sono sedimentate nel contesto culturale in cui viviamo, sicché l'immagine della bilancia che è in equilibrio e che non pende da nessuno dei due lati suscita nella mente l'idea di ciò che uno si aspetta dal tribunale che amministra la giustizia, e cioè di uscirne senza bisogno di entrare in guerra con colui con il quale è in lite, perché il giudice, si spera, avrà provveduto a spartire le cose in maniera accettabile per le parti. Questo è un livello di interpretazione del simbolo accessibile anche alle persone di cultura più modesta; meno immediato è capire perché mai la giustizia sia una donna rappresentata con forte attenuazione dei caratteri sessuali, ma anche qui il simbolo non contiene nulla di misterioso se solo pensiamo che la giustizia dei tribunali vuol far pensare che essa è benefica e assolutamente obbligatoria al tempo stesso, e allora, guarda un po', raffigura se stessa in modo da far venire in mente l'esempio per eccellenza dell'autorità benefica ma indiscutibile: quella della figura materna.

Il simbolo è tale perché sollecita la memoria, richiama esperienze e nozioni apprese dal contesto culturale in cui si è svolta la nostra vita, sollecita reazioni tipiche della psicologia umana a determinati segnali (reazioni talvolta dipendenti dalla natura del mammifero evoluto umano in genere e talaltra da determinate culture, questo non ha importanza), e in questo modo talvolta causa l'attuazione di un'operazione di sintesi concettuale, in un preciso momento dell'esistenza di un uomo vivo. Talaltra fallisce nell'intento, e allora non è un simbolo, ma un oggetto materiale privo di significato. Questo è il destino anche della nostra raffigurazione muliebre scultorea della giustizia, la quale è sempre sicuramente una massa di pietra, e può anche, sotto certe condizioni di cultura, essere compresa come simbolo. Se non che, si dirà, la giustizia è un concetto universale e "un'astrazione": non si rinuncia facilmente all'idea che quando se ne parla nei termini di un trattato di filosofia morale o di giurisprudenza si abbia a che fare con la rappresentazione di questo carattere formale del concetto, e che la cosa vada diversamente che con la statua di pietra che si vede nell'aula del tribunale. Ma che così accada, è inconcepibile. Sento dire la parola "giustizia", la vedo scritta: "giustizia": non accade nient'altro se non che percepisco un fatto fisico il quale agisce sulla mia memoria e mi costringe a orientare la mia attività mentale su certi contenuti che avevo assimilato via via nel tempo. Mi chiedo cosa sia la giustizia e consulto libri di filosofi e di giuristi: e questi mi fanno vedere situazioni umane, problemi e conflitti e soluzioni di cui non avevo alcuna conoscenza, mi indirizzano a fare attenzione a taluni aspetti e a trascurarne altri, correggono le credenze ingenue che avevo in mente all'inizio, mi insegnano che quello che avevo preso per regola universale era l'indebita generalizzazione della mia povera esperienza, e alla fine di tutto forse mi fanno approdare al possesso di una forte convinzione di avere la soluzione del problema che mi ponevo, o forse invece mi conducono a una socratica modestia e alla sensazione di saperne meno che all'inizio. In tutto questo mi passa per la mente una quantità immensa di parole e di frasi che mi obbligano a ragionare logicamente sui dati del problema, a raggruppare, classificare, includere, escludere, rilevare le contraddizioni e pretendere la coerenza, ma non una di queste espressioni è in se stessa la struttura del mio ragionare: le espressioni sono sollecitazioni della mia memoria, sono segnali che mi obbligano a reagire formando sintesi concettuali, ma queste sintesi continuano ad essere soltanto in me che reagisco a quanto viene espresso, perché non c'è modo di concepire come esse potrebbero mai trasferirsi da me all'oggetto fisico che le esprime, il quale è sempre una cosa reale nella percezione, e mai una struttura logica.

Detto questo, dobbiamo fare una scelta di campo: o ci immaginiamo che la forma logica del pensiero sia suscettibile di espressioni adeguate, cioè ci immaginiamo qualcosa a dir poco di miracoloso, se non uno di quegli impossibilia che l'Aquinate negava a Dio stesso (come cancellare la realtà di un fatto avvenuto), oppure molte distinzioni tradizionali che definiscono la teoria del linguaggio e dell'espressione si rivelano come distinzioni di valore relativo, che si possono accogliere strumentalmente per certi scopi, ma non si possono accogliere quando si vuole avere una concezione completa e coerente dell'espressione in genere.

La prima distinzione che si mostra meramente relativa è quella tra espressioni metaforiche e non metaforiche, o tra metafora e parola propria: se tutta l'espressione e tutto il linguaggio è fatto di eventi percettivi che determinano psicologicamente reazioni del soggetto umano, e se il carattere logico è tutto nell'atto che il soggetto umano può compiere quando vi è sollecitato, ma non può essere nell'espressione in se stessa, allora ne segue che la distinzione tra metafora e parola propria non può essere assoluta, e che ogni discorso e al tempo stesso metaforico e appropriato. Con le parole di Croce:

E realistico e simbolico, oggettivo e soggettivo, classico e romantico, semplice e ornato, proprio e metaforico (...) quando cercano di svolgersi in definizioni precise (...) o annaspano nel vuoto o cadono nell'assurdo. Esempio tipico, la comunissima definizione della metafora, come di un'altra parola messa in luogo della parola propria. E perché darsi quest'incomodo, perché sostituire alla parola propria la impropria e prendere la via più lunga e peggiore, quando è nota la più corta e migliore? Forse perché, come si suol dire volgarmente, la parola propria, in certi casi, non è tanto espressiva quanto la pretesa parola impropria o metafora? Ma, se cosi è, la metafora è appunto, in quel caso, la parola "propria"; e quella che si suol chiamare "propria", se fosse adoperata in quel caso, sarebbe poco espressiva e perciò improprissima.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo IX, Milano, Adelphi, 1990, p. 88]

Nello stesso capitolo si trova illustrata in particolare la relativa legittimità di questa usuale distinzione, ma insistendo sul carattere pratico e in ogni caso convenzionale di ciò che è preso per espressione propria rispetto alle sue varianti metaforiche:

Posto che un concetto nell'uso scientifico di uno scrittore sia designato con un determinato vocabolo, è naturale che altri vocaboli che quello scrittore trova adoperati, o incidentalmente adopera egli stesso per significare il medesimo concetto, diventino, rispetto al vocabolo da lui fissato come esatto, metafora, sineddoche, sinonimo, forma ellittica e simili. (...) Per la scienza, vi sono parole proprie e metafore: uno stesso concetto si può formare psicologicamente tra varie circostanze e perciò esprimere con varia intuizione; e nel costituirsi della terminologia scientifica di uno scrittore, fissato uno di questi modi come il retto, gli altri appaiono tutti impropri o tropici.
[ib., p. 92]

La logicità dell'espressione, da cui la metafora è relativamente distinguibile, si riduce all'uso terminologico, la cui origine è nelle circostanze psicologiche occasionali: dunque proviene da ciò che proprio per definizione non è logico in se stesso. Se si fosse occupato della linguistica successiva, possiamo immaginare che Croce avrebbe criticato con la stessa radicalità le distinzioni fondamentali a cui essa ci ha abituati, ammettendole solo come relative, perché esse tutte si basano sull'idea che esista l'espressione appropriata del concettuale e del formale. Se ci concentriamo sull'idea che ciò che ha carattere di struttura logica e matematica non può apparire in esemplare in alcuna percezione, ma può essere soltanto la struttura dell'operazione della nostra oggettivazione logica, che è viva ed è reale se è vivo l'uomo che la compie, non se esiste il foglio di carta su cui è rappresentato l'apparato simbolico che la esprime, allora non possiamo non renderci conto del carattere estremamente relativo della distinzione principe della linguistica moderna, quella tra i piani della sintassi, della semantica e della pragmatica. La linguistica del Novecento, come si sa, distingue la dimensione della sintassi come dimensione delle relazioni formali tra entità linguistiche che poi si concretizzano nelle diverse grammatiche, della semantica come dimensione del significato inteso come associazione delle entità linguistiche alle cose, e della pragmatica come dimensione dell'espressività che si aggiunge a quella delle entità linguistiche allorché la lingua è utilizzata concretamente: inflessione, gestualità che accompagnano il parlare, connotazioni che il parlare assume nei diversi contesti, e tutte le cose del genere, tutte quelle che non si prestano a essere catalogate dai vocabolari.

Croce avrebbe detto: tutto questo sul piano reale si riduce alla cosiddetta pragmatica, perché tutto ciò che appartiene al linguaggio (nel senso ristretto di linguaggio a doppia articolazione) è linguaggio ed è espressione in quanto determina reazioni psicologicamente reali del soggetto umano. Supponiamo che io dica a chi mi ha chiesto un parere: "se vuoi ottenere x, prima devi fare y..."; uso cioè un costrutto sintattico che esprime una relazione logica di implicazione, e non ti ho detto che x o y siamo realtà, ma soltanto che x richiede la condizione necessaria y. Ma se tu capisci questo mio messaggio, vuol dire che la sintassi della lingua ha generato un evento dentro di te, nel quale ti rendi capace di comprendere una relazione logica di implicazione tra questi elementi y e x: e quindi in questo senso la sintassi e la semantica sono la stessa cosa. Nello stesso senso, sono la stessa cosa anche la semantica e la pragmatica: se io dico "una causa civile mediamente dura molti anni", esprimo un giudizio obiettivo, e il senso delle parole che utilizzo è questione di semantica. Ma se dico la stessa frase a una persona che ha con me un contrasto di interessi, il contesto è tale la frase assume un significato minaccioso che si aggiunge a quello obiettivo, e questo significato appartiene alla dimensione pragmatica. Tuttavia, in entrambi i casi il significato delle parole è dato dagli eventi psichici reali che generano: per sapere cosa sia una causa civile, occorrono dei presupposti di contenuto della memoria, e la capacità di evocarli e utilizzarli, sicché la distinzione tra la semantica (intesa come associazione obiettiva di parole e cose) e pragmatica non corrisponde a nulla di essenzialmente eterogeneo. In ogni caso, comunicare è mandare segnali e verificare che quelli che si ricevono indietro sono parte di un insieme di risposte ammissibili: e in ogni caso il segnale resta un fenomeno fisico che in se stesso è privo di relazione con la struttura logica di quello che è pensato ed espresso.

Anche la questione connessa con la distinzione tra segno e icona viene, per così dire, sdrammatizzata dalla constatazione della natura pragmatica di ogni espressione. La differenza tra queste due dimensioni è quotidiana: corrisponde semplicemente alla differenza che c'è tra scrivere e disegnare. Il segno è associato in maniera completamente arbitraria a ciò che denota, mentre l'icona contiene la riproduzione di qualcosa che appartiene all'oggetto, sebbene in generale tale riproduzione non basti alla comprensione di qualsiasi icona, per la quale è necessaria comunque la conoscenza di un codice comunicativo. Adottando questa terminologia, la scritta "BAR" su di un'insegna si usa chiamare segno, mentre lo stesso messaggio ottenuto mediante la riproduzione del contorno di una tazzina o di un chicco di caffé si usa chiamare icona. Per migliorare un poco la precisione di termini, possiamo dire che l'icona è comprensibile anche come relazione di carattere matematico con la cosa di cui "riproduce" l'intuizione, e che la percezione è in grado di calcolare immediatamente e spontaneamente questa relazione; il segno invece è il termine di un rapporto tra cose completamente eterogenee, sicché la sua relazione con ciò che denota ha il tipico carattere dei rapporti causali. Questa distinzione tipica è utilissima per descrivere le fattispecie empiriche dell'espressione e per prendere atto delle loro peculiarità espressive; ma oltre a questo non è rilevante, perché comunque si esclude che la rappresentazione a mezzo di segni possa essere il veicolo di una comunicazione puramente logica. L'arbitrarietà del rapporto del segno con il denotato non può implicare nessuna differenza qualitativa rispetto alla espressione a mezzo di icone, e comunque l'espressione del pensiero logico può avvenire solo generando rappresentazione intuitive le quali causano un evento di sintesi logica nel soggetto umano che si esprime, in colui che parla come in colui che legge o ascolta.

Adesso rivediamo l'estetica dell'intuizione pura con la chiave di lettura di questa precisazione sulla natura generale dell'espressione. Se Croce ci avesse detto soltanto che vi sono da una parte l'intuizione come materiale dei pensieri, e dall'altra il pensiero concettuale, allora la sua estetica non sarebbe molto diversa dallo schema concettuale tipico della riduzione simbolica, e alla fine sarebbe ritornata a istituire la solita gerarchia di valore che mette l'intuizione al di sotto del pensiero, e quindi sarebbe tornata anche alla dialettica dello scrupolo moralistico rispetto all'arte, che oscilla tra l'idea di tollerare utilitaristicamente oppure di negare assolutamente ogni dignità dell'intuizione. Ma lo schema tradizionale della riduzione simbolica richiede come propria condizione assolutamente necessaria che si accetti l'altra idea, per cui vi sarebbero forme espressive intuitive e forme espressive logiche in se stesse: le forme espressive che l'uso scolastico chiamava discorsive, con termine che mostra eloquentemente come si ritenesse che tale capacità espressiva risiedesse nella lingua a doppia articolazione. Qua Croce obietta: non è possibile che esista l'espressione discorsiva, o puramente logica in se stessa, perché l'espressione è tutta fatta di fatti fisici (segnali) che generano reazioni psicologicamente reali, ovvero emotive, nel soggetto umano, e un'espressione che non abbia questo carattere è inimmaginabile. Perciò i fatti e i prodotti della cultura umana sono tutti egualmente espressivi, e la dimensione intuitiva ed espressiva è condizione di ogni pensiero, e la bellezza non è altro che la effettiva capacità espressiva di un qualsiasi produzione della cultura umana, anche del genere apparentemente più astratto e più distante da ciò che tradizionalmente è considerato luogo di arte e di bellezza. Il criterio della bellezza è la riuscita espressiva, sicché quando siamo di fronte a espressioni di carattere astratto che vogliono dimostrarci qualcosa, la loro bellezza non è altro che la riuscita del loro intento:

...il concetto è senza dubbio pensato solo quando si concreta in una forma espressiva e si fa per questo rispetto rappresentazione, talché un'affermazione può essere riguardata così sotto l'aspetto logico come sotto quello estetico; e sarà ben pensata e perciò ottimamente espressa, perfettamente estetica perché perfettamente logica...
[Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1905, Capitolo IV; Laterza, Bari, 1967, p. 91 ]


Dunque l'espressione è comune, l'ambito intuitivo e quello logico riposano sulla stessa capacità di espressione e hanno la stessa bellezza quando riescono, ovvero esprimono ciò che vogliono esprimere, e sembrerebbe che l'ambito artistico rispetto a quello logico, ovvero l'ambito artistico rispetto a quello scientifico, si possa distinguere soltanto in maniera convenzionale: "arte" è ciò che è ritenuto usualmente tale, attraverso criteri che variano secondo tempi e luoghi, proprio perché l'espressione e il suo riuscire come bellezza sono in ogni attività umana, anche quella più modesta, e che si sarebbe riluttanti a considerare arte. Le minuscole attività pratiche che comunque richiedono pensieri e valutazioni ci offrono esempi eloquenti dell'onnipresenza della bellezza, se la intendiamo nella sua natura di espressione e di comunicazione che riesce nel suo intento:

Una busta gialla, grossolana, bruttissima per chi debba chiudervi una letterina d'amore, è poi sommamente adatta a contenere una citazione in carta bollata per mano di usciere; la quale starebbe molto male (o per lo meno parrebbe un'ironia) in una busta quadrata di carta inglese.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo XIV, Milano, Adelphi, 1990, p. 139]

Proprio questo genere di esempio e la relativa considerazione dovrebbero assicurarci che, così come la bellezza è in ogni espressione, l'arte è tale solo per convenzione: attività che si colloca oltre un certo grado di importanza o di complessità, secondo un parametro scelto in modo che non ci faccia cadere nel paradosso di considerare artisti allo stesso titolo un Dante e uno che confeziona bene un plico postale (sebbene essi siano poeti allo stesso modo: homo nascitur poëta), ma comunque arbitrario.

Ma ciò non considererebbe tutti gli elementi della questione. Siamo arrivati a questo punto del discorso traendo le conseguenze della constatazione della natura necessariamente intuitiva e figurativa di qualsiasi genere di espressione: constatazione che non è banale, e richiede di essere fatta e resa esplicita, perché le si oppone il pregiudizio tradizionale e antichissimo di segno opposto, per cui esisterebbero tipologie di espressione di qualità logica in se stesse, le quali tipicamente sono considerate esistente nella lingua capace di terminologie astratte e specializzate, e nei linguaggi artificiali del genere dell'algebra. Questo pregiudizio è inconcepibile, perché trasporta la capacità di sintesi logica dal soggetto umano a cose inanimate, e non di meno ha avuto tutta una sua ragion d'essere, perché esso (per dirlo brevemente) da una parte è una rappresentazione a sua volta simbolica della serietà del pensiero e della dignità dell'uomo, e dall'altra la sua critica non si impone da sé come un'ovvietà, ma anzi richiede una riflessione resa possibile dallo sviluppo di una capacità critica particolare e di una consapevolezza delle qualità dei diversi tipi di espressione.

Oltre a ciò, vi è un senso ristretto dell'arte e della bellezza, che specializza la concezione dell'espressione in genere senza per questo contraddirla. E' il punto di partenza di Croce: ciò che si è sempre inteso come arte ha un segno qualitativo che non è relativo ai contesti storici, il quale ci viene suggerito da tutte le sue manifestazioni storiche, e che ci mostra il suo carattere distintivo, unico ed essenziale: l'arte è il luogo delle attività espressive umane dove il contenuto dell'intuizione viene espresso in maniera tale che il giudizio sulla realtà di ciò che è rappresentato è irrilevante. L'arte è fantasia, non nel senso che esprima necessariamente cose che non ci sono, o che esistono soltanto come immagini mentali dell'uomo, ma nel senso che esprime qualsiasi contenuto senza distinguere se esso si iscriva con coerenza nella nostra concezione complessiva delle cose, o se invece sia inventato gratuitamente. Quello che Croce dice esattamente, è questo: che la capacità umana di generare espressioni senza mettere in atto alcuna verifica della realtà di ciò che è espresso, esiste. Esiste, e da sempre ha un nome: fantasia. E non è una attività subordinata, ma è l'inizio ed è la condizione di realtà della cultura umana, che immaginando e fantasticando genera tutti i propri contenuti e tutti gli oggetti del proprio pensiero.

Allora, potremmo dire che la bellezza e l'intuizione sono imprescindibili in ogni espressione, e anche in quella che pone ogni scrupolo nel verificare la realtà del proprio oggetto e che si chiama scienza; mentre ciò che si dice arte è ciò che risulta dall'attività espressiva fantastica che non ha alcun interesse per la realtà del proprio oggetto di espressione, e che avviene senza nessuna coscienza della dimensione della verifica della realtà. Attività che l'uomo di fatto fa e non può non fare, e che appartiene alla sua esistenza non meno del pensare per giudicare della realtà o irrealtà delle cose. In questo senso, in quanto è libera dalla relazione con l'asserzione della realtà, l'intuizione artistica è pura, cioè sufficiente e fine a se stessa. Ripensiamo soltanto alle immagini di Giovan Battista Basile, "alla cottura del cuore del dragone marino e all'odore che esso tramanda, il prodigioso ingravidarsi della cuoca e di tutti gli arredi della stanza, che partoriscono i loro simili e piccini, la tavola un tavolino, la trabacca un lettuccio, le sedie le sedioline...", per avere vivo il senso di quanto l'arte, e quindi la sfera estetica, quando è capita nella sua natura di intuizione pura, allora è pensata in una prospettiva che le rende piena giustizia e non soffre più nulla delle limitazioni implicite in tutte le riduzioni tradizionali.

Questa è l'estetica dell'intuizione pura, che contiene due tematiche intrecciate e correlate, ma non identiche e non riducibili l'una all'altra: quella che mostra il carattere estetico di qualsiasi espressione e quella che rende giustizia alla fantasia come luogo effettivo della formazione dei contenuti della cultura umana.

Logica come scienza del concetto puro (1906)      

Filosofia dello spirito II Laterza 1967

Questa Logica non tratta né della logica aristotelica, né di quella di Frege e Russel, se non per avvertirci a non fraintendere la natura di queste cose. Tratta invece dell'arte di riconoscere sempre l'uomo nell'opera dell'uomo: e lo fa con un impianto concettuale e lessicale talmente singolare, da risultare libro di lettura faticosissima, nonostante la limpida chiarezza della prosa.

