VITA 
    
    Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L’Aquila) il 25-2-1866, in
    una famiglia di proprietari terrieri, ricca ma molto conservatrice
    (era attaccata ancora ai Borboni!), e frequentò le scuole
    secondarie in un collegio di religiosi, anch’esso culturalmente
    chiuso. Nel 1883 villeggiò a Casamicciola (nell’isola
    d’Ischia), ed un terremoto durato 90 secondi gli uccise i genitori
    Pasquale e Luisa Sipari e la sorella Maria, rimanendo lui stesso
    “sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in
    più parti del corpo”. Fu allora accolto a Roma dallo zio, il
    senatore Silvio Spaventa (famoso storico e fratello di Bertrando
    Spaventa, filosofo idealista che aveva tentato una riforma
    dell’Hegelismo): fu un gesto nobile da parte dello Spaventa anche
    perché era in rotta coi Croce, dal momento che questi, a
    causa del tradizionalismo a cui abbiamo accennato, gli avevano
    rimproverato un eccessivo liberalismo (e del resto i Croce si erano
    allontanati anche da Bertrando, perché apostata). 
    
    Nel salotto di Silvio, Benedetto incontrò importanti uomini
    politici ed intellettuali, tra i quali ad esempio Antonio Labriola
    (che allora era herbartiano), del quale frequentò le lezioni
    di filosofia morale all’università di Roma (anche se era
    iscritto a giurisprudenza a Napoli); Benedetto non finì gli
    studi universitari, non volendo conseguire titoli accademici, ma
    continuò comunque a studiare, trascurando inizialmente Hegel,
    poiché i libri che circolavano in casa Spaventa gli diedero
    l’idea ch’esso dovesse essere un filosofo quasi incomprensibile. Nel
    1886 lasciò la “politicante società romana, acre di
    passioni”, e tornò a Napoli, dove comprò la casa nella
    quale aveva vissuto il filosofo Giambattista Vico; negli anni
    seguenti viaggiò in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra,
    ed aumentò l’interesse per la storia, grazie alle letture di
    Francesco De Sanctis (letture già iniziate durante gli studi
    ginnasiali, assieme a quelle del Carducci: De Sanctis e Carducci
    diventeranno per lui due punti fissi). 
    
    Nel 1895 Labriola (che intanto aveva abbandonato la filosofia di
    Herbart), col quale Benedetto aveva mantenuto il dialogo
    intellettuale, gli fece conoscere le idee del Marxismo, alle quali
    inizialmente il filosofo napoletano si interessò, studiando i
    saggi di Labriola, leggendo libri di economia, riviste e giornali
    italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e l’interesse si
    diresse così verso la politica; tra l’altro aveva espresso
    sul Marxismo, tra il 1895 ed il 1899, una “critica tanto più
    grave, in quanto voleva essere una difesa e una rettificazione del
    Marxismo stesso”, pensando egli che la società capitalista
    studiata da Marx non esistesse, né fosse mai esistita, ma gli
    interessi per il Marxismo fecero sentire al nostro il bisogno di
    risalire ad Hegel, al cui studio lo invitava anche il suo amico e
    filosofo Giovanni Gentile. 
    
    Col Gentile fondò, nel 1903, la rivista “La Critica”, il cui
    progetto era maturato nell’estate del 1902, ma l’amicizia col
    Gentile, che aveva conosciuto quando quest’ultimo era studente a
    Pisa, si ruppe quando quest'ultimo aderì al fascismo. “La
    Critica” fu pubblicata dal 1903 al 1944, ed il suo prestigio
    culturale ne rese impossibile al fascismo la soppressione: è
    noto che Mussolini chiese “Quante copie tira Critica?”, ed
    essendogli stato risposto “1500”, disse “allora lasciatelo stare”. 
    
    Nel 1910 Benedetto fu nominato senatore per censo e fu ministro
    della Pubblica Istruzione nel 1920-21, nel quinto ministero
    Giolitti: elaborò anche una riforma scolastica, che non volle
    attuare per la propria non adesione al fascismo, ma essa fu comunque
    ripresa e realizzata dal Gentile nel 1923 (oggi quella riforma
    è infatti nota come “riforma Gentile”). 
    
    Nel 1914 sposò Adela Rossi, con la quale ebbe 4 figlie (Alda,
    Elena, Livia e Silvia). 
    
    Come s’è detto, Croce ruppe con Gentile in occasione della
    sua adesione al fascismo (ma già da tempo c’era forte
    dissenso tra i due): dopo l’avvento al potere di Mussolini ed il
    delitto Matteotti (1924) fu pubblicato il 1-5-1925 su “Il Mondo”
    (rivista liberale per la quale scrisse, nel 1950, la prefazione a
    “1984” di George Orwell, tradotto da Gabriele Baldini), in risposta
    al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Gentile, il suo
    “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti” (al quale aderirono
    Eugenio Montale ed Aldo Palazzeschi, e tra i matematici Leonida
    Tonelli, Ernesto e Mario Pascal, Vito Volterra, Giuseppe Bagnera,
    Guido Castelnuovo, Beppo Levi, Tullio Levi Civita, Alessandro Padoa,
    Giulio Pittarelli e Francesco Severi), scritto su invito di Giovanni
    Amendola, e smise di intervenire direttamente nella politica,
    attività che esercitò dopo la caduta del fascismo,
    essendo stato presidente del ricostituito Partito Liberale nel
    1943-1947 (fu avverso al comunismo ma lodò il valore
    letterario di Gramsci), ministro nei governi Badoglio e Bonomi,
    membro dell’Assemblea Costituente e poi del Senato. 
    
    Alcuni accusano Benedetto di falso liberalismo, poiché fino
    al ‘25 aveva appoggiato il fascismo, vedendolo come mezzo per
    sconfiggere le forze della sinistra: fatto ciò, la classe
    liberale avrebbe potuto continuare a reggere lo Stato, con le mani
    pulite; ricordiamoci anche che al grido di “oro alla patria!”,
    quando lo Stato per sostenere il costo della guerra cambiava (a chi
    lo sceglieva) le fedi nuziali di oro con anelli di ferro, Croce
    donò la propria medaglia di senatore. 
    
    Dopo la firma dei Patti Lateranensi (11-2-1929), mostrò la
    sua contrarietà al Concordato tra Stato e Chiesa dicendo in
    Senato che “accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer
    bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa
    è cosa che vale infinitamente più di Parigi,
    perché è affare di coscienza”, nella sua replica
    Mussolini definisce Croce “un imboscato della storia”. 
    
    Nel 1946 fondò a Napoli (nel frattempo si era ritirato a
    vivere nel palazzo di Trinità Maggiore, che era appartenuto
    ai Filomarino) l’Istituto Italiano per gli studi storici, la
    direzione del quale venne affidata al prof. Federico Chabod. 
    
    Il tradizionalismo di Croce emerge nei suoi giudizi negativi verso i
    poeti simbolisti francesi: fu apertamente critico di Rimbaud e
    Valéry, come del resto lo fu verso Pirandello, D’Annunzio e
    Pascoli (espresse inizialmente perplessità verso il
    Decadentismo in generale, e le perplessità maturarono poi in
    decisa avversione): proprio per questo ci fu un lieve contrasto tra
    il Croce e Cesare Angelini, come racconta Angelini stesso ne “Gli
    uomini della Voce” (clicca qui se vuoi approfondire) 
    
    Nel 1949 fu colpito da un ictus cerebrale, che limitò le sue
    possibilità di movimento, ed il filosofo non uscì
    più di casa, dove continuava a studiare: fu colto dalla morte
    mentre era seduto in poltrona nel suo studio-biblioteca, il
    20-11-1952. 
    
    PENSIERO FILOSOFICO 
    
    Dialettica: Benedetto riprende alcuni aspetti della filosofia di
    Hegel; innanzitutto concorda con Hegel nel dire che il pensamento
    filosofico è concetto (non intuizione o sentimento),
    universale (e non generale, come le nozioni delle scienze empiriche)
    e concreto (poiché riguarda la realtà). In questo modo
    Hegel riuscì a definire l’universale concreto come sintesi di
    opposti, “unità nella distinzione e nell’opposizione”; ha
    però, ad avviso di Benedetto, commesso tutta una serie di
    errori, che deriva da un unico errore, e cioè l’aver visto la
    realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano,
    mentre Benedetto precisa che esistono anche i distinti, e crea una
    sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti (come quella
    Hegeliana) e il nesso di distinti.
    
