Silvio Suppa

Augusto Del Noce di fronte al marxismo. La lettura di Antonio Gramsci.*



    1.    Il moderno; ovvero pensiero e politica. Descartes e Machiavelli

Il rapporto fra Augusto Del Noce e il marxismo, è stato più volte analizzato, anche perchè ha certamente rappresentato una delle esperienze più dense di contenuti e problemi, nell’arco dell’intero dibattito politico-filosofico sul Novecento italiano1. Cercherò non già di ripercorrere tale rapporto nella sua interezza, nè di attraversarlo in tutto il suo spessore. Il marxismo qui ci interessa in quanto premessa, segmento teorico preliminare, alla successiva lettura che Del Noce fa degli scritti di Antonio Gramsci. Questa, d’altro canto, non sarebbe interpretabile senza mettere a punto alcuni elementi della critica che il nostro autore rivolge al marxismo, soprattutto in riferimento al nesso pensieropolitica, così fortemente influenzato dai risvolti pratici della filosofia di Marx.

È parere consolidato che la produzione teorica di Del Noce non risenta immediatamente delle suggestioni dell’impegno politico militante. Egli, quindi,  giustamente non viene considerato alla stregua di un protagonista di ‘battaglie’ politiche, o di schieramenti banalmente ideologici. Tutta la sua produzione intellettuale, insomma, non può essere ricondotta a esigenze di ‘frontiera’, anche se essa ha dato vita a frequenti interventi di stampo giornalistico e ad appassionate manifestazioni di punti di vista non certo solo testimoniali. Tuttavia, la sua sensibilità, attentissima alle questioni di ‘ordinamento’ del mondo e di scelta dei valori, è carica di contenuti più ampiamente politici. Pertanto, pensiero e politica, evitando di esaurire sbrigativamente questa sintesi nel suo precipitato ideologico e, perciò, più facilmente falsificabile, rappresentano le due grandi sponde fra cui scorre l’esperienza morale di Augusto Del Noce. I due termini, infatti, stabiliscono un campo teorico che nel nostro autore getta le sue radici all’esordio stesso del moderno, fra crisi della filosofia rinascimentale e innovazione del razionalismo cartesiano2.

Anche il tema del moderno, molto dibattuto nella letteratura su Del Noce, è ricco di collegamenti con l’interpretazione del marxismo e con le passioni della politica. In questa sede, non potendo concedermi il dovuto spazio sull’argomento, dirò solo che in ultima istanza, nella lettura di Del Noce, la modernità consiste certo nella grande trasformazione indotta dalla secolarizzazione, ma quest’ultima segue da presso una modificazione più radicale, più penetrante. Essa è collocabile all’altezza dell’età rinascimentale e della sua crisi, all’altezza della relazione fra pensiero e politica che, dal XVI secolo in poi, assume forme inedite e difficili da   analizzare. Tali forme, tuttavia, non sfuggono a Del Noce, il quale anzi le colloca alla radice di un rapporto indissolubile fra carattere totale, perchè scientifico, della ragione, e carattere forte, anch’esso perchè scientifico, della politica.

Già la lettura di Descartes genera nel nostro autore un’ idea precisa, una definizione netta della politica; anche l’interpretazione di Gramsci risentirà della rapporto fra pensiero e politica, per come Del Noce lo desume dalla lezione tardo-rinascimentale e dalla sofferta relazione fra azione e ragione. Per altro verso, nel celebre Cartesio e la politica3 affiora una sensibilità alla politica, una capacità di percepire la dimensione dell’ ‘intervento’ nell’esperienza teorica, tale da connotare irreversibilmente tutto il senso della produzione intellettuale delnociana.

A trenta anni di distanza da quel saggio, negli anni ‘80, l’esordio del razionalismo moderno è, per Del Noce, ancora una vicenda leggibile dentro paradigmi esplicitamente ispirati ad una nozione ampia di politica: chi è “l’avversario di Descartes?”, egli si chiede infatti in una voce dell’Enciclopedia filosofica, analizzando il tormentato rapporto fra il filosofo di La Haye e il libertinismo4.

Contemporaneamente, il pensiero cartesiano per Del Noce è “filosofia della libertà”5, ma in un senso quasi negativo, o almeno problematico, avendo, quel pensiero, fondato una condizione di indipendenza dal mondo, propria del soggetto-cogito, il cui divenire critico è anche disimpegno dal dato dell’esisten- te. Ma al di là di questo profilo di critica filosofica, già nel Cartesio degli anni ‘50 si è delineata la strada della politica. Anzi, qui la politica appare nella sua piena e autonoma funzione, ricondotta in una compiuta definizione dell’agire umano.

Infine, la politica irrompe come livello alto del pensiero, per effetto di una contrapposizione geometrica e totale: da una parte, vi è l’isolamento autoreferenziale della verità del soggetto; qui si conferma il tema della libertà-distacco, della libertà-disimpegno di Descartes; si evidenzia, insomma, la radice filosofica di un soggetto tendente ad essere potenza a sè. Dall’altra parte, si pone la tecnicizzazione machiavelliana della politica: la sua tecnica-artificio si attesta, nel moderno, come paradigma indelebile di una più ampia frattura storica fra la pratica (o azione politica), e le “altre forme della vita spirituale”6. In tal modo, per Del Noce il moderno si dischiude già condizionato da una scissione, che è anche una perdita, una dissipazione. A suo parere, infatti, la collocazione lontana di soggetto (cogito cartesiano) e politica, pur segno di un’innovazione, comporta comunque una crisi, la quale dipende dai due movimenti, analoghi e distinti, della ragione individuale e di quella dello Stato.

In che consiste tale antagonistica analogia? Nel fatto che entrambi i termini, individuo e Stato, tendono a costituirsi in una reciproca lontananza. Il primo con Descartesaffiora quale protagonista di un pensiero tautologicamente ridotto ad autospeculazione, a movimento autoproduttivo, fino ai limiti dell’arbitrarietà. Il secondo termine, lo Stato, si costituisce invece -con Machiavellinel codice della tecnica, riletta come ordine senza valori, o ordine senza deontologia. Il significato problematico del moderno, che è nella sua forza di scissione, si condensa così, per Del Noce, nei suoi due momenti di massima intensità produttiva: la politica e il pensiero. Fra di loro vi è una relazione tanto simmetrica, quanto incapace di procedere oltre la reciproca e opposta parzialità. Razionalizzazione tecnica della politica e razionalità del pensiero, orfane di un senso dell’eterno volontariamente smarrito, impongono nel loro spazio la necessità di riaprire la questione della rilegittimazione morale del mondano, che è poi, nel linguaggio di Del Noce, la critica della storia.

Nel saggio del ‘50, pertanto, il nostro filosofo afferma che è “conforme alla natura del machiavellismo che la sua influenza si eserciti sotto la forma di pressione di una realtà che esso misura […] La dissociazione della vita spirituale da un mondo politico che appare senza verità è il corrispettivo nel singolo di questa vittoria del machiavellismo; è quella solitudine che esso genera inevitabilmente”7. Egli denuncia, così, l’inversione fra profilo teorico e profilo pratico della politica; egli denuncia, cioè, l’autonomizzarsi dello scopo pratico, machiavellica- mente non visibile dentro la forma teorica che ha assunto. Ma anche la concentrazione cartesiana di soggetto e pensiero, ancora nel 1982, conferma in Del Noce perplessità e delusione, soprattutto considerando l’esito di quella concentrazione, che a giudizio del filosofo, nell’opera ultima di Descartes non va oltre l’abbandono del “méditatif”, a favore di una pratica ridotta a ““maîtrise” di sé e del mondo”8.

    2.    Pensiero e politica; ovvero il marxismo, nuova forma del moderno

L’incontro con il marxismo, più volte riproposto nell’opera delnociana9, rinnova e conferma l’idea di una modernità fortemente condizionata dall’irrisolto problema del rapporto fra politica e filosofia. Ma qui sono capovolti i termini rispetto alla coppia Descartes-Machiavelli. Ora si tratta, per Del Noce, di apprestare una risposta alla concentrazione di politica e pensiero per come Marx la ripropone, in chiave di prevalenza delle ragioni dell’azione su quelle della filosofia; in chiave, dunque, di filosofia dell’azione. Infatti la ragione cartesiana, nel suo isolamento, in Marx si è riproposta sotto il sembiante di un hegelismo disarmato; la mera tecnica machiavelliana, invece, si è trasformata nel dominio sans phrase.

Contro questa scissione, il filosofo di Treviri, agli occhi di Del Noce, introduce una nozione radicale di “ragione scientifica”, sposando “galileismo morale” e scienza politica dentro una visione dell’esistenza, letteralmente dipendente dalla prepotenza dell’effettività e della contrazione dell’uomo dentro la sua opera politica ed economica, o “pratico-sensibile”, dice Del Noce10. “Una simile caratteristica –egli prosegue– importerebbe […] che il marxismo non possa direttamente pronunciarsi sui problemi ontologici. Di fatto invece Marx, seguito sino a oggi da tutto il marxismo autentico, da Engels a Stalin, ha inteso la tesi della verifica nella prassi e della reciprocità di teoria e prassi come equivalenti, che […] l’uomo è soltanto e senza residuo nell’opera, che non è niente prima del suo agire […]. Ha cioè ontologizzato la ragione scientifica nella ragione scientifica assoluta”11. In altre parole, Marx ha optato per un giudizio storico basato sull’effettività; si è così sottratta all’uomo l’intera dimensione della vita che resta fuori dall’azione e dall’esito ad essa congiunto, (“interiorità e intenzio- ne”)12. Esiste insomma un oggi, un presente, per l’uomo, e forse anche un tempo del futuro, grazie alla risorsa del ‘progetto’. Ma, venendo a mancare in Marx il tempo e il valore che preludono all’azione, venendo insomma tutta la ragione (per ripensare a Cartesio), assorbita nella tecnica, (per ripensare a Machiavelli), resta completamente preclusa, per Del Noce, la possibilità di unificare il passato con il futuro, il valore con l’azione, l’eterno con il contingente, la tradizione con il progresso. Ecco dunque, nel marxismo, la nuova forma della dissipazione, avviata dal nesso fra razionalismo moderno e prassi politica autonomizzata.

