Attività/Passività

 

(CF, cit.)

“L'indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.

Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.”

 

(Q3 §61)

Il fatto che la generazione anziana non riesca a guidare la generazione più giovane è in parte anche l’espressione della crisi dell’istituto famigliare e della nuova situazione dell’elemento femminile nella società. L’educazione dei figli è affidata sempre più allo Stato o a iniziative scolastiche private e ciò determina un impoverimento "sentimentale" per rispetto al passato e una meccanizzazione della vita. Il più grave è che la generazione anziana rinunzia al suo compito educativo in determinate situazioni, sulla base di teorie mal comprese o applicate in situazioni diverse da quelle di cui erano l’espressione. Si cade anche in forme statolatriche: in realtà ogni elemento sociale omogeneo è "Stato", rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è "funzionario" se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato-governo, ed è tanto più "funzionario" quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente.

 

(Q6 §162)

Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l’adesione ai partiti politici "regolari") significa forse non essere "partigiani", non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo "splendido isolamento" del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico "moderni", come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si "preferiscono" forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo "malavita", quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte. 

Ogni livello o tipo di civiltà ha un suo "individualismo", cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali. Questo "individualismo" italiano (che poi è più o meno accentuato e dominante secondo i settori economico-sociali del territorio) è proprio di una fase in cui i bisogni più immediati economici non possono trovare soddisfazione regolare permanentemente (disoccupazione endemica fra i lavoratori rurali e fra i ceti intellettuali piccoli e medi). […]

La nuova costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale, il più basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili. Il torto storico della classe dirigente è stato quello di aver impedito sistematicamente che un tale fenomeno avvenisse nel periodo del Risorgimento e di aver fatto ragion d’essere della sua continuità storica il mantenimento di una tale situazione cristallizzata, dal Risorgimento in poi.

 

(Q7 §12)

Tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel passato: la standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. […]

Ma nel passato esisteva o no l’uomo-collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica, per dirla con Michels: cioè si otteneva una volontà collettiva sotto l’impulso e la suggestione immediata di un "eroe", di un uomo rappresentativo; ma questa volontà collettiva era dovuta a fattori estrinseci e si componeva e scomponeva continuamente. 

L’uomo-collettivo odierno si forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione: l’uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione dell’uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli. Si dice che "gli scienziati occidentali ritengono che la psiche delle masse non sia altro che il risorgere degli antichi istinti dell’orda primordiale e pertanto un regresso a stadi culturali da tempo superati"; ciò è da riferirsi alla così detta "psicologia delle folle" cioè delle moltitudini casuali e l’affermazione è pseudo-scientifica, è legata alla sociologia positivistica. Sul "conformismo" sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l’allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra "due conformismi" cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. 

I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro "prediche" sono diventate appunto "prediche", cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d’altronde, per odio "razionalistico" al vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell’apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo "conformismo" dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale.

 

(Q8 §71)

Quistioni e polemiche personali. A chi giovano? A quelli che vogliono ridurre le quistioni di principio e generali a schermaglie e bizze particolari, a casi di ambizione individuale, a trastulli letterari e artistici (quando sono letterari e artistici). L’interesse del pubblico viene sviato: da parte in causa, il pubblico diventa mero "spettatore" di una lotta di gladiatori, che si aspetta i "bei colpi", in sé e per sé: la politica, la letteratura, la scienza vengono degradate a gioco "sportivo". In questo senso occorre perciò condurre le polemiche personali, bisogna cioè ottenere che il pubblico senta che "de te fabula narratur".

 

(Q8 §205)

Come è avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione attivistica e quindi la polemica contro il meccanicismo. L’elemento "deterministico, fatalistico, meccanicistico" era una mera ideologia, una superstruttura transitoria immediatamente, resa necessaria e giustificata dal carattere "subalterno" di determinati strati sociali. Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente. "Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare". È un "atto di fede" nella razionalità della storia, che si traduce in un finalismo appassionato, che sostituisce la "predestinazione", la "provvidenza" ecc. della religione. In realtà esiste, anche in questo caso, un’attività volitiva, un intervento diretto sulla "forza delle cose", ma di un carattere meno appariscente, più velato.  

Ma quando il subalterno diventa dirigente e responsabile, il meccanicismo appare prima o poi un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo di essere: i limiti e il dominio della "forza delle cose" vengono ristretti, perché? perché, in fondo, se il "subalterno" era ieri una "cosa", oggi non è più una "cosa" ma una "persona storica", se ieri era irresponsabile perché "resistente" a una volontà estranea, oggi è responsabile perché non "resistente", ma agente e attivo. Ma era stato mai mera "resistenza", mera "cosa", mera "irresponsabilità"? Certamente no, ed ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità inetta del determinismo meccanico, del fatalismo passivo e sicuro di se stesso, senza aspettare che il subalterno diventi dirigente e responsabile. C’è sempre una parte del tutto che è "sempre" dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come anticipazione teorica.

 

(Q8 §180)

Le grandi idee e le formule vaghe. Le idee sono grandi in quanto sono attuabili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione e lo rendono chiaro in quanto mostrano concretamente il processo di atti attraverso cui una volontà collettiva organizzata porta alla luce quel rapporto (lo crea) o portatolo alla luce lo distrugge, sostituendolo. I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della "grande idea" lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione. Lo statista di classe intuisce simultaneamente l’idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e insieme il "regolamento" per l’esecuzione.   Il progettista parolaio procede "provando e riprovando", della sua attività si dice che "fare e disfare è tutto un lavorare". Cosa vuol dire in "idea" che al progetto deve essere connesso un regolamento? Che il progetto deve essere capito da ogni elemento attivo, in modo che egli vede quale deve essere il suo compito nella sua realizzazione e attuazione; che esso suggerendo un atto ne fa prevedere le conseguenze positive e negative, di adesione e di reazione, e contiene in sé le risposte a queste adesioni o reazioni, offre cioè un terreno di organizzazione. È questo un aspetto dell’unità di teoria e di pratica.   

