Parte I.
Il gramscismo, malattia di ogni età del movimento operaio
1. Introduzione.
A torto o a ragione, Antonio Gramsci è riconosciuto oggi come uno
dei padri spirituali di una vasta schiera di gruppi, associazioni
politiche e movimenti che, in tutti i paesi industrializzati,
pongono l’emancipazione del proletariato nelle mani del
proletariato stesso, per mezzo della conquista diretta
dei mezzi di produzione e nei
luoghi della produzione. Tutti costoro
sostengono che solo nel momento in cui l’operaio pone se stesso
come produttore del proprio lavoro, come padrone dei propri
strumenti di produzione, vi è la concreta possibilità della
vittoria rivoluzionaria.
Questa posizione risolve il problema dell’organizzazione del
movimento operaio nell’atto spontaneo di creazione di “Soviet
artificiali, questi «fiori di serra»” tuttavia destinati a
compromettere l’idea dello Stato rivoluzionario agli occhi del
proletariato nel momento in cui su di essi venisse a mancare
l’azione del partito1. Tale concezione fu definita al momento
stesso della sua comparsa dalla Sinistra internazionale come
spontaneista ed immediatista. Essa infatti, mentre nega il ruolo
insostituibile del partito rivoluzionario quale volontà
impersonale e forza collettiva organizzatrice e centralizzatrice,
fa dell’organizzazione spontanea - consiglio di fabbrica, Soviet,
sindacati d'industria e di categoria, organizzazioni di
consumatori - la forma rivoluzionaria per
eccellenza, che garantisce di per
sè il successo. Questa posizione,
antileninista per eccellenza, è riemersa ovunque le tensioni
sociali si sono fatte più acute in questo secondo dopoguerra. Essa
rappresenta storicamente una delle più gravi deviazioni dal
terreno rivoluzionario proprio nel momento in cui si ammanta della
frase rivoluzionaria. Essa mina alla base la direzione unitaria
delle lotte, mentre cerca di elevare a modello forme di
organizzazione spontanee e di carattere locale il cui banco di
prova più tremendo, la Germania del 1919-1920, si concluse con una
delle disfatte più amare del proletariato europeo.
E tuttavia, il “marxismo imperfetto” o premarxismo di Gramsci
nella sua elaborazione originaria appare ben superiore, da un
punto di vista del ruolo rivoluzionario della classe, alle
interpretazioni che i suoi epigoni ne daranno in seguito, per far
passare ovunque le tesi più
visceralmente anticomuniste: il socialismo in un solo paese, lo
snaturamento completo dei rapporti tra i partiti e
l’Internazionale, l'interclassismo più spudorato.
Strumento troppo docile in mano alle forze gigantesche mobilitate
dall’ondata controrivoluzionaria che si abbatterà sul movimento
operaio internazionale, isolato dai suoi stessi compagni, Gramsci
perderà anche l’unica, grande occasione che la storia della
sconfitta può concedere ai rivoluzionari:
quella di fissare in via
definitiva, foss’anche definita “schematica” e
"dottrinale" dai suoi detrattori, le tesi invarianti del
materialismo dialettico che, sole, possono garantire la ripresa
futura e il riarmo teorico del proletariato. Fu questo il
grandioso compito che poté pienamente essere assolto solo dalla
Sinistra nei lunghi decenni di fascismo, di stalinismo, di
democrazia del XX secolo.
Ristudiare le radici di questo movimento che per brevità, non
certo per riaprire una polemica contro un individuo, riconduciamo
al nome di Gramsci, non è dunque un vezzo
storiografico ma, per il partito rivoluzionario, una vitale
necessità pratica, in prospettiva della
ripresa della lotta di classe e per le sue finalità storiche. La
necessità di ribadire, di fronte e contro Gramsci e i suoi epigoni
moderni, la priorità del partito di classe su qualsiasi altra
forma di organizzazione immediata nel campo della produzione o del
consumo; di riaffermare che la rivoluzione si pone il compito non
di aumentare la produzione in nessuna fabbrica capitalistica, ma
quello di rompere, per sempre, il meccanismo aziendale.
2. L’idealismo di Gramsci
L’ambiente intellettuale in cui si è formato il giovane Gramsci,
da poco trasferitosi a Torino, la grande metropoli industriale del
1911, si divide tra quello decisamente idealistico di Croce2
e quello socialista riformista di
Mondolfo3 In particolare, la
lezione “educazionista” di quest’ultimo resterà bene
acquisita a tutto il movimento ordinovista. Tutt’al più, essa si
sposterà dal concetto dell’educare il popolo, in generale, come
sostenuto da Angelo Tasca, uno dei padri spirituali dell’Ordine
Nuovo, fin dal 1912, a quello più genuinamente gramsciano
dell’educazione di buoni produttori, elevandone e perfezionandone
le capacità tecniche professionali.
Come è noto, la prima battaglia sostenuta dalla Sinistra
“italiana” nel 1912 in nome del marxismo fu proprio
quella “anti-educazionista”: battaglia che purtroppo
non servirà per evitare il manifestarsi di questa stessa patologia
“culturale” qualche anno dopo, ma in un contesto ben
più incandescente, durante il
periodo post-bellico dell’occupazione delle
fabbriche. Le seduzioni dell’illuminismo agivano in profondità -
ed agiranno in seguito - nei partiti socialisti della II
Internazionale, che vedevano nell’educazione del proletariato la
strada alla rivoluzione. Si sarebbe trattato, per Angelo Tasca e i
suoi sostenitori della corrente di destra, “di
ingentilire ed elevare l’anima e
la mente della gioventù proletaria,
con una istruzione generica, letteraria e scientifica [...]
di creare competenti organizzatori e buoni produttori, mediante
una opera di elevamento e perfezionamento tecnico professionale,
senza il quale non sarà realizzabile la rivoluzione socialista”. A
ciò si oppose allora, e lo ripetiamo oggi sulle pagine
dell’Ideologia tedesca, che la “cultura” è temibilissimo strumento
di conservazione nelle mani delle classi che hanno il potere. Ci
rifiutammo di seguire Tasca nei suoi sforzi, che saranno poi
quelli del Gramsci dell’Ordine Nuovo, e ponemmo ben chiaramente
che “scopo del movimento nostro è contrapporsi ai sistemi di
educazione della borghesia, creando dei giovani intellettualmente
liberi da ogni forma di pregiudizio, decisi a lavorare alla
trasformazione delle basi
economiche della società,
pronti a sacrificare
nell’azione rivoluzionaria ogni interesse individuale [e che] una
tale educazione può essere data solo dall’ambiente proletario
quando questo viva della lotta di classe intesa come preparazione
alle massime conquiste del proletariato, respingendo la
definizione scolastica del nostro movimento e ogni discussione
sulla sua così detta funzione tecnica”.
E’ inutile, oltre che impossibile, seguire qui il percorso
idealistico del giovane Gramsci attraverso i suoi scritti. Non è
fuori luogo, tuttavia, ricordare come tutti i suoi scritti
giovanili, ma anche e forse più quelli dell’età matura, sono
permeati di idealismo sia nell’approccio storico che in quello
politico, dove all’azione della classe spesso si sostituisce la
volontà dell’intellettuale. Quasi tutte le pagine del Grido del
popolo, giornale di cui egli fu redattore dal 1914, risentono di
un’ideologia che, rielaborata in anni successivi, apparirà ad
alcuni commentatori, non a torto, come marxismo in una sua
versione di idealismo soggettivo4. Ad esempio, vi si sostiene
l'opinione che “il Risorgimento italiano è stato un movimento
politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del
popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa”
e come non si supera il cattolicesimo ignorandolo, così non si
supera l’idealismo trattandolo come semplice questione di cultura.
“Nella lotta tra il Sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto, perché
Hegel è la vita del pensiero che non conosce limiti e pone se
stesso come qualcosa di transeunte, di superabile, di sempre
rinnovantesi come e secondo la storia”5. Così non sarebbe
difficile dimostrare come la sua impostazione filosofica lo abbia
trascinato in seguito in una serie di posizioni politiche che
hanno gravemente danneggiato il cammino formativo del PCd’I, già
nato in ritardo su posizioni che la stessa Sinistra - che ne fu
levatrice - non esitò a definire spurie, e finito nell’eclettismo
teoretico più completo.
Sono questi, dunque, i presupposti
ideologici che conducono Gramsci a
giungere sempre in ritardo su tutta una serie di quesiti che la
storia, in quegli anni fiammeggianti,
poneva alle organizzazioni rivoluzionarie.
3. Neutralista attivo ed operante
Il primo “ritardo” si manifesta nei confronti della posizione di
disfattismo rivoluzionario. In una serie di articoli la Sinistra
astensionista, dopo il tradimento di Mussolini, esortava a non
“adattarsi ad un socialismo nazionale [poiché] il proletariato
dovrà essere domani più apertamente antimilitarista e definire il
suo atteggiamento di fronte al patriottismo […] Noi socialisti
italiani […] dovremo negare allo Stato anche la nostra solidarietà
nella difesa nazionale”6. In seguito la medesima posizione era
ribadita ancora più esplicitamente: “Noi siamo fautori della
violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge
contro l’oppressione del più forte, o della violenza anonima della
massa che si rivolta per la libertà”.
Al contrario, in un confuso articolo («Neutralità attiva ed
operante», Il Grido del Popolo,
31 ottobre 1914) Gramsci esprime una posizione di
filointerventismo mussoliniano, in cui l’azione del proletariato è
vista tutta in termini di “via italiana”, che non è nemmeno quella
del
tutto insufficiente della neutralità assoluta, ma dev’essere
quella della neutralità attiva ed
operante, mediante la quale la classe lavoratrice costringe la
borghesia a riconoscere di aver “completamente fallito al suo
scopo, poiché ha condotto la nazione […] in un vicolo cieco”.
Questo compito va assolto dal partito socialista; e “questo
compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri
speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita
italiana una sua funzione specifica”. Se ciò può apparire diverso
da quanto fino ad ora sostenuto dal PSI, prosegue Gramsci, poco
importa, poiché “i rivoluzionari [...] concepiscono la storia come
creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di
strappi operati sulle altre forze attive e passive della società”.
Per Gramsci, dunque, strategia e tattica del partito vanno scelte,
caso per caso (le “vie al socialismo” sono infinite!) sulla base
di motivazioni ideali di volontarismo soggettivistico. Ciò
non dipende affatto da una malintesa interpretazione del marxismo,
che rimane del tutto
assente nelle sue valutazioni, e i cui riferimenti sono presenti
solo in termini vaghi o negativi. Ciò che costituisce il
monolitico ed invariante bagaglio dottrinale comunista, in Gramsci
è sostituito da una “ricerca individuale” che passa attraverso la
“cultura”, che “è organizzazione, disciplina del proprio io
interiore, è presa di possesso della propria personalità, è
conquista di coscienza superiore... Ma tutto ciò non può avvenire
per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni
indipendenti dalla propria volontà...
L’uomo è soprattutto spirito, cioè
creazione storica, e non natura” («Socialismo e cultura», Il Grido
del Popolo, 29 gennaio 1916). E' su queste dissestate basi
ideologiche che sta maturando, nella "proletaria" Torino del
dopoguerra, la deviazione immediatista e localista che cercherà la
sua ragion d'essere nel movimento dei Consigli di fabbrica. Nel
frattempo, ma sempre con le stesse cause ideologiche, troviamo il
secondo "ritardo" gramsciano, nella incomprensione di ciò che è
stato, per il proletariato internazionale, l'Ottobre russo.
4. La rivoluzione russa
E’ sulla base di una tale “elaborazione critica” del concetto di
lotta di classe e del marxismo (o di ciò che egli considerava
tale) che Gramsci perverrà a formulare la sua valutazione sulla
rivoluzione russa.
Perfino alcuni degli storici dozzinali, ieri stalinisti ed oggi
democratici convinti, che nell’ordinovismo esaltano a ragion
veduta le radici di tutti i peggiori opportunismi del secondo
dopoguerra, sono costretti ad ammettere che l’articolo «La
rivoluzione contro il “Capitale”» (Avanti!, 24 novembre 1917) è
totalmente affetto di hegelianesimo e di crocianesimo (Fiori); che
è parzialmente idealistico (Livorsi); altri, come F. De Felice,
Tamburrano e Spriano, preferiscono vedervi la “fiducia nei fatti”,
più forti delle ideologie, e la conferma che la rivoluzione russa
è un avvenimento che non può essere preso a modello (del che
purtroppo, ottanta anni di “socialismo in un solo paese” e di
sbando del movimento internazionale hanno mostrato la tragica
realtà). Beninteso, è d’obbligo quasi per tutti costoro tacere di
questo articolo, dopo le proprie elucubrazioni “critiche” sul
pensiero gramsciano, la cruda realtà delle parole: “La rivoluzione
dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti... Essa
è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di
Marx era in Russia il libro dei borghesi, più che dei proletari”.
I bolscevichi non sono marxisti; essi “vivono il pensiero
marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era
contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche”.
L'idea gramsciana secondo cui in Russia “i fatti hanno superato le
ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro
i quali la storia della Russia avrebbe dovuto
svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi
rinnegano Carlo Marx” viene presentata ai socialisti italiani come
novità critica. Si tratta in realtà di una questione su cui i
comunisti russi, da Plechanov a Lenin, si erano pronunciati circa
trent'anni prima, nel corso di
aspri dibattiti teorici sul destino
rivoluzionario della Russia. In
polemica dapprima con i populisti, poi con gli
economisti e da ultimo con i menscevichi, per i quali la
rivoluzione avrebbe dovuto fermarsi alla sua forma di dittatura
borghese, al Febbraio 1917, Lenin aveva dimostrato,
maneggiando in modo magistrale i
principi fondamentali del marxismo, la
necessità di superare la formula della dittatura democratica del
proletariato e dei contadini a favore di quella della dittatura
del proletariato.
Ma questa non può essere la posizione di Gramsci. Infatti il
commento che egli aveva fatto della rivoluzione di febbraio7
è entusiastico, dimostrando tutta la sua incomprensione sia del
fenomeno storico sia della funzione del partito, che quel fenomeno
doveva guidare: La sua idea è che la rivoluzione di febbraio deve
sfociare necessariamente nel regime socialista, 1) perché è stata
antigiacobina8; e i rivoluzionari socialisti (opportunamente
nell'articolo non si parla mai dei bolscevichi) non hanno per
programma l'idea giacobina della dittatura di una minoranza audace
e decisa a tutto pur di far trionfare il proprio programma; 2)
perché essi hanno sostituito l'autoritarismo zarista con la
libertà, alla costituzione hanno sostituito “la libera voce della
coscienza universale”; 3) perché i rivoluzionari socialisti russi
hanno solo “il compito di controllare che gli organismi borghesi
[…] non facciano essi del giacobinismo per rendere equivoco il
responso del suffragio universale”. Quanto siamo lontani dagli
autori delle Tesi di Aprile, di Stato e Rivoluzione, di Terrorismo
e Comunismo! Quanto lontani dallo scioglimento dittatoriale di
ogni illusoria, controrivoluzionaria Assemblea costituente!
5. La questione del partito e i Consigli di fabbrica
Poco ci importerebbe l’evoluzione intellettuale del giovane
Gramsci se questa, con tutte le sue indecisioni e incomprensioni
della realtà della lotta di classe e dei mezzi indispensabili per
dirigerla, non si fosse riflessa nel campo dell’organizzazione
politica in un momento probabilmente decisivo del movimento
rivoluzionario italiano.
Il lettore poco avvertito delle condizioni in cui nacque il
Partito comunista d’Italia sarà probabilmente stupito di
apprendere che le fantasticherie ideologiche di cui abbiamo dato
un
solo pallido esempio, e di cui si ammantò dalla nascita il
gramscismo, sono presentate ancora
oggi come capacità “di accostarsi più di tutti gli altri
osservatori contemporanei alla comprensione reale dei fenomeni del
presente”, come “appropriazione articolata del leninismo e
conseguentemente con una ridefinizione dell'internazionalismo”9.
Nella realtà storica l'Ordine Nuovo si presenta fin dal suo
nascere, da un punto di vista squisitamente tattico, su posizioni
centriste, vale a dire elezioniste e antiscissioniste; al
Congresso di Bologna dell'ottobre 1919, in cui la Sinistra pose
con la massima chiarezza il problema della scissione, i
rappresentanti del movimento torinese (Tasca e Rabezzana)
collaboreranno alla stesura di una mozione unitaria con il centro
di Serrati.
Il ritardo di Gramsci sulla nascita del partito deriva da ragioni
contingenti, che originano dalla medesima matrice volontaristica
ed idealistica. Tale ritardo affonda le proprie radici nella
visione spontaneista ed immediatista che egli ha del processo
rivoluzionario; visione che gli
derivò dalle esitazioni - che diventarono poi vero tradimento -
del centro massimalista del PSI
e soprattutto della CGL quando il proletariato torinese scese in
lotta sulle parole del controllo delle fabbriche. Fu solo con le
grandi lotte del 1920, infatti, che Gramsci, fino ad allora
rimasto allineato alle posizioni del massimalismo centrista10,
riconobbe chiaramente la necessità della separazione dal sindacato
e quindi, ma solo in un secondo tempo e sotto la forte pressione
della Sinistra “astensionista”, ammise la necessità della rottura
anche con il partito.
Tuttavia gli rimase sempre radicata l’idea della rivoluzione “dal
basso”, “di tutto il popolo lavoratore”, “dalla fabbrica”,
assegnando al partito solo la funzione di organizzatore tecnico.
E' solo il Consiglio di fabbrica l'istituto che può dare garanzie
di vittoria –egli sostiene - perché partito e sindacati sono
organizzazioni di tipo volontario e contrattualista, slegate dalla
produzione e cioè dai rapporti reali di produzione11. Come si
vede, in quegli anni decisivi, fu solo la Sinistra ad affermare
con decisione che solo sulla base politica si può andare oltre le
differenze di situazioni e di interessi dei gruppi aziendali, di
categoria, di industria, dei gruppi locali regionali e nazionali;
e che tale base politica era solo il partito di classe.
Nella visione di Gramsci “la via per eliminare i difetti della
confederazione sindacale e del partito socialista non era quella
di selezionare il secondo e poi lottare alla conquista della
prima. Le due strutture dovevano essere svuotate e abbandonate per
sostituire loro una nuova, l’ordine nuovo, il sistema dei consigli
di fabbrica. La gerarchia di questa elegante utopia è tutta
tracciata: dall’operaio al reparto, al commissario di reparto, al
comitato dei commissari di fabbrica, al consiglio locale delle
fabbriche e via fino alla sommità. Questa nuova struttura prende,
fabbrica per fabbrica, prima il diritto di controllo, poi quello
di gestione; una specie di espropriazione del capitale per cellule
base, una vecchia idea premarxista che nulla ha di storico e
rivoluzionario”12. In quest’ottica, poco importa il partito di
classe, la cui funzione diventa puramente pedagogica. Poco importa
anche la teoria dello stato, perché “la trasformazione della
società è immaginata come fatta pezzo per pezzo; e i pezzi sono le
imprese produttive. Manca del tutto la visione dei caratteri della
società comunista opposti a quelli del capitalismo. Resta un
pallido «aziendismo »” (Ibid.).
Per due anni, e fino alla scissione di Livorno, Gramsci non
cesserà di martellare questi concetti sulle colonne del suo
giornale. L'operaio considera se stesso come produttore, in quanto
inserito nel processo produttivo e nel complesso delle forze
produttive, che sono, si legge di una relazione della sezione
torinese del dicembre 1919, “in un certo senso estranee e
indipendenti dal modo di appropriazione privata della ricchezza
prodotta”: come se esistesse una forma metastorica della
produzione per aziende, che possa prescindere dal modo della
circolazione e dell'appropriazione del prodotto! E altrove si
dichiarava che “la massa operaia deve prepararsi effettivamente
all'acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo
passo su questa via sta nel suo più saldo disciplinarsi,
nell'officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può
negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata
condurrà a un miglioramento della produzione”13.
Fu chiaro fin dall’inizio alla Sinistra che le soluzioni proposte
dall’Ordine Nuovo si collocavano pericolosamente sul versante
proudhoniano, e in una serie di articoli Il Soviet, organo di
quella che era allora la Frazione Astensionista del partito
socialista, e costituirà in seguito la prima struttura
organizzativa del PCd’I, non si stancherà di chiarirlo. Compito
del partito è quello di superare i limitati orizzonti delle lotte
rivendicative, centralizzando gli obiettivi storici della classe,
che non saranno raggiunti con la conquista del potere politico, ma
che si porranno allora, e solo allora, anche sulla base economica
e sociale. La confusione che l’Ordine Nuovo introdusse nella
polemica, considerando i Consigli di fabbrica esattamente
equivalenti ai soviet, mostra tutta l’immaturità teorica del
movimento torinese.
Questa immaturità porterà Gramsci ad affermare la necessità di
costituire i Consigli prima di aver risolto il problema
della direzione rivoluzionaria incarnata nel partito, e a
stabilirne quasi una forma a priori dell’azione rivoluzionaria:
“Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a
scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato,
per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra
di classe venga mai scatenata [...]. La forza del Consiglio
consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa
operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole
emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di
iniziativa nella creazione della storia”. Ed è la medesima
immaturità, accompagnata da una totale incomprensione del ruolo
del partito, della assoluta necessità di giungere ad una
chiarificazione con centro e destra del partito socialista prima
che si esaurisse la grande e generosa ondata di lotte che scuoteva
il Paese, che lo spingerà a queste stupefacenti dichiarazioni:
“Abbiamo sempre ritenuto che dovere dei nuclei esistenti nel
Partito sia quello di non
cadere nelle allucinazioni
particolarisitiche (problema dell’astensionismo, problema
della costituzione di un partito veramente comunista) ma di
lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile
risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello
sviluppo organico della rivoluzione comunista”14. Ed è veramente
difficile, su queste basi, individuare
le ragioni che spingono “studiosi”
di tutte le parrocchie ad affermare che
“nell’azione politica di Gramsci ed in tutti i suoi scritti sarà
presente e costante l’esigenza profonda di assimilare e di fare
assimilare alle masse l’esperienza e l’insegnamento di Lenin e dei
bolscevichi”15.
Che cosa avranno infatti ancora nel 1922 da rimproverarsi in
merito alla scissione di Livorno Gramsci e i suoi compagni dell’
Ordine Nuovo, che la Sinistra criticava per “non essere stati
prima con quelli che volevano spezzata l’unità e messe da parte le
degenerazioni elettorali e corporativiste” (Il Soviet, 2 maggio
1920)?
“La reazione si è proposta di ricacciare il proletariato nelle
condizioni in cui si trovava nel periodo iniziale del capitalismo:
disperso, isolato, individui, non classe che sente di essere
una unità e aspira al potere. La scissione di Livorno [...] è
stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione”16. Qui si
vede che più di una salda dottrina, più di un’intransigente
direzione, più di princìpi teorici ed organizzativi i cui criteri
sono fissati dal momento in cui il
proletariato si è costituito come classe per sé, contava (e
conterà sempre più per i partiti “comunisti” oscenamente prostrati
all’interclassismo antifascista) per Gramsci l’unità a tutti i
costi, quell’unità con i “centristi” che mal si adattò ad
abbandonare nel 1920, e che fece solo sulla spinta di violenti
moti di classe. Come non ricordare qui il Lenin del 1920, così a
torto usato contro la Sinistra? “La scissione è in ogni caso
preferibile alla confusione, che intralcia lo sviluppo ideale,
teorico, rivoluzionario del partito, che ostacola la maturazione
del partito e il suo lavoro pratico,
concorde, realmente organizzato, realmente
capace di preparare la dittatura del
proletariato” (L’“Estremismo” malattia infantile del comunismo,
Appendice: La scissione dei comunisti tedeschi).
6. Gramsci alla direzione del PCd’I
E’ nota la battaglia che la Sinistra “italiana” condusse nei
confronti dell’Internazionale17. I punti di discussione -
discussione che avvenne sempre bene all’interno della riconosciuta
comune piattaforma marxista - toccarono via via temi di ampio
coinvolgimento teorico: il parlamentarismo rivoluzionario e più in
generale il principio democratico; la necessità vitale di porre
limiti ben netti nella azione tattica di tutti i partiti aderenti
all’Internazionale; gli ibridi maneggi atti a “conquistare una
maggioranza” non attraverso l’azione e la lotta a diretto contatto
con la classe, ma attraverso blocchi con classi o partiti di
provata attitudine antirivoluzionaria.
Contrariamente a quanto scritto da falsificatori di ogni tendenza,
il giovane PCd’I fu probabilmente l’unico partito comunista
europeo a tradurre nella pratica le direttive tattiche dell’IC.
Ciò sia nei riguardi dell’azione sindacale, sia nello stringere i
legami con un proletariato
che ormai, nel 1921, cominciava a mostrare segni di cedimento dopo
quattro anni di guerra e
poi due di lotte molto aspre e condotte con grande generosità di
classe. Fu organizzata una rete illegale e militare che, in epoca
di riflusso, avrebbe comunque potuto consentire un ritiro ancora
su posizioni di forza18. Fu seriamente organizzato un tentativo di
fronte unico delle organizzazioni operaie contro il fascismo. Se
esso fallì, ciò dipese esclusivamente dall’atteggiamento indeciso
degli altri partiti che avevano séguito nel proletariato. Le Tesi
di Roma (1922) e, in generale, tutto l’atteggiamento concreto del
partito nei primi due anni della sua esistenza, mostrano come
fosse chiaro a tutti che un’azione tesa alla conquista del potere
non si poteva più porre, mentre era assolutamente necessario
salvare la integrale base dottrinale senza cedere ad eclettismi
tattici. Questi tatticismi, anziché portare agli auspicati
successi nella conquista delle masse, avrebbero fatto perdere di
vista - come naturalmente avvenne - i fini dell’azione e del
programma rivoluzionario.
Tuttavia, sotto l’assoluta necessità di rompere l’accerchiamento
russo e nello sforzo di generalizzare le lotte in una Europa il
cui proletariato, ancora generosamente battagliero, subiva
tuttavia le esitazioni e la poca chiarezza della direzione,
iniziarono da parte dell’Internazionale pressioni sempre più forti
tese a promuovere iniziative di “accordi” o di “alleanze”
temporanee con partiti a torto considerati “operai”. E’ l’inizio
del ripiegamento sul piano presunto tattico,
che anticipa di poco la
catastrofe con l’abbandono dei principi
fondamentali del comunismo19. Dimenticando la lezione dell’Ottobre
e quella di segno opposto dei Noske e degli Scheidemann,
l’Internazionale si avvierà su un piano inclinato al fondo del
quale una intera generazione di militanti verrà inghiottita dallo
stalinismo avanzante.
E’ in questo contesto che il centro dirigente del PCd’I viene
arrestato all’inizio del 1923. L’attività del partito rimane
paralizzata per alcuni mesi, mentre l’Internazionale cercava una
soluzione di comodo per ottenere una direzione meglio allineata
sulle proprie posizioni. La trovò in Gramsci, a Mosca dal maggio
del 1922 come rappresentante del PCd’I presso l’Esecutivo
dell’Internazionale. Quando Rakosi, a nome dell’ Esecutivo
dell’IC, gli proporrà di prendere la direzione del PCd’I, Gramsci
risponde che avrebbe “fatto il possibile per aiutare l’Esecutivo
dell’Internazionale a risolvere la questione italiana”20.
Tuttavia, è chiaro che, con la costituzione del nuovo Centro, il
partito non usciva affatto dalla grave crisi che lo stava
colpendo. Come perfettamente spiegato in un Appello a tutti i
compagni del partito, scritto in carcere nei primi mesi del 1923,
A. Bordiga invitava ad una pronta riflessione non tanto “alla
crisi di efficienza ed organizzativa che consegue inevitabilmente
dalla vittoria delle forze antiproletarie in Italia, crisi che
merita anche tutta l’attenzione, ma che potrebbe essere
fronteggiata, se altro non vi fosse, con opportune misure dagli
organi direttivi fedelmente eseguite. Si tratta di un’altra crisi,
che purtroppo aggrava le conseguenze della prima: crisi interna,
di direttive generali, che da singole questioni tattiche ormai si
è allargata a tutta la impostazione di principio ed alla
tradizione della politica di partito. Questa crisi non ha avuto
origine da dissensi interni, ma da divergenze tra il partito
italiano e l’Internazionale Comunista [...] Tra fatti vanno
considerati: 1) Il partito italiano ha avuto opinioni divergenti
da quelle dell’Internazionale, circa la tattica “internazionale”
comunista; 2) La divergenza per le cose italiane si è manifestata
ancora più grave, uscendo dal limite della “tattica” per toccare
le stesse basi di costituzione del partito. 3) L’Internazionale è
andata e va ancora modificando le sue direttive finora
apparentemente in materia di tattica, ma ormai anche in materia di
programma e di norme fondamentali organizzative”21. Si stanno
profilando sul movimento comunista internazionale le ombre lunghe
della “bolscevizzazione” (cioè la ricostruzione dei partiti sulla
base delle cellule di azienda), degli espedienti tattici del
momento, dei fronti unici ai vertici dei partiti, dei governi
operai e delle rimozioni in blocco di direzioni di partiti “rei”
di non seguire le formulazioni sempre più incerte
dell’Internazionale (è il caso dell’Italia) o di non aver saputo
dirigere l’assalto rivoluzionario in modo vincente (è il caso
dell’autunno del 1923 in Germania, che costerà la decapitazione
del KPD).
7. La nuova tattica del PCd’I dopo il 1923
Resta il fatto, ben documentato anche dalla stampa centrista di
partito di quegli anni, che la base dei militanti rimase fedele
all’indirizzo della Sinistra, nonostante tutti gli sforzi che la
frazione di centro (con Gramsci si schiereranno rapidamente
Togliatti, Terracini e Scoccimarro, mentre Tasca, del vecchio
gruppo dell’Ordine Nuovo, si porrà su posizioni di destra) si
vedrà costretta a fare per spostare su di sé la fiducia degli
iscritti. Nel 1924 la tattica fusionista, così a lungo e
tenacemente perseguita dall’IC e dal nuovo centro, “guadagna” al
partito un gruppo di socialisti fautori dell’Internazionale (i
cosiddetti “terzini”). Il partito allarga le proprie fila mentre
l’assassinio del deputato socialista Matteotti sembra far perdere
consensi al partito fascista.
E’ in questo quadro di profonda crisi politica ed organizzativa
del partito, e in un isolamento quasi completo anche nei confronti
dei suoi più fedeli alleati, che il PCd’I aderisce, assieme a
tutte le “opposizioni”, ad un fronte unico di partiti
antifascisti, nella costituzione di un vero e proprio
Antiparlamento (“Aventino”). In un primo tempo la direzione del
partito entrò in un fantomatico “Comitato delle opposizioni”, allo
scopo di promuovere uno sciopero generale. Fallita il giorno
stesso l’iniziativa, l’Esecutivo sosterrà la tattica
dell’autonomia, rilanciando da solo la direttiva di uno sciopero
che, limitato nelle adesioni e circoscritto a poche città,
sostanzialmente fallì.
Poiché regna la massima confusione sul “che cosa fare”, sarà
l’Internazionale - per il tramite del suo rappresentante,
Humbert-Droz22 - a correre in soccorso. Essa proporrà alle
opposizioni di proseguire il boicottaggio parlamentare,
trasformandolo quindi in una assemblea parlamentare delle
opposizioni contro e fuori dal parlamento fascista. Si
costituiranno milizie popolari, si inviterà il popolo a non pagare
le imposte “finché non saranno ristabilite le libertà per la
classe operaia [...] In questa situazione non dobbiamo avere
scrupoli di procedura, ma dobbiamo rivolgerci tutte le volte che
lo riterremo opportuno, direttamente e pubblicamente alle
opposizioni per smascherarle”23. Sarà questa, almeno
tendenzialmente, la tattica antifascista del PC; una tattica
interclassista, che pone al centro delle proprie rivendicazioni
antifasciste la lotta per le libertà democratiche, anticipando di
un ventennio la tattica dei fronti di liberazione. Lo esporrà con
chiarezza lo stesso Gramsci: “E allora l’antiparlamentarismo, la
costituzione di un organismo cioè rappresentativo e direttivo di
tutte le correnti antifasciste, facente appello all’azione diretta
del popolo italiano, sarà acclamato. Ma forse sarà tardi. In ogni
ora politica vi è un adatto mezzo di lotta. L’antiparlamentarismo
sarebbe oggi la parola d’ordine che le masse italiane
accetterebbero; domani, aggravandosi la situazione [...] il
proletariato italiano - ridotto alla disperazione e alla fame -
vorrà ben altro”24. E il giorno dopo lo stesso Gramsci chiariva,
in un rigurgito ordinovistico, in che modo “la pesante tirannide
del fascismo” sarebbe stata abbattuta dai lavoratori, “i quali si
sentiranno infine spinti ad organizzare la loro riscossa
antifascista e antiborghese nei comitati degli operai e dei
contadini che oggi [?] si pongono concretamente come il solo
strumento di lotta per abbattere la dittatura fascista”25.