Una presentazione informale dallo stesso Croce

L'idea di fondo del libro è questa: si chiama "logica" in senso proprio la capacità dello spirito (umano) di giudicare delle proprie vicende. Ancora più al fondo, poi, c'è questo: si chiama "logica" l'atto del pensiero in cui ciascun uomo fa propria, e rivive come presente, la vicenda esistenziale di se stesso come pure di ogni altro uomo che sia vissuto in un qualche tempo e abbia lasciato traccia della propria esistenza spirituale. E di conseguenza non si chiamano "logica" le attività in cui la mente umana fa ragionamenti e calcoli utili a scopi estranei a quello di capire gli uomini.
Sicché questa Logica come scienza del concetto puro non tratta né della logica aristotelica, né di quella di Frege e Russel, se non per avvertirci a non fraintenderne la natura. Tratta invece dell'arte di riconoscere sempre l'uomo nell'opera dell'uomo: e lo fa con un impianto concettuale e lessicale talmente singolare, da risultare libro di lettura faticosissima, nonostante la limpida chiarezza della prosa.
Chi tenta di leggere, di capire e di criticare questo libro, deve costantemente ricordare questo: che per Croce prima di ogni altra cosa importa capire gli uomini. E che capire il prossimo non è un fatto sentimentale, ma anzi è l'essenza della vita dell'uomo pensante: gli altri si capiscono pensando come pensano loro, non con identificazioni sentimentali e proiezioni emotive di se stessi, ma con tutta la forza delle distinzioni logiche chiare e nette.
Non si può ridurre questo libro a una facile formula. Per farci un'idea della prospettiva di Croce su ciò che egli (forse bizzarramente) chiama "Logica", scegliamo di lasciar parlare lui stesso, e leggiamo alcune pagine da La storia come pensiero e come azione, in cui la idea del 1906 è arricchita da trent'anni di meditazione, ma non è cambiata:

IV - SIGNIFICATO STORICO DELLA NECESSITÀ

Il giudizio, nel pensare un fatto, lo pensa quale esso è, e non già come sarebbe se non fosse quello che è: lo pensa, come si diceva nella vecchia terminologia logica, secondo il principio d'identità e contradizione, e perciò logicamente necessario. Questo e non altro è il significato della necessità storica, contro cui si nutrono sospetti e perfino si tentano ribellioni, immaginando che voglia negare la libertà umana, laddove non nega se non l'inconcludenza logica. A conferma, si osservi che l'affermazione di quella necessità è posta, ed è di volta in volta ripetuta, contro l'introduzione in istoria del vietato "se": non già del "se", particella grammaticale, il cui uso è perfettamente lecito, e neppure di quel "se" che si adopera per desumere dal caso storico un avvertimento o ammonimento che l'oltrepassa, di carattere generale e astratto, come quando si dice che se, nel luglio del 1914, gli uomini di stato di Germania o degli altri popoli avessero dominato i loro nervi, la guerra non sarebbe scoppiata, il che serve talvolta a dare la coscienza della gravità di certi atti decisivi e a eccitare il senso della responsabilità; - ma, proprio, del "se" storico e logico, ossia antistorico e illogico. Questo "se" divide arbitrariamente l'unico corso storico in fatti necessari e fatti accidentali (lo divide proprio cosi, perché, ove concepisse tutti i fatti come accidentali, la compattezza storica rimarrebbe intatta, tanto valendo "tutti accidentali" quanto "tutti necessari"); e si argomenta di qualificare nei suoi racconti un fatto come necessario e un altro come accidentale, e allontana mentalmente questo secondo per determinare come il primo si sarebbe svolto conforme alla natura sua, se quello non l'avesse turbato. Giocherello che usiamo fare dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando intorno all'andamento che avrebbe preso la nostra vita se non avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrata, o non avessimo commesso uno sbaglio che abbiamo commesso; nel che con molta disinvoltura trattiamo noi stessi come l'elemento costante e necessario, e non pensiamo a cangiare mentalmente anche questo noi stessi, che è quel che è in questo momento, con le sue esperienze, i suoi rimpianti e le sue fantasticherie, appunto per avere incontrato allora quella data persona e commesso quello sbaglio: senonché, reintegrando la realtà del fatto, il giocherello s'interromperebbe senz'altro e svanirebbe. Contro la fallace credenza che sopr'esso sorge, fu foggiato il proverbio popolare che del senno di poi sono piene le fosse. Ma poiché il giocherello, in istoria, è del tutto fuori luogo, quando si affaccia colà, stanca presto e presto si smette. Ci voleva un filosofo, un assai astratto filosofo, per scrivere un libro intero (Renouvier, Uchronie) al fine di narrare "le développement de la civilisation européenne tel qui n'a pas été, tel qui aurait pu être", sul convincimento che la vittoria politica della religione cristiana nell'occidente fu un fatto contingente, e che sarebbe potuto non accadere, ove si fosse introdotta una piccola variazione, gravida di conseguenze, alla fine del regno di Marco Aurelio e nelle fortune di Commodo, Pertinace e Albino!

Dalla necessità storica, nel significato logico che si è determinato, e che è il pensiero che sente la gravità del còmpito suo e non vuole lasciarsene distrarre correndo dietro a trastulli, bisogna tenere ben lontani due altri significati dello stesso vocabolo, e che sono due concetti erronei. L'uno è che la storia sia necessaria perché i fatti precedenti nella serie determinano i susseguenti in una catena di cause ed effetti. Non si insisterà mai abbastanza su questa semplice e fondamentale verità, e pur difficile a cogliere da molti intelletti avvolti nelle ombre del naturalismo e del positivismo: che il concetto di causa (e anche qui, sebbene possa forse sembrare superfluo, avvertiamo che intendiamo del "concetto", e non del "vocabolo", il quale appartiene alla comune conversazione), che il concetto di causa è e deve rimanere estraneo alla storia, perché nato sul terreno delle scienze naturali e avente il suo ufficio nell'ambito loro. Né alcuno è riuscito mai, praticamente, a raccontare per adeguazione di cause ed effetti un qualsiasi tratto di storia, ma soltanto ha potuto aggiungere al racconto costruito con diverso metodo, ossia con quello che è spontaneo e proprio alla storia, l'impropria terminologia causalistica per far pompa di scientifismo. Ovvero altresì, e come conseguenza sentimentale di quel preconcetto deterministico, si è preso a raccontarla nel modo sfiduciato e pessimistico a cui l'uomo naturalmente si dispone quando la storia, invece di apparirgli come fatta da lui e da proseguire e innovare con l'azione sua propria, gli casca addosso simile a una valanga di sassi che rotolano da un alto monte e battono sul fondo e stanno sulla sua persona, schiacciandola.

L'altro concetto si presenta nella forma capziosa della sentenza: che nella storia c'è pure una logica; il che è indubitabile, perché, se la logica è nell'uomo, è anche nella storia, e, se il pensiero umano pensa questa, la pensa, come si è visto, logicamente. Ma la parola "logica", nella suddetta sentenza, significa cosa ben diversa dalla logicità, un disegno o programma secondo il quale la storia s'inizierebbe, svolgerebbe e terminerebbe, e che allo storico spetterebbe di ritrovare, sottostante ai fatti apparenti, nascosta matrice di questi fatti e ultima e vera loro interpretazione. Più volte i filosofi hanno ragionato un siffatto disegno svolgendolo dal concetto dell'Idea o da quello dello Spirito, o, altresì, della Materia; senonché Idea, Spirito e Materia travestivano in varie guise il Dio trascendente, che solo potrebbe idearlo e imporlo agli uomini e attendere a farlo eseguire. A questa, che è la forma nuda e schietta, giova, dunque, sempre ridurlo, e in questa principalmente considerarlo: forma che Tommaso Campanella diceva nei suoi sonetti, e senza nessuna intenzione satirica né burlesca, esser quella di un "comico fatallibro", di uno "scenario", quale egli lo vedeva usato ai suoi tempi dai direttori delle compagnie dei comici dell'arte per disegnare l'azione della commedia, assegnare le varie parti agli attori e far seguire la recita; e che l'abate Galiani paragonava alla pratica, consueta ai bari, che giocano con "dés pipés", con dadi segnati. Come che sia, nemmeno una storia di questa sorta è stata mai da alcuno effettualmente raccontata; e l'imbarazzo dei suoi proponitori e propugnatori si scopriva già nella loro metodologia, per l'aggiunta e contradittoria loro richiesta che l'indagine dovesse attingere un disegno che è di là dalle testimonianze e dai documenti, e però irraggiungibile per quella via; e, nel fatto, per l'uso di quelle testimonianze ora a simbolo ora a superfluo ornamento dell'asserzione che facevano delle loro credenze e tendenze e speranze e paure, politiche, religiose, filosofiche o altre che fossero e che battezzavano storia. Al pari della causalità, il Dio trascendente è straniero alla storia umana, che non sarebbe se quel Dio fosse: essa che è a sé stessa il Dioniso dei misteri e il "Christus patiens" del peccato e della redenzione.

Insieme con questa duplice falsa forma della necessità sparisce dalla storiografia l'altro concetto, che da quella deriva, della previsione storica; perché, se del programma divino era rivelato di solito l'atto ultimo (per esempio, la venuta dell'Anticristo, la fine del mondo e il Giudizio universale), tutto il resto, intermedio tra il presente e quello, stava pure scritto nel libro della Provvidenza, e qualche tratto ne poteva essere per grazia rivelato a qualche pio uomo; e, per un altro verso, nella concezione causalistica la catena delle cause ed effetti proseguiva, e si poteva, calcolando, determinarne i futuri anelli. Praticamente, per altro, si confessava l'impossibilità del prevedere, nel primo caso riverenti all'imperscrutabile volontà divina, nel secondo smarriti dinanzi all'enorme complessità delle cause in giuoco: cosicché il fedele naturalista faceva, come il naturalistico romanziere dei Rougon-Macquart, lo Zola, che, dopo aver costruito nel tronco e in tutti i rami e ramicelli l'albero di quella famiglia, sottomessa alla legge dell'eredità, nel posto preparato a un bambino che stava per nascere non sapeva segnare altro che l'ironica interrogazione senza risposta: "Quel sera-t-il?". Nondimeno, la piega del prevedere persiste come abitudine nell'aspettazione di molti lettori di storia, e come dovere di dignità da parte di molti scrittori, e si soddisfa in sfilate di immagini che non hanno alcuna sostanza, come si è detto, fuori dei personali timori e paure e delle personali speranze di chi le viene formando.

Alla necessità causalistica e a quella trascendente, che si celano l'una e l'altra sotto tante forme ingannevoli, dovrebbero i difensori della libertà umana saldamente opporsi, e non già partire in battaglia, come sovente fanno, contro la necessità logica della storiografia, che è, invece, premessa di questa libertà.

V - LA CONOSCENZA STORICA COME TUTTA LA CONOSCENZA.

Non basta dire che la storia è il giudizio storico, ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz'altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà. È giudizio storico anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta sensazione): per esempio, che l'oggetto che mi vedo innanzi al piede è un sasso, e che esso non volerà via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o col bastone; perché il sasso è veramente un processo in corso, che resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia.

Ma neppur qui ci si può arrestare, rinunziando a svolgere l'ulteriore conseguenza: che il giudizio storico non è già un ordine di conoscenze, ma è la conoscenza senz'altro, la forma che tutta riempie ed esaurisce il campo conoscitivo, non lasciando posto per altro.

In effetto, ogni concreto conoscere non può non essere, al pari del giudizio storico, legato alla vita, ossia all'azione, momento della sospensione o aspettazione di questa, rivolto a rimuovere, come si è detto, l'ostacolo che incontra quando non scorge chiara la situazione da cui essa dovrà prorompere nella sua determinatezza e particolarità. Un conoscere per il conoscere, non solo, diversamente da quel che taluni immaginano, non ha punto dell'aristocratico né del sublime, esemplato come è in effetto sul passatempo idiota degli idioti e dei momenti di idiozia che sono in ognuno di noi, ma realmente non accade mai in quanto intrinsecamente è impossibile, venendo gli meno con lo stimolo della pratica la materia stessa e il fine del conoscere. E quegli intellettuali che disegnano come via di salvazione il distacco dell'artista o del pensatore dal mondo che lo attornia, la sua deliberata impartecipazione ai volgari contrasti pratici, - volgari in quanto pratici, - non si avvedono di disegnare nient'altro che la morte dell'intelletto. In una vita paradisiaca, senza lavoro e senza travaglio, in cui non si urti in ostacoli da superare, neppur si pensa, perché è venuto meno ogni motivo di pensare, e neppure, propriamente si contempla, perché la contemplazione attiva e poetica chiude in sé un mondo di pratiche lotte e di affetti.

Né ci vogliono sforzi per dimostrare che anche quella che si chiama la scienza naturale, col suo complemento e strumento che è la matematica, si fonda sui bisogni pratici del vivere, ed è indirizzata a soddisfarli; perché questa persuasione fu già indotta negli animi dal suo grande banditore alla soglia dei nuovi tempi, Francesco Bacone. Ma in qual punto del suo processo la scienza naturale esercita quest'ufficio utile, facendosi vera e propria conoscenza? Non di certo quando compie astrazioni, costruisce classi, stabilisce rapporti tra le classi che chiama leggi, dà formola matematica a queste leggi, e simili. Tutti cotesti sono lavori di approccio, indirizzati a serbare le conoscenze acquistate o a procacciarne di nuove, ma non sono l'atto del conoscere. Si può possedere raccolta nei libri o pronta nella memoria tutta la materia medica, tutte le specie e sottospecie delle malattie con le loro caratteristiche; e con ciò, possedendosi "bien Galien, mais nullement le malade", come avrebbe detto il Montaigne, si conoscerà tanto poco quanto poco o nulla conosce di storia chi possiede una delle tante storie universali che sono state compilate, o ne ha ammobiliato la memoria, fino a quando non giunga il momento in cui, sotto lo stimolo degli eventi, quelle conoscenze disciolgono la loro immota rigidità e il pensiero pensa una situazione politica o altra che sia; e similmente l'esperto di medicina, fino a quando non venga al punto di aver davanti un malato e d'intuire e intendere il male di cui propriamente quel malato, e solo quello, soffre a quel modo e in quelle condizioni, e che non è più uno schema di malattia, ma la concreta e individua realtà di una malattia. Le scienze naturali muovono dai casi individuali, che la mente non ancora intende o non intende a pieno, ed eseguono la lunga e complicata serie dei loro lavori per riportare la mente cosi preparata innanzi a quei casi, e lasciarla in diretta comunicazione con essi sicché ne formi il giudizio proprio.

Alla teoria che ogni genuina conoscenza è conoscenza storica non fa dunque vero contrasto e opposizione la scienza naturale, la quale, al pari della storia, lavora nel mondo e nel basso mondo, ma la filosofia o, se si vuole, la tradizionale idea di una filosofia che abbia gli occhi rivolti al cielo e dal cielo attinga o aspetti la suprema verità. Questa divisione di cielo e terra, questa concezione dualistica di una realtà che trascende la realtà, di una metafisica sulla fisica, questa contemplazione del concetto senza o fuori del giudizio, le dà il carattere suo proprio, che è sempre il medesimo, comunque si denomini la realtà trascendente, Dio o Materia, Idea o Volontà, e sempre che si suppone che le resti sotto o di contro una realtà inferiore o una realtà meramente fenomenica.

Ma il pensiero storico ha giocato a questa rispettabile filosofia trascendente un cattivo tiro, come alla sua sorella la trascendente religione, di cui essa è la forma ragionata o teologica: il tiro di storicizzarla, interpretando tutti i suoi concetti e le sue dottrine e le sue dispute e le sue stesse sfiduciate rinunzie scettiche come fatti storici e storiche affermazioni, nascenti da certi bisogni da essa in parte soddisfatti e in parte lasciati insoddisfatti, e a questo modo le ha reso la giustizia che per il suo lungo dominare (il quale era insieme un servire l'umana società) le si doveva, e ha scritto il suo onesto necrologio.

Si può dire che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. Singolare vicenda della storia, che a lungo è stata considerata e trattata come la più umile forma del conoscere, e per contrasto la filosofia come la più alta, ed ora par che non solo superi questa, ma la discacci. Senonché la cosiddetta storia, che se ne stava relegata all'infimo posto, non era punto storia, ma cronaca o erudizione, e si atteneva all'esterno, lavorando su testimonianze; e l'altra, che ora è assurta, è il pensiero storico, unica e integrale forma del conoscere. Quando la vecchia filosofia metafisica volle porgere una mano soccorrevole alla storia per tirarla in su, non la stese ad essa ma alla cronaca e, non potendo elevarla a storia perché ciò le era precluso dal suo carattere metafisico, le sovrappose una "filosofia della storia", ossia quel modo di escogitazione o indovinamento, del quale si è di sopra discorso, circa il divino programma che la storia eseguirebbe come chi si adopri a copiare più o men bene un modello. La "filosofia della storia" fu effetto di un'impotenza mentale, o, per dirla con frase vichiana, di una "inopia della mente", al pari del mito.

Certo, tra le svariate forme letterarie della didascalica si vedono produzioni che si considerano filosofiche e non storiche, perché sembrano aggirarsi intorno ad astratti concetti, purgati di ogni elemento intuitivo. Ma se quelle trattazioni non si aggirano nel vuoto, se hanno pienezza e concretezza di giudizi, l'elemento intuitivo c'è in esse sempre, sebbene latente all'occhio del volgo, che crede di riconoscerlo solo dove gli si mostra come incrostazione di cronachismo o di erudizione. C'è, per il fatto stesso che i filosofemi, che vi si formulano, rispondono ad esigenze di portar luce su particolari condizioni storiche, la cui conoscenza li rischiara non meno di quello che ne sia rischiarata. Stavo per dire, cogliendo un esempio sul vivo, che anche le dilucidazioni metodologiche, che qui vengo dando, non sono veramente intelligibili se non col rendere mentalmente esplicito il riferimento (di solito da me fatto in modo soltanto implicito) alle condizioni politiche, morali ed intellettuali dei giorni nostri, delle quali concorrono a dare la descrizione e il giudizio.

Rimangono gli specialisti o professori di filosofia, il cui ufficio par che sia di far da contrappeso ai filologisti, ossia agli eruditi che si atteggiano a storici, collocando accanto ai bruti fatti, da questi allineati e spacciati per storie, un allineamento di astratte idee, e completando cosi un'ignoranza mercé di un'altra ignoranza; con che non si va molto innanzi. Sono essi i naturali conservatori della filosofia trascendente, a segno che anche quando professano a parole l'unità della filosofia e della storia, la smentiscono col fatto, o tutt'al più discendono di tanto in tanto dal loro sopramondo per pronunziare qualche vieta generalità o qualche falsità storica. Ma quanto più si affinerà il senso della storicità e si diffonderà il modo storico di pensare, gli storici filologisti saranno rinviati alla pura e semplice e utile filologia, e i filosofi di professione potranno essere, con ogni garbo, ringraziati e congedati, perché la filosofia ha trovato nell'alta storiografia quella condizione di vita operosa che in loro aveva cercato indarno. Filosofavano essi a freddo, senza sollecitazione di passioni ed interessi, "senza occasione"; laddove ogni seria storiografia e ogni seria filosofia dev'essere storiografia e filosofia "di occasione", come della genuina poesia diceva il Goethe, questa passionalmente e l'altra praticamente e moralmente motivata.

VI - LE CATEGORIE DELLA STORIA E LE FORME DELLO SPIRITO.

La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio, considerate anch'esse una trascendenza, giacché, si è detto, le categorie fanno tutt'uno col giudizio, e cangiano e si arricchiscono col sempre nuovo giudizio: infiniti giudizi, infinite categorie.

Senonché la distinzione delle categorie non ha niente da vedere con una loro supposta trascendenza di contro al giudizio, perché si compie dentro al giudizio stesso, per virtù del giudizio, come sua attuazione, non potendosi giudicare se non distinguendo, distinguendo a per la sua qualità da b per la sua qualità, cioè secondo categorie. Quale mai giudizio sarebbe quello che non qualificasse l'atto a come atto di verità, l'atto b come atto di bellezza, l'atto c come atto di accorgimento politico, l'atto d come di sacrificio morale, e via distinguendo, e si restringesse a porre intuitivamente diversi a, b, c, ecc., il che, se basta alla fantasia, non basta al pensiero? Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell'atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno questi concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti del1'atto logico, se la categoria "logicità" non fosse costante e ritrovabile in essi tutti.

Ma quella polemica mostra aperto di essere trascorsa oltre il segno nella sua incapacità di rendere ragione del motivo di verità che è da ricercare e mettere in chiaro anche nell'errore della trascendenza, posto che si consenta che in fondo ad ogni errore si annida sempre un consimile motivo. Il quale, in rapporto alla filosofia trascendente, consisteva appunto nell'esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali (buono, vero, giusto, ecc.), ciascuno nel suo carattere proprio e ciascuno opposto al suo opposto (cattivo, falso, ingiusto, ecc.), e di proteggerli contro le confusioni e le negazioni che uomini tutto attenuti al senso inavvedutamente ne facevano. L'errore, invece, in cui essa s'intricava, veniva dalla pretesa di distaccarli da quel flusso e metterli in salvo in una sfera superiore, trascendendo la realtà: che valeva dare di un problema logico una soluzione fantastica. Ma contro il sensismo e l'edonismo era quella un'esigenza di sana vita intellettuale e spirituale in genere, che, nonostante il suo errore, ha operato beneficamente in vari tempi della storia delle idee, a cominciare dalle definizioni che Socrate elaborava di contro ai sofisti, e dalle idee che Platone trasferì nell'iperuranio. Per accennare a tempi recenti, in Germania, nell'ottocento, a consimile rimedio ricorse il rigido pedagogista Herbart contro le perversioni della dialettica e dello storicismo in parte nello Hegel stesso, ma più ancora nella scuola hegeliana, che sembravano insidiare non meno la serietà della vita morale che quella della vita scientifica, l'una con la fluidità e mollezza dei concetti, l'altra coi compromessi e i facili passaggi dall'un partito all'opposto. Fu una reazione e, come reazione, esagerò separando i concetti dalle rappresentazioni e segnandone così forte i contorni da chiuderli ciascuno in sé e porli tutti indeducibili e senza rapporto gli uni con gli altri; e con tutto ciò, meglio quella distinzione, alquanto caramente pagata con la trascendenza dei valori sui fatti, che non la poltiglia di rappresentazioni e concetti, di concetti puri e concetti empirici, che oggi taluni vorrebbero restaurare nel pensare filosofico, senza aver forse chiara consapevolezza di quel che chiedono, e senza rendersi conto della grande perdita che si farebbe di quanto si è in questa parte faticosamente acquistato per opera della critica filosofica, che è sempre rivoluzionaria e conservatrice insieme.

Che se una certa parvenza di ben filato ragionamento rimane a siffatte richieste viene da questo, che le proposizioni di astratta filosofia unitaria non sono portate alla prova dei fatti particolari, ossia dei particolari e precisi giudizi e del concreto pensare, con l'attendere a narrare la storia delle varie attività umane; nella quale prova andrebbero presto miseramente in pezzi. Pili agevole e pili prudente sembra in quel poco che quegli ingegni generici sono pur costretti a dare di trattazioni storiche, introdurre surrettiziamente le distinzioni negate nella loro metodologia, o valersene dichiarandole al tempo stesso empiriche: a un dipresso come usò un musulmano inviato del gran Sultano, che venne a Napoli nel settecento alla corte del re Carlo di Borbone, del quale mi accadde di leggere in una relazione diplomatica che bevve nei banchetti napoletani molto sciampagna, ma chiamandolo, e imponendo cosi agli altri di chiamarlo, "limonata". Mi si perdoni questo ricordo, certamente sconveniente alla gravità filosofica, ma non certo sconveniente al caso di cui si è toccato.

(da La storia come pensiero e come azione, pp. 14-27 dell'edizione 1939)

 Filosofia della pratica. Economica ed etica (1908)      

Filosofia dello spirito III Laterza 1923

L'idea è questa: vi è conflitto tra fini e mezzi, tra etica e politica, tra moralità e azione utilitaria? Tradizionalmente, si pensa di sì. Politica, economia, utilità sono cose della terra, mentre l'azione morale sarebbe del cielo. E dunque le filosofie degli uomini o pretendono di snaturare l'azione utile della terra negandone la natura per renderla morale, o rinunciano scetticamente alla dimensione etica, o tentano di concepire soluzioni ibride e morali compromissorie.

