Quaderno 23

Nota di lettura

La lotta per una nuova cultura

Convinto che il presupposto per una rivoluzione è la crescita culturale dei ceti subordinati, che non può avvenire, però, senza la partecipazione attiva di intellettuali la cui attività libera e creativa sia finalizzata a promuoverla, Gramsci si impegna di continuo a riflettere sul loro ruolo nella storia e nella contemporaneità.

Molte riflessioni sono dedicate agli intellettuali italiani. A riguardo egli scrive:

"§8 Per quali forme di attività hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l’attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d’arte si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del «dominio», del «comando» di un «eroe» sui produttori che interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi motivo di volate oratorie.

La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò la «contadina» ha ancora più spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto più esterno e romantico e perché la donna con la sua bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori.

Il lavoro dell’impiegato è fonte inesausta di comicità: in ogni impiegato si vede l’Oronzo E. Marginati del vecchio «Travaso».

Il lavoro dell’intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua espressione di «eroismo» e di «superumanismo», con l’effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano «genii» della loro propria taglia e, si sa, se un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi intelligente."

Il bilancio è piuttosto deprimente. Ma perché le cose stanno così? Gramsci ha risposto più volte, nei Quaderni precedenti, a questo quesito. Gli intellettuali italiani, anche quelli di estrazione popolare, vivono distaccati dal popolo, vivono in un loro mondo di forme retoriche funzionali a catturare l'attenzione delle classi medio-alte borghesi. Nonostante la diffusione della letteratura popolare straniera, soprattutto francese, essi insistono sprezzantemente a ritenere che i membri dei ceti subordinati leggano poco, e quindi non hanno interesse né ad assumere le loro esperienze come oggetto di narrazione né a scrivere per essi.

Gramsci è del tutto consapevole che "lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali" e che ciò "è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti."

Ciò nondimeno "si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d’arte possibili».

Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso."

E' evidente che scrivendo queste affermazioni, Gramsci ha in mente un precedente storico: l'illuminismo che ha preparato il terreno e posto i presupposti per l'avvento della Rivoluzione francese. Se questo è vero, c'è da chiedersi perché egli limiti le sue analisi alla critica letteraria. E' la narrativa che può promuovere la crescita culturale dei ceti subordinati? Non sarebbe più opportuno scrivere ottimi libri divulgativi di storia, di filosofia, di scienze?

La verità è che Gramsci, nel suo intimo, è un letterato (autodidatta) che si è dato alla politica. Nella passione politica ha investito le sue energie migliori, ma rimane pervicacemente attratto dai suoi interessi originari.

La passione politica incide sulla valutazione critica delle opere degli intellettuali italiani, dando ad essa spesso un timbro di particolare asprezza che va al di là del "sarcasmo" e diventa tout court disprezzo.

Nella critica letteraria, di cui il Quaderno 23 rappresenta una summa, affiora un orientamento che non è solo critico, ma moralistico: gli intellettuali italiani vengono giudicati, insomma, in riferimento a ciò che dovrebbero essere e a ciò che dovrebbero fare - porsi al servizio di una nuova cultura popolare -, e non per ciò che  riescono a fare.

Il rimproverare ad essi di non mettere il loro operare a servizio delle masse popolari è temperato, peraltro, da una riflessione realistica:

"§ 36 Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l’attività critica normale non può non avere prevalentemente carattere «culturale» ed essere una critica di «tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.

E in questo caso, come scegliere l’opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all’arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell’organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di «non poesia» e non di «poesia», diventerebbe stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una caccia all’uomo, oppure potrebbe essere ritenuta «casuale» e quindi irrilevante.

Pare certo che l’attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell’opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale."

Nonostante questo riferimento metodologico, nelle sue valutazioni critiche Gramsci salva solo Abba, Jahier e Stuparich. Tutti gli altri (Papini, Gallarati Scotti, Panzini, Répaci, Malaparte, Ojetti, Bontempelli, Puccini, Cicognani, Soffici, Salvator Gotta, Umberto Fracchia, ecc.) li "massacra".

La categoria nella quale iscrive la tendenza che essi rappresentano (il "brescianesimo") è sostanzialmente squalificante se non addirittura infamante.

C'è indignazione nei giudizi di Gramsci: giusta, ma impietosa indignazione, che si può comprendere solo tenendo conto che gran parte degli autori citati hanno aderito al fascismo.

Non è questa, peraltro, una novità. Nella storia della cultura, gli intellettuali in maggioranza sono stati sempre dalla parte del potere o si sono aggregati al carro del vincitore (come è accaduto appunto sotto il fascismo).

Ma questo cosa significa se non che la pratica della vita intellettuale, in sé e per sé, non ha il potere di affrancare i soggetti dall'alienazione (politica, religiosa, culturale)?

Qual'è dunque il fattore necessario anche se non sufficiente perché si dia tale affrancamento e si sviluppi uno spirito critico e libero, dunque inesorabilmente in conflitto con il mondo così com'è? La risposta è univoca. Il fattore in questione è di ordine intuitivo, emozionale e, da ultimo, cognitivo: è il riferimento ad un mondo possibile più umano, più "civile", più solidale, più equo.

La vita intellettuale, la cultura, l'erudizione possono allargare gli orizzonti della coscienza, ma se non si dà al suo fondo quell'intuizione, l'intellettuale può rimanere un soggetto alienato: tanto più quanto più pensa di essere affrancato dal senso comune.