L’atteggiamento della Sinistra di fronte all’evidente stato
confusionale della direzione del partito fu, da una parte, un
richiamo severo all’applicazione delle direttive
dell’Internazionale in tema di parlamentarismo, dall’altra un
monito a non trasformare la vicenda in una “questione
morale” di cui sarebbe stato meglio parlare solo con partiti
“amici”. L’invito della Sinistra
affinché il partito rientrasse nel parlamento, indipendentemente
da qualsiasi decisione presa da partiti di opposizione, fu
accettato solo in quanto quei partiti si rifiutarono di
mobilitarsi attorno ad una qualsiasi delle proposte di azione
espresse dalla direzione. E tuttavia l’episodio sta a dimostrare
come, anche sulla questione del parlamentarismo rivoluzionario
tanto cara ai centristi, solo la Sinistra sapesse difendere
posizioni autenticamente marxiste, contro l’ “astensionismo
contingente” dei democratici antifascisti, pronti a far la spola
fra parlamento e “antiparlamento” al solo fine della conservazione
dell’ordine borghese26.
Appare chiaro, da queste citazioni, come si fronteggino qui due
concezioni profondamente diverse del processo rivoluzionario, del
ruolo storico del partito, dello sviluppo e dell’evoluzione del
capitalismo. La concezione che la Sinistra aveva elaborato sul
fascismo venne presentata, oltre che in una lunga serie di
articoli sulla stampa “nazionale”, anche al IV e al V Congresso
dell’Internazionale. Il fascismo rappresenta un movimento
antiproletario più moderno, più raffinato rispetto alla democrazia
liberale. Esso unisce gli interessi della grande borghesia
terriera, della grande industria e della grande finanza, che hanno
saputo mobilitare la piccola borghesia a proprio favore, con
l’appoggio pieno dell’apparato statale. Da un punto di vista
ideologico, esso non produce nessuna novità; rispetto allo stato
liberale del dopoguerra, esso porta invece un poderoso apparato di
lotta politica e militare. Da questa analisi, la Sinistra sostiene
la necessità di una tattica che difenda il ruolo indipendente del
partito, liquidando i gruppi di opposizione antifascista e agendo
per l’azione diretta e aperta. “Certo, la lotta è possibile solo
con la partecipazione delle masse. La gran massa del proletariato
sa molto bene che la questione non può essere risolta con
l’offensiva di una avanguardia eroica. Questa è
una concezione ingenua, che ogni
partito marxista deve respingere. Ma
[...] dobbiamo respingere l’illusione che un governo di
transizione possa essere tanto ingenuo da permettere, con mezzi
legali o manovre parlamentari, con espedienti più o meno abili,
l’aggiramento delle posizioni della borghesia, cioè la presa di
possesso legale della sua intera macchina tecnica e militare e la
pacifica distribuzione della armi ai proletari; e che, fatto ciò,
si possa dare tranquillamente il segnale della lotta. Questa è
davvero una concezione infantile ed ingenua! Non è così facile
fare la rivoluzione”27.
Il punto di vista centrista sul fascismo fu presentato da Gramsci
in una relazione al CC
del partito nell’agosto 1924. Secondo lui, il fascismo “è giunto
al potere sfruttando e organizzando l’incoscienza e la pecoraggine
della piccola borghesia [...] Perché in Italia la crisi delle
classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri
paesi [...]? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo dell’industria
e dato il carattere regionale dell’industria stessa, non solo la
piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe
“territorialmente” nazionale”. L’aspetto che caratterizza
l’avvento al potere del fascismo è la disgregazione sociale e
politica dello stato unitario, conseguenza della crisi del
dopoguerra; ciò non avrebbe avuto luogo se la classe operaia, nel
1920, non avesse “fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi
uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali
unitarie della società italiana [...]. Il compito essenziale del
nostro partito consiste nella conquista della maggioranza della
classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della
lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di
transizione alla lotta per il potere [...] Queste lotte devono
essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi
di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza”.
Le tattiche “elastiche” o, per meglio dire, in contraddizione con
i principi, hanno una loro logica inesorabile. Se si abbraccia la
“causa della nazione”, se si fanno proprie le inquietudini della
piccola borghesia e dei contadini, se si fa la corte ai
nazionalisti, si finirà necessariamente
per considerare la socialdemocrazia non più come ala sinistra
della borghesia, ma come una
frazione di destra ma pienamente recuperabile del movimento
operaio. Le disastrose posizioni di Gramsci sull’intero problema
del fascismo, della tattica fusionista, del fronte unico,
rappresentano uno scivolamento non solo verso l’antifascismo
borghese per rivendicazioni democratiche, ma preludono alla
politica dei fronti popolari e della partecipazione a governi
borghesi. L’abbandono della politica rivoluzionaria di Livorno non
può essere più netto.
8. Il carcere. I Quaderni e la riflessione “filosofica”.
L'eredità.
La funzione storica di Gramsci, quella di allineare il PCd’I alla
politica di un’Internazionale ormai ripiegata sui destini
dell’Unione sovietica, si conclude con il III Congresso che il
partito, messo fuori legge dal fascismo, deve tenere a Lione nel
gennaio 1926. Sconfitta la Sinistra, si pone ora il problema della
riorganizzazione (all’interno e all’estero) del movimento. E’ un
compito che spetterà ad altri. Alla fine dell’anno Gramsci verrà
arrestato e resterà in carcere fino alla morte, avvenuta nel 1937.
Durante il lungo periodo detentivo Gramsci si dedicherà allo
studio di una serie di problemi sociali, economici, letterari,
filosofici, storici. Sarà toccata la questione meridionale, il
problema della nazione italiana e degli intellettuali, il
proletariato come forza “egemone”, il partito come “intellettuale
collettivo”, o “moderno Principe”. Si tratta di quell’elaborazione
teorica che tanto piace a intere schiere di “pensatori di
sinistra”: vi vedono infatti, e non a torto, una “riassunzione del
concetto di “dialettica” nel significato hegeliano-marxistico”;
“un’investigazione nella concreta realtà
italiana e di elaborazione teorica”;
un’analisi di problemi che, se non possono essere tutti
risolti, sono almeno “proposti con originalità”.28
I “meriti” principali che verranno riconosciuti a Gramsci dagli
epigoni stalinisti sono la sua “riflessione” sul Risorgimento
italiano, sul suo più o meno esplicito frontismo - che verrà
adottato in pieno nei blocchi partigiani della seconda guerra
mondiale - sulla sua capacità di adeguare il marxismo alla realtà
italiana (espressione che caratterizza ogni opportunismo).
Per Gramsci, dunque. il Risorgimento italiano è consistito in una
rivoluzione "passiva", dall'alto. Ad esso è mancato quel
contributo popolare che ha reso possibile il completo sviluppo
nazionale delle rivoluzioni borghesi in altri Stati europei. Esso
è stato dunque la conseguenza di una mancata rivoluzione agraria,
di un ruolo non assolto da parte degli intellettuali, che non solo
non hanno saputo guidare la rivoluzione, ma non sono neppure
riusciti a creare uno Stato moderno.
Le conclusioni che vennero tratte da tali premesse dal PCI
stalinizzato furono dunque che l'intreccio di
una irrisolta questione nazionale,
meridionale e morale (il tradizionale
"malgoverno" italico) dovesse spingere una coalizione di partiti e
di classi verso il compimento
della rivoluzione borghese, facendo rivivere, in funzione
antifascista, una sorta di radicalismo borghese. Fu questa una, e
non l'ultima, delle giustificazioni teoriche che i dirigenti di un
PCI ormai perso alla causa rivoluzionaria vollero accampare per
porsi alla guida del "secondo Risorgimento", quello che avrebbe
sconfitto l'arretrato fascismo. Si trattava perciò soprattutto,
secondo la ricostruzione che ne farà Togliatti, “della funzione
nazionale che spettava al proletariato per dare al nostro paese
quella interiore costruzione unitaria che le classi capitalistiche
non avevano saputo dare, perché avevano considerato il Mezzogiorno
come terra di conquista e sfruttamento. E' di
questo periodo [1923-1926] lo sviluppo della sua [di Gramsci]
intuizione strategica dell'alleanza tra l'operaio delle zone
industriali avanzate e la grande massa della popolazione povera e
disagiata del Mezzogiorno […] Gramsci ne ricava le più
interessanti conseguenze tattiche e politiche, sino a stabilire la
solidarietà con i movimenti autonomisti che allora sorgevano nelle
regioni meridionali e prevedere una particolare struttura del
potere dello Stato operaio e contadino, per dare a questi
movimenti la necessaria soddisfazione e
fondare su nuove
basi democratiche l'unità
del paese”29 [nostre
sottolineature]. Ed ecco perciò fiorire, anche nel secondo
dopoguerra, la teoria e la pratica dei governi di coalizione
borghesi per la democrazia progressiva: quelli che, si disse
ipocritamente, serviranno sul lungo periodo come transizione ad un
socialismo popolare. La causa di questa "via italiana al
socialismo", diranno gli eredi del peggior Gramsci, sta proprio
nella presunta arretratezza del capitalismo italiano. Di qui la
necessità di ripercorrere tutti i gradini dell'opportunismo in
nome ,di una fantomatica interpretazione “marxista” della realtà
italiana, alla quale si dovrebbero (ancora nel 1945!) adattare
tattiche di “doppia rivoluzione” da interrompere, beninteso, alla
sua fase democratica kerenskiana.
È opportuno ricordare che la nostra teoria della doppia
rivoluzione è esposta a tutta pagina negli studi che Marx ed
Engels hanno dedicato alle rivoluzioni europee del 1848-50. In
Germania, dove lo sviluppo economico
e sociale era nettamente in
ritardo rispetto ad Inghilterra e Francia, “la classe
operaia prese le armi con la piena coscienza che, per le sue
conseguenze immediate, questa lotta non era la sua. Essa seguiva
però la sola linea politica giusta, di non permettere a nessuna
classe elevatasi sulle sue spalle […] di consolidare il suo
dominio di classe senza per lo meno aprire alla classe operaia un
libero campo per la lotta per i suoi interessi. In ogni caso, la
classe operaia si sforzava di portare le cose a una crisi nella
quale o la nazione fosse lanciata in modo aperto e irresistibile
sulla via della rivoluzione, oppure fosse restaurata per quanto
possibile la situazione di prima della rivoluzione, in modo che
una nuova rivoluzione diventasse inevitabile. Nell’uno e
nell’altro caso la classe operaia rappresentava gli
interessi reali e bene intesi
della nazione nel suo complesso,
perché accelerava il più possibile quello sviluppo rivoluzionario
che per le vecchie società dell’Europa civile era ora diventato
una necessità storica, e senza il quale nessuna di esse può di
nuovo aspirare a una evoluzione più tranquilla e regolare”
(Engels, “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, Vol. XVIII
della Opere complete di Marx ed Engels). Tutto ciò non ha proprio
nulla a vedere con una classe operaia che, in un contesto storico
completamente diverso come quello del XX secolo, dovrebbe farsi
portavoce di “istanze nazionali” a vantaggio di una
borghesia che ha addirittura
ripudiato le sue origini liberali per imboccare
la strada del fascismo – cioè la
politica di massima concentrazione
materiale ed ideologica su scala
planetaria che mai la storia abbia conosciuto. Applicare queste
tesi nella Russia arretrata agli albori del Novecento è un conto,
è una necessità: di fatto è l’applicazione scientifica di leggi
storiche. Applicarle all’evolutissima Europa ha solo un nome:
tradimento; e una sola prospettiva: quella anticomunista.
Ed è proprio per l’immaturità economica, sociale, politica della
situazione europea di metà Ottocento che l’Indirizzo di Marx ed
Engels alla Lega dei Comunisti, del marzo 1851, dopo aver elencato
tutta una serie di rivendicazioni democratiche, cioè non
comuniste, perché “gli operai tedeschi non [possono] giungere al
potere e soddisfare i loro interessi di classe senza attraversare
un lungo sviluppo rivoluzionario”, dichiara che “essi stessi
debbono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a
se stessi i loro propri interessi di classe [autonomia di classe,
non alleanza di classi!] assumendo il più presto possibile una
posizione indipendente di partito [nessun “fronte unico” con
partiti nemici!] e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli
borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla
organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro
grido di battaglia deve essere: La rivoluzione in permanenza!”30
Rinviamo alle pagine seguenti l'analisi del Gramsci “filosofo”.
Basterà qui sottolineare che l'entusiasmo che le sue teorie hanno
suscitato tra gli intellettuali di mezzo mondo è strettamente
legato ad almeno due elementi.
1) Al suo tentativo di fare una sintesi tra marxismo e idealismo,
storpiando il materialismo storico in una visione di volontarismo
individualistico. Sarà sufficiente questa citazione: “Con Marx la
storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito,
dell'attività cosciente degli individui singoli ed associati”31.
Il biografo di Gramsci32, da questa frase, ricava un
“vigoroso rifiuto dell'idealismo” e
una negazione della “separazione
dell'uomo dalla materia”. Entrati così a testa alta assieme
a Gramsci nel mondo del monismo idealistico, questi stessi
biografi “critici” potranno rimproverare a Lenin la contraddizione
tra il soggettivismo volontaristico delle Opere politiche e
l'oggettivismo gnoseologico delle Opere filosofiche!
L’incomprensione totale del rapporto dialettico tra la classe e le
condizioni materiali in cui essa vive da una parte – “condizioni
oggettive” – e l’organo dirigente di questa, il partito, che ne
rappresenta ad un tempo coscienza e destino storico, fa parte
integrante del mestiere dello storico piccolo-borghese che non
può, per oggettiva limitatezza dei propri orizzonti di classe,
ergersi ad una visione completa del processo rivoluzionario.
2) Al suo rifiuto esplicito del determinismo, visto come una
limitazione inaccettabile alla libertà dell'individuo: “Si può
osservare come l'elemento deterministico, fatalistico [?],
meccanicistico [?] sia stato un "aroma" ideologico immediato della
filosofia della prassi [cioè il materialismo storico], una forma
di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti) […]
Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa
finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il
determinismo meccanico [?] diventa una forza formidabile di
resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e
ostinata […] La volontà reale si traveste in un atto di fede, in
una certa razionalità della storia, in una forma empirica e
primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto
della predestinazione, della provvidenza ecc. delle
religioni confessionali […] è anzi
da porre in rilievo come il
fatalismo non sia che un rivestimento da
deboli […] quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da
parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di
imbecille autosufficienza”33. Come non ricordare qui il Gramsci
che, alla conferenza di Como (1924), in un vivace contraddittorio
con Bordiga, reclamava di “aver fretta”? La fretta di recuperare
l'appoggio delle masse attraverso l'azione, la volontaristica
resistenza all'ondata controrivoluzionaria, cui ci si opporrebbe
non con la più stretta delimitazione dell'area di manovra del
partito, nel più rigoroso rispetto dei princìpi per il rilancio
dell'azione rivoluzionaria domani; ma con i disinvolti svolazzi
tattici, ai quali adattare oggi quei principi che non erano nostri
ieri e non lo saranno domani.34
Alle storture gramsciane e a quelle dei suoi eredi si rispose che
la “base” economica non è solo salario e commercio, ma anche ogni
forma riproduttiva della specie, sia biologica sia tecnica
(meccanismi di trasmissione culturale inclusi)35. Si rispose che
determinismo non è passivismo, ma chiarisce
che l'azione precede la conoscenza,
permettendo tuttavia la previsione del movimento
rivoluzionario. “Noi sosteniamo che la fase di ripresa del
movimento operaio rivoluzionario non coincide unicamente con le
spinte provenienti dalle contraddizioni del materiale
svolgimento economico e sociale
della società borghese, la quale può
attraversare periodi di gravissime crisi, di contrasti violenti,
di collassi politici, senza per questo che il movimento operaio si
radicalizzi su posizioni estreme, rivoluzionarie. Cioè, non esiste
automatismo nel campo dei rapporti tra economia capitalistica e
partito proletario rivoluzionario”36
Non aver mai capito questi elementi dell'abc del marxismo hanno
fatto di Gramsci uno dei corifei dell'opportunismo.
E' in questo che consiste lo "strano" destino di Gramsci, e che al
tempo stesso è la sua
involontaria eredità intellettuale. Egli è passato indenne
attraverso le pieghe della storiografia stalinista, in quanto
venerato come oppositore della Sinistra; di quella democratica
post- stalinista, perché celebrato come precursore delle vie
nazionali al socialismo; di quella trotzkista, in quanto acclamato
come antistalinista; di quella liberal-resistenziale, osannato qui
come l' “uomo di cultura” ingiustamente perseguitato, là come
apologeta e precursore dei fronti uniti interclassisti; di quella
operaista, che lo riconosce come precursore immediatista o
situazionista; e infine, di quella terzomondista, come antesignano
delle rivoluzioni contadine e popolari. Per tutti, è evidente, il
lascito di Gramsci consiste nel suo antimarxismo di fondo,
nella sua disinvoltura sul piano
tattico, che si pretende leninista.
Nel suo “sminuire l'importanza delle parole d'ordine
tattiche strettamente conformi ai principi […] L'elaborazione di
decisioni tattiche giuste ha una grandissima importanza per un
partito che voglia dirigere il proletariato in uno spirito
rigorosamente conforme ai principi del marxismo, e non
semplicemente trascinarsi a rimorchio degli avvenimenti.” (Lenin,
Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica,
Opere complete, 9, Ed. Riuniti).
La lezione della storia, anche con le sue dolorose sconfitte, non
potrebbe essere più chiara per chi la vuole intendere.
Parte II.
Miseria della filosofia gramsciana
“La filosofia e lo studio del mondo reale sono tra loro in
rapporto come l’onanismo e l’amore sessuale”.
Marx, Engels, L’Ideologia tedesca.
1. Gramscismo tenace e risorgente
Per i marxisti nessuna buona strategia e nessuna buona tattica
possono scaturire da una “filosofia” eterodossa da un punto di
vista del materialismo dialettico. Concepiamo la teoria
rivoluzionaria del proletariato come un tutto unico, un unico
corpo di dottrina e di prassi che descrive tutto
il ciclo storico della società
umana e ne anticipa l’inevitabile
rottura rivoluzionaria. Dalla dimostrazione che la filosofia di
Gramsci è tutto fuorché marxismo, ne consegue per necessità che,
nonostante le affermazioni da lui fatte a Lione37 o successive,
secondo le quali il marxismo è «una filosofia che è anche una
politica e una politica che è anche una filosofia»38, la sua
politica non fu né poteva essere fusa d’un pezzo solo con il
programma autenticamente rivoluzionario
che solo la Sinistra, in quel
tempo, seppe coerentemente portare avanti sull’arena
internazionale, e che nel secondo dopoguerra ha continuato
strenuamente a difendere, sia pure in condizioni estremamente
difficili di esistenza. Per la nostra scuola il materialismo
storico e l’idealismo sono separati da un abisso – che non è solo
fatto teorico, di correnti filosofiche; ma è un fatto di classe,
meglio ancora, di lotte di classe. E ciò, tanto più è vero, in
quanto noi riconosciamo facilmente il materialismo storico pulsare
e combattere contro le ideologie idealistiche, anche in quelle
antiche lotte di classe che, secoli o millenni prima del marxismo,
contrapposero gli schiavi romani ai loro padroni, o i contadini
tedeschi del XVI secolo, o i piccolo-borghesi, gli artigiani e i
contadini poveri inglesi del XVII , contro i principi e i signori
feudali, pur apparentemente sotto le bandiere del cristianesimo
primitivo e della teologia riformata.
Perché, dunque, occuparsi oggi del pensiero filosofico di Gramsci?
Da quanto si è detto, perché contrastarlo sul suo stesso terreno
non è per noi un lusso teorico, ma una necessità
vitale sulla quale ristabilire quei principî sulla cui base
solamente sarà possibile condurre una
battaglia non più criticamente ideologica, ma criticamente armata.
Più precisamente, per le seguenti ragioni:
Innanzi tutto, perché Gramsci ha dato una interpretazione del
marxismo destinata ad avere un’eco internazionale di gran lunga
maggiore delle sue stesse aspettative. Essa è al centro di una
vera e propria ondata ideologica che, ben orchestrata, trova
facile humus in tutti gli strati sociali, nei paesi avanzati e in
quelli in via di sviluppo. Studi su Gramsci e il gramscismo oggi
saltano fuori dappertutto come funghi. Si tratti del Gramsci
operaista e consiliarista; di quello dell’Internazionale in via di
stalinizzazione e della fase detta “bolscevizzazione”; di quello
anticipatore dei fronti unici e delle Costituenti nazionali; di
quello delle alleanze con i contadini; di quello che corteggia gli
intellettuali piccolo-borghesi; del Gramsci filosofo; del Gramsci
letterato; del Gramsci anti-scientifico, antimaterialista,
antiamericanista (o americanista? Non si è mai ben capito),
chiunque ha potuto ritagliarsi su misura “il proprio Gramsci”
prendendolo a modello di ogni ideologia controrivoluzionaria, su
scala locale, regionale, nazionale ed internazionale.
Si pensava che l’Istituto Gramsci fosse stato sufficiente a
spargere i germi del gramscismo in giro per il mondo, ma non è
così. L’ultima creatura, in linea con i tempi, è l’International
Gramsci Society, costituita a Roma nel 1988, con sede in Italia e
negli Usa. Essa dichiara appunto che il pensiero di Gramsci può
fornire alle più diverse tipologie di intellettuali, meglio se
animati da pruriti cerebrali differenti, un sorprendente terreno
di incontro, anzi, di identità.
Nessuna sorpresa, invece, nell’apprendere che a La Habana (e
poteva essere altrove?)
esiste una cattedra di studi gramsciani (non sappiamo se il
concupito posto sia ancora in attesa di assegnazione; baroni
nostrani “di sinistra”, fatevi sotto!). Nessuna sorpresa nello
scoprire il fiorire di “comitati”, “convegni”, “istituti” da tutte
le parti del mondo. Questo non è il segno di una marea
rivoluzionaria montante. Questa è piuttosto la voce
dell’opportunismo controrivoluzionario, bene avviluppato nel
proprio sudario intellettuale socialdemocratico, che oggi parla
anche con l’ideologia di Gramsci, domani, come ieri ricorrerà alle
fucilate contro il proletariato insorto, come fu in Ungheria, in
Germania, in Cina nel primo dopoguerra, nelle comuni di Varsavia e
di Berlino nel secondo.
In secondo luogo, perché oggi il ricorso al dettato filosofico di
Gramsci, spudoratamente definito da epigoni varicolori come
“materialista”, crea ulteriore confusione tra le file del
proletariato nel faticoso percorso del ristabilimento
dottrinale39. Confusione quando si vogliano seguire le concezioni
gramsciane sulla funzione storica del proletariato: «La classe
operaia – scriveva Antonio - è l’unica forza che rappresenti gli
interessi della nazione italiana nel quadro delle libertà e della
cooperazione internazionale [...] è oggi l’unica forza nazionale
che possa salvare l’Italia dall’abisso in cui l’hanno spinta [...]
i capitalisti avidi solo di arricchimento individuale e di
strapotere politico»40. O altrove: «Oggi la classe “nazionale” è
il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei
lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento
della nazione, perché l’unità dello stato è la forma
dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro
italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari
vogliono portare nell’Internazionale Comunista»41.
Non è, tutto ciò, fare confusione tra obiettivi della rivoluzione
borghese e quelli della rivoluzione proletaria? Non
significa in questo modo confondere l’organizzazione capitalistica
della produzione (italiana o meno) con l’economia socialista,
nella quale ci faremo beffe di
qualsiasi inno alla ipertecnologia mirante all’iperproduttività,
dal momento che tale economia sarà realizzata solo grazie ad uno
sgonfiamento di enormi e pletorici settori della odierna
produzione?
In terzo luogo perché, nonostante le precisazioni precedenti e le
analisi che verranno esposte in seguito,
nel movimento operaio internazionale
la rivalutazione della figura di
Gramsci ha contagiato un gran numero di militanti che, ignorando o
non avendo approfondito
le questioni teoriche che si posero nei primi anni della III
Internazionale, vedono in lui un coraggioso baluardo
contro lo stalinismo42. In
particolare nei paesi di lingua
inglese la “scoperta” di Gramsci è gravitata attorno ai
concetti di “egemonia”, “intellettuale organico”, “blocco
storico”, che hanno spopolato nelle accademie di ricerca
sociologica, letteraria, strutturalista. In Italia ancora oggi,
mistificando assai, c’è chi lo presenta come «il principale
teorico del movimento operaio italiano» in quanto egli «ha cercato
di applicare con rigore il metodo materialistico, di assimilare e
arricchire le concezioni marxiste»43.
Non è certamente buona la polemica che, per vincere, fa dire
altrui cose non dette, e noi non ci atterremo ovviamente a questo
metodo. E’ per questa ragione che ricorreremo ad estese citazioni
dalle opere stesse di Gramsci, per far riferimento al suo pensiero
originale. Abbiamo infatti la certezza che il Gramsci del biennio
rosso, il Gramsci che, sull’onda del processo rivoluzionario in
atto, cominciava pur tra errori ed esitazioni ad aprirsi alle tesi
del comunismo rivoluzionario, non intendesse con le sbagliate
posizioni di quegli anni anticipare di qualche decennio
l’applicazione che delle sue idee verrà fatta dai suoi epigoni
nella forma della più smaccata collaborazione di classe. E
tuttavia molte delle sue elaborazioni “originali”, che non
potrebbero certo uscire neppure per errore dalla penna di un
militante della Sinistra, sono rivelatrici di una tendenza, di una
incomprensione di fondo della teoria e della prassi della lotta
rivoluzionaria, che ne faranno l’alfiere meglio utilizzabile,
negli anni e nei decenni seguenti, nelle mani di una
Internazionale Comunista ormai inesorabilmente avviata sul piano
inclinato del socialismo in un solo paese e dell’alleanza con le
mezze classi.
2. La “fortuna” di Gramsci.
La fortuna di Gramsci (e di un cospicuo numero di case editrici in
tutte le lingue) sta nel fatto che la sua elaborazione filosofica,
dietro la pretesa di migliorare e correggere il marxismo, ha
potuto svilupparsi, decenni dopo la morte del suo autore, in un
contesto economico e sociale internazionale in cui lo storico
programma rivoluzionario è stato sconfitto da forze materiali
reali e concrete, operanti nel tessuto vivo dei popoli del
pianeta.
Queste forze, nel mondo occidentale, si sono identificate
nell’aristocrazia operaia e in ampie frange di intellettuali
antifascisti e di “sinistra”, senza partito per definizione e
necessità storica, da una parte; dall’altra, in proletari
sbandati, vittime del peggiore sfruttamento aziendale; in studenti
imberbi che poco e male hanno studiato, in mancanza di lotte vive,
le lotte di classe del passato;
in no global che, ereditando
la prassi senza principî del “movimento”,
si illudono di garantirsi il proprio futuro attraverso le più
svariate sfumature di pacifismo interclassista; e tutti costoro,
anch’essi, rigorosamente senza-partito e anti-partito.
Nel mondo meno sviluppato, le forze che animano il cadavere del
gramscismo si riconoscono nei movimenti per le varie “liberazioni
nazionali” e per le politiche delle alleanze, nei partiti
democratici nazional-popolari fino anche (e non desta sorpresa) a
quelli che si richiamano al socialismo cristiano e
alla teologia della liberazione44, oppure anche in quelli che,
fucile alla mano, lottano sì, ma per obiettivi dichiaratamente
borghesi - il che, oggi, significa solo illudersi di poter
dirottare qualche briciola di rendita finanziaria mondiale dagli
Stati predatori a quelli predati.
L’attualità del gramscismo non sta dunque nella sua capacità di
antivedere uno sviluppo storico che conduce all’abbattimento del
capitalismo mondiale. Sta, al contrario, nel fatto di essere stato
un sistema eterogeneo di idee, riflessioni e considerazioni il cui
filo conduttore fu l’antimaterialismo idealista in filosofia, il
volontarismo e lo spontaneismo in politica.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla stampa riformista, la
“fortuna” di Gramsci (e la sfortuna della rivoluzione
internazionale) non è affatto legata all’internazionalismo del suo
pensiero. E’ esatto proprio il contrario: gli elementi della
politica di Gramsci che hanno riscosso successo sono quelli che
derivano dal suo non-internazionalismo, dal suo atteggiamento
chiuso su problemi locali e
settoriali: l’azienda; il Mezzogiorno;
gli intellettuali; il Risorgimento italiano; i
contadini; il Vaticano; e via dicendo. Elementi che poi ogni
movimento locale sparso per il mondo adatta alle proprie esigenze
o velleità opportunistiche locali, trasformando in questo modo
l’ideologia gramsciana in uno spurio movimento internazionale, la
cui base d’appoggio, ben monolitica ed
unitaria nonostante le differenze
applicative e puramente formali, resta la classe
piccolo-borghese. Da sempre gli esponenti intellettuali di questa
classe, reinterpretando a vantaggio di questa la teoria
rivoluzionaria del proletariato, ne fanno rimasticature adattate
ai propri sfizi del momento, sempre e ovunque solo allo scopo di
“avanzare concretamente”, di “meglio sviluppare il processo di
ricomposizione unitaria delle forze della sinistra” ecc. In ciò
appunto sta la funesta attualità di Gramsci. Nell’aver fornito,
sotto la falsa etichetta di marxismo, ricette buone per tutte le
salse e a tutte le latitudini, sotto le bandiere del “blocco
storico” democratico nazional-popolare evoluto inevitabilmente nel
più lurido collaborazionismo di classe;
dell’ “egemonia” - non a torto
vista dalle schiere opportuniste e traditrici come
antitesi del termine e soprattutto del concetto di dittatura del
proletariato; dell’antieconomicismo, ciò che cela semplicemente,
sotto un brutto vocabolo, tutta l’incomprensione gramsciana del
determinismo economico, elemento centrale che i rivoluzionari
rivendicano pienamente, del materialismo storico; di una
cosiddetta “etica della rivoluzione”, quale riforma sociale e
perfino economica. Nelle pagine seguenti affronteremo, anche se
per cenni, la “filosofia” di Gramsci quale esposta,
principalmente, nei suoi Quaderni del carcere, ma i cui elementi
rimangono marchio invariante attraverso tutta la sua produzione
letteraria, giovanile o adulta.
E’ probabile che oggi Gramsci, il Gramsci momentaneo “alleato”
della Sinistra nei primi anni di vita del PCd’I, il Gramsci dei
grandi scioperi del 1919-1920 sarebbe a giusto titolo indignato,
di fronte alle applicazioni che i suoi eredi hanno fatto del suo
pensiero. Tuttavia, il primo a fare coscientemente enormi
deformazioni del marxismo su basi non materialistiche è stato
proprio lui, e non solo il Gramsci della galera e dell’isolamento,
ma il Gramsci della prim’ora, quello delle grandi battaglie di
classe dell’immediato primo dopoguerra. Non è un caso che da
espressioni teoricamente confuse e che molto concedono al nemico,
emergano vincenti posizioni come quelle di tutti i partiti
stalinisti, poi convertiti alla democrazia (e in tanto più
spregevoli), che li rendono i suoi legittimi esecutori
testamentari.
3. Che cosa è la filosofia della prassi.
L’espressione “filosofia della prassi” non fu utilizzata dal
detenuto Gramsci per uccellare la censura fascista, al posto di
materialismo storico. Essa fu impiegata invece per evitare
quest’ultima troppo impegnativa definizione – come ormai
riconoscono anche i critici45 - proprio perché tale
espressione gli suonava «troppo legata ad una concezione
deterministica e deteriore del marxismo».
La “filosofia della prassi”, che noi continuiamo ostinatamente a
chiamare materialismo storico-dialettico, non è affatto il «lampo
di pensiero filosofico» ancora guizzante nel giovane Marx della
Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico; ma è
invece la consolidata teoria rivoluzionaria del proletariato, che
si erge sull’ininterrotta serie delle rivoluzioni del passato e si
applica all’ultimo atto della
successione di forme di produzione
all’interno delle società classiste.
