1. Un nuovo soggetto della storia.
Quando Antonio Gramsci comincia a deporre i suoi
appunti in quelli che saranno poi i Quaderni del carcere, il suo
sguardo teorico è profondamente mutato rispetto ai suoi
precedenti anni di vita e di militanza politica. Imprigionato
nell’Italia dove ormai s’è consolidato il regime fascista,
consapevole dell’esaurimento e della sconfitta dei moti sociali e
rivoluzionari nell’Europa occidentale postbellica, profondamente
isolato non solo dai compagni del carcere ma, verosimilmente, anche
da una parte del gruppo dirigente del Pcd’I, almeno quanto al
giudizio sull’Unione Sovietica, il militante politico sardo riesce,
malgrado tutto ciò, nel capovaloro della sua vita: nel
tradurre cioè genialmente quella sospensione forzata dalla
prassi e quella solitudine così radicale, che nasce non solo
dai nemici ma anche dagli amici, nell’accensione di una visione
teorica organica e sistematica che potesse far da contenitore, non
solo da un punto di vista psicologico alle terribili forze
disgregative dell’esperienza carceraria (per un corpo già
provato come quello di Gramsci), ma soprattutto all’esigenza di
ripensare, dopo la sconfitta, categorie e modi originali di una
rinnovata rivoluzione comunista nell’Occidente.
Per tale duplice ordine di motivazioni, individuali e
politiche, il Gramsci del carcere è un pensatore che si
sottrae sia all’ottica del frammento e del work in progress, in cui
molti frequentatori del pensiero debole e del postmoderno hanno
voluto recentemente collocarlo, sia all’ottica della democrazia,
anziché del socialismo, in cui, in modo parimenti forzato, il
suo pensiero è stato, anche qui più volte e
soprattutto negli ultimi anni, collegato e iscritto. Laddove il
Gramsci dei Quaderni, al di là dell’oggettiva frammentazione
dei suoi appunti carcerari e della intensa rielaborazione cui
l’autore li ha sottoposti, è un pensatore, almeno a parere di
chi scrive, dal pensiero forte, il quale, a muovere da alcuni
teoremi e filosofemi fondamentali, offre una nuova sistematica del
marxismo: a tal punto da presentarsi, nella complessità delle
luci e delle ombre della sua figura teorica, come tra i pensatori
più organicamente innovativi e originali del marxismo del
‘900.
La variazione di senso più radicale e pregna di
conseguenze che il Gramsci dei Quaderni compie rispetto alla
dottrina tradizionale del materialismo storico è che la
«filosofia della prassi» – termine con cui ridenomina, e
non solo a motivo della censura carceraria, la teoria della storia e
della rivoluzione di Marx ed Engels – rimanda a una visione del
divenire storico scandito, non tanto dall’alternarsi di modi di
produzione messo in moto dalla contraddizione tra forze produttive e
rapporti di produzione, quanto invece dal farsi e disfarsi di
soggetti collettivi, legati alla capacità o meno di dirigere
socialmente e politicamente, oltre che se medesimi, la maggioranza
delle classi e dei ceti di una determinata compagine
storico-sociale. Chi scorre le ampie pagine di storiografia che il
pensatore sardo dedica alla Riforma protestante, al giacobinismo e
alla Rivoluzione francese, al Risorgimento italiano, si rende conto
infatti che è la dimensione dell’«egemonia»,
assai più che quella dell’economia, a costituire il fattore
determinante dell’azione storica: ossia, propriamente, l’effetto di
universalizzazione e di produzione di consenso che ogni
soggettività collettiva, a partire dalla sua rilevanza
economica, deve di necessità saper generare, per nascere
all’iniziativa storica e, più complessivamente, alla
direzione etico-politica di una nazione.
Nella visione di Gramsci una classe, o «gruppo
sociale», è connotato inizialmente da un primo livello
di esistenza che è meramente economico e in cui la sua sfera
d’azione è limitata alla riproduzione dei propri interessi,
solo particolari e corporativi. Anzi in un primo momento ciascun
membro del gruppo in questione è talmente conchiuso e
concluso nella sua individualità da non attingere neppure una
coscienza corporativa della comunità d’interessi che lo lega
agli altri membri del suo medesimo raggruppamento. Per cui
ciò che s’evidenzia a tale primo livello è la completa
assenza di un soggetto collettivo, come il darsi di una
socialità pressocchè naturalistica, dove le azioni
umane, frammentate e irrigidite nella riproduzione degli interessi
dei singoli, non sono iscrivibili in un volere autenticamente umano
che possa dar loro forma, secondo un’intenzionalità
progettuale e innovativa. Esse possiedono qui il carattere di fatti
oggettivi – anziché essere atti – e, come tali, sono oggetto
e materia d’analisi propriamente e solo delle scienze quantitative e
misurabili della natura.
