Se si prescinde dal modello positivistico della storia documentaria, ormai superato, la ricostruzione storica - riguardi essa fenomeni epocali, singoli eventi o la biografia di personaggi importanti - verte su ipotesi che prendono spunto dai documenti. Questi, però, raramente parlano da soli: vanno correlati, confrontati, interpretati, ecc. Anche l'estremo scupolo dello storico, però, non basta: alcuni documenti sono polisemici, ambigui, possono cioè essere interpretati in vari modi.
Prendiamo ad esempio la famosa frase scritta da Gramsci in una lettera (27 febbraio del 1933) alla cognata Tania Schucht: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».
L'errore potrebbe essere riferito alla fiducia (mal) riposta nella moglie Giulia, nei compagni italiani, nei compagni sovietici, nella coscienza di classe proletaria, ecc. Al limite, si potrebbe anche interpretarla - ed è stato fatto - come un ravvedimento ideologico, come un'abiura del marxismo.
Certo, quest'ultima interpretazione appare francamente forzata perché nei due anni successivi di attività intellettuale non se ne trova traccia alcuna negli scritti di Gramsci. Essa è dunque teoricamente possibile, per quanto altamente improbabile.
Le altre interpretazioni sono tutte più verosimili, ma qual è quella vera non lo sapremo mai, tranne che (circostanza anche questa improbabile) non affiori qualche nuovo documento..
La vita e l'opera di Gramsci - per via della giovanile militanza politica, dei limiti opposti dalla censura alla compilazione dei Quaderni e delle lettere, di un work in progress che sposta lentamente nel futuro l'avvento del comunismo inteso come salto ad un livello di civiltà superiore (il quale implica un vasto consenso sociale di esseri consapevoli e impegnati nell'impresa), del carattere frammentario e "provvisorio" dei Quaderni, del rapporto sicuramente difficile con i compagni del confino e con i vertici del PCI, ecc. - abbondano di piccoli e grandi "misteri" che sarà oltremodo difficile sciogliere.
Non c'è da sorprendersi dunque se, a partire dalla ricorrenza nel 2007 dei 70 anni dalla morte di Gramsci,, si sia acceso un aspro dibattito su quei misteri (veri o presunti).
Il materiale qui raccolto, di sicuro destinato ad arricchirsi ulteriormente (dacché il conflitto, tanto più se accademico, vale a dire attestato sul registro della pura filologia, è il senso stesso della vita di molti intellettuali), documenta abbastanza fedelmente lo scontro tra i gramsciani "ortodossi", i revisionisti e i "neutralisti", vale a dire coloro che mantengono un atteggiamento super partes.
Non entro nel merito del dibattito anche se ho letto quasi tutti i libri "incriminati", che sono accomunati dall'essere insopportabilmente noiosi.
Mi limito ad una sola osservazione.
La fedeltà di Gramsci al marxismo così come lui lo concepiva (la filosofia della prassi, intesa come filosofia totalizzante e autonoma) è al di fuori di ogni possibile dubbio. Il marxismo gramsciano, però, pur rimanendo vincolato a Marx, fuoriesce per molti aspetti dalla cornice dell'"ortodossia" (intesa in senso lato), ma nel suo sforzo di porsi come sistema totalizzante rimane sospeso in aria perché non riesce a mettere a fuoco un'antropologia adeguata al fine che si propone (di programmare una rivoluzione sulla base di un radicale cambiamento di weltanschauung culturale di massa) e, in particolare, urta contro il problema del peso che le tradizioni, il senso comune, l'ideologia, ecc. esercitano sulle menti umane: urta, insomma, contro i "recinti mentali" legati all'inconscio individuale e collettivo.
Questo stato di sospensione, che non implica l'abiura del marxismo, ma l'intuizione (peraltro rimossa) che, per essere efficace, esso deve dotarsi di un'attrezzatura culturale più complessa, può far pensare ad una fuoriuscita nella direzione di un liberal-socialismo se non addirittura della liberal-democrazia. E' un'ipotesi ben poco sostenibile per chiunque abbia letto Gramsci con attenzione. Su di essa, però, si basano tutti i tentativi revisionistici.
In reazione ai quali, i gramsciani "ortodossi", pur meritevoli nel loro intento di rivendicare l'appartenenza di Gramsci al marxismo tout court o meglio ai molteplici marxismi che si sono prodotti nel corso del tempo, rischiano di trasformare Gramsci nell'icona di un comunista dalle idee del tutto chiare.
Non è così. In Gramsci le contraddizioni, le aperture e le chiusure ideologiche, gli slittamenti concettuali, ecc. abbondano, anche se esse sono compensate da una serie di intuizioni e di riflessioni di formidabile portata.
Più che insistere sui limiti di Gramsci, e di ricavare da essi conclusioni improprie, o, viceversa, sul valore del suo pensiero, che rischia di essere "sacralizzato", occorre completarne l'opera: mettere a fuoco, cioè, un'antropologia che consenta di capire se il progetto di un salto dell'umanità a un livello di civiltà superiore sia, almeno teoricamente, sostenibile. Fatto questo, si tratterà poi di capire come questo progetto possa essere politicamente e culturalmente realizzato.
Il marxismo del futuro non potrà prescindere da Gramsci (l'erede - ormai è chiaro - più fedele allo "spirito" di Marx), ma, per proporsi come visione del mondo atta a catturare le coscienze ed ad animare in esse l'esigenza di procedere verso un livello di civiltà superiore, dovrà necessariamente integrarsi con nuovi saperi nati al di fuori di esso, che offrono sorprendentemente (in quanto prodotti da autori in gran parte non marxisti) dati del tutto compatibili e integrabili nella cornice di un'antropologia marxista.
1 maggio 2012 (modifica il 3 maggio 2012)
L'INDAGINE
Paolo Mieli
Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito
comunista d'Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito
Mussolini. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì
sul «Popolo d'Italia» il 31 dicembre 1937 (appena otto
mesi dopo la morte dell'ex segretario del Partito comunista), per
rilanciare, con sorprendente risalto, le indiscrezioni sui dissidi
che avevano contrapposto Gramsci ai suoi compagni. Indiscrezioni
comparse pochi giorni prima, a firma di Ezio Taddei,
sull'«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico
stampato a New York.
Taddei - un oppositore al regime fascista, in rapporto, dopo qualche
anno di carcere, con uomini del regime stesso (nelle persone di
Arturo Musco e Vincenzo Bellavia) - in quell'articolo sul foglio
anarchico aveva trattato Gramsci con toni sprezzanti, enfatizzando i
privilegi di cui avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato
concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano
tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli
altri reclusi «crepavano di fame»). Ma soprattutto aveva
rivelato - accennando alla testimonianza di un celebre militante
incarcerato, Athos Lisa - l'ostilità nei suoi confronti da
parte degli altri detenuti comunisti. Per di più Taddei aveva
fatto esplicito riferimento alla disistima che il leader sardo
nutriva per Ruggero Grieco, suo successore - a metà anni
Trenta - alla guida del Partito comunista («Gramsci ha
sputacchiato Grieco per gelosia»).
Effettivamente, come sarebbe venuto alla luce oltre trent'anni dopo,
Gramsci ce l'aveva eccome con Grieco; ma non «per
gelosia», bensì a causa di una lettera inviatagli da
quest'ultimo nel febbraio del 1928. Una lettera incredibilmente
esplicita nell'indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e
perciò considerata dal fondatore
dell'«Unità» strumento di una manovra
provocatoria ai suoi danni. In una missiva del dicembre 1932,
Gramsci riferì che il giudice istruttore, dopo avergli fatto
vedere quello scritto di Grieco, gli aveva detto
«testualmente»: «Onorevole Gramsci, ha degli amici
che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
È di qui, da questa strana missiva di Grieco, che davvero
sembra essere stata vergata per mettere in difficoltà Gramsci
(tant'è che è stata addirittura avanzata l'ipotesi che
potesse trattarsi di un falso), zeppa tra l'altro di
«contraddizioni, anacronismi e nonsense», che prende le
mosse Luciano Canfora per un importante libro in uscita il 9 maggio, Gramsci in carcere e il fascismo, edito da Salerno (pp. 304, 14).
«A che titolo e investito da chi», si domanda Canfora,
«Grieco si mette a scrivere quelle lettere (ce ne sono altre
due, una a Mauro Scoccimarro e una a Umberto Terracini, ndr ), in
quel modo ammiccante e imprudente?». Lo stile di Grieco,
aggiunge lo storico, «è un unicum rispetto alle
comunicazioni epistolari "di partito", specie in quegli anni».
Quanto al contenuto, le «lezioncine di politica»
impartite da Grieco a Gramsci «sono a dir poco
risibili». È un libro, questo di Canfora, destinato a
fare riflettere come e forse più di molti altri saggi che
nelle ultime settimane hanno riacceso le luci (e le discussioni) sul
capo più famoso dei comunisti italiani.
Gli scritti di cui stiamo parlando sono fondamentalmente quattro.
Primo quello di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La
prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli), nel quale si
ipotizza che Palmiro Togliatti abbia fatto sparire uno dei trenta
quaderni scritti da Gramsci in carcere: quello in cui, secondo Lo
Piparo, sarebbe stato evidente il distacco di Gramsci dal
«comunismo come si andava realizzando e - tendiamo a pensare -
dal comunismo tout court». Ipotesi che secondo un grande
studioso dei Quaderni, Gianni Francioni, è «destituita
di ogni fondamento». Ma che, a detta di Lo Piparo, sarebbe
corroborata dalla lettura tra le righe di una curiosa lettera
scritta da Gramsci il 27 febbraio del 1933 alla cognata Tatiana
(Tania) Schucht, lettera che contiene queste parole di possibile
allusione al suo ripudio dell'esperienza comunista: «Certe
volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per
me) errore, un dirizzone».
Strana lettera, effettivamente, che
fu scritta e spedita, dal carcere di Turi, il giorno successivo ad
un colloquio di Gramsci con la sorella della moglie, quella Tania
che sapeva di dover incontrare nuovamente, nello stesso parlatorio,
di lì a poche ore, molto prima cioè che il suo scritto
potesse giungere a destinazione. Come se Gramsci avesse voluto
mettere quelle cose nero su bianco, di modo che potessero essere
lette non già soltanto dalla cognata (a cui presumibilmente
le aveva appena dette e poco dopo le avrebbe ridette a voce), ma
soprattutto a Parigi e a Mosca dai suoi compagni di partito.
Il secondo saggio che ha avuto risonanza (anche in seguito a un
pubblico elogio ricevuto da Roberto Saviano) è stato quello
di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Orsini ha sostenuto che valori riformisti e
democratici possono essere accreditati esclusivamente al leader
socialista Filippo Turati. E non a Gramsci. Soltanto Turati ha detto
a chiare lettere che il pluralismo dei partiti è a fondamento
della libertà, che l'educazione al socialismo coincide con
l'educazione alla tolleranza e al rispetto degli avversari politici,
che i socialisti devono condannare la violenza sotto il profilo
etico-politico, che il diritto all'eresia è il pilastro del
socialismo, che i socialisti non sono i detentori unici della
verità, che si può imparare anche dagli avversari
politici.
Gramsci - del quale pure Orsini apprezza l'evoluzione
quale si evince dalle pagine scritte in carcere - no. Il leader
sardo educava a chiamare gli avversari politici «porci»,
«scatarri», «stracci di sangue mestruato»,
«pulitori di cessi» («e queste espressioni»,
precisa Orsini, «non erano rivolte ai fascisti, come qualcuno
ha scritto, bensì ai riformisti e ai moderati»). Lo
storico torinese Angelo d'Orsi (sulla «Stampa») ha
stroncato i libri di Lo Piparo e di Orsini, scritti - a suo dire -
«per regolare i conti del presente», e ha deriso anche
la benevola recensione di Saviano, uno scrittore, a suo dire,
«del tutto ignaro tanto di Gramsci, quanto di Turati».
Terzo saggio che ha provocato polemiche è stato quello di
Dario Biocca su «Nuova Storia Contemporanea»: Casa
Passarge: Gramsci a Roma. In esso Biocca fa notare che tra il 1924 e
il 1926 Gramsci abitò nella capitale, in via Morgagni, dove
fu ospite del villino dei coniugi tedeschi Clara e George Philipp
Passarge, il cui figlio Mario era amico del futuro capo della
polizia Carmine Senise. Lo stesso Mario Passarge, dopo l'avvento del
nazismo, si sarebbe trasferito a Berlino per lavorare negli uffici
dello spionaggio. Strano, effettivamente, che il leader comunista,
in anni successivi alla marcia su Roma, abbia scelto di prendere
dimora proprio in quella casa e che in seguito sia rimasto
affezionato a quella famiglia, nonostante fossero evidenti le
compromissioni di Mario Passarge con il fascismo e con il nazismo.
Poi Biocca si è spinto oltre e ha parlato di un
«ravvedimento» implicito nella richiesta di Gramsci di
essere liberato dal carcere: «Era», ha scritto,
«il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né
avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prove
di sottomissione». Va tenuto a mente - ha proseguito Biocca -
che, sotto il regime fascista, «non un militante o dirigente
comunista beneficiò della libertà condizionale se non
dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento». Neanche
uno. O meglio, secondo quello che è stato scritto fin qui in
tutti i libri sull'argomento, l'incredibile eccezione sarebbe stata
fatta per una sola persona: Antonio Gramsci, appunto. Il che, sempre
secondo Biocca, avrebbe dell'assurdo.
Apriti cielo. Immediatamente
è sceso in campo Bruno Gravagnuolo con una serie di
documentati articoli (sull'«Unità») che
contraddicevano quel che Biocca aveva scritto in merito al
«ravvedimento». Poi il presidente dell'International
Gramsci Society, Joseph Buttigieg, che (su «Repubblica»)
ha definito quelle di Biocca nient'altro che «supposizioni e
illazioni»: «Biocca», ha scritto Buttigieg,
«non riesce a trovare un solo documento» che comprovi il
«ravvedimento gramsciano»; e, del resto,
«perché Mussolini avrebbe nascosto il ravvedimento del
suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della
propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?».
Obiezione sensata.
Quarto libro di questa copiosa messe di pubblicazioni è
quello di Giuseppe Vacca: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), edito da Einaudi. Vacca avanza l'ipotesi che la lettera
di Grieco di cui si è detto all'inizio avesse ricevuto
l'avallo di Giulia, la moglie di Gramsci nonché sorella di
Tania. Questo spiegherebbe perché «quando Gramsci
decise di rivolgere personalmente la sua denuncia al partito,
affermasse che tra i suoi "condannatori" c'era stata,
"inconsciamente", anche Giulia». Giulia poi, pentita, nel
marzo del 1939 (due anni dopo la morte del marito) aveva puntato
l'indice contro Togliatti, accusandolo di aver sabotato la
liberazione di Gramsci, nel senso che aveva indotto la direzione del
partito a compiere atti tali da renderla di fatto impossibile.
Ma,
scrive Vacca sulla scia di una sapiente esegesi dei documenti
compiuta da Silvio Pons, tali sospetti «appaiono
infondati». Togliatti «non aveva bisogno di sabotare
tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai
compiuti seriamente dall'unico attore che poteva intraprenderli,
vale a dire il governo sovietico». A tenere Gramsci in
carcere, prosegue Vacca, «ci pensava già Mussolini e la
sua liberazione non aveva mai configurato l'oggetto di un interesse
statale sovietico; non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe
potuto aggiungere di suo». Eppure...
Luciano Canfora torna alla lettera di Grieco del febbraio 1928.
Lettera che Gramsci definisce «eccessivamente
compromettente», «criminale», causa del fallimento
di ogni possibile trattativa per la sua liberazione, anzi scritta
apposta perché gli fosse inflitto un aggravamento della pena.
Ai vertici del Partito comunista il caso fu subito affrontato, sia
pure nel più assoluto riserbo imposto dall'esilio e dalla
clandestinità. Poi, però, per anni e anni di questa
epistola non viene fatto trapelare nulla. Così come, per anni
e anni, nulla si è saputo delle indispettite reazioni di
Gramsci, di cui non c'è traccia nella prima edizione delle
Lettere dal carcere (Einaudi) del 1947. Non vengono pubblicati gli
scritti gramsciani del 1932 e del 1933, nei quali, in riferimento
alla lettera di Grieco, ci si domandava: «Si tratta di un atto
scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile
dirlo. Può darsi l'uno e l'altro caso insieme; può
darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e
qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere».
«La mia impressione», proseguiva l'illustre recluso nel
carcere di Turi, «è di essere tenuto da parte, di
rappresentare, per così dire, una "pratica burocratica" da
emarginare e nulla di più». E ancora: «Chi mi ha
condannato è un organismo molto più vasto, di cui il
Tribunale speciale non è stato che l'indicazione esterna e
materiale, che ha compilato l'atto legale di condanna. Devo dire che
tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca (la moglie
Giulia di cui si è detto, ndr ), credo, anzi sono fermamente
persuaso, inconsciamente... ma c'è una serie di altre persone
meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai
ferreamente ancorata perché l'unica che spieghi una serie di
fatti successivi e congruenti tra loro».
Togliatti - destinatario delle parole allusive - conosceva il testo
di queste lettere. Ma, finché visse, fu «dosatore
accorto e reticente della verità intorno alla vicenda»
e non ritenne di renderle pubbliche. Anzi, vietò a Camilla
Ravera e a Piero Sraffa di mostrare a chicchessia alcune copie delle
lettere che erano rimaste in loro possesso. Neanche in Duemila
pagine, Gramsci un uomo (Il Saggiatore) curato nel 1964 - poco prima
che Togliatti morisse - da Niccolò Gallo e Giansiro Ferrata,
sotto la supervisione di Mario Alicata, fu fatto cenno a quelle
parole. Canfora la definisce «una capillare opera di
censura». Poi, man mano che quegli scritti vengono alla luce,
nei testi ufficiali si usa la formula «lettere che non sono
state ancora recuperate» o «che sono state appena
recuperate». «La scorrettezza», sottolinea
Canfora, «è consistita nell'adoperare
indiscriminatamente tale formuletta sia per le lettere che davvero
fu faticoso ottenere dai familiari, sia per quelle di cui si era
preferito per opportunità politica fornire solo una
selezione».
Dieci mesi dopo la morte del segretario del Pci
(agosto 1964) verrà data alle stampe, da Einaudi, una nuova
edizione delle Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio ed
Elsa Fubini, nella quale (sorpresa!) i curatori riferiscono
dell'esistenza di «una strana lettera firmata Ruggero»,
lasciando cadere - come se si trattasse di una supposizione -
«forse si tratta di Ruggero Grieco» (la circostanza che
il gruppo dirigente del Pci aveva affrontato il caso Grieco-Gramsci
anche con i sovietici già alla fine degli anni Trenta, rende
quel «forse» del tutto stravagante).
Finalmente, nel 1968, la lettera di Grieco (scritta quarant'anni
prima) fu «scoperta» da Paolo Spriano, storico ufficiale
del Pci, e pubblicata su «Rinascita» con indicazioni
archivistiche che Canfora definisce «a dir poco
reticenti». Nel 1977, Spriano riproporrà, in Gramsci in
carcere e il partito (Einaudi), la storia di quella lettera,
«purtroppo», scrive Canfora, «da lui edita in modo
difettoso». Solo l'ultima edizione delle Lettere , quella
curata da Aldo Natoli e Chiara Daniele nel 1999 (dieci anni dopo la
fine del comunismo) è a detta di Canfora filologicamente
impeccabile: «Una base finalmente scientifica per gli
studiosi».
Ma perché Grieco aveva scritto quelle cose nel 1928? Canfora
avanza la «dolorosa ipotesi» che Grieco abbia agito da
«provocatore» e che Spriano, storico
«ufficiale» del Pci, avendo scoperto che le foto delle
«famigerate» lettere dello stesso Grieco erano
conservate in una busta della Divisione affari generali e riservati
di Pubblica sicurezza, «abbia preferito tacere in quale modo
le avesse trovate». Canfora riprende poi le confidenze fatte
da un altro dirigente comunista dell'epoca, Giuseppe Berti, a Dante
Corneli e da questi riferite in Lo stalinismo in Italia e
nell'emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli): in esse
veniva avanzato il sospetto che Grieco potesse essere una
«spia fascista».
Lo stesso dubbio manifestato, qualche
tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di
aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la
missione a Luca Osteria, smascherato poi, nel 1929, come una spia
dell'Ovra. Canfora esorta poi a riflettere sulla circostanza che la
posizione giudiziaria di Grieco fu «sbrigativamente stralciata
dai giudici romani al termine dell'istruttoria con decisione... di
dieci giorni dopo la famigerata lettera». E sul fatto che gli
fu poi comminata una pena inferiore a quella che (confrontandola con
le condanne agli altri dirigenti comunisti) ci si sarebbe potuti
attendere. Dopo la morte di suo cognato, Tania, insospettita da
tutto ciò, rifiutò di incontrare Grieco e nutrì
diffidenza nei confronti di Piero Sraffa, amico sì di Gramsci
ma prima ancora «leale» al partito e anche a Grieco.
Strano personaggio, Grieco, che tra il 1935 e il 1937 fu
temporaneamente successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci.
Grieco ha un ruolo importante nella storia del Pci per il suo
clamoroso «Appello ai fratelli in camicia nera»
pubblicato su «Lo Stato Operaio» nell'agosto del 1936
con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti
comunisti. Proclama in cui si esaltavano il valore e l'eroismo con
cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d'Etiopia e si
esortavano i militanti del Pci a far fronte comune con i fascisti.
Nell'Appello si affermava che i comunisti facevano «proprio il
programma fascista del 1919», definito «un programma di
libertà». «Fascisti della vecchia guardia,
giovani fascisti», si poteva leggere in quel testo, «noi
proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto
il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del
1919».
Grieco non fu solo in quell'operazione. Nel corso di
una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto del 1936, un
altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana (cognato di
Togliatti), fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo
avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il
fascismo... vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non
possiamo fare di più». E Giuseppe Di Vittorio scrisse
una pubblica «Lettera ad un gerarca sindacale fascista»
per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede,
esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere
del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro
paese?» Da quel momento la parola d'ordine «Via
Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con
«Via i pescicani!»; come nemici, al posto dei fascisti,
vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto
Motta, Volpi, Orti, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un
programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni
eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili
superiori al 6 per cento, l'obbligo ai personaggi di cui si è
detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del
popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai
pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai
disoccupati» e per «pagare le indennità ai
combattenti d'Africa».
In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò
pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì
che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una
coglioneria»; il collettivo dei comunisti confinati a
Ventotene fece pervenire al partito, per vie segrete, proteste e
critiche; Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di
un'«assurdità inaudita». In un libro pubblicato
qualche anno fa da Marsilio, Un partito non stalinista, il figlio di
Ruggero Grieco, Bruno, ha riproposto quel documento come la prova di
un tentativo di suo padre (che, pure, nel 1940 aveva fatto
autocritica per quella presa di posizione) di sottrarre il Pci
all'egemonia staliniana. Ma Canfora definisce tale tesi
«inconsistente». E accusa Spriano di non aver reso
chiari, nel terzo volume della Storia del Pci (Einaudi), i termini
di quella strana storia. Spriano - secondo Canfora - «con la
sua peraltro consueta felpatezza» avrebbe deliberatamente
rinunciato a spiegare al lettore cosa era davvero accaduto 35 anni
prima.
A questo punto Canfora fa osservare che «i tempi del
disvelamento, che paiono non a torto intollerabili dal punto di
vista della ricerca storica» sono «comprensibili in
un'ottica tutta politica». Dopodiché azzarda un'ipotesi
clamorosa: «Non è a priori inverosimile pensare»,
scrive, «che negli anni dei governi immediatamente
postbellici, o quando Grieco stesso era alto commissario aggiunto
all'epurazione, le foto delle lettere a Gramsci, Scoccimarro e
Terracini siano state prelevate, magari dagli incartamenti di uno
dei processi in cui Grieco era imputato, e acquisite agli archivi
della Direzione del Pci». Quelle lettere scottavano: Gramsci,
ricordiamolo, definiva «criminale» l'operato di Grieco e
il giudice istruttore Enrico Macis gli aveva detto che i dirigenti
del Pci erano stati i suoi pugnalatori. Poi, dopo che erano rimaste
sepolte per decenni negli archivi del Pci, al momento di renderle
pubbliche, «si provvide a riporle in un fondo di polizia onde
presentarle al pubblico (come fece Spriano nel 1968, ndr ) a
Ferragosto con un commento che affermasse, subito in apertura, che
"finalmente" quelle lettere "dissipavano" un'ombra che lo stesso
Gramsci aveva gettato sull'episodio».
Si può dire che
furono «scoperte» più o meno dalle stesse persone
che le avevano nascoste in quell'archivio, e la cosa fu fatta in
piena estate per offrire - nella distrazione generale - una versione
oltremodo tranquillizzante di quel che tra la fine degli anni Venti
e l'inizio dei Trenta aveva terremotato il vertice del Pci.
«Si spiegherebbe così», prosegue Canfora,
«anche perché mai questo sia l'unico documento di cui,
in tutta la carriera di storiografo, Spriano non ha mai fornito le
esatte coordinate archivistiche». «Beninteso»,
mette poi le mani avanti, «è soltanto un'ipotesi, ma
appare, a tutt'oggi, come quella in grado di dar conto dell'insieme
dei dati disponibili e delle molte anomalie altrimenti
inspiegabili».
Ma non è tutto. Il libro di Canfora ci esorta a soffermarci
su un interessante parallelo tra quel che accadde in occasione delle
morti di Grieco (1955), ex capo sia pure solo per un biennio dei
comunisti italiani, e di quel Taddei (1956) di cui all'inizio,
grande calunniatore, negli anni Trenta, di Gramsci e di altri
dirigenti del Pci tra cui Giorgio Amendola. Nel luglio del 1955,
quando muore Grieco, «Rinascita» ne dà notizia
«con parole piuttosto rituali», molto meno calorose di
quelle dedicate a un leader del Psi, Rodolfo Morandi, scomparso in
quegli stessi giorni. La rivista annuncia che a Grieco sarà
dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che
però non accade. «Rinascita» avverte poi il
lettore che in un successivo fascicolo sarebbe comparso un saggio di
Emilio Sereni dedicato a Grieco. Ma anche questo annuncio non
avrà seguito. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di
Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a
una raccolta di suoi scritti.
Diverso il trattamento riservato a Taddei. Questi, all'inizio degli
anni Quaranta, rese, negli Stati Uniti, una testimonianza a favore
di Vittorio Vidali coinvolto in un'oscura vicenda. E il Pci gli
dimostrò da quel momento la propria gratitudine. Ad occuparsi
di lui, spalancandogli le porte del partito, fu un dirigente della
vecchia guardia: Ambrogio Donini. Canfora fa notare che Donini
elogiò Taddei e parlò di lui in questi termini:
«La sua curiosa opinione era che il nostro compagno (Gramsci,
ndr ) godesse di troppi privilegi». Curiosa opinione?
«Colpisce», scrive Canfora, «la leggerezza con cui
viene minimizzata la posizione assunta da Taddei contro
Gramsci». Donini gli diede una mano a pubblicare un romanzo di
Taddei scrivendone la prefazione che attestò «il suo
arruolamento ed il suo ravvedimento». Poi mentre Grieco
scivolava nell'ombra, a Taddei veniva riservata la luce di benevoli
riflettori. Taddei adesso, più che un politico, si sentiva
scrittore. E grazie all'intercessione del Pci, gli venne concessa
«una gratificazione non da poco», quella di pubblicare
un nuovo libro, Rotaia, per i tipi di Einaudi.
Dalla metà
degli anni Quaranta gli si consentirà di dare alle stampe
volumi di argomento saggistico nei quali Taddei «con un
cinismo che non conosce imbarazzi», scrive Canfora,
trasformava «in eroi coloro (i capi comunisti, ndr) che aveva
minuziosamente descritto pochi mesi prima come canaglie, assassini e
parassiti superpagati». Infine alla sua morte, nel '56,
sarà il direttore dell'«Unità», Pietro
Ingrao, a scrivere l'impegnativo necrologico di quella strana figura
di ex anarchico: «La sua milizia nelle file del Partito
comunista ci è cara anche come un segno di questo
inarrestabile processo che dalle ribellioni disperate di ieri ha
fatto nascere un grande movimento rinnovatore».
Curiosi
destini incrociati all'ombra di Antonio Gramsci. E di Benito
Mussolini.
1 marzo 2012
PROCESSATE GRAMSCI!
di Gianni Fresu, del Comitato scientifico di Marx XXI
Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo
alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a
presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo
liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di
scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si
aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e
mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente
ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai
programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le
richiamo:
1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e
Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di
Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3)
Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci
dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di
morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le
prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne
verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente
tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima
inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le
persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano
sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi
necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non
suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali
degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di
documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini
prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel
febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro
da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella
storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate
«il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da
subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni,
senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su
questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”,
furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di
modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome
di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti
televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana
falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio.
Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del
revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori
quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate
recentemente: I due carceri di
Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista
(Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino,
2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle
anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti
per «La Repubblica».
Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul
piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle
carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista,
costretto in una celle le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non
a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca
nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare
strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente
altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la
svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale
neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita
costruzione priva di basi, condita però da una fervida e
interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul
piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto
riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo
saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la
consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”.
All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di
Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza
incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni
precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a
distinguere il politico dal «pensatore disinteressato».
Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una
reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e
anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico.
Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera
di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello
storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte
reali»1.
Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò
intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un
professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in
candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei,
ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale».
In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla
battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere
riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della
prima e nella maggiore libertà analitica, appunto
«für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia,
tra le due la continuità concettuale è evidente e
documentabile.
Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra
molti gramsciologi di professione è stato epurare l'opera di
Gramsci dai legami con l'esperienza del leninismo e della III
Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli
abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di
posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura
per giustificare tramite essa la discontinuità, se non
proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del
novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente
di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza
al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia. Lenin2 non è
un rivoluzionario idealista scontratosi con
l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque
sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il
protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia,
«la critica reale di una filosofia, la sua reale
dialettica», e questo è forse il boccone più
amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella
battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni
dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel
definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una
sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua
transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a
leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie
per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente
a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi
meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il
profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede
del filosofo liberale.
Se Lenin è per Gramsci il protagonista
di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto
Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia
italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver
indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi
culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di
dominio di una società, da ciò consegue la
comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita
degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a
dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di
«storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la
storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la
giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due
termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo
caso (etica) il riferimento è all’egemonia,
all’attività della società civile; nel secondo caso
(politica) il riferimento è all’iniziativa
statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva.
«Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra
esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra
società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce
giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza
direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove
si crederebbe»3, al punto che, per quanto possa apparire
paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale
del paese può essere esercitata anche da un partito
rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo
Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di
Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento
dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella
sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al
determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico
con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della
praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti
di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono
strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per
le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole».
Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della
lotta egemonica nella società civile e la natura non
arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare
nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di
moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per
rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti ,
per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento
necessario del rovesciamento della praxis. [...] Per la filosofia
della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed
operante4.
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta
superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere
sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in
sé» alla «classe per sé», dunque per
il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia
e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del
quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso
il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di
reciprocità tra i due termini e comunque la funzione
tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non
limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei
due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della
filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il
momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione
statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di
produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione
culturale, della creazione di un «fronte culturale», a
fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica
dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei
conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere
considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non
puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il
principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata
gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare
l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis.
Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto
fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione
di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno
ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di
conoscenza, è un fatto filosofico5.
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX
di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle
categorie come «strumento di governo», specchio fedele
di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx
definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della
rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale,
risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per
gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò
che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La
libertà come identità di storia e di spirito e la
libertà come religione superstizione, come ideologia
circostanziata, come strumento pratico di governo». La
presupposta eticità dello Stato liberale si scontra
cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una
ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una
superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di
classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e
merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce
a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e
del suo sviluppo di classe come principio universale, come
concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto
lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per
le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia
o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si
presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo
ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non
si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce
dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della
libertà non possa diventare elemento pedagogico
nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da
ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento
della religione confessionale. Questa assenza di
«espansività» nelle grandi masse è la
testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della
filosofia della libertà6.
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la
formidabile articolazione fortificata della società liberale,
i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui
complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle
classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice,
a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della
classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il
progressivo acquisto della coscienza della propria
personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad
allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali:
tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima
condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da
svuotare del suo elemento di massa umana7.
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene
conto.
Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto
dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di
fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra
alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e
immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e
quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo
Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione,
mentre qualche parola è giusto spenderla per le
«disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di
sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche
un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica
italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel
tempo, una abbia avuto il sopravvento sull'altra. L'idea da cui
parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato
generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei
pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto
rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci
definiva un avversario, non importa quale: "La sua
personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa
importanza di uno straccio mestruato". Invitava i suoi lettori a
ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli
avversari che si lamentavano delle offese ricevute: "Per noi
chiamare uno porco se è un porco, non è
volgarità, è proprietà di linguaggio".
Arrivò persino a tessere l'elogio del "cazzotto in faccia"
contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un
"programma politico" e non un episodio isolato8.
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a
esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la
«pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento
fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il
campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce.
Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni
e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio
su libertà, democrazia, rispetto della diversità.
Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno
del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e
successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male
ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare
nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle
liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo,
Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa
recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle
aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in
quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader
del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per
educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di
coniugare socialismo e liberalismo: "Tutte le opinioni meritano di
essere rispettate. La violenza, l'insulto e l'intolleranza
rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il
diritto a essere eretici. Il diritto all'eresia è il diritto
al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste
la libertà". Orsini raccoglie e analizza brani, scritti,
testimonianze, che mostrano come quel vizio d'origine abbia
influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come
l'eredità peggiore della pedagogia dell'intolleranza
edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora9.
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e
la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto
minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la
peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza»
sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista»
di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle
peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa
comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini»
del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché
a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta
Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di
violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai
più elementari diritti del popolo palestinese da esso
violentemente calpestati (altro che «l’elogio del
cazzotto»!). Saviano accusa gli
«extraparlamentari» di avere la «verità
unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea
possibile di libertà», al contrario per noi è
lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del
«fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi
più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra
fredda». Esso «indica l'arrogante uso di una parola
(democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il
contrario di ciò che esprime; e, insieme, l'intolleranza
verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il
parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato
politico»10.
È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni
manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza
supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito
testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i
riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei
lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il
peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un
bene perché accresce l'odio contro il sistema e rilancia
l'iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio
tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e
tolleranti», mentre i comunisti sono per la
«società perfetta», dunque utopistici e
intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono,
comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto!
“Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni
della miglior produzione del Comitato per le attività
anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra,
è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in
misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto
presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non
dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi
economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni
senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno
delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio
delle nazioni ricche su quelle povere.
Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica
anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon,
«i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto
non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in
discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo,
rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione
bolscevica appare in tutta la sua abiezione»11. Da una parte
si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della
libertà, identificando tutto questo con il marxismo,
dall’altra si usano le parole più infiocchettate di
Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo
tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso
generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua
completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente
tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a
Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un
secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli
legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di
tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto
(autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo.
Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale12 rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci.
Nella sua banale brutalità,
l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello
schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo
agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente
questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo
in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come
Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di
intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a
questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto
un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i
reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in
prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a
questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie
l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue
idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia
inervibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non
ci riusciranno nemmeno adesso.
NOTE
1 E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48
2 Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a
quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx.
Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del
Sole, Napoli, 2008.
3 Ivi, pag. 1302.
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag.
1319.
5 Ivi, pp. 1249-1250.
6 Ivi, pp. 1231, 1232.
7 Ivi, pag. 333.
8 R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28
febbraio 2012.
9 Ibid.
10 L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari,
2002, pag. 17.
11 D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari,
1998, pag. 55.
12 D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.
1 marzo 2012
L’ENNESIMA CAMPAGNA CONTRO GRAMSCI E LA STORIA DEL PCI
di Alexander Höbel, Coordinatore del Comitato scientifico di
Marx XXI
Con una cadenza quasi regolare, ormai da anni, la pubblicistica
italiana, col concorso attivo di settori del mondo accademico,
propone violente campagne ideologiche, che hanno il loro bersaglio
preferito nel “comunismo” tout court, con particolare attenzione
alla storia del Partito comunista italiano e alle figure di Antonio
Gramsci e Palmiro Togliatti. Su questo secondo versante gli attacchi
si sono intensificati negli ultimi tempi, probabilmente a causa del
fatto che Gramsci è uno degli autori italiani più
letti e studiati nel mondo, e la sua complessa elaborazione non
cessa di influenzare movimenti politici rilevanti in diverse zone
del pianeta, a partire da quell’America Latina che negli ultimi
anni, mentre nella vecchia Europa i diritti sociali e politici
regredivano, ha visto avviarsi significativi percorsi di
emancipazione e nuovi tentativi di transizione.
Il fatto che Gramsci, e con lui Marx e i migliori teorici del
marxismo novecentesco, siano tutt’altro che “cani morti”, e che del
contributo di un partito come il PCI si senta sempre di più
la mancanza nel nostro dissestato paese, evidentemente dà
fastidio. Ecco allora le ripetute campagne anticomuniste, sebbene il
comunismo fosse stato dato per morto con grande giubilo, da
“Repubblica” & soci, già nel 1989-91.
L’ultima campagna in ordine di tempo è quella di queste
settimane. Essa ha per protagonisti autori di diverso peso e
qualità scientifica, mossi probabilmente da diverse
intenzioni, ma delinea una sorta di attacco concentrico alla figura
di Gramsci e alla storia del PCI. Cerchiamo quindi di descrivere
brevemente i vari “punti d’attacco”.
L’incipit è stato fornito dall’ultimo libro di Franco Lo
Piparo, docente di Filosofia del linguaggio all'Università di
Palermo e autore che già in passato si era misurato con
l’elaborazione di Gramsci da un punto di vista filologico. Il
volume, edito da Donzelli e dal titolo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il
labirinto comunista, riprende e sviluppa l’annosa polemica
sulla presunta rottura tra Gramsci e il PCd'I durante la detenzione
del rivoluzionario sardo, sostenendo che accanto al carcere fascista
egli avrebbe dovuto subire una seconda prigionia, quella
costruitagli attorno dal suo partito, e dal comunismo stesso come
armatura ideologica da cui infine Gramsci si sarebbe liberato. Di
qui l’ipotesi di un quaderno “fantasma”, non ritrovato né
pubblicato, ma alla cui esistenza farebbero pensare alcuni
riferimenti e allusioni del prigioniero e dello stesso Togliatti.
Inutile dire che a far sparire il quaderno sarebbe stato proprio il
Migliore…
Naturalmente nel lavoro storiografico formulare ipotesi è
più che lecito, ma occorrerebbe suffragarle con elementi di
una certa consistenza. Al contrario in questo caso non c’è
alcun riscontro oggettivo. Tuttavia, ripresa da studiosi e
giornalisti, l’ipotesi diventa certezza, ed ecco Nello Ajello su “la
Repubblica” (28 gennaio) discettare sull’“altro carcere di Gramsci”;
ecco che il lavoro di cura redazionale che Togliatti giustamente
ritenne necessario per la pubblicazione dei Quaderni gramsciani
diventa – cito testualmente – “un promemoria della perfidia di
Togliatti” (sic!). “Dopo non essersi troppo adoperato per liberare
il suo ex-segretario dalle carceri fasciste (sic!), il Pci decise in
ritardo (sic!) di ricordarsi di lui onorandone la memoria”. Il fatto
che la corrispondenza tra Giulio Einaudi e Togliatti per la
pubblicazione dei Quaderni del carcere cominci pochi giorni dopo la
Liberazione, e che già durante la guerra, mentre si trovava
in URSS, Ercoli avesse posto le basi di questo lavoro, per Ajello
non conta, così come non contano i numerosi, ripetuti
tentativi del PCd'I di ottenere la liberazione del suo leader.
Il libro di Lo Piparo è recensito anche sul domenicale del
“Sole 24 Ore” (12 febbraio) da Sergio Luzzatto, che ci spiega “come,
quando Gramsci parlava della moglie Julca, egli si riferiva
soprattutto – in cifra – all’universo comunista. Sicché la
sua separazione da Julca andava intesa come una separazione dal
partito”. Logico, no? È evidente che procedendo così,
di assioma in assioma, di sillogismo in sillogismo, senza mai il
beneficio di un documento, di un riscontro oggettivo, si può
sostenere qualsiasi cosa. Ma questo, a quanto pare, non turba lo
studioso
Il secondo punto di attacco è costituito da un saggio dello
storico Dario Biocca, e riguarda la richiesta di libertà
condizionale avanzata da Gramsci nel 1934 a fronte dell’aggravamento
del suo stato di salute, e dunque al fine di poter essere ricoverato
– sia pure da detenuto – in clinica, come poi avvenne. In attesa che
il saggio di Biocca esca su “Nuova storia contemporanea” (rivista
che in questi anni è stata veicolo di ricerche interessanti,
ma anche e soprattutto di un certo tipo di revisionismo storico),
“la Repubblica” dà grande risalto allo “scoop”: per chiedere
la libertà condizionale Gramsci dové “fornire prova di
‘sottomissione’” e di “ravvedimento”. Si può quindi sparare
un bel titolone sul “ravvedimento di Gramsci” – a proposito: quello
preteso dal fascismo o quello desiderato da “Repubblica”? –; peccato
che, come ha osservato Bruno Gravagnuolo sull’“Unità” del 29
febbraio, nel Codice Rocco allora in vigore la libertà
condizionale era legata alla buona condotta del prigioniero, e il
“ravvedimento” di quest’ultimo era oggetto solo della valutazione
del giudice, e non certo di un’affermazione del detenuto. Gramsci,
insomma, dispiace per “la Repubblica”, non si ravvide affatto:
continuò a essere un comunista non pentito.
Dulcis in fundo, il terzo punto d’attacco è fornito dalla
coppia Orsini-Saviano. Alessandro Orsini si era già fatto
conoscere per un volume in cui cercava di sostenere la tesi di una
filiazione diretta delle Brigate Rosse dalla cultura del comunismo
italiano; tesi che comporta appena qualche piccola forzatura... Non
pago di questa operazione, Orsini pubblica ora un libro su Gramsci e
Turati. Le due sinistre, tipico esempio di quella concezione
manichea che questi stessi autori imputano ai comunisti. In
sostanza, la tesi è questa: in Italia vi sono sempre state
due sinistre; la prima, riformista e pragmatica, del buon Turati,
che per qualche oscuro motivo non sarebbe riuscita a prevalere
né a dimostrare tutto ciò di cui era capace, e la
seconda, quella comunista, dogmatica e intollerante per natura.
Anche qui “la Repubblica” vede e provvede. Chiede quindi a Roberto
Saviano di commentare il libro. E Saviano ne fa un breve riassunto,
accogliendone le tesi di fondo in modo del tutto acritico, senza se
e senza ma. “L’idea da cui parte Alessandro Orsini – scrive –
è semplice. I comunisti hanno educato generazioni di
militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici,
ad insultarli ed irriderli”. E qui alcune citazioni di Gramsci,
completamente slegate dal contesto di un confronto politico
asperrimo da entrambe le parti come quello che divise riformisti e
comunisti negli anni Venti, che secondo Orsini e Saviano dovrebbero
corroborare il loro assioma. Dopodiché Saviano si lancia a
testa bassa contro quella “certa sinistra”, per fortuna “fuori dal
Parlamento”, “che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un
estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica
tra le mani”; e di seguito ripropone tutto il repertorio anti-cubano
e anti-palestinese a cui ci ha ormai abituato. Ma qui, in teoria,
Saviano stava parlando di un libro di storia… Al contrario, è
proprio la storia – la storia concreta, effettiva, di quello che
è stato ad esempio il PCI nella società italiana, del
suo contributo determinante a quelle poche, serie riforme che si
sono fatte in questo paese – che in questo tipo di articoli e di
libri scompare; così come scompaiono la ricchezza e la
complessità di un pensatore e di un rivoluzionario come
Antonio Gramsci.
Basterebbe questo solo dato per dimostrare che quella qui brevemente
descritta è innanzitutto un’operazione politica, o se si
vuole di politica culturale, volta a continuare a plasmare il senso
comune di massa – soprattutto quello del “popolo di sinistra” –
sulla base di un anticomunismo rozzo e schematico, che nega, deforma
o ignora un patrimonio storico e teorico di enorme portata, col
quale tutti – a partire dai suoi critici – dovrebbero confrontarsi
in modo onesto e rigoroso, come a suo tempo fece Marx nel momento in
cui avviò la sua critica dell’economia politica e
dell’ideologia borghese. Ma è evidente che un paragone del
genere non regge, e che una simile richiesta potrebbe essere accolta
solo da un altro tipo di interlocutori.
Tuttavia a tale produzione ideologica, creatrice di falsa coscienza,
occorre replicare; e occorre farlo, appunto, in modo rigoroso,
entrando nel merito delle questioni. È questo che cercheremo
di fare sul sito di Marx XXI, con l’ausilio di una serie di studiosi
interni ed esterni alla nostra associazione.
Iniziamo quindi con i contributi di due studiosi che fanno entrambi
parte del Comitato scientifico di Marx XXI, e cioè con un
saggio di Gianni Fresu (autore de Il Diavolo nell’ampolla. Antonio
Gramsci gli intellettuali e il partito, La Città del Sole,
2005) e un corsivo di Guido Liguori (presidente della sezione
italiana della International Gramsci Society, autore di numerosi
volumi su Gramsci e curatore con Pasquale Voza del Dizionario
gramsciano 1926-1937, Carocci 2009) che “il manifesto” ha deciso di
non pubblicare; una scelta, quest’ultima, su cui ogni commento
sarebbe superfluo.
1 marzo 2012
Saviano, prima di parlare di Gramsci leggi almeno l'Indice
di Alberto Burgio | da www.rifondazione.it
Martedì scorso sulla Repubblica Roberto Saviano ha recensito
con toni entusiastici un libro sulle «due sinistre»:
quella rivoluzionaria, brutta, sporca e cattiva, impersonata da
Antonio Gramsci, e quella riformista, buona e gentile, rappresentata
da Filippo Turati. Il libro, opera di Alessandro Orsini, giovane
sociologo politico, sembra a Saviano niente meno che «la
più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli
ultimi anni»...
La tesi del libro è semplice e niente affatto inedita. Da una
parte c'è la sinistra riformista, realistica, sinceramente
preoccupata delle sorti dei subalterni, quindi capace di valorizzare
le piccole conquiste giorno per giorno (in una prospettiva che
qualche tempo fa si sarebbe definita «migliorista»);
dall'altra, la sinistra rivoluzionaria, violenta e pretenziosa,
accecata dall'ideologia e intollerante delle altrui posizioni (la
sinistra, per intenderci, dei faziosi e dei
«fondamentalisti»).
Inutile dire che questa seconda sinistra – abituata ad aggredire gli
avversari a suon di insulti e pugni in faccia, quindi un po'
fascista – è per Saviano la sinistra comunista, erede,
scrive, della «pedagogia dell'intolleranza edificata per un
secolo dal Partito Comunista»; mentre l'altra – riformista –
è la sinistra socialista. Come nelle fiabe della nonna,
insomma, tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall'altra: un
bel quadretto manicheo che la dice lunga sulla raffinatezza del
personaggio e la complessità della sua visione.
Ma qual è il punto? Saviano, mascotte della fazione
progressista, si arrabatta come può nell'argomentare, a suon
di esempi ad hoc e citazioni estrapolate, una tesi inconfutabile
perché arbitraria. Gli si potrebbe ricordare, se ne valesse
la pena, che Benito Mussolini – non propriamente un campione di
mitezza e tolleranza, come proprio Gramsci gli potrebbe ricordare –
venne fuori dalle file socialiste, che del socialismo italiano sono
purtroppo eredi i più facinorosi colonnelli berlusconiani e
che senza i comunisti questo Paese non avrebbe avuto né la
Resistenza né quella Costituzione antifascista che Saviano
giura di venerare. Ma ne vale la pena?
No. E nemmeno merita tempo indugiare su altre stranezze di questo
articolo: il suo argomentare a favore della mitezza ricorrendo a
caricature e a mistificazioni; il suo perorare la causa delle buone
eresie accodandosi ai più vieti luoghi comuni; il suo ridurre
una vicenda complessa e contrastata a uno povero schemino di cui
anche uno studentello svogliato si vergognerebbe. Meglio lasciar
perdere, e limitarsi a constatare, desolati, a che cosa ci si
può ridurre quando si è mossi dalla preoccupazione di
piacere e di seguire l'onda. A Saviano diamo solo un suggerimento:
legga quanto Gramsci scrive sul servilismo degli intellettuali. E
stia tranquillo, non dovrà leggere tutti i Quaderni (il
tempo, si sa, è denaro): nell'edizione c'è un ottimo
indice analitico.
6 marzo 2012
Cosa c'è dietro gli attacchi a Gramsci
di Marco Albeltaro, del comitato scientifico di Marx XXI
All’interno di tutta la vicenda degli attacchi a Gramsci di cui
«la Repubblica» si è fatta grancassa, vorrei
soltanto soffermarmi sul «caso» Saviano, provando a
inserirlo in un quadro più ampio. Molti autorevoli studiosi
hanno puntualmente ribattuto agli errori e alla tendenziosità
dell’articolo di Saviano, non è quindi qui il caso di
ritornarci sopra.
Roberto Saviano è divenuto famosissimo grazie a un libro –
Gomorra - che è stato un «caso» letterario
costruito dai mass media e monumentalizzato dall’italico
provincialismo. Attorno a Saviano si è quindi costruita la
mitologia dell’intellettuale scomodo, del coraggioso alfiere della
giustizia, del povero martire che in ragione delle idee che professa
è costretto a vivere sotto scorta, anche quando si reca a New
York, come è di recente accaduto, per pontificare sulle
sfavillanti strade di Manhattan.
L’ombroso Saviano – ombrosissimo, direi, perché tutti sanno
che i maître à penser non ridono mai – ci aveva
già abituati ad altri interventi stucchevoli, come quando si
era messo a tessere le lodi di Israele descrivendo quello che
è un vero e proprio Stato razziale come un luogo di
democrazia, libertà, tolleranza. Quella volta gli aveva
risposto Vittorio Arrigoni - lui sì un vero eroe, senza
scorte e senza riflettori sempre accesi attorno a sé – con un
video che rimane una delle più eloquenti testimonianze di
cosa sia il coraggio della verità.
Ora Saviano, fra una trasmissione televisiva e l’altra, fra
un’intervista e un party (perché - si sa - gli intellettuali
più sono scomodi e più hanno la possibilità di
predicare durante le più seguite trasmissioni televisive e di
scrivere sui più letti quotidiani nazionali…) ha trovato il
tempo di recensire l’ultima fatica di Alessandro Orsini, un
sociologo politico non nuovo alle “sparate” su Gramsci, e di
scriverne su «Repubblica», un quotidiano che ormai non
perde occasione per buttare fango sulla storia del comunismo
italiano.
Saviano elogia quello di Orsini come uno dei saggi più
importanti che siano mai stati scritti sulla storia della sinistra
italiana senza accorgersi che in realtà si tratta di un testo
piuttosto frettoloso, di un pamphlet che invece di indagare
sentenzia, trascegliendo rapsodicamente testi presi ad arte per
sostenere una tesi trita e ritrita: i comunisti furono sempre brutti
e cattivi mentre i riformisti, e fra essi in particolare i
socialisti, furono i buoni, gli unici veri difensori e costruttori
della democrazia.
In realtà il problema vero non sta nel libro di Orsini che,
probabilmente, sarebbe passato quasi inosservato se Saviano non ne
avesse parlato su «Repubblica». Il fuoco della questione
sta nel ruolo pubblico che è stato costruito attorno a
Saviano, dipingendolo come l’intellettuale di riferimento del paese
civile, del paese buono, dell’Italia onesta e giusta. Una sorta di
coscienza critica nazionale. Ed ecco che allora non solo gli si
concede di parlare di qualsiasi argomento – anche di quelli di cui
non è per nulla esperto, come in questo caso -, ma lo si
incoraggia a farlo con trasmissioni televisive, interviste,
iniziative pubbliche. E attorno a chi lo critica si fa terra
bruciata, come è accaduto ad Alessandro Dal Lago e al suo bel
libro (Eroi di carta, manifestolibri).
Il punto è proprio il ruolo dell’intellettuale.
L’intellettuale – ce l’ha insegnato quel Gramsci così
insopportabile al nostro Proust campano – è colui che rompe
la coltre del conformismo per dire la verità in faccia al
potere, costi quello che costi. Come ha fatto Edward Said difendendo
la causa palestinese delle violenze fisiche di Israele e da quelle
verbali dei tanti Saviano di cui è affollata la corte dei
potenti del mondo. Ma spesso quando si dice la verità non si
viene invitati a fare trasmissioni televisive, non si ha accesso
alle prime pagine dei giornali, non si hanno tutti gli spazi
possibili ed immaginabili per pontificare. Perché la
verità fa male al potere ed il potere non tollera i nemici.
L’intellettuale, sempre per dirla con Said, è un outsider che
non accetta compromessi, che non si piega alle logiche del sistema
culturale e politico dominante, che non sostiene le cause dei forti
contro quelle dei deboli.
Saviano è però soltanto uno dei tasselli di un puzzle
ben più ampio. Si tratta infatti di capire – e lo dico con
sincerità e senza ironia – perché un quotidiano come
«la Repubblica» senta il bisogno, qui e ora, di
impegnarsi nel cimento di sparare contro figure come Gramsci e
Togliatti. Perché proprio loro e perché sparare a zero
contro quella straordinaria esperienza che fu il comunismo italiano,
quel «paese pulito in un paese sporco», per impiegare le
parole di un intellettuale che pagò caro per le proprie idee,
Pier Paolo Pasolini.
L’idea che mi sono fatto è forse elementare. Ed affonda le
radici nella convinzione che «la Repubblica» sia parte
di un clima culturale in cui è immerso tutto il mondo
politico antiberlusconiano che non ha radici (almeno ideali) di
classe: ossia il Partito Democratico e tutto quello che gli ruota
attorno, anche in polemica con esso, da Di Pietro a Grillo, fino a
SEL. Questo mondo politico vuole liberarsi di qualsiasi
eredità intellettuale e storica che non sia utile a
giustificare il suo agire. Si tratta di un mondo politico
autoreferenziale, completamente staccato dalla realtà
effettuale, post-moderno e post-democratico. Questo atteggiamento
verso il passato, tutto volto soltanto a denigrare, senza alcun
fondamento, i padri nobili del comunismo italiano (che sono poi i
padri nobili della democrazia costituzionale italiana) ha come fine
un ulteriore spostamento a destra della compagine politica che fino
a qualche mese fa stava – almeno nominalmente – all’opposizione
rispetto a Berlusconi.
Oggi il governo Monti ha azzerato qualsiasi
funzione politica di questo raggruppamento, ed in particolare,
all’interno di esso, del PD, con una di quelle operazioni
trasformistiche su cui proprio Gramsci ha scritto pagine definitive.
In questa situazione, invece di riappropriarsi di una tradizione che
potrebbe sostanziare un discorso politico più radicale - o
anche soltanto più decente - il mondo politico
ex-antiberlusconiano sceglie di scrollarsi definitivamente e
platealmente di dosso la grande eredità storica e culturale
che figure come Gramsci e come Togliatti rappresentano. Si tratta
soltanto dell’ultima – per ora – puntata di un percorso che è
stato avviato anni fa e di cui i principali artefici sono alcuni
dirigenti politici fra cui spicca Walter Veltroni.
Non si tratta soltanto più di dire, come fece proprio
Veltroni, che «Gramsci non ci appartiene più».
Ora si è alla fase successiva: Gramsci non ci appartiene
più perché era un violento, perché era il
maestro di quella «pedagogia dell’odio» e
dell’intolleranza di cui parla il duo Orsini-Saviano. Fare tabula
rasa del passato significa avere le mani libere per fare qualsiasi
cosa e per provare a farla digerire alla propria base, la quale
forse deciderà un bel giorno (che non mi pare troppo lontano)
di staccare la spina ad una partito, il PD appunto, nato già
morto.
Liberi tutti!, dunque. Liberi soprattutto di correre verso il
baratro di una politica che senza un albero genealogico non soltanto
non ha un passato, ma non ha nemmeno un futuro.
Se davvero questi nostri alfieri della via salottiera al riformismo
preferiscono sostituire nel loro pantheon ideale Gramsci con
Saviano, tanto peggio per loro. Non dicano poi però che
nessuno li aveva avvertiti.
8 marzo 2012
Gramsci , l'invenzione di un teorico liberale
di Guido Liguori | da il Manifesto
Ostaggio del fascismo e lasciato nel carcere dai comunisti
perché aveva preso le distanze dal marxismo. L'invenzione di
un profilo teorico inesistente, in un libro di Franco Lo Piparo
Un nuovo libro su Gramsci di Franco Lo Piparo non può che
destare interesse. Lo Piparo è noto fra gli studiosi
gramsciani per un volumedel del 1979 che fece comprendere
l'importanza che avevano avuto i giovanili studi di linguistica per
il comunista sardo. Un contributo di grande rilievo, anche se non fu
accolta dai più la tesi dell'autore secondo cui questi studi
erano alla base dell'originalità di Gramsci non accanto ad
altre fonti (in primis il dibattito nell'Internazionale comunista),
ma al posto delle stesse: Gramsci senza Lenin, insomma.
Il dietrofront di Croce
In anni recenti Lo Piparo si è occupato degli influssi che
Gramsci avrebbe esercitato, con la mediazione di Sraffa, sul secondo
Wittgenstein, ipotesi affascinante su cui si annuncia un più
ampio lavoro. Esce per il momento di Lo Piparo, però, un
volumetto intitolato I due carceri di Gramsci. La prigione fascista
e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), destinato a
far discutere su un versante diverso: quello della ipotesi, che in
alcuni autori è divenuta affermazione polemica (e a volte
bassamente propagandistica), secondo cui l'originalità del
suo pensiero avrebbe portato Gramsci alla fuoriuscita dal Pci e
dalla teoria e dalla prassi marxiste e comuniste. Fu Croce per primo
a tentare l'operazione di contrapporre Gramsci ai comunisti,
scrivendo nel 1947, di fronte alle Lettere: «Come uomo di
pensiero egli fu dei nostri», ovvero un liberale. Molti
però - non solo Lo Piparo - dimenticano di aggiungere che
l'anno dopo, all'uscita dei Quaderni, don Benedetto ammise di
essersi sbagliato, scrivendo che Gramsci era - purtroppo, dal suo
punto di vista - proprio un comunista e un marxista. Ovviamente il
taglio di Lo Piparo è quello dell'esegeta che analizza gli
scritti. Eppure anch'egli si lascia prendere da quelle «ansie
ideologiche» che rimprovera agli interpreti che (come Croce,
verrebbe da dire) sono convinti che il pensiero gramsciano si situi,
pur in modo originale, nell'ambito del marxismo e del comunismo.
Vediamo alcuni esempi.
La tesi da cui parte il libro è «che nella lettera del
27 febbraio 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in
maniera criptica, la propria estraneità, filosofica
anzitutto, al comunismo come si andava realizzando». Ora,
nella citata lettera alla cognata Tania non vi è alcuna
questione di «estraneità filosofica». Vi è
in primo luogo il rapporto difficile e drammatico con la moglie
russa, Giulia, che secondo Lo Piparo sarebbe una
«metafora» dell'Urss. Da qui si deduce che Gramsci
voglia manifestare la sua decisione di separarsi dal movimento
comunista. Che i rapporti tra Gramsci e il Pcd'I siano stati per due
o tre anni burrascosi è cosa nota. Che nella lettera in
questione anche di questo si tratti è evidente. Sul fatto
però che sia Togliatti il vero carceriere di Gramsci non si
può che dissentire (come d'altra parte su un'altra e
più paradossale affermazione di Lo Piparo, secondo cui
«Mussolini ha protetto Gramsci in carcere»).
In merito alla famosa lettera di Grieco del '28 a partire da cui il
giudice Macis insinuò nel prigioniero il sospetto del
tradimento subìto, si è scritto molto. È
inutile ricordare come Terracini e Scoccimarro, che ricevettero
lettere analoghe, non se ne risentissero; come Fiori abbia
dimostrato che Macis faceva il suo mestiere di provocatore; come
Sraffa abbia fatto notare che il sospetto fosse montato in Gramsci
solo anni e anni dopo la famosa lettera, in una situazione
psicofisica logora oltre ogni dire; come Canfora abbia addirittura
sostenuto che la missiva fosse un falso dell'Ovra; come la stessa
nulla aggiungesse a quanto era a tutti noto, che Gramsci era un
dirigente comunista: affermazione tale da non rafforzare l'accusa e
infatti al processo contro Gramsci la lettera di Grieco non fu
esibita. Al di là delle buone o delle cattive ragioni di
Gramsci, resta il fatto che nella lettera a Tania egli, dopo aver
scritto di aver preso un «dirizzone» (una cantonata),
aggiunge: «Mi persuade ancora che ciò non è
perfettamente vero l'atteggiamento tuo e specialmente
dell'avvocato». Ovvero di Sraffa, tramite dei rapporti di
Gramsci con Togliatti e con il Comintern. Tradotto: nonostante dubbi
e sospetti, il comunista sardo sapeva che i compagni non l'avevano
abbandonato.
Un altro esempio: ricoverato nelle cliniche di Formia e poi di Roma,
Gramsci non scrisse molto, solo poche nuove note, ricopiando con
enorme fatica scritti precedenti. Perché non ricordare che
dopo Turi Gramsci è sempre più gravemente malato e con
pochissime energie? Invece Lo Piparo - facendo leva su alcune
affermazioni di vari protagonisti della vicenda in cui si parla di
«30 quaderni» o di «una trentina di
quaderni» - arriva a ipotizzare che un quaderno sia stato
fatto sparire da Togliatti perché troppo eterodosso. Ora, a
parte che i quaderni sono 29 di note e appunti, 4 di sole
traduzioni, 2 non utilizzati, più uno usato da Tania per un
indice provvisorio; a parte che è improbabile che Giulia o
Tania o altri distinguessero senza adeguato studio tra i vari tipi
di quaderni (alcuni dei quali contengono sia traduzioni che note); a
parte che essi son di vario formato e uno è quasi del tutto
non scritto; a parte tutto questo, che può essere causa di
approssimazione o errore, perché - come sostiene Lo Piparo -
Togliatti avrebbe distrutto questo trentesimo e pericolosissimo
quaderno in Italia, e non più prudentemente in Russia, quando
durante la guerra ne fece lettura?
