Si è scritto molto riguardo alle idee di Gramsci sulla politica e sulla società e gli è stata attribuita una vasta scelta di etichette. Egli ha sofferto sia per esagerata lode sia per ingiusta diffamazione.1 La diversità d’interpretazione scaturisce, almeno parzialmente, dal fatto che i suoi scritti non sviluppano le sue idee in un modo ordinato e definitivo, ma sono, per via delle condizioni in cui furono composti, frammentari e incompleti. La maggior parte dei primi scritti sono brevi pezzi giornalistici prodotti nel fervore di un intenso coinvolgimento politico, dei quali egli stesso disse che “erano scritti alla giornata e dovevano, secondo me, morire dopo la giornata.”2 Il suo successivo lavoro di carattere più filosofico, scritto in prigione in circostanze di profondo tormento fisico e spirituale, riflette, nella sua vastità di disegno ma esecuzione incompiuta, le limitazioni impostegli da quelle condizioni, che comportavano un limitato accesso ai materiali necessari per lo studio e la paura di azioni punitive da parte della censura.
Quando viene interpretato il pensiero di chi scrive in
tali condizioni, è necessario che il lettore usi cautela nei
giudizi. Una particolare fonte di errore consiste nel formulare
giudizi su un autore basati su affermazioni prese isolatamente o
su un’incompleta lettura dei testi. Questo tende a frammentare
ancor più le sue idee. Per una visione bilanciata della struttura
del pensiero di Gramsci, è essenziale una lettura dettagliata di
quanto scrisse nel contesto in cui fu scritto.3 Egli stesso
indicava la necessità di un tale metodo di studio affermando che
la coerenza di qualsiasi visione del mondo “è da ricercare non in
ogni singolo scritto o serie di scritti ma nell’intiero sviluppo
del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della
concezione sono impliciti.”4 Egli insiste sulla necessità della
“ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo”,
piuttosto che arrivare a conclusioni da “singole affermazioni
casuali” e “aforismi staccati.”5
Un ostacolo ulteriore ad una giusta valutazione del pensiero di
Gramsci deriva da un altro fattore che egli indica quando dice che
“le interpretazioni del passato, quando del passato stesso si
ricercano le deficienze e gli errori . . . non sono ‘storia’ ma
politica attuale in nuce.”6 Questa osservazione si rivela di
particolare rilevanza nel caso di Gramsci, dal momento che è stato
interpretato frequentemente secondo la posizione politica
dell’interprete.7 Terreno comune tra gli interpreti di
Gramsci, comunque, è di riconoscerlo come marxista e materialista.
Sia amici e nemici ideologici sia quelli che reclamano neutralità
ideologica sono generalmente d’accordo su questo punto,8 ed è
importante rilevare come tutti siano concordi nel sostenere che la
visione dell’uomo nel pensiero di Gramsci sia in linea con la
teoria marxista, fatto non sorprendente, dal momento che i suoi
scritti sembrano contenere molti fattori espliciti
a sostegno di questa lettura.