Il pensiero di Del Noce è partito dalla critica della modernità e da una rinnovata esigenza di senso dell’eterno; ma ora rimprovera al marxismo una sua intima contraddizione e manifesta quasi una sorta di sfiducia di conseguire il mutamento reale, muovendo dall’ossessiva necessità dell’agire, quale molla del divenire: “Ma la riduzione della ragione marxista a semplice ragione scientifica egli dicenon sembra significare affermazione della “naturalità filosofica” del marxismo? E affermare questo non è anche smorzarne lo spirito rivoluzionario? Si può ancora parlare di rivoluzione quando questa non attinge “i valori”? Si dovrà pensare che il marxismo abbia di mira soltanto una trasformazione economica in un ordine di valori dato, o comunque non posto da esso direttamente in discussione? Si arriverebbe allora a questa conclusione: che il comunismo dovrebbe vedere nella rivoluzione soltanto un “ritmo accelerato” dell’ evoluzione”13. Se la rivoluzione è un’esperienza contraddittoria, nel modello scientifico della razionalità marxiana della politica, il primo nucleo della vocazione al suicidio della rivoluzione medesima, è già scritto dentro l’impianto originario della  filosofia di Marx.

Quest’ultima, alla verifica di Del Noce e dei suoi criteri di valore, appare al di sotto delle possibilità di libertà consentite da un recupero positivo della metafisica. Non si tratta dunque di una semplice contrapposizione fra mondanità ed eternità: il problema è più sottile, e tende a rimuovere ogni possibilità di equazione fra valore, e azione purchè sia. In ciò, il nostro autore riven- dica, nelle sue categorie filosofiche, l’esigenza di una moltiplicazione dei livelli del giudizio, negando che ogni innovazione, che ogni azione, che ogni politica, insomma, sia anche costruzione.

Il nodo del problema che Del Noce solleva, sta nel fatto che in Marx effettivamente si sovrappongono due strati differenti di pensiero: entrambi quasi diafani e trasparenti, essi perdono in questa sovrapposizione la specificità dei loro profili, così da intrecciarsi in una confusione del pensare con l’agire. Ma non si tratta per Del Noce di una confusione ‘neutra’ o omogenea, nè di una generica sottolineatura dell’indole intellettuale di ogni linea consapevole di azione. In quella confusione assume maggiore importanza la dimensione del fare, della prassi, a cui si piega ogni altro valore, dal pensiero alla morale.

Al fondo di questo processo, Del Noce denuncia un contemporaneo levarsi di due autonomizzazioni: da una parte esiste, poco più che un retaggio, la ragione, quasi neutralizzata in uno sterile movimento autoriproduttivo, metafora impoverita della “volpe” machiavelliana. Dall’altro lato si pone la politica, vera nuova forza attiva, “leone” capace di costringere il pensiero alle motivazioni della prassi. La ragione cartesiana autoreferenziata, originario fulcro del moderno, per Del Noce è soppiantata, in Marx, da uno spirito galileiano proiettato verso l’azione e destinato a dettare un’inedita nomenclatura della razionalità. Conseguentemente, al paradima machiavelliano della politica, anch’esso segnato da autoreferenza, il marxismo sostituisce se stesso, costituitosi in scienza politica e in “prassi politica”14.

Mi sembra decisivo questo passaggio, per rileggere correttamente le pagine che il nostro filosofo dedica a Gramsci. Lo sviluppo parallelo e separato di ragione e politica in apertura del moderno, poneva Descartes in una condizione di privilegio, essendo egli, per Del Noce, il pensiero pensante, di fronte all’ asettica tecnica della politica di Machiavelli. Vi era dunque, nel cartesianismo antirinascimentale, una gerarchia dello spirito, pur lacerato: dal pensiero, al conflitto; questo è il suo movimento. Con Marx, come già accennavo in precedenza, l’ordine è invertito, a giudizio di Del Noce, proprio grazie ad una forzatura di quella separazione cristiana-occidentale fra morale e politica, che è tipica di Machiavelli.

In La “non-filosofia” di Marx, del ‘47, viene formulata, infatti, una considerazione grave e, al tempo stesso, terribilmente problematica: “[…] il machiavellismo – scrive Del Noce – separa morale da politica, proprio perchè in esso permane l’antropologia cristiana; viceversa Marx riconcilia morale e politica proprio per la sua negazione di questa antropologia (si pensi alla celebre frase di Lenin: moralità è ciò che serve alla rivoluzione proletaria)”15. La trasfigurazione del marxismo in scienza politica -una sorta di equazione ‘marxismo, e perciò, scienza politica’ha così occupato l’intero campo dello spirito, sul piano della pratica, su quello dell’etica, e su quello della verità, essendo esso la fonte del valore. Ecco perchè nella gerarchia dello spirito, con Marx, il conflitto ora prevale sulla ragione, risucchiando il rapporto fra Descartes e Machiavelli nella dilatazione sconfinata e totale del secondo, in confronto al primo; anzi nel simulacro di Machiavelli, profondamente alterato dalla trasfigurazione marxista. Infatti “[…] la rivoluzione marxista –conclude Del Noce– ha segnato la fine del machiavellismo. Machiavelli non serve più per spiegare la politica dal ‘17 ad oggi, proprio perchè in Machiavelli c’è la politica e non l’etica della durezza e tra le due posizioni non c’è continuità, ma salto”16.

L’argomento definisce in modo drammatico, all’indomani del secondo conflitto mondiale, i nuovi termini della relazione fra pensiero e politica. Profeticamente, questa relazione racchiude in se tutta la motivazione della futura divisione del mondo: essa, forse, non è ancora visibilmente concreta, nel ‘47, ma è già sanzionata, prima ancora che dagli eserciti, proprio dalla barriera della politica eticizzata, dal suo scopo mondano, ma teologizzato. E persino un’ importante riflessione, che non svilupperò in questa sede, verrà da Del Noce in ordine al disorientamento che un simile statuto etico del conflitto getta fra i “cristiani di sinistra”, come egli li definisce. Essi sono così attratti dalla tentazione di leggere la politica nella chiave dei fini superiori e vincolanti moralmente, che la codificano in una torsione religiosa, dunque impropria e pericolosa, dell’impe- gno mondano17. È inoltre il caso di aggiungere che la “non-filosofia” di Marx, si profila in del Noce, in tutto il suo significato di negatività, almeno per due ragioni.

In primo luogo, questa non-filosofia si prospetta come l’esito finale di un processo tutto inscritto nella modernità, e ricostruibile soltanto a partire dall’interpretazione del suo codice politico, dal significato della sua valenza politica. Avviatosi all’insegna di una separazione fra razionalità del soggetto e tecnica della politica, dopo la coppia emblematica Descartes-Machiavelli, questo processo si ripropone in Marx con una significativa alterazione: in Marx la ragione, costretta a fare i conti con il principio della prassi, è infatti interamente posseduta dallo scopo, dal disegno della politica. Essa ha perso la sua qualità di esperienza del soggetto, per ridursi a supporto dedicato alla politica, vera nuova evidenza, anzi sintesi, del moderno. La possibilità di negare il presupposto volgarmente materialistico della storia, è esaltata rapportando ad una dimensione galileiana l’intera logica della ‘filosofia’ di Marx; ma da qui, il passo verso un collegamento stretto e possessivo fra storia e prassi, è breve per Del Noce, fino all’adozione della prassi a nuovo paradigma dell’autonomia della politica, o dell’autonomia dei suoi scopi. Ma vi è ancora dell’altro, che concerne il secondo aspetto del significato negativo della “non filosofia” di Marx.

Nello studio sulla coppia Cartesio-Machiavelli e su quella Galileo-Marx, Del Noce riafferma l’utilità storica di un confronto con l’eterno e con la metafisica, ma richiama una contraddizione, una vera incoerenza teorica del moderno, come carattere tipico della sua complessità e della sua ambivalenza. Così, da una parte, nella fondazione machiavelliana della politica, si annida un profondo “stacco fra il machiavellismo pensato e il machiavellismo vissuto (onde la cor- rente sentenza che non si può essere praticamente machiavellici che professandosi antimachiavellici)”18. Dall’altra parte, questa stessa inversione fra pensato e agito, fra essenza e apparenza, si ripropone in Marx, laddove l’eccesso di prassi, impedisce la sua coerente prosecuzione.

Vi è in questo gioco di contrari che ritorna anche in Gentile (attivismo-nichilismo), e in Gramsci (rivoluzione e suo suicidio), non soltanto la testimonianza di un pensiero tormentato in Augusto Del Noce, ma anche la sottile percezione del significato arduo del moderno, della sua logica discontinua, della possibilità che il suo divenire si differenzi e sfugga, rispetto alle ragioni e ai modi del suo costituirsi. Questa possibilità di alterazione, questa incertezza, è denunciata da un filosofo, come del Noce, che è profondamente ispirato all’eternità e alla fede. Ma proprio qui si configura un motivo di grande fecondità, in sede di revoca di qualsiasi regola, per altro solo prammatica, per interpretare il mondo, il senso del mondo, in modo inappellabile. Per curiosa circostanza, a Del Noce, teorico dal fortissimo impianto metafisico, tocca lo strano destino di negare, sul piano della storia e della politica, qualsiasi tendenza allo spirito di sistema, alle regole irreversibili, alle disposizioni totali. E così, il rigore della metafisica diviene la premessa ad una nuova esigenza di mutamento.

    3.    Il marxismo italiano. Il ‘caso’ Gramsci

La posizione sul marxismo va intesa, dunque, come un filtro fondamentale per la lettura di Gramsci da parte di Del Noce. Ciò vale sul piano teorico, dove egli abbraccia e definisce la specificità italiana del marxismo, in quanto pensiero volto all’azione, nella categoria della filosofia della prassi. Ma vale anche sul piano politico, dove i celebri concetti gramsciani di “società civile” e di “guerra di posizione” hanno comportato una nuova scrittura del tema della lotta di classe in Occidente. Non è perciò superfluo ricordare quanto spazio occupi l’ideale confronto con Gramsci, nell’itinerario intellettuale di Augusto Del Noce.

