Il tradimento di Togliatti

Riporto l'Introduzione del saggio di Mauro Canali, che ha riproposto, per l'ennesima volta, il problema del "tradimento" di Togliatti, e la recensione critica del saggio stesso pubblicata su www.igsitalia.org. a cura di Antonio De Meo.

Sono d'accordo con questa recensione che tenta di comprendere gli eventi in rapporto alla cornice storica entro la quale si sono realizzati. Senza questo riferimento, facilmente si giunge a giudizi di valore o, peggio ancora, moralistici.

Aggiungerei solo un'osservazione. La pubblicazione delle opere di Gramsci nel 1947 ha di fatto inaugurato la via italiana al comunismo, che è stata perseguita con non poche contraddizioni, ma non per caso è esitata nellla presa netta di distanza di Berlinguer dal regime sovietico. Se si mettono da parte le contraddizioni, che vanno esse stesse interpretate tenendo conto del contesto storico, riesce evidente che la via italiana al comunismo, di fatto gramsciana, ha contrassegnato, come un filo rosso, il "tradimento" del PCI riseptto all'Unione Sovietica: "tradimento" dapprima strisciante, poi intensificatosi inseguito alla Primavera di Praga, , infine, realizzatosi compiutamente con Berlinguer.

Se questo è vero, la fretta con cui, dopo la caduta del muro di Berlino, il singolare esprimento italiano è stato accantonato a favore di una via socialdemocratica, che, nel corso del tempo, si è ulteriormente illanguidita ponendosi sul piano di un cauto progressismo riformista, appare un errore le cui conseguenze sono ancora in atto.

 

Mauro Canali

Il tradimento
Marsilio Venezia 2013

Prefazione


Malgrado i tre quarti di secolo trascorsi ormai dalla sua morte, si continua a scrivere molto su Gramsci. Solo negli ultimi due anni hanno visto la luce almeno sei opere importanti1, che di per sé testimoniano del perdurare d'interrogativi irrisolti. Chi s'inoltra nello studio degli aspetti più controversi della vita dell'intellettuale sardo, non può che registrare, infatti, come la sua vicenda umana e politica, accortamente revisionata, sia stata per decenni strumento della propaganda e della mitografìa del PCI. Si è trattato di un processo di progressivo adattamento alla politica ufficiale del partito. Iniziato sin dall'indomani della morte di Gramsci, è continuato, dopo la caduta del fascismo, attraverso una politica di accesso e consultazione delle sue carte fondata di fatto sul principio della discrezionalità. Fu sempre Togliatti, finché fu in vita, a decidere cosa rendere o non rendere pubblico dell'opera e della vita di Gramsci. Se qualcosa di diverso dall'ortodossia interpretativa del PCI qualche volta riuscì a trapelare, fu solo grazie a documenti resi pubblici da dirigenti comunisti eretici o espulsi.

Il vero punctum dolens dell'operazione revisionistica era rappresentato dalla necessità di celare i reali rapporti intercorsi fra Togliatti e Gramsci, poiché render nota allora la frattura insanabile intervenuta fra i due leader, e consolidatasi tra forti tensioni e divergenze strategiche profonde, cioè una realtà ben diversa dalla rappresentazione agiografica tramandata dalla storiografia ispirata dal partito, avrebbe significato dover riscrivere ab imis alcune parti tra le più significative della storia del PCI e infliggere ferite mortali al mito della continuità Gramsci-Togliatti, così importante per il carisma e l'autorevolezza del segretario e per il prestigio del partito. Se fu impensabile, fino a quando Togliatti fu in vita, mettere in discussione la versione ufficiale revisionata dei rapporti tra i due, dopo la sua morte il cammino per rivedere tale interpretazione ufficiale - che del resto, grazie all'egemonia esercitata dal PCI sul mondo della cultura, aveva ormai assunto il carattere di verità indiscussa - continuò a presentarsi molto accidentato.

Non era possibile affermare esplicitamente quello che ormai appariva sempre più evidente, cioè che la rottura tra Gramsci e Togliatti nell'ottobre 1926 fu radicale, e che da allora i percorsi dei due leader assunsero direzioni fortemente divergenti. Per molti anni ancora, il succedersi alla segreteria del PCI di togliattiani e di reduci dall'esilio russo impose la versione approntata da Togliatti, cioè che si trattò di una discussione aspra, ma franca e leale, tra due leader che si stimavano. Si è dovuto attendere il nuovo secolo, oltre settantanni dalla morte di Gramsci e tre decenni dalla caduta del muro di Berlino e dallo scioglimento del PCI, per poter leggere che si trattò di una rottura grave e definitiva.

Il Gramsci che ci è stato consegnato, alla morte di Togliatti, è quindi un Gramsci togliattiano, privato, dalle esigenze politiche più immediate, del diritto a una biografia scientificamente fondata2. Dal 1937 al 1966 circolarono solo alcuni lavori di Gramsci, manipolati e, in genere, commentati da Togliatti in persona. La prima biografia seria e corredata di documenti, che vide la luce nel 1966, è stata quella di Giuseppe Fiori3, resa possibile dall'uscita nel 1965 della versione aggiornata delle Lettere dal carcere e dalla pubblicazione di altra importante documentazione, sdoganate evidentemente dalla morte di Togliatti. Si sono poi dovuti attendere ancora quarantasei anni prima di poter leggere un'altra biografia di Gramsci, quella di Giuseppe Vacca, che consideriamo l'ultimo prodotto di una storiografia orientata, frutto anch'esso dell'inveterata e persistente attitudine della vecchia fucina togliattiana all'uso, di fatto, esclusivo della documentazione proveniente dal fondo Gramsci, nella fattispecie delle preziose lettere inedite di Tatiana Schucht alla famiglia4.