Per Croce non è così: gli uomini vivono in terra e lì devono fare ciò che è utile per soddisfare i loro bisogni, e ciò che è necessario per conservare l'umanità in vita. Ma questa azione utile, guidata dal pensiero, dà forma razionale al mondo; anzi, l'azione utile è l'unica via che ci è data per agire razionalmente, ossia moralmente. Dunque non c'è dilemma e non c'è conflitto: ciò che è utilmente concepito e fatto è anche intrinsecamente etico.

E' un sofisma questo, o è pensiero profondamente vero, che ci eleva oltre il banale? Croce cerca di farcene persuasi discutendo tutte le questioni tradizionalmente connesse alla filosofia dell'agire umano: precetti, casistiche, implicazioni emotive, libertà, non libertà, pessimismo, ottimismo, pentimento, coscienza...

Di seguito due brani dal libro: prima uno che delinea una filosofia del diritto radicalmente e soprendentemente pragmatica, ma ci regala anche momenti di divertimento usando argomenti alquanto eccentrici. Poi un altro proprio che da questo pragmatismo deduce un'etica completamente idealistica, dove lo Spirito è, ma non è altro che l'esistere delle coscienza pensante umana.

Benedetto Croce - Filosofia della pratica - Le leggi come prodotti dell'individuo
Questa analisi del concetto di legge è l'espressione dell'estremo pragmatismo con cui Croce concepisce la vita umana. Della quale la spiritualità è la forma razionale, non la negazione.

LE LEGGI COME PRODOTTI DELL'INDIVIDUO

La legge è un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni.
Questa definizione esclude anzitutto dal concetto di legge un carattere che di solito è considerato essenziale, la socialità; ossia estende il concetto di legge al caso dell'individuo isolato. Ma perché non accadano equivoci in un punto, com'è questo, importante, sarà bene avvertire che la parola "società" ha due significati, uno empirico e l'altro filosofico, e che, escludendo dal concetto di legge il primo, non s'intende, e non si potrebbe, escludere l'altro. La realtà è unità e molteplicità insieme, e un individuo è concepibile solo in quanto ha di fronte altri individui, e il processo del reale è effettivo in quanto gl'individui sono in relazione. Senza molteplicità non si avrebbe né conoscenza né azione né arte né pensiero né utilità né moralità: un individuo isolato, cioè avulso dalla realtà che lo costituisce e che egli costituisce, sarebbe qualcosa di astratto, epperò di assurdo. Ma assurdo quel concetto non è, quando si adopera con intento polemico contro un concetto falso, e l'individuo viene inteso come isolato non già assolutamente, ma relativamente a certe condizioni contingenti, che a torto si ponevano come essenziali; e qui invece astratto e irreale sarebbe da dire l'adoperato concetto di società. Perché "società" significa altresì una molteplicità di esseri della medesima specie, dove, com'è chiaro, s'introduce subito un carattere arbitrario, che è il concetto naturalistico di medesimezza di specie. Ma, se anche mancasse questa empirica medesimezza, non per ciò la società, la reale società, mancherebbe. Un uomo potrà non ritrovare tra una moltitudine di uomini i suoi simili, e si condurrà come se quegli altri uomini non esistessero; e nondimeno anche in questo caso vivrà in società con gli esseri che si chiamano naturali o soprannaturali, col suo cane, col suo cavallo, con le piante, con la terra, coi morti e con Dio. Cacciato in solitudine, cioè distaccato dagli altri esseri della sua medesima specie, quelle altre forme di società, ossia la comunione con la realtà, persisteranno sempre e gli daranno modo di proseguire la sua vita di contemplazione, di pensiero, di azione e di moralità. Per intendere lo spirito nella sua universalità, è necessario prescindere dalle contingenze; e la società, in significato empirico, è contingenza, che il concetto d'individuo isolato (isolato da essa e non dalla realtà, dalla societas hominum e non dalla societas entium) ci aiuta a superare. Donde i grandi servigi che questo concetto ha resi alla Logica, all'Estetica, e segnatamente all'Economica, la quale si è cominciata a svolgere come filosofia solo quando ha trattato i fatti economici come tali che avvengano, prima che nelle così dette "società", nell'individuo, formando il concetto di un'economia isolata. Per converso, Economica, Estetica, Etica, tutte le scienze e tutti i problemi filosofici, hanno smarrito la loro vera indole e si sono imbastarditi, quando il grossolano sociologismo ha rituffato nelle contingenze sociali quegli universali, che a gran fatica i filosofi avevano sciolti da esse per pensarli nella loro purità. Dunque, col definire le leggi come formazioni che hanno luogo non solo nelle società, ma anche nell'individuo isolato, s'intende semplicemente guidare lo sguardo a fermarsi sul concetto della vera società, che è la realtà tutta, e non lasciarlo vagare e confondere in cose accidentali.

Non occorrono grandi artifici per escogitare casi d'individui che pongano leggi a sé medesimi, e le eseguano e le cangino, e si assegnino premi e infliggano punizioni; né fa d'uopo chiamare a questo fine il buon Robinson, tante volte incomodato dagli economisti. Senza dover compiere lo sforzo d'immaginarsi gettati sopra un isolotto deserto con solo un sacco di grano e una Bibbia, basta osservare la vita quotidiana, perché gli esempi di legislazione individuale si presentino in folla nei cosiddetti programmi di vita. Chi può vivere senza programmi? Chi non ferma entro sé che egli vorrà tali e tali azioni, e ne eviterà tali e tali altre? Fin dall'adolescenza si comincia a legiferare entro noi stessi a questo modo, e per tutte le altre età della vita prosegue questa interiore produzione di leggi, che è spezzata solamente dalla morte. E si dirà per esempio: - lo dedicherò la mia vita all'agricoltura, e ogni anno, dal giugno al novembre, dimorerò in campagna; ma dal decembre al febbraio tornerò in città e dal marzo al maggio viaggerò per diletto e istruzione. - Programma che si determinerà e specificherà secondo le varie condizioni e possibilità che si prenderanno a considerare, stabilendosi le proprie individuali leggi circa il modo di comportarsi rispetto alla religione, alla famiglia, al matrimonio, agli amici, allo Stato, alla Chiesa, o anche rispetto al tale o tal altro individuo; perché (com'è noto dalle spiegazioni date nella Logica) l'individuo, concepito che sia quasi entità fissa, diventa anch'esso concetto, ossia astrazione, gruppo, serie e classe. E chi ne avesse vaghezza potrebbe agevolmente istituire il raffronto tra i programmi o leggi individuali, e le leggi che si chiamano sociali; e ritroverebbe nell'individuo statuti fondamentali, leggi, regolamenti, ordinanze, disposizioni transitorie, contratti, leggi singolari, e tutte le altre formazioni legali, che si osservano nella società. In che mai i programmi dell'individuo differiscono dalle leggi della società? Quelle leggi non sono forse programmi, e quei programmi non sono leggi?

A questa interrogazione, che formoliamo non per esprimere un dubbio che sia in noi, ma per affermare un fatto che ci sembra irrefragabile e da resistere a qualsiasi contradizione, si può tuttavia rispondere obiettando (ed è obiezione comune) che tra le leggi individuali e le leggi della società e dello Stato intercede una grande differenza: queste sono costrittive, quelle no; e perciò queste sono veramente leggi, quelle restano meri programmi. Ma di codesta obiezione, come qui è ragionata, non possiamo fare caso alcuno; perché, avendo oramai percorso tutta la Filosofia della pratica, generale e speciale, non abbiamo incontrato mai, nell'ambito del volere e dell'operare, ciò che si chiama "costrizione" (salvo che in significato negativo, come deficienza di volontà e di azione). Nessun'azione può essere mai costretta; ogni azione è libera, perché lo Spirito è libertà: potrà, in un determinato caso, non ritrovarsi l'azione che si era immaginata, ma un'azione costretta è cosa che non s'intende, perché i due termini sono ripugnanti. Il fatto smentisce la nostra affermazione? Guardiamo dunque il fatto direttamente e spregiudicatamente, e, per esser sicuri di non sbagliare, prendiamolo in una forma estrema: per esempio, in quella della legge di un terribilissimo despota, il quale, circondato da sgherri, comandi a una torma di uomini di recargli i loro primogeniti per sacrificarli al dio, nel quale egli fida e che essi discredono. Gli uomini, che ascoltano questa manifestazione di volontà, sono costretti da essa? Quale minaccia può far dir sì a chi vuol dir no? Quella torma di uomini si ribellerà, prenderà le armi, sbaraglierà le schiere del despota, lo ucciderà o lo ridurrà all'impotenza di nuocere; e la legge non eserciterà, in questa ipotesi, nessun'efficacia costrittiva. Ma anche nell'altra ipotesi, che essi non si ribellino e che, per non rischiare la vita o perché differiscano il ribellarsi a momento più propizio, si pieghino per intanto al volere del despota e consegnino alla morte i loro figliuoli, essi non avranno sofferto nessuna costrizione, ma avranno liberamente voluto: voluto serbare la propria vita a spesa di quella dei figliuoli, o sacrificare alcuni di questi per acquistar tempo e mettersi in grado di ribellarsi con isperanza di vittoria. Cosicché nelle leggi sociali si ha ora l'osservanza ora l'inosservanza della legge; ma l'una e l'altra, liberamente. L'inosservanza potrà esser seguita da ciò che si chiama pena: cioè il legislatore, che ha imposto una certa classe di azioni, prenderà contro chi non le esegua certi determinati provvedimenti e vorrà un'altra classe di azioni, designata ad agevolare la prima (perché la pena è una nuova condizione di cose, che si pone all'individuo e secondo la quale si cerca d'indurlo a cangiare il suo precedente modo di azione); - ma la pena trova sempre di fronte a sé la libertà dell'individuo. Per evitare la pena o il rinnovarsi dalla pena questi potrà, liberamente, osservare la legge; ma ciò non toglie che potrà anche liberamente ribellarlesi, come nel caso che abbiamo descritto.

Se nelle leggi individuali manca la coazione, questa parimente manca sempre nelle leggi sociali; e, per contrario, quel che è davvero nelle leggi sociali è del pari nelle osservanze e nelle ribellioni, nei premi e nelle pene delle leggi individuali. Per tornare all'esempio recato di sopra, l'individuo, il quale si è prefisso come programma di fare l'agricoltore, può essere preso a un tratto da un gran desiderio di darsi alla pittura o alla musica, e ciò che prima gli era piaciuto, può ormai dispiacergli: quella dimestichezza con la terra madre, con le messi e le vendemmie, che gli sorrideva come condizione adatta a lui, come suo vero ideale di vita, gli può tornare fastidiosa e ripugnante. Ma, se egli è uomo serio, se non vuole e disvuole a ogni attimo, se non presenta nella sua cerchia individuale il pieno riscontro di quei popoli che cangiano a mezzo novembre le leggi poste nell'ottobre e passano di riforma in riforma, di rivoluzione in rivoluzione, egli esaminerà la situazione nella quale è posto, e riconoscerà, per esempio, che il desiderio, sortogli nell'animo, è velleità che non risponde alla sua vera vocazione, e determinerà che il primo programma deve rimanere intatto; onde s'impegnerà in lui una lotta tra quel programma e la nuova e ribelle volizione. Potrà accadere, in questo caso, che l'individuo dell'esempio trascuri talvolta il programma tracciato per abbandonarsi alle tentazioni del suo dilettantismo pittorico o musicale; ma poiché ciò accadrà contro la sua legge individuale, e forza deve restare alla legge, l'inosservanza sarà seguita da particolari provvedimenti, come di gettare via pennelli e violino, o d'inibirsi perfino quei momenti di svago in simili dilettazioni che egli prima si concedeva e che ora gli sono diventati pericolosi. In altri termini, in caso d'inosservanza della sua legge l'individuo s'infligge fatiche e astinenze, che debbono dirsi, a pieno titolo, autocastighi. E per passare all'altra ipotesi, analoga a quella che si è contemplata per le leggi sociali, se 1'individuo si sentirà invaso da tal furore pittorico o musicale da venire nella persuasione che il primitivo programma, la primitiva sua legge individuale, non rispondeva o non risponde più alle sue vere e profonde tendenze, egli si ribellerà contro la legge e la distruggerà in sé: proprio allo stesso modo che il popolo, nell'altro esempio, distruggeva la legge del despota, combattendo, imprigionando o ammazzando costui.

I programmi o leggi individuali sono dunque leggi; e poiché questo concetto si estende così all'individuo isolato come alla società, il carattere della socialità non è essenziale al concetto di legge. Anzi, per meglio determinare, le sole leggi, che realmente esistano, sono le individuali; onde leggi individuali e leggi sociali non possono porsi come due forme del concetto generale di legge, tranne che individuo e società non vengano presi entrambi in significato empirico e si esca dalla considerazione filosofica. Intendendo l'individuo nel significato filosofico, come lo Spirito concreto e individualizzato, è chiaro che anche le così dette leggi sociali si riducono alle individuali, perché per osservare una legge bisogna farla propria, cioè individualizzarla, e per ribellarlesi bisogna espellerla dalla propria personalità, nella quale essa indebitamente tentava di restare o d'introdursi.

L'esclusione del carattere di socialità dal concetto di legge sgombra la filosofia da una sequela di problemi e correlative teorie, che avevano a loro presupposto quel preteso carattere. Principale tra essi, la distinzione delle leggi in politiche e giuridiche da un canto, e in meramente sociali dall'altro; e poi delle leggi giuridiche in leggi di diritto pubblico e privato, civile e penale, nazionale e internazionale, in leggi propriamente dette e regolamenti, e così via. Se il concetto stesso di leggi, sociali è empirico, empiriche saranno altresì tutte le distinzioni e suddistinzioni che ne vengono proposte, e non è possibile difendere una distinzione contro un'altra o correggere quelle finora date e proporne di nuove. Chi tolga in esame una qualsiasi di quelle distinzioni, avverte subito il loro mancamento filosofico. Così le leggi giuridiche o politiche sono state distinte dalle meramente sociali, dicendosi che quelle sono coattive e queste convenzionali; laddove la coazione, per le ragioni già esposte, è inconcepibile nelle une non meno che nelle altre: che se poi per coazione s'intende la minaccia di una pena, questa si trova nelle leggi meramente sociali non meno che nelle giuridiche. È legge, che si suole chiamare giuridica, che non bisogni falsificare la pubblica moneta: chi la falsifica, corre il rischio di buscarsi alcuni anni di reclusione. È legge, che si suole chiamare sociale, che bisogni rispondere al saluto col saluto: chi non risponde, corre il rischio di essere giudicato uomo malamente educato ed escluso dai circoli della gente per bene. C'è differenza essenziale tra le due sorta di leggi? È stato fatto il tentativo di differenziarle, affermando che le prime sono promulgate da un potere supremo, che ne invigila l'osservanza, e le seconde da circoli particolari d'individui. Ma quel potere supremo non ha certamente sede in un superindividuo, che domini gl'individui, sibbene negli individui stessi; e, se è così, tanto esso vale e può, quanto valgono e possono gl'individui che lo formano. Vale a dire, quelle leggi giuridiche sono leggi di una cerchia che viene bensì empiricamente considerata più stretta e più forte, ma nella quale esse in tanto si attuano in quanto gl'individui spontaneamente vi si conformano, reputando loro conveniente il conformarvisi. Monarchi, che si tenevano potentissimi, sono stati spesso disingannati dagli avvenimenti, i quali hanno loro praticamente e spiacevolmente dimostrato, che la forza non era già delle loro persone o del loro titolo, ma di un consenso universale, mancato il quale la loro potenza stessa mancava, o si contraeva in un gesto d'impotente comando, assai prossimo al ridicolo. Leggi, che sembrano ottime, restano inapplicabili, perché incontrano la tacita resistenza generale, o, come si dice, non rispondono ai costumi: il che basterebbe a illuminare le menti circa l'unità inscindibile del casi detto Stato e della così detta società. Lo Stato non è entità, ma complesso mobile di svariate relazioni tra individui. Potrà essere comodo delimitare alla meglio questo complesso ed entificarlo per contrapporlo agli altri complessi: su ciò non cade dubbio, e noi lasciamo ai giuristi l'escogitazione di queste e di altrettali distinzioni, opportune sebbene fittizie, né pensiamo minimamente a condannare come irrazionale l'opera loro. Diciamo soltanto che bisogna non dimenticare che il fittizio è fittizio, e rinunziare a ragionarlo come reale, e astenersi dal riempire volumi e volumi di faticose disquisizioni filosofiche, vuote di effetto, laddove vuote non sono, nella cerchia loro, le distinzioni pratiche, da cui quelle prendono le mosse. Noi che non siamo giuristi ma filosofi, e ai quali perciò è vietato formare e adoperare distinzioni pratiche o empiriche, dobbiamo concepire come leggi, e tutte agguagliare nell'unica categoria della legge, così la Magna charta inglese, come lo statuto della "Mafia", siciliana o della "Camorra" napoletana; così la Regula monachorum di san Benedetto, come quella della "brigata spendereccia", che Folgore da San Gemignano e Cene della Chitarra cantarono in sonetti e che Dante ricorda; così il diritto canonico e il codice militare, come quel droit parisien, che un certo personaggio del Balzac [in Le pére Goriot] aveva studiato per tre anni nel salottino celeste di una signora e in quello roseo di un'altra, e che, quantunque nessuno ne parli mai, forma (diceva il gran romanziere) "une haute jurisprudence sociale, qui, bien apprise et bien pratiquée, mène à tout". Che più ? Sono leggi persino quelle leggi letterarie e artistiche, in cui si manifesta la volontà di promuovere la produzione di opere le quali abbiano tale o tal altro genere di argomenti e di ordinamento: come sarebbe, per esempio, che i drammi debbano essere divisi in cinque atti o in tre "giornate", e che i romanzi non debbano passare le quattro o cinquecento pagine in sedicesimo, e che una statua monumentale debba essere nuda o vestita all'eroica. È evidente che, se qualcuno le viola, può essere escluso (come infatti è o era escluso) dalle accademie del "buon gusto"; il che non impedirà che per ciò stesso venga accolto nelle antiaccademie degli scapigliati: proprio come l'essere incorso nelle punizioni che il codice penale commina, è titolo di ammissione in talune società di delinquenti.

Questi esempi, che abbiamo scelti tra i più strani e meglio atti a fare scandalo, giovano a mettere bene in chiaro che il concetto di legge, quando si voglia filosofarvi sopra, dev'essere preso in tutta la sua estensione logica. Una curiosa sorta di falso pudore stima contrario alla dignità filosofica l'immischiarsi di certi argomenti, e inclina perciò a restringere arbitrariamente, e di conseguenza a falsare, tal uni concetti filosofici. E quello di Legge, in particolare, è avvolto da una tradizione di solennità e reca con sé associazioni, che occorre rimuovere. Altrimenti, non è dato intendere. neppure che cosa intrinsecamente siano e come esercitino la loro efficacia quelle non scritte e ferme leggi degli dèi, che Antigone opponeva ai decreti degli uomini; o i detti di Lacedemone, per obbedire ai quali caddero i trecento alle Termopili; o le leggi della patria, che con irresistibile autorità imposero a Socrate di restare in carcere sul punto che altri gli consigliava e agevolava la fuga. La vita si compone di azioni piccine e di azioni grandi, di minimi e di massimi, o meglio di un fitto tessuto di azioni sempre varie; e non è pensiero troppo accorto tagliare quel tessuto in pezzi, e scartarne alcuni come meno belli, per contemplare poi nei soli pezzi prescelti, e così ritagliati e sconnessi, il tessuto, che non c'è più.

(Benedetto Croce, Filosofia della pratica, pp. 307-316 dell'edizione 1923)

Benedetto Croce - Filosofia della pratica - La forma etica come attuazione dello spirito in universale

La forma stilistica dell'espressione in questo brano è certamente di difficile digestione per la nostra sensibilità. Pure, bisogna leggere questo testo ascoltando i modesti esempi che lo colorano, e che trasfigurano il significato dei principi. Che la "forma etica" sia "attuazione dello spirito in universale" vuol dire, alla fine, soltanto che siamo condannati a pensare, e a guidare con la mente l'azione che compiamo con la mano.

LA FORMA ETICA COME ATTUAZIONE DELLO SPIRITO IN UNIVERSALE

Il pensiero, strano a primo aspetto, di un principio etico che sia formale nel significato che non si sappia che cosa precisamente esso sia e come si giustifichi, trova il suo sostegno in due concezioni filosofiche, l'una delle quali si potrebbe chiamare della filosofia parziale, e l'altra della filosofia discontinua. Per la prima, l'uomo è in grado di conoscere della realtà certamente qualcosa, ma non tutto: per mezzo delle categorie percepisce e ordina i dati dell'esperienza, ma si rende conto del limite del suo pensiero e dell'impossibilità di pervenire al cuore del reale, al quale potrà, sì, alla perfine giungere in qualche modo, ma appunto col cuore e non col pensiero. Ciò posto, e tornando al caso dell'Etica, l'uomo ascolta in sé la voce della coscienza, il comando della legge morale; nessun sofisma che egli escogiti vale a farla tacere; ma che cosa sia precisamente quella legge, non può dire: l'idea che gli si affaccia allo spirito, di un ordinamento divino del mondo, potrà essere anch'essa affermata col cuore, non mai col pensiero. La seconda concezione si confonde con la prima presso alcuni espositori che la trattano come semplice filosofia parziale o agnosticismo; pure, a guardare sottilmente, non è del tutto identica. Infatti, essa non dice propriamente che la ragione della morale sia in conoscibile ; ma la reputa inconoscibile nella cerchia dell'Etica, ossia afferma che quella conoscenza esca fuori da questa cerchia. L'Etica stabilisce la legge morale, deduce e ordina sotto di essa i precetti etici, e giudica in forza di essa le singole azioni. Se quella legge poi sia realmente, o quale ne sia propriamente il contenuto universale, l'Etica ignora; e rinvia il problema alla Metafisica, ossia alla Filosofia generale, che a suo modo lo risolve o si presume possa risolverlo o almeno si proverà e riproverà in perpetuo a risolverlo. In questa concezione, dunque, si fa questione di competenza e gerarchia tra pensiero e pensiero, tra filosofia particolare e filosofia generale; laddove, nella prima, si pone senz'altro l'incompetenza assoluta del pensiero.