Al rapporto Gentile-Gramsci si affianca l’argomento del “suicidio della rivoluzione”, da cui deriva l’omonimo testo. Si tratta di una tappa decisiva nella messa a punto dei termini italiani della crisi del marxismo. Che in quel testo si consumi un dibattito serratissimo su Gramsci, e sulle interpretazioni del gramscismo, è stato sempre assai chiaro; che poi la questione non si sia limitata soltanto ad un profilo di intrepretazione culturale, è testimoniato dai diversi interventi a risposta e a discussione delle tesi di Del Noce19. In questa sede non ripercorrerò l’itinerario parallelo Gentile-Gramsci, già trattato da diversi studiosi, in chia- ve critica. Vorrei invece tentare di evidenziare alcune ragioni di quel parallelo, per come Del Noce lo legge: ne derivano, infatti, interessanti problemi in ordine alla recezione di Gramsci che, indipendentemente dalla condivisione o meno delle tesi delnociane, coducono ad un esito non solo di interpretazione, ma anche di critica di un modo di concepire la politica.

Lo studio di Del Noce su Gramsci si sviluppa lungo due direzioni. Sul piano teorico, e non senza la consapevolezza di importanti riflessi politici e ideali, come da molti è stato notato, si afferma in piena evidenza la matrice della filosofia della prassi. Essa in un certo senso delimita i confini del problema, ma lo fa allargandoli in misura consistente, fino a sollevare importanti domande sul significato della ravvicinatissima consecutio Gentile-Gramsci. Infatti Del Noce,  come già è stato rilevato, ricostruendo la linea Labriola-Croce-Gentile- Gramsci20, punta decisamente a descrivere un’originalità nella tradizione del marxismo italiano, una sua specificità occidentale e filosofica, con connotati chiaramente distinti rispetto alla ‘grande’ matrice del materialismo storico prima, e del leninismo, dopo.

Il nesso Gentile-Gramsci, insomma, risponde in Del Noce ad una precisa impostazione culturale: egli tende ad evidenziare, da Machiavelli a Gramsci, le implicazioni filosofiche del pensiero politico italiano e, più in generale, del rapporto pensiero-politica. Ma egli così ripropone anche una sorta di tradizione occidentale, una sorta di percorso – dove Occidente e filosofia si incontrano – che, non senza incoerenze e rotture, ha tuttavia profondamente influito sui caratteri della politica. Sembra quasi voler affermare – Del Noce – che anche nell’ambito di una forte autonomizzazione della politica, anche nell’ambito di un itinerario che, legittimamente, dalla scienza di Machiavelli conduca sino a quella di Marx, le pagine italiane si differenziano. In queste pagine, infatti, fortissimi momenti di intensità politica, di senso dell’azione, come quelli di Gentile e di Gramsci, non hanno potuto tuttavia affrancarsi completamente dalla filosofia, ed anzi hanno dovuto renderle conto. Nel valore epocale della filosofia della prassi, si conserva pertanto un criterio di differenziazione del marxismo occidentale, e del suo movimento logico, rispetto sia alla teoria rivoluzionaria leninista, sia alla “non-filosofia” di Marx, suo precedente teorico21.

Ma la lettura gentiliana della filosofia di Marx,22   in definitiva, si distingue secondo Del Noce, proprio perchè, ben oltre il dato della ‘variante’ teorica, essa afferma un punto di vista non speculativo e, insieme, non positivistico. Non sembra riaffiorare in questo Gentile di Del Noce, capace di influire sulle radici del gramscismo, una nuova stesura del capitolo centrale della modernità, relativo a ‘pensiero e politica’?  Rileggiamo alcuni passaggi essenziali: “In che senso – egli si chiede – dico […] che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso [sic] la più importante del nostro secolo, e lo dico senza essere per nulla gentiliano? In quello che ha portato all’estremo non soltanto […] l’idealismo o la sua forma soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire, chiarendone l’esito antimetafisico”23. Non è intento di questo contributo, diffondersi sul ‘problema’ Gentile in Del Noce, oggetto per altro di importanti studi24. Vorrei però porre in evidenza che nella sintesi di idealismo e divenire, nella congiunzione fra pensare il mondo e agire per cambiarlo, si apre ora un’altra pagina della modernità.

Come già per Descartes, per Machiavelli, per Marx, anche per Gentile si afferma un ruolo da analizzare su di un piano epocale; anche per Gentile si tratta, infatti, di porre in luce un segno di civiltà, un modo di essere dell’uomo. Qualcosa che spinge fuori dalla nicchia il filosofo-osservatore e lo immette nella spirale del mutamento: ecco l’elemento in comune della galleria filosofica della modernità in cui Del Noce torna a soffermarsi. E in questo senso, Giovanni Gentile autore di La filosofia di Marx, è per lui “come punto ultimo a cui deve giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi; quindi come un oltremarxismo rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di rispondere”25.

Tensione verso il mutamento e posizione antimetafisica, sono i due elementi entro i quali sembra che il pensiero di Gentile non possa essere altrimenti che filosofia della prassi, adozione del progetto, forzatura, morale e pratica, del contingente. L’elevazione di questo progetto a finalità assoluta ed esclusiva, è poi la forma esteriore dell’autonomizzarsi della volontà dello spirito, dimentica ormai della metafisica e dell’eterno. Certo, va ricordato che molto spesso Del Noce critica duramente questo atteggiamento, classificandolo come un altro capitolo della corsa al nichilismo da parte della modernità; ma non è su questo giudizio -più volte ricorrente negli studiche intende procedere il mio ragionamento. Vorrei invece riassumere l’intera esperienza di Gentile, per come viene riletta da Del Noce, in chiave di rigetto di una forma, per così dire, passiva, del pensiero; il suo idealismo si rivolge contemporaneamente contro la vecchia immagine del “Dio ascoso”, formula denigratoria di ogni economicismo, contro “ogni metafisica, così idealistica come materialistica”26. Ciò vale tanto rispetto allo stesso Marx, del quale Gentile rifiuta quella sorta di vulgata filosofica che fu il materialismo storico, quanto rispetto ai suoi successivi interpreti. Ed è proprio su questa linea che Del Noce incontra Gramsci. Ma qui la questione, nata in sede di confronto culturale, si apre ai suoi risvolti più specifici di teoria e concezione della politica.

Il “neomarxismo” di Gramsci, per il nostro filosofo, non è altro che “la riaffermazione di Marx dopo la “filosofia dello Spirito”, correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello hegelismo”27.

Sono termini fortissimi, che accolgono nella filosofia della prassi linguaggi diversi, ma sempre orientati ad una retrospettiva critica verso le loro stesse radici – la coppia Hegel/Marx – e ad una feconda reciprocità fra rivoluzione e filosofia. Sappiamo bene che la tesi della contiguità Gentile-Gramsci è stata in seguito criticata dagli eredi del gramscismo; ciò è del tutto comprensibile28. Ma qui interessa sottolineare un altro aspetto del problema, rappreso nel rapporto Gentile-Gramsci: esso attiene, infatti, alle ragioni più profonde per le quali Del Noce, negli anni ‘70, osservando in filigrana la crisi della società occidentale, l’improduttività di valori cui è giunto il processo avanzato di modernizzazione, cerca di rendere leggibile la causa generale di questa crisi. Egli ritiene di rinvenirla sia sul versante della grande tradizione ‘borghese’, da Cartesio a Marx, sia su quello del suo filone antagonistico più accentuato, da Marx, al marxismo, alla teoria e ai soggetti storici della lotta di classe.

Insomma, Gentile-Gramsci è per Del Noce il binomio entro il quale si conclude il bilancio –negativo– dell’edificazione della società moderna-occidentale, ma anche quello della sua modifi- cazione-distruzione rivoluzionaria. Se all’altezza dell’edificazione, la nozione di tecnica sancisce, nel linguaggo di Del Noce, l’impasse della separazione fra pensiero e politica, al momento della rivoluzione corrisponde l’analoga contraddizione fra filosofia (senza valori) e prassi, fra pensiero che si riduce nel chiuso del soggetto, e movimento, che ricade nell’enfasi della volontà parziale.

Il ragionamento di Del Noce vuole pertanto negare l’equivoco sia di una serialità lineare nella storia del marxismo filosofico, sia di un continuismo ferreo fra la lettera di Gramsci e la lettura che altri ne fanno. Sembra quasi che egli si serva del gentilismo, per sottolineare la lontananza non riducibile fra l’essenza  della teoria gramsciana, dunque la sua lettera, – che concerne la prassi – e il suo uso politico da parte dell’organizzazione che a quell’essenza si richiama, dunque la sua lettura –che si pretende valore–. Il fatto è che Del Noce colloca in Gramsci un’ulteriore stagione di motivazione autonoma della politica, di autoreferenzialità, questa volta affidata al primato della prassi, nuova versione dell’antica tecnicizzazione machiavelliana. Prassi elevata a valore, prassi in quanto scienza politica: qui il focus di una forza distruttiva, qui il nichilistico ponte di congiunzione con Gentile, trovano dimostrazione e verità, per Del Noce.

Egli ritiene che le interpretazioni fra fine anni ‘60 e anni ‘70, vadano nel senso di attribuire a Gramsci, se non una vera e completa autonomia dal leninismo, almeno l’avvio di una teoria rivoluzionaria ‘positiva’, in grado di offrire soluzioni adeguate alla specificità e alla complessità della crisi dell’Occidente. Ma è proprio qui lo iato che Del Noce denuncia, quando rileva che ad un’essenza sostanzialmente leninista di Gramsci, abbia fatto seguito un “gramscismo” elevato a teoria occidentale, cioè innovativa, della lotta politica fra le classi. L’ampiezza totale dello spettro di intervento di Gentile e Gramsci, autorizza poi Del Noce ad accomunarli in una valenza intenzionalmente palingenetica.

Egli trova infatti confermato lo sbilanciamento fra prassi-politica e speculazionevalore in Gentile e Gramsci, proprio perchè vede in entrambi una linea di intervento che va dalla politica in senso stretto, allo spirito, all’educazione di un Paese, dallo Stato, alla società civile. Il segnale che Del Noce lancia, si motiva sulla lucida percezione che entrambi gli autori studiati si misurino sì sul terreno delle sovrastrutture per dirla con Gramsci -, ma questo terreno rimane comunque un’arena privilegiata per la verifica dell’efficacia della prassi e dell’adeguatezza tecnica del progetto politico. Ed è questo l’oggetto su cui oggi vi è ancora spazio per la riflessione.