Pertanto è assolutamente falso (concezione taschiana della prima
ora) che la filosofia della prassi - il marxismo - serva a
condurre le masse «a una concezione superiore della vita».
Il contenuto del marxismo non sta in un’espressione ideologica, la
cui superiorità su tutte le
altre sia sancita da un migliore uso della dialettica e della
logica formale da trasmigrare in un proletariato incatenato alla
schiavitù salariale. Questo sta nel suo presentarsi come militante
grido di guerra contro l’intera organizzazione della società
moderna, per rovesciarne completamente i suoi aspetti fondanti
materiali e ideologici.
Eppure è proprio sulla base di una tale deformazione
volontaristico-intellettualistica del marxismo, quale si presenta
l’ideologia gramsciana atta a «costituire un blocco intellettuale
di massa», che si è sviluppata, nel secondo dopoguerra, la
politica interclassista dei partiti operai detti appunto “di
massa”. I suoi cavalli di battaglia sono: cultura operaia-sviluppo
della democrazia partecipativa-moralizzazione della vita
politica-gradualismo e volontarismo. Meglio se a livello
individuale: la conta dei voti non ne verrà compromessa, anche se
la classe è morta e sepolta, e i papaveri dei partiti che ne hanno
usurpato la storia possono tranquillamente continuare la loro
fornicazione col potere borghese.
È patrimonio dell’idealismo “di sinistra”, con tutte le sue
sfumature che passano da Gramsci a Tasca a Pannekoek (i nomi qui
valgono solo come simboli di correnti non marxiste) ammettere che
le condizioni materiali della società creano nella classe
proletaria la coscienza
necessaria per la critica sociale, per il salto rivoluzionario. È
patrimonio del materialismo
marxista, al contrario, sostenere e dimostrare con prove storiche
a iosa, che, se si lascino agire sulle masse le condizioni
materiali, queste ne soffocheranno necessariamente ogni tentativo
di indipendenza ideologica. La rivoluzione non è un problema di
coscienza, e l’educazione delle masse è impossibile.
«In breve, e in parole povere, la legge del determinismo
economico dice che in ciascuna epoca l’opinione generalmente
prevalente, il pensiero politico filosofico e religioso più
accreditato e seguito è quello che corrisponde agli interessi
della minoranza dominante che detiene nelle sue mani il privilegio
e il potere […] Quando una società è in crisi, una delle
caratteristiche della fase che allora si apre è il numero
relativamente sempre più ristretto di persone che beneficiano del
regime in vigore; tuttavia, l’ideologia rivoluzionaria non prevale
nella massa ma in una sua minoranza di avanguardia in cui
confluiscono persino elementi della classe dirigente. Per inerzia,
e per effetto dei formidabili mezzi di fabbricazione delle
opinioni di cui dispone ogni classe dominante, la massa muterà
ideologie, filosofie e religioni solo in un lungo periodo
successivo al crollo delle antiche impalcature di dominio»
(“Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”, Prometeo, n.
4. 1946).
Contro tutte le rivoluzioni culturali - da burletta quelle imbelli
strombazzate in Europa, certo ben più serie quelle armate
d’Oriente - noi abbiamo risposto che la “cultura” offerta in pasto
ai proletari sarà sempre e soltanto quella nazionale e borghese, e
non avrà nulla di comunista. Il proletariato mondiale da troppo
tempo ha atteso la propria liberazione da altre classi, troppo a
lungo si è immolato per rivoluzioni altrui. La teoria e la cultura
proletaria stanno tutte nel programma storico del partito di
classe, che nessuna Cultura borghese potrà surrogare. La borghesia
ha affermato la propria cultura su tutto il pianeta da oltre due
secoli. Sta al proletariato armato il compito, a lui fissato dalla
storia, di distruggerla. Le basi dell’unica cultura proletaria che
noi riconosciamo in questo svolto storico sono quelle che si
esprimono con le armi nelle mani della classe, e rivolte prima di
tutto contro coloro che porranno la questione del potere in
termini di “rivoluzione delle coscienze”, di “conquiste
culturali”. Il proletariato al quale noi ci rivolgiamo, e nel
quale solo vediamo il progresso della storia, è formato da barbari
illetterati che diventeranno uomini solo quando il loro cervello e
il loro cuore sarà messo al servizio del Comunismo.
4. Dialogato filosofico postumo.
E’ possibile che Gramsci, nel corso del suo soggiorno a Mosca nel
1922-23, venisse in contatto
- sia pure in modo incompleto - con le opere del filosofo
menscevico A. Bogdanov. In queste opere, infatti, si
incontrano alcune riflessioni riprese in modo puntuale
nei Quaderni del carcere, tra l’altro anche quella - vero cavallo
di battaglia gramsciano - della “cultura proletaria”. Com’è noto,
si tratta proprio del Bogdanov fustigato da Lenin in Materialismo
ed Empiriocriticismo a causa del suo continuo scivolamento verso
una forma esplicita di idealismo oggettivo.
Ma Gramsci, tutto preso com’è dalla sua riscoperta del marxismo
attraverso Croce e, talora, Bergson,
si colloca un
gradino al disotto
dell’empiriomonismo russo, come
dimostreremo subito, attraverso i suoi stessi scritti. Egli è
piuttosto esponente della scuola soggettivistica ed immanentista,
che con qualche gioco di prestigio fa scomparire il mondo naturale
per farlo riemergere nella “coscienza” del soggetto, sia questo
storico o a-storico. È su questa strada che Gramsci diviene, di
fatto, l’araldo di una filosofia che non può che scadere nel
volontarismo e fare del partito di classe una parte della classe
che, da questa, si distinguerebbe solo perché animato dal sacro
fuoco della “conoscenza”. Una filosofia che, ponendo
l’opposizione tra volontà e materia,
tra soggetto cosciente storicizzato
e realtà esterna, diventa esangue dualismo nella misura in
cui non rende la seconda un riflesso dell'attività del primo.
Rovesciamento della prassi sì, certo: ma si tratta della prassi
del marxismo rivoluzionario.
«L’esperienza viene così sostituita alla materia, e non minori
alterazioni subisce la dialettica, “algebra della rivoluzione”
secondo l’espressione di Herzen, già da Hegel frustrata nelle sue
conclusioni da un’ultima sintesi metafisica (lo Stato superatore
delle contraddizioni della società civile) che consacra
l’insuperabilità del mondo capitalistico: essa viene sostituita
dalla “innocua evoluzione”, come
in quello che Marx chiamava il “merdoso positivismo” di Comte e
Spencer, o svilita, come in Proudhon e nel revisionismo da
Bernstein in poi, alla bottegaia “partita doppia” dei “lati buoni”
e “cattivi” degli eventi, o mortificata e castrata come nel
neoidealismo crociano [...] che, in opposizione ad Hegel, nega la
dialettica della natura e ripudia il suo svolgersi tra i contrari,
od opposti, per postulare una pacifica e asettica dialettica dei
“distinti».46
a. La formula trinitaria di Sant’Antonio: empiriomonismo,
immanentismo, soggettivismo. Gramsci. «Cosa sono i fenomeni? Sono
qualcosa di oggettivo, che esiste in sé e per sé, o sono
qualità che l’uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi
pratici [... ] cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo
e di scrivere e classificare le cose? [...] Posta l’affermazione
che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi
stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre
conoscenze sono sovrastrutture [...] è difficile evitare che si
pensi a qualcosa di reale al di là di queste conoscenze» (Ms, pag.
40-41). Poco oltre, citando il celebre passo della Critica
dell’economia politica secondo cui i rapporti giuridici e le forme
dello Stato non possono essere compresi per se stessi né come
forma evolutiva dello spirito umano, ma solo in quanto essi
affondano le proprie radici nei rapporti materiali dell’esistenza,
Gramsci, chiosando a modo suo, si chiede: «Ma tale consapevolezza
è limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i
rapporti di produzione [...] o si riferisce a ogni conoscenza
consapevole? [...] Cosa significherà in tal caso il termine di
“monismo”? Non certo quello materialista né quello idealista, ma
identità dei contrari nell’atto storico concreto, cioè attività
umana (storia-spirito) in concreto,
connessa indissolubilmente a una
certa “materia” organizzata (storicizzata), alla natura
trasformata dall’uomo» (Ms, pag. 44).
Tutto ciò non significa altro se non che Gramsci, non avendo mai
rinunciato al suo idealismo giovanile, si configura una realtà
“esterna” solo in quanto essa è “storicizzata”, cioè è vissuta
dall’uomo e filtrata attraverso l’esperienza umana. Significa cioè
che, prima dell’uomo e al di fuori
d’esso la realtà, intesa come
materia che ha una propria
storia evolutiva autonoma, ed anche come realtà sociale,
semplicemente non esiste. La “consapevolezza”, cioè l’atto
conoscitivo, è resa possibile solo in quanto a quell’atto
corrisponde un intervento di “trasformazione” da parte dell’uomo
sulla natura. Applicando questa filosofia alla lotta di classe, si
capirà come Gramsci non possa uscire da una visione spontaneista e
volontarista del movimento rivoluzionario. La classe diventa
rivoluzionaria solo quando “capisce” quale sia il suo destino
storico, e questa consapevolezza essa acquisisce grazie alla
“cultura”, al suo ruolo attivo nel processo produttivo.
Al contrario, nella corretta visione marxista, al partito vanno sì
attribuite volontà e coscienza, ma anche «deve negarsi che esso si
formi dal concorso di coscienza e volontà di
individui di un gruppo, e che tale gruppo possa minimamente
considerarsi al di fuori delle determinanti fisiche, economiche e
sociali in tutta l’estensione della classe»47. E altrove: «La
questione della coscienza individuale non è la base della
formazione del partito: non solo
ciascun proletario non può essere cosciente e tanto meno
culturalmente padrone della dottrina di classe, ma nemmeno ciascun
militante preso a sé, e tale garanzia non è data nemmeno dai
capi. Essa consiste solo nella
organica unità del partito. Come
quindi è respinta ogni concezione di azione
individuale o di azione di una massa non legata da preciso tessuto
organizzativo, così lo è quella del partito come raggruppamento di
sapienti, di illuminati o di coscienti, per essere sostituita da
quella di un tessuto e di un sistema che nel seno della classe
proletaria ha organicamente la funzione di esplicare il compito
rivoluzionario in tutti i suoi aspetti e in tutte le complesse
fasi»48.
Non così può essere per Gramsci, che al partito ha sempre
preferito gli organi immediati di classe (i Consigli di fabbrica,
tra l’altro confusi con i Soviet), attraverso i quali si raggiunge
un controllo operaio (di nuovo la coscienza!) sulla produzione.
Non a caso per tutta la vita Gramsci vedrà nell’operaio non il
salariato che produce plusvalore per il capitale, ma il produttore
che è anche “tecnico”, che produce ricchezza sociale
responsabilmente e che all’interno del sistema capitalistico,
grazie alle forme di associazionismo operaio di cui era prodiga la
II Internazionale, diventava consapevole di sé e della sua forza:
«L’associazione ha lo scopo precipuo di educare al disinteresse:
l’onestà, il lavoro, l’iniziativa vi diventano fini a se stessi,
procurano solo soddisfazione intellettuale, gioia morale negli
individui, non privilegi morali. La ricchezza che ognuno può
produrre in misura superiore ai bisogni della vita immediata è
della collettività, è patrimonio sociale [...] Il lavoro è
divenuto dovere morale, l’attività è gioia, non battaglia
cruenta»49.
Dalle fantasiose premesse sulla storicizzazione della realtà, modo
mascherato per intendere che la realtà è creata dall’uomo in
quanto divenire storico, si passa a forme di idealismo - volgare o
no poco importa - con le quali Gramsci precisa i contorni della
sua speculazione filosofica. «Non solo la filosofia della prassi è
connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva
della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola
come fattore storico, come
“soggettività storica di un gruppo
sociale”» (Ms 191). In quest’ottica, che collega
il materialismo storico all’immanentismo, tutto il divenire
storico verrà inquadrato. «Senza l’uomo, cosa significherebbe la
realtà dell’universo?», si chiede angosciato (Ms 55). E prosegue:
«Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche
scientifici, cosa sarebbe l’ “oggettività”? Un caos, cioè niente,
il vuoto... perché realmente, se si immagina che non esiste
l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero» (che
evidentemente consistono nella “realtà” oggettiva secondo Gramsci:
non siamo lontani dal cartesiano cogito ergo sum). Ben si intende
che qui, come altrove, lo voglia o no, Gramsci ribadisce tutto il
suo soggettivismo, identificando l’oggettivismo (cioè l’esistenza
di una realtà esterna all’uomo) con un atto creativo divino.
Dati questi presupposti non sorprende l’affermazione che «Est e
Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche,
poiché fuori della storia reale ogni punto della Terra è
Est e Ovest nello stesso tempo» (Ms 144). Con questa logica si
dovrebbe ammettere che il
polichete Eunice viridis, che da milioni di anni si riproduce
nelle acque degli atolli polinesiani con svizzera precisione ad
ogni ultimo quarto di luna di ottobre o novembre, non potendo
essere neppure considerato un lusus naturae, uno scherzo della
natura (dal momento che questa, per il Nostro, non ha vita
autonoma) si salva almeno in quanto “costruzione arbitraria e
convenzionale, cioè storica”, ma non si sa di chi; d’altra parte
questo verme è reale in quanto razionale, cioè pensabile dall’uomo
in quanto realtà socializzata: «razionale e reale si identificano»
(Ms 144). Ed è chiaro che, su queste “basi” non solo non si andrà
lontano in una qualsiasi storia dei modi di produzione, ma neppure
in una sia pure orientativa storia della natura.
Ed infine, macinato in un tutto unico struttura e sovrastruttura;
o, a seconda dei casi, trasformata quest’ultima
nel fattore dominante; negato il
principio di causalità ridotto a
miserabile e fallimentare espediente logico-retorico del
materialismo “volgare”, ne deriva l’impossibilità stessa di una
scienza sociale che analizzi il corso storico del modo di
produzione
attuale, poiché «una fase strutturale [cioè un modo di produzione]
può essere concretamente
studiata e analizzata solo dopo che essa ha superato tutto il suo
processo di sviluppo, non durante il processo stesso, altro che
per ipotesi e esplicitamente dichiarando che si tratta di ipotesi»
(Ms 97). Quanto lontani siamo dalla definizione del marxismo quale
teoria nel suo insieme al tempo stesso
economia scientifica, scienza
dell’economia capitalistica, interpretazione del
corso storico umano, teoria dello
sviluppo storico sulla base del
materialismo dialettico, programma
di azione rivoluzionaria,
definizione della società comunista! Quanto distanti
siamo dalla affermazione, contenuta nella prefazione alla prima
edizione del Capitale, del metodo analitico di studio della
economia capitalistica, del suo funzionamento nei rapporti di
produzione e di scambio, e «di queste stesse leggi, di queste
tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità...
fine di quest’opera è appunto di svelare la legge economica di
movimento della società moderna»50! Quanto remoti dal limpido e
noto enunciato della Sinistra: «Ad una svolta decisiva si è
affermato che, alla stessa stregua con cui
i fenomeni della natura fisica
sono stati trattati mediante la
ricerca
sperimentale e non più coi dati della rivelazione e della
speculazione [con i quali l’idealista neokantiano Gramsci continua
a trastullarsi], sostituendo alla “filosofia naturale” le scienze,
così, a loro volta, i fatti del mondo umano: economia, sociologia,
storia, vanno trattati con metodo
scientifico, eliminando ogni
premessa arbitraria di
dettami trascendenti e speculativi»51.
Quanto vicine siano, invece, le riflessioni gramsciane
all’idealismo crociano è rivelato dalla seguente esposizione del
concetto di storia in Croce, fatta mezzo secolo fa dalla Sinistra:
«Infatti per Croce la storiografia è possibile, ma si riduce ad
una registrazione incessante ed indefinita dei concreti, e deve
aborrire le leggi causali. La storiografia di Croce è dunque una
meteorologia degli eventi umani, a cui è vietato ogni pronostico,
ogni bollettino di previsione del tempo. Di qui l’antitesi col
marxismo, l’orrore per la pretesa di disegnare sviluppi storici di
domani»52.
b. “Il morto idealismo filosofico afferra il vivo marxista”
(Lenin)
Bogdanov. «La verità è una forma ideologica, una forma
organizzatrice dell’esperienza [...] Il carattere obiettivo del
mondo fisico consiste nel fatto che esso esiste non solo per me
individualmente, ma per tutti o che esso, secondo la mia
convinzione, ha per tutti lo stesso significato determinato che ha
per me [...] In generale, il mondo fisico è l’esperienza
socialmente coordinata, socialmente armonizzata, in una parola,
l’esperienza socialmente organizzata»53. «Abbiamo ammesso che la
stessa “natura fisica” è un derivato dei complessi immediati (ai
quali appartengono anche le coordinazioni “psichiche”), che essa è
il riflesso di questi complessi in altri complessi a essi
analoghi, ma di tipo più complesso (nell’esperienza socialmente
organizzata degli esseri viventi»54. Anche Bogdanov analizza
criticamente il medesimo passo dalla Critica dell’economia
politica che, come abbiamo visto sopra, attirò l’attenzione di
Gramsci, affermando che «la vecchia formulazione del monismo
storico, senza cessare di essere fondamentalmente giusta, non ci
soddisfa più interamente... Nella loro lotta per l’esistenza, gli
uomini non possono unirsi se non per mezzo della coscienza; senza
la coscienza non esiste vita sociale. Perciò la vita sociale, in
tutte le sue manifestazioni, è una vita cosciente, psichica... La
sociabilità è indivisibile dalla coscienza. L’essere sociale e la
coscienza sociale, nel senso preciso che hanno questi termini,
coincidono»55.
Conseguenza di questa filosofia, secondo la quale la verità è
forma organizzatrice dell’esperienza umana, dev’essere
necessariamente che non può esistere nessuna realtà al di fuori,
all’esterno di ogni esperienza umana, soggettiva o sociale o
“storica” à la Gramsci. E
poiché la scienza è esperienza organizzata della società umana del
lavoro, ne sorge l’esigenza
di stabilire le fondamenta di una cultura proletaria. La scienza
in quanto organizzatore del lavoro sociale è oggi dominata dalla
borghesia; il proletariato deve strapparne il possesso alla
borghesia prima della rivoluzione. Non è, questo gramscismo della
prim’ora, quello che, trasferito sul piano dell’azione politica di
classe, si traduce alla bell’e meglio nel controllo operaio sulla
produzione attraverso i consigli di fabbrica? Ecco un bell’esempio
di invarianza dell’opportunismo!
c. La lezione dei Maestri.
Marx, Engels. «Solo a questo punto [i primi quattro presupposti
fondamentali di ogni economia sono descritti nelle due pagine
precedenti: 1) creazione di mezzi immediati di vita; 2) produzione
di nuovi bisogni; 3) riproduzione degli individui; 4) formazione
di legami materiali fra gli uomini all’interno di ogni specifico
modo di produzione e di scambio] [...] troviamo che l’uomo ha
anche una “coscienza” [...] La coscienza è dunque fin dall’inizio
un prodotto sociale [
...] Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto
semplice coscienza dell’ambiente sensibile
immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne
all’individuo che prende
coscienza; in pari tempo è coscienza della natura della natura,
che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza
assolutamente estranea, onnipotente ed inattaccabile»56. Che il
“giovane Marx” piaccia ai solerti neokantiani d’oggi e di ieri
viene spiegato di solito sulla base della sua “civetteria”57
nei confronti dell’hegelismo: una civetteria, si badi bene, che
gli consente di rovesciare l’intero sistema dell’idealismo
tedesco. Come si metterà d’accordo questa “teoria” con le mille e
mille pagine “giovanili” nelle quali si legge l’esplicita e
definitiva rottura con tutte le filosofie di ieri, oggi e domani?
E come con quell’altra pagina di un Marx- non-così-giovane: «La
totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto
del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del comprendere;
ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al
di sopra dell’intuizione e della rappresentazione, bensì
dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della
rappresentazione [...] Il soggetto reale rimane, sia prima
che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente»?58
Lenin. «La negazione della verità obiettiva da parte di Bogdanov
[e Gramsci, ndr] è agnosticismo e soggettivismo... è una
definizione idealistica, radicalmente falsa, e il mondo fisico
esiste indipendentemente dagli uomini e dall’esperienza
umana»59... «Una filosofia la quale insegna che la stessa natura
fisica è un derivato, è filosofia clericale pura e semplice... Se
la natura è derivata, va da sé che essa non può derivare che da
qualcosa di più grande, più ricco, più vasto, più potente della
natura, da qualcosa che esiste, poiché per “creare” la natura
bisogna esistere indipendentemente da essa. Dunque qualcosa esiste
fuori della natura e per di più questo qualcosa crea la natura.
Nel linguaggio comune questo qualcosa si chiama Dio. I filosofi
idealisti hanno sempre cercato di modificare questo termine, di
renderlo più astratto, più nebuloso e al tempo stesso (per
renderlo più verosimile) più vicino allo “psichico”, come
“complesso immediato”, dato immediato che non ha bisogno di essere
provato. L’idea assoluta, lo spirito universale, la volontà
universale, “sostituzione universale” dello psichico al fisico, è
sempre la stessa idea, presentata in formule differenti. Ogni uomo
conosce, e le scienze naturali ne fanno oggetto d’indagine,
l’idea, lo spirito, la volontà, lo psichico, come funzioni del
cervello umano in attività normale; staccare queste funzioni della
materia organizzata in modo determinato, trasformarle in funzioni
universali, in una astrazione generale, “sostituire” questa
astrazione a tutta la natura fisica, è una stravaganza della
filosofia idealistica: significa voler schernire le scienze
naturali.»60
Inoltre, «questa teoria dell’identità dell’essere sociale e della
coscienza sociale [in Gramsci si tratta della “realtà
storicizzata”, ma la salsa indigesta è la medesima] è tutto un
assurdo ed è una teoria assolutamente reazionaria»... «L’essere
sociale e la coscienza sociale non sono identici, così come non
sono identici l’essere in generale e la coscienza in generale. Dal
fatto che gli uomini entrino in contatto reciproco nella società,
come esseri coscienti, non consegue affatto che la coscienza
sociale sia identica all’essere sociale [...] Gli uomini che
entrano a far parte della società non sono coscienti dei rapporti
che si creano in essa, delle leggi secondo le quali questi
rapporti si sviluppano [...] La coscienza sociale riflette
l’essere sociale: ecco in che consiste la dottrina di Marx [...]
La coscienza in generale riflette l’essere: questa è una tesi
generale di tutto il materialismo. Non è possibile non vedere il
suo nesso
diretto e indissolubile con la tesi del materialismo storico: la
coscienza sociale riflette l’essere sociale. »61
Frasi limpide, radicate nel cuore stesso del materialismo storico.
Ma qui l’allievo Gramsci non ha più diritto di parola.
5. Dietro la filosofia della prassi si cela la prassi
conservatrice della decadente filosofia borghese.
La “feconda osmosi” tra elucubrazioni gramsciane sulla storia e
idealismo crociano al cui arsenale Gramsci attinge a piene mani,
porta al ripudio di ogni determinismo e di ogni economicismo. Il
materialismo storico è diventato più propriamente filosofia della
prassi, il pensiero (!) del proletariato ha assorbito quanto di
vitale conteneva ancora l’ideologia della classe dominante, il
dialogo si è concluso con la riaffermazione del valore tipico
dell’uomo: la libertà. La contrapposizione che Gramsci invoca ad
ogni piè sospinto tra “materialismo” e “dialettica” ha un solo
significato, che egli stesso più volte cerca di chiarire. Si
tratta di invocare la dialettica di fronte e contro al mondo della
natura, in modo da concedere al mondo soggettivo, al mondo
“umano”, al pensiero, una posizione autonoma e contrapposta.
Ma la liquidazione del materialismo
non è così facile. Marx parlò
di materialismo volgare, così come di economia volgare, per
bollare quei movimenti che, dopo le rivoluzioni borghesi, nacquero
ovunque per ragioni di conservazione sociale. E’ il materialismo
scientista del positivismo, il materialismo dei Comte, degli
Ardigò e degli Spencer. E’ il materialismo fisiologico che tutto
riduce all’individuo, che “spiega” la società sulla base della
psicologia e la psicologia sulla base della fisiologia. E’ dunque
una filosofia tutta ripiegata su se stessa, nella quale non vi è
spazio per un’analisi dei rapporti tra l’individuo e la società,
tra l’individuo e la classe.
Ma Marx parla anche di materialismo classico, che è quello
dell’Enciclopedia. Questo è la filosofia della borghesia
rivoluzionaria, e lotta contro ogni fideismo nel mondo materiale e
contro ogni spiritualismo nel mondo sociale.
«Ma la vittoria della società capitalistica ferma questi sviluppi
dottrinali classici, e riduce la scienza economica alla economia
volgare, che dissimula la estorsione di plusvalore e pluslavoro
come riduce il materialismo classico di Diderot e di d’Alembert ad
una filosofia volgare che non intacca la dominazione
borghese e apologizza la oppressione
economica dopo avere condannata quella culturale
e giuridica [...] La differenza tra i due materialismi non sta
dunque nel fatto inventato che Marx abbia decampato dal terreno
monista per stabilire la vuota parità dignitaria tra natura ed
uomo, specie di neodualismo, ma nel criterio fondamentale che noi
non passiamo per la inafferrabile determinazione che gioca nel
singolo organismo e cervello personale, non cerchiamo la vuota
fantasima della “personalità”, ma fondiamo la relazione sulle
condizioni materiali di una comunità sociale e tutta la serie
delle sue manifestazioni e sviluppi storici. Su questa base noi
riteniamo fondatamente e con ricchezza di prove storiche che nulla
è l’influenza di una personalità sulla vicenda sociale, e che la
storia e la sociologia umana vanno considerate come uno dei campi
di descrizione in cui è lecito considerare ripartita la conoscenza
della natura, senza che una tale distinzione e separazione abbia
valore preminente davanti a tutte le altre: per il che è ben
giusto dire che nella dottrina marxista la scienza della società
umana è compresa in quella della natura materiale, anzi la seconda
nella sua costruzione deve giocoforza precedere la prima»62.
L’argomentazione dell’idealismo gramsciano si avvale dunque della
dialettica (ad usum delphini) per eliminare in tronco il
materialismo, e in particolare il materialismo storico, come
scienza sociale. La “storicizzazione” degli eventi sociali
consiste infatti nella loro attuazione storica compiuta dalla
società, dall’uomo sociale che è il protagonista della propria
storia. Di conseguenza la filosofia della prassi è una filosofia
che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia.
«Fa anzi maraviglia», sostiene Gramsci, «che il nesso tra
l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione
dello spirito umano e l’affermazione della storicità e caducità di
tutte le ideologie da parte della filosofia della prassi [...] non
sia stato mai affermato e svolto convenientemente» (Ms 139). E’
infatti stupefacente come tutti gli idealisti mascherati da
“marxisti” pretendano di basare le proprie elucubrazioni
filosofiche niente meno che sul materialista storico Marx, il Marx
delle “tesi su Feuerbach”. E’ nella III tesi che Gramsci vorrebbe
vedere la conferma delle proprie idee. Ecco il punto: «Sono
proprio gli uomini che modificano l’ambiente e [...] l’educatore
stesso deve essere educato. [...] La coincidenza del
variare dell’ambiente e dell’attività
umana può solo essere concepita e
compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria».
Quando Marx scriveva le famose tesi era giunto il momento di fare
in tutto e per tutto i conti con l’idealismo hegeliano. Si
trattava dunque di rovesciare l’impianto filosofico che faceva
poggiare il mondo sulle idee, riconducendo materialisticamente
queste all’atto concreto della vita, della produzione e della
riproduzione, dei rapporti tra gli uomini e le classi sociali.
L’insistere sull’attività umana in Marx non ha per nulla il
significato di rendere l’uomo artefice di un ambiente da esso
separato e da esso dipendente, poiché il marxismo è una concezione
monistica della realtà. Esso è invece la proclamazione di guerra
rivoluzionaria della quale è
artefice una classe storica, e non le idee riflesse da rapporti
sociali inconsapevoli. Nessun cedimento all’idealismo, dunque, ma
anzi totale suo capovolgimento. La dialettica non servirà in alcun
modo per sostituire l’uomo alla natura.
«Non si deve intendere che la dialettica consista nel dire:
l’economia fa la politica, ma poi la politica [...] rifà a suo
modo l’economia. Questa è una inversione di tesi e non la sintesi
di una tesi e di una antitesi feconde. Marx ha detto che gli
uomini fanno la loro storia, vecchia obiezione di rimasticatori
scarsi. E’ certo che la fanno, colle mani coi piedi e con la bocca
anche, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi
neghiamo è che la facciano con la testa, ossia che siano a tanto
di “costruirla” [...] su di un modello, o progetto tutto pensato.
La fanno sì, ma non come credevano e sapevano di farla, né come
prevedevano e desideravano».63
Dunque la filosofia della prassi è ripudio di ogni determinismo.
Essa nega che Marx abbia definito “materialismo” il proprio
pensiero; essa è unità di struttura e sovrastruttura; è ricorso
alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Da
questa premessa, dice giustamente il Tamburrano64, scaturisce una
conclusione assai nuova e originale per la filosofia marxista:
«Oggettivo significa sempre ‘umanamente oggettivo’ ciò che può
corrispondere esattamente a ‘storicamente oggettivo’, cioè
oggettivo significherebbe ‘universale soggettivo’». E il
Tamburrano conclude: non si può negare che la sintesi e il
superamento del materialismo e dell’idealismo si fa su posizioni
molto vicine all’idealismo e si giunge a una concezione
soggettivistica che si distacca dal
materialismo dialettico sovietico
(sic!)65. «Dalla critica radicale di ogni determinismo
discende l’affermazione della possibilità, e non della necessità,
del sorgere di una nuova società. Occorre dichiarare che il
socialismo è un evento solo possibile»66.
D’altra parte, capovolto il rapporto dialettico tra struttura e
sovrastruttura su basi idealistiche, la filosofia della prassi
giunge alla logica conclusione che la “conoscenza”, l’
“educazione” pongono l’uomo in reazione attiva sulla struttura. In
questa azione si afferma “l’unità del processo del reale”, sintesi
dinamica dunque di soggetto-oggetto; la rivoluzione avviene al
tempo stesso nel modo di produzione e di scambio e nella testa e
nella coscienza degli uomini. La classe evapora nei fumi della
“filosofia della prassi” e il concetto costruito dal Sorel di
“blocco storico”, nel quale «le forze materiali sono il contenuto
e le ideologie la forma» (Ms pag. 49) coglieva appunto «questa
unità sostenuta dalla filosofia della prassi» (Ms pag.
231).
La critica di Gramsci segue il seguente processo logico: 1) nelle
tesi su Feuerbach Marx risolve l’antinomia “cosa
in sé” - “cosa per noi”
nel senso della storicizzazione della
conoscenza, cioè la conoscenza si sviluppa nel corso della storia
umana. Da questa esatta considerazione Gramsci, con una inversione
di 180 gradi, deriva che 2) l’oggetto della conoscenza è
storicizzato anch’esso, cioè è esso stesso il prodotto
dell’evoluzione sociale; esso dunque non può esistere al di fuori
della storia umana, e quindi al di fuori dell’uomo tout court.
3) Ne deriverebbe il “superamento” del materialismo dialettico,
nel senso che oggetto e soggetto vengono a coincidere, e la
coincidenza si attua esattamente nella storia.
Si giunge allo stesso risultato - l’idealismo gramsciano -
attraverso una dimostrazione a
posteriori, cioè partendo dall’affermazione, di Gramsci e di tutti
gli immediatisti e volontaristi, secondo cui il socialismo sarà
una conquista prima di tutto intellettuale, culturale, da parte
del proletariato, nel processo produttivo prima, nel movimento
generale della società poi. Sono innumerevoli i passi gramsciani -
di evidente derivazione taschiana - in cui è svolto questo
pensiero. Ad esempio: «C’è quindi una lotta per l’oggettività (per
liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la
stessa lotta per l’unificazione del genere umano» (Ms pag.
142). Oppure, a proposito della tanto invocata volontà collettiva
popolare, opera del demiurgo di turno: «Il moderno Principe [è il
partito di classe] deve e non può non essere il banditore e
l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi
significa creare il terreno per
un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare
verso il compimento di una forma superiore e totale di
civiltà moderna»67. Ancora una volta si conferma la vocazione
taschiana all’educazionismo da parte di Gramsci.
