Proletario e Coscienza di classe

(CF, cit.)

“Io non so immaginare un proletariato che sia come un meccanismo al quale nel mese di luglio sia stata data la corda con la chiavetta della neutralità assoluta e che non possa essere nel mese di ottobre fermato senza che abbia a spezzarsi.

Si tratta di uomini, invece, che hanno dimostrato, specialmente in questi ultimi anni, di possedere un'agilità di intelletto e una freschezza di sensibilità quale la massa borghese amorfa e menefreghista è ben lontana dal solamente fiutare. Di una massa che ha mostrato di sapere molto bene assimilare e rivivere i nuovi valori che il rinato Partito socialista ha messo in circolazione. O che forse ci spaventiamo del lavoro che bisognerebbe fare per fargli assumere questo nuovo compito, che forse potrebbe essere per lui il principio della fine del suo stato di pupillo della borghesia?” (GP, 31 ottobre 1914)

“Il progresso non consiste per lo più che nella partecipazione di un sempre maggior numero di individui a un bene. L'egoismo è il collettivismo degli appetiti e dei bisogni di un singolo: il collettivismo è l'egoismo di tutti i proletari del mondo. I proletari non sono certo altruisti nel significato che a questa parola dànno gli umanitari frolli. Ma l'egoismo del proletariato è nobilitato dalla coscienza che il proletariato ha di non poterlo totalmente appagare senza che lo abbiano appagato nello stesso tempo tutti gli altri individui della sua classe. E perciò l'egoismo proletario crea immediatamente la solidarietà di classe.”

 

(CF, cit.)

“Il proletariato si è rinnovato; nessuna delusione vale ad essiccare la sua convinzione, come nessuna brinata distrugge il virgulto ricolmo di succhi vitali. Ha riflettuto sulle proprie forze, e su quanta forza è necessaria per il raggiungimento dei suoi fini. Si è maggiormente nobilitato nella coscienza delle sempre maggiori difficoltà che ora vede, e nel proposito dei sempre maggiori sacrifizi che sente di dover fare. E’ avvenuto un processo di interiorizzamento: si è trasportato dall'esterno all'interno il fattore della storia: a un periodo di espansione ne succede sempre uno di intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell'uomo.”

 

(ON, 13 gennaio 1921)

“La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l'espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l'Italia centrale e meridionale al Settentrione. La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un'altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari. Il capitalismo esercita così il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui più larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari. È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento.”

 

(SO, marzo-aprile 1931)

“Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell'umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del Partito. Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l'apparato di produzione e di scambio e il potere statale. Ma il Partito può e deve nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà, ma ne sarà trascinato. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo.”

 

Q1 §43

Occorre tener presente che in ogni regione, specialmente in Italia, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici propri; "ogni paese ha o ha avuto il suo santo locale, quindi il suo culto e la sua cappella". La elaborazione unitaria di una coscienza collettiva domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve essere e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione. […]

Trovare la reale identità sotto l'apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l'apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale. Il lavoro educativo-formativo che un centro omogeneo di cultura svolge, l'elaborazione di una coscienza critica che esso promuove e favorisce su una determinata base storica che contenga le premesse materiali a questa elaborazione, non può limitarsi alla semplice enunciazione teorica di principi "chiari" di metodo; questa sarebbe pura azione "illuministica". Il lavoro necessario è complesso e deve essere articolato e graduato: ci deve essere la deduzione e l'induzione combinate, l'identificazione e la distinzione, la dimostrazione positiva e la distruzione del vecchio. Ma non in astratto, in concreto: sulla base del reale.

 

Q3 §46

Il concetto prettamente italiano di "sovversivo" può essere spiegato così: una posizione negativa e non positiva di classe: il "popolo" sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori (nel concetto di "signore" c’è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un elemento fondamentale di distinzione: c’è anche l’avversione contro la burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino - anche il medio proprietario - odia il "funzionario" non lo Stato, che non capisce, e per lui è questo il "signore" anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde l’apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un "morto di fame"). Questo odio "generico" è ancora di tipo "semifeudale", non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo, appunto, la posizione negativa e polemica elementare: non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio avversario. (Le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell’avversario: ma appunto questo processo è ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale).

 

Q8 §169

Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare-conoscere il mondo; la sua coscienza teorica anzi può essere "storicamente" in contrasto col suo operare. Egli cioè avrà due coscienze teoriche, una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica del mondo, e una "esplicita", superficiale, che ha ereditato dal passato. La posizione pratico-teorica, in tale caso, non può non diventare "politica", cioè quistione di "egemonia".  

La coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza, cioè di unificazione della pratica e della teoria. Anche l’unità di teoria e pratica non è un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di "distinzione", di "distacco", di "indipendenza". […]
L’autocoscienza storicamente significa creazione di una avanguardia di intellettuali: una "massa" non si "distingue" e non diventa "indipendente" senza organizzarsi e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo e difficile, come si è già visto altrove. E per molto tempo, cioè finché la "massa" degli intellettuali non ha raggiunto una certa ampiezza, ciò che significa finché la più grande massa non ha raggiunto un certo livello di cultura, appare sempre come un distacco tra intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) e le grandi masse: quindi l’impressione di "accessorio e complementare".  L’insistere sulla "pratica", cioè, dopo avere nell’"unità" affermata, non distinto, ma separato la pratica dalla teoria (operazione puramente meccanica) significa storicamente che la fase storica è ancora relativamente elementare, è ancora la fase economico-corporativa, in cui si trasforma il quadro generale della "struttura".

A proposito degli intellettuali si potrebbe ancora osservare, a questo proposito, la differenza fondamentale tra l’epoca prima e dopo la Rivoluzione francese e l’epoca attuale: l’individualismo economico dell’epoca precedente è anch’esso fenomeno di struttura, poiché la vecchia struttura si sviluppano per apporti individuali. L’intellettuale immediato del capitalismo era l’"industriale", organizzatore della produzione.  Nell’economia di massa, la selezione individuale avviene nel campo intellettuale e non in quello economico; l’affare principale è quello dell’unificazione di pratica e teoria, cioè di direzione di "tutta la massa economicamente attiva", e ciò agli inizi non può non avvenire che individualmente (adesione individuale ai partiti politici e non Labour Party o associazioni sindacaliste): i Partiti sono gli elaboratori della nuova intellettualità integrale e totalitaria e l’intellettuale tradizionale della fase precedente (clero, filosofi professionali ecc.) sparisce necessariamente, a meno che non si assimili dopo processo lungo e difficile.

 

Q9 §67

Che una sempre più perfetta divisione del lavoro riduca oggettivamente la posizione del lavoratore nella fabbrica a movimenti di dettaglio sempre più "analitici", in modo che al singolo sfugge la complessità dell’opera comune, e nella sua coscienza stessa il proprio contributo si deprezzi fino a sembrare sostituibile facilmente in ogni istante; che nello stesso tempo il lavoro concertato e bene ordinato dia una maggiore produttività "sociale" e che l’insieme della maestranza della fabbrica debba concepirsi come un "lavoratore collettivo", sono i presupposti del movimento di fabbrica che tende a fare diventare "soggettivo" ciò che è dato "oggettivamente".
Cosa poi vuol dire in questo caso oggettivo? Per il lavoratore singolo "oggettivo" è l’incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio.

Il nesso può sciogliersi; l’esigenza tecnica può essere pensata concretamente separata dagli interessi della classe dominante, non solo ma unita con gli interessi della classe ancora subalterna. Che una tale "scissione" e nuova sintesi sia storicamente matura è dimostrato perentoriamente dal fatto stesso che un tale processo è compreso dalla classe subalterna, che appunto per ciò non è più subalterna, ossia mostra di tendere a uscire dalla sua condizione subordinata. Il "lavoratore collettivo" comprende di essere tale e non solo in ogni singola fabbrica ma in sfere più ampie della divisione del lavoro nazionale e internazionale e questa coscienza acquistata dà una manifestazione esterna, politica, appunto negli organismi che rappresentano la fabbrica come produttrice di oggetti reali e non di profitto.

 

Q9 §127

L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento "uomo", nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro, non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quello che "nazionalmente" è più interessato all’internazionalismo. Non solo l’operaio ma il contadino e specialmente il contadino meridionale.   Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione nella storia italiana e del popolo italiano, non per dominarlo e appropriarsi i frutti del lavoro altrui, ma per esistere o svilupparsi. Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva di capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo, insieme coi popoli slavi. Appunto perciò deve innestarsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare con il suo lavoro.

 

Q11 §12

L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica.
Tuttavia questa concezione "verbale" non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contradditorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di "egemonie" politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. […].