Quando invece i membri di un gruppo sociale non
s’identificano più solo con la loro atomistica
singolarità e acquistano prima la coscienza della loro
omogeneità di gruppo e poi, ulteriormente, la consapevolezza
che il loro interesse possa includere, rappresentandole, le esigenze
e i bisogni degli altri gruppi sociali, fino a combinarsi con
l’interesse della maggioranza della società, allora il gruppo
sociale inaugura l’ambito d’esistenza più propriamente
politico: quale sfera di un agire che assume a suo scopo non
il fine di una mera riproduzione naturalistica, quanto invece quello
di un’azione intrinsecamente umana e storica e, come tale,
instauratrice del nuovo e dell’irripetibile, non riducibile a
misurazione quantitativa e a determinismo naturalistico E’ questa la
sfera della sovrastruttura in quanto società civile, fatta di
tutte quelle istituzioni e associazioni per le quali il confronto
sociale si compie soprattutto attraverso la lotta e la forza delle
idee, attraverso la capacità di penetrazione ideologica, la
dinamica dei valori spirituali e la dialettica tra le visioni del
mondo. Cosicché per Gramsci chiave di volta dell’egemonia
sociale e politica di una classe dirigente è la
capacità di produrre, accanto ed oltre alla ricchezza
materiale ed economica, una ricchezza soprattutto di natura teorica
e culturale, quale elaborazione di una visione del mondo subordinata
o colonizzata da patrimoni ideologici altrui. E’ la
capacità cioè di tessere e definire da parte di una
classe o gruppo sociale l’identità della propria
soggettività secondo una propria filosofia, in cui non vi sia
discrepanza tra il piano reale e materiale del suo essere sociale e
l’autorappresentazione teorica e il sapere consapevole che quel
gruppo-classe mostra di avere del medesimo.
La contraddizione, cui il comunista deve tener dietro e
che deve severamente indagare, è dunque per Gramsci non
è più tanto quella meramente economica fra forze
produttive e rapporti di produzione quanto quella che una
soggettività collettiva patisce tra il proprio fare e il
sapere di esso: giacché tali piani, della vita come prassi
materiale e della vita come coscienza, in una condizione d’esistenza
passiva e subalterna di un gruppo sociale, si collocano su livelli
tra loro discordi ed eterogenei. Visto che le forme di
rappresentazione del proprio sé, di cui un gruppo sociale
subordinato dispone, sono sempre mediate e fornite, in modo
eteronomo, dalle forme del rappresentare e del concepire proprie
delle classi dominanti.
Ne consegue che per Gramsci la soggettività collettiva del subalterno non possiede alcuna garanzia di percezione del vero e di affrancamento dall’errore, come invece teorizzavano Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca, quando, affermavano che la classe dei lavoratori manuali per la materialità della loro vita è immune da ubbìe e mistificazioni ideali.
La struttura delle forme di coscienza dei ceti subalterni è
infatti per Gramsci composita, fatta di più sedimentazioni e
ispirazioni teoriche, incoerente nella sua molteplicità
d’origine, e inconsapevole di tale multiversum. Per cui è
evidente che un soggetto realmente capace d’innovazione storica
può sorgere, non come già istituito nell’ambito della
sola produzione materiale – come voleva una tradizione maggioritaria
del marxismo – ma solo come esito di un processo di ricomposizione e
di sintesi, anche e prevalentemente, ideologico e simbolico. Il
soggetto storico per Gramsci, per dirla con il linguaggio di Hegel,
non è mai un presupposto, ma è sempre un posto:
è cioè, non qualcosa che si genera e si dà in
base al solo conflitto economico tra le classi, ma il risultato di
un processo di organizzazione e di unificazione che passa
soprattutto attraverso l’affrancarsi dalle fallaci forme di
rappresentazione e percezione della vita che quel soggetto, in
quanto subalterno, possiede all’inizio necessariamente di sé.
La nuova concezione dell’ideologia.
Il principio da cui muove la vera e propria
rifondazione del marxismo che compie (non importa qui dire con quale
grado di consapevole intenzionalità) l’autore dei Quaderni
è dunque la nuova interpretazione proposta, rispetto
alla visione di Marx ed Engels, del concetto e della funzione
dell’«ideologia». Per quest’ultimi, secondo quanto hanno
teorizzato nella Deutsche Ideologie, ideologia è sinonimo di
falsa coscienza, di estraneità e lontananza da quel luogo
unico e vero del senso che, in una prospettiva di materialismo
storico, ha da essere null’altro che il lavoro, la prassi materiale,
rispetto alla cui pregnanza di realtà, l’ambito della
produzione d’idee non può che produrre deformazione e
contraffazione della vera struttura delle cose. La produzione delle
idee attiene alla sovrastruttura, alla sfera di pertinenza degli
intellettuali/ideologici, la cui funzione, a motivo della divisione
sociale del lavoro che segna ogni società di classe, non
può che legittimare, falsificandola e affrancandola dalle sue
intrinseche contraddizioni, la struttura.