Perfino i suoi primi articoli di carattere giornalistico, che riguardavano eventi contingenti e dunque avevano relativamente poco da dire su temi di carattere ideologico, sembrano parlare forte e chiaro. Quando nel novembre del 1921, per esempio, Gramsci discute sul tema dei leader e della leadership, scrive che il giornale Ordine Nuovo da lui diretto si serve del “metodo marxista” e che Marx è “il più grande libertario apparso nella storia del genere umano.”9
Gli scritti composti in prigione, che danno molto più spazio a queste considerazioni, sembrano puntare nella stessa direzione. In essi Gramsci sostiene, come Marx,10 che la natura umana non è qualcosa di fisso, astratto e immutabile, ma che è “l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita” e che “questa coscienza solo può indicare ciò che è ‘naturale’ o ‘contro natura’.”11 La natura umana non è, egli afferma, “qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi,”12 essa cambia e con essa le idee che consolidano la maniera in cui l’essere umano si comporta, in quanto queste idee sono parte della “coscienza storicamente determinata” dell’uomo, e citando F. Engels dice ancora che “gli ‘strumenti intellettuali’ non sono nati dal nulla, non sono innati nell’uomo, ma sono acquisiti, si sono sviluppati e si sviluppano storicamente.”13
Uno
dei modi con cui Gramsci evidenzia l’idea che la natura umana è
inseparabile dalle idee di una società storicamente determinata (e
perciò che l’esistenza è inseparabile dal pensiero) è attraverso
il riferimento ad alcune delle grandi invenzioni e scoperte
avutesi nella storia. L’elettricità, egli sostiene, è sempre
esistita ed è stata osservata nella sua forma naturale, ma,
prima che fosse realmente capita e utilizzata per l’uso sociale,
non si può affermare che abbia avuto un significativo effetto
sulla consapevolezza e le relazioni umane. Inoltre “bisognerebbe
poi mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte
non è un valore: l’‘originalità’ consiste tanto nello ‘scoprire’ quanto
nell’’approfondire’ e nello ‘sviluppare’ e nel ’socializzare’,
cioè nel trasformarla in elemento di civiltà universale.”14
Questa idea della natura umana come insieme di attività umane,
sociali e produttive storicamente determinate e non come qualcosa
di fisso ed immutabile è vista da Gramsci come la grande
innovazione del marxismo che contrasta con altre concezioni della
natura umana che esistevano prima di Marx e continuavano a essere
ampiamente sostenute, in particolare la tradizionale visione
cattolica dell’uomo come un essere fisso in un eterno e immutabile
modello di male e di depravazione a causa del peccato
originale.15 Egli menziona anche
pensatori contemporanei come Ugo
Spirito, Arnaldo Volpicelli e Benedetto Croce, che non
possedevano una concezione cattolica dell’uomo, ma tuttavia
“legata alla concezione della ‘natura umana’ identica e senza
sviluppo”, che considera gli esseri umani come “fondamentalmente
uguali nel regno dello Spirito.”16
Gramsci vedeva chiaramente che ogni teoria politica porta con sé
una concezione o almeno delle tacite assunzioni sulla natura
umana. La concezione di Gramsci sembra essere chiaramente esposta
e dice esplicitamente che gli uomini sono essenzialmente
adattabili e flessibili, sono sia plasmati dall’ambiente sia
capaci di modificarlo con la loro attività. Non c’è niente,
perciò, nel carattere di base dell’uomo che gli impedisca di
produrre e gestire il tipo di società libertaria della quale
Gramsci stesso vede nel marxismo un sostegno.17 Ma il problema
sorge quando Gramsci si sposta dalla visione teorica alla pratica
politica. Tra le due sembra esserci una discontinuità.
Ciò appare molto chiaramente se consideriamo la sua visione dei
possibili cambiamenti politico- sociali e le sue concrete proposte
per promuoverli. La sua reputazione è quella di un pensatore
politico e attivista rivoluzionario il cui obiettivo è di liberare
le classi oppresse dalle catene con le quali la repressiva
organizzazione sociale del capitalismo le tiene legate. Eppure un
accurato esame di che cosa Gramsci ha da dire intorno alla società
che deve sostituire il capitalismo suggerisce che il pensatore
abbia poca fiducia nella capacità degli esseri umani di cambiare
fondamentalmente la loro "natura", ossia di adattarsi a un nuovo
ambiente sociale. La sua principale accusa alla società
capitalistica, l’intrinseca ineguaglianza, sembra non trovare
soluzione nella nuova società da lui auspicata. Se l’ineguaglianza
deriva, come sostiene la teoria marxista, dalla legittimazione
dell’esercizio del potere da parte dei pochi sulla moltitudine,
allora una società fondata sull’eguaglianza dovrebbe abolire
l’autorità di una minoranza. Ma la visione gramsciana del futuro
non contiene questa idea, punta invece ad un cambiamento dal
potere di una minoranza a quello di un’altra – da quello dei pochi
che apertamente agiscono nei loro propri interessi a quello dei
pochi che sostengono di agire nell’interesse della maggioranza.