Ma per lui non solo la
cultura redimerà l’umanità. Essa
potrà compiere questa
operazione solo attraverso il partito di classe, tutti i membri
del quale debbono essere considerati intellettuali, perché la
vera, ultima funzione che Gramsci assegna al partito
rivoluzionario è quella «direttiva e organizzativa, cioè
educativa, cioè intellettuale»68. Ora, un conto è l’esatta
considerazione, che il Che fare? riprende da Kautsky,
sull’importazione della coscienza socialista nella lotta di
classe, e diciamo pure: nel partito, dall’esterno, e
precisamente soprattutto per azione di intellettuali borghesi:
questa è una stringente argomentazione che Lenin utilizza contro
la grave deviazione operaista e spontaneista che si stava
delineando nel giovane movimento rivoluzionario russo di fine
Ottocento, e che andava stroncata sul nascere.
Altro conto è fissare, come
obiettivo per il partito di classe,
l’esportazione della “cultura” nella classe, concezione
idealistica che riflette una erronea analisi nei
rapporti partito-classe, e che è
diametralmente opposta alla visione
leninista (e, in generale, marxista): «Quanto più
grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento
si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più
rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e
organizzativa della socialdemocrazia»69. Le masse si muovono
spontaneamente, sotto l’azione della crisi sociale ed economica;
il partito è la coscienza delle masse, e sua funzione non è
affatto quella didattica, ma quella dirigente. L’impreparazione
del partito italiano di allora (1923-1926) - della sua corrente
falsamente maggioritaria, gramsciana appunto -, così come quella
dei partiti comunisti di tutta Europa, non l’insufficiente
coscienza critica delle masse, sta alla base della difficile
ripresa odierna dei fili strappati dalla controrivoluzione70.
Allo stesso modo, e con la medesima obiettività, Gramsci fa dire a
Marx il contrario di quanto sta scritto: «L’espressione
tradizionale che “l’anatomia” della società è costituita dalla sua
“economia” è una semplice metafora (sic!) ricavata dalle
discussioni svoltesi intorno alle scienze naturali e alla
classificazione delle specie animali [...] La metafora era
giustificata anche dalla sua “popolarità”,
cioè dal fatto che offriva
anche a un pubblico non
intellettualmente raffinato, uno schema
di facile comprensione» (alla
faccia! Lasciamo volentieri al “raffinato” Antonio la
paternità di questa affermazione su Zur Kritik, un testo che, per
complessità di analisi e arditezza concettuale sta pari pari con
il suo fratello maggiore Das Kapital!). E Gramsci nota (la
sottolineatura è nostra): «di questo fatto non si tiene quasi mai
il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di
riformare intellettualmente e moralmente strati sociali
culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta “grossolane e
violente” nella loro popolarità» (Ms pag. 68). Totale liquidazione
del materialismo storico, che appare - e non può essere diverso
date le premesse - “grossolano e violento” al raffinato e
reazionario subidealismo bogdano-kantiano di Gramsci.
Poiché gli apologeti del gramscismo in tutte le salse, ieri ed
oggi, celebrano i propri saturnali sulle spoglie del “giovane
Marx”, dedichiamo loro queste frasi dall’Ideologia tedesca:
«Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni
loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono
prodotti della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente
chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla
loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o egoistica, e
di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di
modificare la coscienza, conduce all’altra richiesta, di
interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo
mediante una diversa interpretazione... I presupposti da cui
muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmatici: sono
presupposti reali... Essi sono gli
individui reali, la loro azione
e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle
che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle
prodotte dalla loro stessa azione.
Questi presupposti sono dunque constatabili per via
puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana
è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo
dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di
questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto
della natura (che evidentemente Marx e Engels, nel loro grossolano
materialismo, considerano esterna agli individui). In che cosa
consistono le condizioni naturali trovate (trovate dall’uomo
come preesistenti ad esso, e
per nulla immanenti, o soggettivamente
storicizzate, Antonio!) dagli uomini? Esse sono “le condizioni
geologiche, oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni
storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e
dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per
l’azione degli uomini»71 (tutte le evidenziature sono nostre
ndr).
Si giri la frittata come si vuole, ma ne emergerà chiaro e tondo
che la “filosofia della prassi”, con i suoi sforzi di conciliare
l’inconciliabile, l’idealismo col materialismo, il realismo con il
soggettivismo, l’eclettismo con il determinismo72, non può
presentarsi come una teoria rivoluzionaria che possa sostituire,
come pretenderebbe, il materialismo storico. Al contrario, essa
rivela in tutti i punti nodali i propri cedimenti di fronte alle
lusinghe ideologiche della classe dominante: l’indeterminazione,
l’agnosticismo, il volontarismo; e, in coda e in testa a tutta
questa fila, l’idealismo fatto carne. Il fatto poi che Gramsci non
voglia considerare se stesso un idealista compiuto non è
sufficiente all’analisi marxista. «Pensare che l’idealismo
filosofico sparisca perché alla coscienza dell’individuo si
sostituisce la coscienza dell’umanità, oppure all’esperienza di
una persona l’esperienza socialmente organizzata [in Bogdanov; in
Gramsci ciò si legge come “sistema culturale unitario” il cui
presupposto è il genere umano storicamente unificato, Ms pag.
142], equivale a pensare che il capitalismo dovrebbe sparire
quando una società per azioni si sostituisce a un capitalista»73,
ed è di fatto una teoria reazionaria che, basando i suoi
presupposti gnoseologici sull’ “unificazione” del genere umano -
unificazione che il capitalismo ha prodotto per la prima volta
nella storia della successione delle forme di produzione - trova
compiutamente la propria giustificazione proprio nel momento in
cui la borghesia diventa urbi et orbi la classe dominante
materialmente ed ideologicamente; momento che affonda le proprie
radici in un passato glorioso, rivoluzionario sia pure, ma
rappresentante esclusivo della rivoluzione borghese.
6. Dallo storicismo assoluto alla scomparsa del mondo materiale.
“Storicismo assoluto” è la chiave di volta dell’idealismo
gramsciano, ed è ciò che lo collega con Croce e con Hegel. Per lo
storicismo, la realtà - e il marxismo ammette che essa sia quella
naturale e quella sociale, poiché non esiste per noi differenza
alcuna fra queste due realtà - è storia, è divenire.
Nell’esposizione classica dell’idealismo, lo storicismo è la
manifestazione dello spirito nel processo in cui questo si
realizza nel mondo. Sia Hegel che Croce identificano questo
movimento nel tutto. E’ per questa ragione che lo storicismo
identifica filosofia e storia; è per questa ragione che Gramsci
può giungere all’assurdità idealista di affermare che la filosofia
della prassi, cioè lo storicismo assoluto, è la mondanizzazione
del pensiero. Lo spirito, o il pensiero, fatti carne, sono scesi
nella realtà di noi mortali. Il comunismo è la realizzazione del
pensiero, o dello spirito. Tanto varrebbe chiudere baracca, e
convertirsi a qualche fondamentalismo religioso.
Una filosofia la quale insegna che la stessa natura fisica è un
derivato - si pure “storicizzato” - è filosofia clericale pura e
semplice, dirà Lenin74. Ma il Gramsci giovane, così come quello
vecchio, non se ne cura affatto. L’idealista non è lui, protesta,
bensì Marx in persona. Perché «Marx non era un filosofo di
professione [dio ce ne scampi], e qualche volta dormicchiava
anch’egli [mentre, come è dimostrato, Gramsci e i suoi colleghi
filosofi non dormicchiano mai, sempre pronti ad invocare insalate
di struttura e sovrastruttura, di spirito e natura]. Il certo è
che l’essenziale della sua dottrina è in dipendenza dell’idealismo
filosofico [mentre, come è noto, il vero materialista è lui,
Gramsci Antonio da Ales, per il quale bisogna combattere
strenuamente “la concezione del causalismo meccanico (?), per
svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito” (Ms
pag. 135); per il quale il materialismo storico sarebbe
“mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero” (Ms, pag.
159)75]. Si pensi del resto all’uso grande che i socialisti fanno
della parola “coscienza” [...]; è implicita in questo linguaggio
la concezione filosofica [di sapore nettamente
clerico-spiritualista] che si “è” solo quando “si conosce”, “si ha
coscienza” del proprio essere»76. E se qualcuno avesse ancora dei
dubbi sul campo di appartenenza di Gramsci, ecco l’ultimo fiore:
«Il marxismo si fonda sull’idealismo filosofico...[che] è una
dottrina dell’essere e della conoscenza, secondo la quale questi
due concetti si identificano e la realtà è ciò che si conosce
teoricamente, il nostro io stesso»77
Dobbiamo meravigliarci, a fronte di ciò, che furfanti
matricolati, suoi più o meno ex compagni di partito, il cui
pedigree è pienamente valutato solo sulla base del numero di
rivoluzionari lasciati andare a crepare in Siberia, lo esaltino
come “un marxista, un leninista, un bolscevico”; come «il primo
marxista d’Italia», come «figura socratica», come «uno dei più
forti ingegni dell’Italia d’oggi»78? Nel campo della “prassi”,
costoro non sono certo andati per il sottile.
Ma che cos’è la prassi gramsciana?
Le Tesi su Feuerbach, redatte sotto forma di appunti da Marx
durante i suoi studi sulla filosofia hegeliana, contengono, quasi
tutte espressamente, l’osservazione che il pensiero e l’intuizione
sensibile non sono forme astratte, ma attività pratica; e così
pure, la questione sulla conoscenza oggettiva è “puramente
scolastica” se non sottoposta al vaglio dell’attività pratica
umana.
Questo riferimento all’attività umana, attività rivoluzionaria in
primo luogo, “movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente” e che, in quanto tale, agisce di continuo nelle viscere
della società attuale, costituisce il senso della “filosofia della
prassi” gramsciana.
Come s’è detto più sopra, è ormai assodato anche da parte di
“specialisti” che il termine
fu utilizzato da Gramsci per sostituirlo a quello di “marxismo” -
che sarebbe stato più coerente
- e ciò non solo per evitare la censura. Tale espressione serve
infatti ad indicare una filosofia che si stacca
in alcuni punti cruciali dal
materialismo storico-dialettico, e che
Gramsci
sottopone a critica serrata.
Se ne stacca sia che si voglia ritenere che nel processo
conoscitivo la realtà venga trasformata dall’io pensante - e
questo è una delle tante forme di idealismo cui Gramsci, e prima e
dopo di lui ampia parte della fisica contemporanea, sono
sensibili. Sia quando si vuole ammettere - e questo è un aspetto
tipicamente gramsciano - che conoscere ed agire si identificano.
La Sinistra comunista, nella sua difesa del marxismo integrale, ha
sempre tenuto a chiarire che, nel processo rivoluzionario, azione
e conoscenza sono due momenti separati, la cui saldatura può
avvenire solo nei rari momenti storici in cui le masse e il loro
partito si trovano riuniti nella lotta per la conquista del potere
politico.
Dalle sue premesse, non può stupire che Gramsci “spontaneamente”
aderisca a quelle nuove tendenze idealistiche che, fin dalla fine
dell’Ottocento, si fecero strada anche nella
filosofia della natura, e che da più parti saranno benvenute come
salutare liberazione dalle
«incrostazioni positivistiche e naturalistiche» che, secondo
Gramsci, avrebbero «contaminato» Marx.79 L’ “incrostazione
positivistica” che Gramsci rimprovera a Marx non sta solo nella
concezione materialistica condivisa e difesa da tutti i marxisti
contro ogni deviazione o suggestione neokantiana o idealistica o
spiritualistica. Essa è la base su cui si fonda la nostra stessa
concezione del divenire umano, dei rapporti tra struttura e
sovrastruttura, tra realtà e conoscenza.
Là dove Gramsci vede l’emancipazione del proletariato nella
«organizzazione, disciplina
del proprio io interiore, [che] è presa di possesso della propria
personalità, è conquista di coscienza superiore»80 il marxismo
oppone l’impossibilità, per l’individuo e per la classe, di
giungere ad alcuna forma di “comprensione” a forza di “opinioni” e
di “prese di coscienza”, sempre risolte in “prese” più bassamente
anatomiche, e sempre in funzione malcelata di conservazione di
classe. La nostra scuola nega, innanzi tutto, che la società sia
retta da forme di pensiero che si trasmettono da cervello a
cervello in una sorta di scala gerarchica. Inoltre, noi neghiamo
che la “coscienza” possa in alcun modo precedere l’azione delle
classi - al cui interno gli individui si muovono inconsapevolmente
rispetto ai destini storici della classe di appartenenza - a
prescindere dal ruolo che a queste la storia ha fissato sulla base
dei rapporti materiali di produzione. Ciò è talmente vero che
tutti i contrasti di classe, nelle più diverse forme storiche di
produzione dei secoli e dei millenni passati, non sono stati
affatto risolti da “forme di pensiero” alternative a quelle
dominanti, poiché fino all’affermazione della forma capitalistica
di produzione nessuna classe è comparsa sulla scena storica, che
potesse rivendicare a sé la funzione di negatrice di tutte le
classi; e perché le classi dominanti, così come le loro
affossatrici, hanno fin qui espresso in modo confuso il proprio
ruolo storico. E’ solo il proletariato moderno che è giunto alla
coscienza di ciò, e questo non perché incarnazione di qualche
“spirito” o “divenire storico” o “nuovo concetto di immanenza”, ma
solo in quanto prima e unica e ultima classe della storia umana ad
essere deprivata infine di ogni risorsa ed essere costretta dalle
forze materiali che reggono l’economia del capitale, e dalle leggi
sociali e giuridiche che ne sono il riflesso, a vendere se stessa
per riprodursi come classe sociale. E tale coscienza non si attua
mai per conoscenza infusa.
«Il combattente della massa, anonimo e dimenticato dalla storia,
si schiera nella guerra civile per le rivendicazioni della sua
classe, muove da un egoismo collettivo, ossia dal bisogno di
sollevare utilitaristicamente le sue stesse condizioni economiche,
ecc. arriva - prima di avere abbracciato scuole filosofiche con
l’esame di laurea e prima di essere stato battezzato nella nuova
confessione - a passare oltre l’istinto di conservazione,
rifondendo la pelle; non soldato, ma volontario ignoto della
rivoluzione. Questo randello o fucile operatore è travolto nella
comune azione perfino prima di aver conosciuto regolamenti per la
pensione agli orfani dei caduti e per le medaglie alla memoria;
dimentica primo se stesso e sarà come persona dimenticato da
tutti»81.
Nel suo tentativo di conciliare idealismo e materialismo, e non
riuscendo tuttavia a dimostrare in via definitiva che Marx sia
collocabile su correnti hegeliane o neokantiane, Gramsci ricorre
al solito vecchio trucco: Marx scrisse di filosofia ma non
era filosofo; il materialismo storico è arnese buono oggi, ma
domani sarà l’idealismo a trionfare (Ms 96); Engels poi, si sa,
impregnato com’era di scienze naturali, usa espressioni che si
avvicinano, nientemeno, che a quelle del «neoscolastico Casotti»
(Ms 143).
Come tirarsi fuori da questo...
casotto? E’ chiaro: andando a
vedere “i debiti intellettuali” dei maestri fondatori.
E si leggerà, come fanno tutti coloro che da Marx si
allontanano sdegnati facendosi passare dai gonzi per “superatori
aggiornati”, le opere giovanili
- proprio quelle che già segnano la sicura ed inequivocabile
autonoma strada rivoluzionaria - come filiazioni dirette
dell’idealismo filosofico (financo Gramsci, che non le conosceva
tutte, avrebbe avuto difficoltà a riconoscervi “incrostazioni
positivistiche”) o del criticismo kantiano. E tuttavia, ben prima
delle elucubrazioni gramsciane, si poteva leggere nel Poscritto
alla seconda edizione del I Libro del Capitale, qualche opinione
di ben altro tipo: «A prima vista [Marx riporta
un commento critico
russo di M. Block]
giudicando dalla forma
esteriore dell’esposizione, Marx è il più grande dei filosofi
idealistici, - per giunta nel senso tedesco, cioè cattivo, del
termine. In realtà, è infinitamente più realistico di tutti i suoi
predecessori nel campo della critica economica... Non lo si può in
nessun modo chiamare un idealista». E più oltre: «Marx considera
il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da
leggi che non solo sono indipendenti dalla volontà, dalla
coscienza e dai propositi degli individui, ma al contrario ne
determinano la volontà, la coscienza e i propositi... Se nella
storia della civiltà l’elemento cosciente occupa un posto così
secondario, va da sé che la critica, il cui oggetto è la civiltà
medesima, non può avere per base, men che mai, una forma qualsiasi
o un risultato qualsivoglia della coscienza. Ciò significa che non
l’idea, ma soltanto il dato fenomenico, può servirle da punto di
avvio». Commentando questa citazione, Marx stesso chiede:
«Illustrando quello che chiama il mio vero metodo in modo così
calzante... che cos’altro ha illustrato l’Autore se non il metodo
dialettico?».82
Il capitalismo è dunque un processo di storia naturale retto da
leggi, secondo l’espressione che piacque a Marx. Ma non così è il
capitalismo gramsciano, per il quale vi sono
sì delle leggi, ma «sono leggi non in senso naturalistico e del
determinismo speculativo, ma in senso “storicistico”»
(Ms, pag. 91). Il socialismo
scientifico è ritornato ai suoi
lontani
precursori, rivoluzionari sì ma impotenti per l’immaturità delle
condizioni materiali. E’ tornato ai Cabet, ai Babeuf, ai
Buonarroti, ai socialisti utopisti.
7. Di alcuni esecutori testamentari.
Succede nella Russia di Bogdanov come nell’Italia di Gramsci, con
un ritardo di decenni, quanto era avvenuto nella Germania della
prima metà dell’Ottocento. Fu in quel periodo che l’idealismo
hegeliano, gigantesco sistema filosofico che pone la parola fine
alla filosofia nel momento in cui ne riassume in modo grandioso
tutto lo sviluppo (secondo l’opinione di Engels, nel L. Feuerbach
e il punto d’approdo), impregnò di sé le scienze e le arti,
penetrando in modo conscio o inconscio, nelle teste degli
intellettuali “critici”. Un uomo come Gramsci, intellettuale dalla
testa ai piedi formatosi alla scuola idealista, non riuscirà mai a
sbarazzarsi dell’ideologia dominante. Tutte le sue incomprensioni
dei decisivi momenti della lotta di classe che si svilupparono
nell’arco della sua esistenza derivano in ultima analisi proprio
dal suo atteggiamento di fronte alla questione del determinismo
dialettico - sempre forzato in una direzione volontarista,
soggettivista che si tradurrà politicamente, quando la situazione
oggettiva inizierà a rifluire, in un atteggiamento di fronte
unico, di acculturazione proletaria, di “subalternità” che diventa
dirigente e responsabile dell’attività economica di massa (Ms 14).
È, a ben vedere, una tendenza storica che appartiene alla scuola
piccolo-borghese, per la quale la rivoluzione non è altro che la
“liberazione” innanzi tutto ideologica, intellettuale del
lavoratore. Ciò che in Marx è l’urto storico tra inarrestabile
sviluppo delle forze produttive e limiti dell’economia di mercato,
qui diventa la sterile teoria del piccolo borghese che scopre in
sé l’individuo, il soggetto, l’artefice di se stesso.
Ed è stretta conseguenza del medesimo indirizzo “culturista”
l’ammirazione che Gramsci manifesterà sempre per
l’Illuminismo e l’Enciclopedia, da
lui concepiti come una grande
riforma intellettuale e morale a livello popolare e addirittura
contadino. Riforma che, saldandosi ed anzi ponendosi come fattore
dirigente della rivoluzione francese, costituirà quel legame
nazionale e patriottico tra le masse e gli intellettuali la cui
assenza Gramsci lamenta nella mancata rivoluzione
borghese italiana, e che vedrebbe
realizzarsi nel suo progetto di
Assemblea costituente fin dal 1924. E così, mentre sulla arena
internazionale si combatte una
lotta decisiva per le sorti del comunismo dei decenni successivi;
mentre la Sinistra internazionale vuole che la questione russa sia
posta al vaglio dell’Internazionale e non viceversa;
mentre si discute sulla questione
dei metodi di lavoro
dell’Internazionale e all’interno delle singole sezioni di
questa, sui tentativi di riorganizzazione del movimento
rivoluzionario sotto l’incalzare dell’offensiva fascista; mentre
gigantesche lacerazioni attraversano tutte le organizzazioni
militanti europee e all’ordine del giorno si pone perentoriamente
la difesa ad oltranza del marxismo rivoluzionario
internazionalista contro tutte le sue deviazioni
sul piano economico, politico e
sociale; in questi drammatici frangenti
Gramsci non fa altro che ripiegare sulla difesa di “grandi masse
dei contadini coltivatori” che, irrompendo nella vita politica
italiana, consentiranno “la formazione di volontà collettiva
nazionale-popolare”! E, si badi bene, ciò non è affatto la visione
di un Gramsci ormai tagliato fuori dalla vita politica militante e
isolato nelle galere fasciste; questo è proprio il pensiero del
Gramsci rappresentante dell’Internazionale Comunista, del Gramsci
che fin dal 1924 sosteneva in diretta polemica con la Sinistra:
voi siete per una minoranza internazionale, noi siamo per una
maggioranza nazionale.83
Non insisteremo qui sul lascito gramsciano al suo stesso partito
che, nel tempo, è passato da “sezione
dell’Internazionale Comunista” a partito
comunista nazionale, fino a
scomparire poi del tutto, lasciando orfani inconsolabili tra ex
stalinisti riciclati in Verdi o
“dissidenti” parlamentari.
Dall’idealismo soggettivo e dal volontarismo spontaneista sono
germogliati intellettuali dalla testa confusa. Innanzi tutto ci
riferiamo all’operaismo sempre in azione appena le piazze
minacciano di riempirsi per movimenti autenticamente di classe.
Pensiamo alle “fabbriche
come centro di conflitto sociale e di potere” à la Negri; pensiamo
allo spontaneismo antipartito, che nasce anch’esso dalla fabbrica
(un luogo, se possibile, peggiore della galera, ma dal quale
dovrebbero svilupparsi nientemeno che gli embrioni della società
comunista) e che vede come la peste qualunque organizzazione
politica. Pensiamo all’immediatismo che sempre rifiorisce là dove
costantemente si resta ancorati alle prime forme di reazione
operaia contro le condizioni bestiali del lavoro, ma che non sa né
può porre con chiarezza, perché necessariamente affetto da
localismo aziendale, la questione del potere su scala nazionale e
internazionale.
Il marxismo, in quanto dottrina teorica, politica e tattica del
proletariato rivoluzionario, non poteva che nascere a metà del XIX
secolo, come il prodotto della lotta tra le due classi storiche
che, da ora in poi, si affronteranno sulla scena internazionale.
All’ideologia borghese la classe operaia, scesa sul terreno della
lotta per i suoi obiettivi finali, oppone perciò il materialismo
storico, determinista e dialettico.
E qual è l’inconscio intento gramsciano? Evidentemente, quello di
formulare del marxismo, da lui riveduto e corretto, un sistema di
conoscenza (e peggio ancora, dati i
presupposti, di azione) capovolta, nel quale l’idealismo
dialettico la fa da padrone.
Per la nostra corrente, il
marxismo non è nato perché
Marx fosse o non fosse “incrostato”
di positivismo, perché fosse o
non fosse un “buon filosofo” o
un “buon economista”. Il marxismo è nato così com’è perché
era, è e sarà l’espressione teorica di una classe reale, che ha
combattuto e combatterà le sue proprie battaglie per i suoi propri
fini, che si riassumono in quello gigantesco dell’abolizione di
tutte le classi. La nostra scelta non è tra un Marx “più
dialettico” o “meno materialista”, la “scelta” è fra una classe e
un’altra. Non vi è spazio “in mezzo”, come non vi è spazio tra
salario e capitale, tra lavoro salariato e estorsione di
plusvalore. L’idea che vi possa essere un marxismo da rivedere
sulla base di presunte novità epistemologiche proviene solo da chi
non ha il coraggio di fare una scelta di classe perché non sa, o
non può ancora, riconoscere il sicuro cammino che porta
all’abbattimento del capitalismo. Essa proviene da una nascosta
necessità di evitare le conclusioni rivoluzionarie, di totale
rottura rispetto all’ideologia borghese, facendo leva sulla
presenza di ibride forme sociali.
Agli intellettuali d’oggi di Gramsci
piace, oltre all’impostazione idealistica,
anche l’esplicita dichiarazione che la “filosofia” di Marx non è
completa; essa deve dunque essere emendata, migliorata, ristudiata
ed infine re-inventata84. E’ opportuno, in tutto e per tutto - si
tratti di storia, d’economia, di politica - fare una teoria più
completa del marxismo; fare una teoria della teoria.
Nella sua critica a Bucharin - e in generale ai marxisti - Gramsci
lamenta sempre un eccesso di materialismo e un difetto di
dialettica. E’ la dialettica, egli sostiene, che opera nella
storia, ed è nella dialettica che si deve vedere tutta la forza
del marxismo. Il “materialismo” sarebbe solo un pedaggio che il
marxismo ha pagato alle rivoluzioni borghesi del XVIII secolo.
Quanto a noi, restando fedeli
al binomio “materialismo dialettico”,
non troviamo nessuna necessità di dover dare “più forza”
all’uno o all’altro dei termini, dal momento che essi
rappresentano nella loro unità la sintesi della realtà naturale
(e, di conseguenza, sociale). E’ vero semmai che l’accentuare il
termine “dialettica”, ma tutto in senso idealistico, è proprio
degli indirizzi scientifici del XX secolo; che accettano,
costretti dalla forza dell’evidenza, la dialettica della natura
(innumerevoli esempi al riguardo, dal concetto di massa-energia, a
quello di onda-corpuscolo nel campo della fisica, a quello di
individuo-specie e di gene- ambiente in quello dell’evoluzione
biologica), ma respingono in via definitiva il materialismo, fino
a spingersi sul terreno del fideismo e dello spiritualismo.
8. Stalinismo, americanismo, fordismo... e giri di Walzer a mo’ di
conclusione.
Così come di fronte all’industria meccanizzata torinese
nell’immediato anteguerra Gramsci ha parole di ammirato stupore,
così di fronte all’organizzazione altamente automatizzata
dell’industria americana (“fordismo”) egli vede una conferma della
propria tesi sull’egemonia,
«la quale nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di esercitarsi che
di una quantità minima di
intermediari professionali della politica e della ideologia»85.
Questo, si intende, è visto come conseguenza della sconfitta del
movimento operaio, incapace di opporsi alla penetrazione a vasto
raggio dell’ideologia borghese nel modo stesso di vita. «La
razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un
nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo
produttivo [...] E’ ancora la fase dell’adattamento psicofisico
alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti
salari»86.
Così intesa, l’ “egemonia” americana trova il suo alter ego nella
organizzazione dell’economia russa, dove si è determinata «una
riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di
conoscenza, un fatto filosofico»87. In ciò sta la grandezza di
Lenin, che ha «fatto progredire effettivamente la filosofia come
filosofia i quanto fece progredire la dottrina e la pratica
politica» (ibid.). Secondo questo criterio, dunque, anche Ford, e
Taylor prima di lui, hanno fatto “progredire la filosofia come
filosofia”. D’altra parte, questo processo di “razionalizzazione”
del processo produttivo, che è intrinseco al capitalismo, deve far
parte anche dell’organizzazione del lavoro in Unione Sovietica,
dove mancano disciplina e ordine, dove “i costumi” non sono ancora
adeguati alle necessità del lavoro. Ben si comprende dunque,
afferma Gramsci, la forte spinta in senso tayloristico data da
Trotzky all’industria sovietica. Per Gramsci, come per tutti gli
stalinisti dell’epoca, si trattava infatti di “costruire il
socialismo”, e costruirlo precisamente facendo ricorso a tutto
l’apparato tecnologico-produttivo e organizzativo-poliziesco di
cui le aziende capitalistiche più avanzate facevano sfoggio,
nell’America fordista innanzi tutto. Essendo piegata la
rivoluzione russa su se stessa dal fallimento della rivoluzione
europea, anche l’egemonia gramsciana si affretta ad allinearsi
sulla teoria del socialismo in un solo paese: «Il concetto di
egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere
nazionale [...] Una classe di carattere internazionale, in quanto
guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali), e
anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e
municipalisti (i contadini) deve ‘nazionalizzarsi’, in un certo
senso»88. Si comprende dunque come un uomo per il quale nel 1916
«il socialismo è problema essenzialmente di produzione intensa»89,
vent’anni dopo possa dichiarare che «il principio della
coercizione, diretta e indiretta, nell’ordinamento della
produzione e del lavoro è giusto»90. Siamo, d’altronde, nel
periodo dei piani quinquennali e, pur mutando di longitudine, il
capitalismo divorava con crescente voracità le sue vittime anche e
soprattutto nei paradisi del “socialismo reale”.
Su queste basi, dell’interesse gramsciano per le forme di
sfruttamento del lavoro che gli Usa stanno perfezionando in quei
decenni, si spiega prima il risveglio di interesse degli
intellettuali statunitensi per Gramsci, che si sviluppa quindi -
negli anni Settanta - in una vera e propria esplosione di natura
commerciale. Si esaltano di Gramsci la critica all’economicismo -
definito “marxista” -; il primato della politica e l’autonomia
della società civile; il ruolo degli intellettuali91. In questo
modo “egemonia”, idealismo, storicismo e soggettivismo di Gramsci
trovano, negli ambienti di “sinistra” Usa, la loro definitiva e
necessaria consacrazione, assieme ai critici dell’autoritarismo,
della repressione sessuale, assieme ai Reich, ai Marcuse e ai
filosofi della Scuola di Francoforte.
E’ in questo contesto che M. Walzer pubblica un’analisi “critica”
di Gramsci e del marxismo, alla quale si dà molto credito negli
ambienti radicali Usa92. Giustamente l’autore sottolinea la dubbia
ortodossia marxista di Gramsci, osservando che una prima rottura
con la tradizione rivoluzionaria si attua proclamando possibile la
rivoluzione in Occidente solo dopo la creazione di una cultura
proletaria. «Grande scoperta di Gramsci», afferma il Walzer, è
l’impossibilità di presa del potere in Occidente da parte del
proletariato; è necessaria una
«guerra di posizione», cioè «la conquista della società civile
[...] una lotta culturale lunga e faticosa in cui il nuovo mondo
soppianta lentamente, dolorosamente quello vecchio». Ampie frange
del popolo di Seattle hanno sottoscritto - forse senza conoscerne
l’origine - queste posizioni, dai trotzkisti sempre alla ricerca
di fasi di transizione (d’ogni tipo purché non identificabili con
la dittatura del proletariato) ai terzomondisti di Porto Alegre.
Tutti uniti nella creazione di “nuove volontà popolari” e
nell’individuazione di un “senso comune”, per costoro, con Gramsci
in testa, resta perfettamente definita la funzione del partito.
Non più partito di classe, cioè di una classe, ma coacervo di
intellettuali definiti, chissà perché, organici. Non più programma
rivoluzionario definito in tutti i suoi aspetti, ma «cultura
stessa, dalla filosofia alla religione, fino alle più comuni
nozioni della salute e della malattia, dell’amore, del matrimonio,
del lavoro, dell’interscambio, dell’onore e della solidarietà».
All’interno di questa visione di gradualismo culturale, in cui il
proletario si trasforma in un quieto piccolo borghese acculturato
alle idee gramsciane che, osserva Walzer, «mirano a sostituire
l’economia politica con una sorta di antropologia culturale», il
partito rivoluzionario si è finalmente dissolto in un informe
aggregato di intellettuali “organicamente” saldati all’ideologia
dominante.