All’opposto per Gramsci la
funzione dell’ideologia va sottratta ad un’intepretazione
meccanicistica e volgare, che riduce la sovrastruttura a mera
conseguenza ed effetto della struttura, e restituita al suo
significato positivo di componente, essa stessa strutturale e
indispensabile, dell’agire storico. Perché il mondo delle
idee, dei valori, delle religioni e delle concezioni del mondo,
è fondamentale per comprendere ciò che muove l’agire e
il vivere degli esseri umani. Perché senza la funzione
strutturante dei convincimenti non si possono comprendere le
relazioni e i conflitti tra i ceti e le classi, che, se muovono da
una causa materiale ed economica, hanno sempre un’elaborazione e una
traduzione ideale/ideologica.
A tal proposito è indicativo il rilievo che Gramsci nei Quaderni dà al celebre passo di Marx della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, nel quale questi scrive: «Quando si studiano simili sconvolgimenti [le rivoluzioni sociali], è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo [ausfechten]». La traduzione gramsciana, nella quale l’espressione “«lo combattono» viene resa significativamente con «lo risolvono» («le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di risolverlo»), sottolinea quanto l’ideologia sia per Gramsci il medium della presa di coscienza di soggetti individuali e collettivi. Lungi dall’essere la trasfigurazione idealistica d’interessi materiali e di passioni di parte, l’ideologia ha per Gramsci valore teoretico, conoscitivo. “La tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali sul terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico”.
Non che Gramsci nei Quaderni ovviamente non conosca e
non utilizzi il significato negativo di ideologia quale sinonimo di
inganno e di mistificazione, come quando ad es. in una rivoluzione
passiva un gruppo sociale dominante impone ai gruppi subalterni un
preteso universalismo che non corrisponde ad una unificazione reale
degli interessi. Ma ciò che s’attesta come prevalente nel
testo gramsciano, tale da proporsi addirittura come il filosofema
più originale e innovativo dell’intero complesso dei
Quaderni, è l’attribuzione di una funzione di verità
all’ideologia. Com’e testimoniato per altro anche dal modo in cui
Gramsci rilegge e riscrive la categoria soreliana di «blocco
storico»: “Il concetto del valore concreto (storico) delle
superstrutture nella filosofia della praxis deve essere
approfondito, accostandolo al concetto soreliano di ‘blocco
storico’. Se gli uomini acquistano coscienza della loro posizione
sociale e dei loro compiti sul terreno delle superstrutture,
ciò significa che tra struttura e superstruttura esiste un
nesso necessario e vitale”.
La struttura è il luogo della via materiale, del
ricambio organico degli uomini con la natura attraverso relazioni
antagoniste di classe. E’ il luogo della necessità cui ci
costringe la nostra vita corporea, il luogo dei bisogni che ci
troviamo obbligati a soddisfare, è il luogo della coazione e
della subordinazione inevitabile. Esso è definibile e
misurabile quantitativamente, secondo il metodo delle scienze
naturali e, come tale, è costituito da un complesso di forze
e di relazioni che sono indipendenti dalla volontà degli
esseri umani. La sovrastruttura è invece l’ambito delle forme
di coscienza, delle visioni del mondo, delle simbolizzazioni
attraverso cui la sfera materiale dell’esistenza viene pensata,
significata, interpretata ed elaborata. E’ l’ambito in cui la
dimensione naturale dell’economico viene tradotta in forme della
coscienza, individuale e collettiva. Tanto che il nesso di struttura
e sovrastruttura, sottraendosi alla configurazione meccanicistica e
causalistica del marxismo della tradizione, si dispone in Gramsci
più secondo la congruenza e la funzionalità reciproca
di piani paralleli, quali ad es. quelli di «forma» e
«contenuto».
La rifondazione delle categorie del materialismo storico.
Del resto è proprio da tale innovazione ideologica che
derivano le altre tesi della rifondazione gramsciana del
materialismo storico, quale, in primo luogo, quella concernente la
ridefinizione del concetto di «praxis». Perché
per il pensatore sardo praxis cessa di essere sinonimo di lavoro,
inteso come elaborazione del mondo materiale, per acquisire il senso
antropologico-politico di elaborazione e produzione di una
soggettività collettiva. La prassi per eccellenza è
infatti quella che traduce sul piano storico un gruppo o classe
sociale dalla condizione di inesistenza o passività del ceto
subalterno a quella attiva del ceto egemonico. E’ propriamente la
prassi che traduce un soggetto collettivo dalla suo non-essere
storico all’essere dell’azione storico-politica. Ed è dunque
un significato di praxis che, lontano dal significato fabbrile di
poiesis, rimanda all’agire autoriflesso di una soggettività
collettiva, a sostanziare la nuova teorizzazione gramsciana del
concetto di rivoluzione.