Del resto, il giovane Gramsci, quello ‘torinese’ dei “Consigli”, e ancora prima, quello di Il nostro Marx 29 e di La rivoluzione contro il “Capitale”30, quello delle critiche culturali e dei corsivi di costume, ben noto a Del Noce31, è già in rottura rispetto alla tradizione socialista e alle sue varianti fra economicismo e massimalismo; ma la sua fucina intellettuale è attenta a tutta la vita civile che si svolge “sotto la Mole”. Gli scritti maturi, i Quaderni, sono ancora più ricchi sotto questo profilo, e vengono perciò rivisitati dal nostro filosofo, alla ricerca di categorie condivise o condivisibili da Gentile, dal primato della società civile, già rilevato da Bobbio32, al marxismo distinto dal materialismo storico, al blocco storico, e persino all’egemonia. A tale riguardo le discussioni non sono mancate, all’insegna dell’originalità e dell’indipendenza intellettuale di Gramsci, della sua accezione incontaminata di “filosofia della prassi”. Molto spesso si è trattato di obiezioni motivate ora da una logica politica immediata, ora da una fine battaglia ideale, ora dall’esigenza di un aggiornamento teorico adeguato alla crisi del marxismo, dagli anni ‘70, in poi33.

Nell’ottica di Del Noce, invece, il vero problema riguarda il fondamento di valore della politica come tale, cioè autonoma, che il filosofo mette in discussione, in quanto valore prevalente, primato, della prassi. Importante è infatti la sua precisazione, quando, rievocando la capacità di dubbio che consapevolmente possiede la filosofia dello spirito nell’accezione gentiliana, egli ricorre ancora al modello cartesiano: “Ripensare oggi la filosofia gentiliana - scrive - è essere riportati, in modo nuovo, al processo della prima meditazione cartesiana e all’estensione estrema del dubbio metodico: a porre cioè la questione di quale forma di pensiero possa resistere alla scepsi gentiliana,[…]”34. Del Noce sa bene, e lo ricorda esplicitamente, che Gentile è filosofo “affermativo” e “assertorio”, tutt’altro che pensatore reculant nel dubbio35, e perciò non gli sfugge il significato di revoca sostanziale, ed intenzionale, del suo lavoro di demolizione etico-politica. Ma anche Gramsci, forse meno “assertorio” che Gentile, deve misurarsi con una dimensione del dubbio, del disfare: nei suoi primi scritti, il giovane dirigente nega, quasi cartesianamente, sebbene citi Novalis, l’obbiettività dell’ordine circostante, allo scopo di ritrovare e riaffermare la propria identità: “Critica – scrive Gramsci nel 1916 – vuol dire appunto […] coscienza dell’io […] che si oppone agli altri, che si differenzia – Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire […] distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina a un ideale”36.

La riedizione di un fondamento soggettivo dell’ordine, all’altezza del ‘900, ben si collega con la spinta all’intervento: la sintesi resta quella di pensiero e politica che, ripartendo dalle premesse razionalistico-cartesiane della cultura della revoca, muove verso Machiavelli, verso la politica come innovazione-rimozione. E che su questa strada si incontri Gramsci, ma anche Gentile, almeno nel momento motivazionale del rapporto fra pensiero, forte, e politica, anch’essa forte, è argomento che richiede certo molti affinamenti e pre- cisazioni, ma ricco di motivi ancora inediti, su cui riflettere con animo sereno.

Indubbiamente si tratta di vicende, anche individuali –quella di Gentile e di Gramsci– assai diverse e non confrontabili, –basti pensare alla divaricazione fascismo-comunismo–: nel linguaggio di Del Noce, però, nella sua ricerca appassionata delle ragioni più profonde ed epocali della perdita del senso del- l’eternità, le figure di Gramsci e Gentile provocano una profonda suggestione, dal significato della religione, che le allontana, a quello dell’educazione nazional-popolare, che secondo il nostro filosofo, le riavvicina. Ma facciamo ancora un passo, inoltrandoci nella provocazione intellettuale che Del Noce ci propone

    4.    Il Gramsci di Del Noce: la politica fra progetto e teologia

Un altro aspetto rilevante del discorso di Del Noce, riguarda l’analisi, direi più politica, del corpus del gramscismo e della sua ‘fortuna’ nel corso del ‘900. Anche qui ricorrono molti riferimenti a Gentile, ripetitivi, in parte, ma anche di approfondimento e precisazione.

Soffermiamoci, dunque, sul termine “suicidio”, che Del Noce trova confermato nello stesso Gramsci, a proposito del popolarismo e del nuovo impegno politico dei cattolici. È un termine carico di significati, e non sempre omogenei fra loro: vorrei tratteggiarne almeno due varianti.

La prima, risalente a posizioni già da tempo maturate nel nostro filosofo, è di netta critica al concetto di rivoluzione, in quanto esperienza destinata a contraddirisi nel suo rapporto fra presente e prospettiva. Già a proposito dello scontro Stalin-Trotzki37, Del Noce pone in risalto il conflitto dei tempi che spinge al suicidio-fallimento la categoria di ‘rivoluzione’. Nata all’insegna di una scelta per l’avvenire, di una soluzione di progresso, essa ricade nella reintegrazione del presente, quando la prassi politica impone il realismo come via obbligata per consolidare la forza e il potere. Così la rivoluzione, per Del Noce, è doppiamente distruttiva: una volta, nascendo, nega la tradizione e sfida l’eternità; una seconda volta, consolidandosi, nega se stessa e perde la coerenza con il valore in nome del quale è sorta38.

La seconda accezione, anch’essa negativa, della rivoluzione, consiste nel suo trasferirsi, dissolvendosi, dal piano dell’opzione, a quello della scienza politica, dal piano della parzialità, ma parzialità consapevole, dichiarata e, perciò, riconosciuta, a quello della totalità, del politico non suscettibile di contraddizione. È il ragionamento in cui Del Noce segnala come al dualismo, o parzialità, della società antica, segua il monismo, o totalità, della società moderna39; in queste coordinate, già presenti ben prima degli anni ‘70, si colloca la sua lettura di Gramsci, che ora si fa decisamente più spigolosa, in aperta polemica circa gli esiti della teoria della rivoluzione in Occidente, e circa le stesse interpretazioni del gramscismo. Il carattere occidentale dell’opera gramsciana è a più riprese ribadito. Essa, infatti, risponde ad una “mentalità – scrive Del Noce – […] chiaramente occidentalista ed eurocentrica. Nei paesi occidentali, in ragione del loro maggior grado di civiltà e di cultura, […] la rivoluzione può manifestarvi il suo più profondo aspetto, che è quello della priorità della riforma intellettuale e morale”40.

Si tratta di un corretto richiamo della peculiarità della teoria di Antonio Gramsci e del suo discrimen invalicabile rispetto a tutte le abbreviazioni del leninismo ortodosso, da Bordiga, alla fine del secolo. Ma proprio questo livello della discussione porta Del Noce a collocare in Gramsci un nuovo stadio, una fase evolutiva, particolarmente sofisticata, del processo di inversione-suicidio della rivoluzione. Tanto più elevata e ‘sovrastrutturale’ diviene la qualità del conflitto politico, tanto più per Del Noce si accentua la divaricazione fra pratica e pensiero, fra scienza politica e verità, essendo quest’ultima sacrificata ad un’urgenza che non le appartiene e che privilegia invece lo scopo dell’effettività.

Il paradigma del suicidio, insomma, non è altro che una nuova definizione dell’impossibile valore del primato della prassi; allargare i confini dell’azione – fino a comprendervi il piano e la qualità della cultura e dello spirito, delle sovrastrutture, insomma – serve solo a rilegittimare uno scopo – politico – preselezionato, cioè anteposto al medesimo processo con cui diviene. In tale schema, dunque, è il valore della politica che illumina il senso del ‘progetto’, e non viceversa.

È evidente che Del Noce vuole verificare un’altra forma della corsa al nichilismo attribuita a Gentile e a Gramsci, e a tutte le filosofie che intendono il moderno come oblio dell’eterno. Ma, più in generale, qui il nichilismo altro non è, se non il risvolto della contrazione della teoria, anche quella rivoluzionaria, nel precipitato del suo ‘prodotto’, nella ‘cosa’ realizzata. La logica del suicidio anima dunque la polemica contro il comunismo, non già in quanto sovvertimento, trionfo del materialismo, ma in quanto apparato intellettuale, affermazione di un principio, geloso di una tecnica che non rivela41.

Nel significato complesso della categoria del suicidio politico, ritorna così, in Del Noce, la denuncia di quella sorta di insincerità della politica del moderno, basata sul paradigma di un’adozione autentica del machiavellismo, in quanto affidata alla professione dichiarata di antimachiavellismo. Si evidenzia ormai l’oggetto reale della polemica: il suicidio nasce, nel lessico gramsciano, a proposito dell’esperienza di organizzazione dei cattolici in partito politico, e in quella sorta di loro décalage alle regole moderne della politica e della lotta di classe. Il suicidio è nella necessità di accettare, insomma, una mondanizzazione, se non estranea, almeno impropria, rispetto alla natura, alla storia, ai valori – non conflittuali – del cattolico. La sua trasformazione politica in ‘popolare’ è per Gramsci un radicale cambiamento di identità – il trapasso dall’eterno al contingente –, che non tarderà a sortire il frutto della ‘cattura’ dei cattolici dentro lo spazio dell’autonomizzazione delle leggi della politica, terreno privilegiato per un altro stadio, forse egemonicamente risolutivo, del conflitto di classe.

Ecco perchè Del Noce sottolinea, nel suicidio, il mutamento di un’identità subìto e non avvertito, fino al limite dell’estinzione, qualcosa che lo stesso Gramsci riprende più ampiamente anche con la categoria di “rivoluzione passiva”. Ecco perchè, riverberata trasversalmente sull’intero impianto teorico gramsciano, fino al concetto di egemonia, questa dimensione del suicidio autorizza il nostro filosofo ad un vero e proprio schieramento, che non esclude il ricorso a parole durissime: “Gramsci aveva insomma inventato – egli dice – un’altra forma di estinzione dell’avversario; non più persecuzione fisica, ma “suicidio”. È qui che si chiarisce il significato di termini tanto ripetuti come “compromesso storico” ed “eurocomunismo”42.

