Il dibattito recente su Gramsci

Tra "ortodossia" e revisionismo

 

Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta

Se si prescinde dal modello positivistico della storia documentaria, ormai superato, la ricostruzione storica - riguardi essa fenomeni epocali, singoli eventi o la biografia di personaggi importanti - verte su ipotesi che prendono spunto dai documenti. Questi, però, raramente parlano da soli: vanno correlati, confrontati, interpretati, ecc. Anche l'estremo scupolo dello storico, però, non basta: alcuni documenti sono polisemici, ambigui, possono cioè essere interpretati in vari modi.

Prendiamo ad esempio la famosa frase scritta da Gramsci in una lettera (27 febbraio del 1933) alla cognata Tania Schucht: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».

L'errore potrebbe essere riferito alla fiducia (mal) riposta nella moglie Giulia, nei compagni italiani, nei compagni sovietici, nella coscienza di classe proletaria, ecc. Al limite, si potrebbe anche interpretarla - ed è stato fatto - come un ravvedimento ideologico, come un'abiura del marxismo.

Certo, quest'ultima interpretazione appare francamente forzata perché nei due anni successivi di attività intellettuale non se ne trova traccia alcuna negli scritti di Gramsci. Essa è dunque teoricamente possibile, per quanto altamente improbabile.

Le altre interpretazioni sono tutte più verosimili, ma qual è quella vera non lo sapremo mai, tranne che (circostanza anche questa improbabile) non affiori qualche nuovo documento..

La vita e l'opera di Gramsci - per via della giovanile militanza politica, dei limiti opposti dalla censura alla compilazione dei Quaderni e delle lettere, di un work in progress che sposta lentamente nel futuro l'avvento del comunismo inteso come salto ad un livello di civiltà superiore (il quale implica un vasto consenso sociale di esseri consapevoli e impegnati nell'impresa), del carattere frammentario e "provvisorio" dei Quaderni, del rapporto sicuramente difficile con i compagni del confino e con i vertici del PCI, ecc. - abbondano di piccoli e grandi "misteri" che sarà oltremodo difficile sciogliere.

Non c'è da sorprendersi dunque se, a partire dalla ricorrenza nel 2007 dei 70 anni dalla morte di Gramsci,, si sia acceso un aspro dibattito su quei misteri (veri o presunti).

Il materiale qui raccolto, di sicuro destinato ad arricchirsi ulteriormente (dacché il conflitto, tanto più se accademico, vale a dire attestato sul registro della pura filologia, è il senso stesso della vita di molti intellettuali), documenta abbastanza fedelmente lo scontro tra i gramsciani "ortodossi", i revisionisti e i "neutralisti", vale a dire coloro che mantengono un atteggiamento super partes.

Non entro nel merito del dibattito anche se ho letto quasi tutti i libri "incriminati", che sono accomunati dall'essere insopportabilmente noiosi.

Mi limito ad una sola osservazione.

La fedeltà di Gramsci al marxismo così come lui lo concepiva (la filosofia della prassi, intesa come filosofia totalizzante e autonoma) è al di fuori di ogni possibile dubbio. Il marxismo gramsciano, però, pur rimanendo vincolato a Marx, fuoriesce per molti aspetti dalla cornice dell'"ortodossia" (intesa in senso lato), ma nel suo sforzo di porsi come sistema totalizzante rimane sospeso in aria perché non riesce a mettere a fuoco un'antropologia adeguata al fine che si propone (di programmare una rivoluzione sulla base di un radicale cambiamento di weltanschauung culturale di massa) e, in particolare, urta contro il problema del peso che le tradizioni, il senso comune, l'ideologia, ecc. esercitano sulle menti umane: urta, insomma, contro i "recinti mentali" legati all'inconscio individuale e collettivo.

Questo stato di sospensione, che non implica l'abiura del marxismo, ma l'intuizione (peraltro rimossa) che, per essere efficace, esso deve dotarsi di un'attrezzatura culturale più complessa, può far pensare ad una fuoriuscita nella direzione di un liberal-socialismo se non addirittura della liberal-democrazia. E' un'ipotesi ben poco sostenibile per chiunque abbia letto Gramsci con attenzione. Su di essa, però, si basano tutti i tentativi revisionistici.

In reazione ai quali, i gramsciani "ortodossi", pur meritevoli nel loro intento di rivendicare l'appartenenza di Gramsci al marxismo tout court o meglio ai molteplici marxismi che si sono prodotti nel corso del tempo, rischiano di trasformare Gramsci nell'icona di un comunista dalle idee del tutto chiare.

Non è così. In Gramsci le contraddizioni, le aperture e le chiusure ideologiche, gli slittamenti concettuali, ecc. abbondano, anche se esse sono compensate da una serie di intuizioni e di riflessioni di formidabile portata.

Più che insistere sui limiti di Gramsci, e di ricavare da essi conclusioni improprie, o, viceversa, sul valore del suo pensiero, che rischia di essere "sacralizzato", occorre completarne l'opera: mettere a fuoco, cioè, un'antropologia che consenta di capire se il progetto di un salto dell'umanità a un livello di civiltà superiore sia, almeno teoricamente, sostenibile. Fatto questo, si tratterà poi di capire come questo progetto possa essere politicamente e culturalmente realizzato.

Il marxismo del futuro non potrà prescindere da Gramsci (l'erede - ormai è chiaro - più fedele allo "spirito" di Marx), ma, per proporsi come visione del mondo atta a catturare le coscienze ed ad animare in esse l'esigenza di procedere verso un livello di civiltà superiore, dovrà necessariamente integrarsi con nuovi saperi nati al di fuori di esso, che offrono sorprendentemente (in quanto prodotti da autori in gran parte non marxisti) dati del tutto compatibili e integrabili nella cornice di un'antropologia marxista.

Dossier
La querelle

1 maggio 2012 (modifica il 3 maggio 2012)

L'INDAGINE

Paolo Mieli

Il primo ad accorgersi che tra Antonio Gramsci e il Partito comunista d'Italia era accaduto qualcosa di anomalo fu Benito Mussolini. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì sul «Popolo d'Italia» il 31 dicembre 1937 (appena otto mesi dopo la morte dell'ex segretario del Partito comunista), per rilanciare, con sorprendente risalto, le indiscrezioni sui dissidi che avevano contrapposto Gramsci ai suoi compagni. Indiscrezioni comparse pochi giorni prima, a firma di Ezio Taddei, sull'«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico stampato a New York.

Taddei - un oppositore al regime fascista, in rapporto, dopo qualche anno di carcere, con uomini del regime stesso (nelle persone di Arturo Musco e Vincenzo Bellavia) - in quell'articolo sul foglio anarchico aveva trattato Gramsci con toni sprezzanti, enfatizzando i privilegi di cui avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli altri reclusi «crepavano di fame»). Ma soprattutto aveva rivelato - accennando alla testimonianza di un celebre militante incarcerato, Athos Lisa - l'ostilità nei suoi confronti da parte degli altri detenuti comunisti. Per di più Taddei aveva fatto esplicito riferimento alla disistima che il leader sardo nutriva per Ruggero Grieco, suo successore - a metà anni Trenta - alla guida del Partito comunista («Gramsci ha sputacchiato Grieco per gelosia»).

Effettivamente, come sarebbe venuto alla luce oltre trent'anni dopo, Gramsci ce l'aveva eccome con Grieco; ma non «per gelosia», bensì a causa di una lettera inviatagli da quest'ultimo nel febbraio del 1928. Una lettera incredibilmente esplicita nell'indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e perciò considerata dal fondatore dell'«Unità» strumento di una manovra provocatoria ai suoi danni. In una missiva del dicembre 1932, Gramsci riferì che il giudice istruttore, dopo avergli fatto vedere quello scritto di Grieco, gli aveva detto «testualmente»: «Onorevole Gramsci, ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».

È di qui, da questa strana missiva di Grieco, che davvero sembra essere stata vergata per mettere in difficoltà Gramsci (tant'è che è stata addirittura avanzata l'ipotesi che potesse trattarsi di un falso), zeppa tra l'altro di «contraddizioni, anacronismi e nonsense», che prende le mosse Luciano Canfora per un importante libro in uscita il 9 maggio, Gramsci in carcere e il fascismo, edito da Salerno (pp. 304, 14).

«A che titolo e investito da chi», si domanda Canfora, «Grieco si mette a scrivere quelle lettere (ce ne sono altre due, una a Mauro Scoccimarro e una a Umberto Terracini, ndr ), in quel modo ammiccante e imprudente?». Lo stile di Grieco, aggiunge lo storico, «è un unicum rispetto alle comunicazioni epistolari "di partito", specie in quegli anni». Quanto al contenuto, le «lezioncine di politica» impartite da Grieco a Gramsci «sono a dir poco risibili». È un libro, questo di Canfora, destinato a fare riflettere come e forse più di molti altri saggi che nelle ultime settimane hanno riacceso le luci (e le discussioni) sul capo più famoso dei comunisti italiani.

Gli scritti di cui stiamo parlando sono fondamentalmente quattro.

Primo quello di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli), nel quale si ipotizza che Palmiro Togliatti abbia fatto sparire uno dei trenta quaderni scritti da Gramsci in carcere: quello in cui, secondo Lo Piparo, sarebbe stato evidente il distacco di Gramsci dal «comunismo come si andava realizzando e - tendiamo a pensare - dal comunismo tout court». Ipotesi che secondo un grande studioso dei Quaderni, Gianni Francioni, è «destituita di ogni fondamento». Ma che, a detta di Lo Piparo, sarebbe corroborata dalla lettura tra le righe di una curiosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio del 1933 alla cognata Tatiana (Tania) Schucht, lettera che contiene queste parole di possibile allusione al suo ripudio dell'esperienza comunista: «Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone».

Strana lettera, effettivamente, che fu scritta e spedita, dal carcere di Turi, il giorno successivo ad un colloquio di Gramsci con la sorella della moglie, quella Tania che sapeva di dover incontrare nuovamente, nello stesso parlatorio, di lì a poche ore, molto prima cioè che il suo scritto potesse giungere a destinazione. Come se Gramsci avesse voluto mettere quelle cose nero su bianco, di modo che potessero essere lette non già soltanto dalla cognata (a cui presumibilmente le aveva appena dette e poco dopo le avrebbe ridette a voce), ma soprattutto a Parigi e a Mosca dai suoi compagni di partito.

Il secondo saggio che ha avuto risonanza (anche in seguito a un pubblico elogio ricevuto da Roberto Saviano) è stato quello di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Orsini ha sostenuto che valori riformisti e democratici possono essere accreditati esclusivamente al leader socialista Filippo Turati. E non a Gramsci. Soltanto Turati ha detto a chiare lettere che il pluralismo dei partiti è a fondamento della libertà, che l'educazione al socialismo coincide con l'educazione alla tolleranza e al rispetto degli avversari politici, che i socialisti devono condannare la violenza sotto il profilo etico-politico, che il diritto all'eresia è il pilastro del socialismo, che i socialisti non sono i detentori unici della verità, che si può imparare anche dagli avversari politici.

Gramsci - del quale pure Orsini apprezza l'evoluzione quale si evince dalle pagine scritte in carcere - no. Il leader sardo educava a chiamare gli avversari politici «porci», «scatarri», «stracci di sangue mestruato», «pulitori di cessi» («e queste espressioni», precisa Orsini, «non erano rivolte ai fascisti, come qualcuno ha scritto, bensì ai riformisti e ai moderati»). Lo storico torinese Angelo d'Orsi (sulla «Stampa») ha stroncato i libri di Lo Piparo e di Orsini, scritti - a suo dire - «per regolare i conti del presente», e ha deriso anche la benevola recensione di Saviano, uno scrittore, a suo dire, «del tutto ignaro tanto di Gramsci, quanto di Turati».

Terzo saggio che ha provocato polemiche è stato quello di Dario Biocca su «Nuova Storia Contemporanea»: Casa Passarge: Gramsci a Roma. In esso Biocca fa notare che tra il 1924 e il 1926 Gramsci abitò nella capitale, in via Morgagni, dove fu ospite del villino dei coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, il cui figlio Mario era amico del futuro capo della polizia Carmine Senise. Lo stesso Mario Passarge, dopo l'avvento del nazismo, si sarebbe trasferito a Berlino per lavorare negli uffici dello spionaggio. Strano, effettivamente, che il leader comunista, in anni successivi alla marcia su Roma, abbia scelto di prendere dimora proprio in quella casa e che in seguito sia rimasto affezionato a quella famiglia, nonostante fossero evidenti le compromissioni di Mario Passarge con il fascismo e con il nazismo.

Poi Biocca si è spinto oltre e ha parlato di un «ravvedimento» implicito nella richiesta di Gramsci di essere liberato dal carcere: «Era», ha scritto, «il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prove di sottomissione». Va tenuto a mente - ha proseguito Biocca - che, sotto il regime fascista, «non un militante o dirigente comunista beneficiò della libertà condizionale se non dopo la puntigliosa verifica del suo ravvedimento». Neanche uno. O meglio, secondo quello che è stato scritto fin qui in tutti i libri sull'argomento, l'incredibile eccezione sarebbe stata fatta per una sola persona: Antonio Gramsci, appunto. Il che, sempre secondo Biocca, avrebbe dell'assurdo.

Apriti cielo. Immediatamente è sceso in campo Bruno Gravagnuolo con una serie di documentati articoli (sull'«Unità») che contraddicevano quel che Biocca aveva scritto in merito al «ravvedimento». Poi il presidente dell'International Gramsci Society, Joseph Buttigieg, che (su «Repubblica») ha definito quelle di Biocca nient'altro che «supposizioni e illazioni»: «Biocca», ha scritto Buttigieg, «non riesce a trovare un solo documento» che comprovi il «ravvedimento gramsciano»; e, del resto, «perché Mussolini avrebbe nascosto il ravvedimento del suo nemico? Non sarebbe stato logico utilizzarlo sul piano della propaganda, essendo Gramsci un caso internazionale?». Obiezione sensata.

Quarto libro di questa copiosa messe di pubblicazioni è quello di Giuseppe Vacca: Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), edito da Einaudi. Vacca avanza l'ipotesi che la lettera di Grieco di cui si è detto all'inizio avesse ricevuto l'avallo di Giulia, la moglie di Gramsci nonché sorella di Tania. Questo spiegherebbe perché «quando Gramsci decise di rivolgere personalmente la sua denuncia al partito, affermasse che tra i suoi "condannatori" c'era stata, "inconsciamente", anche Giulia». Giulia poi, pentita, nel marzo del 1939 (due anni dopo la morte del marito) aveva puntato l'indice contro Togliatti, accusandolo di aver sabotato la liberazione di Gramsci, nel senso che aveva indotto la direzione del partito a compiere atti tali da renderla di fatto impossibile.

Ma, scrive Vacca sulla scia di una sapiente esegesi dei documenti compiuta da Silvio Pons, tali sospetti «appaiono infondati». Togliatti «non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione che, in realtà, non furono mai compiuti seriamente dall'unico attore che poteva intraprenderli, vale a dire il governo sovietico». A tenere Gramsci in carcere, prosegue Vacca, «ci pensava già Mussolini e la sua liberazione non aveva mai configurato l'oggetto di un interesse statale sovietico; non si vede, quindi, che cosa Togliatti avrebbe potuto aggiungere di suo». Eppure...

Luciano Canfora torna alla lettera di Grieco del febbraio 1928. Lettera che Gramsci definisce «eccessivamente compromettente», «criminale», causa del fallimento di ogni possibile trattativa per la sua liberazione, anzi scritta apposta perché gli fosse inflitto un aggravamento della pena. Ai vertici del Partito comunista il caso fu subito affrontato, sia pure nel più assoluto riserbo imposto dall'esilio e dalla clandestinità. Poi, però, per anni e anni di questa epistola non viene fatto trapelare nulla. Così come, per anni e anni, nulla si è saputo delle indispettite reazioni di Gramsci, di cui non c'è traccia nella prima edizione delle Lettere dal carcere (Einaudi) del 1947. Non vengono pubblicati gli scritti gramsciani del 1932 e del 1933, nei quali, in riferimento alla lettera di Grieco, ci si domandava: «Si tratta di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo. Può darsi l'uno e l'altro caso insieme; può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere». «La mia impressione», proseguiva l'illustre recluso nel carcere di Turi, «è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, una "pratica burocratica" da emarginare e nulla di più». E ancora: «Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale speciale non è stato che l'indicazione esterna e materiale, che ha compilato l'atto legale di condanna. Devo dire che tra questi "condannatori" c'è stata anche Iulca (la moglie Giulia di cui si è detto, ndr ), credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente... ma c'è una serie di altre persone meno inconsce. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l'unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro».

Togliatti - destinatario delle parole allusive - conosceva il testo di queste lettere. Ma, finché visse, fu «dosatore accorto e reticente della verità intorno alla vicenda» e non ritenne di renderle pubbliche. Anzi, vietò a Camilla Ravera e a Piero Sraffa di mostrare a chicchessia alcune copie delle lettere che erano rimaste in loro possesso. Neanche in Duemila pagine, Gramsci un uomo (Il Saggiatore) curato nel 1964 - poco prima che Togliatti morisse - da Niccolò Gallo e Giansiro Ferrata, sotto la supervisione di Mario Alicata, fu fatto cenno a quelle parole. Canfora la definisce «una capillare opera di censura». Poi, man mano che quegli scritti vengono alla luce, nei testi ufficiali si usa la formula «lettere che non sono state ancora recuperate» o «che sono state appena recuperate». «La scorrettezza», sottolinea Canfora, «è consistita nell'adoperare indiscriminatamente tale formuletta sia per le lettere che davvero fu faticoso ottenere dai familiari, sia per quelle di cui si era preferito per opportunità politica fornire solo una selezione».

Dieci mesi dopo la morte del segretario del Pci (agosto 1964) verrà data alle stampe, da Einaudi, una nuova edizione delle Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, nella quale (sorpresa!) i curatori riferiscono dell'esistenza di «una strana lettera firmata Ruggero», lasciando cadere - come se si trattasse di una supposizione - «forse si tratta di Ruggero Grieco» (la circostanza che il gruppo dirigente del Pci aveva affrontato il caso Grieco-Gramsci anche con i sovietici già alla fine degli anni Trenta, rende quel «forse» del tutto stravagante).

Finalmente, nel 1968, la lettera di Grieco (scritta quarant'anni prima) fu «scoperta» da Paolo Spriano, storico ufficiale del Pci, e pubblicata su «Rinascita» con indicazioni archivistiche che Canfora definisce «a dir poco reticenti». Nel 1977, Spriano riproporrà, in Gramsci in carcere e il partito (Einaudi), la storia di quella lettera, «purtroppo», scrive Canfora, «da lui edita in modo difettoso». Solo l'ultima edizione delle Lettere , quella curata da Aldo Natoli e Chiara Daniele nel 1999 (dieci anni dopo la fine del comunismo) è a detta di Canfora filologicamente impeccabile: «Una base finalmente scientifica per gli studiosi».

Ma perché Grieco aveva scritto quelle cose nel 1928? Canfora avanza la «dolorosa ipotesi» che Grieco abbia agito da «provocatore» e che Spriano, storico «ufficiale» del Pci, avendo scoperto che le foto delle «famigerate» lettere dello stesso Grieco erano conservate in una busta della Divisione affari generali e riservati di Pubblica sicurezza, «abbia preferito tacere in quale modo le avesse trovate». Canfora riprende poi le confidenze fatte da un altro dirigente comunista dell'epoca, Giuseppe Berti, a Dante Corneli e da questi riferite in Lo stalinismo in Italia e nell'emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli): in esse veniva avanzato il sospetto che Grieco potesse essere una «spia fascista».

Lo stesso dubbio manifestato, qualche tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la missione a Luca Osteria, smascherato poi, nel 1929, come una spia dell'Ovra. Canfora esorta poi a riflettere sulla circostanza che la posizione giudiziaria di Grieco fu «sbrigativamente stralciata dai giudici romani al termine dell'istruttoria con decisione... di dieci giorni dopo la famigerata lettera». E sul fatto che gli fu poi comminata una pena inferiore a quella che (confrontandola con le condanne agli altri dirigenti comunisti) ci si sarebbe potuti attendere. Dopo la morte di suo cognato, Tania, insospettita da tutto ciò, rifiutò di incontrare Grieco e nutrì diffidenza nei confronti di Piero Sraffa, amico sì di Gramsci ma prima ancora «leale» al partito e anche a Grieco.

Strano personaggio, Grieco, che tra il 1935 e il 1937 fu temporaneamente successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci. Grieco ha un ruolo importante nella storia del Pci per il suo clamoroso «Appello ai fratelli in camicia nera» pubblicato su «Lo Stato Operaio» nell'agosto del 1936 con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti comunisti. Proclama in cui si esaltavano il valore e l'eroismo con cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d'Etiopia e si esortavano i militanti del Pci a far fronte comune con i fascisti. Nell'Appello si affermava che i comunisti facevano «proprio il programma fascista del 1919», definito «un programma di libertà». «Fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti», si poteva leggere in quel testo, «noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919».

Grieco non fu solo in quell'operazione. Nel corso di una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto del 1936, un altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana (cognato di Togliatti), fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo... vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non possiamo fare di più». E Giuseppe Di Vittorio scrisse una pubblica «Lettera ad un gerarca sindacale fascista» per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede, esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro paese?» Da quel momento la parola d'ordine «Via Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con «Via i pescicani!»; come nemici, al posto dei fascisti, vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto Motta, Volpi, Orti, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili superiori al 6 per cento, l'obbligo ai personaggi di cui si è detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai disoccupati» e per «pagare le indennità ai combattenti d'Africa».

In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una coglioneria»; il collettivo dei comunisti confinati a Ventotene fece pervenire al partito, per vie segrete, proteste e critiche; Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di un'«assurdità inaudita». In un libro pubblicato qualche anno fa da Marsilio, Un partito non stalinista, il figlio di Ruggero Grieco, Bruno, ha riproposto quel documento come la prova di un tentativo di suo padre (che, pure, nel 1940 aveva fatto autocritica per quella presa di posizione) di sottrarre il Pci all'egemonia staliniana. Ma Canfora definisce tale tesi «inconsistente». E accusa Spriano di non aver reso chiari, nel terzo volume della Storia del Pci (Einaudi), i termini di quella strana storia. Spriano - secondo Canfora - «con la sua peraltro consueta felpatezza» avrebbe deliberatamente rinunciato a spiegare al lettore cosa era davvero accaduto 35 anni prima.

A questo punto Canfora fa osservare che «i tempi del disvelamento, che paiono non a torto intollerabili dal punto di vista della ricerca storica» sono «comprensibili in un'ottica tutta politica». Dopodiché azzarda un'ipotesi clamorosa: «Non è a priori inverosimile pensare», scrive, «che negli anni dei governi immediatamente postbellici, o quando Grieco stesso era alto commissario aggiunto all'epurazione, le foto delle lettere a Gramsci, Scoccimarro e Terracini siano state prelevate, magari dagli incartamenti di uno dei processi in cui Grieco era imputato, e acquisite agli archivi della Direzione del Pci». Quelle lettere scottavano: Gramsci, ricordiamolo, definiva «criminale» l'operato di Grieco e il giudice istruttore Enrico Macis gli aveva detto che i dirigenti del Pci erano stati i suoi pugnalatori. Poi, dopo che erano rimaste sepolte per decenni negli archivi del Pci, al momento di renderle pubbliche, «si provvide a riporle in un fondo di polizia onde presentarle al pubblico (come fece Spriano nel 1968, ndr ) a Ferragosto con un commento che affermasse, subito in apertura, che "finalmente" quelle lettere "dissipavano" un'ombra che lo stesso Gramsci aveva gettato sull'episodio».

Si può dire che furono «scoperte» più o meno dalle stesse persone che le avevano nascoste in quell'archivio, e la cosa fu fatta in piena estate per offrire - nella distrazione generale - una versione oltremodo tranquillizzante di quel che tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta aveva terremotato il vertice del Pci. «Si spiegherebbe così», prosegue Canfora, «anche perché mai questo sia l'unico documento di cui, in tutta la carriera di storiografo, Spriano non ha mai fornito le esatte coordinate archivistiche». «Beninteso», mette poi le mani avanti, «è soltanto un'ipotesi, ma appare, a tutt'oggi, come quella in grado di dar conto dell'insieme dei dati disponibili e delle molte anomalie altrimenti inspiegabili».

Ma non è tutto. Il libro di Canfora ci esorta a soffermarci su un interessante parallelo tra quel che accadde in occasione delle morti di Grieco (1955), ex capo sia pure solo per un biennio dei comunisti italiani, e di quel Taddei (1956) di cui all'inizio, grande calunniatore, negli anni Trenta, di Gramsci e di altri dirigenti del Pci tra cui Giorgio Amendola. Nel luglio del 1955, quando muore Grieco, «Rinascita» ne dà notizia «con parole piuttosto rituali», molto meno calorose di quelle dedicate a un leader del Psi, Rodolfo Morandi, scomparso in quegli stessi giorni. La rivista annuncia che a Grieco sarà dedicato «ampio spazio nei prossimi numeri». Il che però non accade. «Rinascita» avverte poi il lettore che in un successivo fascicolo sarebbe comparso un saggio di Emilio Sereni dedicato a Grieco. Ma anche questo annuncio non avrà seguito. Sarà Giorgio Amendola, dopo la morte di Togliatti, a ripescare Grieco scrivendo, nel 1966, la prefazione a una raccolta di suoi scritti.

Diverso il trattamento riservato a Taddei. Questi, all'inizio degli anni Quaranta, rese, negli Stati Uniti, una testimonianza a favore di Vittorio Vidali coinvolto in un'oscura vicenda. E il Pci gli dimostrò da quel momento la propria gratitudine. Ad occuparsi di lui, spalancandogli le porte del partito, fu un dirigente della vecchia guardia: Ambrogio Donini. Canfora fa notare che Donini elogiò Taddei e parlò di lui in questi termini: «La sua curiosa opinione era che il nostro compagno (Gramsci, ndr ) godesse di troppi privilegi». Curiosa opinione? «Colpisce», scrive Canfora, «la leggerezza con cui viene minimizzata la posizione assunta da Taddei contro Gramsci». Donini gli diede una mano a pubblicare un romanzo di Taddei scrivendone la prefazione che attestò «il suo arruolamento ed il suo ravvedimento». Poi mentre Grieco scivolava nell'ombra, a Taddei veniva riservata la luce di benevoli riflettori. Taddei adesso, più che un politico, si sentiva scrittore. E grazie all'intercessione del Pci, gli venne concessa «una gratificazione non da poco», quella di pubblicare un nuovo libro, Rotaia, per i tipi di Einaudi.

Dalla metà degli anni Quaranta gli si consentirà di dare alle stampe volumi di argomento saggistico nei quali Taddei «con un cinismo che non conosce imbarazzi», scrive Canfora, trasformava «in eroi coloro (i capi comunisti, ndr) che aveva minuziosamente descritto pochi mesi prima come canaglie, assassini e parassiti superpagati». Infine alla sua morte, nel '56, sarà il direttore dell'«Unità», Pietro Ingrao, a scrivere l'impegnativo necrologico di quella strana figura di ex anarchico: «La sua milizia nelle file del Partito comunista ci è cara anche come un segno di questo inarrestabile processo che dalle ribellioni disperate di ieri ha fatto nascere un grande movimento rinnovatore».

Curiosi destini incrociati all'ombra di Antonio Gramsci. E di Benito Mussolini.


Le risposte dell'"ortodossia"
da http://www.marx21.it/

1 marzo 2012

PROCESSATE GRAMSCI!

di Gianni Fresu, del Comitato scientifico di Marx XXI

Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
 
1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).

Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.

Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio.

Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recentemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica».

Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una celle le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”.

All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico.

Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali»1.

Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale». In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile.

Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l'opera di Gramsci dai legami con l'esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia. Lenin2 non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.

Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale.

Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»3, al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.

A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:

esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. [...] Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante4.

Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.

La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico5.

Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.

[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà6.

Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:

Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana7.

Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto.

Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:

Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull'altra. L'idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: "La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato". Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all'insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: "Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio". Arrivò persino a tessere l'elogio del "cazzotto in faccia" contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un "programma politico" e non un episodio isolato8.

Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:

Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: "Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l'insulto e l'intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all'eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà". Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d'origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l'eredità peggiore della pedagogia dell'intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora9.

Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l'arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l'intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»10.

È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l'odio contro il sistema e rilancia l'iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere.

Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»11. Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo.

Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale12 rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci.

Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inervibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.

NOTE

1 E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48
2 Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.
3 Ivi, pag. 1302.
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1319.
5 Ivi, pp. 1249-1250.
6 Ivi, pp. 1231, 1232.
7 Ivi, pag. 333.
8 R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.
9 Ibid.
10 L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.
11 D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.
12 D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.


