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Edizioni italiane delle Opere di Benedetto Croce
Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale
(1902)
Filosofia dello spirito I Adelphi 1990 (a cura di Giuseppe Galasso)
Croce espone (con una scrittura italiana magistrale) la sua
interpretazione della sfera estetica come Intuizione Pura, e poi
racconta la storia dell'estetica dalle origini sino alla fine
dell'800. L'edizione Adelphi segue quella Laterziana del 1908, che
contiene alcune varianti rilevanti rispetto al testo del 1902. Il
volume comprende un'Appendice bibliografica di Croce e una Nota del
Curatore (Giuseppe Galasso).
Alberto Palazzi
Una presentazione informale
Per entrare nell'atmosfera dell'Estetica, leggiamo un brano dal
saggio di Croce sulla grande silloge di favole napoletana del primo
Seicento, Lo Cunto de li Cunti di Giovan Battista Basile:
Egli vi fa vedere un fascio di legna, che montatovi a cavalcioni
l'uomo fortunato a cui ogni desiderio diventa realtà, si mette in
moto come un cavallo, trotta, caracolla, fa salti e corvette,
seguito dallo schiamazzo dei monelli, mentre le donne si affacciano
curiose alle finestre; o l'accolta di tutta la pezzenteria, che il
re chiama a banchetto nel suo palagio, e che si assidono gravi e
contenti alla mensa, "come altrettanti bei conti"; o, alla cottura
del cuore del dragone marino e all'odore che esso tramanda, il
prodigioso ingravidarsi della cuoca e di tutti gli arredi della
stanza, che partoriscono i loro simili e piccini, la tavola un
tavolino, la trabacca un lettuccio, le sedie le sedioline, e perfino
il càntero un bel canterello verniciato, che era una delizia; o le
operazioni di perforate trincee e gli stratagemmi che il topo e lo
scarafaggio compiono per giungere fino al corpo del grosso signore
tedesco, di cui vogliono impedire le nozze (...) Ma altresì il
Basile vi fa sentire la schiva onestà delle sue fanciulle,
perseguitate dalla cattiveria e rimunerate dalla buona fortuna: come
di Viola che, messa a pericolo dalla zia mezzana e salvata dalla sua
risolutezza, va difilata alla vecchia e le taglia gli orecchi per
castigo; e di Penta, che si fa troncare le belle mani, a cagion
delle quali il fratello si era acceso di mala passione per lei, e
gliele manda in dono in un bacile; e di Sapia, che sfugge a tutte le
insidie con cui le sorelle procurano di farla cadere dov'esse erano
cadute. (...) Vi dà un brivido di terrore per la vecchia mendicante,
a cui uno scherzo crudele manda in frantumi la pignatta di fagiuoli
a stento accattati, e che muore di fame, e ricompare a un tratto,
ombra infesta, al principe spensierato nel mezzo del festino di
nozze. (...) Vi presenta quasi il miracolo della maternità, nel
racconto della bella dormente nel bosco, resa madre nel sonno, e
alla quale, sempre dormente, i due bambini, che mette al mondo, Sole
e Luna, vengono attaccati al petto, ed essi, cercando il capezzolo,
le suggono invece il dito e ne traggono la lisca fatale, che l'aveva
fatta cadere in letargo, e la ridestano alla vita. Vi adombra il
misterioso fascino della poesia in quel principe, che ha perso la
memoria della donna amata e sente dalla bocca di lei, non
riconosciuta e travestita, la canzone del "bianco viso", e, non sa
esso stesso perché, ne è tutto penetrato di dolcezza e di una vaga
bramosia aspettante, e non si stanca mai di farsi ripetere quel
canto.
[Benedetto Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Laterza, Bari,
1929; Adelphi, Milano, 1993, pp. 556 - 559]
Questo brano non appartiene all'Estetica, ma tuttavia è una pagina
critica esemplare dell'atteggiamento estetico di Croce: ci fa
toccare con mano quel che c'è di vivo, il materiale fantastico, in
una raccolta favole piena di esuberanza e di poesia nonostante il
suo impianto formale barocco, il quale "è insopportabile quando è
fatto sul serio, pesante e vacuo al tempo stesso", ma qui diventa
"piacente e festoso" perché "è percorso da un lampo di malizia,
avvivato da una fontanella di buon umore".
L'arte e la bellezza, ci dice Croce, sono il luogo del materiale
reale dei nostri pensieri: non sono un sostituto imperfetto di ciò
che il pensare logico porterebbe a compiutezza, ma sono il luogo
dell'acquisizione alla conoscenza dell'uomo dei materiali, delle
percezioni e delle immagini ai quali il pensare si aggiunge poi, per
darne giudizi oggettivi. L'arte è quella cosa per cui nella nostra
mente entra l'immagine di un fascio di legna che si trasforma in un
cavallo, o l'immagine della vendetta dello spettro della vecchia
mendicante offesa sull'uomo superbo: e si chiama "intuizione",
perché l'intuizione è il contenuto della rappresentazione umana
prima di ogni oggettivazione del pensiero, e "pura" perché
l'intuizione è artistica proprio quando è originaria, ingenua,
ancora priva di coerenza con il sistema delle mie cognizioni della
realtà, coerenza che nasce poi, dal pensiero. Insiste Croce a dire e
ripetere che l'intuizione pura è fantastica: essa può essere
intuizione di fatti e di cose reali del mondo, il paesaggio che ho
davanti, la persona in carne e ossa di cui dipingo i tratti, oppure
di cose non reali, come il mio sogno, o il fascio di legna che si
trasforma in cavallo, ma ciò per l'arte è irrilevante: essa,
intuizione pura, è il luogo della formazione di contenuti della
coscienza, quale che ne sia l'origine, e il giudizio sulla loro
realtà, ossia l'iscrizione in un sistema coerente di relazioni tra
le cose del mondo, appartiene a tutt'altro ordine di attività
dell'animo, quello del pensiero logico.
E se questa è la definizione dell'arte, non occorre cercare lontano
per capire cosa sia la bellezza: è tutt'uno con l'arte, è l'accadere
del formarsi di intuizioni, è il riuscire del tentativo di rendere
espresso ciò che prima è subito passivamente: può essere ciò il
desiderio di riscatto da antiche ingiustizie che si esprime
nell'immagine della vendetta fantastica dell'ombra "infesta" della
vecchia mendicante, può essere la percezione dei lineamenti delle
persone che ho attorno, i quali diventano espressi quando apprendo a
mettere sulla carta i tratti che li qualificano e li rendono
riconoscibili, può essere ogni altra attività del genere. Anche qui
la bellezza è una transizione di stato, ed è un fenomeno
psicologicamente reale: non quella della finalità senza scopo, ma
quella che avviene dove la passività sensibile si trasforma in
immagini che non sono più mere modificazioni subite dalla psiche
individuale, ma sono espressioni, immagini a cui io do significato e
a cui lo possono dare anche gli altri, quindi immagini che al tempo
stesso sono espressioni e comunicazione, e che stanno alla base di
tutta la cultura umana.
Se così è, ogni moralismo e ogni interpretazione strumentale e
degradante dell'arte e della bellezza sono fuori di luogo, perché il
momento artistico non è altro che la condizione di realtà di ogni
cultura umana, importante e vitale come il nutrimento. Ma ne segue
anche che l'arte in fondo non è nulla di speciale, nulla che abbia
una qualità particolare, e che la capacità di creare ed esprimere
intuizioni può differire solo in quantità tra un uomo e un altro.
Lasciamolo dire a Croce:
Anche niente più che una differenza quantitativa possiamo ammettere
nel determinare il significato della parola genio, o genio
artistico, distinto dal non genio, dall'uomo comune. Si dice che i
grandi artisti rivelino noi a noi stessi. Ma come ciò sarebbe
possibile se non ci fosse identità di natura tra la nostra fantasia
e la loro, e se la differenza non fosse di semplice quantità? Meglio
che: poëta nascitur, andrebbe detto: homo nascitur poëta; poeti
piccoli gli uni, poeti grandi gli altri. L'aver fatto di questa
differenza quantitativa una differenza qualitativa ha dato origine
al culto e alla superstizione del genio, dimenticandosi che la
genialità non è qualcosa di disceso dal cielo, ma è l'umanità
stessa. L'uomo di genio, che si atteggi o venga rappresentato come
lontano da questa, trova la sua punizione nel diventare, o
nell'apparire, alquanto ridicolo. Tale il genio del periodo
romantico, tale il superuomo dei tempi nostri.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo II, Milano,
Adelphi, 1990, p. 29]
E' grandioso, a suo modo, tutto questo, perché ci mette in pace con
l'esperienza dell'arte, e ci conferma in quello che sentiamo
confusamente come una asserzione giusta e doverosa: che l'arte non
possa essere soltanto qualcosa di strumentale e di servile rispetto
alla cultura umana in genere, e che quando la si interpreta in
questo modo si dà prova di empia meschinità, per qualche ragione.
Però dopo che Croce ci ha detto tutte queste cose, ci resta un
motivo di insoddisfazione per la sua argomentazione dell'intuizione
pura, come se ci fossimo lasciati persuadere dalla bella forma
letteraria di un discorso in fondo generico, non rigoroso ma
suggestivo. Questo del resto è stato l'atteggiamento della cultura
italiana verso Croce, questo il motivo del declino della fortuna dei
suoi libri. Eppure, a ben vedere il problema non è di Croce, ma
siamo noi a non capire fino in fondo, perché la teorizzazione
dell'intuizione pura si completa in un'osservazione estremamente
spregiudicata sulla natura del linguaggio e dell'espressione, la
quale da un lato ha il problema di essere a sua volta espressa con i
mezzi di cui Croce disponeva cento anni fa, e dall'altro urta con un
pregiudizio secolare riguardo al quale nemmeno la cultura del
Novecento non ha saputo svolgere una critica completamente
consapevole. Questo pregiudizio antico, che i linguisti del
Novecento hanno continuato a perpetuare, e persino a sforzarsi di
ridimostrare quando è saltato loro in mente il sospetto che lo
avrebbero potuto abbandonare, è quello che ammette una natura
eterogenea del linguaggio a doppia articolazione rispetto a tutti
gli altri mezzi di espressione, e di conseguenza ammette che il
linguaggio a doppia articolazione possegga una natura logica
obiettiva in quanto mezzo espressivo.
Per spiegarci, qui è il caso di fare uso di qualche termine della
linguistica recente, usando un po' di terminologia che al tempo
dell'Estetica non esisteva: e la cosa si giustifica perché il
ragionamento di Croce riguardo al linguaggio sembra quasi
preveggente della linguistica a venire. Come è noto, è invalso l'uso
di chiamare lingue a doppia articolazione le lingue che si
apprendono dall'ambiente nell'infanzia e si usano per parlare e per
scrivere, quelle lingue che enumeriamo come italiano, inglese,
eccetera e che sappiamo appartenere a un unico insieme, perché hanno
tutte la caratteristica di disporre i suoni o le lettere per formare
parole, e poi le parole per formare frasi: due livelli di
articolazione, appunto. Opportuna denominazione, che definisce le
lingue storiche distinguendole dai mezzi di espressione figurata,
musicale e di ogni altro genere partendo da un carattere obiettivo
ed empirico, e che proprio per questo potrebbe condurre a concepire
l'espressione come un genere a cui appartengono diverse tipologie di
mezzi espressivi funzionalmente diversi l'uno dall'altro e
sviluppati utilizzando diverse specie di proprietà naturali, senza
che ciò autorizzi a distinguere nessuna tipologia dalle altre se non
per le sue caratteristiche empiriche specifiche.
L'idea di Croce è che il rapporto simbolico, per cui vi sarebbero
l'espressione appropriata da un lato e l'espressione figurata
dall'altro, sia un pregiudizio antico che eleva a categoria una
distinzione di carattere assai relativo. La ragione è che la forma
dei rapporti logici - cioè l'insieme delle strutture logiche e
matematiche con le quali il pensiero si rende capace di emettere
giudizi sulle cose - in se stessa non è passibile di nessun genere
di espressione, perché risiede unicamente nella soggettività umana.
La rappresentazione reale delle cose è fatta tutta di qualità
percettive, di colori, di odori, di percezioni tattili e di
quant'altro del genere, nonché di quelle qualità percettive d'altro
genere che sono gli stati d'animo e le emozioni. Ma le strutture
logiche che mettono in relazione le qualità percettive nei giudizi
in cui conosciamo il mondo, in se stesse non sono oggetto di nessuna
percezione e di nessuna rappresentazione reale. Nella mente umana
non vi è spazio senza oggetti che lo popolano. Non vi è tempo senza
eventi e senza mutamenti di stato di cose reali che lo scandiscono.
Non vi sono relazioni di logica formale senza esempi che le
applichino, e non vi è modo di apprendere alcuna legge logica se non
applicando qualche schema operativo con cui si esegue l'operazione
che le corrisponde. Si potrebbe obiettare: un'espressione che
esprime un qualsiasi semplicissimo teorema elementare del calcolo
delle proposizioni, ad esempio a & b = ~(~a v ~b) , o qualsiasi
più complessa espressione algebrica, è l'espressione formalmente
pura di una struttura logica. Non è vero: l'espressione a & b =
~(~a v ~b) che abbiamo davanti agli occhi è un oggetto fisico, un
aggregato di inchiostro su un foglio di carta, il quale ha un
significato che esula completamente da questa sua natura fisica solo
se tu che lo guardi sei in grado di eseguire l'atto mentale che
capisce la regola formale di relazione tra qualsiasi oggetto che
esso esprime, cioè non di guardarlo, ma di leggerlo e capirlo.
Ugualmente, non vi sono espressioni di punti geometrici, ma vi sono
discorsi che esprimono il fatto che davanti a un problema di
geometria non devi guardare la raffigurazione '.' come essa ti
appare percettivamente, ma guardandola devi capire che non bisogna
assegnare alcuna dimensione al '.', e considerarlo solo per la sua
posizione relativa ad altri elementi geometrici.
L'essenziale di questo discorso è questo: che non appena riflettiamo
su esempi anche semplicissimi come questi, ci accorgiamo che è
concettualmente inconcepibile che alcunché di formale nel pensiero
umano abbia rappresentazione ed espressione in se stesso. Il
formale, sia esso logico o matematico, è la struttura della
relazione tra elementi reali nella percezione, non è esso stesso
oggetto della percezione, ed è il soggetto umano in se stesso che è
fatto di strutture logiche, le quali sono solo nei suoi pensieri: la
loro espressione non è mai appropriata, ma sempre e soltanto
esemplare. Solo che questa elementare considerazione sfugge, perché
si ritiene che il linguaggio a doppia articolazione sia capace di
rappresentare alcunché di strutturale, o le cosiddette "astrazioni",
o i concetti nella loro universalità, o le forme del pensiero
logico. Ma torniamo a uno degli esempi accennati sopra a proposito
dell'interpretazione simbolica della bellezza: la donna togata dallo
sguardo austero e assorto (o preteso tale) che tiene in mano la
bilancia e dovrebbe rappresentare la giustizia secondo gli artisti
che un tempo vincevano i concorsi per l'abbellimento degli uffici
pubblici. Sappiamo benissimo perché questo a suo modo sia vero: vi è
un complesso di nozioni che sono sedimentate nel contesto culturale
in cui viviamo, sicché l'immagine della bilancia che è in equilibrio
e che non pende da nessuno dei due lati suscita nella mente l'idea
di ciò che uno si aspetta dal tribunale che amministra la giustizia,
e cioè di uscirne senza bisogno di entrare in guerra con colui con
il quale è in lite, perché il giudice, si spera, avrà provveduto a
spartire le cose in maniera accettabile per le parti. Questo è un
livello di interpretazione del simbolo accessibile anche alle
persone di cultura più modesta; meno immediato è capire perché mai
la giustizia sia una donna rappresentata con forte attenuazione dei
caratteri sessuali, ma anche qui il simbolo non contiene nulla di
misterioso se solo pensiamo che la giustizia dei tribunali vuol far
pensare che essa è benefica e assolutamente obbligatoria al tempo
stesso, e allora, guarda un po', raffigura se stessa in modo da far
venire in mente l'esempio per eccellenza dell'autorità benefica ma
indiscutibile: quella della figura materna.
Il simbolo è tale perché sollecita la memoria, richiama esperienze e
nozioni apprese dal contesto culturale in cui si è svolta la nostra
vita, sollecita reazioni tipiche della psicologia umana a
determinati segnali (reazioni talvolta dipendenti dalla natura del
mammifero evoluto umano in genere e talaltra da determinate culture,
questo non ha importanza), e in questo modo talvolta causa
l'attuazione di un'operazione di sintesi concettuale, in un preciso
momento dell'esistenza di un uomo vivo. Talaltra fallisce
nell'intento, e allora non è un simbolo, ma un oggetto materiale
privo di significato. Questo è il destino anche della nostra
raffigurazione muliebre scultorea della giustizia, la quale è sempre
sicuramente una massa di pietra, e può anche, sotto certe condizioni
di cultura, essere compresa come simbolo. Se non che, si dirà, la
giustizia è un concetto universale e "un'astrazione": non si
rinuncia facilmente all'idea che quando se ne parla nei termini di
un trattato di filosofia morale o di giurisprudenza si abbia a che
fare con la rappresentazione di questo carattere formale del
concetto, e che la cosa vada diversamente che con la statua di
pietra che si vede nell'aula del tribunale. Ma che così accada, è
inconcepibile. Sento dire la parola "giustizia", la vedo scritta:
"giustizia": non accade nient'altro se non che percepisco un fatto
fisico il quale agisce sulla mia memoria e mi costringe a orientare
la mia attività mentale su certi contenuti che avevo assimilato via
via nel tempo. Mi chiedo cosa sia la giustizia e consulto libri di
filosofi e di giuristi: e questi mi fanno vedere situazioni umane,
problemi e conflitti e soluzioni di cui non avevo alcuna conoscenza,
mi indirizzano a fare attenzione a taluni aspetti e a trascurarne
altri, correggono le credenze ingenue che avevo in mente all'inizio,
mi insegnano che quello che avevo preso per regola universale era
l'indebita generalizzazione della mia povera esperienza, e alla fine
di tutto forse mi fanno approdare al possesso di una forte
convinzione di avere la soluzione del problema che mi ponevo, o
forse invece mi conducono a una socratica modestia e alla sensazione
di saperne meno che all'inizio. In tutto questo mi passa per la
mente una quantità immensa di parole e di frasi che mi obbligano a
ragionare logicamente sui dati del problema, a raggruppare,
classificare, includere, escludere, rilevare le contraddizioni e
pretendere la coerenza, ma non una di queste espressioni è in se
stessa la struttura del mio ragionare: le espressioni sono
sollecitazioni della mia memoria, sono segnali che mi obbligano a
reagire formando sintesi concettuali, ma queste sintesi continuano
ad essere soltanto in me che reagisco a quanto viene espresso,
perché non c'è modo di concepire come esse potrebbero mai
trasferirsi da me all'oggetto fisico che le esprime, il quale è
sempre una cosa reale nella percezione, e mai una struttura logica.
Detto questo, dobbiamo fare una scelta di campo: o ci immaginiamo
che la forma logica del pensiero sia suscettibile di espressioni
adeguate, cioè ci immaginiamo qualcosa a dir poco di miracoloso, se
non uno di quegli impossibilia che l'Aquinate negava a Dio stesso
(come cancellare la realtà di un fatto avvenuto), oppure molte
distinzioni tradizionali che definiscono la teoria del linguaggio e
dell'espressione si rivelano come distinzioni di valore relativo,
che si possono accogliere strumentalmente per certi scopi, ma non si
possono accogliere quando si vuole avere una concezione completa e
coerente dell'espressione in genere.
La prima distinzione che si mostra meramente relativa è quella tra
espressioni metaforiche e non metaforiche, o tra metafora e parola
propria: se tutta l'espressione e tutto il linguaggio è fatto di
eventi percettivi che determinano psicologicamente reazioni del
soggetto umano, e se il carattere logico è tutto nell'atto che il
soggetto umano può compiere quando vi è sollecitato, ma non può
essere nell'espressione in se stessa, allora ne segue che la
distinzione tra metafora e parola propria non può essere assoluta, e
che ogni discorso e al tempo stesso metaforico e appropriato. Con le
parole di Croce:
E realistico e simbolico, oggettivo e soggettivo, classico e
romantico, semplice e ornato, proprio e metaforico (...) quando
cercano di svolgersi in definizioni precise (...) o annaspano nel
vuoto o cadono nell'assurdo. Esempio tipico, la comunissima
definizione della metafora, come di un'altra parola messa in luogo
della parola propria. E perché darsi quest'incomodo, perché
sostituire alla parola propria la impropria e prendere la via più
lunga e peggiore, quando è nota la più corta e migliore? Forse
perché, come si suol dire volgarmente, la parola propria, in certi
casi, non è tanto espressiva quanto la pretesa parola impropria o
metafora? Ma, se cosi è, la metafora è appunto, in quel caso, la
parola "propria"; e quella che si suol chiamare "propria", se fosse
adoperata in quel caso, sarebbe poco espressiva e perciò
improprissima.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo IX, Milano,
Adelphi, 1990, p. 88]
Nello stesso capitolo si trova illustrata in particolare la relativa
legittimità di questa usuale distinzione, ma insistendo sul
carattere pratico e in ogni caso convenzionale di ciò che è preso
per espressione propria rispetto alle sue varianti metaforiche:
Posto che un concetto nell'uso scientifico di uno scrittore sia
designato con un determinato vocabolo, è naturale che altri vocaboli
che quello scrittore trova adoperati, o incidentalmente adopera egli
stesso per significare il medesimo concetto, diventino, rispetto al
vocabolo da lui fissato come esatto, metafora, sineddoche, sinonimo,
forma ellittica e simili. (...) Per la scienza, vi sono parole
proprie e metafore: uno stesso concetto si può formare
psicologicamente tra varie circostanze e perciò esprimere con varia
intuizione; e nel costituirsi della terminologia scientifica di uno
scrittore, fissato uno di questi modi come il retto, gli altri
appaiono tutti impropri o tropici.
[ib., p. 92]
La logicità dell'espressione, da cui la metafora è relativamente
distinguibile, si riduce all'uso terminologico, la cui origine è
nelle circostanze psicologiche occasionali: dunque proviene da ciò
che proprio per definizione non è logico in se stesso. Se si fosse
occupato della linguistica successiva, possiamo immaginare che Croce
avrebbe criticato con la stessa radicalità le distinzioni
fondamentali a cui essa ci ha abituati, ammettendole solo come
relative, perché esse tutte si basano sull'idea che esista
l'espressione appropriata del concettuale e del formale. Se ci
concentriamo sull'idea che ciò che ha carattere di struttura logica
e matematica non può apparire in esemplare in alcuna percezione, ma
può essere soltanto la struttura dell'operazione della nostra
oggettivazione logica, che è viva ed è reale se è vivo l'uomo che la
compie, non se esiste il foglio di carta su cui è rappresentato
l'apparato simbolico che la esprime, allora non possiamo non
renderci conto del carattere estremamente relativo della distinzione
principe della linguistica moderna, quella tra i piani della
sintassi, della semantica e della pragmatica. La linguistica del
Novecento, come si sa, distingue la dimensione della sintassi come
dimensione delle relazioni formali tra entità linguistiche che poi
si concretizzano nelle diverse grammatiche, della semantica come
dimensione del significato inteso come associazione delle entità
linguistiche alle cose, e della pragmatica come dimensione
dell'espressività che si aggiunge a quella delle entità linguistiche
allorché la lingua è utilizzata concretamente: inflessione,
gestualità che accompagnano il parlare, connotazioni che il parlare
assume nei diversi contesti, e tutte le cose del genere, tutte
quelle che non si prestano a essere catalogate dai vocabolari.
Croce avrebbe detto: tutto questo sul piano reale si riduce alla
cosiddetta pragmatica, perché tutto ciò che appartiene al linguaggio
(nel senso ristretto di linguaggio a doppia articolazione) è
linguaggio ed è espressione in quanto determina reazioni
psicologicamente reali del soggetto umano. Supponiamo che io dica a
chi mi ha chiesto un parere: "se vuoi ottenere x, prima devi fare
y..."; uso cioè un costrutto sintattico che esprime una relazione
logica di implicazione, e non ti ho detto che x o y siamo realtà, ma
soltanto che x richiede la condizione necessaria y. Ma se tu capisci
questo mio messaggio, vuol dire che la sintassi della lingua ha
generato un evento dentro di te, nel quale ti rendi capace di
comprendere una relazione logica di implicazione tra questi elementi
y e x: e quindi in questo senso la sintassi e la semantica sono la
stessa cosa. Nello stesso senso, sono la stessa cosa anche la
semantica e la pragmatica: se io dico "una causa civile mediamente
dura molti anni", esprimo un giudizio obiettivo, e il senso delle
parole che utilizzo è questione di semantica. Ma se dico la stessa
frase a una persona che ha con me un contrasto di interessi, il
contesto è tale la frase assume un significato minaccioso che si
aggiunge a quello obiettivo, e questo significato appartiene alla
dimensione pragmatica. Tuttavia, in entrambi i casi il significato
delle parole è dato dagli eventi psichici reali che generano: per
sapere cosa sia una causa civile, occorrono dei presupposti di
contenuto della memoria, e la capacità di evocarli e utilizzarli,
sicché la distinzione tra la semantica (intesa come associazione
obiettiva di parole e cose) e pragmatica non corrisponde a nulla di
essenzialmente eterogeneo. In ogni caso, comunicare è mandare
segnali e verificare che quelli che si ricevono indietro sono parte
di un insieme di risposte ammissibili: e in ogni caso il segnale
resta un fenomeno fisico che in se stesso è privo di relazione con
la struttura logica di quello che è pensato ed espresso.