Il processo rivoluzionario viene infatti sottratto da Gramsci allo schema amico-nemico o di classe contro classe, con la sconfitta del nemico e la presa del potere che tradizionalmente ne derivava. Per essere ridefinito come un processo, potremmo dire, appunto autoriflessivo di un gruppo sociale o di un soggetto collettivo su sé medesimo. Dove ciò che di fondo è in questione è una modalità di progressivo affrancamento di una soggettività collettiva dalle forme inadeguate, che, inizialmente e necessariamente, possiede della coscienza di sé, per poter giungere alla maturità di un’ideologia/forma di coscienza che sia invece adeguata e coerente con il proprio essere sociale. Per dar luogo cioè all’organicità di un blocco storico in cui vi sia appunto corrispondenza tra l’essere sociale (la funzione economica) e il sapere di tale essere (la funzione ideologica). Essere subalterni significa infatti non possedere una ideologia adeguata, non avere elaborato una visione del mondo omogenea ed organica, quanto invece partecipare in modo frammentato e incoerente, oltre che inconsapevole, di più concezioni del mondo e della vita.
Come testimonia per Gramsci quanto si deposita nel «senso comune» e nel «folklore» dei ceti popolari, che se per un verso possono contenere anche elementi di critica e di non conformismo, per l’altro sono l’espressione di un’accettazione e di un’adesione al conformismo dominante: «perché il popolo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e incontaminati” .
Il senso comune è la «filosofia delle
moltitudini» e «il suo tratto fondamentale e più
caratteristico è di essere una concezione (anche nei singoli
cervelli) disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla
posizione sociale culturale delle moltitudini di cui esso è
filosofia». Così sostanza della rivoluzione – che non
può che essere «rivoluzione intellettuale e
morale» - deve essere l’elaborazione di una visione del
mondo capace di condurre a sintesi e a coerenza il senso comune dei
ceti subalterni, che sia capace cioè di superare la
disgregatezza delle forme di coscienza e di creare un sistema del
sapere omogeneo. «Quando nella storia si elabora un gruppo
sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una
filosofia omogenea, coerente e sistematica».
Un’ideologia, che sia capace di unificare il molteplice,
ossia che penetri, trasformandolo intimamente in «ciò
che le masse pensano embrionalmente e caoticamente intorno al mondo
e alla vita», non può che essere, per quanto detto,
«totalitaria». Deve cioè restituire la
totalità delle relazioni e delle contraddizioni sociali in
cui il gruppo sociale in questione si colloca e di lì
ricomporre un quadro unitario di sintesi e di punto di vista.
«La struttura e le superstrutture formano un ‘blocco storico’,
cioè l’insieme complesso e discorde delle superstrutture sono
il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne
trae: che solo un sistema di ideologie totalitario riflette
razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta
l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della
praxis. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per
l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse
per questo rovesciamento». Vale a dire che per Gramsci -
ben oltre le contraddizioni strutturali dell’ambito economico che
vengono privilegiate nella teoria della crisi e della rivoluzione
del marxismo classico – è il grado «totalitario»
di un’ideologia, del piano sovrastrutturale, che, riflettendo ed
elaborando quelle contraddizioni, si fa premessa e condizione
«oggettiva» del «rovesciamento della prassi»
e della trasformazione rivoluzionaria del piano strutturale.
Ed è appunto in tale grado di totalizzazione e
di universalizzazione del proprio sapere del mondo e di sé da
parte di una classe sociale, in tale paradigma della coscienza
omogenea, che si fonda la capacità di esercitare
«egemonia»: ossia di produrre non solo autocoscienza e
organizzazione del proprio gruppo sociale ma di universalizzare, sul
piano culturale e simbolico, i propri interessi in modo tale da non
renderli più compatibili con il quadro dei valori sociali ed
etico-politici esistenti; e in questa trans-valutazione, di renderli
così innovativi e di rottura da far sì che con essi
s’identifichino anche gli interessi di altri gruppi subordinati.
Egemonia, che si matura e si raggiunge secondo quell’evolversi e
progredire, da parte di un gruppo sociale, delle forme del proprio
rappresentare, di cui si diceva all’inizio, e scandito secondo : 1)
una forma naturalistica del rappresentare, in cui la società
viene vista solo come insieme di rapporti di forza, indipendenti
dalla volontà e dall’agire del singolo e dove questi è
volto alla solo riproduzione individualistica di sé; 2) una
forma corporativa del rappresentare, in cui il gruppo sociale
conquista una coscienza collettiva di sé, ma ancora
attraverso pratiche di riconoscimento e conquiste di interessi di
gruppo all’interno dell’assetto esistente; 3) una forma
egemonica del rappresentare, dove il gruppo sociale riesce a
presentare il proprio interesse come interesse universale,
attraverso cui unificare, riorganizzare e dirigere un nuovo assetto
sociale. «E’ preferibile ‘pensare’ senza averne consapevolezza
in modo disgregato e occasionale, è preferibile ‘partecipare’
ad una concezione del mondo ‘imposta’ dal di fuori, da un gruppo
sociale […] o è preferibile elaborare la propria concezione
del mondo consapevolmente e criticamente e in connessione con tale
lavorìo del proprio intelletto scegliere il proprio mondo di
attività, partecipare attivamente alla produzione della
storia universale?».
