Quaderno 3

Nota di lettura

Logica individuale, Logica sovraindividuale


Davide Lazzaretti, Federico Confalonieri, i martiri di Belfiore (don Tazzoli, Carlo Poma, Tito Speri)...

I nobili milanesi che strisciano ai piedi di Francesco Giuseppe alla vigilia dell'esecuzione dei martiri di Belfiore...

I fenomeni storici e i personaggi  che Gramsci analizza nel Quaderno 3 sono eterogenei. Davide Lazzaretti è un mistico che pretende, in pieno Ottocento, di fare la rivoluzione all'interno della Chiesa, rigenerandola. Viene barbaramente trucidato.

Gli altri personaggi sono tutti "eroi" risorgimentali e coprono un arco di tempo che va dai moti del '21 a quelli del '48-'49, con le sequele degli arresti,  i brutali interrogatori, le condanne al carcere, le esecuzioni, ecc.

Gramsci contesta il metodo dell'analogia avanzato dal Ciccotti (§ 15), che, negando l'individualità dei fatti storici, i quali vanno interpretati nel contesto in cui si realizzano, giunge all'anonima conclusione per cui «tutto il mondo è paese». È fuor di dubbio, però, che tra il passato e il presente si danno alcuni punti di contatto sia per quanto riguarda la durezza del regime austriaco e quella del fascismo, sia soprattutto in rapporto ai "martiri" che si sacrificano per i loro ideali: categoria quest'ultima cui Gramsci appartiene.

Gli ideali per cui si sacrificano gli "eroi" risorgimentali - sostanzialmente liberal-democratici - sono profondamente diversi da quelli - comunisti - per i quali si sacrifica Gramsci.

A maggior ragione, questa diversità porta a chiedersi che cosa spinge alcuni esseri umani ad opporsi allo status quo fino al punto di porre a rischio la propria esistenza?

Si può tentare di fornire una risposta partendo dalla classe di appartenenza degli "eroi" risorgimentali che egli cita.

Confalonieri è un conte, don Tazzoli un sacerdote, Carlo Poma un medico, Tito Speri un giovane patriota con un diploma classico. Essi "tradiscono" i doveri impliciti nella loro classe di appartenenza e nel loro ruolo sociale.

L'elenco dei "traditori" di questo genere, però, potrebbe allungarsi molto al di là degli esempi citati nel quaderno: vi rientrerebbero (alla rinfusa) Marx stesso, Engels, Mazzini, Bakunin, Kropotkin, Blanqui, Jaurès,  Pisacane, ecc.

Cosa spinge a tradire la classe di appartenenza e i doveri che essa implica? Certamente un ideale, sia pure diversamente concepito. Ma perché alcuni individui sono sensibili a tale ideale mentre tanti altri individui appartenenti alla loro classe rimangono indifferenti e conniventi con lo stato di cose esistente, anche laddove esso contrasta con i diritti e i bisogni umani?

Il discorso può essere generalizzato.

In qualunque contesto storico, la maggioranza delle persone tende ad accettare lo status quo: per interesse di classe per quanto concerne i ceti dominanti e per passività o incapacità di organizzarsi per quanto concerne quelli subordinati. In ogni contesto, però, si danno individui che si ribellano allo status quo. Di questi alcuni appartengono ai ceti subordinati: la loro ribellione attesta una più viva coscienza delle ingiustizie rispetto agli altri che le subiscono. Altri, però, appartengono per nascita ai ceti dominanti e, ciò nonostante, operano scelte di vita che comportano spesso la perdita dei privilegi di nascita, l'emarginazione, l'esilio, il carcere e talora la perdita della vita.

È evidente che in essi il riferimento a determinati valori - la libertà, l'uguaglianza,  la giustizia sociale, ecc. - realizza una pressione motivazionale che trascende gli interessi privati e particolari.

In tali casi, la logica ego-centrica, che comporta il  prendersi cura di se stessi e dei propri interessi particolari (con il rischio di scivolare nell'egoismo individuale e di classe), sembra sormontata da una logica, che si può definire sovraindividuale, la quale sovrappone alla prima valori e ideali che spingono l'individuo a sacrificare e mortificare quegli interessi.

