L'esperienza del carcere

La rubrica Esperienze della vita in carcere è riportata nella prima pagina dei Quaderni. Essa, però, non ha alcuno svolgimento ulteriore se si eccettuano queste poche note:

Q1 §16 Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia» (16 giugno 1929) chiama l’uniforme del bagno penale «quella specie di ignobile pijama». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina del pubblico» che press’a poco diceva: «In treno due si incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. – “Certo per ragioni politiche” dice l’altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che l’essere stato in carcere non desta più repulsione, perché si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti più tipici del senso comune popolare italiano. E Barilli è perfino al di sotto (di) questo senso comune: filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».

Q8 §91 Confalonieri. Silvio d’Amico, in un capitolo del suo libro Certezze (Treves‑Treccani‑Tuminelli, di prossima pubblicazione; il capitolo è riportato dai giornali del 16 marzo 1932, «Resto del Carlino») scrive che in una raccolta del museo dello Spielberg è conservata la «supplica rivolta a … Francesco I dal conte Confalonieri di Milano entrato in carcere, come si sa, fiorente di gagliardissima giovinezza: egli scrive all’Imperatore come un uomo fiaccato, chiedendo grazia e pietà. Documento spaventevole, dico, perché anche lasciando la debita parte alle forme servili del tempo (? da parte del Confalonieri?), di fatto qui le parole imploranti denunciano una violazione spirituale cento volte più turpe di una condanna a morte, gemono la disfatta di una tempra spezzata in due: non è più il baldo patrizio che parla, è il fanciullo che un gigante ha costretto a scrivere a proprio talento, schiacciandogli l’esile mano nel pugno d’acciaio, è il meschinissimo che è stato stordito e ubbriacato per vederlo delirare». Scrive il D’Amico che questo museo dello Spielberg è stato messo insieme, col permesso del governo ceco, dal dottor Aldo Zaniboni, un medico italiano che viveva o vive ancora a Brno. Avrà fatto qualche pubblicazione in proposito? E questa supplica del Confalonieri è stata pubblicata?

Q9 §9 Passato e presente. Le prigioni dello Stato pontificio. Nel fascicolo aprile‑settembre 1931 della «Rassegna Storica del Risorgimento» è pubblicato da Giovanni Maioli un capitolo di una autobiografia inedita di Bartolo Talentoni, patriotta forlivese. Il capitolo si riferisce alle procedure giudiziarie e alla prigionia patita dal Talentoni, quando fu arrestato nel 1855 come cospiratore e favoreggiatore di sétte in Romagna. Carcere di Bologna. Tra l’altro si può stralciare questo: «Tutto colà era calcolato né mai ci lasciavano un momento tranquilli...» Perché un sonno riparatore non rafforzasse lo spirito e il corpo dei detenuti si ricorreva ai mezzi più impensati. La sentinella faceva rimbombare la prigione cogli urrà, durante la notte il catenaccio era fatto scorrere con la più rumorosa violenza, ecc. (Questi cenni sono presi dal «Marzocco» del 25 ottobre 1931).

Q9 §51 Passato e presente. In un articolo di Mario Bonfantini, L’arte di Carlo Bini, nell’«Italia Letteraria» del 22 maggio 1932, sono citati questi due versi (o quasi): «La prigione è una lima sì sottile, – che temprando il pensier ne fa uno stile». Chi ha scritto così? Lo stesso Bini? Ma il Bini è stato davvero in prigione (forse non molto). La prigione è una lima così sottile, che distrugge completamente il pensiero; oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di legno d’olivo stagionato per fare una statua di S. Pietro, e taglia di qua, togli di là, correggi, abbozza, finì col ricavarne un manico di lesina.

Q19 §42 Federico Confalonieri. Per capire l’impressione «penosa» che produceva tra gli esuli italiani l’atteggiamento di inerzia del Confalonieri durante la sua dimora all’estero, dopo la liberazione dallo Spielberg, occorre tener presente un brano della lettera scritta dal Mazzini a Filippo Ugoni il 15 novembre 1838, pubblicata da Ugo Da Corno nella Nuova Antologia del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane, dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non consacrata al dovere, o all’amore che è anch’esso un dovere. Intendo, senza approvare o disapprovare, l’individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita d’individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza di vita futura, più che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo, in età già inoltrata, senza forti doveri che lo leghino a una famiglia di esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di contribuire all’emancipazione del suo paese e alla crociata contro l’Austria».