Anche la questione connessa con la distinzione tra segno e icona
viene, per così dire, sdrammatizzata dalla constatazione della
natura pragmatica di ogni espressione. La differenza tra queste due
dimensioni è quotidiana: corrisponde semplicemente alla differenza
che c'è tra scrivere e disegnare. Il segno è associato in maniera
completamente arbitraria a ciò che denota, mentre l'icona contiene
la riproduzione di qualcosa che appartiene all'oggetto, sebbene in
generale tale riproduzione non basti alla comprensione di qualsiasi
icona, per la quale è necessaria comunque la conoscenza di un codice
comunicativo. Adottando questa terminologia, la scritta "BAR" su di
un'insegna si usa chiamare segno, mentre lo stesso messaggio
ottenuto mediante la riproduzione del contorno di una tazzina o di
un chicco di caffé si usa chiamare icona. Per migliorare un poco la
precisione di termini, possiamo dire che l'icona è comprensibile
anche come relazione di carattere matematico con la cosa di cui
"riproduce" l'intuizione, e che la percezione è in grado di
calcolare immediatamente e spontaneamente questa relazione; il segno
invece è il termine di un rapporto tra cose completamente
eterogenee, sicché la sua relazione con ciò che denota ha il tipico
carattere dei rapporti causali. Questa distinzione tipica è
utilissima per descrivere le fattispecie empiriche dell'espressione
e per prendere atto delle loro peculiarità espressive; ma oltre a
questo non è rilevante, perché comunque si esclude che la
rappresentazione a mezzo di segni possa essere il veicolo di una
comunicazione puramente logica. L'arbitrarietà del rapporto del
segno con il denotato non può implicare nessuna differenza
qualitativa rispetto alla espressione a mezzo di icone, e comunque
l'espressione del pensiero logico può avvenire solo generando
rappresentazione intuitive le quali causano un evento di sintesi
logica nel soggetto umano che si esprime, in colui che parla come in
colui che legge o ascolta.
Adesso rivediamo l'estetica dell'intuizione pura con la chiave di
lettura di questa precisazione sulla natura generale
dell'espressione. Se Croce ci avesse detto soltanto che vi sono da
una parte l'intuizione come materiale dei pensieri, e dall'altra il
pensiero concettuale, allora la sua estetica non sarebbe molto
diversa dallo schema concettuale tipico della riduzione simbolica, e
alla fine sarebbe ritornata a istituire la solita gerarchia di
valore che mette l'intuizione al di sotto del pensiero, e quindi
sarebbe tornata anche alla dialettica dello scrupolo moralistico
rispetto all'arte, che oscilla tra l'idea di tollerare
utilitaristicamente oppure di negare assolutamente ogni dignità
dell'intuizione. Ma lo schema tradizionale della riduzione simbolica
richiede come propria condizione assolutamente necessaria che si
accetti l'altra idea, per cui vi sarebbero forme espressive
intuitive e forme espressive logiche in se stesse: le forme
espressive che l'uso scolastico chiamava discorsive, con termine che
mostra eloquentemente come si ritenesse che tale capacità espressiva
risiedesse nella lingua a doppia articolazione. Qua Croce obietta:
non è possibile che esista l'espressione discorsiva, o puramente
logica in se stessa, perché l'espressione è tutta fatta di fatti
fisici (segnali) che generano reazioni psicologicamente reali,
ovvero emotive, nel soggetto umano, e un'espressione che non abbia
questo carattere è inimmaginabile. Perciò i fatti e i prodotti della
cultura umana sono tutti egualmente espressivi, e la dimensione
intuitiva ed espressiva è condizione di ogni pensiero, e la bellezza
non è altro che la effettiva capacità espressiva di un qualsiasi
produzione della cultura umana, anche del genere apparentemente più
astratto e più distante da ciò che tradizionalmente è considerato
luogo di arte e di bellezza. Il criterio della bellezza è la
riuscita espressiva, sicché quando siamo di fronte a espressioni di
carattere astratto che vogliono dimostrarci qualcosa, la loro
bellezza non è altro che la riuscita del loro intento:
...il concetto è senza dubbio pensato solo quando si concreta in una
forma espressiva e si fa per questo rispetto rappresentazione,
talché un'affermazione può essere riguardata così sotto l'aspetto
logico come sotto quello estetico; e sarà ben pensata e perciò
ottimamente espressa, perfettamente estetica perché perfettamente
logica...
[Benedetto Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1905,
Capitolo IV; Laterza, Bari, 1967, p. 91 ]
Dunque l'espressione è comune, l'ambito intuitivo e quello logico
riposano sulla stessa capacità di espressione e hanno la stessa
bellezza quando riescono, ovvero esprimono ciò che vogliono
esprimere, e sembrerebbe che l'ambito artistico rispetto a quello
logico, ovvero l'ambito artistico rispetto a quello scientifico, si
possa distinguere soltanto in maniera convenzionale: "arte" è ciò
che è ritenuto usualmente tale, attraverso criteri che variano
secondo tempi e luoghi, proprio perché l'espressione e il suo
riuscire come bellezza sono in ogni attività umana, anche quella più
modesta, e che si sarebbe riluttanti a considerare arte. Le
minuscole attività pratiche che comunque richiedono pensieri e
valutazioni ci offrono esempi eloquenti dell'onnipresenza della
bellezza, se la intendiamo nella sua natura di espressione e di
comunicazione che riesce nel suo intento:
Una busta gialla, grossolana, bruttissima per chi debba chiudervi
una letterina d'amore, è poi sommamente adatta a contenere una
citazione in carta bollata per mano di usciere; la quale starebbe
molto male (o per lo meno parrebbe un'ironia) in una busta quadrata
di carta inglese.
[Benedetto Croce, Estetica, 1902, Teoria, Capitolo XIV, Milano,
Adelphi, 1990, p. 139]
Proprio questo genere di esempio e la relativa considerazione
dovrebbero assicurarci che, così come la bellezza è in ogni
espressione, l'arte è tale solo per convenzione: attività che si
colloca oltre un certo grado di importanza o di complessità, secondo
un parametro scelto in modo che non ci faccia cadere nel paradosso
di considerare artisti allo stesso titolo un Dante e uno che
confeziona bene un plico postale (sebbene essi siano poeti allo
stesso modo: homo nascitur poëta), ma comunque arbitrario.
Ma ciò non considererebbe tutti gli elementi della questione. Siamo
arrivati a questo punto del discorso traendo le conseguenze della
constatazione della natura necessariamente intuitiva e figurativa di
qualsiasi genere di espressione: constatazione che non è banale, e
richiede di essere fatta e resa esplicita, perché le si oppone il
pregiudizio tradizionale e antichissimo di segno opposto, per cui
esisterebbero tipologie di espressione di qualità logica in se
stesse, le quali tipicamente sono considerate esistente nella lingua
capace di terminologie astratte e specializzate, e nei linguaggi
artificiali del genere dell'algebra. Questo pregiudizio è
inconcepibile, perché trasporta la capacità di sintesi logica dal
soggetto umano a cose inanimate, e non di meno ha avuto tutta una
sua ragion d'essere, perché esso (per dirlo brevemente) da una parte
è una rappresentazione a sua volta simbolica della serietà del
pensiero e della dignità dell'uomo, e dall'altra la sua critica non
si impone da sé come un'ovvietà, ma anzi richiede una riflessione
resa possibile dallo sviluppo di una capacità critica particolare e
di una consapevolezza delle qualità dei diversi tipi di espressione.
Oltre a ciò, vi è un senso ristretto dell'arte e della bellezza, che
specializza la concezione dell'espressione in genere senza per
questo contraddirla. E' il punto di partenza di Croce: ciò che si è
sempre inteso come arte ha un segno qualitativo che non è relativo
ai contesti storici, il quale ci viene suggerito da tutte le sue
manifestazioni storiche, e che ci mostra il suo carattere
distintivo, unico ed essenziale: l'arte è il luogo delle attività
espressive umane dove il contenuto dell'intuizione viene espresso in
maniera tale che il giudizio sulla realtà di ciò che è rappresentato
è irrilevante. L'arte è fantasia, non nel senso che esprima
necessariamente cose che non ci sono, o che esistono soltanto come
immagini mentali dell'uomo, ma nel senso che esprime qualsiasi
contenuto senza distinguere se esso si iscriva con coerenza nella
nostra concezione complessiva delle cose, o se invece sia inventato
gratuitamente. Quello che Croce dice esattamente, è questo: che la
capacità umana di generare espressioni senza mettere in atto alcuna
verifica della realtà di ciò che è espresso, esiste. Esiste, e da
sempre ha un nome: fantasia. E non è una attività subordinata, ma è
l'inizio ed è la condizione di realtà della cultura umana, che
immaginando e fantasticando genera tutti i propri contenuti e tutti
gli oggetti del proprio pensiero.
Allora, potremmo dire che la bellezza e l'intuizione sono
imprescindibili in ogni espressione, e anche in quella che pone ogni
scrupolo nel verificare la realtà del proprio oggetto e che si
chiama scienza; mentre ciò che si dice arte è ciò che risulta
dall'attività espressiva fantastica che non ha alcun interesse per
la realtà del proprio oggetto di espressione, e che avviene senza
nessuna coscienza della dimensione della verifica della realtà.
Attività che l'uomo di fatto fa e non può non fare, e che appartiene
alla sua esistenza non meno del pensare per giudicare della realtà o
irrealtà delle cose. In questo senso, in quanto è libera dalla
relazione con l'asserzione della realtà, l'intuizione artistica è
pura, cioè sufficiente e fine a se stessa. Ripensiamo soltanto alle
immagini di Giovan Battista Basile, "alla cottura del cuore del
dragone marino e all'odore che esso tramanda, il prodigioso
ingravidarsi della cuoca e di tutti gli arredi della stanza, che
partoriscono i loro simili e piccini, la tavola un tavolino, la
trabacca un lettuccio, le sedie le sedioline...", per avere vivo il
senso di quanto l'arte, e quindi la sfera estetica, quando è capita
nella sua natura di intuizione pura, allora è pensata in una
prospettiva che le rende piena giustizia e non soffre più nulla
delle limitazioni implicite in tutte le riduzioni tradizionali.
Questa è l'estetica dell'intuizione pura, che contiene due tematiche
intrecciate e correlate, ma non identiche e non riducibili l'una
all'altra: quella che mostra il carattere estetico di qualsiasi
espressione e quella che rende giustizia alla fantasia come luogo
effettivo della formazione dei contenuti della cultura umana.
Logica come scienza del concetto puro (1906)
Filosofia dello spirito II Laterza 1967
Questa Logica non tratta né della logica aristotelica, né di quella
di Frege e Russel, se non per avvertirci a non fraintendere la
natura di queste cose. Tratta invece dell'arte di riconoscere sempre
l'uomo nell'opera dell'uomo: e lo fa con un impianto concettuale e
lessicale talmente singolare, da risultare libro di lettura
faticosissima, nonostante la limpida chiarezza della prosa.
Una presentazione informale dallo stesso Croce
L'idea di fondo del libro è questa: si chiama "logica" in senso
proprio la capacità dello spirito (umano) di giudicare delle proprie
vicende. Ancora più al fondo, poi, c'è questo: si chiama "logica"
l'atto del pensiero in cui ciascun uomo fa propria, e rivive come
presente, la vicenda esistenziale di se stesso come pure di ogni
altro uomo che sia vissuto in un qualche tempo e abbia lasciato
traccia della propria esistenza spirituale. E di conseguenza non si
chiamano "logica" le attività in cui la mente umana fa ragionamenti
e calcoli utili a scopi estranei a quello di capire gli uomini.
Sicché questa Logica come scienza del concetto puro non tratta né
della logica aristotelica, né di quella di Frege e Russel, se non
per avvertirci a non fraintenderne la natura. Tratta invece
dell'arte di riconoscere sempre l'uomo nell'opera dell'uomo: e lo fa
con un impianto concettuale e lessicale talmente singolare, da
risultare libro di lettura faticosissima, nonostante la limpida
chiarezza della prosa.
Chi tenta di leggere, di capire e di criticare questo libro, deve
costantemente ricordare questo: che per Croce prima di ogni altra
cosa importa capire gli uomini. E che capire il prossimo non è un
fatto sentimentale, ma anzi è l'essenza della vita dell'uomo
pensante: gli altri si capiscono pensando come pensano loro, non con
identificazioni sentimentali e proiezioni emotive di se stessi, ma
con tutta la forza delle distinzioni logiche chiare e nette.
Non si può ridurre questo libro a una facile formula. Per farci
un'idea della prospettiva di Croce su ciò che egli (forse
bizzarramente) chiama "Logica", scegliamo di lasciar parlare lui
stesso, e leggiamo alcune pagine da La storia come pensiero e come
azione, in cui la idea del 1906 è arricchita da trent'anni di
meditazione, ma non è cambiata:
IV - SIGNIFICATO STORICO DELLA NECESSITÀ
Il giudizio, nel pensare un fatto, lo pensa quale esso è, e non già
come sarebbe se non fosse quello che è: lo pensa, come si diceva
nella vecchia terminologia logica, secondo il principio d'identità e
contradizione, e perciò logicamente necessario. Questo e non altro è
il significato della necessità storica, contro cui si nutrono
sospetti e perfino si tentano ribellioni, immaginando che voglia
negare la libertà umana, laddove non nega se non l'inconcludenza
logica. A conferma, si osservi che l'affermazione di quella
necessità è posta, ed è di volta in volta ripetuta, contro
l'introduzione in istoria del vietato "se": non già del "se",
particella grammaticale, il cui uso è perfettamente lecito, e
neppure di quel "se" che si adopera per desumere dal caso storico un
avvertimento o ammonimento che l'oltrepassa, di carattere generale e
astratto, come quando si dice che se, nel luglio del 1914, gli
uomini di stato di Germania o degli altri popoli avessero dominato i
loro nervi, la guerra non sarebbe scoppiata, il che serve talvolta a
dare la coscienza della gravità di certi atti decisivi e a eccitare
il senso della responsabilità; - ma, proprio, del "se" storico e
logico, ossia antistorico e illogico. Questo "se" divide
arbitrariamente l'unico corso storico in fatti necessari e fatti
accidentali (lo divide proprio cosi, perché, ove concepisse tutti i
fatti come accidentali, la compattezza storica rimarrebbe intatta,
tanto valendo "tutti accidentali" quanto "tutti necessari"); e si
argomenta di qualificare nei suoi racconti un fatto come necessario
e un altro come accidentale, e allontana mentalmente questo secondo
per determinare come il primo si sarebbe svolto conforme alla natura
sua, se quello non l'avesse turbato. Giocherello che usiamo fare
dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando
intorno all'andamento che avrebbe preso la nostra vita se non
avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrata, o non
avessimo commesso uno sbaglio che abbiamo commesso; nel che con
molta disinvoltura trattiamo noi stessi come l'elemento costante e
necessario, e non pensiamo a cangiare mentalmente anche questo noi
stessi, che è quel che è in questo momento, con le sue esperienze, i
suoi rimpianti e le sue fantasticherie, appunto per avere incontrato
allora quella data persona e commesso quello sbaglio: senonché,
reintegrando la realtà del fatto, il giocherello s'interromperebbe
senz'altro e svanirebbe. Contro la fallace credenza che sopr'esso
sorge, fu foggiato il proverbio popolare che del senno di poi sono
piene le fosse. Ma poiché il giocherello, in istoria, è del tutto
fuori luogo, quando si affaccia colà, stanca presto e presto si
smette. Ci voleva un filosofo, un assai astratto filosofo, per
scrivere un libro intero (Renouvier, Uchronie) al fine di narrare
"le développement de la civilisation européenne tel qui n'a pas été,
tel qui aurait pu être", sul convincimento che la vittoria politica
della religione cristiana nell'occidente fu un fatto contingente, e
che sarebbe potuto non accadere, ove si fosse introdotta una piccola
variazione, gravida di conseguenze, alla fine del regno di Marco
Aurelio e nelle fortune di Commodo, Pertinace e Albino!
Dalla necessità storica, nel significato logico che si è
determinato, e che è il pensiero che sente la gravità del còmpito
suo e non vuole lasciarsene distrarre correndo dietro a trastulli,
bisogna tenere ben lontani due altri significati dello stesso
vocabolo, e che sono due concetti erronei. L'uno è che la storia sia
necessaria perché i fatti precedenti nella serie determinano i
susseguenti in una catena di cause ed effetti. Non si insisterà mai
abbastanza su questa semplice e fondamentale verità, e pur difficile
a cogliere da molti intelletti avvolti nelle ombre del naturalismo e
del positivismo: che il concetto di causa (e anche qui, sebbene
possa forse sembrare superfluo, avvertiamo che intendiamo del
"concetto", e non del "vocabolo", il quale appartiene alla comune
conversazione), che il concetto di causa è e deve rimanere estraneo
alla storia, perché nato sul terreno delle scienze naturali e avente
il suo ufficio nell'ambito loro. Né alcuno è riuscito mai,
praticamente, a raccontare per adeguazione di cause ed effetti un
qualsiasi tratto di storia, ma soltanto ha potuto aggiungere al
racconto costruito con diverso metodo, ossia con quello che è
spontaneo e proprio alla storia, l'impropria terminologia
causalistica per far pompa di scientifismo. Ovvero altresì, e come
conseguenza sentimentale di quel preconcetto deterministico, si è
preso a raccontarla nel modo sfiduciato e pessimistico a cui l'uomo
naturalmente si dispone quando la storia, invece di apparirgli come
fatta da lui e da proseguire e innovare con l'azione sua propria,
gli casca addosso simile a una valanga di sassi che rotolano da un
alto monte e battono sul fondo e stanno sulla sua persona,
schiacciandola.
L'altro concetto si presenta nella forma capziosa della sentenza:
che nella storia c'è pure una logica; il che è indubitabile, perché,
se la logica è nell'uomo, è anche nella storia, e, se il pensiero
umano pensa questa, la pensa, come si è visto, logicamente. Ma la
parola "logica", nella suddetta sentenza, significa cosa ben diversa
dalla logicità, un disegno o programma secondo il quale la storia
s'inizierebbe, svolgerebbe e terminerebbe, e che allo storico
spetterebbe di ritrovare, sottostante ai fatti apparenti, nascosta
matrice di questi fatti e ultima e vera loro interpretazione. Più
volte i filosofi hanno ragionato un siffatto disegno svolgendolo dal
concetto dell'Idea o da quello dello Spirito, o, altresì, della
Materia; senonché Idea, Spirito e Materia travestivano in varie
guise il Dio trascendente, che solo potrebbe idearlo e imporlo agli
uomini e attendere a farlo eseguire. A questa, che è la forma nuda e
schietta, giova, dunque, sempre ridurlo, e in questa principalmente
considerarlo: forma che Tommaso Campanella diceva nei suoi sonetti,
e senza nessuna intenzione satirica né burlesca, esser quella di un
"comico fatallibro", di uno "scenario", quale egli lo vedeva usato
ai suoi tempi dai direttori delle compagnie dei comici dell'arte per
disegnare l'azione della commedia, assegnare le varie parti agli
attori e far seguire la recita; e che l'abate Galiani paragonava
alla pratica, consueta ai bari, che giocano con "dés pipés", con
dadi segnati. Come che sia, nemmeno una storia di questa sorta è
stata mai da alcuno effettualmente raccontata; e l'imbarazzo dei
suoi proponitori e propugnatori si scopriva già nella loro
metodologia, per l'aggiunta e contradittoria loro richiesta che
l'indagine dovesse attingere un disegno che è di là dalle
testimonianze e dai documenti, e però irraggiungibile per quella
via; e, nel fatto, per l'uso di quelle testimonianze ora a simbolo
ora a superfluo ornamento dell'asserzione che facevano delle loro
credenze e tendenze e speranze e paure, politiche, religiose,
filosofiche o altre che fossero e che battezzavano storia. Al pari
della causalità, il Dio trascendente è straniero alla storia umana,
che non sarebbe se quel Dio fosse: essa che è a sé stessa il Dioniso
dei misteri e il "Christus patiens" del peccato e della redenzione.
Insieme con questa duplice falsa forma della necessità sparisce
dalla storiografia l'altro concetto, che da quella deriva, della
previsione storica; perché, se del programma divino era rivelato di
solito l'atto ultimo (per esempio, la venuta dell'Anticristo, la
fine del mondo e il Giudizio universale), tutto il resto, intermedio
tra il presente e quello, stava pure scritto nel libro della
Provvidenza, e qualche tratto ne poteva essere per grazia rivelato a
qualche pio uomo; e, per un altro verso, nella concezione
causalistica la catena delle cause ed effetti proseguiva, e si
poteva, calcolando, determinarne i futuri anelli. Praticamente, per
altro, si confessava l'impossibilità del prevedere, nel primo caso
riverenti all'imperscrutabile volontà divina, nel secondo smarriti
dinanzi all'enorme complessità delle cause in giuoco: cosicché il
fedele naturalista faceva, come il naturalistico romanziere dei
Rougon-Macquart, lo Zola, che, dopo aver costruito nel tronco e in
tutti i rami e ramicelli l'albero di quella famiglia, sottomessa
alla legge dell'eredità, nel posto preparato a un bambino che stava
per nascere non sapeva segnare altro che l'ironica interrogazione
senza risposta: "Quel sera-t-il?". Nondimeno, la piega del prevedere
persiste come abitudine nell'aspettazione di molti lettori di
storia, e come dovere di dignità da parte di molti scrittori, e si
soddisfa in sfilate di immagini che non hanno alcuna sostanza, come
si è detto, fuori dei personali timori e paure e delle personali
speranze di chi le viene formando.
Alla necessità causalistica e a quella trascendente, che si celano
l'una e l'altra sotto tante forme ingannevoli, dovrebbero i
difensori della libertà umana saldamente opporsi, e non già partire
in battaglia, come sovente fanno, contro la necessità logica della
storiografia, che è, invece, premessa di questa libertà.
V - LA CONOSCENZA STORICA COME TUTTA LA CONOSCENZA.
Non basta dire che la storia è il giudizio storico, ma bisogna
soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia
senz'altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il
soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è
sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché
fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della
realtà. È giudizio storico anche la più ovvia percezione giudicante
(se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta
sensazione): per esempio, che l'oggetto che mi vedo innanzi al piede
è un sasso, e che esso non volerà via da sé come un uccellino al
rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o
col bastone; perché il sasso è veramente un processo in corso, che
resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il
mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia.
Ma neppur qui ci si può arrestare, rinunziando a svolgere
l'ulteriore conseguenza: che il giudizio storico non è già un ordine
di conoscenze, ma è la conoscenza senz'altro, la forma che tutta
riempie ed esaurisce il campo conoscitivo, non lasciando posto per
altro.
In effetto, ogni concreto conoscere non può non essere, al pari del
giudizio storico, legato alla vita, ossia all'azione, momento della
sospensione o aspettazione di questa, rivolto a rimuovere, come si è
detto, l'ostacolo che incontra quando non scorge chiara la
situazione da cui essa dovrà prorompere nella sua determinatezza e
particolarità. Un conoscere per il conoscere, non solo, diversamente
da quel che taluni immaginano, non ha punto dell'aristocratico né
del sublime, esemplato come è in effetto sul passatempo idiota degli
idioti e dei momenti di idiozia che sono in ognuno di noi, ma
realmente non accade mai in quanto intrinsecamente è impossibile,
venendo gli meno con lo stimolo della pratica la materia stessa e il
fine del conoscere. E quegli intellettuali che disegnano come via di
salvazione il distacco dell'artista o del pensatore dal mondo che lo
attornia, la sua deliberata impartecipazione ai volgari contrasti
pratici, - volgari in quanto pratici, - non si avvedono di disegnare
nient'altro che la morte dell'intelletto. In una vita paradisiaca,
senza lavoro e senza travaglio, in cui non si urti in ostacoli da
superare, neppur si pensa, perché è venuto meno ogni motivo di
pensare, e neppure, propriamente si contempla, perché la
contemplazione attiva e poetica chiude in sé un mondo di pratiche
lotte e di affetti.
Né ci vogliono sforzi per dimostrare che anche quella che si chiama
la scienza naturale, col suo complemento e strumento che è la
matematica, si fonda sui bisogni pratici del vivere, ed è
indirizzata a soddisfarli; perché questa persuasione fu già indotta
negli animi dal suo grande banditore alla soglia dei nuovi tempi,
Francesco Bacone. Ma in qual punto del suo processo la scienza
naturale esercita quest'ufficio utile, facendosi vera e propria
conoscenza? Non di certo quando compie astrazioni, costruisce
classi, stabilisce rapporti tra le classi che chiama leggi, dà
formola matematica a queste leggi, e simili. Tutti cotesti sono
lavori di approccio, indirizzati a serbare le conoscenze acquistate
o a procacciarne di nuove, ma non sono l'atto del conoscere. Si può
possedere raccolta nei libri o pronta nella memoria tutta la materia
medica, tutte le specie e sottospecie delle malattie con le loro
caratteristiche; e con ciò, possedendosi "bien Galien, mais
nullement le malade", come avrebbe detto il Montaigne, si conoscerà
tanto poco quanto poco o nulla conosce di storia chi possiede una
delle tante storie universali che sono state compilate, o ne ha
ammobiliato la memoria, fino a quando non giunga il momento in cui,
sotto lo stimolo degli eventi, quelle conoscenze disciolgono la loro
immota rigidità e il pensiero pensa una situazione politica o altra
che sia; e similmente l'esperto di medicina, fino a quando non venga
al punto di aver davanti un malato e d'intuire e intendere il male
di cui propriamente quel malato, e solo quello, soffre a quel modo e
in quelle condizioni, e che non è più uno schema di malattia, ma la
concreta e individua realtà di una malattia. Le scienze naturali
muovono dai casi individuali, che la mente non ancora intende o non
intende a pieno, ed eseguono la lunga e complicata serie dei loro
lavori per riportare la mente cosi preparata innanzi a quei casi, e
lasciarla in diretta comunicazione con essi sicché ne formi il
giudizio proprio.
