L'interesse di Gramsci per Machiavelli è a tal punto
spiccato che, se si conteggiano le citazioni degli autori nei
Quaderni, quelle del Machiavelli sono quasi alla pari di quelle di
Croce e di Marx.
Tale interesse, sicuramente riconducibile all'influenza del De Sanctis che, in un capitolo della Storia della letteratura italiana (1870), assume Machiavelli come punto di svolta della cultura italiana, portatore dello spirito moderno e precursore dell'Unità italiana (al punto che in riferimento all'ngresso dei bersaglieri a Porta Pia scrive: "«Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli»), è peraltro dovuto al fatto che Gramsci identifica nel Partito il moderno Principe e, su questa base, ritiene il Machiavelli il fondatore della scienza politica, vale a dire il precursore di una politica fattuale, capace cioè di incidere concretamente sulla realtà e di dare luogo ad una radicale riforma morale e culturale. In questa ottica, mutatis mutandis, Machiavelli è anche il precursore di Marx.
A riguardo, Gramsci è esplicito: occorrerebbe "uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell‘azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe."
Purtroppo questo studio Gramsci non lo ha mai realizzato. Se lo avesse fatto, si sarebbe imbttuto in due difficoltà. La prima sarebbe stata legata alla cultura conservatrice che, in conseguenza dell'avvento del regime sovietico e soprattutto dello stalinismo, quel nesso lo ha stabilito sulla base del principio per cui "il fine giustifica i mezzi": principio inteso in senso deteriore come sopraffazione di un Potere dittatoriale sulla libertà individuale, come, dunque, machiavellismo cinico e strumentale.
La seconda difficoltà è di ordine più sottile. Gramsci ammira profondamente la "concretezza" di Machiavelli, che intende fornire al Principe i principi e gli strumenti per incidere sulla realtà sociale e orientarlo verso il raggiungimento effettivo dei fini che egli si prefigge. Identifica la stessa concretezza in Marx la cui filosofia è intesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Non è per caso che egli definisce il suo marxismo come Filosofia della prassi, sottolinenado il rilievo politico della volontà collettiva, organizzata dal Partito, il nuovo Principe.
Questa ammirazione, però, non tiene conto del fatto nonostante l'esaltazione comune ad entrambi di un pensiero e di una pratica politica fondata sulla realtà effettuale e capace di incidere su di essa, Machiavelli e Marx sono di fatto due utopisti: in pieno Cinquecento, vale a dire nel corso di un secolo dominato dalla Spagna e dalla Francia e attraversato da terribili guerre di religione, Machiavelli vede possibile un'impresa - quella di unificare l'Italia -, che, di fatto, maturerà solo tre secoli dopo e si realizzerà, peraltro, con il concorso decisivo di una nazione straniera (la Francia).
Marx, a metà dell'800, vede la possibilità di una Rivoluzione che instauri la dittatura del proletariato e promuova il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, dal regno dell'oppressione e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo ad un mondo pacificato e umanizzato (se non addirittura paradisiaco).
Il problema è che, come militante politico, anche Gramsci ha pagato il suo prezzo all'utopia, immaginando possibile una rivoluzione analoga a quella realizzata da Lenin in un contesto - quello italiano - caratterizzato da una forte borghesia e da un orientamento popolare incline a privilegiare l'ordine e la sicurezza rispetto al disordine necessario per realizzare una rivoluzione.
Certo, la sua riflessione sul Machiavelli tiene conto della delusione e della sconfitta, e cerca di definire un progetto che possa portare a buon esito le istanze, consapevolmente o inconsapevolmente, rivoluzionarie delle classi subordinate.
Tale progetto verte per l'appunto sull'identificazione nel Partito del nuovo Principe e assegna al Partito stesso l'obiettivo di coalizzare i segmenti storicamente dissociati di quelle classi - gli operai e i contadini - sotto la guida di una classe dirigente intellettuale che sappia fornire ad essi gli strumenti di una maturazione intellettuale, morale e politica. E' questo, secondo Gramsci, il"sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe" che egli auspica.
Se è fuori di dubbio, però, che Machiavelli, con Bodin e Botero, inaugura la scienza della politica, occorre aggiungere che la concezione radicalmente pessimistica dell'uomo che sottende il suo pensiero è del tutto incompatibile con l'antropologia marxista. Come mai Gramsci non si accorge di queto aspetto? La risposta è inquietante. Per alcuni aspetti, che fanno riferimento all'attribuzione all'uomo di un corredo istintuale disordinato e anarchco, quella concezione, almeno in parte, Gramsci la condivide.
Su questa base, però, nessuna rivoluzione radicale, però, sarà mai possibile.
Q 8 §61
Machiavelli. La quistione: che cosa è la politica,
cioè quale posto l‘attività politica deve avere in
una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in
una filosofia della praxis, è la prima quistione da
risolvere in una trattazione sul Machiavelli, perché
è la quistione della filosofia come scienza.
Q 13 §21
Il moderno Principe. Sotto questo titolo potranno raccogliersi
tutti gli spunti di scienza politica che possono concorrere alla
formazione di un lavoro di scienza politica che sia concepito e
organizzato sul tipo del Principe del Machiavelli. Il carattere
fondamentale del Principe è appunto quello di non essere
una trattazione sistematica, ma un libro "vivente", in cui
l‘ideologia diventa "mito" cioè "immagine" fantastica e
artistica tra l‘utopia e il trattato scolastico, in cui l‘elemento
dottrinale e razionale si impersona in un "condottiero" che
presenta plasticamente e "antropomorficamente" il simbolo della
"volontà collettiva".
Il processo per la formazione della "volontà collettiva"
viene presentato non attraverso una pedantesca disquisizione di
principii e di criterii di un metodo d‘azione, ma come "doti e
doveri" di una personalità concreta, che fa operare la
fantasia artistica e suscita la passione. Il Principe del
Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione
storica del "mito" sorelliano, cioè dell‘ideologia politica
che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario
raziocinio, ma come "fantasia" concreta operante su un popolo
disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la
volontà collettiva.
Il carattere utopistico del Principe è dato dal fatto che
il "principe" non esisteva realmente, storicamente, non si
presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza
storica, ma era esso stesso un‘astrazione dottrinaria, il simbolo
del capo in generale, del "condottiero ideale". Si può
studiare come mai il Sorel dalla concezione del "mito" non sia
giunto alla concezione del partito politico, attraverso la
concezione del sindacato economico; ma per il Sorel il mito non si
impersonava nel sindacato, come espressione di una volontà
collettiva, ma nell‘azione pratica del sindacato e della
volontà collettiva già organizzata e operante,
azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere
lo sciopero generale, cioè una "attività passiva"
per così dire, non ancora passata alla fase "attiva o
costruttiva".
Ma può essere un mito "non-costruttivo", può
immaginarsi, nell‘ordine di intuizioni del Sorel, che sia
produttivo ciò che lascia la "volontà collettiva"
alla sua fase primitiva di formarsi, distinguendosi (scindendosi),
per distruggere? Il moderno Principe, il mito-Principe non
può essere una persona reale, un individuo concreto;
può essere solo un organismo, un elemento sociale nel quale
già abbia inizio il concretarsi di una volontà
collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell‘azione.
Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico
ed è il partito politico, la forma moderna in cui si
riassumono le volontà collettive parziali che tendono a
diventare universali e totali. Solo un‘azione politico-storica
immediata, caratterizzata dalla necessità di un
procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi in un
individuo concreto: la rapidità non può essere data
che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto
crea fulmineamente l‘arroventarsi delle passioni e del fanatismo e
annulla il senso critico e l‘ironia che possono distruggere il
carattere "carismatico" del condottiero (esempio del Boulanger).
Ma questa azione immediata, per ciò stesso non può
essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi
sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo
proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali
e sociali (come era il caso nel Principe di Machiavelli, in cui
l‘aspetto restaurazione se mai era di tinta retorica, cioè
legato al concetto dell‘Italia discendente di Roma e che doveva
restaurare l‘ordine romano); di tipo "difensivo" e non creativo,
in cui si suppone che una "volontà collettiva" già
esistente si sia snervata e dispersa e occorra riconcentrarla e
irrobustirla, e non già che una "volontà collettiva"
sia da creare ex-novo e da indirizzare verso mete concrete si, ma
di una concretezza non ancora verificata dall‘esperienza passata.
Il carattere "astratto" (spontaneista) del Sorel appare dalla sua
avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza
etica) per i giacobini che furono una "incarnazione" "categorica"
del Principe di Machiavelli.
Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo
(nel senso completo della nozione già fissata in altre
note), come esempio di come si forma una concreta e operante
volontà collettiva. E occorre che si definisca la
"volontà collettiva" e la volontà politica in
generale nel senso moderno, la volontà come coscienza
operosa della necessità storica, come protagonista di un
reale e immediato dramma storico. Il primo capitolo [(parte)]
appunto dovrebbe essere dedicato alla "volontà collettiva"
impostando la quistione così: esistono le condizioni
fondamentali perché possa suscitarsi una volontà
collettiva nazionale-popolare? Quindi un‘analisi storica
(economica) della struttura sociale del paese dato e una
rappresentazione "drammatica" dei tentativi fatti attraverso
i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei
successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la
monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna salire fino
all‘impero romano (quistione degli intellettuali e della lingua)
per comprendere i Comuni medioevali e la funzione della Chiesa.
La ragione dei successivi fallimenti nel tentativo di creare una
volontà collettiva nazionale popolare è da porsi
nell‘esistenza di certe classi e nel particolare carattere di
altre dipendente dalla situazione internazionale dell‘Italia (sede
della Chiesa universale). Questa posizione determina all‘interno
una situazione che si può chiamare "economico-corporativa",
cioè politicamente, una forma particolare di feudalismo
anarchico: mancò sempre una forza "giacobina" efficiente,
la forza appunto che crea la volontà collettiva nazionale
popolare, fondamento di tutti gli Stati moderni. Esistono
finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale
è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze
opposte? Tradizionalmente le forze opposte sono l‘aristocrazia
terriera e più generalmente la proprietà terriera
nel suo complesso, cioè quella speciale "borghesia
terriera" che è l‘eredità di parassitismo lasciata
ai tempi moderni dallo sfacelo della borghesia comunale (le cento
città, le città del silenzio).
Ogni formazione di volontà collettiva nazionale popolare
è impossibile senza che le masse dei contadini coltivatori
entrino simultaneamente nella vita politica. Ciò voleva il
Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero
i giacobini nella Rivoluzione francese, in ciò consiste il
giacobinismo [precoce] di Machiavelli, il germe fecondo della sua
concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815
in poi è lo sforzo delle classi tradizionali per non
lasciar formare una volontà nazionale, ma per mantenere il
potere "economico-corporativo" in un sistema internazionale di
equilibrio rimorchiato ecc. Una parte importante del moderno
Principe è la quistione di una riforma intellettuale e
morale, cioè la quistione religiosa o di una concezione del
mondo. Anche in questo campo troviamo assenza di "giacobinismo" e
paura del "giacobinismo" espresse in forme filosofiche (ultimo
esempio: Benedetto Croce).
Il moderno Principe deve essere il banditore di una riforma
intellettuale e morale, che è il terreno per un ulteriore
sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare nel
terreno di una forma compiuta e totale di civiltà moderna.
Realmente il moderno Principe dovrebbe limitarsi a questi due
punti fondamentali: formazione di una volontà collettiva
nazionale popolare di cui il moderno Principe è appunto
espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale. I
punti concreti di programma d‘azione devono essere incorporati nel
primo punto, cioè devono risultare "drammaticamente" dal
discorso, non essere una fredda esposizione di raziocini.
(Può esserci riforma culturale, e cioè elevamento
culturale degli elementi depressi della società, senza una
precedente riforma economica e un mutamento nel tenore economico
di vita? Perciò la riforma intellettuale e morale è
sempre legata ad un programma di riforma economica, anzi il
programma di riforma economica è il modo concreto con cui
si presenta ogni riforma intellettuale e morale.
Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di
rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi
significa appunto che ogni azione è utile o dannosa,
virtuosa o scellerata, in quanto ha come punto concreto di
riferimento il moderno Principe e incrementa il suo potere o lo
combatte. Egli prende il posto, nelle coscienze, della
divinità e dell‘imperativo categorico, egli è la
base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di
tutta la vita e di tutti i rapporti di costume).
Q 13 §21
Il carattere fondamentale del Principe è quello di non
essere una trattazione sistematica ma un libro "vivente", in cui
l‘ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma
drammatica del "mito". Tra l‘utopia e il trattato scolastico, le
forme in cui la scienza politica si configurava fino al
Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica
e artistica, per cui l‘elemento dottrinale e razionale si
impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e
"antropomorficamente" il simbolo della "volontà
collettiva". Il processo di formazione di una determinata
volontà collettiva, per un determinato fine politico,
viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni
pedantesche di principii e criteri di un metodo d‘azione, ma come
qualità , tratti caratteristici, doveri,
necessità di una concreta persona, ciò che fa
operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e
dà una più concreta forma alle passioni
politiche. (Sarà da cercare negli scrittori politici
precedenti al Machiavelli se esistono scritture configurate come
il Principe. Anche la chiusa del Principe è legata a questo
carattere "mitico" del libro: dopo aver rappresentato il
condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande
efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente
lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto
il libro conferendogli appunto il carattere drammatico. Nei
Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è detto l‘artista
della politica e una volta si trova anche l‘espressione "mito", ma
non precisamente nel senso su indicato).
Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una
esemplificazione storica del "mito" sorelliano, cioè di una
ideologia politica che si presenta non come fredda utopia
nè come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di
fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato
per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva.
Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il
"principe" non esisteva nella realtà storica, non si
presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza
obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del
capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici,
contenuti nell‘intero volumetto, con mossa drammatica di grande
effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione,
nell‘invocazione di un principe, "realmente esistente".
Nell‘intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il
Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e
la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco
scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo,
si confonde col popolo, ma non con un popolo "genericamente"
inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua
trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza
ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro
"logico" non sia che un‘autoriflessione del popolo, un
ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha
la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La
passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa "affetto",
febbre, fanatismo d‘azione. Ecco perchè l‘epilogo del
Principe non è qualcosa di estrinseco, di "appiccicato"
dall‘esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento
necessario dell‘opera, anzi come quell‘elemento che riverbera la
sua vera luce su tutta l‘opera e ne fa come un "manifesto
politico".
