Quaderno 16

Nota di lettura

Naturale e artificiale

Gramsci è consapevole che la filosofia marxista, nonostante le sue vicissitudini, non è arrivata a configurarsi come un sapere adatto a diffondersi presso le masse popolari mantenendo la sua specificità e la sua originalità.

Egli scrive:

"§ 9  La filosofia della praxis aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo."

Di fatto dopo la pubblicazione dei tre libri del Capitale (gli ultimi due elaborati con un'estenuante fatica da Engels) è accaduto che gli intellettuali marxisti si sono resi immediatamente conto della difficoltà di tradurre la teoria marxiana in un sapere accessibile alle masse proletarie. La diffusione del marxismo è avvenuta in gran parte sulla base del Manifesto, testo straordinario nella sua sinteticità, ma inevitabilmente, incline ad un certo dogmatismo.

Sul piano teorico, poi si sono definiti diversi orientamenti. In Unione sovietica, il marxismo si è trasformato, nella rozza versione materialistica fornita da Stalin, in una religione di Stato. In Occidente Kautsky ha cercato di integrare marxismo e evoluzionismo, ricavandone un orientamento storicamente deterministico e fatalistico. L'austromarxismo ha fornito un'interpretazione etica del marxismo riconducendola al kantismo. Bernstein, infine, cui Gramsci fa cenno nel § 26, ha contestato la teoria dell'inevitabile crollo del capitalismo, inaugurando la corrente socialdemocratica che punta al graduale miglioramento del tenore di vita delle classi operaie e contadine.

In breve, una gran confusione, rispetto alla quale Gramsci cerca di fare chiarezza, intanto assumendo il marxismo come il prodotto di una lunga evoluzione culturale (oltre che ovviamente sociale):

"La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita.

La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura."

Per rendere pratico sul piano oggettivo tale movimento, occorre sormontare lo scarto tra alta cultura e cultura popolare. ma ciò non è semplice perché "suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse."

Ciò nondimeno, Gramsci non esita a scrivere:

"L’affermazione che la filosofia della praxis è una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali."

Per quanto riguarda la previsione, a distanza di decenni, la cultura in questione continua a rimanere in uno stato di incubazione.

Per quanto riguarda l'indipendenza e l'autonomia della filosofia marxista, si tratta, come ho già accennato, di un'ossessione gramsciana. Giustificata all'epoca dall'inquinamento positivistico ed etico, oggi essa va sormontata. In quanto teoria che cerca di spiegare in toto l'avventura della specie umana sulla faccia della terra, prescindendo da qualsivoglia orizzonte trascendente, la filosofia marxista ha bisogno di integrare nella sua cornice molteplici dati forniti dalle scienze umane e sociale.

Uno dei vantaggi di tale integrazione è di riproporre in termini più articolati il rapporto tra natura umana e cultura.

Nel Quaderno, Gramsci affronta per l'ennesima volta questo problema alla luce del pregiudizio storicistico scrivendo:

"Al concetto di «naturale» si contrappone quello di «artificiale», di «convenzionale». Ma cosa significa «artificiale» e «convenzionale» quando è riferito ai fenomeni di massa? Significa semplicemente «storico», acquisito attraverso lo svolgimento storico e inutilmente si cerca di dare un senso deteriore alla cosa, perché essa è penetrata anche nella coscienza comune con l’espressione di «seconda natura»."

In precedenza si legge:

"Cosa significa dire che una certa azione, un certo modo di vivere, un certo atteggiamento o costume sono «naturali» o che essi invece sono «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significhi, ma se si domanda una risposta esplicita e motivata si vede che la cosa non è poi così facile come poteva sembrare.

Occorre intanto fissare che non si può parlare di «natura» come di alcunché di fisso, immutabile e oggettivo. Ci si accorge che quasi sempre «naturale» significa «giusto e normale» secondo la nostra attuale coscienza storica, ma i più non hanno coscienza di questa attualità determinata storicamente e ritengono il loro modo di pensare eterno e immutabile...

La «natura» dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è «naturale» o «contro natura». Inoltre: l’insieme dei rapporti sociali è contraddittorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la «natura» dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi."

E' fuori di dubbio che la definizione della natura umana - vale a dire di una dimensione che non può essere osservata e oggettivata, in quanto si manifesta solo in conseguenza dell'interazione con l'ambiente - riconosce costantemente nel corso della storia una valenza ideologica. Basta pensare, per fare degli esempi, all'istituzione della schiavitù, che si fondava sull'attribuzione ad alcuni soggetti di una natura deficitaria rispetto agli uomini liberi, alla teoria hobbesiana dell'homo homini lupus, che identifica un tratto specifico della natura umana in un surplus di aggressività innata, alla teoria dell'homo oeconomicus, che fa dell'interesse privato l'espressione elettiva di un egoismo innato, ecc.

E' proprio per togliere validità alla teoria hobbesiana e a quella dell'homo oeconomicus che, con l'avvento del capitalismo, hanno generato una nuova forma di schiavitù - quella dell'operaio salariato, che vende la sua vita rimanendo formalmente libero - che Marx ha avvertito l'esigenza di negare l'esistenza di una natura umana fissa e immutabile.

Ma, a ben vedere, questa negazione è in contraddizione con il giudizio di disumanità del capitalismo che viene espresso a chiare lettere nei Manoscritti del 1844 e risuona nello straordinario capitolo del Capitale sulla giornata lavorativa. Il giudizio di disumanità non è moralistico: esso fa riferimento al fatto che, incatenato alla macchina e reso una semplice appendice di essa, trattato cioè come una cosa dotata di energia produttiva, l'uomo si degrada, degenera, giunge a vivere in maniera infraumana.

Un'analisi del genere non avrebbe senso se non si ammettesse che il bisogno dell'uomo di lavorare per produrre i mezzi della sua sussistenza e per soddisfare i suoi desideri riconosce un vincolo naturale.

Oggi la questione si pone in termini ancora più chiari. Il sistema capitalistico si fonda sulla taylorizzazione dell'attività lavorativa, vale a dire sul richiedere ai lavoratori  di riversare tutte le loro energie nella produzione, non fosse altro che per scampare al pericolo della disoccupazione. Che, avendo un contratto, un dipendente assuma come "normale" lo sfruttamento delle sue energie è un fatto culturalmente determinato. Nella misura in cui, il regime lavorativo taylorizzato fa affiorare molteplici fenomeni di stress psicosomatico (che sono misurabili), ci si trova di fronte ad una reazione dell'organismo psico-fisico che può senz'altro fare riferimento a istanze culturali di giustizia, ma esprime anche la reazione del cervello a richieste eccessive di prestazioni.

Lo stress lavorativo, che si può ormai valutare e quantificare oggettivamente (per quanto riconosca anche aspetti soggettivi) è la prova che l'uomo, per quanto concerne l'amministrazione delle sue risorse, sia essa dovuta a prestazioni che egli si impone o che gli vengono richieste dall'esterno, non è padrone ma amministratore di se stesso.

I vincoli che l'amministrazione delle risorse devono rispettare perché l'uomo non manifesti fenomeni di stress sono per l'appunto inerenti la sua natura: riconducibili cioè a meccanismi automatici di regolazione delle prestazioni presenti nella struttura del suo cervello.

Su questa base, si può ipotizzare un sistema sociale e un'organizzazione del lavoro che sia al tempo stesso più "naturale" (più conforme all'organismo psicofisico) e culturalmente più avanzata (in rapporto ad una cultura fatta a misura d'uomo).