Si immagini […] la posizione intellettuale di un uomo del popolo; egli si è formato delle opinioni, delle convinzioni, dei criteri di discriminazione e delle norme di condotta. Ogni sostenitore di un punto di vista contrastante al suo, in quanto è intellettualmente superiore, sa argomentare le sue ragioni meglio di lui, lo mette in sacco logicamente ecc.; dovrebbe perciò l’uomo del popolo mutare le sue convinzioni? Perché nell’immediata discussione non sa farsi valere? ma allora gli potrebbe capitare di dover mutare una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore. Su quali elementi si fonda dunque la sua filosofia? e specialmente la sua filosofia nella forma che per lui ha maggiore importanza di norma di condotta? L’elemento più importante è indubbiamente di carattere non razionale, di fede. Ma in chi e che cosa?

Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui: l’uomo del popolo pensa che in tanti non si può sbagliare, così in tronco, come l’avversario argomentatore vorrebbe far credere; che egli stesso, è vero, non è capace di sostenere e svolgere le proprie ragioni come l’avversario le sue, ma che nel suo gruppo c’è chi questo saprebbe fare, certo anche meglio di quel determinato avversario ed egli ricorda infatti di aver sentito esporre diffusamente, coerentemente, in modo che egli ne è rimasto convinto, le ragioni della sua fede. Non ricorda le ragioni in concreto e non saprebbe ripeterle, ma sa che esistono perché le ha sentite esporre e ne è rimasto convinto. L’essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della convinzione, anche se essa non si sa più argomentare.  

Ma queste considerazioni conducono alla conclusione di una estrema labilità nelle convinzioni nuove delle masse popolari, specialmente se queste nuove convinzioni sono in contrasto con le convinzioni (anche nuove) ortodosse, socialmente conformiste secondo gli interessi generali delle classi dominanti. Si può vedere questo riflettendo alle fortune delle religioni e delle chiese. La religione, e una determinata chiesa, mantiene la sua comunità di fedeli (entro certi limiti, delle necessità dello sviluppo storico generale) nella misura in cui intrattiene permanentemente e organizzatamente la fede propria, ripetendone l’apologetica indefessamente, lottando in ogni momento e sempre con argomenti simili, e mantenendo una gerarchia di intellettuali che alla fede diano almeno l’apparenza della dignità del pensiero. Ogni volta che la continuità dei rapporti tra chiesa e fedeli è stata interrotta violentemente, per ragioni politiche, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, le perdite subite dalla chiesa sono state incalcolabili e se le condizioni di difficile esercizio delle pratiche abitudinarie si fossero protratte oltre certi limiti di tempo, è da pensare che tali perdite sarebbero state definitive e una nuova religione sarebbe sorta, come del resto in Francia è sorta in combinazione col vecchio cattolicismo.  

Se ne deducono determinate necessità per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale: 1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare; 2) di lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le "stecche" del busto.  

Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il "panorama ideologico" di un’epoca. Né, d’altronde, queste élites possono costituirsi e svolgersi senza che nel loro interno si verifichi una gerarchizzazione di autorità e di competenza intellettuale, che può culminare in un grande filosofo individuale, se questo è capace di rivivere concretamente le esigenze della massiccia comunità ideologica, di comprendere che essa non può avere la snellezza di movimento propria di un cervello individuale e pertanto riesce a elaborare formalmente la dottrina collettiva nel modo più aderente e adeguato ai modi di pensare di un pensatore collettivo.

È evidente che una costruzione di massa di tal genere non può avvenire "arbitrariamente", intorno a una qualsiasi ideologia, per la volontà formalmente costruttiva di una personalità o di un gruppo che se lo proponga per fanatismo delle proprie convinzioni filosofiche o religiose.  
L’adesione di massa a una ideologia o la non adesione è il modo con cui si verifica la critica reale della razionalità e storicità dei modi di pensare. Le costruzioni arbitrarie sono più o meno rapidamente eliminate dalla competizione storica, anche se talvolta, per una combinazione di circostanze immediate favorevoli, riescono a godere di una tal quale popolarità, mentre le costruzioni che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso e organico finiscono sempre con l’imporsi e prevalere anche se attraversano molte fasi intermedie in cui il loro affermarsi avviene solo in combinazioni più o meno bizzarre ed eteroclite. Questi svolgimenti pongono molti problemi, i più importanti dei quali si riassumono nel modo e nella qualità dei rapporti tra i vari strati intellettualmente qualificati, cioè nell’importanza e nella funzione che deve e può avere l’apporto creativo dei gruppi superiori in connessione con la capacità organica di discussione e di svolgimento di nuovi concetti critici da parte degli strati subordinati intellettualmente. Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di autolimite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica culturale.

