Enciclopedia Europea,  vol. 3, pp.919-921

Benedetto Croce


(Pescasseroli, L'Aquila, 1866-Napoli, 1952) filosofo, storico e critico italiano.

Perduti i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola (1883), fu accolto a Roma dallo zio Silvio Spaventa, eminente uomo politico della Destra storica. Gli anni romani (1883-85) furono contrassegnati da uno stato d'animo di acuto sconforto e pessimismo, che lo indusse perfino a meditare il suicidio: stato d'animo ben diverso da quello del Croce «olimpico» (anche se non mai banalmente ottimista) della maturità. Iscrittosi con scarso entusiasmo alla facoltà di giurisprudenza, fu attratto soltanto dall'insegnamento vivo e anticonformista di Antonio Labriola, allora seguace della filosofia di Herbart.
Di condizione agiata, insofferente dell'ambiente accademico, rinunciò a laurearsi e, trasferitosi a Napoli che d'allora in poi divenne la sua vera patria, si dette a studi di erudizione storico-letteraria locale, fondando anche a tale scopo la rivista «Napoli nobilissima». I frutti di questi studi furono poi da lui stesso raccolti, insieme a saggi posteriori, in vari volumi, di cui il più significativo e il meno legato a interessi locali è La Spagna nella vita italiana durante la rinascenza (1914). Ma di tali studi sentì presto sazietà; il suo primo saggio filosofico, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (1893; ripubblicato in Primi saggi, 1918), lo mostra già orientato verso una radicale scissione tra scienza e storia e verso l'accentuazione, in quest'ultima, di aspetti intuizionistici (irripetibilità dell'evento storico, sottratto a ogni «legge»): erano idee già circolanti nella cultura europea: basti pensare a Dilthey e al suo concetto di «scienze dello spirito» nettamente contrapposte alle scienze naturali.

Intanto il Labriola, col quale aveva mantenuto i contatti, era divenuto marxista, e destò anche in Croce un interesse vivissimo, benché di breve durata e di dubbia profondità, per questo indirizzo di pensiero. Poco dopo (1896) s'iniziò il suo rapporto epistolare con Giovanni Gentile, che divenne presto stretta collaborazione, ma mise in luce fin dall'inizio (come risulta più chiaro da quando è stato pubblicato il loro carteggio giovanile) alcune forti divergenze di orientamento intellettuale. L'uno e l'altro intrapresero, in quello scorcio di sec. XIX in cui il «revisionismo» marxista era di moda, due revisioni, molto diverse tra loro, del pensiero di Marx; Croce lo ridusse a mero canone d'interpretazione storica, utile soprattutto a superare la storiografia puramente erudita e a rivalutare la concezione machiavellica della politica come forza e non come astratto moralismo; ma quella che per Marx voleva essere una critica della falsa democrazia borghese, in Croce divenne un'arma per attaccare la democrazia e l'umanitarismo «da destra», in nome di un liberalismo conservatore.

Riuniti questi scritti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica (1900), col quale s'illuse di aver liquidato una volta per tutte il marxismo teorico, Croce si volse a studi di estetica e di critica letteraria. Nella rivista «La Critica», fondata nel 1903 e durata fino alla fine della seconda guerra mondiale (in seguito uscirono, fino alla morte del Croce, i «Quaderni della Critica»), lasciò dapprima a Gentile gli argomenti filosofici e riservò a sé la critica letteraria (saggi su La letteratura della nuova Italia, raccolti poi in 6 volumi).

Aveva intanto pubblicato il suo libro più ricco d'influsso sulla cultura non soltanto italiana, l'Estetica (1902), che, concepita dapprima come trattazione a sé stante, divenne poi il primo dei 4 volumi della Filosofia dello spirito (II, Logica, 1908; III, Filosofia della pratica, 1908; IV, Teoria e storia della storiografìa, 1917).

L'arte è per Croce intuizione pura, che s'identifica con l'espressione individuale e irripetibile. L'estetica è tutt'uno con la linguistica generale filosoficamente intesa, giacché per Croce la lingua come sistema di segni e strumento di comunicazione collettiva non è che astrazione. Altrettanto inconsistente è, sul piano dell'espressione, la distinzione fra le varie arti (poesia, pittura, musica ecc.): esse si differenziano solo per l'estrinsecazione materiale. Cadono, del pari, tutti gli schemi della vecchia precettistica (generi letterari, figure retoriche ecc.). Che una tale estetica mettesse capo a una concezione dell'arte e dell'espressione linguistica come incomunicabile e priva di ogni storicità (Croce negherà infatti la possibilità di una storia letteraria se non come raccolta di saggi monografici), appare oggi ovvio. Ma non va dimenticata la funzione di dissoluzione di decrepite categorie retoriche, di lotta contro una critica letteraria ispirata a criteri moralistici o pedagogici, che l'Estetica allora esercitò. Tale funzione fece sì che Croce apparisse l'erede spirituale di De Sanctis, mettendo in ombra le radicali differenze tra l'uno e l'altro: basti pensare alla negazione crociana, già ricordata, della legittimità stessa di una storia della letteratura e alla profonda diversità tra i concetti desanctisiano e crociano di «forma» artistica.

Arte e filosofia, cioè intuizione e concetto, sono per Croce le due forme dello spirito teoretico: conoscenza dell'individuale l'una, dell'universale l'altra. A esse corrispondono le due forme dello spirito pratico: economia (volizione dell'individuale) ed etica (volizione dell'universale). Esse sono concepite come quattro categorie metastoriche, compresenti in ogni epoca. Croce accetta da Vico (La filosofìa di G.B. Vico, 1911) il concetto di «storia ideale eterna», ma nega ogni corrispondenza tra codesta successione ideale e la successione temporale di varie fasi della storia umana. In questo rifiuto egli si distingue anche da Hegel (in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofìa di Hegel, 1906; poi nel Saggio sullo Hegel, 1913): col vantaggio di evitare le forzature storiografiche a cui Hegel doveva ricorrere per «filosofizzare» la storia, ma con lo svantaggio di ricreare una frattura tra un platonismo delle categorie e un empirismo degli eventi storici, e di vanificare ogni problema di genesi (temporale e non meramente ideale) della civiltà umana.

Da Hegel Croce si discosta anche nell'integrare la dialettica degli opposti (male-bene, bello-brutto ecc.) con una «dialettica dei distinti» (i distinti sono appunto le quattro forme dello spirito già ricordate). Tale integrazione è un'eredità di Herbart, a cui Croce non volle mai rinunciare, anche per una vichiana riluttanza ad assorbire i momenti inferiori, prelogici, vitalistici dello spirito nei momenti superiori. Giusta esigenza, che però, se pensata coerentemente, avrebbe dovuto portare all'abbandono dell'idealismo e della metastoricità delle categorie, e alla rivalutazione dei concetti empirici. Se invece si rimaneva all'interno dell'idealismo, la critica di Gentile contro i «distinti» coglieva nel segno: Croce seppe opporle efficaci ritorsioni polemiche (accusa di «panlogismo»), non una vera risposta. Anche l'ultima teoria da lui escogitata per superare la staticità delle quattro categorie (teoria della «circolarità», per cui ciascuna, da forma, si fa materia della successiva) è poco più che una metafora: manca quell'elemento di non-autosufficienza di ciascun momento dello spirito, che in Hegel era costituito appunto dalla sua intrinseca contraddittorietà; manca sia una critica della dialettica hegeliana, sia una sua vera comprensione; ci si accontenta, piuttosto, di una soluzione eclettica.

Croce si vantò, non del tutto a torto, di avere «ucciso» il vecchio tipo del puro filosofo, assorto nei massimi problemi, incurante delle esigenze concrete del proprio tempo; sottolineò gli aspetti antiteologici del suo pensiero (alla cui diffusione contribuì anche la cristallina chiarezza della sua prosa veramente «classica»), si ascrisse a merito la rivalutazione delle due «scienze mondane», l'economia e l'estetica. Ma quali scienze più «mondane» delle scienze della natura, senza le quali il sorgere stesso della civiltà borghese e laica sarebbe impensabile? E invece qui Croce si rivelava arretrato anche sul piano dell'ideologo borghese: esponente di una borghesia ancora agraria, legata pur sempre a quella tradizione umanistico-letteraria che egli aveva ammodernato per meglio assicurarne la sopravvivenza.

Sia alle scienze sperimentali sia alla matematica Croce negò ogni valore conoscitivo: riconobbe agli «pseudo-concetti» scientifici solo il valore di «finzioni utili», relegandoli perciò nel momento economico dello spirito. Non si trattò solo di una discutibile presa di posizione filosofica, ma di una scelta politico-culturale grave, che ribadì il provincialismo della cultura italiana. Tanto più che l'atteggiamento antiscientifico (contrario a ogni processo di astrazione e di generalizzazione) si ripercosse anche sulle scienze umane: psicologia, sociologia, linguistica, filologia furono declassate a pseudo-scienze e aggregate anch'esse al «momento economico», che divenne un coacervo di ciò che non trovava posto nelle altre tre categorie.