Il Da Corno nella sua introduzione alla lettera scrive: «E per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia: Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui, non dovevano mutare il fondo dell’anima. Lo seguiva con trepidazione, perché voleva che fosse sempre un’alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d’intorno, non avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a pro’ dell’antica idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento. Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all’ultimo, del suo compagno di prigionia».

L'abbandono del tema da parte di Gramsci è riconducibile all'avere affidato alle Lettere le vicissitudini della sua esperienza carceraria che, come noto, sono giunte a vertici di angoscia intollerabile. Al di là della restrizione della libertà che, per un intellettuale "organico", bisognoso di agire. è una iattura, l'angoscia fa esplicitamente riferimento al pericolo di un crollo psichico che avrebbe potuto indurlo, contro la sua volontà, a chiedere la grazia a Mussolini.

Da questo punto di vista, la note più significative sono le due che concernono il Confalonieri: la prima attesta per l'appunto l'effetto disgregativo della personalità che il carcere può esercitare su una tempra gagliarda; la seconda l'incomprensione da parte dei suoi sodali nella quale può incorrere il rivoluzionario che, in conseguenza dell'esperienza carceraria, cede e si ritira dalla lotta.

Al di là della sua personale vicenda, è evidente che Gramsci coglie nella segregazione carceraria non solo un'ingiustizia quando essa si realizza, come nel suo caso, per ragioni politiche, ma una pratica afflittiva che viola comunque i diritti dell'individuo, anche quando la separazione dell'individuo stesso dalla società si può ritenere necessaria in conseguenza dei comportamenti antisociali che egli ha agito o potrebbe agire.

Gramsci non sa che Nietzsche ha scritto a riguardo pagine di un radicalismo inquietante. Dalla quarta Conferenza su Nietzsche ripoto questa citazione:

"Nietzsche naturalmente non ignora la distinzione che si dà tra devianza intesa in senso generale e criminalità. Riguardo a quest’ultima, però, le sue idee sono estremamente originali (fin troppo, come vedremo). Nietzsche, infatti, contesta l’esistenza del libero arbitrio e, di conseguenza, il diritto della società di punire il criminale sulla base della sua responsabilità personale:

"102. «L’uomo agisce sempre bene.» - Noi non accusiamo la natura di immoralità quando ci manda un temporale e ci fa bagnare: perché chiamiamo immorale l’uomo che fa il male? Perché in questo caso supponiamo una volontà libera, dominatrice nel suo arbitrio, e nell’altro, invece, una necessità. Ma questa distinzione è un errore. Inoltre: neppur il far del male volontariamente, noi lo chiamiamo sempre immorale; ad esempio, si uccide una zanzara intenzionalmente e senza esitazione, perché il suo ronzio ci infastidisce, si punisce il delinquente intenzionalmente e gli si fa del male per proteggere noi e la società. Nel primo caso è l’individuo che, per conservarsi o anche per non procurarsi un dolore, fa intenzionalmente del male; nel secondo caso è lo Stato. Ogni morale ammette che si arrechi danno volontariamente in caso di legittima difesa: cioè quando si tratta della propria conservazione. Ma questi due punti di vista bastano a spiegare tutte le cattive azioni che l’uomo commette contro l’uomo: si vuole il nostro piacere o si vuole allontanare il dolore; in certo qual modo si tratta pur sempre della nostra conservazione. Socrate e Platone hanno ragione: qualunque cosa faccia, l’uomo fa sempre il bene, ossia: ciò che gli sembra buono (utile), a seconda del livello del suo intelletto e del grado di volta in volta raggiunto dalla sua razionalità.” (UTU)

Alla luce del determinismo inconscio, Dissidenza, Devianza, Trasgressione, De-linquenza sono termini accomunati dal riferimento a comportamenti in opposizione ad una Norma. E' questa, secondo Nietzsche, con i suoi meccanismi di controllo sociale, a produrre la Devianza.

Nietzsche intuisce che lo Stato, avocando a se stesso l’esercizio della violenza punitiva, ha cercato di sormontare la legge del taglione, della vendetta privata. Egli pensa però che, nella misura in cui esso realizza la vendetta infliggendo al colpevole una pena afflittiva, esercita una ingiusta prepotenza perché la punizione si fonda sull’attribuzione al criminale di un libero arbitrio che egli di fatto non ha.