Ora, se gli esseri umani sono un prodotto sociale, se sono quelle
creature formate in modo flessibile e storico come la teoria
marxista sostiene siano, perché dovrebbe essere necessaria una
forma qualsiasi di autorità socialmente imposta su di loro? Perché
non dovrebbero essere capaci di operare liberamente e
collettivamente come maggioranza? In altre parole, perché Gramsci
non segue interamente le implicazioni della sua analisi marxista
della natura umana? Perché non prescrive la forma di
organizzazione sociale fondata sul consenso della maggioranza da
essa indicata?
Prima di provare a rispondere a queste domande, sembra utile
considerare molto più attentamente la visione gramsciana della società post-rivoluzionaria. L’elemento
di maggiore importanza qui è il suo concetto di Stato. La sua
analisi della natura e della funzione dello Stato sembra del tutto
fedele al marxismo ortodosso. Lo Stato è essenzialmente strumento
di repressione, esiste per permettere a una classe di dominarne
un’altra o altre. L’esistenza dello Stato, perciò, indica una
società divisa in classi in cui non c’è libertà per quelli che
sono dominati per via della coercizione che lo Stato gli impone.
La soluzione marxista sarebbe data dall’abolizione della società
di classe e del dominio di classe, che per definizione significa dall’abolizione dello Stato.18 Ma qual è la
soluzione di Gramsci?
Ci sono, è vero, un piccolo numero di
osservazioni nei suoi scritti che puntano nella direzione appena
indicata. Un articolo scritto all’inizio del 1920 definisce “la società
comunista” come l’”Internazionale delle nazioni senza Stato”19 e
più tardi dalla prigione Gramsci ribadisce ciò parlando della
necessità di un “sistema di principii che affermano come fine
dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il
riassorbimento della società politica nella società civile.”20
Ancora, poco prima della sua prigionia, si era domandato,
rispondendo positivamente, “Siamo noi in grado di riorganizzare la
produzione in modo da condurre la società intiera su un nuovo
binario che porti alla abolizione delle classi e all’eguaglianza
economica?”21
Ma un tale ordinamento non coercitivo senza Stati e senza classi,
che la sua idea della natura umana dovrebbe consentire, viene
menzionato negli scritti solo fugacemente. La quasi costante e
travolgente spinta della sua analisi e delle sue raccomandazioni
per l’azione politica e il cambiamento sociale non è a favore
dell’eliminazione delle strutture statali e delle divisioni di
classe, ma dello stabilirne di nuove, solo qualitativamente
differenti da quella esistenti. Il fatto che Gramsci non contempli
seriamente la possibilità di un’organizzazione politico-sociale
senza Stato risulta chiaro da varie asserzioni dell’idea che la
coercizione statale sia essenziale all’esistenza della società
umana. Alcune si trovano negli articoli che scrisse immediatamente
dopo il colpo di stato bolscevico in Russia nel novembre del 1917.
Il sostegno che Gramsci dà a Lenin è totale. Lenin, secondo
Gramsci, non ha abolito lo Stato e la coercizione che esso implica
e sostiene che aspettarsi che egli faccia questo sarebbe “davvero
assurdo, come sarebbe assurdo dar moglie ad un bambino di due anni
e aspettarsi un figliolo dopo i nove mesi dalla cerimonia.”22
Sembra un argomento poco coerente, dal momento che quello che sembra “assurdo” non è la seconda parte dell’analogia (“aspettarsi un figliolo dopo i nove mesi”), ma la prima parte (“dar moglie a un bimbo di due anni”) da cui dipende.
Egli prosegue nello stesso articolo specificando che quello che deve succedere e sta succedendo in Russia è l’“abolizione di ogni vecchio istituto giuridico, abolizione di ogni vecchio privilegio, chiamare all’esercizio della sovranità statale tutti gli uomini.” Quindi, lungi dall’abolire lo Stato, esso deve essere rafforzato, anche se su quelle che Gramsci vede come nuove basi. La sua successiva discussione sul bolscevismo va oltre e generalizza l’esperienza russa. Lo scrittore asserisce, in un articolo del maggio del 1919, che “la società non può vivere senza Stato: lo Stato è la società stessa in quanto concreto atto di volontà superiore all’arbitrio individuale, alla fazione, al disordine, alla indisciplina individuale.”23
Due mesi più tardi, in un articolo antianarchico intitolato “Lo stato e il socialismo”, applica questa idea ad una specifica società futura e insiste che “il comunismo non è contro lo ‘Stato’, anzi si oppone implacabilmente ai nemici dello Stato.”24 Adesso, il nuovo tipo di Stato sostenuto, basato sul modello che Gramsci ritiene in sviluppo in Russia, viene chiamato “lo Stato dei Consigli operai e contadini nel quale si incarnerà la dittatura proletaria.”25 Che un tale Stato possa sbarazzarsi dell’esistenza di classi si oppone alla fondamentale idea marxista che la stessa esistenza dello Stato presupponga l’esistenza di classi antagonistiche. L’idea di “dittatura”, inoltre, anche se non intesa nel suo moderno senso totalitario, implica dominio di un gruppo su un altro.