Alla teoria che ogni genuina conoscenza è conoscenza storica non fa
dunque vero contrasto e opposizione la scienza naturale, la quale,
al pari della storia, lavora nel mondo e nel basso mondo, ma la
filosofia o, se si vuole, la tradizionale idea di una filosofia che
abbia gli occhi rivolti al cielo e dal cielo attinga o aspetti la
suprema verità. Questa divisione di cielo e terra, questa concezione
dualistica di una realtà che trascende la realtà, di una metafisica
sulla fisica, questa contemplazione del concetto senza o fuori del
giudizio, le dà il carattere suo proprio, che è sempre il medesimo,
comunque si denomini la realtà trascendente, Dio o Materia, Idea o
Volontà, e sempre che si suppone che le resti sotto o di contro una
realtà inferiore o una realtà meramente fenomenica.
Ma il pensiero storico ha giocato a questa rispettabile filosofia
trascendente un cattivo tiro, come alla sua sorella la trascendente
religione, di cui essa è la forma ragionata o teologica: il tiro di
storicizzarla, interpretando tutti i suoi concetti e le sue dottrine
e le sue dispute e le sue stesse sfiduciate rinunzie scettiche come
fatti storici e storiche affermazioni, nascenti da certi bisogni da
essa in parte soddisfatti e in parte lasciati insoddisfatti, e a
questo modo le ha reso la giustizia che per il suo lungo dominare
(il quale era insieme un servire l'umana società) le si doveva, e ha
scritto il suo onesto necrologio.
Si può dire che, con la critica storica della filosofia
trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta,
perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere
suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più
filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in
quanto storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che
ha per suo principio l'identità di universale ed individuale,
d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni
distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. Singolare
vicenda della storia, che a lungo è stata considerata e trattata
come la più umile forma del conoscere, e per contrasto la filosofia
come la più alta, ed ora par che non solo superi questa, ma la
discacci. Senonché la cosiddetta storia, che se ne stava relegata
all'infimo posto, non era punto storia, ma cronaca o erudizione, e
si atteneva all'esterno, lavorando su testimonianze; e l'altra, che
ora è assurta, è il pensiero storico, unica e integrale forma del
conoscere. Quando la vecchia filosofia metafisica volle porgere una
mano soccorrevole alla storia per tirarla in su, non la stese ad
essa ma alla cronaca e, non potendo elevarla a storia perché ciò le
era precluso dal suo carattere metafisico, le sovrappose una
"filosofia della storia", ossia quel modo di escogitazione o
indovinamento, del quale si è di sopra discorso, circa il divino
programma che la storia eseguirebbe come chi si adopri a copiare più
o men bene un modello. La "filosofia della storia" fu effetto di
un'impotenza mentale, o, per dirla con frase vichiana, di una
"inopia della mente", al pari del mito.
Certo, tra le svariate forme letterarie della didascalica si vedono
produzioni che si considerano filosofiche e non storiche, perché
sembrano aggirarsi intorno ad astratti concetti, purgati di ogni
elemento intuitivo. Ma se quelle trattazioni non si aggirano nel
vuoto, se hanno pienezza e concretezza di giudizi, l'elemento
intuitivo c'è in esse sempre, sebbene latente all'occhio del volgo,
che crede di riconoscerlo solo dove gli si mostra come incrostazione
di cronachismo o di erudizione. C'è, per il fatto stesso che i
filosofemi, che vi si formulano, rispondono ad esigenze di portar
luce su particolari condizioni storiche, la cui conoscenza li
rischiara non meno di quello che ne sia rischiarata. Stavo per dire,
cogliendo un esempio sul vivo, che anche le dilucidazioni
metodologiche, che qui vengo dando, non sono veramente intelligibili
se non col rendere mentalmente esplicito il riferimento (di solito
da me fatto in modo soltanto implicito) alle condizioni politiche,
morali ed intellettuali dei giorni nostri, delle quali concorrono a
dare la descrizione e il giudizio.
Rimangono gli specialisti o professori di filosofia, il cui ufficio
par che sia di far da contrappeso ai filologisti, ossia agli eruditi
che si atteggiano a storici, collocando accanto ai bruti fatti, da
questi allineati e spacciati per storie, un allineamento di astratte
idee, e completando cosi un'ignoranza mercé di un'altra ignoranza;
con che non si va molto innanzi. Sono essi i naturali conservatori
della filosofia trascendente, a segno che anche quando professano a
parole l'unità della filosofia e della storia, la smentiscono col
fatto, o tutt'al più discendono di tanto in tanto dal loro
sopramondo per pronunziare qualche vieta generalità o qualche
falsità storica. Ma quanto più si affinerà il senso della storicità
e si diffonderà il modo storico di pensare, gli storici filologisti
saranno rinviati alla pura e semplice e utile filologia, e i
filosofi di professione potranno essere, con ogni garbo, ringraziati
e congedati, perché la filosofia ha trovato nell'alta storiografia
quella condizione di vita operosa che in loro aveva cercato indarno.
Filosofavano essi a freddo, senza sollecitazione di passioni ed
interessi, "senza occasione"; laddove ogni seria storiografia e ogni
seria filosofia dev'essere storiografia e filosofia "di occasione",
come della genuina poesia diceva il Goethe, questa passionalmente e
l'altra praticamente e moralmente motivata.
VI - LE CATEGORIE DELLA STORIA E LE FORME DELLO SPIRITO.
La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha
portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio,
considerate anch'esse una trascendenza, giacché, si è detto, le
categorie fanno tutt'uno col giudizio, e cangiano e si arricchiscono
col sempre nuovo giudizio: infiniti giudizi, infinite categorie.
Senonché la distinzione delle categorie non ha niente da vedere con
una loro supposta trascendenza di contro al giudizio, perché si
compie dentro al giudizio stesso, per virtù del giudizio, come sua
attuazione, non potendosi giudicare se non distinguendo,
distinguendo a per la sua qualità da b per la sua qualità, cioè
secondo categorie. Quale mai giudizio sarebbe quello che non
qualificasse l'atto a come atto di verità, l'atto b come atto di
bellezza, l'atto c come atto di accorgimento politico, l'atto d come
di sacrificio morale, e via distinguendo, e si restringesse a porre
intuitivamente diversi a, b, c, ecc., il che, se basta alla
fantasia, non basta al pensiero? Né le categorie cangiano, e neppure
di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le
operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento
cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano
e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri
concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove
esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo
dell'atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che
non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno questi
concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti del1'atto
logico, se la categoria "logicità" non fosse costante e ritrovabile
in essi tutti.
Ma quella polemica mostra aperto di essere trascorsa oltre il segno
nella sua incapacità di rendere ragione del motivo di verità che è
da ricercare e mettere in chiaro anche nell'errore della
trascendenza, posto che si consenta che in fondo ad ogni errore si
annida sempre un consimile motivo. Il quale, in rapporto alla
filosofia trascendente, consisteva appunto nell'esigenza di mantener
saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali
(buono, vero, giusto, ecc.), ciascuno nel suo carattere proprio e
ciascuno opposto al suo opposto (cattivo, falso, ingiusto, ecc.), e
di proteggerli contro le confusioni e le negazioni che uomini tutto
attenuti al senso inavvedutamente ne facevano. L'errore, invece, in
cui essa s'intricava, veniva dalla pretesa di distaccarli da quel
flusso e metterli in salvo in una sfera superiore, trascendendo la
realtà: che valeva dare di un problema logico una soluzione
fantastica. Ma contro il sensismo e l'edonismo era quella
un'esigenza di sana vita intellettuale e spirituale in genere, che,
nonostante il suo errore, ha operato beneficamente in vari tempi
della storia delle idee, a cominciare dalle definizioni che Socrate
elaborava di contro ai sofisti, e dalle idee che Platone trasferì
nell'iperuranio. Per accennare a tempi recenti, in Germania,
nell'ottocento, a consimile rimedio ricorse il rigido pedagogista
Herbart contro le perversioni della dialettica e dello storicismo in
parte nello Hegel stesso, ma più ancora nella scuola hegeliana, che
sembravano insidiare non meno la serietà della vita morale che
quella della vita scientifica, l'una con la fluidità e mollezza dei
concetti, l'altra coi compromessi e i facili passaggi dall'un
partito all'opposto. Fu una reazione e, come reazione, esagerò
separando i concetti dalle rappresentazioni e segnandone così forte
i contorni da chiuderli ciascuno in sé e porli tutti indeducibili e
senza rapporto gli uni con gli altri; e con tutto ciò, meglio quella
distinzione, alquanto caramente pagata con la trascendenza dei
valori sui fatti, che non la poltiglia di rappresentazioni e
concetti, di concetti puri e concetti empirici, che oggi taluni
vorrebbero restaurare nel pensare filosofico, senza aver forse
chiara consapevolezza di quel che chiedono, e senza rendersi conto
della grande perdita che si farebbe di quanto si è in questa parte
faticosamente acquistato per opera della critica filosofica, che è
sempre rivoluzionaria e conservatrice insieme.
Che se una certa parvenza di ben filato ragionamento rimane a
siffatte richieste viene da questo, che le proposizioni di astratta
filosofia unitaria non sono portate alla prova dei fatti
particolari, ossia dei particolari e precisi giudizi e del concreto
pensare, con l'attendere a narrare la storia delle varie attività
umane; nella quale prova andrebbero presto miseramente in pezzi.
Pili agevole e pili prudente sembra in quel poco che quegli ingegni
generici sono pur costretti a dare di trattazioni storiche,
introdurre surrettiziamente le distinzioni negate nella loro
metodologia, o valersene dichiarandole al tempo stesso empiriche: a
un dipresso come usò un musulmano inviato del gran Sultano, che
venne a Napoli nel settecento alla corte del re Carlo di Borbone,
del quale mi accadde di leggere in una relazione diplomatica che
bevve nei banchetti napoletani molto sciampagna, ma chiamandolo, e
imponendo cosi agli altri di chiamarlo, "limonata". Mi si perdoni
questo ricordo, certamente sconveniente alla gravità filosofica, ma
non certo sconveniente al caso di cui si è toccato.
(da La storia come pensiero e come azione, pp. 14-27 dell'edizione
1939)
Filosofia della pratica. Economica ed etica (1908)
Filosofia dello spirito III Laterza 1923
L'idea è questa: vi è conflitto tra fini e mezzi, tra etica e
politica, tra moralità e azione utilitaria? Tradizionalmente, si
pensa di sì. Politica, economia, utilità sono cose della terra,
mentre l'azione morale sarebbe del cielo. E dunque le filosofie
degli uomini o pretendono di snaturare l'azione utile della terra
negandone la natura per renderla morale, o rinunciano scetticamente
alla dimensione etica, o tentano di concepire soluzioni ibride e
morali compromissorie.
Per Croce non è così: gli uomini vivono in terra e lì devono fare
ciò che è utile per soddisfare i loro bisogni, e ciò che è
necessario per conservare l'umanità in vita. Ma questa azione utile,
guidata dal pensiero, dà forma razionale al mondo; anzi, l'azione
utile è l'unica via che ci è data per agire razionalmente, ossia
moralmente. Dunque non c'è dilemma e non c'è conflitto: ciò che è
utilmente concepito e fatto è anche intrinsecamente etico.
E' un sofisma questo, o è pensiero profondamente vero, che ci eleva
oltre il banale? Croce cerca di farcene persuasi discutendo tutte le
questioni tradizionalmente connesse alla filosofia dell'agire umano:
precetti, casistiche, implicazioni emotive, libertà, non libertà,
pessimismo, ottimismo, pentimento, coscienza...
Di seguito due brani dal libro: prima uno che delinea una filosofia
del diritto radicalmente e soprendentemente pragmatica, ma ci regala
anche momenti di divertimento usando argomenti alquanto eccentrici.
Poi un altro proprio che da questo pragmatismo deduce un'etica
completamente idealistica, dove lo Spirito è, ma non è altro che
l'esistere delle coscienza pensante umana.
Benedetto Croce - Filosofia della pratica - Le leggi come prodotti
dell'individuo
Questa analisi del concetto di legge è l'espressione dell'estremo
pragmatismo con cui Croce concepisce la vita umana. Della quale la
spiritualità è la forma razionale, non la negazione.
LE LEGGI COME PRODOTTI DELL'INDIVIDUO
La legge è un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe
di azioni.
Questa definizione esclude anzitutto dal concetto di legge un
carattere che di solito è considerato essenziale, la socialità;
ossia estende il concetto di legge al caso dell'individuo isolato.
Ma perché non accadano equivoci in un punto, com'è questo,
importante, sarà bene avvertire che la parola "società" ha due
significati, uno empirico e l'altro filosofico, e che, escludendo
dal concetto di legge il primo, non s'intende, e non si potrebbe,
escludere l'altro. La realtà è unità e molteplicità insieme, e un
individuo è concepibile solo in quanto ha di fronte altri individui,
e il processo del reale è effettivo in quanto gl'individui sono in
relazione. Senza molteplicità non si avrebbe né conoscenza né azione
né arte né pensiero né utilità né moralità: un individuo isolato,
cioè avulso dalla realtà che lo costituisce e che egli costituisce,
sarebbe qualcosa di astratto, epperò di assurdo. Ma assurdo quel
concetto non è, quando si adopera con intento polemico contro un
concetto falso, e l'individuo viene inteso come isolato non già
assolutamente, ma relativamente a certe condizioni contingenti, che
a torto si ponevano come essenziali; e qui invece astratto e irreale
sarebbe da dire l'adoperato concetto di società. Perché "società"
significa altresì una molteplicità di esseri della medesima specie,
dove, com'è chiaro, s'introduce subito un carattere arbitrario, che
è il concetto naturalistico di medesimezza di specie. Ma, se anche
mancasse questa empirica medesimezza, non per ciò la società, la
reale società, mancherebbe. Un uomo potrà non ritrovare tra una
moltitudine di uomini i suoi simili, e si condurrà come se quegli
altri uomini non esistessero; e nondimeno anche in questo caso vivrà
in società con gli esseri che si chiamano naturali o soprannaturali,
col suo cane, col suo cavallo, con le piante, con la terra, coi
morti e con Dio. Cacciato in solitudine, cioè distaccato dagli altri
esseri della sua medesima specie, quelle altre forme di società,
ossia la comunione con la realtà, persisteranno sempre e gli daranno
modo di proseguire la sua vita di contemplazione, di pensiero, di
azione e di moralità. Per intendere lo spirito nella sua
universalità, è necessario prescindere dalle contingenze; e la
società, in significato empirico, è contingenza, che il concetto
d'individuo isolato (isolato da essa e non dalla realtà, dalla
societas hominum e non dalla societas entium) ci aiuta a superare.
Donde i grandi servigi che questo concetto ha resi alla Logica,
all'Estetica, e segnatamente all'Economica, la quale si è cominciata
a svolgere come filosofia solo quando ha trattato i fatti economici
come tali che avvengano, prima che nelle così dette "società",
nell'individuo, formando il concetto di un'economia isolata. Per
converso, Economica, Estetica, Etica, tutte le scienze e tutti i
problemi filosofici, hanno smarrito la loro vera indole e si sono
imbastarditi, quando il grossolano sociologismo ha rituffato nelle
contingenze sociali quegli universali, che a gran fatica i filosofi
avevano sciolti da esse per pensarli nella loro purità. Dunque, col
definire le leggi come formazioni che hanno luogo non solo nelle
società, ma anche nell'individuo isolato, s'intende semplicemente
guidare lo sguardo a fermarsi sul concetto della vera società, che è
la realtà tutta, e non lasciarlo vagare e confondere in cose
accidentali.
Non occorrono grandi artifici per escogitare casi d'individui che
pongano leggi a sé medesimi, e le eseguano e le cangino, e si
assegnino premi e infliggano punizioni; né fa d'uopo chiamare a
questo fine il buon Robinson, tante volte incomodato dagli
economisti. Senza dover compiere lo sforzo d'immaginarsi gettati
sopra un isolotto deserto con solo un sacco di grano e una Bibbia,
basta osservare la vita quotidiana, perché gli esempi di
legislazione individuale si presentino in folla nei cosiddetti
programmi di vita. Chi può vivere senza programmi? Chi non ferma
entro sé che egli vorrà tali e tali azioni, e ne eviterà tali e tali
altre? Fin dall'adolescenza si comincia a legiferare entro noi
stessi a questo modo, e per tutte le altre età della vita prosegue
questa interiore produzione di leggi, che è spezzata solamente dalla
morte. E si dirà per esempio: - lo dedicherò la mia vita
all'agricoltura, e ogni anno, dal giugno al novembre, dimorerò in
campagna; ma dal decembre al febbraio tornerò in città e dal marzo
al maggio viaggerò per diletto e istruzione. - Programma che si
determinerà e specificherà secondo le varie condizioni e possibilità
che si prenderanno a considerare, stabilendosi le proprie
individuali leggi circa il modo di comportarsi rispetto alla
religione, alla famiglia, al matrimonio, agli amici, allo Stato,
alla Chiesa, o anche rispetto al tale o tal altro individuo; perché
(com'è noto dalle spiegazioni date nella Logica) l'individuo,
concepito che sia quasi entità fissa, diventa anch'esso concetto,
ossia astrazione, gruppo, serie e classe. E chi ne avesse vaghezza
potrebbe agevolmente istituire il raffronto tra i programmi o leggi
individuali, e le leggi che si chiamano sociali; e ritroverebbe
nell'individuo statuti fondamentali, leggi, regolamenti, ordinanze,
disposizioni transitorie, contratti, leggi singolari, e tutte le
altre formazioni legali, che si osservano nella società. In che mai
i programmi dell'individuo differiscono dalle leggi della società?
Quelle leggi non sono forse programmi, e quei programmi non sono
leggi?
A questa interrogazione, che formoliamo non per esprimere un dubbio
che sia in noi, ma per affermare un fatto che ci sembra
irrefragabile e da resistere a qualsiasi contradizione, si può
tuttavia rispondere obiettando (ed è obiezione comune) che tra le
leggi individuali e le leggi della società e dello Stato intercede
una grande differenza: queste sono costrittive, quelle no; e perciò
queste sono veramente leggi, quelle restano meri programmi. Ma di
codesta obiezione, come qui è ragionata, non possiamo fare caso
alcuno; perché, avendo oramai percorso tutta la Filosofia della
pratica, generale e speciale, non abbiamo incontrato mai,
nell'ambito del volere e dell'operare, ciò che si chiama
"costrizione" (salvo che in significato negativo, come deficienza di
volontà e di azione). Nessun'azione può essere mai costretta; ogni
azione è libera, perché lo Spirito è libertà: potrà, in un
determinato caso, non ritrovarsi l'azione che si era immaginata, ma
un'azione costretta è cosa che non s'intende, perché i due termini
sono ripugnanti. Il fatto smentisce la nostra affermazione?
Guardiamo dunque il fatto direttamente e spregiudicatamente, e, per
esser sicuri di non sbagliare, prendiamolo in una forma estrema: per
esempio, in quella della legge di un terribilissimo despota, il
quale, circondato da sgherri, comandi a una torma di uomini di
recargli i loro primogeniti per sacrificarli al dio, nel quale egli
fida e che essi discredono. Gli uomini, che ascoltano questa
manifestazione di volontà, sono costretti da essa? Quale minaccia
può far dir sì a chi vuol dir no? Quella torma di uomini si
ribellerà, prenderà le armi, sbaraglierà le schiere del despota, lo
ucciderà o lo ridurrà all'impotenza di nuocere; e la legge non
eserciterà, in questa ipotesi, nessun'efficacia costrittiva. Ma
anche nell'altra ipotesi, che essi non si ribellino e che, per non
rischiare la vita o perché differiscano il ribellarsi a momento più
propizio, si pieghino per intanto al volere del despota e consegnino
alla morte i loro figliuoli, essi non avranno sofferto nessuna
costrizione, ma avranno liberamente voluto: voluto serbare la
propria vita a spesa di quella dei figliuoli, o sacrificare alcuni
di questi per acquistar tempo e mettersi in grado di ribellarsi con
isperanza di vittoria. Cosicché nelle leggi sociali si ha ora
l'osservanza ora l'inosservanza della legge; ma l'una e l'altra,
liberamente. L'inosservanza potrà esser seguita da ciò che si chiama
pena: cioè il legislatore, che ha imposto una certa classe di
azioni, prenderà contro chi non le esegua certi determinati
provvedimenti e vorrà un'altra classe di azioni, designata ad
agevolare la prima (perché la pena è una nuova condizione di cose,
che si pone all'individuo e secondo la quale si cerca d'indurlo a
cangiare il suo precedente modo di azione); - ma la pena trova
sempre di fronte a sé la libertà dell'individuo. Per evitare la pena
o il rinnovarsi dalla pena questi potrà, liberamente, osservare la
legge; ma ciò non toglie che potrà anche liberamente ribellarlesi,
come nel caso che abbiamo descritto.
Se nelle leggi individuali manca la coazione, questa parimente manca
sempre nelle leggi sociali; e, per contrario, quel che è davvero
nelle leggi sociali è del pari nelle osservanze e nelle ribellioni,
nei premi e nelle pene delle leggi individuali. Per tornare
all'esempio recato di sopra, l'individuo, il quale si è prefisso
come programma di fare l'agricoltore, può essere preso a un tratto
da un gran desiderio di darsi alla pittura o alla musica, e ciò che
prima gli era piaciuto, può ormai dispiacergli: quella dimestichezza
con la terra madre, con le messi e le vendemmie, che gli sorrideva
come condizione adatta a lui, come suo vero ideale di vita, gli può
tornare fastidiosa e ripugnante. Ma, se egli è uomo serio, se non
vuole e disvuole a ogni attimo, se non presenta nella sua cerchia
individuale il pieno riscontro di quei popoli che cangiano a mezzo
novembre le leggi poste nell'ottobre e passano di riforma in
riforma, di rivoluzione in rivoluzione, egli esaminerà la situazione
nella quale è posto, e riconoscerà, per esempio, che il desiderio,
sortogli nell'animo, è velleità che non risponde alla sua vera
vocazione, e determinerà che il primo programma deve rimanere
intatto; onde s'impegnerà in lui una lotta tra quel programma e la
nuova e ribelle volizione. Potrà accadere, in questo caso, che
l'individuo dell'esempio trascuri talvolta il programma tracciato
per abbandonarsi alle tentazioni del suo dilettantismo pittorico o
musicale; ma poiché ciò accadrà contro la sua legge individuale, e
forza deve restare alla legge, l'inosservanza sarà seguita da
particolari provvedimenti, come di gettare via pennelli e violino, o
d'inibirsi perfino quei momenti di svago in simili dilettazioni che
egli prima si concedeva e che ora gli sono diventati pericolosi. In
altri termini, in caso d'inosservanza della sua legge l'individuo
s'infligge fatiche e astinenze, che debbono dirsi, a pieno titolo,
autocastighi. E per passare all'altra ipotesi, analoga a quella che
si è contemplata per le leggi sociali, se 1'individuo si sentirà
invaso da tal furore pittorico o musicale da venire nella
persuasione che il primitivo programma, la primitiva sua legge
individuale, non rispondeva o non risponde più alle sue vere e
profonde tendenze, egli si ribellerà contro la legge e la
distruggerà in sé: proprio allo stesso modo che il popolo,
nell'altro esempio, distruggeva la legge del despota, combattendo,
imprigionando o ammazzando costui.
I programmi o leggi individuali sono dunque leggi; e poiché questo
concetto si estende così all'individuo isolato come alla società, il
carattere della socialità non è essenziale al concetto di legge.
Anzi, per meglio determinare, le sole leggi, che realmente esistano,
sono le individuali; onde leggi individuali e leggi sociali non
possono porsi come due forme del concetto generale di legge, tranne
che individuo e società non vengano presi entrambi in significato
empirico e si esca dalla considerazione filosofica. Intendendo
l'individuo nel significato filosofico, come lo Spirito concreto e
individualizzato, è chiaro che anche le così dette leggi sociali si
riducono alle individuali, perché per osservare una legge bisogna
farla propria, cioè individualizzarla, e per ribellarlesi bisogna
espellerla dalla propria personalità, nella quale essa indebitamente
tentava di restare o d'introdursi.
L'esclusione del carattere di socialità dal concetto di legge
sgombra la filosofia da una sequela di problemi e correlative
teorie, che avevano a loro presupposto quel preteso carattere.