1 marzo 2012

L’ENNESIMA CAMPAGNA CONTRO GRAMSCI E LA STORIA DEL PCI

di Alexander Höbel, Coordinatore del Comitato scientifico di Marx XXI

Con una cadenza quasi regolare, ormai da anni, la pubblicistica italiana, col concorso attivo di settori del mondo accademico, propone violente campagne ideologiche, che hanno il loro bersaglio preferito nel “comunismo” tout court, con particolare attenzione alla storia del Partito comunista italiano e alle figure di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Su questo secondo versante gli attacchi si sono intensificati negli ultimi tempi, probabilmente a causa del fatto che Gramsci è uno degli autori italiani più letti e studiati nel mondo, e la sua complessa elaborazione non cessa di influenzare movimenti politici rilevanti in diverse zone del pianeta, a partire da quell’America Latina che negli ultimi anni, mentre nella vecchia Europa i diritti sociali e politici regredivano, ha visto avviarsi significativi percorsi di emancipazione e nuovi tentativi di transizione.

Il fatto che Gramsci, e con lui Marx e i migliori teorici del marxismo novecentesco, siano tutt’altro che “cani morti”, e che del contributo di un partito come il PCI si senta sempre di più la mancanza nel nostro dissestato paese, evidentemente dà fastidio. Ecco allora le ripetute campagne anticomuniste, sebbene il comunismo fosse stato dato per morto con grande giubilo, da “Repubblica” & soci, già nel 1989-91.

L’ultima campagna in ordine di tempo è quella di queste settimane. Essa ha per protagonisti autori di diverso peso e qualità scientifica, mossi probabilmente da diverse intenzioni, ma delinea una sorta di attacco concentrico alla figura di Gramsci e alla storia del PCI. Cerchiamo quindi di descrivere brevemente i vari “punti d’attacco”.

L’incipit è stato fornito dall’ultimo libro di Franco Lo Piparo, docente di Filosofia del linguaggio all'Università di Palermo e autore che già in passato si era misurato con l’elaborazione di Gramsci da un punto di vista filologico. Il volume, edito da Donzelli e dal titolo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista, riprende e sviluppa l’annosa polemica sulla presunta rottura tra Gramsci e il PCd'I durante la detenzione del rivoluzionario sardo, sostenendo che accanto al carcere fascista egli avrebbe dovuto subire una seconda prigionia, quella costruitagli attorno dal suo partito, e dal comunismo stesso come armatura ideologica da cui infine Gramsci si sarebbe liberato. Di qui l’ipotesi di un quaderno “fantasma”, non ritrovato né pubblicato, ma alla cui esistenza farebbero pensare alcuni riferimenti e allusioni del prigioniero e dello stesso Togliatti. Inutile dire che a far sparire il quaderno sarebbe stato proprio il Migliore…

Naturalmente nel lavoro storiografico formulare ipotesi è più che lecito, ma occorrerebbe suffragarle con elementi di una certa consistenza. Al contrario in questo caso non c’è alcun riscontro oggettivo. Tuttavia, ripresa da studiosi e giornalisti, l’ipotesi diventa certezza, ed ecco Nello Ajello su “la Repubblica” (28 gennaio) discettare sull’“altro carcere di Gramsci”; ecco che il lavoro di cura redazionale che Togliatti giustamente ritenne necessario per la pubblicazione dei Quaderni gramsciani diventa – cito testualmente – “un promemoria della perfidia di Togliatti” (sic!). “Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste (sic!), il Pci decise in ritardo (sic!) di ricordarsi di lui onorandone la memoria”. Il fatto che la corrispondenza tra Giulio Einaudi e Togliatti per la pubblicazione dei Quaderni del carcere cominci pochi giorni dopo la Liberazione, e che già durante la guerra, mentre si trovava in URSS, Ercoli avesse posto le basi di questo lavoro, per Ajello non conta, così come non contano i numerosi, ripetuti tentativi del PCd'I di ottenere la liberazione del suo leader.

Il libro di Lo Piparo è recensito anche sul domenicale del “Sole 24 Ore” (12 febbraio) da Sergio Luzzatto, che ci spiega “come, quando Gramsci parlava della moglie Julca, egli si riferiva soprattutto – in cifra – all’universo comunista. Sicché la sua separazione da Julca andava intesa come una separazione dal partito”. Logico, no? È evidente che procedendo così, di assioma in assioma, di sillogismo in sillogismo, senza mai il beneficio di un documento, di un riscontro oggettivo, si può sostenere qualsiasi cosa. Ma questo, a quanto pare, non turba lo studioso

Il secondo punto di attacco è costituito da un saggio dello storico Dario Biocca, e riguarda la richiesta di libertà condizionale avanzata da Gramsci nel 1934 a fronte dell’aggravamento del suo stato di salute, e dunque al fine di poter essere ricoverato – sia pure da detenuto – in clinica, come poi avvenne. In attesa che il saggio di Biocca esca su “Nuova storia contemporanea” (rivista che in questi anni è stata veicolo di ricerche interessanti, ma anche e soprattutto di un certo tipo di revisionismo storico), “la Repubblica” dà grande risalto allo “scoop”: per chiedere la libertà condizionale Gramsci dové “fornire prova di ‘sottomissione’” e di “ravvedimento”. Si può quindi sparare un bel titolone sul “ravvedimento di Gramsci” – a proposito: quello preteso dal fascismo o quello desiderato da “Repubblica”? –; peccato che, come ha osservato Bruno Gravagnuolo sull’“Unità” del 29 febbraio, nel Codice Rocco allora in vigore la libertà condizionale era legata alla buona condotta del prigioniero, e il “ravvedimento” di quest’ultimo era oggetto solo della valutazione del giudice, e non certo di un’affermazione del detenuto. Gramsci, insomma, dispiace per “la Repubblica”, non si ravvide affatto: continuò a essere un comunista non pentito.

Dulcis in fundo, il terzo punto d’attacco è fornito dalla coppia Orsini-Saviano. Alessandro Orsini si era già fatto conoscere per un volume in cui cercava di sostenere la tesi di una filiazione diretta delle Brigate Rosse dalla cultura del comunismo italiano; tesi che comporta appena qualche piccola forzatura... Non pago di questa operazione, Orsini pubblica ora un libro su Gramsci e Turati. Le due sinistre, tipico esempio di quella concezione manichea che questi stessi autori imputano ai comunisti. In sostanza, la tesi è questa: in Italia vi sono sempre state due sinistre; la prima, riformista e pragmatica, del buon Turati, che per qualche oscuro motivo non sarebbe riuscita a prevalere né a dimostrare tutto ciò di cui era capace, e la seconda, quella comunista, dogmatica e intollerante per natura. Anche qui “la Repubblica” vede e provvede. Chiede quindi a Roberto Saviano di commentare il libro. E Saviano ne fa un breve riassunto, accogliendone le tesi di fondo in modo del tutto acritico, senza se e senza ma. “L’idea da cui parte Alessandro Orsini – scrive – è semplice. I comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli”. E qui alcune citazioni di Gramsci, completamente slegate dal contesto di un confronto politico asperrimo da entrambe le parti come quello che divise riformisti e comunisti negli anni Venti, che secondo Orsini e Saviano dovrebbero corroborare il loro assioma. Dopodiché Saviano si lancia a testa bassa contro quella “certa sinistra”, per fortuna “fuori dal Parlamento”, “che vive di dogmi. Sono i sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani”; e di seguito ripropone tutto il repertorio anti-cubano e anti-palestinese a cui ci ha ormai abituato. Ma qui, in teoria, Saviano stava parlando di un libro di storia… Al contrario, è proprio la storia – la storia concreta, effettiva, di quello che è stato ad esempio il PCI nella società italiana, del suo contributo determinante a quelle poche, serie riforme che si sono fatte in questo paese – che in questo tipo di articoli e di libri scompare; così come scompaiono la ricchezza e la complessità di un pensatore e di un rivoluzionario come Antonio Gramsci.

Basterebbe questo solo dato per dimostrare che quella qui brevemente descritta è innanzitutto un’operazione politica, o se si vuole di politica culturale, volta a continuare a plasmare il senso comune di massa – soprattutto quello del “popolo di sinistra” – sulla base di un anticomunismo rozzo e schematico, che nega, deforma o ignora un patrimonio storico e teorico di enorme portata, col quale tutti – a partire dai suoi critici – dovrebbero confrontarsi in modo onesto e rigoroso, come a suo tempo fece Marx nel momento in cui avviò la sua critica dell’economia politica e dell’ideologia borghese. Ma è evidente che un paragone del genere non regge, e che una simile richiesta potrebbe essere accolta solo da un altro tipo di interlocutori.

Tuttavia a tale produzione ideologica, creatrice di falsa coscienza, occorre replicare; e occorre farlo, appunto, in modo rigoroso, entrando nel merito delle questioni. È questo che cercheremo di fare sul sito di Marx XXI, con l’ausilio di una serie di studiosi interni ed esterni alla nostra associazione.

Iniziamo quindi con i contributi di due studiosi che fanno entrambi parte del Comitato scientifico di Marx XXI, e cioè con un saggio di Gianni Fresu (autore de Il Diavolo nell’ampolla. Antonio Gramsci gli intellettuali e il partito, La Città del Sole, 2005) e un corsivo di Guido Liguori (presidente della sezione italiana della International Gramsci Society, autore di numerosi volumi su Gramsci e curatore con Pasquale Voza del Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci 2009) che “il manifesto” ha deciso di non pubblicare; una scelta, quest’ultima, su cui ogni commento sarebbe superfluo.


1 marzo 2012

Saviano, prima di parlare di Gramsci leggi almeno l'Indice

di Alberto Burgio | da www.rifondazione.it

Martedì scorso sulla Repubblica Roberto Saviano ha recensito con toni entusiastici un libro sulle «due sinistre»: quella rivoluzionaria, brutta, sporca e cattiva, impersonata da Antonio Gramsci, e quella riformista, buona e gentile, rappresentata da Filippo Turati. Il libro, opera di Alessandro Orsini, giovane sociologo politico, sembra a Saviano niente meno che «la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni»...

La tesi del libro è semplice e niente affatto inedita. Da una parte c'è la sinistra riformista, realistica, sinceramente preoccupata delle sorti dei subalterni, quindi capace di valorizzare le piccole conquiste giorno per giorno (in una prospettiva che qualche tempo fa si sarebbe definita «migliorista»); dall'altra, la sinistra rivoluzionaria, violenta e pretenziosa, accecata dall'ideologia e intollerante delle altrui posizioni (la sinistra, per intenderci, dei faziosi e dei «fondamentalisti»).

Inutile dire che questa seconda sinistra – abituata ad aggredire gli avversari a suon di insulti e pugni in faccia, quindi un po' fascista – è per Saviano la sinistra comunista, erede, scrive, della «pedagogia dell'intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista»; mentre l'altra – riformista – è la sinistra socialista. Come nelle fiabe della nonna, insomma, tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall'altra: un bel quadretto manicheo che la dice lunga sulla raffinatezza del personaggio e la complessità della sua visione.

Ma qual è il punto? Saviano, mascotte della fazione progressista, si arrabatta come può nell'argomentare, a suon di esempi ad hoc e citazioni estrapolate, una tesi inconfutabile perché arbitraria. Gli si potrebbe ricordare, se ne valesse la pena, che Benito Mussolini – non propriamente un campione di mitezza e tolleranza, come proprio Gramsci gli potrebbe ricordare – venne fuori dalle file socialiste, che del socialismo italiano sono purtroppo eredi i più facinorosi colonnelli berlusconiani e che senza i comunisti questo Paese non avrebbe avuto né la Resistenza né quella Costituzione antifascista che Saviano giura di venerare. Ma ne vale la pena?

No. E nemmeno merita tempo indugiare su altre stranezze di questo articolo: il suo argomentare a favore della mitezza ricorrendo a caricature e a mistificazioni; il suo perorare la causa delle buone eresie accodandosi ai più vieti luoghi comuni; il suo ridurre una vicenda complessa e contrastata a uno povero schemino di cui anche uno studentello svogliato si vergognerebbe. Meglio lasciar perdere, e limitarsi a constatare, desolati, a che cosa ci si può ridurre quando si è mossi dalla preoccupazione di piacere e di seguire l'onda. A Saviano diamo solo un suggerimento: legga quanto Gramsci scrive sul servilismo degli intellettuali. E stia tranquillo, non dovrà leggere tutti i Quaderni (il tempo, si sa, è denaro): nell'edizione c'è un ottimo indice analitico.


6 marzo 2012

Cosa c'è dietro gli attacchi a Gramsci

di Marco Albeltaro, del comitato scientifico di Marx XXI

All’interno di tutta la vicenda degli attacchi a Gramsci di cui «la Repubblica» si è fatta grancassa, vorrei soltanto soffermarmi sul «caso» Saviano, provando a inserirlo in un quadro più ampio. Molti autorevoli studiosi hanno puntualmente ribattuto agli errori e alla tendenziosità dell’articolo di Saviano, non è quindi qui il caso di ritornarci sopra.
 
Roberto Saviano è divenuto famosissimo grazie a un libro – Gomorra - che è stato un «caso» letterario costruito dai mass media e monumentalizzato dall’italico provincialismo. Attorno a Saviano si è quindi costruita la mitologia dell’intellettuale scomodo, del coraggioso alfiere della giustizia, del povero martire che in ragione delle idee che professa è costretto a vivere sotto scorta, anche quando si reca a New York, come è di recente accaduto, per pontificare sulle sfavillanti strade di Manhattan.

L’ombroso Saviano – ombrosissimo, direi, perché tutti sanno che i maître à penser non ridono mai – ci aveva già abituati ad altri interventi stucchevoli, come quando si era messo a tessere le lodi di Israele descrivendo quello che è un vero e proprio Stato razziale come un luogo di democrazia, libertà, tolleranza. Quella volta gli aveva risposto Vittorio Arrigoni - lui sì un vero eroe, senza scorte e senza riflettori sempre accesi attorno a sé – con un video che rimane una delle più eloquenti testimonianze di cosa sia il coraggio della verità.

Ora Saviano, fra una trasmissione televisiva e l’altra, fra un’intervista e un party (perché - si sa - gli intellettuali più sono scomodi e più hanno la possibilità di predicare durante le più seguite trasmissioni televisive e di scrivere sui più letti quotidiani nazionali…) ha trovato il tempo di recensire l’ultima fatica di Alessandro Orsini, un sociologo politico non nuovo alle “sparate” su Gramsci, e di scriverne su «Repubblica», un quotidiano che ormai non perde occasione per buttare fango sulla storia del comunismo italiano.

Saviano elogia quello di Orsini come uno dei saggi più importanti che siano mai stati scritti sulla storia della sinistra italiana senza accorgersi che in realtà si tratta di un testo piuttosto frettoloso, di un pamphlet che invece di indagare sentenzia, trascegliendo rapsodicamente testi presi ad arte per sostenere una tesi trita e ritrita: i comunisti furono sempre brutti e cattivi mentre i riformisti, e fra essi in particolare i socialisti, furono i buoni, gli unici veri difensori e costruttori della democrazia.

In realtà il problema vero non sta nel libro di Orsini che, probabilmente, sarebbe passato quasi inosservato se Saviano non ne avesse parlato su «Repubblica». Il fuoco della questione sta nel ruolo pubblico che è stato costruito attorno a Saviano, dipingendolo come l’intellettuale di riferimento del paese civile, del paese buono, dell’Italia onesta e giusta. Una sorta di coscienza critica nazionale. Ed ecco che allora non solo gli si concede di parlare di qualsiasi argomento – anche di quelli di cui non è per nulla esperto, come in questo caso -, ma lo si incoraggia a farlo con trasmissioni televisive, interviste, iniziative pubbliche. E attorno a chi lo critica si fa terra bruciata, come è accaduto ad Alessandro Dal Lago e al suo bel libro (Eroi di carta, manifestolibri).

Il punto è proprio il ruolo dell’intellettuale. L’intellettuale – ce l’ha insegnato quel Gramsci così insopportabile al nostro Proust campano – è colui che rompe la coltre del conformismo per dire la verità in faccia al potere, costi quello che costi. Come ha fatto Edward Said difendendo la causa palestinese delle violenze fisiche di Israele e da quelle verbali dei tanti Saviano di cui è affollata la corte dei potenti del mondo. Ma spesso quando si dice la verità non si viene invitati a fare trasmissioni televisive, non si ha accesso alle prime pagine dei giornali, non si hanno tutti gli spazi possibili ed immaginabili per pontificare. Perché la verità fa male al potere ed il potere non tollera i nemici.

L’intellettuale, sempre per dirla con Said, è un outsider che non accetta compromessi, che non si piega alle logiche del sistema culturale e politico dominante, che non sostiene le cause dei forti contro quelle dei deboli.

Saviano è però soltanto uno dei tasselli di un puzzle ben più ampio. Si tratta infatti di capire – e lo dico con sincerità e senza ironia – perché un quotidiano come «la Repubblica» senta il bisogno, qui e ora, di impegnarsi nel cimento di sparare contro figure come Gramsci e Togliatti. Perché proprio loro e perché sparare a zero contro quella straordinaria esperienza che fu il comunismo italiano, quel «paese pulito in un paese sporco», per impiegare le parole di un intellettuale che pagò caro per le proprie idee, Pier Paolo Pasolini.

L’idea che mi sono fatto è forse elementare. Ed affonda le radici nella convinzione che «la Repubblica» sia parte di un clima culturale in cui è immerso tutto il mondo politico antiberlusconiano che non ha radici (almeno ideali) di classe: ossia il Partito Democratico e tutto quello che gli ruota attorno, anche in polemica con esso, da Di Pietro a Grillo, fino a SEL. Questo mondo politico vuole liberarsi di qualsiasi eredità intellettuale e storica che non sia utile a giustificare il suo agire. Si tratta di un mondo politico autoreferenziale, completamente staccato dalla realtà effettuale, post-moderno e post-democratico. Questo atteggiamento verso il passato, tutto volto soltanto a denigrare, senza alcun fondamento, i padri nobili del comunismo italiano (che sono poi i padri nobili della democrazia costituzionale italiana) ha come fine un ulteriore spostamento a destra della compagine politica che fino a qualche mese fa stava – almeno nominalmente – all’opposizione rispetto a Berlusconi.

Oggi il governo Monti ha azzerato qualsiasi funzione politica di questo raggruppamento, ed in particolare, all’interno di esso, del PD, con una di quelle operazioni trasformistiche su cui proprio Gramsci ha scritto pagine definitive. In questa situazione, invece di riappropriarsi di una tradizione che potrebbe sostanziare un discorso politico più radicale - o anche soltanto più decente - il mondo politico ex-antiberlusconiano sceglie di scrollarsi definitivamente e platealmente di dosso la grande eredità storica e culturale che figure come Gramsci e come Togliatti rappresentano. Si tratta soltanto dell’ultima – per ora – puntata di un percorso che è stato avviato anni fa e di cui i principali artefici sono alcuni dirigenti politici fra cui spicca Walter Veltroni.

Non si tratta soltanto più di dire, come fece proprio Veltroni, che «Gramsci non ci appartiene più». Ora si è alla fase successiva: Gramsci non ci appartiene più perché era un violento, perché era il maestro di quella «pedagogia dell’odio» e dell’intolleranza di cui parla il duo Orsini-Saviano. Fare tabula rasa del passato significa avere le mani libere per fare qualsiasi cosa e per provare a farla digerire alla propria base, la quale forse deciderà un bel giorno (che non mi pare troppo lontano) di staccare la spina ad una partito, il PD appunto, nato già morto.

Liberi tutti!, dunque. Liberi soprattutto di correre verso il baratro di una politica che senza un albero genealogico non soltanto non ha un passato, ma non ha nemmeno un futuro.

Se davvero questi nostri alfieri della via salottiera al riformismo preferiscono sostituire nel loro pantheon ideale Gramsci con Saviano, tanto peggio per loro. Non dicano poi però che nessuno li aveva avvertiti.


8 marzo 2012

Gramsci , l'invenzione di un teorico liberale

di Guido Liguori | da il Manifesto

Ostaggio del fascismo e lasciato nel carcere dai comunisti perché aveva preso le distanze dal marxismo. L'invenzione di un profilo teorico inesistente, in un libro di Franco Lo Piparo
 
Un nuovo libro su Gramsci di Franco Lo Piparo non può che destare interesse. Lo Piparo è noto fra gli studiosi gramsciani per un volumedel del 1979 che fece comprendere l'importanza che avevano avuto i giovanili studi di linguistica per il comunista sardo. Un contributo di grande rilievo, anche se non fu accolta dai più la tesi dell'autore secondo cui questi studi erano alla base dell'originalità di Gramsci non accanto ad altre fonti (in primis il dibattito nell'Internazionale comunista), ma al posto delle stesse: Gramsci senza Lenin, insomma.
Il dietrofront di Croce

In anni recenti Lo Piparo si è occupato degli influssi che Gramsci avrebbe esercitato, con la mediazione di Sraffa, sul secondo Wittgenstein, ipotesi affascinante su cui si annuncia un più ampio lavoro. Esce per il momento di Lo Piparo, però, un volumetto intitolato I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), destinato a far discutere su un versante diverso: quello della ipotesi, che in alcuni autori è divenuta affermazione polemica (e a volte bassamente propagandistica), secondo cui l'originalità del suo pensiero avrebbe portato Gramsci alla fuoriuscita dal Pci e dalla teoria e dalla prassi marxiste e comuniste. Fu Croce per primo a tentare l'operazione di contrapporre Gramsci ai comunisti, scrivendo nel 1947, di fronte alle Lettere: «Come uomo di pensiero egli fu dei nostri», ovvero un liberale. Molti però - non solo Lo Piparo - dimenticano di aggiungere che l'anno dopo, all'uscita dei Quaderni, don Benedetto ammise di essersi sbagliato, scrivendo che Gramsci era - purtroppo, dal suo punto di vista - proprio un comunista e un marxista. Ovviamente il taglio di Lo Piparo è quello dell'esegeta che analizza gli scritti. Eppure anch'egli si lascia prendere da quelle «ansie ideologiche» che rimprovera agli interpreti che (come Croce, verrebbe da dire) sono convinti che il pensiero gramsciano si situi, pur in modo originale, nell'ambito del marxismo e del comunismo. Vediamo alcuni esempi.

La tesi da cui parte il libro è «che nella lettera del 27 febbraio 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in maniera criptica, la propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo come si andava realizzando». Ora, nella citata lettera alla cognata Tania non vi è alcuna questione di «estraneità filosofica». Vi è in primo luogo il rapporto difficile e drammatico con la moglie russa, Giulia, che secondo Lo Piparo sarebbe una «metafora» dell'Urss. Da qui si deduce che Gramsci voglia manifestare la sua decisione di separarsi dal movimento comunista. Che i rapporti tra Gramsci e il Pcd'I siano stati per due o tre anni burrascosi è cosa nota. Che nella lettera in questione anche di questo si tratti è evidente. Sul fatto però che sia Togliatti il vero carceriere di Gramsci non si può che dissentire (come d'altra parte su un'altra e più paradossale affermazione di Lo Piparo, secondo cui «Mussolini ha protetto Gramsci in carcere»).

In merito alla famosa lettera di Grieco del '28 a partire da cui il giudice Macis insinuò nel prigioniero il sospetto del tradimento subìto, si è scritto molto. È inutile ricordare come Terracini e Scoccimarro, che ricevettero lettere analoghe, non se ne risentissero; come Fiori abbia dimostrato che Macis faceva il suo mestiere di provocatore; come Sraffa abbia fatto notare che il sospetto fosse montato in Gramsci solo anni e anni dopo la famosa lettera, in una situazione psicofisica logora oltre ogni dire; come Canfora abbia addirittura sostenuto che la missiva fosse un falso dell'Ovra; come la stessa nulla aggiungesse a quanto era a tutti noto, che Gramsci era un dirigente comunista: affermazione tale da non rafforzare l'accusa e infatti al processo contro Gramsci la lettera di Grieco non fu esibita. Al di là delle buone o delle cattive ragioni di Gramsci, resta il fatto che nella lettera a Tania egli, dopo aver scritto di aver preso un «dirizzone» (una cantonata), aggiunge: «Mi persuade ancora che ciò non è perfettamente vero l'atteggiamento tuo e specialmente dell'avvocato». Ovvero di Sraffa, tramite dei rapporti di Gramsci con Togliatti e con il Comintern. Tradotto: nonostante dubbi e sospetti, il comunista sardo sapeva che i compagni non l'avevano abbandonato.

Un altro esempio: ricoverato nelle cliniche di Formia e poi di Roma, Gramsci non scrisse molto, solo poche nuove note, ricopiando con enorme fatica scritti precedenti. Perché non ricordare che dopo Turi Gramsci è sempre più gravemente malato e con pochissime energie? Invece Lo Piparo - facendo leva su alcune affermazioni di vari protagonisti della vicenda in cui si parla di «30 quaderni» o di «una trentina di quaderni» - arriva a ipotizzare che un quaderno sia stato fatto sparire da Togliatti perché troppo eterodosso. Ora, a parte che i quaderni sono 29 di note e appunti, 4 di sole traduzioni, 2 non utilizzati, più uno usato da Tania per un indice provvisorio; a parte che è improbabile che Giulia o Tania o altri distinguessero senza adeguato studio tra i vari tipi di quaderni (alcuni dei quali contengono sia traduzioni che note); a parte che essi son di vario formato e uno è quasi del tutto non scritto; a parte tutto questo, che può essere causa di approssimazione o errore, perché - come sostiene Lo Piparo - Togliatti avrebbe distrutto questo trentesimo e pericolosissimo quaderno in Italia, e non più prudentemente in Russia, quando durante la guerra ne fece lettura?

In questa sua ansia di restituirci un Gramsci liberaldemocratico, Lo Piparo trae persino dai Quaderni una definizione dell'egemonia tagliando male la citazione: «L'egemonia presuppone... un regime liberal-democratico», affermerebbe Gramsci secondo Lo Piparo. Gramsci in effetti lo scrive(p. 691 dell'edizione Gerratana), ma non è la sua posizione, è quella di Croce, riassunta e contrapposta a quella di Gentile, come risulta palese a chiunque legga interamente la nota.
 
La custodia dei Quaderni

Ancora: secondo l'autore, la minuta che in accordo con Gramsci Sraffa stende negli ultimi giorni di vita del prigioniero, con la quale egli voleva chiedere il permesso di espatriare nella Russia sovietica - richiesta che per molti aspetti definisce la posizione di Gramsci, il suo ritenersi comunista fino all'ultimo -, sarebbe l'estremo tentativo di «Togliatti-Stalin» (e Sraffa) «di tenere il pensatore sardo nel secondo carcere», quello comunista. Ma come era possibile che costoro si illudessero che un Gramsci non più comunista - secondo Lo Piparo - ormai da quattro anni obbedisse, visto che l'istanza doveva essere firmata di suo pugno? Mai nessuno, neanche Lo Piparo, ha parlato di ricatti, di minacce per la famiglia di Gramsci in Urss: una ipotesi senza fondamento. Anche se si pensa che, morto Gramsci, le sorelle Schucht si appelleranno, in polemica coi comunisti italiani, proprio a Stalin, per ottenere la gestione degli scritti dello scomparso.

Per fortuna Togliatti riuscì a ottenere le carte e a gestirle in modo da evitare che Gramsci apparisse come un eretico antistalinista, cosa che avrebbe significato che nulla ci sarebbe arrivato di lui fino agli anni '90. Quando Togliatti scriveva a Dimitrov che i Quaderni dovevano essere in alcuni passaggi «elaborati» prima di essere pubblicati, di questo si mostrava consapevole. Come alla fine lo stesso Lo Piparo ammette, scrivendo che è solo grazie a Togliatti che conosciamo i Quaderni. Non avrebbe potuto il luciferino Ercoli bruciarli subito tutti?

Scrive Lo Piparo: «In mancanza di documenti persi o distrutti o non ancora trovati, l'immaginazione è autorizzata a prendere le più disperate direzioni». No, lo studioso, lo storico non può procedere in questo modo. Gramsci non è il personaggio di un romanzo. «Di ciò di cui non si può dire, si deve tacere», ha scritto Wittgenstein. Credo che - in mancanza di nuove carte e ritrovamenti d'archivio - sulle questioni affrontate dal libro gli studiosi di Gramsci a questa norma dovrebbero attenersi.


8 marzo 2012

Quanti errori su Gramsci

di Nerio Naldi, Università di Roma, La Sapienza | da l'Unità

Purtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non addirittura su contraffazioni. E su questa linea, probabilmente in modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario Biocca pubblicato il 25 febbraio da "La Repubblica". Alcune delle considerazioni che si possono leggere in quell'articolo, che in realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di pubblicazione sulla rivista "Nuova Storia Contemporanea", sono svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della libertà condizionale - e si tratta del punto più importante discusso nell'articolo - è espresso con grande chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.

Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l'articolo 176 del Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver mostrato "ravvedimento", e che in questo senso la procedura poteva e può essere considerata "analoga alla domanda di grazia".

Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è vero.

Un riferimento al "ravvedimento" era contenuto nell’articolo 16 del Codice Penale del 1889 (il cosiddetto "Codice Zanardelli"):

“Il condannato alla reclusione o alla detenzione per un tempo superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il rimanente della pena non supera i tre anni” (Codice Penale per il Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889).

Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l'introduzione del cosiddetto "Codice Rocco". E nel Codice Rocco l'articolo 176 recitava in questo modo:

"Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni" (Il nuovo codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale, Hoepli, Milano, 1939).

Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la “buona condotta” è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la dichiarazione che Gramsci firmò nell'autunno del 1934 impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare propaganda politica in Italia o all'estero non aveva nulla a che fare con una "sottomissione" o un "ravvedimento" ... certamente anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua capitolazione.