Da questa teoria della rivoluzione come riforma
intellettuale e morale, come emancipazione da parte di un gruppo
sociale delle forme primitive e inadeguate della propria coscienza e
del proprio conoscere – si potrebbe dire, con parole non gramsciane,
da questa teoria della rivoluzione quale elaborazione del proprio
inconscio ideologico - deriva per Gramsci la funzione degli
«intellettuali organici», intimamente connessa a
quella del partito politico. Gli intellettuali, organici a una data
classe sociale, hanno il compito di elaborarne il senso comune, di
accoglierne bisogni e forme rappresentative, per mediarle e comporle
in una superiore sintesi ideologica, per dare vita cioè a un
corpo collettivo, che, nell’autosufficienza della propria visione
del mondo, sappia concepirsi come classe autonoma e come soggetto di
trasformazione. «Autocoscienza critica significa storicamente
e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una
massa umana non si distingue e non diventa indipendente per
sé senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è
organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori
e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso
teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone
‘specializzate’ nell’elaborazione concettuale e filosofica». E
in tal senso è il Partito politico il luogo per eccellenza
animatore e formatore di una volontà collettiva, fatta
dell’incontro e della reciproca sollecitazione tra chi solo sa e chi
solo sente, tra l’attitudine, cioè, e la competenza per il
generale e l’universale propria degli intellettuali e le passioni e
il sentire concreto delle masse. «L’elemento popolare sente,
ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale sa, ma non
sempre comprende e specialmente sente». Compito del
Partito è organizzare questa mediazione e tradurre il
«sentimento-passione» in «comprensione»,
così come operare perché la concezione di una
élite si faccia coscienza di massa, nuovo conformismo, e
volontà effettualmente reale.
La sottrazione del processo rivoluzionario a una
matrice solo di contraddizioni economiche e il ruolo centrale
assegnato all’ideologia «totalitaria» quale chiave di
volta di una riforma intellettuale e morale, non possono non
condurre infine la rifondazione della filosofia della praxis
intrapresa da Gramsci nei Quaderni ad una riformulazione profonda,
com’è evidente per quanto detto fin qui, anche del nesso
concettuale di «struttura» e
«sovrastruttura». Com’è noto infatti per Marx ed
Engels la sovrastruttura corrisponde all’insieme delle relazioni
sociali che non mettono direttamente in moto la storia e che
comprendono, senza differenza rispetto a tale mancanza di efficacia
e causalità nel divenire storico, la produzione delle idee,
la religione, il corpo delle leggi e lo Stato. La sovrastruttura
rappresenta la giustificazione e la difesa, attraverso la
mistificazione delle idee e la forza repressiva dello Stato, del
vero motore della storia costituito dal modo di produzione, che a
sua volta vive del nesso dialettico tra forze produttive e rapporti
di produzione. Per cui quando lo sviluppo delle forze produttive
entra in opposizione con rapporti di produzione sempre più
statici e regressivi «subentra un’epoca di rivoluzione
sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge
più o meno rapidamente tutta la gigantesca
sovrastrutttura».
La visione della storia di Gramsci è assai lontana dagli automatismi di questo marxismo della contraddizione, noto e diffuso, «sotto l’appellativo un po’ dottrinario - come osserva nel Quaderno 13 - di materialismo storico”.
L’economismo storico, ossia la riduzione di ogni avvenimento storico al movente e all’interesse economico, appartiene ad una prima configurazione necessariamente immatura del marxismo, obbligata in primo luogo ad opporsi e a distinguersi da ogni visione (hegelo-)spiritualistica della storia: «il materialismo storico non poteva non essere una fase prevalentemente critica e polemica della filosofia, mentre si aveva bisogno di un sistema già compiuto e perfetto». Del resto la fede che la storia debba avere un’evoluzione automatica, il cui carattere obbiettivo possa essere descritto con la necessità delle leggi naturali, e che tale evoluzione volga necessariamente verso un fine, quale il comunismo, corrisponde alle credenze fideistico-religiose di cui hanno bisogno le masse popolari in una prima fase di opposizione e di autonomizzazione dalla cultura dominante.
Ma proprio per tutto
ciò Gramsci svolge e distribuisce su tre sfere il nesso di
struttura e sovrastruttura: articolando la composizione della
società in struttura economica, società civile e
Stato. Come nota infatti nel Quaderno 10, «tra la struttura
economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione
sta la società civile», corrispondendo propriamente la
prima all’ambito della riproduzione materiale delle esistenze
individuali e delle classi sociali, l’ultima all’ambito della
produzione degli apparati della forza giuridico-repressiva, e la
seconda all’ambito dedicato specificamente alla produzione delle
idee, cioè al confronto tra le visioni del mondo e alla lotta
etico-politica per l’egemonia. Più specificamente è la
«società civile» che Gramsci autonomizza dalla
struttura economica, rifacendosi nell’uso di questo termine (che in
tedesco, com’è noto, suona bürgeliche Gesellschaft)
verosimilmente, più che non a Marx, ad Hegel per il quale la
bürgerliche Gesellschaft comprende, oltre l’economia del
«sistema dei bisogni», tutta una serie di istituzioni e
di organizzazioni legate a valori, non economici, ma di natura
sovramateriale e per qualche verso solidaristico-consensuali.