Ma per noi non sussiste il rischio di urtare nella rete di queste due dottrine filosofiche, perché in tutta la nostra esposizione della Filosofia dello spirito le abbiamo costantemente rigettate entrambe e dimostratane la falsità. Filosofia parziale è concetto contradittorio: il pensiero pensa o tutto o nulla; se avesse un limite, l'avrebbe come pensato, e perciò come superato e non più limite. Chi ammette qualcosa d'inconoscibile, finisce logicamente col dichiarare tutto inconoscibile, e scivola inevitabilmente nello scetticismo totale. Né meno inconcepibile è l'idea di una filosofia discontinua, divisa in un tutto e nelle sue parti, col tutto fuori delle parti e con le parti fuori del tutto; in guisa che, studiando una parte (l'Etica), il tutto (l'insieme della Filosofia) appaia problematico, e si possa conoscere in qualche modo la parte (l'Etica) senza conoscere già il tutto (l'insieme della Filosofia). Codesto è un falso vedere, proveniente in fondo dalle scienze empiriche, nelle quali è possibile apprendere un ordine di fenomeni indipendentemente dagli altri, e apprendere i fenomeni senza proporsi in modo esplicito, o rinviando ad altra istanza, il problema filosofico circa la loro realtà e verità. La filosofia è circolo e unità, e ogni punto di essa è intelligibile solamente in relazione con tutti gli altri. La convenienza didascalica di esporre un gruppo di problemi filosofici separandoli dagli altri gruppi, - o anche, se piace ad alcuno quel che a noi non è piaciuto, di dividere l'esposizione in scienze filosofiche particolari e in Filosofia generale (chiamata anche Metafisica), - non ci deve trarre in inganno, quasi che si dividesse realmente l'indivisibile. Con la prima proposizione filosofica che si enuncia, si è enunciata insieme tutta la Filosofia; le altre, che verranno dopo, saranno tutte nient'altro che schiarimenti o svolgimenti della prima.

E poiché noi non abbiamo mai negato fede al pensiero né spezzata l'unità della Filosofia, non abbiamo a questo punto alcun segreto da rivelare: nemmeno un povero segreto, come gli espositori della filosofia discontinua, i quali fanno sapere in ultimo, solennemente, quello che avevano presupposto fin nelle loro prime parole. Il nostro principio etico formale non è forma vuota, che debba essere solamente ora riempita di contenuto; ma è forma piena, forma in senso filosofico e universale, che è insieme contenuto, cioè contenuto universale. La forma etica non è stata definita da noi, tautologicamente, forma universale, ma volizione dell'universale, con una definizione che era insieme distinzione dalla forma economica, semplice volizione dell'individuale. E se ora ci si domanda che cosa sia l'universale, dobbiamo rispondere che la risposta è stata già data, e che chi non l'ha intesa finora, anzi chi non l'ha intesa da un pezzo, non la intenderà più mai. L'universale è stato l'oggetto di tutta la nostra Filosofia dello spirito, ed esso abbiamo dovuto tenere sempre dinanzi nello studiare non solo l'attività pratica, ma qualsiasi altra attività dello spirito; così come non si può aver l'idea di un ramo di albero senza l'idea del tronco, da cui quello si diparte e senza del quale non sarebbe ramo d'albero. Quel concetto non è, dunque, un deus ex machina, che debba intervenire inatteso sul finire del dramma a chiuderlo frettolosamente; ma è la forza che lo ha animato dalla prima all'ultima scena.

Che cosa è l'universale? Ma è lo Spirito; è la Realtà, in quanto è veramente reale come unità di pensiero e volere; è la Vita, còlta nella sua profondità come quell'unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso. Fuori dello Spirito, niente è pensabile sotto forma veramente universale; l'Estetica, la Logica, questa stessa Filosofia della pratica, sono tutte dimostrazione e conferma di questa impossibilità. Ogni altro concetto che si proponga, si svela (e si è svelato alla nostra analisi) o finto universale, qualcosa di contingente che è stato astratto e generalizzato, o ipostasi di certi nostri particolari prodotti spirituali, gli schemi della matematica, o nient'altro che il negativo dello Spirito, al quale si conferisce (dapprima per metafora e poi per metafisica) valore di positività.

E l'uomo morale, nel voler l'universale, ossia quel che lo trascende in quanto individuo, si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà. Nella sua concretezza l'universale è universale individualizzato, e l'individuo in tanto è reale in quanto è insieme universale; onde (sotto pena di restare a mezzo, dimidiatus vir, cioè di perdersi nel nulla) non può asserire una forma di sé senza asserire l'altra, ma deve porre l'una esplicita e l'altra implicita, per passare a rendere esplicita anche l'altra. Come individuo economico, nel primo attimo, se così si può dire, in cui si affaccia alla vita e all'esistenza, egli non può volere se non individualmente: volere la sua propria esistenza individuale. Non vi ha uomo, per morale che si dica, che non cominci cosi: come mai potrebbe superare e perfino negare la propria vita individuale, se prima non l'avesse affermata, e se a ogni istante non la l'affermasse ? Ma colui che si arrestasse all'affermazione dell'individuale, considerando come luogo di riposo quello che è il primo passo di uno svolgimento, entrerebbe in contradizione col profondo sé stesso. Egli deve volere non solo in sé stesso individualizzato, ma insieme quel sé stesso che, essendo in tutti i sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo, promuove il realizzarsi del Reale, vive la vita piena e fa battere il suo cuore col cuore dell'universo: cor cordium.

L'individuo morale ha questa coscienza di lavorare pel Tutto. Ogni più diversa azione conforme al dovere etico è conforme alla Vita; e sarebbe contraria al dovere e immorale, se invece di promuovere la Vita, la deprimesse e mortificasse. Dove pare che i fatti mostrino il contrario, l'interpetrazione dei fatti è sbagliata, perché toglie a criterio di giudizio una vita che non è quella vita vera alla quale, com'è noto, si serve anche morendo; morendo sia come individuo, sia come gruppo, classe sociale o popolo. E il più umile che si possa immaginare degli atti morali si risolve in questa volizione: l'anima di un uomo semplice e ignorante, tutto dedito al suo modesto dovere, e quella del filosofo la cui mente accoglie in sé lo Spirito universale, vibrano all'unisono; ciò che questi pensa in quell'istante, l'altro fa, giungendo, anche lui per la sua strada, a quella piena soddisfazione, a quell'atto di vita, a quel fecondo congiungimento col Reale, a cui l'altro si è venuto per diversa via indirizzando. Si potrebbe dire che l'uomo morale è filosofo pratico, e il filosofo operatore teorico.

Questo criterio dello Spirito, del Progresso, della Realtà è nella coscienza morale l'intrinseca misura dei nostri atti, come è il fondamento più o meno consapevole di tutti i nostri giudizi morali. Perché celebriamo noi Giordano Bruno, che si lasciò condannare al rogo per asserire la sua filosofia? Forse per la calma con la quale affrontò il supplizio? Ma questa calma è di molti fanatici e altre si di malfattori, e può essere perfino talvolta semplice brama sensuale di autostruggimento, come se ne hanno esempi nella storia, e come un poeta moderno d'Italia ha testé cantato, laudando la bellezza della fiamma e la voluttà del rogo. Il Bruno, nell'accogliere la morte per non rinnegare la 'sua filosofia, concorse a creare più larghe forme di civiltà; e perciò egli è non solo vittima, ma anche martire, nel significato etimologico della parola: testimone e attore di una esigenza dello spirito in universale. - Perché approviamo l'uomo caritatevole? Forse perché egli cede alla commozione destatagli dallo spettacolo di una sofferenza? Ma la commozione, presa per sé stessa, non è né morale né immorale, e il cedere al suo impulso, cosi, materialmente, è debolezza, cioè immoralità. L'uomo caritatevole, togliendo via o mitigando una sofferenza, riaccende una vita e riconquista una forza per l'opera comune, alla quale così egli come il beneficato debbono servire.

Niente sembrerà dunque più tolto dell'antimoralismo in voga ai giorni nostri, triste risonanza di malsane condizioni sociali e di dottrine unilaterali e malintese (marxismo, nietzschianismo). L'antimoralismo può essere giustificato come polemica contro l'ipocrisia morale e in favore della moralità effettiva contro quella parolaia; ma perde ogni significato e giustificazione quando, gonfiando frasi vuote o combinando proposizioni contradittorie, si argomenta di predicare contro la moralità stessa. Crede esso di celebrare in tal guisa la forza, la salute, la libertà; e vanta invece la servitù alle passioni sbrigliate, l'apparente floridezza del malato e la forza apparente del maniaco. La moralità (non dispiaccia agli antimoralisti letterari), non che fisima da pedante o consolazione da impotente, è il sangue buono contro il sangue guasto.

Gioverà altresì avvertire che questa verità circa il principio etico inteso come volontà avente per fine l'universale o lo Spirito, è in qualche modo confermata da parecchie delle formole da noi criticate, che erravano solo nel determinarla in particolare; onde poi o confondevano daccapo universale e contingente, o cadevano nel tautologismo. Coloro che pongono a fine della morale la Vita o l'interesse della Specie o la Società o lo Stato, hanno l'occhio, sebbene non riescano a discernerla esattamente, a quella Vita, a quella Specie, a quella Società e a quello Stato ideale, che è lo Spirito in universale. Il medesimo si dica di altre formole, la cui intenzione iniziale è sovente assai migliore di quella che si attua nello svolgimento delle relative dottrine, o il cui svolgiménto è, all'inverso, migliore della cattiva intenzione iniziale. Soprattutto quest'ufficio di simbolo etico idealistico, quest'affermazione che l'atto morale è amore e volizione dello Spirito in universale, si osserva nell'Etica religiosa e cristiana, nell'Etica dell'amore e della ricerca ansiosa della presenza divina: così misconosciuta e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per manco di finezza mentale, dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti liberi pensatori e da simile genia frequentatrice di logge massoniche. Non c'è quasi verità dell'Etica (e abbiamo avuto già occasione di fare altri accenni in proposito), che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo apprese da bambini, della religione tradizionale, e che spontanee ci salgono alle labbra come le più alte, le più appropriate, le più belle: parole, di certo, ombrate ancora di mitologia, ma gravi insieme di un contenuto profondamente filosofico. Tra il filosofo idealista e l'uomo religioso c'è, senza dubbio, contrasto assai forte; ma non diverso da quello che si avverte in noi stessi, nella imminenza di una crisi, quando siamo divisi d'animo, e pur vicinissimi alla unità e conciliazione interiore. Se l'uomo religioso non può non vedere nel filosofo il suo avversario, anzi il suo nemico mortale, questi invece vede nell'altro il suo fratello minore, il suo sé stesso di un momento prima. Onde si sentirà sempre con più stretta affinità legato a una austera, commossa e torbida di fantasmi Etica religiosa, che non a un'Etica superficialmente razionalistica; la quale solo in apparenza è più filosofica dell'altra, perché se da una parte ha il pregio di riconoscere (sia pure a parole o con psittacismo, come avrebbe detto il Leibniz) i supremi diritti della ragione, li esercita poi assai malamente, tentando di strappare il pensiero dal terreno su cui è germinato, e di privarlo della sua linfa vitale.

ANNOTAZIONI STORICHE

Merito singolarissimo di Emanuele Kant è di averla fatta finita con ogni sorta di Etica materiale, dimostrandone l'intimo carattere utilitario: merito che non è cancellato dalle incertezze che restano in altre parti della sua dottrina e che lo fanno impigliare più volte in quel materialismo ed utilitarismo, che aveva sostanzialmente superati. Sarebbe antistorico giudicare un pensatore dalle contradizioni in cui cade, e su questo fondamento dichiarare fallita e nulla l'opera sua. Errori sono in tutte le opere umane, ed errore è sempre contradizione; ma chi ha occhio di storico scorge dove sia la forza vera di un pensiero, e non nega la luce perché accompagnata, com'è di necessità, dalle ombre. Prima del Kant, vigeva un'Etica o apertamente utilitaria o tale che, pure presentandosi sotto le forme ingannevoli di Etica della simpatia o di Etica religiosa, all'utilitarismo metteva capo in ultima analisi. Il Kant condusse una polemica implacabile non solo contro le forme utilitarie confessate, ma anche contro quelle spurie e larvate, che denominò "Etica materiale". Anche per questa parte i predecessori di lui sono da cercare nella filosofia tradizionale e di origine cristiana, o, se piace meglio, platonica (un'opposizione dell'Etica materiale contro la formale si può già scorgere nell'atteggiamento di Aristotele contro Platone). Se i Padri e gli scolastici erano stati divisi circa il rapporto tra leggi morali e arbitrio divino, e molti di essi, particolarmente i mistici, avevano fatto dipendere senz'altro quelle leggi da quell'arbitrio, non erano mancate dottrine che negavano a Dio la potenza di cangiare a suo libito le leggi morali, cioè di negare la sua stessa essenza, non potendo egli giammai essere supra se. E con questa dottrina, adottata poi da quasi tutti i filosofi religiosi del Sei e Settecento (Cudworth, Malebranche, Leibniz), l'Etica cristiana si veniva purificando di ogni residuo di arbitrarismo e di utilitarismo. E bisogna, d'altro canto, ripetere che parecchie delle formole "materiali", che avevano corso nelle scuole, s'intendevano sovente in modo ideale, o, come abbiamo detto, simbolico: l'eudemonia aristotelica, verso la quale il Kant si mostra troppo severo, era ben diversa dal piacere e dalla felicità degli edonisti e utilitaristi; la medietà (mesòtes) proposta come carattere distintivo della virtù, sebbene suonasse spesso a vuoto, poteva già quasi considerarsi come tentativo di principio formale; e si dica il medesimo del principio stoico del seguir la natura. Venendo ai predecessori immediati di lui, la perfectio, di cui si è già toccato, e che il Kant, dopo qualche esitazione, riduceva alla felicità e rigettava di conseguenza, era, più che altro, com'egli stesso avvertiva, un "concetto indeterminato". Ma, checché si giudichi di codeste anticipazioni e precorrimenti, sta di fatto che col Kant fu un punto acquisito che la legge morale non si possa esprimere in nessuna formola nella quale rimangano tracce di elementi rappresentativi e contingenti.

Il difetto dell'Etica kantiana è il medesimo di tutta la filosofia di lui: l'agnosticismo, che gl'impedisce di superare davvero così il fenomeno come la cosa in sé, e lo tira per un verso all'empirismo, e per l'altro a quella metafisica trascendente, che nessuno con maggior vigore di lui aveva scossa dalle fondamenta. Egli combatteva il concetto del bene o del sommo bene, come principio di Etica; e aveva ragione certamente in quanto intendeva di un "oggetto qualsiasi", di "un bene" come di "una cosa". Ma ciò non lo liberava dalla necessità di determinare il sommo bene che non si esaurisce in nessun oggetto particolare, ossia di determinare l'universale: quell'universale, che la sua filosofia, impedita dal professato agnosticismo, era impotente a raggiungere. Di qui il suo involontario ritorno all'utilitarismo, che fu mostrato in modo perentorio dallo Hegel, il quale, già nel suo scritto giovanile sul Diritto naturale, notava che il principio pratico del Kant non è un vero e proprio assoluto, ma un assoluto negativo; onde il principio della moralità si converte presso di lui in quello dell'immoralità, perché, potendo ogni fatto essere pensato nella forma dell'universalità, non si sa mai quale fatto debba essere accolto nella legge. Il Kant aveva detto, nel famoso esempio del deposito, che bisogna serbar fede al deposito, altrimenti non ci sarebbero più depositi. E se non ci fossero più depositi, in che modo un simile caso importerebbe contradizione alla forma della legge? Sarebbe forse contradizione e assurdo per ragioni materiali; ma queste è già convenuto che non si debbano invocare. Il Kant vuol giustificare la proprietà; ma non riesce se non alla tautologia, che la proprietà, se è proprietà, dev'essere proprietà, aprendo la via all'arbitrio, che si fa a concepire a capriccio come doverose queste o quelle determinazioni contingenti della proprietà. Del pari le massime morali kantiane, nelle determinazioni empiriche che assumono, si contradicono non solo tra loro, ma in sé stesse; onde lo Hegel definì codesta logica e inevitabile degenerazione dell'etica kantiana tautologia e formalismo. Ma anche altri pensatori ebbero ad avvertire l'utilitarismo dell'Etica kantiana; e lo Schopenhauer diceva perfino che quella dottrina, risolvendosi nel concetto di reciprocità, non ha altro fondamento che l'egoismo, e protestava contro la teoria kantiana, che bisogni aver compassione degli animali per esercitarsi nella virtù della compassione, stimandola aperto indizio dei sentimenti giudaico-cristiani, dai quali il Kant si lasciava dominare. Le quali osservazioni hanno alcunché di vero, sebbene, per quel che concerne l'atteggiamento verso gli animali, bisogna notare che si trova già nello Spinoza e in altri pensatori, ed è conseguenza dell'Etica materiale e utilitaria; ma che, pel resto, sarebbe assai ingiusto vedere nell'imperativo categorico del Kant nient'altro che l'egoismo, pericolo senza dubbio di quella dottrina, ma non punto suo carattere essenziale.

Nondimeno nello stesso Kant, in questo pensatore così ricco di contradizioni e di suggestioni, era additato il concetto, che, elaborato, doveva dare all'Etica il suo principio non più tautologico e formalistico, ma concreto e formale: il concetto della libertà. In virtù di questo concetto il Kant entra nel cuore del reale, e tocca quella regione, che il misticismo e la religione avevano intravista e, solo a tratti, toccata. Come dell'austera concezione etica kantiana, e del suo aborrimento pel materiale e pel mondano, la sorgente è nel Cristianesimo (e nel platonismo), così anche l'origine della sua idea morale concreta è da ricercare in sant'Agostino, anzi in san Paolo, nei mistici del medioevo, nei grandi cristiani francesi del Seicento, in quella virtù, di cui il Pascal scriveva che è "plus haute que celle des pharisiens et des plus sages du paganisme", e che sola rende possibile di "dégager l'âme de l'amour du monde, la retirer de ce qu'elle a de plus cher, la faire mourir à soi même, la porter et l'attacher uniquement et invariablement à Dieu". I successori del Kant, e in particolare il Fichte e lo Hegel, chiusero il circolo da lui lasciato aperto, ed escludendo affatto la trascendenza, fecero di Dio la Libertà, e della Libertà la Realtà. Il Fichte, che dalla filosofia. teoretica sgombrava il fantasma della cosa in sé, toglieva altresì, nella filosofia della pratica, all'imperativo categorico l'aspetto di qualitas occulta, e rischiarava le tenebre di quella regione, atte ad accogliere ogni sorta di superstizioni e immaginazioni, e perciò anche la credenza in una legge morale posta arbitrariamente dalla divinità. Lo Hegel non parla più di imperativo categorico e di dovere, ma solamente di libertà; e lo spirito libero è (com'egli dice) quello in cui soggetto e oggetto coincidono e si vuole liberamente la libertà.

II. Giunta al suo termine l'età classica della filosofia moderna, e accaduto anche nell'Etica un relativo regresso, il concetto della concretezza e universalità del principio pratico andò smarrito. Senza riparlare degli utilitaristi, dei quali qui non si disputa più, basti ricordare come o si tornasse ai principi formalistici che lo Hegel criticava nel Kant (tale, per es., il principio dell'Etica rosminiana, del rispetto all'essere, combattuto dal Gioberti), o addirittura a quei principi materiali, che il Kant aveva già esclusi, come è il caso della compassione nello Schopenhauer, delle cinque idee pratiche nello Herbart, dell'amore nel Feuerbach, della benevolenza, idea etica suprema nel Lotze, della morale teologica nel Baader, della vita nel Nietzsche, e simili.

I principi della prima specie trovavano il loro compimento in una concezione religiosa (della quale altresì può dare esempio il Rosmini); e quelli della seconda, quando non si scoprivano utilitari o tautologici, mostravano un'oscura tendenza verso l'Etica della libertà: il che non è da sconoscere dell'Etica nietzschiana, antiedonistica e antiutilitaria (pur tra la melma e i sassi che il pensiero del
Nietzsche trascina seco), e tutta piena del senso della Vita intesa come attività e potenza. Anche l'evoluzionismo positivistico è talora inconsapevole idealismo; e le sue azioni morali, utili all'evoluzione, possono essere interpetrate come quelle che rispondono alla logica dello Spirito in universale. Più restii degli altri all'interpetrazione idealistica, ma non affatto irriducibili, sono i concetti dei pessimisti (per es., dello Schopenbauer); e stranamente contradittorio è poi quello del semidealista e semipessimista Eduardo Hartmann, che fa consistere la morale nel promovimento della civiltà, onde si possa giungere a sì alta condizione di spirito, che per mezzo di una votazione mondiale si sia in grado di decretare il suicidio universale.

La questione proposta dal Kant, e da lui lasciata aperta: "se l'Etica debba concepirsi formale o materiale", che è stata da noi determinata nell'altra: se l'Etica debba concepirsi astratta o concreta, vuota o piena, tautologica o espressiva - cioè (determinando anche meglio), se l'Etica si possa stabilire prima e fuori del sistema filosofico e conciliare persino con l'asistematica dell'agnosticismo; - non è stata più intesa nella sua vera natura nemmeno dai neocritici o neokantiani. I quali, o hanno stimato di risolverla con un temperato utilitarismo, uscendo dall'etica kantiana e negando il risultato più sicuro della critica che questa aveva faticosamente compiuta; ovvero l'hanno agitata fastidiosamente, senza mai avanzare di un passo. In verità, il progresso era possibile solo a patto che si costruisse un sistema filosofico, e un sistema non inferiore a quello degli idealisti postkantiani; e ciò sarebbe stato il medesimo che chiedere la morte del neokantismo o neocriticismo, che non pure non tentava di superare i sistemi idealistici, ma disperava della possibilità stessa di un sistema e, in questa disperazione, consigliava e professava un filosofare senza sistema. Possono perciò i neokantiani essere chiamati, come desiderano, seguaci e discendenti del Kant; ma, diremmo, al modo stesso in cui l'ultimo degli Absburgo di Spagna, né imperatore né re né soldato né uomo, poteva essere riconosciuto discendente di Carlo V, uomo soldato re e imperatore, perché aveva anche lui, come il suo grande antenato, il deforme labbro pendente degli Absburgo. I neokantiani, cioè, serbano del Kant non la virtù, ma solo il difetto della sua filosofia.

(Benedetto Croce, Filosofia della pratica, pp. 289-303 dell'edizione 1923)

Teoria e storia della storiografia (1915)      

Filosofia dello spirito IV Adelphi 1989 (a cura di Giuseppe Galasso)

Il titolo del libro ha una genesi significativa. Nel 1909 l'editore tedesco Mohr aveva richiesto a Croce di scrivere un manuale di Filosofia della Storia, per una collana di carattere enciclopedico; ma fin dal tempo dei suoi primi studi Croce era stato consapevole che ogni Filosofia della Storia improntata a un concetto di finalità universale è un mero mito dell'Ottocento, affatto illegittimo. Croce tentò un compromesso, per ritrovarsi però "persuaso che un volume di Filosofia della Storia non si può fare in niun modo; o, almeno, non si può fare da me, che nego radicalmente la filosofia della storia" (per notizie, vedi il saggio di Galasso nel volume).