Si può studiare come il Sorel, dalla concezione
dell‘ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito
politico, ma si sia a arrestato alla concezione del sindacato
professionale. E‘ vero che per il Sorel il "mito" non trovava la
sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una
volontà collettiva, ma nell‘azione pratica del
sindacato e di una volontà collettiva
già operante, azione pratica, la cui realizzazione
massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè
un‘"attività passiva" per così dire, di
carattere cioè negativo e preliminare (il carattere
positivo è dato solo dall‘accordo raggiunto nelle
volontà associate) di una attività che
non prevede una propria fase "attiva e costruttiva". Nel Sorel
dunque si combattevano due necessità : quella del mito e
quella della critica del mito in quanto "ogni piano prestabilito
è utopistico e reazionario". La soluzione era abbandonata
all‘impulso dell‘irrazionale, dell‘"arbitrario" (nel senso
bergsoniano di "impulso vitale") ossia della "spontaneità
". (Sarebbe da notare qui una contraddizione implicita nel modo
con cui il Croce pone il suo problema di storia e antistoria con
altri modi di pensare del Croce: la sua avversione dei "partiti
politici" e il suo modo di porre la quistione della
"prevedibilità " dei fatti sociali, cfr Conversazioni
Critiche, Serie prima, pp. 150-52, recensione del libro di
Ludovico Limentani, La previsione dei fatti sociali, Torino,
Bocca, 1907 ; se i fatti sociali sono imprevedibili e lo stesso
concetto di previsione è un puro suono, l‘irrazionale non
può non dominare e ogni organizzazione di uomini è
antistoria, è un "pregiudizio": non resta che risolvere
volta per volta, e con criteri immediati, i singoli problemi
pratici posti dallo svolgimento storico - cfr articolo di
Croce, Il partito come giudizio e come pregiudizio in Cultura e
Vita morale - e l‘opportunismo è la sola linea
politica possibile). Può un mito però essere
"non-costruttivo", può immaginarsi, nell‘ordine di
intuizioni del Sorel, che sia produttivo di
effettualità uno strumento che lascia la
volontà collettiva nella sua fase primitiva ed
elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per
"scissione") sia pure con violenza, cioè distruggendo i
rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa
volontà collettiva, così formata
elementarmente, non cesserà subito di esistere,
sparpagliandosi in una infinità di
volontà singole che per la fase positiva seguono
direzioni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non
può esistere distruzione, negazione senza una implicita
costruzione, affermazione, e non in senso "metafisico", ma
praticamente, cioè politicamente, come programma di
partito.
In questo caso si vede che si suppone dietro la
spontaneità un puro meccanicismo, dietro la
libertà (arbitrio - slancio vitale) un massimo di
determinismo, dietro l‘idealismo un materialismo assoluto. Il
moderno principe, il mito-principe non può essere una
persona reale, un individuo concreto, può essere solo un
organismo; un elemento di società complesso nel quale
già abbia inizio il concretarsi di una
volontà collettiva riconosciuta e affermatasi
parzialmente nell‘azione. Questo organismo è
già dato dallo sviluppo storico ed è il
partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi
di volontà collettiva che tendono a divenire
universali e totali. Nel mondo moderno solo un‘azione
storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla
necessità di un procedimento rapido e fulmineo,
può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la
rapidità non può essere resa necessaria che da
un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea
fulmineamente l‘arroventarsi delle passioni e del fanatismo,
annichilendo il senso critico e la corrosività
ironica che possono distruggere il carattere "carismatico" del
condottiero (ciò che è avvenuto nell‘avventura di
Boulanger). Ma un‘azione immediata di tal genere, per la sua
stessa natura, non può essere di vasto respiro e di
carattere organico: sarà quasi sempre del tipo
restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla
fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali
(come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l‘aspetto
di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato
al concetto letterario dell‘Italia discendente di Roma e che
doveva restaurare l‘ordine e la potenza di Roma), di tipo
"difensivo" e non creativo originale, in cui, cioè, si
suppone che una volontà collettiva, già
esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso
pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra
riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una
volontà collettiva sia da creare ex novo,
originalmente e da indirizzare verso mete concrete sì e
razionali, ma di una concretezza e razionalità non
ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale
e universalmente conosciuta.Il carattere "astratto" della
concezione sorelliana del "mito" appare dall‘avversione (che
assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i
giacobini che certamente furono una "incarnazione categorica" del
Principe di Machiavelli.
Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo
(nel significato integrale che questa nozione ha avuto
storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione
di come si sia formata in concreto e abbia operato una
volontà collettiva che almeno per alcuni aspetti fu
creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la
volontà collettiva e la volontà politica
in generale nel senso moderno, la volontà come
coscienza operosa della necessità storica, come
protagonista di un reale ed effettuale dramma storico. Una delle
prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla
"volontà collettiva", impostando così la
quistione: quando si può dire che esistano le condizioni
perchè possa suscitarsi e svilupparsi una
volontà collettiva nazionale- popolare? Quindi
un‘analisi storica (economica) della struttura sociale del paese
dato e una rappresentazione "drammatica" dei tentativi fatti
attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le
ragioni dei successivi fallimenti. Perchè in Italia non si
ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna
risalire fino all‘Impero Romano (questione della lingua, degli
intellettuali ecc), comprendere la funzione dei Comuni medioevali,
il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno
schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto. La
ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una
volontà collettiva nazionale-popolare è da
ricercarsi nell‘esistenza di determinati gruppi sociali, che si
formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel
particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione
internazionale dell‘Italia come sede della Chiesa e depositaria
del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione
conseguente determina una situazione interna che si può
chiamare "economico-corporativa", cioè, politicamente, la
peggiore delle forme di società feudale, la forma
meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza
appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la
volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato
gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa
volontà , ossia quale è il rapporto attuale tra
queste condizioni e le forze opposte? Tradizionalmente le forze
opposte sono state l‘aristocrazia terriera e più
generalmente a la proprietà terriera nel suo
complesso, col suo tratto caratteristico italiano che è una
speciale "borghesia rurale", eredità di parassitismo
lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della
borghesia comunale (le cento città, le città del
silenzio).
Le condizioni positive sono da ricercare nell‘esistenza di gruppi
sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della
produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato
livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di
volontà collettiva nazionale-popolare è
impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non
irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò
intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia,
ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in
questa comprensione è da identificare un giacobinismo
precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo)
della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia
dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per
impedire la formazione di una volontà collettiva di
questo genere, per mantenere il potere " economico-corporativo" in
un sistema internazionale di equilibrio passivo. Una parte
importante del moderno Principe dovrà essere dedicata
alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè
alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in
questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e
paura del giacobinismo (l‘ultima espressione filosofica di tale
paura è l‘atteggiamento maltusiano di B. Croce verso la
religione). Il moderno Principe deve e non può non essere
il banditore e l‘organizzatore di una riforma intellettuale e
morale, ciò che poi significa creare il terreno per un
ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale
popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di
civiltà moderna. Questi due punti fondamentali
- formazione di una volontà collettiva
nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello
stesso tempo l‘organizzatore e l‘espressione attiva e operante, e
riforma intellettuale e morale - dovrebbero costituire la
struttura del lavoro. I punti concreti di programma devono essere
incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero
"drammaticamente", risultare dal discorso, non essere una fredda e
pedantesca esposizione di raziocini. Può esserci riforma
culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi
della società , senza una precedente riforma economica e un
mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico?