«Si possono, per ora, fissare due grandi ‘piani’
superstrutturali, quello che si può chiamare della
‘società civile’, cioè dell’insieme di organismi
volgarmente detti ‘privati’ e quello della ‘società politica
o Stato’ e che corrispondono alla funzione di ‘egemonia’ che il
gruppo dominante esercita in tutta la società e a quello di
‘dominio diretto’ o di comando che si esprime nello Stato e nel
governo ‘giuridico’».
3. Un marxismo senza Capitale.
Solo che tale ripensamento radicale del materialismo
storico e della rivoluzione comunista, che Gramsci deposita nei
Quaderni e che lo destina, non casualmente, a un drammatico
isolamento, come si diceva, fino a momenti di forte contrasto e
lacerazione con la struttura del Partito Comunista d’Italia, ha come
contrappasso, almeno a parere di chi scrive, una non pari
capacità di approfondire e rielaborare la lezione marxiana
sul Capitale e sulla critica dell’economia politica. Alla messa in
valore che Gramsci nei Quaderni compie della soggettività
storica e dei suoi modi ideologico-ideali di costituirsi a principio
d’iniziativa sociale e rivoluzionaria corrisponde infatti una
simmetrica sottovalutazione – per non dire radicale rimozione – dei
processi oggettivi di alienazione e feticismo posti in essere dal
Capitale, quale fondamentale e prioritario fattore della produzione
ideologica e delle forme della rappresentazione sociale all’interno
della società moderna. Come s’è detto, Gramsci
è un pensatore della praxis in quanto capacità di una
soggettività collettiva di dare direzione egemonica a
un’intero corpo sociale ed assai meno un pensatore della praxis
quale organizzazione capitalistica del processo di lavoro ed uso
capitalistico della forza-lavoro. Né gli interessa indagare e
approfondire la lezione marxiana del Capitale come valore in
processo e come universale astratto che tende progressivamente ad
assimilare alla propria logica di riproduzione l’intera compagine
sociale.
Non che Gramsci non dia sufficiente attenzione alle
problematiche della fabbrica, del lavoro operaio, della produzione
economica moderna. Basti pensare, oltre al riferimento costante alla
fabbrica nelle pagine dell’Ordine nuovo, la sezione assai nota dei
Quaderni dedicata ad Americanismo e fordismo, in cui, di contro alla
diagnosi stagnazionistica e catastrofistica che la III
Internazionale assegnava al futuro del capitalismo - secondo una
logica appunto dell’automatismo delle contraddizioni
oggettive, della caduta tendenziale del saggio di profitto e della
tendenza alla sovraproduzione intrinseca nella produzione
capitalistica – Gramsci, pur chiuso nello spazio angusto di un
carcere fascista, riusciva a mettere a fuoco l’inizio di una nuova
fase storica di espansione del capitalismo negli Stati Uniti
L’americanismo, com’è noto, è fondato per
Gramsci su una relazione e redistribuzione tra profitto, salario e
rendita profondamente diversa da quella del capitalismo
dell’occidente europeo. Gli alti salari e la conseguente espansione
della domanda hanno infatti consentito l’ampliamento, nella
società statunitense, di un mercato interno che non vede
più le rendite e il consumo improduttivo in una posizione di
grande rilievo. Rispetto al capitalismo ottocentesco e tradizionale,
fondato sulla repressione del salario e un rapporto organico tra
profitto e rendita, il nuovo capitalismo americano ha dislocato la
rendita in funzione marginale e ha collocato al centro della vita
economica e sociale il nesso salario-profitto.
Questa diversa distribuzione del reddito ha avuto
origine da un enorme aumento della produttività del lavoro
dovuta alla riorganizzazione dei processi produttivi secondo catene
di montaggio (fordismo) e la divisione-misurazione ferrea dei tempi,
dei movimenti e delle funzioni (taylorismo). Per cui, proprio
muovendo dalla centralità marxiana del processo di lavoro,
Gramsci è in grado di cogliere come alla base della
configurazione socio-economica del capitalismo americano e del suo
enorme potenziale di sviluppo stia la trasformazione tecnica del
processo di produzione, connotata dal lavoro a catena e quindi da un
nuovo rapporto tra macchina e forza-lavoro. Né a caso
al centro delle pagine gramsciane stanno le riflessioni sulla
funzione di una forza-lavoro che, nella nuova organizzazione di
fabbrica, partecipa sempre meno con la sua coscienza e la sua
autonoma personalità al processo di lavoro, costituendone una
componente invece solo meccanica e passiva. «Il Taylor [...]
esprime con cinismo brutale il fine della società americana:
sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti
macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del
lavoro professionale qualificato che domandava una certa
partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia,
dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al
solo aspetto fisico macchinale». Senza dimenticare infine che
la centralità che Gramsci assegna alla fabbrica nella
società americana assume la funzione di modellare finanche
costumi morali e valori ideali, sino alla regolazione degli stessi
rapporti sessuali: cosicché in America, diversamente
dall’Europa, «l’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno
per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari
professionali della politica e dell’ideologia».