    I distinti nella filosofia crociana sono fondamentalmente 4, e sono
    generati dalle 2 attività fondamentali dello Spirito
    (conoscitiva, o teoretica, e volitiva, o pratica) a seconda che si
    dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti (o
    categorie) sono la fantasia, l’intelletto, l’attività
    economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, non
    essendo opposti, mentre si sintetizzano, al loro interno,
    rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il
    falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male
    (morale). 
    
    Arte: Benedetto afferma, nel Breviario di estetica, che “l’arte
    è ciò che tutti sanno che cosa sia”, perché se
    non si sapesse nulla di essa non si potrebbe chiedere cosa sia
    l’arte, perché ogni domanda contiene in sé già
    delle informazioni sull’oggetto della domanda stessa. Il filosofo
    pensa che l’uomo abbia una precomprensione delle verità di
    fondo, e che la filosofia porti ad un livello di chiarezza critica
    queste precomprensioni; la differenza tra un buon filosofo ed una
    persona qualsiasi è che il filosofo pone le domande con
    maggiore “intensità”, e di conseguenza cerca di rispondere
    con maggiore intensità. L’arte viene definita come conoscenza
    intuitiva, e si identifica la stessa come espressione
    dell’intuizione: in questo modo Croce critica le persone che dicono
    di aver dentro di sé grandi idee, grandi intuizioni, ma di
    non riuscire ad esprimerle: in realtà queste persone non
    hanno dentro di sé ciò che dicono di avere,
    perché ciò che si intuisce, automaticamente e
    spontaneamente si esprime. 
    
    Questa intuizione artistica non è propria solo dei grandi
    artisti, dei geni, ma appartiene ad ogni persona, che sa ricreare e
    fruire della creazione del genio, infatti se non fosse così
    il genio non sarebbe un uomo, e del resto gli altri uomini non
    potrebbero capirlo. L’arte è anche libera di esprimersi, nel
    senso ch’essa non è subordinata a nulla, al piacere,
    all’utile, alla morale (non immorale, ma amorale: se anche
    rappresentasse situazioni oscene, rimarrebbe arte), questo
    perché essa è una forma di conoscenza, che è
    funzionale a sé, senza il problema della veridicità o
    meno di tale conoscenza perché l’intuizione artistica ha come
    oggetto un’immagine (non necessariamente corrispondente al vero). Ci
    sono, è vero, opere d’arte che tramandano valori morali,
    religiosi, filosofici (ecc.), ma essi non sono gli scopi dell’opera
    d’arte, sono solo parte integrante di essa: non viene negata
    all’artista la possibilità di esprimere determinati valori,
    ma si sottolinea come essi “integrino” l’intuizione artistica. 
    
    A proposito dell’arte come intuizione, il pensatore distingue
    l’espressione/intuizione dall’estrinsecazione dell’espressione:
    mentre il primo elemento è caratterizzato dal sentimento, il
    secondo riguarda delle tecniche, è quindi un’attività
    pratica; l’intuizione si ha grazie al sentimento, “rappresenta il
    sentimento, e solo da esso e sopra di esso può sorgere”,
    perciò il sentimento si identifica con la lirica (“l’arte
    è sempre lirica”): per Croce “lirica” ed “intuizione” sono
    sinonimi. 
    
    Altra precisazione crociana è che l’arte sia una sintesi a
    priori estetica, sintesi di sentimento ed immagine nell’intuizione:
    il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il
    sentimento è vuota; essi possono anche presentarsi distinti,
    ed in questo caso non si ha arte, che si può presentare come
    contenuto o come forma, lasciando sottintendere che “il contenuto
    è formato” e “la forma è riempita”, il sentimento
    è “sentimento figurato” e la figura è “figura
    sentita”. L’arte viene vista anche come sintesi di particolare ed
    universale, perché un artista opera partendo da
    determinazioni particolari, dando ad esse, mediante il proprio
    percorso interiore, valori, significati man mano meno immediati e
    soggettivi, più generali. 
    
    Si criticano anche le espressioni che definiscono i “generi”: i
    generi letterari non esistono, e le distinzioni che comunemente
    facciamo (comico, tragico, epico…) sono solamente schemi di comodo
    introdotti dall’intelletto che, classificando, compie un’operazione
    estranea all’arte, in quanto tale operazione appartiene alla logica;
    in questo modo viene anche a mancare la “bellezza fisica” (il
    “bello” appartiene all’estetica). 
    
    La personalità di un poeta scompare naufragando nel mare
    della poesia: “il poeta è nient’altro che la sua poesia”, la
    sua opera poetica (è sempre lo Spirito che agisce attraverso
    l’uomo); la linguistica è estetica, perché il
    linguaggio è espressione (come l’arte), creazione estetica. 
    
    Guardando l’attività di Croce, vediamo con assoluta chiarezza
    che è stato attento all’aspetto soggettivo-creativo della
    produzione artistica, ma non si è comportato allo stesso modo
    con le sue componenti, i suoi momenti tecnico-materiali, ed ha fatto
    la stessa cosa per determinate attività artistiche: la sua
    filosofia ha guardato all’arte in generale, ma non ha esaminato
    attentamente, per esempio, la musica, l’architettura… privilegiando
    l’attività letteraria. All’interno dell’attività
    letteraria ha continuato questa sua “politica”, valorizzando
    più di altri certi generi e stili, come la poesia (secondo
    Croce le espressioni non poetiche devono essere intese come “modi”
    di servirsi dell’unico vero linguaggio, che è quello poetico)
    e le produzioni con contenuto lirico, fantastico (al posto di quelle
    più razionali, concettuali); il simbolo della poesia per il
    nostro filosofo fu l’Ariosto, definito come poeta dell’“armonia” in
    “Ariosto, Shakespeare e Corneille”. 
    
    Infine sull’arte si deve ricordare che per Croce non sono possibili
    le traduzioni, “in quanto abbiano la pretesa di effettuare il
    travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido da un
    vaso in un altro di diversa forma. Noi possiamo elaborare
    logicamente ciò che prima abbiamo elaborato solo in forma
    estetica; ma non possiamo, ciò che ha avuto già la sua
    forma estetica, ridurre ad altra forma, anche estetica.” (da
    “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale,
    1904, II edizione). 
    
    Logica: si propone di studiare la struttura generale dello Spirito,
    ed in parte, quindi, ne abbiamo già parlato con la
    dialettica; essa viene definita anche “scienza del concetto puro”,
    che è l’universale concreto (come già detto, esso
    è razionale, universale e concreto), chiamato anche
    “trascendentale”, e guardandolo nella forma, esso naturalmente
    è unico (“non sussistono più forme nel concetto, ma
    una sola”), la forma teoretica universale dello spirito è una
    sola (la logica, appunto), e quando penso una varietà di
    concetti, è chiaro che si riferiscono ad altrettanti oggetti
    che vengono pensati in quella forma. C’è un’idea comune tra
    estetica e logica, infatti il concetto ha carattere di
    espressività, è quindi opera conoscitiva, opera
    espressa dello Spirito, ed essendo quindi il pensare anche
    esprimere, parlare, “chi non esprime o non sa esprimere un concetto,
    non lo possiede” (la stessa cosa accade, abbiamo già visto,
    per l’intuizione estetica). 
    
    Il concetto puro è diverso da una rappresentazione empirica
    (ad es.: “biancospino”, “gatto”, “matita”), ed anche dai concetti
    usati dalle scienze, che sono concetti astratti (ad es.: “cerchio”),
    e vengono definiti dal Croce come “pseudo-concetti”, poiché
    non hanno un elemento corrispondente nella realtà: gli
    pseudo-concetti si distinguono così in empirici e puri,
    entrambi sono privi di carattere logico, ma sono di grande
    utilità (organizzano le nostre esperienze ed aiutano la
    nostra memoria), perciò sono propri dell’Economia, ed a
    quest’attività pratica dello Spirito vengono ad appartenere
    tutte le scienze empiriche e matematiche. 
    