La pratica delle omissioni e dei silenzi nei confronti dell'intellettuale sardo iniziò durante la sua detenzione e continuò dopo la sua morte. Togliatti, il grande artefice dell'operazione, si erse a geloso archivista delle lettere private che il leader detenuto faceva pervenire alla famiglia e alla cognata Tatiana. Con la complicità dell'amico Piero Sraffa - il cui reale ruolo svolto nella vicenda Gramsci non è stato finora messo meglio a fuoco a causa della carenza di documenti -, copia di esse finì nel suo archivio personale, permettendogli quindi di seguire il dramma che per il leader comunista si stava consumando nelle carceri fasciste. I suoi pensieri, i momenti di debolezza, le crisi, il decorso della malattia, i suoi studi, tutto finiva sotto la lente d'ingrandimento di Togliatti.

Egli potè così essere ben presto consapevole dell'abisso che si era aperto con la lettera molto critica di Gramsci - del 14 ottobre 1926, indirizzata al Partito comunista russo e a Togliatti -, e che era andato progressivamente allargandosi, tra le posizioni eterodosse di Gramsci e la linea che Togliatti aveva dato al partito in ottemperanza alle direttive del Comintern. Togliatti tenne tutto nascosto, e con ciò potè contenere le dimensioni della crisi provocata dalla svolta imposta da Stalin al Comintern, crisi che aveva investito il PCI e che era terminata con l'espulsione di tre dei suoi più prestigiosi dirigenti. La prassi omissiva continuò, e assunse una particolare valenza politica, anche dopo la morte di Gramsci, negli anni del secondo dopoguerra. Essa si sviluppò tramite la sapiente distillazione dei primi scritti dell'intellettuale sardo, con cui Togliatti perseguiva un triplice obiettivo: legittimarsi come il fedele e convinto assertore del pensiero gramsciano, presentarsi come suo naturale erede politico, dissimulare, nel contempo, la persistente fedeltà allo stato sovietico dietro la parola d'ordine, mutuata dalle riflessioni gramsciane, della «via nazionale al socialismo».

V'erano, infine, motivi che conducevano direttamente alle responsabilità personali dell'intero gruppo dirigente uscito indenne dal grande terrore staliniano, che cercava - con il silenzio su alcuni importanti momenti della vita di Gramsci, come la posizione anti Comintern assunta nel carcere di Turi e resa a esso nota con il memoriale Lisa, e alcuni passaggi significativi ed eterodossi della sua produzione epistolare, come alcune lettere in cui indica Togliatti tra i responsabili maggiori della sua mancata liberazione - di evitare l'ammissione del tradimento da esso compiuto della linea gramsciana del PCI uscita dal congresso di Lione del 1926, e della successiva, ventennale acquiescenza al dittatore georgiano. Il velo di silenzio che venne calato sull'eterodossia delle posizioni del grande leader detenuto raccolse, perciò, facilmente il consenso unanime e attivo di questi dirigenti esuli per tanti anni in Urss, e, nel dopoguerra, si espresse inevitabilmente con un fitto reticolo di reciproche complicità.

Partecipare al rito del gramscianesimo, specie da parte di chi aveva aderito con passione allo stalinismo, significava far arretrare sempre più nell'ombra il proprio passato di compromissioni con il regime del dittatore georgiano.
Il Gramsci sapientemente revisionato era indispensabile per affrontare anche sul piano teorico il tema della rivoluzione nei paesi occidentali. Nessun altro dirigente compromesso con Mosca, compreso Togliatti, era in condizione di chiedere adesione al proprio pensiero politico e alla propria etica, passata e presente, quanto il grande intellettuale sardo morto prigioniero del fascismo. Gramsci poteva svolgere una funzione aggregatrice attorno alla rivoluzione nei paesi occidentali non consentita al Togliatti staliniano e leader del Comintern. Da qui la necessità del segretario del PCI di legare ancora più strettamente la propria vicenda a quella di Gramsci, presentandosi come l'autentico interprete del suo pensiero, il suo legittimo erede.

Prendeva forma, attraverso la sapiente regia del Togliatti editore di Gramsci, il mito della linea di continuità Gramsci-Togliatti. Un esempio clamoroso, che, a nostro parere, è stato minimizzato dagli storici, comunisti ed ex comunisti, è fornito dall'edizione del 1947 delle Lettere dal carcere, curata da Togliatti in persona. Le lettere pubblicate rappresentano una minima parte di quelle scritte da Gramsci, e appaiono, alla luce dell'edizione del 1965, uscita dopo la morte di Togliatti, mutilate impietosamente, allo scopo, in definitiva, di nascondere il dramma dell'abbandono del leader detenuto da parte del partito e dei vecchi compagni di lotta, di evitare di dover dar conto della manifesta diffidenza e netta cesura, politica e morale, espresse da Gramsci nei confronti di Togliatti, ampiamente testimoniate nelle lettere non pubblicate. Verità che, se fossero trapelate, avrebbero reso impossibile l'operazione che Togliatti stava conducendo, di presentarsi come l'erede e il continuatore del pensiero politico del leader sardo.