Perciò una riforma intellettuale e morale non può
non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il
programma di riforma economica è appunto il modo concreto
con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il
moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di
rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi
significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o
dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto
di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare
il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle
coscienze, della divinità o dell‘imperativo
categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una
completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di
costume.
Q 13 §20
La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della
praxis nella scienza della politica e della storia è la
dimostrazione che non esiste una astratta «natura
umana» fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal
pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana
è l'insieme dei rapporti sociali storicamente determinati,
cioè un fatto storico accertabile, entro certi limiti, coi
metodi della filologia e della critica. Pertanto la scienza
politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche
nella sua formulazione logica) come un organismo in sviluppo.
È da osservare tuttavia che l'impostazione data dal
Machiavelli alla quistione della politica (e cioè
l'affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è
una attività autonoma che [ha] suoi principii e leggi
diversi da quelli della morale e della religione, proposizione che
ha una grande portata filosofica perché implicitamente
innova la concezione della morale e della religione, cioè
innova tutta la concezione del mondo) è ancora discussa e
contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso
comune». Cosa significa ciò? Significa solo che la
rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti
in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora
attuata, non è diventata forma pubblica e manifesta della
cultura nazionale? Oppure ha un mero significato politico attuale,
serve a indicare il distacco esistente tra governanti e governati,
a indicare che esistono due colture, quella dei governanti e
quella dei governati, e che la classe dirigente, come la Chiesa,
ha un suo atteggiamento verso i semplici dettato dalla
necessità di non staccarsi da loro da una parte, e
dall'altra di mantenerli nella convinzione che il Machiavelli
è niente altro che un'apparizione diabolica? Si pone
cosí il problema del significato che il Machiavelli ha
avuto nel tempo suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i
suoi libri e specialmente il Principe. La dottrina del Machiavelli
non era, al tempo suo, una cosa puramente «libresca»,
un monopolio di pensatori isolati, un libro segreto che circola
tra iniziati. Lo stile del Machiavelli non è quello di un
trattatista sistematico, come ne avevano e il Medio Evo e
l'Umanesimo, tutt'altro: è stile di uomo d'azione, di chi
vuole spingere all'azione, è stile da
«manifesto» di partito. L'interpretazione
«moralistica» data dal Foscolo è certo
sbagliata, tuttavia è vero che il Machiavelli ha svelato
qualcosa e non solo teorizzato il reale; ma quale era il fine
dello svelare? Un fine moralistico o politico? Si suol dire che le
norme del Machiavelli per l'attività politica «si
applicano, ma non si dicono»; i grandi politici, si dice,
cominciano con maledire Machiavelli, col dichiararsi
antimachiavellici, appunto per poterne applicare le norme
«santamente». Non sarebbe stato il Machiavelli poco
machiavellico, uno di quelli che «sanno il gioco» e
stoltamente lo insegnano, mentre il machiavellismo volgare insegna
a fare il contrario? L'affermazione del Croce che essendo il
machiavellismo una scienza, serve tanto ai reazionari quanto ai
democratici, come l'arte della scherma serve ai gentiluomini e ai
briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal senso
occorre intendere il giudizio del Foscolo, è vera
astrattamente. Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli
scrive sono applicate e sono sempre state applicate dai piú
grandi uomini della storia; non pare perciò che egli voglia
suggerire a chi già sa, né il suo stile è
quello di una disinteressata attività scientifica (cfr. in
una delle pagine precedenti quanto è scritto a proposito
del significato dell'invocazione finale del Principe e
dell'ufficio che essa può compiere per riguardo all'intera
operetta), né può pensarsi che egli sia giunto alle
sue tesi di scienza politica per via di speculazione filosofica,
ciò che in questa materia particolare avrebbe un po' del
miracoloso al tempo suo, se anche oggi trova tanto contrasto e
opposizione. Si può quindi supporre che il Machiavelli
abbia in vista «chi non sa», che egli intenda fare
l'educazione politica di «chi non sa», educazione
politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe
intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere
necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni,
perché vuole determinati fini. Chi è nato nella
tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso
dell'educazione che assorbe dall'ambiente famigliare, in cui
predominano gli interessi dinastici o patrimoniali, acquista quasi
automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque
«non sa»? La classe rivoluzionaria del tempo, il
«popolo» e la «nazione» italiana, la
democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i
Pier Soderini e non i Castruccio e i Valentino. Si può
ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della
necessità di avere un «capo» che sappia
ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di
accettarlo con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o
parere in contrasto con l'ideologia diffusa del tempo, la
religione.
Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la
filosofia della praxis: si ripete la necessità di essere
«antimachiavellici», sviluppando una teoria e una
tecnica della politica che possono servire alle due parti in
lotta, quantunque esse si pensa finiranno col servire specialmente
alla parte che «non sapeva», perché in essa
è ritenuta esistere la forza progressiva della storia e
infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l'unità
basata sull'ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza
nuova non potrebbe acquistare coscienza della propria
personalità indipendente. Il machiavellismo è
servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi
dirigenti conservatori, cosí come la politica della
filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo
carattere essenzialmente rivoluzionario, che è sentito
anche oggi e spiega tutto l'antimachiavellismo, da quello dei
gesuiti a quello pietistico di P. Villari.
Q 13 §21
Continua del "Nuovo Principe". Si è detto che protagonista
del Nuovo Principe non potrebbe essere nell‘epoca moderna un eroe
personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e
nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel
determinato partito che intende (ed è razionalmente e
storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di
Stato. E‘ da osservare come nei regimi che si pongono come
totalitari, la funzione tradizionale dell‘istituto della corona
è in realtà assunta dal partito determinato,
che anzi è totalitario appunto perchè assolve a tale
funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo
sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti
appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni
date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di
arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi,
e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col
consenso e con l‘aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei
gruppi decisamente avversari.
La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica
che "regna e non governa" è la formula giuridica che
esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei
partiti costituzionali di non "scoprire" la corona o il
presidente, le formule sulla non responsabilità , per gli
atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla
responsabilità ministeriale, sono la casistica del
principio generale di tutela della concezione
dell‘unità statale, del consenso dei governati
all‘azione statale, qualunque sia il personale immediato di
governo e il suo partito. Col partito totalitario queste formule
perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che
funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa
è incorporata dal partito, che esalterà il
concetto astratto di "Stato" e cercherà con vari modi
di dare l‘impressione che la funzione "di forza imparziale"
è attiva ed efficace.
Q 9 §68
Machiavelli. Centralismo organico e centralismo democratico. Sono
da studiare i reali rapporti economici e politici che trovano la
loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro
funzionalità nelle manifestazioni di centralismo organico e
di centralismo democratico in una serie di campi: nella vita
statale (unitarismo, federalismo ecc.), nella vita interstatale
(alleanze, forme varie di costellazioni politiche internazionali),
nella vita dei partiti politici e delle associazioni sindacali
economiche )in uno stesso paese, tra paesi diversi ecc.).
Le polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del
predominio tedesco nella vita di alcune forze politiche
internazionali. Era poi reale questa predominanza o in che cosa
essa realmente consisteva? Mi pare si possa dire:
1°) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva un tale
predominio, il quale pertanto era un mero fatto di influenza
culturale e ideologica astratta;
2°) che tale influenza culturale non toccava per nulla
l‘attività pratica effettiva, la quale viceversa era
disgregata, localistica, senza indirizzo d‘insieme. Non si
può parlare in tal caso di alcun centralismo, né
organico né democratico, né d‘altro genere o misto.