    Nella logica crociana concetto, giudizio e sillogismo vengono a
    coincidere, vediamo il perché: il giudizio è concetto
    puro, ed il “concetto stesso nella sua effettualità” è
    l’universale concreto; quando pensiamo un concetto, lo pensiamo
    nelle sue distinzioni, lo mettiamo in relazione cogli altri concetti
    e lo unifichiamo con essi “nell’unico concetto” (cioè in
    un’unica forma concettuale), e perciò si ha un sillogismo.
    Nell’ambito della logica c’è un’altra identificazione, quella
    tra giudizio definitorio (es.: “l’arte è intuizione lirica”)
    e giudizio individuale (es.: “l’Orlando furioso è un’opera
    d’arte”), poiché il giudizio individuale ci fa conoscere
    concretamente il mondo (e di conseguenza possedere), un giudizio,
    attribuendo un predicato ad un oggetto, lo valorizza come elemento
    partecipe della realtà. 
    
    È possibile dire che il giudizio definitorio è il
    predicato del giudizio individuale (se dico che l’Orlando furioso
    è un’opera d’arte, affermo che l’Orlando furioso è
    quello che si è definito per opera d’arte dando un giudizio
    definitorio, ed intanto dico anche che è intuizione lirica).
    Per questi motivi il giudicare è un atto logico che è
    sintesi a priori logica. Da ciò consegue che filosofia e
    storia coincidono (“non sono già due forme, sibbene una forma
    sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si
    identificano”), perché la sintesi a priori è
    concretezza sia della filosofia che della storia, ed “il pensiero,
    creando se stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia”). 
    
    Ultimo aspetto della logica, la sua estraneità all’errore:
    per Croce l’errore infatti ha una natura pratica, non può
    appartenere alla conoscenza (che è assoluta, proprio
    perché è conoscenza), non corrisponde al conoscere, ma
    all’agire, appartiene non al pensiero ma alle azioni umane, che
    possono essere sbagliate; una persona quindi sbaglia quando,
    parlando, emette dei suoni “ai quali non corrisponde un pensiero, o,
    che è lo stesso, non corrisponde un pensiero che abbia
    valore, precisione, coerenza, verità”. 
    
    Economia: l’attività pratica dello Spirito, abbiamo
    già visto, non produce conoscenze ma azioni, e l’azione
    coincide con la volontà (già Kant…), poiché non
    c’è volizione senza azione, né azione senza volizione;
    quando noi desideriamo, vogliamo, aspiriamo, abbiamo un fine, e se
    questo fine è individuale, si ha un’attività
    economica. L’attività economica “vuole ed attua ciò
    che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui
    l’individuo si trova”, ed in questa sfera rientrano gli
    pseudo-concetti e le scienze empiriche e matematiche, come detto
    precedentemente, ma anche il diritto, l’attività politica, la
    vita stessa dello Stato, che, come già Machiavelli aveva
    affermato, non ha una natura etica, ma utilitaria (e quindi,
    appunto, economica). 
    
    Vediamo meglio questi tre elementi: per quanto riguarda il diritto,
    apparentemente sembra contraddirsi il nostro pensatore, quando mette
    lo stesso nella sfera dell’economia e non in quella che ci pare
    più ovvia, quella dell’etica: ciò si spiega col fatto
    che per il nostro i valori del diritto non sono gli stessi valori
    della morale, avendo logica e fini diversi: quest’ipotesi viene
    avvalorata dal fatto che anche una società per delinquere ha
    una propria giuridicità (basti pensare ai patti tra
    criminali, od anche solo alle famiglie mafiose, che difficilmente
    hanno obiettivi etici). 
    
    La politica, invece, penso che appaia ad ognuno di noi del tutto
    naturale se messa nella sfera dell’economia: essa viene vista dal
    Croce come incontro/scontro tra interessi opposti, e questo scontro
    non sempre avviene secondo leggi etiche, ma piuttosto secondo leggi
    di forza, ma ciò non è visto negativamente, essendo
    simbolo di forza, vigore degli individui. Lo Stato si basa anch’esso
    non su un’Idea (astratta), ma sulla realtà (concreta), fatta
    di individui che con le proprie azioni stabiliscono, “producono”,
    leggi, istituzioni, strutture, usi, che riflettono le loro
    volontà. 
    
    Lo Stato è quindi il prodotto delle azioni di un insieme di
    persone, ed è dato dalle mediazioni forza/consenso e
    autorità/libertà, e di questi 4 elementi il filosofo
    valorizza quello dell’autorità, perché essa garantisce
    l’ordinato svolgersi della vita pubblica, e perciò critica
    l’ideologia democratica, i cui valori (libertà, uguaglianza,
    fratellanza) non sono certo negativi, ma forse un po’ troppo
    astratti. 
    
    È nell’economia che si riflette la vita dell’uomo, la sua
    natura, il “pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle
    cupidità, delle soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti,
    delle congiunte commozioni, dei piaceri e dei dolori”, ma non
    è un ambito irrazionale, essendoci un principio che vi opera:
    esso è l’utile (ed ha come opposto il dannoso). L’utile
    è visto come un valore positivo, anche se spesso si scontra
    con gli altri valori, ma è in virtù dell’utile che
    l’uomo organizza la propria vita e le proprie relazioni, così
    come fanno i gruppi di uomini (probabilmente gli studi sul marxismo
    l’hanno aiutato in questa elaborazione): mi sembra indiscutibile a
    questo punto che nella filosofia crociana ci sia una buona sintesi
    tra idealismo e realismo. 
    
    All’economia come la intendiamo oggi, scienza che si andava
    sviluppando proprio nell’epoca in cui visse il nostro filosofo, egli
    non guardò con molta simpatia, accusandola di produrre una
    conoscenza troppo astratta ed astorica. 
    
    Etica: è l’attività pratica dello Spirito che si
    verifica quando il fine che noi desideriamo è universale
    (quando è individuale è l’economia, come detto prima);
    questo universale è lo Spirito stesso, Realtà “come
    unità di pensiero e volere”; l’attività etica vuole ed
    attua ciò che corrisponde alle condizioni di fatto in cui una
    persona si trova, ma si riferisce a qualcosa che le trascende.
    L’uomo morale quando vuole l’universale (ciò che lo trascende
    come individuo) guarda “allo Spirito, alla Realtà reale, alla
    Vita vera, alla Libertà”, in questo modo chi agisce trascende
    i propri interessi, che sono “particolari” (l’utile), per cogliere
    valori universali (il bene) 
    
    L’etica ha un carattere di totalità, perché l’agire
    secondo morale raccoglie e “sublima” dentro di sé le diverse
    istanze date dai diversi fattori che compongono la realtà
    individuale e sociale; l’ideale supremo di quest’etica è la
    Vita, che dà valore e sviluppa l’agire umano, infatti tutte
    le azioni degli uomini che siano conformi al dovere etico sono
    conformi alla vita, e se la deprimessero e mortificassero, sarebbero
    immorali. 
    
    Evidentissima la critica contro lo Stato che Giovanni Gentile
    definì sotto la voce “Fascismo” nell’enciclopedia Italiana
    Treccani, poiché esso viene visto come entità che
    ingloba in sé gli individui, che è artefice della
    legge (e fin qui Croce sarebbe d’accordo), e che è artefice
    anche della morale, ed in seguito il Gentile parlò anche di
    “Stato etico” (eredità di Hegel, filosofo dal quale anche
    Croce era partito, ma con conclusioni diverse, come abbiamo visto).
    
    
    Storia: non è una delle 4 forme dello spirito, ma un altro
    “capitolo” della filosofia crociana. Abbiamo già visto come
    filosofia e storia coincidono, poiché (ripetiamolo) il
    pensiero autentico è pensiero dell’universale concreto, ed il
    giudizio definitorio coincide col giudizio individuale; da
    quest’uguaglianza deriva che qualsiasi realtà alla quale il
    giudizio storico si riferisce, nascendo quest’ultimo da un bisogno
    pratico (quello di risolvere i problemi della situazione presente),
    diventa attuale. Vediamo facilmente anche come la storia sia vera
    conoscenza del reale, una sintesi a priori tra intuizione e
    categoria; secondo il filosofo tutto è storia: tale teoria
    viene definita come “Storicismo assoluto”. Nulla sta al di sopra
    della storia, per cui non ci sono idee o valori eterni, e la storia
    non è mai “giustiziera”, ma sempre “giustificatrice”: uno
    storico deve solo conoscere e comprendere certi avvenimenti, senza
    giudicarli; questo potrebbe essere visto come una contraddizione del
    nostro pensatore, poiché condannò il fascismo (che
    è un evento storico). 
    