Forse però Biocca non ha studiato né il Codice Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno 1962; infatti è da questo che Biocca cita: "Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale" (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987) ... ma non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava la sua domanda.

Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento anche alle affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci "tradisse" i propri compagni di partito.


8 marzo 2012

Un revisionismo storico in nome del bene assoluto

di Guido Liguori  da il Manifesto

Atto primo. Esce il libro su Gramsci di un linguista molto noto e già benemerito per gli studi gramsciani, Franco Lo Piparo. Sostiene che Gramsci fu incarcerato, oltre che dai fascisti, dal suo partito. A confronto di Togliatti, Mussolini vi ri! veste i panni del protettore del povero Gramsci: sembra quasi che quest’ultimo sia rinchiuso in un carcere sovietico e il duce stia facendo di tutto per liberarlo. Interpretazioni paradossali, ma non nuove, già al centro delle campagne storiografiche craxiane e anti-comuniste degli anni Ottanta. Nuova è invece la tesi che Togliatti avrebbe addirittura fatto sparire un quaderno, scoop desunto dalle contraddittorie testimonianze d’epoca, che parlano a volte di trenta, a volte di trentacinque, a volte di trentaquattro quaderni. Strano che prima di Lo Piparo questa geniale osservazione fosse sfuggita a quasi settant’anni di interpretazioni. Non mi soffermo su questo perché ho già parlato del libro sul manifesto del 2 febbraio. Va aggiunto però che la Repubblica – in genere parca nell’occuparsi di Gramsci – ha dedicato al libro (in data 28 gennaio) una recensione a tutta pagina! , sposandone più o meno esplicitamente tutte le tesi.

Intolleranti e violenti

Atto secondo. Dario Biocca scrive per una rivista di storia («Nuova storia contemporanea», alfiere del «revisionismo storiografico» made in Italy) un saggio in cui sostiene che Gramsci, per ottenere la libertà condizionale, si sarebbe appellato a un articolo di legge imperniato sul «ravvedimento» del detenuto. Insomma – questo è quanto si vuole sostenere – emergerebbe un Gramsci che alla fine si sarebbe piegato al fascismo, sia pure per sopravvivere, contro la tradizione che vorrebbe il leader comunista sempre indisponibile a chiedere la grazie per non apparire un capitolardo. Anche in questo caso, il saggio vie! ne ampiamente «anticipato», ovvero parzialmente riprodotto,! dal quotidiano di cui sopra (in data 25 febbraio). Non si potrà più dire che non parli di Gramsci!

Atto terzo (e gran finale?). Il notissimo Roberto Saviano, ancora su la Repubblica (28 febbraio), prendendo spunto da un pamphlet su Gramsci e Turati di Alessandro Orsini (Rubbettino editore), ovvero su tradizione comunista e tradizione riformista, riporta alcune affermazioni di Labriola, Gramsci e Togliatti che, staccate dal loro contesto storico, fanno apparire i tre esponenti della tradizione marxista e (gli ultimi due) comunista come antesignani di ogni intolleranza violenta. Antonio Labriola solamente capace di invocare il «tanto peggio, tanto meglio». Gramsci che inneggia alla violenza verbale e fisica (sia pure moderata: nella fattispecie «un cazzotto»). Togliatti che eccede con le parole nel giudicare Turati (nel 1932, in piena strat! egia staliniana del socialfascismo, che sarà ben presto archiviata e trasformata, grazie a Dimitrov e a Togliatti, nella stagione dei fronti popolari e del patto Pci-Psi). Per Saviano, il Pci e i comunisti sono i maestri dell’intolleranza, i padri spirituali di quell’estremismo che oggi – afferma lo scrittore – guarda con simpatia a Cuba e a tutti i regimi più feroci purché antiamericani.

C’è di che pensare, di fronte a tale concentrazione di fuoco. Il revisionismo storiografico applicato alla storia del comunismo, dei comunisti italiani, di Gramsci e di Togliatti è – come ho accennato – moneta di vecchio conio. Ma una tale virulenza, una tale concentrazione di fuoco, e in un giornale considerato vicino al centrosinistra, come si spiega? Certamente non crediamo in nessun tipo di complotto, né invochiamo censure. M! a un po’ di equilibro, qualche opinione che vada in direzione opp! osta, che faccia conoscere al lettore che anche nella comunità scientifica vi sono ben altre valutazioni e ricostruzioni della storia dei comunisti italiani, se la concede persino il Corriere della sera: la concorrenza – vanto del liberalismo – non dovrebbe migliorare il prodotto e offrire migliori possibilità (conoscitive e interpretative) al lettore?

Un mondo di buoni e cattivi

Sul piano dei contenuti, è difficile in poco spazio replicare a tutta questa serie di osservazioni superficiali e tendenziose oltre ogni dire. Il «ravvedimento» di Gramsci, ad esempio, è una forzatura senza giustificazioni. Come dimostra la documentazione già pubblicata da Paolo Spriano negli anni Settanta, Gramsci – nel fare domanda di ! libertà condizionale – si appella a una legge esistente (nel Codice Rocco, art. 176) e non dichiara alcun ravvedimento. La valutazione della «condotta» del carcerato – che è altra cosa – è tutta a carico del giudice, come è giusto che sia.
Diverso è invece il modo in cui Saviano guarda a Gramsci (anche questo «doppio metodo» è in uso da decenni): per lo scrittore Gramsci non è un «buono» di contro al «cattivo» Togliatti, entrambi sono pessimi per il solo fatto di essere comunisti. Ciò che sconcerta nell’articolo di Saviano è un metodo segnato da profonda incultura storica. Si prendono poche citazioni isolate e vi si costruisce una narrazione di comodo. Labriola, il filosofo napoletano primo maestro di Croce, è dunque alla stregua di un brigatista rosso? Il ! Gramsci che è oggi il pensatore italiano più studiato nel! mondo sta tutto in quel giovane polemista che eserciterebbe la violenza della penna nel 1916, in piena lotta pro o contro la guerra? Non erano un po’ più violenti quei guerrafondai contro cui quel Gramsci si batteva? E a proposito di guerra, interventismo e mussolinismo, consiglierei anche a Giorgio Fabre, e ad Alias che lo ospita (19 febbraio), più cautela, nel delineare i tratti di un Gramsci mussoliniano ben oltre il 1914: tutti gli articoli su cui la ricostruzione di Fabre si fonda son frutto delle polemiche tra comunisti e socialisti dell’inizio degli anni Venti: le ricostruzioni degli anni precedenti, fatte nei mesi e negli anni intorno alla scissione di Livorno, difficilmente potevano avvenire con l’animo distaccato dello storico.

Untorelli a Cuba

Tornando a Saviano, Togliatti, uno dei padri della democrazia e della Costituzione italiane, da molti dipinto alla stregua di un prudente Cavour del Novecento, è davvero tutto in quel giudizio eccessivo e sbagliato su Turati, che va contestualizzato in quegli anni «di ferro e di fuoco»? E il Pci, il partito di Berlinguer, era in combutta da sempre con gli «untorelli»? Finanziava le Brigate Rosse, magari con «l’oro di Mosca»? E Cuba è solo illibertà (e dunque, per converso, il potente vicino stelle e strisce è davvero il campione della libertà)?

Insomma, la storia del Pci sembra ancora oggi oggetto di attacchi politici e giornalistici a dir poco sorprendenti. Viene il dubbio che il ricordo e la memoria di quel grande partito di massa, artefice tra i principali della nascita di una Repubblica democra! tica fondata sul lavoro e veicolo senza eguali di partecipazione politi! ca e allargamento dei diritti per i subalterni, diano ancora fastidio. A chi? Evidentemente, credo, a chi legge la politica, come va di moda oggi, sub specie elitaria, leaderistica, delegata, apartitica. Chi non si colloca sotto questi stendardi, però, dovrebbe prestare più attenzione a non infangare senza motivi legittimi quelle che Pasolini chiamava, non a torto, «le belle bandiere». E chi ne ha il ricordo deve reagire.


8 marzo 2012

Perché non c'è stato nessun ravvedimento da parte di Gramsci

di Joseph Buttigieg |da la Repubblica

Le bugie degli studiosi faziosi o incompetenti hanno le gambe corte, se chi sa interviene e corregge.
 
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su Repubblica sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale».
 
Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
 
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
 
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
 
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
 
(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)


8 marzo 2012

Violenze su Gramsci

di Salvatore Tinè, Comitato scientifico di Marx XXI

La recensione di Roberto Saviano del libro di Alessandro Orsini "Gramsci e Turati" colpisce per la sua volgarità. Vi si accusa Antonio Gramsci di avere nientemeno fomentato la violenza e esaltato l'intolleranza nei confronti degli avversari politici. Per dimostrare tale assunto, Saviano cita alcune affermazioni del pensatore e dirigente comunista, che si possono leggere in alcuni suoi articoli e interventi degli anni ' 20. Si tratta di affermazioni, certamente molto dure, che non possono essere comprese, ove le si estrapoli dal contesto della lotta politica in Italia, negli anni che videro non solo la scissione del movimento operaio e socialista italiano, con la nascita del Partito comunista d'Italia ma anche l'insorgere della reazione fascista e l'avvento al potere di Mussolini. La durezza dei giudizi di Gramsci nei confronti non solo di Filippo Turati ma anche dell'intera tradizione del socialismo e del riformismo italiani appare, quindi, pienamente giustificata, in quel passaggio terribile della storia del nostro paese.

Essa discende peraltro da una riflessione profonda sulle debolezze e i limiti intrinseci delle culture politiche maggioritarie del movimento operaio italiano, di quella "massimalista" come di quelle "riformiste", tutte incapaci di individuare i caratteri profondi della crisi della società e dello stato italiani del primo dopoguerra e di delineare così una concreta prospettiva strategica di fuoriuscita da essa. Il tema dell'"egemonia" è, non a caso, già al centro della riflessione di Gramsci nel periodo "ordinovista" come nella fase della sua biografia politica che lo vede impegnato nel lavoro di costruzione di un nuovo gruppo dirigente del PCd'I nel '23-'24. Altro che esaltazione della violenza! Il riformismo aveva fallito per Gramsci proprio perchè non aveva saputo individuare nella lotta per l'egemonia, ovvero per la costruzione di un nuovo "blocco storico", il terreno fondamentale della trasformazione in senso democratico e socialista della società. Certo, non sfugge a Gramsci il nesso fondamentale che lega ogni "egemonia" al "dominio" di una classe e quindi ad un apparato di coercizione statale. Ma Saviano forse non sospetta che a Gramsci ciò non sfuggiva proprio in quanto lettore attento non solo di Marx e Lenin ma anche di Machiavelli e del liberale Croce, grandi, geniali maestri di "realismo politico".

L'idea gramsciana dell'egemonia come "rapporto pedagogico", come "direzione intellettuale e morale" è certo tutto il contrario di una astratta esaltazione della "forza" in quanto tale: come in Machiavelli, anche in Gramsci lo stato è sempre "egemonia corazzata di coercizione", quindi tutt'altro che un mero apparato di dominio, teso alla pura e semplice eliminazione degli avversari. Il tema della violenza è peraltro al centro della grande riflessione teorica e politica del Novecento proprio negli anni in cui Gramsci si formava e diventava un protagonista della storia italiana. Si pensi, solo per fare un esempio, al grande saggio di Walter Benjamin "Sulla violenza", un'analisi penetrante e geniale della immane violenza del potere "poliziesco" nei più grandi stati capitalistici e delle forme in cui tale violenza viene occultata e dissimulata dietro le "maschere" della "democrazia" e del "parlamentarismo".

C'è quindi una violenza nascosta e non solo palese, come quella, squisitamente "ideologica", sottesa ad un siffatto attacco non solo al maggiore intellettuale italiano del XX secolo ma anche al più grande dei martiri dell'antifascismo, fulgido esempio di coerenza intellettuale e morale, per tutti noi, comunisti e no. Ma non è forse il caso di continuare: basta invitare Saviano non solo ad un atteggiamento di maggiore umiltà intellettuale ma anche a studiare e a riflettere di più sulla complessità della dialettica della storia e della politica.


15 marzo 2012

Il lorianismo del prof. Orsini, Turati, Gramsci e... Saviano

di Ruggero Giacomini, Comitato Scientifico di Marx XXI
 
Se Gramsci fosse vivo e potesse leggere il libro sulle “due sinistre” di Alessandro Orsini, che tanto ha entusiasmato Saviano e “La Repubblica”, lo appunterebbe probabilmente per una nota della sua rubrica sul fenomeno mai morto del “lorianesimo”. Cioè su quegli intellettuali che parlano con saccenza di cose che non conoscono.

Loria, per ricordare, era lo “scienziato” che proponeva di risolvere il problema della fame nel mondo coprendo di vischio le ali degli aerei e …catturando uccelli! E in carcere Gramsci dedicò uno spazio dei suo “Quaderni” al fenomeno, che andava ben oltre il “maestro”.

Orsini non conosce la rubrica di Gramsci e neppure l’ ”illustre scienziato” che pure cita ripetutamente: altrimenti non ne sbaglierebbe il nome, scambiandolo per un fiume della Francia, come pure fa ripetutamente, nel testo e nell’indice dei nomi.

Orsini dichiara di voler mettere a confronto il pensiero politico-pedagogico di Turati con quello di Gramsci, per dimostrare che il primo è assolutamente preferibile al secondo. Operazione certamente legittima e che avrebbe potuto anche essere interessante, se avesse osservato prima di tutto l’obbligo elementare di ogni studente: studiare e conoscere l’argomento di cui si occupa.

Di Turati Orsini si occupa soltanto degli interventi ai congressi, perché, teorizza, nel contraddittorio risalta meglio la specificità e la differenza dei pensieri. Si tratta però di congressi a cui Gramsci non è presente e non c’è alcun confronto o diretta polemica tra i due. Così Orsini riempie il vuoto diffondendosi sulla critica di Turati ad… Arturo Labriola, assunto d’ufficio come modello del pensiero rivoluzionario, gramsciano e comunista.

Qualche commentatore onesto fuorviato dal furore savianesco ha potuto pensare che ci si riferisse ad Antonio Labriola, il primo pensatore marxista in Italia che Gramsci effettivamente stima molto e che a buon diritto può essere riferito alla tradizione comunista.

Ma l’Arturo, che c’entra? Semmai è un modello di quei personaggi che l’Orsini esalta contro Gramsci, perché propensi a cambiare spesso opinione, essendo transitato nel socialismo e nel sindacalismo rivoluzionario, sostenitore della guerra coloniale di Giolitti in Libia e con Giolitti ministro prima del fascismo.

Un altro requisito minimo richiesto allo studente di Liceo o di Università, e che dovrebbe essere un abito naturale per chi occupa un posto di accademico e di educatore, è di riportare esattamente il pensiero che si vuole confutare, e non di aggiustarlo e distorcerlo secondo il proprio comodo per dimostrare di aver ragione.

Così il noto brano di Gramsci, Indifferenti, nel numero unico de “La Città futura” del febbraio 1917 per la Federazione giovanile socialista del Piemonte, dimostrerebbe secondo Orsini “la chiusura preventiva nei confronti delle idee degli avversari” e il disprezzo per “gli intellettuali che non dimostravano di essere faziosamente schierati” (pp.70-71).

Gramsci scrive sul “Grido del Popolo” del 23 marzo 1918, e siamo in piena guerra sotto la censura: “per noi chiamare uno ‘porco’ se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Orsini assume questa affermazione come dimostrazione di un “principio” che sarebbe “alla base” della pedagogia di Gramsci, e cioè che “un intellettuale inviso al Partito deve essere considerato un ‘porco’ e deve essere apostrofato esattamente in questi termini” (pp.74-5).

Gramsci è all’epoca un militante del partito socialista, ma l’Orsini per le finalità del suo pamphlet politico identifica incurante dell’anacronismo il Partito sempre e comunque, anche quando non esisteva, col partito Comunista.

E non si fa scrupolo di presentare come di Gramsci concetti che sono solo suoi, come ad esempio a p.90 del suo libro, riferendo di un articolo dell’Ordine nuovo che invitava i lettori a discutere con spirito di costruttori della scuola del futuro:

“Nella società comunista, scrive Gramsci, il ruolo più importante sarebbe spettato alla scuola la quale, grazie alla disciplina imposta dalla dittatura del proletariato, avrebbe svuotato la mente dei fanciulli per poi riempirla di contenuti marxisti-leninisti”.

Solo che a scrivere non è Gramsci, ma l’Orsini, e lo svuotamento e il riempimento sono tutti nella sua testa!

Lo stesso foglio giovanile “La Città futura” sarebbe la prova della pedagogia di Gramsci di “indottrinamento ideologico… attraverso la ripetizione ossessiva e martellante di idee e di concetti rivolti a ottenere l’obbedienza incondizionata alle direttive del Partito”, di scelta della “violenza per affermare le proprie idee”, del “dovere di esercitare il massimo dell’intolleranza contro coloro che dissentono” (pp.73-6).

Quest’ultimo assunto è appoggiato in particolare su un articolo di Gramsci del dicembre 1917, Intransigenza-tolleranza/ intolleranza transigenza, citato dalla raccolta del 1958 degli Scritti giovanili nella versione ampiamente tagliata dalla censura, ignorando che è disponibile la versione integrale, dove si può leggere, a confutazione plateale del metodo orsinesco, l’insistito concetto di Gramsci sulla verità rivoluzionaria:

“Gli uomini sono pronti ad operare – scrive infatti Gramsci censurato - quando sono convinti che nulla è stato loro nascosto, che nessuna illusione è stata, volontariamente o involontariamente, creata in loro. Ché se devono sacrificarsi, devono sapere prima che può essere necessario il sacrificio”. E ancora: “Chi non ha potuto convincersi di una verità, chi non è stato liberato da una falsa immagine, chi non è stato aiutato a comprendere la necessità di un’azione, defezionerà al primo urto brusco cosi suoi doveri, e la disciplina ne soffrirà e l’azione sboccherà nell’insuccesso”. (La Città futura, Einaudi 1982, pp.479-80).

La verità è necessaria per il pensiero e la pratica rivoluzionari. Probabilmente per chi come Orsini si sente impegnato a conservare l’ordine capitalistico esistente la debolezza di argomenti convincenti induce a… falsificare.

PS. A Roberto Saviano, se le parole hanno un senso.

Lei ha definito il libro dell’Orsini “ la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni”, forse lo ha fatto per amicizia o perché non conosce la materia, può essere scusato. Ci permetta però alcune domande suggeriteci da quanto ha scritto sui suoi convincimenti:

Dice che bisogna essere sempre “tolleranti” con gli avversari: crede ora forse che bisognerebbe “convivere” anche con la mafia, come diceva quel ministro?

Dichiara il suo entusiasmo per la non violenza: come mai allora non condanna la repressione israeliana a Gaza e l’interventismo militare sempre più aggressivo dei sedicenti “esportatori di democrazia”?

Sostiene con Turati il “diritto all’eresia”: e allora perché spara con tanta virulenza sugli “eretici” di oggi, i comunisti sgraditi ai potenti che non la pensano come Lei, tenuti fuori dal parlamento non dagli elettori, ma da una legge sbarratoria di discriminazione per cui il voto non è più uguale per tutti, e che Lei come Liberale dovrebbe condannare?

Sarebbe gradita una risposta.


16 marzo 2012

Gramsci e gli odierni esempi di lorianismo

di Giacomo Tarascio, Historia Magistra

Elogio dei riformisti [“la Repubblica”, 28 febbraio 2012]: così si intitola la recensione che Roberto Saviano dedica al libro di Alessandro Orsini Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino, 2012). Il recensore definisce quella di Orsini niente meno che «la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni»; è impossibile, dunque, non cogliere dai toni dell’articolo la piena adesione ideologica a delle tesi edificate su una lettura grossolana dei testi gramsciani. Nel suo libro Orsini ricostruisce in maniera a dir poco discutibile la divisione fra le due anime della sinistra italiana: quella riformista e quella rivoluzionaria, impersonate rispettivamente da Turati e Gramsci.
Il ritratto che esce da questo confronto interno alla sinistra è quello di un’ala tollerante, realista e tutta protesa al benessere dei lavoratori contrapposta all’ala estremista, intollerante, dogmatica e violenta. Principali animatori rivoluzionari sono Antonio Labriola, Palmiro Togliatti e, appunto, Gramsci; le attenzioni di Orsini si concentrano in particolare su quest’ultimo, reo di aver educato all’odio intere generazioni di militanti. Questa costruzione avviene attraverso ritagli presi qua e là in maniera funzionale allo scopo di dimostrare l’esistenza di una cosiddetta “pedagogia dell’intolleranza”, concetto ricavato dall’autore senza indicare se le parole estrapolate si riferiscono al Gramsci studente e poi giornalista, al politico o allo scrittore dei Quaderni.

Orsini non è nuovo a questo genere di pseudo costruzioni storico-politiche: ci aveva già deliziato con l’evitabilissimo Anatomia delle Brigate Rosse (Rubbettino, 2009), di cui abbiamo parlato nell’editoriale del numero 7 della nostra Rivista. Fulminato da tanto acume storiografico, Saviano non ha resistito alla tentazione di irrorare la carta e il web con l’ennesimo sermone, spinto anche da un senso di opinionismo onnipotente di chi tutto sa e tutto può dire, al punto da criticare, dando l’impressione di non averne mai letto una riga, Gramsci, l’italiano contemporaneo più letto e studiato fuori dai confini natali. L’editorialista de «la Repubblica» prende per buone tutte le citazioni gramsciane e i concetti contenuti nel libro, replicandone così la banalità e l’inconsistenza metodologica. Per rimediare a questi difetti bastava compiere una semplice e superficiale ricerca in rete, dove le opere gramsciane sono tutte disponibili gratuitamente e in formato digitale. Sarebbero stati sufficienti pochi clic a Saviano per risparmiare a sé stesso una pessima figura e a noi un saggio di arrogante ignoranza.

Dunque immaginiamo Saviano afflitto, come lui scrive, da domande del tipo «come si coniugano le due anime della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria?» e «che genere di dialogo c'è stato tra loro?»: per fortuna dello stato d’animo del Nostro, possiamo affermare con sicurezza che, viste le risposte, l’angosciosa riflessione non si è protratta oltre i cinque minuti. Nella sua recensione Saviano si dice scosso dalla scoperta delle parole con le quali Gramsci «definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”». E invece no! Importa a chi erano rivolte quelle parole, eccome! È qui che si trova la differenza tra lo storico vero e l’ideologo opportunista. La frase incriminata è rivolta al conte Delfino Orsi, all’epoca direttore della «Gazzetta del Popolo» e futuro senatore fascista, ed è tratta da un articolo di Gramsci pubblicato sull’edizione torinese dell’«Avanti!» il 19 aprile 1916.

Ne I moventi e Coppoletto il giovane redattore della testata socialista – quest’ultima, purtroppo, com’è ben noto dalle cronache giudiziarie, negli ultimi anni preda di un degrado che ne ha offuscato l’antico valore – risponde al giornalista della «Gazzetta del Popolo» Giuseppe Dardano che accusava il giornale socialista di attaccare in maniera strumentale Orsi, implicato in uno scandalo di corruzione che coinvolgeva gli organizzatori dell'Esposizione Universale di Torino del 1911. La redazione dell’«Avanti!» infatti conduceva da tempo una campagna stampa di denuncia contro coloro che come Orsi si erano arricchiti con l’evento, ma in tutto questo Dardano non riusciva a scorgere che un attacco da parte di pacifisti a uno dei principali propagandisti dell’interventismo. Il quotidiano socialista era a sua volta sotto attacco – mediatico, ma non solo – in quanto rappresentava una delle pochissime voci contrarie alla guerra all’interno del panorama dell’informazione; difatti parliamo degli anni della Prima guerra mondiale, contesto nel quale la «Gazzetta del Popolo», all’opposto, costituiva uno dei punti di riferimento del bellicismo e dell’interventismo nazionale: l’adesione di questo giornale alle ragioni del conflitto era tale da portarlo a mentire ai suoi lettori, al punto da nascondere la pessima conduzione delle operazioni militari da parte dei comandi militari italiani. Da lì a pochi mesi, agosto 1917, Orsi e il suo giornale si schierarono dalla parte della sanguinaria repressione (50 morti) che domò la rivolta popolare scoppiata a Torino in seguito alla mancanza di pane; nonostante la loro natura spontanea i moti diedero alle autorità il pretesto per arrestare decine di dirigenti e militanti socialisti.

Anche il terzo esempio gramsciano usato da Saviano si riferisce allo stesso periodo: «arrivò persino a tessere l'elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali». È da notare che la formula cazzotto in faccia venga posta fra virgolette come fosse una citazione, tuttavia tale formula non è mai stata usata da Gramsci; facciamo finta che non si tratti di malafede e prendiamo la cosa come una maldestra semplificazione. L’articolo in questione, a cui si riferisce lo stesso titolo di Saviano, si intitola Elogio del cazzotto, pubblicato sull’«Avanti!» il 12 giugno 1916; anche in questo caso la polemica gramsciana era rivolta verso un accanito interventista, Giuseppe Bevione, famoso per i suoi reportage fasulli dal fronte libico e, guarda caso, futuro senatore fascista. L’articolo si riferisce a una rissa scoppiata alla Camera dopo una manifestazione di opposizione alla guerra alla quale Bevione rispose calunniando i socialisti, secondo lui pagati dal nemico: nella zuffa che ne seguì Bevione venne rispettosamente colpito dal tollerante pugno del riformista, e turatiano, Nino Mazzoni. Gramsci non condanna il gesto, ma allo stesso tempo nel suo commento non c’è traccia di incitamento alla violenza: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Quello che Gramsci contesta, piuttosto, è la volontà del deputato Bevione di riparare al danno attraverso il ricorso al duello.

Alla luce di un contesto storico e politico così complesso come quello dell’Italia impegnata nella Grande guerra stride, e non poco, la pretesa di toni pacati e politically correct: probabilmente al duo di storici improvvisati sfugge la complessa drammaticità di un periodo nel quale dichiararsi socialista e contrario alla guerra significava, nei casi lievi, subire pestaggi dai gruppetti nazionalisti o essere cacciati dal proprio posto di lavoro (insegnamento scolastico e universitario inclusi), mentre, nei casi peggiori, si arrivava all’accusa di tradimento della Patria e all’imprigionamento. In uno scenario inquinato dalle menzogne della propaganda bellicista per il giovane giornalista sardo la verità diveniva un bene da difendere a tutti i costi, anche attraverso la polemica e le parole più dure; in questa battaglia, quasi solitaria, le uniche armi di Gramsci erano la serietà e la disciplina intellettuale, qualità innegabili da parte di chiunque legga i suoi articoli di quel tempo senza malafede e preconcetti. Qualità, quelle di Gramsci, che non si possono collocare con sufficienza sotto la voce «influenza della retorica politica dell'epoca»; queste mancanze appaiono a dir poco gravi per chi ribadisce spesso di essere stato l’allievo di uno storico del valore di Francesco Barbagallo.

L’ultimo riferimento che analizziamo non ha collegamenti con fatti come quelli sopra esposti in quanto si tratta di una polemica interna al mondo accademico-culturale. L’articolo I criteri della volgarità [in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi 1958], apparso non firmato sul «Grido del Popolo» il 23 marzo 1918, è una risposta polemica all’economista Giuseppe Prato che dalle pagine del «Riforma Sociale» accusava il quotidiano socialista di volgarità: l’oggetto della polemica erano gli articoli critici e anche ironici che il «Grido» aveva dedicato al Prof. Achille Loria, simbolo di approssimazione metodologica e scarso rigore scientifico, al punto tale che Gramsci creò una categoria, il «lorianismo» – all’interno della quale le riflessioni teoriche di Orsini e quelle pubblicistiche di Saviano non faticherebbero ad entrare. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una frase strappata dal suo contesto e privata del suo significato in maniera strumentale. L’espressione «per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio» è usata da Gramsci per sottolineare in maniera forte il suo pensiero e non per insultare un avversario politico; ciò è possibile dedurlo dalla riflessione che precede immediatamente la frase estrapolata: «il Prato chiama volgari le espressioni, i termini grammaticali. Per noi sono volgari le azioni in sé, non le parole». L’azione contro la quale si scagliava Gramsci era la volgarizzazione delle teorie marxiane da parte di Loria, vero e proprio idolo per i redattori della «Riforma sociale». In quella frase vi era dunque la volontà di difendere la linea critica del «Grido del Popolo».

Nell’articolo contestato da Prato vengono citati ampiamente i giudizi di Benedetto Croce, che sovente criticava in maniera dura e sarcastica Loria: dobbiamo concludere che dietro Gramsci si nascondeva una pedagogia dell’intolleranza di matrice crociana? Il liberale Croce, guarda caso studente di Labriola, era dunque un rivoluzionario sotto mentite spoglie? Lasciamo questi ardui interrogativi alle brillanti teorie di Orsini che, ne siamo certi, prenderà tali indicazioni sul serio.I pezzi sopra citati insieme a molti altri articoli del periodo torinese costituiscono alcune fra le più belle pagine gramsciane, scritti con acuta verve polemica e intelligenza; articoli spesso ironici e graffianti che consigliamo di leggere a tutti, ma con la necessaria cautela, in quanto non desideriamo ritrovarci con dei lettori trasformati in sanguinari brigatisti.