Principale tra essi, la distinzione delle leggi in politiche e
giuridiche da un canto, e in meramente sociali dall'altro; e poi
delle leggi giuridiche in leggi di diritto pubblico e privato,
civile e penale, nazionale e internazionale, in leggi propriamente
dette e regolamenti, e così via. Se il concetto stesso di leggi,
sociali è empirico, empiriche saranno altresì tutte le distinzioni e
suddistinzioni che ne vengono proposte, e non è possibile difendere
una distinzione contro un'altra o correggere quelle finora date e
proporne di nuove. Chi tolga in esame una qualsiasi di quelle
distinzioni, avverte subito il loro mancamento filosofico. Così le
leggi giuridiche o politiche sono state distinte dalle meramente
sociali, dicendosi che quelle sono coattive e queste convenzionali;
laddove la coazione, per le ragioni già esposte, è inconcepibile
nelle une non meno che nelle altre: che se poi per coazione
s'intende la minaccia di una pena, questa si trova nelle leggi
meramente sociali non meno che nelle giuridiche. È legge, che si
suole chiamare giuridica, che non bisogni falsificare la pubblica
moneta: chi la falsifica, corre il rischio di buscarsi alcuni anni
di reclusione. È legge, che si suole chiamare sociale, che bisogni
rispondere al saluto col saluto: chi non risponde, corre il rischio
di essere giudicato uomo malamente educato ed escluso dai circoli
della gente per bene. C'è differenza essenziale tra le due sorta di
leggi? È stato fatto il tentativo di differenziarle, affermando che
le prime sono promulgate da un potere supremo, che ne invigila
l'osservanza, e le seconde da circoli particolari d'individui. Ma
quel potere supremo non ha certamente sede in un superindividuo, che
domini gl'individui, sibbene negli individui stessi; e, se è così,
tanto esso vale e può, quanto valgono e possono gl'individui che lo
formano. Vale a dire, quelle leggi giuridiche sono leggi di una
cerchia che viene bensì empiricamente considerata più stretta e più
forte, ma nella quale esse in tanto si attuano in quanto
gl'individui spontaneamente vi si conformano, reputando loro
conveniente il conformarvisi. Monarchi, che si tenevano
potentissimi, sono stati spesso disingannati dagli avvenimenti, i
quali hanno loro praticamente e spiacevolmente dimostrato, che la
forza non era già delle loro persone o del loro titolo, ma di un
consenso universale, mancato il quale la loro potenza stessa
mancava, o si contraeva in un gesto d'impotente comando, assai
prossimo al ridicolo. Leggi, che sembrano ottime, restano
inapplicabili, perché incontrano la tacita resistenza generale, o,
come si dice, non rispondono ai costumi: il che basterebbe a
illuminare le menti circa l'unità inscindibile del casi detto Stato
e della così detta società. Lo Stato non è entità, ma complesso
mobile di svariate relazioni tra individui. Potrà essere comodo
delimitare alla meglio questo complesso ed entificarlo per
contrapporlo agli altri complessi: su ciò non cade dubbio, e noi
lasciamo ai giuristi l'escogitazione di queste e di altrettali
distinzioni, opportune sebbene fittizie, né pensiamo minimamente a
condannare come irrazionale l'opera loro. Diciamo soltanto che
bisogna non dimenticare che il fittizio è fittizio, e rinunziare a
ragionarlo come reale, e astenersi dal riempire volumi e volumi di
faticose disquisizioni filosofiche, vuote di effetto, laddove vuote
non sono, nella cerchia loro, le distinzioni pratiche, da cui quelle
prendono le mosse. Noi che non siamo giuristi ma filosofi, e ai
quali perciò è vietato formare e adoperare distinzioni pratiche o
empiriche, dobbiamo concepire come leggi, e tutte agguagliare
nell'unica categoria della legge, così la Magna charta inglese, come
lo statuto della "Mafia", siciliana o della "Camorra" napoletana;
così la Regula monachorum di san Benedetto, come quella della
"brigata spendereccia", che Folgore da San Gemignano e Cene della
Chitarra cantarono in sonetti e che Dante ricorda; così il diritto
canonico e il codice militare, come quel droit parisien, che un
certo personaggio del Balzac [in Le pére Goriot] aveva studiato per
tre anni nel salottino celeste di una signora e in quello roseo di
un'altra, e che, quantunque nessuno ne parli mai, forma (diceva il
gran romanziere) "une haute jurisprudence sociale, qui, bien apprise
et bien pratiquée, mène à tout". Che più ? Sono leggi persino quelle
leggi letterarie e artistiche, in cui si manifesta la volontà di
promuovere la produzione di opere le quali abbiano tale o tal altro
genere di argomenti e di ordinamento: come sarebbe, per esempio, che
i drammi debbano essere divisi in cinque atti o in tre "giornate", e
che i romanzi non debbano passare le quattro o cinquecento pagine in
sedicesimo, e che una statua monumentale debba essere nuda o vestita
all'eroica. È evidente che, se qualcuno le viola, può essere escluso
(come infatti è o era escluso) dalle accademie del "buon gusto"; il
che non impedirà che per ciò stesso venga accolto nelle
antiaccademie degli scapigliati: proprio come l'essere incorso nelle
punizioni che il codice penale commina, è titolo di ammissione in
talune società di delinquenti.
Questi esempi, che abbiamo scelti tra i più strani e meglio atti a
fare scandalo, giovano a mettere bene in chiaro che il concetto di
legge, quando si voglia filosofarvi sopra, dev'essere preso in tutta
la sua estensione logica. Una curiosa sorta di falso pudore stima
contrario alla dignità filosofica l'immischiarsi di certi argomenti,
e inclina perciò a restringere arbitrariamente, e di conseguenza a
falsare, tal uni concetti filosofici. E quello di Legge, in
particolare, è avvolto da una tradizione di solennità e reca con sé
associazioni, che occorre rimuovere. Altrimenti, non è dato
intendere. neppure che cosa intrinsecamente siano e come esercitino
la loro efficacia quelle non scritte e ferme leggi degli dèi, che
Antigone opponeva ai decreti degli uomini; o i detti di Lacedemone,
per obbedire ai quali caddero i trecento alle Termopili; o le leggi
della patria, che con irresistibile autorità imposero a Socrate di
restare in carcere sul punto che altri gli consigliava e agevolava
la fuga. La vita si compone di azioni piccine e di azioni grandi, di
minimi e di massimi, o meglio di un fitto tessuto di azioni sempre
varie; e non è pensiero troppo accorto tagliare quel tessuto in
pezzi, e scartarne alcuni come meno belli, per contemplare poi nei
soli pezzi prescelti, e così ritagliati e sconnessi, il tessuto, che
non c'è più.
(Benedetto Croce, Filosofia della pratica, pp. 307-316 dell'edizione
1923)
Benedetto Croce - Filosofia della pratica - La forma etica come
attuazione dello spirito in universale
La forma stilistica dell'espressione in questo brano è certamente di
difficile digestione per la nostra sensibilità. Pure, bisogna
leggere questo testo ascoltando i modesti esempi che lo colorano, e
che trasfigurano il significato dei principi. Che la "forma etica"
sia "attuazione dello spirito in universale" vuol dire, alla fine,
soltanto che siamo condannati a pensare, e a guidare con la mente
l'azione che compiamo con la mano.
LA FORMA ETICA COME ATTUAZIONE DELLO SPIRITO IN UNIVERSALE
Il pensiero, strano a primo aspetto, di un principio etico che sia
formale nel significato che non si sappia che cosa precisamente esso
sia e come si giustifichi, trova il suo sostegno in due concezioni
filosofiche, l'una delle quali si potrebbe chiamare della filosofia
parziale, e l'altra della filosofia discontinua. Per la prima,
l'uomo è in grado di conoscere della realtà certamente qualcosa, ma
non tutto: per mezzo delle categorie percepisce e ordina i dati
dell'esperienza, ma si rende conto del limite del suo pensiero e
dell'impossibilità di pervenire al cuore del reale, al quale potrà,
sì, alla perfine giungere in qualche modo, ma appunto col cuore e
non col pensiero. Ciò posto, e tornando al caso dell'Etica, l'uomo
ascolta in sé la voce della coscienza, il comando della legge
morale; nessun sofisma che egli escogiti vale a farla tacere; ma che
cosa sia precisamente quella legge, non può dire: l'idea che gli si
affaccia allo spirito, di un ordinamento divino del mondo, potrà
essere anch'essa affermata col cuore, non mai col pensiero. La
seconda concezione si confonde con la prima presso alcuni espositori
che la trattano come semplice filosofia parziale o agnosticismo;
pure, a guardare sottilmente, non è del tutto identica. Infatti,
essa non dice propriamente che la ragione della morale sia in
conoscibile ; ma la reputa inconoscibile nella cerchia dell'Etica,
ossia afferma che quella conoscenza esca fuori da questa cerchia.
L'Etica stabilisce la legge morale, deduce e ordina sotto di essa i
precetti etici, e giudica in forza di essa le singole azioni. Se
quella legge poi sia realmente, o quale ne sia propriamente il
contenuto universale, l'Etica ignora; e rinvia il problema alla
Metafisica, ossia alla Filosofia generale, che a suo modo lo risolve
o si presume possa risolverlo o almeno si proverà e riproverà in
perpetuo a risolverlo. In questa concezione, dunque, si fa questione
di competenza e gerarchia tra pensiero e pensiero, tra filosofia
particolare e filosofia generale; laddove, nella prima, si pone
senz'altro l'incompetenza assoluta del pensiero.
Ma per noi non sussiste il rischio di urtare nella rete di queste
due dottrine filosofiche, perché in tutta la nostra esposizione
della Filosofia dello spirito le abbiamo costantemente rigettate
entrambe e dimostratane la falsità. Filosofia parziale è concetto
contradittorio: il pensiero pensa o tutto o nulla; se avesse un
limite, l'avrebbe come pensato, e perciò come superato e non più
limite. Chi ammette qualcosa d'inconoscibile, finisce logicamente
col dichiarare tutto inconoscibile, e scivola inevitabilmente nello
scetticismo totale. Né meno inconcepibile è l'idea di una filosofia
discontinua, divisa in un tutto e nelle sue parti, col tutto fuori
delle parti e con le parti fuori del tutto; in guisa che, studiando
una parte (l'Etica), il tutto (l'insieme della Filosofia) appaia
problematico, e si possa conoscere in qualche modo la parte
(l'Etica) senza conoscere già il tutto (l'insieme della Filosofia).
Codesto è un falso vedere, proveniente in fondo dalle scienze
empiriche, nelle quali è possibile apprendere un ordine di fenomeni
indipendentemente dagli altri, e apprendere i fenomeni senza
proporsi in modo esplicito, o rinviando ad altra istanza, il
problema filosofico circa la loro realtà e verità. La filosofia è
circolo e unità, e ogni punto di essa è intelligibile solamente in
relazione con tutti gli altri. La convenienza didascalica di esporre
un gruppo di problemi filosofici separandoli dagli altri gruppi, - o
anche, se piace ad alcuno quel che a noi non è piaciuto, di dividere
l'esposizione in scienze filosofiche particolari e in Filosofia
generale (chiamata anche Metafisica), - non ci deve trarre in
inganno, quasi che si dividesse realmente l'indivisibile. Con la
prima proposizione filosofica che si enuncia, si è enunciata insieme
tutta la Filosofia; le altre, che verranno dopo, saranno tutte
nient'altro che schiarimenti o svolgimenti della prima.
E poiché noi non abbiamo mai negato fede al pensiero né spezzata
l'unità della Filosofia, non abbiamo a questo punto alcun segreto da
rivelare: nemmeno un povero segreto, come gli espositori della
filosofia discontinua, i quali fanno sapere in ultimo, solennemente,
quello che avevano presupposto fin nelle loro prime parole. Il
nostro principio etico formale non è forma vuota, che debba essere
solamente ora riempita di contenuto; ma è forma piena, forma in
senso filosofico e universale, che è insieme contenuto, cioè
contenuto universale. La forma etica non è stata definita da noi,
tautologicamente, forma universale, ma volizione dell'universale,
con una definizione che era insieme distinzione dalla forma
economica, semplice volizione dell'individuale. E se ora ci si
domanda che cosa sia l'universale, dobbiamo rispondere che la
risposta è stata già data, e che chi non l'ha intesa finora, anzi
chi non l'ha intesa da un pezzo, non la intenderà più mai.
L'universale è stato l'oggetto di tutta la nostra Filosofia dello
spirito, ed esso abbiamo dovuto tenere sempre dinanzi nello studiare
non solo l'attività pratica, ma qualsiasi altra attività dello
spirito; così come non si può aver l'idea di un ramo di albero senza
l'idea del tronco, da cui quello si diparte e senza del quale non
sarebbe ramo d'albero. Quel concetto non è, dunque, un deus ex
machina, che debba intervenire inatteso sul finire del dramma a
chiuderlo frettolosamente; ma è la forza che lo ha animato dalla
prima all'ultima scena.
Che cosa è l'universale? Ma è lo Spirito; è la Realtà, in quanto è
veramente reale come unità di pensiero e volere; è la Vita, còlta
nella sua profondità come quell'unità stessa; è la Libertà, se una
realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso.
Fuori dello Spirito, niente è pensabile sotto forma veramente
universale; l'Estetica, la Logica, questa stessa Filosofia della
pratica, sono tutte dimostrazione e conferma di questa
impossibilità. Ogni altro concetto che si proponga, si svela (e si è
svelato alla nostra analisi) o finto universale, qualcosa di
contingente che è stato astratto e generalizzato, o ipostasi di
certi nostri particolari prodotti spirituali, gli schemi della
matematica, o nient'altro che il negativo dello Spirito, al quale si
conferisce (dapprima per metafora e poi per metafisica) valore di
positività.
E l'uomo morale, nel voler l'universale, ossia quel che lo trascende
in quanto individuo, si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla
Vita vera, alla Libertà. Nella sua concretezza l'universale è
universale individualizzato, e l'individuo in tanto è reale in
quanto è insieme universale; onde (sotto pena di restare a mezzo,
dimidiatus vir, cioè di perdersi nel nulla) non può asserire una
forma di sé senza asserire l'altra, ma deve porre l'una esplicita e
l'altra implicita, per passare a rendere esplicita anche l'altra.
Come individuo economico, nel primo attimo, se così si può dire, in
cui si affaccia alla vita e all'esistenza, egli non può volere se
non individualmente: volere la sua propria esistenza individuale.
Non vi ha uomo, per morale che si dica, che non cominci cosi: come
mai potrebbe superare e perfino negare la propria vita individuale,
se prima non l'avesse affermata, e se a ogni istante non la
l'affermasse ? Ma colui che si arrestasse all'affermazione
dell'individuale, considerando come luogo di riposo quello che è il
primo passo di uno svolgimento, entrerebbe in contradizione col
profondo sé stesso. Egli deve volere non solo in sé stesso
individualizzato, ma insieme quel sé stesso che, essendo in tutti i
sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo, promuove il
realizzarsi del Reale, vive la vita piena e fa battere il suo cuore
col cuore dell'universo: cor cordium.
L'individuo morale ha questa coscienza di lavorare pel Tutto. Ogni
più diversa azione conforme al dovere etico è conforme alla Vita; e
sarebbe contraria al dovere e immorale, se invece di promuovere la
Vita, la deprimesse e mortificasse. Dove pare che i fatti mostrino
il contrario, l'interpetrazione dei fatti è sbagliata, perché toglie
a criterio di giudizio una vita che non è quella vita vera alla
quale, com'è noto, si serve anche morendo; morendo sia come
individuo, sia come gruppo, classe sociale o popolo. E il più umile
che si possa immaginare degli atti morali si risolve in questa
volizione: l'anima di un uomo semplice e ignorante, tutto dedito al
suo modesto dovere, e quella del filosofo la cui mente accoglie in
sé lo Spirito universale, vibrano all'unisono; ciò che questi pensa
in quell'istante, l'altro fa, giungendo, anche lui per la sua
strada, a quella piena soddisfazione, a quell'atto di vita, a quel
fecondo congiungimento col Reale, a cui l'altro si è venuto per
diversa via indirizzando. Si potrebbe dire che l'uomo morale è
filosofo pratico, e il filosofo operatore teorico.
Questo criterio dello Spirito, del Progresso, della Realtà è nella
coscienza morale l'intrinseca misura dei nostri atti, come è il
fondamento più o meno consapevole di tutti i nostri giudizi morali.
Perché celebriamo noi Giordano Bruno, che si lasciò condannare al
rogo per asserire la sua filosofia? Forse per la calma con la quale
affrontò il supplizio? Ma questa calma è di molti fanatici e altre
si di malfattori, e può essere perfino talvolta semplice brama
sensuale di autostruggimento, come se ne hanno esempi nella storia,
e come un poeta moderno d'Italia ha testé cantato, laudando la
bellezza della fiamma e la voluttà del rogo. Il Bruno,
nell'accogliere la morte per non rinnegare la 'sua filosofia,
concorse a creare più larghe forme di civiltà; e perciò egli è non
solo vittima, ma anche martire, nel significato etimologico della
parola: testimone e attore di una esigenza dello spirito in
universale. - Perché approviamo l'uomo caritatevole? Forse perché
egli cede alla commozione destatagli dallo spettacolo di una
sofferenza? Ma la commozione, presa per sé stessa, non è né morale
né immorale, e il cedere al suo impulso, cosi, materialmente, è
debolezza, cioè immoralità. L'uomo caritatevole, togliendo via o
mitigando una sofferenza, riaccende una vita e riconquista una forza
per l'opera comune, alla quale così egli come il beneficato debbono
servire.
Niente sembrerà dunque più tolto dell'antimoralismo in voga ai
giorni nostri, triste risonanza di malsane condizioni sociali e di
dottrine unilaterali e malintese (marxismo, nietzschianismo).
L'antimoralismo può essere giustificato come polemica contro
l'ipocrisia morale e in favore della moralità effettiva contro
quella parolaia; ma perde ogni significato e giustificazione quando,
gonfiando frasi vuote o combinando proposizioni contradittorie, si
argomenta di predicare contro la moralità stessa. Crede esso di
celebrare in tal guisa la forza, la salute, la libertà; e vanta
invece la servitù alle passioni sbrigliate, l'apparente floridezza
del malato e la forza apparente del maniaco. La moralità (non
dispiaccia agli antimoralisti letterari), non che fisima da pedante
o consolazione da impotente, è il sangue buono contro il sangue
guasto.
Gioverà altresì avvertire che questa verità circa il principio etico
inteso come volontà avente per fine l'universale o lo Spirito, è in
qualche modo confermata da parecchie delle formole da noi criticate,
che erravano solo nel determinarla in particolare; onde poi o
confondevano daccapo universale e contingente, o cadevano nel
tautologismo. Coloro che pongono a fine della morale la Vita o
l'interesse della Specie o la Società o lo Stato, hanno l'occhio,
sebbene non riescano a discernerla esattamente, a quella Vita, a
quella Specie, a quella Società e a quello Stato ideale, che è lo
Spirito in universale. Il medesimo si dica di altre formole, la cui
intenzione iniziale è sovente assai migliore di quella che si attua
nello svolgimento delle relative dottrine, o il cui svolgiménto è,
all'inverso, migliore della cattiva intenzione iniziale. Soprattutto
quest'ufficio di simbolo etico idealistico, quest'affermazione che
l'atto morale è amore e volizione dello Spirito in universale, si
osserva nell'Etica religiosa e cristiana, nell'Etica dell'amore e
della ricerca ansiosa della presenza divina: così misconosciuta e
bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per manco di
finezza mentale, dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai
cosiddetti liberi pensatori e da simile genia frequentatrice di
logge massoniche. Non c'è quasi verità dell'Etica (e abbiamo avuto
già occasione di fare altri accenni in proposito), che non si possa
esprimere con le parole, che abbiamo apprese da bambini, della
religione tradizionale, e che spontanee ci salgono alle labbra come
le più alte, le più appropriate, le più belle: parole, di certo,
ombrate ancora di mitologia, ma gravi insieme di un contenuto
profondamente filosofico. Tra il filosofo idealista e l'uomo
religioso c'è, senza dubbio, contrasto assai forte; ma non diverso
da quello che si avverte in noi stessi, nella imminenza di una
crisi, quando siamo divisi d'animo, e pur vicinissimi alla unità e
conciliazione interiore. Se l'uomo religioso non può non vedere nel
filosofo il suo avversario, anzi il suo nemico mortale, questi
invece vede nell'altro il suo fratello minore, il suo sé stesso di
un momento prima. Onde si sentirà sempre con più stretta affinità
legato a una austera, commossa e torbida di fantasmi Etica
religiosa, che non a un'Etica superficialmente razionalistica; la
quale solo in apparenza è più filosofica dell'altra, perché se da
una parte ha il pregio di riconoscere (sia pure a parole o con
psittacismo, come avrebbe detto il Leibniz) i supremi diritti della
ragione, li esercita poi assai malamente, tentando di strappare il
pensiero dal terreno su cui è germinato, e di privarlo della sua
linfa vitale.
ANNOTAZIONI STORICHE
Merito singolarissimo di Emanuele Kant è di averla fatta finita con
ogni sorta di Etica materiale, dimostrandone l'intimo carattere
utilitario: merito che non è cancellato dalle incertezze che restano
in altre parti della sua dottrina e che lo fanno impigliare più
volte in quel materialismo ed utilitarismo, che aveva
sostanzialmente superati. Sarebbe antistorico giudicare un pensatore
dalle contradizioni in cui cade, e su questo fondamento dichiarare
fallita e nulla l'opera sua. Errori sono in tutte le opere umane, ed
errore è sempre contradizione; ma chi ha occhio di storico scorge
dove sia la forza vera di un pensiero, e non nega la luce perché
accompagnata, com'è di necessità, dalle ombre. Prima del Kant,
vigeva un'Etica o apertamente utilitaria o tale che, pure
presentandosi sotto le forme ingannevoli di Etica della simpatia o
di Etica religiosa, all'utilitarismo metteva capo in ultima analisi.
Il Kant condusse una polemica implacabile non solo contro le forme
utilitarie confessate, ma anche contro quelle spurie e larvate, che
denominò "Etica materiale". Anche per questa parte i predecessori di
lui sono da cercare nella filosofia tradizionale e di origine
cristiana, o, se piace meglio, platonica (un'opposizione dell'Etica
materiale contro la formale si può già scorgere nell'atteggiamento
di Aristotele contro Platone). Se i Padri e gli scolastici erano
stati divisi circa il rapporto tra leggi morali e arbitrio divino, e
molti di essi, particolarmente i mistici, avevano fatto dipendere
senz'altro quelle leggi da quell'arbitrio, non erano mancate
dottrine che negavano a Dio la potenza di cangiare a suo libito le
leggi morali, cioè di negare la sua stessa essenza, non potendo egli
giammai essere supra se. E con questa dottrina, adottata poi da
quasi tutti i filosofi religiosi del Sei e Settecento (Cudworth,
Malebranche, Leibniz), l'Etica cristiana si veniva purificando di
ogni residuo di arbitrarismo e di utilitarismo. E bisogna, d'altro
canto, ripetere che parecchie delle formole "materiali", che avevano
corso nelle scuole, s'intendevano sovente in modo ideale, o, come
abbiamo detto, simbolico: l'eudemonia aristotelica, verso la quale
il Kant si mostra troppo severo, era ben diversa dal piacere e dalla
felicità degli edonisti e utilitaristi; la medietà (mesòtes)
proposta come carattere distintivo della virtù, sebbene suonasse
spesso a vuoto, poteva già quasi considerarsi come tentativo di
principio formale; e si dica il medesimo del principio stoico del
seguir la natura. Venendo ai predecessori immediati di lui, la
perfectio, di cui si è già toccato, e che il Kant, dopo qualche
esitazione, riduceva alla felicità e rigettava di conseguenza, era,
più che altro, com'egli stesso avvertiva, un "concetto
indeterminato". Ma, checché si giudichi di codeste anticipazioni e
precorrimenti, sta di fatto che col Kant fu un punto acquisito che
la legge morale non si possa esprimere in nessuna formola nella
quale rimangano tracce di elementi rappresentativi e contingenti.
Il difetto dell'Etica kantiana è il medesimo di tutta la filosofia
di lui: l'agnosticismo, che gl'impedisce di superare davvero così il
fenomeno come la cosa in sé, e lo tira per un verso all'empirismo, e
per l'altro a quella metafisica trascendente, che nessuno con
maggior vigore di lui aveva scossa dalle fondamenta. Egli combatteva
il concetto del bene o del sommo bene, come principio di Etica; e
aveva ragione certamente in quanto intendeva di un "oggetto
qualsiasi", di "un bene" come di "una cosa". Ma ciò non lo liberava
dalla necessità di determinare il sommo bene che non si esaurisce in
nessun oggetto particolare, ossia di determinare l'universale:
quell'universale, che la sua filosofia, impedita dal professato
agnosticismo, era impotente a raggiungere. Di qui il suo
involontario ritorno all'utilitarismo, che fu mostrato in modo
perentorio dallo Hegel, il quale, già nel suo scritto giovanile sul
Diritto naturale, notava che il principio pratico del Kant non è un
vero e proprio assoluto, ma un assoluto negativo; onde il principio
della moralità si converte presso di lui in quello dell'immoralità,
perché, potendo ogni fatto essere pensato nella forma
dell'universalità, non si sa mai quale fatto debba essere accolto
nella legge. Il Kant aveva detto, nel famoso esempio del deposito,
che bisogna serbar fede al deposito, altrimenti non ci sarebbero più
depositi. E se non ci fossero più depositi, in che modo un simile
caso importerebbe contradizione alla forma della legge? Sarebbe
forse contradizione e assurdo per ragioni materiali; ma queste è già
convenuto che non si debbano invocare. Il Kant vuol giustificare la
proprietà; ma non riesce se non alla tautologia, che la proprietà,
se è proprietà, dev'essere proprietà, aprendo la via all'arbitrio,
che si fa a concepire a capriccio come doverose queste o quelle
determinazioni contingenti della proprietà. Del pari le massime
morali kantiane, nelle determinazioni empiriche che assumono, si
contradicono non solo tra loro, ma in sé stesse; onde lo Hegel
definì codesta logica e inevitabile degenerazione dell'etica
kantiana tautologia e formalismo. Ma anche altri pensatori ebbero ad
avvertire l'utilitarismo dell'Etica kantiana; e lo Schopenhauer
diceva perfino che quella dottrina, risolvendosi nel concetto di
reciprocità, non ha altro fondamento che l'egoismo, e protestava
contro la teoria kantiana, che bisogni aver compassione degli
animali per esercitarsi nella virtù della compassione, stimandola
aperto indizio dei sentimenti giudaico-cristiani, dai quali il Kant
si lasciava dominare. Le quali osservazioni hanno alcunché di vero,
sebbene, per quel che concerne l'atteggiamento verso gli animali,
bisogna notare che si trova già nello Spinoza e in altri pensatori,
ed è conseguenza dell'Etica materiale e utilitaria; ma che, pel
resto, sarebbe assai ingiusto vedere nell'imperativo categorico del
Kant nient'altro che l'egoismo, pericolo senza dubbio di quella
dottrina, ma non punto suo carattere essenziale.