L‘influenza culturale era risentita e subita da scarsi gruppi
intellettuali, senza legami con le masse e appunto questa assenza
di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia questo stato di
cose è degno di studio perché serve a spiegare il
processo che ha portato alle teorie del centralismo organico, che
è appunto una critica unilaterale e da intellettuali di
quel disordine e dispersione di forze. Occorre intanto distinguere
appunto nelle teorie del centralismo organico tra quelle che
velano un preciso programma politico di predominio reale di una
parte sul tutto (sia questa parte costituita da uno strato come
quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo
territoriale privilegiato) e quelle che sono una pura posizione
unilaterale (anch‘essa propria d‘intellettuali), cioè un
fatto settario o di fanatismo, immediatamente, e che, pur
nascondendo un programma di predominio, è però meno
accentuato come fatto politico cosciente.
Il nome più esatto è quello di centralismo
burocratico: l‘organicità non può essere che del
centralismo democratico, il quale appunto è un "centralismo
in movimento" per così dire, cioè una continua
adeguazione dell‘organizzazione al movimento storico reale ed
è organico appunto perché tiene conto del movimento,
che è il modo organico di manifestarsi della realtà
storica. Inoltre è organico perché tiene conto di
qualcosa di relativamente stabile e permanente o per lo meno che
si muove in una direzione più facile a prevedersi ecc.
Questo elemento di stabilità negli Stati si incarna nello
sviluppo organico della classe dirigente così come nei
partiti si incarna nello sviluppo organico del gruppo sociale
egemone; negli Stati il centralismo burocratico indica che si
è formato un gruppo angustamente privilegiato che tende a
perpetuare i suoi privilegi regolando e anche soffocando il
nascere di forze contrastanti alla base, anche se queste forze
sono omogenee di interessi agli interessi dominanti (esempio nel
fatto del protezionismo in lotta col liberismo).
Nei partiti rappresentanti gruppi socialmente subalterni
l‘elemento di stabilità rappresenta la necessità
organica di assicurare l‘egemonia non a gruppi privilegiati: ma
alle forze sociali progressive, organicamente progressive in
confronto di altre forze alleate ma composte e oscillanti tra il
vecchio e il nuovo. In ogni caso ciò che importa notare
è che nelle manifestazioni di centralismo burocratico
spesso la situazione si è formata per deficienza
d‘iniziativa, cioè per la primitività politica,
delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il
gruppo territoriale egemone. Specialmente negli organismi
territoriali [internazionali] il formarsi di tali situazioni
è estremamente dannoso e pericoloso. Il centralismo
democratico è una formula elastica, che si presta a molte
"incarnazioni"; essa vive in quanto è interpretata
continuamente e continuamente adattata alle necessità: essa
consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale
nell‘apparente disformità e distinto e opposto
nell‘apparente uniformità, e nell‘organizzare e connettere
strettamente ciò che è simile, ma in modo che tale
organizzazione e connessione appaia una necessità pratica
"induttiva", sperimentale, e non il risultato di un procedimento
razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè appunto
proprio di intellettuali "puri".
Questo lavorio continuo per sceverare l‘elemento "internazionale"
e "unitario" nella realtà nazionale e localistica è
in realtà l‘operazione politica concreta, l‘attività
sola produttiva di progresso storico. Essa richiede una organica
unità tra teoria e pratica, tra strati intellettuali e
massa, tra governanti e governati. Le formule di unità e
federazione perdono gran parte del loro significato da questo
punto di vista: esse invece hanno il loro veleno nella concezione
"burocratica", per la quale in realtà non esiste
unità ma palude stagnante superficialmente calma e "muta",
e non federazione ma sacco di patate, cioè giustapposizione
meccanica di "unità" singole senza rapporto tra loro.
Q 9 §133
Machiavelli. Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III,
Cromwell, ecc. Fare un catalogo degli eventi storici che hanno
culminato in una grande personalità "eroica". Si può
dire che il cesarismo o bonapartismo esprime una situazione in cui
le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè
si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non
può concludersi che con la distruzione reciproca.
Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B,
può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può
avvenire anche che non vinca né A né B ma si svenino
reciprocamente e una terza forza C intervenga dall‘esterno
assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell‘Italia dopo
la morte di Lorenzo il Magnifico è appunto successo questo,
come era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche. Ma
il cesarismo, se esprime sempre la soluzione "arbitrale", affidata
a una grande personalità, di una situazione
storico-politica di un equilibrio delle forze a tendenza
catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci
può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo
regressivo, e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in
ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia
concreta e non da uno schema sociologico.
E‘ progressivo il cesarismo quando il suo intervento aiuta la
forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi
limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo
intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo
caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un
valore, una portata e un significato diversi che non nel caso
precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo
progressivo. Napoleone III (e anche Bismarck) di cesarismo
regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica
"rivoluzione-restaurazione" è l‘elemento rivoluzione o
quello restaurazione che prevale, poiché è certo che
nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono
restaurazioni "in toto".
Del resto, il fenomeno "cesarista" è una formula più
polemico-ideologica che non storico-politica. Si può avere
"soluzione cesarista" anche senza un cesare, senza una grande
personalità "eroica" e rappresentativa. Il sistema
parlamentare ha dato il meccanismo per tali soluzioni di
compromesso. I governi "laburisti" di Mac Donald erano soluzioni
di tale specie in un certo grado; il grado di cesarismo si
intensificò quando si ebbe il governo con Mac Donald
presidente e la maggioranza conservatrice. Così in Italia
nell‘ottobre 1922, fino al distacco dei popolari e poi
gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all‘8 novembre
1926, si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni
di cesarismo si succedettero fino a una forma più pura e
permanente, sebbene anch‘essa non immobile e statica. Ogni governo
di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che
può o non può svilupparsi fino ai gradi più
significativi.
Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere
economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del
fenomeno cesarista è diverso da quello che fu fino a
Napoleone III; nel periodo fino a Napoleone III le forze militari
regolari o di linea erano un elemento decisivo del cesarismo e
questo si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni
militari ecc. Nel mondo moderno le forze sindacali e politiche,
coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli
gruppi di cittadini, complicano il fenomeno; i funzionari dei
partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o
terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile,
tipo Cesare o 18 brumaio.
Si riproduce in questo campo la stessa situazione studiata a
proposito della formula giacobino-quarantottesca della così
detta "rivoluzione permanente". Il "tecnicismo" politico moderno
è completamente mutato dopo il 48, dopo l‘espansione del
parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito,
del formarsi di vaste burocrazie statali e "private"
(politico-private, di partito e sindacali) e le trasformazioni
avvenute nell‘organizzazione della polizia in senso largo,
cioè non solo del servizio statale destinato alla
repressione della delinquenza, ma dell‘insieme di forze
organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio
[politico ed economico,] della classe dirigente. In questo senso,
interi partiti "politici" e altre organizzazioni economiche o di
altro genere devono essere considerati organismi di polizia
politica di carattere "repressivo" e "investigativo".