Per spiegare circostanze del genere, si può ammettere che esse si realizzino sulla base di un tragitto di esperienza che allarga la coscienza fino al punto di far vibrare in essa valori e motivazioni che trascendono l'interesse individuale. Ma basta pensare ad un tragitto esperienziale o non bisogna ammettere che alla  base di esso si dia una predisposizione "naturale"? E, se ciò fosse vero, quale sarebbe questa predisposizione?

La psicologia evolutiva ha posto in luce il fatto che fin dall'età di 4-5 anni i bambini valutano ciò che accade utilizzando la categoria giusto/ingiusto. Occorre dunque ammettere un senso innato di giustizia, che si esprime sotto forma di un giudizio preriflessivo e precognitivo.

È evidente che si tratta di un senso di giustizia ego-centrico, che fa cioè riferimento alla vera o presunta violazione dei propri diritti o bisogni. In alcuni bambini, però, il senso di giustizia sembra configurarsi originariamente come socio-centrico o universale: essi si indignano o si risentono anche quando vedono altri coetanei trattati ingiustamente (da altri bambini o dall'autorità).

Sulla base di un senso di giustizia "universale", la storia personale, che lo corrobora e lo arricchisce di contenuti culturali, può facilmente portare l'individuo ad assumere atteggiamenti critici, dissenzienti e contestatari nei confronti dell'ordine di cose esistente sia esso riconducibile all'esercizio arbitrario e repressivo di un'autorità o all'ingiustizia subita da alcune persone in conseguenza della struttura stessa del sistema socio-economico in cui vivono.

Gli eroi risorgimentali si battono contro il regime austriaco in nome di un ideale patriottico. I socialisti e i comunisti si battono contro la violenza del sistema capitalistico (e, all'epoca di Gramsci, contro il Fascismo) in nome dei bisogni e dei diritti degli appartenenti a classi subordinate.

Marx ha affermato che un scelta del genere è obbligatoria se non si è un bue. In realtà è obbligatoria solo allorché l'individuo non va incontro ad un processo di anestetizzazione della sensibilità sociale.

Oggi si può affermare questo con certezza perché le ricerche di psicologia evolutiva hanno permesso di verificare che intorno a tre anni tutti gli esseri umani sperimentano l'empatia, tendono cioè ad aiutare un loro coetaneo che soffre. L'empatia, dunque, si può ritenere un attributo universale della natura umana dato che le ricerche hanno riguardato contesti socio-culturali diversi.

Se lo stesso esperimento viene realizzato con bambini di 5-6 anni, i dati si diversificano. Alcuni bambini continuano a manifestare quello che si definisce un bisogno prosociale, di aiuto all'altro, che si riconduce all'attivazione dell'empatia. Altri manifestano, invece, una minore sensibilità rispetto al passato, se non addirittura una sorta di indifferenza o di fastidio.

È evidente che nei primi occorre ammettere una predisposizione naturale, vale a dire un tasso di empatia che, per essere superiore alla media, oppone resistenza alle influenze ambientali. In questi casi, l'empatia rappresenta la premessa perché l'individuo, coltivandola e arricchendola attraverso un tragitto culturale, possa giungere ad una coscienza universale.

Sia Marx che Gramsci presumono che l'umanità possa pervenire ad uno stato di coscienza del genere. Essi ritengono, però, che i valori che essa implica sono un prodotto della storia, destinati progressivamente ad affermarsi via via che si realizza l'adesione alla filosofia marxista che tende a realizzarli.

Né più né meno questa convinzione ha sotteso la teoria della coscienza di classe universale della classe operaia: un mito che, ormai, si può ritenere per molti aspetti superato.

Il presupposto dell'antropologia marxista, però, non sembra infondato alla luce delle recenti ricerche neurobiologiche e psicologiche sui neuroni specchio e sull'empatia (temi che saranno approfonditi nel saggio La mente pericolosa).

Rimane il fatto che la logica sovraindividuale sembra "naturalmente" attiva in una minoranza dell'umanità, mentre nella maggioranza essa si pone come una potenzialità che, per essere mantenuta attiva o arricchita, postula una programmazione socio-culturale e politica.