Quaderno 13

Nota di lettura

Machiavelli e Marx


L'interesse di Gramsci per Machiavelli è attestato dal fatto le citazioni che lo concernono  sono quasi alla pari di quelle di Croce e di Marx.

Tale interesse è sicuramente riconducibile all'influenza del De Sanctis che, in un capitolo della Storia della letteratura italiana (1870), assume Machiavelli come punto di svolta della cultura italiana, portatore dello spirito moderno e precursore dell'Unità italiana (al punto che in riferimento all'ingresso dei bersaglieri a Porta Pia scrive: «Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli»).

Esso peraltro è  dovuto al fatto che Gramsci identifica nel Partito il moderno Principe e, su questa base, ritiene il Machiavelli il fondatore della scienza politica, vale a dire il precursore di una politica fattuale, capace cioè di incidere concretamente sulla realtà e di dare luogo ad una radicale riforma morale e culturale. In questa ottica, mutatis mutandis, Machiavelli è anche il precursore di Marx.

A riguardo, Gramsci è esplicito: occorrerebbe "uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell‘azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe."

Lo studio è frammentariamente portato avanti nei Quaderni, ma il libro (come molti altri progettati) non ha mai visto la luce.

Per capire l'ammirazione (quasi senza limiti) di Gramsci per Machiavelli, occorrerebbe fare un lungo discorso che qui va ridotto all'essenziale.

L'ammirazione concerne anzitutto la "concretezza" di Machiavelli, che intende fornire al Principe  gli strumenti per incidere sulla realtà sociale e orientarlo verso il raggiungimento effettivo dei fini che egli si prefigge. Gramsci identifica la stessa concretezza in Marx la cui filosofia è intesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Non è per caso che egli definisce  il suo marxismo come Filosofia della prassi, sottolineando il rilievo politico della volontà collettiva, organizzata dal Partito, il nuovo Principe.

Questa ammirazione, però, non tiene conto del fatto che nonostante l'esaltazione comune ad entrambi di un pensiero e di una pratica politica fondata sulla realtà effettuale e capace di incidere su di essa, Machiavelli e Marx sono di fatto due utopisti: in pieno Cinquecento, vale a dire nel corso di un secolo dominato dalla Spagna e dalla Francia e attraversato da terribili guerre di religione, Machiavelli vede possibile un'impresa - quella di unificare l'Italia -, che, di fatto, maturerà solo tre secoli dopo e si realizzerà, peraltro, con il concorso decisivo di una nazione straniera (la Francia).

Marx, a metà dell'800, nell'epoca stessa in cui, superata la crisi del '48, si avvia il trionfo della borghesia, vede imminente la possibilità di una Rivoluzione che instauri la dittatura del proletariato e promuova il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, dal regno dell'oppressione e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo ad un mondo pacificato e umanizzato (se non addirittura paradisiaco).

Il problema è che, come militante politico, anche Gramsci ha pagato il suo prezzo all'utopia, immaginando possibile una rivoluzione analoga a quella realizzata da Lenin in un contesto - quello italiano - caratterizzato da una forte borghesia e da un orientamento popolare incline a privilegiare l'ordine e la sicurezza rispetto al disordine necessario per realizzare una rivoluzione.

La sua riflessione sul Machiavelli tiene conto della delusione e della sconfitta, e cerca di definire un progetto che possa portare a buon esito le istanze, consapevolmente o inconsapevolmente, rivoluzionarie delle classi subordinate.

Tale progetto verte per l'appunto sull'identificazione nel Partito del nuovo Principe e assegna al Partito stesso l'obiettivo di coalizzare i segmenti storicamente dissociati di quelle classi - gli operai e i contadini - sotto la guida di una classe dirigente intellettuale che sappia fornire ad essi gli strumenti di una maturazione intellettuale, morale e politica. E' questo, secondo Gramsci, il "sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe" che egli auspica.