    Per Benedetto ciò che è reale è necessariamente
    razionale, ma afferma essere razionale anche l’imperativo morale:
    non giustificò mai il fascismo, ma lo lesse come “malattia
    morale”, una parentesi nella storia dell’Italia (espresse questa
    teoria sul New York Times nel novembre del 1943, la riprese in un
    discorso tenuto nel gennaio del 1944 a Bari, al I Congresso dei
    Comitati di Liberazione Nazionale, ed in un’intervista del marzo
    1947). La storia, non potendo giudicare, non può né
    lodare né biasimare un evento: la lode od il biasimo
    riguardano un singolo nel momento in cui agisce, ma quando la sua
    azione è diventata evento, non può più essere
    giudicata. La storia, inoltre, non si deve discutere coi “se” (es.:
    “se Garibaldi non avesse organizzato la Spedizione dei Mille…”),
    perché essendo lo Spirito immanente alla storia, il “se”
    negherebbe il nesso logico e razionale dell’universale concreto; il
    “se” non deve riguardare nemmeno l’individuo singolo (“se non avessi
    fatto l’errore di…”), perché l’individuo è ciò
    che è, è se stesso, proprio perché ha compiuto
    ciò che ha compiuto. 
    
    La storia ha un effetto catartico: conoscendola, noi che siamo
    prodotti del passato (già i Decadentisti sottolineavano come
    l’uomo fosse risultato del passato e seme che germoglierà nel
    suo futuro), ci liberiamo da esso (già Goethe affermava che
    scrivere storia è un modo per toglierci dalle spalle il
    passato ed affrancarci da esso). La storia inoltre ha un carattere
    di positività, perché analizzando un evento storico si
    deve sempre captarne l’intimo senso e razionalità, per quanto
    negativo l’evento possa apparire. Nella storia, inoltre, c’è
    un nesso di pensiero ed azione, infatti la conoscenza storica
    stimola l’azione, ma è essa stessa stimolata dall’azione. 
    
    La nostra epoca presta minor attenzione alla dialettica crociana, e
    si concentra di più sullo studio degli altri aspetti della
    filosofia del Croce, una filosofia, direi, molto semplice da
    comprendere, leggendo gli stessi libri del nostro filosofo, scritti
    con un stile vivo e chiaro (si dice che pensasse in napoletano e poi
    traducesse le sue intuizioni sulla carta). Ci sono però degli
    effetti negativi nell’attività di Benedetto: la sua critica
    letteraria tenne l’Italia al di fuori delle novità che
    maturavano altrove, la sua svalutazione delle scienze della natura
    approfondì il solco tra cultura umanistica e cultura
    scientifica, e l’avversione alle scienze umane e sociali
    (perché cercavamo di “invadere” con metodi empirici il campo
    filosofico delle scienze dello spirito) ha ritardato lo sviluppo in
    Italia della linguistica moderna, della psicologia e della
    sociologia.
    
    "Un sistema filosofico è una casa che, subito dopo costruita
    e adornata, ha bisogno di un lavorio, più o meno energico, ma
    assiduo di manutenzione, e che a un certo punto non giova più
    restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire
    dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che,
    nell'opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è
    sostenuta perpetuamente dall'antica, la quale, quasi per opera
    magica, perdura in essa. " 
    
    ("Breviario di estetica") 
    
    INDICE 
    
    INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO 
    
    LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE 
    
    IL PENSIERO 
    
    INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO 
    
    L'indirizzo di cui Croce e Gentile sono espressione ha preso
    originariamente l'insegna del neo-hegelismo: è cioè
    l'indirizzo corrispettivo in Italia agli analoghi indirizzi di
    ritorno a Hegel che, marginalmente però ad altre correnti di
    pensiero, fiorivano tra l'Otto e il Novecento anche in altri Paesi.
    Per quanto riguarda nondimeno in particolare i due pensatori
    italiani, è più vivo e più accentuato in essi,
    rispetto a tutti gli altri, l'intento di operare una revisione
    critica innovatrice dell'hegelismo. E, ad onor del vero, dei due
    è più propriamente hegeliano Gentile, per essersi
    formato direttamente alla scuola, rigida e metafisicizzante, di
    Spaventa. Nipote di Spaventa, invece, Croce si è formato alla
    scuola del de Sanctis (risalendo, attraverso il de Sanctis, a Vico)
    e del Labriola (risalendo, attraverso il Labriola, a Herbart e a
    Marx), cosicchè alla diretta conoscenza del pensiero
    hegeliano egli è giunto (per influenza del suo stesso amico
    Gentile) solo in una fase giù matura (nel 1905) del suo
    sviluppo intellettuale. 
    
    Sia Croce sia Gentile hanno accolto del pensiero di Hegel il
    principio animatore: l'idea cioè dello Spirito come
    attività dialettica che si svolge nel ritmo di sempre
    rinascenti opposizioni. E' il principio per il quale la
    realtà è attività pensante, è Soggetto
    che si oggettiva e si naturalizza per tornare in se stesso fatto
    più altamente personale e più consapevole.
    Diversamente da Hegel, tuttavia, essi prescindono del tutto, nella
    loro speculazione, dai problemi della natura, ritenendo pertinenti
    alla vita dello spirito solo i problemi propriamente umani. Ne
    consegue che non si è avuta in Italia la polemica che invece
    divampò e fu assai vivace nel mondo culturale tedesco tra
    scienziati assertori del metodo sperimentale e hegeliani
    propugnatori d'una razionalistica e aprioristica interpretazione
    della natura. In Italia, al contrario, l'indifferenza di Croce e di
    Gentile per i problemi della scienza ha solo concorso (in
    virtù del peso culturale dei due personaggi) ad approfondire
    il solco tra ricerca scientifica e investigazione filosofica, a
    rendere estranea quella a questa e, di conseguenza, questa a quella.
    
    
    Ne deriva dunque anche la crescente influenza ch'essi hanno
    esercitato nel campo letterario e nella vita politica del Paese: nel
    campo letterario hanno notevolmente innovato gli studi di estetica e
    di ricerca storica, giungendo per tale via a diffondere largamente
    tra le giovani generazioni del loro tempo il gusto e il modo della
    visione e della valutazione idealistica dei relativi problemi. Nella
    vita politica hanno esercitato un'influenza ancor maggiore e,
    soprattutto, ancor più differenziata: Croce s'è fatto
    espressione ideologica delle istanze liberali, Gentile è
    divenuto il filosofo e, al tempo stesso, il padre ideologico del
    fascismo. 
    
    LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE 
    
    La vita dei due filosofi si intreccia strettamente per una lunga
    serie dapprima di reciproci rapporti, successivamente di reciproci
    contrasti. Benedetto Croce, nato a Pescasseroli, in Abruzzo, il 25
    febbraio 1866 da famiglia assai agiata e formatosi negli anni
    universitari a Roma presso il Labriola, si trasferì intorno
    all'86 a Napoli, dove visse da allora la sua lunga e operosa vita.
    Dalle iniziali ricerche di carattere erudito nel campo dell'arte e
    della storia egli passò ben presto all'indagine sulla natura
    stessa dei problemi di cui si era venuto occupando. Un primo
    tentativo di dare ad essi una sistemazione teoretica lo troviamo nel
    suo saggio giovanile "La storia ridotta sotto il concetto generale
    dell'arte" (1893): saggio nel quale, in polemica con la visione
    naturalistica dei positivisti, egli asserisce appunto che il
    conoscere storico dev'essere ricondotto sotto il concetto generale
    dell'arte, cosicchè gli eventi umani non sono, come i
    fenomeni fisici, soggetti a un principio meccanico di
    necessità, ma sono, come le figurazioni artistiche,
    espressione di una libera attività creatrice. Ciò che
    nondimeno resta indeterminato nel saggio è il concetto stesso
    di arte: ed è proprio su tale concetto che Croce, negli anni
    successivi, concentrò la propria attenzione. 
    