La parabola gramsciana si è qui finalmente chiusa. Partendo, nel
1914, da posizioni apertamente idealistiche, tradotte nel suo
interventismo alla guerra mondiale, egli è passato al volontarismo
intellettualistico delle pagine dell’Ordine Nuovo. In esse lo
“storicismo” trovò
forma nell’esaltazione codista del movimento torinese dei Consigli
di fabbrica, rivendicati come
forma autonoma e innovatrice nel processo rivoluzionario. Fin da
allora Gramsci non fu in grado di capire quale dovesse essere il
ruolo del partito di classe, e questa sua incomprensione fu,
almeno in parte, alla base del ritardo con cui il partito stesso
poté nascere, ritardo che impedì la sua saldatura con le grandi
fiammate che incendiarono l’Italia nel biennio rosso (1919-20). Ma
anche il partito di cui Gramsci fu capo, tra il 1924 e il 1926, si
risolse nella lotta contro la Sinistra, non sapendo raccogliere,
di questa, la possente eredità sul piano della difesa integrale
dei programmi, della rivendicazione dell’autonomia di classe,
della dura lotta perché teoria e tattica fossero stabiliti in modo
definitivo, senza lasciare spazio - come purtroppo avverrà in
seguito nelle condizioni peggiori e sotto l’incalzare della
repressione fascista - a “scelte” locali, nazionali,
affidate a gruppi di pensiero o di tendenza, senza una omogenea
linea politica, se non quella in arrivo da Mosca. Il volontarismo
che impregna l’ideologia gramsciana fin dagli anni torinesi
condurrà dunque il suo autore, e il partito di cui sarà a capo per
qualche tempo, a collocarsi nelle masse, il che, in buon
linguaggio, significa alla coda delle masse. E quando queste
masse, sconfitte dopo anni di eroici sforzi, rallenteranno la
propria marcia, l’unica soluzione possibile che si apre
all’idealista è quella di ritenere possibile una forzatura della
situazione storica mediante la Cultura, il Progresso
Intellettuale, la Soggettività Storicizzata. Il “moderno Principe”
- inteso da Gramsci come moderno partito - è in realtà la disfatta
e la decomposizione totale di esso di fronte all’incalzare della
reazione fascista e staliniana.
E mentre al di fuori della cella di Turi si scatenava su una
intera generazione di rivoluzionari il terrore
controrivoluzionario in Europa, e in Russia lo stalinismo
sradicava nel
giro di pochi anni il partito della Rivoluzione d’Ottobre,
Gramsci, fedele a se stesso, portava a
termine la sua silenziosa battaglia contro il materialismo
dialettico in nome di filosofie e correnti contro le quali già si
era dovuto combattere in decenni precedenti. Ecco come la Sinistra
ha riassunto queste posizioni:
«[Schema volontaristico-immediatistico]. Tipico della visione
corporativa piccolo-borghese, quindi di
forme opportunistiche (proudhonismo, anarcosindacalismo,
operaismo, ordinovismo, socialismo dei Consigli) e riformistiche
(laburismo ecc.); evidentemente si inserisce entro la concezione
liberale di cui rappresenta una variante. Qui l’individuo, sempre
alla base del processo, prende coscienza delle spinte fisiche ed
economiche che sono sostrato della sua esistenza: tale presa di
coscienza condiziona la volontà, e questa a sua volta l’azione.
L’organizzazione economica e politica risulta dal confluire delle
singole prese di coscienza: la classe è a sua volta risultato
dell’assommarsi e connettersi in reti di organizzazioni immediate
è quindi nozione avulsa da ogni senso di indirizzo storico - non
mai di classe in sé e per sé nel senso marxistico della
espressione)»93.
A questo “schema” gramsciano, dunque, noi rivendicammo l’integrale
ritorno a Marx.
«Il materialismo storico-dialettico,
contrapponendosi alle concezioni di stampo
illuministico ed idealistico, non vede quindi nell’ideologia, cioè
nella rappresentazione mistificata e capovolta dei rapporti reali,
il frutto di un errore da correggere per aprire gli occhi ai
ciechi, ma la risultanza indispensabile di un processo reale
corrispondente a rapporti materiali, quelli stessi che l’ideologia
proietta nella sua distorsione. Tale distorsione deriva a sua
volta necessariamente dalla situazione storica delle forze sociali
che nell’ideologia si esprimono e che la impongono all’insieme
sociale, essendo sempre ideologia dominante quella della classe
dominante. [...] La contrapposizione del marxismo alle ideologie
che si sono succedute nel passato e che oggi ancora in varia
misura tengono il campo è, quindi, rigorosamente storica e
dialettica, il che non esclude, ed al contrario implica, che la
scienza globale con cui esso si identifica, possa essa solo
ricostruire i reali processi
sottostanti all’incastellatura
ideologica, svelando come l’ideologia
mistifichi la realtà sussistente a prescindere da ogni
“conoscenza” individuale e collettiva».94
Siano, queste, pietre tombali per ogni tentativo futuro di
“ritorno” a concezioni del mondo che, movendo dall’individuo, dal
pensiero, dal soggetto, rappresentano storicamente il nemico da
battere in nome dell’unica fratellanza di classe, quella
rivoluzionaria.
Parte III
Dalla filosofia della prassi alla prassi della filosofia
gramsciana.
“Dati i caratteri del gruppo ordinovista, il suo particolarismo e
conccretismo figliati in realtà da posizioni ideologiche
idealistiche borghesi, […] deve ritenersi che, a parte le
clamorose dichiarazioni di ortodossia, l’adesione teorica […]
degli ordinovisti al leninismo non valga molto di più della loro
adesione di una volta alle Tesi di Roma”.
Progetto di tesi per il III Congresso del PCd’I, presentato dalla
Sinistra – Lione 1926.
In difesa della continuità del programma comunista,
ed. “Il programma comunista”, 1989.
1. Tra passato e futuro
Così come si è fatto più sopra, nell’analisi del pensiero di
Gramsci, così ribadiamo che il ripercorrere le tappe della storia
delle vittorie e delle sconfitte del movimento operaio non è per
noi un vezzo storiografico o un contributo alla «scienza», ma una
necessità per il lavoro pratico rivoluzionario, di collegare il
presente e il futuro con le lotte passate.
Il marxismo descrive l’intero arco storico dell’umanità come il
procedere da un modo di produzione all’altro. Un modo di
produzione è definito sulla base dei rapporti che gli individui
hanno all’interno del processo produttivo e di scambio, tra di
loro e con i mezzi di produzione.
Quando le forme di produzione si svilupparono all’interno delle
vecchie, si resero necessari
nuovi ordinamenti giuridici, etici, religiosi, politici,
ideologici ecc., che codificano e registrano l’ormai avvenuto
cambiamento nel sottosuolo sociale. La
rivoluzione politica seguirà, per sancire il nuovo assetto
delle classi sociali.
Un modo di produzione, dunque, si qualifica sulla base dei
rapporti di classe così come essi sono generati nel corso reale
del processo economico. Esso non è rivedibile, migliorabile,
aggiustabile nella propria struttura interna da nessuna forza
sociale. Può essere solo distrutto nel momento in cui esso diventa
un ostacolo all’ulteriore espansione delle forze produttive. È
precisamente per questa ragione che il marxismo viene considerato
dal nostro movimento come l’unica e completa descrizione della
società borghese: non rivedibile questa, come non migliorabile
quello, da nessuno degli innumerevoli candidati al suo
aggiornamento che si sono proposti, sempre in funzione
antirivoluzionaria, nel corso del secolare processo
rivoluzionario.
Gramsci, ne fosse o meno consapevole, si inserisce esattamente
all’interno di questo filone di “revisori”. Dagli altri, traditori
tout court, forse se ne differenziò in vita perché ebbe il
privilegio di vivere in una fase storica ribollente di lotte e fu
trascinato, suo malgrado, su
posizioni rivoluzionarie. Vedremo, nelle
pagine seguenti, come da queste
si staccò rapidamente, in coerenza con il proprio dettame
filosofico sopra analizzato. Come per necessità storica da
gravissimi errori sul piano teorico siano derivate le catastrofi
sul piano dell’organizzazione e dell’azione, fino alle peggiori
forme di degenerazione che caratterizzano questi ultimi decenni. E
infine come, da morto, egli stesso sia stato travolto nel turbine
controrivoluzionario di cui fu inconsapevole pedina.
L'intera nostra dottrina è scolpita immutabilmente nel
materialismo dialettico. Essa è nata completa 150 anni fa, al
fuoco delle prime e gigantesche battaglie che il proletariato
seppe muovere contro una borghesia
ancora giovane ed attraversata da
uno slancio
progressivo nella società e
nell'economia. Non abbiamo dunque
nulla da scoprire o da cambiare oggi, alla
luce di presunte novità della storia, rispetto a quanto il
marxismo ha stabilito, dalla nascita, sull'intero arco della lotta
tra le classi nella società moderna.
Ma la storia del passato è stata, per i comunisti, ricca di
lezioni che dobbiamo fissare bene nella nostra mente e nella
nostra azione. Il 1848, sulle cui barricate è nato il Manifesto
del partito comunista, la bandiera che innalzeremo sulle rovine
della società attuale. Il 1871, che ha chiarito come sia finita,
da allora e per sempre, l'epoca delle alleanze tra proletariato e
borghesia. Il 1917 che, distruggendo il mito della
socialdemocrazia europea di una conquista graduale del potere
dall'interno della società borghese, ha riportato il movimento
operaio sulla strada della rivoluzione e della dittatura che il
proletariato esercita da solo, sotto la direzione del proprio
partito e su scala internazionale, al di fuori e contro ogni
soluzione democratica e parlamentare.
In questa gigantesca opera, che fu possibile nella pratica solo
perché guidata da una completa restaurazione del marxismo, i
bolscevichi si trovarono però la strada sbarrata ad Ovest da un
nemico ben peggiore dei Cavaignac e dei Thiers, dei Kornilov e dei
Kolciak, di coloro cioè, che vollero o almeno tentarono di opporsi
ai tentativi proletari di “raggiungere il cielo”. Si erse allora,
dalle macerie di una guerra mondiale cui tanti «socialisti»
avevano dato entusiastico appoggio in nome della «difesa della
patria», una pletora di sfumature pseudomarxiste. Spesso, a
parole, queste si presentavano rivoluzionarie, impedendo di fatto
quel processo di chiarificazione teorica che solo avrebbe potuto
garantiere i presupposti per la vittoria. In
realtà, esse erano tutte ben
radicate nella democrazia parlamentare,
nel gradualismo nonviolento, nell'immediatismo e nell'economicismo
più vile che, ai primi tentativi seriamente rivoluzionari, non
ebbero la minima esitazione a farsi carico della difesa, armata
fino ai denti, dell'apparato statale e produttivo capitalistico.
In Germania, in Ungheria, in Italia il proletariato subì una grave
sconfitta sul piano militare, proprio mentre ovunque, ma troppo
tardi, si cercava di compiere l'indispensabile
processo di chiarificazione abbandonando il pantano della II
Internazionale con la fondazione
dei partiti comunisti. Questa sconfitta internazionale ebbe, come
contraccolpo, il graduale ripiegamento della spinta rivoluzionaria
in Russia, il suo isolamento e il sacrificio del suo eroico
proletariato agli orrori dell'accumulazione capitalistica, tutta
condensata nei piani quinquennali staliniani; e certo nessun
marxista degno di questo nome avrebbe detto, in quegli anni, che
laggiù si stava «costruendo il socialismo».
La sconfitta delle armi fu dolorosa, e avrebbe comunque segnato
una battuta d'arresto a livello internazionale per anni. Tuttavia,
di gran lunga peggiore nella prospettiva della futura ripresa, fu
l'abbandono delle finalità massime in tutti i partiti europei. A
ciò si giunse per gradi, attraverso sbandamenti sul piano tattico
con la politica dei fronti unici, nella vana speranza di mantenere
forzatamente vivo un contatto con la classe che, al contrario, era
stato stroncato nel corso delle tragiche sconfitte degli anni
1918-1923. In realtà questo significò un completo cedimento sul
piano dei programmi, ciò di cui si farà carico l'autorità di una
III Internazionale ormai completamente russificata («socialismo in
un solo paese»).
Pochi furono gli occhi che seppero vedere, fin dal 1921, i
pericolosi segni di rinculo che percorrevano il movimento
internazionale. Tra questi, la Sinistra comunista «italiana», che
guidava il Partito dall'anno della sua fondazione (1921), fu la
sola a muoversi su una ferma e coerente base marxista, portando la
polemica contro le nuove parole d'ordine (della bolscevizzazione,
del governo operaio, del fronte unico politico) fino al IV (1922)
e al V (1924) Congresso dell'Internazionale.
Ma ormai il processo controrivoluzionario stava prendendo ovunque
lo slancio. Sostituito con un colpo di mano il CC del Partito su
iniziativa dell'Internazionale nel giugno 1923, la
direzione è affidata a Gramsci alla condizione che venga
affrettata l'alleanza con quei socialisti
«di sinistra» che nel frattempo hanno dato la loro piena adesione
(a parole) alle direttive dell'Internazionale. Per quest'ultima si
trattava dunque di «ricucire» la scissione di Livorno, che aveva
finalmente fatto chiarezza nelle fila del movimento operaio; e
ciò, per l'assurdo scopo di recuperare quegli «operai
rivoluzionari» che, per equivoco, ancora popolavano le fila
socialiste95. Già nel 1921 il CC del partito aveva spiegato
pazientemente all'Esecutivo dell'Internazionale (Zinoviev) che il
rischio era di perdere a sinistra, tra i proletari che
simpatizzavano per le posizioni di intransigenza rivoluzionaria
del Partito, una parte degli effettivi guadagnati a destra. Ma la
gravissima sconfitta del proletariato tedesco nel 1923 rendeva
inutile ogni pur fermo richiamo ai nostri principi.
Si introduceva così, nella prassi dell'azione rivoluzionaria, quel
gravissimo elemento spurio che, da allora, sarà la «caccia
all'iscritto» così come in seguito, nell'Italia «liberata», si
darà la caccia al voto, sempre in nome di un presunto
rafforzamento del partito. Ma ormai le ombre minacciose dello
stalinismo, il peggior prodotto della controrivoluzione
internazionale, si stendevano ovunque rovesciando un corso storico
di grandi lotte che, dopo oltre 70 anni, rappresenta ancora
l'unico e sicuro punto di riferimento per la ripresa
rivoluzionaria.
2. Lo stalinismo.
Nella nostra interpretazione della storia del movimento
rivoluzionario si descrivono tre fasi degenerative, contro le
quali i marxisti hanno sempre vigorosamente lottato.
1. La degenerazione anarchica, che intersecò la storia della
I Internazionale. Contro ad essa, sono fondamentali insegnamenti
pratici e teorici gli scritti di Marx e di Engels. Sulla base
delle esperienze delle rivoluzioni europee del 1848 e della Comune
di Parigi (1871) essi
dimostrano che una direzione unitaria delle lotte non è solo
indispensabile al successo, ma
che essa diventa essenziale dopo la presa del potere, per
esercitare una dittatura ferrea, in nome del proletariato, contro
tutte le classi nemiche.
2. La degenerazione della II Internazionale che, partendo
dall'idea che la lotta di classe consista in
piccoli miglioramenti economici,
eventualmente contrattati attraverso i
parlamenti portando il partito operaio al governo o a coalizioni
governative con i partiti borghesi, giunse al completo tradimento
nell'adesione alla guerra imperialistica del 1914-
18. Contro questa degenerazione, che in forme anche peggiori si
ripresenterà nel 1939 e poi nel secondo
dopoguerra, il punto di riferimento è la
restaurazione del marxismo
rivoluzionario attuata da Lenin, dal partito bolscevico e dalla
Sinistra comunista "italiana"
sul piano teorico, dalla rivoluzione russa su quello pratico.
3. La degenerazione che accompagna la fase di accumulazione
capitalistica del primo dopoguerra nei paesi industrializzati, la
fase di industrializzazione forzata in Russia. Nei
paesi occidentali questa degenerazione opportunistica si tradusse
innanzi tutto nella politica
delle alleanze ("blocchi", “fronti unici", "governi operai") tra
partiti che rappresentavano classi dagli interessi opposti, in
nome di una "ricostruzione" che venne comunque operata in modo
coercitivo e fortemente centralizzato, tanto negli Stati
"fascisti" che in quelli "democratici". In Russia l'ondata
degenerativa dovette risolvere il problema di annientare il
partito operaio al potere e, quindi, di inoculare nel proletariato
internazionale la doppia mostruosa menzogna che a) la Russia fosse
diventata il "paese-guida" della rivoluzione internazionale,
e che, anche in assenza di
una rivoluzione comunista internazionale,
avrebbe saputo "costruire il socialismo" all'interno delle proprie
frontiere; b) attraverso una serie di misure
eccezionali nell'industria e nelle
campagne, la produzione sarebbe aumentata a
ritmi incomparabilmente superiori a quelli dei paesi
capitalistici, dimostrando in questo modo l'avvenuto passaggio ad
un'economia compiutamente socialista. Veicolo di questa teoria
sarebbe stata l'Internazionale comunista, attraverso le singole
sezioni nazionali.
Questi due aspetti dell'opportunismo degli anni Venti e Trenta,
cioè l'acquisizione di tattiche elastiche (fusione tra partiti)
per "conquistare le masse" e la teoria del "socialismo in un
solo paese" confluiscono in quell'eterogeneo insieme di elementi
di dottrina (abbandono
dell'internazionalismo proletario in primo luogo) e di pratica
(inizialmente, manovre di corridoio, sostituzione di vecchi centri
direttivi poco disposti ad accettare direttive da parte di
un'Internazionale sempre più "russificata", isolamento di compagni
di provata fedeltà; successivamente, calunnie ed eliminazione
fisica degli oppositori) che noi chiamiamo stalinismo.
Questa gravissima deformazione, contro la quale la Sinistra si
trovò a combattere in nome del marxismo rivoluzionario
inizialmente, a partire dal 1923, assieme all'Opposizione di
sinistra russa (Trotzky) e poi, a partire dagli anni Trenta, da
sola, ha avuto come conseguenza lo spostamento degli obiettivi di
lotta dalla organizzazione di partiti forse piccoli ma temprati
all'assalto per la conquista del potere, a quella di difesa degli
"interessi superiori" dello Stato sovietico, fino all'ammissione,
da parte dello stesso Stalin, che l'esistenza della produzione di
merci in URSS non contraddice in alcun modo il carattere
socialista del modo di produzione russo, e che la legge del valore
è pienamente compatibile con una economia comunista96. Conseguenza
ulteriore, di cui oggi misuriamo tutta la tragicità, è la rottura
con le lotte rivoluzionarie del passato e con l'incomprensione
delle finalità supreme di queste lotte. Finalità che, è bene
ribadirlo, non può stare nella difesa delle patrie, nella
restaurazione di istituti democratici e parlamentari minacciati da
questo o quel regime "fascista", nella rivendicazione di
"migliori" condizioni cui vendere la propria forza-lavoro al
capitale; ma sta, oggi come in passato, solo nella distruzione
violenta di tutte le istituzioni dello Stato borghese, di
qualsiasi forma esse si ammantino, e la loro sostituzione con la
dittatura proletaria. Solo questa potrà consentire la
realizzazione di un'economia in cui, accanto ad una diminuzione
dello sforzo di lavoro e all'aumento di tempo libero, farà
riscontro "un piano per crescere i costi di produzione, ridurre la
giornata di lavoro, disinvestire capitale, livellare
quantitativamente e soprattutto qualitativamente il consumo"97:
necessario preludio ad una società senza classi, senza merci,
senza denaro, senza legge del valore.
Infine, per non generare malintesi, sottolineiamo che lo
stalinismo non fu il prodotto della "malvagità" o dalla "volontà"
di questo o quell'uomo più o meno potente. Si trattò di un
fenomeno degenerativo del movimento comunista internazionale le
cui origini si trovano tanto
nella Russia post-rivoluzionaria, ormai ripiegata su se stessa e
sulle necessità di creare un mercato interno per la propria
sopravvivenza, quanto nell'Europa post-bellica, incapace di
trovare uno sbocco rivoluzionario alle lotte che la sconvolsero
tra 1918 e 1923. Lo stalinismo dunque fu la conseguenza della
pressione di forze sociali obiettive, prodotto di agenti del
sottosuolo di economie rovinate dalla guerra e a caccia dei
massimi tassi di profitto, contro cui si spezzarono le pur eroiche
resistenze delle ultime lotte, e che potè vincere solo attraverso
la distruzione fisica di un'intera generazione di rivoluzionari98.
3. Il Congresso di Lione e il trionfo della controrivoluzione
internazionale.
Dopo il Congresso di Livorno del 1921, da cui nacque il Partito
Comunista d'Italia, il II Congresso, l'anno successivo, fissò il
corpo di tesi nel campo della tattica ("Tesi di Roma") che si
vollero perfettamente aderenti al programma rivoluzionario
internazionale. Il partito giunse così al suo III Congresso,
tenuto clandestinamente a Lione nel gennaio 1926, in condizioni di
grande difficoltà al suo interno e nelle sue relazioni con la
classe all'esterno per l'incalzare della repressione fascista.
Fu Mosca ad imporre, nel 1923, la sostituzione del vecchio centro
dirigente (Amadeo
Bordiga, che ne era l'ispiratore indiscusso; assieme a
Fortichiari, Repossi, Grieco e Terracini) con un gruppo di
dirigenti più docili di fronte alle direttive russe. Leader del
nuovo C.E. sarà Gramsci, coadiuvato da Togliatti, Ravera,
Scoccimarro, Leonetti e Terracini, in quale ultimo passerà
disinvoltamente da uno schieramento all'altro. Si tratta, in
breve, di tutto il gruppo torinese dell'"Ordine Nuovo" che,
durante il periodo dell'occupazione delle fabbriche (1919-20)
aveva sostenuto a gran voce non la necessità di fondare il partito
comunista, ma di creare i Consigli di fabbrica quali organi di
presa diretta del potere. Contemporaneamente si sviluppò il
processo di bolscevizzazione avviato in tutte le sezioni
(anch'esso voluto da una Internazionale ormai sempre più legata ai
destini dello Stato sovietico). La svolta politica che seguì non
risparmiò nessuno degli aspetti teorici ed organizzativi che
avevano caratterizzato gli anni precedenti, rappresentando un vero
e proprio spartiacque nella teoria e nella tattica del partito.
Tuttavia non fu semplice, per la nuova Centrale, fare approvare ai
militanti le novità della "conquista della maggioranza", del
"fronte unico dall'alto", cioè innanzi tutto la fusione con la
parte del PSI che si voleva "più avanzata", poi con i partiti
genericamente antifascisti;
del governo operaio; della conquista a tutti i costi delle masse,
con la riorganizzazione del
partito sulla base delle cellule di officina anziché su base
territoriale.
Le tappe attraverso cui l'Internazionale potè giungere al completo
rovesciamento della politica seguita fino ad allora dal partito
furono le seguenti:
a) la trasformazione del partito da organizzazione di classe a
partito di massa, attraverso processi di fusione con
raggruppamenti politici di altra natura e attraverso un blocco con
diversi strati sociali (mezzadri, cattolici, piccola borghesia,
antifascisti);
b) la bolscevizzazione, cioè la trasformazione del tessuto
organizzativo dei partiti, sulla base delle cellule di azienda,
secondo il modello del partito bolscevico pre-rivoluzionario;
formula che, se adatta alle
specifiche condizioni dello sviluppo
storico e sociale della Russia dell'inizio
del secolo, non aveva alcuna giustificazione per i partiti
dell'Europa occidentale, per tradizione legati ad
un'organizzazione territoriale. Non solo, la generalizzazione di
tale formula introdusse una grave
deformazione del postulato marxista
per il quale la rivoluzione non è una questione
di formule di organizzazione, e che d'altra parte una soluzione
organizzativa non può essere valida per tutti i tempi e
tutti i paesi. Inoltre, legando l'organizzazione del partito
alle diverse categorie della produzione, veniva di fatto
ostacolato il vitale processo di unificazione delle lotte che solo
un partito al di sopra delle divisioni create nella classe può
operare.
c) la lotta contro ogni forma di opposizione alle direttive
del centro staliniano. In Russia questa lotta si concretizzò, a
partire dalla fine del 1924, in una serie di attacchi contro
Trotzky; nei partiti occidentali
ogni forma di opposizione di
sinistra fu equiparata al trotzkismo e bollata,
col nome di "bordighismo", come deviazione anti-bolscevica, ed una
feroce lotta (sulla stampa, nei congressi internazionali e
nazionali, nelle singole sezioni) fu intrapresa per impedire
qualsiasi forma di collegamento internazionale tra gli opposizioni
alla politica centrista.
d) azioni di tipo amministrativo, per cui chi non si attiene
rigidamente alle disposizioni del centro, cioè al rispetto
dell'apparato burocratico del partito, viene minacciato di
espulsione. Agitando lo spettro del frazionismo di sinistra, il
Centro gramsciano farà ricorso alla più ampia opera di
persuasione: "Si tratta di mobilitare politicamente i compagni,
condurre un'opera esauriente di chiarificazione, ma si tratta
anche di attuare un lavoro di polizia di partito.”99Nonostante
questo pauroso sbandamento, che il PC d'Italia conosce a partire
dal 1923, la base del partito non diede facilmente il proprio
appoggio alle nuove parole d'ordine, dietro alle quali si
scorgevano gravi cedimenti sul piano teorico. Al Congresso
clandestino di Como (1924) la grande maggioranza dei delegati si
schierò ancora con la vecchia direzione di sinistra; al Congresso
di Lione la vittoria dei centristi all'interno dell'organizzazione
fu resa possibile grazie all’impossibilità - a causa delle
persecuzioni fasciste - di una consultazione ampia della base e a
una autentica frode nel conteggio dei voti. Le forze reali dei due
schieramenti - i centristi e i destri da una parte, la sinistra
dall'altra - erano infatti all'incirca pari. I dirigenti della
nuova Centrale decisero, per evitare sorprese a loro sfavorevoli,
di considerare a proprio favore il numero degli iscritti al
partito nel 1925 (cioè l'anno prima) che non avessero votato per
nessuno (molti di essi, evidentemente, non poterono farlo o perché
impediti a raggiungere i luoghi in cui dovevano svolgersi i
congressi delle delegazioni federali o perché chiusi nelle galere
fasciste). Ottenuta così la maggioranza, la Centrale di Gramsci
pensò di "accontentare" la Sinistra introducendo nella direzione
due esponenti di quest'ultima - manovra che bene illustra la
fragilità del principio di centralismo democratico.100
La battaglia che si svolse a Lione, benché dall'esito scontato,
costituisce per le generazioni rivoluzionarie di oggi in tutto il
mondo, uno dei momenti alti nella storia del marxismo, da cui
ripartire per la ricostituzione del partito comunista mondiale.
Per questa ragione, dobbiamo esaminare le tesi opposte che si
scontrarono.
La piattaforma presentata della Centrale gramsciana101, che
rovescia l'impostazione data nelle “Tesi di Roma” di quattro anni
prima, è che il partito non è un organo della classe, ma
una sua parte, sostituendo così un concetto fondamentale e
politico con una considerazione puramente statistica.
Inoltre, si afferma che le
questioni organizzative verranno risolte
attraverso la formula, imposta dall'Internazionale comunista,
della bolscevizzazione, cioè della
riorganizzazione del partito attraverso le cellule di officina. Si
ammette che il partito russo debba avere una funzione dominante
nell'Internazionale Comunista; si ribadisce la validità della
tattica del fronte unico e si giustifica il ricorso a formulazioni
ambigue, come quella dell'Antiparlamento o dell'Assemblea
repubblicana, pur riconoscendo che si tratta di forme di lotta da
usare contro i partiti democratici.
Le tesi della Sinistra102 erano le seguenti: 1. Alla base della
formazione dei partiti comunisti deve trovarsi una piattaforma
teorico-programmatica definita una volta per tutte, che consiste
nella rinuncia a filosofie estranee al materialismo storico, come
l'idealismo, il
positivismo, il pacifismo, il sindacalismo, l'anarchismo,
l'operaismo. 2. In conseguenza di ciò,
vanno poste direttive tattiche indissolubilmente legate ai
principi e alle previsioni, secondo un criterio perfettamente
ispirato al Lenin delle Due tattiche ("L'elaborazione di decisioni
tattiche giuste ha una grandissima importanza per un partito che
voglia dirigere il proletariato in uno spirito rigorosamente
conforme ai principi del marxismo, e non semplicemente trascinarsi
a rimorchio degli avvenimenti"). 3. E infine, è indispensabile
mantenersi stretti a principi di organizzazione sicuri, che la
Sinistra vedeva compiutamente indicati nei Ventun punti di
ammissione, discussi ed approvati al II Congresso
dell’Internazionale Comunista nel 1920.
Un elemento fondamentale di contrasto fu l'interpretazione della
natura del partito. Per la Sinistra "l'organo che conduce la lotta
di classe alla sua vittoria finale è il partito politico di
classe, unico possibile strumento prima di insurrezione
rivoluzionaria e poi di governo". Solo attraverso il partito la
classe giunge a conoscere il proprio ruolo nella storia, "e quindi
nelle
successive fasi della lotta il partito rappresenta storicamente la
classe pur avendone nelle proprie file solo una parte più o meno
grande". La Sinistra rifiutava dunque del partito e della
sua azione sia un'idea fatalista (poggiante su una mal compresa
applicazione del determinismo), sia un'idea volontarista (nel
senso che sia possibile forzare, grazie a formule
organizzative genialmente scoperte od inventate da un capo
brillante, le situazioni storiche in
direzione rivoluzionaria). E affermò che "deve considerarsi
erronea la formulazione tattica che dice: ogni vero partito
comunista deve saper essere in ogni situazione un partito di
massa; ossia avere una organizzazione numerosissima ed una
influenza politica larghissima sul proletariato, per lo meno tali
da superare quelle degli altri partiti sedicenti operai."
L'abbandono di queste prospettive da parte della direzione
gramsciana del partito fu al centro del grande dibattito a Lione.
I dirigenti vittoriosi non rinunciarono alle minacce per
isolare la Sinistra secondo un sistema (sarà bene ricordarlo) già
pienamente avviato nei
confronti dell'Opposizione trotzkista in Russia; in ciò essi
furono bene appoggiati da Humbert- Droz, rappresentante di Mosca
in Italia fin dal 1921 e sempre pronto a schierarsi su posizioni
di destra su tutte le principali questioni teoriche e tattiche del
movimento internazionale.
Le tesi approvate dal III Congresso del PCI, redatte da Gramsci e
Togliatti, si muovono su un piano opposto alla politica seguita
dal partito negli anni della sua formazione. Come scriveva
Gramsci:
"La lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere
condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del
partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la
necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per
poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per
acquistare sempre nuove zone di influenza" 103
Già un anno prima Scoccimarro, membro del Comitato Centrale,
scriveva su l'Unità, organo della nuova direzione (28 giugno
1925), che la concezione della Sinistra è legata
"alla situazione politica internazionale e al rallentamento dello
sviluppo della rivoluzione mondiale. [Essa
è fondata] sulla previsione di una
degenerazione opportunistica del partito e dell'Internazionale… Ma
le nostre [della direzione gramsciana, ndr] previsioni
sull'avvenire dell'Internazionale comunista sono completamente
diverse. Noi non condividiamo in nulla questo pessimismo".
Come si vede, le distanze che si vanno approfondendo sul piano
teorico comportano ormai valutazioni e previsioni divergenti sul
ruolo dei partiti, della loro azione interna ed internazionale.
Pochi anni dopo ciò condurrà inevitabilmente all’espulsione della
Sinistra e alla formazione della Frazione di Sinistra in Francia;
mentre il Centro si piegherà all'asservimento totale di una
Internazionale comunista ormai stalinizzata. E' così che si
cercano "margini di manovra" nell'ambito delle "particolarità
nazionali", invocate a gran voce proprio nel momento in cui
vengono imposte direttive mondiali in una direzione precisamente
opposta alle classiche tesi dei primi due Congressi
dell'Internazionale Comunista. E' così che ancora una volta, per
bocca di Humbert-Droz, viene ribadita la necessità che
"il nostro partito deve proseguire nell'avvicinamento degli operai
massimalisti [frazione del PSI, ndr] alla base,
applicando quelle formule opportune non solo dal basso, ma quando
occorra anche dall'alto, la tattica del fronte unico". 104
E' questa, d'altronde, la tesi invariante dell'opportunismo
latente relativamente alle questioni di organizzazione: si disse
fin dal 1921 che bisognava, anziché separarsi, stare assieme
ai partiti socialdemocratici per
trascinarli alla conquista del
potere, perché la situazione era rivoluzionaria e le
grandi masse erano con noi; ci si dirà ora e in seguito, che
bisogna fondersi sempre e comunque con i socialdemocratici appunto
perché la situazione è controrivoluzionaria, e le masse non sono
con noi.
E' dunque su queste basi che a Lione i centristi sviluppano il
concetto di rivoluzione popolare antifascista. Il PCI dovrà d'ora
in poi condurre un’azione politica per conquistare al
proletariato un’egemonia nella lotta
contro il fascismo. Tale azione
non può limitarsi a rivendicazioni economiche,
ma deve avere connotazioni politiche parziali che saranno
necessariamente democratiche, come rivendicazione di libertà
soppresse nell'ambito politico e in quello sindacale:
“la lotta per le rivendicazioni democratiche è, nella situazione
italiana, parte integrante della lotta di classe del proletariato”
105.