E quest’idea sembra essersi rafforzata nel pensiero di Gramsci quando più tardi asserirà esplicitamente che la società post-rivoluzionaria sarà divisa in classi, “poiché la dittatura del proletariato non è che la forma suprema della lotta di classe proletaria.”26
Gli scritti dalla prigione reiterano questa visione, ma, per ragioni di pratica necessità, usano una maggiore cautela e un tipo di linguaggio più astratto. Le idee riguardo alla classe, lo Stato e la dittatura proletaria sono espresse più filosoficamente nei termini della necessità di guide e guidati, governanti e governati nella condotta degli affari umani. La volontà collettiva dei rivoluzionari è descritta come “un rapporto continuato tra governanti e governati.”27
I Quaderni saranno permeati da questa
idea come pure dai termini, spesso ripetuti, “disciplina” e
“coercizione”. Questi termini erano già molto presenti negli
scritti precedenti al carcere, quando Gramsci
parlava della situazione contemporanea e
della lotta immediata che essa rendeva
necessaria, ma nei Quaderni il contenuto filosofico con cui
vengono esposti dà loro una più chiara applicazione agli affari
umani in generale.
Tutto questo non appare in sintonia con l’analisi esplicita di
Gramsci sulla natura umana e solleva seriamente la questione se
tale analisi possa essere accettata come la teoria autentica della
natura umana che sta alla base delle sue idee e raccomandazioni
per un cambiamento politico e sociale. Un pensatore non sempre
dichiara esplicitamente quale concezione della natura umana sta
alla base delle sue idee politiche, sia perché gli può sembrare
scontata sia perché egli stesso può non averla intellettualizzata.
Può ugualmente essere che la teoria della natura umana che uno
scrittore dichiara non sia quella che emerge da un'analisi del suo
pensiero. Dobbiamo considerare questa possibilità nel caso di
Gramsci. Ci aiuta il fatto che nei suoi scritti, assieme a ciò che
viene esplicitamente dichiarato sulla natura umana, ci sono anche
elementi intorno ad una differente prospettiva, che ci
conducono in un’altra direzione. Questa prospettiva emerge
dall’analisi di una serie di passaggi poco considerati che si
trovano sparpagliati in varie parti dei suoi scritti, e
specialmente nei Quaderni e nelle Lettere dal carcere, una
prospettiva della quale lo stesso Gramsci non fa una esplicita
professione e che dunque sembra non costituire per lui una vera e
propria concezione. Il fatto stesso che questi passaggi non
facciano parte di specifiche sezioni del suo lavoro suggerisce che
egli stesso non li considerava fondamentali..
La maggior parte di essi si trovano in alcune sue lettere scritte
dalla prigione nell’arco di circa sette anni a sua moglie e a sua
cognata. Queste lettere contengono commenti sul modo in cui vuole
che i propri bambini vengano cresciuti e, per estensione, sul
mantenimento e sull’educazione dei bambini in generale. La parola
chiave in questi passaggi è “coercizione”. All’idea sostenuta
dalla moglie che “nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che
occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente,
senza coercizione, lasciando fare alle forze spontanee della
natura e che so io”, egli risponde: “Io invece penso che l’uomo è
tutta una formazione storica, ottenuta con la coercizione . . . e
solo questo penso: ché altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o
di immanenza.”28 Il significato di questo passaggio si trova
nell’opposizione tra il punto di vista di Gramsci e quello
della moglie.