Il conflitto viene dunque all’oggi, e bisogna evitare, in questa sede, di impostare con Del Noce-pensatore una discussione riferita a un Del Noce-dirigente politico, che non è mai esistito. Non uscirò pertanto della logica stessa del nostro filosofo, perchè mi sembra importante ricostruirne soprattutto la coerenza ed il significato, ancora utili ad una riflessione dentro percorsi intellettuali diversi dal suo. A ben leggere il testo in esame, si scopre infatti che dietro la parole taglienti, Del Noce conserva un significato molto più prudente e problematico, che tocca due nodi, soprattutto, sui quali vorrei infine soffermarmi, anche perchè non mi sembra che siano stati sufficientemente esaminati fin ora.

Il primo nodo riguarda la questione del continuismo, a cui il gramscismo è stato piegato, artefice la ricostruzione togliattiana. È ben vero che dal Gramsci di Togliatti a quello successivo, vi sono state importanti sfumature; ciò vale soprattutto per la questione del ‘leninismo’, cui il dirigente comunista è stato inizialmente ricondotto. Ma, insieme con il leninismo, la connotazione occidentale del suo pensiero e l’attenzione alla società civile, al ruolo della cultura, non sono mai mancate nella lettura e nella tematizzazione di Togliatti43. In queste due sponde, -leninismo e ‘battaglia ideale’- di cui mai l’una ha del tutto oscurato l’altra, trova fondamento la questione del continuismo, impostata nel senso della realizzazione di un processo di trasformazione, anche di negazione, senza che il processo medesimo fornisca i segni della sua presenza e della sua visibilità.

L’enfasi del processo, della prassi, porta Del Noce a criticare Gramsci, e il gramscismo, in nome di due equivalenze: quella fra rivoluzione e nichilismo (rivoluzione-distruzione), e quella fra continuità ideale e nascondimento della  innovazione sostanziale (continuità-superamento). La prima equazione ha messo capo al rapporto con Gentile, su cui non è il caso di ritornare. La seconda assume invece il significato di un gioco di apparenze, dove il conservare, non è altro che il vero volto-strumento del rimuovere, dove l’affermazione di una tradizione, non è altro che il mezzo per infrangerla, dove il livello del valore, cede -ancora una voltaa quello della prassi. Non si tratta soltanto di un modo di congiungere ‘passato e presente’, come recita un celebre titolo della redazione togliattiana dei Quaderni; si tratta di individuare, nel laboratorio culturale in cui questa funzione e questa conformazione del continuismo sono maturate, l’esito pratico cui tende un processo di trasformazione che avanza, grazie al fatto di celare il suo stesso movimento.

Continuare il passato è un modo per assorbirlo, negarlo, esattamente come Del Noce interpreta tutta la posizione del marxismo e della cultura rivoluzionaria gramsciana, su Benedetto Croce. Dalla filosofia della prassi, al laicismo antireligioso, all’importanza del conflitto ideale e dei suoi risvolti egemonici, il pensiero di Gramsci, adottato a statuto teorico del superamento politico, è stato utilizzato anche per assorbire il suo avversario, per conservarlo, devitalizzandolo, per reintegrarlo storicamente, proprio mentre lo azzera politicamente. “La vittoria sulla cultura crociana -rileva infatti Del Nocedoveva avvenire nella forma di continuità-superamento: il passaggio dell’intellettuale crociano al marxismo non doveva richiedere la forma di una conversione brusca, ma quella di una rigorosa coerenza apportata alle precedenti convinzioni […]. La cultura gramsciana si presentava dunque come la legittima erede della crociana […]”44.

Anche Croce deve passare attraverso una metamorfosi: il marxismo militante, conservando l’avversario nel velo della continuità-superamento, lo oscura e lo utilizza per la sua autolegittimazione. E’ questa, a giudizio di Del Noce, una prima forma di “compromesso”, anche abbastanza dinamica, legata com’è al progetto di un mutamento-assorbimento di tipo egemonico. La seconda forma si riferisce alla condivisione fra cattolici e comunisti della medesima scena politica. Quest’ultimo motivo, rispetto ad altri luoghi dell’impegno di Del Noce, è assai più sfumato nel testo ora in esame. Qui, però, egli dedica uno spazio particolare alla combinazione di compromesso e continuismo, dalla quale deriva la definizione dei caratteri del totalitarismo45, nel senso che il termine riveste nella sua elaborazione. Ecco dunque profilarsi il secondo nodo della questione del continuismo, per la verità affrontato meno di altri aspetti, o ridotto al significato più propagandistico del termine ‘totalitarismo’.

Per Del Noce, il totalitarismo si presenta anche in Gramsci, ma ben al di fuori del paradigma critico, ormai ‘classico’, di ‘democrazia e socialismo’46. Permane certamente nel nostro filosofo anche la preoccupazione di una verifica della coerenza democratica del comunismo in Occidente; essa è infatti oggetto di frequenti interventi più circoscritti e occasionali, di polemica politica quotidiana, direi. Ma la parte aurea del problema, è per Del Noce la ripresa, in seno al marxismo militante contemporaneo, della reidentificazione di morale e politica47. L’assenza di uno scarto fra le due dimensioni, fa della rivoluzione, come in Lukacs, una sintesi pratica del coinvolgimento integrale, che l’esito ultimo della rivoluzione medesima domanda48. Si profilano tre linee di critica del
totalitarismo, entrambe di carattere decisamente ‘sovrastrutturale’.

La prima, scorge nella reidentificazione di morale e politica una sorta di arretramento rispetto alla tradizionale tesi machiavelliana della separazione delle due esperienze. Ma soprattutto, Del Noce nega che questo livello di mondanizzazione integrale della morale, sia “l’unica via per la riacquisizione dell’unità interiore”49. In questo senso, il discorso sul totalitarismo offre al nostro autore una nuova occasione per respingere le possibilità di ricomposizione dell’uomo, a partire dal mondano e dal relativismo della politica. La saldatura fra politica e morale, in un quadro di motivazione generale ed assoluta dell’azione, cancellerebbe – sembra avvertire Del Noce – qualsiasi altro livello di giudizio, che non sia l’immediatezza dell’interesse organizzato in potere politico.

Un secondo livello di critica del totalitarismo si spinge, attraverso i testi gramsciani, al confronto-contrapposizione fra totalitarismo comunista (basato sulla identificazione fra politica e morale), e totalitarismo fascista (basato sul cesarismo), o “totalitarismo mancato”50. Non è naturalmente il caso di inoltrarsi nell’interpretazione del fascismo da parte di Del Noce, e tantomeno nell’uso che egli fa dell’analisi gramsciana, a riguardo; d’altro canto, le sue pagine non si soffermano su alcuni passaggi di rilievo, quali Americanismo e fordismo e la categoria di rivoluzione passiva, con la medesima intensità riservata ad altri aspetti di Gramsci e del gramscismo. Ma il vero interesse teorico di Del Noce guarda altrove, guarda alle interpretazioni del ‘900, alla polemica politica corrente, volendo egli evitare che l’alternativa fascismo-comunismo o fascismo-antifascismo, si risolva in un agile gioco di riflessi e di accomodanti strumenti di legittimazione. A Del Noce, in verità, preme la questione dei contenuti culturali del totalitarismo, molto più che quella delle sue etichette. Anche su questo piano vi è stato e vi sarà dibattito. Leggiamo però con chiarezza la sua posizione, collegandola direttamente al discorso sulla secolarizzazione, sulla perdita del senso religioso, e sulla trasformazione in religione della politica.

Questo è il terzo livello della critica delnociana del totalitarismo, forse quello che più sta a cuore del nostro filosofo, dal momento che egli stesso rivela che “Il caso Gramsci è […] importante perchè permette di saggiare i sensi di totalitarismo”51. Sotto questo profilo, la discussione che Del Noce agita, forse quella vera, travalica il confine dell’ideologia, e tocca direttamente la conformazione morale della politica, quando essa, totalizzandosi, si trasforma in religione, in valore trascendente ed indiscutibile. Del Noce qui sicuramente rigetta, nello schema rivoluzione-comunismo, un modello storico di rivoluzione socialista – peraltro l’unico disponibile –; ma insieme rigetta la sua assolutizzazione, la sua trasformazione in modello generale della motivazione politica, complice, a suo giudizio, il pensiero gramsciano.

Ora il comunismo è criticato in ragione non di un discorso democratico-istituzionale, ma perchè indirizzato ad una radicalizzazione del laicismo e della politica, capace di farsi religione, anzi un’antireligione che ricade nel suo contrario, insomma una teologia politica. Si parte, pertanto, dall’ affermazione nella mentalità rivoluzionaria che “trascrive in termini mondani l’aspirazione al “totalmente altro”; da ciò la simmetria dei fenomeni rivoluzionari con i religiosi (mentalità messianica […] intollerante […] che ha il riscontro politico nel rifiuto del riformismo, eccetera)”52. Si arriva, infine, dopo i passaggi  sull’arcaicità (premodernità) dell’ideale comunista, a rilevare in Gramsci, l’ espressione di un cattolicesimo rovesciato, di un comunismo elevato a religione. Ma la critica di Del Noce procede oltre quest’aspetto.

Il problema non concerne la sostituzione di un ideale storico-mondano, cioè il comunismo, alla natura metafisica dell’essenza religiosa; non si tratta cioè di respingere l’inversione fra finito e infinito, per usare il linguaggio delnociano, nè di riscattare, con l’argomento religioso, il ruolo della Chiesa cattolica dalla dura contestazione che le rivolge Gramsci. La questione di fondo è un’altra, per Del Noce: essa consiste nel fatto che tutte le diverse letture di Gramsci, comprese quelle suggerite in chiave di pluralismo e di teoria della transizione, non sciolgono il debito teorico verso il ‘ritorno’ di teologia politica, sia pure laicizzato e secolarizzato. Per valutare il pensiero gramsciano, sostiene il nostro filosofo, è stato necessario avallare una confusione e sovrapposizione radicale fra Kant e Machiavelli53, fra rigorismo e tecnicismo, cioè fra i due volti della politica divenuta essa totalità.