Q 9 §136
Machiavelli. Il cesarismo. Lo schema generico delle forze A e B in
lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva
che non vinca né A né B per l‘esistenza di un
equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il
cesarismo, è appunto un‘ipotesi generica, uno schema
sociologico (di scienza politica) a tipo matematico. L‘ipotesi
può ancora essere resa più concreta, portata a un
grado maggiore di approssimazione alla realtà concreta
storica. Ciò può ottenersi precisando meglio alcuni
elementi fondamentali. Così, parlando di A e B, si è
solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una
forza genericamente regressiva: si può precisare di quale
tipo di forza regressiva e progressiva si tratta e ottenere
così maggiore approssimazione.
Nel caso di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B,
pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da
non poter venire "assolutamente" ad una fusione ed assimilazione
reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti
avvenne, in una certa misura almeno (sufficiente tuttavia ai fini
storico- politici della cessazione della lotta organica
fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica).
Questo è un elemento di maggiore approssimazione. Un altro
elemento è il seguente: la fase catastrofica può
annodarsi ,per deficienza politica [momentanea] della forza
dominante tradizionale, e non già per una sua deficienza
organica insuperabile necessariamente. Ciò appunto si
è verificato nel caso di Napoleone III.
La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848, si era scissa
politicamente in quattro frazioni: quella legittimista, quella
orleanista, quella bonapartista, quella repubblicano-giacobina. Le
lotte interne di frazione erano tali da rendere possibile
l‘avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma
"precoce"; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora
esaurito le sue possibilità di sviluppo, come infatti la
storia successiva mostrò abbondantemente. Napoleone Ill
rappresentò (a suo modo, cioè secondo la statura
dell‘uomo che non era grande) queste possibilità latenti o
immanenti; il suo cesarismo dunque è ancora di un tipo
particolare. E‘ obbiettivamente progressivo, sebbene non come
quello di Cesare e di Napoleone I. Il cesarismo di Cesare e di
Napoleone I è stato, per così dire, di carattere
quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresentato la fase
storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un
passaggio in cui le innovazioni furono tante quantitativamente e
tali, da rappresentare un completo rivolgimento qualitativo.
Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente
quantitativo; non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro
tipo, ma solo "evoluzione" dello stesso tipo, secondo una linea
ininterrotta. Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del
tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare-Napoleone
I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si
avvicinino a questo ultimo. Nel mondo moderno l‘equilibrio a
prospettive catastrofiche non si verifica tra forze contrastanti
che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure
dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui
contrasto è insanabile storicamente e si approfondisce anzi
specialmente coll‘avvento di forme cesaree. Il cesarismo ha
tuttavia un margine, più o meno grande, a seconda dei paesi
e del loro significato nella struttura mondiale, perché una
forma sociale ha "sempre" possibilità marginali di
ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente
può contare sulla debolezza relativa della forza
antagonista e progressiva, per la natura e il modo di vita
peculiare di essa. Il cesarismo moderno più che militare
è poliziesco.
Q 9 §64
Machiavelli (storia delle classi subalterne). Importanza e
significato dei partiti. Quando si scrive la storia di un partito,
si affronta tutta una serie di problemi. Cosa sarà la
storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita
interna di una organizzazione politica, come essa nasce, i primi
gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso
le quali nasce il suo programma e la sua concezione del mondo e
della vita? Sarebbe, in tal caso, la storia di ristretti gruppi
intellettuali e talvolta la biografia politica di una sola
personalità.
Il quadro dovrà essere più largo: sarà la
storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito
quegli uomini, li avrà sorretti con la sua fiducia,
criticati "realisticamente" con le sue dispersioni e le sue
passività. Ma questa massa sarà solamente costituita
dai soci del partito? Occorrerà seguire i congressi, le
votazioni ecc. tutto l‘insieme di modi di vita con cui una massa
di partito manifesta la sua volontà; ma sarà
sufficiente? Bisognerà evidentemente tener conto del gruppo
sociale di cui il partito è l‘espressione e la parte
più avanzata, e la storia di un partito non potrà
non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo
gruppo non è isolato nella società, ha amici,
affini, avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto
l‘insieme sociale risulterà la storia di un determinato
partito, e pertanto si può dire che scrivere la storia di
un partito significa scrivere la storia generale di un paese da un
punto di vista monografico, per metterne in risalto un aspetto
caratteristico.
Un partito avrà avuto maggiore o minore importanza,
maggiore o minore significato nella misura appunto in cui la sua
particolare attività avrà avuto maggiore o minore
peso nella determinazione della storia di un paese. Ecco che dal
modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si
abbia di ciò che un partito sia e debba essere. Il settario
si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un
significato esoterico e lo riempiranno di entusiasmo mistico. Uno
storico-politico darà a questi fatti l‘importanza che essi
hanno nel quadro generale e insisterà sull‘efficienza reale
del partito, sulla sua forza determinante, positiva o negativa,
nell‘aver contribuito a determinare un evento e anche nell‘averne
impedito il compimento. 1711
Machiavelli. Quando si può dire che un partito sia formato
e non possa essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere
quando un partito sia formato, cioè abbia un compito
preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e
spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non
è meno ridicola e pericolosa che la "boria delle nazioni"
di cui parla il Vico. E‘ vero che si può dire che un
partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni
sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per certi
partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e
formati quando non esistono più, cioè quando la loro
esistenza è diventata storicamente inutile. Così,
poichè ogni partito non è che una nomenclatura di
classe, è evidente che per il partito che si propone di
annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza
consiste nel non esistere più perchè non esistono
classi e quindi loro espressioni. Ma qui si vuole accennare a un
particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento
successivo a quello in cui un fatto può esistere e
può non esistere, nel senso che la necessità
della sua esistenza non è ancora divenuta "perentoria", ma
dipende in "gran parte" dall‘esistenza di persone di straordinario
potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un
partito diventa "necessario" storicamente? Quando le condizioni
del suo "trionfo", del suo immancabile diventar Stato sono almeno
in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro
ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali
condizioni, che un partito non può essere distrutto con
mezzi normali?
Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perchè
esista un partito è necessario che confluiscano tre
elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi).
1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui
partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla
fedeltà , non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è
vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe
neanche "solamente" con essi. Essi sono una forza in quanto
c‘è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in
assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno
di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di
essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in
condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia
ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza.
2) L‘elemento coesivo principale, che centralizza nel campo
nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di
forze che lasciate a sè conterebbero zero o poco
più; questo elemento è dotato di forza altamente
coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse
per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa
direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe
premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento
non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che
non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza
esercito, ma in realtà è più facile
formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un
esercito [già esistente] è distrutto se
vengono a mancare i capitani, mentre l‘esistenza di un gruppo di
capitani, affiatati, d‘accordo tra loro, con fini comuni non tarda
a formare un esercito anche dove non esiste.
3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento,
che li metta a contatto, non solo "fisico" ma morale e
intellettuale. Nella realtà , per ogni partito esistono
delle "proporzioni definite" tra questi tre elementi e si
raggiunge il massimo di efficienza quando tali "proporzioni
definite" sono realizzate.Date queste considerazioni, si
può dire che un partito non può essere distrutto con
mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo
elemento, la cui nascita è legata all‘esistenza delle
condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non
esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato
disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due,
cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua
continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perchè
ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una
determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza
questa convinzione non si formerà il secondo
elemento, la cui distruzione è la più facile per lo
scarso suo numero, ma è necessario che questo secondo
elemento, se distrutto, abbia lasciato come eredità
un fermento da cui riformarsi.