La personalità di Togliatti che affiora dalla vicenda Gramsci è quella di un uomo politico tanto intelligente quanto scaltro, capace di adattarsi agilmente ai grandi mutamenti di cui fu ricca l'epoca in cui visse. Bordighiano quando Bordiga era il padrone del partito, gramsciano della seconda ora, solo quando divenne evidente che Gramsci era il leader emergente, sostenuto dai comunisti russi. Giunto a Mosca, non esitò, tuttavia, a schierarsi contro il suo segretario per sostenere Bucharin, che, alleato allora di Stalin, appariva essere il sicuro vincitore dello scontro. Lesto tuttavia a prendere, subito dopo, le distanze da Bucharin quando fu chiaro che la stella di quest'ultimo stava impallidendo e stava prevalendo Stalin nella durissima e feroce lotta per la successione a Lenin. Sempre con Stalin, anche negli anni del grande terrore, fino a venire considerato, dagli altri dirigenti che si affollavano alla corte del piccolo padre, uno dei suoi prediletti, fu uno dei pochi dirigenti comunisti a sopravvivere con grande abilità alle purghe staliniane.

Quando potè leggere i Quaderni gramsciani fatti pervenire a Mosca da Tatiana Schucht, fu lesto a comprendere come il pensiero di Gramsci si presentasse adatto per la conduzione di un'azione politica incisiva in un paese di tradizioni occidentali e collocato per di più, come l'Italia, in un preciso contesto geopolitico; così come a impadronirsi di categorie politiche gramsciane, del tutto estranee fino ad allora al suo pensiero e alla sua prassi, come la rivoluzione passiva, la guerra di posizione, l'egemonia. Tutta la storiografia militante si adattò al Gramsci di Togliatti. Accettò che si proponesse una versione del gramscia-nesimo adattata alle esigenze del partito, accettò senza mai discutere l'esegesi togliattiana degli scritti e della vita di Gramsci, anche laddove era chiaro che si stesse ricorrendo alla prassi omissiva. Impregnata di storicismo assoluto e del mito dell'intellettuale organico al Partito comunista, all'idea per cui ogni mezzo è buono per il fine ultimo della rivoluzione, essa tacque sulle mutilazioni e sulle palesi censure, anzi, per certi aspetti se ne fece parte attiva. Si incolonnarono tutti dietro al pifferaio magico Togliatti, che potè così condurre felicemente in porto e senza eccessive difficoltà la «togliattizzazione» di Gramsci e la rappresentazione mitica di se stesso come del più stretto tra i più stretti collaboratori di Gramsci.

Gli storici cresciuti all'ombra del gramscianesimo e dell'istituto Gramsci, la cui direzione venne affidata sempre a fedelissimi togliattiani, hanno in seguito continuato a produrre saggi sul grande leader sardo in linea con l'interpretazione di Togliatti, il quale veniva implicitamente assolto da qualsiasi precedente colpa poiché aveva avuto il merito di resistere al terribile inverno staliniano per condurre, novello Mosè, il popolo comunista in salvo nella terra promessa. Ciò era stato possibile, ricordava Togliatti, perché Gramsci non aveva mai cessato di essere la sua bussola, il faro segreto suo e del suo gruppo dirigente.

Ma i documenti, custoditi gelosamente all'istituto Gramsci, e dei quali gli archivi moscoviti da tempo hanno cominciato a consentire la consultazione, raccontano una storia diversa e più drammatica, una storia di conflitti, di gelosie e di lotte in seno allo sparuto gruppo dirigente esule, raccontano una storia di solitudine e di eresie del leader sardo detenuto, ripudiato e abbandonato dai suoi compagni. Tutto ciò non poteva essere reso noto, almeno fino a quando le circostanze storiche non lo avessero consentito. E, a stabilire quando, non poteva che essere lui, Togliatti, il quale, tuttavia, riuscì ad andarsene senza aver detto la verità sui suoi reali rapporti col vecchio compagno di lotta.

1 Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, Torino, Einaudi, 2012; Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Roma, Salerno Editrice, 2012; Id., Spie, Urss, antifascismo. Gramsci 1926-1937, Roma, Salerno Editrice, 2012; Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, Roma, Donzelli, 2012; Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo 1914-1919, Roma, Carocci, 2011; Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.
2 Fino al 1966, l'unico scritto a carattere biografico su Gramsci risultava essere un breve intervento del segretario del Partito comunista del 1937, dal titolo Antonio Gramsci. Il capo della classe operaia italiana, uscito in occasione della morte del leader sardo. Venne ristampato successivamente, insieme ad altri scritti, con una prefazione di Ernesto Ragionieri. Ora in Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, s.d.
' Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1966. Facciamo notare che i documenti nuovi che Fiori potè consultare ed esibire sono tutti relativi all'adolescenza e al periodo ordinovista di Gramsci.
4 Si continuano a ignorare la consistenza e il contenuto integrale di tali lettere, che chi scrive non ha potuto consultare per molteplici motivi addotti dalla fondazione Gramsci, e che, al contrario, sono state ampiamente utilizzate da Giuseppe Vacca.

http://www.igsitalia.org/index.php?option=com_content&view=article&id=235:mauro-canali-il-tradimento-gramsci-togliatti-e-la-verita-negata-&catid=43:recensioni&Itemid=70


Storia e storie. A proposito delle divergenze fra Gramsci e Togliatti


Recensione di Antonio Di Meo


1. Oramai si va affermando un nuovo genere letterario: il noir di tipo storico. Il massimo esempio di esso, a livello mondiale, è Il codice da Vinci di Dan Brown. In Italia, come di consuetudine, la fantasia degli autori è ristretta a pochi argomenti, così come le tirature. Uno di questi è certamente la vicenda della coppia Antonio Gramsci – Palmiro Togliatti, ovvero del Pci delle origini. Rispetto a Dan Brown, però, negli autori italiani di questo genere si avverte chiaramente una certa inclinazione di tipo apparentemente realistico, associata a una forma di livore, spesso aggressivo, diversamente modulato, inspiegabile sia si tratti di fantasia, sia – ancor di più – si presenti l’opera come una ricerca storica documentata.