In questa sua ansia di restituirci un Gramsci liberaldemocratico, Lo
Piparo trae persino dai Quaderni una definizione dell'egemonia
tagliando male la citazione: «L'egemonia presuppone... un
regime liberal-democratico», affermerebbe Gramsci secondo Lo
Piparo. Gramsci in effetti lo scrive(p. 691 dell'edizione
Gerratana), ma non è la sua posizione, è quella di
Croce, riassunta e contrapposta a quella di Gentile, come risulta
palese a chiunque legga interamente la nota.
La custodia dei Quaderni
Ancora: secondo l'autore, la minuta che in accordo con Gramsci
Sraffa stende negli ultimi giorni di vita del prigioniero, con la
quale egli voleva chiedere il permesso di espatriare nella Russia
sovietica - richiesta che per molti aspetti definisce la posizione
di Gramsci, il suo ritenersi comunista fino all'ultimo -, sarebbe
l'estremo tentativo di «Togliatti-Stalin» (e Sraffa)
«di tenere il pensatore sardo nel secondo carcere»,
quello comunista. Ma come era possibile che costoro si illudessero
che un Gramsci non più comunista - secondo Lo Piparo - ormai
da quattro anni obbedisse, visto che l'istanza doveva essere firmata
di suo pugno? Mai nessuno, neanche Lo Piparo, ha parlato di ricatti,
di minacce per la famiglia di Gramsci in Urss: una ipotesi senza
fondamento. Anche se si pensa che, morto Gramsci, le sorelle Schucht
si appelleranno, in polemica coi comunisti italiani, proprio a
Stalin, per ottenere la gestione degli scritti dello scomparso.
Per fortuna Togliatti riuscì a ottenere le carte e a gestirle
in modo da evitare che Gramsci apparisse come un eretico
antistalinista, cosa che avrebbe significato che nulla ci sarebbe
arrivato di lui fino agli anni '90. Quando Togliatti scriveva a
Dimitrov che i Quaderni dovevano essere in alcuni passaggi
«elaborati» prima di essere pubblicati, di questo si
mostrava consapevole. Come alla fine lo stesso Lo Piparo ammette,
scrivendo che è solo grazie a Togliatti che conosciamo i
Quaderni. Non avrebbe potuto il luciferino Ercoli bruciarli subito
tutti?
Scrive Lo Piparo: «In mancanza di documenti persi o distrutti
o non ancora trovati, l'immaginazione è autorizzata a
prendere le più disperate direzioni». No, lo studioso,
lo storico non può procedere in questo modo. Gramsci non
è il personaggio di un romanzo. «Di ciò di cui
non si può dire, si deve tacere», ha scritto
Wittgenstein. Credo che - in mancanza di nuove carte e ritrovamenti
d'archivio - sulle questioni affrontate dal libro gli studiosi di
Gramsci a questa norma dovrebbero attenersi.
8 marzo 2012
Quanti errori su Gramsci
di Nerio Naldi, Università di Roma, La Sapienza | da
l'Unità
Purtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono
ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in
particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli
anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non
addirittura su contraffazioni. E su questa linea, probabilmente in
modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario
Biocca pubblicato il 25 febbraio da "La Repubblica". Alcune delle
considerazioni che si possono leggere in quell'articolo, che in
realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di
pubblicazione sulla rivista "Nuova Storia Contemporanea", sono
svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza
attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma
sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di
accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della
libertà condizionale - e si tratta del punto più
importante discusso nell'articolo - è espresso con grande
chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.
Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l'articolo 176 del
Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò
quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver
mostrato "ravvedimento", e che in questo senso la procedura poteva e
può essere considerata "analoga alla domanda di grazia".
Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è
vero.
Un riferimento al "ravvedimento" era contenuto nell’articolo 16 del
Codice Penale del 1889 (il cosiddetto "Codice Zanardelli"):
“Il condannato alla reclusione o alla detenzione per un tempo
superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e
non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la
metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale
condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua
istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il
rimanente della pena non supera i tre anni” (Codice Penale per il
Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889).
Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l'introduzione del
cosiddetto "Codice Rocco". E nel Codice Rocco l'articolo 176
recitava in questo modo:
"Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque
anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre
quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona
condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale,
se il rimanente della pena non supera i cinque anni" (Il nuovo
codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale,
Hoepli, Milano, 1939).
Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da
Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la
“buona condotta” è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che
potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per
quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una
tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle
evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche
il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la
dichiarazione che Gramsci firmò nell'autunno del 1934
impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare
propaganda politica in Italia o all'estero non aveva nulla a che
fare con una "sottomissione" o un "ravvedimento" ... certamente
anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe
accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua
capitolazione.
Forse però Biocca non ha studiato né il Codice
Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il
testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno
1962; infatti è da questo che Biocca cita: "Il condannato a
pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia
tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione
condizionale" (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987)
... ma non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava
la sua domanda.
Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento anche alle
affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando
una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci "tradisse" i
propri compagni di partito.
8 marzo 2012
Un revisionismo storico in nome del bene assoluto
di Guido Liguori da il Manifesto
Atto primo. Esce il libro su Gramsci di un linguista molto noto e
già benemerito per gli studi gramsciani, Franco Lo Piparo.
Sostiene che Gramsci fu incarcerato, oltre che dai fascisti, dal suo
partito. A confronto di Togliatti, Mussolini vi ri! veste i panni
del protettore del povero Gramsci: sembra quasi che quest’ultimo sia
rinchiuso in un carcere sovietico e il duce stia facendo di tutto
per liberarlo. Interpretazioni paradossali, ma non nuove, già
al centro delle campagne storiografiche craxiane e anti-comuniste
degli anni Ottanta. Nuova è invece la tesi che Togliatti
avrebbe addirittura fatto sparire un quaderno, scoop desunto dalle
contraddittorie testimonianze d’epoca, che parlano a volte di
trenta, a volte di trentacinque, a volte di trentaquattro quaderni.
Strano che prima di Lo Piparo questa geniale osservazione fosse
sfuggita a quasi settant’anni di interpretazioni. Non mi soffermo su
questo perché ho già parlato del libro sul manifesto
del 2 febbraio. Va aggiunto però che la Repubblica – in
genere parca nell’occuparsi di Gramsci – ha dedicato al libro (in
data 28 gennaio) una recensione a tutta pagina! , sposandone
più o meno esplicitamente tutte le tesi.
Intolleranti e violenti
Atto secondo. Dario Biocca scrive per una rivista di storia
(«Nuova storia contemporanea», alfiere del
«revisionismo storiografico» made in Italy) un saggio in
cui sostiene che Gramsci, per ottenere la libertà
condizionale, si sarebbe appellato a un articolo di legge imperniato
sul «ravvedimento» del detenuto. Insomma – questo
è quanto si vuole sostenere – emergerebbe un Gramsci che alla
fine si sarebbe piegato al fascismo, sia pure per sopravvivere,
contro la tradizione che vorrebbe il leader comunista sempre
indisponibile a chiedere la grazie per non apparire un capitolardo.
Anche in questo caso, il saggio vie! ne ampiamente
«anticipato», ovvero parzialmente riprodotto,! dal
quotidiano di cui sopra (in data 25 febbraio). Non si potrà
più dire che non parli di Gramsci!
Atto terzo (e gran finale?). Il notissimo Roberto Saviano, ancora su
la Repubblica (28 febbraio), prendendo spunto da un pamphlet su
Gramsci e Turati di Alessandro Orsini (Rubbettino editore), ovvero
su tradizione comunista e tradizione riformista, riporta alcune
affermazioni di Labriola, Gramsci e Togliatti che, staccate dal loro
contesto storico, fanno apparire i tre esponenti della tradizione
marxista e (gli ultimi due) comunista come antesignani di ogni
intolleranza violenta. Antonio Labriola solamente capace di invocare
il «tanto peggio, tanto meglio». Gramsci che inneggia
alla violenza verbale e fisica (sia pure moderata: nella fattispecie
«un cazzotto»). Togliatti che eccede con le parole nel
giudicare Turati (nel 1932, in piena strat! egia staliniana del
socialfascismo, che sarà ben presto archiviata e trasformata,
grazie a Dimitrov e a Togliatti, nella stagione dei fronti popolari
e del patto Pci-Psi). Per Saviano, il Pci e i comunisti sono i
maestri dell’intolleranza, i padri spirituali di quell’estremismo
che oggi – afferma lo scrittore – guarda con simpatia a Cuba e a
tutti i regimi più feroci purché antiamericani.
C’è di che pensare, di fronte a tale concentrazione di fuoco.
Il revisionismo storiografico applicato alla storia del comunismo,
dei comunisti italiani, di Gramsci e di Togliatti è – come ho
accennato – moneta di vecchio conio. Ma una tale virulenza, una tale
concentrazione di fuoco, e in un giornale considerato vicino al
centrosinistra, come si spiega? Certamente non crediamo in nessun
tipo di complotto, né invochiamo censure. M! a un po’ di
equilibro, qualche opinione che vada in direzione opp! osta, che
faccia conoscere al lettore che anche nella comunità
scientifica vi sono ben altre valutazioni e ricostruzioni della
storia dei comunisti italiani, se la concede persino il Corriere
della sera: la concorrenza – vanto del liberalismo – non dovrebbe
migliorare il prodotto e offrire migliori possibilità
(conoscitive e interpretative) al lettore?
Un mondo di buoni e cattivi
Sul piano dei contenuti, è difficile in poco spazio replicare
a tutta questa serie di osservazioni superficiali e tendenziose
oltre ogni dire. Il «ravvedimento» di Gramsci, ad
esempio, è una forzatura senza giustificazioni. Come dimostra
la documentazione già pubblicata da Paolo Spriano negli anni
Settanta, Gramsci – nel fare domanda di ! libertà
condizionale – si appella a una legge esistente (nel Codice Rocco,
art. 176) e non dichiara alcun ravvedimento. La valutazione della
«condotta» del carcerato – che è altra cosa –
è tutta a carico del giudice, come è giusto che sia.
Diverso è invece il modo in cui Saviano guarda a Gramsci
(anche questo «doppio metodo» è in uso da
decenni): per lo scrittore Gramsci non è un
«buono» di contro al «cattivo» Togliatti,
entrambi sono pessimi per il solo fatto di essere comunisti.
Ciò che sconcerta nell’articolo di Saviano è un metodo
segnato da profonda incultura storica. Si prendono poche citazioni
isolate e vi si costruisce una narrazione di comodo. Labriola, il
filosofo napoletano primo maestro di Croce, è dunque alla
stregua di un brigatista rosso? Il ! Gramsci che è oggi il
pensatore italiano più studiato nel! mondo sta tutto in quel
giovane polemista che eserciterebbe la violenza della penna nel
1916, in piena lotta pro o contro la guerra? Non erano un po’
più violenti quei guerrafondai contro cui quel Gramsci si
batteva? E a proposito di guerra, interventismo e mussolinismo,
consiglierei anche a Giorgio Fabre, e ad Alias che lo ospita (19
febbraio), più cautela, nel delineare i tratti di un Gramsci
mussoliniano ben oltre il 1914: tutti gli articoli su cui la
ricostruzione di Fabre si fonda son frutto delle polemiche tra
comunisti e socialisti dell’inizio degli anni Venti: le
ricostruzioni degli anni precedenti, fatte nei mesi e negli anni
intorno alla scissione di Livorno, difficilmente potevano avvenire
con l’animo distaccato dello storico.
Untorelli a Cuba
Tornando a Saviano, Togliatti, uno dei padri della democrazia e
della Costituzione italiane, da molti dipinto alla stregua di un
prudente Cavour del Novecento, è davvero tutto in quel
giudizio eccessivo e sbagliato su Turati, che va contestualizzato in
quegli anni «di ferro e di fuoco»? E il Pci, il partito
di Berlinguer, era in combutta da sempre con gli
«untorelli»? Finanziava le Brigate Rosse, magari con
«l’oro di Mosca»? E Cuba è solo illibertà
(e dunque, per converso, il potente vicino stelle e strisce è
davvero il campione della libertà)?
Insomma, la storia del Pci sembra ancora oggi oggetto di attacchi
politici e giornalistici a dir poco sorprendenti. Viene il dubbio
che il ricordo e la memoria di quel grande partito di massa,
artefice tra i principali della nascita di una Repubblica democra!
tica fondata sul lavoro e veicolo senza eguali di partecipazione
politi! ca e allargamento dei diritti per i subalterni, diano ancora
fastidio. A chi? Evidentemente, credo, a chi legge la politica, come
va di moda oggi, sub specie elitaria, leaderistica, delegata,
apartitica. Chi non si colloca sotto questi stendardi, però,
dovrebbe prestare più attenzione a non infangare senza motivi
legittimi quelle che Pasolini chiamava, non a torto, «le belle
bandiere». E chi ne ha il ricordo deve reagire.
8 marzo 2012
Perché non c'è stato nessun ravvedimento da parte di
Gramsci
di Joseph Buttigieg |da la Repubblica
Le bugie degli studiosi faziosi o incompetenti hanno le gambe corte,
se chi sa interviene e corregge.
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni
dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente
da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è
il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un
fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della
corruzione della società civile. Nella sua introduzione al
Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di
«assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello
svolgimento dell´attività scientifica [... ],
irresponsabilità verso la formazione della cultura
nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per
l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha
il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni
paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi
loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in
una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in
punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le
polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più
recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante.
In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato
in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto
che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al
cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla
supposizione che – con la richiesta per la libertà
condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre
del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il
comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la
sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il
condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione
della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere
sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla
libertà condizionale».
Questo, però, non è il testo dell´articolo 176
in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma
il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel
novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera
diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci
Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore
nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava
così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo
superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della
pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove
costanti di buona condotta, può essere ammesso alla
liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i
cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la
richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci
nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona
condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che
potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per
quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una
tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle
evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche
il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del
codice penale che non indica la revisione del articolo 176
effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento
dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di
un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura
intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi
testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera
del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del
documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica):
«Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi
concesso non è da attribuirsi a cause politiche».
Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati
pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come
Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di
Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di
Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è
un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata
e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche
curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di
Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse
contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe
leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che
il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto
regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci
è da prendere sul serio solo perché è un
sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha
fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali,
degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato
opportuno ripristinare.
(L´autore è presidente dell´International Gramsci
Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal
carcere" per la Columbia University Press)
8 marzo 2012
Violenze su Gramsci
di Salvatore Tinè, Comitato scientifico di Marx XXI
La recensione di Roberto Saviano del libro di Alessandro Orsini
"Gramsci e Turati" colpisce per la sua volgarità. Vi si
accusa Antonio Gramsci di avere nientemeno fomentato la violenza e
esaltato l'intolleranza nei confronti degli avversari politici. Per
dimostrare tale assunto, Saviano cita alcune affermazioni del
pensatore e dirigente comunista, che si possono leggere in alcuni
suoi articoli e interventi degli anni ' 20. Si tratta di
affermazioni, certamente molto dure, che non possono essere
comprese, ove le si estrapoli dal contesto della lotta politica in
Italia, negli anni che videro non solo la scissione del movimento
operaio e socialista italiano, con la nascita del Partito comunista
d'Italia ma anche l'insorgere della reazione fascista e l'avvento al
potere di Mussolini. La durezza dei giudizi di Gramsci nei confronti
non solo di Filippo Turati ma anche dell'intera tradizione del
socialismo e del riformismo italiani appare, quindi, pienamente
giustificata, in quel passaggio terribile della storia del nostro
paese.
Essa discende peraltro da una riflessione profonda sulle debolezze e
i limiti intrinseci delle culture politiche maggioritarie del
movimento operaio italiano, di quella "massimalista" come di quelle
"riformiste", tutte incapaci di individuare i caratteri profondi
della crisi della società e dello stato italiani del primo
dopoguerra e di delineare così una concreta prospettiva
strategica di fuoriuscita da essa. Il tema dell'"egemonia" è,
non a caso, già al centro della riflessione di Gramsci nel
periodo "ordinovista" come nella fase della sua biografia politica
che lo vede impegnato nel lavoro di costruzione di un nuovo gruppo
dirigente del PCd'I nel '23-'24. Altro che esaltazione della
violenza! Il riformismo aveva fallito per Gramsci proprio
perchè non aveva saputo individuare nella lotta per
l'egemonia, ovvero per la costruzione di un nuovo "blocco storico",
il terreno fondamentale della trasformazione in senso democratico e
socialista della società. Certo, non sfugge a Gramsci il
nesso fondamentale che lega ogni "egemonia" al "dominio" di una
classe e quindi ad un apparato di coercizione statale. Ma Saviano
forse non sospetta che a Gramsci ciò non sfuggiva proprio in
quanto lettore attento non solo di Marx e Lenin ma anche di
Machiavelli e del liberale Croce, grandi, geniali maestri di
"realismo politico".
L'idea gramsciana dell'egemonia come "rapporto pedagogico", come "direzione intellettuale e morale" è certo tutto il contrario di una astratta esaltazione della "forza" in quanto tale: come in Machiavelli, anche in Gramsci lo stato è sempre "egemonia corazzata di coercizione", quindi tutt'altro che un mero apparato di dominio, teso alla pura e semplice eliminazione degli avversari. Il tema della violenza è peraltro al centro della grande riflessione teorica e politica del Novecento proprio negli anni in cui Gramsci si formava e diventava un protagonista della storia italiana. Si pensi, solo per fare un esempio, al grande saggio di Walter Benjamin "Sulla violenza", un'analisi penetrante e geniale della immane violenza del potere "poliziesco" nei più grandi stati capitalistici e delle forme in cui tale violenza viene occultata e dissimulata dietro le "maschere" della "democrazia" e del "parlamentarismo".
C'è quindi una violenza nascosta e non
solo palese, come quella, squisitamente "ideologica", sottesa ad un
siffatto attacco non solo al maggiore intellettuale italiano del XX
secolo ma anche al più grande dei martiri dell'antifascismo,
fulgido esempio di coerenza intellettuale e morale, per tutti noi,
comunisti e no. Ma non è forse il caso di continuare: basta
invitare Saviano non solo ad un atteggiamento di maggiore
umiltà intellettuale ma anche a studiare e a riflettere di
più sulla complessità della dialettica della storia e
della politica.
15 marzo 2012
Il lorianismo del prof. Orsini, Turati, Gramsci e... Saviano
di Ruggero Giacomini, Comitato Scientifico di Marx XXI
Se Gramsci fosse vivo e potesse leggere il libro sulle “due
sinistre” di Alessandro Orsini, che tanto ha entusiasmato Saviano e
“La Repubblica”, lo appunterebbe probabilmente per una nota della
sua rubrica sul fenomeno mai morto del “lorianesimo”. Cioè su
quegli intellettuali che parlano con saccenza di cose che non
conoscono.
Loria, per ricordare, era lo “scienziato” che proponeva di risolvere
il problema della fame nel mondo coprendo di vischio le ali degli
aerei e …catturando uccelli! E in carcere Gramsci dedicò uno
spazio dei suo “Quaderni” al fenomeno, che andava ben oltre il
“maestro”.
Orsini non conosce la rubrica di Gramsci e neppure l’ ”illustre
scienziato” che pure cita ripetutamente: altrimenti non ne
sbaglierebbe il nome, scambiandolo per un fiume della Francia, come
pure fa ripetutamente, nel testo e nell’indice dei nomi.
Orsini dichiara di voler mettere a confronto il pensiero
politico-pedagogico di Turati con quello di Gramsci, per dimostrare
che il primo è assolutamente preferibile al secondo.
Operazione certamente legittima e che avrebbe potuto anche essere
interessante, se avesse osservato prima di tutto l’obbligo
elementare di ogni studente: studiare e conoscere l’argomento di cui
si occupa.
Di Turati Orsini si occupa soltanto degli interventi ai congressi,
perché, teorizza, nel contraddittorio risalta meglio la
specificità e la differenza dei pensieri. Si tratta
però di congressi a cui Gramsci non è presente e non
c’è alcun confronto o diretta polemica tra i due. Così
Orsini riempie il vuoto diffondendosi sulla critica di Turati ad…
Arturo Labriola, assunto d’ufficio come modello del pensiero
rivoluzionario, gramsciano e comunista.
Qualche commentatore onesto fuorviato dal furore savianesco ha
potuto pensare che ci si riferisse ad Antonio Labriola, il primo
pensatore marxista in Italia che Gramsci effettivamente stima molto
e che a buon diritto può essere riferito alla tradizione
comunista.
Ma l’Arturo, che c’entra? Semmai è un modello di quei
personaggi che l’Orsini esalta contro Gramsci, perché
propensi a cambiare spesso opinione, essendo transitato nel
socialismo e nel sindacalismo rivoluzionario, sostenitore della
guerra coloniale di Giolitti in Libia e con Giolitti ministro prima
del fascismo.
Un altro requisito minimo richiesto allo studente di Liceo o di
Università, e che dovrebbe essere un abito naturale per chi
occupa un posto di accademico e di educatore, è di riportare
esattamente il pensiero che si vuole confutare, e non di aggiustarlo
e distorcerlo secondo il proprio comodo per dimostrare di aver
ragione.
Così il noto brano di Gramsci, Indifferenti, nel numero unico
de “La Città futura” del febbraio 1917 per la Federazione
giovanile socialista del Piemonte, dimostrerebbe secondo Orsini “la
chiusura preventiva nei confronti delle idee degli avversari” e il
disprezzo per “gli intellettuali che non dimostravano di essere
faziosamente schierati” (pp.70-71).
Gramsci scrive sul “Grido del Popolo” del 23 marzo 1918, e siamo in
piena guerra sotto la censura: “per noi chiamare uno ‘porco’ se
è un porco, non è volgarità, è
proprietà di linguaggio”. Orsini assume questa affermazione
come dimostrazione di un “principio” che sarebbe “alla base” della
pedagogia di Gramsci, e cioè che “un intellettuale inviso al
Partito deve essere considerato un ‘porco’ e deve essere apostrofato
esattamente in questi termini” (pp.74-5).
Gramsci è all’epoca un militante del partito socialista, ma
l’Orsini per le finalità del suo pamphlet politico identifica
incurante dell’anacronismo il Partito sempre e comunque, anche
quando non esisteva, col partito Comunista.
E non si fa scrupolo di presentare come di Gramsci concetti che sono
solo suoi, come ad esempio a p.90 del suo libro, riferendo di un
articolo dell’Ordine nuovo che invitava i lettori a discutere con
spirito di costruttori della scuola del futuro:
“Nella società comunista, scrive Gramsci, il ruolo più
importante sarebbe spettato alla scuola la quale, grazie alla
disciplina imposta dalla dittatura del proletariato, avrebbe
svuotato la mente dei fanciulli per poi riempirla di contenuti
marxisti-leninisti”.
Solo che a scrivere non è Gramsci, ma l’Orsini, e lo
svuotamento e il riempimento sono tutti nella sua testa!
Lo stesso foglio giovanile “La Città futura” sarebbe la prova
della pedagogia di Gramsci di “indottrinamento ideologico…
attraverso la ripetizione ossessiva e martellante di idee e di
concetti rivolti a ottenere l’obbedienza incondizionata alle
direttive del Partito”, di scelta della “violenza per affermare le
proprie idee”, del “dovere di esercitare il massimo
dell’intolleranza contro coloro che dissentono” (pp.73-6).
Quest’ultimo assunto è appoggiato in particolare su un
articolo di Gramsci del dicembre 1917, Intransigenza-tolleranza/
intolleranza transigenza, citato dalla raccolta del 1958 degli
Scritti giovanili nella versione ampiamente tagliata dalla censura,
ignorando che è disponibile la versione integrale, dove si
può leggere, a confutazione plateale del metodo orsinesco,
l’insistito concetto di Gramsci sulla verità rivoluzionaria:
“Gli uomini sono pronti ad operare – scrive infatti Gramsci
censurato - quando sono convinti che nulla è stato loro
nascosto, che nessuna illusione è stata, volontariamente o
involontariamente, creata in loro. Ché se devono
sacrificarsi, devono sapere prima che può essere necessario
il sacrificio”. E ancora: “Chi non ha potuto convincersi di una
verità, chi non è stato liberato da una falsa
immagine, chi non è stato aiutato a comprendere la
necessità di un’azione, defezionerà al primo urto
brusco cosi suoi doveri, e la disciplina ne soffrirà e
l’azione sboccherà nell’insuccesso”. (La Città futura,
Einaudi 1982, pp.479-80).
La verità è necessaria per il pensiero e la pratica
rivoluzionari. Probabilmente per chi come Orsini si sente impegnato
a conservare l’ordine capitalistico esistente la debolezza di
argomenti convincenti induce a… falsificare.
PS. A Roberto Saviano, se le parole hanno un senso.
Lei ha definito il libro dell’Orsini “ la più bella
riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni”, forse
lo ha fatto per amicizia o perché non conosce la materia,
può essere scusato. Ci permetta però alcune domande
suggeriteci da quanto ha scritto sui suoi convincimenti:
Dice che bisogna essere sempre “tolleranti” con gli avversari: crede
ora forse che bisognerebbe “convivere” anche con la mafia, come
diceva quel ministro?
Dichiara il suo entusiasmo per la non violenza: come mai allora non
condanna la repressione israeliana a Gaza e l’interventismo militare
sempre più aggressivo dei sedicenti “esportatori di
democrazia”?
Sostiene con Turati il “diritto all’eresia”: e allora perché
spara con tanta virulenza sugli “eretici” di oggi, i comunisti
sgraditi ai potenti che non la pensano come Lei, tenuti fuori dal
parlamento non dagli elettori, ma da una legge sbarratoria di
discriminazione per cui il voto non è più uguale per
tutti, e che Lei come Liberale dovrebbe condannare?
Sarebbe gradita una risposta.
16 marzo 2012
Gramsci e gli odierni esempi di lorianismo
di Giacomo Tarascio, Historia Magistra
Elogio dei riformisti [“la Repubblica”, 28 febbraio 2012]:
così si intitola la recensione che Roberto Saviano dedica al
libro di Alessandro Orsini Gramsci e Turati. Le due sinistre
(Rubbettino, 2012). Il recensore definisce quella di Orsini niente
meno che «la più bella riflessione teorica sulla
sinistra fatta negli ultimi anni»; è impossibile,
dunque, non cogliere dai toni dell’articolo la piena adesione
ideologica a delle tesi edificate su una lettura grossolana dei
testi gramsciani. Nel suo libro Orsini ricostruisce in maniera a dir
poco discutibile la divisione fra le due anime della sinistra
italiana: quella riformista e quella rivoluzionaria, impersonate
rispettivamente da Turati e Gramsci.
Il ritratto che esce da questo confronto interno alla sinistra
è quello di un’ala tollerante, realista e tutta protesa al
benessere dei lavoratori contrapposta all’ala estremista,
intollerante, dogmatica e violenta. Principali animatori
rivoluzionari sono Antonio Labriola, Palmiro Togliatti e, appunto,
Gramsci; le attenzioni di Orsini si concentrano in particolare su
quest’ultimo, reo di aver educato all’odio intere generazioni di
militanti. Questa costruzione avviene attraverso ritagli presi qua e
là in maniera funzionale allo scopo di dimostrare l’esistenza
di una cosiddetta “pedagogia dell’intolleranza”, concetto ricavato
dall’autore senza indicare se le parole estrapolate si riferiscono
al Gramsci studente e poi giornalista, al politico o allo scrittore
dei Quaderni.
Orsini non è nuovo a questo genere di pseudo costruzioni
storico-politiche: ci aveva già deliziato con
l’evitabilissimo Anatomia delle
Brigate Rosse (Rubbettino, 2009), di cui abbiamo parlato
nell’editoriale del numero 7 della nostra Rivista. Fulminato da
tanto acume storiografico, Saviano non ha resistito alla tentazione
di irrorare la carta e il web con l’ennesimo sermone, spinto anche
da un senso di opinionismo onnipotente di chi tutto sa e tutto
può dire, al punto da criticare, dando l’impressione di non
averne mai letto una riga, Gramsci, l’italiano contemporaneo
più letto e studiato fuori dai confini natali.
L’editorialista de «la Repubblica» prende per buone
tutte le citazioni gramsciane e i concetti contenuti nel libro,
replicandone così la banalità e l’inconsistenza
metodologica. Per rimediare a questi difetti bastava compiere una
semplice e superficiale ricerca in rete, dove le opere gramsciane
sono tutte disponibili gratuitamente e in formato digitale.
Sarebbero stati sufficienti pochi clic a Saviano per risparmiare a
sé stesso una pessima figura e a noi un saggio di arrogante
ignoranza.
Dunque immaginiamo Saviano afflitto, come lui scrive, da domande del
tipo «come si coniugano le due anime della sinistra, quella
riformista e quella rivoluzionaria?» e «che genere di
dialogo c'è stato tra loro?»: per fortuna dello stato
d’animo del Nostro, possiamo affermare con sicurezza che, viste le
risposte, l’angosciosa riflessione non si è protratta oltre i
cinque minuti. Nella sua recensione Saviano si dice scosso dalla
scoperta delle parole con le quali Gramsci «definiva un
avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per
noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio
mestruato”». E invece no! Importa a chi erano rivolte quelle
parole, eccome! È qui che si trova la differenza tra lo
storico vero e l’ideologo opportunista. La frase incriminata
è rivolta al conte Delfino Orsi, all’epoca direttore della
«Gazzetta del Popolo» e futuro senatore fascista, ed
è tratta da un articolo di Gramsci pubblicato sull’edizione
torinese dell’«Avanti!» il 19 aprile 1916.
Ne I moventi e Coppoletto il giovane redattore della testata
socialista – quest’ultima, purtroppo, com’è ben noto dalle
cronache giudiziarie, negli ultimi anni preda di un degrado che ne
ha offuscato l’antico valore – risponde al giornalista della
«Gazzetta del Popolo» Giuseppe Dardano che accusava il
giornale socialista di attaccare in maniera strumentale Orsi,
implicato in uno scandalo di corruzione che coinvolgeva gli
organizzatori dell'Esposizione Universale di Torino del 1911. La
redazione dell’«Avanti!» infatti conduceva da tempo una
campagna stampa di denuncia contro coloro che come Orsi si erano
arricchiti con l’evento, ma in tutto questo Dardano non riusciva a
scorgere che un attacco da parte di pacifisti a uno dei principali
propagandisti dell’interventismo. Il quotidiano socialista era a sua
volta sotto attacco – mediatico, ma non solo – in quanto
rappresentava una delle pochissime voci contrarie alla guerra
all’interno del panorama dell’informazione; difatti parliamo degli
anni della Prima guerra mondiale, contesto nel quale la
«Gazzetta del Popolo», all’opposto, costituiva uno dei
punti di riferimento del bellicismo e dell’interventismo nazionale:
l’adesione di questo giornale alle ragioni del conflitto era tale da
portarlo a mentire ai suoi lettori, al punto da nascondere la
pessima conduzione delle operazioni militari da parte dei comandi
militari italiani. Da lì a pochi mesi, agosto 1917, Orsi e il
suo giornale si schierarono dalla parte della sanguinaria
repressione (50 morti) che domò la rivolta popolare scoppiata
a Torino in seguito alla mancanza di pane; nonostante la loro natura
spontanea i moti diedero alle autorità il pretesto per
arrestare decine di dirigenti e militanti socialisti.