Ciò si riassume bene nella parola d’ordine “Assemblea repubblicana
sulla base dei comitati operai e contadini”, adottata dal partito
nel 1925106: la “rivoluzione popolare” che ormai si vuole
democratica ed antifascista si trasformerà, chissà come, in
“rivoluzione proletaria”.
4. L'ultima battaglia nell'Internazionale: dal VI Esecutivo
Allargato alle espulsioni e all’emigrazione.
Per comprendere le vicende interne del Partito comunista nella
seconda metà degli anni Venti è indispensabile passare in rapida
rassegna la situazione internazionale che in larga misura ne
condizionerà l'attività teorica e pratica.
Mentre l’Internazionale Comunista sviluppa ferreamente la propria
politica di graduale asservimento delle singole sezioni nazionali
agli interessi del nascente Stato sovietico, frantumando l’unità
internazionalista del proletariato europeo che aveva guidato i
primi Congressi dell’Internazionale, l’opposizione alle nuove
direttive si fa acuta su molteplici aspetti, creando gruppi e
frazioni che iniziano a muoversi su piani e secondo prospettive
diverse. Sorgono così le “opposizioni operaie”, che reclamano
maggiore democrazia all’interno dei partiti, e le opposizioni a
tendenza anarco-sindacalista, che escono dai propri partiti
accusati di metodi dittatoriali. Seguiranno,
di lì a breve, movimenti
decisamente operaisti, oppure tendenze che rifiutano
esplicitamente il partito come organizzatore e guida delle lotte
di classe.
L’unica opposizione alla politica dell’Internazionale basata su
principi rigorosamente marxisti si sviluppa in Italia attorno al
gruppo dirigente dei primi anni del PCd’I. Estromesso dalla
direzione del partito nel 1923, e tuttavia mantenendo un largo
seguito tra gli iscritti, questo gruppo non si stancò di fare
sentire la propria voce in tutti i momenti di progressivo
abbandono della linea ortodossa: sulla questione del fronte unico,
sulla questione del governo operaio, su quella della
bolscevizzazione.
L’ultimo, vigoroso intervento, pochi giorni dopo la conclusione
del Congresso di Lione, si svolse dalla tribuna
dell’Internazionale Comunista, al VI Esecutivo Allargato
(febbraio-marzo
1926). Ora, si disse in quell’occasione, l’Internazionale
Comunista deve restituire al partito
bolscevico quanto esso ha dato negli anni precedenti, in termini
di teoria e di azione, ai partiti europei. La “questione russa” va
posta al centro del dibattito internazionale. La piramide va
rovesciata.107
La realtà in campo internazionale e nelle singole sezioni,
tuttavia, aveva ormai assunto un indirizzo ostile alla lotta
rivoluzionaria. Da anni, le direttive dell’Internazionale
Comunista erano per un recupero delle masse attraverso la tattica
del noyautage, cioè degli accordi politici tra i centri direttivi
dei partiti e con i sindacati. In questo modo veniva sacrificata
l’autonomia dei princìpi in nome di una tattica disinvolta, che si
pretendeva “leninista”, per riallacciare i rapporti con le masse
travolte dalle prime violente ondate del riflusso
controrivoluzionario. La "ragion di
stato" russa ormai aveva il
sopravvento sull'internazionalismo operaio
perfino nella voce di Bucharin (Esecutivo
dell'Internazionale Comunista, maggio 1927) che giustificherà la
sciagurata tattica dell'Internazionale Comunista nei confronti dei
grandi scioperi inglesi del 1926 invocando gli "interessi
diplomatici dell'Unione Sovietica" che ormai prevalgono su
qualsiasi prospettiva di ripresa di lotta di classe. 108.
Coerentemente a ciò, l’Internazionale Comunista non potrà far
altro che accettare come un dato di fatto, all’interno di un
“Comitato Anglo-Russo” costruito ad hoc, l’accordo tra gli
ultrariformisti capi delle Trade Unions e i dirigenti sindacali
sovietici, che sancirà la sconfitta del gigantesco sciopero dei
minatori inglesi del 1926. L'Esecutivo dell'Internazionale
sosterrà in pieno questo accordo, che prevede tra l’altro
l’impegno a “non occuparsi degli affari interni inglesi”: come se
le questioni di lotta del proletariato potessero lasciare
indifferenti i proletari di altri paesi! Ma ormai la ragion di
stato sovietica prevale ormai su qualsiasi politica
internazionalista.
In Russia, i gruppi di opposizione, spesso divisi tra loro su
questioni teoriche ed organizzative (questione
dell’industrializzazione, della democrazia nel partito, dei
rapporti con la classe) e tattiche (alleanze con la destra di
Bucharin contro Stalin; mobilitazione delle masse) non riusciranno
a tessere un’efficace rete organizzativa, e verranno facilmente
distrutti al momento opportuno. Gradualmente prevale
nell’Internazionale Comunista la tesi secondo la quale la salvezza
della Russia non dipende dalle vittorie rivoluzionarie in Europa,
ma dalla capacità del movimento operaio internazionale di
difendere i successi economici e sociali in atto in Russia. Al VII
Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista e al successivo
XV Congresso del Partito russo (dicembre 1927) ormai si sosterrà
apertamente che non può appartenere al partito e
all’Internazionale Comunista chi neghi la possibilità della
“costruzione del socialismo in un solo paese”.
5. La disfatta internazionale: dal Comitato anglo-russo alla
Rivoluzione cinese e alla teoria del
“socialismo in un solo paese”.
La disfatta in campo teorico e la rovina sul piano tattico si
incontrarono drammaticamente, tra
1926 e 1927, nella “questione cinese” e nel fallimento del grande
Sciopero generale in Inghilterra. Coerentemente con quanto da anni
l’Internazionale Comunista andava predicando sui rapporti tra
partiti e tra partiti e masse, la politica del noyautage portò, in
Inghilterra, a un vergognoso accordo internazionale tra spinte
rivoluzionarie di base e direzione sindacale ultra- riformista. E
condusse all’unico ovvio e scontato risultato: l’affossamento di
un movimento di lotta che aveva visto scendere in sciopero alcuni
milioni di lavoratori inglesi contro i quali il governo di Sua
Maestà non poté far altro che dichiarare lo stato di emergenza,
mobilitare l’esercito e la marina da guerra, organizzando squadre
di sabotaggio e di crumiri109.
La Sinistra “italiana” si batteva da anni contro questo modo di
intendere la lotta da parte dell’Internazionale
Comunista. E lo faceva, anche
e soprattutto sullo scenario
internazionale, in nome del “fronte unico” dal basso: un fronte,
cioè, che raccogliesse le spinte
elementari di difesa economica, a prescindere dall’appartenenza a
questo o a quel sindacato, ma sempre sotto la guida del partito di
classe. Nonostante ciò, la prassi dell’Internazionale Comunista
trovò un’ulteriore, terribile applicazione nella tragedia cinese,
quando milioni di proletari furono consegnati totalmente disarmati
dalla politica di alleanza interclassista (il “blocco delle
quattro classi”: borghesia, contadiname, piccola borghesia e
proletariato) imposta dall’Internazionale Comunista stalinizzata,
in una delle più terribili carneficine della storia moderna della
lotta di classe.
Nel 1926, si imponeva dunque il rafforzamento teorico e il
radicale cambiamento di rotta nei metodi dell’Internazionale
Comunista e delle sue singole sezioni, come già indicato a chiare
lettere nel 1925.110 Per nessuna ragione si sarebbe dovuto cercare
una “conquista delle masse” a tutti i costi e attraverso
contorsioni tattiche, che erano perdenti nel momento stesso in cui
rinunciavano ad ogni autonomia da parte del partito di classe ma
venivano considerate, chissà perché, “leniniste”.
Di fronte alla gravissima serie di sbandamenti sul piano
internazionale e alla distruzione dell’organizzazione del partito
in Italia operata dal fascismo, che è ormai al governo da quattro
anni, i dirigenti centristi del PCd’I dirigono tutta la loro
attenzione sulle prospettive di una impossibile azione politica
tesa a conquistare al proletariato un’egemonia nella lotta contro
il fascismo. Tale azione non può limitarsi a rivendicazioni
economiche, ma dovrà avere connotazioni politiche parziali che
saranno necessariamente democratiche, come la rivendicazione di
libertà soppresse in campo politico e sindacale. Nel suo discorso
al VII Plenum dell’Internazionale Comunista (novembre-dicembre
1926), in piena lotta tra la coalizione Stalin-Bucharin da una
parte e l’opposizione Trotsky-Kamenev-Zinoviev dall’altra,
Togliatti non ha esitazioni nel prendere posizione contro
l’opposizione internazionale confermando il pieno appoggio della
direzione del PCd’I al Centro del partito russo, alla tesi della
“costruzione del socialismo” in Russia e, di fatto, all’abbandono
definitivo dell’internazionalismo operaio in nome della “difesa
della patria del socialismo”:
"Il problema [del socialismo in un solo paese] dev'essere posto
dal punto di vista dell'influenza esercitata dalla rivoluzione
russa e dall'azione del partito comunista russo sulle forze
rivoluzionarie mondiali… Nella classe operaia mondiale [è attiva]
la convinzione che in Russia, dopo la presa del potere, il
proletariato può costruire il socialismo e oggi costruisce il
socialismo"111.
E’ infatti su questa linea che, all’inizio del 1928, dunque pochi
mesi dopo il massacro di proletari a Shanghai e a Canton,
Togliatti avanzerà “la parola d’ordine della lotta per la pace”
secondo la chiara prospettiva frontista che, da allora,
rappresenterà di fatto l’indirizzo antifascista del PCI. Per
questa stessa ragione, di ritorno dall’VIII Plenum moscovita, egli
potrà scrivere, a difesa della politica di Stalin sulla Cina, che
“se ci fossimo isolati dal fronte nazionale rivoluzionario
[proprio quello il cui tradimento segnò la disfatta della
rivoluzione e le stragi conseguenti di proletari, NdR] ci saremmo
tagliati completamente dalle masse e il movimento non si sarebbe
sviluppato [evidentemente lo “sviluppo” della controrivoluzione]
sotto la nostra prevalente influenza [nel senso che la direzione
dell’intero movimento fu lasciata al generale Chang-Kai-Shek]”.
112
Fa parte di questo aperto tradimento delle posizioni di classe
l’affermazione secondo la quale l’azione del PCI, non esaurendosi
sul piano rivendicativo ed economico, deve muoversi su obiettivi
politici limitati, di contenuto antifascista democratico. D’altra
parte, lo stesso contenuto sociale delle lotte è visto, in una
Europa che nulla ha che vedere con la situazione economica e
sociale della Russia d’inizio secolo e con la Germania e la
Francia del 1848, secondo l’ottica della “doppia rivoluzione”, nel
corso della quale, sotto l’incalzare dell’oppressione fascista,
avverrà
“una radicalizzazione delle masse
contadine arretrate, e creerà, in
sostanza, condizioni oggettive più favorevoli alla formazione di
un blocco operaio-contadino rivoluzionario”113
Parallelamente all’esplicito riconoscimento del “socialismo in un
solo paese”, di fronte al quale nessuna falsificazione è di troppo
(“Tolta la possibilità di progresso della Russia verso il
socialismo, negata la possibilità di costruzione vittoriosa del
socialismo in Russia, è tutta la concezione storica e politica che
fu posta alla base della costruzione dell’Internazionale comunista
che crolla”)114, si scatena la persecuzione internazionale contro
gli oppositori, sulla falsariga di quanto avviene nel
“paese-guida”.
6. La “svolta a sinistra” e la teoria del socialfascismo
Mentre infuria la persecuzione fascista e le organizzazioni
operaie sono preda della rete spionistica della polizia segreta115
si procede nei fatti alla liquidazione del marxismo
rivoluzionario internazionale ed
internazionalista, attraverso la teoria
e la pratica del “socialismo in un solo paese”,
il blocco dei partiti, la lotta democratica contro il fascismo.
Mentre si dichiara ai quattro venti che il fascismo è il nemico da
battere, e per ottenere ciò non si dovrà esitare a schierarsi con
l’ala “sinistra” dei partiti riformisti ed opportunisti, mentre di
tutto ciò si fa uso, anche in Italia da parte della direzione
gramsciana contro la sinistra, tra il VI Congresso
dell'Internazionale Comunista (luglio 1928) e il X Plenum
dell’Internazionale Comunista (luglio 1929) esplode d’improvviso
la “teoria del socialfascismo”.
“Le masse si radicalizzano in modo uniforme in tutti i paesi
capitalistici”, si dirà: dunque è necessaria ovunque una politica
d’assalto. Secondo la “teoria del socialfascismo”, la
socialdemocrazia riformista a base piccolo-borghese e appoggiata
dall’aristocrazia operaia è un nemico altrettanto pericoloso del
fascismo, e come quello va combattuta. Questa formula riecheggia
le posizioni tanto criticate in precedenza della Sinistra, la
quale sosteneva che la borghesia alterna a suo favore e nel suo
interesse di classe il metodo fascista e quello democratico.
Tuttavia, nella improvvisa formulazione dell’Internazionale
Comunista, che capovolgeva anni di pratica bloccarda e di
corteggiamento di organizzazioni opportuniste, la Sinistra
“italiana” vide non un ritorno alle posizioni corrette, ma un
ulteriore elemento di confusione che s’andava ad aggiungere a
quelli già imposti in precedenza a tutti i partiti
dell’Internazionale. Bisogna però ribadire che il punto di vista
della Sinistra – e in particolare della Frazione comunista che
negli anni Trenta ne difese le posizioni in sede internazionale –
non si identificavano affatto con la teoria staliniana del
socialfascismo. La Sinistra riconosceva che fascismo e
socialdemocrazia convergono nel puntellare il capitalismo contro
il proletariato, ma ciò avviene in fasi storiche e in condizioni
economiche e politiche ben determinate e non necessariamente
coincidenti. Essa sostenne esplicitamente che fascismo e
socialdemocrazia non si identificano
affatto, e che quindi non
possono essere combattuti sempre con
le medesime tattiche. In particolare, essa ritenne criminale la
politica dell’Internazionale, che creò delle scissioni artificiali
nei sindacati procedendo ove possibile alla costituzione di
fantasmi di “sindacati rossi” incapaci di incidere in alcun modo
sulle lotte rivendicative del proletariato. Questa frattura a
livello operaio ebbe conseguenze così nefaste in Germania da
accelerare la conquista del potere da parte del partito nazista.
D’altra parte, la stessa centrale del partito entrò in crisi di
fronte alle nuove direttive. Togliatti, non nuovo ai voltafaccia,
si adeguava rapidamente al “rovesciamento delle posizioni
su tutti i punti essenziali che avevano caratterizzato la sua
posizione negli anni passati”, allineandosi “senza riserve alle
tesi del X Plenum” 116. Altri invece (Leonetti, Ravazzoli, Tresso,
Silone) ritengono che la situazione italiana sia ben lontana dalla
realtà preinsurrezionale
descritta dalla maggioranza del CC. Essi sostengono che la “svolta
a sinistra” è una conseguenza dei compiti nuovi che si delineano
(la crisi del fascismo, l’impossibilità di una coalizione
antifascista borghese, la scomparsa delle posizioni intermedie).
Scrivono che “[l]’elemento dominante sarà dato dalla rivolta,
dalla insurrezione, dalla guerra civile delle masse lavoratrici
guidate dal proletariato contro le classi dirigenti capitaliste”.
E così facendo offrono al CC l’occasione di espellerli dal partito
(giugno 1930), dopo una rapida e violenta “resa dei conti”.
Minacce di espulsione e misure di polizia sotto l’accusa di
frazionismo erano già state rivolte da Gramsci ai militanti della
Sinistra durante il processo di “bolscevizzazione” del partito117.
Ma ora, con la lotta scatenata in Russia contro il “trotskismo”, e
ovunque in Europa contro gli oppositori di sinistra e di destra,
anche il centro italiano recita in pieno la sua parte:
“Contro chi è giunto a questo punto non è possibile che una cosa,
la lotta, la lotta aperta, senza quartiere, la mobilitazione di
tutte le forze del partito e della classe operaia come contro dei
traditori del partito e della classe operaia”118
Del CC dei primi anni, viene “processato” prima il destro Tasca,
reo di non essersi allineato con Stalin durante il periodo
trascorso a Mosca in qualità di delegato del PCI presso
l'Internazionale Comunista. Nel gennaio 1930, seguirà l’espulsione
di Bordiga, mentre migliaia di militanti dovranno riparare
all’estero (Francia, Belgio) per sfuggire alla polizia fascista.
Alcuni di questi, fedeli al programma di Livorno, costituiranno in
una riunione segreta nel 1928, a Pantin, nei pressi di Parigi, la
Frazione all’estero della Sinistra comunista. Anche il centro
dirigente del PCI, decimato dal fascismo fin dal 1926 (sono in
carcere Gramsci, Terracini…) si potrà ricostituire solo in Francia
attorno a poche decine di militanti, i cui contatti con l'Italia
si fanno via via più deboli fino allo scoppio della guerra 119.
Nonostante l’adesione formale alla “teoria del socialfascismo”,
l’inizio degli anni Trenta è caratterizzato da
una serie di iniziative della
direzione stalinizzata del PCI per
reclutare
adesioni all’interno dei partiti e dei gruppi socialdemocratici,
tra i quali il movimento “Giustizia
e Libertà” (GL), che si è formato attorno ad un gruppo di
intellettuali antifascisti. Al 1931 risale la nascita di una
sezione del CC del partito (“Sezione alleati del
proletariato”) che valuta le possibilità di azioni comuni
nell’ambito di un più largo fronte unico. E’ lo stesso Togliatti a
teorizzare queste possibilità, partendo dal presupposto che il
proletariato non rappresenti più l’unica classe autenticamente
rivoluzionaria.
“Il socialismo italiano non è stato solamente proletario. E’ stato
anche artigiano e piccolo-borghese, è stato contadino,
anti-feudale e anticlericale. E’ stato il risveglio, la rivolta di
un popolo intiero contro tutto ciò che lo opprimeva, che lo
sfruttava, che gli impediva di vivere: contro il carabiniere e
contro l’agente delle imposte, contro il padrone, contro la
ipocrisia dei preti e delle monache, contro lo Stato.” 120
Nessuna meraviglia dunque che, nel marzo del 1933, l’Ufficio
politico del PCI decida di avanzare al PSI, al PS massimalista e
al Partito repubblicano la proposta di creare un fronte unico
antifascista. Il PSI non accetta e le trattative proseguono solo
col PSI massimalista sulla base di rivendicazioni di carattere
immediato (salario, ore di lavoro ecc.).
Il VII Congresso dell’Internazionale Comunista (1934) sancisce la
fine ufficiale della
“teoria del socialfascismo” e dà inizio (ma, nella realtà
sotterranea del PCI, prosegue) alla tattica del “fronte unico
antifascista”. I presupposti di questa tattica sono: imminenza
della guerra imperialista - guidata dagli angloamericani - contro
l'URSS; radicalizzazione della lotta di classe; trasformazione
della socialdemocrazia in socialfascismo. Non uno di questi si
verificò: la guerra non era poi così imminente e, quando scoppiò,
l'imperialismo anglosassone si schierò dalla stessa parte
dell'URSS; l’offensiva non fu operaia, ma borghese (piani
economici, militarizzazione, distruzione delle organizzazioni
operaie); non il socialfascismo, ma il fascismo entrerà negli
apparati statali in tutti i paesi sviluppati; esso riesumerà la
socialdemocrazia solo a guerra scatenata, o a guerra finita.
7. Dal fronte unico ai fronti popolari
Sul fronte interno, tutto il periodo che va dal 1930 allo scoppio
della guerra è occupato da una incessante lotta per isolare con le
calunnie, e con la forza se necessario, la Sinistra che, nel
1928, si era costituita come Frazione di sinistra del PCd’I.
La nefasta teoria che porterà ai blocchi partigiani e alla totale
perdita di autonomia del partito di classe scaturisce dalle
indicazioni del III Congresso dell’Internazionale Comunista,
che i centristi vollero vedere come un invito a creare alleanze
tra partiti “operai” per creare un
fronte proletario antiborghese, e dall’interpretazione del
fascismo come una parentesi di barbarie contro cui anche la
borghesia “progressista” avrebbe lottato all’interno di una
coalizione con i partiti operai.
In senso chiaramente antitetico,
Prometeo, organo della Frazione
all’estero, riportava i seguenti due punti dello
statuto del PCd’I di Livorno:
“Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello
Stato borghese che, fondato sul sistema rappresentativo della
democrazia, costituisce l’organo per la difesa degli interessi
della classe capitalista.
“ Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei
rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo
sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese”
121
E li contrappone ai nuovi programmi del CC del Partito (“La lotta
per le rivendicazioni parziali, la lotta per le rivendicazioni
democratiche, la lotta per la libertà, si identifica con la lotta
per l’abbattimento del fascismo e del regime capitalistico”): un
indirizzo, come si vede, che coincide con il programma di
transizione di matrice trotzkista, che mescolava parole d’ordine
democratiche (definite di “democrazia proletaria”) con altre di
colore decisamente premarxista e totalmente erronee nelle realtà
di capitalismo avanzato quale era presente nei paesi dell'Europa
occidentale e in America (indipendenza nazionale, assemblea
costituente rivoluzionaria, separazione della Chiesa dallo Stato
ecc.) e che sarà alla base della definitiva separazione tra la
Frazione e i movimenti trotzkisti nell’analisi sulla questione
della guerra di Spagna.
Il 1933 non è solo l’anno in cui Hitler è nominato cancelliere. E’
l’anno del New Deal, della rimilitarizzazione di Germania e Unione
Sovietica, delle misure internazionali (fascistizzazione) atte a
uscire dalla crisi del capitale industriale e finanziario con
l’unico mezzo
noto al capitalismo: il massacro
mondiale. La “questione spagnola”
venne a risolvere
definitivamente anche gli equivoci sorti all'interno dei movimenti
all'opposizione, relegando definitivamente nella loro funzione di
traditori i partiti stalinizzati e pronti a qualsiasi
genuflessione di fronte alla ragion di stato sovietica.122
La caduta del lungo governo de Rivera (1923-1930, dittatoriale fin
che si vuole, ma appoggiato dai socialisti di Largo Caballero), la
conseguente abdicazione di Alfonso XIII e la nascita della
repubblica avevano trovato un Partito comunista (stalinizzato)
completamente sbandato e perfettamente
allineato sulle posizioni
dell'Internazionale Comunista (parola d'ordine del
“governo operaio e contadino”).
La neonata repubblica, ben decisa a difendere con i denti le
proprie posizioni di classe, represse in modo ferreo e sanguinoso
gli scioperi che, per tutto il 1931, la fecero tremare. Ciò
nonostante, l’Opposizione trotzkista non cessò di esortare il
proletariato a sostenere il nuovo
parlamento e, ben lungi dal dichiarare guerra spietata al nemico,
predicò il sostegno della repubblica, a condizione di liberare una
volta per sempre “tutta la società dalle immondizie del
feudalesimo”, ed agitando nel modo più vigoroso rivendicazioni di
carattere transitorio 123. Proprio su queste direttive avvenne la
rottura tra la Sinistra “italiana” e il trotzkismo, sancita
definitivamente dalla “politica dell’entrismo” (compito dei
rivoluzionari espulsi dai partiti stalinizzati sarebbe stato
quello di entrare nei partiti socialisti, allo scopo di recuperare
un contatto con le masse). La polemica, tuttavia, doveva farsi
ancora più aspra nel corso degli avvenimenti del 1936 e a
proposito dell’interpretazione della natura dell’Unione
Sovietica.124
La ripresa delle lotte operaie in Belgio,
Francia e Spagna nel corso di quell'anno condusse i partiti
comunisti a cercare a tutti i costi un’alleanza con i socialisti,
in nome dell'unità antifascista,
della “riconciliazione
nazionale”, della difesa
delle istituzioni democratiche: chi non aderirà a
questi principi sarà considerato servo dei padroni, agente di
Hitler, e trattato di conseguenza. Il grande corteo che nel luglio
1936 sfilò a Parigi con i capi del PCF, della SFIO (Partito
Socialista , sezione francese dell’Internazionale operaia), della
CGT (il sindacato “comunista”), chiudendo l'ultimo grande
movimento spontaneo di lotta di classe, sancì la vittoria della
socialdemocrazia internazionale, che si portava a rimorchio gli
entristi trotzkisti convinti ad aderire alla SFIO per “trascinarla
in una direzione rivoluzionaria”. Dirà Thorez, segretario del PC
francese:
"Bisogna saper terminare uno sciopero quando sono state raggiunte
le rivendicazioni essenziali. Bisogna
anche saper giungere ad un compromesso,
per non perdere la propria forza e soprattutto per non favorire la
campagna di panico da parte della reazione".125
E' così che quando, nel luglio del 1936, inizia in Spagna la
rivolta dei generali, tutte le forze frontiste internazionali si
trovano ideologicamente schierate sul principio della difesa dei
“diritti”, della libertà democratica, dell’unità della “sinistra”
contro la barbarie fascista. In quell'occasione, si dirà, le masse
salvarono la repubblica spagnola: tacendo il fatto che -
scrivevamo - questa repubblica non solo nulla aveva di socialista,
ma, nonostante “le ardite iniziative periferiche nel campo
economico e sociale”, non poteva che “incastrarsi in un’evoluzione
controrivoluzionaria perché in nessun momento era stato posto il
problema della creazione di una dittatura rivoluzionaria”126.
Il PCI e in generale tutti i partiti comunisti europei diretti da
Mosca spinsero follemente in avanti la causa antifascista,
proiettando migliaia di proletari militanti nella guerra per la
difesa della “democrazia” contro il fascismo. Invece, la Sinistra,
ultima forza rimasta in Europa
a difendere la bandiera del marxismo, chiese che fosse posto
all'ordine del giorno, non il massacro dei lavoratori che
combattevano nell'esercito franchista, ma la fraternizzazione
operaia per la lotta contro entrambi gli schieramenti, quello
fascista e quello democratico, in nome della rivoluzione
comunista. Ma ormai l’ondata della controrivoluzione è
inarrestabile. Eppure sono passati solamente vent’anni da
Zimmerwald!
In questo frangente, il PCI, perfettamente allineato alla causa
della “difesa dell'Urss”, sostiene una volta di più la tesi
antifascista della “difesa delle libertà”. In questi termini,
l’intervento nelle Brigate Internazionali fu solo la conferma che,
per questo partito, ogni rivendicazione di classe era tramontata e
che il suo ruolo storico stava ormai solo nell'impedire ogni forma
di riarmo teorico e militare del proletariato. Così, mentre in
Russia si celebrano i processi che eliminano fisicamente la
generazione della Rivoluzione d'Ottobre, prosegue accanita per
tutti gli anni Trenta la lotta contro la Frazione, considerata un
tutt’uno con l’opposizione trotzkista. Secondo Togliatti, ad
esempio,
“Bordiga vive oggi tranquillo in Italia come una canaglia
trotskista, protetto dalla polizia e dai fascisti, odiato dagli
operai come deve essere odiato un traditore”127
Mentre i quadri dirigenti e gli organi di stampa si affannano a
escogitare gli insulti e le calunnie peggiori nei confronti di ex
compagni di partito 128, i principali dirigenti del partito varano
nel 1935 quella che appare una “politica di riconciliazione
nazionale” 129. Mentre alcuni si dichiarano disponibili alla
partecipazione ad un governo atto a difendere le “libertà
popolari”, a “reprimere ogni ritorno offensivo del fascismo” 130,
Togliatti spiega ciò che bisogna intendere per “fronte popolare”:
l’unione di tutte le correnti di opposizione al fascismo, esterne
od interne ad esso. Il
ruolo della classe operaia sarà
d’ora innanzi quello di “guida della
rivoluzione popolare antifascista” (Longo), facendo leva,
soprattutto, sulla capacità dei dirigenti di “saldare
l’opposizione antifascista all’opposizione fascista” (Grieco).
Coerentemente con questo programma, nel maggio 1936, al termine
della campagna d’Etiopia, si può affermare:
“I nostri soldati, le camicie nere, si sono battuti con coraggio,
hanno affrontato sacrifici grandissimi... hanno compiuto uno
sforzo che dimostra l’alta capacità di abnegazione e di resistenza
del nostro popolo magnifico... Hanno combattuto per una causa
ingiusta. Sono stati ingannati [...] dal fascismo. Essi hanno
creduto di combattere per fare grande, forte e felice il loro
paese: e dietro a questo mirabile ideale [!!!], per il quale val
bene la pena di spendere anche la vita, migliaia di nostri
fratelli sono morti e migliaia sono rimasti storpiati e ammalati
per sempre”131
Non essendoci più limite al tradimento, in nome dell’unità
popolare, i quadri dirigenti del PCI decidono di appropriarsi
anche dei programmi fascisti della prima ora (definiti “programma
di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori”):
“Noi tendiamo la mano ai fascisti nostri fratelli di lavoro e di
sofferenze... Noi comunisti vogliamo
fare l’Italia forte, libera, felice.
La nostra aspirazione è pure la vostra o fascisti,
cattolici, uomini italiani di ogni opinione politica, di ogni fede
religiosa”132
Infine, in questo crescendo senza vergogna, nell’agosto del 1936,
“Lo Stato Operaio” pubblica l’articolo “Per la salvezza
dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, tristemente
noto come “Appello ai fascisti”. Vi si legge:
“Diamoci la mano, figli della Nazione italiana! Diamoci la mano,
fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le
opinioni. Diamoci la mano, e marciamo fianco a fianco per
strappare il diritto di essere dei cittadini di un paese civile
quale è il nostro... Unità di tutto il popolo, per la libertà, per
la realizzazione del programma fascista del 1919. A te, lavoratore
fascista! Noi ti diamo la mano perché con te vogliamo costruire
l’Italia del lavoro e della pace... siamo tuoi fratelli, abbiamo
gli stessi interessi e gli stessi nemici. A te, lavoratore
cattolico! Noi ti diamo la mano perché assieme a te vogliamo
lottare per una giustizia più grande, per la pace tra gli uomini,
per la libertà”.
Come si è visto, la politica del PCI - o, per meglio dire, la
politica dei pochi dirigenti che all'estero hanno ricostruito il
CC di origine gramsciana - si è tutta fedelmente orientata in base
alle decisioni dell'Internazionale Comunista moscovita, sia per
quanto riguarda la lotta contro le opposizioni di sinistra, sia
per quanto riguarda la teoria del socialfascismo e la successiva
svolta ispirata ai fronti popolari, alla difesa delle forme
democratiche dello Stato borghese 133 e infine, esplicitamente,
all’eventuale uso di tutte le forme legali offerte dallo stato
fascista allo scopo di mobilitare anche i “fratelli in camicia
nera”. In questo senso il PCI, privo di contatti con la base
comunista completamente all'oscuro di quanto avviene sull'asse
stalinista Parigi (CC del PCI)-Mosca (Togliatti), potrà firmare
nel 1937 la tanto auspicata Carta di unità d'azione con il PSI,
con l’obiettivo di suscitare una lotta di popolo che possa
utilizzare “a tal fine anche tutte le possibilità legali del
regime fascista”.
Le successive capriole della direzione, che dovrà allinearsi alle
strategie politico-militari del paese-guida (con la firma,
nell’agosto del 1939, del patto di non aggressione con Hitler),
134 non meritano di essere ulteriormente commentate.
Semplicemente, tutto ciò dimostra come da lungo tempo il PCI
avesse perso il diritto di presentarsi come guida rivoluzionaria.
E
come, anzi, abbia usurpato il titolo di “comunista” avendo
tradito, del comunismo e dell'azione
rivoluzionaria, le fondamenta teoriche
sul piano dei principi e dei
fini, schierandosi apertamente nelle coalizioni antifasciste
socialdemocratiche e diventando, di fatto, il puntello di cui si
servirà la borghesia italiana, nel dopoguerra, per far fronte
all'inevitabile crescita del movimento di classe.
In questo senso, noi vediamo un medesimo filo che unisce la
tattica del “fronte unico antifascista” quale si manifesta
chiaramente già nella prima metà degli anni Venti, e quella delle
coalizioni con partiti borghesi o piccolo-borghesi in Cina,
Germania, Francia, Spagna, che sfocerà più tardi necessariamente
nella costituzione dei blocchi partigiani e, quindi, nella aperta
e dichiarata difesa di uno dei due schieramenti imperialisti (e,
dal punto di vista di una futura ripresa della lotta di classe, il
peggiore135) nel secondo massacro mondiale.
