Quaderno 1

Nota di lettura

Dall'analisi dei fallimenti al nuovo progetto di rivoluzione

Quando Gramsci appone sul primo Quaderno - "quaderno scolastico a righe (cm 15 x 20,5), ogni facciata di 22 righe; copertina in cartoncino, di colore rosso-nero, marmorizzata"1 - la data dell'8 febbraio 1929, con una doppia sottolineatura che attesta, al tempo stesso, l'indignazione per il ritardo con cui gli è stata concessa l'autorizzazione a scrivere e l'entusiasmo di poter finalmente mettere sulla carta il frutto delle sue riflessioni,  è detenuto da due anni e mezzo.

L'arresto è avvenuto in seguito ad un'errata valutazione della situazione politica; una valutazione sorprendentemente "ingenua".

 Il 31 ottobre 1926, nonostante il regime fascista sia già uno Stato di polizia, a Bologna si realizza l'ennesimo attentato a Mussolini al quale segue un ulteriore giro di vite autoritaristico: il governo delibera l'annullamento dei passaporti, la soppressione dei giornali antifascisti, lo scioglimento dei partiti ostili al regime e  prepara un disegno di legge che istituisce la pena di morte e la creazione di un Tribunale speciale.

Questo giro di vite, che azzera praticamente qualsivoglia opposizione al regime, completa l'opera avviatasi con la piena assunzione di responsabilità da parte di Mussolini sui crimini del regime (in particolare sull'omicidio di Matteotti), espressa il 3 gennaio 1925 in un discorso alla Camera («Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!»).

Sollecitato dai compagni ad espatriare, Gramsci - deputato dal 6 aprile 1924 e Segretario generale del Partito comunista dall'agosto dello stesso anno - decide di rimanere in Italia perché, come il capitano di una nave in tempesta,  sente il dovere  di non abbandonare la classe proletaria che, dopo anni di squadrismo fascista, è alle corde. Intende, inoltre, continuare ad opporsi apertamente al regime mussoliniano confidando sull'immunità parlamentare.

Il 6 novembre, con una mozione, un esponente fascista propone la revoca del mandato  per i deputati delle opposizioni che, in seguito al delitto Matteotti (10 giugno 1924), si sono ritirati in un'aula di Montecitorio (sala dell'Aventino), disertando il Parlamento. I deputati del gruppo comunista, che sono stati sempre presenti in aula, non sono citati nella mozione.

L'8 novembre, quando Gramsci sta preparando il suo intervento per il giorno successivo, Mussolini stesso chiede di aggiungerli all'elenco, attribuendo (verosimilmente) la responsabilità di questa decisione al Re.

Alle 22,30 del 9 novembre 1926 Gramsci viene arrestato.

L'errore di valutazione sull'orientamento radicalmente antidemocratico del Fascismo, in seguito al quale si avvia un'esperienza carceraria che risulterà più dura di quanto Gramsci potesse prevedere, non ha nulla a che vedere con una volontà di martirio (anche se la psicologia gramsciana, immune da una concezione eroica della vita, riconosce come un valore assoluto l'estrema coerenza tra i principi e l'azione che, date le circostanze, lo cala suo malgrado nel ruolo dell'eroico dissidente amplificato, tra l'altro, dalle sue precarie condizioni di salute). A maggior ragione, va sottolineato; non si tratta, infatti, di un errore isolato dato che si è ripetuto già più volte.

Nel corso del cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), sull'onda dell'occupazione delle fabbriche torinesi, Gramsci ritiene che la rivoluzione comunista in Italia sia imminente e possa realizzarsi secondo le stesse modalità di quella avvenuta qualche anno prima in Russia.

Nel 1921, partecipando alla scissione del Partito comunista da quello socialista, è convinto che essa possa promuovere un massiccio deflusso della classe operaia verso la nuova formazione politica, determinata a promuovere la rivoluzione e non ad aspettare che essa si realizzi fatalmente sulla base dell'evoluzione storica.

Nel 1922, mentre vive a Mosca come rappresentante del PCI nell'esecutivo dell'Internazionale, venuto a conoscenza della marcia su Roma e dell'avvento al potere di Mussolini, valuta adeguatamente la gravità del pericolo fascista, ma, al tempo stesso, ritiene possibile che il PCI, affrancato dall'alleanza con i socialisti imbelli, riorganizzandosi e ricucendo il rapporto con le masse popolari, possa riuscire a fronteggiarlo.

Nel 1925, dopo il delitto Matteotti, pensa (come peraltro parecchi compagni e esponenti politici liberali) che il regime mussoliniano abbia i giorni contati. Si esalta, addirittura, perché l'Unità ha triplicato la tiratura e il Partito è stato infoltito da numerose adesioni.