Naturalmente le variazioni sul tema sono numerose. Una di queste è contenuta nel recente libro di Mauro Canali enfaticamente (e si capirà il perché) intitolato Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata. Ancora? dirà qualcuno: ancora, purtroppo ! Siccome il libro è presentato dall’autore come un libro di storia, cercherò di esaminarlo come se lo fosse. Premetto, però, che non essendo uno storico politico-sociale contemporaneista, metterò in evidenza solo alcuni aspetti che – sia nelle intenzioni dell’autore, sia nei contesti trattati (o meno), sia nel linguaggio adoperato – mi sembra stridano con l’oggetto di cui si tratta, e, ancor più, col genere al quale si pretende che il volume appartenga, cioè la storia. A meno che, a dirla con Pascarella, ….
Vedi noi?, mò noi stamo a fa’ bardoria:
Nun ce se pensa e stamo all’osteria...
Ma invece stamo tutti ne la storia!

A questo proposito l’inizio del libro è assai infelice, poiché dichiara che fra le sei opere importanti più recenti pubblicate sullo stesso argomento sono annoverabili anche il volume di Franco Lo Piparo (I due carceri di Gramsci) e quello di Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre), dei quali già a suo tempo si sono ampiamente dimostrati i difetti interpretativi e una certa “leggerezza” (e non nel senso di Calvino) e disinvoltura nel trattare le fonti documentarie.

2. È noto a molti storici il “paradosso del contesto”, che si può esemplificare nel seguente modo: stando rigorosamente agli scritti di Cristoforo Colombo e dei suoi contemporanei, non si potrebbe mai venire a sapere che il celebre navigatore avesse scoperto un nuovo continente (ovviamente dal punto di vista di noi europei) ! Ciò vuol dire che, per scoprire una verità storica, è utile collocarsi – e in maniera “disinteressata” – su differenti livelli di osservazione, meno limitati e meno partigiani rispetto ai fatti e ai personaggi dei quali si vuole ricostruire in maniera attendibile svolgimenti e ruoli. Se è vero che il passato portato alla luce dalla storia è comunque sempre un “presente” ricostruito secondo le pulsioni intellettuali di un’epoca, tuttavia, come sosteneva una storica della scienza dei primi del Novecento, la brava e sfortunata Hélène Metzger, morta nel campo di Auschwitz, il primo dovere metodologico dello storico è quello di “farsi contemporaneo degli autori di cui si parla”. “Farsi contemporaneo” di Gramsci, Togliatti, del Pcd’I, dell’Internazionale comunista (IC) , degli anni Trenta-Quaranta ecc. vuol dire innanzitutto riferirsi a istituzioni e personalità che si erano venute a trovare nella situazione più dura e difficile della loro storia politica e personale, nella quale, cioè, il mantenersi coerenti con la propria scelta di vita e ideale comportava non pochi pericoli.

A questo sforzo di comprensione, che appartiene allo stile equanime che dovrebbe essere proprio dello storico, andrebbe associato un esprit de finesse senza il quale una ricerca storica rischia di diventare un tribunale, oppure perfino una clava. L’assenza di questo “farsi contemporaneo” produce conseguenze serie: sarebbe stato un “bel gesto” se Piero Sraffa avesse continuamente dichiarato cosa pensasse, quale fosse il suo ruolo nella vicenda che riguardava Gramsci in carcere o avesse lasciato dietro di se tracce documentarie le più disparate, per la gioia degli storici futuri: ma ciò vuol dire non rendersi conto esattamente cosa volesse dire dichiararsi comunisti, ed agire come tali, nell’Europa degli anni Trenta-Quaranta (-Cinquanta) del Novecento, anche nello stesso Regno Unito, in cui molti membri della élite britannica simpatizzavano col fascismo italiano, la stessa élite che aveva impedito ogni aiuto alla Repubblica spagnola da parte dei (pochi) paesi democratici europei. Soprattutto, poi, se si trattava di uno straniero di una nazione che sarebbe stata nemica nel successivo conflitto mondiale, per di più membro di un partito che lo stesso Canali in altre occasioni ha mostrato essere infiltrabile a ogni livello da informatori o avventurieri. La posta in gioco di eventuali errori dei militanti dell’epoca è abbastanza nota.

Dunque: tutti coloro che sceglievano di far parte del campo antifascista, soprattutto i comunisti, ben sapevano i rischi ai quali andavano incontro e quale vita avrebbero condotto. Anche Gramsci, come è noto, lo sapeva e si è comportato di conseguenza. Del resto l’essere in prigione non scioglieva nessun militante dall’osservanza di regole e comportamenti stabiliti da chi era in grado di prendere decisioni a riguardo. Egli, peraltro, aveva un ruolo particolare: era il capo del partito. Ora credo sia utile chiedersi cosa possa accadere a un partito perseguitato, clandestino, con i suoi maggiori dirigenti arrestati e condannati (soprattutto nel 1928 e nel 1930 anche grazie alle spie), quando il suo segretario non è in condizione di operare e gran parte dei dirigenti operativi sono all’estero (Parigi, Mosca, soprattutto). Inoltre quando questo partito fa parte in maniera gerarchicamente subordinata di una organizzazione mondiale – l’Internazionale Comunista – nella quale diventava sempre più preponderante il ruolo del partito russo e in particolare di Stalin e che divenne sempre più una istituzione burocratica e vincolante per ogni partito affiliato e per ogni militante.