Croce però non rinunciò a scrivere il libro: mutò il taglio, e consegnò all'editore la Teoria e storia della storiografia, nella quale sistematizzò la sua concezione del conoscere (storico): che non è Filosofia della Storia, perché questa presuppone un concetto di finalità della vicenda storica sempre assolutamente arbitrario. Ma non è nemmeno Determinismo (sociologico, economico, ecc.), perché la storia non è conoscenza di natura, di un oggetto eterogeneo rispetto al soggetto umano, ma è atto in cui il soggetto umano conosce se stesso. La storia è identificazione con le ragioni di ogni umanità il cui manifestarsi ci sia raggiungibile; e qualsiasi umanità che riconosciamo come tale nel momento in cui vuole e agisce umanamente è libera, come liberi siamo noi.

Il libro da un certo punto di vista era superfluo: questi concetti erano già impliciti nei tre precedenti volumi della filosofia dello spirito; ma Croce colse l'occasione di sistemarli mettendoli in esplicita relazione con i problemi concettuali della metodologia della ricerca storica.

Ne proponiamo alcune pagine; alcune dal capitolo IV, dove è la negazione della filosofia della storia è svolta assieme a quella del determinismo, con eguale radicalità. Alcune altre dall'appendice III, dove Croce ci regala una negazione di ogni filosofia che sia diversa dall'essere metodologia per la conoscenza dei fatti umani in questo mondo. Sono pagine forti, modernissime, ancora oggi provocatorie, ancora oggi destinate a generare un rigetto nostalgico da parte di chi non abbia la maturità per capirle.

Benedetto Croce - Teoria e storia della storiografia - Genesi e dissoluzione ideale della "Filosofia della Storia"

Il rigetto del determinismo storico e della filosofia teleologica della storia è congiunto: perché capire gli uomini significa ricostruire e rivivere in se stessi la loro esperienza spirituale, e ciò non può essere se si concepiscono gli uomini come cose, come natura. Ma non si conosce storia nemmeno assegnando alla vicenda umana qualsiasi finalità arbitraria e fantastica, che vada oltre i fini che gli uomini si propongono nel loro vivere.

In queste pagine vi è però una curiosità, quasi uno hapax legomenon nel corpus crociano; dice Croce che "...così poco noi come i greci conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le umane fortune". Espressione di tono agnostico, che sorprende, perché la consueta forma mentis storicista sente come politically uncorrect, residuo di illuminismo e concessione all'aborrito spirito positivistico, ammettere esplicitamente che gli uomini in questo mondo non sanno nulla delle ragioni del cielo. Qui Croce però per dare forza al suo argomento è costretto a concederselo, per una volta.

Capitolo IV - GENESI E DISSOLUZIONE IDEALE DELLA "FILOSOFIA DELLA STORIA"
I
La concezione della così detta "Filosofia della storia" è perpetuamente fronteggiata e contrastata dalla concezione deterministica della storia. Il che non solo si vede chiaro nel fatto, ma riluce anche di logica evidenza, perché la "filosofia della storia" rappresenta la concezione trascendente del reale, e il determinismo quella immanente. Ma non meno certo è, nella considerazione di fatto, che il determinismo storico genera esso, perpetuamente, la "filosofia della storia"; né questo fatto è poi meno evidentemente logico del precedente, perché il determinismo è naturalismo, e perciò immanente, sì, ma d'insufficiente e falsa immanenza: onde si deve dire piuttosto che esso vuol essere, ma non è, immanente, e, quali che siano i suoi sforzi nella direzione opposta, si converte in trascendenza. Tutto ciò non incontra difficoltà. per chiunque abbia chiari in mente i concetti del trascendente e dell'immanente, e della filosofia della storia come trascendenza, e della concezione deterministica e naturalistica della storia come falsa immanenza. Ma giova vedere più in particolare come questo processo di accordi e di contrasti si svolga e si risolva con riverenza al problema della storia.

"Prima raccogliere i fatti, poi connetterli causalmente": questo è il modo nel quale la concezione deterministica si raffigura il lavoro della storia. "Après la collection des faits, la recherche des causes", per ripetere la comunissima formola nelle parole testuali di uno dei più immaginosi ed eloquenti teorici di quella scuola, del Taine. I fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non rischiarati dal lume della scienza, non intellettualizzati; e questo carattere intelligibile deve essere loro conferito mercé la ricerca delle cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un fatto a un altro come a causa di quello, componendo una catena di cause ed effetti: che si entra, cioè, in un regresso all'infinito, e non si riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa in ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente componendo.

Veramente, da codesta difficoltà taluni o molti deterministi della storia si cavano in maniera assai semplice: a un punto qualsiasi, spezzano o lasciano cadere la loro catena, che è già spezzata dall'altro capo in un altro punto (l'effetto preso a considerare); e operano col loro troncone di catena come con qualcosa di compiuto e chiuso in sé, quasi che una retta tagliata in due punti includa spazio e sia una figura. Donde altresì la dottrina che s'incontra presso i metodologisti della storia: che alla storia spetti ricercare solamente le cause "prossime": dottrina, che vorrebbe dare un fondamento logico a quel procedere. Ma chi dirà mai che cosa sono le "cause prossime"? Il pensiero, posto che sia costretto per sua sventura a pensare seguendo la catena delle cause, non vorrà sapere mai altro che di cause "vere", vicine o lontane che siano nello spazio e nel tempo (lo spazio, come il tempo, ne fait rien à l'affaire). In realtà, quella teoria è una foglia di fico, messa a coprire un procedimento, di cui lo storico, che è uomo di pensiero e di critica, si vergogna: l'arbitrio, un arbitrio che torna comodo, ma che appunto perciò è arbitrio. E la foglia di fico è pur indizio di pudore, e come tale ha il suo pregio; ché, se quel pudore si perde, c'è caso che si finisca col dichiarare che le "cause", alle quali arbitrariamente si è fatta fermata, sono le cause "ultime" e le cause "vere", innalzando così il proprio individuale arbitrio ad atto creativo del mondo e atteggiandolo a Dio, al Dio di certi teologi, il cui arbitrio è verità. Non vorrei, dopo aver detto questo, citare di nuovo proprio il Taine (scrittore assai rispettabile, non certo per la sua forma mentale, ma per la sua fede entusiastica nella scienza); e nondimeno mi conviene citarlo. Il Taine, giunto nella sua ricerca di cause a una causa, che egli chiama a volte la "razza", a volte il "secolo", - per esempio, nella sua storia della letteratura inglese, al concetto di "uomo del Nord" o "Germano", col carattere e l'ingegno che a questo sarebbero propri, la frigidezza dei sensi, l'amore per le idee astratte, la rozzezza del gusto e il disdegno per l'ordine e la regolarità, - afferma gravemente: "Là s'arrête la recherche: on est tombé sur quelque disposition primitive, sur quelque trait propre à toutes les sensations, à toutes les conceptions d'un siècle ou d'une race, sur quelque particularité inséparable de toutes les démarches de son esprit et de son coeur. Ce sont là les grandes causes, les causes universelles et permanentes...". Che cosa di primitivo e d'insormontabile sia in ciò, sapeva l'immaginazione del Taine, ma la critica ignora; perché la critica chiede che si dia la genesi dei fatti o dei gruppi di fatti che si designano coi nomi di "secolo" e di "razza", e, nel richiedere tale genesi, li dichiara insieme né "universali" né "permanenti ", perché "fatti universali e permanenti ", che si sappia, non ve ne sono, e non sono tali, nonché le Germain e l'Homme du Nord, nemmeno, direi, le mummie, che durano alcuni millenni ma non in perpetuo, e si alterano lentamente, ma si alterano.

Cosicché, chiunque pensi secondo la concezione deterministica della storia, sempre che voglia astenersi dal troncare con l'arbitrio e con l'immaginazione la ricerca iniziata, è condotto di necessità a riconoscere che il metodo adottato non raggiunge il fine che si persegue; e poiché, d'altra parte, si è cominciato, sia pure con metodo insufficiente, a pensare la storia, non ci sono altri partiti che: o rifarsi da capo, cangiando strada, o andare innanzi, cangiando direzione. Il presupposto naturalistico, che rimane ancora saldo ("prima raccogliere i fatti, poi cercarne le cause": quale cosa più evidente e più ineluttabile di questa?), spinge di necessità al secondo partito. Ma appigliarsi al secondo partito è oltrepassare il determinismo, è trascendere la natura e le sue cause, è proporre un metodo opposto al precedente, ossia rinunziare alla categoria di causa per un'altra, che non può essere se non quella di fine; e di fine estrinseco e trascendente, che è l'analogo opposto che corrisponde alla causa. Ora, la ricerca del fine trascendente è la "filosofia della storia".

A questa ricerca il naturalista conseguente (e chiamo tale colui che "seguita a pensare", o, come si dice comunemente, trae le conseguenze) non si può sottrarre, e non si sottrae in effetto giammai, comunque concepisca la sua nuova ricerca; nemmeno quando prova a sottrarvisi, dichiarando inconoscibile il fine o la "causa ultima", perché (come altresì è noto) un inconoscibile affermato è un inconoscibile in qualche modo conosciuto. Il naturalismo si corona sempre di una filosofia della storia, quale che sia la forma delle sue sistemazioni: o che l'universo venga da esso spiegato con gli atomi che si accozzano e col loro vario accozzarsi e danzare producono il corso storico, al quale possono altresì mettere termine col tornarsene alla primitiva dispersione; o che chiami il Dio ascoso Materia o Incosciente o in altro modo; o, infine, che lo concepisca come una Intelligenza che si vale, per mettere in atto i suoi consigli, della catena delle cause. E, per converso, ogni filosofo della storia è un naturalista, e tale è perché è dualista, e concepisce un Dio e un mondo, un'Idea e un fatto oltre o sotto l'Idea, un Regno dei fini e un Regno o sottoregno delle cause, una città celeste e un'altra più o meno diabolica o terrena. Si prenda qualsiasi costruzione di determinismo storico, e si troverà o scoprirà in essa, esplicita o sottintesa, la trascendenza (nel Taine, per esempio, reca il nome di "Race" o di "Siècle", vere e proprie deità); e si prenda qualsiasi costruzione di "filosofia della storia", e vi si scopriranno il dualismo e il naturalismo (nello Hegel, per esempio, in quel suo ammettere fatti ribelli e impotenti, che resistono o non sono degni del dominio dell'Idea). E si vedrà sempre più chiaramente come dalle viscere del naturalismo venga fuori, incoercibile, la "filosofia della storia".

II
Ma la "filosofia della storia" è altrettanto contradittoria quanto la concezione deterministica da cui sorge e a cui si oppone. Perché essa, avendo accettato e oltrepassato insieme il metodo del congiungere tra loro i fatti bruti, non trova più innanzi a sé fatti da congiungere (che sono stati già congiunti, come si poteva, mercé la categoria di causa), sibbene fatti bruti, ai quali deve conferire, non più un legamento ma un "significato", e rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, di una teofania. Ora quei fatti in quanto bruti sono mutoli, e la trascendenza del processo richiede, per essere concepita e rappresentata, un organo che non sia quello del pensiero che pensa, ossia produce i fatti, ma un organo extralogico (per esempio, un pensiero che proceda astrattamente a priori: Fichte), il quale non si trova nello spirito se non come momento negativo, come il vuoto del pensiero logico effettivo. E il vuoto del pensiero logico è occupato immediatamente dalla praxis, o, come si dice, dal sentimento, che poi, rifrangendosi teoricamente, si atteggia a poesia. Carattere poetico, che è evidente in tutte le "filosofie della storia": sia in quelle antiche, che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o d'individui verso l'egemonia, o dell'uomo verso il bene e la verità: sia in quelle moderne e modernissime, che s'ispirano ai vari nazionalismi ed etnicismi (l'italico, il germanico, lo slavo, ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà, o come il passaggio dall'Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella poesia, i fatti non sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini; e perciò non ci sarebbe luogo a censura, se qui si rimanesse nella pura poesia. Ma non vi si rimane, perché quelle immagini e parole sono ora poste come idee e fatti, e cioè come miti: miti il Progresso, la Libertà, l'Economia, la Tecnica, la Scienza, sempre che siano concepiti come motori esterni ai fatti; miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità. Ed ecco perché la concezione deterministica, dopo avere prodotto la "filosofia della storia" che le fa contrasto, è costretta a contrastare a sua volta la propria figliuola, e ad appellarsi dal regno dei fini a quello delle connessioni causali, dall'immaginazione all'osservazione, dai miti ai fatti.

La confutazione reciproca del determinismo storico e della filosofia della storia, che fa dell'una e dell'altro due vuoti o due niente, cioè un unico vuoto e niente, sembra invece, come suole, agli eclettici il compiersi reciproco di due entità, che stringono o dovrebbero stringere tra loro un'alleanza per sorreggersi a vicenda. E poiché l'eclettismo, mutato nomine, infierisce nella filosofia contemporanea, non è meraviglia che si trovi di frequente assegnato alla storia, oltre l'ufficio d'investigare le cause, quello del "significato" o del "piano generale" del corso storico (si vedano i lavori sulla "filosofia della storia" del Labriola, del Simmel, del Rickert); e poiché gli scrittori di metodiche sogliono essere empirici, e perciò eclettici, anche tra es'si è vulgata la partizione della storia in istoria che si fa col radunare e criticare i documenti e ricostruire gli accadimenti, e in "filosofia della storia" (si veda per tutti il manuale del Bernheim); e, infine, poiché eclettico è il pensiero ordinario, niente è più facile che raccogliere consenso intorno alla tesi: che la semplice storia, la quale offre la serie dei fatti, non basta, e che si richiede che il pensiero torni sopra la costituita catena dei fatti per iscoprirvi il disegno riposto e per rispondere alle domande del donde veniamo e del dove andiamo; cioè che, accanto alla storia, debba porsi una "filosofia della storia". Questo eclettismo, che sostanzializza due opposte vacuità e fa che l'una dia la mano all'altra, tenta perfino talvolta di superare sé stesso e di fondere quelle due finte scienze o parti di scienza. E allora si ode difendere la "filosofia della storia", ma con la cautela, che essa debba essere condotta con metodo "scientifico" e "positivo", mercé la ricerca causale, e svelare per tal modo l'azione della ragione o della Provvidenza divina: - programma nel quale altresì il pensiero volgare tosto consente, ma che poi non si riesce a eseguire. Niente di nuovo, neanche qui, per gl'intendenti: la "filosofia della storia", da costruire coi "metodi positivi", la trascendenza da dimostrare coi metodi della falsa immanenza, è, nel campo degli studi storici, l'esatto equivalente
di quella "metafisica da costruire con metodo sperimentale", che i neocritici (Zeller e altri) raccomandavano, e che anch' essa pretendeva, non già superare due vacuità che reciprocamente si confutano, ma accordarle tra loro, e, dopo averle sostanzializzate, combinarle in unica sostanza. Cose che, per significarne l'impossibilità, io non chiamerei prodigi da alchimista (la metafora mi sembrerebbe troppo alta), ma sì, piuttosto, intrugli da cattivi cuochi.

III
Tutt'altro è il rimedio efficace alle contradizioni del determinismo storico e della "filosofia della storia"; e, per ottenerlo, bisogna accettare il risultamento della reciproca confutazione, che li vanifica entrambi, e rifiutare, perché privi di pensiero, così i "disegni" della filosofia della storia, come le "catene causali" del determinismo. E, dissipate queste due ombre, ci ritroviamo al punto di partenza: siamo innanzi di nuovo ai fatti bruti e slegati, ai fatti assodati ma non intesi, pei quali il determinismo aveva procurato di adoprare il cemento della causalità, e la "filosofia della storia", la bacchetta magica della finalità. - Che cosa faremo di questi fatti? Come li renderemo da opachi traslucidi? da disorganici, organici? da inintelligibili, intelligibili? Veramente, sembra difficile fame qualcosa, e, soprattutto, eseguire di essi la trasformazione invocata. Lo spirito è impotente innanzi a ciò che gli è, ossia si suppone che gli sia, estraneo. E, concepiti i fatti a quel modo, si è tentati a ripigliare l'atteggiamento di disprezzo dei filosofi verso la storia, mantenutosi quasi costante dall'antichità (per Aristotele la storia era "meno filosofica" e "meno grave" della poesia, e per Sesto Empirico "materia ametodica"), fin quasi alla fine del secolo decimottavo (Kant non intese né sentì la storia): ai filosofi le idee, agli storici i fatti bruti: contentiamoci delle cose serie e lasciamo ai bambini i loro balocchi.

Ma, prima di cedere a siffatta tentazione, sarà prudente chiedere consiglio al dubbio metodico (che riesce sempre assai utile), e volgere l'attenzione appunto su quei fatti bruti e sconnessi, dai quali la ricerca causale asserisce di prendere le mosse, e innanzi ai quali noi, abbandonati ormai da essa e dal suo complemento, la filosofia della storia, sembra che siamo tornati. E il dubbio metodico ci suggerirà innanzi tutto il pensiero: che quei fatti sono un presupposto non provato: e ci indurrà quindi a esaminare se la prova si possa fare; e, mettendoli al cimento della prova, ci porterà, in fine, alla conclusione, che quei fatti, realmente, non esistono.

Chi, infatti, afferma la loro esistenza? Per l'appunto, lo spirito nell'atto che si accinge alla ricerca delle cause. Ma lo spirito, in quell'atto, non possiede prima i fatti bruti ("d'abord, la collection des faits"), e poi ne cerca le cause ("après, la recherche des causes"); sibbene, con quell'atto stesso, rende bruti i fatti, cioè li pone lui così, perché gli giova così porli. La ricerca delle cause, che si esegue nella storia, non è niente di diverso dal procedere, più volte illustrato, del naturalismo, che analizza astrattamente e classifica la realtà. E analizzare astrattamente e classificare importa insieme astrattamente giudicare classificando; cioè trattare i fatti, non come atti dello spirito, consapevoli nel pensiero che li pensa, ma come fatti esterni o bruti. La Divina Commedia è quel poema che noi, leggendo, rifacciamo nella nostra fantasia in tutte le sue particolarità, e che criticamente intendiamo come una particolare determinazione dello spirito, e che perciò collochiamo mentalmente al suo posto nella storia con tutte le sue circostanze e in tutte le sue relazioni. Ma quando questa attualità della nostra fantasia e del nostro pensiero è trapassata, ossia quel processo mentale si è compiuto, siamo in grado, con un nuovo atto spirituale, di analizzarne astrattamente gli elementi; e costruendo,
per esempio, i concetti classifica tori i di "civiltà fiorentina" o di "poesia politica ), diremo che la Divina Commedia fu un effetto della civiltà fiorentina, e questa, a sua volta, delle lotte politiche dei Comuni, e simili. E ci saremo così, in pari tempo, aperta la strada a quei problemi assurdi, che tanto infastidivano il De Sanctis a proposito dell'opera di Dante, e ch'egli benissimo qualificava dicendo che sorgono solamente quando la viva impressione estetica si è raffreddata, e 1'opera poetica cade in balìa dei cervelli ottusi, vaghi di sciarade. Ma se ci arrestiamo a tempo e non entriamo nella strada aperta di quelle assurdità, se ci atteniamo al momento naturalistico puro e semplice, alla classificazione e al giudizio classificatorio (che è insieme connessione causale), in guisa affatto pratica, senza tirarlo a conseguenza, non faremo niente di men che legittimo, anzi eserciteremo un nostro diritto e ci piegheremo a una razionale necessità, che è quella del naturalizzare quando il naturalizzare giova e nei limiti entro cui esso giova. Talché, come puro naturalismo, il materializzamento dei fatti, e il loro legamento estrinseco o causale, è del tutto giustificato; e giustificata si dimostrerà perfino la massima di fermarsi alle cause "prossime" ossia di non spingere tant'oltre la classificazione, che essa perda qualsiasi utilità pratica. Porre in relazione la Divina Commedia col concetto di classe "civiltà fiorentina"potrà giovare; ma non gioverà punto, o infinitamente meno, porla in relazione col concetto di classe "civiltà indoeuropea", o "civiltà dell'uomo bianco".

IV
Torniamo, dunque, con maggiore fiducia al punto di partenza, al vero punto di partenza, cioè non a quello dei fatti già disorganizzati e naturalizzati, ma a quello della mente che pensa e costruisce il fatto; risolleviamo i volti avviliti dei calunniati "fatti bruti", e vedremo risplendere sulle loro fronti la luce del pensiero. E quel vero punto di partenza ci si mostrerà, non semplice punto di partenza, ma e di partenza e di arrivo; non il primo passo nella costruzione della storia, ma tutta la storia nella sua costruzione, che è poi il suo costruirsi. Il determinismo storico, e a più forte ragione la "filosofia della storia", si lasciano dietro le spalle la realtà della storia, verso la quale pur indirizzavano il loro viaggio, riuscito aberrante e viziosamente circolare.

Che questo che diciamo sia la verità, ce lo faremo confessare dall'ingenuo Taine, domandandogli che cosa intenda per "collection des faits", e apprendendo da lui in risposta che quella raccolta si compie in due stadi o momenti, nel primo dei quali i documenti vengono ravvivati per raggiungere, "à travers la distance des temps, 1'homme vivant, agissant, doué de passions, muni d'habitudes, avec sa voix et sa physionomie, avec ses gestes et ses habits, distinct et complet comme celui qui tout à 1'heure nous avons quitté dans la rue"; e nel secondo si cerca e scopre "sous l'homme extérieur l'homme intérieur", "l'homme invisible", "le centre", "le groupe des facultés et des sentiments qui produit le reste", "le drame intérieur", "la psychologie". - Altro, dunque, che "collections des faits"! Se le cose, che il nostro autore dice, si adempiono per davvero, se davvero si rivivono in fantasia gli individui e gli accadimenti, e se degli uni e degli altri si pensa l'interiorità, cioè se si esegue la sintesi d'intuizione e concetto che è il pensiero nella sua concretezza, la storia è bella e attuata: che cosa si desidera di più? non c'è da cercar altro. "C'è da cercar le cause!" aggiunge il Taine. Ossia, c'è da ammazzare il "fatto" vivo, pensato dal pensiero, e c'è da separarne gli astratti elementi, cosa utile senza dubbio, ma alla memoria e alla pratica; o ancora (come esso Taine adopera) fraintendere e sopravalutare questo ufficio dell'analisi astratta, andandosi a perdere nella mitologia delle Razze e dei Secoli, o in altra diversa e nondimeno simile. Guardiamoci dall'ammazzare i poveri fatti, se vogliamo pensare da storici; e, in quanto tali, in quanto effettivamente pensiamo, non sentiremo bisogno di ricorrere né al legame estrinseco delle cause (determinismo storico), né a quello parimente estrinseco dei fini trascendenti (filosofia della storia). Il fatto concretamente pensato non ha né causa né fine fuori di sé, ma solamente in sé stesso, coincidente con la sua reale qualità o con la sua qualitativa realtà. Perché (sarà opportuno notare di passata) la determinazione dei fatti come fatti reali bensì, ma d'ignota natura, asseriti e non compresi, è anch'essa un'illusione del naturalismo (che preannunzia così l'altra sua illusione, quella della "filosofia della storia"): nel pensiero, realtà e qualità, esistenza ed essenza, sono tutt'uno, e non si può affermare reale un fatto senza insieme conoscere qual fatto esso sia, cioè senza qualificarlo.