Questa tattica, che nulla ha da spartire con il cammino della
rivoluzione comunista, sta ben calata all'interno della disastrosa
teoria del “socialismo in un solo paese” e della difesa del
“paese-guida”. L'aver piegato il proletariato europeo agli
interessi militari e diplomatici di una
Unione Sovietica nella quale i piani quinquennali celebravano i
saturnali dell'accumulazione capitalistica a suon di record di
tassi di incremento industriale, sottoponendo alla sferza di
massacranti ritmi di lavoro il proletariato protagonista della più
grande rivoluzione dei tempi moderni: questo fu il risultato della
politica dei partiti stalinizzati di tutta Europa.
Per queste stesse ragioni, la Sinistra “italiana” non poté che
rifiutare ogni forma di rimescolamento con i gruppi che, fin
dall'inizio degli anni Trenta, un militante della statura di
Trotzky cercava di far convergere in uno sforzo di volontarismo
organizzativo destinato, come
la storia già aveva insegnato, al più amaro
fallimento. Anche con questi gruppi, che si
arrogheranno il titolo di IV Internazionale nel momento in cui
predicheranno ai quattro venti la politica entrista del noyautage
con i socialisti, nel disperato tentativo di non perdere il
contatto con le masse, la Sinistra “italiana” non potrà che
tagliare ogni legame. E peggio sarà, per questi gruppi, la
prospettiva della guerra incombente quando, invece di esprimere
alle masse operaie un programma chiaro e definito, costoro
esorteranno alla difesa incondizionata dell’URSS, venendosi di
fatto a schierare con il fronte delle democrazie alleate e
abbandonando la grande tradizione zimmerwaldiana del disfattismo
rivoluzionario.136
8. La guerra.
Quando, il 23 agosto 1939, fu firmato il trattato di
non-aggressione tra Urss e Germania, nel piccolo gruppo di
dirigenti del PCI all'estero la reazione fu inizialmente di
sorpresa. Poi, però, seguì rapidamente un allineamento totale 137.
D’improvviso si passa dalla lotta per la difesa della democrazia
contro il fascismo alla teoria dell'equidistanza tra blocchi
imperialisti in lotta tra loro; e tuttavia, i dirigenti del PCI
continuano a mantenere un atteggiamento di denuncia del fascismo
come principale nemico. Scrive per esempio Togliatti da Basilea,
il 29 agosto
1939:
Se, malgrado tutto, vi sarà la guerra, combatteremo con tutti i
mezzi e con tutte le forze… perché dalla guerra esca la disfatta
del fascismo […] Per raggiungere questo scopo approfitteremo di
tutte le possibilità che ci saranno
offerte, entrando, se
occorre, nell'esercito
francese, per combattere contro i fascisti e aiutare a
sconfiggerli. 138
Vi è dunque una coerente linearità di fondo nella politica del PCI
da quando - a partire dal 1926 - i dirigenti del partito si
schierano sul fronte antifascista. La posizione chiaramente
espressa, gabellata come “disfattismo rivoluzionario”, è ribadita
da Togliatti l'anno dopo, quando ormai anche l’Italia è entrata in
guerra:
I comunisti si rivolgono agli operai […] sotto le armi e dicono
loro: “tenete salde le armi nelle vostre mani, non le abbandonate
fino a quando non avrete cacciato la plutocrazia fascista, fino a
quando non avrete ridato al Paese la pace e la libertà”.139
Non fa qui conto di tracciare in dettaglio i tentativi di
riorganizzazione dei quadri del partito in Italia. Nei primi due
anni di guerra, alcuni dirigenti cercheranno di rimpatriare
clandestinamente dalla Francia, altri
nuclei si formeranno nelle prigioni
e al confino, costituendo gruppi di potere
spietatamente ostili nei confronti di tutti i comunisti
imprigionati ma fedeli ancora, a distanza di quasi vent'anni, ai
programmi e alle direttive del partito di Livorno.
Resta l’amaro bilancio di un partito che cerca di riorganizzarsi
di fronte al massacro della guerra sulle traditrici formule della
difesa della patria, della lotta per l’indipendenza nazionale, per
le libertà democratiche, per l’antifascismo. Sul piano tattico,
tutto ciò non potrà che tradursi nella costituzione dei blocchi
partigiani e nel definitivo abbandono dell’internazionalismo
proletario, del disfattismo e della ripresa della autonoma lotta
di classe per il rovesciamento del capitalismo internazionale.
Quando, il 25 luglio 1943140, il grande capitale italiano decide
che è venuto il momento di liquidare il fascismo per tradire gli
alleati del giorno prima, non lo farà in nome della pace e della
neutralità, ma per proseguire la guerra alle condizioni più
vantaggiose sotto la bandiera della democrazia. Tuttavia, prima di
operare il voltafaccia, è necessario dimostrare al proletariato
che il padrone è sempre lo stesso, sotto la veste fascista o
democratica poco importa. Per sedare ogni sintomo di istintiva
rivolta operaia alla caduta del regime, il democratico governo
Badoglio, chiamato a sostituire il Gran Consiglio Fascista, si
rende responsabile di un centinaio di morti proletari nei 45
giorni che intercorrono tra il suo inizio e la firma
dell’armistizio con gli anglo-americani.
Posizione dei centri dirigenti del
PCI sarà comunque l’appoggio al governo nella misura in cui
romperà ogni accordo militare con la Germania schierandosi con il
capitale occidentale: “La guerra contro i paesi democratici,
contro l'Inghilterra, gli USA, la Russia, è la guerra del fascismo
ed esclusivamente del fascismo. Essa non è mai stata e non potrà
mai essere una guerra dell’Italia, una guerra della
nazione”.141 E quando infine, dopo l’8 settembre, la firma
dell’armistizio e la fuga di re e governo creeranno condizioni
favorevoli per il rilancio di direttive rivoluzionarie, il PCI,
conseguentemente alla decennale attività di falsificazione del
marxismo, esigerà invece una pronta adesione alla lotta militare
di stato contro stato, fianco a fianco con piccola, media e grande
borghesia locale e sotto le bandiere alleate. “La dichiarazione di
guerra alla Germania […] permetterà di regolare e stabilire su una
base di lealtà e di reciproca fiducia i rapporti tra l’Italia e
gli altri paesi che conducono la lotta per debellare
l'imperialismo tedesco […] Per questo il nostro governo non deve
più esitare. Dichiari la guerra ai tedeschi, prenda nelle sue mani
con energia e audacia la sacra bandiera della guerra per
l’indipendenza nazionale, e tutta l’Italia, consapevole del suo
dovere, marcerà al
combattimento”.142 In condizioni
analoghe, alla vigilia dell'intervento italiano
nel primo conflitto mondiale, la Sinistra non ebbe esitazione
alcuna a ribadire la propria fedeltà al
programma rivoluzionario: “Noi non
eravamo né neutralisti né pacifisti,
né credevamo possibile come punto di arrivo programmatico la pace
permanente fra gli Stati. Noi deploravamo il disarmo della lotta
di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra
nazionale. La nostra alternativa non era: non
sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella
direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe
un giorno ucciso le radici delle guerre tra i popoli. Noi eravamo
i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione”.
143
La II Guerra Mondiale costò al proletariato italiano alcuni
milioni di morti. Mandati al macello in Africa, in Russia, nei
Balcani, questi operai e contadini in divisa, senza alcuna
direttiva classista da parte del PCI, non poterono opporre il
disfattismo rivoluzionario alla propria borghesia. L’unica voce
coerentemente marxista 144 che si levò in piena guerra fu
quella del Partito Comunista Internazionalista che, costituitosi
nell’Italia settentrionale nel 1942 come centro di raccordo tra la
Frazione all'estero e i gruppi sopravvissuti in Italia al
ventennio fascista, additava fin dal primo numero del suo
periodico Prometeo (1 novembre 1943) l'invariata via
rivoluzionaria alla guerra imperialista, invitando il proletariato
di ogni nazione a porre sul piano ideologico e quindi politico la
definizione di entrambi i belligeranti come
facce diverse di una stessa
realtà borghese, da combattere entrambi perché
intimamente legati, ad onta delle apparenze, alla stessa ferrea
legge della conservazione del privilegio capitalista.
La storiografia del PCI si compiace di definire il ritorno di
Togliatti in Italia, nel marzo del 1944, come l'evento (la “svolta
di Salerno”) destinato a modificare e indirizzare verso nuove e
originali strategie la politica del partito. Nel frattempo, l’Urss
ha ristabilito le relazioni diplomatiche con il governo Badoglio,
ed è chiaro che l’arrivo del dirigente stalinista (salutato come
“il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca”, o come “un
cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo”, perfino da vecchi
arnesi socialisti) è stato concordato con i plenipotenziari
politici e militari alleati, che riconoscono perfettamente nel PCI
il partito che, nel difficile dopoguerra, potrà guidare l’Italia,
monarchica o repubblicana poco importa 145, alla ricostruzione
dell’economia sulla pelle operaia.
Quest’individuo, interventista della prima ora nel 1915, alleato
dopo la scissione di Livorno ora con la Sinistra ora con i
centristi a seconda delle proprie convenienze, falsificatore di
documenti del proprio partito e di suoi compagni incarcerati,
pronto a piegarsi a qualunque compromesso con i suoi superiori che
gli dettano ordini (Stalin in persona o, in alternativa, Dimitrov
o Manuilskij), probabilmente responsabile diretto o indiretto
della morte di centinaia di comunisti italiani esuli in Russia e
finiti nel Gulag sovietico, è lo specchio fedele della
controrivoluzione internazionale, nella sua versione italiana. A
scanso di equivoci, sarà bene ricordare che Togliatti non era quel
“capo illuminato” che dipingono i suoi dipendenti servili nel PCI.
Le sue “teorie” politiche non formano affatto “un discorso
continuo, serrato, coerente che è rivolto […] ad illuminare e ad
approfondire, a difensere e ad affermare la nostra linea di
avanzata democratica al socialismo” che sarebbe poi, sul piano
internazionale, la strategia della coesistenza pacifica, della
liberazione nazionale e dell’unità “del movimento operaio e
rivoluzionario sulla diversità delle vie di lotta e sull’autonomia
delle scelte politiche”146. La realtà ben nota è che il 4 marzo
1944 costui era ricevuto da Stalin, che gli impartiva la lezione;
e il giorno dopo era a rapporto da Dimitrov, al quale esponeva i
concetti del Capo: “L’esistenza di due campi (Badoglio – il re e i
partiti antifascisti) indebolisce il popolo italiano. Questo è
vantaggioso per gli inglesi, che vorrebbero un’Italia debole nel
mare Mediterraneo. Se anche nel futuro si protrarrà la lotta tra
questi due campi, ciò porterà alla rovina del popolo italiano. Gli
interessi del popolo italiano impongono che l’Italia sia forte e
abbia un esercito forte”.147
Qualche giorno dopo il suo sbarco a Napoli, questo traditore del
proletariato internazionale tenne un discorso osannato,
nell'immediato, dai suoi compagni di partito e, in seguito, da
tutti gli storici democratici di
qualsiasi tendenza politica. Dopo
aver sdegnosamente respinto l’accusa che i
comunisti siano nemici della
proprietà, fautori della violenza, nemici della famiglia, o
disfattisti, costui proseguiva:
Io sfido chiunque [...] a trovare un solo atto del nostro partito
[NdR: evidentemente parla del suo partito, che non ha nulla da
spartire con quello fondato a Livorno nel 1921!] il quale sia
stato in contrasto o abbia nuociuto agli interessi della nazione
[...] La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha
trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo
nostra. 148
Non poteva mancare (coscienza poco tranquilla?) il solito richiamo
di circostanza ai Maestri (fondatori - si tenga bene a mente! -
della I, della II e della III Internazionale). Ma ecco in che
termini:
Siamo nella linea della dottrina e delle tradizioni di Marx e di
Engels, i quali mai rinnegarono gli interessi della loro nazione
[!!], sempre li difesero [!!], tanto contro l’aggressore e
invasore straniero, quanto contro i gruppi reazionari che li
calpestavano. Siamo nella linea del grande Lenin, il quale
affermava di sentire in sé l’orgoglio del russo [!!!], rivendicava
al proprio partito di continuare tutte le tradizioni del pensiero
liberale [!!!] e democratico [!!!] russo.
E comunque, a scanso di equivoci (poiché di teste calde ce n’è
sempre troppe...)
sentenziava che oggi non si pone agli operai italiani il problema
di fare ciò [NdR: si osservi la delicatezza: il termine
“rivoluzione” non va neppure pronunciato!] che è stato fatto
in Russia [...] Guai se la classe operaia, oggi, non
adempisse a questa sua funzione nazionale [...] L’obiettivo che
noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra,
sarà quello di creare in Italia un regime democratico e
progressivo [...] Convocata, domani, un’assemblea nazionale
costituente [come si ricorderà, in questa formula è concentrato il
programma del partito di Gramsci già nel 1925, ndr], proporremo al
popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una
Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le
libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di
stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e
di culto; e la libertà della piccola e della media proprietà di
svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti
della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico.
Se tuttavia, infine, qualcuno non avesse ancora capito e si
chiedesse che cosa ne è del programma storico del marxismo, allora
contro costui non si potrà transigere:
Il nostro partito può adempiere ai propri compiti soltanto nella
misura in cui esso è unito e disciplinato [...] Siate vigilanti.
Siate disciplinati [...] Abbiate sempre gli occhi aperti per
scoprire e cacciare colui che vuole intrufolarsi nelle nostre file
per gettarvi la discordia, per disgregarle. Quasi sempre vi
accorgerete che egli è un agente del nemico. Smascherate senza
pietà il provocatore, il disgregatore, il corruttore 149.
Mentre i proletari italiani erano invitati a schierarsi sotto la
bandiera anglosassone nei reparti partigiani contro i tedeschi, la
caccia all’oppositore dava i suoi frutti, con l’assassinio di
valorosi compagni presentati nella stampa “comunista” come “agenti
del nemico truccati con berretto estremista [...] tenitori di
tabarins e di bische clandestine [...] setta di rivoluzionari da
strapazzo e visionari dogmatici [trasformati] in agenzia criminale
e senza scrupoli di nemici della rivoluzione [...] agenti
dell'OVRA e della Gestapo [...] accolita di avventurieri che hanno
fatto dell'anticomunismo il proprio cavallo di battaglia”150.
Liquidando ogni opposizione operaia, accordandosi con i partiti
cattolici e spegnendo sul nascere ogni tentativo spontaneo di
rivolta, il PCI si apprestava a diventare partito di governo,
partecipando alla stesura della Costituzione italiana151 e
mandando il suo uomo più rappresentativo, Palmiro Togliatti, a
fare il Ministro di Grazia e Giustizia due volte sotto il re, la
terza con un presidente della Repubblica. In tal veste, nel giugno
del 1946, egli firmerà un decreto di amnistia per reati politici
in termini tali “che” scrive un noto giornalista biografo di
Togliatti “tutti i boia della repubblica di Salò, tutti i
torturatori di partigiani, vengono messi in libertà”. 152
9. Cenni sul secondo dopoguerra.
Nel 1947, PCI e PSI realizzano finalmente ciò che non erano
riusciti a concretizzare sotto il fascismo, cioè il patto di unità
di azione. Questa “alleanza” ha lo scopo di impedire la rinascita
di un movimento autonomo di classe in una situazione post-bellica
potenzialmente pericolosa da un punto di vista sociale per la
nuova organizzazione politica che si dà la borghesia italiana.
Essa durerà fino al XX Congresso del PCUS quando, con le
“rivelazioni” del famoso “rapporto segreto” di
Krusciov, gli ex-alleati socialisti,
fiutando l'aria sfavorevole per le
manovre elettorali, preferiranno girare la schiena al partito di
Togliatti per formare una coalizione di centro-sinistra. In questa
occasione, il PCI esporrà la tesi della “via italiana al
socialismo”, già formulata nel 1947 ma ora meglio accreditata per
tamponare le perdite di quadri e di voti sotto l’incalzare di
clamorose rivolte antisovietiche (nel giugno del 1956
l’insurrezione a Poznan, in Polonia; nell’ottobre dello stesso
anno, i fatti di Ungheria). In questo contesto si realizza quella
che sembrò allora una sterzata nella direzione: l'accantonamento
(iniziato nel 1955) della cosiddetta “sinistra” del partito
(vecchi partigiani stalinisti cui piaceva esibire il fucile, ma in
nome della lotta antifascista interclassista) a favore di una
“destra” democratica sufficientemente abile da consentire nel modo
più indolore possibile il processo di destalinizzazione. Ben si
intende che l’elemento comune di questi schieramenti, al di là
della prosa fiorita e talora truculenta di cui si ammantarono le
polemiche tra i loro rappresentanti, è l’atteggiamento
completamente interclassista che animò sinceramente i primi
nell’alleanza antifascista, i secondi nell’alleanza con la
democrazia cristiana e che, a tempi lunghi, finirà per portarli
all’agognato governo.
Gli anni Sessanta sono quelli del “miracolo economico” e della
teoria kruscioviana, prontamente adottata dal
PCI, della coesistenza pacifica. Si
tratta dell’inizio del ciclo di
accumulazione postbellico e quindi della crescita di forme
rivendicative sempre più violente e
frequenti a causa dei bassi salari e della disoccupazione di
massa. Quel periodo vede nascere all’interno del PCI ma su
posizioni critiche numerosi movimenti che rivendicano un ritorno
al marxismo. Tuttavia essi o non sfuggono allo spontaneismo e
all’immediatismo operaista, rifacendosi anche al
consiliarismo degli anni Venti
(Quaderni rossi), o rivelano un
atteggiamento intellettualistico ed idealistico di “liberazione
culturale” come preliminare a una futura azione politica (Quaderni
piacentini); mentre vecchi arnesi stalinisti scelgono
opportunamente il silenzio.153 La reazione del centro
dirigente del PCI, nei confronti di questi ed altri gruppi
dissidenti, sarà inizialmente di cautela e di permissività, mentre
diventerà di intransigenza nel momento in cui si manifesteranno,
dopo il Sessantotto, le prime forme di terrorismo. Di fronte a
questo tipo di lotta, il PCI non esiterà a procedere a centinaia
di denunce ai servizi di sicurezza dello Stato a carico di propri
iscritti 154 ed utilizzando appieno le proprie reti informative
all'interno delle fabbriche. Nel frattempo, Berlinguer, segretario
del partito dal 1972 al 1984,
elabora la teoria del “compromesso
storico”. Questa sancisce l’alleanza non più con i
socialisti ma direttamente con la Democrazia Cristiana, al potere
dal dopoguerra. In questo modo spalancherà le porte alla
coalizione governativa dopo aver finalmente rinunciato al nome,
usurpato per decenni, di Partito Comunista (si chiamerà infatti,
dal 1991, Partito Democratico della Sinistra).
Seguire passo dopo passo le contorsioni teoriche del PCI
nell’ultimo ventennio della sua vita non può essere oggetto di
analisi in questa sede. Basti dire che la strategia di questo
partito, impostata sul “compromesso storico”, verrà parzialmente
modificata tra gli anni '76 e '79, quando si formeranno governi di
coalizione senza “comunisti”, ma con il loro appoggio esterno, nel
concetto di “governo di solidarietà democratica” che infine,
all’inizio degli anni ‘80, si trasforma in “alternativa
democratica”. Al di là di questi sofismi lessicali, come si è
visto, tutta la politica del PCI nel secondo dopoguerra è stata
improntata alla solidarietà nazionale, secondo una prassi
assolutamente invariante che risale, nell’immediato, a Salerno, ma
affonda le proprie radici nelle deviazioni gramsciane del 1924
(“assemblea costituente”). La strategia del partito di Berlinguer,
in particolare, fu dettata da quelle che la borghesia italiana ha
considerato condizioni di emergenza: la recessione internazionale
prima, con le dure condizioni poste dal FMI per la concessione di
prestiti; poi, e in conseguenza di ciò, l’esaurimento delle
riserve monetarie (inizi 1976). Il PCI scende in campo con il peso
dei suoi elettori, allo scopo dichiarato di rilanciare l’economia
facendosi garante dell'ordine pubblico e sociale a fronte della
“politica di sacrifici” imposti al proletariato in condizioni di
“emergenza”. Sarà, in Italia come in tutta Europa, la politica
economica del deficit spending, appoggiata e sostenuta dai
nazionalcomunisti schierati a difesa dell’economia nazionale. La
scomparsa anche formale di questo partito, che abbandona, oltre al
nome, anche il proprio ruolo di agente antiproletario ai due
partiti che se ne contendono i voti, quello stalinista nostalgico
(il PC d’Italia di Cossutta) e quello democratico pluralista
(Rifondazione comunista di Bertinotti) non è che la legittima
conclusione di un processo di decomposizione durato quanto la
borghesia italiana ha ritenuto necessario ai propri fini di
stabilizzazione sociale.
10. Conclusioni.
Nel ripercorrere la storia del PCI, sono presenti dunque una prima
fase di sistemazione teorica ed organizzativa in regola con le
tradizioni del marxismo rivoluzionario internazionale e un momento
di rottura, che poniamo al 1923 non tanto per il fatto che la
direzione che l’aveva guidato dal momento della fondazione venga
sostituita in blocco dall’Internazionale Comunista, quanto perché
da allora iniziò a svilupparsi, sotto pretesti tattici, la
strategia delle alleanze e dei contorcimenti
organizzativi su scala internazionale e
non solo italiana. Tale strategia avrebbe dovuto recuperare
in maniera volontaristica una forza attrattiva sulle masse che
ormai, dopo anni di guerra, dopo la sconfitta dolorosa del
“biennio rosso” 1919-20 e dopo l’avanzata
controrivoluzionaria della borghesia in
veste fascista, aveva perso lo
slancio generoso e classista. La battaglia che la Sinistra
condusse in difesa della dottrina rivoluzionaria fino al periodo
(1928-30) delle espulsioni non poté e non volle prospettarsi se
non sul piano internazionale e non solo su quello meschinamente
italiano. Questa battaglia non poteva sperare di salvare la
struttura organizzativa, nel momento in cui sul movimento operaio
si abbattevano l’ondata degenerativa
nell’Unione Sovietica e quella
repressiva fascista in Germania e in Italia,
trascinando nel vortice opportunista, in nome della difesa
nazionale, ciò che restava delle vecchie organizzazioni operaie e
dei loro militanti. Ed infatti fu ribadito fin dal
1926 che ogni tentativo di opporsi alla bufera per mezzo di
espedienti organizzativi (fusioni temporanee di piccole
organizzazioni di opposizione, manovre frazionistiche) era
destinato all’insuccesso, e che si
doveva al contrario e urgentemente
metter mano a “un lavoro
pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra
internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal
Comintern” 155.
Coloro che da allora e fino allo scoppio della guerra - e furono
la maggioranza - preferirono inabissarsi nei vortici del
“socialismo in un solo paese”, della lotta antifascista, del
blocco delle classi, dei “patti di azione”, finiranno
necessariamente col predicare al proletariato la difesa della
patria, fino a cercare alleanze con cattolici e fascisti, con
contadini e piccola borghesia. A guerra finita, saranno costoro ad
orchestrare la “ricostruzione”, a ribadire la propria vocazione
patriottica, ben collegata al liberalismo e all’idealismo
risorgimentale, “in difesa della pace e dello sviluppo”.
E finalmente, che tutto ciò non abbia da lungo pezzo più nulla da
spartire con il marxismo verrà riconosciuto dai successori di
Togliatti, dai Longo e dai Berlinguer degli anni
‘70 e ‘80, quando la concezione del marxismo come “storicismo
assoluto”, vale a dire come forma storicamente transitoria e oggi
largamente superata dalla realtà, ricongiungerà costoro
anche formalmente alla Filosofia dello Spirito di Benedetto Croce
e all'idealismo mascherato di Antonio Gramsci 156, senza che
peraltro essi siano in grado di farne una applicazione in qualche
modo coerente come fu – bisogna dargliene atto - quella del
fondatore dell'ordinovismo.
Note
1 Tale era la valutazione di questa concezione che ne dava
il II Congresso dell’Internazionale Comunista, Tesi sulle
condizioni per la creazione dei Consigli di operai, tesi X.
2 Lo riconoscerà in seguito
egli stesso: “Partecipavamo in tutto
o in parte al movimento di
riforma morale ed intellettuale promosso in Italia da
Benedetto Croce”. Lettera a Tatiana Schucht, 17 agosto 1931.
Lettere dal carcere, ed. Einaudi 1965.
3 “La coscienza di classe... è una affermazione lenta e faticosa,
perché si tratta di rimuovere tutto un adattamento tradizionale
dei sentimenti e della volontà; ma senza questo rinnovamento
psicologico... nessuna trasformazione sociale può avverarsi nella
storia”. R. Mondolfo, Il materialismo storico in Federico Engels.
Firenze, La nuova Italia 1952, pag. 242
4 Si veda ad esempio Ch. Riechers, Gramsci e le ideologie del suo
tempo, Ed. Graphos, Genova 1993.
5 “Il Sillabo ed Hegel”, Il Grido del Popolo, 15 gennaio 1916. Di
passata, ricordiamo che il Sillabo fu dettato da Pio IX nel 1864,
contro ogni sia pur timida adesione dei cattolici al movimento
liberale borghese.
6 “Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi”, in
L’Avanguardia, ottobre-novembre 1914;ora in Storia della Sinistra
I, 1964, pag. 250.
7 “Note sulla rivoluzione russa”, Il Grido del Popolo, 29 aprile
1917.
8 Il termine giacobino è qui usato non nel senso leninista
di partito ferreamente organizzato e diretto, ma nel senso
deteriore di sfrenato individualismo, di conventicola, di setta.
Il giacobino sarà per Gramsci “l'uomo politico energico, risoluto
e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù
taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero”
9 Questo sostiene F. De Felice nella sua relazione a I
comunisti a Torino 1919-1972, a cura di G.C. Pajetta, Ed. Riuniti,
1974, pag. 20
10 Al Congresso di Bologna, ottobre 1919, l'Ordine Nuovo votò a
favore dei “comunisti elezionisti”, cioè dei serratiani.
11 “Tali organizzazioni nascono
entro il regime borghese e
come espressione della libertà
borghese. Sono organizzazioni che vengono riconosciute dalle
masse in quanto loro riflesso e loro embrionale apparato di
governo; ma sono organizzazioni che non incarnano il processo
rivoluzionario, non superano lo Stato borghese, non abbracciano il
pullulare di forze rivoluzionarie mosse dal capitalismo. Il
processo rivoluzionario si attua nella produzione, dove non c'è
libertà né democrazia”. (Il Consiglio di fabbrica, Ordine Nuovo, 5
giugno 1920). Qui si palesa tutto l'operaismo gramsciano,
antipartitico ed antileninista. E si capisce perfettamente perché,
in tutti gli svolti precedenti (riunione illegale di Firenze,
novembre 1917; Congresso di Bologna, ottobre 1918; e anche Livorno
1921) Gramsci non abbia preso la parola o si sia arroccato, per
non compromettersi, sulla critica all'astensionismo della
Sinistra.
12 La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin,
Ed. il programma comunista, 1964, pag. 109.
13 “Ai Commissari di
reparto delle Officine Fiat Centro
e Brevetti”, l'Ordine Nuovo, 13
settembre 1919). Sull’entusiasmo tayloristico di Gramsci per
l’organizzazione sociale della produzione come si svolge nelle
fabbriche andrà ricordato Marx: “La divisione manifatturiera del
lavoro ha per effetto che le potenze intellettuali del processo
materiale di produzione si contrappongano all’operaio come
proprietà altrui e come potere che lo domina. Questo processo di
scissione ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il
capitalista rappresenta di fronte agli operai singoli
l’unità e volontà del corpo
lavorativo sociale; si sviluppa
nella manifattura, che mutila e
storpia il lavoratore
trasformandolo in operaio parziale; giunge a compimento nella
grande industria, che separa la scienza dal lavoro come potenza
produttiva indipendente, e la piega al servizio del capitale” (Il
Capitale Ed. UTET, Torino 1974, pag. 491).
14 “Due rivoluzioni”, L’Ordine Nuovo, 3 luglio 1920: due settimane
più tardi si riuniva il II Congresso dell’Internazionale!
15 L. Lombardo Radice e G. Carbone, Vita di Antonio Gramsci, Ed di
Cultura Sociale, Roma 1952, pag.119-120.
16 P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente
del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti,
1984, pag. 102.
17 In particolare, Storia della Sinistra comunista, vol. II,
III e IV, ed. Il programma comunista, Milano 1972, 1982, 1997 .
18 Si veda la Storia della Sinistra comunista, vol. IV, ed.
Il programma comunista, Milano 1997.
19 E’ a questo punto che viene avanzata la formula
del “governo operaio”; cioè a parole, si dirà, l’equivalente di
“dittatura del proletariato” ma, nella pratica, l’alleanza di
governo tra comunisti e partiti piccolo-borghesi.
20 Lettera a Scoccimarro e Togliatti, 1 marzo 1924.
21 Rivista Storica del Socialismo, numero 23, pag. 515.
22 Humbert-Droz ha lasciato numerose testimonianze della sua non
sempre limpida azione in Italia come rappresentante dell’IC. Per
quanto riguarda la Sinistra, egli scrive: “Il mio scopo era
di introdurre una differenziazione [notare l'eleganza della
formulazione] nella maggioranza estremista del Partito comunista
d’Italia e di staccare da Bordiga il gruppo di Gramsci, per
affidargli la direzione del partito. Già nel congresso di Roma
[del 1922], il gruppo di Gramsci, pur appoggiando Bordiga, aveva
manifestato una certa indipendenza e aveva espresso delle
sfumature che bisognava usare per isolare la tendenza
ultrasinistra di Bordiga” (J. Humbert-Droz, L’Internazionale
comunista tra Lenin e Stalin. Ed. Feltrinelli, pag. 197).
23 J. Humbert-Droz, Il contrasto tra l’Internazionale e il P.C.I.
1922-1928, Ed. Feltrinelli, pag. 186.
24 “L’Antiparlamento”, l’Unità, 11 novembre 1924.
25 “Il nullismo dell’Aventino”, l’Unità 12 novembre 1924.
26 Si veda il nostro O preparazione rivoluzionaria o
preparazione elettorale, Ed. Il Programma Comunista, 1968.
27 Rapport de A. Bordiga sur le fascisme au Vme
Congrès de l’Internationale Communiste, in Communisme et fascisme,
ed. Programme Communiste, 1970, pag. 141-142.
28 G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Ed. Laterza, 1966.
29 P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Ed. Riuniti.
30 K. Marx. F. Engels, “Indirizzo del Comitato centrale alla
Lega” (marzo 1850), Opere complete, Vol. X, Editori Riuniti 1977,
pag. 275-76.
31 A. Gramsci, Il nostro Marx, Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918.
32 Tra i tanti, menzioniamo G. Tamburrano, Antonio Gramsci.
Una biografia critica. Lacaita 1963, tra l'altro perché di
estrazione socialista e non "comunista".
33 Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce.
Einaudi 1949, pag. 13-14.
34 Non si può dimenticare, d'altra parte, che neppure
Gramsci – purtroppo, ma non per caso! -“ebbe fretta” nel 1919
quando, al Congresso di Bologna,
votò con i massimalisti, impedendo
di fatto quella chiarificazione tra
le file rivoluzionarie che fu possibile attuare solo due
anni dopo.
35 Vedi l'articolo "I fattori di razza e nazione nella teoria
marxista", il programma comunista, n. 17, 1953.
36 "Attivismo", battaglia comunista, n. 7, 1952.
37 Secondo Amadeo Bordiga, al Congresso del PCd’I tenuto a Lione
nel gennaio 1926 Gramsci si sarebbe pronunciato più o meno con
queste parole: «Dò atto alla sinistra di aver finalmente acquisita
e condivisa la sua tesi che l’aderire al comunismo marxista non
importa solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad una
azione politica, ma comporta una visione ben definita, e distinta
da tutte le altre, dell’intero sistema dell’universo anche
materiale». Si veda «Comunismo e conoscenza umana», Prometeo,
luglio-settembre 1952, p. 141.
38 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Einuadi 1949, pag. 87. Questo volume sarà
d’ora in poi indicato solo come Ms.
39 «Una caratteristica saliente (!) dell’analisi gramsciana
consiste nel suo rigore materialistico(!!)»: L. Maitan, Attualità
di Gramsci e politica comunista, Schwarz 1955, p.9.