La risposta che Del Noce vuole offrire, insomma, passando per Gramsci, sta nella descrizione dello statuto contraddittorio della politica, fatta totalità. Questa politica, che ha rimosso ogni ostacolo religioso, ha assorbito nell’ideale rivoluzionario ogni altro dovere, ogni altra visione del mondo, è nuovamente tornata indietro ripetto a Machiavelli, e si è fatta essa religione, mondanizzando senza alternative anche il significato della temperie religiosa: “Non stupisce perciò – conclude Del Noce – se il comunismo italiano appare oggi come la forza più edeguata a mantenere l’ordine in un mondo in cui qualsiasi religione è scomparsa; non soltanto la religione cattolica, ma ogni sua forma anche immanentistica e secolare; anche la fede nel comunismo. L’insoddisfazione sincera dei rivoluzionari autentici trova giustificazione. Certo, il comunismo gramsciano può riuscire, ma realizzando l’esatto opposto di quel che si proponeva”54.

Si conclude così, coerentemente, un lungo percorso che parte dal rifiuto dell’acrisia della tecnica politica elevata a valore, e giunge alla constatazione dei rischi di teologia politica, interni anche alla teoria rivoluzionaria della lotta fra le classi. Il ‘suicidio’ della rivoluzione è un paradigma su cui Del Noce si concentra prima del 1989, prima della “fine di un’illusione”, come dice Furet55; prima che la rivo- luzione consumi il suo suicidio nel crollo dell’utopia, prima che anche i cattolici riaprano il problema del loro essere nel mondo, rinnovando il loro sguardo alla speranza e al senso eterno della vita56.

Ma, dovendo concludere, vorrei segnalare un tema di riflessione futura: nel suo discorso su Gramsci, Del Noce fa mostra di una tenacia e di una coerenza teorica vigorosissime, capaci anche di attraversare con armi filosofiche, il terreno difficilissimo della teoria politica della transizione. Contemporaneamente, però, la sua analisi ci lascia una formidabile, stimolante contraddizione: come si tengono insieme, un Gramsci gentiliano, attualista e rivoluzionario, e un Gramsci continuista, pronto ad inglobare nella rivoluzione tutto lo scenario storico che la riguarda, fino al risucchio di se medesima? Come si collegano insomma, l’atto con la sua fine e la stasi?

Del Noce non ci suggerisce risposta che non sia quella di un concetto della rivoluzione, dentro le pagine di Gramsci, così preoccupato di criticare, di togliere, così rapito dall’etica del contro, da ridursi nichilisticamente alla tautologia negativa. Ma forse l’ultima risposta, sta ancora nelle pagine di Gramsci, che sono da rileggere, evitando di inseguire organicismi e razionalizzazioni ipercoerenti. Forse la verità è in una scissione che è dentro l’opera di Gramsci, in quella torinese, e in quella del carcere. Converrà lavorare perchè emerga, se essa esiste; e anche questo risulterà per il contributo di Augusto Del Noce.


* Viene qui riproposto il testo della relazione, da me tenuta, al Convegno internazionale di studi su Augusto Del Noce: essenze filosofiche e attualità storica, (Roma, Università “La Sapienza”, 9 11 novembre 1995). Desidero rivolgere un sincero ringraziamento al Prof. Francesco Mercadante, organizzatore del Convegno medesimo e curatore dei relativi Atti, il quale generosamente ha acconsentito alla mia richiesta di pubblicare in anticipo questo contributo.

 

Note

1 Sul rapporto fra Augusto Del Noce e il marxismo, ma anche sull’intera esperienza del filosofo, esiste ormai una larga messe di interventi, che non è possibile discutere nel dettaglio, in questa sede. Vorrei tuttavia porre in evidenza che l’argomento viene qui richiamato senza nessuna intenzione di svolgerne gli aspetti relativi al dibattito politico-ideale, e senza alcuna accezione prossima a questioni di egemonia culturale. Si tratta, invece, di ripercorrere, in breve, un momento fondamentale della formazione ideale di Del Noce, soprattutto per quanto riguarda la definizione del moderno e il nesso fra pratica politica e deontologia dei valori. Il fatto, poi, che questo nodo di problemi contenga anche la posizione del nostro filosofo sul tema più generale della crisi del marxismo, che è degli anni successivi, testimonia anche della sua capacità di tradurre in linguaggio filo- sofico e in approfondimento culturale, tensioni e conflitti ideali, altrimenti destinati a cadere nella trappola del pregiudizio. In ogni caso, sulla interpretazione del marxismo in Del Noce, ma anche su un arco più vasto di contributi, rinvio alle recenti pubblicazioni, ricche di indicazioni bibliografiche, ora discusse, ora solamente menzionate, di R. BUTTIGLIONE, Augusto Del Noce. Biografia di un pensiero, Milano, Piemme, 1991; G. CECI-L. CEDRONI (a c. di), Filosofia e Democrazia in Augusto Del Noce, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1993; P. SERRA, Augusto Del Noce. Metafisica e storia, Napoli, ESI, 1995; C. VASALE, Augusto Del Noce: una “filosofia della libertà e dello spirito”, in C. VASALE-G. DESSÌ (a c. di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, Torino, SEI, 1996, e (ivi) P. SERRA, Filosofia e Libertà. Osservazioni sul rapporto fra Del Noce e Gramsci.


2 Meriterebbe maggiore spazio e attenzione il rapporto fra Del Noce e la politica, per la verità mai trascurato dagli studi più recenti. La critica del totalitarismo, il problema della democrazia, la riflessione sull’impegno militante dei cattolici e sui cattolici ‘di sinistra’, sono temi ricorrenti nell’opera del nostro filosofo, regolarmente ripresi da studiosi importanti (più di recente, G. CECI-L. CEDRONI, a c. di, Filosofia e Democrazia, cit.; C. VASALE-G. DESSÌ, a c. di, Augusto Del Noce e la libertà, cit.). Ma vi è una questione, sulla quale è il caso di soffermarsi brevemente, relativa alla difficoltà di indicare in Del Noce un concetto di politica chiaro e univoco. Pur non essendo una categoria fondante del suo pensiero, la politica ritorna più volte nei suoi scritti filosofici e in quelli a indirizzo di polemica culturale. Anzi, si può ben dire che Del Noce tratti di politica, sia nel senso più ampio del termine, sia in quello più restrittivo, con intenzione ora di una critica del ‘politico’, in quanto categoria, ora di una sua revisione, ora di una sua riaffermazione.

Ciò non dipende da un’ incertezza sull’argomento, o da una discontinuità del suo pensiero; dipende, semmai, dalla vasta gamma delle accezioni di ‘politica’, che si intrecciano nell’opera del nostro filosofo, senza che egli, volta a volta, ne definisca apertamente il senso, pur chiarissimo, nel suo lessico e nella sua veduta. Nella difficoltà di riconoscere un significato ed un ruolo nettamente politico ad un pensatore, come Del Noce, che si motiva tutto sul principio della trascendenza, Buttiglione opta per l’affermazione, fra “le caratteristiche del pensiero delnociano”, della “politicità della sua filosofia”, (R. BUTTIGLIONE, Augusto Del Noce, cit. p. 53). E’ una definizione molto suggestiva che, a mio sommesso avviso, tuttavia, non rappresenta sino in fondo lo spessore di questa “politicità”, in quanto la áncora, hegelianamente, ad un vincolo con il tempo, con il “proprio tempo”, dice Buttiglione, (ibidem). Non c’è dubbio che Del Noce avverta il senso della contemporaneità,  come materiale storico-umano su cui intervenire e lavorare, attraverso la filosofia; raramente calza come per il nostro autore, la definizione di “filosofo attraverso la storia”, (D. CASTELLANO, Introduzione. Del Noce, un filosofo attraverso la storia, in D. CASTELLANO, a c. di, Augusto Del Noce. Il pensiero filosofico, Napoli, ESI, 1982, p. 16). Ma è anche vero che la politicità del suo pensiero vuole esprimere l’esigenza morale di travalicare i confini della storia e del tempo, per riaffermare l’importanza del valore e dell’eternità. Nella nozione di politica che Del Noce adotta, vi è, insomma, una tensione continua, una dilacerante e feconda ambivalenza fra l’attimo presente, che è proprio del governo materiale, e l’eternità, che è propria della produzione di valori di civiltà. In tale ambivalenza si annida, in forma riassuntiva, tutta la dialettica delnociana fra azione come distruzione, e pensiero come conservazione, fra onnipotenza della decisione politica contingente, e sua esiguità nella grande dimensione dell’eterno.

In questo lessico senza mediazioni, si dispone tutto il discorso di Del Noce sui limiti della politica, ma anche sull’impossibilità di un suo totale oblio; cosicchè la sua filosofia si sviluppa esordendo dalla critica-rifiuto della politica, dalla critica della modernità in quanto irruzione del politico, per accettare poi, nei suoi passaggi migliori, la sfida di quel mondano che si concentra e si esprime nei topoi e nei soggetti della politica e del pensiero politico. A riguardo, Mercadante ricorda giustamente che “Lo storico delle origini in Del Noce coincide dialetticamente con lo storico della fine della modernità, e quindi con un contemporaneista principe. Non per nulla ha frequentato Marx per tutta la vita,[…] Per un “filosofo attraverso la storia”, secondo la formula che volentieri egli applica al fatto suo, ciò significa rispondere alla sfida dei contrari”. (F. MERCADANTE, Postfazione a A. DEL NOCE, Filosofi dell’esistenza e della libertà, raccolta di scritti a c. di F. MERCADANTE e B. CASADEI, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 663-664, passim). La stessa immagine di produttiva dilacerazione era, ancora, in Piovani, quando, quasi con un ossimoro, egli ricordava “l’esuberante passione storico-speculativa di Del Noce [cui] sta sempre a cuore qualcosa di più di quello di cui parla”. (P. PIOVANI, Scandagli critici, Napoli, Morano, 1986, p. 238). Il ruolo della politica, nel senso che ho cercato di illustrare, è inoltre ricondotto da Cesa, all’arduo “rapporto religione-politica”. (C. CESA, Augusto Del Noce e il pensiero moderno, in “Giornale critico della filosofia italiana”, maggio-agosto 1993, p. 192). Non è  sfuggita al fine studioso, la difficoltà della teoria di Del Noce, della sua dinamica di attrazione e repulsione rispetto al fatto della politica e all’ interpretazione del moderno in chiave di contrasto fra i due generi, per altro non affini, di religione e politica, di eternità e contingenza. La stessa duplicità di significato ricorre, infine, anche in Vasale, quando attribuisce a Del Noce un “realismo politico […] inclusivo della moralità”. (C. VASALE, Augusto Del Noce: una “filosofia della libertà e dello spirito”, in C. VASALE-G. DESSÌ, Augusto Del Noce, cit., p. 9). Politica e morale, nel loro rapporto, alludono alla tradizione come forma di vita da ritrovare, al livello del valore come luogo di esordio del ricominciare, allo statuto moderno del conflitto fra agire per un fine contingente e agire per un fine universale.