Anche il terzo esempio gramsciano usato da Saviano si riferisce allo
stesso periodo: «arrivò persino a tessere l'elogio del
“cazzotto in faccia” contro i deputati liberali». È da
notare che la formula cazzotto in faccia venga posta fra virgolette
come fosse una citazione, tuttavia tale formula non è mai
stata usata da Gramsci; facciamo finta che non si tratti di malafede
e prendiamo la cosa come una maldestra semplificazione. L’articolo
in questione, a cui si riferisce lo stesso titolo di Saviano, si
intitola Elogio del cazzotto, pubblicato sull’«Avanti!»
il 12 giugno 1916; anche in questo caso la polemica gramsciana era
rivolta verso un accanito interventista, Giuseppe Bevione, famoso
per i suoi reportage fasulli dal fronte libico e, guarda caso,
futuro senatore fascista. L’articolo si riferisce a una rissa
scoppiata alla Camera dopo una manifestazione di opposizione alla
guerra alla quale Bevione rispose calunniando i socialisti, secondo
lui pagati dal nemico: nella zuffa che ne seguì Bevione venne
rispettosamente colpito dal tollerante pugno del riformista, e
turatiano, Nino Mazzoni. Gramsci non condanna il gesto, ma allo
stesso tempo nel suo commento non c’è traccia di incitamento
alla violenza: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto
del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di
Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Quello che
Gramsci contesta, piuttosto, è la volontà del deputato
Bevione di riparare al danno attraverso il ricorso al duello.
Alla luce di un contesto storico e politico così complesso
come quello dell’Italia impegnata nella Grande guerra stride, e non
poco, la pretesa di toni pacati e politically correct: probabilmente
al duo di storici improvvisati sfugge la complessa
drammaticità di un periodo nel quale dichiararsi socialista e
contrario alla guerra significava, nei casi lievi, subire pestaggi
dai gruppetti nazionalisti o essere cacciati dal proprio posto di
lavoro (insegnamento scolastico e universitario inclusi), mentre,
nei casi peggiori, si arrivava all’accusa di tradimento della Patria
e all’imprigionamento. In uno scenario inquinato dalle menzogne
della propaganda bellicista per il giovane giornalista sardo la
verità diveniva un bene da difendere a tutti i costi, anche
attraverso la polemica e le parole più dure; in questa
battaglia, quasi solitaria, le uniche armi di Gramsci erano la
serietà e la disciplina intellettuale, qualità
innegabili da parte di chiunque legga i suoi articoli di quel tempo
senza malafede e preconcetti. Qualità, quelle di Gramsci, che
non si possono collocare con sufficienza sotto la voce
«influenza della retorica politica dell'epoca»; queste
mancanze appaiono a dir poco gravi per chi ribadisce spesso di
essere stato l’allievo di uno storico del valore di Francesco
Barbagallo.
L’ultimo riferimento che analizziamo non ha collegamenti con fatti
come quelli sopra esposti in quanto si tratta di una polemica
interna al mondo accademico-culturale. L’articolo I criteri della volgarità
[in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi 1958], apparso non firmato
sul «Grido del Popolo» il 23 marzo 1918, è una
risposta polemica all’economista Giuseppe Prato che dalle pagine del
«Riforma Sociale» accusava il quotidiano socialista di
volgarità: l’oggetto della polemica erano gli articoli
critici e anche ironici che il «Grido» aveva dedicato al
Prof. Achille Loria, simbolo di approssimazione metodologica e
scarso rigore scientifico, al punto tale che Gramsci creò una
categoria, il «lorianismo» – all’interno della quale le
riflessioni teoriche di Orsini e quelle pubblicistiche di Saviano
non faticherebbero ad entrare. Anche in questo caso ci troviamo di
fronte a una frase strappata dal suo contesto e privata del suo
significato in maniera strumentale. L’espressione «per noi
chiamare uno porco se è un porco, non è
volgarità, è proprietà di linguaggio»
è usata da Gramsci per sottolineare in maniera forte il suo
pensiero e non per insultare un avversario politico; ciò
è possibile dedurlo dalla riflessione che precede
immediatamente la frase estrapolata: «il Prato chiama volgari
le espressioni, i termini grammaticali. Per noi sono volgari le
azioni in sé, non le parole». L’azione contro la quale
si scagliava Gramsci era la volgarizzazione delle teorie marxiane da
parte di Loria, vero e proprio idolo per i redattori della
«Riforma sociale». In quella frase vi era dunque la
volontà di difendere la linea critica del «Grido del
Popolo».
Nell’articolo contestato da Prato vengono citati ampiamente i
giudizi di Benedetto Croce, che sovente criticava in maniera dura e
sarcastica Loria: dobbiamo concludere che dietro Gramsci si
nascondeva una pedagogia dell’intolleranza di matrice crociana? Il
liberale Croce, guarda caso studente di Labriola, era dunque un
rivoluzionario sotto mentite spoglie? Lasciamo questi ardui
interrogativi alle brillanti teorie di Orsini che, ne siamo certi,
prenderà tali indicazioni sul serio.I pezzi sopra citati
insieme a molti altri articoli del periodo torinese costituiscono
alcune fra le più belle pagine gramsciane, scritti con acuta
verve polemica e intelligenza; articoli spesso ironici e graffianti
che consigliamo di leggere a tutti, ma con la necessaria cautela, in
quanto non desideriamo ritrovarci con dei lettori trasformati in
sanguinari brigatisti.
Veniamo al tema centrale della rapida ricostruzione di Saviano, e
soprattutto del libro di Orsini, cioè la contrapposizione tra
Gramsci e Turati: questa avviene confrontando gli articoli giovanili
del primo con i testi maturi e autocelebrativi del leader
socialista. È difficile non vedere disonestà dietro
questa “metodologia”, tesa a dare un’immagine oleografica del
riformismo italiano. Evidentemente i due non sanno o,
presumibilmente, non vogliono vedere oltre gli “insulti”; infatti,
nella pubblicistica gramsciana potrebbero trovare la serrata critica
ai pregiudizi antimeridionali e all’opportunismo politico che hanno
contraddistinto sovente Turati e i riformisti del Psi nel primo
quarto di secolo.Il ritratto di Turati che viene proposto è
dunque lontano dall’effettiva concretezza storica avuta dalla
politica del leader riformista. Basterebbe parlare della
considerazione che Turati aveva per la questione meridionale, tale
da portarlo a parlare di «due Italie nell’Italia» e a
lamentare il «forzato e antifisiologico accoppiamento del
decrepito mezzodì coll’acerbo settentrione»: non
proprio un modello di unità e tolleranza.
Naturalmente noi non cadiamo nell’errore di Orsini e Saviano, quindi
le idee di Turati le leggiamo all’interno del loro contesto e
facciamo notare come queste risentissero del clima positivista che
caratterizzò il riformismo italiano e il Psi fin dalla sua
fondazione: vizio d’origine, il determinismo meccanico e loriano,
che portò l’ala riformista a farsi interprete politico delle
idee razziste che provenivano da Cesare Lombroso e dalla sua scuola,
per i quali la questione meridionale aveva origini biologiche ed era
quindi irrisolvibile. Per Turati e i riformisti fu breve il passo
dalla concezione del «Mezzogiorno palla di piombo» dello
sviluppo all’accordo protezionistico, filo-siderurgico e
filo-agrario, con il governo di Giovanni Giolitti, costato al Sud
d’Italia decenni di ritardo economico. Fatti e parole che a chi,
come Saviano, si professa debitore al meridionalismo di Gaetano
Salvemini, non dovrebbero sfuggire. E proprio lo storico di Molfetta
non riservava certo parole al miele per Turati e i riformisti del
Psi.
Il vizio d’origine del riformismo, tuttavia, non si esaurisce
nell’antimeridionalismo e nella connivenza col potere economico, che
da oltre un secolo di storia frutta ai suoi esponenti rendite di
posizione politica e, purtroppo, non solo quella: il lorianismo
riformista ha lavorato in profondità e lo si può
considerare il canale principale della diseducazione politica che ha
colpito la sinistra in Italia, oggi incapace di leggere il suo
presente con una posizione politica netta.Per quel che riguarda la
parte politica della recensione, date le premesse teoriche, è
difficile prendere sul serio gli insulti e le invettive che il
povero Saviano rivolge contro la tradizione comunista italiana:
mescolare rozzamente nello stesso calderone Pci, Hamas, Hezbollah,
pacifisti, Br, Gramsci e Cuba è una smaccata operazione
qualunquista e francamente reazionaria. Evitiamo, quindi, di
richiamare in questa sede la stagione craxiana e i continui
procedimenti d’indagine giudiziaria a cui sono spesso sottoposti i
riformisti odierni; teniamo comunque a far notare a Saviano che il
primo firmatario della Costituzione che egli tanto proclama di
difendere è stato Umberto Terracini, comunista e compagno di
Gramsci. Forse sta qui l’origine di questa grande opera di
revisionismo storico di cui Saviano è solamente l’ultimo
episodio, ossia nel proposito di cancellare il movimento comunista e
i suoi protagonisti dalla storia repubblicana.
Chiudiamo questa rapida disamina con le parole di Gramsci, tratte
dal già citato I criteri
della volgarità, nella speranza che i candidi Orsini
e Saviano non le giudichino ingiuriose: «noi continueremo a
chiamare volgari gli uomini quando essi operano volgarmente, quando
manifestano un pensiero volgare, anche se esprimono il pensiero in
forma elegante (e questa eleganza è solo apparenza vistosa,
neppure arte), anche se operando coi guanti e salvando le forme
esteriori. Noi insomma badiamo all’interiorità, non
all’apparenza verbale, e la sostanza cerchiamo [di] qualificar[la]
con esattezza e proprietà anche se per ciò dobbiamo
adoperare parolacce ed espressioni ritenute volgari».
22 aprile 2012
Il codice di Gramsci prigioniero
di Nerio Naldi | da l'Unità
Opera di Beppe Vacca. La biografia del fondatore del Pci negli anni
del carcere, fondata su documenti finora inediti
La vita e i pensieri di Antonio Gramsci di Beppe Vacca poggia su un
lungo percorso di ricerca e in quanto tale riprende lavori
già pubblicati e presenta nuovi sviluppi; in entrambi i casi
la trattazione sistematica di quelli che possiamo considerare i temi
e i nodi cruciali della biografia personale, intellettuale e
politica di Antonio Gramsci nell’ultimo decennio della sua vita,
cioè negli anni del carcere, offre un grande contributo alla
ricostruzione della sua vicenda e del suo pensiero e alla
conservazione e alla trasmissione del suo patrimonio. Il titolo del
libro è preciso: la vita e i pensieri (al plurale) di Antonio
Gramsci si intrecciano. La parola carcere nel titolo non compare, ed
effettivamente possiamo pensare che la grandezza di Gramsci abbia
travalicato il carcere, ma è anche vero che egli non
trascorse in carcere tutti gli anni fra il 1926 e il 1937: fu prima
confinato, poi recluso, quindi detenuto costretto in un letto di
ospedale; ma sappiamo che carcere fu.
La lettura è giustamente centrata sulla corrispondenza,
perché, al di là di pochi colloqui, soltanto
attraverso questa poteva passare la comunicazione, ma in alcuni casi
l’analisi usa altre fonti e si estende ai Quaderni (come nell’esame
del dissenso di Gramsci rispetto alla svolta del 1928-29 e del
significato della sua proposta della Costituente, che, secondo
Vacca, che le dedica uno spazio molto più ampio di quanto non
avessero fatto precedenti studiosi, rappresenta il punto di
confluenza di una serie di elaborazioni cruciali sviluppate nei
Quaderni: l’idea che la democrazia e non la rivoluzione fosse il
terreno su cui combattere la battaglia per la conquista
dell’egemonia). Ma lo studio e la comprensione della vicenda di
Gramsci negli anni fra il suo arresto e la sua morte richiedono la
considerazione di un numero notevolissimo di piani diversi: il piano
del rapporto di amore e di condivisione politica con sua moglie
Giulia, le loro condizioni di salute, le sue riflessioni sul
movimento comunista e sulle relazioni fra politica nazionale e
sviluppo economico mondiale, la preparazione delle istanze relative
alla riduzione della pena in seguito alla concessione di amnistie e
indulti, l’accesso alla liberazione condizionale, i tentativi di
ottenere la libertà attraverso una trattativa fra governo
sovietico e governo italiano... fino al destino dei Quaderni dopo la
sua morte.
Un merito del libro è nella capacità di renderne
l’unitarietà senza cadere nella piattezza espositiva e dando
specifico rilievo ai singoli elementi.
Questo avviene essenzialmente individuando una chiave di lettura
principale secondo cui la dimensione politica è sempre
presente nei pensieri di Gramsci e, di conseguenza, nelle
informazioni che trasmetteva ai suoi interlocutori diretti e
indiretti. L’insistenza e la coerenza con cui, nel corso degli anni,
Gramsci ha riaffermato la propria determinazione a non compiere
gesti che potessero apparire come cedimenti al regime fascista
è un elemento al tempo stesso cruciale e rivelatore di tale
centralità. Ovviamente tali contenuti politici non potevano
che essere nascosti e convogliati attraverso codici, perché
dovevano raggiungere i destinatari superando la censura carceraria
ed eventuali letture da parte di soggetti diversi dai destinatari
desiderati. E lo stesso valeva per le lettere dei suoi
interlocutori, che erano scritte sotto gli stessi vincoli.
CERCARE I MESSAGGI
Tutto ciò moltiplica le difficoltà di interpretazione
e di ricostruzione. E fra queste difficoltà si deve anche
considerare il fatto che ognuno dei soggetti coinvolti Antonio
Gramsci e Giulia in primo luogo potevano essere condizionati anche
emotivamente dalle circostanze restrittive in cui la loro
comunicazione era costretta. D’altra parte questa chiave di lettura
non può essere generale, perché la comunicazione non
affrontava solo temi politici, anche se nel caso di Gramsci ed egli
ne è consapevole quasi ogni gesto poteva assumere un
significato politico e molte questioni dovevano comunque essere
comunicate con la massima cautela. Di qui l’esigenza indicata da
Vacca di ricercare i codici dietro cui il vero contenuto delle
comunicazioni poteva essere nascosto e di interpretare allusioni,
riferimenti e oscurità con questa consapevolezza, ma anche
attraverso una valutazione circonstanziata caso per caso.
Dato questo contesto, l’autore riesce ad illuminare una
molteplicità di episodi e di frasi che altrimenti potrebbero
restare avvolti in una nebbia di incomprensione e stabilisce dei
parametri di lettura che si potranno porre alla base di ulteriori
ricerche e da cui, anche non condividendoli, non si potrà
prescindere. Così, ad esempio, viene interpretato il
significato della prima lettera (19 marzo 1927) in cui Gramsci
presenta un programma di studio per il periodo che si preparava a
vivere in carcere. Secondo Vacca, quel programma, in quel momento,
non poteva essere un vero piano di lavoro, e, anche se lo era,
poteva essere utilizzato per influenzare l’atteggiamento dei giudici
e come prova della disponibilità di Gramsci, se liberato
attraverso una trattativa fra il governo sovietico e il governo
italiano a non svolgere attività politica. Inoltre,
interpretato come un codice, comunicava a Togliatti l’intenzione di
continuare a sviluppare in termini più generali, attraverso
un’analisi teorica rigorosa e radicale che soltanto ironicamente si
poteva dire disinteressata (così vanno intese le espressioni
con cui Gramsci descriveva il tipo di studio a cui si proponeva di
attendere e in effetti, se consideriamo il testo della poesia di
Giovanni Pascoli Per sempre a cui Gramsci sembra fare riferimento,
non possiamo pensare che egli volesse svincolare la sua analisi
dalla concretezza dei processi storici), le posizioni politiche che
era venuto elaborando nel corso del 1926 e su cui con Togliatti si
era scontrato e che lo avevano portato ad esporre alla dirigenza
sovietica la propria eterodossia. Il fatto poi che su quel piano di
lavoro egli chiedesse a Tatiana Schucht di esprimere un parere,
viene inteso da Vacca come una ulteriore indicazione di come il
messaggio fosse rivolto al suo partito e a Togliatti in particolare,
chiedendo alla cognata di assolvere ad un difficile e delicato
compito di comunicazione politica.
La possibilità di essere liberato attraverso un intervento
del governo sovietico e una trattativa diretta fra stati viene
indicata da Vacca come una preoccupazione costante di Gramsci fin
dall’inizio della sua detenzione: molte delle sue comunicazioni
vengono lette in questa chiave e la famigerata lettera inviatagli da
Ruggero Grieco nel febbraio del ’28 viene interpretata come un grave
ostacolo frapposto al concretizzarsi del primo tentativo in tal
senso. A questa lettura si collega poi la reinterpretazione
compiuta, come in altri casi, alla luce di documenti fino a pochi
anni fa non conosciuti e di un’acuta rilettura di documenti
già noti del ruolo svolto dal giudice istruttore Enrico Macis
nell’inchiesta che avrebbe portato al processo davanti al Tribunale
speciale. Solitamente Macis era stato rappresentato come capace di
carpire la fiducia di Gramsci e di ingannarlo sulle sue vere
intenzioni; secondo Vacca, al contrario, l’operare di Macis non ebbe
tali caratteristiche, seguì diverse fasi scandite da ordini
provenienti dalla segreteria di Mussolini e rappresentò un
tramite attraverso cui Mussolini volle mantenere aperto, almeno fino
ad una certa fase, uno speciale canale di comunicazione (o piuttosto
di interrogazione) con Gramsci, probabilmente perché
interessato a valutare la possibilità di scambiarlo per
ottenere vantaggi sia in termini di rapporti di forza interni sia in
termini di posizione internazionale e di rapporti con l’Unione
Sovietica.
LA PEDINA DEL GIOCO
In questo gioco di rapporti fra stati la posizione di Gramsci non
poteva essere altro che quella di una pedina, ma ciò non gli
impediva di valutare lucidamente la sua situazione e di cercare di
sfruttare le opportunità che anche in tale contesto si
potevano presentare, pur mantenendo sempre ferma, dall’arresto alla
morte, la determinazione a non compiere alcun atto che potesse
essere interpretato o contrabbandato come un cedimento al regime e
in tal senso si possono leggere le affermazioni esplicite contenute
in lettere di Gramsci o nelle comunicazioni dei familiari che furono
in contatto con lui: la cognata Tatiana e i fratelli Gennaro e
Carlo. A questo proposito si può aggiungere che la
disponibilità a non impegnarsi nell’attività politica
a fronte della liberazione, se fu davvero espressa, in codice, in
una lettera del 1927, in realtà, nel momento in cui gli si
aprì la possibilità di chiedere la liberazione
condizionale, cioè nel 1934, Gramsci non la confermò
anzi, appare molto probabile che, se richiesto di sottoscriverla,
l’avrebbe rifiutata. Infatti, la dichiarazione che Gramsci
effettivamente sottoscrisse riguardò solo l’impegno a non
fare un utilizzo politico del provvedimento di liberazione
condizionale che gli veniva concesso.
Il libro. Dal 24 in libreria: le sue vicende personali e politiche
Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Giuseppe Vacca
pagine XXII 370 euro 33,00 Einaudi
Da martedì in libreria la prima storia della vita e del
pensiero di Gramsci prigioniero del fascismo fondata su documenti
finora ignorati o del tutto inediti.
29 aprile 2012
Le manganellate ideologiche preventive contro Gramsci e l'idea di
rivoluzione in Occidente
di Raul Mordenti | da www.liberaroma.it
Il marzo del 2012 è stato un mese davvero difficile per
Antonio Gramsci e per Palmiro Togliatti! Prima è uscito un
libro che insinuava che Gramsci fosse diventato alla fine un bravo
liberale, con precoci tendenze veltroniane, e che Togliatti avesse
inguattato uno dei suoi Quaderni per non far sapere al popolo bue la
notizia. Poi un saggio che rivelava come Gramsci si fosse pentito e
avesse chiesto scusa a Mussolini, dato che altrimenti – codice alla
mano – egli non avrebbe potuto usufruire della generosa
libertà vigilata, coi Regi Carabinieri fuori la porta, che
allietò i suoi ultimi anni di vita. Infine ha visto la luce
un libretto che spiegava come Gramsci fosse brutto e cattivo e
dicesse le parolacce mentre Turati invece no, era bello e buono e
predicava l’amore universale. Quest’ultimo prodotto – chiamamolo
così – riceveva per giunta la personale benedizione di San
Saviano che ex cathedra, cioè su “Repubblica”, lo definiva
senz’altro “la più bella riflessione teorica sulla sinistra
fatta negli ultimi anni” (sic!).
Nell’epoca del vuoto e ferreo dominio dei media poco è
importato che, nel merito, tutti e tre questi prodotti e i
rispettivi autori (di cui, anche per rispetto dei lettori più
giovani, non si vuol qui fare il nome) siano stati in forme diverse,
smentiti, sbugiardati, insomma (absit iniuria…) sputtanati in modo
tale che in un paese civile avrebbe dovuto provocare cambi di
cognome e plastiche facciali. Ma “Repubblica” non ha dato notizia di
tali sputtanamenti e, dunque, essi non sono mai avvenuti.
Al primo è stato fatto notare, da parte di chi Gramsci l’ha
studiato davvero (ad es. dal prof. Francioni che prepara un’altra
edizione critica del Quaderni), che la sua tesi non stava in piedi,
costringendo l’autore di quel prodotto a scrivere pubblicamente –
come se niente fosse – che la sua era pura invenzione e fiction,
così come si usa negli USA quando non ci sono documenti.
Al secondo è stato fatto presente che il codice a cui egli
faceva riferimento per sostenere l’avvenuto pentimento di Gramsci
era quello del 1962, e che al tempo di Gramsci (guarda caso!) il
codice del 1962 non era in vigore.
Destino peggiore quello toccato al terzo, che prima di essere
nominato da San Saviano “teorico della sinistra” era meglio noto
come autore di un un memorabile intervento sul “Giornale” intitolato
“Si scrive no TAV, si legge BR”. Il suo libretto (definito dallo
storico Angelo D’Orsi “una porcheria”) presentava sistematiche
de-contestualizzazioni, citazioni sbagliate e tagliate ad arte,
falsi ed omissioni, errori ridicoli (come Loira, il fiume, al posto
di Loria, il prof. Achille, o come il concetto di “costumi”
interpretato come “modo di vestire”, etc.), date erronee,
bibliografie incomplete e grottesche, per non dire delle
argomentazioni “teoriche” del tutto degne per il loro livello di
tale apparato – diciamo così – scientifico.
Noi che siamo comunisti, e dunque oltre che cattivissimi siamo anche
sospettosi, ci chiediamo: perché questa vera e propria
campagna contro Gramsci? E perché proprio ora?
La risposta che ci diamo pensa male, ma dunque forse ci azzecca:
perché si tratta di operare una sorta di censura preventiva
in merito all’idea di rivoluzione in Occidente, per riprendere a
pensare la quale proprio Gramsci rappresenta il punto più
alto (come dimostra il Dossier “Ripensare con Gramsci la rivoluzione
in Occidente” pubblicato dalla rivista “Progetto Lavoro” nel numero
10 del gennaio 2012). “Hai visto mai – si sono forse detti i sobri
dittatori che ci governano – che, di fronte alla crisi del
capitalismo reale, venga in mente a qualcuno di leggere, o
ri-leggere, Gramsci per ri-cominciare a pensare la rivoluzione?”.
Dunque la miserabile campagna contro Gramsci è un po’ come
una manganellata ideologica preventiva, e somiglia dunque da vicino
alle manganellate reali che vengono propinate ormai abitualmente al
popolo No-Tav.
Nel 75° anniversario della tua morte (27 aprile 1937), compagno
Gramsci, questo terrore dei nostri avversari nei tuoi confronti
rappresenta la testimonianza più evidente della
vitalità del tuo pensiero, e anche per questo porteremo
quest’anno un fiore rosso sulla tua tomba al Cimitero degli Inglesi,
magari sorridendo insieme di questi poveracci che ti attaccano.
18 maggio 2012
Comunista e non violento
di Guido Liguori, Presidente della International Gramsci Society
Italia
Gramsci è morto nel 1937 e la sua opera registra ancora un
successo crescente, dalle università statunitensi al Brasile,
all’India, al Giappone: nessun pensatore italiano dopo Machiavelli
ha avuto uguale diffusione. L’articolo di Enrico Mannucci su Sette
del 19 aprile fotografava bene questa situazione.
Anche nel nostro paese da anni si registra una ripresa di studi su
Gramsci di notevole rilievo. Sorprende dunque che uno studioso
italiano, Alessandro Orsini su Sette del 26 aprile, indossi la
maglietta del tifoso (di quelli che “tifano contro”) per proporre
una immagine di Gramsci come politico e teorico sanguinario e
violento. Una assurdità, perché Gramsci è il
teorico dell’egemonia, della ricerca del consenso, della politica
come crescita civile delle grandi masse, il tutto intessuto con una
elaborazione culturale di grande livello.
Se non fosse così, se avesse ragione Orsini, come si
spiegherebbe la diffusione odierna dell’insegnamento gramsciano nei
cinque continenti? Certo, Gramsci è stato un rivoluzionario,
un comunista, anche in carcere. E rivoluzione non vuol dire
necessariamente violenza, bensì cambiamento profondo,
radicale. Peraltro Gramsci ha rinnovato il concetto di rivoluzione
sottolineandone gli aspetti processuali, argomentativi, culturali.
Non esitando a contestare contenuti e metodi dello “stalinismo”,
proponendo un comunismo originale e diverso.
Venendo alle “accuse” fatte a Gramsci, Orsini usa il metodo della
citazione staccata dal contesto, senza spiegarne al lettore origine
e senso. Un esempio: Gramsci «esprimeva il suo giubilo quando
i liberali venivano presi a cazzotti in faccia», scrive
Orsini. Si riferisce a un articolo gramsciano del 1916 in cui si
legge: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto del
pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione
ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Il giovane
giornalista sardo (25 anni) commenta così una rissa alla
Camera tra bellicisti e socialisti. Il Bevione in questione era
giornalista e deputato, famoso supporter dell’industria bellica fin
dalla guerra di Libia (diverrà deputato fascista). Gramsci
polemizza dunque con chi si faceva sostenitore della guerra (questa
sì violenza vera e bestiale). Ma – e qui viene fuori il lato
comico della tesi di Orsini – vi è un altro fatto: a dare il
pugno a Bevione è il deputato socialista Nino Mazzoni,
seguace di Turati, il riformista che Orsini contrappone a Gramsci
come un angelo al diavolo. Ma questo Orsini non lo dice. O non lo
sa.
Non vi è spazio per dilungarsi sugli altri esempi fatti da
Orsini, tutti egualmente contestabili (come ha dimostrato Giacomo
Tarascio su Historia Magistra, in un articolo reperibile on line).
Può darsi vi sia qualche eccesso negli scritti del giovane
Gramsci. Ma la barra è tenuta costantemente sulla rotta
dell’opposizione alla guerra e poi al fascismo, e a un capitalismo
corrotto e corruttore. È un autore sempre dalla parte delle
masse oppresse, dei “subalterni”. Orsini lamenta persino questo
linguaggio, ignorando che le metafore militari erano correnti in
politica dopo la Grande guerra. Non avrebbe senso rispondere
contrapponendogli gli errori di Turati (dal giudizio sui meridionali
all’accodarsi a chi inneggiava alla guerra quando essa era ormai
quasi vinta) proprio perché un confronto serio è cosa
altra tanto dallo scontro fra tifosi, quanto dai tentativi di
demolizione faziosa e propagandistica. Per di più di un
autore come Gramsci, che tutto il mondo studia con ammirazione e
interesse, anche per il modo creativo e partecipato con cui ha
sempre saputo stare dalla parte degli oppressi.
3 luglio 2012
Il ritorno al futuro di Gramsci
di Guido Liguori
Il «ritorno di Gramsci»: così titolava di recente
un grande quotidiano, dedicando al comunista sardo una intera pagina
di recensioni. Il 2012 si segnala infatti per l’ingente mole di
saggi, libri, articoli e polemiche sul pensatore italiano moderno
più studiato nel mondo. Questa nuova stagione di studi – che
data in realtà da un decennio e più – è
originata da diversi fattori. In primo luogo vi è l’effetto
di ritorno della grande notorietà di Gramsci all’estero, a
partire dagli anni ’80, che ha impedito che sull’autore dei Quaderni
in Italia scendesse il silenzio, come avrebbero voluto in molti, per
ragioni soprattutto politiche, ivi compresa la furia autolesionista
di certa sinistra ansiosa di lasciarsi alle spalle ogni aspetto
della tradizione comunista. In secondo luogo, una nuova generazione
di studiosi è venuta negli ultimi anni a maturità,
grazie non tanto a un’università spesso sorda verso un autore
fuori dai canoni dell’accademia, quanto all’attività caparbia
di associazioni, riviste e istituzioni culturali – a partire dalla
International Gramsci Society Italia – che hanno praticato
l’approccio interdisciplinare e la ricerca collettiva e favorito la
crescita di una nuova generazione di studiose e studiosi di Gramsci.
Per Carocci si annuncia la prossima uscita di un volume che
raccoglie undici saggi gramsciani di studiosi cresciuti nellʼambito
del Seminario sui Quaderni della Igs Italia, che era già
allʼorigine del recente Dizionario gramsciano 1926-1937 (Carocci
2009).E di questa nuova leva dà oggi testimonianza anche il
libro ideato e curato da Angelo dʼOrsi, Il nostro Gramsci (Viella,
pp. 422, euro 30), nel quale ventotto giovani autori mettono a
confronto Gramsci con oltre cinquanta protagonisti della storia
dʼItalia, da Dante e Petrarca a DʼAnnunzio e Gobetti.
I rinnovati studi gramsciani
Infine, causa non ultima per importanza di questo «ritorno di
Gramsci», la rilevante acquisizione di nuovi documenti che ha
alimentato il lavoro delle forze raccolte dalla Fondazione Gramsci
per una nuova «edizione nazionale» dell’intero opus
gramsciano. Di questa nuova edizione delle opere di Gramsci – edita
dalla Treccani – erano usciti nel 2007 gli inediti Quaderni di
traduzione e, a latere, i diciotto volumi della preziosissima
«edizione anastatica dei manoscritti» dei Quaderni del
carcere (edita dalla Biblioteca Treccani in collaborazione con
LʼUnione sarda), a cura di Gianni Francioni, con la collaborazione
di Giuseppe Cospito e Fabio Frosini: una edizione purtroppo
scarsamente diffusa per i limitati canali di vendita prescelti, ma
oggi assolutamente indispensabile per uno studio avanzato dei
Quaderni.
Più di recente sono stati pubblicati due volumi di lettere, contenenti numerose novità, curati da Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, David Bidussa e altri: Epistolario 1, gennaio 1906-dicembre 1922 ed Epistolario 2, gennaio-novembre 1923. Su queste prime pubblicazioni dellʼ«edizione nazionale» e sui «lavori in corso» riferisce ora un numero della rivista Studi storici (4/2011) interamente dedicato a L'edizione nazionale e gli studi gramsciani.
Di grande interesse per fare il punto sulle novità documentali i saggi di Luisa Righi e Claudio Natoli sullʼepistolario precarcerario, di Chiara Daniele sui carteggi degli anni del carcere, di Leonardo Rapone sul giovane Gramsci, di Giancarlo Schirru, che aggiunge nuovi, importanti tasselli alla conoscenza di «Gramsci studente di linguistica», di Cospito e Frosini sulla preannunciata nuova edizione dei Quaderni a cura di Francioni – su cui bisognerà ovviamente tornare quando vedrà finalmente la luce fra un paio dʼanni, dopo una gestazione ultraventennale.