Veniamo al tema centrale della rapida ricostruzione di Saviano, e soprattutto del libro di Orsini, cioè la contrapposizione tra Gramsci e Turati: questa avviene confrontando gli articoli giovanili del primo con i testi maturi e autocelebrativi del leader socialista. È difficile non vedere disonestà dietro questa “metodologia”, tesa a dare un’immagine oleografica del riformismo italiano. Evidentemente i due non sanno o, presumibilmente, non vogliono vedere oltre gli “insulti”; infatti, nella pubblicistica gramsciana potrebbero trovare la serrata critica ai pregiudizi antimeridionali e all’opportunismo politico che hanno contraddistinto sovente Turati e i riformisti del Psi nel primo quarto di secolo.Il ritratto di Turati che viene proposto è dunque lontano dall’effettiva concretezza storica avuta dalla politica del leader riformista. Basterebbe parlare della considerazione che Turati aveva per la questione meridionale, tale da portarlo a parlare di «due Italie nell’Italia» e a lamentare il «forzato e antifisiologico accoppiamento del decrepito mezzodì coll’acerbo settentrione»: non proprio un modello di unità e tolleranza.

Naturalmente noi non cadiamo nell’errore di Orsini e Saviano, quindi le idee di Turati le leggiamo all’interno del loro contesto e facciamo notare come queste risentissero del clima positivista che caratterizzò il riformismo italiano e il Psi fin dalla sua fondazione: vizio d’origine, il determinismo meccanico e loriano, che portò l’ala riformista a farsi interprete politico delle idee razziste che provenivano da Cesare Lombroso e dalla sua scuola, per i quali la questione meridionale aveva origini biologiche ed era quindi irrisolvibile. Per Turati e i riformisti fu breve il passo dalla concezione del «Mezzogiorno palla di piombo» dello sviluppo all’accordo protezionistico, filo-siderurgico e filo-agrario, con il governo di Giovanni Giolitti, costato al Sud d’Italia decenni di ritardo economico. Fatti e parole che a chi, come Saviano, si professa debitore al meridionalismo di Gaetano Salvemini, non dovrebbero sfuggire. E proprio lo storico di Molfetta non riservava certo parole al miele per Turati e i riformisti del Psi.

Il vizio d’origine del riformismo, tuttavia, non si esaurisce nell’antimeridionalismo e nella connivenza col potere economico, che da oltre un secolo di storia frutta ai suoi esponenti rendite di posizione politica e, purtroppo, non solo quella: il lorianismo riformista ha lavorato in profondità e lo si può considerare il canale principale della diseducazione politica che ha colpito la sinistra in Italia, oggi incapace di leggere il suo presente con una posizione politica netta.Per quel che riguarda la parte politica della recensione, date le premesse teoriche, è difficile prendere sul serio gli insulti e le invettive che il povero Saviano rivolge contro la tradizione comunista italiana: mescolare rozzamente nello stesso calderone Pci, Hamas, Hezbollah, pacifisti, Br, Gramsci e Cuba è una smaccata operazione qualunquista e francamente reazionaria. Evitiamo, quindi, di richiamare in questa sede la stagione craxiana e i continui procedimenti d’indagine giudiziaria a cui sono spesso sottoposti i riformisti odierni; teniamo comunque a far notare a Saviano che il primo firmatario della Costituzione che egli tanto proclama di difendere è stato Umberto Terracini, comunista e compagno di Gramsci. Forse sta qui l’origine di questa grande opera di revisionismo storico di cui Saviano è solamente l’ultimo episodio, ossia nel proposito di cancellare il movimento comunista e i suoi protagonisti dalla storia repubblicana.

Chiudiamo questa rapida disamina con le parole di Gramsci, tratte dal già citato I criteri della volgarità, nella speranza che i candidi Orsini e Saviano non le giudichino ingiuriose: «noi continueremo a chiamare volgari gli uomini quando essi operano volgarmente, quando manifestano un pensiero volgare, anche se esprimono il pensiero in forma elegante (e questa eleganza è solo apparenza vistosa, neppure arte), anche se operando coi guanti e salvando le forme esteriori. Noi insomma badiamo all’interiorità, non all’apparenza verbale, e la sostanza cerchiamo [di] qualificar[la] con esattezza e proprietà anche se per ciò dobbiamo adoperare parolacce ed espressioni ritenute volgari».


22 aprile 2012

Il codice di Gramsci prigioniero

di Nerio Naldi | da l'Unità

Opera di Beppe Vacca. La biografia del fondatore del Pci negli anni del carcere, fondata su documenti finora inediti
 
La vita e i pensieri di Antonio Gramsci di Beppe Vacca poggia su un lungo percorso di ricerca e in quanto tale riprende lavori già pubblicati e presenta nuovi sviluppi; in entrambi i casi la trattazione sistematica di quelli che possiamo considerare i temi e i nodi cruciali della biografia personale, intellettuale e politica di Antonio Gramsci nell’ultimo decennio della sua vita, cioè negli anni del carcere, offre un grande contributo alla ricostruzione della sua vicenda e del suo pensiero e alla conservazione e alla trasmissione del suo patrimonio. Il titolo del libro è preciso: la vita e i pensieri (al plurale) di Antonio Gramsci si intrecciano. La parola carcere nel titolo non compare, ed effettivamente possiamo pensare che la grandezza di Gramsci abbia travalicato il carcere, ma è anche vero che egli non trascorse in carcere tutti gli anni fra il 1926 e il 1937: fu prima confinato, poi recluso, quindi detenuto costretto in un letto di ospedale; ma sappiamo che carcere fu.

La lettura è giustamente centrata sulla corrispondenza, perché, al di là di pochi colloqui, soltanto attraverso questa poteva passare la comunicazione, ma in alcuni casi l’analisi usa altre fonti e si estende ai Quaderni (come nell’esame del dissenso di Gramsci rispetto alla svolta del 1928-29 e del significato della sua proposta della Costituente, che, secondo Vacca, che le dedica uno spazio molto più ampio di quanto non avessero fatto precedenti studiosi, rappresenta il punto di confluenza di una serie di elaborazioni cruciali sviluppate nei Quaderni: l’idea che la democrazia e non la rivoluzione fosse il terreno su cui combattere la battaglia per la conquista dell’egemonia). Ma lo studio e la comprensione della vicenda di Gramsci negli anni fra il suo arresto e la sua morte richiedono la considerazione di un numero notevolissimo di piani diversi: il piano del rapporto di amore e di condivisione politica con sua moglie Giulia, le loro condizioni di salute, le sue riflessioni sul movimento comunista e sulle relazioni fra politica nazionale e sviluppo economico mondiale, la preparazione delle istanze relative alla riduzione della pena in seguito alla concessione di amnistie e indulti, l’accesso alla liberazione condizionale, i tentativi di ottenere la libertà attraverso una trattativa fra governo sovietico e governo italiano... fino al destino dei Quaderni dopo la sua morte.

Un merito del libro è nella capacità di renderne l’unitarietà senza cadere nella piattezza espositiva e dando specifico rilievo ai singoli elementi.

Questo avviene essenzialmente individuando una chiave di lettura principale secondo cui la dimensione politica è sempre presente nei pensieri di Gramsci e, di conseguenza, nelle informazioni che trasmetteva ai suoi interlocutori diretti e indiretti. L’insistenza e la coerenza con cui, nel corso degli anni, Gramsci ha riaffermato la propria determinazione a non compiere gesti che potessero apparire come cedimenti al regime fascista è un elemento al tempo stesso cruciale e rivelatore di tale centralità. Ovviamente tali contenuti politici non potevano che essere nascosti e convogliati attraverso codici, perché dovevano raggiungere i destinatari superando la censura carceraria ed eventuali letture da parte di soggetti diversi dai destinatari desiderati. E lo stesso valeva per le lettere dei suoi interlocutori, che erano scritte sotto gli stessi vincoli.

CERCARE I MESSAGGI

Tutto ciò moltiplica le difficoltà di interpretazione e di ricostruzione. E fra queste difficoltà si deve anche considerare il fatto che ognuno dei soggetti coinvolti Antonio Gramsci e Giulia in primo luogo potevano essere condizionati anche emotivamente dalle circostanze restrittive in cui la loro comunicazione era costretta. D’altra parte questa chiave di lettura non può essere generale, perché la comunicazione non affrontava solo temi politici, anche se nel caso di Gramsci ed egli ne è consapevole quasi ogni gesto poteva assumere un significato politico e molte questioni dovevano comunque essere comunicate con la massima cautela. Di qui l’esigenza indicata da Vacca di ricercare i codici dietro cui il vero contenuto delle comunicazioni poteva essere nascosto e di interpretare allusioni, riferimenti e oscurità con questa consapevolezza, ma anche attraverso una valutazione circonstanziata caso per caso.

Dato questo contesto, l’autore riesce ad illuminare una molteplicità di episodi e di frasi che altrimenti potrebbero restare avvolti in una nebbia di incomprensione e stabilisce dei parametri di lettura che si potranno porre alla base di ulteriori ricerche e da cui, anche non condividendoli, non si potrà prescindere. Così, ad esempio, viene interpretato il significato della prima lettera (19 marzo 1927) in cui Gramsci presenta un programma di studio per il periodo che si preparava a vivere in carcere. Secondo Vacca, quel programma, in quel momento, non poteva essere un vero piano di lavoro, e, anche se lo era, poteva essere utilizzato per influenzare l’atteggiamento dei giudici e come prova della disponibilità di Gramsci, se liberato attraverso una trattativa fra il governo sovietico e il governo italiano a non svolgere attività politica. Inoltre, interpretato come un codice, comunicava a Togliatti l’intenzione di continuare a sviluppare in termini più generali, attraverso un’analisi teorica rigorosa e radicale che soltanto ironicamente si poteva dire disinteressata (così vanno intese le espressioni con cui Gramsci descriveva il tipo di studio a cui si proponeva di attendere e in effetti, se consideriamo il testo della poesia di Giovanni Pascoli Per sempre a cui Gramsci sembra fare riferimento, non possiamo pensare che egli volesse svincolare la sua analisi dalla concretezza dei processi storici), le posizioni politiche che era venuto elaborando nel corso del 1926 e su cui con Togliatti si era scontrato e che lo avevano portato ad esporre alla dirigenza sovietica la propria eterodossia. Il fatto poi che su quel piano di lavoro egli chiedesse a Tatiana Schucht di esprimere un parere, viene inteso da Vacca come una ulteriore indicazione di come il messaggio fosse rivolto al suo partito e a Togliatti in particolare, chiedendo alla cognata di assolvere ad un difficile e delicato compito di comunicazione politica.

La possibilità di essere liberato attraverso un intervento del governo sovietico e una trattativa diretta fra stati viene indicata da Vacca come una preoccupazione costante di Gramsci fin dall’inizio della sua detenzione: molte delle sue comunicazioni vengono lette in questa chiave e la famigerata lettera inviatagli da Ruggero Grieco nel febbraio del ’28 viene interpretata come un grave ostacolo frapposto al concretizzarsi del primo tentativo in tal senso. A questa lettura si collega poi la reinterpretazione compiuta, come in altri casi, alla luce di documenti fino a pochi anni fa non conosciuti e di un’acuta rilettura di documenti già noti del ruolo svolto dal giudice istruttore Enrico Macis nell’inchiesta che avrebbe portato al processo davanti al Tribunale speciale. Solitamente Macis era stato rappresentato come capace di carpire la fiducia di Gramsci e di ingannarlo sulle sue vere intenzioni; secondo Vacca, al contrario, l’operare di Macis non ebbe tali caratteristiche, seguì diverse fasi scandite da ordini provenienti dalla segreteria di Mussolini e rappresentò un tramite attraverso cui Mussolini volle mantenere aperto, almeno fino ad una certa fase, uno speciale canale di comunicazione (o piuttosto di interrogazione) con Gramsci, probabilmente perché interessato a valutare la possibilità di scambiarlo per ottenere vantaggi sia in termini di rapporti di forza interni sia in termini di posizione internazionale e di rapporti con l’Unione Sovietica.

LA PEDINA DEL GIOCO

In questo gioco di rapporti fra stati la posizione di Gramsci non poteva essere altro che quella di una pedina, ma ciò non gli impediva di valutare lucidamente la sua situazione e di cercare di sfruttare le opportunità che anche in tale contesto si potevano presentare, pur mantenendo sempre ferma, dall’arresto alla morte, la determinazione a non compiere alcun atto che potesse essere interpretato o contrabbandato come un cedimento al regime e in tal senso si possono leggere le affermazioni esplicite contenute in lettere di Gramsci o nelle comunicazioni dei familiari che furono in contatto con lui: la cognata Tatiana e i fratelli Gennaro e Carlo. A questo proposito si può aggiungere che la disponibilità a non impegnarsi nell’attività politica a fronte della liberazione, se fu davvero espressa, in codice, in una lettera del 1927, in realtà, nel momento in cui gli si aprì la possibilità di chiedere la liberazione condizionale, cioè nel 1934, Gramsci non la confermò anzi, appare molto probabile che, se richiesto di sottoscriverla, l’avrebbe rifiutata. Infatti, la dichiarazione che Gramsci effettivamente sottoscrisse riguardò solo l’impegno a non fare un utilizzo politico del provvedimento di liberazione condizionale che gli veniva concesso.
Il libro. Dal 24 in libreria: le sue vicende personali e politiche
Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Giuseppe Vacca pagine XXII 370 euro 33,00 Einaudi
Da martedì in libreria la prima storia della vita e del pensiero di Gramsci prigioniero del fascismo fondata su documenti finora ignorati o del tutto inediti.


29 aprile 2012

Le manganellate ideologiche preventive contro Gramsci e l'idea di rivoluzione in Occidente

di Raul Mordenti | da www.liberaroma.it

Il marzo del 2012 è stato un mese davvero difficile per Antonio Gramsci e per Palmiro Togliatti! Prima è uscito un libro che insinuava che Gramsci fosse diventato alla fine un bravo liberale, con precoci tendenze veltroniane, e che Togliatti avesse inguattato uno dei suoi Quaderni per non far sapere al popolo bue la notizia. Poi un saggio che rivelava come Gramsci si fosse pentito e avesse chiesto scusa a Mussolini, dato che altrimenti – codice alla mano – egli non avrebbe potuto usufruire della generosa libertà vigilata, coi Regi Carabinieri fuori la porta, che allietò i suoi ultimi anni di vita. Infine ha visto la luce un libretto che spiegava come Gramsci fosse brutto e cattivo e dicesse le parolacce mentre Turati invece no, era bello e buono e predicava l’amore universale. Quest’ultimo prodotto – chiamamolo così – riceveva per giunta la personale benedizione di San Saviano che ex cathedra, cioè su “Repubblica”, lo definiva senz’altro “la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni” (sic!).

Nell’epoca del vuoto e ferreo dominio dei media poco è importato che, nel merito, tutti e tre questi prodotti e i rispettivi autori (di cui, anche per rispetto dei lettori più giovani, non si vuol qui fare il nome) siano stati in forme diverse, smentiti, sbugiardati, insomma (absit iniuria…) sputtanati in modo tale che in un paese civile avrebbe dovuto provocare cambi di cognome e plastiche facciali. Ma “Repubblica” non ha dato notizia di tali sputtanamenti e, dunque, essi non sono mai avvenuti.

Al primo è stato fatto notare, da parte di chi Gramsci l’ha studiato davvero (ad es. dal prof. Francioni che prepara un’altra edizione critica del Quaderni), che la sua tesi non stava in piedi, costringendo l’autore di quel prodotto a scrivere pubblicamente – come se niente fosse – che la sua era pura invenzione e fiction, così come si usa negli USA quando non ci sono documenti.

Al secondo è stato fatto presente che il codice a cui egli faceva riferimento per sostenere l’avvenuto pentimento di Gramsci era quello del 1962, e che al tempo di Gramsci (guarda caso!) il codice del 1962 non era in vigore.

Destino peggiore quello toccato al terzo, che prima di essere nominato da San Saviano “teorico della sinistra” era meglio noto come autore di un un memorabile intervento sul “Giornale” intitolato “Si scrive no TAV, si legge BR”. Il suo libretto (definito dallo storico Angelo D’Orsi “una porcheria”) presentava sistematiche de-contestualizzazioni, citazioni sbagliate e tagliate ad arte, falsi ed omissioni, errori ridicoli (come Loira, il fiume, al posto di Loria, il prof. Achille, o come il concetto di “costumi” interpretato come “modo di vestire”, etc.), date erronee, bibliografie incomplete e grottesche, per non dire delle argomentazioni “teoriche” del tutto degne per il loro livello di tale apparato – diciamo così – scientifico.

Noi che siamo comunisti, e dunque oltre che cattivissimi siamo anche sospettosi, ci chiediamo: perché questa vera e propria campagna contro Gramsci? E perché proprio ora?

La risposta che ci diamo pensa male, ma dunque forse ci azzecca: perché si tratta di operare una sorta di censura preventiva in merito all’idea di rivoluzione in Occidente, per riprendere a pensare la quale proprio Gramsci rappresenta il punto più alto (come dimostra il Dossier “Ripensare con Gramsci la rivoluzione in Occidente” pubblicato dalla rivista “Progetto Lavoro” nel numero 10 del gennaio 2012). “Hai visto mai – si sono forse detti i sobri dittatori che ci governano – che, di fronte alla crisi del capitalismo reale, venga in mente a qualcuno di leggere, o ri-leggere, Gramsci per ri-cominciare a pensare la rivoluzione?”. Dunque la miserabile campagna contro Gramsci è un po’ come una manganellata ideologica preventiva, e somiglia dunque da vicino alle manganellate reali che vengono propinate ormai abitualmente al popolo No-Tav.

Nel 75° anniversario della tua morte (27 aprile 1937), compagno Gramsci, questo terrore dei nostri avversari nei tuoi confronti rappresenta la testimonianza più evidente della vitalità del tuo pensiero, e anche per questo porteremo quest’anno un fiore rosso sulla tua tomba al Cimitero degli Inglesi, magari sorridendo insieme di questi poveracci che ti attaccano.


18 maggio 2012

Comunista e non violento

di Guido Liguori, Presidente della International Gramsci Society Italia

Gramsci è morto nel 1937 e la sua opera registra ancora un successo crescente, dalle università statunitensi al Brasile, all’India, al Giappone: nessun pensatore italiano dopo Machiavelli ha avuto uguale diffusione. L’articolo di Enrico Mannucci su Sette del 19 aprile fotografava bene questa situazione.

Anche nel nostro paese da anni si registra una ripresa di studi su Gramsci di notevole rilievo. Sorprende dunque che uno studioso italiano, Alessandro Orsini su Sette del 26 aprile, indossi la maglietta del tifoso (di quelli che “tifano contro”) per proporre una immagine di Gramsci come politico e teorico sanguinario e violento. Una assurdità, perché Gramsci è il teorico dell’egemonia, della ricerca del consenso, della politica come crescita civile delle grandi masse, il tutto intessuto con una elaborazione culturale di grande livello.
Se non fosse così, se avesse ragione Orsini, come si spiegherebbe la diffusione odierna dell’insegnamento gramsciano nei cinque continenti? Certo, Gramsci è stato un rivoluzionario, un comunista, anche in carcere. E rivoluzione non vuol dire necessariamente violenza, bensì cambiamento profondo, radicale. Peraltro Gramsci ha rinnovato il concetto di rivoluzione sottolineandone gli aspetti processuali, argomentativi, culturali. Non esitando a contestare contenuti e metodi dello “stalinismo”, proponendo un comunismo originale e diverso.

Venendo alle “accuse” fatte a Gramsci, Orsini usa il metodo della citazione staccata dal contesto, senza spiegarne al lettore origine e senso. Un esempio: Gramsci «esprimeva il suo giubilo quando i liberali venivano presi a cazzotti in faccia», scrive Orsini. Si riferisce a un articolo gramsciano del 1916 in cui si legge: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Il giovane giornalista sardo (25 anni) commenta così una rissa alla Camera tra bellicisti e socialisti. Il Bevione in questione era giornalista e deputato, famoso supporter dell’industria bellica fin dalla guerra di Libia (diverrà deputato fascista). Gramsci polemizza dunque con chi si faceva sostenitore della guerra (questa sì violenza vera e bestiale). Ma – e qui viene fuori il lato comico della tesi di Orsini – vi è un altro fatto: a dare il pugno a Bevione è il deputato socialista Nino Mazzoni, seguace di Turati, il riformista che Orsini contrappone a Gramsci come un angelo al diavolo. Ma questo Orsini non lo dice. O non lo sa.

Non vi è spazio per dilungarsi sugli altri esempi fatti da Orsini, tutti egualmente contestabili (come ha dimostrato Giacomo Tarascio su Historia Magistra, in un articolo reperibile on line). Può darsi vi sia qualche eccesso negli scritti del giovane Gramsci. Ma la barra è tenuta costantemente sulla rotta dell’opposizione alla guerra e poi al fascismo, e a un capitalismo corrotto e corruttore. È un autore sempre dalla parte delle masse oppresse, dei “subalterni”. Orsini lamenta persino questo linguaggio, ignorando che le metafore militari erano correnti in politica dopo la Grande guerra. Non avrebbe senso rispondere contrapponendogli gli errori di Turati (dal giudizio sui meridionali all’accodarsi a chi inneggiava alla guerra quando essa era ormai quasi vinta) proprio perché un confronto serio è cosa altra tanto dallo scontro fra tifosi, quanto dai tentativi di demolizione faziosa e propagandistica. Per di più di un autore come Gramsci, che tutto il mondo studia con ammirazione e interesse, anche per il modo creativo e partecipato con cui ha sempre saputo stare dalla parte degli oppressi.

3 luglio 2012


Il ritorno al futuro di Gramsci

di Guido Liguori

Il «ritorno di Gramsci»: così titolava di recente un grande quotidiano, dedicando al comunista sardo una intera pagina di recensioni. Il 2012 si segnala infatti per l’ingente mole di saggi, libri, articoli e polemiche sul pensatore italiano moderno più studiato nel mondo. Questa nuova stagione di studi – che data in realtà da un decennio e più – è originata da diversi fattori. In primo luogo vi è l’effetto di ritorno della grande notorietà di Gramsci all’estero, a partire dagli anni ’80, che ha impedito che sull’autore dei Quaderni in Italia scendesse il silenzio, come avrebbero voluto in molti, per ragioni soprattutto politiche, ivi compresa la furia autolesionista di certa sinistra ansiosa di lasciarsi alle spalle ogni aspetto della tradizione comunista. In secondo luogo, una nuova generazione di studiosi è venuta negli ultimi anni a maturità, grazie non tanto a un’università spesso sorda verso un autore fuori dai canoni dell’accademia, quanto all’attività caparbia di associazioni, riviste e istituzioni culturali – a partire dalla International Gramsci Society Italia – che hanno praticato l’approccio interdisciplinare e la ricerca collettiva e favorito la crescita di una nuova generazione di studiose e studiosi di Gramsci.

Per Carocci si annuncia la prossima uscita di un volume che raccoglie undici saggi gramsciani di studiosi cresciuti nellʼambito del Seminario sui Quaderni della Igs Italia, che era già allʼorigine del recente Dizionario gramsciano 1926-1937 (Carocci 2009).E di questa nuova leva dà oggi testimonianza anche il libro ideato e curato da Angelo dʼOrsi, Il nostro Gramsci (Viella, pp. 422, euro 30), nel quale ventotto giovani autori mettono a confronto Gramsci con oltre cinquanta protagonisti della storia dʼItalia, da Dante e Petrarca a DʼAnnunzio e Gobetti.

I rinnovati studi gramsciani

Infine, causa non ultima per importanza di questo «ritorno di Gramsci», la rilevante acquisizione di nuovi documenti che ha alimentato il lavoro delle forze raccolte dalla Fondazione Gramsci per una nuova «edizione nazionale» dell’intero opus gramsciano. Di questa nuova edizione delle opere di Gramsci – edita dalla Treccani – erano usciti nel 2007 gli inediti Quaderni di traduzione e, a latere, i diciotto volumi della preziosissima «edizione anastatica dei manoscritti» dei Quaderni del carcere (edita dalla Biblioteca Treccani in collaborazione con LʼUnione sarda), a cura di Gianni Francioni, con la collaborazione di Giuseppe Cospito e Fabio Frosini: una edizione purtroppo scarsamente diffusa per i limitati canali di vendita prescelti, ma oggi assolutamente indispensabile per uno studio avanzato dei Quaderni.

Più di recente sono stati pubblicati due volumi di lettere, contenenti numerose novità, curati da Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, David Bidussa e altri: Epistolario 1, gennaio 1906-dicembre 1922 ed Epistolario 2, gennaio-novembre 1923. Su queste prime pubblicazioni dellʼ«edizione nazionale» e sui «lavori in corso» riferisce ora un numero della rivista Studi storici (4/2011) interamente dedicato a L'edizione nazionale e gli studi gramsciani.

Di grande interesse per fare il punto sulle novità documentali i saggi di Luisa Righi e Claudio Natoli sullʼepistolario precarcerario, di Chiara Daniele sui carteggi degli anni del carcere, di Leonardo Rapone sul giovane Gramsci, di Giancarlo Schirru, che aggiunge nuovi, importanti tasselli alla conoscenza di «Gramsci studente di linguistica», di Cospito e Frosini sulla preannunciata nuova edizione dei Quaderni a cura di Francioni – su cui bisognerà ovviamente tornare quando vedrà finalmente la luce fra un paio dʼanni, dopo una gestazione ultraventennale.

Interessante e particolare è infine, su Studi storici, un contributo di Maurizio Lana sullʼuso dei nuovi «metodi quantitativi» (applicati allo studio dello stile) nel difficile lavoro di attribuzione degli articoli degli anni ʼ10 e ʼ20 che – come è noto – apparvero quasi tutti non firmati, rendendo ardua lʼindividuazione di quelli scritti realmente da Gramsci.

Nuovi carteggi e nuove fonti

Legato all’edizione nazionale è anche il lavoro che va conducendo da molti anni il presidente della Fondazione Gramsci Giuseppe Vacca, il cui ultimo libro, Vita e pensiero di Antonio Gramsci (Einaudi, pp. 367, euro 33), su cui ha già scritto Rossana Rossanda su il manifesto del 22 giugno, esemplifica nel modo migliore un filone importante della recente ricerca gramsciana: quello che parte da una duplice convinzione: che il pensiero del Gramsci del carcere abbia anchʼesso uno svolgimento diacronico che va studiato nel suo farsi; e che il motore della ricerca carceraria vada cercato nella volontà gramsciana di continuare – nelle forme e nei modi permessigli – la sua battaglia politica, continuando sia pure prudentemente la comunicazione col partito, avvalendosi di «codici» decifrabili da pochi, in primo luogo da Togliatti e Sraffa, ma anche dagli altri dirigenti del PcdʼI (e in parte da Tania e Giulia Schucht). Il libro è interessante anche perché costituisce la prima, vera «storia di Gramsci in carcere», ottenuta con un grande lavoro di incrocio dei carteggi e di molte altre fonti, spesso inedite.

È – quella di Vacca – una lettura che parte dalla costante ricerca di una comunicazionenascosta tra Gramsci e i suoi interlocutori e dunque corre spesso il rischio di proporre interpretazioni possibili ma non provate (a volte anche improbabili). Anche lʼautore viene colto dal dubbio e scrive che spiegare tutto sotto la chiave del codice per la comunicazione politica clandestina è riduttivo: «le lettere di Gramsci spaziano su temi complessi di storia della cultura e della filosofia della praxis, e sarebbe errato ridurne lo spessore alla politica in senso stretto».

Tenuto conto di questa avvertenza, il lavoro di Vacca è molto utile, pur promuovendo una interpretazione di Gramsci a volte troppo incline a valorizzare unilateralmente gli elementi di novità rispetto alla tradizione terzinternazionalista. Essa però giunge a due conclusioni di rilievo e condivisibili: in primo luogo, la liberazione del prigioniero poteva avvenire solo a livello di trattativa tra Stati, ma per lʼUrss essa non era una priorità politica su cui impegnarsi dando qualcosa in cambio a uno Stato fascista che giocava al rialzo; e ciò a prescindere dalle ombre sulla eterodossia di Gramsci, che certo non lo rendevano molto gradito a Stalin.

In secondo luogo, in carcere Gramsci procede a una «revisione del bolscevismo», ma «la sua posizione non è quella di uno scismatico che ormai si ponga al di fuori del comunismo sovietico, ma quella d’un comunista eterodosso che pensa si possa lottare dal suo interno per riformarne le fondamenta». Tanto è vero – Vacca lo prova in modo convincente – che egli vuole tornare in Urss per continuare la sua battaglia politica (qui si illudeva, evidentemente) e che lʼipotesi di soggiorno in Sardegna, una volta finita la pena detentiva, era per lui solo una «stazione di transito» verso quello che continuava a considerare il paese del socialismo.