Nondimeno nello stesso Kant, in questo pensatore così ricco di
contradizioni e di suggestioni, era additato il concetto, che,
elaborato, doveva dare all'Etica il suo principio non più
tautologico e formalistico, ma concreto e formale: il concetto della
libertà. In virtù di questo concetto il Kant entra nel cuore del
reale, e tocca quella regione, che il misticismo e la religione
avevano intravista e, solo a tratti, toccata. Come dell'austera
concezione etica kantiana, e del suo aborrimento pel materiale e pel
mondano, la sorgente è nel Cristianesimo (e nel platonismo), così
anche l'origine della sua idea morale concreta è da ricercare in
sant'Agostino, anzi in san Paolo, nei mistici del medioevo, nei
grandi cristiani francesi del Seicento, in quella virtù, di cui il
Pascal scriveva che è "plus haute que celle des pharisiens et des
plus sages du paganisme", e che sola rende possibile di "dégager
l'âme de l'amour du monde, la retirer de ce qu'elle a de plus cher,
la faire mourir à soi même, la porter et l'attacher uniquement et
invariablement à Dieu". I successori del Kant, e in particolare il
Fichte e lo Hegel, chiusero il circolo da lui lasciato aperto, ed
escludendo affatto la trascendenza, fecero di Dio la Libertà, e
della Libertà la Realtà. Il Fichte, che dalla filosofia. teoretica
sgombrava il fantasma della cosa in sé, toglieva altresì, nella
filosofia della pratica, all'imperativo categorico l'aspetto di
qualitas occulta, e rischiarava le tenebre di quella regione, atte
ad accogliere ogni sorta di superstizioni e immaginazioni, e perciò
anche la credenza in una legge morale posta arbitrariamente dalla
divinità. Lo Hegel non parla più di imperativo categorico e di
dovere, ma solamente di libertà; e lo spirito libero è (com'egli
dice) quello in cui soggetto e oggetto coincidono e si vuole
liberamente la libertà.
II. Giunta al suo termine l'età classica della filosofia moderna, e
accaduto anche nell'Etica un relativo regresso, il concetto della
concretezza e universalità del principio pratico andò smarrito.
Senza riparlare degli utilitaristi, dei quali qui non si disputa
più, basti ricordare come o si tornasse ai principi formalistici che
lo Hegel criticava nel Kant (tale, per es., il principio dell'Etica
rosminiana, del rispetto all'essere, combattuto dal Gioberti), o
addirittura a quei principi materiali, che il Kant aveva già
esclusi, come è il caso della compassione nello Schopenhauer, delle
cinque idee pratiche nello Herbart, dell'amore nel Feuerbach, della
benevolenza, idea etica suprema nel Lotze, della morale teologica
nel Baader, della vita nel Nietzsche, e simili.
I principi della prima specie trovavano il loro compimento in una
concezione religiosa (della quale altresì può dare esempio il
Rosmini); e quelli della seconda, quando non si scoprivano utilitari
o tautologici, mostravano un'oscura tendenza verso l'Etica della
libertà: il che non è da sconoscere dell'Etica nietzschiana,
antiedonistica e antiutilitaria (pur tra la melma e i sassi che il
pensiero del
Nietzsche trascina seco), e tutta piena del senso della Vita intesa
come attività e potenza. Anche l'evoluzionismo positivistico è
talora inconsapevole idealismo; e le sue azioni morali, utili
all'evoluzione, possono essere interpetrate come quelle che
rispondono alla logica dello Spirito in universale. Più restii degli
altri all'interpetrazione idealistica, ma non affatto irriducibili,
sono i concetti dei pessimisti (per es., dello Schopenbauer); e
stranamente contradittorio è poi quello del semidealista e
semipessimista Eduardo Hartmann, che fa consistere la morale nel
promovimento della civiltà, onde si possa giungere a sì alta
condizione di spirito, che per mezzo di una votazione mondiale si
sia in grado di decretare il suicidio universale.
La questione proposta dal Kant, e da lui lasciata aperta: "se
l'Etica debba concepirsi formale o materiale", che è stata da noi
determinata nell'altra: se l'Etica debba concepirsi astratta o
concreta, vuota o piena, tautologica o espressiva - cioè
(determinando anche meglio), se l'Etica si possa stabilire prima e
fuori del sistema filosofico e conciliare persino con l'asistematica
dell'agnosticismo; - non è stata più intesa nella sua vera natura
nemmeno dai neocritici o neokantiani. I quali, o hanno stimato di
risolverla con un temperato utilitarismo, uscendo dall'etica
kantiana e negando il risultato più sicuro della critica che questa
aveva faticosamente compiuta; ovvero l'hanno agitata
fastidiosamente, senza mai avanzare di un passo. In verità, il
progresso era possibile solo a patto che si costruisse un sistema
filosofico, e un sistema non inferiore a quello degli idealisti
postkantiani; e ciò sarebbe stato il medesimo che chiedere la morte
del neokantismo o neocriticismo, che non pure non tentava di
superare i sistemi idealistici, ma disperava della possibilità
stessa di un sistema e, in questa disperazione, consigliava e
professava un filosofare senza sistema. Possono perciò i neokantiani
essere chiamati, come desiderano, seguaci e discendenti del Kant;
ma, diremmo, al modo stesso in cui l'ultimo degli Absburgo di
Spagna, né imperatore né re né soldato né uomo, poteva essere
riconosciuto discendente di Carlo V, uomo soldato re e imperatore,
perché aveva anche lui, come il suo grande antenato, il deforme
labbro pendente degli Absburgo. I neokantiani, cioè, serbano del
Kant non la virtù, ma solo il difetto della sua filosofia.
(Benedetto Croce, Filosofia della pratica, pp. 289-303 dell'edizione
1923)
Teoria e storia della storiografia (1915)
Filosofia dello spirito IV Adelphi 1989 (a cura di Giuseppe Galasso)
Il titolo del libro ha una genesi significativa. Nel 1909 l'editore
tedesco Mohr aveva richiesto a Croce di scrivere un manuale di
Filosofia della Storia, per una collana di carattere enciclopedico;
ma fin dal tempo dei suoi primi studi Croce era stato consapevole
che ogni Filosofia della Storia improntata a un concetto di finalità
universale è un mero mito dell'Ottocento, affatto illegittimo. Croce
tentò un compromesso, per ritrovarsi però "persuaso che un volume di
Filosofia della Storia non si può fare in niun modo; o, almeno, non
si può fare da me, che nego radicalmente la filosofia della storia"
(per notizie, vedi il saggio di Galasso nel volume).
Croce però non rinunciò a scrivere il libro: mutò il taglio, e
consegnò all'editore la Teoria e storia della storiografia, nella
quale sistematizzò la sua concezione del conoscere (storico): che
non è Filosofia della Storia, perché questa presuppone un concetto
di finalità della vicenda storica sempre assolutamente arbitrario.
Ma non è nemmeno Determinismo (sociologico, economico, ecc.), perché
la storia non è conoscenza di natura, di un oggetto eterogeneo
rispetto al soggetto umano, ma è atto in cui il soggetto umano
conosce se stesso. La storia è identificazione con le ragioni di
ogni umanità il cui manifestarsi ci sia raggiungibile; e qualsiasi
umanità che riconosciamo come tale nel momento in cui vuole e agisce
umanamente è libera, come liberi siamo noi.
Il libro da un certo punto di vista era superfluo: questi concetti
erano già impliciti nei tre precedenti volumi della filosofia dello
spirito; ma Croce colse l'occasione di sistemarli mettendoli in
esplicita relazione con i problemi concettuali della metodologia
della ricerca storica.
Ne proponiamo alcune pagine; alcune dal capitolo IV, dove è la
negazione della filosofia della storia è svolta assieme a quella del
determinismo, con eguale radicalità. Alcune altre dall'appendice
III, dove Croce ci regala una negazione di ogni filosofia che sia
diversa dall'essere metodologia per la conoscenza dei fatti umani in
questo mondo. Sono pagine forti, modernissime, ancora oggi
provocatorie, ancora oggi destinate a generare un rigetto nostalgico
da parte di chi non abbia la maturità per capirle.
Benedetto Croce - Teoria e storia della storiografia - Genesi e
dissoluzione ideale della "Filosofia della Storia"
Il rigetto del determinismo storico e della filosofia teleologica
della storia è congiunto: perché capire gli uomini significa
ricostruire e rivivere in se stessi la loro esperienza spirituale, e
ciò non può essere se si concepiscono gli uomini come cose, come
natura. Ma non si conosce storia nemmeno assegnando alla vicenda
umana qualsiasi finalità arbitraria e fantastica, che vada oltre i
fini che gli uomini si propongono nel loro vivere.
In queste pagine vi è però una curiosità, quasi uno hapax legomenon
nel corpus crociano; dice Croce che "...così poco noi come i greci
conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le umane fortune".
Espressione di tono agnostico, che sorprende, perché la consueta
forma mentis storicista sente come politically uncorrect, residuo di
illuminismo e concessione all'aborrito spirito positivistico,
ammettere esplicitamente che gli uomini in questo mondo non sanno
nulla delle ragioni del cielo. Qui Croce però per dare forza al suo
argomento è costretto a concederselo, per una volta.
Capitolo IV - GENESI E DISSOLUZIONE IDEALE DELLA "FILOSOFIA DELLA
STORIA"
I
La concezione della così detta "Filosofia della storia" è
perpetuamente fronteggiata e contrastata dalla concezione
deterministica della storia. Il che non solo si vede chiaro nel
fatto, ma riluce anche di logica evidenza, perché la "filosofia
della storia" rappresenta la concezione trascendente del reale, e il
determinismo quella immanente. Ma non meno certo è, nella
considerazione di fatto, che il determinismo storico genera esso,
perpetuamente, la "filosofia della storia"; né questo fatto è poi
meno evidentemente logico del precedente, perché il determinismo è
naturalismo, e perciò immanente, sì, ma d'insufficiente e falsa
immanenza: onde si deve dire piuttosto che esso vuol essere, ma non
è, immanente, e, quali che siano i suoi sforzi nella direzione
opposta, si converte in trascendenza. Tutto ciò non incontra
difficoltà. per chiunque abbia chiari in mente i concetti del
trascendente e dell'immanente, e della filosofia della storia come
trascendenza, e della concezione deterministica e naturalistica
della storia come falsa immanenza. Ma giova vedere più in
particolare come questo processo di accordi e di contrasti si svolga
e si risolva con riverenza al problema della storia.
"Prima raccogliere i fatti, poi connetterli causalmente": questo è
il modo nel quale la concezione deterministica si raffigura il
lavoro della storia. "Après la collection des faits, la recherche
des causes", per ripetere la comunissima formola nelle parole
testuali di uno dei più immaginosi ed eloquenti teorici di quella
scuola, del Taine. I fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non
rischiarati dal lume della scienza, non intellettualizzati; e questo
carattere intelligibile deve essere loro conferito mercé la ricerca
delle cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un
fatto a un altro come a causa di quello, componendo una catena di
cause ed effetti: che si entra, cioè, in un regresso all'infinito, e
non si riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa
in ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente
componendo.
Veramente, da codesta difficoltà taluni o molti deterministi della
storia si cavano in maniera assai semplice: a un punto qualsiasi,
spezzano o lasciano cadere la loro catena, che è già spezzata
dall'altro capo in un altro punto (l'effetto preso a considerare); e
operano col loro troncone di catena come con qualcosa di compiuto e
chiuso in sé, quasi che una retta tagliata in due punti includa
spazio e sia una figura. Donde altresì la dottrina che s'incontra
presso i metodologisti della storia: che alla storia spetti
ricercare solamente le cause "prossime": dottrina, che vorrebbe dare
un fondamento logico a quel procedere. Ma chi dirà mai che cosa sono
le "cause prossime"? Il pensiero, posto che sia costretto per sua
sventura a pensare seguendo la catena delle cause, non vorrà sapere
mai altro che di cause "vere", vicine o lontane che siano nello
spazio e nel tempo (lo spazio, come il tempo, ne fait rien à
l'affaire). In realtà, quella teoria è una foglia di fico, messa a
coprire un procedimento, di cui lo storico, che è uomo di pensiero e
di critica, si vergogna: l'arbitrio, un arbitrio che torna comodo,
ma che appunto perciò è arbitrio. E la foglia di fico è pur indizio
di pudore, e come tale ha il suo pregio; ché, se quel pudore si
perde, c'è caso che si finisca col dichiarare che le "cause", alle
quali arbitrariamente si è fatta fermata, sono le cause "ultime" e
le cause "vere", innalzando così il proprio individuale arbitrio ad
atto creativo del mondo e atteggiandolo a Dio, al Dio di certi
teologi, il cui arbitrio è verità. Non vorrei, dopo aver detto
questo, citare di nuovo proprio il Taine (scrittore assai
rispettabile, non certo per la sua forma mentale, ma per la sua fede
entusiastica nella scienza); e nondimeno mi conviene citarlo. Il
Taine, giunto nella sua ricerca di cause a una causa, che egli
chiama a volte la "razza", a volte il "secolo", - per esempio, nella
sua storia della letteratura inglese, al concetto di "uomo del Nord"
o "Germano", col carattere e l'ingegno che a questo sarebbero
propri, la frigidezza dei sensi, l'amore per le idee astratte, la
rozzezza del gusto e il disdegno per l'ordine e la regolarità, -
afferma gravemente: "Là s'arrête la recherche: on est tombé sur
quelque disposition primitive, sur quelque trait propre à toutes les
sensations, à toutes les conceptions d'un siècle ou d'une race, sur
quelque particularité inséparable de toutes les démarches de son
esprit et de son coeur. Ce sont là les grandes causes, les causes
universelles et permanentes...". Che cosa di primitivo e
d'insormontabile sia in ciò, sapeva l'immaginazione del Taine, ma la
critica ignora; perché la critica chiede che si dia la genesi dei
fatti o dei gruppi di fatti che si designano coi nomi di "secolo" e
di "razza", e, nel richiedere tale genesi, li dichiara insieme né
"universali" né "permanenti ", perché "fatti universali e permanenti
", che si sappia, non ve ne sono, e non sono tali, nonché le Germain
e l'Homme du Nord, nemmeno, direi, le mummie, che durano alcuni
millenni ma non in perpetuo, e si alterano lentamente, ma si
alterano.
Cosicché, chiunque pensi secondo la concezione deterministica della
storia, sempre che voglia astenersi dal troncare con l'arbitrio e
con l'immaginazione la ricerca iniziata, è condotto di necessità a
riconoscere che il metodo adottato non raggiunge il fine che si
persegue; e poiché, d'altra parte, si è cominciato, sia pure con
metodo insufficiente, a pensare la storia, non ci sono altri partiti
che: o rifarsi da capo, cangiando strada, o andare innanzi,
cangiando direzione. Il presupposto naturalistico, che rimane ancora
saldo ("prima raccogliere i fatti, poi cercarne le cause": quale
cosa più evidente e più ineluttabile di questa?), spinge di
necessità al secondo partito. Ma appigliarsi al secondo partito è
oltrepassare il determinismo, è trascendere la natura e le sue
cause, è proporre un metodo opposto al precedente, ossia rinunziare
alla categoria di causa per un'altra, che non può essere se non
quella di fine; e di fine estrinseco e trascendente, che è l'analogo
opposto che corrisponde alla causa. Ora, la ricerca del fine
trascendente è la "filosofia della storia".
A questa ricerca il naturalista conseguente (e chiamo tale colui che
"seguita a pensare", o, come si dice comunemente, trae le
conseguenze) non si può sottrarre, e non si sottrae in effetto
giammai, comunque concepisca la sua nuova ricerca; nemmeno quando
prova a sottrarvisi, dichiarando inconoscibile il fine o la "causa
ultima", perché (come altresì è noto) un inconoscibile affermato è
un inconoscibile in qualche modo conosciuto. Il naturalismo si
corona sempre di una filosofia della storia, quale che sia la forma
delle sue sistemazioni: o che l'universo venga da esso spiegato con
gli atomi che si accozzano e col loro vario accozzarsi e danzare
producono il corso storico, al quale possono altresì mettere termine
col tornarsene alla primitiva dispersione; o che chiami il Dio
ascoso Materia o Incosciente o in altro modo; o, infine, che lo
concepisca come una Intelligenza che si vale, per mettere in atto i
suoi consigli, della catena delle cause. E, per converso, ogni
filosofo della storia è un naturalista, e tale è perché è dualista,
e concepisce un Dio e un mondo, un'Idea e un fatto oltre o sotto
l'Idea, un Regno dei fini e un Regno o sottoregno delle cause, una
città celeste e un'altra più o meno diabolica o terrena. Si prenda
qualsiasi costruzione di determinismo storico, e si troverà o
scoprirà in essa, esplicita o sottintesa, la trascendenza (nel
Taine, per esempio, reca il nome di "Race" o di "Siècle", vere e
proprie deità); e si prenda qualsiasi costruzione di "filosofia
della storia", e vi si scopriranno il dualismo e il naturalismo
(nello Hegel, per esempio, in quel suo ammettere fatti ribelli e
impotenti, che resistono o non sono degni del dominio dell'Idea). E
si vedrà sempre più chiaramente come dalle viscere del naturalismo
venga fuori, incoercibile, la "filosofia della storia".
II
Ma la "filosofia della storia" è altrettanto contradittoria quanto
la concezione deterministica da cui sorge e a cui si oppone. Perché
essa, avendo accettato e oltrepassato insieme il metodo del
congiungere tra loro i fatti bruti, non trova più innanzi a sé fatti
da congiungere (che sono stati già congiunti, come si poteva, mercé
la categoria di causa), sibbene fatti bruti, ai quali deve
conferire, non più un legamento ma un "significato", e
rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, di una
teofania. Ora quei fatti in quanto bruti sono mutoli, e la
trascendenza del processo richiede, per essere concepita e
rappresentata, un organo che non sia quello del pensiero che pensa,
ossia produce i fatti, ma un organo extralogico (per esempio, un
pensiero che proceda astrattamente a priori: Fichte), il quale non
si trova nello spirito se non come momento negativo, come il vuoto
del pensiero logico effettivo. E il vuoto del pensiero logico è
occupato immediatamente dalla praxis, o, come si dice, dal
sentimento, che poi, rifrangendosi teoricamente, si atteggia a
poesia. Carattere poetico, che è evidente in tutte le "filosofie
della storia": sia in quelle antiche, che rappresentavano gli
accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di
singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della
luce e della verità contro le potenze della tenebra e della
menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o
d'individui verso l'egemonia, o dell'uomo verso il bene e la verità:
sia in quelle moderne e modernissime, che s'ispirano ai vari
nazionalismi ed etnicismi (l'italico, il germanico, lo slavo, ecc.),
o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno
della Libertà, o come il passaggio dall'Eden del comunismo
primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e
del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole
ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella poesia, i fatti non
sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini; e perciò non ci
sarebbe luogo a censura, se qui si rimanesse nella pura poesia. Ma
non vi si rimane, perché quelle immagini e parole sono ora poste
come idee e fatti, e cioè come miti: miti il Progresso, la Libertà,
l'Economia, la Tecnica, la Scienza, sempre che siano concepiti come
motori esterni ai fatti; miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e
Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità.
Ed ecco perché la concezione deterministica, dopo avere prodotto la
"filosofia della storia" che le fa contrasto, è costretta a
contrastare a sua volta la propria figliuola, e ad appellarsi dal
regno dei fini a quello delle connessioni causali,
dall'immaginazione all'osservazione, dai miti ai fatti.
La confutazione reciproca del determinismo storico e della filosofia
della storia, che fa dell'una e dell'altro due vuoti o due niente,
cioè un unico vuoto e niente, sembra invece, come suole, agli
eclettici il compiersi reciproco di due entità, che stringono o
dovrebbero stringere tra loro un'alleanza per sorreggersi a vicenda.
E poiché l'eclettismo, mutato nomine, infierisce nella filosofia
contemporanea, non è meraviglia che si trovi di frequente assegnato
alla storia, oltre l'ufficio d'investigare le cause, quello del
"significato" o del "piano generale" del corso storico (si vedano i
lavori sulla "filosofia della storia" del Labriola, del Simmel, del
Rickert); e poiché gli scrittori di metodiche sogliono essere
empirici, e perciò eclettici, anche tra es'si è vulgata la
partizione della storia in istoria che si fa col radunare e
criticare i documenti e ricostruire gli accadimenti, e in "filosofia
della storia" (si veda per tutti il manuale del Bernheim); e,
infine, poiché eclettico è il pensiero ordinario, niente è più
facile che raccogliere consenso intorno alla tesi: che la semplice
storia, la quale offre la serie dei fatti, non basta, e che si
richiede che il pensiero torni sopra la costituita catena dei fatti
per iscoprirvi il disegno riposto e per rispondere alle domande del
donde veniamo e del dove andiamo; cioè che, accanto alla storia,
debba porsi una "filosofia della storia". Questo eclettismo, che
sostanzializza due opposte vacuità e fa che l'una dia la mano
all'altra, tenta perfino talvolta di superare sé stesso e di fondere
quelle due finte scienze o parti di scienza. E allora si ode
difendere la "filosofia della storia", ma con la cautela, che essa
debba essere condotta con metodo "scientifico" e "positivo", mercé
la ricerca causale, e svelare per tal modo l'azione della ragione o
della Provvidenza divina: - programma nel quale altresì il pensiero
volgare tosto consente, ma che poi non si riesce a eseguire. Niente
di nuovo, neanche qui, per gl'intendenti: la "filosofia della
storia", da costruire coi "metodi positivi", la trascendenza da
dimostrare coi metodi della falsa immanenza, è, nel campo degli
studi storici, l'esatto equivalente
di quella "metafisica da costruire con metodo sperimentale", che i
neocritici (Zeller e altri) raccomandavano, e che anch' essa
pretendeva, non già superare due vacuità che reciprocamente si
confutano, ma accordarle tra loro, e, dopo averle sostanzializzate,
combinarle in unica sostanza. Cose che, per significarne
l'impossibilità, io non chiamerei prodigi da alchimista (la metafora
mi sembrerebbe troppo alta), ma sì, piuttosto, intrugli da cattivi
cuochi.
III
Tutt'altro è il rimedio efficace alle contradizioni del determinismo
storico e della "filosofia della storia"; e, per ottenerlo, bisogna
accettare il risultamento della reciproca confutazione, che li
vanifica entrambi, e rifiutare, perché privi di pensiero, così i
"disegni" della filosofia della storia, come le "catene causali" del
determinismo. E, dissipate queste due ombre, ci ritroviamo al punto
di partenza: siamo innanzi di nuovo ai fatti bruti e slegati, ai
fatti assodati ma non intesi, pei quali il determinismo aveva
procurato di adoprare il cemento della causalità, e la "filosofia
della storia", la bacchetta magica della finalità. - Che cosa faremo
di questi fatti? Come li renderemo da opachi traslucidi? da
disorganici, organici? da inintelligibili, intelligibili? Veramente,
sembra difficile fame qualcosa, e, soprattutto, eseguire di essi la
trasformazione invocata. Lo spirito è impotente innanzi a ciò che
gli è, ossia si suppone che gli sia, estraneo. E, concepiti i fatti
a quel modo, si è tentati a ripigliare l'atteggiamento di disprezzo
dei filosofi verso la storia, mantenutosi quasi costante
dall'antichità (per Aristotele la storia era "meno filosofica" e
"meno grave" della poesia, e per Sesto Empirico "materia
ametodica"), fin quasi alla fine del secolo decimottavo (Kant non
intese né sentì la storia): ai filosofi le idee, agli storici i
fatti bruti: contentiamoci delle cose serie e lasciamo ai bambini i
loro balocchi.
Ma, prima di cedere a siffatta tentazione, sarà prudente chiedere
consiglio al dubbio metodico (che riesce sempre assai utile), e
volgere l'attenzione appunto su quei fatti bruti e sconnessi, dai
quali la ricerca causale asserisce di prendere le mosse, e innanzi
ai quali noi, abbandonati ormai da essa e dal suo complemento, la
filosofia della storia, sembra che siamo tornati. E il dubbio
metodico ci suggerirà innanzi tutto il pensiero: che quei fatti sono
un presupposto non provato: e ci indurrà quindi a esaminare se la
prova si possa fare; e, mettendoli al cimento della prova, ci
porterà, in fine, alla conclusione, che quei fatti, realmente, non
esistono.
Chi, infatti, afferma la loro esistenza? Per l'appunto, lo spirito
nell'atto che si accinge alla ricerca delle cause. Ma lo spirito, in
quell'atto, non possiede prima i fatti bruti ("d'abord, la
collection des faits"), e poi ne cerca le cause ("après, la
recherche des causes"); sibbene, con quell'atto stesso, rende bruti
i fatti, cioè li pone lui così, perché gli giova così porli. La
ricerca delle cause, che si esegue nella storia, non è niente di
diverso dal procedere, più volte illustrato, del naturalismo, che
analizza astrattamente e classifica la realtà. E analizzare
astrattamente e classificare importa insieme astrattamente giudicare
classificando; cioè trattare i fatti, non come atti dello spirito,
consapevoli nel pensiero che li pensa, ma come fatti esterni o
bruti. La Divina Commedia è quel poema che noi, leggendo, rifacciamo
nella nostra fantasia in tutte le sue particolarità, e che
criticamente intendiamo come una particolare determinazione dello
spirito, e che perciò collochiamo mentalmente al suo posto nella
storia con tutte le sue circostanze e in tutte le sue relazioni. Ma
quando questa attualità della nostra fantasia e del nostro pensiero
è trapassata, ossia quel processo mentale si è compiuto, siamo in
grado, con un nuovo atto spirituale, di analizzarne astrattamente
gli elementi; e costruendo,
per esempio, i concetti classifica tori i di "civiltà fiorentina" o
di "poesia politica ), diremo che la Divina Commedia fu un effetto
della civiltà fiorentina, e questa, a sua volta, delle lotte
politiche dei Comuni, e simili. E ci saremo così, in pari tempo,
aperta la strada a quei problemi assurdi, che tanto infastidivano il
De Sanctis a proposito dell'opera di Dante, e ch'egli benissimo
qualificava dicendo che sorgono solamente quando la viva impressione
estetica si è raffreddata, e 1'opera poetica cade in balìa dei
cervelli ottusi, vaghi di sciarade. Ma se ci arrestiamo a tempo e
non entriamo nella strada aperta di quelle assurdità, se ci
atteniamo al momento naturalistico puro e semplice, alla
classificazione e al giudizio classificatorio (che è insieme
connessione causale), in guisa affatto pratica, senza tirarlo a
conseguenza, non faremo niente di men che legittimo, anzi
eserciteremo un nostro diritto e ci piegheremo a una razionale
necessità, che è quella del naturalizzare quando il naturalizzare
giova e nei limiti entro cui esso giova. Talché, come puro
naturalismo, il materializzamento dei fatti, e il loro legamento
estrinseco o causale, è del tutto giustificato; e giustificata si
dimostrerà perfino la massima di fermarsi alle cause "prossime"
ossia di non spingere tant'oltre la classificazione, che essa perda
qualsiasi utilità pratica. Porre in relazione la Divina Commedia col
concetto di classe "civiltà fiorentina"potrà giovare; ma non gioverà
punto, o infinitamente meno, porla in relazione col concetto di
classe "civiltà indoeuropea", o "civiltà dell'uomo bianco".