    Frutto di tali sue meditazioni fu la pubblicazione, avvenuta nel
    1902, dell' "Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
    generale". Da quest'opera, che è la prima grande opera
    crociana, egli trasse via via, come per sviluppo sempre maggiore di
    concetti già impliciti embrionalmente, le altre opere: la
    "Logica come scienza del concetto puro" (1909), la "Filosofia della
    pratica, economica ed etica" (1909), la "Teoria e storia della
    storiografia" (1917). Sono queste le opere che formano la
    tetralogia, in cui Croce ha dato trattazione organica di sistema al
    suo pensiero, alla sua Filosofia dello Spirito. 
    
    Ma, congiuntamente ad esse, egli pubblicò negli stessi anni
    una serie di saggi (sul materialismo storico, su Hegel, su Vico,
    ecc), traendo di volta in volta in tali saggi le conclusioni del suo
    dialogo ideale coi filosofi con cui era venuto direttamente o
    indirettamente a contatto per l'influenza del De Sanctis, di
    Labriola e di Gentile. 
    
    Proprio Gentile fu suo collaboratore per circa vent'anni nella
    rivista " La critica ", da lui fondata nel 1903 e diretta
    ininterrottamente per più di quarant'anni. Con " La critica "
    egli si foggiò lo strumento della più larga
    penetrazione nella vita culturale dell'Italia, orientando le giovani
    generazioni per lungo tratto di tempo così come prima dopo
    l'avvento del fascismo. 
    
    L'avvento del fascismo segna il progressivo distacco di Croce da
    Gentile, o, meglio, di Gentile da Croce: l'accentuato contrasto o
    atteggiamento critico di Gentile verso il pensiero di Croce e,
    più ancora, la diversa posizione da essi assunta nei
    confronti della dittatura fascista valsero a cambiare i loro
    rapporti di sincera amicizia in rapporti d'irriconciliabile
    inimicizia. Se, infatti, Gentile aderì pienamente al nuovo
    regime dittatoriale e soffocatore di ogni libertà e se ne
    fece anzi propugnatore, Croce, dopo un periodo d'incertezza e di
    cautissima adesione, si scostò da esso e decisamente gli si
    oppose, giocando contro il fascismo la carta di un liberalismo ormai
    tramontato definitivamente. 
    
    E bisogna riconoscere che Croce fu l'unico oppositore del regime a
    non essere brutalmente massacrato (come invece accadde a Gobetti) o
    indegnamente incarcerato (come accadde a Gramsci): gli fu anzi
    sempre riconosciuta la sua carica di senatore, forse anche in
    virtù del fatto che la sua era un'opposizione meramente
    teorica e che si appellava ad un liberalismo ormai incompatibile con
    la nuova temperie culturale e con la situazione in cui l'Italia
    versava; tanto più che il fascismo ci teneva a dimostrarsi un
    regime "aperto", pronto a dar voce agli oppositori. 
    
    Liberale conservatore, Croce vide dapprima nel fascismo un'utile e,
    come s'illudeva, temporanea forza di contenimento del movimento
    socialista, il quale, dopo il celebre "biennio rosso" (1918-1920),
    pareva avanzasse quasi a travolgere anche in Italia come in Russia
    le dighe della struttura borghese della società. Ma,
    trasformatosi il nuovo regime in dittatura permanente col colpo di
    stato del 3 gennaio 1925, le istanze liberali prevalsero sempre
    più nel suo animo e lo indussero, senza comunque smettere
    l'aspra polemica contro il socialismo (per il quale da giovane aveva
    pure simpatizzato), ad avversare senza più esitazioni il
    totalitarismo fascista: si accorse che il fascismo, seppur idoneo
    per tenere a bada gli appetiti socialisti e per conservare la
    società così com'era, non era uno strumento di cui ci
    si poteva servire solo quando faceva comodo per poi rimetterlo nel
    cassetto; viceversa, il fascismo era una malattia passeggera dello
    Stato, quasi una sorta di deviazione nel corso assolutamente
    razionale della storia: si trattava dunque, una volta terminata la
    parentesi fascista, di ritornare allo Stato liberale vigente prima
    dell'avvento della "malattia" fascista. 
    
    Il liberalismo di cui Croce si fece vessillifero fu, tuttavia,
    sempre di stampo conservatore, senza troppe aperture sul versante
    socialista: quando gli parlarono della possibilità di creare
    un liberal-socialismo, che coniugasse le istanze proprie del
    socialismo con quelle proprie della tradizione liberale (nella
    convinzione che la vera libertà è possibile solo in
    condizioni di uguaglianza sociale), Croce bollò questa
    iniziativa come "ircocervo", ovvero come fantasticheria inattuabile.
    Croce, poi, rispose al manifesto con cui Gentile aveva raccolto
    l'adesione al fascismo da parte di alcuni intellettuali fascisti
    (tra cui Pirandello) con un manifesto di vibrante protesta firmato
    da un mare magnum di intellettuali antifascisti (tra cui ricordiamo
    Antonio Banfi). 
    
    In questa seconda fase della sua vita Croce venne pertanto
    gradatamente accentuando il suo interesse speculativo per il
    problema politico (che aveva fin da allora considerato con un certo
    distacco), per il problema di un più intimo nesso tra il
    pensiero e l'azione, per il problema della libertà (centrale
    in Hegel). Frutto di tali sue nuove meditzioni è la
    pubblicazione in questo periodo di una serie di scritti, di cui
    meritano di essere menzionati, per la grande risonanza che ebbero e
    per la larga efficacia educativa che esercitarono sui giovani di
    allora, la "Storia d'Italia dal 1871 al 1915" (1928), la "Storia
    d'Europa nel secolo XIX" (1932), " La storia come pensiero e come
    azione " (1938). Sono gli scritti nei quali la nozione di
    libertà è, secondo la stessa espressione crociana,
    innalzata a "religione della libertà" e identificata con lo
    Spirito nel suo dispiegarsi. 
    
    La definizione molto vaga (e pressochè mistica) del problema
    della libertà doveva rivelarsi nondimeno, per l'istanza
    morale da cui procedeva, strumento efficace di educazione
    antifascista, finchè il fascismo imperò nel Paese; e
    anche, caduto il fascismo, continuò a ispirare in qualche
    modo le nuove generazioni nella loro azione per la ricostruzione del
    Paese, ma impregnandosi via via di nuove e più concrete
    istanze, in virtù delle quali non pochi degli antichi
    discepoli di Croce finirono col prendere, un poco alla volta, altre
    vie. Croce sopravvisse all'avversato regime: con la caduta di esso,
    però, riprese con rinnovato vigore, nella mutata condizione
    culturale determinatasi nel Paese, la polemica contro il marxismo. 
    
    Si spense nel 1952, circondato dalla generale stima per quel che il
    suo nome aveva significato, per circa cinquant'anni, nella vita
    culturale della penisola. Egli fu una delle menti più
    poliedriche e versatili che il Novecento ricordi. 
    
    IL PENSIERO 
    
    Croce è, secondo la sua stessa definizione, il "filosofo dei
    distinti": nella sua revisione della dialettica hegeliana, infatti,
    egli ha scoperto che l'errore precipuo di essa sta nel confondere
    insieme concetti puri e concetti empirici da un lato, momenti
    opposti e momenti distinti dall'altro lato. E in realtà altra
    cosa sono, egli dice, i concetti puri (o categorie filosofiche), che
    concernono le forme fondamentali dell'attività dello spirito;
    altra cosa sono i concetti empirici (o pseudoconcetti), che
    risultano da pure generalizzazioni e classificazioni, utili ai
    bisogni della pratica, ma destituite di ogni verità. Solo i
    concetti puri sono, nel senso hegeliano dell'espressione, universali
    concreti; solo per mezzo di essi è dato concepire la
    realtà spirituale (che è la sola realtà e la
    sola universalità) nella sua concretezza, nel suo concreto
    dispiegarsi o procedere secondo il movimento dialettico che le
    è proprio. Gli pseudoconcetti , invece, sono o
    universalità senza concretezza (come le astrazioni
    matematiche) o concretezza senza universalità (come le
    empiriche e sempre mutevoli classificazioni delle scienze naturali).
    