Studi innovativi, ricerche collettive, ma anche polemiche. Da ultimo ha destato scalpore il libro di Luciano Canfora su Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno editrice, pp. 304, euro 14. Ne ha scritto Giorgio Fabre su Alias libri il 17 giugno 2012). Lʼautore affronta in una serie di saggi argomenti quali lʼinterpretazione del fascismo e di Croce; il maldestro Appello ai fratelli in camicia nera del 1936, la storia del lascito gramsciano e la gestione (politicamente sapiente, filologicamente riprovevole) che ne avrebbe fatto Togliatti; le vicende dellʼanarchico denigratore di Gramsci Ezio Taddei, nel dopoguerra troppo generosamente accolto fra le file del Pci; la storiografia comunista, bollata come «storia sacra» e produttrice di «storia falsa» (il primo a essere messo ingenerosamente sotto accusa è Spriano), e soprattutto uno dei cavalli di battaglia dellʼautore: la lettera scritta a Gramsci (ma anche a Terracini e Scoccimarro) da Grieco nel 1928, che crescente irritazione e sospetti causò nel prigioniero.

Dopo aver sostenuto per quasi un quarto di secolo che la lettera era stata falsificata dallʼOvra per «provocare» Gramsci, Canfora ora scrive che in realtà era stata scritta dal suo firmatario (e solo da lui), Ruggero Grieco: una «provocazione» anche in questo caso. Canfora non dice letteralmente che Grieco fosse un «traditore». Ma vi sono reali differenze, nelle circostanze date, tra essere provocatore, traditore e spia? Per conto di chi infatti Grieco avrebbe messo in campo le sue «provocazioni» se non per aiutare Mussolini a dividere gli avversari?

Indizi maldestri

Tutti gli indizi disseminati da Canfora infatti portano a far credere che Grieco fosse una spia. Tra gli «indizi», il fatto che egli scrisse una seconda lettera a Terracini in carcere (ritrovata di recente), cercando di «farlo parlare» di argomenti potenzialmente compromettenti; il fatto già noto che vi era allʼepoca negli alti vertici del PcdʼI una spia fascita mai scoperta; che Togliatti non nutriva simpatia verso Grieco; e che costui nellʼItalia liberata non fu più in primissima fila nei quadri dirigenti del Pci. Soprattutto Grieco sarebbe – per Canfora – lʼunico colpevole dellʼAppello ai fratelli in camicia nera che la Segreteria del PcdʼI rivolse nel 1936 alla «base» fascista per una riconciliazione nazionale su base rivoluzionaria e anticapitalista: un grave errore politico per cui Grieco pagò, anche per colpe non sue: sul n. 4 di Critica marxista, di imminente pubblicazione, Michele Pistillo contesta radicalmente le accuse a questo proposito mosse contro Grieco e Fabio Frosini smonta le tesi di Canfora sullʼinterpretazione gramsciana del fascismo (come Angelo Rossi avanza riserve su alcuni aspetti del libro di Vacca): a questi saggi rimando per eventuali approfondimenti.

A mio avviso, anche questa nuova tesi «in salsa Le Carrè» di Canfora non tiene. Le lettere del 1928 sono state scritte da Grieco, ma sicuramente per decisione più larga (se così non fosse, il «provocatore» sarebbe stato scoperto subito). Furono maldestre, ma non ebbero influenza sul processo contro i comunisti, non furono neanche messe agli atti. Ed è certo che la condizione psicofisica del prigioniero andò aggravandosi in carcere, il che spiega perché Gramsci sia tornato sulla lettera del ʼ28 con sempre più gravi sospetti, man mano che sfumavano le sue speranze di liberazione e di vita. Ma perché Grieco (e Togliatti) avrebbero scritto la lettera? Perché premeva loro comunicare, in primo luogo a Gramsci, che in Urss la battaglia contro lʼopposizione era finita con la vittoria della maggioranza di Stalin, e che per il PcdʼI (già in odore di trockijsmo per la lettera gramsciana del ʼ26) era fondamentale non continuare a scherzare col fuoco, insistendo nel contestare il nuovo corso. Questo era il messaggio «in codice». È molto probabile dunque che in merito alla «scellerata lettera» Gramsci si sia sbagliato: era un errore, una imprudenza, non un tradimento. Egli restò in carcere perché Mussolini non aveva alcuna voglia di liberarlo senza adeguata contropartita (anche propagandistica), e Stalin tale contropartita non era interessato a pagarla. 


13 dicembre 2012

Luciano Canfora: un nuovo libro tra falsa lettera e falso Grieco

di Ruggero Giacomini, Comitato Scientifico Marx XXI

Luciano Canfora non finisce di stupire. A pochi mesi dal suo ultimo libro - Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno editrice, Roma giugno 2012 -, eccone un altro praticamente sullo stesso argomento: Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937, Salerno editrice, ottobre 2012. Una fretta spiegabile forse con l’esigenza di portare nuovi elementi a supporto del proprio ragionamento, di rettificare alcune inesattezze e soprattutto rispondere ai propri critici, come si avverte già dalla citazione in apertura di Rossana Rossanda che aveva garantito per Grieco avendolo conosciuto, cui viene opposta l’autorità di Tucidide sulla poca attendibilità delle testimonianze di parte. Come è noto Canfora è stato a lungo convinto che la lettera, o meglio le lettere inviate nel 1928 da Grieco a Gramsci, Terracini e Scoccimarro in carcere a S.Vittore a Milano fossero un falso costruito dalla polizia politica fascista. Ha argomentato questa sua tesi nel 1989, in un’appendice al libro Togliatti e i dilemmi della politica edito presso Laterza, titolando Storia di una strana lettera. Sosteneva con tutta una serie di osservazioni e di riferimenti documentari che appunto le lettere erano state “fabbricate dall’Ovra” (163).

Il tema è stato poi ripreso e ampliato e posto circa vent’anni dopo al centro di un libro molto fortunato e riedito più volte, La storia falsa (Rizzoli, 2008), teso ad illustrare con alcuni esempi il ruolo della falsificazione di documenti nella storia. Più della metà del libro era dedicata all’analisi delle “false” lettere di Grieco. Muovendosi con agilità tra le fonti d’archivio e un’imponente letteratura, analizzando minutamente tutta una serie di dettagli e tirando e riannodando fili faceva vedere come la polizia politica fascista possedesse tutte le informazioni e le tecnologie necessarie e sufficienti per trasformare delle innocue lettere in un falso pericoloso, interpolandovi fraudolentemente proprie informazioni e affermazioni: “Così farcite – concludeva Canfora - le tre lettere diventavano comunicazioni di partito tra dirigenti latitanti e dirigenti in carcere. Una manna per chi volesse aggravare la posizione processuale dei tre” (p.215).

L’autore si presentava ferratissimo sul tema, avendo smascherato con prove inoppugnabili il falso papiro di Artemidoro. Solo che nel caso delle lettere di Grieco l’affastellamento di molti indizi e congetture non arrivava a quella prova che dà la sicurezza. Piuttosto il saggio era e resta un eccellente esercizio di scuola per dimostrare come fosse possibile alla polizia fascista realizzare in quella forma quelle lettere. Ed anche una dimostrazione insuperabile che nelle lettere non c’erano notizie che la polizia già non conoscesse, tanto che appunto avrebbe potuto scriverle benissimo un funzionario di un ufficio di polizia all’uopo incaricato.

Naturalmente c’è una differenza notevole tra la possibilità di creare un falso documento e la confezione effettiva di esso, la distanza che separa una tesi che può fare da guida a una ricerca e la effettiva sua dimostrazione. Tanto più che il movente era tutt’altro che evidente: a che pro infatti la polizia segreta avrebbe dovuto mettere in piedi un tale complicato meccanismo per far sapere a se stessa… quello che già sapeva? La risposta che ancora oggi Canfora continua a dare è che dovessero funzionare come prove d’accusa da usarsi in tribunale contro gli imputati. Risposta che non regge, perché non furono usate, né in istruttoria né tra i capi di accusa né nella sentenza al processo. Per questo già a commento del Togliatti e i dilemmi della politica Giuseppe Fiori in un convegno a Cagliari nel ‘91 per il centenario della nascita di Gramsci aveva osservato che Canfora in un libro pur godibilissimo aveva “messo in piedi una gigantesca gru... per sollevare un turacciolo”.

Che la sua dimostrazione potesse avere delle falle, Canfora se ne è reso conto con la comparsa nel 2009 su “Studi storici” del saggio di un giovane studioso, Leonardo Pompeo D’Alessandro, su I dirigenti comunisti davanti al Tribunale Speciale. Basato su nuovi documenti d’archivio ha messo in crisi alcuni presupposti basilari della tesi di Canfora.

Non è il caso qui di riprendere le novità di quel saggio, passato senza clamore ma non per questo sfuggito agli studiosi. Basti citare a mo’ di esempio il ritrovamento di una cartolina di Grieco a Scoccimarro del maggio 1927 con firma in calce “Ruggero”, che smentiva la convinzione di Canfora che tale firma nelle lettere non avesse precedenti; come pure la prova dell’esistenza del “gruppetto” di opposizione in Francia “Treint-Girault”, cui faceva riferimento nelle lettere Grieco e che invece secondo Canfora era una palese disinformazione del falsario.

Scosso rudemente nelle sue precedenti certezze, Canfora non si è però dato per vinto. Continuando a focalizzare l’attenzione sulle lettere di Grieco, ha modificato la vecchia tesi, senza dichiararla per altro superata ma non insistendovi più, proponendo un approccio nuovo e rovesciato: cioè a dire che se non sono false le lettere di Grieco, allora il falso dovrebbe essere Grieco. Il fatto singolare è che nell’introdurre questo nuovo approccio in Gramsci in carcere e il fascismo e cucendo addosso a Grieco il vestito inedito di sospetta spia al servizio del fascismo, un altro Silone per intenderci, Canfora ha usato toni quasi da rappresaglia, come a dire ai sostenitori dell’autenticità delle lettere di Grieco: ve la siete cercata voi.

“L’ipotesi di una riscrittura provocatoria” delle lettere, ha scritto egli infatti con riferimento alla precedente sua tesi, “certo spiegherebbe l’affollarsi di tante improprietà e stranezze…. Ma, se invece si vuole ritenere che le tre lettere siano autentiche, la questione della palese insostenibilità del contenuto, cioè appunto della sua ‘stranezza’, si riapre; o, per meglio dire, l’effetto provocatorio ne esce rafforzato, magari arricchito da un ammiccamento tra le righe”(108).

Su questo tono quasi da spedizione punitiva ritorna nell’ultimo libro, dove ritorce sui presunti cultori della storia sacra – difensori dell’autenticità delle lettere di Grieco – la responsabilità di aver provocato… la dissacrazione. In questa nuova versione protagonisti centrali non sono più il capo della polizia Bocchini e il suo braccio destro all’Ovra Nudi protesi a fabbricare il falso per incastrare Gramsci e gli altri, ma è lo stesso Grieco che svolge il compito senza affaticare inutilmente gli uffici di polizia.

Canfora ha una prodigiosa memoria ed è lettore veloce e instancabile oltre che narratore accattivante. Solo che la fretta e la foga polemica fanno sì che possa capitare anche a un esperto come lui di prendere delle cantonate.

E’ il caso di “Ugo”, che doveva curare l’espatrio di Gramsci dall’Italia nei giorni in cui veniva invece arrestato e che in Gramsci in carcere e il fascismo Canfora identifica con l’agente dell’Ovra Luca Ostèria, imputando a Grieco di aver affidato la salvezza di Gramsci a un personaggio di tal fatta (p.58); mentre ora, in Spie, URSS, antifascismo, scopriamo – ma era già in letteratura – che è Carlo Codevilla, già segretario di Gramsci a Vienna per incarico dell’Internazionale comunista e poi una lunga storia di agente dei servizi russi (pp.40-5). Non proprio la stessa cosa.

Canfora si muove con la solita portentosa perizia nel vasto e insidioso mondo delle testimonianze, conosce le difficoltà della memoria, le rielaborazioni e le omissioni consce e inconsce, la tendenza nel tempo a sovrapporre e confondere circostanze diverse. Dà prova tuttavia di una manifesta tendenziosità, screditandone alcune e privilegiandone altre non sempre sulla base di elementi oggettivi, ma piuttosto per l’accordarsi o meno con le tesi che vuole sostenere.

Una delle circostanze su cui addensa rafforzati sospetti in questo libro riguarda il mancato espatrio di Gramsci prima dell’arresto, e grande importanza egli dà a una tarda testimonianza di Gustavo Trombetti che fu compagno di cella di Gramsci in un momento difficile a Turi. Quella di Trombetti è per Canfora la testimonianza di Gramsci, scompaiono di fatto la mediazione e la soggettività del testimone. Seguendo Trombetti e per corrispondere alla testimonianza, Canfora fa partire Gramsci da Roma per andare a Milano diretto alla riunione della Centrale da cui sarebbe poi dovuto passare all’estero, non la domenica 31 ottobre 1926 – come indicano le testimonianze distinte e concordi della cognata Tania e di Camilla Ravera – ma il sabato 30. Avrebbe preso il treno diretto delle 23,40, per arrivare a Milano l’indomani alle 15,10. In questo modo egli può far riprendere a Gramsci il treno per Roma delle ore 20,25, che arrivando a Bologna alle 23,50 era ancora in tempo per far salire quei fascisti col pugnale insanguinato che secondo Trombetti Gramsci aveva visto nel ritorno (79-80). E’ vero che così la testimonianza di Trombetti è perfettamente confermata, ma è una toppa che non copre il buco. A parte le testimonianza retrocesse, un Gramsci arrivato a Milano alle 15,10 di domenica avrebbe dovuto restarsene in stazione impalato per qualche ora, in attesa dell’attentato di Bologna che avvenne alle ore 17,40, che ne seguisse la reazione dei fascisti e che qualcuno gli dicesse finalmente di tornare a Roma. Plausibile?

Tra l’altro tutta questa parte rischia di sminuire le osservazioni interessanti sullo studio di Gramsci del fascismo e del nazismo, che pure egli viene conducendo. Canfora polemizza ripetutamente e con enfasi con supposti sostenitori della “storia sacra” del Pci, ma non è tanto chiaro per la verità a chi si riferisca. Non a Vacca, credo, istituzionalmente deputato come presidente dell’Istituto Gramsci, ma da tempo impegnato in uno sforzo commovente per fare di Gramsci un “eretico” di tutto il comunismo storicamente esistito, ammiratore della società dei consumi americana e meritevole di figurare tra i padri nobili del PD. Forse si riferisce a Pistillo suo contraddittore principale in tema di autenticità o meno delle lettere di Grieco, cui per altro Canfora riconosce la primigenia nell’ipotesi del falso, o a cosiddetti “giovani leoni”. Ma anche Canfora con la tesi delle lettere falsificate si era attirata l’accusa a suo tempo degli storici craxiani di voler difendere la storia sacra; ed anche oggi c’è chi lo rimprovera perché non denigra Togliatti, visto che il PCI non c’è più ed è così facile sparargli addosso. E’ il pensiero unico del politicamente corretto che oggi è dilagante, non pare proprio la storia sacra.

Ci piacerebbe da parte di Canfora una reazione meno suscettibile e infastidita ai contraddittori, specie quando a muoverli al fondo è la stessa preoccupazione di ricerca della verità. Non pare molto elegante ad esempio riferirsi a uno studioso come Liguori, che aveva benevolmente scherzato nel “Manifesto” su un Canfora “in salsa Le Carrè”, dicendolo “un tale, (che) senza riflettere, ha parlato nei mesi scorsi di un ‘Gramsci in salsa Le Carrè’” (89). Forse se avesse detto Holmes, benevolmente citato e forse non a caso da Canfora in questo libro, sarebbe stato un’altra cosa.


12 gennaio 2013

Gramsci, mille e una eresia

di Luigi Cavallaro

Sicuramente, un «anno gramsciano» il 2012: cioè un anno di polemiche intorno alla figura di Antonio Gramsci. Alimentate da saggi e ricerche che hanno avuto ampia eco sulla stampa quotidiana, esse hanno dato conferma di una perdurante attualità del comunista sardo che di per se stessa necessiterebbe di una spiegazione, essendo ormai trascorsi ben settantacinque anni dalla sua morte e oltre venti dall'eclissi del movimento internazionale di cui il partito che egli aveva concorso a fondare aveva costituito peculiare ed importante espressione.

Beninteso, non è che la contesa su Gramsci sia in sé una novità. Come documenta la preziosa ricostruzione di Guido Liguori, almeno dal secondo dopoguerra il dibattito pubblico ha visto contrapporsi due diverse letture dell'opera gramsciana: da un lato, c'è stata quella di parte comunista, che si è accompagnata alle diverse «svolte» politiche e culturali messe in atto dal Pci nella sua storia settantennale e che in Gramsci ha visto di volta in volta il «capo della classe operaia», il «martire antifascista», il «padre della politica di unità» del secondo dopoguerra, l'ispiratore della «via italiana al socialismo» e, giù giù, il critico ante litteram del totalitarismo sovietico, l'alfiere dell'«eurocomunismo» e perfino il pensatore di un altro comunismo possibile dopo la crisi dei «socialismi reali»; dall'altra parte, c'è stata la lettura liberale, liberalsocialista e lato sensu «azionista», che con accenti (e soprattutto in tempi) differenti ha proposto ora un Gramsci irriducibilmente, inemendabilmente e totalitaristicamente «comunista», dunque irrecuperabile alla causa della democrazia, ora invece un Gramsci più intellettuale che politico, costitutivamente «eretico» e addirittura «liberale», quando non proprio «libertario».

Un approdo estremo

La peculiarità delle polemiche dell'anno scorso, innescate specialmente dalla pubblicazione di due saggi di Franco Lo Piparo e Giuseppe Vacca, sta semmai nell'oscillazione fra due sponde che appaiono egualmente inattendibili. Da una parte, infatti, si insiste (è il caso di Vacca) nell'accreditare uno scollamento di Gramsci rispetto al leninismo, quale almeno si delinea dopo la svolta staliniana del '29, salvo precipitare nell'assurdo di supporre che Palmiro Togliatti e Felice Platone, negli anni compresi tra il 1947 e il 1949 (e dunque contemporaneamente al massimo dispiegarsi della più dura ortodossia staliniana), avrebbero dato alle stampe le riflessioni di un «eretico» sospetto di filotrockismo, facendone addirittura lo strumento intellettuale principale per pensare «la formazione e la politica della nuova classe dirigente italiana», come recitava la fascetta editoriale apposta alla prima edizione einaudiana delle «Note sul Machiavelli» (1949). Dall'altra parte, invece, si pretende (è il caso di Lo Piparo) di svolgere fino all'estremo il tema della presunta «eresia» gramsciana in direzione di un approdo nientemeno che al «liberalismo» (sia pure nella forma ossimorica di un «comunismo liberale»), salvo dover supporre che, non potendosi dare alle stampe la riflessione compiuta di uno che, in realtà, dal comunismo si era distaccato definitivamente, Togliatti e Platone avrebbero addirittura occultato o distrutto qualcuno dei quaderni gramsciani: un'ipotesi che la quasi totalità degli studiosi gramsciani - con Gianni Francioni in testa - ha definito «destituita di ogni fondamento».

Che si tratti in entrambi i casi di interpretazioni insostenibili non è difficile mostrare, e l'attenta ricostruzione del dibattito da parte di Liguori (che non rinuncia, beninteso, a dispiegare tra le righe la sua peculiare interpretazione del «ritmo del pensiero in isviluppo» del pensatore sardo) offre più d'un ausilio in proposito. In realtà, Gramsci è un leninista, per i motivi che a suo tempo aveva spiegato Togliatti e che Carmine Donzelli è tornato nitidamente a ribadire nella «Prefazione 2012» alla riedizione del suo commentario alle note gramsciane sul Machiavelli.

Di più: giusta la decodifica compiuta ormai vent'anni addietro in un importante studio di Nicola De Domenico, bisogna riconoscere che Gramsci si mostra sostanzialmente consentaneo anche rispetto alla «svolta» staliniana del 1929, almeno per come gli si squaderna dopo aver appreso da una rivista inglese (inviatagli dal solito Sraffa) della discussione filosofica suscitata dal discorso di Stalin agli specialisti agrari - un discorso che ai suoi occhi costituisce il prodromo del complemento egemonico necessario rispetto al varo del primo piano quinquennale. Ne fa fede tutta l'elaborazione del quaderno 11 (a cominciare dal «magnifico saggio» con cui si sarebbe poi aperto il primo volume dell'edizione tematica einaudiana) e della seconda parte del quaderno 10, in cui non soltanto Gramsci spiega come i «recenti sviluppi» della discussione filosofica in Urss abbiano superato l'inconsistenza teoretica e il codismo politico dei «destri» (donde la critica a Bucharin), ma soprattutto come essi siano in grado di portare la filosofia della praxis a «superare», incorporandole, le filosofie precedenti (e qui si situa il confronto con Croce, che - dal versante liberale - analoga operazione aveva tentato rispetto al marxismo).

Il dissidio di Gramsci rispetto alle posizioni assunte dal Centro estero del Pcd'I, così come dalla Terza Internazionale, concerne piuttosto il modo in cui «tradurre» nazionalmente l'esperienza sovietica, e si appunta sulla linea del «socialfascismo», che a Gramsci pare settaria e controproducente: questo ci dicono le testimonianze dell'epoca, prima fra tutte il rapporto al partito redatto nel 1933 da Athos Lisa (già recluso con Gramsci a Turi). Sotto questo profilo, anzi, bisogna riconoscere che il confronto che i Quaderni instaurano con Croce rappresenta la premessa per tradurre in lingua nazionale gli insegnamenti del «più grande teorico moderno della filosofia della prassi» (Lenin, certo, ma così come interpretato da Stalin): le categorie di «storia etico-politica» e di «rivoluzione passiva» sono infatti decisive per il lavoro di rielaborazione cui Gramsci si dedica a partire dalla primavera del 1932 e che - attraverso la riscrittura di appunti già presi e la stesura di nuovi testi - porta alla compiuta sistemazione della teoria degli intellettuali (quaderno 12), del partito (quaderno 13) e delle forme di una possibile rivoluzione passiva in Occidente (quaderno 19), non senza che vengano dedicate chiose assai critiche a chi - come Ezio Riboldi, parlamentare comunista anche lui carcerato a Turi - pretendeva di rinvenire dell'America fordista il «faro» della nuova civiltà (quaderno 22).

Lettere critiche

Naturalmente, al dissidio politico si aggiunsero rancori e diffidenze maturate sul piano dei rapporti personali. Gramsci non dovette mai digerire né il rifiuto di Togliatti di inoltrare nel '26 la lettera scritta al gruppo dirigente del Pc sovietico, né che Togliatti non avesse impedito che gli si recapitasse la «famigerata lettera» firmata Ruggero Grieco, né ancora che il partito tentasse di accreditarsi sulla stampa internazionale come artefice dei tentativi di liberazione, determinandone (o comunque concorrendo a determinarne) rallentamenti o fallimenti. Ed è proprio l'oggettività del dissidio con il Centro estero del Pcd'I che può giustificare entro certi limiti una lettura «in codice» della famosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio 1933 per la moglie Giulia: nei limiti in cui quella lettera testimonia di un giudizio critico non certo nei confronti dell'orizzonte politico comunista (come ha sostenuto implausibilmente Lo Piparo), ma più semplicemente dei suoi compagni di partito, giudicati inaffidabili e fors'anche non troppo interessati alla prospettiva di una sua liberazione. Del resto è la stessa Tania che, trasmettendo la lettera a Sraffa (affinché la inoltrasse al Centro estero), la definì «un capolavoro di lingua esopica», e scrivendone a Gramsci disse di aver compreso perfettamente che i riferimenti della lettera a Giulia «non si riferiscono punto a ella». E anche se è vero che a tutt'oggi nessuna delle decodifiche proposte può andare esente da critiche, non si può non riconoscere che nessuna interpretazione letterale di quella lettera appare ormai ulteriormente sostenibile.

Resta in ogni caso il fatto che, così come è inverosimile pensare a un Gramsci approdato al liberalismo (e magari pentitosi davanti a Mussolini e convertito al cattolicesimo in articulo mortis: anche codeste scempiaggini è toccato leggere sulle pagine sedicenti «culturali» di Repubblica e del Corriere della Sera), perfino illogico è supporre che Togliatti e Platone, nell'immediato dopoguerra, con Stalin al massimo della sua potenza, si dedicassero a un monumentale lavoro di sistemazione del lascito intellettuale di un... antistalinista! O ancora che nel 1937, alle soglie del Grande Terrore, Togliatti potesse permettersi di appellare quel medesimo antistalinista «capo della classe operaia italiana» senza tema di finire per ciò solo sotto un metro di terra.

Semmai, quella di Togliatti (senza il quale, nota a ragione Liguori, «il Gramsci che tutto il mondo conosce forse non sarebbe mai esistito») sembra la partita di un raffinato giocatore di scacchi. Che capisce a un certo punto che deve chinare il capo e rinunciare a quella «traduzione in lingua nazionale» che pure era necessaria affinché la rivoluzione in Occidente non restasse un flatus vocis, ma si preoccupa al contempo che la «via giusta» continui ad essere dissodata teoreticamente dal carcere dal «capo della classe operaia italiana», al quale garantisce supporto intellettuale e affettivo, con l'intento di tornare a percorrere quella stessa via quando i tempi fossero stati più propizi.

Letta in quest'ottica, la sua «famigerata» lettera a Dimitrov del 25 aprile 1941 (nella quale si legge che «i quaderni di Gramsci contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un'accurata elaborazione» perché in «alcune parti potrebbero essere non utili al partito»), lungi dal costituire la prova di una proditoria volontà censoria nei confronti dell'antico compagno, come invece sostenuto da Lo Piparo, potrebbe spiegare il lavoro di «smontaggio» che l'edizione tematica dei Quaderni perpetrò, ad esempio, sulle tesi gramsciane circa il fascismo: perché - come ha rimarcato ultimamente anche Luciano Canfora - di certo era estranea alla koiné cominternista l'idea gramsciana che le riforme di struttura attuate dal corporativismo fascista, a cominciare dall'accresciuto peso dello stato nella direzione e gestione dei processi economici, si muovessero oggettivamente (ossia in forma «passiva») nella stessa direzione della pianificazione sovietica.

Che questa per Gramsci fosse la «traduzione» corretta di Lenin non pare francamente dubbio: vi sono ampie evidenze testuali che egli concepisse l'egemonia in chiave totalitaria, seppure in un'accezione nutrita dalla fiducia che fosse possibile costruire una «società regolata» in cui la distinzione tra «società politica» e «società civile» venisse meno in grazia di un «consenso spontaneo» alle dinamiche ideologiche che la organizzano (ciò che invece il fascismo era costitutivamente incapace di fare).

Un revenant

D'altra parte, se è vero che l'accusa che è sempre stata rivolta da parte liberale all'assetto dei rapporti di produzione venuto fuori dalla «costituzione economica» degli anni '30 è la sua potenziale vocazione totalitaria (una vocazione che in Italia, ma non solo, avrebbe toccato il suo apice a metà degli anni '70, per poi dileguare nei decenni successivi sotto i colpi della restaurazione capitalistica e della «modernizzazione» post-sessantottina), possiamo forse comprendere le ragioni profonde di questa continua riapparizione degli «spettri di Gramsci». Se ha ragione Derrida a suggerire che non c'è fantasma né divenir-spettro dello spirito senza un «ritorno al corpo», senza cioè un'«incorporazione paradossale», potremmo infatti azzardare l'ipotesi che è solo il residuo del potere statuale tuttora «incorporato» nelle strutture pubbliche sopravvissute alla grande stagione privatizzatrice dell'ultimo trentennio a permettere la continua riapparizione degli spettri di Gramsci e con lui di Marx e Lenin, vanificando così il «lavoro del lutto» della borghesia finanziaria e degli intellettuali suoi lacchè.

Si dovrebbe aggiungere che quel potere è oggi come mai necessario per tornare a reprimere le pretese di dominio del capitale finanziario e che pensare di farne a meno in nome di fiabesche «autorganizzazioni dal basso» equivale nei fatti a rinunciare alla stessa possibilità di trasformazione della società e a ridurre la propria azione «rivoluzionaria» all'agitazione propagandistica circa l'imminenza di un fantomatico «crollo» del capitalismo. Ma al riguardo proprio Gramsci ha detto parole definitive, e l'originale suona sempre meglio della parafrasi.


18 febbraio 2013

Una spy-story colma di congetture irrisolte

di Guido Liguori | da il Manifesto

SAGGI «L'ENIGMA DEL QUADERNO. LA CACCIA AI MANOSCRITTI DOPO LA MORTE DI GRAMSCI» DI FRANCO LO PIPERO

Un saggio tinto di giallo. Protagonisti sono Sraffa e Togliatti, colpevoli di aver fatto sparire un quaderno del carcere

Da qualche tempo ha corso negli studi gramsciani quella che potremmo definire una «storia congetturale»: una ricostruzione dei fatti basata su deduzioni non verificabili. A ciò si è accompagnata e sovrapposta una lettura dei testi fondata sulla convinzione che in essi non si dica ciò che letteralmente si legge, ma vi siano messaggi nascosti. Il che a volte è vero: si tratta però di vedere quanto esteso possa essere il ricorso a questo tipo di lettura «esopica», come si dice ripetendo una espressione della cognata di Gramsci, Tania. Si tratta di due metodologie - storia congetturale e lettura esopica - che hanno prodotto anche esiti interessanti, ma a cui bisogna accostarsi con cautela, proprio perché i loro risultati non poggiano su basi certe. Alla ricerca di un «Gramsci sconosciuto» è tra gli altri Franco Lo Piparo, che torna in libreria con un lavoro di taglio investigativo: L'enigma del quaderno.
La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pp. 161, euro 18).