Corollario: ogni grande uomo politico non può non essere anche un grande amministratore, ogni grande stratega un grande tattico, ogni grande dottrinario un grande organizzatore. Questo anzi può essere un criterio di valutazione: si giudica il teorico, il facitor di piani, dalle sue qualità di amministratore, e amministrare significa prevedere gli atti e le operazioni fino a quelle "molecolari" (e le più complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano. Naturalmente, è giusto anche il contrario: da un atto necessario si deve saper risalire al principio corrispondente. Criticamente questo processo è di somma importanza. Si giudica da ciò che si fa, non da quel che si dice. Costituzioni statali leggi regolamenti: sono i regolamenti e anzi la loro applicazione (fatta in virtù di circolari) che indicano la reale struttura politica e giuridica di un paese e di uno Stato.

 

(Q9 §60)

Prova di mancanza di carattere e di passività. Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto. La propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

 

(Q9 §65)

La storia maestra della vita, le lezioni dell’esperienza ecc. Anche Benvenuto Cellini (Vita, Libro secondo, ultime parole del paragrafo XVII), scrive: "Gli è ben vero che si dice: tu imparerai per un’altra volta. Questo non vale, perché la (fortuna) viene sempre con modi diversi e non mai immaginati". Si può forse dire che la storia è maestra della vita e che l’esperienza insegna ecc. non nel senso che si possa, dal modo come si è svolto un nesso di avvenimenti, trarre un criterio sicuro d’azione e di condotta per avvenimenti simili, ma solo nel senso che, essendo la produzione degli avvenimenti reali il risultato di un concorrere contradditorio di forze, occorre cercare di essere la forza determinante.

Ciò che va inteso in molti sensi, perché si può essere la forza determinante non solo per il fatto di essere la forza quantitativamente prevalente (ciò che non è sempre possibile e fattibile) ma per il fatto di essere quella qualitativamente prevalente, e questo può aversi se si ha spirito d’iniziativa, se si coglie il "momento buono", se si mantiene uno stato continuo di tensione alla volontà, in modo da essere in grado di scattare in ogni momento scelto (senza bisogno di lunghi apprestamenti che fanno passare l’istante più favorevole) ecc.
Un aspetto di tal modo di considerare le cose si ha nell’aforisma che la miglior tattica difensiva è quella offensiva. Noi siamo sempre sulla difensiva contro il "caso", cioè il concorrere imprevedibile di forze contrastanti che non possono sempre essere identificate tutte (e una sola trascurata impedisce di prevedere la combinazione effettiva delle forze che dà sempre originalità agli avvenimenti) e possiamo "offenderlo" nel senso che interveniamo attivamente nella sua produzione, che, dal nostro punto di vista, lo rendiamo meno "caso" o "natura" e più effetto della nostra attività e volontà.

 

(Q11 §25)

È da osservare che l’azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una legge sociologica? Se si riflette bene la stessa rivendicazione di una economia secondo un piano, o diretta, è destinata a spezzare la legge statistica meccanicamente intesa, cioè prodotta dall’accozzo casuale di infiniti atti arbitrari individuali, sebbene dovrà basarsi sulla statistica, il che però non significa lo stesso: in realtà la consapevolezza umana si sostituisce alla "spontaneità" naturalistica. Un altro elemento che nell’arte politica porta allo sconvolgimento dei vecchi schemi naturalistici è il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi individuali (o carismatici, come dice il Michels).

Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili) diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace, -- che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza -- ma avviene da parte dell’organismo collettivo per "compartecipazione attiva e consapevole", per "con-passionalità", per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di "filologia vivente". Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un "uomo-collettivo".

 

(Q16 §12 )

Il pericolo di non vivacità morale è […] rappresentato dalla teoria fatalistica di quei gruppi che condividono la concezione della "naturalità" secondo la "natura" dei bruti e per cui tutto è giustificato dall’ambiente sociale. Ogni senso di responsabilità individuale si viene così a ottundere e ogni responsabilità singola è annegata in una astratta e irreperibile responsabilità sociale. Se questo concetto fosse vero, il mondo e la storia sarebbero sempre immobili. Se infatti l’individuo, per cambiare, ha bisogno che tutta la società si sia cambiata prima di lui, meccanicamente, per chissà  quale forza extraumana, nessun cambiamento avverrebbe mai. La storia invece è una continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all’esistente, educatori della società, ecc.   

L’ambiente quindi non giustifica ma solo "spiega" il comportamento degli individui e specialmente di quelli storicamente più passivi. La "spiegazione" servirà talvolta a rendere indulgenti verso i singoli e darà materiale per l’educazione, ma non deve mai diventare "giustificazione" senza condurre necessariamente a una delle forme più ipocrite e rivoltanti di conservatorismo e di "retrivismo". Al concetto di "naturale" si contrappone quello di "artificiale", di "convenzionale". Ma cosa significa "artificiale" e "convenzionale" quando è riferito ai fenomeni di massa? Significa semplicemente "storico", acquisito attraverso lo svolgimento storico, e inutilmente si cerca di dare un senso deteriore alla cosa, perché essa è penetrata anche nella coscienza comune con l’espressione di "seconda natura". Si potrà quindi parlare di artificio e di convenzionalità con riferimento a idiosincrasie personali, non a fenomeni di massa già in atto. Viaggiare in ferrovia è "artificiale" ma non certo come il darsi il belletto alla faccia. […] Le forze dirigenti nasceranno […] dallo stesso urto dei pareri discordi, senza "convenzionalità" e "artificio" ma "naturalmente".