Gramsci identifica l’inevitabile coercizione rappresentata dalle
condizioni storiche sotto cui l’uomo opera con le attive e
coscienti forme di coercizione che gli esseri umani possono usare
per provare e forgiare il comportamento di altri. L’applicazione
di quest’idea all’educazione dei bambini punta a favore di quello
che un critico ha chiamato “un’intelligenza dirigente”, con la
chiara implicazione che, se la coercizione non viene usata, si
ottiene un comportamento indesiderabile.29 Ciò costituirebbe
una visione distintamente antimaterialista in quanto attribuirebbe
agli esseri umani tipi di comportamento innati, ossia astorici, ma
esso sembra essere il modo di vedere che Gramsci attribuisce alla
moglie e che in lei critica.
Se si considera però attentamente la
questione, è l’idea di sua moglie, cioè l’idea che i bambini a cui
è consentito di interagire con l’ambiente svilupperanno, se
quell’ambiente non è oppressivo, forme di comportamento improntate
alla cooperazione, che sembra essere materialista, mentre Gramsci
adotta la posizione idealista secondo la quale i bambini cresciuti
senza coercizione familiare tenderanno naturalmente a
comportamenti socialmente indesiderabili. Le implicazioni di ciò
per il pensiero di Gramsci sono importanti, perché indicano la ben
radicata convinzione nel pensatore che l’uomo, lungi dall’essere
una creazione essenzialmente storica, sia un essere inerentemente
antisociale le cui tendenze indesiderabili devono essere tenute
sotto controllo da un’autorità superiore.
Ulteriori elementi di questo consistente e in gran parte
inarticolato pessimismo riguardo alla natura dell’uomo si trovano non soltanto in altri luoghi delle Lettere
dal carcere, ma anche in un certo numero di osservazioni di parte
dei Quaderni. Qui, in merito ai moderni metodi di educazione,
Gramsci si riferisce al bisogno “del vigile ma non appariscente
controllo del maestro.”30 Inoltre, sostiene che l’abitudine allo
studio non è qualcosa da cui un bambino possa trarre piacere
spontaneo, ma che questa abitudine può prodursi solo attraverso l’acquisizione forzata: “è
un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza
..... si ha a che fare con ragazzetti, ai quali occorre far
contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di
compostezza anche fisica ..... che non si possono acquisire senza
una ripetizione meccanica di atti disciplinari e meccanici.” 31 Ciò
risulta, sempre secondo l’autore, dal fatto che “l’educazione è
una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche
elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare
l’uomo ‘attuale’ alla sua epoca.”32
Un atteggiamento dello stesso tipo viene illustrato in termini più
generali quando Gramsci discute delle opinioni espresse da altri a
proposito di leggi e abitudini sociali. Si riferisce, senza
nessun commento diretto ma con un evidente tono di derisione, alle
teorie libertarie dello scrittore tedesco Hans Frank, per il quale
l’uomo è “infelice e cattivo finché è incatenato dalla legge, dal
costume, dalle idee ricevute” e nel quale “l’esame personale si
oppone al principio d’autorità, che viene attaccato in tutte le
sue forme: dogma religioso, potere monarchico, insegnamento
ufficiale, stato militare, legame coniugale, prestigio paterno e,
soprattutto, la giustizia che protegge queste istituzioni caduche,
che non è che coercizione, compressione,
deformazione arbitraria della natura
umana.”33
Un passaggio successivo intitolato “I costumi e la legge” conferma la disapprovazione di Gramsci per questo modo di vedere quando descrive tali punti di vista come “un residuo dello spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su un concetto della ‘natura umana’ astrattamente ottimistico e facilone.”34
Un ulteriore aspetto del
pessimismo di Gramsci sulla natura umana è la sua credenza
espressa a varie riprese in una fondamentale animalità nell’uomo,
contro la quale egli deve perpetuamente lottare. Tutto ciò emerge
dalle sue idee sull’educazione (lo abbiamo visto, ad es., alla
nota 32), ma è presente anche in altre parti dei suoi scritti. Nei
Quaderni, sotto il titolo “ ‘Animalità’ e industrialismo”, si
riferisce allo sviluppo industriale come a “una continua lotta
contro l’elemento ‘animalità’ dell’uomo, un processo, spesso
doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti naturali,
cioè animaleschi e
primitivi.”35
Questo stesso concetto si trova anche in una delle lettere che alla fine del 1926 Gramsci spedisce a sua cognata da Ustica, dove fu tenuto prima del processo. Riferendosi ai comuni criminali ivi imprigionati, scrive: “tutto ciò che di elementare sopravvive nell’uomo moderno, rigalleggia irresistibilmente.”36
Già nel 1917, un suo articolo aveva riassunto il suo