En passant, non è superfluo rilevare che dopo l'uccisione di Matteotti, Gramsci pubblica su "Lo Stato operaio" del 28 agosto 1924 un articolo che riconosce il coraggio personale e eroico dell'esponente socialista, ma lo bolla come "pellegrino del nulla" perché egli, pur avendo di mira il superamento del sistema capitalistico, ha preso le distanze dalla rivoluzione bolscevica e dal PCI che si è costituito per realizzarla in Italia, laddove, secondo Matteotti, non ci sono le condizioni politiche per un'insurrezione violenta.

L'ingenuità del novembre del 26, insomma, è solo l'ultima di una serie. Essa, tra l'altro, non riguarda solo gli avversari fascisti, ma anche i compagni sovietici.

Dopo la morte di Lenin nell'URSS si avvia un aspro scontro tra fazioni  in seno al gruppo dirigente sovietico. Nell'ottobre del 1926, pochi giorni prima dell'arresto, Gramsci, che pure ha soggiornato in URSS per due anni, scrive una lettera al comitato centrale del PCUS appellandosi al dovere dei compagni di mantenere l'unità in nome del loro essere rappresentanti della rivoluzione comunista agli occhi del proletariato di tutto il mondo. Egli definisce corporativi gli interessi di quelle fazioni e quindi incompatibili con il leninismo e la teoria dell'egemonia del proletariato.

La lettera non giunge a destinazione in conseguenza della censura di Togliatti che, in quel periodo, è il rappresentante del Partito comunista nell'Internazionale. Egli si rende conto, infatti, che, con la scomparsa di Lenin, l'unità del partito bolscevico è venuta meno irreversibilmente e che la lotta tra le fazioni si concluderà inesorabilmente con la sconfitta di una di esse. Il richiamo di Gramsci all'unanimismo è dunque astratto: è fondato sul mito del bolscevismo e non sulla realtà di fatto. È anche, in una certa misura, politicamente pericoloso perché la logica politica di Stalin, destinata ad assumere progressivamente una dimensione "paranoica", comporta (e Togliatti lo sa) solo il riferimento ad amici e nemici: non prevede, insomma, la neutralità e tanto meno l'assunzione da parte di chicchessia del ruolo di mediatore.

Il riferimento  alle "ingenuità"  di uno studioso e politico militante come Gramsci, che fa del nesso tra teoria e pratica il fattore fondamentale del marxismo (o filosofia della prassi, come egli lo denomina) è sicuramente eterodosso in rapporto all'orientamento prevalente tra gli studiosi gramsciani, che ormai sfiora l'agiografia, ma non ha alcunché di provocatorio. Solo esso, infatti, fornisce la chiave che consente di comprendere il significato ultimo dei Quaderni del carcere.

Si tratta, in ultima analisi, di una lunga riflessione sui "fallimenti" cui Gramsci e il PCI sono andati incontro: fallimenti irrimediabili nell'immediato, dalla cui elaborazione egli però ricava la fiducia in una vittoria a lungo termine. La riflessione, per alcuni anni, trae conforto dal fatto che la rivoluzione comunista si è comunque realizzata, anche se in un solo paese. Lentamente, però, intervengono dubbi molteplici sull'evoluzione autocratica del regime stalinista, amplificati dal modello di comunismo che Gramsci sta elaborando, il quale comporta, sulla base di una volontà collettiva consapevole, un salto di qualità - economico, politico, sociale e culturale - atto a portare il mondo a un livello di civiltà superiore.

Estromesso, insomma, dalla vita politica attiva, Gramsci si cala nel ruolo di intellettuale "organico" che lavora per gettare le basi di una futura rivoluzione, destinata a realizzare il "sogno" marxiano di una fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria.

Nel mantenere fermo quest'ultimo obiettivo e nell'articolare una nuova strategia per realizzarlo, che punta sulla crescita culturale delle masse proletarie e contadine sotto la guida di un Partito di intellettuali militanti che promuove nella società la formazione di una volontà collettiva egemone, e quindi capace di sostituire la vecchia classe dirigente, sta l'originalità del pensiero gramsciano, che rimane fedele a quello di Marx ma, al tempo stesso, lo rinnova, perché implica un'articolazione molto più complessa del rapporto reciproco e interattivo tra infrastruttura economica e sovrastruttura culturale.

I Quaderni del carcere sono un work in progress finalizzato a definire sempre meglio quell'obiettivo, che non ha alcunché di fatalistico, e a mettere a fuoco la strategia politica atto a realizzarlo.