Nominato senatore nel 1910, all'approssimarsi della prima guerra mondiale Croce fu neutralista; accettò tuttavia la guerra come una sorta di cataclisma naturale voluto da un'insindacabile Provvidenza, ma si rifiutò, in nome dell'universalità dell'alta cultura, di abbassare l'attività teoretica a strumento di propaganda bellicista. Nel primo dopoguerra l'antisocialismo e il disprezzo, cui si è accennato, della stessa democrazia borghese lo spinsero (dopo una breve partecipazione al governo Giolitti, nel 1920, come ministro dell'istruzione) a simpatizzare in un primo tempo per il fascismo, a favore del quale votò in senato ancora all'indomani del delitto Matteotti (1924). Poco dopo, le leggi eccezionali del 1925 e la subordinazione della cultura a interessi politici immediati, cui il fascismo sempre più tendeva, lo indussero a redigere un manifesto di opposizione, che fu firmato da molti intellettuali. Ciò comportò un'aperta rottura con Gentile, aspetto al quale si era da tempo manifestato un netto dissidio nel campo filosofico. Da allora egli mantenne una posizione di antifascismo non militante, ma fermo e dignitoso. Il grande prestigio della sua personalità intellettuale e i limiti che egli stesso pose alla propria opposizione al regime gli consentirono di godere di una certa libertà di espressione e lo preservarono da gravi persecuzioni.

Del fascismo non riconobbe mai la natura antiproletaria, i legami con la grande borghesia agraria e industriale; né volle mai rintracciare nella storia dell'Italia prefascista i germi del fascismo, il quale fu perciò, secondo lui, una «parentesi» nella vita del popolo italiano, una «malattia» senza antecedenti e senza conseguenze. L'antistoricità di una simile concezione non ha bisogno di essere sottolineata. Ciò non toglie che per molti giovani intellettuali, passati poi a un'opposizione assai più combattiva e a una riflessione più profonda sulle cause e la sostanza del regime mussoliniano, la lettura dei libri di Croce e specialmente della «Critica» abbia rappresentato l'iniziazione all'antifascismo.

Del resto, l'esperienza del fascismo indusse Croce a tentare almeno una maggiore problematizzazione del rapporto tra politica e morale, a mettere in ombra l'esaltazione del momento della «forza» e a concepire la libertà come l'essenza stessa della storia umana (questo concetto tutto interiore della libertà, tuttavia, portava Croce a svalutare l'esigenza dell'effettiva liberazione dell'umanità da concrete e storicamente determinate situazioni di oppressione, e a disconoscere, in particolare, l'inanità delle tradizionali libertà politiche se inserite in un quadro di permanenti diseguaglianze economico-sociali e in una struttura gerar-chico-repressiva della società). Tale orientamento alquanto mutato si nota sia in opere prevalentemente teoretiche, quali La storia come pensiero e come azione (1938) e Il carattere della filosofia moderna (1941), sia nella Storia della storiografìa italiana nel secolo XIX (1921), testo tuttora fondamentale, nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928) e nella Storia d'Europa nel secolo XIX (1932): in quest'ultima, in particolare, il concetto di «religione della libertà» veniva ad offuscare i condizionamenti storici del liberalismo ottocentesco e a disconoscere la necessità del momento precedente, di «rottura» violenta dell'ordine feudale (rivoluzione francese), affinché le stesse libertà borghesi potessero instaurarsi.

Nell'estetica i principali apporti, dopo la prima trattazione teorica, furono l'asserzione della «liricità» di ogni espressione artistica (in Problemi di estetica, 1910) e del suo carattere «totale» o «cosmico» (1913, poi nei Nuovi saggi di estetica, 1920), nonché il riconoscimento della validità, accanto alla divina poesia, della più modesta «letteratura» {La poesia, 1935); ma il rapporto tra questa «forma mista» di espressione e l'espressione artistica non fu mai chiarito teoreticamente da Croce in modo da non lasciar sussistere forti ambiguità.

Nella critica letteraria, dopo i saggi su autori italiani contemporanei già citati, vanno ricordati Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), La poesia di Dante (1921), Poesia e non poesia (1923), Poesia popolare e poesia d'arte (1933), Poesia antica e moderna (1941) e molte altre raccolte di saggi. In essi si avverte una forte sfasatura tra l'estetica della pura intuizione (che reca, nel bene e nel male, una netta impronta novecentesca, e dovrebbe giustificare teoreticamente perfino certe esasperate esperienze formalistiche e irrazionalistiche dell'arte europea del nostro secolo) e il gusto di Croce, fortemente condizionato da un moralismo vecchio-borghese e da un culto della «sanità» spirituale che lo portò, per esempio, a sopravvalutare il Carducci e lo rese invece estraneo alle più significative espressioni della letteratura e dell'arte del Novecento, inficiate di «decadentismo» e di «morbosità».

Inoltre, paradossalmente, la critica crociana, benché fondata su un'estetica della pura forma, finisce col trascurare tutti i problemi di linguaggio poetico, di stile, di ritmo, di strutture espressive, proprio perché tali problemi sono improponibili al di fuori di una considerazione del rapporto di continuità e, insieme, di innovazione tra la singola «creazione» individuale e le «istituzioni» letterarie tradizionali: negando o svalutando queste, si finisce col rendere irrilevante anche quella. Nel senso rigoroso del termine, quindi, la critica per Croce si riduce a un'operazione di sceveramento di ciò che, in un'opera d'arte, è poesia da ciò che è «altro dalla poesia» (enunciazione logica, discorso «esortatorio» a fini pratici ecc.) e che può giustificarsi soltanto come «struttura», cioè come supporto di quelle isolate folgorazioni poetiche. In un senso meno rigoroso, ma anche meno arido, è ammessa come compito della critica, accanto alla distinzione tra poesia e non poesia, la «caratterizzazione» della poesia: una caratterizzazione, tuttavia, non formale (per le ragioni che sono state dette sopra), ma solo contenutistico-psicologica (si veda in particolare La poesia, parte III, cap. III). E qui agisce nel giudizio estetico di Croce, spesso negativamente, quel suo odio contro ogni commistione di «teoretico» e «pratico», di «estetico» e «logico»: per cui viene disconosciuta la personalità unitaria di «poeti-pensatori» come Lucrezio o Leopardi, e a Dante stesso viene dedicato un libro inadeguato. Molto migliori i saggi su Ariosto, Goethe e su alcuni minori.

Caduto il fascismo, Croce fu per breve tempo presidente del Partito liberale e ministro nei governi Badoglio e Bonomi. Tentò invano di salvare la monarchia proponendo l'abdicazione di Vittorio Emanuele II e di Umberto di Savoia e l'assunzione al trono del figlio di Umberto con un consiglio di reggenza. Ostile al governo Parri e ai comitati di liberazione nazionale, si batté per affermare la continuità con le istituzioni statali prefasciste. Negli ultimi anni si riimmerse negli studi e fondò, nel Palazzo Filomarino da lui abitato a Napoli, l'Istituto per gli studi storici.

Per oltre un quarantennio Croce esercitò in Italia una vera dittatura culturale, che fu paradossalmente favorita dal fascismo stesso con la sua ostilità a ogni moto d'idee proveniente dall'estero. Il campo in cui egli ha avuto più scarsi e insignificanti seguaci è proprio la filosofia; grandissimo invece è stato l'influsso da lui esercitato su critici letterari e storici. Se alla metodologia della critica stilistica, rappresentata soprattutto da Leo Spitzer, rimase recisamente ostile, tuttavia i seguaci eterodossi, anche gli avversari (basti pensare a Gramsci), ne riconobbero e probabilmente ne sopravvalutarono la grandezza; ma a Gramsci, troppo sbrigativamente qualificato da alcuni come «marxista crociano», si devono alcune delle più acute critiche a Croce, specie per ciò che riguarda il disconoscimento del «momento giacobino» nell’ascesa della borghesia e la mancata comprensione della funzione degli intellettuali nella società.

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VITA

Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L’Aquila) il 25-2-1866, in una famiglia di proprietari terrieri, ricca ma molto conservatrice (era attaccata ancora ai Borboni!), e frequentò le scuole secondarie in un collegio di religiosi, anch’esso culturalmente chiuso. Nel 1883 villeggiò a Casamicciola (nell’isola d’Ischia), ed un terremoto durato 90 secondi gli uccise i genitori Pasquale e Luisa Sipari e la sorella Maria, rimanendo lui stesso “sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo”. Fu allora accolto a Roma dallo zio, il senatore Silvio Spaventa (famoso storico e fratello di Bertrando Spaventa, filosofo idealista che aveva tentato una riforma dell’Hegelismo): fu un gesto nobile da parte dello Spaventa anche perché era in rotta coi Croce, dal momento che questi, a causa del tradizionalismo a cui abbiamo accennato, gli avevano rimproverato un eccessivo liberalismo (e del resto i Croce si erano allontanati anche da Bertrando, perché apostata).

Nel salotto di Silvio, Benedetto incontrò importanti uomini politici ed intellettuali, tra i quali ad esempio Antonio Labriola (che allora era herbartiano), del quale frequentò le lezioni di filosofia morale all’università di Roma (anche se era iscritto a giurisprudenza a Napoli); Benedetto non finì gli studi universitari, non volendo conseguire titoli accademici, ma continuò comunque a studiare, trascurando inizialmente Hegel, poiché i libri che circolavano in casa Spaventa gli diedero l’idea ch’esso dovesse essere un filosofo quasi incomprensibile. Nel 1886 lasciò la “politicante società romana, acre di passioni”, e tornò a Napoli, dove comprò la casa nella quale aveva vissuto il filosofo Giambattista Vico; negli anni seguenti viaggiò in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra, ed aumentò l’interesse per la storia, grazie alle letture di Francesco De Sanctis (letture già iniziate durante gli studi ginnasiali, assieme a quelle del Carducci: De Sanctis e Carducci diventeranno per lui due punti fissi).