profondo scetticismo per quanto riguarda la capacità
dell’uomo di migliorare la vita senza metodi coercitivi: “Gli
uomini sono pigri, hanno bisogno di organizzarsi, prima
esteriormente in corporazioni, in leghe, poi intimamente nel
pensiero, nella volontà . . . di una incessante continuità e
molteplicità di stimoli esterni.”37
Ciò che tutte queste osservazioni di Gramsci indicano è una teoria
della natura umana molto lontana da quella che pretende di
sostenere e, forse meno sorprendentemente, molto più in armonia
con la natura e il senso delle sue attività e prescrizioni
politiche. Questa “tacita” teoria che vede la natura umana non in
termini marxisti, come un esclusivo prodotto della storia, ma come
caratterizzata da un’inerente tendenza verso forme di
comportamento antisociali dimostra una paradossale somiglianza con
un’idea che Gramsci molto più esplicitamente rifiuta quando si
occupa di religione e cristianesimo con il suo concetto del
peccato originale. Qui, ancora, la visione consciamente dichiarata
da Gramsci riflette il marxismo ortodosso. Il Cristianesimo è
“questa religione, imbastardita e incretinita, ..... questa fede,
incapace di sollevare l’animo al disopra d’ogni bassura, .....
questi riti diventati abitudini passive, superstizioni grottesche.”38 Ideologicamente è un “elemento .....
oppiaceo, tendente a mantenere determinati stati d’animo di
aspettazione passiva di tipo religioso.” 39 Il suo più grave
difetto dal punto di vista del progresso umano è quello di identificare “la causa
del male nell’uomo stesso individuo.”40
Mentre Gramsci critica la teoria della storia di Benedetto Croce e ciò che vede come sue opportuniste revisioni di essa, elogia Croce per aver fornito “il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani”, cioè l’idea che “l’uomo moderno può e deve vivere senza religione.”41 Si vede perciò come Gramsci, pur rifiutando la religione per la passività da essa incoraggiata e per la concezione dell’uomo che essa preconizza, ossia l’uomo come un essere innatamente incapace di migliorare la società per via della sua propria natura,42 sembra tuttavia adottare una concezione simile nel suo pensiero “secolare”, e questa concezione, pure usata nel contesto secolare, viene spesso espressa con l’uso di un vocabolario quasi religioso, in particolare col frequente uso, affatto occasionale, della parola “fede”. Non è perciò forse esagerato proporre che la scelta di questo vocabolo molto specifico sia indicativa di un suo radicato attaccamento all’idea che gli uomini abbiano bisogno di osservare e accettare le imposizioni di qualche autorità suprema?
Negli scritti che precedono il carcere, specialmente nel periodo in cui il Fascismo stava ottenendo la supremazia, questa stessa parola viene usata per incoraggiare tutti i sostenitori dell’opposizione comunista a fare causa comune. In un contesto del tipo “noi siamo tranquilli, perché abbiamo una bussola, perché abbiamo una fede ..... la nostra concezione del mondo si sintetizza nella profonda persuasione che il male non riuscirà mai a prevalere”, le implicazioni morali sono chiarissime.43 Lo sono anche quando Gramsci scrive che “nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi.”44
La frequente associazione di tale linguaggio con un
vocabolario militare è anche indicativa di un’ideologia basata
sulla necessità che una massa di uomini segua i pochi che
comandano e dia loro un’indiscussa obbedienza: “lavorare per
acquistare la simpatia delle grandi
masse, della parte più povera della classe
operaia che è anche la più numerosa e che darà le più folte e
fedeli schiere di soldati alla rivoluzione.”45
Quest’idea, espressa nel linguaggio filosofico dei Quaderni,
riveste una più forte suggestività morale: “La volontà reale si
traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della
storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo
appassionato che appare come un sostituto della predestinazione,
della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali.”46 Egli
cita con approvazione anche la visione di Croce secondo cui “È
religione ogni filosofia, cioè ogni concezione del mondo, in
quanto è diventata fede, cioè considerata non come attività teorica (di creazione di
nuovo pensiero) ma come stimolo all’azione (attività
etico-politica concreta, di creazione di una nuova storia).”47
La
nozione di un’azione politica di massa come in fondo una forma di
“fede” che proviene da una fonte profondamente morale e non
razionalizzata serve da ulteriore prova dell’attaccamento di
Gramsci alle stesse categorie “religiose”, la cui validità egli
nega con argomenti marxisti ma che, in ultima analisi, sembrano
stare alla radice del suo modo di vedere la natura e le limitazioni
dell’azione politica.