La pagina datata l'8 febbraio 1929 fornisce un elenco (il primo) dei temi che rappresentano la "griglia" della ricerca gramsciana. Nel corso degli anni se ne aggiungeranno altri, ma l'essenziale c'è già su un fronte di straordinaria ampiezza: la storia e i criteri metodologici per interpretare i processi storici del passato e del presente; lo sviluppo della società italiana nel corso del Risorgimento e del primo Novecento; il ruolo degli intellettuali (conservatori, opportunisti, progressisti, ecc.) e delle riviste attraverso le quali essi si esprimono e comunicano; la cultura popolare con le sue tradizioni (il folklore) e il suo affacciarsi alla modernità e al mondo della cultura attraverso i romanzi di appendice; il senso comune, che implica l'adesione dei ceti subordinati all'ideologia dominante; l'organizzazione da parte della Chiesa di una sorta di milizia (l'Azione Cattolica) deputata a contrastare il liberalesimo, il socialismo e le spinte del modernismo; la situazione del meridione italiano, vale a dire di un vasto territorio integrato nella nazione ma, al tempo stesso, economicamente e culturalmente penalizzato; la questione della lingua nazionale e dei dialetti, che ingabbiano ampie fasce della popolazione in un angusta dimensione concettuale e comunicativa.

Scorrendo i titoli delle rubriche riesce del tutto evidente che, eccezion fatta per le esperienze di vita in carcere, che rappresentano un drammatico riferimento privato, in questo primo periodo (1929-1930), pur se appare già aperto alla suggestione di ciò che accade in altre nazioni (Francia, Germania e Stati Uniti), il pensiero gramsciano è fortemente polarizzato a livello nazionale e contestuale.

Si potrebbe pensare che Gramsci  applichi alla lettera lo "spirito" di Marx, il quale si augurava che i suoi eredi, pur ispirandosi al suo pensiero, non si limitassero a ripetere formule dogmatiche, ma tentassero di analizzare minuziosamente la realtà storica con la quale si confrontavano - necessariamente locale per quanto inserita in un contesto globale - tentando di dare ad essa, ai suoi sviluppi e alle sue contraddizioni, un senso nella cornice del materialismo storico e dialettico atto a promuovere un cambiamento politico radicale.

In realtà non è solo una questione di metodo. La polarizzazione cui ho fatto cenno comporta un interesse, a tratti "ossessivo", per la "rivoluzione mancata" del Risorgimento, e per il protrarsi nel Novecento dei fattori che hanno impedito che essa fosse portata a termine: una polarizzazione che dà ai due paragrafi più lunghi del Quaderno (§§k43, 44), scritti con un ricorso continuo al flash-back, un carattere quasi convulso.

Tali paragrafi sono un cahier de doléances sulle insufficienze dei partiti progressisti nella storia d'Italia (il Partito d'Azione ottocentesco, il Partito Socialista nel Novecento), dei partiti moderati, che raggiungono l'obiettivo dell'unità nazionale, ma al prezzo di un'irrimediabile scissione tra il Nord e il Sud, degli intellettuali che, quando non rigidamente conservatori, sono il più spesso velleitari e astratti, dei cattolici, che utilizzano il radicamento popolare della religione per ostacolare la diffusione dei principi liberali e ancor più del socialismo, ecc.

La "rivoluzione mancata" nell'800, quando peraltro non sussistevano neppure i presupposti per cui essa si realizzasse, data l'inesistenza di un partito socialista (costituitosi solo nel 1892) e le condizioni di grave arretratezza economica e culturale della classe proletaria e ancor più delle masse contadine, viene con tutta evidenza letta da Gramsci alla luce della delusione e della frustrazione per la "vera" rivoluzione mancata; quella del primo dopoguerra, alla quale egli ha attivamente partecipato illudendosi, all'epoca del biennio rosso, che  in Italia  potesse avviarsi, sulla base di una presa di potere, la costruzione di una nuova civiltà - il comunismo.

Gramsci non riconoscerà mai del tutto esplicitamente gli errori commessi e la sostanziale ingenuità che li ha resi possibili, riconducibili al mito della Rivoluzione contro il Capitale, che rappresenta l'unico suo "tradimento" rispetto a Marx, intriso peraltro di un giovanile "giacobinismo" leninista.