Interessante e
particolare è infine, su Studi storici, un contributo di
Maurizio Lana sullʼuso dei nuovi «metodi quantitativi»
(applicati allo studio dello stile) nel difficile lavoro di
attribuzione degli articoli degli anni ʼ10 e ʼ20 che – come è
noto – apparvero quasi tutti non firmati, rendendo ardua
lʼindividuazione di quelli scritti realmente da Gramsci.
Nuovi carteggi e nuove fonti
Legato all’edizione nazionale è anche il lavoro che va
conducendo da molti anni il presidente della Fondazione Gramsci
Giuseppe Vacca, il cui ultimo libro, Vita e pensiero di Antonio
Gramsci (Einaudi, pp. 367, euro 33), su cui ha già scritto
Rossana Rossanda su il manifesto del 22 giugno, esemplifica nel modo
migliore un filone importante della recente ricerca gramsciana:
quello che parte da una duplice convinzione: che il pensiero del
Gramsci del carcere abbia anchʼesso uno svolgimento diacronico che
va studiato nel suo farsi; e che il motore della ricerca carceraria
vada cercato nella volontà gramsciana di continuare – nelle
forme e nei modi permessigli – la sua battaglia politica,
continuando sia pure prudentemente la comunicazione col partito,
avvalendosi di «codici» decifrabili da pochi, in primo
luogo da Togliatti e Sraffa, ma anche dagli altri dirigenti del
PcdʼI (e in parte da Tania e Giulia Schucht). Il libro è
interessante anche perché costituisce la prima, vera
«storia di Gramsci in carcere», ottenuta con un grande
lavoro di incrocio dei carteggi e di molte altre fonti, spesso
inedite.
È – quella di Vacca – una lettura che parte dalla costante
ricerca di una comunicazionenascosta tra Gramsci e i suoi
interlocutori e dunque corre spesso il rischio di proporre
interpretazioni possibili ma non provate (a volte anche
improbabili). Anche lʼautore viene colto dal dubbio e scrive che
spiegare tutto sotto la chiave del codice per la comunicazione
politica clandestina è riduttivo: «le lettere di
Gramsci spaziano su temi complessi di storia della cultura e della
filosofia della praxis, e sarebbe errato ridurne lo spessore alla
politica in senso stretto».
Tenuto conto di questa avvertenza, il lavoro di Vacca è molto utile, pur promuovendo una interpretazione di Gramsci a volte troppo incline a valorizzare unilateralmente gli elementi di novità rispetto alla tradizione terzinternazionalista. Essa però giunge a due conclusioni di rilievo e condivisibili: in primo luogo, la liberazione del prigioniero poteva avvenire solo a livello di trattativa tra Stati, ma per lʼUrss essa non era una priorità politica su cui impegnarsi dando qualcosa in cambio a uno Stato fascista che giocava al rialzo; e ciò a prescindere dalle ombre sulla eterodossia di Gramsci, che certo non lo rendevano molto gradito a Stalin.
In secondo luogo, in carcere Gramsci procede a una
«revisione del bolscevismo», ma «la sua posizione
non è quella di uno scismatico che ormai si ponga al di fuori
del comunismo sovietico, ma quella d’un comunista eterodosso che
pensa si possa lottare dal suo interno per riformarne le
fondamenta». Tanto è vero – Vacca lo prova in modo
convincente – che egli vuole tornare in Urss per continuare la sua
battaglia politica (qui si illudeva, evidentemente) e che lʼipotesi
di soggiorno in Sardegna, una volta finita la pena detentiva, era
per lui solo una «stazione di transito» verso quello che
continuava a considerare il paese del socialismo.
Studi innovativi, ricerche collettive, ma anche polemiche. Da ultimo
ha destato scalpore il libro di Luciano Canfora su Gramsci in
carcere e il fascismo (Salerno editrice, pp. 304, euro 14. Ne ha
scritto Giorgio Fabre su Alias libri il 17 giugno 2012). Lʼautore
affronta in una serie di saggi argomenti quali lʼinterpretazione del
fascismo e di Croce; il maldestro Appello ai fratelli in camicia
nera del 1936, la storia del lascito gramsciano e la gestione
(politicamente sapiente, filologicamente riprovevole) che ne avrebbe
fatto Togliatti; le vicende dellʼanarchico denigratore di Gramsci
Ezio Taddei, nel dopoguerra troppo generosamente accolto fra le file
del Pci; la storiografia comunista, bollata come «storia
sacra» e produttrice di «storia falsa» (il primo a
essere messo ingenerosamente sotto accusa è Spriano), e
soprattutto uno dei cavalli di battaglia dellʼautore: la lettera
scritta a Gramsci (ma anche a Terracini e Scoccimarro) da Grieco nel
1928, che crescente irritazione e sospetti causò nel
prigioniero.
Dopo aver sostenuto per quasi un quarto di secolo che
la lettera era stata falsificata dallʼOvra per
«provocare» Gramsci, Canfora ora scrive che in
realtà era stata scritta dal suo firmatario (e solo da lui),
Ruggero Grieco: una «provocazione» anche in questo caso.
Canfora non dice letteralmente che Grieco fosse un
«traditore». Ma vi sono reali differenze, nelle
circostanze date, tra essere provocatore, traditore e spia? Per
conto di chi infatti Grieco avrebbe messo in campo le sue
«provocazioni» se non per aiutare Mussolini a dividere
gli avversari?
Indizi maldestri
Tutti gli indizi disseminati da Canfora infatti portano a far
credere che Grieco fosse una spia. Tra gli «indizi», il
fatto che egli scrisse una seconda lettera a Terracini in carcere
(ritrovata di recente), cercando di «farlo parlare» di
argomenti potenzialmente compromettenti; il fatto già noto
che vi era allʼepoca negli alti vertici del PcdʼI una spia fascita
mai scoperta; che Togliatti non nutriva simpatia verso Grieco; e che
costui nellʼItalia liberata non fu più in primissima fila nei
quadri dirigenti del Pci. Soprattutto Grieco sarebbe – per Canfora –
lʼunico colpevole dellʼAppello ai fratelli in camicia nera che la
Segreteria del PcdʼI rivolse nel 1936 alla «base»
fascista per una riconciliazione nazionale su base rivoluzionaria e
anticapitalista: un grave errore politico per cui Grieco
pagò, anche per colpe non sue: sul n. 4 di Critica marxista,
di imminente pubblicazione, Michele Pistillo contesta radicalmente
le accuse a questo proposito mosse contro Grieco e Fabio Frosini
smonta le tesi di Canfora sullʼinterpretazione gramsciana del
fascismo (come Angelo Rossi avanza riserve su alcuni aspetti del
libro di Vacca): a questi saggi rimando per eventuali
approfondimenti.
A mio avviso, anche questa nuova tesi «in salsa Le
Carrè» di Canfora non tiene. Le lettere del 1928 sono
state scritte da Grieco, ma sicuramente per decisione più
larga (se così non fosse, il «provocatore»
sarebbe stato scoperto subito). Furono maldestre, ma non ebbero
influenza sul processo contro i comunisti, non furono neanche messe
agli atti. Ed è certo che la condizione psicofisica del
prigioniero andò aggravandosi in carcere, il che spiega
perché Gramsci sia tornato sulla lettera del ʼ28 con sempre
più gravi sospetti, man mano che sfumavano le sue speranze di
liberazione e di vita. Ma perché Grieco (e Togliatti)
avrebbero scritto la lettera? Perché premeva loro comunicare,
in primo luogo a Gramsci, che in Urss la battaglia contro
lʼopposizione era finita con la vittoria della maggioranza di
Stalin, e che per il PcdʼI (già in odore di trockijsmo per la
lettera gramsciana del ʼ26) era fondamentale non continuare a
scherzare col fuoco, insistendo nel contestare il nuovo corso.
Questo era il messaggio «in codice». È molto
probabile dunque che in merito alla «scellerata lettera»
Gramsci si sia sbagliato: era un errore, una imprudenza, non un
tradimento. Egli restò in carcere perché Mussolini non
aveva alcuna voglia di liberarlo senza adeguata contropartita (anche
propagandistica), e Stalin tale contropartita non era interessato a
pagarla.
13 dicembre 2012
Luciano Canfora: un nuovo libro tra falsa lettera e falso Grieco
di Ruggero Giacomini, Comitato Scientifico Marx XXI
Luciano Canfora non finisce di stupire. A pochi mesi dal suo ultimo
libro - Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno editrice, Roma
giugno 2012 -, eccone un altro praticamente sullo stesso argomento:
Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937, Salerno editrice,
ottobre 2012. Una fretta spiegabile forse con l’esigenza di portare
nuovi elementi a supporto del proprio ragionamento, di rettificare
alcune inesattezze e soprattutto rispondere ai propri critici, come
si avverte già dalla citazione in apertura di Rossana
Rossanda che aveva garantito per Grieco avendolo conosciuto, cui
viene opposta l’autorità di Tucidide sulla poca
attendibilità delle testimonianze di parte. Come è
noto Canfora è stato a lungo convinto che la lettera, o
meglio le lettere inviate nel 1928 da Grieco a Gramsci, Terracini e
Scoccimarro in carcere a S.Vittore a Milano fossero un falso
costruito dalla polizia politica fascista. Ha argomentato questa sua
tesi nel 1989, in un’appendice al libro Togliatti e i dilemmi della
politica edito presso Laterza, titolando Storia di una strana
lettera. Sosteneva con tutta una serie di osservazioni e di
riferimenti documentari che appunto le lettere erano state
“fabbricate dall’Ovra” (163).
Il tema è stato poi ripreso e ampliato e posto circa
vent’anni dopo al centro di un libro molto fortunato e riedito
più volte, La storia falsa (Rizzoli, 2008), teso ad
illustrare con alcuni esempi il ruolo della falsificazione di
documenti nella storia. Più della metà del libro era
dedicata all’analisi delle “false” lettere di Grieco. Muovendosi con
agilità tra le fonti d’archivio e un’imponente letteratura,
analizzando minutamente tutta una serie di dettagli e tirando e
riannodando fili faceva vedere come la polizia politica fascista
possedesse tutte le informazioni e le tecnologie necessarie e
sufficienti per trasformare delle innocue lettere in un falso
pericoloso, interpolandovi fraudolentemente proprie informazioni e
affermazioni: “Così farcite – concludeva Canfora - le tre
lettere diventavano comunicazioni di partito tra dirigenti latitanti
e dirigenti in carcere. Una manna per chi volesse aggravare la
posizione processuale dei tre” (p.215).
L’autore si presentava ferratissimo sul tema, avendo smascherato con
prove inoppugnabili il falso papiro di Artemidoro. Solo che nel caso
delle lettere di Grieco l’affastellamento di molti indizi e
congetture non arrivava a quella prova che dà la sicurezza.
Piuttosto il saggio era e resta un eccellente esercizio di scuola
per dimostrare come fosse possibile alla polizia fascista realizzare
in quella forma quelle lettere. Ed anche una dimostrazione
insuperabile che nelle lettere non c’erano notizie che la polizia
già non conoscesse, tanto che appunto avrebbe potuto
scriverle benissimo un funzionario di un ufficio di polizia all’uopo
incaricato.
Naturalmente c’è una differenza notevole tra la
possibilità di creare un falso documento e la confezione
effettiva di esso, la distanza che separa una tesi che può
fare da guida a una ricerca e la effettiva sua dimostrazione. Tanto
più che il movente era tutt’altro che evidente: a che pro
infatti la polizia segreta avrebbe dovuto mettere in piedi un tale
complicato meccanismo per far sapere a se stessa… quello che
già sapeva? La risposta che ancora oggi Canfora continua a
dare è che dovessero funzionare come prove d’accusa da usarsi
in tribunale contro gli imputati. Risposta che non regge,
perché non furono usate, né in istruttoria né
tra i capi di accusa né nella sentenza al processo. Per
questo già a commento del Togliatti e i dilemmi della
politica Giuseppe Fiori in un convegno a Cagliari nel ‘91 per il
centenario della nascita di Gramsci aveva osservato che Canfora in
un libro pur godibilissimo aveva “messo in piedi una gigantesca
gru... per sollevare un turacciolo”.
Che la sua dimostrazione potesse avere delle falle, Canfora se ne
è reso conto con la comparsa nel 2009 su “Studi storici” del
saggio di un giovane studioso, Leonardo Pompeo D’Alessandro, su I
dirigenti comunisti davanti al Tribunale Speciale. Basato su nuovi
documenti d’archivio ha messo in crisi alcuni presupposti basilari
della tesi di Canfora.
Non è il caso qui di riprendere le novità di quel
saggio, passato senza clamore ma non per questo sfuggito agli
studiosi. Basti citare a mo’ di esempio il ritrovamento di una
cartolina di Grieco a Scoccimarro del maggio 1927 con firma in calce
“Ruggero”, che smentiva la convinzione di Canfora che tale firma
nelle lettere non avesse precedenti; come pure la prova
dell’esistenza del “gruppetto” di opposizione in Francia
“Treint-Girault”, cui faceva riferimento nelle lettere Grieco e che
invece secondo Canfora era una palese disinformazione del falsario.
Scosso rudemente nelle sue precedenti certezze, Canfora non si
è però dato per vinto. Continuando a focalizzare
l’attenzione sulle lettere di Grieco, ha modificato la vecchia tesi,
senza dichiararla per altro superata ma non insistendovi più,
proponendo un approccio nuovo e rovesciato: cioè a dire che
se non sono false le lettere di Grieco, allora il falso dovrebbe
essere Grieco. Il fatto singolare è che nell’introdurre
questo nuovo approccio in Gramsci in carcere e il fascismo e cucendo
addosso a Grieco il vestito inedito di sospetta spia al servizio del
fascismo, un altro Silone per intenderci, Canfora ha usato toni
quasi da rappresaglia, come a dire ai sostenitori
dell’autenticità delle lettere di Grieco: ve la siete cercata
voi.
“L’ipotesi di una riscrittura provocatoria” delle lettere, ha
scritto egli infatti con riferimento alla precedente sua tesi,
“certo spiegherebbe l’affollarsi di tante improprietà e
stranezze…. Ma, se invece si vuole ritenere che le tre lettere siano
autentiche, la questione della palese insostenibilità del
contenuto, cioè appunto della sua ‘stranezza’, si riapre; o,
per meglio dire, l’effetto provocatorio ne esce rafforzato, magari
arricchito da un ammiccamento tra le righe”(108).
Su questo tono quasi da spedizione punitiva ritorna nell’ultimo
libro, dove ritorce sui presunti cultori della storia sacra –
difensori dell’autenticità delle lettere di Grieco – la
responsabilità di aver provocato… la dissacrazione. In questa
nuova versione protagonisti centrali non sono più il capo
della polizia Bocchini e il suo braccio destro all’Ovra Nudi protesi
a fabbricare il falso per incastrare Gramsci e gli altri, ma
è lo stesso Grieco che svolge il compito senza affaticare
inutilmente gli uffici di polizia.
Canfora ha una prodigiosa memoria ed è lettore veloce e
instancabile oltre che narratore accattivante. Solo che la fretta e
la foga polemica fanno sì che possa capitare anche a un
esperto come lui di prendere delle cantonate.
E’ il caso di “Ugo”, che doveva curare l’espatrio di Gramsci
dall’Italia nei giorni in cui veniva invece arrestato e che in
Gramsci in carcere e il fascismo Canfora identifica con l’agente
dell’Ovra Luca Ostèria, imputando a Grieco di aver affidato
la salvezza di Gramsci a un personaggio di tal fatta (p.58); mentre
ora, in Spie, URSS, antifascismo, scopriamo – ma era già in
letteratura – che è Carlo Codevilla, già segretario di
Gramsci a Vienna per incarico dell’Internazionale comunista e poi
una lunga storia di agente dei servizi russi (pp.40-5). Non proprio
la stessa cosa.
Canfora si muove con la solita portentosa perizia nel vasto e
insidioso mondo delle testimonianze, conosce le difficoltà
della memoria, le rielaborazioni e le omissioni consce e inconsce,
la tendenza nel tempo a sovrapporre e confondere circostanze
diverse. Dà prova tuttavia di una manifesta
tendenziosità, screditandone alcune e privilegiandone altre
non sempre sulla base di elementi oggettivi, ma piuttosto per
l’accordarsi o meno con le tesi che vuole sostenere.
Una delle circostanze su cui addensa rafforzati sospetti in questo
libro riguarda il mancato espatrio di Gramsci prima dell’arresto, e
grande importanza egli dà a una tarda testimonianza di
Gustavo Trombetti che fu compagno di cella di Gramsci in un momento
difficile a Turi. Quella di Trombetti è per Canfora la
testimonianza di Gramsci, scompaiono di fatto la mediazione e la
soggettività del testimone. Seguendo Trombetti e per
corrispondere alla testimonianza, Canfora fa partire Gramsci da Roma
per andare a Milano diretto alla riunione della Centrale da cui
sarebbe poi dovuto passare all’estero, non la domenica 31 ottobre
1926 – come indicano le testimonianze distinte e concordi della
cognata Tania e di Camilla Ravera – ma il sabato 30. Avrebbe preso
il treno diretto delle 23,40, per arrivare a Milano l’indomani alle
15,10. In questo modo egli può far riprendere a Gramsci il
treno per Roma delle ore 20,25, che arrivando a Bologna alle 23,50
era ancora in tempo per far salire quei fascisti col pugnale
insanguinato che secondo Trombetti Gramsci aveva visto nel ritorno
(79-80). E’ vero che così la testimonianza di Trombetti
è perfettamente confermata, ma è una toppa che non
copre il buco. A parte le testimonianza retrocesse, un Gramsci
arrivato a Milano alle 15,10 di domenica avrebbe dovuto restarsene
in stazione impalato per qualche ora, in attesa dell’attentato di
Bologna che avvenne alle ore 17,40, che ne seguisse la reazione dei
fascisti e che qualcuno gli dicesse finalmente di tornare a Roma.
Plausibile?
Tra l’altro tutta questa parte rischia di sminuire le osservazioni
interessanti sullo studio di Gramsci del fascismo e del nazismo, che
pure egli viene conducendo. Canfora polemizza ripetutamente e con
enfasi con supposti sostenitori della “storia sacra” del Pci, ma non
è tanto chiaro per la verità a chi si riferisca. Non a
Vacca, credo, istituzionalmente deputato come presidente
dell’Istituto Gramsci, ma da tempo impegnato in uno sforzo
commovente per fare di Gramsci un “eretico” di tutto il comunismo
storicamente esistito, ammiratore della società dei consumi
americana e meritevole di figurare tra i padri nobili del PD. Forse
si riferisce a Pistillo suo contraddittore principale in tema di
autenticità o meno delle lettere di Grieco, cui per altro
Canfora riconosce la primigenia nell’ipotesi del falso, o a
cosiddetti “giovani leoni”. Ma anche Canfora con la tesi delle
lettere falsificate si era attirata l’accusa a suo tempo degli
storici craxiani di voler difendere la storia sacra; ed anche oggi
c’è chi lo rimprovera perché non denigra Togliatti,
visto che il PCI non c’è più ed è così
facile sparargli addosso. E’ il pensiero unico del politicamente
corretto che oggi è dilagante, non pare proprio la storia
sacra.
Ci piacerebbe da parte di Canfora una reazione meno suscettibile e
infastidita ai contraddittori, specie quando a muoverli al fondo
è la stessa preoccupazione di ricerca della verità.
Non pare molto elegante ad esempio riferirsi a uno studioso come
Liguori, che aveva benevolmente scherzato nel “Manifesto” su un
Canfora “in salsa Le Carrè”, dicendolo “un tale, (che) senza
riflettere, ha parlato nei mesi scorsi di un ‘Gramsci in salsa Le
Carrè’” (89). Forse se avesse detto Holmes, benevolmente
citato e forse non a caso da Canfora in questo libro, sarebbe stato
un’altra cosa.
12 gennaio 2013
Gramsci, mille e una eresia
di Luigi Cavallaro
Sicuramente, un «anno gramsciano» il 2012: cioè
un anno di polemiche intorno alla figura di Antonio Gramsci.
Alimentate da saggi e ricerche che hanno avuto ampia eco sulla
stampa quotidiana, esse hanno dato conferma di una perdurante
attualità del comunista sardo che di per se stessa
necessiterebbe di una spiegazione, essendo ormai trascorsi ben
settantacinque anni dalla sua morte e oltre venti dall'eclissi del
movimento internazionale di cui il partito che egli aveva concorso a
fondare aveva costituito peculiare ed importante espressione.
Beninteso, non è che la contesa su Gramsci sia in sé
una novità. Come documenta la preziosa ricostruzione di Guido
Liguori, almeno dal secondo dopoguerra il dibattito pubblico ha
visto contrapporsi due diverse letture dell'opera gramsciana: da un
lato, c'è stata quella di parte comunista, che si è
accompagnata alle diverse «svolte» politiche e culturali
messe in atto dal Pci nella sua storia settantennale e che in
Gramsci ha visto di volta in volta il «capo della classe
operaia», il «martire antifascista», il
«padre della politica di unità» del secondo
dopoguerra, l'ispiratore della «via italiana al
socialismo» e, giù giù, il critico ante litteram
del totalitarismo sovietico, l'alfiere
dell'«eurocomunismo» e perfino il pensatore di un altro
comunismo possibile dopo la crisi dei «socialismi
reali»; dall'altra parte, c'è stata la lettura
liberale, liberalsocialista e lato sensu «azionista»,
che con accenti (e soprattutto in tempi) differenti ha proposto ora
un Gramsci irriducibilmente, inemendabilmente e totalitaristicamente
«comunista», dunque irrecuperabile alla causa della
democrazia, ora invece un Gramsci più intellettuale che
politico, costitutivamente «eretico» e addirittura
«liberale», quando non proprio «libertario».
Un approdo estremo
La peculiarità delle polemiche dell'anno scorso, innescate
specialmente dalla pubblicazione di due saggi di Franco Lo Piparo e
Giuseppe Vacca, sta semmai nell'oscillazione fra due sponde che
appaiono egualmente inattendibili. Da una parte, infatti, si insiste
(è il caso di Vacca) nell'accreditare uno scollamento di
Gramsci rispetto al leninismo, quale almeno si delinea dopo la
svolta staliniana del '29, salvo precipitare nell'assurdo di
supporre che Palmiro Togliatti e Felice Platone, negli anni compresi
tra il 1947 e il 1949 (e dunque contemporaneamente al massimo
dispiegarsi della più dura ortodossia staliniana), avrebbero
dato alle stampe le riflessioni di un «eretico» sospetto
di filotrockismo, facendone addirittura lo strumento intellettuale
principale per pensare «la formazione e la politica della
nuova classe dirigente italiana», come recitava la fascetta
editoriale apposta alla prima edizione einaudiana delle «Note
sul Machiavelli» (1949). Dall'altra parte, invece, si pretende
(è il caso di Lo Piparo) di svolgere fino all'estremo il tema
della presunta «eresia» gramsciana in direzione di un
approdo nientemeno che al «liberalismo» (sia pure nella
forma ossimorica di un «comunismo liberale»), salvo
dover supporre che, non potendosi dare alle stampe la riflessione
compiuta di uno che, in realtà, dal comunismo si era
distaccato definitivamente, Togliatti e Platone avrebbero
addirittura occultato o distrutto qualcuno dei quaderni gramsciani:
un'ipotesi che la quasi totalità degli studiosi gramsciani -
con Gianni Francioni in testa - ha definito «destituita di
ogni fondamento».
Che si tratti in entrambi i casi di interpretazioni insostenibili
non è difficile mostrare, e l'attenta ricostruzione del
dibattito da parte di Liguori (che non rinuncia, beninteso, a
dispiegare tra le righe la sua peculiare interpretazione del
«ritmo del pensiero in isviluppo» del pensatore sardo)
offre più d'un ausilio in proposito. In realtà,
Gramsci è un leninista, per i motivi che a suo tempo aveva
spiegato Togliatti e che Carmine Donzelli è tornato
nitidamente a ribadire nella «Prefazione 2012» alla
riedizione del suo commentario alle note gramsciane sul Machiavelli.
Di più: giusta la decodifica compiuta ormai vent'anni
addietro in un importante studio di Nicola De Domenico, bisogna
riconoscere che Gramsci si mostra sostanzialmente consentaneo anche
rispetto alla «svolta» staliniana del 1929, almeno per
come gli si squaderna dopo aver appreso da una rivista inglese
(inviatagli dal solito Sraffa) della discussione filosofica
suscitata dal discorso di Stalin agli specialisti agrari - un
discorso che ai suoi occhi costituisce il prodromo del complemento
egemonico necessario rispetto al varo del primo piano quinquennale.
Ne fa fede tutta l'elaborazione del quaderno 11 (a cominciare dal
«magnifico saggio» con cui si sarebbe poi aperto il
primo volume dell'edizione tematica einaudiana) e della seconda
parte del quaderno 10, in cui non soltanto Gramsci spiega come i
«recenti sviluppi» della discussione filosofica in Urss
abbiano superato l'inconsistenza teoretica e il codismo politico dei
«destri» (donde la critica a Bucharin), ma soprattutto
come essi siano in grado di portare la filosofia della praxis a
«superare», incorporandole, le filosofie precedenti (e
qui si situa il confronto con Croce, che - dal versante liberale -
analoga operazione aveva tentato rispetto al marxismo).
Il dissidio di Gramsci rispetto alle posizioni assunte dal Centro
estero del Pcd'I, così come dalla Terza Internazionale,
concerne piuttosto il modo in cui «tradurre»
nazionalmente l'esperienza sovietica, e si appunta sulla linea del
«socialfascismo», che a Gramsci pare settaria e
controproducente: questo ci dicono le testimonianze dell'epoca,
prima fra tutte il rapporto al partito redatto nel 1933 da Athos
Lisa (già recluso con Gramsci a Turi). Sotto questo profilo,
anzi, bisogna riconoscere che il confronto che i Quaderni instaurano
con Croce rappresenta la premessa per tradurre in lingua nazionale
gli insegnamenti del «più grande teorico moderno della
filosofia della prassi» (Lenin, certo, ma così come
interpretato da Stalin): le categorie di «storia
etico-politica» e di «rivoluzione passiva» sono
infatti decisive per il lavoro di rielaborazione cui Gramsci si
dedica a partire dalla primavera del 1932 e che - attraverso la
riscrittura di appunti già presi e la stesura di nuovi testi
- porta alla compiuta sistemazione della teoria degli intellettuali
(quaderno 12), del partito (quaderno 13) e delle forme di una
possibile rivoluzione passiva in Occidente (quaderno 19), non senza
che vengano dedicate chiose assai critiche a chi - come Ezio
Riboldi, parlamentare comunista anche lui carcerato a Turi -
pretendeva di rinvenire dell'America fordista il «faro»
della nuova civiltà (quaderno 22).
Lettere critiche
Naturalmente, al dissidio politico si aggiunsero rancori e
diffidenze maturate sul piano dei rapporti personali. Gramsci non
dovette mai digerire né il rifiuto di Togliatti di inoltrare
nel '26 la lettera scritta al gruppo dirigente del Pc sovietico,
né che Togliatti non avesse impedito che gli si recapitasse
la «famigerata lettera» firmata Ruggero Grieco,
né ancora che il partito tentasse di accreditarsi sulla
stampa internazionale come artefice dei tentativi di liberazione,
determinandone (o comunque concorrendo a determinarne) rallentamenti
o fallimenti. Ed è proprio l'oggettività del dissidio
con il Centro estero del Pcd'I che può giustificare entro
certi limiti una lettura «in codice» della famosa
lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio 1933 per la moglie Giulia:
nei limiti in cui quella lettera testimonia di un giudizio critico
non certo nei confronti dell'orizzonte politico comunista (come ha
sostenuto implausibilmente Lo Piparo), ma più semplicemente
dei suoi compagni di partito, giudicati inaffidabili e fors'anche
non troppo interessati alla prospettiva di una sua liberazione. Del
resto è la stessa Tania che, trasmettendo la lettera a Sraffa
(affinché la inoltrasse al Centro estero), la definì
«un capolavoro di lingua esopica», e scrivendone a
Gramsci disse di aver compreso perfettamente che i riferimenti della
lettera a Giulia «non si riferiscono punto a ella». E
anche se è vero che a tutt'oggi nessuna delle decodifiche
proposte può andare esente da critiche, non si può non
riconoscere che nessuna interpretazione letterale di quella lettera
appare ormai ulteriormente sostenibile.
Resta in ogni caso il fatto che, così come è
inverosimile pensare a un Gramsci approdato al liberalismo (e magari
pentitosi davanti a Mussolini e convertito al cattolicesimo in
articulo mortis: anche codeste scempiaggini è toccato leggere
sulle pagine sedicenti «culturali» di Repubblica e del
Corriere della Sera), perfino illogico è supporre che
Togliatti e Platone, nell'immediato dopoguerra, con Stalin al
massimo della sua potenza, si dedicassero a un monumentale lavoro di
sistemazione del lascito intellettuale di un... antistalinista! O
ancora che nel 1937, alle soglie del Grande Terrore, Togliatti
potesse permettersi di appellare quel medesimo antistalinista
«capo della classe operaia italiana» senza tema di
finire per ciò solo sotto un metro di terra.
Semmai, quella di Togliatti (senza il quale, nota a ragione Liguori,
«il Gramsci che tutto il mondo conosce forse non sarebbe mai
esistito») sembra la partita di un raffinato giocatore di
scacchi. Che capisce a un certo punto che deve chinare il capo e
rinunciare a quella «traduzione in lingua nazionale» che
pure era necessaria affinché la rivoluzione in Occidente non
restasse un flatus vocis, ma si preoccupa al contempo che la
«via giusta» continui ad essere dissodata teoreticamente
dal carcere dal «capo della classe operaia italiana», al
quale garantisce supporto intellettuale e affettivo, con l'intento
di tornare a percorrere quella stessa via quando i tempi fossero
stati più propizi.
Letta in quest'ottica, la sua «famigerata» lettera a
Dimitrov del 25 aprile 1941 (nella quale si legge che «i
quaderni di Gramsci contengono materiali che possono essere
utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione» perché
in «alcune parti potrebbero essere non utili al
partito»), lungi dal costituire la prova di una proditoria
volontà censoria nei confronti dell'antico compagno, come
invece sostenuto da Lo Piparo, potrebbe spiegare il lavoro di
«smontaggio» che l'edizione tematica dei Quaderni
perpetrò, ad esempio, sulle tesi gramsciane circa il
fascismo: perché - come ha rimarcato ultimamente anche
Luciano Canfora - di certo era estranea alla koiné
cominternista l'idea gramsciana che le riforme di struttura attuate
dal corporativismo fascista, a cominciare dall'accresciuto peso
dello stato nella direzione e gestione dei processi economici, si
muovessero oggettivamente (ossia in forma «passiva»)
nella stessa direzione della pianificazione sovietica.
Che questa per Gramsci fosse la «traduzione» corretta di
Lenin non pare francamente dubbio: vi sono ampie evidenze testuali
che egli concepisse l'egemonia in chiave totalitaria, seppure in
un'accezione nutrita dalla fiducia che fosse possibile costruire una
«società regolata» in cui la distinzione tra
«società politica» e «società
civile» venisse meno in grazia di un «consenso
spontaneo» alle dinamiche ideologiche che la organizzano
(ciò che invece il fascismo era costitutivamente incapace di
fare).