Nel 1895 Labriola (che intanto aveva abbandonato la filosofia di Herbart), col quale Benedetto aveva mantenuto il dialogo intellettuale, gli fece conoscere le idee del Marxismo, alle quali inizialmente il filosofo napoletano si interessò, studiando i saggi di Labriola, leggendo libri di economia, riviste e giornali italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e l’interesse si diresse così verso la politica; tra l’altro aveva espresso sul Marxismo, tra il 1895 ed il 1899, una “critica tanto più grave, in quanto voleva essere una difesa e una rettificazione del Marxismo stesso”, pensando egli che la società capitalista studiata da Marx non esistesse, né fosse mai esistita, ma gli interessi per il Marxismo fecero sentire al nostro il bisogno di risalire ad Hegel, al cui studio lo invitava anche il suo amico e filosofo Giovanni Gentile.

Col Gentile fondò, nel 1903, la rivista “La Critica”, il cui progetto era maturato nell’estate del 1902, ma l’amicizia col Gentile, che aveva conosciuto quando quest’ultimo era studente a Pisa, si ruppe quando quest'ultimo aderì al fascismo. “La Critica” fu pubblicata dal 1903 al 1944, ed il suo prestigio culturale ne rese impossibile al fascismo la soppressione: è noto che Mussolini chiese “Quante copie tira Critica?”, ed essendogli stato risposto “1500”, disse “allora lasciatelo stare”.

Nel 1910 Benedetto fu nominato senatore per censo e fu ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-21, nel quinto ministero Giolitti: elaborò anche una riforma scolastica, che non volle attuare per la propria non adesione al fascismo, ma essa fu comunque ripresa e realizzata dal Gentile nel 1923 (oggi quella riforma è infatti nota come “riforma Gentile”).

Nel 1914 sposò Adela Rossi, con la quale ebbe 4 figlie (Alda, Elena, Livia e Silvia).

Come s’è detto, Croce ruppe con Gentile in occasione della sua adesione al fascismo (ma già da tempo c’era forte dissenso tra i due): dopo l’avvento al potere di Mussolini ed il delitto Matteotti (1924) fu pubblicato il 1-5-1925 su “Il Mondo” (rivista liberale per la quale scrisse, nel 1950, la prefazione a “1984” di George Orwell, tradotto da Gabriele Baldini), in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Gentile, il suo “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti” (al quale aderirono Eugenio Montale ed Aldo Palazzeschi, e tra i matematici Leonida Tonelli, Ernesto e Mario Pascal, Vito Volterra, Giuseppe Bagnera, Guido Castelnuovo, Beppo Levi, Tullio Levi Civita, Alessandro Padoa, Giulio Pittarelli e Francesco Severi), scritto su invito di Giovanni Amendola, e smise di intervenire direttamente nella politica, attività che esercitò dopo la caduta del fascismo, essendo stato presidente del ricostituito Partito Liberale nel 1943-1947 (fu avverso al comunismo ma lodò il valore letterario di Gramsci), ministro nei governi Badoglio e Bonomi, membro dell’Assemblea Costituente e poi del Senato.

Alcuni accusano Benedetto di falso liberalismo, poiché fino al ‘25 aveva appoggiato il fascismo, vedendolo come mezzo per sconfiggere le forze della sinistra: fatto ciò, la classe liberale avrebbe potuto continuare a reggere lo Stato, con le mani pulite; ricordiamoci anche che al grido di “oro alla patria!”, quando lo Stato per sostenere il costo della guerra cambiava (a chi lo sceglieva) le fedi nuziali di oro con anelli di ferro, Croce donò la propria medaglia di senatore.

Dopo la firma dei Patti Lateranensi (11-2-1929), mostrò la sua contrarietà al Concordato tra Stato e Chiesa dicendo in Senato che “accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza”, nella sua replica Mussolini definisce Croce “un imboscato della storia”.

Nel 1946 fondò a Napoli (nel frattempo si era ritirato a vivere nel palazzo di Trinità Maggiore, che era appartenuto ai Filomarino) l’Istituto Italiano per gli studi storici, la direzione del quale venne affidata al prof. Federico Chabod.

Il tradizionalismo di Croce emerge nei suoi giudizi negativi verso i poeti simbolisti francesi: fu apertamente critico di Rimbaud e Valéry, come del resto lo fu verso Pirandello, D’Annunzio e Pascoli (espresse inizialmente perplessità verso il Decadentismo in generale, e le perplessità maturarono poi in decisa avversione): proprio per questo ci fu un lieve contrasto tra il Croce e Cesare Angelini, come racconta Angelini stesso ne “Gli uomini della Voce” (clicca qui se vuoi approfondire)

Nel 1949 fu colpito da un ictus cerebrale, che limitò le sue possibilità di movimento, ed il filosofo non uscì più di casa, dove continuava a studiare: fu colto dalla morte mentre era seduto in poltrona nel suo studio-biblioteca, il 20-11-1952.

PENSIERO FILOSOFICO

Dialettica: Benedetto riprende alcuni aspetti della filosofia di Hegel; innanzitutto concorda con Hegel nel dire che il pensamento filosofico è concetto (non intuizione o sentimento), universale (e non generale, come le nozioni delle scienze empiriche) e concreto (poiché riguarda la realtà). In questo modo Hegel riuscì a definire l’universale concreto come sintesi di opposti, “unità nella distinzione e nell’opposizione”; ha però, ad avviso di Benedetto, commesso tutta una serie di errori, che deriva da un unico errore, e cioè l’aver visto la realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano, mentre Benedetto precisa che esistono anche i distinti, e crea una sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti (come quella Hegeliana) e il nesso di distinti.

I distinti nella filosofia crociana sono fondamentalmente 4, e sono generati dalle 2 attività fondamentali dello Spirito (conoscitiva, o teoretica, e volitiva, o pratica) a seconda che si dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti (o categorie) sono la fantasia, l’intelletto, l’attività economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, non essendo opposti, mentre si sintetizzano, al loro interno, rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male (morale).

Arte: Benedetto afferma, nel Breviario di estetica, che “l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”, perché se non si sapesse nulla di essa non si potrebbe chiedere cosa sia l’arte, perché ogni domanda contiene in sé già delle informazioni sull’oggetto della domanda stessa. Il filosofo pensa che l’uomo abbia una precomprensione delle verità di fondo, e che la filosofia porti ad un livello di chiarezza critica queste precomprensioni; la differenza tra un buon filosofo ed una persona qualsiasi è che il filosofo pone le domande con maggiore “intensità”, e di conseguenza cerca di rispondere con maggiore intensità. L’arte viene definita come conoscenza intuitiva, e si identifica la stessa come espressione dell’intuizione: in questo modo Croce critica le persone che dicono di aver dentro di sé grandi idee, grandi intuizioni, ma di non riuscire ad esprimerle: in realtà queste persone non hanno dentro di sé ciò che dicono di avere, perché ciò che si intuisce, automaticamente e spontaneamente si esprime.

Questa intuizione artistica non è propria solo dei grandi artisti, dei geni, ma appartiene ad ogni persona, che sa ricreare e fruire della creazione del genio, infatti se non fosse così il genio non sarebbe un uomo, e del resto gli altri uomini non potrebbero capirlo. L’arte è anche libera di esprimersi, nel senso ch’essa non è subordinata a nulla, al piacere, all’utile, alla morale (non immorale, ma amorale: se anche rappresentasse situazioni oscene, rimarrebbe arte), questo perché essa è una forma di conoscenza, che è funzionale a sé, senza il problema della veridicità o meno di tale conoscenza perché l’intuizione artistica ha come oggetto un’immagine (non necessariamente corrispondente al vero). Ci sono, è vero, opere d’arte che tramandano valori morali, religiosi, filosofici (ecc.), ma essi non sono gli scopi dell’opera d’arte, sono solo parte integrante di essa: non viene negata all’artista la possibilità di esprimere determinati valori, ma si sottolinea come essi “integrino” l’intuizione artistica.

A proposito dell’arte come intuizione, il pensatore distingue l’espressione/intuizione dall’estrinsecazione dell’espressione: mentre il primo elemento è caratterizzato dal sentimento, il secondo riguarda delle tecniche, è quindi un’attività pratica; l’intuizione si ha grazie al sentimento, “rappresenta il sentimento, e solo da esso e sopra di esso può sorgere”, perciò il sentimento si identifica con la lirica (“l’arte è sempre lirica”): per Croce “lirica” ed “intuizione” sono sinonimi.

Altra precisazione crociana è che l’arte sia una sintesi a priori estetica, sintesi di sentimento ed immagine nell’intuizione: il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il sentimento è vuota; essi possono anche presentarsi distinti, ed in questo caso non si ha arte, che si può presentare come contenuto o come forma, lasciando sottintendere che “il contenuto è formato” e “la forma è riempita”, il sentimento è “sentimento figurato” e la figura è “figura sentita”. L’arte viene vista anche come sintesi di particolare ed universale, perché un artista opera partendo da determinazioni particolari, dando ad esse, mediante il proprio percorso interiore, valori, significati man mano meno immediati e soggettivi, più generali.

Si criticano anche le espressioni che definiscono i “generi”: i generi letterari non esistono, e le distinzioni che comunemente facciamo (comico, tragico, epico…) sono solamente schemi di comodo introdotti dall’intelletto che, classificando, compie un’operazione estranea all’arte, in quanto tale operazione appartiene alla logica; in questo modo viene anche a mancare la “bellezza fisica” (il “bello” appartiene all’estetica).