Eppure proprio in tali pagine di profondo acume storico il pensiero
di Gramsci mostra anche tutta la distanza che lo caratterizza
rispetto alla connessione strettissima che il Marx della
matura critica dell’economia politica aveva teorizzato tra la
conformazione del processo di lavoro e la sua tendenziale
omogeneizzazione al processo di valorizzazione del capitale. Per
Marx la fabbrica, in quanto luogo centrale della valorizzazione di
valore, è essenzialmente un luogo di uso, consumo e
logoramento della forza-lavoro operaia, attraverso tecnologie e
organizzazioni del lavoro che variano a seconda dello sviluppo
storico ma che tendono tutte a rendere inevadibile il controllo
della direzione capitalistica sull’erogazione del lavoro,
ininterrotto e disciplinato, da parte della forza-lavoro, al fine di
produrre la maggiore quantità possibile di plusvalore. Per
Gramsci, fin dall’Ordine Nuovo, la fabbrica, se è anche
questo, è soprattutto luogo di razionalizzazione e di
efficienza. E’ il luogo in cui s’incarna per eccellenza la
modernità in quanto confronto razionale, efficace e senza
sprechi tra capacità produttiva dell’uomo e natura. Ed
è, in particolare, luogo di formazione di un soggetto
collettivo, che, attraverso la disciplina e il contenimento della
propria natura interna, ovvero dei propri impulsi più
naturalistico-individualistici, si educa alla liberazione, appunto,
dalla dimensione più egoistica ed arcaica del proprio
sé, per farsi soggetto di costruzione della storia e di
trasformazione della natura.
Del resto l’intera storia del progresso del genere umano è interpretabile per Gramsci alla luce della coercizione della parte istintuale della vita : «[...] ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione meccanica? Anche gli istinti che oggi sono da superare come ancora troppo «animaleschi» in realtà sono stati un progresso notevole su quelli anteriori, ancor più primitivi: chi potrebbe descrivere il «costo», in vite umane e in dolorosi soggiogamenti degli istinti, del passaggio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola».
Così è lo sviluppo dell’industrialismo, dell’applicazione cioè in grandi dimensioni della scienza e della tecnologia alla lavorazione della natura, assai più che il capitalismo, a generare la necessità di una trasformazione della natura dell’essere umano. Tanto che il taylorismo, in quanto organizzazione altamente meccanizzata e parcellizzata del lavoro, dovrà connotare anche la futura società comunista, purché si passi da una repressione esterna, come accade nella fabbrica capitalista a un’autorepressione, per la quale siano le stesse classi lavoratrici a imporsi una disciplina rigorosa del lavoro. «Questo equilibrio [psicofisico] - scrive Gramsci riferendosi al nuovo rapporto tra corpo e mente messo in atto dal taylorismo - non può che essere puramente esteriore e meccanico, ma potrà diventare interiore se esso sarà proposto dal lavoratore stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di società, con mezzi appropriati e originali».
Ma
è l’intera corporeità umana che partecipa in Gramsci
di una forte svalutazione, ridotta com’è, nella
totalità dei suo scritti, o a qualcosa da reprimere e
regolare o a un mero deposito, in cui si accumulano, lasciando
libera la mente, gli automatismi sedimentati dalla repressione
istintuale.
La rifondazione del marxismo intrapresa da Gramsci nei
Quaderni si consuma dunque, a ben vedere, a ridosso di un doppio
legame tra teoria degli automatismi e teoria della
soggettività. Essa mette in scena da un lato, contro gli
automatismi e le filosofie della storia proprie dell’economicismo e
dell’oggettivismo della tradizione marxista, la valorizzazione della
soggettività collettiva, se egemone e integrata da
un’ideologia totalitaria, quale unico e vero principio di azione
storica. Mentre dall’altro lega tale scacco degli automatismi storici
alla condizione che a sua volta la soggettività in questione,
per generare libertà e autodeterminazione, moltiplichi i
propri automatismi interiori, relegando il corporeo a luogo
della sola meccanica passività. Ed è appunto questo
intreccio tra nuova teoria della storia e antropologia negativa del
corpo e dell’affetto che Gramsci consegna in eredità al
marxismo umanistico-storicistico, italiano ed europeo, del secondo
dopoguerra.
Opere di Gramsci:
A. Gramsci, Cronache torinesi: 1913-1917, a cura di S. Caprifoglio,
Einaudi, Torino 1980.
--
, La città futura: 1917-1918, a cura di S. Caprifoglio,
Einaudi, Torino 1982.
--
, Il nostro Marx: 1918-1919, a cura di S. Caprifoglio, Einaudi,
Torino 1984.
--
, L’Ordine Nuovo: 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A.
Santucci, 1987.
--
, Lettere: 1908-1926, a cura di A. A. Santucci, Einaudi, Torino
1991.