Un revenant
D'altra parte, se è vero che l'accusa che è sempre
stata rivolta da parte liberale all'assetto dei rapporti di
produzione venuto fuori dalla «costituzione economica»
degli anni '30 è la sua potenziale vocazione totalitaria (una
vocazione che in Italia, ma non solo, avrebbe toccato il suo apice a
metà degli anni '70, per poi dileguare nei decenni successivi
sotto i colpi della restaurazione capitalistica e della
«modernizzazione» post-sessantottina), possiamo forse
comprendere le ragioni profonde di questa continua riapparizione
degli «spettri di Gramsci». Se ha ragione Derrida a
suggerire che non c'è fantasma né divenir-spettro
dello spirito senza un «ritorno al corpo», senza
cioè un'«incorporazione paradossale», potremmo
infatti azzardare l'ipotesi che è solo il residuo del potere
statuale tuttora «incorporato» nelle strutture pubbliche
sopravvissute alla grande stagione privatizzatrice dell'ultimo
trentennio a permettere la continua riapparizione degli spettri di
Gramsci e con lui di Marx e Lenin, vanificando così il
«lavoro del lutto» della borghesia finanziaria e degli
intellettuali suoi lacchè.
Si dovrebbe aggiungere che quel potere è oggi come mai
necessario per tornare a reprimere le pretese di dominio del
capitale finanziario e che pensare di farne a meno in nome di
fiabesche «autorganizzazioni dal basso» equivale nei
fatti a rinunciare alla stessa possibilità di trasformazione
della società e a ridurre la propria azione
«rivoluzionaria» all'agitazione propagandistica circa
l'imminenza di un fantomatico «crollo» del capitalismo.
Ma al riguardo proprio Gramsci ha detto parole definitive, e
l'originale suona sempre meglio della parafrasi.
18 febbraio 2013
Una spy-story colma di congetture irrisolte
di Guido Liguori | da il Manifesto
SAGGI «L'ENIGMA DEL QUADERNO. LA CACCIA AI
MANOSCRITTI DOPO LA MORTE DI GRAMSCI» DI FRANCO LO PIPERO
Un saggio tinto di giallo. Protagonisti sono Sraffa e Togliatti,
colpevoli di aver fatto sparire un quaderno del carcere
Da qualche tempo ha corso negli studi gramsciani quella che potremmo
definire una «storia congetturale»: una ricostruzione
dei fatti basata su deduzioni non verificabili. A ciò si
è accompagnata e sovrapposta una lettura dei testi fondata
sulla convinzione che in essi non si dica ciò che
letteralmente si legge, ma vi siano messaggi nascosti. Il che a
volte è vero: si tratta però di vedere quanto esteso
possa essere il ricorso a questo tipo di lettura
«esopica», come si dice ripetendo una espressione della
cognata di Gramsci, Tania. Si tratta di due metodologie - storia
congetturale e lettura esopica - che hanno prodotto anche esiti
interessanti, ma a cui bisogna accostarsi con cautela, proprio
perché i loro risultati non poggiano su basi certe. Alla
ricerca di un «Gramsci sconosciuto» è tra gli
altri Franco Lo Piparo, che torna in libreria con un lavoro di
taglio investigativo: L'enigma
del quaderno.
La caccia ai manoscritti
dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pp. 161, euro 18).
Se si parla di taglio investigativo non è per sminuire il
libro, ma perché fin dal titolo è l'opera stessa che
si propone come un «giallo» (viene anche citato E. A.
Poe) ed è l'autore a creare un'atmosfera da spy story ,
dipingendo alcuni dei «personaggi» (così li
definisce, come in una fiction ) della vicenda gramsciana come
protagonisti di un romanzo di Le Carré. Un problema di
etichetta Il caso più eclatante è quello di Sraffa,
ritratto da Lo Piparo come «agente segreto, di alto rango, del
Comintern. È una affermazione impegnativa. Essa viene forse
fatta perché negli Archivi di Mosca è stato trovato un
documento che rende palese questo lato nascosto del grande
economista? Niente di tutto ciò. È solo una
«congettura», che scaturisce soprattutto dal fatto che
essa bene si colloca nel mosaico interpretativo di Lo Piparo.
È possibile, e forse probabile, che Sraffa fosse un
«militante coperto» del Pcd'I, già incaricato di
gestire i finanziamenti provenienti da Mosca. Ed erano tempi,
indubbiamente, in cui un comunista di qualsiasi nazionalità
si sentiva anche un militante del Comintern, di quel partito
comunista mondiale non ancora del tutto russocentrico. Ma da qui a
farne una «agente segreto» ce ne corre. Può anche
essere, ma ci vogliono i documenti per affermarlo.
La tesi del libro è la seguente: oltre ai trentatré
quaderni noti ve ne sarebbe stato un altro fatto sparire per il suo
contenuto imbarazzante. Sarebbe stato scritto nella clinica
Quisisana di Roma, dove Gramsci è dal 1935 al 1937, anno
della morte. Da dove nasce questa tesi? In primo luogo dal fatto che
sui quaderni le etichette poste da Tania per numerarli mostrano
incongruenze e in qualche caso sono coperte da altre etichette con
diversa numerazione. In secondo luogo, perché i
«personaggi» della vicenda parlano o scrivono a volte di
trenta, a volte di trentadue, a volte di trentaquattro quaderni. Lo
Piparo respinge le ipotesi che Tania abbia pasticciato nel numerare
i manoscritti e che i protagonisti della vicenda fossero stati
approssimativi nell'indicare il numero dei quaderni perché in
altre e più importanti faccende affaccendati, oltre che per
il fatto che i quaderni sono a numerazione variabile, a seconda che
si sommino in tutto o in parte i ventinove teorici, i quattro di
sole traduzione, i due bianchi e quello usato da Tania per un indice
provvisorio.
Lo Piparo cerca di seguire la storia dei manoscritti dopo la morte
di Gramsci, formula ipotesi (interessanti) sui loro percorsi e sui
loro tempi di arrivo a Mosca, a tutt'oggi non chiari. Egli ritiene
che Sraffa, sapendo che un quaderno aveva contenuti pericolosi
(accuse a Togliatti? critiche allo stalinismo? una riabilitazione
del fascismo?), lo avrebbero fatto sparire. Non essendo in grado di
portare prove, l'autore ripete più volte frasi del tipo:
«è poco verosimile», «non dovrebbe essere
troppo azzardato congetturare», «le cose potrebbero
essere andate in questo modo». Un castello di congetture,
dunque.
Molti sono gli episodi che Lo Piparo interpreta in un modo forzato
perché convalidino la sua tesi. Un esempio: se il 7 luglio
1937 Tania scrive a Sraffa di aver «consegnato i quaderni
(tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», il
nostro autore legge la frase così: «Significa: ho
eseguito l'ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e,
naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che avete portato con
voi». È una interpretazione molto esopica, troppo
esopica, a mio avviso: un puro volo di fantasia. Giudichi il lettore
se vi è qualche nesso tra la frase scritta da Tania e la
lettura che ne dà Lo Piparo. A me sembra solo che Tania, dopo
una discussione su quanti quaderni consegnare «ai
compagni», tranquillizzi Sraffa di aver seguito le sue
indicazioni e di non averne trattenuto alcuno.
Nell'impossibilità di accennare a tutti i passi di questo
tipo, di cui il libro è pieno, dirò i motivi
principali per cui l'ipotesi di Lo Piparo mi sembra da respingere.
Primo, in tutta la sua prigionia Gramsci si è dimostrato
attentissimo a non scrivere niente che potesse divenire un'arma
nelle mani del fascismo - è qui l'origine di alcune
«scritture esopiche». Perché nella Quisisana
sarebbe venuto meno a questa norma, scrivendo un quaderno
«esplosivo»? La polizia poteva in ogni momento
confiscare i suoi appunti. Il «linguaggio esopico» su
cui insiste Lo Piparo serve soprattutto a Gramsci per non farsi
portar via i quaderni, come esplicitamente Tania scrive alla sorella
Giulia, il 5 maggio 1937: «è riuscito a tenerli con
sé (I QUADERNI) scrivendo in linguaggio esopico». Tania
si riferisce al pericolo derivante da un sequestro della polizia
fascista. Dilatare il senso dell'«esopico» e affermare
che tutti i quaderni sono una scrittura esoterica a me sembra
fuorviante.
Secondo, perché, nella sua opera di continua e faticosa
riscrittura, Gramsci non avrebbe lasciato altri segnali di una
svolta politica tanto clamorosa? Il quaderno scomparso sarebbe un
corpo estraneo nel contesto delle duemila pagine (a stampa) degli
appunti carcerari. Una cautela postuma.
Terzo, il quaderno mancante potrebbe accusare Togliatti. Si
dimentica che era Gramsci a essere sospettato di trockijsmo, era
stata la sua memoria a dover essere protetta e «salvata»
dalla scomunica postuma. La lettera a Dimitrov che Togliatti scrive
il 31 aprile 1941, affermando che i quaderni andavano curati per non
essere usati contro i comunisti, indica la coscienza del fatto che
il marxismo di Gramsci era molto diverso dallo stalinismo e che
quindi la loro pubblicazione era un problema. Che sarà
risolto con l'edizione tematica, che cercava di rendere meno
dirompente la incompatibilità tra filosofia della praxis e
Diamat.
Eppure Togliatti avrebbe potuto rinunciare a pubblicare del tutto
Gramsci, e far sparire non solo il presunto trentaquattresimo
quaderno, ma anche «gli altri» trentatré,
seppellendoli negli archivi del Comintern. Quarto , se Togliatti sa
già dal luglio 1937 che deve far sparire un quaderno,
perché non lo distrugge a Parigi (dove, secondo Lo Piparo,
Sraffa glielo porta dopo averlo sottratto a Tania)? Perché,
tornata in Urss, Tania - che scrive anche direttamente a Stalin
sulla gestione dei quaderni - non denuncia la scomparsa del quaderno
scomodo? Perché Togliatti non distrugge il quaderno
pericoloso almeno nel 1941, dopo la morte di Tania, quando legge e
rilegge i manoscritti di Gramsci? Perché lo riporta in Italia
(è l'ipotesi di Lo Piparo), decide di farlo sparire o lo fa
sparire, ma continua a parlare pubblicamente di trentaquattro
quaderni?
La spiegazione di Lo Piparo per cui ancora nel 1948 Togliatti e
Platone sbagliano il numero dei quaderni indicandone trentadue nella
introduzione al primo volume dell'edizione tematica presso Einaudi
(«si preferisce puntare sulla disattenzione dei lettori e
degli studiosi e continuare a usare il numero canonico trentadue
») è francamente incredibile. Non è più
ovvio pensare che sia stato un errore causato dalla ripresa
letterale della relazione fatta da Platone nel'46 per Rinascita?
Senza nuovi ritrovamenti le congetture di Lo Piparo non paiono
sufficienti a ipotizzare un quaderno che non abbiamo e la spinta a
«immaginarlo» sembra motivata soprattutto dal rinnovato
tentativo di dimostrare che Gramsci era (diventato) liberale. Ma
l'autore sardo è tanto grande da trascendere la sua stessa
parte politica e nutrire anche culture diverse: lo ha scritto
Togliatti già nel 1964, non vi è bisogno di inventarsi
un Gramsci che non esiste per sentirsene almeno in parte eredi.
28 febbraio 2013
Gramsci ridotto a una banale storia di spie
di Gianni Fresu | da www.giannifresu.it
È oramai appurato, in Italia esiste una categoria di studiosi
specializzati in indagini sulla presunta conversione politica,
quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci ai paradigmi del
liberalismo. È il caso dell’ultima fatica di Franco Lo
Piparo, incentrata sulla misteriosa sparizione di un quaderno del
carcere. Lo Piparo emette un trittico di sentenze inappellabili su
ragioni e responsabili della scomparsa: manca un quaderno; l’ha
fatto sparire Togliatti; in esso Gramsci ripudia il comunismo e il
suo partito. Non si tratta di un saggio storico, ma di una vera e
propria spy story per la cui redazione l’autore afferma di essere
ricorso a una «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro
volta ancorate a fatti reali». Ho letto tutte le 140 pagine,
più appendice, ma francamente di fatti reali non ne ho
trovati, in compenso ho riscontrato molta fantasia, associata a un
ferreo pregiudizio di condanna che a mio modesto parere ha
anticipato e guidato, non seguito, l’indagine.
Tutte le contraddizioni sul numero dei Quaderni, relative a
documenti e testimonianze discordanti, assai plausibili tenuto conto
della clandestinità sotto il fascismo e poi dalla
disorganizzazione seguita alla guerra, sono qui utilizzate come
prova di un reato per il quale esistono però solo indizi.
L’intero lavoro si basa sull’interpretazione “creativa” di lettere e
documenti: in alcuni casi si cerca un significato recondito ed
equivoco ad affermazioni fin troppo evidenti, in altri, magari
rispetto a lettere scritte con linguaggio cifrato, per ovvie ragioni
di sicurezza, si da un’interpretazione certa e univoca.
Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le
tesi dell’autore sono utilizzate come prova della sua sentenza. La
struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi
documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa
da nascondere, il responsabile è Palmiro. A dominare tutte le
valutazioni sulle “stranezze” ci sarebbe la malafede del gruppo
dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i
depistaggi orditi con la complicità di moglie, cognata e
amico strettissimo (Piero Sraffa) del povero Gramsci, tutti agenti
del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Le contraddizioni
però non mancano. Secondo l’autore, Sraffa e Tania avrebbero
giocato una «partita a scacchi»: il primo «per
venire in possesso dei quaderni prima che altri potessero leggerli e
sfruttarne l’eventuale carica politica»; la seconda invece per
«onorare l’impegno preso col cognato di fare pervenire i
quaderni alla moglie per evitare qualsiasi perdita o intromissione
di chicchessia». Anche quest’affermazione di Lo Piparo
è assai strana. Se Tania era, come lui afferma, un agente
segreto sovietico messo da Stalin alle calcagna di Gramsci per
controllarlo, perché sarebbe stata interessata a
«onorare l’impegno con il cognato» e non quello con i
suoi superiori gerarchici di cui Sraffa sarebbe stato emissario?
Eppure, in altre parti del libro, Lo Piparo non ha nessun dubbio su
questo ruolo e arriva a scrivere: «Tania lavora nei servizi
sovietici e non può non essere stata addestrata al lavoro di
intelligence».
Anche ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci
avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche al
comunismo – ipotesi contraddittoria rispetto alla struttura
dell’opera e al metodo di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei
Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile, anzi vale
l’esatto contrario? Secondo l’autore il quaderno mancante
all’appello fu scritto nella clinica dopo la scarcerazione, ne
è tanto convinto da affermare: «Sraffa, Gramsci vivo,
sarà stato a conoscenza [del Quaderno] perché dei suoi
contenuti i due amici avranno discusso nei colloqui dell’ultimo
anno». Anche in questo caso non si comprende in base a quali
documenti l’autore possa essere giunto a una tanto perentoria
conclusione.
Ecco un’altra affermazione contraddittoria di Lo Piparo: «È credibile un Gramsci che, fuori dal carcere e senza esplicite costrizioni censorie, non abbia sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue riflessioni e deduzioni teoriche su quanto l’amico Piero gli andava raccontando degli sviluppi del comunismo?» Verrebbe da pensare che in carcere Gramsci non potesse scrivere criticamente del comunismo a causa della polizia fascista, mentre in clinica avrebbe avuto maggiore libertà. Forse Mussolini era sullo stesso fronte della barricata con Togliatti e Stalin per impedire a Gramsci di parlar male del comunismo? A suo dire, Togliatti, grazie alla «catena comunicativa» di Tania e Sraffa, sapeva della disistima nei suoi confronti di Gramsci, perché lo avrebbe ritenuto responsabile della famosa lettera di Grieco e delle «intempestive» campagne internazionali di stampa in suo sostegno.
Anche in questo caso l’autore si guarda bene dal provare le sue affermazioni, limitandosi a dire «Togliatti era stato escluso dalla cura dei Quaderni». In realtà Gramsci, in carcere, aveva interrotto qualsiasi comunicazione diretta con i quadri del partito e del Comintern per non apparire più un dirigente comunista in attività e con alte responsabilità, per questo ritenne inopportuna la lettera di Grieco. L’accusa principale sarebbe riconducibile a un dissidio insanabile tra Gramsci e Togliatti rispetto alla linea assunta dal Comintern con il socialfascismo e all’«appiattimento» del partito italiano. In realtà l’autore dimostra di aver visionato le etichette dei Quaderni e studiato le incongruenze sulla loro numerazione, ma si è guardato bene dallo studiare dinamiche e storia del comunismo italiano e Internazionale. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto ad esempio che l’appiattimento in realtà non era tale, e anche quando, dopo interventi pesantissimi da Mosca, si determinò il suo allineamento, ciò fu dovuto all’impossibilità di rompere i rapporti in una fase drammatica, con tutto il suo gruppo dirigente (compreso il capo) in carcere, il trionfo interno e internazionale della dittatura fascista, l’esilio dei superstiti.
Quando, al VI Congresso
del Comintern del 1928, fu adottata la linea del
«socialfascismo» (criticata da Gramsci) e Bucharin venne
liquidato per la sua opposizione, proprio Togliatti fu l’unico
membro dell’Esecutivo a intervenire, nel gelo e nel silenzio
più assoluto, gli tolsero addirittura la parola, in sostegno
alla sua relazione. Nell’altrettanto famoso VII Congresso del luglio
1935, che portò alla condanna del socialfascismo e
spianò la strada alla politica dei «Fronti
popolari» (ossia la linea di Gramsci) proprio Togliatti,
insieme a Dimitrov, fu il protagonista della svolta, anticipando una
posizione poi perseguita con continuità fino al ritorno a
Salerno nel ‘44. Tutte cose di cui uno studioso dovrebbe tener
conto, nemmeno sfiorate da Lo Piparo, affaccendato com’è a
cercare vanamente il corpo del reato. Sicuramente, questa la mia
conclusione, egli trova tanto fumo ma nessuna pistola.
29 marzo 2013
L'invenzione di un Gramsci dimezzato
di Luigi Cavallaro
Una militanza comunista da cancellare. Una tavola rotonda
sull'autore dei «Quaderni dal carcere» a partire
dall'ultimo libro di Franco Lo Piparo
Nonostante il forte scirocco dei giorni scorsi, l'eco delle
polemiche nazionali (e perfino internazionali) intorno alla sorte
dei Quaderni del carcere di Gramsci è arrivata anche a
Palermo, dove l'Istituto Gramsci siciliano ha organizzato lo scorso
21 marzo la presentazione dei due ormai celebri libretti che Franco
Lo Piparo ha dedicato nell'ultimo anno al tema: I due carceri di
Gramsci e L'enigma del quaderno, entrambi editi da Donzelli.
Discussants d'eccezione: Luciano Canfora, Salvatore Lupo e Salvatore
Nicosia, attuale presidente del Gramsci isolano. (Sui due volumi ne
ha scritto Guido Liguori il 2/2/2012 e il 16/02/2013).
Ha introdotto il dibattito Lupo, che ha inquadrato i dissidi fra
Gramsci e il gruppo dirigente del Pcd'I nelle più ampie e
drammatiche divergenze che allora attraversavano il movimento
comunista internazionale: considerazione affatto ragionevole, ma lo
storico catanese, che vanta trascorsi giovanili fra i gruppi
trockisti della sinistra extraparlamentare, non ha perso neanche
stavolta l'occasione per sottolineare malignamente «noi 'ste
cose le sapevamo».
La comunicazione a Ercoli
Poi è stata la volta di Canfora. Il filologo e storico barese
ha accuratamente distinto la questione oggettiva, documentaria, del
numero dei quaderni gramsciani da quella congetturale relativa al
contenuto del presunto «quaderno mancante»: su
quest'ultima non ha detto nulla, mentre sulla prima ha messo in fila
alcuni fatti su cui insiste da qualche tempo. Ha ricordato che
nell'edizione critica di Gerratana i quaderni gramsciani sono 33 (29
di note e 4 di traduzioni), che è un numero che non collima
né con quello indicato a suo tempo nella relazione pubblicata
su Rinascita da Felice Platone (che insieme a Togliatti curò
la prima edizione tematica dei Quaderni, uscita per Einaudi fra il
1948 e il 1951), dove si parla di 32 quaderni per complessive 2848
pagine manoscritte, né soprattutto con quanto riferito dallo
stesso Togliatti in un discorso tenuto al Teatro San Carlo di
Napoli, il 28 aprile 1945.
Togliatti disse infatti che Gramsci aveva
lasciato «34 grossi quaderni come questo - eccone uno -
coperti di scrittura minuta, precisa, eguale». E certo
è singolare - ha aggiunto Canfora - che la parte di quel
discorso concernente la descrizione del lascito gramsciano non sia
stata mai pubblicata se non dopo la morte di Togliatti (lo stesso
Togliatti omise di includerla nella silloge dei suoi scritti su
Gramsci, apparsa negli anni '50 dall'editore Parenti): tanto
più singolare se si pensa che, proprio qualche giorno prima
di quel discorso al San Carlo, il vicecommissario degli Affari
Esteri dell'Urss, Dekazonov, aveva riferito al responsabile della
sezione Informazione internazionale del partito comunista bolscevico
che «34 quaderni di lavori di Antonio Gramsci» erano
stati consegnati il 3 marzo 1945 a «Ercoli» (Togliatti)
dall'ambasciatore sovietico a Roma. Per non dire che non di
ventinove, ma di «trenta quaderni che contengono una
rappresentazione materialistica della storia d'Italia» aveva
scritto nel luglio '37 ancora Togliatti a Manuil'skij, membro
dell'Esecutivo dell'Internazionale, e che lo stesso numero (in cifre
romane: «XXX stuk») ricorre in una lettera che Tania
Schucht scrisse ai familiari all'indomani della morte di Gramsci.
Il privilegio inventato
Non diremo qui delle spiegazioni che la filologia gramsciana ha
avanzato per rendere conto di queste presunte incongruenze,
né di come Lo Piparo ne abbia contestato la
plausibilità nel suo ultimo libretto. Assai più
interessante è stato il modo in cui Lo Piparo ha argomentato
il senso della sua ormai biennale ricerca.
Egli ha esordito dicendo che bisogna sbarazzarsi della «storia
sacra» ereditata dal Pci. Anzitutto, Gramsci non morì
in carcere, come scrisse («falsamente») Togliatti, ma da
uomo libero; certo, in libertà condizionale, ma poteva
ricevere chi voleva e andare dove voleva: se poi non l'ha fatto,
scelte sue. Poi ha citato la «protezione» che a Gramsci
venne da Mariano D'Amelio (zio di Piero Sraffa, presidente della
Cassazione e senatore fascista) e le «ricerche» (sic!)
di Dario Biocca sulle relazioni che il carcerato intratteneva coi
carcerieri fascisti e col Duce in primis. Sì, perché -
ha insistito molto Lo Piparo - Gramsci era un
«privilegiato»: riceveva libri dall'esterno del carcere
(e se non gli arrivavano scriveva al Duce per protestare e poi i
libri gli arrivavano), inviava ogni giorno lettere a parenti e
amici, insomma faceva cose si spiegano solo con l'occhio di riguardo
che Mussolini aveva nei suoi confronti: prova ne sia che, tra i
reclusi comunisti, ci fu anche chi lo prese a sassate perché
pensava che avesse saltato il fosso. E poi Gramsci
«detestava» Togliatti, al punto da far promettere a
Tania che mai gli avrebbe consegnato i quaderni: altro che
«continuità» fra i due!
Quindi, Lo Piparo ha posto la domanda capitale: perché,
nonostante il comunismo sia bell'e morto, continuiamo a occuparci di
Gramsci? La risposta, a suo avviso, è semplice: Gramsci
è stato «totus politicus» solo per una piccola
parte della sua vita, dal 1918 al 1926; per il resto, è stato
un «intellettuale», cioè uno che s'interrogava su
dove andava il mondo e perché. E di cose da intellettuali
alla fine ha scritto: la controversia su neogrammatici e
neolinguisti, Manzoni, la storia degli intellettuali italiani -
basta scorrere il programma di lavoro che figura nella prima pagina
manoscritta dei Quaderni per scorgervi i tipici interessi di un
professore universitario, quale egli doveva diventare: era stato pur
sempre il delfino del grande glottologo Matteo Bartoli, no?
«Forse è morto comunista, ma non m'interessa: era uno
che s'interrogava», ha concluso Lo Piparo, che insegnando
Filosofia del linguaggio nell'ateneo palermitano avverte
evidentemente per ciò solo motivi di colleganza con Gramsci.
E proprio per questo suo continuo interrogarsi - ha chiosato
Salvatore Nicosia - Gramsci va restituito alla sua storia e
identità di «individuo» e sottratto a
quell'appartenenza collettiva che ne ha tracciato un profilo dai
toni e contorni probabilmente al di là delle sue stesse
intenzioni.
Quest'ultima annotazione è risultata alla fine ancor
più chiarificatrice della stessa franca allocuzione di Lo
Piparo. Già, perché il senso di tutto questo
discutere, alla fine, è uno solo: bisogna strappare Gramsci
all'abbraccio mortale di un'identità nefasta com'è
quella comunista. Anche perché, se il comunismo è
quella cosa orribile e mortifera che è stata descritta
dall'attuale direttore della Fondazione Istituto Gramsci, Silvio
Pons, in un libro al quale il presidente onorario della Fondazione
medesima, Giuseppe Vacca, rimanda in una nota della sua biografia
gramsciana come testo definitivo per intendere quel «tempo
dello Stato» durante il quale Gramsci visse quasi sempre in
segregazione (per carità, ben protetto e da privilegiato: e
anzi non mi spiego come non sia stata ricordata la
«vacanza» a Ustica, sulla quale meritoriamente ha
richiamato tempo addietro l'attenzione un ex presidente del
Consiglio), non ci sono alternative: o si dimostra che Gramsci non
ha niente a che fare con questa merda o altrimenti si deve chiudere
la Fondazione Istituto Gramsci. Tertium non datur.
Il segreto di Pulcinella
Spiace solo che Canfora, che pure è attento studioso dell'uso
politico dei paradigmi storici, non abbia colto qual è la
posta in gioco e si sia precipitato nell'agone polemico con la furia
di chi è convinto di misurarsi ancora con Togliatti e Natta,
quando è il tempo di Renzi e Lo Piparo. Quanto al
«quaderno mancante», sul quale lavora (ma «a
rilento», ha lamentato Lo Piparo) l'ormai celebre commissione
istituita dall'Istituto,suggeriremmo per prima cosa un'ispezione al
Teatro San Carlo: magari qualche spiritello burlone, di quelli che
infestano festanti i sotterranei napoletani, potrebbe averlo
sottratto a Togliatti nel trambusto di abbracci e fanfare
dell'Internazionale che dovette seguire alla fine del suo discorso
del 28 aprile di sessantotto anni fa. Si dovrebbe ripartire da
lì. E magari, indaga che t'indaga, potrebbe venir fuori anche
il segreto di Pulcinella.
3 giugno 2013
Ma quanti erano i quaderni del carcere di Gramsci?
di Ruggero Giacomini
Non era ancora arrivato nelle librerie, che è partito il
lancio sui principali quotidiani nazionali “Repubblica” e “Corriere
della Sera” - seguiti poi da altri giornali - del nuovo libro del
professore di filosofia del linguaggio all’Università di
Palermo Franco Lo Piparo (L’enigma del quaderno. La caccia ai
manoscritti dopo la morte di Gramsci, Donzelli, Roma 2012), in cui
l’autore conferma e rilancia la tesi della scomparsa di uno dei
quaderni del carcere di Gramsci, già espressa con non meno
clamore lo scorso anno nel libro I due carceri di Gramsci. La tesi,
affacciata inizialmente con qualche prudenza e poi sempre più
aggressivamente è che sia stato tenuto nascosto un quaderno
di Gramsci, e che a nasconderlo sarebbe stato Togliatti
perché vi sarebbe stata documentata la rottura di Gramsci con
il pensiero e il mondo comunista e la sua conversione al
liberalismo.
Tesi non nuova questa della conversione di Gramsci, e anzi
ricorrente, sia religiosa da parte di coloro che con
generosità cristiana ne vogliono l’anima salita in paradiso,
e sia politica. A suo tempo l’ex ministro della difesa ai tempi
dell’aereo abbattuto di Ustica, Lelio Lagorio, sosteneva che Gramsci
prima di morire fosse passato al partito socialista, forse presago
della sua craxiana evoluzione; e assicurava che negli archivi di
stato era presente una scheda-questionario da lui compilata, che
dimostrava questo passaggio; e poiché tale documento che egli
assicurava qualcuno avesse visto non si riusciva a trovare,
suggeriva che a farlo sparire potesse essere stato, indovinate un
po’? Togliatti, ovviamente.
Ci sarebbe da approfondire perché Togliatti sia “l’uomo nero”
delle campagne ideologiche anticomuniste, irrecuperabile e
inconvertibile; mentre con Gramsci si cerchi già dai tempi
della prima edizione delle Lettere dal carcere e della recensione di
Croce, l’assimilazione da parte degli avversari (“era dei nostri”
scrisse don Benedetto, prima di conoscere che cosa Gramsci avesse
scritto di lui in carcere). E anche oggi la linea della
contrapposizione frontale col socialismo riformista sostenuta da
Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubettino,
Soveria Mannelli 2012) e condivisa da Roberto Saviano, appare
marginale rispetto ai più sofisticati tentativi di
riconversione, che trovano alimento nel trasformismo degli
intellettuali sbandati dopo la fine del Pci.
Ma qual è il
Gramsci ritenuto assimilabile dal pensiero dominante? Non quello
giovanile, del rivoluzionario che lotta per un ordine nuovo a fianco
del movimento dei consigli di fabbrica. Né tanto meno quello
da dirigente del Pci nel 1921-26, di cui si è anche
cancellata l’edizione critica degli scritti già in programma
e annunciata presso Einaudi, privando il pubblico degli scritti
politici più interessanti per conoscere Gramsci, ma anche la
storia d’Italia di quegli anni: cancellazione che è avvenuta
nel silenzio tombale dell’intellighenzia vetero e neo-liberale che
si dice anticensoria. E neanche il Gramsci dei Quaderni, di cui
stando allo stesso Lo Piparo almeno fino al ’30 è “possibile
una lettura leninista”. Lo sforzo esegetico si concentra dunque
sulla vicenda biografica raccontata in modo deformato e sugli ultimi
quaderni, ora anche sull’ultimissimo “scomparso” di cui si
può pensare tutto.
Il clamore mediatico per la tesi missionaria di Lo Piparo,
rilanciata in quest’ultimo lavoro, ha celato e mantenuto sullo
sfondo quella che è invece una clamorosa ritirata e
correzione rispetto a come era impostata la stessa tesi nel libro
precedente. Ne I due carceri infatti Lo Piparo fondava la sua
argomentazione sulla scoperta che nella numerazione dei quaderni
fatta da Tania c’era un “salto” tra il numero XXXI e il numero
XXXIII e dunque c’era stato un quaderno 32 che ora non c’era
più (p. 82). Il fatto che comparisse un numero XXXII-IVbis
era parso a Lo Piparo una chiara conferma che il buco c’era e si era
tentato maldestramente di coprirlo, e accusava senza mezzi termini
Gerratana di “manipolazione” (ibidem).
Successivamente sul “Corriere della Sera” del 6 giugno 2012, Lo
Piparo aveva dato conto anche di una perizia grafologica
commissionata a un esperto consulente di uffici giudiziari, il cui
“responso”, annunciava, “è stato netto: il numero XXXIII non
è attribuibile alla mano di Tania.” Come il XXXII-IV bis.