IV
Torniamo, dunque, con maggiore fiducia al punto di partenza, al vero
punto di partenza, cioè non a quello dei fatti già disorganizzati e
naturalizzati, ma a quello della mente che pensa e costruisce il
fatto; risolleviamo i volti avviliti dei calunniati "fatti bruti", e
vedremo risplendere sulle loro fronti la luce del pensiero. E quel
vero punto di partenza ci si mostrerà, non semplice punto di
partenza, ma e di partenza e di arrivo; non il primo passo nella
costruzione della storia, ma tutta la storia nella sua costruzione,
che è poi il suo costruirsi. Il determinismo storico, e a più forte
ragione la "filosofia della storia", si lasciano dietro le spalle la
realtà della storia, verso la quale pur indirizzavano il loro
viaggio, riuscito aberrante e viziosamente circolare.
Che questo che diciamo sia la verità, ce lo faremo confessare
dall'ingenuo Taine, domandandogli che cosa intenda per "collection
des faits", e apprendendo da lui in risposta che quella raccolta si
compie in due stadi o momenti, nel primo dei quali i documenti
vengono ravvivati per raggiungere, "à travers la distance des temps,
1'homme vivant, agissant, doué de passions, muni d'habitudes, avec
sa voix et sa physionomie, avec ses gestes et ses habits, distinct
et complet comme celui qui tout à 1'heure nous avons quitté dans la
rue"; e nel secondo si cerca e scopre "sous l'homme extérieur
l'homme intérieur", "l'homme invisible", "le centre", "le groupe des
facultés et des sentiments qui produit le reste", "le drame
intérieur", "la psychologie". - Altro, dunque, che "collections des
faits"! Se le cose, che il nostro autore dice, si adempiono per
davvero, se davvero si rivivono in fantasia gli individui e gli
accadimenti, e se degli uni e degli altri si pensa l'interiorità,
cioè se si esegue la sintesi d'intuizione e concetto che è il
pensiero nella sua concretezza, la storia è bella e attuata: che
cosa si desidera di più? non c'è da cercar altro. "C'è da cercar le
cause!" aggiunge il Taine. Ossia, c'è da ammazzare il "fatto" vivo,
pensato dal pensiero, e c'è da separarne gli astratti elementi, cosa
utile senza dubbio, ma alla memoria e alla pratica; o ancora (come
esso Taine adopera) fraintendere e sopravalutare questo ufficio
dell'analisi astratta, andandosi a perdere nella mitologia delle
Razze e dei Secoli, o in altra diversa e nondimeno simile.
Guardiamoci dall'ammazzare i poveri fatti, se vogliamo pensare da
storici; e, in quanto tali, in quanto effettivamente pensiamo, non
sentiremo bisogno di ricorrere né al legame estrinseco delle cause
(determinismo storico), né a quello parimente estrinseco dei fini
trascendenti (filosofia della storia). Il fatto concretamente
pensato non ha né causa né fine fuori di sé, ma solamente in sé
stesso, coincidente con la sua reale qualità o con la sua
qualitativa realtà. Perché (sarà opportuno notare di passata) la
determinazione dei fatti come fatti reali bensì, ma d'ignota natura,
asseriti e non compresi, è anch'essa un'illusione del naturalismo
(che preannunzia così l'altra sua illusione, quella della "filosofia
della storia"): nel pensiero, realtà e qualità, esistenza ed
essenza, sono tutt'uno, e non si può affermare reale un fatto senza
insieme conoscere qual fatto esso sia, cioè senza qualificarlo.
Tornando e restando, ossia movendoci nel fatto concreto, o, meglio,
facendoci pensiero che pensa concretamente il fatto, noi
sperimentiamo il continuo formarsi e il continuo progredire del
nostro pensiero storico, e ci rendiamo anche chiara la storia della
storiografia, che progredisce allo stesso modo. E vediamo come (mi
restringo a un esempio per non lasciar vagare troppo lo sguardo) dai
greci a noi l'intelligenza storica si sia fatta sempre più ricca e
profonda, non già perché si siano mai rinvenute le cause astratte e
i fini trascendenti delle cose umane, ma sol perché si è acquistata
via via di esse una coscienza sempre più ricca; e politica e morale
e religione e filosofia e arte e scienza e cultura ed economia sono
diventate concetti più complessi, e insieme meglio determinati e
unificati in sé medesimi e col tutto; e correlativamente, le storie
di quelle forme di attività sono diventate sempre più complesse e
più saldamente une. Le "cause" della civiltà le conosciamo così poco
noi come i greci; e così poco noi come i greci conosciamo il Dio o
gli dèi, che guidano le umane fortune. Ma noi conosciamo meglio dei
greci la teoria della civiltà, e, tra l'altro, sappiamo (com'essi
non sapevano, o non sapevano con altrettanta chiarezza e sicurezza)
che la poesia è una forma eterna dello spirito teoretico; che il
regresso o decadenza è un concetto relativo; che il mondo non è
diviso in idee e ombre delle idee, o in potenze ed atti; che la
schiavitù non è una categoria del
reale, ma una forma storica dell'economia; e via discorrendo. E
perciò non ci accade più (salvo che ai sopravvissuti o ai fossili,
che pur sono tra noi) di tessere la storia della poesia passando a
rassegna i fini pedagogici che si sarebbero proposti i poeti; ma
intendiamo a determinare invece le forme espressive dei loro
sentimenti: né restiamo smarriti innanzi alle così dette
"decadenze", ma ricerchiamo che cosa di nuovo e di superiore si
andò, attraverso la dialettica di esse, elaborando; - né
consideriamo misera e illusoria l'opera dell'uomo e solo degni di
ammirazione e d'imitazione il sospiro al cielo e la congiunta
ascesi, avversa alla terra: ma nell'atto riconosciamo la realtà
della potenza e nelle ombre la saldezza delle idee, e nella terra il
cielo; - né, infine, ci sentiamo mancare la possibilità della vita
sociale per effetto della sparizione dell' economia a schiavi:
sparizione che sarebbe stata la catastrofe della realtà, se nella
realtà fossero schiavi per natura; e via discorrendo.
Questo concetto della storia e la considerazione del lavoro
storiografico nel suo intrinseco ci mettono in grado altresì di
usare giustizia verso il determinismo storico e la "filosofia della
storia", che, col loro continuo risorgere, hanno continuamente
additato le lacune del nostro sapere così storico come filosofico, e
con le loro soluzioni immaginose hanno precorso le soluzioni
dialettiche e storiche dei nuovi problemi che si sono andati
ponendo; né è detto che smetteranno da ora in poi di esercitare tale
ufficio (che è l'ufficio benefico delle utopie di ogni sorta). E
quantunque, come meramente astratti e negativi, il determinismo
storico e la "filosofia della storia" non abbiano storia perché non
si svolgono, dalla relazione in cui essi sono con la storia ricevono
un contenuto che si svolge, cioè la storia si svolge in essi,
nonostante il loro involucro, estrinseco al contenuto, costringendo
a pensare anche chi si propone di schematizzare e d'immaginare senza
pensare. Ché, in verità, è da porre gran divario tra il determinismo
che può risorgere ora, dopo Cartesio e Vico e Kant e Hegel, e quello
che sorse dopo Aristotele; tra la filosofia della storia di Hegel o
di Marx, e quella dello gnosticismo o del cristianesimo.
Trascendenza e falsa immanenza travagliano, rispettivamente, tutte
queste concezioni; ma le forme astratte e le mitologie, nate in più
matura epoca del pensiero, racchiudono in sé questa nuova maturità;
e, per soffermarci solamente (lasciando da parte i vari naturalismi)
sul caso delle "filosofie della storia", si avverte già una bella
differenza dalla filosofia della storia, che domina nel mondo
omerico, a quella di Erodoto, il cui concetto dell'invidia degli dèi
è quasi un'idea di legge morale, che risparmia gli umili e calca i
superbi; e da questa al fato degli stoici, che è una legge alla
quale gli stessi dèi sono sottoposti; e poi al concetto della
Provvidenza, che spunta nella tarda antichità, della sapienza che
regge il mondo; e ancora da questa provvidenza pagana alla
cristiana, che è giustizia divina, preparazione evangelica e cura
educativa del genere umano; e via via alla provvidenza affinata dai
teologi, che esclude d'ordinario l'intervento miracoloso e opera per
cause seconde, e a quella del Vico, che opera come dialettica dello
spirito, e alla Idea dello Hegel, che è graduale conquista, che la
libertà, attraverso la storia, fa della propria coscienza; o,
infine, alla mitologia ancora persistente del Progresso e della
Civiltà, che tenderebbero al definitivo sgombramento dei pregiudizi
e delle superstizioni da conseguire mercé la crescente forza e
divulgazione della scienza positiva.
Per tal modo, la "filosofia della storia" e il determinismo storico
raggiungono a volte la sottigliezza e la trasparenza di un velo, che
copre e scopre insieme la concretezza del reale nel pensiero; e le
meccaniche "cause" appaiono idealizzate, e le trascendenti "deità"
umanate, e i fatti svestono gran parte del loro aspetto brutale. Ma,
per sottile che sia il velo, è velo, e per ischietta che sembri la
verità, non è del tutto schietta, perché permane pur sempre nel
fondo la falsa persuasione che la storia si costruisca col
"materiale" dei fatti bruti, col "cemento" delle cause e con la
"magia" dei fini, come con tre successivi o concorrenti metodi. È il
caso medesimo della religione, la quale, nelle menti alte, si libera
quasi del tutto dalle volgari credenze, come negli animi alti la sua
etica si affranca quasi del tutto dall'eteronomismo del comando
divino e dall'utilitarismo del premio e della pena. Quasi del tutto,
ma non del tutto; e perciò la religione non sarà mai filosofia, se
non negandosi; e così la "filosofia della storia" e il determinismo
storico, solo negandosi, diventeranno storia. Sempre che in qualche
misura essi persistano in modo positivo, persisterà insieme il
dualismo, e il conseguente angoscioso scetticismo o agnosticismo.
La negazione della filosofia della storia nella storia concretamente
intesa è la sua ideale dissoluzione; e, poiché quella cosiddetta
"filosofia" non è altro che un momento astratto e negativo, è chiaro
per quale ragione da noi si affermi che la filosofia della storia è
morta: morta nella sua positività, morta come corpo di dottrine;
morta, a questo modo, con tutte le altre concezioni e forme del
trascendente. E io non vorrei appiccare alla mia breve (ma, a mio
credere, bastevole) trattazione di tale argomento, la giunta di una
dilucidazione che sembrerà ad alcuni (come sembra a me stesso) poco
filosofica e persino alquanto triviale. Nondimeno, preferendo al
rischio dell'equivoco quello della semitrivialità, aggiungerò che,
come la critica dei "concetti" di causa e di finalità trascendente
non vieta di adoperare queste "parole" quando siano semplici parole
(e, per esempio, di parlare immaginosamente della Libertà come di
una dea, o di dire, nell'accingersi a uno studio su Dante, che
s'intende "ricercare la causa" o "le cause" di questa o quell'azione
e opera di lui), - così niente vieta di seguitare a parlare di
"filosofia della storia", e di un "filosofare sulla storia", per
significare l'esigenza di una elaborazione o di una migliore
elaborazione di questo o di quel problema storico. E neanche è
vietato chiamare "filosofia della storia" le ricerche di gnoseologia
storica, sebbene in questo caso si elabori la filosofia, non
propriamente della storia, ma della storiografia: due cose che
sogliono essere designate in italiano, come in altre lingue, da un
medesimo vocabolo. E nemmeno, infine, si vuole impedire di affermare
(come fece, anni addietro, un professore tedesco) che la "filosofia
della storia" debba trattarsi come "sociologia", cioè d'insignire di
quel vecchio titolo la cosiddetta Sociologia, scienza empirica dello
Stato, della società e della cultura.
Queste denominazioni sono tutte permesse, in virtù del medesimo
diritto che l'avventuriere Casanova invocava innanzi al magistrato
per giustificarsi di aver cangiato nome: "il diritto che ogni uomo
ha sulle lettere dell'alfabeto". Ma la questione, trattata di sopra,
non è stata di lettere dell'alfabeto; e la "filosofia della storia",
della quale abbiamo sommariamente mostrato la genesi e la
dissoluzione, non è già un nome, che variamente si adoperi, ma una
determinatissima concezione della storia: la concezione
trascendente.
(Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 71-90
dell'edizione Adelphi 1989)
Benedetto Croce - Teoria e storia della storiografia - Filosofia e
Metodologia
Queste pagine sembrano ancora fatte per fare arrabbiare i filosofi
professionali (specie quelli "continentali"). Fa pensare che l'unico
progetto di filosofia affine nel metodo a queste istanze crociane
sia stata la filofia analitica, da lui lontanissima. Però, tutto
sommato l'incompatibilità tra lo storicismo Crociano e la filosofia
analitica dipese da due divergenze sul punto di partenza di questa
ultima: in primo luogo la superstizione che la lingua a doppia
articolazione sia un mezzo espressivo di qualità logicamente
superiore a ogni altro, e la conseguente aridità estetica. In
secondo luogo, l'incapacità della filosofia analitica di concepire
come relativi i valori illuministici del nostro tempo, se non a
prezzo di cadere in forme di scetticismo scolastico.
Ma la filosofia analitica dell'ultima generazione ha mostrato una
sensibilità per l'estetica e per la storia in cui resta ben poco
delle premesse originarie. Cosa significa ciò? Forse che il Croce di
cento anni fa era un filosofo dalle vedute più vaste di quanto non
si creda?
Appendice III - FILOSOFIA E METODOLOGIA
Stabilita l'unità di filosofia e storiografia, e mostrato che la
partizione tra le due non ha altro valore che letterario e
didascalico, perché si fonda sulla possibilità di collocare in primo
piano nell'esposizione verbale ora l'uno ora l'altro dei due
elementi dialettici di quell'unità, giova mettere bene in chiaro
quale sia propriamente l'oggetto delle trattazioni designate col
nome tradizionale di "teoria" o di "sistema" filosofico: a che cosa
(per dirla in breve) si riduca la Filosofia.
La Filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata
posta, non può essere necessariamente altro che il momento
metodologico della Storiografia: dilucidazione delle categorie
costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi
dell'interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per
contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di
fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (o di altro, se
altro si riesca ad escogitare), e in questa varietà delle sue forme
è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell'Estetica
e della Logica, dell'Economica e dell'Etica, e tutte le congiunge e
risolve nella Filosofia dello spirito. Se un problema filosofico si
dimostra affatto sterile pel giudizio storico, si ha in ciò la prova
che quel problema è ozioso, malamente posto, e in realtà non
sussiste. Se la soluzione di un problema, cioè una proposizione
filosofica, invece di rendere meglio intelligibile la storia, la
lascia oscura o la intorbida o vi salta sopra e la condanna e la
nega, si ha in ciò la prova che quella proposizione, e la filosofia
con la quale si lega, è arbitraria, se anche possa serbare interesse
per altri rispetti, come manifestazione del sentimento e della
fantasia.
La definizione della Filosofia come "metodologia" non va sulle prime
esente da dubbi, anche per parte di chi è disposto ad accettare in
genere la tendenza ch' essa designa; perché filosofia e metodologia
sono due termini di frequente messi in contrasto, e una filosofia
che versi nella metodologia suole ricevere taccia di empirismo. Ma
certamente la metodologia, della quale qui s'intende discorrere, non
è niente di empirico, anzi viene appunto a correggere e sostituire
l'empirica metodologia degli storici di mestiere e di altrettali
specialisti in tutta quella sua maggior parte nella quale essa è un
vero e proprio, sebbene manchevole, conato verso la soluzione
filosofica dei problemi teorici suscitati dallo studio della storia,
ossia verso la metodologia filosofica e la filosofia come
metodologia.
Per altro, se l'anzidetto contrasto si risolve tosto che si accenna,
non accade il medesimo di un'altra opposizione nella quale il
concetto da noi sostenuto si trova col concetto assai antico e
largamente divulgato della filosofia come risolutrice del mistero
dell'universo, conoscenza della realtà ultima, rivelazione del mondo
noumenico, che sarebbe di là dal fenomenico nel quale ci aggireremmo
nella vita ordinaria e si aggirerebbe la considerazione storica. Non
è il caso di delineare qui la storia di tale concetto; ma questo
almeno bisogna dire, che la sua origine è religiosa o mitologica, e
che esso persistette persino nei filosofi che più validamente
avviarono il pensiero verso l'unica realtà dell'umano e del mondano,
e iniziarono la nuova filosofia come metodologia del giudizio ossia
della conoscenza storica. Persistette nel Kant, che l'ammise come
limite della sua critica; persistette nello Hegel, che inquadrò le
sue squisite ricerche di logica e di filosofia dello spirito in una
sorta di mitologia dell'Idea.
Tuttavia la diversità tra i due concetti fu avvertita in modo sempre
più vivace, e si espresse nelle varie formole che, nel corso del
secolo decimonono, opposero alla metafisica la psicologia, alla
filosofia aprioristica e trascendente una filosofia dell'esperienza
e immanente, all'idealismo il positivismo; e sebbene di solito la
polemica fosse infelicemente condotta e, andando oltre il segno,
finisse col riabbracciare inconsapevolmente quella metafisica, quel
trascendente e aprioristico, quell'idealismo astratto che si
proponeva di combattere, l'esigenza che vi si disegnava era
legittima. E la Filosofia come Metodologia l'ha fatta sua, e ha
combattuto con migliori armi il medesimo avversario, e ha propugnato
una concezione psicologica bensì ma di psicologia speculativa,
immanente alla storia ma dialetticamente immanente, e diversa in ciò
dal positivismo che, laddove questo rendeva contingente il
necessario, essa rende necessario il contingente, affermando il
diritto egemonico del pensiero. Una tale filosofia è appunto la
filosofia come storia (e perciò la storia come filosofia), e la
determinazione del momento filosofico nel momento puramente
categorico e metodologico.
Il maggior vigore di questa concezione verso l'opposta, la
superiorità della filosofia come Metodologia sulla filosofia come
Metafisica, è dimostrata dalla capacità della prima a risolvere,
criticandoli e assegnandone la genesi, i problemi della seconda;
laddove la Metafisica non è capace di risolvere, non solo quelli
della Metodologia, ma nemmeno i propri problemi senza dare nel
fantastico e nell'arbitrario. Così le questioni sulla realtà del
mondo esterno, sull'anima-sostanza, sull'inconoscibile, sui dualismi
e sulle antinomie, e via dicendo, si sono disciolte nelle dottrine
gnoseologiche che hanno sostituito migliori concetti a quelli che
prima si possedevano intorno alla logica delle scienze, e spiegato
quelle questioni come aspetti eternamente rinascenti ed eternamente
superabili della dialettica o fenomenologia della conoscenza.
Senonché il concetto della filosofia come metafisica è così
inveterato e così tenace, che non è meraviglia se esso dia ancora
qualche guizzo di vita nelle menti di coloro che se ne sono bensì
liberati in genere, ma non l'hanno attentamente perseguitato in
tutti i particolari, né hanno chiuso tutte le porte per le quali può
introdursi più o meno inavvertito. E se ora di rado lo s'incontra
nella sua diretta e scoperta presenza, è dato discernerlo o
sospettarlo in alcuni suoi aspetti ed atteggiamenti, che rimangono
quasi pieghe prese dagl'intelletti o come preconcetti inconsapevoli,
e offrono il pericolo di risospingere la Filosofia come metodologia
in vie fallaci, e di preparare la restaurazione, sia anche efimera,
della sorpassata Metafisica.
E di alcuni di questi preconcetti e tendenze ed abiti mi sembra
opportuno dare chiaro enunciato, additando l'errore che essi
contengono o traggono seco.
Prima ci si presenta, tra le sopravvivenze del passato,
l'ammissione, ancora assai comune, di un problema fondamentale della
filosofia. Ora il concetto di un problema fondamentale è
intrinsecamente contrastante a quello della filosofia come storia e
della trattazione della filosofia come metodologia della storia, il
quale pone, e non può non porre, l'infinità dei problemi filosofici,
tutti bensì connessi organicamente tra loro, ma dei quali nessuno
può dirsi fondamentale, per l'appunto come in un organismo nessuna
singola parte è il fondamento delle altre tutte, ma ciascuna è, a
volta a volta, fondamento e fondata. Se, infatti, la metodologia
toglie la materia dei suoi problemi dalla storia, la storia, nella
sua modesta ma concretissima forma di storia di noi medesimi, di
ciascuno di noi come individuo, ci mostra che noi trascorriamo di
problema in problema filosofico particolare sotto la sollecitazione
della nostra vita vissuta, e, secondo le epoche di questa, uno o
altro gruppo o classe di problemi tiene il campo o ha per noi
interesse preponderante. E se guardiamo al più largo ma meno
determinato spettacolo che offre la cosiddetta storia generale della
filosofia, osserviamo il medesimo: che cioè, secondo i tempi e i
popoli, ora i problemi filosofici della morale ora quelli della
politica ora della religione ora delle scienze naturali e delle
matematiche hanno avuto le prime parti; e che sempre, certamente,
ogni particolare problema filosofico è stato, in modo espresso o
sottinteso, problema di filosofia totale, ma non mai s'incontra, per
la con tradizione che nol consente, un problema generale, per sé
stante, della filosofia. E se uno pare che ce ne sia (e pare
certamente così), si tratta, in verità, di una parvenza, generata da
ciò che la filosofia moderna, uscita dalla filosofia del medioevo ed
elaborata attraverso le lotte religiose della Rinascenza, ha
serbato, nella sua forma didascalica non meno che nella disposizione
psicologica della maggior parte dei suoi cultori, forte impronta di
teologia: onde !'importanza fondamentale e quasi unica che usurpava
il problema della relazione tra Pensiero ed Essere, che era poi
nient'altro che la forma critica e gnoseologica dell'antico problema
del mondo e dell'altro mondo, della terra e del cielo. Ma coloro che
distrussero o iniziarono la distruzione del cielo e dell'altro
mondo, e della filosofia trascendente per la filosofia immanente,
nello stesso atto distrussero e cominciarono a corrodere il concetto
di un problema fondamentale, sebbene di ciò non si avvedessero a
pieno (epperò si è detto di sopra che restarono impigliati nella
filosofia della Cosa in sé o nella mitologia dell'Idea). Quel
problema era a buon diritto fondamentale per gli spiriti religiosi,
che tenevano esser nulla tutto il dominio intellettuale e pratico
del mondo se non avessero salvato in un altro mondo, nella
conoscenza del mondo noumenico e veramente reale, l'anima propria o
il proprio pensiero; ma tale non doveva più rimanere pei filosofi,
ormai ristretti solo al mondo o alla natura, che non ha nòcciolo né
corteccia ed è tutto di un getto. Riammettendo la concezione di un
problema fondamentale, primeggiante sugli altri tutti, che cosa
accadrebbe? Gli altri problemi o sarebbero da considerare tutti come
dipendenze del primo, e perciò risoluti col primo; o come problemi
non più filosofici, ma empirici. Cioè tutti i problemi, che ogni
giorno ci sorgono sempre nuovi dalla scienza e dalla vita, sarebbero
degradati, e o diventerebbero una tautologia della soluzione
fondamentale o resterebbero commessi alla trattazione empirica:
riproducendosi così la distinzione tra filosofia e metodologia, tra
metafisica e filosofia dello spirito, trascendente la prima rispetto
alla seconda e la seconda afilosofica rispetto alla prima.
Un'altra tendenza, proveniente dalla vecchia concezione metafisica
dell'ufficio della filosofia, porta a spregiare la distinzione per
l'unità, conformandosi anch'essa al concetto teologico, che tutte le
distinzioni si unificano sommergendosi in Dio, e all'atteggiamento
religioso, che nella visione di Dio dimentica il mondo e le sue
necessità. Nasce da ciò una disposizione tra indifferente,
accomodante e molle rispetto ai problemi particolari, e quasi si
ripristina tacitamente la perniciosa dottrina della doppia facoltà,
della intuizione intellettuale o altra superiore facoltà conoscitiva
che sarebbe propria del filosofo e condurrebbe alla visione della
vera realtà, e della critica o pensiero che indugerebbe nel
contingente e serberebbe una dignità di gran lunga minore e potrebbe
procedere con una mancanza di rigore speculativo, che all'altra non
sarebbe consentita. Tale disposizione ingenerò pessime conseguenze
nelle trattazioni filosofiche della scuola hegeliana, nelle quali di
solito quegli scolari (diversamente dal maestro) mostrarono di avere
poco o punto ricercato e meditato nei problemi delle varie forme
spirituali, accogliendo volentieri intorno ad essi le opinioni
volgari o entrandovi in mezzo con noncuranza di uomini sicuri dell'
essenziale, e perciò tagliandoli e mutilandoli senza pietà per
ridurli in fretta e furia nei loro schemi prestabiliti e
spacciarsene con quell'illusorio collocamento: donde la vacuità e la
noia delle loro filosofie, dalle quali lo storico, ossia colui che
si volgeva a intendere la realtà particolare e concreta, non
riusciva ad apprender nulla: nulla che gli fosse di aiuto a meglio
indirizzare le sue indagini e a formare in modo più perspicuo i suoi
giudizi. E poiché la mitologia dell'Idea ricomparve come mitologia
dell'Evoluzione nel positivismo, anche in questo i problemi
particolari (che sono poi i soli problemi filosofici) ricevettero
schematico e vacuo trattamento e non progredirono di un passo. La
filosofia come storia e metodologia della storia rimette in onore la
virtù dell'acume ossia del discernimento, che l'unitarismo teologico
della metafisica tendeva a spregiare: il discernimento, che è
prosaico ma severo, che è duro e penoso ma proficuo, che prende
talvolta non simpatico aspetto di scolasticismo e pedanteria, ma
anche in questo aspetto è giovevole, come ogni disciplina; e stima
che la trascuranza della distinzione per l'unità sia anch'essa in
intimo contrasto con la concezione della filosofia come storia.