Gramsci in carcere, dunque, era il segretario di un partito politico e quindi oggetto di iniziative politiche pubbliche che non era possibile evitare. Si poteva non citarlo nelle manifestazioni a favore dei perseguitati dal fascismo? Dunque nei confronti di un militante e dirigente politico prigioniero un partito agisce innanzitutto politicamente, non solo ai fini di un trattamento umanitario da parte degli oppressori nei suoi confronti, ma anche di quelli relativi alla causa che il partito aveva deciso di abbracciare. Ciò valeva (vale) per ogni militante, a maggior ragione per il capo del partito.

In molte ricostruzioni storiche su questo argomento, e soprattutto in quella di Canali, le vicende vengono descritte all’insegna dello schema amico-nemico o, più banalmente, buoni-cattivi, con una attribuzione aprioristica dei ruoli. Di qui l’incomprensione di buona parte degli eventi che Canali tenta di interpretare:
- Togliatti sostiene che la campagna del 1933 per la liberazione di Gramsci, conseguente alla pubblicazione del certificato medico del dott. Arcangeli sull’Humanité, era stata politicamente positiva? Allora vuol dire che egli è cinicamente indifferente alla situazione carceraria di Gramsci. Certo l’iniziativa fu maldestra e probabilmente fece fallire il tentativo della famiglia Sraffa di andare in soccorso del prigioniero: ma di qui a dire che fu volontariamente messa in atto allo scopo di provocare questo fallimento ce ne corre !
- Togliatti chiede a Dimitrov che le ceneri di Gramsci vengano portate a Mosca solo se gli si rendono gli onori dovuti a un capo di partito caduto nella lotta contro il nemico principale? Magari per dimostrare che non vi era stato nessun sospetto da parte dell’IC nei suoi confronti? Per Canali, invece, ciò voleva dire porre “condizioni inaccettabili” per far sì che non giungesse mai a Mosca “l’ingombrante” spoglia di Gramsci, onde evitare che si riproponesse il problema del suo lascito letterario: ma si è in grado di immaginare cosa sarebbe successo al già pericolante gruppo dirigente del Pci e a Togliatti medesimo (come lo stesso Canali certifica), se si fosse avuto un trasferimento delle ceneri di Gramsci a Mosca, per così dire, “alla chetichella”?
- Il lascito letterario di Gramsci viene affidato a Togliatti da Dimitrov: invece di chiedersi il perché, - se questi diffidava di lui proprio a causa dei suoi rapporti negativi con Gramsci e con la famiglia Schucht, - Canali invece interpreta la vicenda motivandola con la volontà di Togliatti di nascondere il duro conflitto con il prigioniero e, successivamente, di gestire in proprio, cioè per proprio tornaconto, l’eredità culturale di questi.

Sarebbe interessante la risposta di Canali al quesito seguente: se gli Schucht o Stalin o i dirigenti dell’IC fossero venuti in possesso degli scritti gramsciani pensa lo storico che ora staremmo a discuterne? In realtà, per dar vita a un Togliatti “occultatore” del “vero” pensiero di Gramsci è stata necessaria la superba invenzione – stravagante e filologicamente molto fantasiosa – di un “Quaderno mancante”. Senza Togliatti, in realtà, sarebbero mancati tutti i 33 Quaderni ora a nostra disposizione! Così come sarebbero mancate le lettere di Gramsci e dei suoi corrispondenti, comprese quelle che rivelano il suo forte contrasto con Togliatti ! Così come non ci sarebbe stato a Roma – dal 1950 – un Istituto Gramsci creato allo scopo di curare e diffondere l’eredità culturale e umana del dirigente e pensatore comunista. Né ci sarebbe ora in via di pubblicazione – sollecitata e messa in cantiere già da tempo dal più “togliattiano” dei dirigenti dell’Istituto – la pubblicazione della Edizione nazionale delle opere di Antonio Gramsci e l’aggiornamento continuo della ormai sterminata Bibliografia gramsciana, a testimonianza di come sia stato difficile impedire lo studio del pensiero di Gramsci !

3. Uno degli aspetti più strabilianti della ricostruzione di Canali consiste nel sostenere che Togliatti avesse bisogno di – diciamo così – ‘farsi bello’ e darsi importanza presentandosi come un politico e pensatore in diretta continuità con l’elaborazione di Gramsci: un po’ per ricavarne un prestigio personale che evidentemente si ritiene gli mancasse; un po’ per catturare il consenso degli sprovveduti intellettuali italiani (non è presente, ma sembra implicito, l’uso a questo riguardo del concetto di “portare il cervello all’ammasso”); infine, per utilizzare le categorie teoriche e storiografiche gramsciane per fondare la “via italiana al socialismo”, che da solo – o insieme agli altri dirigenti e intellettuali del Pci – Togliatti non sarebbe stato in grado di elaborare. In realtà le cose stanno nel senso opposto: la vera strategia di Togliatti è consistita piuttosto nell’impegnare il suo grande prestigio di dirigente del movimento comunista internazionale per far accettare step by step il pensiero di Gramsci a un partito che in gran parte – e per motivi comprensibili (clandestinità, prigione, esilio, lotta armata in Spagna, in Francia e in Italia, ecc.) – era in possesso di tutt’altre categorie mentali e interpretative, spesso segnate dallo stalinismo, dall’ideologia del “marxismo-leninismo”. Inoltre va segnalato a Canali che, proprio riflettendo sulle vicende della Spagna, Togliatti sviluppa un ripensamento sui rapporti fra proletariato e democrazia. È una vera e propria leggenda, inoltre, l’idea che il Pci dal Congresso di Lione in poi fosse tutto gramsciano e poi, grazie alla disponibilità al cedimento di Togliatti, tutto perfidamente e cinicamente togliattiano!