Era la classica scoperta… dell’acqua calda! Infatti era stato
Gerratana, quando aveva cominciato a lavorare all’edizione critica
dei Quaderni del carcere, a segnalare di aver numerato lui gli
ultimi due a matita, perché Tania si era fermata al numero
XXXI. Un fatto forse scientificamente discutibile, ma dichiarato
pubblicamente in un convegno a Cagliari del ’67 e che risulta dagli
atti dello stesso (Gramsci e la cultura contemporanea, a cura di
P.Rossi, Editori Riuniti, 1969-70). Per cui ora Lo Piparo è
costretto a riconoscere che sulla clamorosa scoperta del “buco” da
coprire ha equivocato: “Nel libro sostenevo (e ho continuato a
sostenere in interventi giornalistici) – ammette ora – che la
numerazione di Tania tramandataci saltava da XXXI a XXXIII senza
individuare un quaderno XXXII. Il salto non c’è” (pp. 76-7).
Nel frattempo in virtù anche di quella “scoperta”, il libro
di Lo Piparo è stato insignito del premio Viareggio,
collocato al livello delle Lettere dal carcere di Gramsci, il che
suggerisce anche considerazioni amare sullo stato della cultura in
Italia oggi.
Scoperto l’infortunio non da poco in cui era caduto, Lo Piparo,
secondo il detto classico che la migliore difesa è l’attacco,
ha rilanciato, modificando trama e protagonisti. Questa volta il
punto di partenza è un passo di una lettera di Tania alle
sorelle del 25 maggio 1937 dove il testo letterale suona che i
quaderni erano “XXX pezzi”, mentre la prima traduttrice Rossana
Platone aveva reso “una trentina”. A convalida del numero “30” Lo
Piparo, sostenuto anche da Canfora in interventi sul “Corsera”,
adduce Togliatti, che riporta tale numero in una lettera a
Manuilskij dell’11 giugno successivo. In realtà Togliatti,
che i quaderni non li aveva ancora visti, aveva appreso il numero
tramite la sorella Eugenia, dalla stessa lettera di Tania (e non da
Sraffa come immagina Lo Piparo); e dunque la sua non è una
testimonianza aggiuntiva. Resta Tania, che dicendo “XXX pezzi”
chiaramente arrotondava, perché i quaderni tutti erano e sono
33. Né si può attribuire a lei di aver voluto
distinguere i quaderni di testi da quelli delle traduzioni, come si
vorrebbe credere, dal momento che Tania stessa nel numerarli li
mescola assieme indistintamente. E’ Gerratana che li numera
separatamente, assegnando agli ultimi le lettere A, B, C, D.
Su come e dove poi il “quaderno mancante” possa essere scomparso, in
questo libro Lo Piparo cambia opinione rispetto a quello precedente
e a Luciano Canfora. Per quest’ultimo e la tesi vecchia infatti
poteva essere stato solo dopo il ritorno dei manoscritti in Italia
all’indomani della guerra. Motivo il fatto che sia l’ambasciatore
sovietico che li consegna, che Togliatti che li riceve, fanno il
numero di “34”. Cioè uno in più dei 33 che conosciamo.
Che poi Togliatti, che a quell’epoca i quaderni li conosceva bene,
abbia riferito quel numero senza preoccuparsi di quaderni da
nascondere dovrebbe essere indicativo che non aveva alcuna
volontà di occultamento.
In realtà le fonti più sicure attestano che il numero
complessivo dei quaderni di Gramsci era 32. Lo fa la moglie di
Gramsci, Giulia, ricordando in una lettera a Dimitrov databile tra
la fine del ’43 e gli inizi del ’44 che la famiglia aveva consegnato
a suo tempo all’archivio del Comintern, prima di tutti gli altri
oggetti, “le lettere e le opere di Gramsci (32 quaderni)” (cf.r.
Antonio Gramsci jr, La Russia di mio nonno, pp. 84-5). Erano dunque
entrati 32 quaderni all’archivio del Comintern provenienti dalla
famiglia, e 32 ne escono quando il 21 febbraio 1945 “gli originali
dei Quaderni del Carcere al completo (nella quantità di 32)
furono dati al membro del Partito comunista italiano Rottiers”
(sic). Si tratta quasi certamente del cognato di Togliatti Paolo
Robotti, e ad attestare la consegna è il vicedirettore
dell’Archivio di storia sociale e politica della Federazione russa
V.N.Sepelev in risposta a una richiesta di Canfora, di cui dà
notizia lo stesso Lo Piparo (p.93) senza trarne tuttavia le
conseguenze.
O meglio una conseguenza l’ha tratta e cioè immaginare che il
quaderno sia stato sottratto prima di arrivare a Mosca alla
famiglia. Deve avere avvertito anche lui che è di qui che
bisogna partire, da questi 32 quaderni originali esattamente contati
dalla famiglia di Gramsci al momento della consegna e certificati da
una documentazione archivistica inoppugnabile. Allora il problema
vero di ricostruzione storica è come i quaderni gramsciani da
32 diventino 33, e perché si dica alla consegna nel ‘45 che
sono 34. La spiegazione c’è se si vuole accettarla. Il
33° quaderno gramsciano è quello scritto solo per due
pagine e mezzo e considerato assieme a un altro di cui è il
completamento nei contenuti. E che le cose stiano così lo
dimostra anche la Relazione sui quaderni del carcere, pubblicata
nell’aprile 1946 su “Rinascita” da Felice Platone, dove i quaderni
vengono descritti analiticamente e sono 32; non viene cioè
neanche da lui considerato separatamente quello scritto solo per due
pagine e mezzo. E il 34° è quasi certamente il quaderno
degli indici di Tania, identico nell’aspetto esteriore agli altri e
che fin dall’inizio viaggia insieme a loro.
Lo Piparo conosce le varie fonti, la diversa autorevolezza e le
discrepanze, ma gira i numeri secondo ciò che gli conviene
per la propria tesi. Ne I due carceri liquida la precisa
testimonianza di Giulia, addebitandola bontà sua a “un errore
di memoria umanamente comprensibile” (p. 88). Ed ora la nuova tesi
è appunto che il quaderno mancante sia stato “rubato” prima,
che cioè non sia neppure mai arrivato in Russia. Intercettato
e trattenuto dall’agente Sraffa per conto, manco a dirlo, di
Togliatti. Per cui a voler seguire insieme Canfora e Lo Piparo i
quaderni dovrebbero essere stati 35, di cui 2 scomparsi. Oppure un
quaderno sarebbe scomparso due volte, prima dell’arrivo alla
famiglia e dopo il ritorno in Italia, ricomparendo solo per il
viaggio. Un vero miracolo di moltiplicazione e sottrazione di
quaderni.
Nella spy-story immaginata da Lo Piparo entrano in scena in questo
nuovo lavoro nuovi personaggi. Il primo è un segreto amico di
Tania, presso cui lei potrebbe aver nascosto i quaderni invece di
portarli all’ambasciata. Che siano stati portati da Tania
all’ambasciata e da lì spediti è oggi accertato e
generalmente riconosciuto (ma non da Lo Piparo). Possibile invece e
anche probabile che ne sia stata fatta prima della spedizione per
sicurezza una copia fotografica e che questa sia stata custodita in
Italia nel caveau della banca commerciale di Mattioli, secondo la
testimonianza di Nilde Jotti confermata da Sraffa e l’ipotesi che a
me pare nella sostanza verosimile, formulata da Giuseppe Ricuperati
negli Annali della Fondazione Luigi Einaudi XLIII-2009 (p. 8). E
molto probabilmente si tratta della stessa copia data in visione a
Niccolò Gallo quando attendeva all’antologia delle 2000
pagine di Gramsci e non più restituita, che trovasi oggi in
un archivio privato a conoscenza di Canfora e Lo Piparo.
Un altro misterioso personaggio evocato da Lo Piparo è
“l’emissario di Sraffa”, a cui Tania avrebbe consegnato i preziosi
quaderni, per la più tortuosa e rischiosa spedizione che si
possa immaginare, alternativa all’itinerario Roma-Mosca tramite
ambasciata, ma che consentiva il controllo dei contenuti da parte di
Sraffa-Togliatti immaginato da Lo Piparo e consente ora a
quest’ultimo di formulare la sua tesi.
Compare inoltre ad arricchire il quadro la casa di Sraffa. Tania
scrive alle sorelle il 5 luglio ’37 che ha fatto vedere a Sraffa tre
quaderni “che gli avevo portato a casa”, intendendo con tutta
evidenza che dall’ambasciata un po’ avventatamente li aveva portati
a casa sua per farglieli vedere, insieme al suo quaderno di indici
per un consiglio su come proseguire. Invece Lo Piparo traduce che
Tania abbia preso i quaderni che teneva in casa sua o del suo amico
segreto e li abbia portati alla casa di Sraffa, dove lui li avrebbe
trattenuti senza restituirli. E questa “casa di Sraffa” deve aver
tanto affascinato Lo Piparo, che la cita e sottolinea in un libro di
piccolo formato di 160 pp., almeno undici volte.
Ora tutti coloro che hanno una minima familiarità con la
vicenda carceraria di Gramsci sanno che Sraffa a Roma non aveva
alcuna casa, e quando scendeva nella capitale prendeva alloggio
solitamente all’albergo “Ambasciatori”.
Questa è solo una delle approssimazioni informative di cui
è cosparso il libro di Lo Piparo. Ad esempio chiama “processo
di Milano” quello in cui Gramsci fu condannato dal tribunale
speciale, tenutosi invece come è noto nella capitale. E non
si tratta di una svista, perché detto ne I due carceri (p.
124), è ripetuto pari pari ne L’enigma (p. 16).
Se nel primo libro Lo Piparo aveva molto congetturato sul salto di
etichetta, sbagliando come abbiamo visto, nel secondo si diffonde su
due etichette sovrapposte dalla stessa Tania su un quaderno. Si era
sbagliata, forse, scrivendovi “Incompleto/ da 1 a 26/ XXXII” e
perciò aveva corretto sovrapponendogli la nuova con scritto
“Incompleto/ XXIX”. Spiegazione troppo semplice e dunque
inaccettabile per Lo Piparo, per il quale Tania, “funzionaria” dei
servizi segreti sovietici e addestrata ai messaggi in codice (in
realtà era stata una semplice traduttrice all’ambasciata),
non poteva che voler trasmettere in quel modo particolare un
messaggio segreto. Che Lo Piparo decifra così: c’è un
quaderno di 26 pagine scritte che non mi è stato restituito.
Qualcuno si è chiesto giustamente: ma non era più
semplice che lo scrivesse alle sorelle o lo dicesse loro a voce una
volta tornata a Mosca? Ma Lo Piparo esperto di linguaggi è
affascinato dal linguaggio segreto, con cui si comunica tutto il
contrario di quello che si dice. Per esempio se Tania scrive a
Sraffa il 7 luglio 1937 che ha consegnato il giorno prima per la
spedizione a Giulia tutti i quaderni, e sottolinea “tutti quanti”,
vuol dire ci spiega Lo Piparo che non li ha potuti consegnare tutti,
perché tutti non li aveva (p. 123).
A questo punto la telenovela lopiparesca ha aperte per una prossima
puntata tre strade di possibili sviluppi:
a) la love story di Tania col segreto amico romano, romanticamente
promettente; b) il percorso non meno intrigante dei “tre quaderni”
lasciati a “casa Sraffa”, fino al loro ricongiungersi con gli altri,
salvo uno che si perde per la strada; c) lo scoop grosso,
cioè la “scoperta del quaderno”. Gli originali in
riproduzione anastatica sono facilmente reperibili; le pagine da
realizzare sono appena 26, una sciocchezza rispetto ai Diari di
Dell’Utri; il contenuto in sintesi e forma dubitativa è stato
pure detto: “Conteneva giudizi sul fascismo che non era possibile
rendere pubblici? Conteneva riferimenti troppo personali a Togliatti
e al suo ruolo nella vicenda della famigerata lettera di Grieco? O
conteneva una critica esplicita del comunismo sovietico?...
Aspettiamo di leggerlo” (p. 140).
L’esistenza infine dell’“archivio privato” con le copie fotografiche
dei quaderni suggerisce indirettamente che non sarebbe neanche
necessario avere un originale da sottoporre a un rischioso
controllo, basterebbero le fotografie. E’ un mio eccessivo mal
pensare, che qualcuno possa meditare la costruzione di un quaderno e
farcelo trovare? Vedremo.
(“Storia e problemi contemporanei”, n.62, gennaio 2013, pp. 115-20)
PS. Devo rettificare l’attribuzione a Rossana Platone della
traduzione dal russo della lettera di Tania in cui l’espressione
“XXX pezzi” a proposito dei Quaderni era resa con “una trentina”.
L’avevo ripresa da un’intervista di Giuseppe Vacca a “Repubblica”
del 2 febbraio scorso, poi – come ho appena appreso – rettificata
solo verbalmente. Questo non cambia la sostanza del mio
ragionamento, ma è doveroso il rispetto della
professionalità di ognuno.
Ringrazio Nerio Naldi per aver segnalato la presenza nel mio
articolo di un refuso -"accertato" invece "accettato" – e di uno
scambio di persona: Togliatti e non Sraffa è il convalidante
della testimonianza della Jotti.
La testimonianza di Sraffa è infatti nel senso della conferma
che i Quaderni furono inviati tramite l’ambasciata sovietica, come
del resto era stata indicazione del partito comunista (Donini), e
sua sollecitazione a Tania.
Il 24 maggio scorso c’è stato un intervento di Luciano
Canfora sul “Corriere della Sera”, secondo cui dalla perizia svolta
sui quaderni grazie al gruppo di lavoro istituito presso la
Fondazione Istituto Gramsci di cui lui fa parte sarebbe emerso “al
di là di ogni dubbio, che i Quaderni all’indomani della morte
di Gramsci erano 34”, rilanciando dunque la tesi del quaderno
mancante di Lo Piparo.
Scrive Canfora che Tania provvide dopo la morte di Gramsci “ad
apporre una etichetta su ciascun quaderno. Ma c’è un quaderno
su cui manca qualunque etichetta: è il più compiuto,
il più elaborato, il più significativo, quello che nel
dopoguerra (1948) sarà edito per primo, La filosofia di
Benedetto Croce.” Il quale quaderno, sempre secondo Canfora, non
sarebbe stato “sin dal primo momento, tra quelli in possesso di
Tania, per ragioni che potremo approfondire in altra sede”.
In attesa che Canfora chiarisca le ragioni fondanti della propria
convinzione, mi permetto delle brevi osservazioni:
1. Il quaderno sulla filosofia di Croce - che ha il n.III di Gramsci
in copertina e il 10 attribuito da Gerratana -, non è l’unico
che Tania non abbia numerato; c’è anche il IV bis,
corrispondente al 18 di Gerratana.
2. Il quaderno che Tania non avrebbe avuto è analiticamente
descritto da Felice Platone nel ’46, come uno dei 32 quaderni
pervenuti dalla Russia: quegli stessi che la famiglia Schucht a
Mosca aveva consegnato all’archivio del Comintern e dall’archivio
dell’ormai ex Comintern erano tornati in Italia. E’ impossibile
dunque che non sia stato nella disponibilità di Tania.
3. Che Tania senza esperienza ed emozionata abbia un po’ pasticciato
nell’etichettatura dei quaderni risulta da vari elementi. Ad esempio
sul quaderno a cui appose il n. VIII (6 di Gerratana) scrisse sulla
copertina in alto a destra: “Completo da pg. 1 a 79”, mentre le
pagine effettivamente scritte da Gramsci sono 156. Questo è
un errore di cui Tania non si accorse e che non cercò di
correggere.
E nel quaderno col n. XXI di Tania (29 di Gerratana) - uno dei
quattro sottoposti all’esame dell’Istituto centrale per il restauro
-, è emerso che sotto l’etichetta sul dorso apposta da Tania
con il n. 21 in caratteri arabi, ce n’è un’altra identica di
Tania… con il numero 21!
Forse è “puerile” pensare che Tania possa aver fatto
confusione, ma quale sarebbe allora l’arcano, il significato riposto
di questa… rinumerazione?
28 gennaio 2012
NELLO AJELLO
"Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al pci"
Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i "generi" che
s´intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di
Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare
un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il
destino toccato all´esponente sardo che nel 1928 il Tribunale
speciale fascista condannò a vent´anni di reclusione
(ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase
d´arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo
l´autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta,
dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna
al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli
era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci
avrebbe sofferto fino alla morte, nell´aprile del ´37
(con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno,
l´ultimo, scomparso).
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di
Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è
più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti
gramsciani che sorreggono l´assunto. Il quale, agli occhi di
chi abbia familiarità con la figura del leader sardo,
risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È
infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la
concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo
avrebbe assunto a proprio nume tutelare.
Ben presto il carattere strumentale dell´operazione era emerso
fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di
liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti
gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con
l´aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista.
Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal
carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano
espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo.
Basterà, d´altronde, scorrere la bibliografia che Lo
Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che
di Gramsci hanno posto in risalto l´eterogeneità
rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo
Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di
quest´ultimo aggiungerei all´elenco di Lo Piparo la
monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene
documentato quel contrasto fra l´obbedienza di partito e il
dovere della verità, che nell´autore dei Quaderni fu
centrale.
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale
con l´autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che
più conta non è la tesi generale, quanto
l´insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata
di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà
d´un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni,
invocazioni ed ukase fra "dentro" e "fuori" il luogo di pena. I
terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che
può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne
trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a
Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere,
rendendole, a tratti, esemplari nell´arte del dire e non dire.
Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei
rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a
ideologia (sarà «un comunista coperto»?),
rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un
interrogativo in forma di donna. Della sua «vita
privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché
niente», se non che è «la meno comunista delle
sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna
dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti
sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una
"bolscevica" integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte
delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati
tragitti, conservano un fascino inquieto.
Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le
missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in
rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della
«propria estraneità, filosofica anzitutto, al
comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti
nell´edizione del ´47 delle Lettere dal carcere. Ce
n´è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero
comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi
figli. Segna il massimo dell´emotività epistolare,
esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna
nell´animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo
Piparo, «è la Russia sovietica».
L´eco di un´altra lettera aleggia nel libro. La scrisse
nel 1928, durante il processo Gramsci, l´alto esponente
comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva
Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore,
s´intrattiene sui casi del comunismo nel mondo.
All´intellettuale sardo non sfugge però di essere lui
il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale
che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non
mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli
amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in
galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci
avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di
un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere
ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la
morte, con l´edizione revisionata dei suoi trentatré
Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la
possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il
trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della
perfidia di Togliatti. Quegli scritti - così si sarebbe
espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 - «possono
essere utilizzati solo dopo un´accurata elaborazione»:
solo così il partito li darà alle stampe. Dopo non
essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle
carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui
onorandone la memoria. Ma l´interpretazione di Lo Piparo
è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era
fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di
esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa
linea è la conclusione dell´autore dei Due carceri di
Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò
Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi
politicamente atroci, c´è più verità in
un paradosso che in cento professioni di fede.
5 febbraio 2012
http://georgiamada.wordpress.com
Gramsci e la polemica sul Quaderno fantasma
Continua la discussione sul quaderno fantasma di Antonio Gramsci.
Franco Lo Piparo ha scritto un libro, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il
labirinto comunista. Un libro dove fra tante cose veramente
interessanti si ipotizza (con nessuna documentazione) anche la
scomparsa di un manoscritto dei Quaderni.
Il libro viene recensito da Nello Ajello (L’altro carcere di Gamsci. Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al Pci) su Repubblica e viene poi contestato da Guido Liguori (Gramsci, l’invenzione di un teorico liberale) sul Manifesto (io ne parlo QUI e QUI).
Sul Corriere ne scrivono Dino Messina (Antonio Gramsci e il fantomatico quaderno scomparso) e Antonio Carioti (“Gramsci ripudiò il comunismo”: il giallo del quaderno).
Su l’Unità altri due articoli uno di Gianni Francioni, che contesta la scomparsa del quaderno, e un’altro dello stesso Lo Piparo che risponde oggi a Francioni.
Vi posto i due articoli dell‘Unità, quello odierno di
risposta di Lo Piparo e quello di Francioni .
[...]
«Quaderno 32», il mistero c’è
La polemica sui manoscritti di Gramsci dal carcere.
di Franco Lo Piparo
Gianni Francioni scrive: «La tesi di Lo Piparo (è
esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi
delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni
fondamento». Francioni ha una lunga frequentazione dei
manoscritti gramsciani avendone curato l’edizione anastatica.
Andiamo alla questione avendo cura di separare i fatti dalle
interpretazioni.
Nella numerazione ufficiale il numero XXXII è attribuito al
Quaderno 18 di Gerratana. Non è quindi di Tatiana. Secondo la
mia ipotesi l’attribuzione nasce dal bisogno di colmare il salto che
i numeri di Tatiana, così come li conosciamo, presentano
passando dal Quaderno XXXI al XXXIII.
UNA DOMANDA LECITA
Esaminiamo il Quaderno. Al centro della copertina campeggia una
etichetta dove è scritto a caratteri grandi un «N.
4». Non esistono spiegazioni di questo numero e nemmeno noi
riusciamo a trovarne una convincente. In alto, in inchiostro blu si
legge un «(34)». Fin qui i fatti. I Quaderni che
conosciamo sono 33. Da dove salta fuori il numero 34? Mi sembra una
domanda lecita.
Nell’edizione anastatica Francioni spiega: «La cifra potrebbe alludere al numero complessivo dei quaderni effettivamente utilizzati da Gramsci, più il quaderno compilato da Tatiana come indice generale delle note». Non è l’argomento usato nell’articolo per confutare la mia ipotesi. Si trattava, infatti, di spiegazione debole. Se così fosse stato, il numero 34 avremmo dovuto trovarlo sul quaderno di indice. Quaderno che, tra l’altro, ha una numerazione a parte. È la stessa Tatiana che scrive sulla copertina del proprio quaderno: «I di Tania». La spiegazione data nell’articolo è altra.
A partire dal Quaderno XXIX Tatiana si sarebbe accorta di avere fatto degli errori nella numerazione e, per correggerli, incolla, nei Quaderni 12 e 13 di Gerratana, su precedenti etichette nuove etichette con la numerazione che conosciamo. Quali potrebbero essere stati questi errori? Difficile dirlo dal momento che la numerazione di Tatiana non ubbidisce a nessun criterio e appare del tutto casuale.
Francioni mi fa notare un dato importante a cui non avevo prestato attenzione. Lo ringrazio. Riporto le sue parole: «L’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza. “Incompleto|dap.1a26| XXXII”». Quindi esiste (è esistita) una etichetta di un Quaderno XXXII scritto per 26 pagine. Dove cercare il Quaderno XXXII? Non può essere il 18 di Gerratana (che ha sulla copertina il numero 34 e a cui viene attribuito arbitrariamente il numero di Tania XXXII) dal momento che questo quaderno è scritto solo per due pagine e mezzo. È un dato che Francioni potrebbe aiutarci a capire.
La giustificazione dell’attribuzione posticcia del numero XXXII al Quaderno 18 Francioni la presenta al condizionale: «Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, (Tatiana) dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio (34): cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali è inutile dilungarsi con ipotesi». Perché mai sarebbe inutile? Una ipotesi può essere sbagliata ma mai inutile. Il Quaderno col numero 34 e il salto, nella numerazione di Tatiana, da XXXI a XXXIII rimangono in questo modo senza spiegazione.
ALCUNI ELEMENTI IMPORTANTI
Questi ragionamenti sui numeri il lettore probabilmente fa fatica a
seguirli. Sarebbero puro esercizio calcolistico se non si
inserissero in un contesto di dati non univoci. Ne parlo nel libro.
Ne ripeto alcuni.
(1) Nella lettera che Giulia e Eugenia Schucht scrivono nel 1940 a
Stalin per dissuaderlo dall’affidare a Togliatti la cura dei
manoscritti si parla di «30 quaderni, attualmente in nostro
possesso». Dal conteggio vengono esclusi i 4 quaderni che
contengono esercizi di traduzione. Noi di Quaderni teorici e storici
ne conosciamo 29. Esiste un trentesimo Quaderno?
(2) In un appunto dattiloscritto, trovato da Gerratana in una
cartella di Felice Platone, viene programmata «un’edizione
diplomatica di 30 quaderni, secondo un rigido criterio cronologico e
di fedeltà al testo manoscritto».
(3) Sraffa racconta di avere risposto, in una lettera del maggio
1937, «dettagliatamente alla richiesta di Togliatti» di
essere informato sui manoscritti di Gramsci. La lettera conteneva
«una descrizione dei temi e della stesura dei quaderni
così come Gramsci la fece a lui, mostrandoglieli nella
clinica “Quisisana”». Quella lettera non si trova e Togliatti
non la cita mai. Non è strano? Mi pare che ci siano
abbastanza elementi perché uno studioso senza pregiudizi
indaghi e faccia ipotesi.
Gramsci rubato. Una leggenda.
di Gianni Francioni
Il libro. Nell’opera di Franco Lo Piparo «I due carceri di
Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (pp.
VI-146, euro 16,00, Donzelli) la domanda centrale è: perché
i Quaderni del carcere sono 33, e non 34, come in origine e
più volte annunciato dallo stesso Togliatti? Un quaderno
«si è perduto»? Gramsci sapeva che Sraffa trasmetteva
le sue lettere a Togliatti?
Gramsci passò i suoi ultimi due anni e mezzo in
libertà condizionale: è verosimile che in quegli anni
abbia smesso quasi completamente di scrivere? E perchè non
riprese i contatti con i vertici del partito e dell’Internazionale
comunista?
Nel suo recente libro I due carceri di Gramsci. La prigione fascista
e il labirinto comunista (Donzelli editore, 2012), Franco Lo Piparo
dedica un intero capitolo (Un quaderno rubato?, pp. 77-94) ad
argomentare la tesi secondo cui «i quaderni teorici (di
Gramsci) furono trenta quando erano in possesso della famiglia (a
Mosca) e negli anni successivi, diventarono ventinove a partire dal
1947», quando Togliatti poté disporne. La tesi non
è nuova (di una manipolazione o «amputazione» dei
Quaderni da parte di Togliatti si è parlato periodicamente
sui giornali), ma questa volta è presentata con un tentativo
di fondarla su elementi filologici che meritano di essere
verificati.
Si consideri in primo luogo che i quaderni del carcere sono 35: 29 di lavoro teorico (numerati cronologicamente nell’edizione Gerratana da 1 a 29), quattro di sole traduzioni (che Gerratana ha contrassegnato con A, B, C, D), due – che pure recano i timbri del carcere di Turi – lasciati da Gramsci completamente in bianco (li indichiamo come 17 bis e 17 ter). A questi va comunque aggiunto (perché da sempre conservato con loro) il registro avviato dalla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, per redigere un indice generale – rimasto peraltro incompleto – delle note contenute nei manoscritti. Essi vennero affidati da Tatiana all’ambasciata sovietica a Roma nel luglio 1937 e nel dicembre 1938 furono spediti a Mosca per posta diplomatica. Restarono presso la famiglia Schucht fino all’aprile 1941, quando furono depositati per motivi di sicurezza all’Archivio centrale del Comintern. Restituiti al Pci nel marzo 1945, i quaderni e il registro di Tatiana ritornarono a Roma, e sono tuttora custoditi all’Istituto Gramsci.
Per motivi di spazio esaminerò solo il principale argomento addotto da Lo Piparo, che concerne la numerazione in cifre romane data da Tatiana ai quaderni dopo la morte di Gramsci, a fini di mera inventariazione e senza alcuna pretesa di stabilire una cronologia. Secondo Lo Piparo, questa numerazione avrebbe «un salto: passa dal quaderno XXXI al quaderno XXXIII», che egli suppone motivato dal fatto che il quaderno mancante sarebbe stato talmente «esplosivo», per i suoi contenuti di «eresia» politica, da indurre Togliatti a eliminarlo.
Sulla base di una documentazione certa e accessibile, possiamo ricostruire come stanno effettivamente le cose. Verso la metà di giugno 1937, Tatiana procede a classificare i quaderni incollando sull’angolo destro superiore di ogni copertina una piccola etichetta ottagonale con una sottile cornice a stampa, entro cui appone a penna il numero romano assegnato al quaderno e brevi indicazioni sulla sua consistenza (ad esempio: «I Completo p. 80»; «Incompleto da p. 3 a 78. VI»); su un’altra etichetta con cornice a stampa più grossa, tagliata a metà a mo’ di tassello e incollata in alto sul dorso del quaderno, ripete a penna la stessa numerazione in cifre arabe («1», «6», ecc.). Tatiana mette etichette anche sui Quaderni 17 bis e 17 ter, lasciandole però completamente vuote.
In questa catalogazione sistematica vi sono anomalie ed eccezioni, molte delle quali segnalate da Lo Piparo.
Alcune non hanno un significato particolare, e provano tutt’al più che l’operazione di Tatiana è accompagnata da imprecisioni e sviste: mi riferisco ai Quaderno 9 e 1, che hanno, rispettivamente, i numeri XIV e XVI sulle etichette ma non presentano i tasselli con le cifre arabe sui dorsi; e al Quaderno 17 ter, che ha l’etichetta ma non il tassello sul dorso (mentre il Quaderno 17 bis ha anche questo).
TASSELLI ED ETICHETTE
Più interessanti altri casi: il Quaderno 10 è privo di
etichetta ma provvisto di un tassello (diverso dai precedenti:
è una strisciolina di carta rettangolare incollata sul dorso,
in basso anziché in alto) con l’indicazione
«XXXIII» a matita; mancano l’etichetta e il tassello di
Tatiana nel Quaderno 18, che peraltro ha al centro un cartiglio con
doppia cornice e fregi a stampa e l’indicazione della ditta
produttrice, cartiglio in cui è scritto molto in grande a
matita rossa, da una mano che non sembra quella di Gramsci, «N
4»; inoltre, nell’angolo destro superiore della copertina del
Quaderno 18 (esattamente all’altezza in cui di solito Tatiana
incolla le sue etichette classificatorie) si legge, a penna,
«(34)».
Sulla base dei tipi di etichette e di tasselli apposti da Tatiana, i
quaderni si possono dividere in quattro gruppi: 1) le etichette e i
tasselli sono identici per quel che concerne i quaderni che Tatiana
numera da I a XXII, nonché per quelli che oggi conosciamo
come Quaderni 17 bis e 17 ter: tutti questi hanno l’etichetta
ottagonale e il tassello con cornice più grande descritti
sopra (con le eccezioni già dette per i
Quaderni9=XIV,1=XVIe17ter); 2) nei quaderni da XXIII a XXVIII, al
posto delle etichette ottagonali (evidentemente esaurite) compaiono
striscioline di carta rettangolari senza cornice a stampa,
rozzamente tagliate; 3) nei quaderni da XXIX a XXXI, al posto di
queste ultime Tatiana usa le stesse etichette con cornice grossa
che, tagliate a metà, impiega per i tasselli sui dorsi; 4)
gli ultimi due quaderni (gli attuali 10 e 18) presentano
caratteristiche peculiari, come vedremo tra poco.
Va notato che Tatiana compie un salto di numerazione già nel primo gruppo, quando, dopo aver marcato un quaderno come XXII (l’attuale 16), non assegna alcun numero ai Quaderni 17 bis e 17 ter, e passa quindi a quelli del secondo gruppo partendo dal numero XXIII. Arrivata al XXVIII, commette un errore nel classificare i cinque quaderni restanti (gli attuali 10, 12, 13, 18 e D), saltando o ripetendo almeno un numero: infatti, mentre l’etichetta del Quaderno D ha il XXXI, quella del Quaderno 13, che riporta il numero XXX, è incollata sopra i resti di una precedente etichetta, rimossa, che doveva con tutta evidenza contenere una cifra diversa; infine, l’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza, «Incompleto da p. 1 a 26 XXXII». Di seguito, Tatiana classifica il Quaderno 10 come XXXIII, e con ogni probabilità non vi incolla l’etichetta sull’angolo superiore destro perché risulterebbe troppo accostata al titolo, La filosofia di Benedetto Croce, che Gramsci ha vergato sulla copertina; usa pertanto solo una strisciolina di carta senza cornice come tassello (al piede del dorso e non in testa) ma in modo, per così dire, ancora provvisorio, giacché il XXXIII vi è segnato a matita e non (non ancora) a penna.