Tornando e restando, ossia movendoci nel fatto concreto, o, meglio, facendoci pensiero che pensa concretamente il fatto, noi sperimentiamo il continuo formarsi e il continuo progredire del nostro pensiero storico, e ci rendiamo anche chiara la storia della storiografia, che progredisce allo stesso modo. E vediamo come (mi restringo a un esempio per non lasciar vagare troppo lo sguardo) dai greci a noi l'intelligenza storica si sia fatta sempre più ricca e profonda, non già perché si siano mai rinvenute le cause astratte e i fini trascendenti delle cose umane, ma sol perché si è acquistata via via di esse una coscienza sempre più ricca; e politica e morale e religione e filosofia e arte e scienza e cultura ed economia sono diventate concetti più complessi, e insieme meglio determinati e unificati in sé medesimi e col tutto; e correlativamente, le storie di quelle forme di attività sono diventate sempre più complesse e più saldamente une. Le "cause" della civiltà le conosciamo così poco noi come i greci; e così poco noi come i greci conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le umane fortune. Ma noi conosciamo meglio dei greci la teoria della civiltà, e, tra l'altro, sappiamo (com'essi non sapevano, o non sapevano con altrettanta chiarezza e sicurezza) che la poesia è una forma eterna dello spirito teoretico; che il regresso o decadenza è un concetto relativo; che il mondo non è diviso in idee e ombre delle idee, o in potenze ed atti; che la schiavitù non è una categoria del
reale, ma una forma storica dell'economia; e via discorrendo. E perciò non ci accade più (salvo che ai sopravvissuti o ai fossili, che pur sono tra noi) di tessere la storia della poesia passando a rassegna i fini pedagogici che si sarebbero proposti i poeti; ma intendiamo a determinare invece le forme espressive dei loro sentimenti: né restiamo smarriti innanzi alle così dette "decadenze", ma ricerchiamo che cosa di nuovo e di superiore si andò, attraverso la dialettica di esse, elaborando; - né consideriamo misera e illusoria l'opera dell'uomo e solo degni di ammirazione e d'imitazione il sospiro al cielo e la congiunta ascesi, avversa alla terra: ma nell'atto riconosciamo la realtà della potenza e nelle ombre la saldezza delle idee, e nella terra il cielo; - né, infine, ci sentiamo mancare la possibilità della vita sociale per effetto della sparizione dell' economia a schiavi: sparizione che sarebbe stata la catastrofe della realtà, se nella realtà fossero schiavi per natura; e via discorrendo.

Questo concetto della storia e la considerazione del lavoro storiografico nel suo intrinseco ci mettono in grado altresì di usare giustizia verso il determinismo storico e la "filosofia della storia", che, col loro continuo risorgere, hanno continuamente additato le lacune del nostro sapere così storico come filosofico, e con le loro soluzioni immaginose hanno precorso le soluzioni dialettiche e storiche dei nuovi problemi che si sono andati ponendo; né è detto che smetteranno da ora in poi di esercitare tale ufficio (che è l'ufficio benefico delle utopie di ogni sorta). E quantunque, come meramente astratti e negativi, il determinismo storico e la "filosofia della storia" non abbiano storia perché non si svolgono, dalla relazione in cui essi sono con la storia ricevono un contenuto che si svolge, cioè la storia si svolge in essi, nonostante il loro involucro, estrinseco al contenuto, costringendo a pensare anche chi si propone di schematizzare e d'immaginare senza pensare. Ché, in verità, è da porre gran divario tra il determinismo che può risorgere ora, dopo Cartesio e Vico e Kant e Hegel, e quello che sorse dopo Aristotele; tra la filosofia della storia di Hegel o di Marx, e quella dello gnosticismo o del cristianesimo. Trascendenza e falsa immanenza travagliano, rispettivamente, tutte queste concezioni; ma le forme astratte e le mitologie, nate in più matura epoca del pensiero, racchiudono in sé questa nuova maturità; e, per soffermarci solamente (lasciando da parte i vari naturalismi) sul caso delle "filosofie della storia", si avverte già una bella differenza dalla filosofia della storia, che domina nel mondo omerico, a quella di Erodoto, il cui concetto dell'invidia degli dèi è quasi un'idea di legge morale, che risparmia gli umili e calca i superbi; e da questa al fato degli stoici, che è una legge alla quale gli stessi dèi sono sottoposti; e poi al concetto della Provvidenza, che spunta nella tarda antichità, della sapienza che regge il mondo; e ancora da questa provvidenza pagana alla cristiana, che è giustizia divina, preparazione evangelica e cura educativa del genere umano; e via via alla provvidenza affinata dai teologi, che esclude d'ordinario l'intervento miracoloso e opera per cause seconde, e a quella del Vico, che opera come dialettica dello spirito, e alla Idea dello Hegel, che è graduale conquista, che la libertà, attraverso la storia, fa della propria coscienza; o, infine, alla mitologia ancora persistente del Progresso e della Civiltà, che tenderebbero al definitivo sgombramento dei pregiudizi e delle superstizioni da conseguire mercé la crescente forza e divulgazione della scienza positiva.

Per tal modo, la "filosofia della storia" e il determinismo storico raggiungono a volte la sottigliezza e la trasparenza di un velo, che copre e scopre insieme la concretezza del reale nel pensiero; e le meccaniche "cause" appaiono idealizzate, e le trascendenti "deità" umanate, e i fatti svestono gran parte del loro aspetto brutale. Ma, per sottile che sia il velo, è velo, e per ischietta che sembri la verità, non è del tutto schietta, perché permane pur sempre nel fondo la falsa persuasione che la storia si costruisca col "materiale" dei fatti bruti, col "cemento" delle cause e con la "magia" dei fini, come con tre successivi o concorrenti metodi. È il caso medesimo della religione, la quale, nelle menti alte, si libera quasi del tutto dalle volgari credenze, come negli animi alti la sua etica si affranca quasi del tutto dall'eteronomismo del comando divino e dall'utilitarismo del premio e della pena. Quasi del tutto, ma non del tutto; e perciò la religione non sarà mai filosofia, se non negandosi; e così la "filosofia della storia" e il determinismo storico, solo negandosi, diventeranno storia. Sempre che in qualche misura essi persistano in modo positivo, persisterà insieme il dualismo, e il conseguente angoscioso scetticismo o agnosticismo.

La negazione della filosofia della storia nella storia concretamente intesa è la sua ideale dissoluzione; e, poiché quella cosiddetta "filosofia" non è altro che un momento astratto e negativo, è chiaro per quale ragione da noi si affermi che la filosofia della storia è morta: morta nella sua positività, morta come corpo di dottrine; morta, a questo modo, con tutte le altre concezioni e forme del trascendente. E io non vorrei appiccare alla mia breve (ma, a mio credere, bastevole) trattazione di tale argomento, la giunta di una dilucidazione che sembrerà ad alcuni (come sembra a me stesso) poco filosofica e persino alquanto triviale. Nondimeno, preferendo al rischio dell'equivoco quello della semitrivialità, aggiungerò che, come la critica dei "concetti" di causa e di finalità trascendente non vieta di adoperare queste "parole" quando siano semplici parole (e, per esempio, di parlare immaginosamente della Libertà come di una dea, o di dire, nell'accingersi a uno studio su Dante, che s'intende "ricercare la causa" o "le cause" di questa o quell'azione e opera di lui), - così niente vieta di seguitare a parlare di "filosofia della storia", e di un "filosofare sulla storia", per significare l'esigenza di una elaborazione o di una migliore elaborazione di questo o di quel problema storico. E neanche è vietato chiamare "filosofia della storia" le ricerche di gnoseologia storica, sebbene in questo caso si elabori la filosofia, non propriamente della storia, ma della storiografia: due cose che sogliono essere designate in italiano, come in altre lingue, da un medesimo vocabolo. E nemmeno, infine, si vuole impedire di affermare (come fece, anni addietro, un professore tedesco) che la "filosofia della storia" debba trattarsi come "sociologia", cioè d'insignire di quel vecchio titolo la cosiddetta Sociologia, scienza empirica dello Stato, della società e della cultura.

Queste denominazioni sono tutte permesse, in virtù del medesimo diritto che l'avventuriere Casanova invocava innanzi al magistrato per giustificarsi di aver cangiato nome: "il diritto che ogni uomo ha sulle lettere dell'alfabeto". Ma la questione, trattata di sopra, non è stata di lettere dell'alfabeto; e la "filosofia della storia", della quale abbiamo sommariamente mostrato la genesi e la dissoluzione, non è già un nome, che variamente si adoperi, ma una determinatissima concezione della storia: la concezione trascendente.

(Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 71-90 dell'edizione Adelphi 1989)

Benedetto Croce - Teoria e storia della storiografia - Filosofia e Metodologia

Queste pagine sembrano ancora fatte per fare arrabbiare i filosofi professionali (specie quelli "continentali"). Fa pensare che l'unico progetto di filosofia affine nel metodo a queste istanze crociane sia stata la filofia analitica, da lui lontanissima. Però, tutto sommato l'incompatibilità tra lo storicismo Crociano e la filosofia analitica dipese da due divergenze sul punto di partenza di questa ultima: in primo luogo la superstizione che la lingua a doppia articolazione sia un mezzo espressivo di qualità logicamente superiore a ogni altro, e la conseguente aridità estetica. In secondo luogo, l'incapacità della filosofia analitica di concepire come relativi i valori illuministici del nostro tempo, se non a prezzo di cadere in forme di scetticismo scolastico.
Ma la filosofia analitica dell'ultima generazione ha mostrato una sensibilità per l'estetica e per la storia in cui resta ben poco delle premesse originarie. Cosa significa ciò? Forse che il Croce di cento anni fa era un filosofo dalle vedute più vaste di quanto non si creda?

Appendice III - FILOSOFIA E METODOLOGIA

Stabilita l'unità di filosofia e storiografia, e mostrato che la partizione tra le due non ha altro valore che letterario e didascalico, perché si fonda sulla possibilità di collocare in primo piano nell'esposizione verbale ora l'uno ora l'altro dei due elementi dialettici di quell'unità, giova mettere bene in chiaro quale sia propriamente l'oggetto delle trattazioni designate col nome tradizionale di "teoria" o di "sistema" filosofico: a che cosa (per dirla in breve) si riduca la Filosofia.

La Filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata posta, non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della Storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi dell'interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (o di altro, se altro si riesca ad escogitare), e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell'Estetica e della Logica, dell'Economica e dell'Etica, e tutte le congiunge e risolve nella Filosofia dello spirito. Se un problema filosofico si dimostra affatto sterile pel giudizio storico, si ha in ciò la prova che quel problema è ozioso, malamente posto, e in realtà non sussiste. Se la soluzione di un problema, cioè una proposizione filosofica, invece di rendere meglio intelligibile la storia, la lascia oscura o la intorbida o vi salta sopra e la condanna e la nega, si ha in ciò la prova che quella proposizione, e la filosofia con la quale si lega, è arbitraria, se anche possa serbare interesse per altri rispetti, come manifestazione del sentimento e della fantasia.

La definizione della Filosofia come "metodologia" non va sulle prime esente da dubbi, anche per parte di chi è disposto ad accettare in genere la tendenza ch' essa designa; perché filosofia e metodologia sono due termini di frequente messi in contrasto, e una filosofia che versi nella metodologia suole ricevere taccia di empirismo. Ma certamente la metodologia, della quale qui s'intende discorrere, non è niente di empirico, anzi viene appunto a correggere e sostituire l'empirica metodologia degli storici di mestiere e di altrettali specialisti in tutta quella sua maggior parte nella quale essa è un vero e proprio, sebbene manchevole, conato verso la soluzione filosofica dei problemi teorici suscitati dallo studio della storia, ossia verso la metodologia filosofica e la filosofia come metodologia.

Per altro, se l'anzidetto contrasto si risolve tosto che si accenna, non accade il medesimo di un'altra opposizione nella quale il concetto da noi sostenuto si trova col concetto assai antico e largamente divulgato della filosofia come risolutrice del mistero dell'universo, conoscenza della realtà ultima, rivelazione del mondo noumenico, che sarebbe di là dal fenomenico nel quale ci aggireremmo nella vita ordinaria e si aggirerebbe la considerazione storica. Non è il caso di delineare qui la storia di tale concetto; ma questo almeno bisogna dire, che la sua origine è religiosa o mitologica, e che esso persistette persino nei filosofi che più validamente avviarono il pensiero verso l'unica realtà dell'umano e del mondano, e iniziarono la nuova filosofia come metodologia del giudizio ossia della conoscenza storica. Persistette nel Kant, che l'ammise come limite della sua critica; persistette nello Hegel, che inquadrò le sue squisite ricerche di logica e di filosofia dello spirito in una sorta di mitologia dell'Idea.

Tuttavia la diversità tra i due concetti fu avvertita in modo sempre più vivace, e si espresse nelle varie formole che, nel corso del secolo decimonono, opposero alla metafisica la psicologia, alla filosofia aprioristica e trascendente una filosofia dell'esperienza e immanente, all'idealismo il positivismo; e sebbene di solito la polemica fosse infelicemente condotta e, andando oltre il segno, finisse col riabbracciare inconsapevolmente quella metafisica, quel trascendente e aprioristico, quell'idealismo astratto che si proponeva di combattere, l'esigenza che vi si disegnava era legittima. E la Filosofia come Metodologia l'ha fatta sua, e ha combattuto con migliori armi il medesimo avversario, e ha propugnato una concezione psicologica bensì ma di psicologia speculativa, immanente alla storia ma dialetticamente immanente, e diversa in ciò dal positivismo che, laddove questo rendeva contingente il necessario, essa rende necessario il contingente, affermando il diritto egemonico del pensiero. Una tale filosofia è appunto la filosofia come storia (e perciò la storia come filosofia), e la determinazione del momento filosofico nel momento puramente categorico e metodologico.

Il maggior vigore di questa concezione verso l'opposta, la superiorità della filosofia come Metodologia sulla filosofia come Metafisica, è dimostrata dalla capacità della prima a risolvere, criticandoli e assegnandone la genesi, i problemi della seconda; laddove la Metafisica non è capace di risolvere, non solo quelli della Metodologia, ma nemmeno i propri problemi senza dare nel fantastico e nell'arbitrario. Così le questioni sulla realtà del mondo esterno, sull'anima-sostanza, sull'inconoscibile, sui dualismi e sulle antinomie, e via dicendo, si sono disciolte nelle dottrine gnoseologiche che hanno sostituito migliori concetti a quelli che prima si possedevano intorno alla logica delle scienze, e spiegato quelle questioni come aspetti eternamente rinascenti ed eternamente
superabili della dialettica o fenomenologia della conoscenza.

Senonché il concetto della filosofia come metafisica è così inveterato e così tenace, che non è meraviglia se esso dia ancora qualche guizzo di vita nelle menti di coloro che se ne sono bensì liberati in genere, ma non l'hanno attentamente perseguitato in tutti i particolari, né hanno chiuso tutte le porte per le quali può introdursi più o meno inavvertito. E se ora di rado lo s'incontra nella sua diretta e scoperta presenza, è dato discernerlo o sospettarlo in alcuni suoi aspetti ed atteggiamenti, che rimangono quasi pieghe prese dagl'intelletti o come preconcetti inconsapevoli, e offrono il pericolo di risospingere la Filosofia come metodologia in vie fallaci, e di preparare la restaurazione, sia anche efimera, della sorpassata Metafisica.

E di alcuni di questi preconcetti e tendenze ed abiti mi sembra opportuno dare chiaro enunciato, additando l'errore che essi contengono o traggono seco.

Prima ci si presenta, tra le sopravvivenze del passato, l'ammissione, ancora assai comune, di un problema fondamentale della filosofia. Ora il concetto di un problema fondamentale è intrinsecamente contrastante a quello della filosofia come storia e della trattazione della filosofia come metodologia della storia, il quale pone, e non può non porre, l'infinità dei problemi filosofici, tutti bensì connessi organicamente tra loro, ma dei quali nessuno può dirsi fondamentale, per l'appunto come in un organismo nessuna singola parte è il fondamento delle altre tutte, ma ciascuna è, a volta a volta, fondamento e fondata. Se, infatti, la metodologia toglie la materia dei suoi problemi dalla storia, la storia, nella sua modesta ma concretissima forma di storia di noi medesimi, di ciascuno di noi come individuo, ci mostra che noi trascorriamo di problema in problema filosofico particolare sotto la sollecitazione della nostra vita vissuta, e, secondo le epoche di questa, uno o altro gruppo o classe di problemi tiene il campo o ha per noi interesse preponderante. E se guardiamo al più largo ma meno determinato spettacolo che offre la cosiddetta storia generale della filosofia, osserviamo il medesimo: che cioè, secondo i tempi e i popoli, ora i problemi filosofici della morale ora quelli della politica ora della religione ora delle scienze naturali e delle matematiche hanno avuto le prime parti; e che sempre, certamente, ogni particolare problema filosofico è stato, in modo espresso o sottinteso, problema di filosofia totale, ma non mai s'incontra, per la con tradizione che nol consente, un problema generale, per sé stante, della filosofia. E se uno pare che ce ne sia (e pare certamente così), si tratta, in verità, di una parvenza, generata da ciò che la filosofia moderna, uscita dalla filosofia del medioevo ed elaborata attraverso le lotte religiose della Rinascenza, ha serbato, nella sua forma didascalica non meno che nella disposizione psicologica della maggior parte dei suoi cultori, forte impronta di teologia: onde !'importanza fondamentale e quasi unica che usurpava il problema della relazione tra Pensiero ed Essere, che era poi nient'altro che la forma critica e gnoseologica dell'antico problema del mondo e dell'altro mondo, della terra e del cielo. Ma coloro che distrussero o iniziarono la distruzione del cielo e dell'altro mondo, e della filosofia trascendente per la filosofia immanente, nello stesso atto distrussero e cominciarono a corrodere il concetto di un problema fondamentale, sebbene di ciò non si avvedessero a pieno (epperò si è detto di sopra che restarono impigliati nella filosofia della Cosa in sé o nella mitologia dell'Idea). Quel problema era a buon diritto fondamentale per gli spiriti religiosi, che tenevano esser nulla tutto il dominio intellettuale e pratico del mondo se non avessero salvato in un altro mondo, nella conoscenza del mondo noumenico e veramente reale, l'anima propria o il proprio pensiero; ma tale non doveva più rimanere pei filosofi, ormai ristretti solo al mondo o alla natura, che non ha nòcciolo né corteccia ed è tutto di un getto. Riammettendo la concezione di un problema fondamentale, primeggiante sugli altri tutti, che cosa accadrebbe? Gli altri problemi o sarebbero da considerare tutti come dipendenze del primo, e perciò risoluti col primo; o come problemi non più filosofici, ma empirici. Cioè tutti i problemi, che ogni giorno ci sorgono sempre nuovi dalla scienza e dalla vita, sarebbero degradati, e o diventerebbero una tautologia della soluzione fondamentale o resterebbero commessi alla trattazione empirica: riproducendosi così la distinzione tra filosofia e metodologia, tra metafisica e filosofia dello spirito, trascendente la prima rispetto alla seconda e la seconda afilosofica rispetto alla prima.

Un'altra tendenza, proveniente dalla vecchia concezione metafisica dell'ufficio della filosofia, porta a spregiare la distinzione per l'unità, conformandosi anch'essa al concetto teologico, che tutte le distinzioni si unificano sommergendosi in Dio, e all'atteggiamento religioso, che nella visione di Dio dimentica il mondo e le sue necessità. Nasce da ciò una disposizione tra indifferente, accomodante e molle rispetto ai problemi particolari, e quasi si ripristina tacitamente la perniciosa dottrina della doppia facoltà, della intuizione intellettuale o altra superiore facoltà conoscitiva che sarebbe propria del filosofo e condurrebbe alla visione della vera realtà, e della critica o pensiero che indugerebbe nel contingente e serberebbe una dignità di gran lunga minore e potrebbe procedere con una mancanza di rigore speculativo, che all'altra non sarebbe consentita. Tale disposizione ingenerò pessime conseguenze nelle trattazioni filosofiche della scuola hegeliana, nelle quali di solito quegli scolari (diversamente dal maestro) mostrarono di avere poco o punto ricercato e meditato nei problemi delle varie forme spirituali, accogliendo volentieri intorno ad essi le opinioni volgari o entrandovi in mezzo con noncuranza di uomini sicuri dell' essenziale, e perciò tagliandoli e mutilandoli senza pietà per ridurli in fretta e furia nei loro schemi prestabiliti e spacciarsene con quell'illusorio collocamento: donde la vacuità e la noia delle loro filosofie, dalle quali lo storico, ossia colui che si volgeva a intendere la realtà particolare e concreta, non riusciva ad apprender nulla: nulla che gli fosse di aiuto a meglio indirizzare le sue indagini e a formare in modo più perspicuo i suoi giudizi. E poiché la mitologia dell'Idea ricomparve come mitologia dell'Evoluzione nel positivismo, anche in questo i problemi particolari (che sono poi i soli problemi filosofici) ricevettero schematico e vacuo trattamento e non progredirono di un passo. La filosofia come storia e metodologia della storia rimette in onore la virtù dell'acume ossia del discernimento, che l'unitarismo teologico della metafisica tendeva a spregiare: il discernimento, che è prosaico ma severo, che è duro e penoso ma proficuo, che prende talvolta non simpatico aspetto di scolasticismo e pedanteria, ma anche in questo aspetto è giovevole, come ogni disciplina; e stima che la trascuranza della distinzione per l'unità sia anch'essa in intimo contrasto con la concezione della filosofia come storia.