--
, Lettere dal carcere, 1926-1930, a cura di A. A. Santucci, 2 voll.,
Sellerio, Palermo 1996.
--
, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Ist. Gramsci a cura
di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 1975.
Bibliografia:
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P. Rossi ( a cura di), Gramsci a la cultura contemporanea, Editori
Riuniti-Istituto Gramsci, Roma 1975, 2 voll.
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sociale, Einaudi, Torino 1975.
L. Paggi, Gramsci e il moderno principe., Editori Riuniti, Roma
1976.
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critica di Gramsci, De Donato, Bari 1978.
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ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio C. 1990, pp. 197-213.
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* Questo saggio è stato pubblicato in P. Poggio (a cura),
L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Fond. L.
Micheletti-Jaca Book, Milano 2010, pp. 321-334.
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Cfr, su ciò C. Daniele (a cura di), Gramsci a Roma,
Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi, Torino
1999; R. Rossanda, Gramsci e Togliatti, il dissenso del ’26,
in «la rivista del manifesto», 1, 1999.
Sul ruolo fondamentale, di appoggio fisico e psichico, svolto
dalla cognata, Tania Schucht, nel far sì che il lavoro di
Gramsci in carcere potesse realizzarsi, cfr. A. Natoli, Antigone e
il prigioniero: Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci, Editori
Riuniti, Roma 1990.
«Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla
struttura, obiettivo, indipendente dalla volontà degli
uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze
esatte o fisiche» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione
critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi,
Torino 1975, III, 1583).
«Un secondo momento è quello in cui si raggiunge
la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i
membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente
economico» (ivi, p. 1584).
«Un terzo momento è quello in cui si
raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro
sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di
gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli
interessi di altri gruppi subordinati» (ibidem).
«Per la massa degli uomini, cioè per il
proletariato, queste rappresentazioni teoriche non esistono, e
quindi per essa non hanno neppure bisogno di essere risolte, e
se questa massa ha posseduto delle rappresentazioni teoriche, per
esempio la religione, esse sono già state da lungo tempo
dissolte dalle circostanze» (K.Marx-F.Engels, L’ideologia
tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 32).
K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E.
Cantimori Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., III, p. 2359.
Ivi, p. 1595.
Cfr. su ciò D.Ferreri, Inattualità di Gramsci,
in Aa.Vv., Percorsi della ricerca filosofica, Gangemi, Roma-Reggio
C. 1990, pp. 197-213.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., II, p. 1321
Come avviene, scrive Gramsci, con la «concezione di
‘blocco storico’, in cui appunto le forze materiali sono il
contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto
meramente didascalica, perché le forze materiali non
sarebbero concepibili materialmente senza la forma e le ideologie
sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali»
(Ivi,II,
p. 869).
Ivi, III, p. 2312
Ivi, II, p.1398
Ivi, II, p. 1396
Ibidem.
Ivi, II, p. 1051.
Cfr. D. Ferreri, op. cit., p. 206.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., II, p. 1063.
Ivi, II, p. 1386.
Ivi, II, p. 505.
K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E.
Cantimori Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, III, p. 1594.
Ivi, III, p. 1409. «E’ noto, d’altra parte, che il
caposcuola della filosofia della pratica non ha chiamato mai
«materialistica» la sua concezione e come parlando del
materialismo francese lo critichi e affermi che la critica dovrebbe
essere più esauriente. Così non adopera mai la formula
di «dialettica materialistica» ma
«razionale» in contrapposto a «mistica»,
ciò che dà al termine «razionale » un
significato ben preciso” (ivi, p. 1411).
Ivi, II, p. 1253.
Ivi, III, pp. 1518-1519.
Ivi, III, p. 2165.
Ivi, III, p. 2146.
Ivi, III, p.2161.
“la storia dell’industrialismo” - egli scrive “e sempre stata
(e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa)
una continua lotta contro l’elemento «animalità»
dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso,
di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e
primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme
e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano
possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva
che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo
dell’industrialismo” (ivi, III, pp. 2160-2161).
Ivi, III, p. 2166.
Così nella meccanizzazione fordista, Gramsci può
scrivere: “quando il processo di adattamento è avvenuto si
verifica in realtà che il cervello dell’operaio, invece di
mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà. Si
è completamente meccanizzato solo il gesto fisico; la memoria
del mestiere, risotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso,
si è «annidata» nei fasci muscolari e nervosi che
la lasciato il cervello libero e sgombro per altre preoccupazioni.
Come si cammina senza bisogno di riflettere a tutti i movimenti
necessari per muovere sincronicamente tutte le parti del corpo in
quel determinato modo che è necessario per camminare,
così è avvenuto e continuerà ad avvenire
nell’industria per i gesti fondamentali del mestiere; si cammina
automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto ciò che
si vuole” (ivi, III, pp. 2170-2171).
Sulla storia delle interpretazioni di Gramsci, cfr. G.
Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996,
Editori Riuniti, Roma 1996.