La personalità di un poeta scompare naufragando nel mare della poesia: “il poeta è nient’altro che la sua poesia”, la sua opera poetica (è sempre lo Spirito che agisce attraverso l’uomo); la linguistica è estetica, perché il linguaggio è espressione (come l’arte), creazione estetica.

Guardando l’attività di Croce, vediamo con assoluta chiarezza che è stato attento all’aspetto soggettivo-creativo della produzione artistica, ma non si è comportato allo stesso modo con le sue componenti, i suoi momenti tecnico-materiali, ed ha fatto la stessa cosa per determinate attività artistiche: la sua filosofia ha guardato all’arte in generale, ma non ha esaminato attentamente, per esempio, la musica, l’architettura… privilegiando l’attività letteraria. All’interno dell’attività letteraria ha continuato questa sua “politica”, valorizzando più di altri certi generi e stili, come la poesia (secondo Croce le espressioni non poetiche devono essere intese come “modi” di servirsi dell’unico vero linguaggio, che è quello poetico) e le produzioni con contenuto lirico, fantastico (al posto di quelle più razionali, concettuali); il simbolo della poesia per il nostro filosofo fu l’Ariosto, definito come poeta dell’“armonia” in “Ariosto, Shakespeare e Corneille”.

Infine sull’arte si deve ricordare che per Croce non sono possibili le traduzioni, “in quanto abbiano la pretesa di effettuare il travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido da un vaso in un altro di diversa forma. Noi possiamo elaborare logicamente ciò che prima abbiamo elaborato solo in forma estetica; ma non possiamo, ciò che ha avuto già la sua forma estetica, ridurre ad altra forma, anche estetica.” (da “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1904, II edizione).

Logica: si propone di studiare la struttura generale dello Spirito, ed in parte, quindi, ne abbiamo già parlato con la dialettica; essa viene definita anche “scienza del concetto puro”, che è l’universale concreto (come già detto, esso è razionale, universale e concreto), chiamato anche “trascendentale”, e guardandolo nella forma, esso naturalmente è unico (“non sussistono più forme nel concetto, ma una sola”), la forma teoretica universale dello spirito è una sola (la logica, appunto), e quando penso una varietà di concetti, è chiaro che si riferiscono ad altrettanti oggetti che vengono pensati in quella forma. C’è un’idea comune tra estetica e logica, infatti il concetto ha carattere di espressività, è quindi opera conoscitiva, opera espressa dello Spirito, ed essendo quindi il pensare anche esprimere, parlare, “chi non esprime o non sa esprimere un concetto, non lo possiede” (la stessa cosa accade, abbiamo già visto, per l’intuizione estetica).

Il concetto puro è diverso da una rappresentazione empirica (ad es.: “biancospino”, “gatto”, “matita”), ed anche dai concetti usati dalle scienze, che sono concetti astratti (ad es.: “cerchio”), e vengono definiti dal Croce come “pseudo-concetti”, poiché non hanno un elemento corrispondente nella realtà: gli pseudo-concetti si distinguono così in empirici e puri, entrambi sono privi di carattere logico, ma sono di grande utilità (organizzano le nostre esperienze ed aiutano la nostra memoria), perciò sono propri dell’Economia, ed a quest’attività pratica dello Spirito vengono ad appartenere tutte le scienze empiriche e matematiche.

Nella logica crociana concetto, giudizio e sillogismo vengono a coincidere, vediamo il perché: il giudizio è concetto puro, ed il “concetto stesso nella sua effettualità” è l’universale concreto; quando pensiamo un concetto, lo pensiamo nelle sue distinzioni, lo mettiamo in relazione cogli altri concetti e lo unifichiamo con essi “nell’unico concetto” (cioè in un’unica forma concettuale), e perciò si ha un sillogismo. Nell’ambito della logica c’è un’altra identificazione, quella tra giudizio definitorio (es.: “l’arte è intuizione lirica”) e giudizio individuale (es.: “l’Orlando furioso è un’opera d’arte”), poiché il giudizio individuale ci fa conoscere concretamente il mondo (e di conseguenza possedere), un giudizio, attribuendo un predicato ad un oggetto, lo valorizza come elemento partecipe della realtà.

È possibile dire che il giudizio definitorio è il predicato del giudizio individuale (se dico che l’Orlando furioso è un’opera d’arte, affermo che l’Orlando furioso è quello che si è definito per opera d’arte dando un giudizio definitorio, ed intanto dico anche che è intuizione lirica). Per questi motivi il giudicare è un atto logico che è sintesi a priori logica. Da ciò consegue che filosofia e storia coincidono (“non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si identificano”), perché la sintesi a priori è concretezza sia della filosofia che della storia, ed “il pensiero, creando se stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia”).

Ultimo aspetto della logica, la sua estraneità all’errore: per Croce l’errore infatti ha una natura pratica, non può appartenere alla conoscenza (che è assoluta, proprio perché è conoscenza), non corrisponde al conoscere, ma all’agire, appartiene non al pensiero ma alle azioni umane, che possono essere sbagliate; una persona quindi sbaglia quando, parlando, emette dei suoni “ai quali non corrisponde un pensiero, o, che è lo stesso, non corrisponde un pensiero che abbia valore, precisione, coerenza, verità”.

Economia: l’attività pratica dello Spirito, abbiamo già visto, non produce conoscenze ma azioni, e l’azione coincide con la volontà (già Kant…), poiché non c’è volizione senza azione, né azione senza volizione; quando noi desideriamo, vogliamo, aspiriamo, abbiamo un fine, e se questo fine è individuale, si ha un’attività economica. L’attività economica “vuole ed attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova”, ed in questa sfera rientrano gli pseudo-concetti e le scienze empiriche e matematiche, come detto precedentemente, ma anche il diritto, l’attività politica, la vita stessa dello Stato, che, come già Machiavelli aveva affermato, non ha una natura etica, ma utilitaria (e quindi, appunto, economica).

Vediamo meglio questi tre elementi: per quanto riguarda il diritto, apparentemente sembra contraddirsi il nostro pensatore, quando mette lo stesso nella sfera dell’economia e non in quella che ci pare più ovvia, quella dell’etica: ciò si spiega col fatto che per il nostro i valori del diritto non sono gli stessi valori della morale, avendo logica e fini diversi: quest’ipotesi viene avvalorata dal fatto che anche una società per delinquere ha una propria giuridicità (basti pensare ai patti tra criminali, od anche solo alle famiglie mafiose, che difficilmente hanno obiettivi etici).

La politica, invece, penso che appaia ad ognuno di noi del tutto naturale se messa nella sfera dell’economia: essa viene vista dal Croce come incontro/scontro tra interessi opposti, e questo scontro non sempre avviene secondo leggi etiche, ma piuttosto secondo leggi di forza, ma ciò non è visto negativamente, essendo simbolo di forza, vigore degli individui. Lo Stato si basa anch’esso non su un’Idea (astratta), ma sulla realtà (concreta), fatta di individui che con le proprie azioni stabiliscono, “producono”, leggi, istituzioni, strutture, usi, che riflettono le loro volontà.

Lo Stato è quindi il prodotto delle azioni di un insieme di persone, ed è dato dalle mediazioni forza/consenso e autorità/libertà, e di questi 4 elementi il filosofo valorizza quello dell’autorità, perché essa garantisce l’ordinato svolgersi della vita pubblica, e perciò critica l’ideologia democratica, i cui valori (libertà, uguaglianza, fratellanza) non sono certo negativi, ma forse un po’ troppo astratti.

È nell’economia che si riflette la vita dell’uomo, la sua natura, il “pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle cupidità, delle soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti, delle congiunte commozioni, dei piaceri e dei dolori”, ma non è un ambito irrazionale, essendoci un principio che vi opera: esso è l’utile (ed ha come opposto il dannoso). L’utile è visto come un valore positivo, anche se spesso si scontra con gli altri valori, ma è in virtù dell’utile che l’uomo organizza la propria vita e le proprie relazioni, così come fanno i gruppi di uomini (probabilmente gli studi sul marxismo l’hanno aiutato in questa elaborazione): mi sembra indiscutibile a questo punto che nella filosofia crociana ci sia una buona sintesi tra idealismo e realismo.

All’economia come la intendiamo oggi, scienza che si andava sviluppando proprio nell’epoca in cui visse il nostro filosofo, egli non guardò con molta simpatia, accusandola di produrre una conoscenza troppo astratta ed astorica.

Etica: è l’attività pratica dello Spirito che si verifica quando il fine che noi desideriamo è universale (quando è individuale è l’economia, come detto prima); questo universale è lo Spirito stesso, Realtà “come unità di pensiero e volere”; l’attività etica vuole ed attua ciò che corrisponde alle condizioni di fatto in cui una persona si trova, ma si riferisce a qualcosa che le trascende. L’uomo morale quando vuole l’universale (ciò che lo trascende come individuo) guarda “allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà”, in questo modo chi agisce trascende i propri interessi, che sono “particolari” (l’utile), per cogliere valori universali (il bene)

L’etica ha un carattere di totalità, perché l’agire secondo morale raccoglie e “sublima” dentro di sé le diverse istanze date dai diversi fattori che compongono la realtà individuale e sociale; l’ideale supremo di quest’etica è la Vita, che dà valore e sviluppa l’agire umano, infatti tutte le azioni degli uomini che siano conformi al dovere etico sono conformi alla vita, e se la deprimessero e mortificassero, sarebbero immorali.