La concezione che Nietzsche ha del comportamento umano è sostanzialmente deterministica. Egli non intende negare che, nel momento in cui il criminale commette un reato, possa sapere che sta violando la legge. La tendenza a delinquere, però, si riconduce, a suo avviso, all’intera storia interiore del soggetto e fa capo ad una serie indefinita di motivazioni inconsce per cui, nonostante quella consapevolezza, il delinquente non può agire in altro modo. Egli dunque è responsabile oggettivamente dell’azione che compie, ma non soggettivamente. Punirlo, tanto più se il significato della pena è afflittivo, è dunque un’ingiustizia legalizzata.

L'inesistenza del libero arbitrio porta, dunque, Nietzsche a contestare la pertinenza del concetto di imputabilità:

“Quel pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale e inevitabile, cui si è sempre dovuto far ricorso per spiegare come si è originato sulla terra il sentimento della giustizia, il pensiero cioè che «il delinquente merita di essere punito perché avrebbe potuto agire diversamente», è [...] una forma assolutamente tarda, anzi raffinata del giudicare e del dedurre umano.” (GM)

“23.

I seguaci della teoria della volontà libera hanno il diritto di punire? Gli uomini che per professione giudicano e puniscono, cercano in ogni caso di stabilire se un malfattore è in genere responsabile della sua azione, se egli poté adoperare la propria ragione, se egli agi per dei motivi e non inconsciamente o sotto costrizione. Se lo si punisce, si punisce il fatto che egli abbia preferito i motivi cattivi a quelli buoni, che egli dunque deve aver conosciuti. Dove questa conoscenza manca, l'uomo, secondo l'opinione dominante, non è né libero né responsabile: a meno che la sua mancata conoscenza, per esempio la sua ignorantia legis, non sia conseguenza di disinformazione volontaria; allora egli, già quando non ha voluta informarsi sui propri doveri, ha preferito i motivi cattivi ai buoni e deve ora scontare le conseguenze della sua cattiva scelta. Se egli invece non ha visto i motivi buoni, per esempio per ebetismo e idiozia, non si suole punirlo: gli è mancata, come si dice, la scelta, egli ha agito come animale. Il rinnegamento intenzionale della ragione migliore è oggi la presupposizione che si fa per il delitto passibile di pena.

Ma come può uno essere intenzionalmente più irragionevole di quanto non debba essere? Da dove viene la decisione, se i piatti della bilancia sono carichi di motivi buoni e cattivi? Certo non viene dall'errore, dalla cecità, non da una costrizione esterna, e neanche da una costrizione interna. (Si consideri del resto che ogni cosiddetta «costrizione esterna» non è nient'altro che la costrizione intima della paura e del dolore). Da dove? si chiede sempre di nuovo. La ragione dunque non sarebbe la causa, perché essa non potrebbe decidersi contro i motivi migliori?

Qui ora si chiama in aiuto la «volontà libera»: sarebbe il completo arbitrio a decidere, sopravverrebbe un momento, in cui nessun motivo agisce, in cui l'azione accade come un miracolo, sorgendo dal niente. Si punisce questa pretesa arbitrarietà in un caso in cui nessun arbitrio dovrebbe dominare: la ragione, che conosce la legge, il divieto e il comandamento, non avrebbe dovuto lasciare nessuna scelta, si dice, e avrebbe dovuto agire come costrizione e come forza superiore.

Il delinquente viene quindi punito perché fa uso della «volontà libera», vale a dire perché ha agito senza motivo, dove avrebbe dovuto agire in base a motivi. Ma perché ha fatto ciò? Ciò appunto non è lecito neanche più chiederlo: fu un'azione senza «per questo», senza motivo, senza origine, qualcosa senza scopo e senza ragione. - Ma, per la prima condizione di ogni colpevolezza sopra prevista, non si dovrebbe neanche punire un'azione simile! Neppure si può far valere l'altra specie di colpevolezza, come se qui qualcosa non fosse stato fatto, come se qualcosa fosse stato omesso, come se della ragione non si fosse fatto uso: giacché in ogni caso l'omissione avvenne senza intenzione! e solo l'omissione intenzionale di ciò che è comandato è considerata punibile.