Una terza tendenza (e mi sia permesso qui per ragioni di comodo e di
perspicuità andare distaccando con enumerazione i vari lati di un
medesimo atteggiamento mentale), una terza tendenza va ancora in
cerca della filosofia definitiva: non ammaestrata dalla storica
esperienza, che prova come nessuna filosofia sia stata mai
definitiva ossia abbia posto termine al pensare, né ben compenetrata
dalla persuasione che il perpetuo cangiare della filosofia col mondo
che cangia in perpetuo non è già un difetto, ma è la natura stessa
del pensiero e del reale. O, piuttosto, quell'ammaestramento e
questa proposizione non rimangono al tutto senz'ascolto; e si è
portati a riconoscere che lo spirito, crescendo in eterno sopra sé
medesimo, produce pensieri e sistemazioni sempre nuove. Ma poiché si
è mantenuto il preconcetto del problema fondamentale, il quale (come
si è detto) è sostanzialmente l'antico e unico problema religioso o
della rivelazione, e ciascun problema ben determinato comporta
un'unica soluzione, la soluzione che si dà del "problema
fondamentale" ha necessariamente pretesa di soluzione definitiva
della filosofia stessa. Una nuova soluzione non potrebbe sorgere se
non con un nuovo problema (in forza della logica unità di problema e
soluzione): e quel problema, superiore agli altri tutti, è invece
unico. Sicché la filosofia definitiva, contenuta come esigenza nella
concezione del problema fondamentale, contrasta con l'esperienza
storica, e più insanabilmente, perché in modo più logicamente
evidente, con la filosofia come storia, la quale, come ammette
infiniti problemi, così toglie la pretesa e l'aspettazione di una
filosofia definitiva. Ogni filosofia è definitiva bensì pel problema
presente che risolve, ma non già per quello che nasce subito dopo, a
piede del primo, e per gli altri che nasceranno da questo. Chiudere
la serie varrebbe tornare dalla filosofia alla religione e riposarsi
in Dio.
Infatti, il quarto preconcetto, che passiamo a enunciare, e che si
congiunge ai precedenti e, insieme coi precedenti tutti, alla natura
teologica della vecchia metafisica, concerne appunto la figura del
filosofo, quasi Buddha o "risvegliato", che si pone superiore agli
altri (e a sé stesso, nei momenti nei quali non è filosofo), perché,
mercé la filosofia, si tiene ormai liberato dalle umane illusioni,
passioni e agitazioni. La qual cosa è propria del credente, che,
affisandosi in Dio, scuote da sé le terrene cure; al modo stesso
dell'amante, che nel possesso della creatura amata si sente beato e
sfida il mondo intero: quantunque poi sopra il credente come sopra
l'innamorato il mondo non tardi a vendicarsi e a far valere i suoi
diritti. Ma quella illusione è impossibile al filosofo storico che,
diverso dall'altro, si sente ineluttabilmente preso nel corso della
storia, soggetto e oggetto insieme di storia, e che perciò è tratto
a negare la felicità o beatitudine come ogni altra astrattezza
(perché, com'è stato ben detto, le bonheur est le contraire de la
sensation de vivre) , e ad accettare la vita qual è, come gioia che
supera il dolore e produce in perpetuo nuovi dolori per nuove
instabili gioie. E la storia, che esso pensa come sola verità, è
opera del pensiero infaticabile, che condiziona l'opera pratica,
come l'opera pratica condiziona la nuova opera del pensiero;
cosicché il primato, che fu già attribuito alla vita contemplativa,
viene ora trasferito non già alla vita attiva, ma alla vita nella
sua integralità, che è ad una pensiero e azione. E filosofo è (nella
sua cerchia, angusta o larga che sembri) ogni uomo, e ogni filosofo
è uomo, indissolubilmente legato alle condizioni della vita umana,
che non è dato in niun modo trascendere. Il filosofo mistico o
apolitico della decadenza greco-romana poteva bene distaccarsi dal
mondo; i grandi pensatori, che inaugurarono la filosofia moderna,
potevano, come lo Hegel, pur negando con l'effettivo loro pensiero
il primato dell'astratta vita contemplativa, ricadere nell' errore
di questo primato e concepire una sfera dello spirito assoluto e,
per giungere ad essa, un processo di liberazione mercé l'arte, la
religione o la filosofia: ma la figura, già sublime, del filosofo
beato nell'Assoluto, quando si cerchi di rinnovarla nel nostro mondo
moderno, si tinge di comico. Vero è che la satira trova ormai poca
materia sopra cui esercitarsi, ed è ridotta ad avventare i suoi
strali contro i "professori di filosofia" (secondo il tipo che del
filosofo hanno elaborato le università moderne, e che è in più parti
erede del "maestro di teologia" delle università medioevali): contro
i professori in quanto, ripetendo meccanicamente viete e generiche
sentenze, sembrano incommossi dalle passioni e chiusi ai problemi
che urgono loro intorno e che invano loro chiedono cose più concrete
ed attuali. Ma l'ufficio e la figura sociale del filosofo sono ora
profondamente cangiati; e non è detto che a poco a poco non
cangeranno a lor guisa anche i "professori di filosofia", cioè che
il modo di considerare e insegnare la filosofia nelle università e
nelle altre scuole non sia per entrare in crisi, fino ad espungere
da sé gli ultimi formalistici residui del modo medioevale di
filosofare. Un forte avanzamento della cultura filosofica dovrebbe
tendere a questo ideale: che tutti gli studiosi delle cose umane,
giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti gli studiosi
di cose storiche, diventino consapevoli e disciplinati filosofi; e
il filosofo in generale, il purus philosophus, non trovi più luogo
tra le specificazioni professionali del sapere. Con la sparizione
del filosofo "in generale", sparirebbe l'ultimo vestigio sociale del
teologo o metafisico, e del Buddha o risvegliato.
Un preconcetto turba altresì il modo di cultura che gli studiosi di
filosofia si sogliono dare, e che consiste nel frugare quasi
esclusivamente i libri dei filosofi,anzi dei filosofi "in generale",
dei sistematori della metafisica: così come il dotto in teologia si
formava sui sacri testi. Questo modo di cultura, affatto conseguente
quando si muova dal presupposto di un problema fondamentale o unico
del quale importi conoscere le diverse e divergenti o progressive
soluzioni che sono state tentate, è affatto inconseguente e
inadeguato in una filosofia immanente e storica, che trae materia da
tutte le più varie impressioni della vita e da tutte le intuizioni e
le riflessioni sulla vita. Quella forma di cultura è cagione di
aridità nella trattazione dei problemi particolari, pei quali si
richiede un continuo ricambio con l'esperienza dei fatti particolari
(dell'arte e della critica d'arte per l'Estetica, della politica,
dell'economia, delle contese giuridiche per la Filosofia del
diritto, delle scienze positive e matematiche per la Gnoseologia
delle scienze, e via dicendo); e di aridità nella trattazione di
quelle parti stesse di filosofia che sono tradizionalmente
considerate come costituenti la "filosofia generale": perché anch'
esse sorsero già dalla vita e alla vita conviene riportarle per bene
interpetrame le proposizioni, e nella vita rituffarle per ritrarnele
accresciute e con nuovi aspetti. Fondamento della filosofia come
storia è tutta la storia, e restringere il suo fondamento alla sola
storia della filosofia,e della filosofia"generale" o "metafisica",
non si può se non per una inconsapevole adesione alla vecchia idea
della filosofia non metodologica ma metafisica: che è il quinto dei
preconcetti che veniamo enumerando.
La quale enumerazione si potrà allungare e insieme terminare con un
sesto preconcetto, circa l'esposizione filosofica, onde si continua
a desiderare e a chiedere per la filosofia, ora la forma
architettonica, quasi di un tempio consacrato all'Eterno, ora quella
calorosa e poetica, quasi di un inno o salmo cantato all'Eterno. Ma
codeste forme erano congiunte al vecchio contenuto; e, ora che il
contenuto è cangiato e la filosofia si esplica come una
dilucidazione delle categorie dell'interpetrazione storica, non la
grandiosa architettura da tempio, e non la lirica dell'inno sacro le
si confà per istituto, ma la discussione, la polemica, la severa
esposizione didascalica, che si colora bensì dei sentimenti dello
scrittore come ogni altra forma letteraria, e può talvolta prendere
anche toni alti (o altresì, nel caso, tenui e giocosi), ma non è
astretta ad osservare le regole che sembravano proprie del contenuto
teologico o religioso. La filosofia trattata come metodologia ha
fatto, per così esprimerci, discendere l'esposizione filosofica
dalla poesia alla prosa.
Tutti i preconcetti, le pieghe o tendenze, gli abiti, che ho in
breve descritti, debbono, a mio parere, essere accuratamente
ricercati e sradicati, perché sono essi che impediscono alla
filosofia di configurarsi e procedere in modo conforme e adeguato
alla coscienza alla quale essa è pervenuta della sua unità con la
storia. Se solo si guardi l'enorme materiale che nel corso del
secolo decimonono la poesia, il romanzo e il dramma, voci della
nostra società, hanno accumulato di osservazioni psicologiche e di
dubbi morali, e si consideri che in gran parte rimane senza
elaborazione critica, si può formarsi una qualche idea del molto
lavoro che ad essa tocca compiere. E se d'altra parte si osservi, a
non dir altro, la moltitudine di ansiose domande, che ha suscitato
da ogni parte la grande guerra europea - sullo Stato, la storia, il
diritto, l'ufficio dei diversi popoli, la civiltà, la cultura, la
barbarie, la scienza, l'arte, la religiosità, il fine e l'ideale
della vita, e via dicendo, - si acquista chiarezza sul dovere che
spetta ai filosofi di uscire dalla cerchia teologico-metafisica,
nella quale essi continuano a stare rinchiusi anche quando non
vogliono più udire parIare di teologia e di metafisica, giacché,
nonostante quell'aborrimento, nonostante il nuovo concetto accolto e
professato, il loro intelletto e il loro animo sono ancora orientati
secondo le idee antiche.
Persino la storia stessa della filosofia è stata finora solo in
piccola parte rinnovata in conformità del nuovo concetto della
filosofia. Il quale nuovo concetto invita a rivolgere l'attenzione a
pensieri e a pensatori, che sono stati a lungo trascurati o tenuti
in grado secondario e considerati non propriamente filosofi, perché
non trattarono direttamente del "problema fondamentale" della
filosofia o del gran peut-être, e si occuparono nei "problemi
particolari": in quei problemi particolari, che pur dovevano
produrre alfine un rivolgimento nel cosiddetto "problema generale",
che ne uscì ridotto anch' esso a "particolare". È semplice effetto
di pregiudizio stimare un Machiavelli, che pone il concetto della
pura politica e dello Stato, o un Pascal, che critica il legalismo
gesuitico, o un Vico, che rinnova tutte le scienze dello spirito, o
uno Hamann, che ha così forte sentimento del valore della tradizione
e del linguaggio, per filosofi minori, non dico di un qualsiasi poco
originale metafisico, ma anche, per parlare con rigore, di un
Cartesio o di uno Spinoza, che si proposero altri problemi, ma non
perciò di diversa e superiore natura rispetto ai problemi di quelli.
Alla filosofia del "problema fondamentale" corrispondeva, insomma,
una storia della filosofia schematica e scheletrica: alla filosofia
come metodologia deve corrispondere una storia della filosofia assai
più ricca, varia e pieghevole, che consideri come filosofia non solo
ciò che si attiene al problema della immanenza e della trascendenza,
del mondo e dell'altro mondo, ma tutto ciò che è valso ad accrescere
il patrimonio dei concetti direttivi e l'intelligenza della storia
effettiva, e a formare la realtà di pensiero nella quale viviamo.
(Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 167-181
dell'edizione Adelphi 1989)
Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica
italiana (1909)
Saggi filosofici I Laterza 1949
Contiene "scritti minori di materia estetica, a complemento di quel
volume" (che ovviamente è l'Estetica del 1902). Il primo saggio
ospitato in questo libro però non è un complemento, ma un'evoluzione
impegnativa dell'estetica dell'intuizione pura: la "dimostrazione"
(come ebbe a dire Croce in seguito) che l'intuizione pura è anche
"lirica".
Questo primo saggio è una condizione necessaria per leggere e
comprendere il Breviario di Estetica, nel quale la stessa idea della
"liricità" è divenuta familiare al suo autore, e perciò ha
guadagnato apparente eleganza espressiva a scapito della chiarezza
espositiva. Fenomeno che si osserva frequentemente nella letteratura
filosofica: con il passar degli anni, i concetti diventano
istituzioni acquisite per i filosofi, e viene dato per scontato il
processo che conduce a formarli. Ma proprio per questo i loro
scritti perdono di efficacia espositiva.
Benedetto Croce - Problemi di estetica e contributi... - Il torto e
il diritto dell'estetismo
Qui Croce qualifica esattamente il senso dell'asserto, per lui
solito, per cui ogni critica d'arte è e deve essere storica. La
nozione di storia e di storicità che lo pervade si avvicina a un
concetto antropologico di cultura molto avanzato per il tempo a cui
questo scritto risale: e che pure a Croce appare tanto naturale da
provare meraviglia che esso possa essere frainteso.
IL TORTO E IL DIRITTO DELL'ESTETISMO.
Chiamo estetismo quella dottrina, opinione o tendenza, che afferma
inutili e anzi dannose le conoscenze storiche per la comprensione
delle opere d'arte; come soglio chiamare storicismo la dottrina,
opinione o tendenza opposta, che pretende spiegare le opere d'arte
mercé uno stravagante metodo di pura storicità, escludendo come vana
e pericolosa ogni considerazione estetica. Lo storicismo in questo
senso peggiorativo, a chi ben guardi, non è altro che inconsapevole
manifestazione di metafisica meccanistica e materialistica,
disconoscimento della storia non meno che dell'arte; la storia, in
quanto storia, è affatto incolpevole della stortura che si vuol
coprire col suo nome severo. L'estetismo ha, come vedremo, un
movente iniziale giusto; ma nella sua formola teorica conclusiva
riesce erroneo quanto l'altro. Entrambi commettono il peccato di
Bertran del Bornio, partendo due "cosi giunte persone", l'arte dal
suo terreno storico e il terreno storico dall'arte; e soffrono la
pena di lui, col portarne diviso il cerebro "dal suo principio, ch'è
in questo troncone".
L'erroneità dell'estetismo è evidente per chi accetti la formola
critica propria del pensiero moderno, che non vi sia altro modo di
comprendere e gustare un'opera d'arte, se non di riprodurla
idealmente col rifare il processo del produttore. E prima condizione
di ciò è riportarsi ai dati psichici dai quali l'artista moveva
nell'atto del suo produrre: a quelli e non ad altri, a quelli che
l'artista realmente ebbe dinanzi, e non a tali che a noi può far
piacere o comodo immaginare. E che cosa sono essi, di grazia, se non
per l'appunto dati storici?
Se questa affermazione, incontrastabile quando si risalga al
principio direttivo, non si vede subito chiara, se incontra
obiezioni e diffidenze, la ragione è che della storia si ha
d'ordinario concetto parziale e falso, pensandosi con quel nome ai
fatti che sono raccolti nei libri, o addirittura nei manuali di
storia per le scuole: alla cronologia, alla successione delle
dinastie e dei governi, alla politica, alla diplomazia, alle guerre,
e cosi via; o, se si vuole, alla biografia degli artisti, alle
notizie circa i loro amori, i loro mecenati, i loro guadagni
economici e le loro fortune e traversie. Ma la cognizione storica,
nel significato rigoroso e filosofico della parola, è ben più larga
dei ragguagli consegnati nei libri, o in quelli di essi che portano
il nome di storie e che sono come un mucchio di frammenti e non,
come s'immagina, la intera storia dell'umanità.
In una discussione svoltasi testé in un giornale letterario è stato
asserito che non c'è bisogno alcuno della storia per intendere e
gustare l'Orlando furioso. E a me venne la voglia di osservare, di
rimando, che per intendere il solo primo verso della prima ottava
del poema: "Le donne, i cavalier, l'armi, gli amori...", occorre
un'intera serie di cognizioni storiche. Bisogna sapere, a mo'
d'esempio, che i "cavalieri", che ispirarono l'Ariosto, erano
tutt'altra gente dai "cavalieri" della Corona d'Italia, dai sindaci
ed elettori influenti, decorati su proposta del deputato del
collegio; e che le "armi" erano, non già gli oggetti allineati in un
arsenale o museo (come quello del Palazzo reale di Torino, che porse
argomento al canto del Regaldi), ma avevano qualche rapporto con
l'arma virumque cano di Virgilio. Senonché questa osservazione, ch'è
certamente giusta, forse avrebbe potuto suggerire anch'essa un'idea
ristretta della storia, per essere questi esempi attinti a ciò che
comunemente si chiama storia. Il vero è che non le sole parole
"cavalieri" e "armi" hanno, in quel primo verso, bisogno
d'interpretazione storica, ma tutte le parole, tutte le movenze del
discorso, perché tutta la lingua è fatto storico, e il significato
di essa non ci è noto se non per tradizione storica. E con .la
lingua che li esprime sono fatti storici quelli che si dicono
sentimenti, passioni, affetti, idee: tutto quanto forma quel
complesso psicologico che si chiama lo spirito dell'autore del
Furioso, e che, essendo individuale, non si è ripetuto e non si può
ripetere mai in modo identico. Se, per l'intelligenza dell'episodio
di Francesca, dai manuali storici ricaviamo chi furono Lancillotto e
Galeotto, non è meno per cognizione storica che ci si fa chiara
quella particolare forma di rapimento d'amore, e quella coscienza
cristiana del peccato, che il poeta, dando corpo al proprio
sentimento, ritrasse nella donna di Rimini. Cognizione storica è
tutta quella che possediamo della realtà concreta, di cui la storia
raccolta nei libri è solamente una parte, né sempre la più
importante alla comprensione dell'arte. Noi apprendiamo cognizioni
storiche fin dal nostro venire al mondo, dalla mamma e dalla nutrice
(linguaggio, simboli, costumi, tradizioni, credenze, ecc.); e
arricchiamo di continuo la nostra memoria d'immagini di fatti
accaduti, le quali ci aiutano a ricostruire i fatti che ebbe
presenti l'artista e il poeta nella sua creazione artistica; cioè, a
ricollocarci nella sua situazione storica. E tanto è vero che la
storia raccolta nei libri di storia e nei comenti forma solamente
una parte, e talora irrilevante, di quella necessaria a intendere le
opere d'arte, che uomini relativamente ignoranti, ma di ricca vita
interiore, superano alle volte difficoltà d'interpretazione
artistica dinanzi alle quali eruditi specialisti si arrestano senza
speranza, e colgono la grandiosità e terribilità di un dramma di
Sofocle meglio del filologo, che conosce la storia di ogni mito e di
ogni parola che s'incontri in quel dramma. È noto dal D'Alembert
l'aneddoto di quel pittore, il quale esprimeva nel modo più giusto e
vivace l'impressione che produce l'Iliade, raccontando ingenuamente
essergli capitato tra mano "un vecchio libro francese", ch'egli
prima non conosceva, intitolato Iliade de Homère, e che, da quando
lo aveva letto, gli uomini gli sembravano alti quindici piedi e non
poteva più dormire. Quel pittore sapeva, a senso nostro, molto più
di storia omerica che non i coniugi Dacier sommati insieme, perché
meglio di essi intendeva il nucleo fondamentale della psiche
(storica) di Omero; quantunque poi la sua ignoranza della Grecia
primitiva e della lingua greca gli potesse impedire d'intendere a
pieno questo o quel particolare, un singolo episodio o un singolo
personaggio, e per queste cose gli sarebbe stato profittevole andare
a scuola, se mai, dai dottissimi Dacier.
Molti, disposti ad ammettere senza difficoltà che storicamente
s'impari il greco o il latino, non sanno acconciarsi a riconoscere
che con lo stesso metodo, cioè con metodo storico, si apprenda
l'italiano: ammetteranno volentieri che, storicamente ci formiamo
un'idea del fato greco, del civis romanus o della galanteria
cavalleresca, e negheranno che con eguale metodo ci formiamo le idee
dell'onore nella società contemporanea e del sentimento moderno di
patria o di umanità. La maggiore difficoltà del primo rispetto al
secondo ordine di apprendimento si scambia, presso coloro che non
ben considerano, in una differenza di sostanza. Pure basterebbe
considerare che, trasformandosi le lingue (come si trasformano di
continuo), verrà tempo che l'italiano del secolo decimonono
diventerà difficile ad apprendere forse altrettanto o più del greco
e del latino, e, trasformandosi la società, le idee nostre circa la
patria, l'umanità e l'onore, che ora apprendiamo quasi senza
avvedercene, richiederanno cure di faticose dilucidazioni da parte
di futuri eruditi. Con che diventerebbe chiara la natura storica
della nostra cognizione di quel che si chiama il presente, che è
solamente un passato meno lontano; e di ciò che si chiama costante
ed è solamente una trasformazione meno appariscente.
Ridata al concetto della storicità la dovuta estensione e validità,
l'errore dell'estetismo balza evidente. Col rifiutare per principio
e in tesi generale i sussidi filologici ed eruditi, e le esperienze
personali e sociali, con le quali si restaurano i presupposti
storici della creazione artistica, esso si toglie il modo di porre
una teoria che spieghi il processo onde l'opera d'arte viene accolta
nello spirito di chi la contempla. E deve perciò o richiamarsi a una
intuizione miracolosa (diversa da quella che è nota alla nostra
autocoscienza), o abbandonarsi a una sorta di edonismo, sostenendo
che non importi già conoscere l'opera d'arte nelle sue sembianze
genuine, ma beatificarsi comechessia innanzi a un quadro, a una
statua, a un'onda di versi o di suoni, anche con l'immaginare
un'opera affatto diversa da quella che fu nell'anima dell'autore.
Come giustificare poi il disprezzo verso la storia, che gli
estetisti affettano proprio nel campo della storiografia dell'arte?
La storia di una letteratura, la storia artistica di un popolo non
può far di meno di esporre le condizioni di tempo, di luogo, di
persone, tra le quali sono sorte le opere d'arte. E non può
collocare, cosi, indifferentemente, lo Heine prima del Goethe o il
Rousseau prima del Corneille. Che cosa c'è di strano, dunque, che si
facciano le ricerche cronologiche, biografiche e bibliografiche,
utili a far intendere nel modo più adeguato la formazione delle
anime e delle opere artistiche?
L'idea fallace circa l'interpretazione estetica e la negazione del
rapporto inscindibile di essa con l'interpretazione storica, il
disprezzo per le costruzioni della storia artistica e letteraria,
sono il torto dell'estetismo. Ma non bisogna dimenticare che
l'estetismo, oltre che tentativo errato di teorizzare la critica
d'arte, è anche, e principalmente, moto di ribellione. Come tale,
importa dunque ricercare contro che cosa si ribelli, perché forse in
questa parte negativa più o meno espressa si troverà la sua parziale
giustificazione, il suo diritto, e il motivo della seduzione che
esercita su molte anime di artisti.
Abbiamo detto che per la comprensione estetica bisogna riportarsi ai
dati storici, cioè al sentire dell'artista nel momento della
creazione: alle impressioni e commozioni che sono entrate nell'opera
d'arte, ma a quelle sole e non ad altre. Senonché, per la scarsa
intelligenza di moltissimi comentatori e illustratori storici
dell'arte accade invece assai spesso che sugli artisti e sulle opere
d'arte si riversino larghe ceste, anzi interi carretti di materiale
storico, utile forse per altri fini ma superfluo all'interpretazione
che si richiede, e, perché superfluo, disadatto e insufficiente pur
nella sua profusione. Di qui le querele e la ribellione contro gli
oziosi particolari biografici, le oziose ricerche di fonti, gli
oziosi raffronti e le oziose dissertazioni filologiche. Che cosa
importa, a proposito di una parola adoperata da un poeta, esibire
ricerche etimologiche concernenti lontane derivazioni, che non erano
attuali nello spirito di colui che adoperava la parola e perciò non
soltanto non servono alla comprensione dell'opera d'arte ma ne
distraggono? Quel che invece bisogna far intendere è il significato,
la sfumatura di significato, l'accento individuale, che la parola
prende nel caso singolo. Che cosa importa un'elaborata narrazione
della carriera militare e degli amori e dei debiti di Ugo Foscolo
per l'illustrazione dei Sepolcri? e con quale senno, offrendo tutta
codesta roba inutile al fine proposto, si tralascia poi l'indagine
sulla speciale condizione di spirito donde proruppe il carme
immortale? Che cosa valgono le disquisizioni sul nome preciso
dell'autore di un dipinto, (che è, rispetto alla comprensione
dell'opera, indifferente e può senza gran danno essere sostituito da
un pseudonimo), quando si trascuri il proprio significato del
dipinto, il movimento d'anima ritratto dall'artista, che è problema
storico ben altrimenti importante, e il solo da risolvere per la
comprensione estetica che si ricerca? - Ma, di certo, ammucchiare
materiale è cosa di gran lunga più facile che non prendere quel
tanto che serve, e cavarne un costrutto.
Contro questa stoltizia erudita si ribella disordinatamente
l'estetismo e parte in guerra contro il metodo storico, laddove
dovrebbe combattere l'uso balordo che si fa di questo metodo.