Evidentissima la critica contro lo Stato che Giovanni Gentile definì sotto la voce “Fascismo” nell’enciclopedia Italiana Treccani, poiché esso viene visto come entità che ingloba in sé gli individui, che è artefice della legge (e fin qui Croce sarebbe d’accordo), e che è artefice anche della morale, ed in seguito il Gentile parlò anche di “Stato etico” (eredità di Hegel, filosofo dal quale anche Croce era partito, ma con conclusioni diverse, come abbiamo visto).

Storia: non è una delle 4 forme dello spirito, ma un altro “capitolo” della filosofia crociana. Abbiamo già visto come filosofia e storia coincidono, poiché (ripetiamolo) il pensiero autentico è pensiero dell’universale concreto, ed il giudizio definitorio coincide col giudizio individuale; da quest’uguaglianza deriva che qualsiasi realtà alla quale il giudizio storico si riferisce, nascendo quest’ultimo da un bisogno pratico (quello di risolvere i problemi della situazione presente), diventa attuale. Vediamo facilmente anche come la storia sia vera conoscenza del reale, una sintesi a priori tra intuizione e categoria; secondo il filosofo tutto è storia: tale teoria viene definita come “Storicismo assoluto”. Nulla sta al di sopra della storia, per cui non ci sono idee o valori eterni, e la storia non è mai “giustiziera”, ma sempre “giustificatrice”: uno storico deve solo conoscere e comprendere certi avvenimenti, senza giudicarli; questo potrebbe essere visto come una contraddizione del nostro pensatore, poiché condannò il fascismo (che è un evento storico).

Per Benedetto ciò che è reale è necessariamente razionale, ma afferma essere razionale anche l’imperativo morale: non giustificò mai il fascismo, ma lo lesse come “malattia morale”, una parentesi nella storia dell’Italia (espresse questa teoria sul New York Times nel novembre del 1943, la riprese in un discorso tenuto nel gennaio del 1944 a Bari, al I Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale, ed in un’intervista del marzo 1947). La storia, non potendo giudicare, non può né lodare né biasimare un evento: la lode od il biasimo riguardano un singolo nel momento in cui agisce, ma quando la sua azione è diventata evento, non può più essere giudicata. La storia, inoltre, non si deve discutere coi “se” (es.: “se Garibaldi non avesse organizzato la Spedizione dei Mille…”), perché essendo lo Spirito immanente alla storia, il “se” negherebbe il nesso logico e razionale dell’universale concreto; il “se” non deve riguardare nemmeno l’individuo singolo (“se non avessi fatto l’errore di…”), perché l’individuo è ciò che è, è se stesso, proprio perché ha compiuto ciò che ha compiuto.

La storia ha un effetto catartico: conoscendola, noi che siamo prodotti del passato (già i Decadentisti sottolineavano come l’uomo fosse risultato del passato e seme che germoglierà nel suo futuro), ci liberiamo da esso (già Goethe affermava che scrivere storia è un modo per toglierci dalle spalle il passato ed affrancarci da esso). La storia inoltre ha un carattere di positività, perché analizzando un evento storico si deve sempre captarne l’intimo senso e razionalità, per quanto negativo l’evento possa apparire. Nella storia, inoltre, c’è un nesso di pensiero ed azione, infatti la conoscenza storica stimola l’azione, ma è essa stessa stimolata dall’azione.

La nostra epoca presta minor attenzione alla dialettica crociana, e si concentra di più sullo studio degli altri aspetti della filosofia del Croce, una filosofia, direi, molto semplice da comprendere, leggendo gli stessi libri del nostro filosofo, scritti con un stile vivo e chiaro (si dice che pensasse in napoletano e poi traducesse le sue intuizioni sulla carta). Ci sono però degli effetti negativi nell’attività di Benedetto: la sua critica letteraria tenne l’Italia al di fuori delle novità che maturavano altrove, la sua svalutazione delle scienze della natura approfondì il solco tra cultura umanistica e cultura scientifica, e l’avversione alle scienze umane e sociali (perché cercavamo di “invadere” con metodi empirici il campo filosofico delle scienze dello spirito) ha ritardato lo sviluppo in Italia della linguistica moderna, della psicologia e della sociologia.

"Un sistema filosofico è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno di un lavorio, più o meno energico, ma assiduo di manutenzione, e che a un certo punto non giova più restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che, nell'opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall'antica, la quale, quasi per opera magica, perdura in essa. "

("Breviario di estetica")

INDICE

INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO

LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE

IL PENSIERO

INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO

L'indirizzo di cui Croce e Gentile sono espressione ha preso originariamente l'insegna del neo-hegelismo: è cioè l'indirizzo corrispettivo in Italia agli analoghi indirizzi di ritorno a Hegel che, marginalmente però ad altre correnti di pensiero, fiorivano tra l'Otto e il Novecento anche in altri Paesi. Per quanto riguarda nondimeno in particolare i due pensatori italiani, è più vivo e più accentuato in essi, rispetto a tutti gli altri, l'intento di operare una revisione critica innovatrice dell'hegelismo. E, ad onor del vero, dei due è più propriamente hegeliano Gentile, per essersi formato direttamente alla scuola, rigida e metafisicizzante, di Spaventa. Nipote di Spaventa, invece, Croce si è formato alla scuola del de Sanctis (risalendo, attraverso il de Sanctis, a Vico) e del Labriola (risalendo, attraverso il Labriola, a Herbart e a Marx), cosicchè alla diretta conoscenza del pensiero hegeliano egli è giunto (per influenza del suo stesso amico Gentile) solo in una fase giù matura (nel 1905) del suo sviluppo intellettuale.

Sia Croce sia Gentile hanno accolto del pensiero di Hegel il principio animatore: l'idea cioè dello Spirito come attività dialettica che si svolge nel ritmo di sempre rinascenti opposizioni. E' il principio per il quale la realtà è attività pensante, è Soggetto che si oggettiva e si naturalizza per tornare in se stesso fatto più altamente personale e più consapevole. Diversamente da Hegel, tuttavia, essi prescindono del tutto, nella loro speculazione, dai problemi della natura, ritenendo pertinenti alla vita dello spirito solo i problemi propriamente umani. Ne consegue che non si è avuta in Italia la polemica che invece divampò e fu assai vivace nel mondo culturale tedesco tra scienziati assertori del metodo sperimentale e hegeliani propugnatori d'una razionalistica e aprioristica interpretazione della natura. In Italia, al contrario, l'indifferenza di Croce e di Gentile per i problemi della scienza ha solo concorso (in virtù del peso culturale dei due personaggi) ad approfondire il solco tra ricerca scientifica e investigazione filosofica, a rendere estranea quella a questa e, di conseguenza, questa a quella.

Ne deriva dunque anche la crescente influenza ch'essi hanno esercitato nel campo letterario e nella vita politica del Paese: nel campo letterario hanno notevolmente innovato gli studi di estetica e di ricerca storica, giungendo per tale via a diffondere largamente tra le giovani generazioni del loro tempo il gusto e il modo della visione e della valutazione idealistica dei relativi problemi. Nella vita politica hanno esercitato un'influenza ancor maggiore e, soprattutto, ancor più differenziata: Croce s'è fatto espressione ideologica delle istanze liberali, Gentile è divenuto il filosofo e, al tempo stesso, il padre ideologico del fascismo.

LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE

La vita dei due filosofi si intreccia strettamente per una lunga serie dapprima di reciproci rapporti, successivamente di reciproci contrasti. Benedetto Croce, nato a Pescasseroli, in Abruzzo, il 25 febbraio 1866 da famiglia assai agiata e formatosi negli anni universitari a Roma presso il Labriola, si trasferì intorno all'86 a Napoli, dove visse da allora la sua lunga e operosa vita. Dalle iniziali ricerche di carattere erudito nel campo dell'arte e della storia egli passò ben presto all'indagine sulla natura stessa dei problemi di cui si era venuto occupando. Un primo tentativo di dare ad essi una sistemazione teoretica lo troviamo nel suo saggio giovanile "La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte" (1893): saggio nel quale, in polemica con la visione naturalistica dei positivisti, egli asserisce appunto che il conoscere storico dev'essere ricondotto sotto il concetto generale dell'arte, cosicchè gli eventi umani non sono, come i fenomeni fisici, soggetti a un principio meccanico di necessità, ma sono, come le figurazioni artistiche, espressione di una libera attività creatrice. Ciò che nondimeno resta indeterminato nel saggio è il concetto stesso di arte: ed è proprio su tale concetto che Croce, negli anni successivi, concentrò la propria attenzione.

Frutto di tali sue meditazioni fu la pubblicazione, avvenuta nel 1902, dell' "Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale". Da quest'opera, che è la prima grande opera crociana, egli trasse via via, come per sviluppo sempre maggiore di concetti già impliciti embrionalmente, le altre opere: la "Logica come scienza del concetto puro" (1909), la "Filosofia della pratica, economica ed etica" (1909), la "Teoria e storia della storiografia" (1917). Sono queste le opere che formano la tetralogia, in cui Croce ha dato trattazione organica di sistema al suo pensiero, alla sua Filosofia dello Spirito.

Ma, congiuntamente ad esse, egli pubblicò negli stessi anni una serie di saggi (sul materialismo storico, su Hegel, su Vico, ecc), traendo di volta in volta in tali saggi le conclusioni del suo dialogo ideale coi filosofi con cui era venuto direttamente o indirettamente a contatto per l'influenza del De Sanctis, di Labriola e di Gentile.