Una terza tendenza (e mi sia permesso qui per ragioni di comodo e di perspicuità andare distaccando con enumerazione i vari lati di un medesimo atteggiamento mentale), una terza tendenza va ancora in cerca della filosofia definitiva: non ammaestrata dalla storica esperienza, che prova come nessuna filosofia sia stata mai definitiva ossia abbia posto termine al pensare, né ben compenetrata dalla persuasione che il perpetuo cangiare della filosofia col mondo che cangia in perpetuo non è già un difetto, ma è la natura stessa del pensiero e del reale. O, piuttosto, quell'ammaestramento e questa proposizione non rimangono al tutto senz'ascolto; e si è portati a riconoscere che lo spirito, crescendo in eterno sopra sé medesimo, produce pensieri e sistemazioni sempre nuove. Ma poiché si è mantenuto il preconcetto del problema fondamentale, il quale (come si è detto) è sostanzialmente l'antico e unico problema religioso o della rivelazione, e ciascun problema ben determinato comporta un'unica soluzione, la soluzione che si dà del "problema fondamentale" ha necessariamente pretesa di soluzione definitiva della filosofia stessa. Una nuova soluzione non potrebbe sorgere se non con un nuovo problema (in forza della logica unità di problema e soluzione): e quel problema, superiore agli altri tutti, è invece unico. Sicché la filosofia definitiva, contenuta come esigenza nella concezione del problema fondamentale, contrasta con l'esperienza storica, e più insanabilmente, perché in modo più logicamente evidente, con la filosofia come storia, la quale, come ammette infiniti problemi, così toglie la pretesa e l'aspettazione di una filosofia definitiva. Ogni filosofia è definitiva bensì pel problema presente che risolve, ma non già per quello che nasce subito dopo, a piede del primo, e per gli altri che nasceranno da questo. Chiudere la serie varrebbe tornare dalla filosofia alla religione e riposarsi in Dio.

Infatti, il quarto preconcetto, che passiamo a enunciare, e che si congiunge ai precedenti e, insieme coi precedenti tutti, alla natura teologica della vecchia metafisica, concerne appunto la figura del filosofo, quasi Buddha o "risvegliato", che si pone superiore agli altri (e a sé stesso, nei momenti nei quali non è filosofo), perché, mercé la filosofia, si tiene ormai liberato dalle umane illusioni, passioni e agitazioni. La qual cosa è propria del credente, che, affisandosi in Dio, scuote da sé le terrene cure; al modo stesso dell'amante, che nel possesso della creatura amata si sente beato e sfida il mondo intero: quantunque poi sopra il credente come sopra l'innamorato il mondo non tardi a vendicarsi e a far valere i suoi diritti. Ma quella illusione è impossibile al filosofo storico che, diverso dall'altro, si sente ineluttabilmente preso nel corso della storia, soggetto e oggetto insieme di storia, e che perciò è tratto a negare la felicità o beatitudine come ogni altra astrattezza (perché, com'è stato ben detto, le bonheur est le contraire de la sensation de vivre) , e ad accettare la vita qual è, come gioia che supera il dolore e produce in perpetuo nuovi dolori per nuove instabili gioie. E la storia, che esso pensa come sola verità, è opera del pensiero infaticabile, che condiziona l'opera pratica, come l'opera pratica condiziona la nuova opera del pensiero; cosicché il primato, che fu già attribuito alla vita contemplativa, viene ora trasferito non già alla vita attiva, ma alla vita nella sua integralità, che è ad una pensiero e azione. E filosofo è (nella sua cerchia, angusta o larga che sembri) ogni uomo, e ogni filosofo è uomo, indissolubilmente legato alle condizioni della vita umana, che non è dato in niun modo trascendere. Il filosofo mistico o apolitico della decadenza greco-romana poteva bene distaccarsi dal mondo; i grandi pensatori, che inaugurarono la filosofia moderna, potevano, come lo Hegel, pur negando con l'effettivo loro pensiero il primato dell'astratta vita contemplativa, ricadere nell' errore di questo primato e concepire una sfera dello spirito assoluto e, per giungere ad essa, un processo di liberazione mercé l'arte, la religione o la filosofia: ma la figura, già sublime, del filosofo beato nell'Assoluto, quando si cerchi di rinnovarla nel nostro mondo moderno, si tinge di comico. Vero è che la satira trova ormai poca materia sopra cui esercitarsi, ed è ridotta ad avventare i suoi strali contro i "professori di filosofia" (secondo il tipo che del filosofo hanno elaborato le università moderne, e che è in più parti erede del "maestro di teologia" delle università medioevali): contro i professori in quanto, ripetendo meccanicamente viete e generiche sentenze, sembrano incommossi dalle passioni e chiusi ai problemi che urgono loro intorno e che invano loro chiedono cose più concrete ed attuali. Ma l'ufficio e la figura sociale del filosofo sono ora profondamente cangiati; e non è detto che a poco a poco non cangeranno a lor guisa anche i "professori di filosofia", cioè che il modo di considerare e insegnare la filosofia nelle università e nelle altre scuole non sia per entrare in crisi, fino ad espungere da sé gli ultimi formalistici residui del modo medioevale di filosofare. Un forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo ideale: che tutti gli studiosi delle cose umane, giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e il filosofo in generale, il purus philosophus, non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sapere. Con la sparizione del filosofo "in generale", sparirebbe l'ultimo vestigio sociale del teologo o metafisico, e del Buddha o risvegliato.

Un preconcetto turba altresì il modo di cultura che gli studiosi di filosofia si sogliono dare, e che consiste nel frugare quasi esclusivamente i libri dei filosofi,anzi dei filosofi "in generale", dei sistematori della metafisica: così come il dotto in teologia si formava sui sacri testi. Questo modo di cultura, affatto conseguente quando si muova dal presupposto di un problema fondamentale o unico del quale importi conoscere le diverse e divergenti o progressive soluzioni che sono state tentate, è affatto inconseguente e inadeguato in una filosofia immanente e storica, che trae materia da tutte le più varie impressioni della vita e da tutte le intuizioni e le riflessioni sulla vita. Quella forma di cultura è cagione di aridità nella trattazione dei problemi particolari, pei quali si richiede un continuo ricambio con l'esperienza dei fatti particolari (dell'arte e della critica d'arte per l'Estetica, della politica, dell'economia, delle contese giuridiche per la Filosofia del diritto, delle scienze positive e matematiche per la Gnoseologia delle scienze, e via dicendo); e di aridità nella trattazione di quelle parti stesse di filosofia che sono tradizionalmente considerate come costituenti la "filosofia generale": perché anch' esse sorsero già dalla vita e alla vita conviene riportarle per bene interpetrame le proposizioni, e nella vita rituffarle per ritrarnele accresciute e con nuovi aspetti. Fondamento della filosofia come storia è tutta la storia, e restringere il suo fondamento alla sola storia della filosofia,e della filosofia"generale" o "metafisica", non si può se non per una inconsapevole adesione alla vecchia idea della filosofia non metodologica ma metafisica: che è il quinto dei preconcetti che veniamo enumerando.

La quale enumerazione si potrà allungare e insieme terminare con un sesto preconcetto, circa l'esposizione filosofica, onde si continua a desiderare e a chiedere per la filosofia, ora la forma architettonica, quasi di un tempio consacrato all'Eterno, ora quella calorosa e poetica, quasi di un inno o salmo cantato all'Eterno. Ma codeste forme erano congiunte al vecchio contenuto; e, ora che il contenuto è cangiato e la filosofia si esplica come una dilucidazione delle categorie dell'interpetrazione storica, non la grandiosa architettura da tempio, e non la lirica dell'inno sacro le si confà per istituto, ma la discussione, la polemica, la severa esposizione didascalica, che si colora bensì dei sentimenti dello scrittore come ogni altra forma letteraria, e può talvolta prendere anche toni alti (o altresì, nel caso, tenui e giocosi), ma non è astretta ad osservare le regole che sembravano proprie del contenuto teologico o religioso. La filosofia trattata come metodologia ha fatto, per così esprimerci, discendere l'esposizione filosofica dalla poesia alla prosa.

Tutti i preconcetti, le pieghe o tendenze, gli abiti, che ho in breve descritti, debbono, a mio parere, essere accuratamente ricercati e sradicati, perché sono essi che impediscono alla filosofia di configurarsi e procedere in modo conforme e adeguato alla coscienza alla quale essa è pervenuta della sua unità con la storia. Se solo si guardi l'enorme materiale che nel corso del secolo decimonono la poesia, il romanzo e il dramma, voci della nostra società, hanno accumulato di osservazioni psicologiche e di dubbi morali, e si consideri che in gran parte rimane senza elaborazione critica, si può formarsi una qualche idea del molto lavoro che ad essa tocca compiere. E se d'altra parte si osservi, a non dir altro, la moltitudine di ansiose domande, che ha suscitato da ogni parte la grande guerra europea - sullo Stato, la storia, il diritto, l'ufficio dei diversi popoli, la civiltà, la cultura, la barbarie, la scienza, l'arte, la religiosità, il fine e l'ideale della vita, e via dicendo, - si acquista chiarezza sul dovere che spetta ai filosofi di uscire dalla cerchia teologico-metafisica, nella quale essi continuano a stare rinchiusi anche quando non vogliono più udire parIare di teologia e di metafisica, giacché, nonostante quell'aborrimento, nonostante il nuovo concetto accolto e professato, il loro intelletto e il loro animo sono ancora orientati secondo le idee antiche.

Persino la storia stessa della filosofia è stata finora solo in piccola parte rinnovata in conformità del nuovo concetto della filosofia. Il quale nuovo concetto invita a rivolgere l'attenzione a pensieri e a pensatori, che sono stati a lungo trascurati o tenuti in grado secondario e considerati non propriamente filosofi, perché non trattarono direttamente del "problema fondamentale" della filosofia o del gran peut-être, e si occuparono nei "problemi particolari": in quei problemi particolari, che pur dovevano produrre alfine un rivolgimento nel cosiddetto "problema generale", che ne uscì ridotto anch' esso a "particolare". È semplice effetto di pregiudizio stimare un Machiavelli, che pone il concetto della pura politica e dello Stato, o un Pascal, che critica il legalismo gesuitico, o un Vico, che rinnova tutte le scienze dello spirito, o uno Hamann, che ha così forte sentimento del valore della tradizione e del linguaggio, per filosofi minori, non dico di un qualsiasi poco originale metafisico, ma anche, per parlare con rigore, di un Cartesio o di uno Spinoza, che si proposero altri problemi, ma non perciò di diversa e superiore natura rispetto ai problemi di quelli. Alla filosofia del "problema fondamentale" corrispondeva, insomma, una storia della filosofia schematica e scheletrica: alla filosofia come metodologia deve corrispondere una storia della filosofia assai più ricca, varia e pieghevole, che consideri come filosofia non solo ciò che si attiene al problema della immanenza e della trascendenza, del mondo e dell'altro mondo, ma tutto ciò che è valso ad accrescere il patrimonio dei concetti direttivi e l'intelligenza della storia effettiva, e a formare la realtà di pensiero nella quale viviamo.

(Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 167-181 dell'edizione Adelphi 1989)

Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana (1909)      

Saggi filosofici I Laterza 1949

Contiene "scritti minori di materia estetica, a complemento di quel volume" (che ovviamente è l'Estetica del 1902). Il primo saggio ospitato in questo libro però non è un complemento, ma un'evoluzione impegnativa dell'estetica dell'intuizione pura: la "dimostrazione" (come ebbe a dire Croce in seguito) che l'intuizione pura è anche "lirica".

Questo primo saggio è una condizione necessaria per leggere e comprendere il Breviario di Estetica, nel quale la stessa idea della "liricità" è divenuta familiare al suo autore, e perciò ha guadagnato apparente eleganza espressiva a scapito della chiarezza espositiva. Fenomeno che si osserva frequentemente nella letteratura filosofica: con il passar degli anni, i concetti diventano istituzioni acquisite per i filosofi, e viene dato per scontato il processo che conduce a formarli. Ma proprio per questo i loro scritti perdono di efficacia espositiva.

Benedetto Croce - Problemi di estetica e contributi... - Il torto e il diritto dell'estetismo
Qui Croce qualifica esattamente il senso dell'asserto, per lui solito, per cui ogni critica d'arte è e deve essere storica. La nozione di storia e di storicità che lo pervade si avvicina a un concetto antropologico di cultura molto avanzato per il tempo a cui questo scritto risale: e che pure a Croce appare tanto naturale da provare meraviglia che esso possa essere frainteso.

IL TORTO E IL DIRITTO DELL'ESTETISMO.

Chiamo estetismo quella dottrina, opinione o tendenza, che afferma inutili e anzi dannose le conoscenze storiche per la comprensione delle opere d'arte; come soglio chiamare storicismo la dottrina, opinione o tendenza opposta, che pretende spiegare le opere d'arte mercé uno stravagante metodo di pura storicità, escludendo come vana e pericolosa ogni considerazione estetica. Lo storicismo in questo senso peggiorativo, a chi ben guardi, non è altro che inconsapevole manifestazione di metafisica meccanistica e materialistica, disconoscimento della storia non meno che dell'arte; la storia, in quanto storia, è affatto incolpevole della stortura che si vuol coprire col suo nome severo. L'estetismo ha, come vedremo, un movente iniziale giusto; ma nella sua formola teorica conclusiva riesce erroneo quanto l'altro. Entrambi commettono il peccato di Bertran del Bornio, partendo due "cosi giunte persone", l'arte dal suo terreno storico e il terreno storico dall'arte; e soffrono la pena di lui, col portarne diviso il cerebro "dal suo principio, ch'è in questo troncone".

L'erroneità dell'estetismo è evidente per chi accetti la formola critica propria del pensiero moderno, che non vi sia altro modo di comprendere e gustare un'opera d'arte, se non di riprodurla idealmente col rifare il processo del produttore. E prima condizione di ciò è riportarsi ai dati psichici dai quali l'artista moveva nell'atto del suo produrre: a quelli e non ad altri, a quelli che l'artista realmente ebbe dinanzi, e non a tali che a noi può far piacere o comodo immaginare. E che cosa sono essi, di grazia, se non per l'appunto dati storici?

Se questa affermazione, incontrastabile quando si risalga al principio direttivo, non si vede subito chiara, se incontra obiezioni e diffidenze, la ragione è che della storia si ha d'ordinario concetto parziale e falso, pensandosi con quel nome ai fatti che sono raccolti nei libri, o addirittura nei manuali di storia per le scuole: alla cronologia, alla successione delle dinastie e dei governi, alla politica, alla diplomazia, alle guerre, e cosi via; o, se si vuole, alla biografia degli artisti, alle notizie circa i loro amori, i loro mecenati, i loro guadagni economici e le loro fortune e traversie. Ma la cognizione storica, nel significato rigoroso e filosofico della parola, è ben più larga dei ragguagli consegnati nei libri, o in quelli di essi che portano il nome di storie e che sono come un mucchio di frammenti e non, come s'immagina, la intera storia dell'umanità.

In una discussione svoltasi testé in un giornale letterario è stato asserito che non c'è bisogno alcuno della storia per intendere e gustare l'Orlando furioso. E a me venne la voglia di osservare, di rimando, che per intendere il solo primo verso della prima ottava del poema: "Le donne, i cavalier, l'armi, gli amori...", occorre un'intera serie di cognizioni storiche. Bisogna sapere, a mo' d'esempio, che i "cavalieri", che ispirarono l'Ariosto, erano tutt'altra gente dai "cavalieri" della Corona d'Italia, dai sindaci ed elettori influenti, decorati su proposta del deputato del collegio; e che le "armi" erano, non già gli oggetti allineati in un arsenale o museo (come quello del Palazzo reale di Torino, che porse argomento al canto del Regaldi), ma avevano qualche rapporto con l'arma virumque cano di Virgilio. Senonché questa osservazione, ch'è certamente giusta, forse avrebbe potuto suggerire anch'essa un'idea ristretta della storia, per essere questi esempi attinti a ciò che comunemente si chiama storia. Il vero è che non le sole parole "cavalieri" e "armi" hanno, in quel primo verso, bisogno d'interpretazione storica, ma tutte le parole, tutte le movenze del discorso, perché tutta la lingua è fatto storico, e il significato di essa non ci è noto se non per tradizione storica. E con .la lingua che li esprime sono fatti storici quelli che si dicono sentimenti, passioni, affetti, idee: tutto quanto forma quel complesso psicologico che si chiama lo spirito dell'autore del Furioso, e che, essendo individuale, non si è ripetuto e non si può ripetere mai in modo identico. Se, per l'intelligenza dell'episodio di Francesca, dai manuali storici ricaviamo chi furono Lancillotto e Galeotto, non è meno per cognizione storica che ci si fa chiara quella particolare forma di rapimento d'amore, e quella coscienza cristiana del peccato, che il poeta, dando corpo al proprio sentimento, ritrasse nella donna di Rimini. Cognizione storica è tutta quella che possediamo della realtà concreta, di cui la storia raccolta nei libri è solamente una parte, né sempre la più importante alla comprensione dell'arte. Noi apprendiamo cognizioni storiche fin dal nostro venire al mondo, dalla mamma e dalla nutrice (linguaggio, simboli, costumi, tradizioni, credenze, ecc.); e arricchiamo di continuo la nostra memoria d'immagini di fatti accaduti, le quali ci aiutano a ricostruire i fatti che ebbe presenti l'artista e il poeta nella sua creazione artistica; cioè, a ricollocarci nella sua situazione storica. E tanto è vero che la storia raccolta nei libri di storia e nei comenti forma solamente una parte, e talora irrilevante, di quella necessaria a intendere le opere d'arte, che uomini relativamente ignoranti, ma di ricca vita interiore, superano alle volte difficoltà d'interpretazione artistica dinanzi alle quali eruditi specialisti si arrestano senza speranza, e colgono la grandiosità e terribilità di un dramma di Sofocle meglio del filologo, che conosce la storia di ogni mito e di ogni parola che s'incontri in quel dramma. È noto dal D'Alembert l'aneddoto di quel pittore, il quale esprimeva nel modo più giusto e vivace l'impressione che produce l'Iliade, raccontando ingenuamente essergli capitato tra mano "un vecchio libro francese", ch'egli prima non conosceva, intitolato Iliade de Homère, e che, da quando lo aveva letto, gli uomini gli sembravano alti quindici piedi e non poteva più dormire. Quel pittore sapeva, a senso nostro, molto più di storia omerica che non i coniugi Dacier sommati insieme, perché meglio di essi intendeva il nucleo fondamentale della psiche (storica) di Omero; quantunque poi la sua ignoranza della Grecia primitiva e della lingua greca gli potesse impedire d'intendere a pieno questo o quel particolare, un singolo episodio o un singolo personaggio, e per queste cose gli sarebbe stato profittevole andare a scuola, se mai, dai dottissimi Dacier.

Molti, disposti ad ammettere senza difficoltà che storicamente s'impari il greco o il latino, non sanno acconciarsi a riconoscere che con lo stesso metodo, cioè con metodo storico, si apprenda l'italiano: ammetteranno volentieri che, storicamente ci formiamo un'idea del fato greco, del civis romanus o della galanteria cavalleresca, e negheranno che con eguale metodo ci formiamo le idee dell'onore nella società contemporanea e del sentimento moderno di patria o di umanità. La maggiore difficoltà del primo rispetto al secondo ordine di apprendimento si scambia, presso coloro che non ben considerano, in una differenza di sostanza. Pure basterebbe considerare che, trasformandosi le lingue (come si trasformano di continuo), verrà tempo che l'italiano del secolo decimonono diventerà difficile ad apprendere forse altrettanto o più del greco e del latino, e, trasformandosi la società, le idee nostre circa la patria, l'umanità e l'onore, che ora apprendiamo quasi senza avvedercene, richiederanno cure di faticose dilucidazioni da parte di futuri eruditi. Con che diventerebbe chiara la natura storica della nostra cognizione di quel che si chiama il presente, che è solamente un passato meno lontano; e di ciò che si chiama costante ed è solamente una trasformazione meno appariscente.

Ridata al concetto della storicità la dovuta estensione e validità, l'errore dell'estetismo balza evidente. Col rifiutare per principio e in tesi generale i sussidi filologici ed eruditi, e le esperienze personali e sociali, con le quali si restaurano i presupposti storici della creazione artistica, esso si toglie il modo di porre una teoria che spieghi il processo onde l'opera d'arte viene accolta nello spirito di chi la contempla. E deve perciò o richiamarsi a una intuizione miracolosa (diversa da quella che è nota alla nostra autocoscienza), o abbandonarsi a una sorta di edonismo, sostenendo che non importi già conoscere l'opera d'arte nelle sue sembianze genuine, ma beatificarsi comechessia innanzi a un quadro, a una statua, a un'onda di versi o di suoni, anche con l'immaginare un'opera affatto diversa da quella che fu nell'anima dell'autore.

Come giustificare poi il disprezzo verso la storia, che gli estetisti affettano proprio nel campo della storiografia dell'arte? La storia di una letteratura, la storia artistica di un popolo non può far di meno di esporre le condizioni di tempo, di luogo, di persone, tra le quali sono sorte le opere d'arte. E non può collocare, cosi, indifferentemente, lo Heine prima del Goethe o il Rousseau prima del Corneille. Che cosa c'è di strano, dunque, che si facciano le ricerche cronologiche, biografiche e bibliografiche, utili a far intendere nel modo più adeguato la formazione delle anime e delle opere artistiche?

L'idea fallace circa l'interpretazione estetica e la negazione del rapporto inscindibile di essa con l'interpretazione storica, il disprezzo per le costruzioni della storia artistica e letteraria, sono il torto dell'estetismo. Ma non bisogna dimenticare che l'estetismo, oltre che tentativo errato di teorizzare la critica d'arte, è anche, e principalmente, moto di ribellione. Come tale, importa dunque ricercare contro che cosa si ribelli, perché forse in questa parte negativa più o meno espressa si troverà la sua parziale giustificazione, il suo diritto, e il motivo della seduzione che esercita su molte anime di artisti.