Avvolgendo nella sua condanna tutta la conoscenza storica, esso si
toglie di sotto i piedi il solido sostegno della realtà e rimane
sospeso tra cielo e terra in una posizione poco invidiabile. E per
questo è estetismo, vale a dire esagerazione di un principio giusto:
principio al quale bisogna fare ragione in modo conveniente e dare
la soddisfazione che gli spetta, intendendo la storia in tutta la
sua ampiezza e adoperandola in modo intelligente. In verità, molti
libri di eruditi intorno alla poesia e all'arte non differiscono
troppo nel loro andamento da certi esami balbettati da scolari di
liceo, nei quali alla domanda: "Dite chi era Dante?", segue questa,
o simile risposta: "Dante fu un uomo, che sposò una donna di nome
Gemma Donati". La vera critica storica dantesca non consiste in una
raccolta di aneddoti e di notizie alla rinfusa, ma nella
preparazione e attitudine a penetrare in quella individuale
formazione storica, che è l'anima poetica di Dante.
(da Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica
italiana, 1909, pp. 33-41 dell'edizione 1949)
La filosofia di Giambattista Vico (1911)
Saggi filosofici II Laterza 1965
Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della
filosofia (1912)
Saggi filosofici III Laterza 1927
Benedetto Croce - Un indagatore del mistero dell'universo (appendice
XVI)
Questo scritto agrodolce del 1905 è l'ultima appendice del volume
sullo Hegel. Sotto l'ironia, Croce prende religiosamente sul serio
la serietà dell'eccentrico uomo in cui si è imbattuto, e gli rende
giustizia.
XVI - UN INDAGATORE DEL MISTERO DELL'UNIVERSO
Alcuni mesi or sono, mi pervenne uno scartafaccio, accompagnato da
una lettera che chiedeva intorno a esso il mio giudizio. Misi da
parte lo scartafaccio, che col suo titolo annunziante una nuova
dottrina dell'universo, e con certe figure a penna di astri e di
atomi, non mi sorrideva di liete promesse; e soltanto dopo alcuni
giorni, ripigliandolo tra mano per restituirlo a chi me l'aveva
inviato, per iscrupolo mi feci a scartabellarlo e a scorrerne
qualche pagina. Ma, contro l'aspettazione, lo scritto legò il mio
interesse, tanto che tirai a leggerlo sino in fondo.
L'autore, tra le altre cose, racconta in quelle pagine i casi della
propria vita. Si chiama Luigi Martinotti, ed è nato a Torino nel
1863. "La mia vita (egli scrive) si può riassumere in una continua e
ognora più profonda contemplazione dell'infinito, contrastata però
incessantemente dalla crudele ed implacabile necessità di attendere
in pari tempo, e con mezzi ripugnanti, alla bisogna del vivere".
Collocato da fanciullo in un'officina di litografia, egli riusciva a
cangiare il proprio corpo come in un pezzo della macchina presso cui
lavorava; mentre il suo pensiero "fuggiva all'aperto e ritrovava il
suo mondo naturale, che aveva perduto". E nelle ore di riposo, la
contemplazione del cielo stellato lo stupiva quasi spettacolo nuovo,
e gli suscitava nell'animo domande tormentose.
Passivamente, fece a volta a volta i più diversi mestieri: il
fattorino, il sarto, il commesso di studio, il soldato di
cavalleria, il disegnatore, lo sguattero, e infine il ferroviere.
Nessuno sospettava in quell'artigiano e in quell'impiegato,
indifferente ma non negligente, e punto ribelle, un cuore caldo e un
cervello in ebollizione. Gli uomini tra i quali si aggirava, e anche
i suoi genitori e fratelli, non potevano comprenderlo; ed egli si
chiudeva ad essi, chiudeva in sé il suo vero sé stesso, sdoppiando
quasi la sua personalità nelle relazioni col mondo esterno. Intanto,
il suo spirito passava attraverso le più varie forme di religione:
dall'ascetismo cristiano con le pratiche rigorosamente osservate del
digiuno e della castità, al naturalismo ateistico con l'appendice
dell'anarchismo, e poi ancora al panteismo, per giungere infine alla
"religione scientifica", della quale ora si è fatto banditore.
Nel periodo più fervido dei suoi convincimenti ed entusiasmi
anarchici, gli capita d'innamorarsi e di fidanzarsi con una brava
ragazza. A questa passione egli per altro non si abbandona senza
esitanze e malinconie; perché si ha forse il diritto di amare,
quando si è tormentati dall'ansia sul destino umano? si ha il
diritto di stordirsi nella gioia, quando resta aperto e insoluto il
problema del dolore? "Che cosa sono (egli diceva in quel tempo)
tutta quella gente che va sì frettolosa per le vie? Sono scheletri,
ravvolti in domino di carne. E gli scheletri non possono ridere, gli
scheletri non debbono amare!".
A ogni modo, fata trahunt, ed egli era impegnato a prender moglie. E
gli ostacoli, appunto, che incontra per attuare il matrimonio, e le
sue convinzioni anarchiche, in forza delle quali reputava suo dovere
e quasi debito d'onore strappare ai ricchi ciò che gli bisognava per
l'affermazione della propria individualità, lo inducono a meditare e
ad eseguire, in Genova, nientemeno che un ricatto, mediante il
sequestro di una bambina!
Il ricatto (per alcuni incidenti che sarebbe lungo narrare) non
consegue l'effetto cui mirava; e il Martinotti ha allora un momento
di disperazione, e tenta di ammazzarsi ed è portato in condizioni
gravi all'ospedale. Dove, riavutosi dopo qualche settimana, apprende
da un giornale, che come autore del reato da lui commesso è stato
imprigionato un povero diavolo, a lui ignoto e affatto innocente.
Egli non mette tempo in mezzo ad accusarsi come il vero colpevole;
ma non gli torna altrettanto facile persuadere questura e giudice
istruttore e procuratore del re, che avevano nel frattempo
accumulato, e inconsciamente foggiato, prove e testimonianze a
carico dell'altro.
Per fortuna, nel pubblico dibattimento, persuade i giurati; e cosi
l'innocente è assolto, ed egli si trova condannato a quindici anni
di reclusione, detratti un anno mezzo per la sua precedente buona
condotta e cinque anni per la semiresponsabilità, che i giurati
credettero di riconoscergli: le perizie psichiatriche e le
testimonianze dei suoi compagni, nonché l'avvocato difensore, lo
spacciavano addirittura per matto.
Ed eccolo con innanzi la prospettiva, non del tutto fosca e
disperata, poste le sue tendenze, di passare otto anni, (come egli
dice umoristicamente) "nella possibilità garantita di pensare".
Allorché lo trasportano alle Murate di Firenze, ed egli esplora la
sua cella, lunga sette passi e larga due, con un finestrino a
levante donde si scorge il libero cielo, riconosce in essa "un vero
gabinetto di meditazione", e ne rimane "a pieno soddisfatto".
Qui, nella concentrazione della solitudine, dominando e regolando
con tenacia sé stesso, dopo molti sforzi e vani tentativi conquista,
finalmente, la Verità. Fu una mattina, allo svegliarsi da un lungo e
profondo sonno, sentendosi del tutto equilibrato, con la mente
straordinariamente lucida e forte. E gli apparve, in quell'istante,
spontanea, chiarissima, la "scala mondiale"; e la sua mente passò
con agilità di deduzione in deduzione, sempre rigurgitante d'idee
nuove, che si richiamavano l'una l'altra e si componevano in
armonia.
Dalle Murate di Firenze il Martinotti fu poi trasportato al
reclusorio di Orvieto, e di là ancora alla colonia agricola della
Capraia; ed espiata la condanna, compì, con ogni lode, in Milano, i
due anni di vigilanza speciale.
Ma dalla lunga reclusione egli usciva col suo sistema filosofico,
con la sua "Nuova dottrina" o "Saggio di logica"; e, per
procacciarsi i mezzi di mettere a stampa il suo manoscritto, e
d'illuminare gli uomini brancolanti nelle tenebre e straziati dal
dolore e avviliti dal terrore, si recò a cercare lavoro a Marsiglia.
Ma trova colà un esercito di disoccupati e nessuna speranza di
lavoro; e perciò si rimette in via per l'Italia, a piede, "eseguendo
per vivere di paese in paese giuochi di società e vendendo piccole
ballerine di carta di un tipo speciale da lui ideato".
Giunge, in questo modo, a Napoli; e va in giro presentando il suo
manoscritto a parecchi "professori", che o glielo restituiscono
senza leggerlo, o pronunziano poche parole di superficiale
incoraggiamento, o si stringono nelle spalle, giudicando quelle idee
troppo lontane dal modo comune di pensare.
L'anno scorso, sempre preso dal suo pensiero, gli viene in mente di
rivolgersi con una lettera al prefetto, per domandare che 1o Stato
faccia le spese della stampa dell'opera; e reca lui stesso la
lettera in prefettura. Ma casca tra le braccia di un ispettore di
pubblica sicurezza, il quale, ascoltato ciò che egli chiede,
dialogato con lui un momento, e scorsa la lettera diretta al
prefetto, dopo alcuni minuti di riflessione suona un campanello e dà
ordine che il suo interlocutore venga trasportato al manicomio di
San Francesco di Sales.
Nel manicomio resta dieci mesi, dal febbraio 1904 all'aprile 1905,
oggetto di studio e di curiosità; il direttore lo tratta come una
"cosa rara", lo conduce in carrozza alla sua clinica, lo presenta
agli estatici scolari, espone qualche tratto del manoscritto
filosofico che il Martinotti aveva portato sotto il braccio, nel
compiere il suo ingresso in San Francesco; e conclude che è un
soggetto seriamente malato, "perché ha torto", e ha torto, "perché
non ha fatto studi regolari". E dovendo poi (racconta sempre il
Martinotti) "trovare nel fisico la prova del mio squilibrio morale,
e non avendo potuto scoprire nulla nel sangue, che per fortuna tengo
perfettamente sano perché non ho sofferto malattia di sorta, a forza
di cercare e ricercare trovò alfine la famosa controprova non so ben
dove, ma credo nell'orina".
Per onore dell'umano buon senso, bisogna ricordare che un altro
medico del manicomio, che ebbe ad osservarlo, si maravigliò assai
del caso suo, e con molta probità gli disse: "che ognuno in
filosofia è padrone di pensarla alla propria maniera, e che non si
deve perciò meritare il manicomio"! - Comunque, dopo dieci mesi fu
lasciato di nuovo libero, con certificato di grande miglioramento
secondo i medici, ma, secondo lui, invece, tal quale come era
entrato; e con di più la mente agitata da questo insolubile dilemma:
"Se prima ero malato, perché adesso devo essere guarito? e, se
adesso sono sano, perché prima dovevo essere malato?".
Ora si è soffermato in Napoli, e vi guadagna il pane come fattorino,
e cerca sempre il modo di pubblicare il suo manoscritto.
Debbo qui dichiarare di non aver avuto agio di riscontrare
l'esattezza di tutto questo racconto, da me fedelmente compendiato:
quantunque il riscontro non sia difficile, recando il manoscritto
nomi e date, e riferendosi a cose di ragion pubblica, come giornali
e processi.
Ma, anche se in parte fosse un sogno o un effetto di allucinazione
(il che non credo, specie dopo aver interrogato l'autore, che si
presentò da me una sera), ciò non importerebbe molto al caso nostro.
Chi ha scritto le pagine che ho innanzi è, manifestamente, uno di
quei temperamenti da cui, secondo la forza maggiore o minore delle
dote intellettuali, e secondo le varie contingenze della vita, vien
fuori il filosofo, il mistico, l'asceta, il riformatore religioso, -
o in cui ciascuna di queste figure è quasi abbozzata e in embrione.
Come in ogni religione e filosofia, il motivo della ricerca è in lui
un bisogno etico, l'aspirazione alla conquista della beatitudine
attraverso la viva coscienza ed esperienza dei mali umani. Egli è di
coloro che (per valersi di una sua bella espressione) non hanno
studiato in altra università che nella "grande università del
dolore".
E (tratto anche codesto non raro in quelli che hanno disposizione di
apostoli) l'entusiasmo spinto sino all'ingenuità si allea nel suo
animo con una certa chiaroveggenza pratica e con una sorta di
furberia. Si è visto come il Martinotti critichi e canzoni, non
senza spirito comico, gli psichiatri, nelle cui mani ebbe la
disgrazia di capitare. Eguale chiaroveggenza è nell'analisi della
serie di pensieri onde fu condotto, senza mai dubitare di fare cosa
disonesta, e scevro di ogni odio e di ogni ferocia egoistica, alla
pagina non bella della sua vita, al tentativo di ricatto; e,
parimenti, nella descrizione dei modi di pensare e operare dei
poliziotti, dei magistrati, dei testimoni e dei giurati. E, se lo
spazio me lo consentisse, vorrei riferire le osservazioni ch'egli fa
intorno alla moralità dei ladri e degli omicidi, tra i quali visse
nel reclusorio, e intorno al loro vivace "sentimento di onore".
Anche la forma del suo scritto è caratteristica. Vi è di tutto, come
in certe opere primitive, che sono insieme filosofia e poesia e
biografia. Lo stile dottrinale si alterna col racconto degli
incidenti della propria vita; i teoremi, coi dialoghi; i sillogismi,
con brani di prosa che hanno l'intonazione d'inni, di salmi, di
preghiere, e con rozzi versi coi quali l'autore si sforza di
rinserrare in un cerchio ritmico il suo sentimento. Rozzi versi, ma
dove pure accade di cogliere qua e là gli accenti della lirica dei
mistici.
Ascoltate, come esempio, questo invito solenne:
Volete voi ch'io squarci il vel che copre Iddio?
udir volete arcane cose dal labbro mio?
E, meco veleggiando per le vie infinite,
abbattere, spezzando, le dighe stabilite?
E meco ebbri, sazi - sazi di desio, -
splendenti, luminosi, cangiati in vero Dio,
da mondi ignoti ancora voi, lieti, ritornar?
I sensi deponete; e liberi venite,
e liberi correte; e, liberi, m'udite!
Ma qual è, insomma, il nuovo sistema filosofico, il nuovo verbo, che
il nostro scrutatore del mistero dell'universo ha fiducia di poter
rivelare? L'interesse del suo scritto sta soltanto all'atteggiamento
psicologico, che ho descritto? Il Martinotti, anzitutto, non crede
all'esistenza della materia. La materia dei materialisti, concepita
nella sua solidità, rende inconcepibile il moto; o invano si cerca
di sfuggire a questa conseguenza col pensarla come un aggregato di
parti piccolissime, la qual cosa o riconduce al caso precedente, o
ammette il vuoto, che il materialismo nega. La materia non è altro
che forza, e la forza, sottoposta ad analisi più intensa, si cangia
in Dio, e Dio a sua volta si cangia nello spazio, e l'universo è
(secondo che egli si esprime)un effetto dello spazio.
Tutte le ricerche, che volgono sull'evoluzione degli esseri,
sull'origine dell'uomo da forme inferiori di organismi, si aggirano
su particolari ovvi, spesso innegabili; ma non penetrano l'essenza
della realtà, non soddisfano l'animo che cerca la verità e la vita.
"Che cosa si direbbe (egli scrive, con uno di quei paragoni
energici, che abbondano nel suo stile) di naviganti, che, sbattuti
furiosamente dal vento e dal mare, invece di pensare a porsi in
salvo, misurassero con cura le onde, bisticciandosi tra loro circa
la forma di queste?". Certo, lo studio delle combinazioni degli
atomi è opportuno, e serve moltissimo alla vita pratica e materiale;
ma che cosa esso è mai di fronte a ciò che veramente bramiamo
conoscere? "Il parafulmine, escogitato dalla scienza, ci preserva
dalla morte, è vero; ma solo per prolungare la nostra agonia".
Il mondo angusto della scienza si slarga innanzi alla sua mente, che
si è distrigata dal gretto naturalismo: gli atomi gli appaiono non
più gl'indivisibili materiali della fisica, ma astri, e gli astri, a
lor volta, atomi di astri maggiori. Questo infinito universo si
muove per forze immanenti: Dio, come si è detto, si risolve nello
spazio, e lo spazio ha per centro, non il principio, ma
l'in-principio (parola coniata sull'analogia d'in-finito).
L'uomo, dunque, non è un prodotto di forze estranee. "Noi ci siamo a
grado a grado creati nel corso dei secoli da noi stessi: il mirabile
nostro organismo e la conseguente manifestazione del genio sono
veramente opera nostra". La moralità non è nemmeno essa qualcosa di
estraneo, un'imposizione o una illusione; ma è "la scienza della
vita, accumulata nei secoli: come il rimorso è il vago presentimento
di un male futuro provocato dal mal fare presente; e l'ineffabile
sentimento, che si prova nel fare il bene, è nient'altro che la
certezza di viaggiare nel vero".
E il vero è la felicità, e a esso tende tutta la realtà.
L'infelicità nacque dall'abbandonare l'infallibile istinto,
sostituendogli il ragionamento, cioè il ragionar male; e cesserà con
la scoperta del vero, cioè col ragionar bene. I mali e gli errori
sono come gl'incidenti che rendono vario e attraente il viaggio.
Tutto trapassa e nulla può morire, e la morte è una palingenesi: gli
esseri più alti si elevano ancora, passando dagli astri minori ai
maggiori, e lasciando il loro posto ai sopravvegnenti. Gl'individui
si sono già presentati e si ripresenteranno infinite volte alla
vita.....
Affascinato dallo spettacolo sublime di questo universo, non
meccanico ma dinamico, in cui è perpetua la vita, l'iniziativa, la
libertà, la creazione, l'elevazione; rapito da ciò ch'egli chiama il
sorriso del bello, il Martinotti vede nella rivelazione del sistema
da lui divinato la salute delle umane società, e da esso deduce la
sua Politica.
Ma io non lo seguirò nell'esposizione delle sue idee circa
l'anarchia e il socialismo e la sovrappopolazione, e via dicendo:
come non ho potuto se non dare un piccolo saggio delle varie teorie
abbozzate nel suo scritto, senza sceverare il vero dal contestabile,
il ragionato dall'immaginato, senza indicare le lacune e il
saltuario dell'esposizione, e, soprattutto, senza notare quanta
parto di esse, che il Martinotti crede di avere scoperta (e alla
quale è certamente notevole che sia pervenuto da sé come autodidatta
e meditatore più o meno solitario), è già patrimonio secolare della
filosofia.
Mi è parso tuttora che valesse la pena di far conoscere in qualche
modo questo singolare spirito, con cui mi sono imbattuto. E confesso
che, costretto a leggere quotidianamente molti libri dotti e
metodici di scrittori di cose filosofiche, ai quali manca, della
filosofia, ogni sentimento, ogni entusiasmo, ogni fremito, ogni
angoscia, la lettura dello scartafaccio del Martinotti, pur nel suo
disordine, nelle sue ingenuità e nei suoi errori di ortografia, mi
ha procurato la voluttà di chi, percorrendo un deserto, veda
comparire a un tratto innanzi ai suoi occhi un cespuglio di
selvaggia vegetazione.
(Benedetto Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di
storia della filosofia (1912), pp. 423-432 dell'edizione 1927)
Materialismo storico ed economia marxistica (1899)
Saggi filosofici IV Laterza 1951
Nuovi saggi di estetica (1919)
Saggi filosofici V Laterza 1926
Etica e politica (1930)
Saggi filosofici VI Laterza 1967
Ultimi saggi (1935 ?)
Saggi filosofici VII
La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e
della letteratura (1935)
Saggi filosofici VIII Adelphi 1994
La storia come pensiero e come azione
(1938)
Saggi filosofici IX Laterza 1939
Il carattere della filosofia moderna (1940)
Saggi filosofici X Laterza 1941
Discorsi di varia filosofia Vol. 1 (1943)
Saggi filosofici XI Laterza 1945
Discorsi di varia filosofia Vol. 2 (1945 ?)
Saggi filosofici XII
Filosofia e storiografia (1949 ?)
Saggi filosofici XIII
Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1951)
Saggi filosofici XIV Bibliopolis 1997
Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911 ?)
Scritti di storia letteraria e politica I
La rivoluzione napoletana del 1799 (1896)
Scritti di storia letteraria e politica II Laterza 1968
La letteratura della nuova Italia Vol. 1 (1914)
Scritti di storia letteraria e politica III Laterza 1914
La letteratura della nuova Italia Vol. 2
(1914)
Scritti di storia letteraria e politica IV Laterza 1914
La letteratura della nuova Italia Vol. 3
(1915)
Scritti di storia letteraria e politica V Laterza 1915
La letteratura della nuova Italia Vol. 4 (19__ ?)
Scritti di storia letteraria e politica VI
I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo
decimottavo (1891)
Scritti di storia letteraria e politica VII Laterza 1966
La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (1917)
Scritti di storia letteraria e politica VIII Laterza 1917
Conversazioni critiche Serie I (1915)
Conversazioni critiche Serie II (191?)
Conversazioni critiche Serie III (1931)
Conversazioni critiche Serie IV (193?)
Conversazioni critiche Serie V (1939)
Scritti di storia letteraria e politica IX-X-XXV-XXVI-XXXII
Laterza 1950, 1950, 1951, 1951, 1951
Storie e leggende napoletane (1919)
Scritti di storia letteraria e politica XI Adelphi 1990
Goethe Vol. 1 (1919 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XII
Goethe Vol. 2 (1919 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XII bis
Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici
(1919 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XIII
Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920)
Scritti di storia letteraria e politica XIV Laterza 1920
Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono Vol. 1
(1923 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XV
Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono Vol. 2 (1923
?)
Scritti di storia letteraria e politica XVI
La poesia di Dante (1921)
Scritti di storia letteraria e politica XVII Laterza 1921
Poesia e non poesia (1922)
Scritti di storia letteraria e politica XVIII Laterza 1955
Storia del Regno di Napoli (1924)
Scritti di storia letteraria e politica XIX Adelphi 1992
Uomini e cose della vecchia Italia Serie I (1927)
Scritti di storia letteraria e politica XX Laterza 1927
Uomini e cose della vecchia Italia Serie II (1927 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XXI
Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1927)
Scritti di storia letteraria e politica XXII Adelphi 1991
Storia dell'età barocca in Italia (1925)
Scritti di storia letteraria e politica XXIII Adelphi 1993
Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXIV
Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932)
Scritti di storia letteraria e politica XXVII Adelphi 1991
Poesia popolare e poesia d'arte (1930 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XXVIII
Varietà di storia letteraria e civíle Serie I (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXIX
Vite di avventure, di fede e di passione (1935)
Scritti di storia letteraria e politica XXX Adelphi 1989
La letteratura della nuova Italia Vol. 5 (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXI
La letteratura della nuova Italia Vol. 6 (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXIII
Poesia antica e moderna (1941 ?)
Scritti di storia letteraria e politica XXXIV
Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento Vol. 1
(0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXV
Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento Vol. 2
(0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXVI
La letteratura italiana del Settecento. Note critiche (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXVII
Varietà di storia letteraria e civíle Serie II (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXVIII
Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della
poesia (0)
Scritti di storia letteraria e politica XXXIX
Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento Vol. 3
(0)
Scritti di storia letteraria e politica XL
Aneddoti di varia letteratura Vol. 1 (19..)
Scritti di storia letteraria e politica XLI Laterza 1953
Aneddoti di varia letteratura Vol. 2 (19..)
Scritti di storia letteraria e politica XLII Laterza 1953
Aneddoti di varia letteratura Vol. 3 (19..)
Scritti di storia letteraria e politica XLIII Laterza 1954
Aneddoti di varia letteratura Vol. 4 (19..)
Scritti di storia letteraria e politica XLIV Laterza 1954
Primi saggi (0)
Scritti varii I
Cultura e vita morale - Intermezzi polemici (1913)
Scritti varii II Laterza 1955
L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra (1927)
Scritti varii III Laterza 1965
Pagine sparse Vol. 1 (1943)
Scritti varii IV Laterza 1960
Pagine sparse Vol. 2 (1943)
Scritti varii V Laterza 1960
Pagine sparse Vol. 3 (1943)
Scritti varii VI Laterza 1960
Nuove pagine sparse Vol. 1 (1949)
Scritti varii VII Laterza 1966
Nuove pagine sparse Vol. 2 (1949)
Scritti varii VIII Laterza 1966
Terze pagine sparse Vol. 1 (1951 ?)
Scritti varii IX Laterza 1955
Terze pagine sparse Vol. 2 (1951 ?)
Scritti varii X Laterza 1955
Scritti e discorsi politici Vol. 1 (0)
Scritti varii XI
Scritti e discorsi politici Vol. 2 (0)
Scritti varii XII
Per la storia del comunismo in quanto realtà politica (1944)
Laterza 1944
Carteggio Croce-Vossler (1899-1949)
Bibliopolis 1991
Propositi e speranze (1943)
Laterza 1944
Storia dell'estetica per saggi (1942)
Laterza 1967
Il dissidio spirituale della Germania con l'Europa (1944)
Laterza 1944
Dal libro dei pensieri (0)
Adelphi 2002
Taccuini di guerra (1943)
Adelphi 2004
Breviario di estetica (1913)
Laterza 1978
Un paradiso abitato da diavoli (0)
Adelphi 2006
Contributo alla critica di me stesso (1915)
Adelphi 1989
Ariosto (1920)
Adelphi 1991
Dieci conversazioni (1949)
Il Mulino 1993
Filosofia Poesia Storia (antologia progettata da BC per
Ricciardi) (1951)
Adelphi 1996
La mia filosofia (My philosophy, per l'Inghilterra) (1949)
Adelphi 1993
Il concetto della storia (antologia Alfredo Parente) (1954)
Laterza 1979
Elementi di politica (1924-1939)
Laterza 1974
Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924)
Mondadori 1981
Per la nuova vita dell'Italia (1943-1944)
Ricciardi 1944
Epistolario I - Scelta di lettere curata dall'autore
(1914-1935)
IISS 1967