E dove questo fermento sussisterà meglio e
potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo
elemento, che, evidentemente, sono i più omogenei col
secondo? L‘attività del secondo elemento per
costituire questo elemento è perciò fondamentale: il
criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da
cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che
prepara nell‘ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti
è difficile dire quale sia più importante.
Poichè nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta,
la preparazione dei propri successori è un elemento
altrettanto importante di ciò che si fa per vincere. A
proposito della "boria" del partito, si può dire che essa
è peggiore della boria delle nazioni di cui parla Vico.
Perchè? Perchè una nazione non può non
esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile, sia
pure con la buona volontà e sollecitando i testi,
trovare che l‘esistenza è piena di destino e di
significato. Invece un partito può non esistere per forza
propria.
Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni, ognuna
di esse ha interesse che l‘altra sia indebolita dalle lotte
interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte
interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la
domanda se essi esistano per forza propria, come propria
necessità, o esistano invece solo per interesse altrui (e
infatti nelle polemiche questo punto non è mai dimenticato,
anzi è motivo d‘insistenza anche, specialmente quando la
risposta non è dubbia, ciò che significa che ha
presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da
questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione ha
una rilevanza solo momentanea.
Nella storia del così detto principio di nazionalità
, gli interventi stranieri a favore dei partiti nazionali che
turbavano l‘ordine interno degli Stati antagonisti sono
innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio della politica
"orientale" di Cavour si domanda se si trattava di una "politica"
cioè di una linea d‘azione permanente, o di uno stratagemma
del momento per indebolire l‘Austria in vista del 59 e del 66.
Così nei movimenti mazziniani dei primi del 1870 (esempio,
fatto Barsanti) si vede l‘intervento di Bismark, che in vista
della guerra con la Francia e del pericolo di un‘alleanza
italo-francese, pensava, con conflitti interni, a indebolire
l‘Italia. Così nei fatti del giugno 1914 alcuni vedono
l‘intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista della
successiva guerra.Come si vede, la casistica è numerosa e
occorre avere idee chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa
si faccia, si fa sempre il gioco di qualcuno, l‘importante
è di cercare in tutti i modi di fare bene il proprio gioco,
cioè di vincere nettamente. In ogni modo occorre
disprezzare la "boria" del partito e alla boria sostituire i fatti
concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la
politica della boria, è da sospettare di poca
serietà senz‘altro. Non occorre aggiungere che per i
partiti occorre evitare anche l‘apparenza "giustificata" che si
faccia il gioco di qualcuno, specialmente se il qualcuno è
uno Stato straniero: che poi si speculi, nessuno può
evitare che non avvenga.
Q 8 §52
Machiavelli. Il moderno Principe. La quistione della classe
politica (cfr i libri di Gaetano Mosca). Ma nel Mosca la quistione
è posta in modo insoddisfacente: non si capisce neanche
esattamente cosa il Mosca intenda precisamente, per classe
politica, tanto la nozione è ondeggiante ed elastica. Pare
abbracci tutte le classi possidenti, tutta la classe media; ma
quale allora la funzione della classe alta? Altre volte pare si
riferisca solo a un‘aristocrazia politica, al "personale politico"
di uno Stato e ancora, a quella parte che opera "liberamente" nel
sistema rappresentativo, cioè con esclusione della
burocrazia anche nel suo strato superiore, che per il Mosca deve
essere controllata e guidata dalla classe politica.
La deficienza del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel
suo complesso il problema del "partito politico" e si capisce,
dato il carattere dei suoi libri e specialmente degli Elementi di
scienza politica. L‘interesse del Mosca ondeggia tra una posizione
"obbiettiva" e disinteressata di scienziato e una posizione
appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi
avvenimenti che lo angustiano e ai quali vuole reagire. Le due
parti del libro scritte in due momenti tipici della storia
politico-sociale italiana, nel 1895 e nel 1923, mentre la classe
politica si disintegra e non riesce a trovare un terreno solido di
organizzazione.
Nel moderno Principe la quistione dell‘uomo collettivo,
cioè del "conformismo sociale" ossia del fine di creare un
nuovo livello di civiltà, educando una "classe politica"
che già in idea incarni questo livello: quindi quistione
della funzione e dell‘atteggiamento di ogni individuo fisico
nell‘uomo collettivo; quistione anche di ciò che è
la "natura" del diritto secondo una nuova concezione dello Stato,
realistica e positiva. Anche la quistione della cosidetta
"rivoluzione permanente", concetto politico sorto verso il 1848,
come espressione scientifica del giacobinismo in un periodo in cui
non si erano ancora costituiti i grandi partiti politici e i
grandi sindacati economici e che ulteriormente sarà
composto e superato nel concetto di "egemonia civile".
La quistione della guerra di posizione e della guerra di
movimento, con la quistione dell‘arditismo, in quanto connesse con
la scienza politica: concetto quarantottesco della guerra di
movimento in politica è appunto quello della rivoluzione
permanente: la guerra di posizione, in politica, è il
concetto di egemonia, che può nascere solo dopo l‘avvento
di certe premesse e cioè: le grandi organizzazioni popolari
di tipo moderno, che rappresentano come le "trincee" e le
fortificazioni permanenti della guerra di posizione. Anche la
quistione del valore delle ideologie; polemica Malagodi Croce;
osservazione del Croce sul "mito" del Sorel, che si può
ritorcere contro la sua "passione"; le "ideologie" come "strumento
pratico" di azione politica devono essere studiate in un trattato
di politica.
Q 8 §237
Introduzione allo studio della filosofia. Uno dei concetti
fondamentali da fissare è quello di "necessità"
storica. Nel senso speculativo- astratto. Nel senso
storico-concreto: la necessità è data dall‘esistenza
di una premessa efficiente, che sia diventata operosa come una
"credenza popolare" nella coscienza collettiva. Nella premessa
sono contenute le condizioni materiali sufficienti per la
realizzazione dell‘impulso di volontà collettiva. Altro
concetto da ridurre da speculativo a storicistico è quello
di "razionalità" nella storia (e quindi di
"irrazionalità"), concetto legato a quello di "provvidenza"
e di "fortuna", nel senso in cui è adoperato
(speculativamente) dai filosofi idealisti italiani e specialmente
dal Croce.
Occorrerà perciò vedere l‘opera del Croce su G. B.
Vico, in cui il concetto di "provvidenza" è appunto
"speculativizzato", dando inizio così all‘interpretazione
idealistica della filosofia del Vico. Per il significato di
"fortuna" nel Machiavelli cfr L. Russo, in nota alla sua edizione
major del Principe (p. 23). (Per Machiavelli "fortuna" ha un
duplice significato, uno obbiettivo e un altro soggettivo. La
"fortuna" è la forza naturale delle cose, la concorrenza
propizia degli eventi, quella che sarà la Provvidenza del
Vico, oppure è quella potenza trascendente di cui
favoleggiava la vecchia dottrina medioevale, cioè dio, e
per il Machiavelli ciò non è poi che la virtù
stessa dell‘individuo e la sua potenza ha radice nella stessa
volontà dell‘uomo.