Il delinquente ha sì preferito i motivi cattivi ai buoni, ma senza motivo e intenzione: egli non ha, è vero, adoperato la sua ragione, ma non per non adoperarla. Quella presupposizione, che si fa per il delitto passibile di pena, che egli abbia intenzionalmente rinnegato la propria ragione, - proprio essa è, se si ammette la «volontà libera», eliminata. Voi non avete il diritto di punire, voi seguaci della teoria della «volontà libera», in base ai vostri stessi principi! - Ma questi in fondo non sono altro che un'assai stravagante mitologia concettuale; è la gallina che li ha covati, si è seduta sulle sue uova in disparte da ogni realtà.” (GS)

“24.

Per giudicare il delinquente e il suo giudice. Il delinquente, che conosce l'intero flusso delle circostanze, non trova la sua azione così fuori dell'ordine e della comprensibilità come i suoi giudici e biasimatori; ma la sua pena gli viene commisurata proprio in base al grado di stupore, da cui quelli sono còlti alla vista dell'azione come di una cosa incomprensibile. - Se la conoscenza che il difensore di un delinquente ha del caso e dei suoi precedenti arriva abbastanza lontano, le cosiddette circostanze attenuanti, che egli espone nell'ordine, devono finire col cancellare completamente la colpa. O, ancora più chiaramente: il difensore attenuerà progressivamente e da ultimo annullerà totalmente quello stupore che condanna e commisura la pena, costringendo ogni ascoltatore onesto all'intima confessione: «egli ha dovuto agire come ha agito; se noi punissimo, puniremmo l'eterna necessità». - Misurare il grado della pena in base al grado di conoscenza che si ha o che in genere si può acquistare della storia di un delitto, non cozza ciò contro ogni equità?” (GS)

Ma se il delinquente non è libero, e quindi capace di agire diversamente da come agisce, cosa deve fare la Società laddove si confronta con un crimine? Nietzsche fornisce una risposta assolutamente sorprendente e "utopistica":

“Una comunità, acquistata maggior potenza, non prende più tanto sul serio le trasgressioni del singolo, perché esse non possono più essere considerate, come per l'innanzi, così pericolose e eversive per l'esistenza del tutto: il trasgressore non viene più «messo al bando» e escluso, la collera generale non può più scatenarsi contro di lui sfrenatamente come prima anzi al contrario, a partire da quel momento, il malfattore sarà accuratamente protetto e difeso dalla comunità contro questa collera e particolarmente contro quella di coloro che sono stati direttamente danneggiati.

Il compromesso con la collera di coloro che sono stati più di tutti colpiti dalla cattiva azione; uno sforzo per localizzare il caso e prevenire una più estesa o anzi generale partecipazione e stato di ansia; tentativi di trovare degli equivalenti e di sistemare tutta l'azione (la compositio); prima di tutto la volontà, che si fa strada con sempre maggiore decisione, di ritenere ogni trasgressione in qualche modo compensabile col denaro, cioè di isolare, per lo meno in una qualche misura, il delinquente dalla sua azione ecco i tratti che si sono impressi sempre più chiaramente sull'ulteriore sviluppo del diritto penale.

Se la forza e l'autocoscienza di una comunità crescono, anche il diritto penale si addolcisce, ogni indebolimento e ogni più profondo stato di pericolo porta di nuovo alla luce forme più dure di questo. Il «creditore» si è fatto sempre più umano a misura che la sua ricchezza aumentava: alla fine misura stessa della sua ricchezza è diventata la sua capacità di sopportare dei danni senza soffrirne. Non sarebbe inconcepibile una consapevolezza di forza da parte della società, per cui essa potesse concedersi il lusso più aristocratico possibile lasciare impuniti coloro che le arrecano pregiudizio. «Che cosa mi importa dei miei parassiti?» potrebbe dire. «Vivano pure e prosperino: sono ancora abbastanza forte da permettermelo! »... La giustizia, che era cominciata con il «tutto è compensabile col denaro, tutto deve essere compensato col denaro», finisce per chiudere un occhio e lasciar andare gli insolventi; finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per annullare se stessa. Questo autoannullamento della giustizia: si sa bene con quale bel nome viene chiamato - grazia; essa resta, come è ovvio, prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto.” (GM)"

Il carcere come Istituzione totale è stato un tema portante della cultura marxista degli anni '70 del Novecento. Purtroppo esso è stato letteralmente invalidato dalla scoperta dell'uso repressivo nei confronti di ogni forma di dissidenza che nell'URSS si faceva del carcere (e del manicomio).