Questo attaccamento può inoltre essere visto come un fattore
chiave nello sviluppo dell’idea per cui Gramsci è più famoso,
quella di “egemonia”. L’“egemonia” gramsciana vede come principio
dinamico del cambiamento sociale la diffusione delle idee di un
nuovo gruppo sociale progressista tra le masse attraverso gli
“intellettuali” di questo gruppo. Il loro ruolo è di far penetrare
quelle idee nella “società civile”, ossia in tutte le istituzioni
civili (educazione, cultura, religione, legge, mezzi di
comunicazione etc.) di cui è composta. Solo quando questo compito
sarà stato attuato e l’unità ideologica tra gli intellettuali e le
masse sarà realizzata, esisterà quello che Gramsci chiama il
“blocco storico”, e a quel punto i tempi diventeranno maturi per una concreta azione
politica.48
Questo processo, secondo Gramsci, è sempre
accaduto nella storia: una nuove classe dominante ha preso e
mantenuto il potere solo nel momento in cui un
apparato ideologico efficace ha
fatto fluire le sue idee
attraverso le
istituzioni della società civile. Il medioevo e l’aristocrazia
rinascimentale, per esempio, ebbero la chiesa e il clero come
forza egemonizzante, mentre per l’Italia moderna Benedetto Croce è
stato individuato come il principale rappresentante dell’egemonia
intellettuale dello stato borghese.49 Gli intellettuali di
un gruppo sociale progressista hanno
bisogno allora di vincere la
battaglia ideologica contro i funzionari intellettuali dell’autorità costituita, il cui scopo è
di rafforzare la fedeltà alla società esistente, rappresentandola
come naturale e neutrale.
La vecchia egemonia, in altre parole, deve essere sostituita da una nuova egemonia affinché le nuove idee possano essere messe in atto e sia istituito un nuovo ordine sociale.50 Quest’idea, apparentemente, può sembrare comporti implicazioni del tutto democratiche per la futura società: la rivoluzione politico-sociale può essere effettuata solo quando il desiderio di cambiamento sociale si è diffuso nell’intera società. Da questa teoria dell’”egemonia”, però, Gramsci non trae tali implicazioni democratiche. Invece vede il “ceto” degli intellettuali, una volta che avrà fatto il lavoro di diffusione delle idee rivoluzionarie, come un ceto di nuovi capi e fautori di ordine,51 e l’appoggio delle masse a tali idee non sarà basato sulla comprensione intellettuale e su un desiderio di partecipazione democratica, ma sul “consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentalmente dominante, consenso che nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione.”52
Gramsci prova ad un certo punto a identificare accettazione emotiva ed entusiasmo tra le masse con la comprensione intellettuale usando la formula “adesione organica in cui il sentimento- passione diventa comprensione e quindi sapere”53, ma nello stesso tempo specifica la necessità di una “preparazione ideologica di lunga lena” e il bisogno di “risvegliare le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo scoppio simultaneo.”54
Il fatto è che Gramsci non cessa di essere profondamente influenzato da Lenin, sia dalla teoria politica del leader russo che dalla sua pratica rivoluzionaria. Il concetto di egemonia, considerato da alcuni un rifiuto del leninismo perché enfatizza la penetrazione a lungo termine delle idee tra le masse mentre Lenin era esplicitamente contrario all’idea di aspettare che queste si educassero politicamente,55 si accorda invece molto bene con la nozione leninista che la rivoluzione debba essere condotta e la nuova società quindi governata da una minoranza già politicamente matura,56 e ciò perché per Gramsci la natura umana tende in una direzione antisociale e dunque, non importa quanto siano favorevoli le circostanze, l’essere umano ha bisogno di coercizione per non essere autodistruttivo. Non è sorprendente, perciò, che la nascita di una nuova egemonia porti con sé per Gramsci la necessità di “fede”, di “disciplina” e di “coercizione”, che, tradotto in termini politici, significa un controllo saldo e centralizzato.