Se si parla di taglio investigativo non è per sminuire il libro, ma perché fin dal titolo è l'opera stessa che si propone come un «giallo» (viene anche citato E. A. Poe) ed è l'autore a creare un'atmosfera da spy story , dipingendo alcuni dei «personaggi» (così li definisce, come in una fiction ) della vicenda gramsciana come protagonisti di un romanzo di Le Carré. Un problema di etichetta Il caso più eclatante è quello di Sraffa, ritratto da Lo Piparo come «agente segreto, di alto rango, del Comintern. È una affermazione impegnativa. Essa viene forse fatta perché negli Archivi di Mosca è stato trovato un documento che rende palese questo lato nascosto del grande economista? Niente di tutto ciò. È solo una «congettura», che scaturisce soprattutto dal fatto che essa bene si colloca nel mosaico interpretativo di Lo Piparo. È possibile, e forse probabile, che Sraffa fosse un «militante coperto» del Pcd'I, già incaricato di gestire i finanziamenti provenienti da Mosca. Ed erano tempi, indubbiamente, in cui un comunista di qualsiasi nazionalità si sentiva anche un militante del Comintern, di quel partito comunista mondiale non ancora del tutto russocentrico. Ma da qui a farne una «agente segreto» ce ne corre. Può anche essere, ma ci vogliono i documenti per affermarlo.

La tesi del libro è la seguente: oltre ai trentatré quaderni noti ve ne sarebbe stato un altro fatto sparire per il suo contenuto imbarazzante. Sarebbe stato scritto nella clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci è dal 1935 al 1937, anno della morte. Da dove nasce questa tesi? In primo luogo dal fatto che sui quaderni le etichette poste da Tania per numerarli mostrano incongruenze e in qualche caso sono coperte da altre etichette con diversa numerazione. In secondo luogo, perché i «personaggi» della vicenda parlano o scrivono a volte di trenta, a volte di trentadue, a volte di trentaquattro quaderni. Lo Piparo respinge le ipotesi che Tania abbia pasticciato nel numerare i manoscritti e che i protagonisti della vicenda fossero stati approssimativi nell'indicare il numero dei quaderni perché in altre e più importanti faccende affaccendati, oltre che per il fatto che i quaderni sono a numerazione variabile, a seconda che si sommino in tutto o in parte i ventinove teorici, i quattro di sole traduzione, i due bianchi e quello usato da Tania per un indice provvisorio.

Lo Piparo cerca di seguire la storia dei manoscritti dopo la morte di Gramsci, formula ipotesi (interessanti) sui loro percorsi e sui loro tempi di arrivo a Mosca, a tutt'oggi non chiari. Egli ritiene che Sraffa, sapendo che un quaderno aveva contenuti pericolosi (accuse a Togliatti? critiche allo stalinismo? una riabilitazione del fascismo?), lo avrebbero fatto sparire. Non essendo in grado di portare prove, l'autore ripete più volte frasi del tipo: «è poco verosimile», «non dovrebbe essere troppo azzardato congetturare», «le cose potrebbero essere andate in questo modo». Un castello di congetture, dunque.

Molti sono gli episodi che Lo Piparo interpreta in un modo forzato perché convalidino la sua tesi. Un esempio: se il 7 luglio 1937 Tania scrive a Sraffa di aver «consegnato i quaderni (tutti quanti): ed anche il catalogo che avevo iniziato», il nostro autore legge la frase così: «Significa: ho eseguito l'ordine, non ho trattenuto nessun quaderno e, naturalmente, non ho potuto consegnare quelli che avete portato con voi». È una interpretazione molto esopica, troppo esopica, a mio avviso: un puro volo di fantasia. Giudichi il lettore se vi è qualche nesso tra la frase scritta da Tania e la lettura che ne dà Lo Piparo. A me sembra solo che Tania, dopo una discussione su quanti quaderni consegnare «ai compagni», tranquillizzi Sraffa di aver seguito le sue indicazioni e di non averne trattenuto alcuno. Nell'impossibilità di accennare a tutti i passi di questo tipo, di cui il libro è pieno, dirò i motivi principali per cui l'ipotesi di Lo Piparo mi sembra da respingere.

Primo, in tutta la sua prigionia Gramsci si è dimostrato attentissimo a non scrivere niente che potesse divenire un'arma nelle mani del fascismo - è qui l'origine di alcune «scritture esopiche». Perché nella Quisisana sarebbe venuto meno a questa norma, scrivendo un quaderno «esplosivo»? La polizia poteva in ogni momento confiscare i suoi appunti. Il «linguaggio esopico» su cui insiste Lo Piparo serve soprattutto a Gramsci per non farsi portar via i quaderni, come esplicitamente Tania scrive alla sorella Giulia, il 5 maggio 1937: «è riuscito a tenerli con sé (I QUADERNI) scrivendo in linguaggio esopico». Tania si riferisce al pericolo derivante da un sequestro della polizia fascista. Dilatare il senso dell'«esopico» e affermare che tutti i quaderni sono una scrittura esoterica a me sembra fuorviante.

Secondo, perché, nella sua opera di continua e faticosa riscrittura, Gramsci non avrebbe lasciato altri segnali di una svolta politica tanto clamorosa? Il quaderno scomparso sarebbe un corpo estraneo nel contesto delle duemila pagine (a stampa) degli appunti carcerari. Una cautela postuma.

Terzo, il quaderno mancante potrebbe accusare Togliatti. Si dimentica che era Gramsci a essere sospettato di trockijsmo, era stata la sua memoria a dover essere protetta e «salvata» dalla scomunica postuma. La lettera a Dimitrov che Togliatti scrive il 31 aprile 1941, affermando che i quaderni andavano curati per non essere usati contro i comunisti, indica la coscienza del fatto che il marxismo di Gramsci era molto diverso dallo stalinismo e che quindi la loro pubblicazione era un problema. Che sarà risolto con l'edizione tematica, che cercava di rendere meno dirompente la incompatibilità tra filosofia della praxis e Diamat.

Eppure Togliatti avrebbe potuto rinunciare a pubblicare del tutto Gramsci, e far sparire non solo il presunto trentaquattresimo quaderno, ma anche «gli altri» trentatré, seppellendoli negli archivi del Comintern. Quarto , se Togliatti sa già dal luglio 1937 che deve far sparire un quaderno, perché non lo distrugge a Parigi (dove, secondo Lo Piparo, Sraffa glielo porta dopo averlo sottratto a Tania)? Perché, tornata in Urss, Tania - che scrive anche direttamente a Stalin sulla gestione dei quaderni - non denuncia la scomparsa del quaderno scomodo? Perché Togliatti non distrugge il quaderno pericoloso almeno nel 1941, dopo la morte di Tania, quando legge e rilegge i manoscritti di Gramsci? Perché lo riporta in Italia (è l'ipotesi di Lo Piparo), decide di farlo sparire o lo fa sparire, ma continua a parlare pubblicamente di trentaquattro quaderni?

La spiegazione di Lo Piparo per cui ancora nel 1948 Togliatti e Platone sbagliano il numero dei quaderni indicandone trentadue nella introduzione al primo volume dell'edizione tematica presso Einaudi («si preferisce puntare sulla disattenzione dei lettori e degli studiosi e continuare a usare il numero canonico trentadue ») è francamente incredibile. Non è più ovvio pensare che sia stato un errore causato dalla ripresa letterale della relazione fatta da Platone nel'46 per Rinascita? Senza nuovi ritrovamenti le congetture di Lo Piparo non paiono sufficienti a ipotizzare un quaderno che non abbiamo e la spinta a «immaginarlo» sembra motivata soprattutto dal rinnovato tentativo di dimostrare che Gramsci era (diventato) liberale. Ma l'autore sardo è tanto grande da trascendere la sua stessa parte politica e nutrire anche culture diverse: lo ha scritto Togliatti già nel 1964, non vi è bisogno di inventarsi un Gramsci che non esiste per sentirsene almeno in parte eredi.


28 febbraio 2013

Gramsci ridotto a una banale storia di spie

di Gianni Fresu | da www.giannifresu.it

È oramai appurato, in Italia esiste una categoria di studiosi specializzati in indagini sulla presunta conversione politica, quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci ai paradigmi del liberalismo. È il caso dell’ultima fatica di Franco Lo Piparo, incentrata sulla misteriosa sparizione di un quaderno del carcere. Lo Piparo emette un trittico di sentenze inappellabili su ragioni e responsabili della scomparsa: manca un quaderno; l’ha fatto sparire Togliatti; in esso Gramsci ripudia il comunismo e il suo partito. Non si tratta di un saggio storico, ma di una vera e propria spy story per la cui redazione l’autore afferma di essere ricorso a una «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Ho letto tutte le 140 pagine, più appendice, ma francamente di fatti reali non ne ho trovati, in compenso ho riscontrato molta fantasia, associata a un ferreo pregiudizio di condanna che a mio modesto parere ha anticipato e guidato, non seguito, l’indagine.

Tutte le contraddizioni sul numero dei Quaderni, relative a documenti e testimonianze discordanti, assai plausibili tenuto conto della clandestinità sotto il fascismo e poi dalla disorganizzazione seguita alla guerra, sono qui utilizzate come prova di un reato per il quale esistono però solo indizi. L’intero lavoro si basa sull’interpretazione “creativa” di lettere e documenti: in alcuni casi si cerca un significato recondito ed equivoco ad affermazioni fin troppo evidenti, in altri, magari rispetto a lettere scritte con linguaggio cifrato, per ovvie ragioni di sicurezza, si da un’interpretazione certa e univoca. Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le tesi dell’autore sono utilizzate come prova della sua sentenza. La struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa da nascondere, il responsabile è Palmiro. A dominare tutte le valutazioni sulle “stranezze” ci sarebbe la malafede del gruppo dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i depistaggi orditi con la complicità di moglie, cognata e amico strettissimo (Piero Sraffa) del povero Gramsci, tutti agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Le contraddizioni però non mancano. Secondo l’autore, Sraffa e Tania avrebbero giocato una «partita a scacchi»: il primo «per venire in possesso dei quaderni prima che altri potessero leggerli e sfruttarne l’eventuale carica politica»; la seconda invece per «onorare l’impegno preso col cognato di fare pervenire i quaderni alla moglie per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia». Anche quest’affermazione di Lo Piparo è assai strana. Se Tania era, come lui afferma, un agente segreto sovietico messo da Stalin alle calcagna di Gramsci per controllarlo, perché sarebbe stata interessata a «onorare l’impegno con il cognato» e non quello con i suoi superiori gerarchici di cui Sraffa sarebbe stato emissario? Eppure, in altre parti del libro, Lo Piparo non ha nessun dubbio su questo ruolo e arriva a scrivere: «Tania lavora nei servizi sovietici e non può non essere stata addestrata al lavoro di intelligence».

Anche ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche al comunismo – ipotesi contraddittoria rispetto alla struttura dell’opera e al metodo di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile, anzi vale l’esatto contrario? Secondo l’autore il quaderno mancante all’appello fu scritto nella clinica dopo la scarcerazione, ne è tanto convinto da affermare: «Sraffa, Gramsci vivo, sarà stato a conoscenza [del Quaderno] perché dei suoi contenuti i due amici avranno discusso nei colloqui dell’ultimo anno». Anche in questo caso non si comprende in base a quali documenti l’autore possa essere giunto a una tanto perentoria conclusione.

Ecco un’altra affermazione contraddittoria di Lo Piparo: «È credibile un Gramsci che, fuori dal carcere e senza esplicite costrizioni censorie, non abbia sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue riflessioni e deduzioni teoriche su quanto l’amico Piero gli andava raccontando degli sviluppi del comunismo?» Verrebbe da pensare che in carcere Gramsci non potesse scrivere criticamente del comunismo a causa della polizia fascista, mentre in clinica avrebbe avuto maggiore libertà. Forse Mussolini era sullo stesso fronte della barricata con Togliatti e Stalin per impedire a Gramsci di parlar male del comunismo? A suo dire, Togliatti, grazie alla «catena comunicativa» di Tania e Sraffa, sapeva della disistima nei suoi confronti di Gramsci, perché lo avrebbe ritenuto responsabile della famosa lettera di Grieco e delle «intempestive» campagne internazionali di stampa in suo sostegno.

Anche in questo caso l’autore si guarda bene dal provare le sue affermazioni, limitandosi a dire «Togliatti era stato escluso dalla cura dei Quaderni». In realtà Gramsci, in carcere, aveva interrotto qualsiasi comunicazione diretta con i quadri del partito e del Comintern per non apparire più un dirigente comunista in attività e con alte responsabilità, per questo ritenne inopportuna la lettera di Grieco. L’accusa principale sarebbe riconducibile a un dissidio insanabile tra Gramsci e Togliatti rispetto alla linea assunta dal Comintern con il socialfascismo e all’«appiattimento» del partito italiano. In realtà l’autore dimostra di aver visionato le etichette dei Quaderni e studiato le incongruenze sulla loro numerazione, ma si è guardato bene dallo studiare dinamiche e storia del comunismo italiano e Internazionale. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto ad esempio che l’appiattimento in realtà non era tale, e anche quando, dopo interventi pesantissimi da Mosca, si determinò il suo allineamento, ciò fu dovuto all’impossibilità di rompere i rapporti in una fase drammatica, con tutto il suo gruppo dirigente (compreso il capo) in carcere, il trionfo interno e internazionale della dittatura fascista, l’esilio dei superstiti.

Quando, al VI Congresso del Comintern del 1928, fu adottata la linea del «socialfascismo» (criticata da Gramsci) e Bucharin venne liquidato per la sua opposizione, proprio Togliatti fu l’unico membro dell’Esecutivo a intervenire, nel gelo e nel silenzio più assoluto, gli tolsero addirittura la parola, in sostegno alla sua relazione. Nell’altrettanto famoso VII Congresso del luglio 1935, che portò alla condanna del socialfascismo e spianò la strada alla politica dei «Fronti popolari» (ossia la linea di Gramsci) proprio Togliatti, insieme a Dimitrov, fu il protagonista della svolta, anticipando una posizione poi perseguita con continuità fino al ritorno a Salerno nel ‘44. Tutte cose di cui uno studioso dovrebbe tener conto, nemmeno sfiorate da Lo Piparo, affaccendato com’è a cercare vanamente il corpo del reato. Sicuramente, questa la mia conclusione, egli trova tanto fumo ma nessuna pistola.


29 marzo 2013

L'invenzione di un Gramsci dimezzato

di Luigi Cavallaro

Una militanza comunista da cancellare. Una tavola rotonda sull'autore dei «Quaderni dal carcere» a partire dall'ultimo libro di Franco Lo Piparo

Nonostante il forte scirocco dei giorni scorsi, l'eco delle polemiche nazionali (e perfino internazionali) intorno alla sorte dei Quaderni del carcere di Gramsci è arrivata anche a Palermo, dove l'Istituto Gramsci siciliano ha organizzato lo scorso 21 marzo la presentazione dei due ormai celebri libretti che Franco Lo Piparo ha dedicato nell'ultimo anno al tema: I due carceri di Gramsci e L'enigma del quaderno, entrambi editi da Donzelli. Discussants d'eccezione: Luciano Canfora, Salvatore Lupo e Salvatore Nicosia, attuale presidente del Gramsci isolano. (Sui due volumi ne ha scritto Guido Liguori il 2/2/2012 e il 16/02/2013).

Ha introdotto il dibattito Lupo, che ha inquadrato i dissidi fra Gramsci e il gruppo dirigente del Pcd'I nelle più ampie e drammatiche divergenze che allora attraversavano il movimento comunista internazionale: considerazione affatto ragionevole, ma lo storico catanese, che vanta trascorsi giovanili fra i gruppi trockisti della sinistra extraparlamentare, non ha perso neanche stavolta l'occasione per sottolineare malignamente «noi 'ste cose le sapevamo».

La comunicazione a Ercoli

Poi è stata la volta di Canfora. Il filologo e storico barese ha accuratamente distinto la questione oggettiva, documentaria, del numero dei quaderni gramsciani da quella congetturale relativa al contenuto del presunto «quaderno mancante»: su quest'ultima non ha detto nulla, mentre sulla prima ha messo in fila alcuni fatti su cui insiste da qualche tempo. Ha ricordato che nell'edizione critica di Gerratana i quaderni gramsciani sono 33 (29 di note e 4 di traduzioni), che è un numero che non collima né con quello indicato a suo tempo nella relazione pubblicata su Rinascita da Felice Platone (che insieme a Togliatti curò la prima edizione tematica dei Quaderni, uscita per Einaudi fra il 1948 e il 1951), dove si parla di 32 quaderni per complessive 2848 pagine manoscritte, né soprattutto con quanto riferito dallo stesso Togliatti in un discorso tenuto al Teatro San Carlo di Napoli, il 28 aprile 1945.

Togliatti disse infatti che Gramsci aveva lasciato «34 grossi quaderni come questo - eccone uno - coperti di scrittura minuta, precisa, eguale». E certo è singolare - ha aggiunto Canfora - che la parte di quel discorso concernente la descrizione del lascito gramsciano non sia stata mai pubblicata se non dopo la morte di Togliatti (lo stesso Togliatti omise di includerla nella silloge dei suoi scritti su Gramsci, apparsa negli anni '50 dall'editore Parenti): tanto più singolare se si pensa che, proprio qualche giorno prima di quel discorso al San Carlo, il vicecommissario degli Affari Esteri dell'Urss, Dekazonov, aveva riferito al responsabile della sezione Informazione internazionale del partito comunista bolscevico che «34 quaderni di lavori di Antonio Gramsci» erano stati consegnati il 3 marzo 1945 a «Ercoli» (Togliatti) dall'ambasciatore sovietico a Roma. Per non dire che non di ventinove, ma di «trenta quaderni che contengono una rappresentazione materialistica della storia d'Italia» aveva scritto nel luglio '37 ancora Togliatti a Manuil'skij, membro dell'Esecutivo dell'Internazionale, e che lo stesso numero (in cifre romane: «XXX stuk») ricorre in una lettera che Tania Schucht scrisse ai familiari all'indomani della morte di Gramsci.

Il privilegio inventato

Non diremo qui delle spiegazioni che la filologia gramsciana ha avanzato per rendere conto di queste presunte incongruenze, né di come Lo Piparo ne abbia contestato la plausibilità nel suo ultimo libretto. Assai più interessante è stato il modo in cui Lo Piparo ha argomentato il senso della sua ormai biennale ricerca.

Egli ha esordito dicendo che bisogna sbarazzarsi della «storia sacra» ereditata dal Pci. Anzitutto, Gramsci non morì in carcere, come scrisse («falsamente») Togliatti, ma da uomo libero; certo, in libertà condizionale, ma poteva ricevere chi voleva e andare dove voleva: se poi non l'ha fatto, scelte sue. Poi ha citato la «protezione» che a Gramsci venne da Mariano D'Amelio (zio di Piero Sraffa, presidente della Cassazione e senatore fascista) e le «ricerche» (sic!) di Dario Biocca sulle relazioni che il carcerato intratteneva coi carcerieri fascisti e col Duce in primis. Sì, perché - ha insistito molto Lo Piparo - Gramsci era un «privilegiato»: riceveva libri dall'esterno del carcere (e se non gli arrivavano scriveva al Duce per protestare e poi i libri gli arrivavano), inviava ogni giorno lettere a parenti e amici, insomma faceva cose si spiegano solo con l'occhio di riguardo che Mussolini aveva nei suoi confronti: prova ne sia che, tra i reclusi comunisti, ci fu anche chi lo prese a sassate perché pensava che avesse saltato il fosso. E poi Gramsci «detestava» Togliatti, al punto da far promettere a Tania che mai gli avrebbe consegnato i quaderni: altro che «continuità» fra i due!

Quindi, Lo Piparo ha posto la domanda capitale: perché, nonostante il comunismo sia bell'e morto, continuiamo a occuparci di Gramsci? La risposta, a suo avviso, è semplice: Gramsci è stato «totus politicus» solo per una piccola parte della sua vita, dal 1918 al 1926; per il resto, è stato un «intellettuale», cioè uno che s'interrogava su dove andava il mondo e perché. E di cose da intellettuali alla fine ha scritto: la controversia su neogrammatici e neolinguisti, Manzoni, la storia degli intellettuali italiani - basta scorrere il programma di lavoro che figura nella prima pagina manoscritta dei Quaderni per scorgervi i tipici interessi di un professore universitario, quale egli doveva diventare: era stato pur sempre il delfino del grande glottologo Matteo Bartoli, no?

«Forse è morto comunista, ma non m'interessa: era uno che s'interrogava», ha concluso Lo Piparo, che insegnando Filosofia del linguaggio nell'ateneo palermitano avverte evidentemente per ciò solo motivi di colleganza con Gramsci. E proprio per questo suo continuo interrogarsi - ha chiosato Salvatore Nicosia - Gramsci va restituito alla sua storia e identità di «individuo» e sottratto a quell'appartenenza collettiva che ne ha tracciato un profilo dai toni e contorni probabilmente al di là delle sue stesse intenzioni.

Quest'ultima annotazione è risultata alla fine ancor più chiarificatrice della stessa franca allocuzione di Lo Piparo. Già, perché il senso di tutto questo discutere, alla fine, è uno solo: bisogna strappare Gramsci all'abbraccio mortale di un'identità nefasta com'è quella comunista. Anche perché, se il comunismo è quella cosa orribile e mortifera che è stata descritta dall'attuale direttore della Fondazione Istituto Gramsci, Silvio Pons, in un libro al quale il presidente onorario della Fondazione medesima, Giuseppe Vacca, rimanda in una nota della sua biografia gramsciana come testo definitivo per intendere quel «tempo dello Stato» durante il quale Gramsci visse quasi sempre in segregazione (per carità, ben protetto e da privilegiato: e anzi non mi spiego come non sia stata ricordata la «vacanza» a Ustica, sulla quale meritoriamente ha richiamato tempo addietro l'attenzione un ex presidente del Consiglio), non ci sono alternative: o si dimostra che Gramsci non ha niente a che fare con questa merda o altrimenti si deve chiudere la Fondazione Istituto Gramsci. Tertium non datur.

Il segreto di Pulcinella

Spiace solo che Canfora, che pure è attento studioso dell'uso politico dei paradigmi storici, non abbia colto qual è la posta in gioco e si sia precipitato nell'agone polemico con la furia di chi è convinto di misurarsi ancora con Togliatti e Natta, quando è il tempo di Renzi e Lo Piparo. Quanto al «quaderno mancante», sul quale lavora (ma «a rilento», ha lamentato Lo Piparo) l'ormai celebre commissione istituita dall'Istituto,suggeriremmo per prima cosa un'ispezione al Teatro San Carlo: magari qualche spiritello burlone, di quelli che infestano festanti i sotterranei napoletani, potrebbe averlo sottratto a Togliatti nel trambusto di abbracci e fanfare dell'Internazionale che dovette seguire alla fine del suo discorso del 28 aprile di sessantotto anni fa. Si dovrebbe ripartire da lì. E magari, indaga che t'indaga, potrebbe venir fuori anche il segreto di Pulcinella.


3 giugno 2013

Ma quanti erano i quaderni del carcere di Gramsci?

di Ruggero Giacomini

Non era ancora arrivato nelle librerie, che è partito il lancio sui principali quotidiani nazionali “Repubblica” e “Corriere della Sera” - seguiti poi da altri giornali - del nuovo libro del professore di filosofia del linguaggio all’Università di Palermo Franco Lo Piparo (L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, Donzelli, Roma 2012), in cui l’autore conferma e rilancia la tesi della scomparsa di uno dei quaderni del carcere di Gramsci, già espressa con non meno clamore lo scorso anno nel libro I due carceri di Gramsci. La tesi, affacciata inizialmente con qualche prudenza e poi sempre più aggressivamente è che sia stato tenuto nascosto un quaderno di Gramsci, e che a nasconderlo sarebbe stato Togliatti perché vi sarebbe stata documentata la rottura di Gramsci con il pensiero e il mondo comunista e la sua conversione al liberalismo.

Tesi non nuova questa della conversione di Gramsci, e anzi ricorrente, sia religiosa da parte di coloro che con generosità cristiana ne vogliono l’anima salita in paradiso, e sia politica. A suo tempo l’ex ministro della difesa ai tempi dell’aereo abbattuto di Ustica, Lelio Lagorio, sosteneva che Gramsci prima di morire fosse passato al partito socialista, forse presago della sua craxiana evoluzione; e assicurava che negli archivi di stato era presente una scheda-questionario da lui compilata, che dimostrava questo passaggio; e poiché tale documento che egli assicurava qualcuno avesse visto non si riusciva a trovare, suggeriva che a farlo sparire potesse essere stato, indovinate un po’? Togliatti, ovviamente.

Ci sarebbe da approfondire perché Togliatti sia “l’uomo nero” delle campagne ideologiche anticomuniste, irrecuperabile e inconvertibile; mentre con Gramsci si cerchi già dai tempi della prima edizione delle Lettere dal carcere e della recensione di Croce, l’assimilazione da parte degli avversari (“era dei nostri” scrisse don Benedetto, prima di conoscere che cosa Gramsci avesse scritto di lui in carcere). E anche oggi la linea della contrapposizione frontale col socialismo riformista sostenuta da Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubettino, Soveria Mannelli 2012) e condivisa da Roberto Saviano, appare marginale rispetto ai più sofisticati tentativi di riconversione, che trovano alimento nel trasformismo degli intellettuali sbandati dopo la fine del Pci.

Ma qual è il Gramsci ritenuto assimilabile dal pensiero dominante? Non quello giovanile, del rivoluzionario che lotta per un ordine nuovo a fianco del movimento dei consigli di fabbrica. Né tanto meno quello da dirigente del Pci nel 1921-26, di cui si è anche cancellata l’edizione critica degli scritti già in programma e annunciata presso Einaudi, privando il pubblico degli scritti politici più interessanti per conoscere Gramsci, ma anche la storia d’Italia di quegli anni: cancellazione che è avvenuta nel silenzio tombale dell’intellighenzia vetero e neo-liberale che si dice anticensoria. E neanche il Gramsci dei Quaderni, di cui stando allo stesso Lo Piparo almeno fino al ’30 è “possibile una lettura leninista”. Lo sforzo esegetico si concentra dunque sulla vicenda biografica raccontata in modo deformato e sugli ultimi quaderni, ora anche sull’ultimissimo “scomparso” di cui si può pensare tutto.

Il clamore mediatico per la tesi missionaria di Lo Piparo, rilanciata in quest’ultimo lavoro, ha celato e mantenuto sullo sfondo quella che è invece una clamorosa ritirata e correzione rispetto a come era impostata la stessa tesi nel libro precedente. Ne I due carceri infatti Lo Piparo fondava la sua argomentazione sulla scoperta che nella numerazione dei quaderni fatta da Tania c’era un “salto” tra il numero XXXI e il numero XXXIII e dunque c’era stato un quaderno 32 che ora non c’era più (p. 82). Il fatto che comparisse un numero XXXII-IVbis era parso a Lo Piparo una chiara conferma che il buco c’era e si era tentato maldestramente di coprirlo, e accusava senza mezzi termini Gerratana di “manipolazione” (ibidem).

Successivamente sul “Corriere della Sera” del 6 giugno 2012, Lo Piparo aveva dato conto anche di una perizia grafologica commissionata a un esperto consulente di uffici giudiziari, il cui “responso”, annunciava, “è stato netto: il numero XXXIII non è attribuibile alla mano di Tania.” Come il XXXII-IV bis.

Era la classica scoperta… dell’acqua calda! Infatti era stato Gerratana, quando aveva cominciato a lavorare all’edizione critica dei Quaderni del carcere, a segnalare di aver numerato lui gli ultimi due a matita, perché Tania si era fermata al numero XXXI. Un fatto forse scientificamente discutibile, ma dichiarato pubblicamente in un convegno a Cagliari del ’67 e che risulta dagli atti dello stesso (Gramsci e la cultura contemporanea, a cura di P.Rossi, Editori Riuniti, 1969-70). Per cui ora Lo Piparo è costretto a riconoscere che sulla clamorosa scoperta del “buco” da coprire ha equivocato: “Nel libro sostenevo (e ho continuato a sostenere in interventi giornalistici) – ammette ora – che la numerazione di Tania tramandataci saltava da XXXI a XXXIII senza individuare un quaderno XXXII. Il salto non c’è” (pp. 76-7).

Nel frattempo in virtù anche di quella “scoperta”, il libro di Lo Piparo è stato insignito del premio Viareggio, collocato al livello delle Lettere dal carcere di Gramsci, il che suggerisce anche considerazioni amare sullo stato della cultura in Italia oggi.