Tuttavia rimane l’impressione che i pareri di Canali (e di altri) sulla prima edizione delle Lettere e dei Quaderni (1947-1948), tengano in scarsa considerazione alcuni aspetti importanti della loro storia editoriale concreta:

1) La gran parte delle persone coinvolte in una eventuale pubblicazione completa dei documenti, all’epoca era ancora vivente (compresi i membri della famiglia di Gramsci, residenti a Mosca, ancora in regime staliniano: il figlio Delio, per esempio, era un ufficiale della marina sovietica e insegnante dell’Accademia militare navale; per di più a Mosca e a Praga, vi erano anche comunisti italiani delle prime emigrazioni o partigiani perseguitati in Italia dopo il 1948) quindi, in ogni caso, una questione di riservatezza e di prudenza si poneva;

2) La funzione della prima edizione dei Quaderni aveva uno scopo anche didattico, richiedente quindi un qualche ordinamento secondo un criterio “razionale” che ne facilitasse la lettura, in grado cioè di consentire a un pubblico ampio di lettori – tenuto all’oscuro (durante il fascismo) delle notizie, delle vicende, dei personaggi di cui spesso si trattava e dei dibattiti politici e filosofici (compresi quelli nell’ambito del marxismo) degli anni Trenta;

3) La raccolta dei documenti relativi a queste opere non è stata repentina ma ha richiesto del tempo, dato che non tutti (malgrado l’affermazione di Canali in questo senso) erano in possesso di Togliatti, del Pci o di alcuni suoi dirigenti: io stesso, nel 1974, ho avuto la ventura di recuperare 4 lettere inedite di Gramsci: una a Clara Passarge (30/11, 1926) e le altre tre a Tania (19/1, 20/1, 3/3, 1927) (vedi A. Di Meo, Quattro lettere inedite di Gramsci dal carcere. Da Palermo, Ustica e Milano (1926-27), Rinascita, 47 (1974), 26-27).

In sostanza, credo ci sia stato (e ci sia) un eccesso di luoghi comuni intorno al reperimento e agli usi delle fonti primarie che riguardano Gramsci, il che non esclude e non ha escluso prudenze, reticenze, rimozioni (soprattutto sulle tragiche vicende di alcuni comunisti e antifascisti emigrati in URSS), proprio nel momento in cui veniva avviata una vera e propria politica di innervamento del suo pensiero nella cultura italiana, tanto più in un periodo che vedeva la rottura delle forze politiche e culturali antifasciste e un ritorno a politiche di duro e anche drammatico scontro – in Italia e nel resto del mondo – fra i soggetti politici e statali della precedente Alleanza antifascista.

Chiedo: è possibile ritenere che Togliatti potesse far pubblicare le lettere nelle quali sarebbe emerso – lui vivente e viventi Stalin, gli Schucht-Gramsci, Grieco, ecc. – che Gramsci sospettava di lui, di Grieco, e di tutti gli “amici italiani”? E fra questi alcuni che non erano - propriamente parlando - “amici” di Togliatti? Che il dissenso di Gramsci con l’Internazionale comunista (e quindi con Stalin) era politicamente profondo, e lo era anche teoricamente poiché coinvolgeva nella critica non solo Bucharin o Trotckij (e fin qui sarebbe andata bene) ma lo stesso Lenin materialista e dialettico? Per non parlare delle note critiche al “centralismo burocratico” il cui referente non è difficile da cogliere?

Non era possibile, poiché quelle carte potevano essere adoperate non dagli storici professionisti ma come strumento di lotta politica interna ed esterna al partito: succede ancora adesso che il Pci non c’è più, figuriamoci prima ! Ebbene, malgrado tutto, questi ultimi interventi gramsciani dei Quaderni furono pubblicati nel 1948 ! Comunque proprio il Pci e l’Istituto Gramsci resero note – dopo la scomparsa di Togliatti, ma da lui inizialmente preparate – altre carte significative su questi argomenti, e via via fino ai giorni nostri. La metafora adoperata da Canali su Togliatti “archivista” è vera e falsa allo stesso tempo: vera, perché in effetti ebbe la custodia e la gestione di gran parte dei materiali di cui qui si tratta; falsa, perché – conoscendo bene i contenuti di questi – aveva una sicura conoscenza politica e culturale del contesto in cui sarebbero stati letti e da chi, e con quali conseguenze.
Mi sembra che si inclini a gettare uno sguardo sempre negativo su tutta la questione, ovvero: piuttosto che valutare in maniera complessivamente positiva la continua messa a disposizione dei documenti, si rileva sempre puntigliosamente e talvolta con astio il fatto che essa non sia stata istantanea: la qual cosa non avviene in nessun caso per archivi personali o collettivi che richiedano forme di riservatezza, che non sono strumentali alla occultazione interessata di documenti. Tanto è vero che la stessa attenzione, altrettanto severa, non si riscontra nei confronti di altri partiti o di altri importanti pensatori e leader politici.