Se è fuori di dubbio, però, che Machiavelli, con Bodin e Botero, inaugura la scienza della politica, occorre aggiungere che la concezione radicalmente pessimistica dell'uomo che sottende il suo pensiero è del tutto incompatibile con l'antropologia marxista.

Non tanto perché se fosse vero ciò che dice il Machiavelli degli esseri umani ("delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano"; "E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l'amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai" Principe, cap. 17), il progetto di una civiltà di livello superiore non avrebbe senso.

Il problema è che, partendo da una concezione antropologica del genere, l'esercizio del potere, se non deve prescindere dal tentativo di catturare il consenso popolare, deve però più spesso ricondursi all'uso della forza:

"Debbe adunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda. Et è di tanta virtù, che non solamente mantiene quelli che sono nati principi, ma molte volte fa li uomini di privata fortuna salire a quel grado; e per avverso si vede che, quando e' principi hanno pensato più alle delicatezze che alle arme, hanno perso lo stato loro. E la prima cagione che ti fa perdere quello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare, è lo essere professo di questa arte." (Principe, cap. 14)

"Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo...

Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato." (cit., cap. 18)

Nonostante i tentativi di Gramsci di separare il machiavellismo positivo (l'arte politica di raggiungere i fini che ci si prefigge con la "virtù") da quello negativo (l'arte politica di raggiungere quei fini con qualunque mezzo, compresi quelli illeciti), si tratta di due facce della stessa medaglia, vale a dire di due strategie la seconda della quale va adottata se la prima non funziona.

Principi del genere, anche se Gramsci non ne è del tutto consapevole, sono stati adottati quasi alla lettera in Unione Sovietica. Le straordinarie capacità strategiche di Lenin rientrano per molti aspetti nell'ambito del machiavellismo positivo; quelle adottate progressivamente da Stalin per salvare il socialismo in un solo paese sono state, invece, progressivamente impregnate di machiavellismo negativo.

Si dirà che una teoria politica rimane valida nei suoi principi, se essa permette di incidere nella realtà storica in termini di progresso, quali che siano i suoi presupposti ideologici. Ma non è vero.

Il liberalismo che fa capo a Hobbes è cosa ben diversa da quello che fa capo a Locke. Analogamente, il marxismo di Stalin, che interpreta Marx attraverso Machiavelli, è cosa del tutto diversa dal marxismo di Gramsci, che interpreta Machiavelli attraverso Marx.

Qual è dunque la ragione ultima dell'ammirazione gramsciana per Machiavelli?

La risposta non può prescindere dalla contraddizione tra machiavellismo positivo e machiavellismo negativo che si riscontra, mutatis mutandis, anche in Marx. Il discorso è lungo, in quanto implica il rapporto tra marxismo e violenza. Pongo tra parentesi un problema psicoanalitico che potrebbe risultare fastidioso: sia Marx che Gramsci erano entrambi incapaci di esercitare una qualunque violenza fisica.

Basterà dire che la contraddizione in questione serve sostanzialmente a differenziare nettamente il comunismo rispetto al socialismo utopistico, marcatamente umanitaristico ma del tutto imbelle (particolarmente in Italia). Se si tiene conto della relativa facilità con cui le "squadracce" fasciste, con la complicità delle forze dell'ordine, sono riuscite, tra il 1920 e il 1924, a debellare le resistenze dei socialisti che, pure, con le loro cooperative e Case del popolo, erano profondamente radicati nel territorio, l'ammirazione diventa più comprensibile.

Al di là delle implicazioni storiche (e eventualmente psicoanalitiche) rimane il fatto che, nell'ottica umanitaristica del marxismo, la prassi politica, pur dovendo mirare ad essere efficace, non può prescindere dal principio per cui l'uomo è un fine e non un mezzo; principio che, pur nell'asprezza dei conflitti politici, va applicato anche agli avversari o ai nemici.