    3    A. DEL NOCE, Cartesio e la politica, in “Rivista di Filosofia”, vol. XVI, 1950, p. 3 e ss.

    4    A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini, raccolta di scritti a c. di F. MERCADANTE   e B. CASADEI, Milano, Giuffrè, 1992, p. 14.

    5    Ivi, p. 16.

    6    In termini inequivocabili, Del Noce indica la duplice “rottura” di cui sono responsabili, in parallelo, Descartes e Machiavelli: “Se consideriamo bene, –egli dice– è possibile trovare un’analogia strutturale tra la posizione cartesiana e la machiavellica, proprio nella guisa in cui esse rompono con l’umanesimo e iniziano il moderno. Che cosa, infatti, caratterizza il machiavellismo se non la coincidenza della determinazione della realtà politica nel suo carattere esistenziale con l’isolamento del politico dal problema della totale realizzazione umana (la politica come tecnica), e dove altro è la sua frattura con l’umanesimo, almeno nel suo principio logico iniziale? Sembra ora che abbiamo in Cartesio, trasposto, qualcosa di simile. L’accentuazione del tema esistenziale -il problema della verità posto come indisponibile da quello della mia affermazione come esistentecoincide con l’isolamento della filosofia dalla totale realizzazione dell’uomo: e cioè, mentre per l’umanesimo l’uomo si realizza pienamente soltanto nella comunità, la realtà sociale è posta da Cartesio come esteriore al mio realizzarmi quale essere spirituale”. (A. DEL NOCE, Cartesio e la politica, cit., pp. 8-9). Alla separazione machiavelliana della politica dalle altre forme della vita spirituale, fa riscontro, dunque, la separazione cartesiana operata, invece, a partire dalla vita spirituale.

    7    Ivi, pp. 7-8.

56    8 A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini, cit., p. 44.

    9    Questo è un altro argomento che meriterebbe un’analisi autonoma e dettagliata. In  questa sede resterò al tema del mio contributo, limitandomi a segnalare la ricca discussione di R. BUTTIGLIONE, nel cap. IV del suo Augusto Del Noce, cit. Ma si veda anche, di P. SERRA, Augusto Del Noce. Metafisica e storia, cit.

    10    A. DEL NOCE, Marxismo e salto qualitativo, in “Rivista di Filosofia”, 1948, p. 209. Si tratta di un intervento di grande importanza, che Del Noce scrive in dibattito serrato nei confronti di Felice Balbo, autore di Religione e ideologia religiosa, apparso nella medesima rivista e nella stessa annata. L’oggetto del contendere è nelle posizioni critiche che Del Noce illustra con forti argomentazioni teoriche, rivolte all’indirizzo del “cristiano-marxismo” e dei “cristiani di sinistra”. Molto opportunamente, Mercadante ricorda, a riguardo, la lunga frequentazione che Del Noce ha del marxismo, in quanto lo assume come “un fenomeno epocale”, e perciò “lo analizza per circa quarant’anni”. (F. MERCADANTE, L’interpretazione filosofica della storia contemporanea, in D. CASTELLANO, (a c. di Augusto Del Noce, cit., p. 31).

    11    A. DEL NOCE, Marxismo e salto qualitativo, cit., pp. 209-210.

    12    Ibidem.

    13    Ivi, p. 211.

    14    Ivi, p. 223.

    15    A. DEL NOCE, La “non-filosofia” di Marx e il Comunismo come realtà politica, in E. CASTELLI (a

c. di), Atti del Congresso Internazionale di Filosofia, promosso dall’Istituto di Studi Filosofici, Roma 15-16 novembre 1946, vol. I, Il Materialismo Storico, Milano, Castellani e C. Editori, 1947, p. 381.

    16    Ibidem.

    17    A. DEL NOCE, Marxismo e salto qualitativo, cit., pp. 214-215.

    18    A. DEL NOCE, Cartesio e la politica, cit., p. 7.

    19    Con differenti argomentazioni, più volte sono apparsi articoli e interventi tendenti a criticare, rettificare, respingere, il rapporto Gentile-Gramsci, per come Del Noce lo ricostruisce. Si vedano, fra gli altri, B. DE GIOVANNI, Etica e religione in Giovanni Gentile, in M. CILIBERTO (a c. di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Roma, Editori Riuniti, 1993. De Giovanni, per la verità, è incline ad una distinzione fra Gentile e Gramsci assai più esile, sino a guadagnarsi la non velata critica di essere traduttore “in campo “gramsciano” della riflessione di Augusto Del Noce”, (G. LIGUORI, Gramsci conteso, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 254.); A. INFRANCA, Del Noce critico di Gramsci e Gentile, in “Critica Marxista”, n. 4, 1994; F. IZZO, Filosofia della prassi e concezione della modernità, in “Critica Marxista”, n. 2-3, 1987; L. LA PORTA, Gramsci secondo Del Noce o Gramsci secondo Gramsci?, in “Critica Marxista”, n. 3, 1993; G. LIGUORI, Gramsci conteso, cit.; P. SERRA, Tradizione italiana e “suicidio della rivoluzione”. Il momento genetico della centralità del nesso Gentile-Gramsci nel modello analitico di Augusto Del Noce, in M. CILIBERTO (a c. di), Croce e Gentile, cit.; P. SERRA, Osservazioni sul rapporto tra Del Noce e Gramsci, in C. VASALE-G. DESSÌ (a c. di), Augusto Del Noce e la libertà, cit.; G. VACCA, Gramsci e Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1991;
G. VACCA, L’interpretazione di Gramsci nel secondo dopoguerra, in “Studi Storici”, n. 2-3, 1993.

    20    Questa linea di evoluzione ‘filosofica’ del marxismo, da cui deriva Gramsci, è molto ricorrente negli interventi sul Gramsci di Del Noce. Vale la pena di porne in evidenza il punto di approdo, ben sintetizzato da Serra, (P. SERRA, Tradizione italiana e “suicidio della rivoluzione”, cit. p. 152). Qui si parla di un “Gramsci filosofo”, come condizione per considerare autosufficiente il suo pensiero. E’questa, per Serra, la tesi di Del Noce, che nella “filosofia” di Gramsci vedrebbe una sorta di allontanamento e quasi di fuoriuscita dal marxismo. Gramsci, così, sarebbe moderno perchè si allontana da Marx: è un’ interpretazione discutibile della posizione di Del Noce, che credo voglia accentuare, nel dirigente comunista, sì l’originalità, ma anche la dipendenza da un patrimonio -il marxismo/filosofia della prassitutto compiuto nel moderno.

    21    Giustamente Serra conclude un suo intervento sul Gramsci di Del Noce (Tradizione italiana e “suicidio della rivoluzione”, cit.), ponendo in evidenza che la filosofia della prassi è segnata da due precisi caratteri distintivi: da una parte appartiene alla vicenda occidentale del marxismo; ma dall’altra parte essa domanda a sua volta una storicizzazione, in quanto attiene alla definizione della tra- dizione italiana del marxismo. Il rapporto fra marxismo e filosofia rimane così una definizione molto larga, e molto attuale, per riproporre una distinzione critica all’interno di una precisa tradizione politica. Va tuttavia notato che, se il discorso di Del Noce utilizza, nel nesso fra politica e filosofia, l’occasione anche per un intervento di critica politica tout court, ciò non vuol dire che la sua lettura di Gramsci debba servire solo ad una discussione sul gramscismo, come ‘stagione ‘ del marxismo  militante in Italia. Ad una simile conclusione indulge spesso Serra, pur in un contesto di idee molto stimolanti. Personalmente ritengo che il filtro delnociano soccorra per identificare non poche ‘forzature’ del Gramsci degli anni ‘70; ma oltre questo aspetto, resta tutta da percorrere la ricerca di quello che il nostro filosofo voleva affermare, oltre Gramsci e oltre un’accezione non già solo del marxismo di Gramsci, ma anche della politica, nell’ultimo scorcio del secolo.

    22    Per una più compiuta analisi della riflessione delnociana su Giovanni Gentile, è d’obbligo rinviare a A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna, 1990.

    23    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1992, p. 121.

    24    Oltre i testi precedentemente richiamati, si veda G. GOISIS, Il suicidio della rivoluzione: Augusto Del Noce critico del gramscismo, e G. M. POZZO, Augusto Del Noce di fronte a Giovanni Gentile, entrambi in D. CASTELLANO (a c. di), Augusto Del Noce. Il pensiero filosofico, cit.

    25    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, cit. pp. 122-123.

    26    Ivi, p. 253.

    27   Ivi, p. 126.

    28    Rinvio, a riguardo, alle indicazioni fornite precedentemente alla nota n. 19 e, più ampiamente, alla generosa ricostruzione di G. LIGUORI, Gramsci conteso, cit.

   29    A. GRAMSCI, Il nostro Marx, in “Il Grido del Popolo”, 4 maggio 1918; ora in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino, Einaudi, 1958, p. 217. Qui Gramsci si attiene ad una immagine di Marx assolutamente dettata dall’urgenza della politica e dalla categoria dell’attualità della rivoluzione, in questi anni centrale per il giovane dirigente: “Marx è stato grande, –egli dice– […] perchè il frammentario, l’incompiuto, l’immaturo è in lui diventato maturità, sistema, consapevolezza […] per questo fatto egli non è solo uno studioso, è un uomo d’azione; […] i suoi libri hanno trasformato il mondo, così come hanno trasformato il pensiero” (ivi, p. 218, passim). Nello stesso articolo Gramsci, sul modello già attivo nella classe dominante, inverte dichiaratamente il processo di acquisizione di autocoscienza, muovendo dalla pratica politica, verso la consapevolezza ideale dei fini: “La classe che detiene lo strumento di produzione -egli scriveconosce già necessariamente se stessa, ha la coscienza, sia pur confusa e frammentaria, della sua potenza e della sua missione. Ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, […]”; (ivi, p. 219).