    
    Il vizio della filosofia hegeliana della natura, ed in parte anche
    di quella dello Spirito, risiede pertanto, secondo Croce, nell'aver
    voluto includere nel procedimento dialettico molti concetti empirici
    che, come determinazioni irrigidite e astratte, non sono per questo
    stesso motivo suscettibili di mediazione, di sintesi. Ma, per quel
    che riguarda i concetti puri, nell'ambito solo di ciascuno di essi,
    è valido il procedimento dialettico degli opposti, afferma
    Croce: il procedimento per il quale i termini dell'opposizione si
    risolvono nella sintesi, perdendo in essa ogni loro esistenza
    distinta. Nei loro reciproci rapporti, invece, i concetti puri non
    si risolvono l'uno nell'altro, ma restano sempre distinti l'uno
    dall'altro: vale per essi un diverso principio di unificazione
    filosofica. Ecco perché Croce sdoppia l'unica dialettica
    hegeliana in una dialettica degli opposti e in una dialettica dei
    distinti: l'errore di Hegel, infatti, consiste, stando a Croce,
    nell'aver esteso indebitamente la dialettica degli opposti ai
    distinti, cioè ai concetti puri o alle forme categoriali
    dello Spirito: “Hegel non fece, fra teoria degli opposti e teoria
    dei distinti, la distinzione importantissima, che io mi sono
    sforzato di dilucidare. Egli concepì dialetticamente, al modo
    della dialettica degli opposti, il nesso dei gradi; e applicò
    a questo nesso la forma triadica, che è propria della sintesi
    degli opposti. Teoria dei distinti e teoria degli opposti
    diventarono per lui tutt’uno” ( “Ciò che è vivo e
    ciò che è morto della filosofia di Hegel”, cap. IV). 
    
    Il vero precursore della dialettica dei distinti è da Croce
    ravvisato, più che in Hegel, in Vico: secondo Croce, tra le
    forme dell’attività spirituale si svolge l’eterno processo,
    che Vico aveva chiamato “storia ideale eterna”; queste forme,
    infatti, sono eterne, ma si sviluppano e manifestano di volta in
    volta arricchite di nuovi contenuti. Pubblicato come volume autonomo
    nel 1906, il saggio “Ciò che è vivo e ciò che
    è morto della filosofia di Hegel” (tradotto presto anche in
    francese e in tedesco) è emblematico a partire dal titolo:
    esso simboleggia l’atteggiamento con cui Croce guarda ai filosofi
    del passato per trarne alimento al proprio pensiero e, in
    particolare, con cui si rapporta a Hegel. 
    
    Questi, secondo il filosofo abruzzese, ha fatto oggetto del suo
    pensiero “non solo la realtà immediata, ma la filosofia
    stessa, contribuendo per tal modo a elaborare una logica della
    filosofia”. Contro ogni filosofia meramente individuale fondata su
    una conoscenza immediata, egli ha rivendicato la centralità
    del metodo della filosofia e della teoria di questo metodo.
    Nell’affrontare questo problema, Hegel ha individuato l’importanza
    della dialettica degli opposti, come motore del processo della
    realtà e del pensiero, ma ha commesso l’errore di estendere
    questa forma di dialettica anche al rapporto fra le forme
    dell’attività spirituale. Su questo punto, Croce non
    può più seguirlo, sicchè la coscienza moderna,
    a suo avviso, si troverebbe di fronte a Hegel come il poeta latino
    di fronte alla sua donna, quando affermava “nec tecum vivere possum,
    nec sine te”. 
    
    E in realtà bello e brutto, vero e falso, utile e dannoso,
    bene e male sono realmente termini opposti tra loro: vale per essi
    il principio hegeliano secondo cui il termine positivo (il bello, ad
    esempio) non ha vita se non trionfando sul negativo (il brutto).
    Nell'ambito di ciascuna di queste coppie di opposti dunque ogni
    termine ha significato solo nell'altro e per l'altro (chi prende il
    vero senza il falso, il bene senza il male, fa del vero qualcosa di
    non pensato - perché pensiero è lotta contro il falso
    - e quindi qualcosa di non vero; del bene qualcosa di non voluto -
    perché volere il bene è negare il male - e quindi
    qualcosa di non buono): al di fuori della loro sintesi, che sola
    è reale, gli opposti non sono, in conclusione, che delle
    vuote astrazioni. Ma lo stesso non può dirsi di ciascuno dei
    termini positivi che si son sopra elencati (il bello, il vero,
    l'utile, il bene): nei loro rapporti, infatti, essi non si annullano
    l'uno nell'altro, ma si armonizzano l'un con l'altro. Sicchè
    il vero non sta al falso nello stesso rapporto in cui sta al buono,
    il bello non sta al brutto nello stesso rapporto in cui sta alla
    verità filosofica: bello e vero, vero e bene sono invece tra
    loro in un nesso di gradi, per il quale bello, vero e bene sono
    forme distinte e insieme unite. 
    
    Questa unità-distinzione è il nesso, è la
    dialettica dei distinti o, meglio, la dottrina dei gradi dello
    Spirito. Per essa, lo Spirito si distingue in due gradi teoretici
    (mediante cui l'uomo vede, comprende le cose) e in due
    corrispondenti gradi pratici (mediante cui l'uomo muta, crea le
    cose). 
    
    Le forme proprie dei due gradi teoretici sono quella, estetica,
    dell'intuizione o della visione-espressione dell'individuale e
    quella, logica, della concezione dell'universale. Le forme proprie
    dei due corrispondenti gradi pratici sono quella, economica, della
    volizione del particolare e quella, morale, della volizione
    dell'universale. Ne deriva che, come si è venuto chiarendo,
    le quattro forme fondamentali dello Spirito sono: quella estetica
    del bello, quella logica del vero, quella economica dell'utile,
    quella morale del bene. All'infuori di tali forme non vi sono altri
    concetti puri, non vi sono altri valori in cui o mediante cui si
    esplichi l'attività dello Spirito. 
    
    Evidente è, nella loro determinazione, l'influenza che,
    attraverso Labriola, hanno esercitato su Croce la triade
    herbartiana, per un verso, dei tre supremi valori del vero, del bene
    e del bello e la concezione di Marx, per l'altro, del valore
    assoluto dell'attività economica: i quattro valori, fusi in
    unità di sistema, sono gli elementi costitutivi del pensiero
    crociano. 
    
    Il rapporto tra queste quattro forme dello Spirito è tale che
    il passaggio, nell'attività teoretica, al grado superiore
    della concezione dell'universale può avvenire solo attraverso
    il grado inferiore dell'intuizione dell'individuale: nel senso che
    la logica, in quanto produttrice di concetti, implica l'estetica,
    mera produttrice di intuizioni (non può esservi concetto
    senza intuizione) e non viceversa (cosicchè può
    esservi intuizione senza concetto). 
    
    E, in modo corrispettivo, il passaggio, nell'attività
    pratica, al grado superiore della volizione dell'universale
    può avvenire solamente attraverso il grado inferiore della
    volizione del particolare: nel senso appunto che anche per
    l'attività pratica vale il criterio che la morale implica
    l'economia (non può esservi azione morale senza la
    consapevolezza che l'ideale etico rappresenta il grado più
    alto di utilità), non viceversa (sicchè può
    esservi azione volta al perseguimento del mero vantaggio
    individuale, del tutto scevra di preoccupazione morale). E le due
    attività teoretica e pratica sono, infine, anch'esse legate
    l'una all'altra in modo tale che la prima è presupposto e
    condizione del dispiegarsi della seconda (l'agire è un agire
    secondo ragione, secondo conoscenza); e la seconda, a sua volta,
    è presupposto e condizione dell'ulteriore dispiegarsi della
    prima (per ciò che diventa materia di nuova intuizione, di
    nuova conoscenza). 
    
    E' così che, secondo Croce, il ciclo teoretico-pratico si
    rinnova eternamente ed eternamente si arricchisce, nell'incessante
    svolgersi e crescere su se stesso della realtà spirituale. Di
    conseguenza, per la circolarità della vita spirituale appena
    illustrata, le quattro sue forme s'implicano a vicenda: si affermano
    tutte insieme nella loro positività e nella
    solidarietà che le lega e le fa compresenti in ogni singolo
    momento della vita dello Spirito. In questo propriamente consiste il
    rapporto di unità-distinzione: rapporto per il quale le
    quattro forme categoriali sono distinte nell'unità dello
    Spirito o (il che è la stessa cosa) lo Spirito è uno
    nella distinzione delle sue forme. 
    