Ciò nondimeno, egli di fatto lavora per sormontarli e, nel suo tragitto di ricerca, scopre la potenza della sovrastruttura (tradizioni, ideologia, cultura, senso comune), che realizza, a livello di psicologia individuale e collettiva, soprattutto per quanto concerne i ceti subordinati, l'effetto "stregante" rilevato da Marx ma mai adeguatamente analizzato, che determina in essi un atteggiamento passivo nei confronti della realtà esistente o forme di ribellione caotiche e disorganizzate.

Come porre rimedio a questa situazione, vale a dire come dotare i ceti subordinati di una visione del mondo unitaria e coerente, adeguata a consentire loro di conseguire l'egemonia politica e culturale necessaria per cambiare radicalmente la realtà e avviare la costruzione di una civiltà di livello superiore è il basso continuo dei Quaderni.

Il progetto è politico e culturale, ma esso, inesorabilmente, proprio nella sua tensione verso una filosofia marxista onnicomprensiva e capace concretamente di realizzare la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria, coinvolge ed interseca una serie indefinita di problemi - inerenti la natura umana, l'interazione tra natura e cultura, lo statuto della coscienza individuale e collettiva, la trasmissione delle tradizioni culturali, la produzione e l'attecchimento delle ideologie adattive, ecc. - che Gramsci affronta con coraggio ed acume, giungendo anche a conclusioni di estremo interesse e attualità (per esempio per quanto riguarda il senso comune, che consente agli esseri umani di sapere come si vive in società, ma al prezzo di una mortificazione dello spirito critico).

È un fatto, però, che, all'epoca di Gramsci, quei problemi possono essere affrontati solo filosoficamente, alla luce di una cultura storico-umanistica, portata al suo massimo sviluppo dall'idealismo hegeliano, e utilizzata da Marx per rimettere con i piedi sulla terra ciò che Hegel ha rovesciato.

Questo rovesciamento, che Gramsci accoglie pienamente, per essere efficace, vale dire per promuovere un processo che porti l'umanità ad un livello di civiltà superiore - identificabile con la fine della violenza e dell'oppressione dell'uomo sull'uomo - postula non solo uno storicismo umanistico e immanente, ma una concezione antropologica dell'essere umano che sia più articolata rispetto a quella delineata da Marx e da Gramsci.

In breve, quello che Gramsci ha fatto con Marx, identificando il punto debole del suo pensiero nella mancata articolazione del rapporto interattivo e reciproco tra infrastruttura economica e sovrastruttura culturale, va fatto con Gramsci.

Non è certo un venir meno all'ammirazione che suscita una delle imprese intellettuali più elevate del Novecento identificare il punto debole del pensiero gramsciano nello storicismo assoluto ("La filosofia della praxis è lo «storicismo» assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia" Q11 § 27; "immanenza, depurata da ogni traccia di trascendenza e di teologia" Q10 § 8) che, ponendo tra parentesi il problema della natura umana e dell'interazione tra natura e cultura, impedisce ad esso di mettere a fuoco un modello antropologico adeguato al fine che si prefigge.

Non è certo superfluo insistere su questo ultimo aspetto.

Il pericolo, oggi del tutto evidente, è che l'impresa gramsciana rimanga sospesa nel limbo del dibattito culturale tra specialisti accademici con il rischio, per un verso, di cadere nell'agiografia e, per un altro, di portare avanti aspre polemiche sostanzialmente insignificanti (il rapporto tra Gramsci e Togliatti, la scomparsa di uno dei Quaderni, ecc.).

Una  lettura contemporanea dei Quaderni, a mio avviso, deve affrontare come nodo di fondo la finalità eminentemente pratica che ne ha guidato la produzione: tendere, insomma, a definire ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero gramsciano non solo su di un registro intellettuale ma anche e soprattutto in riferimento al salto di civiltà cui egli, da marxista, teneva e per cui ha lavorato.

Se si ritiene questo salto impossibile, Gramsci va semplicemente archiviato nel museo delle cere dei nobili utopisti. Se, viceversa, lo si ritiene ancora possibile (ovviamente non in termini di coscienza di classe ma di coscienza di specie), occorre interrogarsi, al di là dei "valori" ormai acquisiti del pensiero gramsciano, vale a dire le tematiche che egli ha affrontato in maniera innovativa (cfr Fusaro, Descrizione dei Quaderni del carcere),  sui limiti contro cui è venuto ad urtare e su come essi possano essere oggi sormontati.

Il problema, in breve, è come passare da una filosofia marxista che, nonostante i contributi di Gramsci, non si può ritenere autosufficiente ad un sapere integrato sull'uomo e sui fatti umani - ad una panantropologia - che riconosca in quella filosofia la sua cornice.

Note
1 V. Gerratana, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. IV, p. 2369