Ma sul giovane Gramsci, rinvio al testo, non recente, però molto ricco di analisi, di L. PAGGI, Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, 1970. Si veda anche di G. BERGAMI, Il giovane Gramsci e il marxismo. 1911-1918, Milano, Feltrinelli, 1977, dove emerge una tesi su di un certo gentilismo nel giovane Gramsci. Mi permetto, infine, di ricordare, sempre sulla formazione politica giovanile di Gramsci, S. SUPPA, Il primo Gramsci. Gli scritti politici giovanili, (1914-1918). Napoli, Jovene, 1976.

    30    A. GRAMSCI, La rivoluzione contro il “Capitale”, in “Avanti!”, ediz. milanese, 24-11-1917 e in “Il Grido del Popolo”, 12-1-1918; ora in Scritti giovanili, cit. p. 149: “La rivoluzione dei bolsceviki –scrive Gramsci– è […] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’èra capitalistica […]. I fatti hanno superato le ideologie […] I bolsceviki rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’ azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato”, (ivi, p. 150, passim). Non è certamente poco, per antedatare la critica del materialismo storico in Gramsci, nonchè la sua tendenza a capovolgere il rapporto fra storia e politica.

    31    Del Noce, nelle pagine introduttive del suo cit. Il suicidio della rivoluzione, richiama frequentemente gli anni e le esperienze del giovane Gramsci, con particolare riferimento al suo sodalizio intellettuale con Piero Gobetti. Inoltre, alla p. 280 dell’op. cit. è menzionata, relativamente agli anni di Il grido del popolo, la figura di Renato Serra. Infine, molto ripetuti sono i riferimenti al periodo e agli articoli di L’Ordine Nuovo; in particolare, va richiamato l’articolo del 1° novembre 1919 in cui Gramsci conia il termine del suicidio politico a proposito dei ‘Popolari’. Questo articolo è attentamente analizzato dal Del Noce, op. cit., pp. 260-261.

    32    N. BOBBIO, Gramsci e la concezione della società civile, in P. ROSSI (a c. di), Gramsci e la cultura contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, Roma, Editori Riuniti, 1969.

    33  La sintesi più ricca di questi riferimenti polemici, mi pare sia ricompresa, oltre che nei già citati contributi su Augusto Del Noce, in G. VACCA, Gramsci e Togliatti, cit.; G. LIGUORI, Gramsci conteso, cit.; nei già menzionati interventi su Del Noce, di P. SERRA; e ancora B. DE GIOVANNI, Il Marx di Gramsci, in B. DE GIOVANNI-G. PASQUINO, Marx dopo Marx, Bologna, Cappelli, 1985; L. PAGGI, Le strategie del potere in Gramsci. Tra fascismo e socialismo in un paese solo. 1923-1926, Roma, Editori Riuniti, 1984.

    34    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, cit. p. 124.

    35    Ibidem.

    36    A. GRAMSCI, Socialismo e cultura, in “Il Grido del Popolo”, 29 gennaio 1916; ora in Scritti giovanili, cit., p. 25, Vale la pena di richiamare per esteso il brano, assai significativo: “È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica oggi vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale.”

    37    Cfr. U. SPIRITO-A. DEL NOCE, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Milano, Rusconi, 1972, pp. 112 e ss.

    38    Sia pure in maniera più implicita e nell’ambito della serrata discussione sulle posizioni di Franco Rodano, la critica del concetto di rivoluzione ritorna in A. DEL NOCE, Il cattolico comunista, Milano, Rusconi, 1981, p. 347 e ss.

    39    L’immagine deriva dal rapporto Socrate-Bruno, che Del Noce richiama: il primo è negato da un dichiarato interesse della polis, distinto dalla “vita spirituale”. Il secondo è invece condannato al rogo sulla base della “falsità” della sua filosofia, dichiarata tale da un potere politico rivestito, anche, di autorità religiosa. Qui lo spirito, senza autonomia, è interamente rappresentato e posseduto dal politico. La contraddizione fra relativismo della vita spirituale e assolutismo della vita politica, è il punto di approdo di un ragionamento più vasto, al centro del quale vi è proprio la critica della logica contraddittoria del rivoluzionario, ribattezzato da Del Noce “attivista”: “[…] il soggetto delle esperienze attivistiche – egli scrive– si riduce a volontà; e l’agire gli si presenta come un imperativo (soltanto nell’azione io affermo la mia esistenza come soggetto; il non agire coincide perciò con la degradazione morale). Da ciò la prima fondamentale contraddizione dell’attivismo: l’azione a cui dà luogo sarà necessariamente immorale, per il disconoscimento della realtà degli altri, e al tempo stesso dovrà necessariamente esser mistificata come morale […] E, seconda fondamentale contraddizione: […] l’attitudine attivistica […] è segnata da un’essenziale politicità nel senso rigororso che non può attuarsi che sul piano politico; ed è la contraddizione di questi suoi due fondamentali aspetti a far sì che essa non possa esplicarsi che come distruttiva di una comunità […] Per conseguenza, l’attivismo deve dar luogo a un’ elevazione della politica a religione, che è un fenomeo radicalmente nuovo nella storia”. (A. DEL NOCE, La “non-filosofia” di Marx, cit. pp. 382-383, passim). L’equazione fra riforma rivoluzionaria, e sua alterazione nell’asocialità della teologia politica, è del tutto evidenziata. Essa è, nel linguaggio di Del Noce, la radice originaria della vocazione suicida di ogni rivoluzione.

    40    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 255.

    41    Per non interrompere l’unità di questo importante passaggio, non sono state inserite nel testo le citazioni utili a dimostrarne il fondamento. Riporto in nota, pertanto, pochi passi di una pagina di Del Noce, in cui teoria delle sovrastrutture, nella sintesi della “riforma intellettuale e morale”, primato della politica e nesso con Gentile, sono facce del medesimo prisma teorico: “Quanto sinora si e detto -scrive Del Noceporta a riconoscere come le tesi gramsciane siano così concatenate che la discussione sul loro valore si riduce a un punto unico: la pensabilità della sua filosofia come verità. È cioè impossibile separare il giudizio sulla sua politica da quello sulla sua filosofia, perchè per lui la politica è “filosofia in azione”; non nel senso di una politica che si modelli su una filosofia o si subordini alla sua guida, ma in quello secondo cui la politica è la forma in cui la filosofia si esprime. L’unità della teoria e della prassi è la liquidazione della “teoria”, perchè il pensiero è identico alla prassi; [questo c.vo è mio]”. Poco oltre, Del Noce, per indicare l’idea di immanenza in Gramsci, ed il suo carattere tutto risolto nel progetto politico, cita a sua volta un passo dei Quaderni, relativo alla “riforma intellettuale e morale”, e vi aggiunge una significativa considerazione: “Perciò -egli scrive, rileggendo le parole gramscianeuna riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. [A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a c. di V. GERRATANA, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, p.1561]. Portiamo l’attenzione sulla seconda parte: avremo che il socialismo è la concretezza della riforma intellettuale e morale, perchè media il pas- saggio dall’individuo-singolo all’individuo-collettivo. E’ un pensiero che sottende sempre così gli articoli de “L’Ordine Nuovo” come i Quaderni. E sempre ritorna l’ispirazione gentiliana”. A. DEL NOCE, Il suicidio cit., p. 304.

    42    Ivi, p. 261.

    43    La sintesi più efficace intorno alle ragioni della prima edizione dei Quaderni del carcere, quella cosiddetta ‘tematica’, o anche ‘togliattiana’, mi sembra sia nei due contributi di G. VACCA, Gramsci e Togliatti, cit. e L’interpretazione di Gramsci nel secondo dopoguerra, cit.

    44    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 264-265, passim.

    45    Spunti molto interessanti sul totalitarismo, sono già nel saggio di G. DESSÌ, Del Noce critico del totalitarismo, in G. CECI-L. CEDRONI (a c. di), Filosofia e Democrazia in Augusto Del Noce, cit. Dessì tratta l’argomento con particolare attenzione al doppio versante antifascismo-anticomunismo. A suo giudizio, la tutela della libertà diventa in Del Noce preoccupazione centrale, dopo il ventennio di regime, e anche dopo la vicenda di Ungheria. Sono, questi, argomenti certamente vivissimi nell’esperienza del nostro filosofo, ma io credo che il nodo del totalitarismo meriti anche un’altra spiegazione, teorica, ben più profonda rispetto alla pur vera e fondamentale opposizione ai sistemi politici senza libertà.

    46    È il caso di citare le parole di Del Noce, al quale non sfugge la capacità innovativa del pensiero di Gramsci, rispetto alla sua stessa tradizione, nonchè la tendenza ad impostarvi i principi di una teoria occidentale della transizione al socialismo, in alternativa alla continuità della formula del sistema sovietico: “E’ ben nota - scrive Del Nocela tranquillante risposta abituale: per resistenze e contrasti che possa incontrare nell’URSS e nei Paesi satelliti, il processo di evoluzione democratica è tuttavia irreversibile; nei Paesi occidentali i partiti comunisti tendono sempre più ad abbandonare il modello sovietico per assumere il volto umano. Naturalmente, […] il processo non può che essere lento; ma d’altra parte, non si può rinunciare né a quella grande parte di verità che il marxismo possederebbe, né al pluralismo. E’ nota anche la tesi opposta: la “barbarie” ha le sue radici filosofiche nel marxismo stesso. Penso che proprio la considerazione del pensiero di Gramsci, in cui si deve riconoscere, nelle intenzioni, il più liberale tra gli eredi del marxleninismo, possa portare a veder chiaro in tale questione. A chi chiedere infatti la risposta se non a lui, come al più umano dei comunisti?”. A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione cit., p. 273.

    47    Dessì ne parla già a proposito della critica del marxismo che Del Noce fa negli anni ‘40. (G. DESSÌ, Del Noce critico del totalitarismo, cit.).

    48    A. DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 273-274.

    49    Ivi, p. 274.

    50    Ivi, p. 276

    51    Ibidem.

    52    Ivi, p. 277

    53    Ivi, p. 295

    54    Ivi, p. 334.

    55    F. FURET, Il passato di un’ illusione: l’idea comunista nel XX secolo, Milano, Mondadori, 1995.

    56    Momento di particolare consapevolezza di questa mentalità, è certamente il testo-intervista di GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Milano, Mondadori, 1994.