Scoperto l’infortunio non da poco in cui era caduto, Lo Piparo, secondo il detto classico che la migliore difesa è l’attacco, ha rilanciato, modificando trama e protagonisti. Questa volta il punto di partenza è un passo di una lettera di Tania alle sorelle del 25 maggio 1937 dove il testo letterale suona che i quaderni erano “XXX pezzi”, mentre la prima traduttrice Rossana Platone aveva reso “una trentina”. A convalida del numero “30” Lo Piparo, sostenuto anche da Canfora in interventi sul “Corsera”, adduce Togliatti, che riporta tale numero in una lettera a Manuilskij dell’11 giugno successivo. In realtà Togliatti, che i quaderni non li aveva ancora visti, aveva appreso il numero tramite la sorella Eugenia, dalla stessa lettera di Tania (e non da Sraffa come immagina Lo Piparo); e dunque la sua non è una testimonianza aggiuntiva. Resta Tania, che dicendo “XXX pezzi” chiaramente arrotondava, perché i quaderni tutti erano e sono 33. Né si può attribuire a lei di aver voluto distinguere i quaderni di testi da quelli delle traduzioni, come si vorrebbe credere, dal momento che Tania stessa nel numerarli li mescola assieme indistintamente. E’ Gerratana che li numera separatamente, assegnando agli ultimi le lettere A, B, C, D.

Su come e dove poi il “quaderno mancante” possa essere scomparso, in questo libro Lo Piparo cambia opinione rispetto a quello precedente e a Luciano Canfora. Per quest’ultimo e la tesi vecchia infatti poteva essere stato solo dopo il ritorno dei manoscritti in Italia all’indomani della guerra. Motivo il fatto che sia l’ambasciatore sovietico che li consegna, che Togliatti che li riceve, fanno il numero di “34”. Cioè uno in più dei 33 che conosciamo. Che poi Togliatti, che a quell’epoca i quaderni li conosceva bene, abbia riferito quel numero senza preoccuparsi di quaderni da nascondere dovrebbe essere indicativo che non aveva alcuna volontà di occultamento.

In realtà le fonti più sicure attestano che il numero complessivo dei quaderni di Gramsci era 32. Lo fa la moglie di Gramsci, Giulia, ricordando in una lettera a Dimitrov databile tra la fine del ’43 e gli inizi del ’44 che la famiglia aveva consegnato a suo tempo all’archivio del Comintern, prima di tutti gli altri oggetti, “le lettere e le opere di Gramsci (32 quaderni)” (cf.r. Antonio Gramsci jr, La Russia di mio nonno, pp. 84-5). Erano dunque entrati 32 quaderni all’archivio del Comintern provenienti dalla famiglia, e 32 ne escono quando il 21 febbraio 1945 “gli originali dei Quaderni del Carcere al completo (nella quantità di 32) furono dati al membro del Partito comunista italiano Rottiers” (sic). Si tratta quasi certamente del cognato di Togliatti Paolo Robotti, e ad attestare la consegna è il vicedirettore dell’Archivio di storia sociale e politica della Federazione russa V.N.Sepelev in risposta a una richiesta di Canfora, di cui dà notizia lo stesso Lo Piparo (p.93) senza trarne tuttavia le conseguenze.

O meglio una conseguenza l’ha tratta e cioè immaginare che il quaderno sia stato sottratto prima di arrivare a Mosca alla famiglia. Deve avere avvertito anche lui che è di qui che bisogna partire, da questi 32 quaderni originali esattamente contati dalla famiglia di Gramsci al momento della consegna e certificati da una documentazione archivistica inoppugnabile. Allora il problema vero di ricostruzione storica è come i quaderni gramsciani da 32 diventino 33, e perché si dica alla consegna nel ‘45 che sono 34. La spiegazione c’è se si vuole accettarla. Il 33° quaderno gramsciano è quello scritto solo per due pagine e mezzo e considerato assieme a un altro di cui è il completamento nei contenuti. E che le cose stiano così lo dimostra anche la Relazione sui quaderni del carcere, pubblicata nell’aprile 1946 su “Rinascita” da Felice Platone, dove i quaderni vengono descritti analiticamente e sono 32; non viene cioè neanche da lui considerato separatamente quello scritto solo per due pagine e mezzo. E il 34° è quasi certamente il quaderno degli indici di Tania, identico nell’aspetto esteriore agli altri e che fin dall’inizio viaggia insieme a loro.

Lo Piparo conosce le varie fonti, la diversa autorevolezza e le discrepanze, ma gira i numeri secondo ciò che gli conviene per la propria tesi. Ne I due carceri liquida la precisa testimonianza di Giulia, addebitandola bontà sua a “un errore di memoria umanamente comprensibile” (p. 88). Ed ora la nuova tesi è appunto che il quaderno mancante sia stato “rubato” prima, che cioè non sia neppure mai arrivato in Russia. Intercettato e trattenuto dall’agente Sraffa per conto, manco a dirlo, di Togliatti. Per cui a voler seguire insieme Canfora e Lo Piparo i quaderni dovrebbero essere stati 35, di cui 2 scomparsi. Oppure un quaderno sarebbe scomparso due volte, prima dell’arrivo alla famiglia e dopo il ritorno in Italia, ricomparendo solo per il viaggio. Un vero miracolo di moltiplicazione e sottrazione di quaderni.

Nella spy-story immaginata da Lo Piparo entrano in scena in questo nuovo lavoro nuovi personaggi. Il primo è un segreto amico di Tania, presso cui lei potrebbe aver nascosto i quaderni invece di portarli all’ambasciata. Che siano stati portati da Tania all’ambasciata e da lì spediti è oggi accertato e generalmente riconosciuto (ma non da Lo Piparo). Possibile invece e anche probabile che ne sia stata fatta prima della spedizione per sicurezza una copia fotografica e che questa sia stata custodita in Italia nel caveau della banca commerciale di Mattioli, secondo la testimonianza di Nilde Jotti confermata da Sraffa e l’ipotesi che a me pare nella sostanza verosimile, formulata da Giuseppe Ricuperati negli Annali della Fondazione Luigi Einaudi XLIII-2009 (p. 8). E molto probabilmente si tratta della stessa copia data in visione a Niccolò Gallo quando attendeva all’antologia delle 2000 pagine di Gramsci e non più restituita, che trovasi oggi in un archivio privato a conoscenza di Canfora e Lo Piparo.

Un altro misterioso personaggio evocato da Lo Piparo è “l’emissario di Sraffa”, a cui Tania avrebbe consegnato i preziosi quaderni, per la più tortuosa e rischiosa spedizione che si possa immaginare, alternativa all’itinerario Roma-Mosca tramite ambasciata, ma che consentiva il controllo dei contenuti da parte di Sraffa-Togliatti immaginato da Lo Piparo e consente ora a quest’ultimo di formulare la sua tesi.

Compare inoltre ad arricchire il quadro la casa di Sraffa. Tania scrive alle sorelle il 5 luglio ’37 che ha fatto vedere a Sraffa tre quaderni “che gli avevo portato a casa”, intendendo con tutta evidenza che dall’ambasciata un po’ avventatamente li aveva portati a casa sua per farglieli vedere, insieme al suo quaderno di indici per un consiglio su come proseguire. Invece Lo Piparo traduce che Tania abbia preso i quaderni che teneva in casa sua o del suo amico segreto e li abbia portati alla casa di Sraffa, dove lui li avrebbe trattenuti senza restituirli. E questa “casa di Sraffa” deve aver tanto affascinato Lo Piparo, che la cita e sottolinea in un libro di piccolo formato di 160 pp., almeno undici volte.

Ora tutti coloro che hanno una minima familiarità con la vicenda carceraria di Gramsci sanno che Sraffa a Roma non aveva alcuna casa, e quando scendeva nella capitale prendeva alloggio solitamente all’albergo “Ambasciatori”.

Questa è solo una delle approssimazioni informative di cui è cosparso il libro di Lo Piparo. Ad esempio chiama “processo di Milano” quello in cui Gramsci fu condannato dal tribunale speciale, tenutosi invece come è noto nella capitale. E non si tratta di una svista, perché detto ne I due carceri (p. 124), è ripetuto pari pari ne L’enigma (p. 16).

Se nel primo libro Lo Piparo aveva molto congetturato sul salto di etichetta, sbagliando come abbiamo visto, nel secondo si diffonde su due etichette sovrapposte dalla stessa Tania su un quaderno. Si era sbagliata, forse, scrivendovi “Incompleto/ da 1 a 26/ XXXII” e perciò aveva corretto sovrapponendogli la nuova con scritto “Incompleto/ XXIX”. Spiegazione troppo semplice e dunque inaccettabile per Lo Piparo, per il quale Tania, “funzionaria” dei servizi segreti sovietici e addestrata ai messaggi in codice (in realtà era stata una semplice traduttrice all’ambasciata), non poteva che voler trasmettere in quel modo particolare un messaggio segreto. Che Lo Piparo decifra così: c’è un quaderno di 26 pagine scritte che non mi è stato restituito.

Qualcuno si è chiesto giustamente: ma non era più semplice che lo scrivesse alle sorelle o lo dicesse loro a voce una volta tornata a Mosca? Ma Lo Piparo esperto di linguaggi è affascinato dal linguaggio segreto, con cui si comunica tutto il contrario di quello che si dice. Per esempio se Tania scrive a Sraffa il 7 luglio 1937 che ha consegnato il giorno prima per la spedizione a Giulia tutti i quaderni, e sottolinea “tutti quanti”, vuol dire ci spiega Lo Piparo che non li ha potuti consegnare tutti, perché tutti non li aveva (p. 123).

A questo punto la telenovela lopiparesca ha aperte per una prossima puntata tre strade di possibili sviluppi:

a) la love story di Tania col segreto amico romano, romanticamente promettente; b) il percorso non meno intrigante dei “tre quaderni” lasciati a “casa Sraffa”, fino al loro ricongiungersi con gli altri, salvo uno che si perde per la strada; c) lo scoop grosso, cioè la “scoperta del quaderno”. Gli originali in riproduzione anastatica sono facilmente reperibili; le pagine da realizzare sono appena 26, una sciocchezza rispetto ai Diari di Dell’Utri; il contenuto in sintesi e forma dubitativa è stato pure detto: “Conteneva giudizi sul fascismo che non era possibile rendere pubblici? Conteneva riferimenti troppo personali a Togliatti e al suo ruolo nella vicenda della famigerata lettera di Grieco? O conteneva una critica esplicita del comunismo sovietico?... Aspettiamo di leggerlo” (p. 140).

L’esistenza infine dell’“archivio privato” con le copie fotografiche dei quaderni suggerisce indirettamente che non sarebbe neanche necessario avere un originale da sottoporre a un rischioso controllo, basterebbero le fotografie. E’ un mio eccessivo mal pensare, che qualcuno possa meditare la costruzione di un quaderno e farcelo trovare? Vedremo.

(“Storia e problemi contemporanei”, n.62, gennaio 2013, pp. 115-20)

PS. Devo rettificare l’attribuzione a Rossana Platone della traduzione dal russo della lettera di Tania in cui l’espressione “XXX pezzi” a proposito dei Quaderni era resa con “una trentina”. L’avevo ripresa da un’intervista di Giuseppe Vacca a “Repubblica” del 2 febbraio scorso, poi – come ho appena appreso – rettificata solo verbalmente. Questo non cambia la sostanza del mio ragionamento, ma è doveroso il rispetto della professionalità di ognuno.

Ringrazio Nerio Naldi per aver segnalato la presenza nel mio articolo di un refuso -"accertato" invece "accettato" – e di uno scambio di persona: Togliatti e non Sraffa è il convalidante della testimonianza della Jotti.

La testimonianza di Sraffa è infatti nel senso della conferma che i Quaderni furono inviati tramite l’ambasciata sovietica, come del resto era stata indicazione del partito comunista (Donini), e sua sollecitazione a Tania.

Il 24 maggio scorso c’è stato un intervento di Luciano Canfora sul “Corriere della Sera”, secondo cui dalla perizia svolta sui quaderni grazie al gruppo di lavoro istituito presso la Fondazione Istituto Gramsci di cui lui fa parte sarebbe emerso “al di là di ogni dubbio, che i Quaderni all’indomani della morte di Gramsci erano 34”, rilanciando dunque la tesi del quaderno mancante di Lo Piparo.

Scrive Canfora che Tania provvide dopo la morte di Gramsci “ad apporre una etichetta su ciascun quaderno. Ma c’è un quaderno su cui manca qualunque etichetta: è il più compiuto, il più elaborato, il più significativo, quello che nel dopoguerra (1948) sarà edito per primo, La filosofia di Benedetto Croce.” Il quale quaderno, sempre secondo Canfora, non sarebbe stato “sin dal primo momento, tra quelli in possesso di Tania, per ragioni che potremo approfondire in altra sede”.

In attesa che Canfora chiarisca le ragioni fondanti della propria convinzione, mi permetto delle brevi osservazioni:

1. Il quaderno sulla filosofia di Croce - che ha il n.III di Gramsci in copertina e il 10 attribuito da Gerratana -, non è l’unico che Tania non abbia numerato; c’è anche il IV bis, corrispondente al 18 di Gerratana.

2. Il quaderno che Tania non avrebbe avuto è analiticamente descritto da Felice Platone nel ’46, come uno dei 32 quaderni pervenuti dalla Russia: quegli stessi che la famiglia Schucht a Mosca aveva consegnato all’archivio del Comintern e dall’archivio dell’ormai ex Comintern erano tornati in Italia. E’ impossibile dunque che non sia stato nella disponibilità di Tania.

3. Che Tania senza esperienza ed emozionata abbia un po’ pasticciato nell’etichettatura dei quaderni risulta da vari elementi. Ad esempio sul quaderno a cui appose il n. VIII (6 di Gerratana) scrisse sulla copertina in alto a destra: “Completo da pg. 1 a 79”, mentre le pagine effettivamente scritte da Gramsci sono 156. Questo è un errore di cui Tania non si accorse e che non cercò di correggere.

E nel quaderno col n. XXI di Tania (29 di Gerratana) - uno dei quattro sottoposti all’esame dell’Istituto centrale per il restauro -, è emerso che sotto l’etichetta sul dorso apposta da Tania con il n. 21 in caratteri arabi, ce n’è un’altra identica di Tania… con il numero 21!

Forse è “puerile” pensare che Tania possa aver fatto confusione, ma quale sarebbe allora l’arcano, il significato riposto di questa… rinumerazione?

Altri articoli dal web


28 gennaio 2012

NELLO AJELLO

"Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al pci"

Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i "generi" che s´intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all´esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent´anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d´arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l´autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell´aprile del ´37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l´ultimo, scomparso).

È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l´assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità con la figura del leader sardo, risulterà meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare.

Ben presto il carattere strumentale dell´operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l´aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo. Basterà, d´altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l´eterogeneità rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest´ultimo aggiungerei all´elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l´obbedienza di partito e il dovere della verità, che nell´autore dei Quaderni fu centrale.

Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l´autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l´insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà d´un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra "dentro" e "fuori" il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa.

Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell´arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una "bolscevica" integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto.

Non sapremmo, costretti alla brevità, quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà espunta da Togliatti nell´edizione del ´47 delle Lettere dal carcere. Ce n´è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell´emotività epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell´animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica».

L´eco di un´altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l´alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s´intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All´intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco.

Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l´edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti - così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 - «possono essere utilizzati solo dopo un´accurata elaborazione»: solo così il partito li darà alle stampe. Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l´interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell´autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c´è più verità in un paradosso che in cento professioni di fede.


5 febbraio 2012

http://georgiamada.wordpress.com

Gramsci e la polemica sul Quaderno fantasma

Continua la discussione sul quaderno fantasma di Antonio Gramsci.
Franco Lo Piparo ha scritto un libro, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista. Un libro dove fra tante cose veramente interessanti si ipotizza (con nessuna documentazione) anche  la scomparsa di un manoscritto dei Quaderni.

Il libro viene recensito da Nello Ajello (L’altro carcere di Gamsci. Il giallo del quaderno sparito che svelava le critiche al Pci) su Repubblica e viene poi contestato da Guido Liguori (Gramsci, l’invenzione di un teorico liberale) sul Manifesto (io ne parlo QUI e QUI).

Sul Corriere ne scrivono Dino Messina (Antonio Gramsci e il fantomatico quaderno scomparso) e Antonio Carioti (“Gramsci ripudiò il comunismo”: il giallo del quaderno).

Su l’Unità altri due articoli uno di Gianni Francioni, che contesta la scomparsa del quaderno, e un’altro dello stesso Lo Piparo che risponde oggi a  Francioni.

Vi posto i due articoli dell‘Unità, quello odierno  di risposta di Lo Piparo e quello di Francioni .

[...]

«Quaderno 32», il mistero c’è
La polemica sui manoscritti di Gramsci dal carcere.

di Franco Lo Piparo

Gianni Francioni scrive: «La tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento». Francioni ha una lunga frequentazione dei manoscritti gramsciani avendone curato l’edizione anastatica. Andiamo alla questione avendo cura di separare i fatti dalle interpretazioni.

Nella numerazione ufficiale il numero XXXII è attribuito al Quaderno 18 di Gerratana. Non è quindi di Tatiana. Secondo la mia ipotesi l’attribuzione nasce dal bisogno di colmare il salto che i numeri di Tatiana, così come li conosciamo, presentano passando dal Quaderno XXXI al XXXIII.

UNA DOMANDA LECITA

Esaminiamo il Quaderno. Al centro della copertina campeggia una etichetta dove è scritto a caratteri grandi un «N. 4». Non esistono spiegazioni di questo numero e nemmeno noi riusciamo a trovarne una convincente. In alto, in inchiostro blu si legge un «(34)». Fin qui i fatti. I Quaderni che conosciamo sono 33. Da dove salta fuori il numero 34? Mi sembra una domanda lecita.

Nell’edizione anastatica Francioni spiega: «La cifra potrebbe alludere al numero complessivo dei quaderni effettivamente utilizzati da Gramsci, più il quaderno compilato da Tatiana come indice generale delle note». Non è l’argomento usato nell’articolo per confutare la mia ipotesi. Si trattava, infatti, di spiegazione debole. Se così fosse stato, il numero 34 avremmo dovuto trovarlo sul quaderno di indice. Quaderno che, tra l’altro, ha una numerazione a parte. È la stessa Tatiana che scrive sulla copertina del proprio quaderno: «I di Tania». La spiegazione data nell’articolo è altra.

A partire dal Quaderno XXIX Tatiana si sarebbe accorta di avere fatto degli errori nella numerazione e, per correggerli, incolla, nei Quaderni 12 e 13 di Gerratana, su precedenti etichette nuove etichette con la numerazione che conosciamo. Quali potrebbero essere stati questi errori? Difficile dirlo dal momento che la numerazione di Tatiana non ubbidisce a nessun criterio e appare del tutto casuale.

Francioni mi fa notare un dato importante a cui non avevo prestato attenzione. Lo ringrazio. Riporto le sue parole: «L’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza. “Incompleto|dap.1a26| XXXII”». Quindi esiste (è esistita) una etichetta di un Quaderno XXXII scritto per 26 pagine. Dove cercare il Quaderno XXXII? Non può essere il 18 di Gerratana (che ha sulla copertina il numero 34 e a cui viene attribuito arbitrariamente il numero di Tania XXXII) dal momento che questo quaderno è scritto solo per due pagine e mezzo. È un dato che Francioni potrebbe aiutarci a capire.

La giustificazione dell’attribuzione posticcia del numero XXXII al Quaderno 18 Francioni la presenta al condizionale: «Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, (Tatiana) dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio (34): cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali è inutile dilungarsi con ipotesi». Perché mai sarebbe inutile? Una ipotesi può essere sbagliata ma mai inutile. Il Quaderno col numero 34 e il salto, nella numerazione di Tatiana, da XXXI a XXXIII rimangono in questo modo senza spiegazione.

ALCUNI ELEMENTI IMPORTANTI

Questi ragionamenti sui numeri il lettore probabilmente fa fatica a seguirli. Sarebbero puro esercizio calcolistico se non si inserissero in un contesto di dati non univoci. Ne parlo nel libro. Ne ripeto alcuni.
(1) Nella lettera che Giulia e Eugenia Schucht scrivono nel 1940 a Stalin per dissuaderlo dall’affidare a Togliatti la cura dei manoscritti si parla di «30 quaderni, attualmente in nostro possesso». Dal conteggio vengono esclusi i 4 quaderni che contengono esercizi di traduzione. Noi di Quaderni teorici e storici ne conosciamo 29. Esiste un trentesimo Quaderno?
(2) In un appunto dattiloscritto, trovato da Gerratana in una cartella di Felice Platone, viene programmata «un’edizione diplomatica di 30 quaderni, secondo un rigido criterio cronologico e di fedeltà al testo manoscritto».
(3) Sraffa racconta di avere risposto, in una lettera del maggio 1937, «dettagliatamente alla richiesta di Togliatti» di essere informato sui manoscritti di Gramsci. La lettera conteneva «una descrizione dei temi e della stesura dei quaderni così come Gramsci la fece a lui, mostrandoglieli nella clinica “Quisisana”». Quella lettera non si trova e Togliatti non la cita mai. Non è strano? Mi pare che ci siano abbastanza elementi perché uno studioso senza pregiudizi indaghi e faccia ipotesi.

Gramsci rubato. Una leggenda.
di Gianni Francioni

Il libro. Nell’opera di Franco Lo Piparo «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (pp. VI-146, euro 16,00, Donzelli) la domanda centrale è: perché i Quaderni del carcere sono 33, e non 34, come in origine e più volte annunciato dallo stesso Togliatti? Un quaderno «si è perduto»? Gramsci sapeva che Sraffa trasmetteva le sue lettere a Togliatti?

Gramsci passò i suoi ultimi due anni e mezzo in libertà condizionale: è verosimile che in quegli anni abbia smesso quasi completamente di scrivere? E perchè non riprese i contatti con i vertici del partito e dell’Internazionale comunista?

Nel suo recente libro I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli editore, 2012), Franco Lo Piparo dedica un intero capitolo (Un quaderno rubato?, pp. 77-94) ad argomentare la tesi secondo cui «i quaderni teorici (di Gramsci) furono trenta quando erano in possesso della famiglia (a Mosca) e negli anni successivi, diventarono ventinove a partire dal 1947», quando Togliatti poté disporne. La tesi non è nuova (di una manipolazione o «amputazione» dei Quaderni da parte di Togliatti si è parlato periodicamente sui giornali), ma questa volta è presentata con un tentativo di fondarla su elementi filologici che meritano di essere verificati.

Si consideri in primo luogo che i quaderni del carcere sono 35: 29 di lavoro teorico (numerati cronologicamente nell’edizione Gerratana da 1 a 29), quattro di sole traduzioni (che Gerratana ha contrassegnato con A, B, C, D), due – che pure recano i timbri del carcere di Turi – lasciati da Gramsci completamente in bianco (li indichiamo come 17 bis e 17 ter). A questi va comunque aggiunto (perché da sempre conservato con loro) il registro avviato dalla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, per redigere un indice generale – rimasto peraltro incompleto – delle note contenute nei manoscritti. Essi vennero affidati da Tatiana all’ambasciata sovietica a Roma nel luglio 1937 e nel dicembre 1938 furono spediti a Mosca per posta diplomatica. Restarono presso la famiglia Schucht fino all’aprile 1941, quando furono depositati per motivi di sicurezza all’Archivio centrale del Comintern. Restituiti al Pci nel marzo 1945, i quaderni e il registro di Tatiana ritornarono a Roma, e sono tuttora custoditi all’Istituto Gramsci.

Per motivi di spazio esaminerò solo il principale argomento addotto da Lo Piparo, che concerne la numerazione in cifre romane data da Tatiana ai quaderni dopo la morte di Gramsci, a fini di mera inventariazione e senza alcuna pretesa di stabilire una cronologia. Secondo Lo Piparo, questa numerazione avrebbe «un salto: passa dal quaderno XXXI al quaderno XXXIII», che egli suppone motivato dal fatto che il quaderno mancante sarebbe stato talmente «esplosivo», per i suoi contenuti di «eresia» politica, da indurre Togliatti a eliminarlo.

Sulla base di una documentazione certa e accessibile, possiamo ricostruire come stanno effettivamente le cose. Verso la metà di giugno 1937, Tatiana procede a classificare i quaderni incollando sull’angolo destro superiore di ogni copertina una piccola etichetta ottagonale con una sottile cornice a stampa, entro cui appone a penna il numero romano assegnato al quaderno e brevi indicazioni sulla sua consistenza (ad esempio: «I Completo p. 80»; «Incompleto da p. 3 a 78. VI»); su un’altra etichetta con cornice a stampa più grossa, tagliata a metà a mo’ di tassello e incollata in alto sul dorso del quaderno, ripete a penna la stessa numerazione in cifre arabe («1», «6», ecc.). Tatiana mette etichette anche sui Quaderni 17 bis e 17 ter, lasciandole però completamente vuote.

In questa catalogazione sistematica vi sono anomalie ed eccezioni, molte delle quali segnalate da Lo Piparo.

Alcune non hanno un significato particolare, e provano tutt’al più che l’operazione di Tatiana è accompagnata da imprecisioni e sviste: mi riferisco ai Quaderno 9 e 1, che hanno, rispettivamente, i numeri XIV e XVI sulle etichette ma non presentano i tasselli con le cifre arabe sui dorsi; e al Quaderno 17 ter, che ha l’etichetta ma non il tassello sul dorso (mentre il Quaderno 17 bis ha anche questo).

TASSELLI ED ETICHETTE

Più interessanti altri casi: il Quaderno 10 è privo di etichetta ma provvisto di un tassello (diverso dai precedenti: è una strisciolina di carta rettangolare incollata sul dorso, in basso anziché in alto) con l’indicazione «XXXIII» a matita; mancano l’etichetta e il tassello di Tatiana nel Quaderno 18, che peraltro ha al centro un cartiglio con doppia cornice e fregi a stampa e l’indicazione della ditta produttrice, cartiglio in cui è scritto molto in grande a matita rossa, da una mano che non sembra quella di Gramsci, «N 4»; inoltre, nell’angolo destro superiore della copertina del Quaderno 18 (esattamente all’altezza in cui di solito Tatiana incolla le sue etichette classificatorie) si legge, a penna, «(34)».
Sulla base dei tipi di etichette e di tasselli apposti da Tatiana, i quaderni si possono dividere in quattro gruppi: 1) le etichette e i tasselli sono identici per quel che concerne i quaderni che Tatiana numera da I a XXII, nonché per quelli che oggi conosciamo come Quaderni 17 bis e 17 ter: tutti questi hanno l’etichetta ottagonale e il tassello con cornice più grande descritti sopra (con le eccezioni già dette per i Quaderni9=XIV,1=XVIe17ter); 2) nei quaderni da XXIII a XXVIII, al posto delle etichette ottagonali (evidentemente esaurite) compaiono striscioline di carta rettangolari senza cornice a stampa, rozzamente tagliate; 3) nei quaderni da XXIX a XXXI, al posto di queste ultime Tatiana usa le stesse etichette con cornice grossa che, tagliate a metà, impiega per i tasselli sui dorsi; 4) gli ultimi due quaderni (gli attuali 10 e 18) presentano caratteristiche peculiari, come vedremo tra poco.

Va notato che Tatiana compie un salto di numerazione già nel primo gruppo, quando, dopo aver marcato un quaderno come XXII (l’attuale 16), non assegna alcun numero ai Quaderni 17 bis e 17 ter, e passa quindi a quelli del secondo gruppo partendo dal numero XXIII. Arrivata al XXVIII, commette un errore nel classificare i cinque quaderni restanti (gli attuali 10, 12, 13, 18 e D), saltando o ripetendo almeno un numero: infatti, mentre l’etichetta del Quaderno D ha il XXXI, quella del Quaderno 13, che riporta il numero XXX, è incollata sopra i resti di una precedente etichetta, rimossa, che doveva con tutta evidenza contenere una cifra diversa; infine, l’etichetta del Quaderno 12, col numero XXIX, è incollata sopra un’altra in cui si riesce a leggere, in trasparenza, «Incompleto da p. 1 a 26 XXXII». Di seguito, Tatiana classifica il Quaderno 10 come XXXIII, e con ogni probabilità non vi incolla l’etichetta sull’angolo superiore destro perché risulterebbe troppo accostata al titolo, La filosofia di Benedetto Croce, che Gramsci ha vergato sulla copertina; usa pertanto solo una strisciolina di carta senza cornice come tassello (al piede del dorso e non in testa) ma in modo, per così dire, ancora provvisorio, giacché il XXXIII vi è segnato a matita e non (non ancora) a penna.

Quindi, di fronte all’ultimo quaderno che le è rimasto e su cui è annotato a penna un piccolo «(34)», suscettibile di essere poi coperto da un’etichetta definitiva –, ha un’incertezza, dovuta forse ad una riconsiderazione di quel grande «N 4» in rosso che già compare al centro della copertina, che potrebbe lasciare come numero del quaderno (se non fosse che un’etichetta con «IV» e il relativo tassello «4» sono già sul Quaderno 17), o forse dettata dall’acquisita consapevolezza dell’errore di numerazione. Sta di fatto che Tatiana strappa l’etichetta del Quaderno 13 e la sostituisce con una che presenta ora il numero XXX, mentre sopra quella del Quaderno 12 con l’originario XXXII incolla una nuova etichetta – «Incompleto  XXIX» –, apponendo sul dorso un definitivo tassello «29». Fermo restando il XXXI già attribuito al Quaderno D, dovrebbe ora dare un numero definitivo al Quaderno 18, superando con un XXXII quell’originario e provvisorio «(34)»: cosa che però Tatiana non fa, per ragioni che non sappiamo ma sulle quali èinutile dilungarsi con ipotesi. L’etichetta strappata del Quaderno 13 e quella originaria del Quaderno 12 sono sufficienti per provare che la tesi di Lo Piparo (è esistito un quaderno XXXII, oggi scomparso) risulta, all’analisi delle modalità di numerazione di Tatiana, destituita di ogni fondamento.
L’Unità 2 febbraio 2012.