 

Q15 §13

Potrebbe sembrare che alcune ideologie, come quella dell’idealismo attuale (di Ugo Spirito) per cui si identifica l’individuo e lo Stato, dovrebbero rieducare le coscienze individuali, ma non pare ciò avvenga di fatto, perché questa identificazione è meramente verbale e verbalistica.
Così è da dire di ogni forma del così detto "centralismo organico", il quale si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto "devono" averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche); ma per altri organismi è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto.

Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli: né si può dire che il "silenzio" non sia molteplicità. Un’orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l’orchestra viva come un solo "strumento".

 

Q15 §6

Nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un carattere "monolitico" e non su quistioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro "vero partito" le masse rimangono in tronco, inerti e senza efficacia. Si può dire che nessun moto reale acquista coscienza della sua totalitarietà d’un colpo, ma solo per esperienze successive, cioè quando s’accorge, dai fatti, che niente di ciò che è, è naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono certe condizioni, la cui sparizione non rimane senza conseguenze. Così il moto si perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di "simbiosi", diventa davvero indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna tutte le sue forze.

 

Q16 §12

Constatato che, essendo contradditorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contradditoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione: si manifesta nell’intero corpo sociale, con l’esistenza di coscienze storiche di gruppo (con l’esistenza di stratificazioni corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo storico della civiltà  e con antitesi nei gruppi che corrispondono a uno stesso livello storico) e si manifesta negli individui singoli come riflesso di una tale disgregazione "verticale e orizzontale". Nei gruppi subalterni, per l’assenza di autonomia nell’iniziativa storica, la disgregazione è più grave e più forte la lotta per liberarsi dai principii imposti e non proposti nel conseguimento di una coscienza storica autonoma: i punti di riferimento in tale lotta sono disparati e uno di essi, quello appunto che consiste nella "naturalità", nel porre come esemplare la "natura" ottiene molta fortuna perché pare ovvio e semplice. Come invece dovrebbe formarsi questa coscienza storica proposta autonomamente? Come ognuno dovrebbe scegliere e combinare gli elementi per la costituzione di una tale coscienza autonoma? Ogni elemento "imposto" sarà da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato. Che l’istruzione sia obbligatoria non significa infatti che sia da ripudiare e neppure che non possa essere giustificata, con nuovi argomenti, una nuova forma di obbligatorietà: occorre fare "libertà" di ciò che è "necessario", ma perciò occorre riconoscere una necessità "obbiettiva", cioè che sia obbiettiva precipuamente per il gruppo in parola. Bisogna perciò riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di civiltà economica che per essere sviluppato domanda un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume.   

 

Q24 §3

Il lettore comune non ha e non può avere un abito "scientifico", che solo si acquista col lavoro specializzato: occorre perciò aiutarlo a procurarsene almeno il "senso" con una attività critica opportuna. Non basta dargli dei concetti già elaborati e fissati nell’espressione "definitiva"; la loro concretezza, che è nel processo che ha condotto a quella affermazione, gli sfugge; occorre perciò offrirgli tutta la serie dei ragionamenti e dei nessi intermedi, ben individualizzati e non solo per accenni. […]

La elaborazione nazionale unitaria di una coscienza collettiva omogenea domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione. L’intellettuale è un "professionista" (skilled), che conosce il funzionamento di proprie "macchine" specializzate; ha un suo "tirocinio" e un suo "sistema Taylor".  

È puerile e illusorio attribuire a tutti gli uomini questa capacità acquisita e non innata, così come sarebbe puerile credere che ogni manovale può fare il macchinista ferroviario. È puerile pensare che un "concetto chiaro", opportunamente diffuso, si inserisca nelle diverse coscienze con gli stessi effetti "organizzatori" di chiarezza diffusa: è questo un errore "illuministico". La capacità dell’intellettuale di professione di combinare abilmente l’induzione e la deduzione, di generalizzare senza cadere nel vuoto formalismo, di trasportare da una sfera a un’altra di giudizio certi criteri di discriminazione, adattandoli alle nuove condizioni, ecc., è una "specialità", una "qualifica", non è un dato del volgare senso comune. Ecco dunque che non basta la premessa della "diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e operare omogeneo". Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diversa: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi.  

La "ripetizione" paziente e sistematica è un principio metodico fondamentale: ma la ripetizione non meccanica, "ossessionante", materiale; ma l’adattamento di ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni culturali, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organando sempre ogni aspetto parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità è la più delicata, incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello sviluppo storico.