Quindi, di fronte all’ultimo quaderno che le è rimasto e su
cui è annotato a penna un piccolo «(34)»,
suscettibile di essere poi coperto da un’etichetta definitiva –, ha
un’incertezza, dovuta forse ad una riconsiderazione di quel grande
«N 4» in rosso che già compare al centro della
copertina, che potrebbe lasciare come numero del quaderno (se non
fosse che un’etichetta con «IV» e il relativo tassello
«4» sono già sul Quaderno 17), o forse dettata
dall’acquisita consapevolezza dell’errore di numerazione. Sta di
fatto che Tatiana strappa l’etichetta del Quaderno 13 e la
sostituisce con una che presenta ora il numero XXX, mentre sopra
quella del Quaderno 12 con l’originario XXXII incolla una nuova
etichetta – «Incompleto XXIX» –, apponendo sul
dorso un definitivo tassello «29». Fermo restando il
XXXI già attribuito al Quaderno D, dovrebbe ora dare un
numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII
quell’originario e provvisorio «(34)»: cosa che
però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle
quali èinutile dilungarsi con ipotesi. L’etichetta strappata
del Quaderno 13 e quella originaria del Quaderno 12 sono sufficienti
per provare che la tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno
XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di
numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento.
L’Unità 2 febbraio 2012.
15 giugno 2013
http://www.articolotre.com
Saviano critica Gramsci, polemiche a sinistra
Lo scrittore napoletano, prendendo spunto da un’opera di Orsini,
tesse l’Elogio dei riformisti. E attacca Antonio Gramsci,
definendolo alla stregua di un maestro dell’intolleranza. Da
sinistra arrivano reazioni durissime.
- Daniele Cardetta- 29 febbraio 2012- Dopo la riflessione di Saviano
intitolata “Elogio del riformismo” e pubblicata sul quotidiano “La
Repubblica” come recensione del libro di Orsini “Gramsci e Turati”,
in molti hanno reagito esternando parecchi malumori, soprattutto
relativamente alla parte in cui l’autore di “Gomorra” si è
scagliato nientemeno che contro Antonio Gramsci, considerato alla
stregua di un “fomentatore di violenza”. Orsini, del resto, ammette
di volere documentare come Gramsci sia stato un “grande maestro
della pedagogia dell’intolleranza del secolo passato”.
“SAVIANO NON SA DI COSA PARLA”.
Uno dei più famosi studiosi di Gramsci, Angelo D’Orsi, contattato telefonicamente da Articolotre, è durissimo : “il problema è che Saviano andava fermato prima, l’avete costruito voi dei media, ed è difficile poi abbattere gli idoli: ora gli è concesso di parlare su qualunque tempo, è diventato opinionista su qualunque tematica. Ieri l’ha fatta fuori del vaso, citando il libro di Orsini che è una porcheria: già in precedenti opere questo studioso si spinse a individuare Gramsci come il “nonno” delle Br”.
“Ma mi chiedo, continua D’Orsi. Saviano ha mai letto una riga di Gramsci, cioè dell’autore italiano più studiato all’estero? Non credo proprio, inoltre questa contrapposizione con Turati è grottesca, l’analisi viene fatta senza tenere presente la contestualizzazione, che è fondamentale per dare un giudizio. E poi di quale Gramsci si parla? Quello del 20- 21 o quello del 25? Per entrare nel merito, lui aveva una concezione unitaria della sinistra, non solo tra Nord e Sud ma anche tra le diverse anime, dopodiché è finito in galera”. “Saviano- conclude D’Orsi- partendo da un’ interpretazione strumentale e sbagliata di Orsini, dimostra di non sapere di cosa sta parlando: è incompetente e ideologico”.
POLEMICA POLITICA.
La posizione di Saviano ha mandato su tutte le furie diversi ambienti della sinistra (e non) italiana, scatenando la reazione di Flavio Arzarello, responsabile comunicazione del Pdci – Fds, che ha voluto rispondere con un comunicato a Saviano: “Con tutto il rispetto per Saviano, per la lotta alla camorra e per quello che rappresenta”, ha detto ieri Arzarello, “l’articolo di questa mattina ”Elogio dei riformisti” è un distillato di cliché.
Da Gramsci dipinto come fomentatore di violenza, ai luoghi comuni sulla sinistra attuale, in un minestrone che lega Gramsci, Cuba, Hezbollah e Hamas, siamo vicini ai ‘grandi classici’ dell’anticomunismo, degni della diceria sui bambini che venivano mangiati”. La reazione di Arzarello non è piaciuta al Partito Socialista Italiano che, per bocca di Marco Di Lello, coordinatore della segreteria nazionale del Psi, ha voluto rispondere colpo su colpo alla dichiarazione del responsabile comunicazione del PdCI. Di Lello si è del tutto allineato sulle posizioni di Saviano, ribadendo un attacco a Gramsci che è sembrato effettivamente abbastanza fuori luogo, e non solo ai comunisti. “La intollerante dichiarazione di Flavio Arzarello conferma appieno la bonta’ della riflessione di Saviano” , ha attaccato Di Lello, “Se fossi comunista, e dunque aduso agli insulti secondo il dettame di Gramsci potrei rispondere che la mamma dei cretini e’ sempre incinta, ma essendo da sempre laico, libertario e socialista continuo a ritenere chi la pensa diversamente da me mai un nemico e neanche necessariamente un avversario, potendo imparare anche dall’ascolto delle ragioni altrui. E’ anche questo, il coltivare il dubbio, che distingue i riformisti dai massimalisti”, poi ha concluso: “I lettori e gli elettori hanno oggi, grazie al testo di Orsini e a Saviano che lo ha recensito, uno strumento in più’ per scegliere a chi affidarsi, in una divisione che sembra novecentesca ma che e’ invece più’ attuale che mai”.
Una risposta a toni
accesi quella dell’esponente socialista, che evidentemente ha
così ammesso di non avere in simpatia Antonio Gramsci. A
stretto giro di posta è arrivata la controreplica di
Arzarello, che ha confidato di tenere in grande considerazione
la storia del socialismo riformista: “Io, pur rivendicando con
orgoglio la storia comunista, di fronte a personaggi come
Turati o ancor di più come Matteotti, mi tolgo il cappello,
vorrei che i neosocialisti facessero lo stesso di fronte a
personaggi della caratura di Antonio Gramsci. Comunque non prendo
lezioni di storia, Di Lello mi attacchi pure, ma lasci stare
Gramsci, un intellettuale geniale e un grande dirigente politico che
è tenuto in conto, rispettato e studiato in tutto il mondo,
America compresa”
15 marzo 2012
Gramsci nella guerra dei mondi
ANGELO D'ORSI
Si sa: Gramsci è oggi l'autore italiano più studiato
nel mondo. Un classico, tuttavia, che, a differenza di Spinoza o di
Kant, suscita passioni vivissime; parlare di Gramsci significa
mettere le mani nella dolorosa vicenda del socialismo e del
comunismo. Una storia di sconfitte, di scontri interni, di
lacerazioni. Meno facile è comprendere perché si usi
Gramsci per regolare i conti del presente. E qui, sovente, gli
studiosi invece di vigilare con il rigore necessario cedono a
tentazioni «scoopistiche» o cadono in un pamphlettismo
facilone.
Ne è esempio il libretto di Franco Lo Piparo (I due carceri
di Gramsci, Donzelli), studioso di linguistica autore di pregevoli
studi gramsciani, che ripropone vecchie, indimostrate accuse mosse a
Togliatti, che non avrebbe fatto ciò che avrebbe potuto per
salvare il compagno dal carcere, anzi, tutto sommato, sarebbe stato
contento di una infinita carcerazione; ma il cuore dell'attacco di
Lo Piparo concerne il famoso «quaderno scomparso», il
34° (si conoscono 33 quaderni). Si tratta di una chiacchiera
(«una leggenda», l'ha liquidata il maggior conoscitore
dei Quaderni del carcere, Gianni Francioni) che viene da lontano, e
mai tradotta in prova storica. Nell'ultima stazione del suo lungo
calvario, la clinica Quisisana di Roma, Gramsci non scrisse
più, il che insospettisce Lo Piparo (possibile non abbia
scritto più? qualcuno avrà nascosto quelle ultime
pagine?). L'autore ricorre quindi a congetture, supposizioni,
ipotesi, senza precisi riscontri. La comunità dei
gramsciologi-gramsciani (in particolare sulla mailing list della
International Gramsci Society Italia, ma anche in altre sedi) ha
respinto, con argomenti ineccepibili, e toni via via più
accesi, le tesi di Lo Piparo, il quale a sua volta sempre più
risentito ha replicato, dando vita a una sorta di scontro
fratricida. Che è stato acuito dalle insinuazioni
(sull'organo ufficioso del revisionismo storiografico, la rivista
Nuova Storia Contemporanea, ma riprese dalla Repubblica) di Dario
Biocca, l'accusatore (senza prove) di Silone-spia, il quale insinua
che anche Gramsci avrebbe «tradito» la causa,
dichiarandosi pentito («ravveduto»), per ottenere la
libertà.
La guerra è diventata però totale quando sempre La
Repubblica ha «lanciato» un altro libro, a differenza di
quello di Lo Piparo, privo di credenziali scientifiche: autore un
giovane vivace, e improvvido studioso, Alessandro Orsini (Gramsci e
Turati. Le due sinistre, Rubbettino), che rilancia la
contrapposizione Gramsci-Turati, schierandosi dalla parte del
secondo (socialista buono) contro il primo (comunista cattivo).
Libro che sarebbe passato inosservato se non fosse stato recensito
da un opinion leader come Saviano, del tutto ignaro, a sua volta,
tanto di Gramsci, quanto di Turati. E da qui la contesa
storiografica è divenuta guerra dei mondi. Alle rinnovate ire
dei gramsciani hanno fatto riscontro interessate approvazioni nella
residua e un po' appartata cultura socialista (in particolare sulla
mailing list del Circolo Rosselli). E molti, invece di
contestualizzare i giudizi aspri che Gramsci diede del leader
socialista, in una certa fase storica, non hanno resistito, proprio
come Orsini, alla tentazione di assolutizzarli. E hanno provato a
portare acqua ai propri mulini. Il presidente della Regione
Campania, l'ex socialista Caldoro (oggi in quota PdL), ha lanciato
un tweet per agganciarsi a Saviano. La questione storica viene
sorpassata dalla politica dell'oggi, dove pure non si sa chi
sarebbero gli eredi dei comunisti, né dei socialisti.
Del resto il libro di Lo Piparo potrebbe essere usato contro quello
di Orsini (e i suoi laudatori, a partire da Saviano), giacché
il primo insinua che Gramsci in prigione abbia abbandonato il
comunismo e lo stesso marxismo, che quasi in punto di morte
considerò una sorta di errore catastrofico nella propria
biografia. E come prova cita due famose frasi: una di Croce che
affascinato dalle lettere del prigioniero lo etichettò come
«uno dei nostri» (nel senso di un grande spirito, un
pensatore, un intellettuale, non certo un liberale!), e l'altra di
Luigi Russo, che parlò di «comunismo liberale»,
ossia, «non autocratico e poliziesco»: e dove sarebbe la
novità? Non è forse questa la prima ragione che ha
«salvato» il pensiero di Gramsci dal crollo del Muro? Il
suo era un comunismo «diverso», e il fatto che mirasse a
liberare i «subalterni» invece della «classe
operaia» non è una prova di abbandono del marxismo
(come pretende Lo Piparo), ma piuttosto di una concezione più
ampia, e moderna, adeguata al proprio tempo, rispetto a quella di
Marx, che rimase tuttavia sempre lo zoccolo duro del suo pensiero.
Che conosciamo grazie a Togliatti, e non malgrado Togliatti. Oggi ha
ancora senso chiedersi chi aveva torto? Forse sì,
purché non si trasformi un giudizio storico in un giudizio
politico sul nostro tempo. Nel quale, ahinoi, sono assenti tanto i
Turati, quanto i Togliatti, quanto, soprattutto, i Gramsci.
27 aprile 2012
Tutti pazzi per Gramsci
di Angelo d’Orsi | da Il fatto quotidiano
“The Gramscian Moment” è il titolo di un recente libro del
britannico Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani.
E di autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo
sguardo ben oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore ritenere che
questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi del 2012,
quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno
correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie
italiane, e l’alluvione continua.
La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una
misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte.
Fu un anno eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e
percorsero il globo, toccando decine di Paesi. E, mentre
cominciavano a uscire a stampa i primi volumi dell’Edizione
Nazionale degli Scritti, si presentava, anche grazie al lavoro
nell’ambito di quella impresa gigantesca, e a quello svolto per la
Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) e per il Dizionario
Gramsciano, una nuova generazione di studiosi, che a Gramsci
guardava con occhi freschi, non condizionata dai dibattiti del
passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente
leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e
così in fondo non può essere.
Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino
all’ultimo suo giorno – che cadde esattamente 75 anni or sono, in
una clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti
inenarrabili – il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore,
sicuramente il più profondo e originale pensatore dell’Italia
del Novecento; ma anche uno dei più stimolanti analisti del
“moderno”: storico e storiografo, filosofo e pedagogista, teorico
della lingua e della letteratura, scienziato politico. E, last but
not least, uno scrittore impareggiabile, che nelle sue lettere ha
toccato altissimi vertici di umanità e di multiforme
capacità letteraria.
Sono queste le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi
uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e
studiati nel mondo? Indubbiamente.
Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti, scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”, non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità, fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al Partito sovietico.
È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò, suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia, da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto, scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul fattore umano e quello culturale. E cominciò a elaborare un socialismo che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra.
Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di comunismo .
Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.
Era il portatore di un altro socialismo possibile. Sconfitto politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso.
E il suo
motto fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che
campeggiano sulla testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi
perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.
10 febbraio 2013
Il giallo del volume scomparso perché scomodo per Togliatti
si arricchisce di nuovi dettagli
Fabrizio Ottaviani
Un genio dell'economia doppiogiochista (Piero Sraffa), amico di
Wittgenstein e agente sotto copertura di Stalin; perizie
grafologiche; spie del Comintern, un «excursus
freudiano» e persino un'apparizione fugace della Lettera
rubata di E. A. Poe: tutto questo per alcuni fogli vergati a mano,
quasi strappati dalle mani di un morto per essere trasportati in
fretta forse in un caveau della Banca Commerciale, forse in
un'ambasciata sovietica, ma in seguito sicuramente a Parigi, da
Togliatti, e poi a Mosca, consegnati alla moglie del defunto con
quella che probabilmente fu solo una patetica messinscena. Il
mistery del momento, L'enigma del quaderno - La caccia ai
manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pagg. 161, 18 euro),
l'ha scritto un professore di filosofia del linguaggio
dell'Università di Palermo, Franco Lo Piparo. Solo che non si
tratta di fiction: il quaderno in questione sarebbe infatti il
trentesimo quaderno del fondatore del Pci. Togliatti lo avrebbe
fatto sparire perché conteneva affermazioni imbarazzanti per
lui e per il partito.
Professor Lo Piparo, lei l'anno scorso ha pubblicato, I due carceri
di Gramsci, in cui avanzava la tesi che un quaderno di Gramsci fosse
scomparso. Ora con L'enigma del quaderno sviluppa ed approfondisce
questa tesi con nuove ipotesi. Cosa è cambiato nell'arco di
tempo che separa i due volumi?
«L'enigma è la continuazione dei Due carceri. Ho
continuato a lavorare sull'argomento e ho visto che del mio sospetto
esistevano più prove di quelle che io pensassi. Da qui nasce
il secondo libro. Ad esempio in una lettera della cognata Tatiana
del 25 maggio 1937 si dice che i quaderni di Gramsci sono in tutto
30 pezzi ma nella traduzione di Rossana Platone la frase diventa i
quaderni sarebbero circa una trentina. Approssimazione
strana».
Giuseppe Vacca, direttore dell'Istituto Gramsci, afferma che le
pagine del suo saggio sono «ossicini di Cuvier»,
cioè ricostruzioni fantasiose basate su indizi trascurabili.
Lei, che mostra simpatie liberali, però vanta un temibile
alleato all'interno dell'opposto schieramento: Luciano Canfora.
«Ho lavorato per un anno intero a stretto contatto con
Canfora. Il suo aiuto è stato veramente straordinario. Su
Gramsci politico forse la pensiamo in maniera diversa. Siamo
però animati dalla stessa passione per la verità,
anche se a volte la verità può essere sgradevole.
L'articolo che Canfora ha pubblicato di recente sul Corriere
è molto utile perché de-ideologizza il problema del
quaderno mancante. C'è anzitutto una questione filologica da
appurare: perché, ad esempio, i testimoni non sono mai
d'accordo sul numero dei quaderni?».
Secondo Massimo D'Alema, Togliatti tutt'al più avrebbe
«ibernato» il quaderno, in attesa di una
posterità meno turbolenta.
«Quando Canfora mi riferì della dichiarazione pubblica
di D'Alema rimasi impressionato. L'idea di D'Alema coincideva con
quella che mi ero fatto studiando i documenti. Bisognerebbe chiedere
a D'Alema se la sua dichiarazione fosse il risultato di un
ragionamento, oppure abbia pescato nella memoria qualcosa sentito a
Botteghe oscure».
Perché Gramsci, chiede che i quaderni siano inviati in URSS,
alla moglie? Non poteva pregare Sraffa di tenerli nella cassaforte
del banchiere Mattioli?
«Gramsci, non solo in carcere ma anche nelle cliniche, non ha
alcuna autonomia. I suoi contatti col mondo passano per la cognata
Tania e Sraffa. Tania è una funzionaria dei servizi sovietici
e Gramsci lo sa. Sraffa è un agente dell'Internazionale
comunista e si muove in sintonia con Togliatti. E Gramsci considera
Togliatti il responsabile della sua mancata liberazione. Se sai di
trovarti in punto di morte e vuoi affidare a qualcuno i tuoi
scritti, in queste condizioni che fai? Giochi la carta degli
affetti. Affidate i miei quaderni ai miei familiari come ricordo.
Poi si vedrà».
10 aprile 2013
GRAMSCI: UN SARDO TEMUTO, AMMIRATO, DISCUSSO E ANCORA MOLTO
STUDIATO.
Pier Giorgio Serra
La polemica spagnola.
Dopo un 2012 di studi intensissimi su Gramsci,
quasi matti e disperati, il 2013 si apre all’insegna di una
polemica. Dai giornali spagnoli, italiani e inglesi viene diffusa la
notizia che una blogger molto nota in Spagna per il suo impegno al
fianco del movimento degli Indignados, Almu Montero, sia stata
attenzionata dall’autorità di pubblica sicurezza e
dall’autorità giudiziaria per aver cinguettato un celebre
pensiero di Antonio Gramsci:
“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra
intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il
vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di
tutta la vostra forza».
L‘accusa? Nientedimeno che istigazione alla violenza.
Un modello pedagogico per gli inglesi.
Non passa un mese e di nuovo
Gramsci ritorna in evidenza nei canali dell’informazione globale.
Stavolta è il corrispondente inglese al nostro Ministro
dell’Istruzione, Michael Gove, che elogia il principio educativo
pedagogico di Antonio Gramsci e lo propone come modello da importare
nella Scuola inglese. E naturalmente assicura il suo impegno da
Ministro per fare in modo che questo avvenga.
Icona globale.
Ma che succede quindi attorno all’intellettuale
italiano del novecento più studiato al mondo e che può
contare circa sedicimila pubblicazioni che lo riguardano? Accade che
Gramsci da eretico sia diventato un’icona globale. Ce lo ricorda il
titolo di un bel volume pubblicato da Guanda nel 2010, scritto da
Angelo Rossi che appunto recita: Gramsci da eretico a icona. Storia
di un «cazzotto nell’occhio». E che sia un’icona globale
lo afferma anche la scrittrice sarda Michela Murgia che nel suo sito
web, in un post it, ovviamente giallo, ci ricorda che “Gramsci
è intellettualmente sexi”.
Un concetto, questo, che la Murgia
ribadisce anche nella prefazione alle Lettere dal carcere,
nell’ultima edizione ripubblicata da Einaudi (2011), dove si legge:
“Il volto di Gramsci è un’icona pop, con livelli di
riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che
Guevara, di Marylin Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro
filosofo al mondo, eccetto Marx, ha suscitato lo stesso fascino di
lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero
innovativo e con la forza di una dialettica così tagliente da
aver colonizzato il linguaggio”.
Gramsci comunista-liberale?
E’ evidente che attorno al pensatore
nato ad Ales il 22 gennaio del 1891, si sta ricreando un interesse
globale sia in Italia che all’estero dove, dalla fine del comunismo
(Berlino 1989 e Mosca 1990) Gramsci è rimasto l’unico
comunista ancora capace di parlare alla modernità, all’uomo
moderno e ai suoi bisogni di credere in qualcosa che non sia il Dio
denaro, il famoso pensiero unico. Ecco allora che in Italia, uno
stimato professore di linguistica, Franco Lo Piparo, dopo I due
carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (2012), pubblica nel gennaio del 2013, con Donzelli, il saggio
L’enigma del Quaderno in cui si sostiene che Gramsci non è
morto comunista (ma neanche convertito come fu affermato da emeriti
Monsignori nel 2007), bensì liberale. Lo avrebbe scritto lo
stesso Gramsci in un Quaderno che manca all’appello.
Il Quaderno scomparso.
Secondo il linguista a trafugare il Quaderno,
facendolo poi sparire, sarebbe stata quella coppia di birbanti di
Piero Sraffa e Palmiro Togliatti. Cioè, secondo Lo Piparo, a
manipolare la verità storica sarebbero stati nientemeno che
il migliore amico di Gramsci carcerato e l’uomo politico che nel
dopoguerra ha pubblicato e fatto conoscere al mondo l’opera del
pensatore sardo, quell’opera che ha permeato per più di un
ventennio la politica culturale del Pci e forse anche quella delle
persone più attente alle novità. A questo proposito
è senz’altro utile leggere il risultato della ricerca fatta
da Francesca Chiarotto, giovane ricercatrice piemontese, pubblicata
in Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali
nell’Italia del dopoguerra, un affascinante e documentato libro
edito da Bruno Mondadori nel 2011.
La tesi del complotto.
Nella sua tesi Franco lo Piparo è
supportato autorevolmente da Luciano Canfora, filologo classico, con
incursioni prestigiose nella ricerca storica, autore anche lui di un
libro che ha fatto scuola: La storia falsa, Rizzoli 2008. Ma
soprattutto Canfora è autore di altri due volumi, tutti e due
editi dalla casa editrice Salerno nel 2012, Gramsci in carcere e il
fascismo e Spie, URSS, Antifascismo. Gramsci 1926-1937, nei quali si
può leggere la descrizione di quanto fosse torbido il mondo e
torbida la mentalità dei comunisti staliniani negli anni
trenta. Tutti impegnati a costruire il socialismo in un solo paese e
a ordire trame e complotti per lasciare Gramsci in carcere al fine
di occupare loro la dirigenza del movimento comunista. Ruolo che si
presume sarebbe spettato a Gramsci qualora fosse stato libero.
La replica di Vacca.
Va tuttavia ricordato che queste tesi sono
state abilmente confutate, non in modo diretto ma oggettivo, dal
principe degli studiosi gramsciani italiani, Giuseppe Vacca, nel suo
libro Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Torino, Einaudi, 2012. Si
tratta di un libro che si presenta non solo come una nuova e
più aggiornata biografia gramsciana, relativa agli anni
1926-37, con storia documentata e interpretazioni appoggiate
solidamente sui testi e documenti anche nuovi, vagliati e
accuratamente studiati dall’autore.
Il vero problema: la mancata liberazione.
Giuseppe Vacca sostiene
che «la mancata liberazione di Gramsci costituisce l’aspetto
più problematico della sua biografia» e a questo
proposito chiama in causa la famosa lettera di Grieco. Questa
lettera, scritta in Svizzera e inviata prima a Mosca per essere
sottoposta alla visione di Togliatti, giunge a Gramsci, dopo varie
peripezie, in carcere a Milano. Vacca dedica molte pagine
all’analisi e alla comprensione del suo contenuto, utilizzando anche
nuovi documenti. Gramsci era infatti convinto che la sua permanenza
in carcere fosse dovuta proprio a questa missiva e denunciò
l’accaduto al suo partito. Il libro si chiude con un capitolo
dedicato ai Quaderni a cui fa riferimento la vedova di Gramsci,
Giulia Schulcht quando denuncia Palmiro Togliatti al Komintern,
imputandogli la mancata liberazione del marito. Su entrambe le
questioni, forse, non ci sarà mai una versione accettata da
tutti, ma Giuseppe Vacca così conclude il suo studio:
«Togliatti aveva avviato la costruzione dell’icona di Gramsci
come martire dell’antifascismo e non aveva bisogno di sabotare
tentativi di liberazione, a tenere Gramsci in carcere ci pensava
già Mussolini».
Conteso ma studiato.
Tutto questo non può che far piacere a
chiunque sia disposto ad ascoltare le opinioni altrui e a
rispettarne gli assunti. E Gramsci conteso è appunto il
titolo di un altro libro pubblicato, anzi ripubblicato, dagli
Editori Riuniti alla fine del 2012: Gramsci conteso.
Interpretazioni, dibattiti e polemiche, 1922-2012 di Guido Liguori.
Si tratta di una riedizione aggiornata, con tre nuovi capitoli, di
un libro del 1996.
Nei nuovi capitoli, Liberaldemocratico o
comunista critico?, Gramsci nel duemila e Il ritorno di Gramsci (2009-2012), Liguori traccia il modo in cui la politica, la cultura,
e tante discipline umanistiche e sociali abbiano strattonato Gramsci
per portarlo dalla propria parte, lasciandolo poi spesso nell’oblio
e nel dimenticatoio. Strattona-strattona − ci fa osservare Liguori −
si è arrivati (In nome di Gramsci?) alla coniazione di veri e
propri ossimori linguistici-ideologici, come “comunismo liberale”.
Ma alla fine − c’è da domandarsi − qual è la ragione
di tutto questo contendere? La risposta − avverte Liguori − sta nel
fatto che intorno alle diverse interpretazioni di Gramsci si dipana
la storia della cultura politica italiana del Novecento e uno dei
più significativi aspetti del lascito che essa ha saputo
trasmettere alla cultura mondiale.
Un nuovo rinascimento.
C’è da augurarsi che l’analisi del
lascito gramsciano continui, come sta continuando. E’ infatti in
atto un nuovo rinascimento per gli studi sul filosofo sardo,
tant’è che le ultime notizie ci dicono di un convegno
tenutosi a Parigi tra il 22 e 23 marzo, organizzato dalla fondazione
Gabriel Péri, intitolato appunto La «Gramsci
Renaissance» Regard scroisés France-Italie sur la
pensée d’Antonio Gramsci. Insomma, sembra proprio che anche
in questo 2013 al di là dei facili schematismi, legati alla
natura stessa delle icone, si procede ad individuare spunti nuovi
nella lettura dell’opera dell’unico comunista rimasto in piedi dopo
la rovinosa caduta del comunismo mondiale.
26 marzo 2013
Il "Dossier Gramsci" pubblicato su l'Humanité dopo il
convegno di Parigi
Il testo dell'intervento di Domenico Losurdo:
È noto che Gramsci saluta l’ottobre bolscevico come la
«rivoluzione contro Il capitale»: smentendo la lettura
meccanicistica dell’opera di Marx, essa si era verificata in un
paese non compreso tra quelli capitalistici più avanzati.
Meno noto è il fatto che il rifiuto del dottrinarismo
caratterizza anche la visione gramsciana della costruzione
dell’«ordine nuovo»: ne derivano insegnamenti preziosi
per una sinistra che voglia comprendere i processi in atto in paesi
quali Cina, Vietnam e Cuba.
Ritorniamo all’articolo già citato. Quali saranno le
conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese arretrato e
stremato dalla guerra?: «Sarà in principio il
collettivismo della miseria, della sofferenza». Era uno stadio
inevitabile, ma che doveva essere superato «nel minor tempo
possibile». Il socialismo non coincideva con
l’«ascetismo universale» e il «rozzo
egualitarismo» criticati dal Manifesto del partito comunista.
Ben lungi dal ridursi alla ripartizione egualitaria della miseria,
il socialismo esigeva lo sviluppo delle forze produttive. È
per conseguire questo risultato che Lenin introduce la Nuova
Politica Economica.
Dai populisti la NEP viene subito letta quale sinonimo di
restaurazione del capitalismo. Non è questo il punto di vista
di Gramsci che nel 1926 osserva: la realtà dell’URSS ci mette
in presenza di un fenomeno «mai visto nella storia»; una
classe politicamente «dominante» viene «nel suo
complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a
determinati elementi e strati della classe dominata e
soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una
vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman
impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della
terra». E, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di
scandalo: il proletariato non può né conquistare
né mantenere il potere, se non è capace di sacrificare
interessi particolari e immediati agli «interessi
generali e permanenti della classe». Coloro che denunciano la
NEP quale sinonimo di ritorno al capitalismo hanno il torto di
identificare ceto economicamente privilegiato e classe politicamente
dominante.
La resa dei conti col populismo nostalgico di un mondo ancora al di
qua della grande industria prosegue nei Quaderni del carcere:
nell’«americanismo e fordismo» vi è qualcosa che,
una volta staccato dal sistema capitalistico di sfruttamento,
può svolgere una funzione positiva negli stessi paesi
socialisti. Anche per loro – per citare il Manifesto – è
«una questione di vita e di morte» l’introduzione di
«industrie che non lavorano più materie prime locali,
bensì materie prime provenienti dalle regioni più
remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo
all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo».
Siamo ora in grado di comprendere le difficoltà dei paesi di
orientamento socialista. Essi sono chiamati a lottare non contro una
bensì contro due diseguaglianze: quella che vige all’interno
del singolo paese, l’altra che sancisce la preminenza economica,
tecnologica (e militare) dei paesi capitalistici più
avanzati. La lotta contro le due diseguaglianze non può
procedere con un passo cadenzato.
Gramsci è l’autore che più di ogni altro ha insistito
sul carattere complesso e contraddittorio del processo di
costruzione dell’«ordine nuovo»: guardare a esso con
saccenteria e lasciarsi sedurre dal «canto del cigno»
dell’Antico regime (che può essere talvolta di
«mirabile splendore»), tutto ciò significa
delegittimare ogni rivoluzione.
Anche ai giorni nostri il populismo svolge un ruolo negativo. Mentre
a partire dalla Francia, nonostante la crisi e la recessione, si
diffonde il culto della «décroissance» caro a
Latouche e in Italia anche a Grillo, la sinistra occidentale guarda
con diffidenza o ostilità a un paese come la Repubblica
popolare cinese, scaturita da una grande rivoluzione anticoloniale e
protagonista di un prodigioso sviluppo economico, che non solo ha
liberato diverse centinaia di milioni dalla fame e dalla
degradazione ma che finalmente comincia a mettere in discussione il
monopolio occidentale della tecnologia (e quindi le basi materiali
dell’arroganza imperialista
Non c’è dubbio: il populismo è tutt’altro che morto.
Ma è proprio per questo che la sinistra ha bisogno della
lezione di Gramsci.
Domenico Losurdo