4. Le differenze e i contrasti fra Gramsci e Togliatti – a partire dal 1926 – si faranno profondi, drammatici e amari. È evidente dai documenti che Gramsci abbia sospettato di Togliatti in relazione alla lettera di Grieco del 1928. Ma perché assumere – da parte di studiosi molto sottili su altri argomenti – che i sospetti di Gramsci o delle sorelle Schucht fossero totalmente fondati? E da questa assunzione, un po’ precipitosa, organizzare poi la loro ricerca? Perché Canali, da storico qual è, non ha provato – per ipotesi – a mettere in dubbio la fondatezza dei sospetti di Gramsci e tentare di orientare la sua osservazione dei fatti in altro modo? Ovvero, per esempio, che la “famigerata lettera” del 1928 poteva essere conseguente a quella dell’esecutivo del Pcd’I del 1926, e con la quale si voleva mettere al corrente tre dei principali dirigenti del partito, fra cui il segretario generale, come stavano le cose e che non era più il caso di opporsi alla situazione venutasi a creare nel partito russo e nella Internazionale? Che forse c’era stata veramente una lagnanza di Terracini (riferita dalla moglie) per non essere stati più contattati? La lettera era un tentativo maldestro e negativo per l’esito del processo? È probabile, perché le linee di difesa degli imputati consistevano nel negare il loro vero ruolo nell’organizzazione comunista, anche se è difficile pensare che il tribunale speciale non sapesse chi fossero e quali ruoli ricoprissero. Perché, chiedo, è più attendibile la dichiarazione del giudice Macis che favorisce i sospetti di Gramsci? Fino ad arrivare a pensare che le accuse e le diffidenze delle sorelle Schucht, della Blagoeva e dei comunisti spagnoli nei confronti di Togliatti fossero fondate? Perché Terracini non dette lo stesso peso politico e psicologico alla lettera di Grieco, dato, tra l’altro, che aveva ricevuto la pena maggiore dal tribunale speciale? E come mai Sraffa era convinto che i sospetti di Gramsci (suscitati in lui dal giudice Macis) fossero infondati?

È certo, comunque, che a far divergere Gramsci e il partito italiano – oltre alle linee politiche e all’analisi sulla fase storica – era anche la diversa percezione dello status del prigioniero: questi – a me pare – continuava a tenere in carcere la linea praticata nel tribunale; il partito, invece, lo considerava soprattutto un prigioniero politico, anzi il più importante prigioniero politico presente nelle carceri dell’Italia fascista, e, come tale, necessariamente oggetto di interventi esterni che rispondevano piuttosto alle esigenze – giuste o sbagliate che fossero – della lotta antifascista più in generale. Gramsci desiderava che non si intraprendessero iniziative che lo riguardavano senza che potesse essere lui a deciderle; mentre il partito agiva – come poteva, talvolta in maniera approssimativa – secondo le (difficili) situazioni del momento. Da questa forte dissonanza credo si siano generate alcune delle incomprensioni di cui stiamo trattando. Quanto detto non vuole escludere o sottovalutare nulla; neppure gli atteggiamenti ostili a Gramsci: anzi essi sono ben accertati. Ma questi non possono far escludere dall’analisi gli aspetti che ho segnalato. Gramsci aveva rischiato di essere messo al bando, come Tresso, Leonetti, e Ravazzoli, dissentendo dalla linea “crollista” dell’Internazionale comunista? Probabilmente si, anche se è difficile affermarlo con certezza e anche se proprio Togliatti ha cercato di mettere al riparo Gramsci e la sua famiglia da tutti i pericoli derivabili dalla sua ormai nota “eterodossia”.

5. Nel libro di Canali si accusa – ancora una volta – una cosiddetta “storiografia comunista” di aver lavorato sostanzialmente con finalità extra-scientifiche. A chi si riferisce esattamente? Bisogna distinguere la storia degli storici dall’immaginario storico diffuso, non sistematico, prodotto e alimentato da storie raccontate e tramandate in molti modi (discorsi, articoli di giornali, memorie, racconti orali o scritti, opuscoli di propaganda, trasmissioni televisive, lezioni nelle scuole di partito e non, celebrazioni, commemorazioni funebri, ecc.), talvolta anche dagli stessi protagonisti o da persone prossime e in qualche modo interessate alla ricostruzione delle vicende di questi.

Per quanto riguarda la storia degli storici, penso che una “storia tendenziosa” del Pci non solo non sia esistita, ma in gran parte è stato lo stesso gruppo dirigente di quel partito a non volere che esistesse: contrariamente ad altre esperienze nell’ambito del movimento comunista (anche europeo). Il Pci, infatti, si è sempre rifiutato di promuovere una storia ufficiale, approvata o autorizzata. Magari sono stati gli stessi dirigenti di alto livello ad esporsi nelle ricostruzioni e nella fornitura dei documenti (Togliatti, Amendola, Longo, Secchia, e molti altri) e a cercare di offrire agli storici un loro punto di vista. Anzi, direi che è esistita ai vari livelli dei dirigenti del Pci, una vera e propria diffusa passione storiografica e memorialistica (quasi fino al compiacimento intellettuale). La stessa opera di Paolo Spriano, che oggi passa – nell’opinione di alcuni – per apologetica nella ricostruzione storica delle vicende del Pci, non è una storia “ufficiale”, sia per l’editore scelto (Einaudi) e sia per la libertà con la quale l’autore si è mosso: e comunque è stata sempre considerata una storia secondo Spriano. Di sicuro, essa ha riscosso all’epoca simpatie da parte di molti dirigenti del Pci, di cui lo storico stesso faceva parte (ma ne facevano parte anche Gastone Manacorda, Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Rosario Villari, Renato Zangheri, ecc.) per non parlare di altri non dirigenti (Luciano Canfora, Giorgio Mori, Enzo Santarelli, per citarne solo alcuni).