    Ora, passando ad esaminare il modo di esplicarsi delle singole
    forme, la prima forma dello Spirito teoretico è l' arte , la
    conoscenza intuitiva. L'arte è, cioè,
    visione-espressione di un'immagine contemplata per sé, senza
    che ci si chieda se essa sia corrispettiva o meno a una
    realtà oggettiva o che si tenti di determinare la natura
    della realtà di cui è espressione: essa è,
    perciò, solo conoscenza intuitiva, non conoscenza concettuale
    del contenuto della vita dello Spirito. E, oltre a non essere
    conoscenza concettuale, l'arte, a maggior ragione, in quanto forma
    teoretica, non è né atto utilitario, né atto
    morale: non è, cioè, né determinazione
    dell'utile, né in dipendenza di un fine morale. Ciò
    che conferisce unità e significato all'intuizione artistica
    è il sentimento: non il sentimento immediato, nella sua
    tumultuosa passionalità, bensì il sentimento mediato
    e, per così dire, trasfigurato, elevato a pura forma, a pura
    immagine, a pura espressione. Ciò equivale a dire che l'arte
    è intuizione lirica, è sintesi a priori di sentimento
    e di immagine, è unità indissolubile di contenuto (il
    sentimento) e di forma (l'immagine, l'espressione). 
    
    Ne deriva che per Croce l'arte, in quanto intuizione di un
    sentimento, di un contenuto di vita, si identifica con l'espressione
    stessa di quel sentimento, di quel contenuto di vita: l'intuizione
    è la stessa espressione, l'espressione è la stessa
    intuizione. E da tale identificazione deriva anche, secondo Croce,
    l' identificazione di linguaggio e di poesia : è questo il
    motivo in parte tratto dalle dottrine del Romanticismo e, più
    ancora, dalla viva esperienza critica del De Sanctis e, attraverso
    il De Sanctis, dalla filosofia di Vico; ed è questo il motivo
    per il quale il linguaggio non è un segno convenzionale
    mediante cui gli uomini comunicano tra loro, ma è espressione
    viva, immagine spontaneamente prodotta dalla fantasia, dallo
    Spirito. Con l'identificazione di linguaggio e di poesia si spiega
    l'universalità dell'arte: il linguaggio poetico, quali che
    siano i modi tecnici (del suono, del colore, ecc) attraverso cui
    è espresso, è il linguaggio stesso degli uomini;
    quindi ogni uomo ha il potere di aprirsi una suggestione dell'arte,
    di rivivere in sé, contemplandola, l'opera d'arte, in
    qualsiasi tempo o luogo sia stata creata. 
    
    Altra considerazione relativa all'arte è che, risolto il
    concetto di arte in quello di intuizione lirica, è negata da
    Croce ogni validità alla tradizionale dottrina dei generi
    letterari: alla dottrina che, come dice, è del tutto estranea
    al problema estetico ed è solamente espressione del bisogno
    pratico (economicistico, classificatorio) dello Spirito e, di
    conseguenza, è solamente costruttrice di preconcetti. 
    
    All’estetica Croce dedica l’opera “Estetica come scienza
    dell’espressione e linguistica generale”: essa (che è l’opera
    che diede immediata celebrità a Croce) è lo sviluppo
    di una memoria che il filosofo aveva letto in tre sedute,
    all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Croce individua i
    caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza
    intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione,
    però, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in
    lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che
    questo aspetto rientra nell’attività pratica dello Spirito,
    non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte. 
    
    Curioso è il metodo impiegato da Croce: egli procede alla
    determinazione dei significati dei concetti mediante negazioni e
    distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini o
    opposti. “La conoscenza ha due forme: è o conoscenza
    intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o
    conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o
    conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro
    relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice
    di concetti. […] Della conoscenza intellettiva c’è una
    scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica;
    ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e
    timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la
    parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna,
    le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. Che
    cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della
    intellettiva? E’ un servitore senza padrone; e, se al padrone
    occorre il servitore, è ben più necessario il primo al
    secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca;
    l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna
    fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha
    bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad
    alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché
    ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. […] I concetti che si
    trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero
    misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni
    indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono
    diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. […] Noi non possiamo
    volere o non volere la nostra visione estetica: possiamo,
    bensì, volerla o no estrinsecare, o, meglio, serbare e
    comunicare o no agli altri l’estrinsecazione prodotta.” (Estetica
    come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap.
    I). 
    
    Croce impiega una procedura dicotomica, distinguendo le due forme
    possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di
    proprietà; da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene
    mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia
    entità singole, e dà luogo alla produzione di
    immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (cui Croce
    dedicherà una trattazione apposita, la “Logica come scienza
    del concetto puro”), che avviene mediante l’intelletto, ha per
    oggetto l’universale, cioè le relazioni tra le cose, e
    dà luogo alla produzione di concetti. Contro la tradizionale
    subordinazione della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a
    quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo
    l’autonomia e la dignità di essa. 
    
    In campo estetico, Croce mostra una netta chiusura verso l’allora
    trionfante decadentismo: esso è, ai suoi occhi, una grave
    malattia, una mancanza di sincerità, poiché con esso
    si crede e non si crede, si annega la confusione mentale in un mare
    magnum di parole altisonanti e suadenti che suggestionano, si creano
    miti nei quali si finisce per credere troppo. In altre parole, la
    cultura del decadentismo è un’offesa che l’uomo di cultura
    conduce contro i suoi lettori; la stessa nascita della dittatura
    fascista è da Croce, per alcuni versi, letta come produzione
    estrema del decadentismo: per usare le sue stesse parole, è “
    un’industria del vuoto ”, che si adopera per non produrre nulla. 
    
    La poesia, secondo Croce, non è tale in quanto dice belle
    cose imbevute di patriottismo (com’era per D’Annunzio): la vera
    poesia non è propagandistica, ma è intuizione pura,
    rappresentazione alimentata da un forte sentimento individuale in
    cui l’artista realizza una perfetta ed armoniosa fusione fra
    contenuto e forma: tipico esempio è la figura di Polifemo,
    che rappresenta in modo impeccabile la forza bruta. D’Annunzio
    è, del resto, secondo Croce il “ padre spirituale ” del
    nazionalismo italiano: il poeta e soldato, la cui sola musa fu la
    violenza, è un mistificatore del pensiero di Nietzsche, dice
    Croce, e ciò è perfettamente espresso nella frase
    crociana “letto che ebbe qualcosa del Nietzsche”, con cui sottolinea
    come D’Annunzio fosse andato incontro a colossali fraintendimenti
    del pensiero nietzscheano, in buona parte dovuti al fatto che
    l’aveva letto in modo non sistematico. Dal primo momento (appena
    descritto) dello spirito teoretico si passa, nel sistema crociano,
    al secondo momento, che è costituito dal pensiero logico . 
    
    Come l'arte è conoscenza dell'individuale, così il
    pensiero logico è pensamento dell'universale; e, per il
    principio dell'implicazione dei distinti, il pensamento
    dell'universale è unità di universale e d'individuale,
    di concetto e d'intuizione. Come tale, il pensiero logico è
    rapporto di soggetto (ossia di un fatto, quale che esso sia) e di
    predicato, è determinazione della particolarità del
    fatto (che si è intuito) nell'universalità del
    concetto (di cui lo si predica): è, in fin dei conti,
    giudizio su singole realtà di fatto. E, giacchè il
    giudizio sulle singole realtà di fatto è giudizio sui
    fatti nel loro farsi (per la ragione che fatti che non si facciano,
    che non diventano, o fatti per così dire immobili non si
    ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà),
    evidente è che tale giudizio è e non può essere
    che un giudizio storico. Ne consegue che il pensiero logico
    è, in quanto tale, un pensare storico: proprio in ciò
    risiede la tesi portante della " Logica " e, anzi, di tutta l'opera
    crociana. 
    