15 giugno 2013

http://www.articolotre.com

Saviano critica Gramsci, polemiche a sinistra

Lo scrittore napoletano, prendendo spunto da un’opera di Orsini, tesse l’Elogio dei riformisti. E attacca Antonio Gramsci, definendolo alla stregua di un maestro dell’intolleranza. Da sinistra arrivano reazioni durissime.
- Daniele Cardetta- 29 febbraio 2012- Dopo la riflessione di Saviano intitolata “Elogio del riformismo” e pubblicata sul quotidiano “La Repubblica” come recensione del libro di Orsini “Gramsci e Turati”, in molti hanno reagito esternando parecchi malumori, soprattutto relativamente alla parte in cui l’autore di “Gomorra” si è scagliato nientemeno che contro Antonio Gramsci, considerato alla stregua di un “fomentatore di violenza”. Orsini, del resto, ammette di volere documentare come Gramsci sia stato un “grande maestro della pedagogia dell’intolleranza del secolo passato”.

“SAVIANO NON SA DI COSA PARLA”.

Uno dei più famosi studiosi di Gramsci, Angelo D’Orsi, contattato telefonicamente da Articolotre, è durissimo : “il problema è che Saviano andava fermato prima, l’avete costruito voi dei media, ed è difficile poi abbattere gli idoli: ora gli è concesso di parlare su qualunque tempo, è diventato opinionista su qualunque tematica. Ieri l’ha fatta fuori del vaso, citando il libro di Orsini che è una porcheria: già in precedenti opere questo studioso si spinse a individuare Gramsci come il “nonno” delle Br”.

“Ma mi chiedo, continua D’Orsi. Saviano ha mai letto una riga di Gramsci, cioè dell’autore italiano più studiato all’estero? Non credo proprio, inoltre questa contrapposizione con Turati è grottesca, l’analisi viene fatta senza tenere presente la contestualizzazione, che è fondamentale per dare un giudizio. E poi di quale Gramsci si parla? Quello del 20- 21 o quello del 25? Per entrare nel merito, lui aveva una concezione unitaria della sinistra, non solo tra Nord e Sud ma anche tra le diverse anime, dopodiché è finito in galera”. “Saviano- conclude D’Orsi- partendo da un’ interpretazione strumentale e sbagliata di Orsini, dimostra di non sapere di cosa sta parlando: è incompetente e ideologico”.

POLEMICA POLITICA.

La posizione di Saviano ha mandato su tutte le furie diversi ambienti della sinistra (e non) italiana, scatenando la reazione di Flavio Arzarello, responsabile comunicazione del Pdci – Fds, che ha voluto rispondere con un comunicato a Saviano: “Con tutto il rispetto per Saviano, per la lotta alla camorra e per quello che rappresenta”, ha detto ieri Arzarello, “l’articolo di questa mattina ”Elogio dei riformisti” è un distillato di cliché.

Da Gramsci dipinto come fomentatore di violenza, ai luoghi comuni sulla sinistra attuale, in un minestrone che lega Gramsci, Cuba, Hezbollah e Hamas, siamo vicini ai ‘grandi classici’ dell’anticomunismo, degni della diceria sui bambini che venivano mangiati”. La reazione di Arzarello non è piaciuta al Partito Socialista Italiano che, per bocca di Marco Di Lello, coordinatore della segreteria nazionale del Psi, ha voluto rispondere colpo su colpo alla dichiarazione del responsabile comunicazione del PdCI. Di Lello si è del tutto allineato sulle posizioni di Saviano, ribadendo un attacco a Gramsci che è sembrato effettivamente abbastanza fuori luogo, e non solo ai comunisti. “La intollerante dichiarazione di Flavio Arzarello conferma appieno la bonta’ della riflessione di Saviano” , ha attaccato Di Lello, “Se fossi comunista, e dunque aduso agli insulti secondo il dettame di Gramsci potrei rispondere che la mamma dei cretini e’ sempre incinta, ma essendo da sempre laico, libertario e socialista continuo a ritenere chi la pensa diversamente da me mai un nemico e neanche necessariamente un avversario, potendo imparare anche dall’ascolto delle ragioni altrui. E’ anche questo, il coltivare il dubbio, che distingue i riformisti dai massimalisti”, poi ha concluso: “I lettori e gli elettori hanno oggi, grazie al testo di Orsini e a Saviano che lo ha recensito, uno strumento in più’ per scegliere a chi affidarsi, in una divisione che sembra novecentesca ma che e’ invece più’ attuale che mai”.

Una risposta a toni accesi quella dell’esponente socialista, che evidentemente ha così ammesso di non avere in simpatia Antonio Gramsci. A stretto giro di posta è arrivata la controreplica di Arzarello, che  ha confidato di tenere in grande considerazione la storia del socialismo riformista: “Io, pur rivendicando con orgoglio la storia comunista, di fronte a  personaggi come Turati o ancor di più come Matteotti, mi tolgo il cappello, vorrei che i neosocialisti facessero lo stesso di fronte a personaggi della caratura di Antonio Gramsci. Comunque non prendo lezioni di storia, Di Lello mi attacchi pure, ma lasci stare Gramsci, un intellettuale geniale e un grande dirigente politico che è tenuto in conto, rispettato e studiato in tutto il mondo, America compresa”


15 marzo 2012

Gramsci nella guerra dei mondi

ANGELO D'ORSI

Si sa: Gramsci è oggi l'autore italiano più studiato nel mondo. Un classico, tuttavia, che, a differenza di Spinoza o di Kant, suscita passioni vivissime; parlare di Gramsci significa mettere le mani nella dolorosa vicenda del socialismo e del comunismo. Una storia di sconfitte, di scontri interni, di lacerazioni. Meno facile è comprendere perché si usi Gramsci per regolare i conti del presente. E qui, sovente, gli studiosi invece di vigilare con il rigore necessario cedono a tentazioni «scoopistiche» o cadono in un pamphlettismo facilone.

Ne è esempio il libretto di Franco Lo Piparo (I due carceri di Gramsci, Donzelli), studioso di linguistica autore di pregevoli studi gramsciani, che ripropone vecchie, indimostrate accuse mosse a Togliatti, che non avrebbe fatto ciò che avrebbe potuto per salvare il compagno dal carcere, anzi, tutto sommato, sarebbe stato contento di una infinita carcerazione; ma il cuore dell'attacco di Lo Piparo concerne il famoso «quaderno scomparso», il 34° (si conoscono 33 quaderni). Si tratta di una chiacchiera («una leggenda», l'ha liquidata il maggior conoscitore dei Quaderni del carcere, Gianni Francioni) che viene da lontano, e mai tradotta in prova storica. Nell'ultima stazione del suo lungo calvario, la clinica Quisisana di Roma, Gramsci non scrisse più, il che insospettisce Lo Piparo (possibile non abbia scritto più? qualcuno avrà nascosto quelle ultime pagine?). L'autore ricorre quindi a congetture, supposizioni, ipotesi, senza precisi riscontri. La comunità dei gramsciologi-gramsciani (in particolare sulla mailing list della International Gramsci Society Italia, ma anche in altre sedi) ha respinto, con argomenti ineccepibili, e toni via via più accesi, le tesi di Lo Piparo, il quale a sua volta sempre più risentito ha replicato, dando vita a una sorta di scontro fratricida. Che è stato acuito dalle insinuazioni (sull'organo ufficioso del revisionismo storiografico, la rivista Nuova Storia Contemporanea, ma riprese dalla Repubblica) di Dario Biocca, l'accusatore (senza prove) di Silone-spia, il quale insinua che anche Gramsci avrebbe «tradito» la causa, dichiarandosi pentito («ravveduto»), per ottenere la libertà.

La guerra è diventata però totale quando sempre La Repubblica ha «lanciato» un altro libro, a differenza di quello di Lo Piparo, privo di credenziali scientifiche: autore un giovane vivace, e improvvido studioso, Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino), che rilancia la contrapposizione Gramsci-Turati, schierandosi dalla parte del secondo (socialista buono) contro il primo (comunista cattivo). Libro che sarebbe passato inosservato se non fosse stato recensito da un opinion leader come Saviano, del tutto ignaro, a sua volta, tanto di Gramsci, quanto di Turati. E da qui la contesa storiografica è divenuta guerra dei mondi. Alle rinnovate ire dei gramsciani hanno fatto riscontro interessate approvazioni nella residua e un po' appartata cultura socialista (in particolare sulla mailing list del Circolo Rosselli). E molti, invece di contestualizzare i giudizi aspri che Gramsci diede del leader socialista, in una certa fase storica, non hanno resistito, proprio come Orsini, alla tentazione di assolutizzarli. E hanno provato a portare acqua ai propri mulini. Il presidente della Regione Campania, l'ex socialista Caldoro (oggi in quota PdL), ha lanciato un tweet per agganciarsi a Saviano. La questione storica viene sorpassata dalla politica dell'oggi, dove pure non si sa chi sarebbero gli eredi dei comunisti, né dei socialisti.

Del resto il libro di Lo Piparo potrebbe essere usato contro quello di Orsini (e i suoi laudatori, a partire da Saviano), giacché il primo insinua che Gramsci in prigione abbia abbandonato il comunismo e lo stesso marxismo, che quasi in punto di morte considerò una sorta di errore catastrofico nella propria biografia. E come prova cita due famose frasi: una di Croce che affascinato dalle lettere del prigioniero lo etichettò come «uno dei nostri» (nel senso di un grande spirito, un pensatore, un intellettuale, non certo un liberale!), e l'altra di Luigi Russo, che parlò di «comunismo liberale», ossia, «non autocratico e poliziesco»: e dove sarebbe la novità? Non è forse questa la prima ragione che ha «salvato» il pensiero di Gramsci dal crollo del Muro? Il suo era un comunismo «diverso», e il fatto che mirasse a liberare i «subalterni» invece della «classe operaia» non è una prova di abbandono del marxismo (come pretende Lo Piparo), ma piuttosto di una concezione più ampia, e moderna, adeguata al proprio tempo, rispetto a quella di Marx, che rimase tuttavia sempre lo zoccolo duro del suo pensiero. Che conosciamo grazie a Togliatti, e non malgrado Togliatti. Oggi ha ancora senso chiedersi chi aveva torto? Forse sì, purché non si trasformi un giudizio storico in un giudizio politico sul nostro tempo. Nel quale, ahinoi, sono assenti tanto i Turati, quanto i Togliatti, quanto, soprattutto, i Gramsci.


27 aprile 2012

Tutti pazzi per Gramsci

di Angelo d’Orsi | da Il fatto quotidiano

“The Gramscian Moment” è il titolo di un recente libro del britannico Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani. E di autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo sguardo ben oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore ritenere che questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi del 2012, quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie italiane, e l’alluvione continua.

La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte. Fu un anno eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e percorsero il globo, toccando decine di Paesi. E, mentre cominciavano a uscire a stampa i primi volumi dell’Edizione Nazionale degli Scritti, si presentava, anche grazie al lavoro nell’ambito di quella impresa gigantesca, e a quello svolto per la Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) e per il Dizionario Gramsciano, una nuova generazione di studiosi, che a Gramsci guardava con occhi freschi, non condizionata dai dibattiti del passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e così in fondo non può essere.

Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino all’ultimo suo giorno – che cadde esattamente 75 anni or sono, in una clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti inenarrabili – il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore, sicuramente il più profondo e originale pensatore dell’Italia del Novecento; ma anche uno dei più stimolanti analisti del “moderno”: storico e storiografo, filosofo e pedagogista, teorico della lingua e della letteratura, scienziato politico. E, last but not least, uno scrittore impareggiabile, che nelle sue lettere ha toccato altissimi vertici di umanità e di multiforme capacità letteraria.
Sono queste le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e studiati nel mondo? Indubbiamente.

Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti, scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”, non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità, fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al Partito sovietico.

È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò, suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia, da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto, scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul fattore umano e quello culturale. E cominciò a elaborare un socialismo che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra.

Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di comunismo .

Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.

Era il portatore di un altro socialismo possibile. Sconfitto politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso.

E il suo motto fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che campeggiano sulla testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.


10 febbraio 2013

Il giallo del volume scomparso perché scomodo per Togliatti si arricchisce di nuovi dettagli

Fabrizio Ottaviani

Un genio dell'economia doppiogiochista (Piero Sraffa), amico di Wittgenstein e agente sotto copertura di Stalin; perizie grafologiche; spie del Comintern, un «excursus freudiano» e persino un'apparizione fugace della Lettera rubata di E. A. Poe: tutto questo per alcuni fogli vergati a mano, quasi strappati dalle mani di un morto per essere trasportati in fretta forse in un caveau della Banca Commerciale, forse in un'ambasciata sovietica, ma in seguito sicuramente a Parigi, da Togliatti, e poi a Mosca, consegnati alla moglie del defunto con quella che probabilmente fu solo una patetica messinscena. Il mistery del momento, L'enigma del quaderno - La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pagg. 161, 18 euro), l'ha scritto un professore di filosofia del linguaggio dell'Università di Palermo, Franco Lo Piparo. Solo che non si tratta di fiction: il quaderno in questione sarebbe infatti il trentesimo quaderno del fondatore del Pci. Togliatti lo avrebbe fatto sparire perché conteneva affermazioni imbarazzanti per lui e per il partito.

Professor Lo Piparo, lei l'anno scorso ha pubblicato, I due carceri di Gramsci, in cui avanzava la tesi che un quaderno di Gramsci fosse scomparso. Ora con L'enigma del quaderno sviluppa ed approfondisce questa tesi con nuove ipotesi. Cosa è cambiato nell'arco di tempo che separa i due volumi?

«L'enigma è la continuazione dei Due carceri. Ho continuato a lavorare sull'argomento e ho visto che del mio sospetto esistevano più prove di quelle che io pensassi. Da qui nasce il secondo libro. Ad esempio in una lettera della cognata Tatiana del 25 maggio 1937 si dice che i quaderni di Gramsci “sono in tutto 30 pezzi” ma nella traduzione di Rossana Platone la frase diventa “i quaderni sarebbero circa una trentina”. Approssimazione strana».

Giuseppe Vacca, direttore dell'Istituto Gramsci, afferma che le pagine del suo saggio sono «ossicini di Cuvier», cioè ricostruzioni fantasiose basate su indizi trascurabili. Lei, che mostra simpatie liberali, però vanta un temibile alleato all'interno dell'opposto schieramento: Luciano Canfora.

«Ho lavorato per un anno intero a stretto contatto con Canfora. Il suo aiuto è stato veramente straordinario. Su Gramsci politico forse la pensiamo in maniera diversa. Siamo però animati dalla stessa passione per la verità, anche se a volte la verità può essere sgradevole. L'articolo che Canfora ha pubblicato di recente sul Corriere è molto utile perché de-ideologizza il problema del quaderno mancante. C'è anzitutto una questione filologica da appurare: perché, ad esempio, i testimoni non sono mai d'accordo sul numero dei quaderni?».

Secondo Massimo D'Alema, Togliatti tutt'al più avrebbe «ibernato» il quaderno, in attesa di una posterità meno turbolenta.

«Quando Canfora mi riferì della dichiarazione pubblica di D'Alema rimasi impressionato. L'idea di D'Alema coincideva con quella che mi ero fatto studiando i documenti. Bisognerebbe chiedere a D'Alema se la sua dichiarazione fosse il risultato di un ragionamento, oppure abbia pescato nella memoria qualcosa sentito a Botteghe oscure».

Perché Gramsci, chiede che i quaderni siano inviati in URSS, alla moglie? Non poteva pregare Sraffa di tenerli nella cassaforte del banchiere Mattioli?

«Gramsci, non solo in carcere ma anche nelle cliniche, non ha alcuna autonomia. I suoi contatti col mondo passano per la cognata Tania e Sraffa. Tania è una funzionaria dei servizi sovietici e Gramsci lo sa. Sraffa è un agente dell'Internazionale comunista e si muove in sintonia con Togliatti. E Gramsci considera Togliatti il responsabile della sua mancata liberazione. Se sai di trovarti in punto di morte e vuoi affidare a qualcuno i tuoi scritti, in queste condizioni che fai? Giochi la carta degli affetti. “Affidate i miei quaderni ai miei familiari come ricordo. Poi si vedrà”».


10 aprile 2013

GRAMSCI: UN SARDO TEMUTO, AMMIRATO, DISCUSSO E ANCORA MOLTO STUDIATO.

Pier Giorgio Serra


La polemica spagnola.

Dopo un 2012 di studi intensissimi su Gramsci, quasi matti e disperati, il 2013 si apre all’insegna di una polemica. Dai giornali spagnoli, italiani e inglesi viene diffusa la notizia che una blogger molto nota in Spagna per il suo impegno al fianco del movimento degli Indignados, Almu Montero, sia stata attenzionata dall’autorità di pubblica sicurezza e dall’autorità giudiziaria per aver cinguettato un celebre pensiero di Antonio Gramsci:

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza».

L‘accusa? Nientedimeno che istigazione alla violenza.

Un modello pedagogico per gli inglesi.

Non passa un mese e di nuovo Gramsci ritorna in evidenza nei canali dell’informazione globale. Stavolta è il corrispondente inglese al nostro Ministro dell’Istruzione, Michael Gove, che elogia il principio educativo pedagogico di Antonio Gramsci e lo propone come modello da importare nella Scuola inglese. E naturalmente assicura il suo impegno da Ministro per fare in modo che questo avvenga.

Icona globale.

Ma che succede quindi attorno all’intellettuale italiano del novecento più studiato al mondo e che può contare circa sedicimila pubblicazioni che lo riguardano? Accade che Gramsci da eretico sia diventato un’icona globale. Ce lo ricorda il titolo di un bel volume pubblicato da Guanda nel 2010, scritto da Angelo Rossi che appunto recita: Gramsci da eretico a icona. Storia di un «cazzotto nell’occhio». E che sia un’icona globale lo afferma anche la scrittrice sarda Michela Murgia che nel suo sito web, in un post it, ovviamente giallo, ci ricorda che “Gramsci è intellettualmente sexi”.

Un concetto, questo, che la Murgia ribadisce anche nella prefazione alle Lettere dal carcere, nell’ultima edizione ripubblicata da Einaudi (2011), dove si legge: “Il volto di Gramsci è un’icona pop, con livelli di riconoscibilità pari o di poco inferiori a quelli di Che Guevara, di Marylin Monroe e di Martin Luther King. Nessun altro filosofo al mondo, eccetto Marx, ha suscitato lo stesso fascino di lingua in lingua, seducendo quattro generazioni con il suo pensiero innovativo e con la forza di una dialettica così tagliente da aver colonizzato il linguaggio”.

Gramsci comunista-liberale?

E’ evidente che attorno al pensatore nato ad Ales il 22 gennaio del 1891, si sta ricreando un interesse globale sia in Italia che all’estero dove, dalla fine del comunismo (Berlino 1989 e Mosca 1990) Gramsci è rimasto l’unico comunista ancora capace di parlare alla modernità, all’uomo moderno e ai suoi bisogni di credere in qualcosa che non sia il Dio denaro, il famoso pensiero unico. Ecco allora che in Italia, uno stimato professore di linguistica, Franco Lo Piparo, dopo I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (2012), pubblica nel gennaio del 2013, con Donzelli, il saggio L’enigma del Quaderno in cui si sostiene che Gramsci non è morto comunista (ma neanche convertito come fu affermato da emeriti Monsignori nel 2007), bensì liberale. Lo avrebbe scritto lo stesso Gramsci in un Quaderno che manca all’appello.

Il Quaderno scomparso.
Secondo il linguista a trafugare il Quaderno, facendolo poi sparire, sarebbe stata quella coppia di birbanti di Piero Sraffa e Palmiro Togliatti. Cioè, secondo Lo Piparo, a manipolare la verità storica sarebbero stati nientemeno che il migliore amico di Gramsci carcerato e l’uomo politico che nel dopoguerra ha pubblicato e fatto conoscere al mondo l’opera del pensatore sardo, quell’opera che ha permeato per più di un ventennio la politica culturale del Pci e forse anche quella delle persone più attente alle novità. A questo proposito è senz’altro utile leggere il risultato della ricerca fatta da Francesca Chiarotto, giovane ricercatrice piemontese, pubblicata in Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, un affascinante e documentato libro edito da Bruno Mondadori nel 2011.

La tesi del complotto.

Nella sua tesi Franco lo Piparo è supportato autorevolmente da Luciano Canfora, filologo classico, con incursioni prestigiose nella ricerca storica, autore anche lui di un libro che ha fatto scuola: La storia falsa, Rizzoli 2008. Ma soprattutto Canfora è autore di altri due volumi, tutti e due editi dalla casa editrice Salerno nel 2012, Gramsci in carcere e il fascismo e Spie, URSS, Antifascismo. Gramsci 1926-1937, nei quali si può leggere la descrizione di quanto fosse torbido il mondo e torbida la mentalità dei comunisti staliniani negli anni trenta. Tutti impegnati a costruire il socialismo in un solo paese e a ordire trame e complotti per lasciare Gramsci in carcere al fine di occupare loro la dirigenza del movimento comunista. Ruolo che si presume sarebbe spettato a Gramsci qualora fosse stato libero.

La replica di Vacca.

Va tuttavia ricordato che queste tesi sono state abilmente confutate, non in modo diretto ma oggettivo, dal principe degli studiosi gramsciani italiani, Giuseppe Vacca, nel suo libro Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Torino, Einaudi, 2012. Si tratta di un libro che si presenta non solo come una nuova e più aggiornata biografia gramsciana, relativa agli anni 1926-37, con storia documentata e interpretazioni appoggiate solidamente sui testi e documenti anche nuovi, vagliati e accuratamente studiati dall’autore.

Il vero problema: la mancata liberazione.

Giuseppe Vacca sostiene che «la mancata liberazione di Gramsci costituisce l’aspetto più problematico della sua biografia» e a questo proposito chiama in causa la famosa lettera di Grieco. Questa lettera, scritta in Svizzera e inviata prima a Mosca per essere sottoposta alla visione di Togliatti, giunge a Gramsci, dopo varie peripezie, in carcere a Milano. Vacca dedica molte pagine all’analisi e alla comprensione del suo contenuto, utilizzando anche nuovi documenti. Gramsci era infatti convinto che la sua permanenza in carcere fosse dovuta proprio a questa missiva e denunciò l’accaduto al suo partito. Il libro si chiude con un capitolo dedicato ai Quaderni a cui fa riferimento la vedova di Gramsci, Giulia Schulcht quando denuncia Palmiro Togliatti al Komintern, imputandogli la mancata liberazione del marito. Su entrambe le questioni, forse, non ci sarà mai una versione accettata da tutti, ma Giuseppe Vacca così conclude il suo studio: «Togliatti aveva avviato la costruzione dell’icona di Gramsci come martire dell’antifascismo e non aveva bisogno di sabotare tentativi di liberazione, a tenere Gramsci in carcere ci pensava già Mussolini».

Conteso ma studiato.

Tutto questo non può che far piacere a chiunque sia disposto ad ascoltare le opinioni altrui e a rispettarne gli assunti. E Gramsci conteso è appunto il titolo di un altro libro pubblicato, anzi ripubblicato, dagli Editori Riuniti alla fine del 2012: Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche, 1922-2012 di Guido Liguori. Si tratta di una riedizione aggiornata, con tre nuovi capitoli, di un libro del 1996.

Nei nuovi capitoli, Liberaldemocratico o comunista critico?, Gramsci nel duemila e Il ritorno di Gramsci (2009-2012), Liguori traccia il modo in cui la politica, la cultura, e tante discipline umanistiche e sociali abbiano strattonato Gramsci per portarlo dalla propria parte, lasciandolo poi spesso nell’oblio e nel dimenticatoio. Strattona-strattona − ci fa osservare Liguori − si è arrivati (In nome di Gramsci?) alla coniazione di veri e propri ossimori linguistici-ideologici, come “comunismo liberale”. Ma alla fine − c’è da domandarsi − qual è la ragione di tutto questo contendere? La risposta − avverte Liguori − sta nel fatto che intorno alle diverse interpretazioni di Gramsci si dipana la storia della cultura politica italiana del Novecento e uno dei più significativi aspetti del lascito che essa ha saputo trasmettere alla cultura mondiale.

Un nuovo rinascimento.

C’è da augurarsi che l’analisi del lascito gramsciano continui, come sta continuando. E’ infatti in atto un nuovo rinascimento per gli studi sul filosofo sardo, tant’è che le ultime notizie ci dicono di un convegno tenutosi a Parigi tra il 22 e 23 marzo, organizzato dalla fondazione Gabriel Péri, intitolato appunto La «Gramsci Renaissance» Regard scroisés France-Italie sur la pensée d’Antonio Gramsci. Insomma, sembra proprio che anche in questo 2013 al di là dei facili schematismi, legati alla natura stessa delle icone, si procede ad individuare spunti nuovi nella lettura dell’opera dell’unico comunista rimasto in piedi dopo la rovinosa caduta del comunismo mondiale.


26 marzo 2013

Il "Dossier Gramsci" pubblicato su l'Humanité dopo il convegno di Parigi

Il testo dell'intervento di Domenico Losurdo:

È noto che Gramsci saluta l’ottobre bolscevico come la «rivoluzione contro Il capitale»: smentendo la lettura meccanicistica dell’opera di Marx, essa si era verificata in un paese non compreso tra quelli capitalistici più avanzati. Meno noto è il fatto che il rifiuto del dottrinarismo caratterizza anche la visione gramsciana della costruzione dell’«ordine nuovo»: ne derivano insegnamenti preziosi per una sinistra che voglia comprendere i processi in atto in paesi quali Cina, Vietnam e Cuba.

Ritorniamo all’articolo già citato. Quali saranno le conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese arretrato e stremato dalla guerra?: «Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza». Era uno stadio inevitabile, ma che doveva essere superato «nel minor tempo possibile». Il socialismo non coincideva con l’«ascetismo universale» e il «rozzo egualitarismo» criticati dal Manifesto del partito comunista. Ben lungi dal ridursi alla ripartizione egualitaria della miseria, il socialismo esigeva lo sviluppo delle forze produttive. È per conseguire questo risultato che Lenin introduce la Nuova Politica Economica.

Dai populisti la NEP viene subito letta quale sinonimo di restaurazione del capitalismo. Non è questo il punto di vista di Gramsci che nel 1926 osserva: la realtà dell’URSS ci mette in presenza di un fenomeno «mai visto nella storia»; una classe politicamente «dominante» viene «nel suo complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati ele­men­ti e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra». E, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo: il proletariato non può né conquistare né mantenere il potere, se non è capace di sacrificare interessi particolari e im­mediati agli «interessi generali e permanenti della classe». Coloro che denunciano la NEP quale sinonimo di ritorno al capitalismo hanno il torto di identificare ceto economicamente privilegiato e classe politicamente dominante.

La resa dei conti col populismo nostalgico di un mondo ancora al di qua della grande industria prosegue nei Quaderni del carcere: nell’«americanismo e fordismo» vi è qualcosa che, una volta staccato dal sistema capitalistico di sfruttamento, può svolgere una funzione positiva negli stessi paesi socialisti. Anche per loro – per citare il Manifesto – è «una questione di vita e di morte» l’introduzione di «industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo».

Siamo ora in grado di comprendere le difficoltà dei paesi di orientamento socialista. Essi sono chiamati a lottare non contro una bensì contro due diseguaglianze: quella che vige all’interno del singolo paese, l’altra che sancisce la preminenza economica, tecnologica (e militare) dei paesi capitalistici più avanzati. La lotta contro le due diseguaglianze non può procedere con un passo cadenzato.

Gramsci è l’autore che più di ogni altro ha insistito sul carattere complesso e contraddittorio del processo di costruzione dell’«ordine nuovo»: guardare a esso con saccenteria e lasciarsi sedurre dal «canto del cigno» dell’Antico regime (che può essere talvolta di «mirabile splendore»), tutto ciò significa delegittimare ogni rivoluzione.

Anche ai giorni nostri il populismo svolge un ruolo negativo. Mentre a partire dalla Francia, nonostante la crisi e la recessione, si diffonde il culto della «décroissance» caro a Latouche e in Italia anche a Grillo, la sinistra occidentale guarda con diffidenza o ostilità a un paese come la Repubblica popolare cinese, scaturita da una grande rivoluzione anticoloniale e protagonista di un prodigioso sviluppo economico, che non solo ha liberato diverse centinaia di milioni dalla fame e dalla degradazione ma che finalmente comincia a mettere in discussione il monopolio occidentale della tecnologia (e quindi le basi materiali dell’arroganza imperialista

Non c’è dubbio: il populismo è tutt’altro che morto. Ma è proprio per questo che la sinistra ha bisogno della lezione di Gramsci.

Domenico Losurdo