Per Gramsci, come per Lenin, la
rivoluzione continua ad essere l’inizio di una “Weltanschauung”
non il culmine di essa e dunque possiede un significato
fondamentalmente idealistico.57
La necessità di una strategia di lunga preparazione ideologica
espressa da Gramsci nella teoria dell’egemonia venne fatta propria
dopo la sua morte da raggruppamenti e partiti politici di
sinistra, che se ne servirono come d’una potente struttura teorica
per giustificare attività politiche del tutto pragmatiche.58 La
forza di questa struttura è che essa conferisce credenziali
democratiche ad aperti obiettivi rivoluzionari, consentendo
allo stesso tempo ad immediate politiche pragmatiche
d’essere eventualmente rappresentate come una diffusione delle
idee rivoluzionarie, ossia come “egemoniche”. Ma quanto si trova
negli scritti di Gramsci suggerisce che la rivoluzione che
egli immagina non avrebbe caratteristiche democratiche,
ossia di eguale partecipazione in termini di comprensione e
autorità. La funzione della leadership non è abolita dall’idea
gramsciana di egemonia. Il gruppo sociale che ha compiuto il
lavoro egemonico continuerà, dopo il cambiamento rivoluzionario, a
dare ordini e ad essere obbedito da quelli ai quali li si dà,
perché sarà l’unico a possedere la comprensione atta a fare
funzionare la società che esso stesso ha concepito. È chiaro,
però, che Gramsci non riconosce in questa visione un tipo di
società di classe e ciò viene espresso nella sua critica a un
articolo del pensatore francese Robert Michels intitolato “Les
Partis politiques et la contrainte sociale”. Qui Gramsci critica
l’idea di Michels che se i lavoratori si danno nuovi capi, si
danno solo nuovi padroni, sostenendo che “l’orchestra non crede che il direttore sia un padrone
oligarchico.”59
Questo ci porta infine a considerare la visione di Gramsci di una
società post-rivoluzionaria. L’ insistenza sulla “coercizione”
come elemento essenziale della sua gestione deriva naturalmente
dalla sua idea di come la nuova società deve essere instaurata.
Questa idea a sua volta è in armonia con la sua “teoria
silenziosa” della natura umana, cioè la teoria che l’uomo sia di
natura difettoso e debba per forza essere sottoposto a pressione e
coercizione per assicurare il mantenimento dell’ordine sociale.
Se
consideriamo questo il fondamento del suo pensiero, le aspirazioni
sociali e politiche che ne sorgono sembrano ampiamente coerenti
presentando una visione della società e dei cambiamenti sociali
che, sia che uno l’accetti come validi o no, ha una salda coerenza
intellettuale. Paradossalmente, l’unico elemento nel suo
pensiero che sia significativamente in disaccordo con la teoria
della natura umana su cui è basato è l’idea fondamentalmente
marxista di un ordinamento sociale che abolisca l’autorità
dall’alto insieme con la sua espressione politica, lo Stato. Ma
non si tratta di un elemento che ha grande significato per
Gramsci. Compare solo di rado nei suoi scritti e questo fatto
dimostra la sua marginalità nella più larga visione sociale del
pensatore. Lo scopo finale di Gramsci è diverso da quello di Marx
in quanto la sua teoria della natura umana è diversa da quella
dell’uomo che tuttavia riconosce come suo maestro, quel pensatore
che nei Quaderni è “il fondatore della filosofia della prassi”.
Note