    E' la tesi per la quale la filosofia, scienza dei concetti, si
    identifica con la storia, scienza dei giudizi: ecco perché
    Croce può asserire che "i veri filosofi, se ne avvedessero o
    no, non hanno mai fatto altro che rinvigorire e raffinare i concetti
    per far sì che meglio si intendano i fatti, cioè la
    realtà, cioè la storia"; è dunque necessario,
    per usare le stesse parole impiegate da Croce, rendere "filosofica
    la storia, ma nell'atto stesso storica la filosofia, e
    indirizzandola a non altro che a risolvere i problemi che il corso
    delle cose propone sempre nuovi". 
    
    Questa identità tra filosofia e storia implica un
    approfondimento storico dei problemi della filosofia e, insieme, un
    approfondimento filosofico della storia, cosicchè la storia
    non si compendia in un'arida registrazione e giustapposizione di
    nudi fatti individuali, ma in un'interpretazione e connessione
    mentale di essi, per cui il loro svolgimento coincide con lo
    sviluppo stesso della vita dello Spirito: e poiché lo Spirito
    è pura razionalità, allora la storia (come già
    aveva sottolineato Hegel) procede in modo assolutamente razionale.
    L'identità della filosofia con la storia rappresenta, di
    conseguenza, per Croce un'istanza decisiva contro la vecchiaia e,
    possiam dire, teologica filosofia della storia, che avanzava la
    pretesa di compendiare in astratti schemi e di predeterminare le
    leggi del divenire storico: il divenire storico, viceversa, ha in se
    stesso, e non fuori né al di sopra, la norma e la misura dei
    suoi valori. 
    
    Ma, identificata la filosofia con la storia e intesa la storia come
    una realtà piena dello Spirito, ne consegue anche che l'idea
    di una scienza distinta ed autonoma che si occupi di problemi
    "massimi" ed "eterni" è un'idea antiquata (che non ha
    più ragion d'essere) della filosofia, dovuta alla
    sopravvivenza in essa delle vecchie sue forme metafisicizzanti.
    L'idea adeguata della filosofia è invece, nella prospettiva
    di Croce, quella per la quale essa diviene un semplice momento
    trascendentale della conoscenza storica, sicchè il suo solo
    compito è di apprestare alla conoscenza storica le categorie
    della sensibilità del reale. Ne deriva che la filosofia
    è, come dice Croce, il mero momento metodologico della
    storiografia, la mera delucidazione delle categorie costitutive dei
    giudizi storici; e poiché la storiografia ha per contenuto la
    vita concreta dello Spirito, e questa vita è vita di fantasia
    e di pensiero, di azione e di moralità (quali sono appunto le
    forme in cui si estrinseca) e in questa varietà delle sue
    forme è pur una, la delucidazione delle categorie storiche si
    muove secondo la distinzione dell'estetica e della logica,
    dell'economia e dell'etica, e le congiunge tutte nella filosofia
    dello Spirito: questa tesi Croce la esprime in "Teoria e storia
    della storiografia" e, più particolarmente, in "La storia
    come pensiero e come azione". 
    
    In questa concezione, tuttavia, vi è qualcosa di più
    della mera identità tra la filosofia e al storia: la
    filosofia, infatti, negata come scienza a sé stante e
    considerata come categoria della storia, finisce col trovare solo in
    quest'ultima il suo inveramento, finisce cioè col risolversi
    integralmente nella storia. E' così che Croce è via
    via pervenuto al pieno capovolgimento della posizione iniziale del
    suo pensiero di fronte al problema storico: dalla considerazione
    iniziale della storia come arte (nel saggio giovanile "La storia
    ridotta sotto il concetto generale dell'arte") a quella che ne fa
    una forma di realtà autonoma, inferiore alla filosofia, a
    quella dell'identità e reciprocità piena con la
    filosofia, infine a quella dell'integrale risoluzione della
    filosofia nella storia come " storia pensata ", egli ha, come si
    vede, descritto un ciclo evolutivo, parallelo all'evolversi stesso e
    all'arricchirsi progressivo del suo pensiero. 
    
    Ecco perché si è soliti definire la filosofia di Croce
    come la "filosofia dello storicismo assoluto". Per essa, infatti,
    tutta la realtà è Spirito, tutta la realtà
    è storia: anche ciò che chiamiamo natura è
    processo storico, è processo spirituale che abbiamo,
    nondimeno, distanziato così tanto che, per il fatto che ci
    limitiamo a considerarne le manifestazioni sommariamente e
    dall'esterno, ci sembra che siano manifestazioni di una
    realtà meccanica e quasi esterna allo Spirito. E' così
    mostrata l'umanità della storia nel senso più largo,
    nel senso inclusivo anche della storia della cosiddetta natura: come
    dell'uomo si può fare una storia naturale (esteriore e
    meccanizzata), così della natura si può fare una
    storia umana (interiore, cioè, e spiritualizzata). 
    
    L'opposizione tra natura e spirito è pertanto opposizione non
    tra due realtà, ma tra due metodi diversi d'investigazione
    della medesima realtà, dice Croce. Il metodo interno al
    reale, o della spiritualità e storicità del reale,
    è il metodo per il quale la storia, per remoti o remotissimi
    che sembrino cronologicamente i fatti presi a considerare, è
    sempre storia contemporanea, è sempre storia riferita al
    bisogno e alla situazione presente che la suscita e la crea: ecco
    perché "ogni storia è storia contemporanea", in quanto
    la ricerca sul passato è sempre frutto di interessi, domande,
    curiosità, che nascono dall'oggi. Ed è, insieme, il
    metodo per il quale ogni storia, per particolare che sia il problema
    preso in considerazione, è sempre storia universale, è
    sempre storia procedente dall'universalità del soggetto e
    comprendente nella particolarità di quel problema la
    totalità dello Spirito. 
    
    Il metodo invece esterno al reale, o della materializzazione e
    meccanizzazione del reale, è il metodo del giudizio
    classificatorio (produttore di pseudoconcetti), che, a differenza
    del giudizio storico (fondato sui concetti), dà d'una
    realtà oggettiva e resa estranea e delle infinite sue
    determinazioni una rappresentazione schematica, abbreviata secondo
    formule che non sono né vere né false ma sono solo
    utili ai bisogni della pratica. Si è pervenuti, per questa
    via, ad esaminare la sfera dell' attività pratica e,
    più precisamente, economica dello Spirito. E' la sfera nella
    quale, appunto, rientrano, secondo Croce, i "giudizi
    classificatori", che si son detti, e le scienze empiriche, che su
    quei giudizi si costruiscono. 
    
    Appare qui evidente l'influenza delle filosofie empiriocriticistiche
    (specialmente quella di Mach) per le quali, come si
    ricorderà, le leggi formulate dalle scienze sono solo
    espressione di economia di pensiero; ma è anche evidente che,
    diversamente da quelle filosofie e conformemente in qualche modo
    alle filosofie spiritualistiche francesi, il sapere scientifico,
    come totalmente estraneo all'attività teoretica, non è
    per Croce che una sorta di sapere inferiore, non è anzi alcun
    sapere affatto (dato che il vero o il solo sapere è quello
    filosofico). Con le scienze della natura, o con la considerazione
    naturalistica della realtà, rientrano anche nella sfera
    dell'economico, dell'utile, le altre attività pratiche dello
    Spirito: quali quelle del diritto, della politica, dell'economia in
    senso stretto. Sono le attività su cui Croce si è
    soffermato con particolare attenzione, per la viva influenza che ha
    esercitato su di lui (anche se volto a tutt'altro segno) il pensiero
    di Marx. 
    
    Come Marx, infatti, egli riduce a economia, a espressione
    dell'attività economica, il diritto e la politica; ma, in
    contrasto con Marx, da tale attività distingue, secondo la
    sua dottrina, e afferma come aventi propria assoluta autonomia
    così i valori morali (che stanno a quelli economici come
    l'universale all'individuale) come, e a maggior ragione, i valori
    del bello e del vero. 
    
    Si conclude così l'esame delle forme categoriali dello
    Spirito, che (per il nesso dei distinti) sono insieme congiunte in
    un procedimento circolare, per il quale la teoresi è
    condizione per la prassi e la prassi è condizione per la
    nuova teoresi, e così via nell'infinito procedere della
    realtà. Giacchè la realtà, come è noto,
    non è altro se non storia: storia intesa come pensiero e come
    azione, come libero esplicarsi e incessante progredire della vita
    attraverso il dispiegarsi delle forme o dei valori (teoretici e
    pratici) che sono ad essa immanenti.