Proprio Gentile fu suo collaboratore per circa vent'anni nella rivista " La critica ", da lui fondata nel 1903 e diretta ininterrottamente per più di quarant'anni. Con " La critica " egli si foggiò lo strumento della più larga penetrazione nella vita culturale dell'Italia, orientando le giovani generazioni per lungo tratto di tempo così come prima dopo l'avvento del fascismo.

L'avvento del fascismo segna il progressivo distacco di Croce da Gentile, o, meglio, di Gentile da Croce: l'accentuato contrasto o atteggiamento critico di Gentile verso il pensiero di Croce e, più ancora, la diversa posizione da essi assunta nei confronti della dittatura fascista valsero a cambiare i loro rapporti di sincera amicizia in rapporti d'irriconciliabile inimicizia. Se, infatti, Gentile aderì pienamente al nuovo regime dittatoriale e soffocatore di ogni libertà e se ne fece anzi propugnatore, Croce, dopo un periodo d'incertezza e di cautissima adesione, si scostò da esso e decisamente gli si oppose, giocando contro il fascismo la carta di un liberalismo ormai tramontato definitivamente.

E bisogna riconoscere che Croce fu l'unico oppositore del regime a non essere brutalmente massacrato (come invece accadde a Gobetti) o indegnamente incarcerato (come accadde a Gramsci): gli fu anzi sempre riconosciuta la sua carica di senatore, forse anche in virtù del fatto che la sua era un'opposizione meramente teorica e che si appellava ad un liberalismo ormai incompatibile con la nuova temperie culturale e con la situazione in cui l'Italia versava; tanto più che il fascismo ci teneva a dimostrarsi un regime "aperto", pronto a dar voce agli oppositori.

Liberale conservatore, Croce vide dapprima nel fascismo un'utile e, come s'illudeva, temporanea forza di contenimento del movimento socialista, il quale, dopo il celebre "biennio rosso" (1918-1920), pareva avanzasse quasi a travolgere anche in Italia come in Russia le dighe della struttura borghese della società. Ma, trasformatosi il nuovo regime in dittatura permanente col colpo di stato del 3 gennaio 1925, le istanze liberali prevalsero sempre più nel suo animo e lo indussero, senza comunque smettere l'aspra polemica contro il socialismo (per il quale da giovane aveva pure simpatizzato), ad avversare senza più esitazioni il totalitarismo fascista: si accorse che il fascismo, seppur idoneo per tenere a bada gli appetiti socialisti e per conservare la società così com'era, non era uno strumento di cui ci si poteva servire solo quando faceva comodo per poi rimetterlo nel cassetto; viceversa, il fascismo era una malattia passeggera dello Stato, quasi una sorta di deviazione nel corso assolutamente razionale della storia: si trattava dunque, una volta terminata la parentesi fascista, di ritornare allo Stato liberale vigente prima dell'avvento della "malattia" fascista.

Il liberalismo di cui Croce si fece vessillifero fu, tuttavia, sempre di stampo conservatore, senza troppe aperture sul versante socialista: quando gli parlarono della possibilità di creare un liberal-socialismo, che coniugasse le istanze proprie del socialismo con quelle proprie della tradizione liberale (nella convinzione che la vera libertà è possibile solo in condizioni di uguaglianza sociale), Croce bollò questa iniziativa come "ircocervo", ovvero come fantasticheria inattuabile. Croce, poi, rispose al manifesto con cui Gentile aveva raccolto l'adesione al fascismo da parte di alcuni intellettuali fascisti (tra cui Pirandello) con un manifesto di vibrante protesta firmato da un mare magnum di intellettuali antifascisti (tra cui ricordiamo Antonio Banfi).

In questa seconda fase della sua vita Croce venne pertanto gradatamente accentuando il suo interesse speculativo per il problema politico (che aveva fin da allora considerato con un certo distacco), per il problema di un più intimo nesso tra il pensiero e l'azione, per il problema della libertà (centrale in Hegel). Frutto di tali sue nuove meditzioni è la pubblicazione in questo periodo di una serie di scritti, di cui meritano di essere menzionati, per la grande risonanza che ebbero e per la larga efficacia educativa che esercitarono sui giovani di allora, la "Storia d'Italia dal 1871 al 1915" (1928), la "Storia d'Europa nel secolo XIX" (1932), " La storia come pensiero e come azione " (1938). Sono gli scritti nei quali la nozione di libertà è, secondo la stessa espressione crociana, innalzata a "religione della libertà" e identificata con lo Spirito nel suo dispiegarsi.

La definizione molto vaga (e pressochè mistica) del problema della libertà doveva rivelarsi nondimeno, per l'istanza morale da cui procedeva, strumento efficace di educazione antifascista, finchè il fascismo imperò nel Paese; e anche, caduto il fascismo, continuò a ispirare in qualche modo le nuove generazioni nella loro azione per la ricostruzione del Paese, ma impregnandosi via via di nuove e più concrete istanze, in virtù delle quali non pochi degli antichi discepoli di Croce finirono col prendere, un poco alla volta, altre vie. Croce sopravvisse all'avversato regime: con la caduta di esso, però, riprese con rinnovato vigore, nella mutata condizione culturale determinatasi nel Paese, la polemica contro il marxismo.

Si spense nel 1952, circondato dalla generale stima per quel che il suo nome aveva significato, per circa cinquant'anni, nella vita culturale della penisola. Egli fu una delle menti più poliedriche e versatili che il Novecento ricordi.

IL PENSIERO

Croce è, secondo la sua stessa definizione, il "filosofo dei distinti": nella sua revisione della dialettica hegeliana, infatti, egli ha scoperto che l'errore precipuo di essa sta nel confondere insieme concetti puri e concetti empirici da un lato, momenti opposti e momenti distinti dall'altro lato. E in realtà altra cosa sono, egli dice, i concetti puri (o categorie filosofiche), che concernono le forme fondamentali dell'attività dello spirito; altra cosa sono i concetti empirici (o pseudoconcetti), che risultano da pure generalizzazioni e classificazioni, utili ai bisogni della pratica, ma destituite di ogni verità. Solo i concetti puri sono, nel senso hegeliano dell'espressione, universali concreti; solo per mezzo di essi è dato concepire la realtà spirituale (che è la sola realtà e la sola universalità) nella sua concretezza, nel suo concreto dispiegarsi o procedere secondo il movimento dialettico che le è proprio. Gli pseudoconcetti , invece, sono o universalità senza concretezza (come le astrazioni matematiche) o concretezza senza universalità (come le empiriche e sempre mutevoli classificazioni delle scienze naturali).

Il vizio della filosofia hegeliana della natura, ed in parte anche di quella dello Spirito, risiede pertanto, secondo Croce, nell'aver voluto includere nel procedimento dialettico molti concetti empirici che, come determinazioni irrigidite e astratte, non sono per questo stesso motivo suscettibili di mediazione, di sintesi. Ma, per quel che riguarda i concetti puri, nell'ambito solo di ciascuno di essi, è valido il procedimento dialettico degli opposti, afferma Croce: il procedimento per il quale i termini dell'opposizione si risolvono nella sintesi, perdendo in essa ogni loro esistenza distinta. Nei loro reciproci rapporti, invece, i concetti puri non si risolvono l'uno nell'altro, ma restano sempre distinti l'uno dall'altro: vale per essi un diverso principio di unificazione filosofica. Ecco perché Croce sdoppia l'unica dialettica hegeliana in una dialettica degli opposti e in una dialettica dei distinti: l'errore di Hegel, infatti, consiste, stando a Croce, nell'aver esteso indebitamente la dialettica degli opposti ai distinti, cioè ai concetti puri o alle forme categoriali dello Spirito: “Hegel non fece, fra teoria degli opposti e teoria dei distinti, la distinzione importantissima, che io mi sono sforzato di dilucidare. Egli concepì dialetticamente, al modo della dialettica degli opposti, il nesso dei gradi; e applicò a questo nesso la forma triadica, che è propria della sintesi degli opposti. Teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono per lui tutt’uno” ( “Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel”, cap. IV).

Il vero precursore della dialettica dei distinti è da Croce ravvisato, più che in Hegel, in Vico: secondo Croce, tra le forme dell’attività spirituale si svolge l’eterno processo, che Vico aveva chiamato “storia ideale eterna”; queste forme, infatti, sono eterne, ma si sviluppano e manifestano di volta in volta arricchite di nuovi contenuti. Pubblicato come volume autonomo nel 1906, il saggio “Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel” (tradotto presto anche in francese e in tedesco) è emblematico a partire dal titolo: esso simboleggia l’atteggiamento con cui Croce guarda ai filosofi del passato per trarne alimento al proprio pensiero e, in particolare, con cui si rapporta a Hegel.

Questi, secondo il filosofo abruzzese, ha fatto oggetto del suo pensiero “non solo la realtà immediata, ma la filosofia stessa, contribuendo per tal modo a elaborare una logica della filosofia”. Contro ogni filosofia meramente individuale fondata su una conoscenza immediata, egli ha rivendicato la centralità del metodo della filosofia e della teoria di questo metodo. Nell’affrontare questo problema, Hegel ha individuato l’importanza della dialettica degli opposti, come motore del processo della realtà e del pensiero, ma ha commesso l’errore di estendere questa forma di dialettica anche al rapporto fra le forme dell’attività spirituale. Su questo punto, Croce non può più seguirlo, sicchè la coscienza moderna, a suo avviso, si troverebbe di fronte a Hegel come il poeta latino di fronte alla sua donna, quando affermava “nec tecum vivere possum, nec sine te”.