Tuttavia, non mancarono da parte del Pci prudenze, reticenze e non piena disponibilità ad offrire tutti i documenti necessari all’impresa. Non tutto, dunque, è stato lineare, nei rapporti fra Pci e storici, ma non risulta essi abbiano ricevuto – comunisti o meno che fossero – indicazioni vincolanti nel campo della loro ricerca. Le opere scritte dagli storici “comunisti” possono piacere o meno, ma devono essere discusse nei modi e negli stili della comunità scientifica di appartenenza.
Tuttavia, come si è detto, è esistita una mentalità storica diffusa legata alla vita culturale e politica dei comunisti italiani. Non c’è dubbio, infatti, che le vicende di Gramsci (martire antifascista), e poi di Togliatti e dei dirigenti più in vista del Pci; la partecipazione di alcuni di questi alla difesa della Repubblica spagnola o alla Guerra di liberazione nazionale in Italia, con tratti addirittura di leggenda, abbiano dato vita a un immaginario storico che ha prodotto molte convinzioni, fondate e meno fondate, su eventi, personaggi e realtà che erano molto più complicati, come la storia degli storici è venuta scoprendo nel tempo.

Il vero problema è che la storia specialistica opera non in un vuoto di pensieri storici, che si potrebbero definire di senso comune, ma in un pieno di conoscenze storiche acquisite nei modi sopra accennati, e spesso più saldamente radicate nelle menti delle persone di quelle ricavate dalle ricerche specialistiche, soprattutto in quelle dei militanti di un qualche movimento storicamente significativo.

Tralasciando gli aspetti più profondi dei convincimenti più diffusi, talvolta inconsciamente, nelle mentalità e nei miti popolari, di sicuro gli appartenenti a organizzazioni politiche e sociali di massa, di quelle culturali in senso stretto, di quelle religiose, ecc., o anche di qualsiasi comunità operativa nel mondo sociale, della produzione, comprese quelle scientifiche o istituzionali, possiedono - e non potrebbe essere altrimenti - una (seppure talvolta minima e disgregata) consapevolezza storica relativa all’organizzazione alla quale appartengono. La storia degli storici, quindi, spesso è costretta a entrare in attrito con la storia diffusa, per non parlare della storia scritta da intellettuali e costruita ad hoc per fini estrinseci rispetto alla ricerca “disinteressata” e anche alla formazione dei miti storiografici.

La funzione della storia dei non-storici penso abbia innanzitutto una funzione identitaria: come la bandiera, l’inno nazionale o di un partito o di un movimento, come il canto liturgico, la lingua, ecc. Spesso essa si richiama al mito di fondazione del gruppo sociale o della istituzione coinvolti: dall’azienda, alla squadra di calcio, al partito, alla nazione. Se si tiene ben distinta la storia degli storici dalle altre, la storia diffusa può anche avere una funzione positiva: quando celebriamo il 25 aprile sappiamo bene che la Resistenza non è stata una epopea solo esaltante, anche per gli stessi protagonisti, tuttavia il significato generale di questa data ci consente di considerare “sacra”, comunque, la sua memoria.

Nel caso specifico di Gramsci è stata una costante linea di condotta del Pci il non trasformare il suo pensiero in “gramscismo”, cioè in ideologia ufficiale di partito, una variante italiana del “marxismo-leninismo”. Quel pensiero – anche nella visione togliattiana e tanto più in quella successiva del comunismo italiano – apparteneva alla cultura del nostro paese e a quella mondiale, a tutti coloro che erano interessati a studiarlo e a utilizzarlo. Ciò non vuol dire che gli studiosi o politici comunisti non potessero o volessero avere un loro punto di vista su di esso. Tanto è vero che le sue opere sono state fatte pubblicare sin dall’inizio dall’editore Einaudi e le iniziative di studio (convegni periodici, seminari, incontri, ecc.) dall’Istituto Gramsci che, dal 1982, è diventata una Fondazione autonoma. A queste hanno partecipato studiosi di vario orientamento, italiani e stranieri, senza la pretesa da parte di qualcuno di possedere interpretazioni migliori di altre. La riedizione ampliata del Gramsci conteso di Guido Liguori mi pare descriva bene la varietà delle interpretazioni e talvolta la loro non sovrapposizione.

Da parte del Pci, inoltre, si è sempre affermato che la sua politica poteva richiamarsi al pensiero di Gramsci, ma non esclusivamente e non necessariamente, dato, oltretutto, che la situazione concreta del Secondo dopoguerra era molto diversa – per molti riguardi – rispetto a quella nella quale Gramsci aveva operato. Del resto molti dirigenti-intellettuali e intellettuali del Pci o ad esso vicini avevano un rapporto col pensiero gramsciano rispettoso ma spesso fortemente discordante, sia dal punto di vista “filosofico”, che da quello dell’analisi storico-politica sull’Italia o sul resto del mondo. Gli esempi, a questo riguardo potrebbero essere molti: la documentazione esiste ed è abbondante, basterebbe volerla vedere e prenderla seriamente in considerazione.

Infine, ci si potrebbe chiedere come mai uno storico come Canali metta così tranquillamente a repentaglio la sua deontologia scientifica per dare corpo a una sua “passione” così evidente. Ma su questo conviene ritornare in altro momento.