Abbiamo detto che per la comprensione estetica bisogna riportarsi ai dati storici, cioè al sentire dell'artista nel momento della creazione: alle impressioni e commozioni che sono entrate nell'opera d'arte, ma a quelle sole e non ad altre. Senonché, per la scarsa intelligenza di moltissimi comentatori e illustratori storici dell'arte accade invece assai spesso che sugli artisti e sulle opere d'arte si riversino larghe ceste, anzi interi carretti di materiale storico, utile forse per altri fini ma superfluo all'interpretazione che si richiede, e, perché superfluo, disadatto e insufficiente pur nella sua profusione. Di qui le querele e la ribellione contro gli oziosi particolari biografici, le oziose ricerche di fonti, gli oziosi raffronti e le oziose dissertazioni filologiche. Che cosa importa, a proposito di una parola adoperata da un poeta, esibire ricerche etimologiche concernenti lontane derivazioni, che non erano attuali nello spirito di colui che adoperava la parola e perciò non soltanto non servono alla comprensione dell'opera d'arte ma ne distraggono? Quel che invece bisogna far intendere è il significato, la sfumatura di significato, l'accento individuale, che la parola prende nel caso singolo. Che cosa importa un'elaborata narrazione della carriera militare e degli amori e dei debiti di Ugo Foscolo per l'illustrazione dei Sepolcri? e con quale senno, offrendo tutta codesta roba inutile al fine proposto, si tralascia poi l'indagine sulla speciale condizione di spirito donde proruppe il carme immortale? Che cosa valgono le disquisizioni sul nome preciso dell'autore di un dipinto, (che è, rispetto alla comprensione dell'opera, indifferente e può senza gran danno essere sostituito da un pseudonimo), quando si trascuri il proprio significato del dipinto, il movimento d'anima ritratto dall'artista, che è problema storico ben altrimenti importante, e il solo da risolvere per la comprensione estetica che si ricerca? - Ma, di certo, ammucchiare materiale è cosa di gran lunga più facile che non prendere quel tanto che serve, e cavarne un costrutto.

Contro questa stoltizia erudita si ribella disordinatamente l'estetismo e parte in guerra contro il metodo storico, laddove dovrebbe combattere l'uso balordo che si fa di questo metodo. Avvolgendo nella sua condanna tutta la conoscenza storica, esso si toglie di sotto i piedi il solido sostegno della realtà e rimane sospeso tra cielo e terra in una posizione poco invidiabile. E per questo è estetismo, vale a dire esagerazione di un principio giusto: principio al quale bisogna fare ragione in modo conveniente e dare la soddisfazione che gli spetta, intendendo la storia in tutta la sua ampiezza e adoperandola in modo intelligente. In verità, molti libri di eruditi intorno alla poesia e all'arte non differiscono troppo nel loro andamento da certi esami balbettati da scolari di liceo, nei quali alla domanda: "Dite chi era Dante?", segue questa, o simile risposta: "Dante fu un uomo, che sposò una donna di nome Gemma Donati". La vera critica storica dantesca non consiste in una raccolta di aneddoti e di notizie alla rinfusa, ma nella preparazione e attitudine a penetrare in quella individuale
formazione storica, che è l'anima poetica di Dante.

(da Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana, 1909, pp. 33-41 dell'edizione 1949)

La filosofia di Giambattista Vico (1911)      

Saggi filosofici II Laterza 1965


Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia (1912)      

Saggi filosofici III Laterza 1927

Benedetto Croce - Un indagatore del mistero dell'universo (appendice XVI)
Questo scritto agrodolce del 1905 è l'ultima appendice del volume sullo Hegel. Sotto l'ironia, Croce prende religiosamente sul serio la serietà dell'eccentrico uomo in cui si è imbattuto, e gli rende giustizia.

XVI - UN INDAGATORE DEL MISTERO DELL'UNIVERSO

Alcuni mesi or sono, mi pervenne uno scartafaccio, accompagnato da una lettera che chiedeva intorno a esso il mio giudizio. Misi da parte lo scartafaccio, che col suo titolo annunziante una nuova dottrina dell'universo, e con certe figure a penna di astri e di atomi, non mi sorrideva di liete promesse; e soltanto dopo alcuni giorni, ripigliandolo tra mano per restituirlo a chi me l'aveva inviato, per iscrupolo mi feci a scartabellarlo e a scorrerne qualche pagina. Ma, contro l'aspettazione, lo scritto legò il mio interesse, tanto che tirai a leggerlo sino in fondo.

L'autore, tra le altre cose, racconta in quelle pagine i casi della propria vita. Si chiama Luigi Martinotti, ed è nato a Torino nel 1863. "La mia vita (egli scrive) si può riassumere in una continua e ognora più profonda contemplazione dell'infinito, contrastata però incessantemente dalla crudele ed implacabile necessità di attendere in pari tempo, e con mezzi ripugnanti, alla bisogna del vivere".

Collocato da fanciullo in un'officina di litografia, egli riusciva a cangiare il proprio corpo come in un pezzo della macchina presso cui lavorava; mentre il suo pensiero "fuggiva all'aperto e ritrovava il suo mondo naturale, che aveva perduto". E nelle ore di riposo, la contemplazione del cielo stellato lo stupiva quasi spettacolo nuovo, e gli suscitava nell'animo domande tormentose.

Passivamente, fece a volta a volta i più diversi mestieri: il fattorino, il sarto, il commesso di studio, il soldato di cavalleria, il disegnatore, lo sguattero, e infine il ferroviere. Nessuno sospettava in quell'artigiano e in quell'impiegato, indifferente ma non negligente, e punto ribelle, un cuore caldo e un cervello in ebollizione. Gli uomini tra i quali si aggirava, e anche i suoi genitori e fratelli, non potevano comprenderlo; ed egli si chiudeva ad essi, chiudeva in sé il suo vero sé stesso, sdoppiando quasi la sua personalità nelle relazioni col mondo esterno. Intanto, il suo spirito passava attraverso le più varie forme di religione: dall'ascetismo cristiano con le pratiche rigorosamente osservate del digiuno e della castità, al naturalismo ateistico con l'appendice dell'anarchismo, e poi ancora al panteismo, per giungere infine alla "religione scientifica", della quale ora si è fatto banditore.

Nel periodo più fervido dei suoi convincimenti ed entusiasmi anarchici, gli capita d'innamorarsi e di fidanzarsi con una brava ragazza. A questa passione egli per altro non si abbandona senza esitanze e malinconie; perché si ha forse il diritto di amare, quando si è tormentati dall'ansia sul destino umano? si ha il diritto di stordirsi nella gioia, quando resta aperto e insoluto il problema del dolore? "Che cosa sono (egli diceva in quel tempo) tutta quella gente che va sì frettolosa per le vie? Sono scheletri, ravvolti in domino di carne. E gli scheletri non possono ridere, gli scheletri non debbono amare!".

A ogni modo, fata trahunt, ed egli era impegnato a prender moglie. E gli ostacoli, appunto, che incontra per attuare il matrimonio, e le sue convinzioni anarchiche, in forza delle quali reputava suo dovere e quasi debito d'onore strappare ai ricchi ciò che gli bisognava per l'affermazione della propria individualità, lo inducono a meditare e ad eseguire, in Genova, nientemeno che un ricatto, mediante il sequestro di una bambina!

Il ricatto (per alcuni incidenti che sarebbe lungo narrare) non consegue l'effetto cui mirava; e il Martinotti ha allora un momento di disperazione, e tenta di ammazzarsi ed è portato in condizioni gravi all'ospedale. Dove, riavutosi dopo qualche settimana, apprende da un giornale, che come autore del reato da lui commesso è stato imprigionato un povero diavolo, a lui ignoto e affatto innocente. Egli non mette tempo in mezzo ad accusarsi come il vero colpevole; ma non gli torna altrettanto facile persuadere questura e giudice istruttore e procuratore del re, che avevano nel frattempo accumulato, e inconsciamente foggiato, prove e testimonianze a carico dell'altro.

Per fortuna, nel pubblico dibattimento, persuade i giurati; e cosi l'innocente è assolto, ed egli si trova condannato a quindici anni di reclusione, detratti un anno mezzo per la sua precedente buona condotta e cinque anni per la semiresponsabilità, che i giurati credettero di riconoscergli: le perizie psichiatriche e le testimonianze dei suoi compagni, nonché l'avvocato difensore, lo spacciavano addirittura per matto.

Ed eccolo con innanzi la prospettiva, non del tutto fosca e disperata, poste le sue tendenze, di passare otto anni, (come egli dice umoristicamente) "nella possibilità garantita di pensare". Allorché lo trasportano alle Murate di Firenze, ed egli esplora la sua cella, lunga sette passi e larga due, con un finestrino a levante donde si scorge il libero cielo, riconosce in essa "un vero gabinetto di meditazione", e ne rimane "a pieno soddisfatto".

Qui, nella concentrazione della solitudine, dominando e regolando con tenacia sé stesso, dopo molti sforzi e vani tentativi conquista, finalmente, la Verità. Fu una mattina, allo svegliarsi da un lungo e profondo sonno, sentendosi del tutto equilibrato, con la mente straordinariamente lucida e forte. E gli apparve, in quell'istante, spontanea, chiarissima, la "scala mondiale"; e la sua mente passò con agilità di deduzione in deduzione, sempre rigurgitante d'idee nuove, che si richiamavano l'una l'altra e si componevano in armonia.

Dalle Murate di Firenze il Martinotti fu poi trasportato al reclusorio di Orvieto, e di là ancora alla colonia agricola della Capraia; ed espiata la condanna, compì, con ogni lode, in Milano, i due anni di vigilanza speciale.

Ma dalla lunga reclusione egli usciva col suo sistema filosofico, con la sua "Nuova dottrina" o "Saggio di logica"; e, per procacciarsi i mezzi di mettere a stampa il suo manoscritto, e d'illuminare gli uomini brancolanti nelle tenebre e straziati dal dolore e avviliti dal terrore, si recò a cercare lavoro a Marsiglia. Ma trova colà un esercito di disoccupati e nessuna speranza di lavoro; e perciò si rimette in via per l'Italia, a piede, "eseguendo per vivere di paese in paese giuochi di società e vendendo piccole ballerine di carta di un tipo speciale da lui ideato".

Giunge, in questo modo, a Napoli; e va in giro presentando il suo manoscritto a parecchi "professori", che o glielo restituiscono senza leggerlo, o pronunziano poche parole di superficiale incoraggiamento, o si stringono nelle spalle, giudicando quelle idee troppo lontane dal modo comune di pensare.

L'anno scorso, sempre preso dal suo pensiero, gli viene in mente di rivolgersi con una lettera al prefetto, per domandare che 1o Stato faccia le spese della stampa dell'opera; e reca lui stesso la lettera in prefettura. Ma casca tra le braccia di un ispettore di pubblica sicurezza, il quale, ascoltato ciò che egli chiede, dialogato con lui un momento, e scorsa la lettera diretta al prefetto, dopo alcuni minuti di riflessione suona un campanello e dà ordine che il suo interlocutore venga trasportato al manicomio di San Francesco di Sales.

Nel manicomio resta dieci mesi, dal febbraio 1904 all'aprile 1905, oggetto di studio e di curiosità; il direttore lo tratta come una "cosa rara", lo conduce in carrozza alla sua clinica, lo presenta agli estatici scolari, espone qualche tratto del manoscritto filosofico che il Martinotti aveva portato sotto il braccio, nel compiere il suo ingresso in San Francesco; e conclude che è un soggetto seriamente malato, "perché ha torto", e ha torto, "perché non ha fatto studi regolari". E dovendo poi (racconta sempre il Martinotti) "trovare nel fisico la prova del mio squilibrio morale, e non avendo potuto scoprire nulla nel sangue, che per fortuna tengo perfettamente sano perché non ho sofferto malattia di sorta, a forza di cercare e ricercare trovò alfine la famosa controprova non so ben dove, ma credo nell'orina".

Per onore dell'umano buon senso, bisogna ricordare che un altro medico del manicomio, che ebbe ad osservarlo, si maravigliò assai del caso suo, e con molta probità gli disse: "che ognuno in filosofia è padrone di pensarla alla propria maniera, e che non si deve perciò meritare il manicomio"! - Comunque, dopo dieci mesi fu lasciato di nuovo libero, con certificato di grande miglioramento secondo i medici, ma, secondo lui, invece, tal quale come era entrato; e con di più la mente agitata da questo insolubile dilemma: "Se prima ero malato, perché adesso devo essere guarito? e, se adesso sono sano, perché prima dovevo essere malato?".

Ora si è soffermato in Napoli, e vi guadagna il pane come fattorino, e cerca sempre il modo di pubblicare il suo manoscritto.

Debbo qui dichiarare di non aver avuto agio di riscontrare l'esattezza di tutto questo racconto, da me fedelmente compendiato: quantunque il riscontro non sia difficile, recando il manoscritto nomi e date, e riferendosi a cose di ragion pubblica, come giornali e processi.

Ma, anche se in parte fosse un sogno o un effetto di allucinazione (il che non credo, specie dopo aver interrogato l'autore, che si presentò da me una sera), ciò non importerebbe molto al caso nostro. Chi ha scritto le pagine che ho innanzi è, manifestamente, uno di quei temperamenti da cui, secondo la forza maggiore o minore delle dote intellettuali, e secondo le varie contingenze della vita, vien fuori il filosofo, il mistico, l'asceta, il riformatore religioso, - o in cui ciascuna di queste figure è quasi abbozzata e in embrione. Come in ogni religione e filosofia, il motivo della ricerca è in lui un bisogno etico, l'aspirazione alla conquista della beatitudine attraverso la viva coscienza ed esperienza dei mali umani. Egli è di coloro che (per valersi di una sua bella espressione) non hanno studiato in altra università che nella "grande università del dolore".

E (tratto anche codesto non raro in quelli che hanno disposizione di apostoli) l'entusiasmo spinto sino all'ingenuità si allea nel suo animo con una certa chiaroveggenza pratica e con una sorta di furberia. Si è visto come il Martinotti critichi e canzoni, non senza spirito comico, gli psichiatri, nelle cui mani ebbe la disgrazia di capitare. Eguale chiaroveggenza è nell'analisi della serie di pensieri onde fu condotto, senza mai dubitare di fare cosa disonesta, e scevro di ogni odio e di ogni ferocia egoistica, alla pagina non bella della sua vita, al tentativo di ricatto; e, parimenti, nella descrizione dei modi di pensare e operare dei poliziotti, dei magistrati, dei testimoni e dei giurati. E, se lo spazio me lo consentisse, vorrei riferire le osservazioni ch'egli fa intorno alla moralità dei ladri e degli omicidi, tra i quali visse nel reclusorio, e intorno al loro vivace "sentimento di onore".

Anche la forma del suo scritto è caratteristica. Vi è di tutto, come in certe opere primitive, che sono insieme filosofia e poesia e biografia. Lo stile dottrinale si alterna col racconto degli incidenti della propria vita; i teoremi, coi dialoghi; i sillogismi, con brani di prosa che hanno l'intonazione d'inni, di salmi, di preghiere, e con rozzi versi coi quali l'autore si sforza di rinserrare in un cerchio ritmico il suo sentimento. Rozzi versi, ma dove pure accade di cogliere qua e là gli accenti della lirica dei mistici.

Ascoltate, come esempio, questo invito solenne:

Volete voi ch'io squarci il vel che copre Iddio?
udir volete arcane cose dal labbro mio?
E, meco veleggiando per le vie infinite,
abbattere, spezzando, le dighe stabilite?
E meco ebbri, sazi - sazi di desio, -
splendenti, luminosi, cangiati in vero Dio,
da mondi ignoti ancora voi, lieti, ritornar?
I sensi deponete; e liberi venite,
e liberi correte; e, liberi, m'udite!

Ma qual è, insomma, il nuovo sistema filosofico, il nuovo verbo, che il nostro scrutatore del mistero dell'universo ha fiducia di poter rivelare? L'interesse del suo scritto sta soltanto all'atteggiamento psicologico, che ho descritto? Il Martinotti, anzitutto, non crede all'esistenza della materia. La materia dei materialisti, concepita nella sua solidità, rende inconcepibile il moto; o invano si cerca di sfuggire a questa conseguenza col pensarla come un aggregato di parti piccolissime, la qual cosa o riconduce al caso precedente, o ammette il vuoto, che il materialismo nega. La materia non è altro che forza, e la forza, sottoposta ad analisi più intensa, si cangia in Dio, e Dio a sua volta si cangia nello spazio, e l'universo è (secondo che egli si esprime)un effetto dello spazio.

Tutte le ricerche, che volgono sull'evoluzione degli esseri, sull'origine dell'uomo da forme inferiori di organismi, si aggirano su particolari ovvi, spesso innegabili; ma non penetrano l'essenza della realtà, non soddisfano l'animo che cerca la verità e la vita. "Che cosa si direbbe (egli scrive, con uno di quei paragoni energici, che abbondano nel suo stile) di naviganti, che, sbattuti furiosamente dal vento e dal mare, invece di pensare a porsi in salvo, misurassero con cura le onde, bisticciandosi tra loro circa la forma di queste?". Certo, lo studio delle combinazioni degli atomi è opportuno, e serve moltissimo alla vita pratica e materiale; ma che cosa esso è mai di fronte a ciò che veramente bramiamo conoscere? "Il parafulmine, escogitato dalla scienza, ci preserva dalla morte, è vero; ma solo per prolungare la nostra agonia".

Il mondo angusto della scienza si slarga innanzi alla sua mente, che si è distrigata dal gretto naturalismo: gli atomi gli appaiono non più gl'indivisibili materiali della fisica, ma astri, e gli astri, a lor volta, atomi di astri maggiori. Questo infinito universo si muove per forze immanenti: Dio, come si è detto, si risolve nello spazio, e lo spazio ha per centro, non il principio, ma l'in-principio (parola coniata sull'analogia d'in-finito).

L'uomo, dunque, non è un prodotto di forze estranee. "Noi ci siamo a grado a grado creati nel corso dei secoli da noi stessi: il mirabile nostro organismo e la conseguente manifestazione del genio sono veramente opera nostra". La moralità non è nemmeno essa qualcosa di estraneo, un'imposizione o una illusione; ma è "la scienza della vita, accumulata nei secoli: come il rimorso è il vago presentimento di un male futuro provocato dal mal fare presente; e l'ineffabile sentimento, che si prova nel fare il bene, è nient'altro che la certezza di viaggiare nel vero".

E il vero è la felicità, e a esso tende tutta la realtà. L'infelicità nacque dall'abbandonare l'infallibile istinto, sostituendogli il ragionamento, cioè il ragionar male; e cesserà con la scoperta del vero, cioè col ragionar bene. I mali e gli errori sono come gl'incidenti che rendono vario e attraente il viaggio. Tutto trapassa e nulla può morire, e la morte è una palingenesi: gli esseri più alti si elevano ancora, passando dagli astri minori ai maggiori, e lasciando il loro posto ai sopravvegnenti. Gl'individui si sono già presentati e si ripresenteranno infinite volte alla vita.....

Affascinato dallo spettacolo sublime di questo universo, non meccanico ma dinamico, in cui è perpetua la vita, l'iniziativa, la libertà, la creazione, l'elevazione; rapito da ciò ch'egli chiama il sorriso del bello, il Martinotti vede nella rivelazione del sistema da lui divinato la salute delle umane società, e da esso deduce la sua Politica.

Ma io non lo seguirò nell'esposizione delle sue idee circa l'anarchia e il socialismo e la sovrappopolazione, e via dicendo: come non ho potuto se non dare un piccolo saggio delle varie teorie abbozzate nel suo scritto, senza sceverare il vero dal contestabile, il ragionato dall'immaginato, senza indicare le lacune e il saltuario dell'esposizione, e, soprattutto, senza notare quanta parto di esse, che il Martinotti crede di avere scoperta (e alla quale è certamente notevole che sia pervenuto da sé come autodidatta e meditatore più o meno solitario), è già patrimonio secolare della filosofia.

Mi è parso tuttora che valesse la pena di far conoscere in qualche modo questo singolare spirito, con cui mi sono imbattuto. E confesso che, costretto a leggere quotidianamente molti libri dotti e metodici di scrittori di cose filosofiche, ai quali manca, della filosofia, ogni sentimento, ogni entusiasmo, ogni fremito, ogni angoscia, la lettura dello scartafaccio del Martinotti, pur nel suo disordine, nelle sue ingenuità e nei suoi errori di ortografia, mi ha procurato la voluttà di chi, percorrendo un deserto, veda comparire a un tratto innanzi ai suoi occhi un cespuglio di selvaggia vegetazione.

(Benedetto Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia (1912), pp. 423-432 dell'edizione 1927)

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Cultura e vita morale - Intermezzi polemici (1913)      
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L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra (1927)      
Scritti varii III Laterza 1965

Pagine sparse Vol. 1 (1943)      
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Pagine sparse Vol. 2 (1943)      
Scritti varii V Laterza 1960

Pagine sparse Vol. 3 (1943)      
Scritti varii VI Laterza 1960

Nuove pagine sparse Vol. 1 (1949)      
Scritti varii VII Laterza 1966

Nuove pagine sparse Vol. 2 (1949)      
Scritti varii VIII Laterza 1966

Terze pagine sparse Vol. 1 (1951 ?)      
Scritti varii IX Laterza 1955

Terze pagine sparse Vol. 2 (1951 ?)      
Scritti varii X Laterza 1955

Scritti e discorsi politici Vol. 1 (0)      
Scritti varii XI

Scritti e discorsi politici Vol. 2 (0)      
Scritti varii XII

Per la storia del comunismo in quanto realtà politica (1944)     
Laterza 1944


Carteggio Croce-Vossler (1899-1949)      
Bibliopolis 1991


Propositi e speranze (1943)     
Laterza 1944


Storia dell'estetica per saggi (1942)      
Laterza 1967


Il dissidio spirituale della Germania con l'Europa (1944)      
Laterza 1944

Dal libro dei pensieri (0)      
Adelphi 2002


Taccuini di guerra (1943)     
Adelphi 2004


Breviario di estetica (1913)     
Laterza 1978


Un paradiso abitato da diavoli (0)     
Adelphi 2006

Contributo alla critica di me stesso (1915)     
Adelphi 1989

Ariosto (1920)     
Adelphi 1991

Dieci conversazioni (1949)     
Il Mulino 1993

Filosofia Poesia Storia (antologia progettata da BC per Ricciardi) (1951)      
Adelphi 1996

La mia filosofia (My philosophy, per l'Inghilterra) (1949)     
Adelphi 1993


Il concetto della storia (antologia Alfredo Parente) (1954)     
Laterza 1979


Elementi di politica (1924-1939)     
Laterza 1974


Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924)     
Mondadori 1981


Per la nuova vita dell'Italia (1943-1944)     
Ricciardi 1944


Epistolario I - Scelta di lettere curata dall'autore (1914-1935)     
IISS 1967