E in realtà bello e brutto, vero e falso, utile e dannoso, bene e male sono realmente termini opposti tra loro: vale per essi il principio hegeliano secondo cui il termine positivo (il bello, ad esempio) non ha vita se non trionfando sul negativo (il brutto). Nell'ambito di ciascuna di queste coppie di opposti dunque ogni termine ha significato solo nell'altro e per l'altro (chi prende il vero senza il falso, il bene senza il male, fa del vero qualcosa di non pensato - perché pensiero è lotta contro il falso - e quindi qualcosa di non vero; del bene qualcosa di non voluto - perché volere il bene è negare il male - e quindi qualcosa di non buono): al di fuori della loro sintesi, che sola è reale, gli opposti non sono, in conclusione, che delle vuote astrazioni. Ma lo stesso non può dirsi di ciascuno dei termini positivi che si son sopra elencati (il bello, il vero, l'utile, il bene): nei loro rapporti, infatti, essi non si annullano l'uno nell'altro, ma si armonizzano l'un con l'altro. Sicchè il vero non sta al falso nello stesso rapporto in cui sta al buono, il bello non sta al brutto nello stesso rapporto in cui sta alla verità filosofica: bello e vero, vero e bene sono invece tra loro in un nesso di gradi, per il quale bello, vero e bene sono forme distinte e insieme unite.

Questa unità-distinzione è il nesso, è la dialettica dei distinti o, meglio, la dottrina dei gradi dello Spirito. Per essa, lo Spirito si distingue in due gradi teoretici (mediante cui l'uomo vede, comprende le cose) e in due corrispondenti gradi pratici (mediante cui l'uomo muta, crea le cose).

Le forme proprie dei due gradi teoretici sono quella, estetica, dell'intuizione o della visione-espressione dell'individuale e quella, logica, della concezione dell'universale. Le forme proprie dei due corrispondenti gradi pratici sono quella, economica, della volizione del particolare e quella, morale, della volizione dell'universale. Ne deriva che, come si è venuto chiarendo, le quattro forme fondamentali dello Spirito sono: quella estetica del bello, quella logica del vero, quella economica dell'utile, quella morale del bene. All'infuori di tali forme non vi sono altri concetti puri, non vi sono altri valori in cui o mediante cui si esplichi l'attività dello Spirito.

Evidente è, nella loro determinazione, l'influenza che, attraverso Labriola, hanno esercitato su Croce la triade herbartiana, per un verso, dei tre supremi valori del vero, del bene e del bello e la concezione di Marx, per l'altro, del valore assoluto dell'attività economica: i quattro valori, fusi in unità di sistema, sono gli elementi costitutivi del pensiero crociano.

Il rapporto tra queste quattro forme dello Spirito è tale che il passaggio, nell'attività teoretica, al grado superiore della concezione dell'universale può avvenire solo attraverso il grado inferiore dell'intuizione dell'individuale: nel senso che la logica, in quanto produttrice di concetti, implica l'estetica, mera produttrice di intuizioni (non può esservi concetto senza intuizione) e non viceversa (cosicchè può esservi intuizione senza concetto).

E, in modo corrispettivo, il passaggio, nell'attività pratica, al grado superiore della volizione dell'universale può avvenire solamente attraverso il grado inferiore della volizione del particolare: nel senso appunto che anche per l'attività pratica vale il criterio che la morale implica l'economia (non può esservi azione morale senza la consapevolezza che l'ideale etico rappresenta il grado più alto di utilità), non viceversa (sicchè può esservi azione volta al perseguimento del mero vantaggio individuale, del tutto scevra di preoccupazione morale). E le due attività teoretica e pratica sono, infine, anch'esse legate l'una all'altra in modo tale che la prima è presupposto e condizione del dispiegarsi della seconda (l'agire è un agire secondo ragione, secondo conoscenza); e la seconda, a sua volta, è presupposto e condizione dell'ulteriore dispiegarsi della prima (per ciò che diventa materia di nuova intuizione, di nuova conoscenza).

E' così che, secondo Croce, il ciclo teoretico-pratico si rinnova eternamente ed eternamente si arricchisce, nell'incessante svolgersi e crescere su se stesso della realtà spirituale. Di conseguenza, per la circolarità della vita spirituale appena illustrata, le quattro sue forme s'implicano a vicenda: si affermano tutte insieme nella loro positività e nella solidarietà che le lega e le fa compresenti in ogni singolo momento della vita dello Spirito. In questo propriamente consiste il rapporto di unità-distinzione: rapporto per il quale le quattro forme categoriali sono distinte nell'unità dello Spirito o (il che è la stessa cosa) lo Spirito è uno nella distinzione delle sue forme.

Ora, passando ad esaminare il modo di esplicarsi delle singole forme, la prima forma dello Spirito teoretico è l' arte , la conoscenza intuitiva. L'arte è, cioè, visione-espressione di un'immagine contemplata per sé, senza che ci si chieda se essa sia corrispettiva o meno a una realtà oggettiva o che si tenti di determinare la natura della realtà di cui è espressione: essa è, perciò, solo conoscenza intuitiva, non conoscenza concettuale del contenuto della vita dello Spirito. E, oltre a non essere conoscenza concettuale, l'arte, a maggior ragione, in quanto forma teoretica, non è né atto utilitario, né atto morale: non è, cioè, né determinazione dell'utile, né in dipendenza di un fine morale. Ciò che conferisce unità e significato all'intuizione artistica è il sentimento: non il sentimento immediato, nella sua tumultuosa passionalità, bensì il sentimento mediato e, per così dire, trasfigurato, elevato a pura forma, a pura immagine, a pura espressione. Ciò equivale a dire che l'arte è intuizione lirica, è sintesi a priori di sentimento e di immagine, è unità indissolubile di contenuto (il sentimento) e di forma (l'immagine, l'espressione).

Ne deriva che per Croce l'arte, in quanto intuizione di un sentimento, di un contenuto di vita, si identifica con l'espressione stessa di quel sentimento, di quel contenuto di vita: l'intuizione è la stessa espressione, l'espressione è la stessa intuizione. E da tale identificazione deriva anche, secondo Croce, l' identificazione di linguaggio e di poesia : è questo il motivo in parte tratto dalle dottrine del Romanticismo e, più ancora, dalla viva esperienza critica del De Sanctis e, attraverso il De Sanctis, dalla filosofia di Vico; ed è questo il motivo per il quale il linguaggio non è un segno convenzionale mediante cui gli uomini comunicano tra loro, ma è espressione viva, immagine spontaneamente prodotta dalla fantasia, dallo Spirito. Con l'identificazione di linguaggio e di poesia si spiega l'universalità dell'arte: il linguaggio poetico, quali che siano i modi tecnici (del suono, del colore, ecc) attraverso cui è espresso, è il linguaggio stesso degli uomini; quindi ogni uomo ha il potere di aprirsi una suggestione dell'arte, di rivivere in sé, contemplandola, l'opera d'arte, in qualsiasi tempo o luogo sia stata creata.

Altra considerazione relativa all'arte è che, risolto il concetto di arte in quello di intuizione lirica, è negata da Croce ogni validità alla tradizionale dottrina dei generi letterari: alla dottrina che, come dice, è del tutto estranea al problema estetico ed è solamente espressione del bisogno pratico (economicistico, classificatorio) dello Spirito e, di conseguenza, è solamente costruttrice di preconcetti.

All’estetica Croce dedica l’opera “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”: essa (che è l’opera che diede immediata celebrità a Croce) è lo sviluppo di una memoria che il filosofo aveva letto in tre sedute, all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Croce individua i caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione, però, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che questo aspetto rientra nell’attività pratica dello Spirito, non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte.

Curioso è il metodo impiegato da Croce: egli procede alla determinazione dei significati dei concetti mediante negazioni e distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini o opposti. “La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. […] Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? E’ un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. […] I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. […] Noi non possiamo volere o non volere la nostra visione estetica: possiamo, bensì, volerla o no estrinsecare, o, meglio, serbare e comunicare o no agli altri l’estrinsecazione prodotta.” (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I).

Croce impiega una procedura dicotomica, distinguendo le due forme possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di proprietà; da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia entità singole, e dà luogo alla produzione di immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (cui Croce dedicherà una trattazione apposita, la “Logica come scienza del concetto puro”), che avviene mediante l’intelletto, ha per oggetto l’universale, cioè le relazioni tra le cose, e dà luogo alla produzione di concetti. Contro la tradizionale subordinazione della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo l’autonomia e la dignità di essa.

In campo estetico, Croce mostra una netta chiusura verso l’allora trionfante decadentismo: esso è, ai suoi occhi, una grave malattia, una mancanza di sincerità, poiché con esso si crede e non si crede, si annega la confusione mentale in un mare magnum di parole altisonanti e suadenti che suggestionano, si creano miti nei quali si finisce per credere troppo. In altre parole, la cultura del decadentismo è un’offesa che l’uomo di cultura conduce contro i suoi lettori; la stessa nascita della dittatura fascista è da Croce, per alcuni versi, letta come produzione estrema del decadentismo: per usare le sue stesse parole, è “ un’industria del vuoto ”, che si adopera per non produrre nulla.