40 «E’ proprio solo stupidaggine?», Avanti!, ediz. piemontese, 10
settembre 1920.
41 «L’unità nazionale», L’Ordine Nuovo, 4 ottobre 1919.
42 Secondo statistiche riportate da “Il Contemporaneo” (28
febbraio 1987) esisterebbero a quella data oltre 500 libri scritti
in inglese su Gramsci. Ciò, secondo uno storico statunitense, John
Cammett, è indicativo «della misura in cui il “gramscismo” è stato
accettato negli ambienti scientifici americani, per lo meno quale
“criterio di ricerca storica”». Non ne dubitavamo. Il poco di
autenticamente marxista e rivoluzionario che si può trovare in
Gramsci non viene neppur lontanamente preso in considerazione
dalla storiografia accademica.
43 «Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci», Bandiera
Rossa 69, 1997, pag. 75. Va osservato che in questo
opuscolo, come in altri di matrice trotzkista, l’eredità di
Gramsci è totalmente rivendicata come parte integrante di ciò che
viene erroneamente indicato come marxismo rivoluzionario. Lo è
nell’individuazione gramsciana di strumenti di lotta
democratico-rivoluzionari (i Consigli); lo è nella politica delle
alleanze con mezze classi. Le manovre di corridoio tese a
liquidare, su istruzione dell’Internazionale, la direzione di
sinistra del PCd’I, sono presentate come brillante esempio della
“riflessione” e dell’ “iniziativa” gramsciana basate sui testi
fondamentali dei primi quattro Congressi dell’Internazionale
Comunista (nascondendo accuratamente il
contributo teorico che la Sinistra
“italiana” diede all’elaborazione delle tesi di ammissione
all’Internazionale; ci vuole poi una bella faccia tosta ad
inserire nella “lista” il Secondo Congresso, in cui il movimento
comunista internazionale raggiunse uno dei punti più elevati di
elaborazione teorica rigorosamente marxista, tutto il contrario
delle pastette interclassiste cui i trotzkisti ci hanno abituato
in seguito). Si cela il fatto che Gramsci, dopo aver manovrato per
costituire una frazione nel partito a partire dal 1923, si sia poi
scatenato contro la Sinistra a partire dal 1924 accusandola di
“frazionismo” quando questa era, nella realtà dei numeri e della
forza di base, l’effettiva maggioranza. Si afferma che
l’acquisizione della tattica frontista, quella stessa che aveva
già dato i suoi brillanti frutti in uno spaventoso stillicidio di
tragedie proletarie in Germania, e che è alla base del crollo
successivo di tutte le organizzazioni politiche proletarie, è
vista come riarmo strategico del partito italiano per opera di
Gramsci. Si giustifica la bolscevizzazione, di cui Gramsci fu
solerte strumento, sostenendo che, in fin dei conti e data
l’eterogeneità dell’IC, fosse indispensabile un processo di
chiarificazione (fatta coi metodi degni del primo Stalin, e
tacendo che una tale esigenza di “chiarezza” non si fece più
sentire nelle politiche frontiste d’ogni tipo). Si vuole
sottolineare che Gramsci si oppose alla politica
dell’Internazionale Comunista e del partito italiano in un periodo
cruciale (il 1930), tacendo tutte le esitazioni che la stessa
Internazionale Comunista aveva attraversato nella questione
tedesca, poi l’indirizzo “fuori rotta” di questa sulla questione
russa, ed infine sul dibattito relativo al “socialismo in un solo
paese”: tutte questioni sulle quali solo la Sinistra seppe opporsi
con forza, mentre Gramsci seguiva con entusiasmo le mutevoli
direttive che arrivavano da Mosca.
Dopo queste falsificazioni nella politica gramsciana, l’opuscolo
si addentra nella filosofia, e se lo fa, come si è visto, in modo
così attento alla “ricostruzione storica”, gli è che in questi
casi “gli scrupoli filologici non sono mai eccessivi” (pag. 37).
Come unico esempio di simili “scrupoli” citiamo il seguente,
relativo al concetto di egemonia. E’ noto il
passo gramsciano secondo cui Lenin «avrebbe fatto progredire
effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece
progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di
un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico,
determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza,
è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico» (Ms, pag. 39). E’
altresì ben noto che, in Lenin (Due tattiche del 1905), il
concetto di egemonia sta semplicemente ad
indicare che, nella rivoluzione
democratica, il proletariato urbano
avrà un ruolo trainante nei confronti dei
contadini. Ma basta questo accenno gramsciano a Lenin per far
esclamare di gioia che proprio ciò fa piazza pulita “di
tutti i tentativi di contrapporre a questo riguardo Gramsci a
Lenin” (pag. 52-53).
44 Questo mostruoso connubio è particolarmente apprezzato in Brasile. Si veda ad esempio C. N. Coutinho, «Democrazia e socialismo in Gramsci», in G. Baratta e G. Liguori (a cura), Gramsci da un secolo all’altro, Editori Riuniti 1999, pag. 39.
45 Si veda ad esempio R. Mondolfo, Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi, Ed. Critica Sociale, 1955, pag. 31.
46 Storia della Sinistra Comunista, ed. il programma
comunista, vol. II, 1972, pag. 189.
47 Teoria ed azione nella dottrina marxista, in Partito e
classe, “I testi del partito comunista internazionale”, n.
4, pag. 121.
48 Tesi caratteristiche del partito, dicembre 1951. In difesa
della continuità del programma comunista, ed. il programma
comunista, n. 2, pag. 148.
49 «Individualismo e collettivismo», Il Grido del Popolo,
9 marzo 1918.
50 Il Capitale, vol I, Ed. UTET, pag. 75-76.
51 «Sul metodo dialettico», Prometeo, n. 1, 1950.
52 «Comunismo e conoscenza umana», Prometeo, n. 4, 1952.
53 A.A. Bogdanov, Empiriomonismo, citato da Lenin, Materialismo
ed Empiriocriticismo, Ed. Riuniti 1963, pag. 119-121.
54 Ibid., pag. 224.
55 Ibid., pag. 317.
56 K. Marx, F. Engels, L’Ideologia tedesca, pag. 26-27.
57 Non c’è filosofo agnostico sedicente marxista che non
sottolinei con compiacimento queste pretese “concessioni” che Marx
avrebbe fatto all’idealismo hegeliano. Per chiarire le cose non
c’è che lasciare parlare Marx stesso: “Come è accaduto che gli
uomini “si mettono in testa” queste illusioni [le illusioni
religiose]? Questa domanda apriva per gli stessi teorici tedeschi
la strada della concezione materialistica del mondo, che non è
priva di presupposti ma osserva i presupposti materiali reali come
tali ed è perciò, essa sola, la concezione del mondo realmente
critica. Questo passaggio era già stato indicato nei
Deutsch-Französiche Jahrbücher, negli scritti Per la critica della
filosofia del diritto di Hegel e Sulla questione ebraica. Poiché
ciò fu fatto usando ancora la fraseologia filosofica, le
espressioni filosofiche tradizionali sfuggite in quegli scritti,
come “essenza umana”, “specie”, ecc., offrirono ai teorici
tedeschi l’occasione desiderata di fraintendere il corso reale
delle idee e di credere che in essi si trattasse soltanto di dare
una nuova piega, ancora una volta, alle loro consunte vesti
teoriche”. L’Ideologia tedesca, Ed. Riuniti 1958, pag. 228-29.
58 K. Marx, Appendice, Per la critica dell’economia politica, Ed. Riuniti, 1957, pag. 188-89 (nostra evidenziatura).
59 Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, cit., pag. 120.
60 Id., ibid., pag. 224-25.
61 Id., ibid., pag. 317-19. E’ certamente per queste ragioni che tutti i commentatori di Gramsci considerano poco più che spazzatura il Materialismo ed Empiriocriticismo di Lenin. Secondo il Gerratana si tratta di opera tra le più disarmoniche nella sua asprezza polemica (V. Gerratana, Presentazione a N. Bucharin, Teoria del materialismo storico, La Nuova Italia, Firenze 1977, pag. X); secondo il Tamburrano Lenin cade nella divinizzazione della materia (G. Tamburrano, Antonio Gramsci, SugarCo, 1977, pag. 237) o, ad essere caritatevoli, non riesce ad uscire dalla contraddizione tra il soggettivismo volontaristico delle Opere politiche e l’oggettivismo gnoseologico delle Opere filosofiche (Ibid., pag. 244n)
62 «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola
custodia e salvezza della energia storica del proletariato». il
programma comunista, n. 21, 1958).
63 Ibidem.
64 G. Tamburrano, op. cit. Si veda in particolare l’esposizione
che il T. fa del “gramscismo” tra pag. 228 e 275.
65 Id. pag. 243.
66 Id., pag. 252
67 A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno, Einaudi 1949, pag. 8.
68 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della
cultura, Einaudi 1949, pag.13.
69 Lenin, Che fare?,
Ed. Riuniti, 1958, pag. 365.
“Della socialdemocrazia”, dice Lenin,
e ciò significa molto esplicitamente “del
partito di classe”.
70 Impreparazione non tanto e non solo nella struttura
organizzativa, frantumata dal processo di bolscevizzazione imposto
a tutte le sezioni dell’Internazionale; ma soprattutto nel sapere
impostare l’apparato di difesa programmatico e teorico nei vertici
del partito e nella base, mantenendosi saldi ai principi in un
periodo che evolveva rapidamente in senso controrivoluzionario.
Non, dunque, rincorsa alle masse; non fronti unici con i partiti
opportunisti, ma rigorosa conservazione dell’autonomia di classe.
E’ quanto sostenne, inascoltata, in una lunga battaglia
nell’Internazionale la Sinistra “italiana”.
71 L’Ideologia tedesca, Ed. Riuniti 1958, pag.
16-17.
72 Gramsci nega con forza la possibilità di esistenza di una
scienza della società, una scienza con le sue leggi e le sue
possibilità di previsione del cammino storico: «per uno strano
capovolgimento delle prospettive... la metodologia storica è stata
concepita “scientificamente” solo se e in quanto abilita
astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società.
Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima”
della “causa delle cause”». Ms pag. 135.
73 Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, pag. 225-26.
74 Materialismo ed Empiriocriticismo, cit., pag. 224.
75 Con buona pace di Althusser, uno dei filosofi
maîtres-à-penser che hanno veicolato Gramsci nella Francia
pre-sessantottina, questa espressione non ha affatto solo “un
significato critico e polemico” (Leggere il Capitale, pag.
135).
E’ invece la forma strutturalmente necessaria di cui si riveste, e
non può essere diversamente, il volontarismo e l’educazionismo
tipico di tutta l’ideologia gramsciana, quella, per intenderci,
che trovò la sua genuina espressione nell’immediatismo
consiliarista. Non fu forse il movimento dei Consigli torinesi -
nel linguaggio di Gramsci - un tentativo non realizzato di creare
“un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno
ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di
conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico”? (Ms
39). Althusser si servì di questa storpia interpretazione del
gramscismo per cavalcare l’ondata studentesca ed intellettuale
dell’epoca. Non prometteva essa “la fantasia al potere”?
76 A. Gramsci, «Misteri della cultura e della poesia», Scritti
giovanili, Einaudi 1958, pag. 328.
77 Ibid., pag. 327-28.
78 P. Togliatti, Gramsci, Ed. Parenti, Firenze 1955.
Citazioni a pagina 8-9, 83 e 85.
79 A. Gramsci, «La rivoluzione contro il “Capitale”», Avanti!,
ed. milanese, 24 novembre 1917.
80 A. Gramsci, «Socialismo e cultura», in Scritti giovanili,
cit., pag. 24
81 «Fantasime carlailiane», il programma comunista, n. 9,
1953.
82 Il Capitale, libro I, UTET 1974, pag. 84 e 86.
83 Nella lettera che Gramsci scrive da Vienna il 9 febbraio 1924 a Togliatti, Terracini e altri, da cui citiamo, si trova una sorta di “analisi” della situazione italiana ed internazionale assai rivelatrice dello stato di marasma in cui si trovava il partito dopo la sostituzione della Sinistra nel CC. Vi sono anche alcune osservazioni di Gramsci che meriterebbero un commento più approfondito. Ad esempio, si sostiene che, nel 1917, Lenin e la maggioranza del partito bolscevico sia passato “alla concezione di Trotzky”. La rivoluzione d’Ottobre è descritta come un “colpo di Stato”. La supremazia del partito russo nell’Internazionale, contro cui la Sinistra si battè inutilmente, è giustificata “da una base materiale che noi non potremo avere se non dopo una rivoluzione e ciò dà alla loro supremazia un carattere permanente e difficilmente intaccabile”. Un servilismo anti-internazionalista prontamente sposato dai ceffi italiani che presto andranno a popolare l’Hotel Lux di Mosca.
84 Si consideri per esempio le seguenti affermazioni di L. Althusser: «La filosofia marxista, di cui Marx aveva gettato le basi nell’atto stesso in cui aveva fondato la sua teoria della storia, è in gran parte ancora da costruire [...] le difficoltà teoriche in cui nella notte del dogmatismo ci eravamo dibattuti [...] dipendevano anche in gran parte dallo stato di mancata elaborazione della filosofia marxista» (Per Marx, Ed. Riuniti 1967, pag. 14). Non ricorda da vicino, tutto ciò, il gramsciano “Marx non era un filosofo”?
85 Machiavelli, cit., pag. 317.
86 Ibid., pag. 317.
87 Ms pag. 39.
88 Machiavelli, cit., pag. 115
89 A. Gramsci, Sotto la Mole, Einaudi 1960, pag. 93.
90 Machiavelli, cit., pag. 329-330.
91 Si veda N. Urbinati, «La sua fortuna americana», l’Unità
(suppl.), 15 gennaio 1991.
92 The Company of Critics, Basic Books 1988.
93 Partito e classe. I testi del partito comunista internazionale, 4, ed. il programma comunista (1974), pag. 128.
94 Id, pag. 127.
95 Sulla nascita del PCd’I, cf. Storia della Sinistra comunista, cit., voll. I-III.
96 I. V. Stalin, "Problemi economici del socialismo nell'URSS", Rinascita
(suppl.), n. 9, 1952. La critica marxista a queste falsificazioni
si trova nel nostro Dialogato con Stalin, in "il programma
comunista", n. 1-4, ottobre-dicembre 1952.
97 Dialogato con Stalin, in "il programma comunista", cit.
98 Sulla teoria del "socialismo in un solo paese", vera e propria
bestemmia nel vocabolario marxista, si pronunciarono con estrema
chiarezza Marx ed Engels in decine di pagine di fuoco. Già nel
1874 Engels, analizzando il particolare momento storico del
movimento operaio tedesco, poteva indicare il dovere dei
rivoluzionari nel "mantenere puro il senso puramente
internazionalistico, che non lascia adito a nessun sciovinismo
patriottico e che saluta con gioia ogni nuovo passo in avanti del
movimento proletario, senza nessuna differenza, quale che sia la
nazione da cui esso provenga. Se gli operai tedeschi così andranno
avanti, non perciò marceranno alla testa del movimento - anzi non
è affatto nell'interesse del movimento che gli operai di una
singola nazione, quale che essa sia, marcino alla testa del
movimento - ma tuttavia occuperanno un posto degno di onore nella
linea del combattimento". Prefazione (1874) a La guerra dei
contadini in Germania. Edizioni Rinascita, Roma 1949, pag.
26.
99 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. I. Da Bordiga a Gramsci. Ed. Einaudi, Torino 1967, pag. 455.
100 Le manovre attuate in questa occasione, e successivamente a
Mosca, dalla direzione centrista, sono vividamente illustrate
nell'articolo “La verifica marxista della odierna decomposizione
del capitale nell'occidente classico come nella degenerante
struttura russa. Guerra spietata dal 1914 al 1961 all'enfiantesi
bubbone opportunista”, il programma comunista, n. 12,
1961.
101 Le Tesi, in larga parte redatte da Gramsci e da Togliatti,
sono state pubblicate in Trent'anni di vita e di lotte del PCI,
Quaderno di Rinascita n. 2, 1951.
102 Le Tesi che la Sinistra presentò a Lione si possono leggere
nel fascicolo In difesa della continuità del programma
comunista, Ed. il programma comunista, 1989.
103 “La situazione italiana e i compiti del PCI”, ora in A.
Gramsci,
La costruzione del Partito comunista (1923-1926), Einaudi
1971, pag. 503.
104 Cit. in P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano,
vol. II, Einaudi, pag. 509.
105 Cfr. A. Agosti, Togliatti, UTET 1996, pag. 106.
106 Secondo G. Berti (I primi dieci anni di vita del PCI,
Annali Feltrinelli, Anno Ottavo, 1966) questa parola, "che suscitò
infiniti dibattiti interni per ben quattro anni", rispondeva alle
due esigenze di impostare una lotta antifascista di contenuto
democratico e quella di tenere in vita la prospettiva "di una
soluzione soviettista della crisi italiana" (ibid., pag. 159).
107 Il problema della "disciplina" e delle forme di organizzazione
era già stato posto altre volte, su articoli nei periodici
comunisti in Italia e a precedenti Congressi dell'Internazionale.
L'intervento del 1926 può essere letto nell'articolo “La crise de
1926 dans le P.C. russe et l'Internationale: le Ve Exécutif Elargi
de l'I.C.”, in Programme Communiste, n. 69- 70, maggio
1976.
108 L'analisi del ripiegamento dell'Internazionale in questo
biennio (1926-27) cruciale per i rapporti con l'URSS è contenuta
nel lavoro prodotto dal nostro partito subito dopo la Seconda
guerra mondiale e in particolare in Vercesi, La tattica del
Comintern dal 1926 al 1940, pubblicato in quella che allora
era la nostra rivista teorica Prometeo, n. 2-3-4-6-7-8.
109 Se ne veda un esauriente commento nell'articolo “Lo sciopero
generale inglese del 1926”, il programma comunista,
n. 11, 1996.
110 Ci riferiamo in particolare ai due fondamentali articoli di A.
Bordiga: “Il pericolo opportunista e l'Internazionale”, l'Unità,
30 settembre 1925; e “La politica dell'Internazionale”, l'Unità,
15 ottobre 1925.
111 Cit. in G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI,
Annali, anno Ottavo, Feltrinelli, 1966, pag. 325.
112 "Sulla tattica comunista nella rivoluzione cinese", Lo
Stato operaio, n. 5, luglio 1927. Si noti che i massacri
sono avvenuti nell’aprile di quello stesso anno!
113 Così scrive Togliatti in una lettera indirizzata a Germanetto,
un dirigente del PCI in esilio a Parigi, cit. in A. Agosti, Palmiro
Togliatti, UTET, Torino, pag. 125.
114 P.Togliatti, “Rottura necessaria”, in Lo Stato operaio,
14 novembre 1928.
115 Al riguardo si potrà consultare il volume di M. Franzinelli, I
tentacoli dell'Ovra, Ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1999.
116 A. Agosti, Togliatti, cit, pag. 136.
117 Cfr. P. Spriano, Storia del PCI, vol. I, pag. 455:
“perquisizione immediata [...] abbattere senz’altro coloro che
indeboliscono la nostra compagine”.
118 “Verbale CC PCI”, 9 giugno 1930, cit. in P. Spriano, Storia
del PCI, II, pag. 259, nota 3.
119 Sui gruppi di fuorusciti in Belgio durante il fascismo, cfr.
A. Morelli, Fascismo e antifascismo nell'emigrazione italiana
in Belgio (1922-1940), ed. Bonacci, Roma.
120 P. Togliatti (Ercoli), Prefazione a G. Germanetto, Memorie
di un barbiere, Ed. E.GI.TI., Roma, 1931.
121 Prometeo, n. 8, 15 ottobre 1928.
122 Sulla guerra tra franchisti e repubblicani in Spagna, oltre al
già citato Vercesi (“La tattica del Comintern dal 1926 al 1940”, Prometeo,
n. 2-3-4-6-7-8), si può consultare A. Guillamón Iborra, I
bordighisti nella guerra civile spagnola, Quaderni del
Centro Studi “Pietro Tresso”, n. 27.
123 Cfr. Trotzky, La rivoluzione spagnola e i pericoli che la
minacciano, maggio 1931.
124 Una serrata analisi della politica dell'Internazionale e una
quanto meno embrionale analisi critica delle forme economiche e
sociali in atto nell'Unione Sovietica (analisi totalmente
divergente da quelle compiute alla stessa epoca da altri gruppi di
opposizione) vengono elaborate dalla Frazione di sinistra fin dal
1934 e pubblicate su Bilan, che era l'organo in lingua
francese della Frazione. Si veda l'articolo “Partito
Internazionale Stato” in A. Giasanti (a cura di), Rivoluzione
e reazione, ed. Giuffrè, Milano 1983.
125 La citazione, con una piccola modifica, è ripresa da Vercesi,
“La tattica del Comintern”, Prometeo, n. 8, 1947.
126 Vercesi, “La tattica del Comintern”, Prometeo, n. 7,
pag.317-18, 1947. Il PCF assolse perfettamente alla sua funzione
di pacificatore sociale, tra l'altro definendo “hitleriani” i
pochi operai che in quell'occasione si schierarono apertamente su
una posizione di lotta rivoluzionaria.
127 Lo Stato Operaio, n. 5-6, maggio-giugno 1937. Invece,
per Sereni, Bordiga “divenendo una spia e un agente al servizio
del fascismo […] non ha fatto altro che seguire l'onorata carriera
del guappo, del camorrista”: Lo Stato Operaio n. 11, 15
giugno 1938.
128 Alcuni esempi: in Italia vi è solo “qualche criccarella che
sotto l’etichetta trotzkista o bordighiana, spesso in legame con
elementi sospetti, cerca di disgregare il partito” (l’Unità
n.3, febbraio 1933); “è urgente che gli operai d’avanguardia
liquidino definitivamente il colpevole liberalismo che ancora
permette agli agenti bordighisti e trotzkisti del fascismo di
infiltrarsi tra gli operai” (Lo Stato Operaio, n. 11, 15
giugno 1938). Esiste poi una documentazione abbastanza ampia,
anche se certamente incompleta, sulle persecuzioni degli
oppositori italiani di sinistra in Unione Sovietica negli anni
Trenta: dalle prime timide ammissioni da parte PCI successive al
XX Congresso del PCUS (cfr. R. Mieli, Togliatti 1937,
Rizzoli 1964), si passa, tra gli altri, a R. Caccavale, La
speranza Stalin (Ed. Valerio Levi, Roma 1989), a F. Bigazzi
e G. Lehner (a cura di), Dialoghi del terrore (Ed.. Ponte
alle Grazie, Firenze 1991) e infine a E. Dundovich, Tra esilio
e castigo (Carocci, Roma 1998).
129 A. Agosti, Palmiro Togliatti, cit., pag. 202.
130 Ibid., 203.
131 In “Lo Stato Operaio”, n.5, maggio 1936.
132 Ibid., n. 6, giugno 1936.
133 In Spagna, ciò avveniva con il pretesto della difesa dello
stato repubblicano; in Italia, accantonando per certi periodi - in
polemica con GL - l'idea della repubblica democratica solo per
accogliere quella gramsciana dell'Assemblea costituente che, con
le parole di Di Vittorio, “non preclude la strada ad elementi
cattolici e monarchici”.
134 Queste capriole porteranno all'espulsione di alcuni dirigenti
(Terracini, Ravera), all'allontanamento di altri (Valiani) e alla
rottura del fronte con socialisti e liberali.
135 La storia dell’ultimo mezzo secolo ha dimostrato l’esattezza
delle nostre analisi di allora: da un punto di vista di una
ripresa della lotta di classe il campo vincitore è stato il
peggiore.
I rapporti di forza che si sono formati sul piano internazionale
dopo la seconda guerra mondiale, con la vittoria delle democrazie
occidentali, ci sono stati estremamente sfavorevoli. La politica
delle potenze vincitrici, dietro l’ipocrisia di libere elezioni,
di liberi parlamenti, di liberi dibattiti di opinioni, cela
ovunque la realtà della vittoria del fascismo. Il fascismo è nato
in regimi totalitari (Italia, Germania) e, con la sconfitta
militare di questi, è penetrato nella gestione dell’apparato
economico, giuridico, amministrativo delle borghesie
“democratiche”. Esso è lo scheletro del moderno
imperialismo, caratterizzato dalla concentrazione monopolistica
dell’economia, dalla apparenze, dunque, l’epoca del liberalismo e
della democrazia è chiusa e tutte le rivendicazioni pianificazione
a grande scala e diretta dai centri statali. Lo stato politico,
che nell’accezione marxista era il comitato di interessi della
classe borghese e li tutelava come organo di governo e di polizia,
diviene sempre più un organo di controllo e infine di gestione
diretta dell’economia.
Basandosi su un consenso strappato alle masse con la forza
persuasiva dell’opportunismo sindacale, delle istituzioni
ideologiche onnipresenti e onnipotenti (giornali, scuole, istituti
di cultura ecc.), questo sistema conduce alle più spietate forme
di oppressione e controllo sociale. Nonostante le democratiche,
che due secoli fa furono autenticamente rivoluzionarie, ma contro
la società feudale, hanno oggi un contenuto reazionario e
conservatore, contro la futura società comunista.
136 Sui rapporti tra la Frazione di sinistra in esilio, Trotzky e
il trotzkismo, si vedano tra gli altri “Trotsky et la Gauche
italienne”, Programme Communiste, n. 51-52,
aprile-settembre 1971; e “Trotsky, la Fraction de Gauche du PC
d'Italie et les ‘mots d'ordre démocratiques’”, Programme
Communiste, n. 84-85, ottobre 1980-marzo 1981.
137 A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione
della Polonia. Ed. erre emme, Roma 1989, pag. 145.
138 Cit. in P. Spriano, Storia del Pci, cit., vol. IV,
pag. 16.
139 “Lettere di Spartaco”, sett. 1940, cit. in ... .
140 La caduta di Mussolini fu concordata da ampi settori della
borghesia “fascista” e dell'esercito, e votata democraticamente
dal Gran Consiglio Fascista il 24 luglio 1943. Proposte di
rimuovere Mussolini erano state discusse anche con gli ex-nemici e
neo-alleati anglo-francesi. Con l'arresto del Duce, furono sciolti
il Partito nazionale fascista, il Tribunale speciale, lo stesso
Gran Consiglio, cioè le strutture più appariscenti del regime. Ma
le alte cariche politiche, amministrative, economiche rimasero al
loro posto trasformando il rozzo fascismo “plebeo” d'anteguerra in
un regime autoritario altrettanto spietato nella repressione
antioperaia, come dimostrerà la storia dei mesi successivi.
141 P. Togliatti, “Alla lotta, alle armi, per la formazione di un
governo nazionale provvisorio di pace”, 3 agosto 1943. Da
Radio Milano-Libertà, Ed. Rinascita 1974.
142 P. Togliatti, “La nazione chiede al nostro governo una vera e
formale dichiarazione di guerra alla Germania”, 15 settembre 1943,
ibid..
143 Storia della sinistra comunista, vol. I, Ed. Il
programma comunista, Milano 1964, p. 97.
144 Sulle posizioni teoriche espresse da diversi gruppi di
opposizione, organizzati in Italia durante le II Guerra Mondiale,
si veda ad es. A. Peregalli, L'altra Resistenza. Il PCI e le
opposizioni di sinistra 1943-1945. Ed. Graphos, Genova 1991.
145 “Il partito comunista aveva sempre detto, dall’inizio della
guerra, che la questione della monarchia poteva essere lasciata in
disparte, se ciò fosse stato necessario per salvare l’Italia da
una catastrofe attraverso una larga unione di cittadini di tutte
le opinioni politiche”. M. e M. Ferrara, Conversando con
Togliatti, Ed. Cultura Sociale, Roma 1953, pag. 318.
146 A. Natta, “Introduzione” a Togliatti editorialista
1962-1964, Editori Riuniti, 1971, pag. XVI.
147 G. Dimitrov, Diario. Einaudi, 2002, pag. 693.
148 Questa citazione (e la seguente) è tratta da P. Togliatti, La
politica di unità nazionale dei comunisti, Ed. Robin, Roma,
1999, pag. 24.
149 Ibidem, pag. 74.
150 F. Platone, “Vecchie e nuove vie della provocazione
trotzkista”, Rinascita, aprile 1945. L'autore di questo
linguaggio, oltre ad essere personalità del PCI, era anche cognato
di Mario Acquaviva, noto esponente internazionalista che, tre mesi
dopo questo articolo, fu ucciso da sicari “comunisti”.
151 Umberto Terracini, che nel 1921 espose (in modo peraltro
piuttosto scorretto) le posizioni della Sinistra davanti a Lenin
al III Congresso dell'Internazionale Comunista, venticinque anni
dopo era presidente dell'Assemblea costituente e cofirmatario
della Costituzione assieme all'ex-fascista Enrico De Nicola e al
democristiano Alcide De Gasperi. Vedi U. Terracini, Come
nacque la costituzione, a cura di Pasquale Balsamo, Editori
Riuniti, Roma 1978.
152 Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Ed. Laterza, Bari, pag. 458.
La cosa, sia detto esplicitamente, non ci scandalizza.
Togliatti fa il mestiere per il quale è pagato, ed è quello di
assicurare la continuità nell’apparato dello Stato al
passaggio di consegne tra fascismo e democrazia. Per inciso,
l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 sarà estesa anche ai
giudici del Tribunale speciale fascista, proprio quello che aveva
messo in galera vent’anni prima Antonio Gramsci e poi
migliaia non di antifascisti, ma di proletari rivoluzionari che
tenevano ben stretta nelle mani la bandiera della lotta di classe.
L’altro arnese dell’antifascismo italico, Pietro Nenni, è nominato
il 4 luglio 1945 Alto Commissario per la punizione dei delitti e
degli illeciti del fascismo, ed ha in consegna gli archivi dei
confidenti – le spie – dell’OVRA, la polizia politica fascista.
Questi archivi passeranno poi di mano al governo
De Gasperi, non prima che alcune voci accusino il Nenni di aver
fatto sparire il fascicolo a lui intestato. Una lista viene infine
pubblicata il 2 luglio 1946. Dei circa 900 nominativi originali,
un terzo è depennato, il resto rimane “negli archivi, al riparo da
occhi indiscreti” (M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA,
Bollati Boringhieri 1999, pag. 439).
153 Fra le tante “confessioni” del periodo, suona ben alta per la
cinica motivazione quella di Pietro Secchia, uno dei massimi
dirigenti del PC stalinizzato, facile al linguaggio truculento
contro i compagni dell’opposizione, che considera a più riprese
sulla stampa del proprio partito alla stregua di agenti della
Gestapo: “Un po’ di opportunismo c’è in tutti.
Non si può sempre gridare la verità o quello che si crede la
verità ad alta voce […] Dire al proprio partito quel che sipensa
della sua politica significherebbe andarsene ben presto. Certe
cose occorre dirle, bisogna dirle, ma con discrezione, al momento
opportuno e spesso ovattate […] Tra le due esigenze: dire sempre
ad alta voce la verità oppure ovattarla, talvolta tacere, occorre
arrivare ad un compromesso”. Cit. in E. Collotti (a cura di),
Archivio Pietro Secchia 1945-1973. Annali, anno XIX, Ed.
Feltrinelli 1978, pag. 591.
154 Cfr. Luigi Cortesi, Le origini del PCI, Franco Angeli, Milano
1999.
155 In questi termini, che non sono di pessimismo rivoluzionario,
ma che invece discendono da una lucida analisi marxista della fase
storica di riflusso che si era aperta su scala mondiale e che
imponeva la resistenza sui programmi invarianti del marxismo, si
espresse Amadeo Bordiga in una lettera inviata nell'autunno al
comunista di opposizione Karl Korsch, fattosi promotore di un
tentativo di riorganizzazione dei gruppi rivoluzionari che non si
riconoscevano nella direzione dell'Internazionale Comunista.
Questa lettera si può leggere sul n.4 dei “Quaderni del Programma
Comunista” (La crisi del 1926 nel partito e nell'Internazionale),
Ed. Il Programma Comunista, Milano, aprile 1980, pag. 5-8.
156 Per una collocazione ideologica di Gramsci nell'ambito
dell'idealismo, si veda Christian Riechers, Gramsci e le ideologie
del suo tempo, ed. Graphos, Genova 1993. Per una critica marxista
alle formule volontaristiche gramsciane, si veda il nostro testo
“I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina
e nella storia della lotta proletaria internazionale”, il
programma comunista n. 15, 1957 (ora in Tracciato d’impostazione.
I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina
e nella storia della lotta proletaria internazionale, Ed. Il
Programma Comunista, Milano 1974.