La poesia, secondo Croce, non è tale in quanto dice belle cose imbevute di patriottismo (com’era per D’Annunzio): la vera poesia non è propagandistica, ma è intuizione pura, rappresentazione alimentata da un forte sentimento individuale in cui l’artista realizza una perfetta ed armoniosa fusione fra contenuto e forma: tipico esempio è la figura di Polifemo, che rappresenta in modo impeccabile la forza bruta. D’Annunzio è, del resto, secondo Croce il “ padre spirituale ” del nazionalismo italiano: il poeta e soldato, la cui sola musa fu la violenza, è un mistificatore del pensiero di Nietzsche, dice Croce, e ciò è perfettamente espresso nella frase crociana “letto che ebbe qualcosa del Nietzsche”, con cui sottolinea come D’Annunzio fosse andato incontro a colossali fraintendimenti del pensiero nietzscheano, in buona parte dovuti al fatto che l’aveva letto in modo non sistematico. Dal primo momento (appena descritto) dello spirito teoretico si passa, nel sistema crociano, al secondo momento, che è costituito dal pensiero logico .

Come l'arte è conoscenza dell'individuale, così il pensiero logico è pensamento dell'universale; e, per il principio dell'implicazione dei distinti, il pensamento dell'universale è unità di universale e d'individuale, di concetto e d'intuizione. Come tale, il pensiero logico è rapporto di soggetto (ossia di un fatto, quale che esso sia) e di predicato, è determinazione della particolarità del fatto (che si è intuito) nell'universalità del concetto (di cui lo si predica): è, in fin dei conti, giudizio su singole realtà di fatto. E, giacchè il giudizio sulle singole realtà di fatto è giudizio sui fatti nel loro farsi (per la ragione che fatti che non si facciano, che non diventano, o fatti per così dire immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà), evidente è che tale giudizio è e non può essere che un giudizio storico. Ne consegue che il pensiero logico è, in quanto tale, un pensare storico: proprio in ciò risiede la tesi portante della " Logica " e, anzi, di tutta l'opera crociana.

E' la tesi per la quale la filosofia, scienza dei concetti, si identifica con la storia, scienza dei giudizi: ecco perché Croce può asserire che "i veri filosofi, se ne avvedessero o no, non hanno mai fatto altro che rinvigorire e raffinare i concetti per far sì che meglio si intendano i fatti, cioè la realtà, cioè la storia"; è dunque necessario, per usare le stesse parole impiegate da Croce, rendere "filosofica la storia, ma nell'atto stesso storica la filosofia, e indirizzandola a non altro che a risolvere i problemi che il corso delle cose propone sempre nuovi".

Questa identità tra filosofia e storia implica un approfondimento storico dei problemi della filosofia e, insieme, un approfondimento filosofico della storia, cosicchè la storia non si compendia in un'arida registrazione e giustapposizione di nudi fatti individuali, ma in un'interpretazione e connessione mentale di essi, per cui il loro svolgimento coincide con lo sviluppo stesso della vita dello Spirito: e poiché lo Spirito è pura razionalità, allora la storia (come già aveva sottolineato Hegel) procede in modo assolutamente razionale. L'identità della filosofia con la storia rappresenta, di conseguenza, per Croce un'istanza decisiva contro la vecchiaia e, possiam dire, teologica filosofia della storia, che avanzava la pretesa di compendiare in astratti schemi e di predeterminare le leggi del divenire storico: il divenire storico, viceversa, ha in se stesso, e non fuori né al di sopra, la norma e la misura dei suoi valori.

Ma, identificata la filosofia con la storia e intesa la storia come una realtà piena dello Spirito, ne consegue anche che l'idea di una scienza distinta ed autonoma che si occupi di problemi "massimi" ed "eterni" è un'idea antiquata (che non ha più ragion d'essere) della filosofia, dovuta alla sopravvivenza in essa delle vecchie sue forme metafisicizzanti. L'idea adeguata della filosofia è invece, nella prospettiva di Croce, quella per la quale essa diviene un semplice momento trascendentale della conoscenza storica, sicchè il suo solo compito è di apprestare alla conoscenza storica le categorie della sensibilità del reale. Ne deriva che la filosofia è, come dice Croce, il mero momento metodologico della storiografia, la mera delucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici; e poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello Spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (quali sono appunto le forme in cui si estrinseca) e in questa varietà delle sue forme è pur una, la delucidazione delle categorie storiche si muove secondo la distinzione dell'estetica e della logica, dell'economia e dell'etica, e le congiunge tutte nella filosofia dello Spirito: questa tesi Croce la esprime in "Teoria e storia della storiografia" e, più particolarmente, in "La storia come pensiero e come azione".

In questa concezione, tuttavia, vi è qualcosa di più della mera identità tra la filosofia e al storia: la filosofia, infatti, negata come scienza a sé stante e considerata come categoria della storia, finisce col trovare solo in quest'ultima il suo inveramento, finisce cioè col risolversi integralmente nella storia. E' così che Croce è via via pervenuto al pieno capovolgimento della posizione iniziale del suo pensiero di fronte al problema storico: dalla considerazione iniziale della storia come arte (nel saggio giovanile "La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte") a quella che ne fa una forma di realtà autonoma, inferiore alla filosofia, a quella dell'identità e reciprocità piena con la filosofia, infine a quella dell'integrale risoluzione della filosofia nella storia come " storia pensata ", egli ha, come si vede, descritto un ciclo evolutivo, parallelo all'evolversi stesso e all'arricchirsi progressivo del suo pensiero.

Ecco perché si è soliti definire la filosofia di Croce come la "filosofia dello storicismo assoluto". Per essa, infatti, tutta la realtà è Spirito, tutta la realtà è storia: anche ciò che chiamiamo natura è processo storico, è processo spirituale che abbiamo, nondimeno, distanziato così tanto che, per il fatto che ci limitiamo a considerarne le manifestazioni sommariamente e dall'esterno, ci sembra che siano manifestazioni di una realtà meccanica e quasi esterna allo Spirito. E' così mostrata l'umanità della storia nel senso più largo, nel senso inclusivo anche della storia della cosiddetta natura: come dell'uomo si può fare una storia naturale (esteriore e meccanizzata), così della natura si può fare una storia umana (interiore, cioè, e spiritualizzata).

L'opposizione tra natura e spirito è pertanto opposizione non tra due realtà, ma tra due metodi diversi d'investigazione della medesima realtà, dice Croce. Il metodo interno al reale, o della spiritualità e storicità del reale, è il metodo per il quale la storia, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti presi a considerare, è sempre storia contemporanea, è sempre storia riferita al bisogno e alla situazione presente che la suscita e la crea: ecco perché "ogni storia è storia contemporanea", in quanto la ricerca sul passato è sempre frutto di interessi, domande, curiosità, che nascono dall'oggi. Ed è, insieme, il metodo per il quale ogni storia, per particolare che sia il problema preso in considerazione, è sempre storia universale, è sempre storia procedente dall'universalità del soggetto e comprendente nella particolarità di quel problema la totalità dello Spirito.

Il metodo invece esterno al reale, o della materializzazione e meccanizzazione del reale, è il metodo del giudizio classificatorio (produttore di pseudoconcetti), che, a differenza del giudizio storico (fondato sui concetti), dà d'una realtà oggettiva e resa estranea e delle infinite sue determinazioni una rappresentazione schematica, abbreviata secondo formule che non sono né vere né false ma sono solo utili ai bisogni della pratica. Si è pervenuti, per questa via, ad esaminare la sfera dell' attività pratica e, più precisamente, economica dello Spirito. E' la sfera nella quale, appunto, rientrano, secondo Croce, i "giudizi classificatori", che si son detti, e le scienze empiriche, che su quei giudizi si costruiscono.

Appare qui evidente l'influenza delle filosofie empiriocriticistiche (specialmente quella di Mach) per le quali, come si ricorderà, le leggi formulate dalle scienze sono solo espressione di economia di pensiero; ma è anche evidente che, diversamente da quelle filosofie e conformemente in qualche modo alle filosofie spiritualistiche francesi, il sapere scientifico, come totalmente estraneo all'attività teoretica, non è per Croce che una sorta di sapere inferiore, non è anzi alcun sapere affatto (dato che il vero o il solo sapere è quello filosofico). Con le scienze della natura, o con la considerazione naturalistica della realtà, rientrano anche nella sfera dell'economico, dell'utile, le altre attività pratiche dello Spirito: quali quelle del diritto, della politica, dell'economia in senso stretto. Sono le attività su cui Croce si è soffermato con particolare attenzione, per la viva influenza che ha esercitato su di lui (anche se volto a tutt'altro segno) il pensiero di Marx.

Come Marx, infatti, egli riduce a economia, a espressione dell'attività economica, il diritto e la politica; ma, in contrasto con Marx, da tale attività distingue, secondo la sua dottrina, e afferma come aventi propria assoluta autonomia così i valori morali (che stanno a quelli economici come l'universale all'individuale) come, e a maggior ragione, i valori del bello e del vero.

Si conclude così l'esame delle forme categoriali dello Spirito, che (per il nesso dei distinti) sono insieme congiunte in un procedimento circolare, per il quale la teoresi è condizione per la prassi e la prassi è condizione per la nuova teoresi, e così via nell'infinito procedere della realtà. Giacchè la realtà, come è noto, non è altro se non storia: storia intesa come pensiero e come azione, come libero esplicarsi e incessante progredire della vita attraverso il dispiegarsi delle forme o dei valori (teoretici e pratici) che sono ad essa immanenti.