La virtù del Machiavelli, come dice il Russo, non è
più la virtù degli scolastici, la quale ha un
carattere etico e ripete la sua forza dal cielo, e nemmeno quella
di Tito Livio, che sta a significare per lo più il valore
militare, ma la virtù dell‘uomo del Rinascimento, che
è capacità, abilità, industria, potenza
individuale, sensibilità, fiuto delle occasioni e misura
delle proprie possibilità). Il Russo ondeggia in seguito
nella sua analisi. Per lui il "concetto di fortuna, come forza
delle cose, che nel Machiavelli come negli umanisti serba
ancora un carattere naturalistico e meccanico, troverà il
suo inveramento e approfondimento storico solo nella razionale
provvidenza di Vico e di Hegel. Ma è bene avvertire che
tali concetti nel Machiavelli, non hanno mai un carattere
metafisico come nei filosofi veri e propri dell‘Umanesimo ma sono
semplici e profonde intuizioni (quindi filosofia!) di vita, e come
simboli di sentimenti vanno intesi e spiegati".
Q 11 §52
Regolarità e necessità. Come è sorto, nel
fondatore della filosofia della prassi, il concetto di
regolarità e di necessità nello sviluppo storico?
Non pare che possa pensarsi a una derivazione dalle scienze
naturali, ma pare invece debba pensarsi a una elaborazione di
concetti nati nel terreno dell‘economia politica, specialmente
nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette
da Davide Ricardo. Concetto e fatto di "mercato determinato",
cioè rilevazione scientifica che determinate forze decisive
e permanenti sono apparse storicamente, forze il cui operare si
presenta con un certo "automatismo" che consente una certa misura
di "prevedibilità" e di certezza per il futuro delle
iniziative individuali che a tali forze consentono dopo averle
intuite o rilevate scientificamente. "Mercato determinato"
equivale pertanto a dire "determinato rapporto di forze sociali in
una determinata struttura dell‘apparato di produzione", rapporto
garantito (cioè reso permanente) da una determinata
superstruttura politica, morale, giuridica.
Dopo aver rilevato queste forze decisive e permanenti e il loro
spontaneo automatismo (cioè la loro relativa indipendenza
dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari
governativi) lo scienziato ha, come ipotesi, reso assoluto
l‘automatismo stesso, ha isolato i fatti meramente economici dalle
combinazioni più o meno importanti in cui realmente si
presentano, ha stabilito dei rapporti di causa ed effetto, di
premessa e conseguenza e così ha dato uno schema astratto
di una determinata società economica (a questa costruzione
scientifica realistica e concreta si è in seguito venuta
sovrapponendo una nuova astrazione più generalizzata
dell‘"uomo" come tale, "astorico", generico, astrazione che
è apparsa la "vera" scienza economica). Date queste
condizioni in cui è nata l‘economia classica, perché
si possa parlare di una nuova "scienza" o di una nuova
impostazione della scienza economica (il che è lo stesso)
occorrerebbe aver dimostrato che si sono venuti rilevando nuovi
rapporti di forze, nuove condizioni, nuove premesse, che
cioè si è "determinato" un nuovo mercato con un suo
proprio nuovo "automatismo" e fenomenismo che si presenta come
qualcosa di "obbiettivo", paragonabile all‘automatismo dei fatti
naturali.
La economia classica ha dato lungo a una "critica dell‘economia
politica" ma non pare che finora sia possibile una nuova scienza o
una nuova impostazione del problema scientifico. La "critica"
dell‘economia politica parte dal concetto della storicità
del "mercato determinato" e del suo "automatismo" mentre gli
economisti puri concepiscono questi elementi come "eterni",
"naturali"; la critica analizza realisticamente i rapporti delle
forze che determinano il mercato, ne approfondisce le
contraddizioni, valuta le modificabilità connesse
all‘apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la
"caducità" e la "sostituibilità" della scienza
criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo
intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno
immancabilmente, e presenta l‘"erede" che sarà presuntivo
finché non avrà dato prove manifeste di
vitalità ecc. Che nella vita economica moderna l‘elemento
"arbitrario" sia individuale, sia di consorzi, sia dello Stato
abbia assunto un‘importanza che prima non aveva e abbia
profondamente turbato l‘automatismo tradizionale è fatto
che non giustifica di per sé l‘impostazione di nuovi
problemi scientifici, appunto perché questi interventi sono
"arbitrari", di misura diversa, imprevedibili. Può
giustificare l‘affermazione che la vita economica è
modificata, che c‘è "crisi", ma questo è ovvio;
d‘altronde non è detto che il vecchio "automatismo" sia
sparito, esso si verifica [solo] su scale più grandi di
[quelle] di prima, per i grandi fenomeni economici, mentre i fatti
particolari sono "impazziti".
Da queste considerazioni occorre prendere le mosse per stabilire
ciò che significa "regolarità", "legge",
"automatismo" nei fatti storici. Non si tratta di "scoprire" una
legge metafisica di "determinismo" e neppure di stabilire una
legge "generale" di causalità. Si tratta di rilevare come
nello svolgimento storico si costituiscano delle forze
relativamente "permanenti", che operano con una certa
regolarità e automatismo. Anche la legge dei grandi numeri,
sebbene sia molto utile come termine di paragone, non può
essere assunta come la "legge" dei fatti storici. Per stabilire
l‘origine storica di questo elemento della filosofia della prassi
(elemento che è poi, nientemeno, il suo particolare modo di
concepire l‘"immanenza") occorrerà studiare l‘impostazione
che delle leggi economiche fu fatta da Davide Ricardo. Si tratta
di vedere che il Ricardo non ha avuto importanza nella fondazione
della filosofia della prassi solo per il concetto del "valore" in
economia, ma ha avuto un‘importanza "filosofica", ha suggerito un
modo di pensare e d‘intuire la vita e la storia. Il metodo del
"posto che" , della premessa che dà una certa conseguenza,
pare debba essere identificato come uno dei punti di partenza
(degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche dei
fondatori della filosofia della prassi. E‘ da vedere se Davide
Ricardo sia mai stato studiato da questo punto di vista.
(Così è da vedere il concetto filosofico di "caso" e
di "legge", il concetto di una "razionalità" o di una
"provvidenza" per cui si finisce nel teleologismo trascendentale
se non trascendente e il concetto di "caso", come nel materialismo
metafisico "che il mondo a caso pone").
Appare che il concetto di "necessità" storica è
strettamente connesso a quello di "regolarità" e di
"razionalità". La "necessità" nel senso
"speculativo-astratto" e nel senso "storico-concreto". Esiste
necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva,
la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo
dei fini concreti alla coscienza collettiva, e costituendo un
complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente come le
"credenze popolari". Nella premessa devono essere contenute,
già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni
materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione
dell‘impulso di volontà collettiva, ma è chiaro che
da questa premessa "materiale", calcolabile quantitativamente, non
può essere disgiunto un certo livello di cultura, un
complesso cioè di atti intellettuali e da questi (come loro
prodotto e conseguenza) un certo complesso di passioni e
sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre
all‘azione "a tutti i costi". Come si è detto, solo per
questa via si può giungere a una concezione storicistica (e
non speculativa-astratta) della "razionalità" nella storia
(e quindi dell‘"irrazionalità"). Concetti di "provvidenza"
e di "fortuna" nel senso in cui sono adoperati (speculativamente)
dai filosofi idealisti italiani e specialmente dal Croce;
occorrerà vedere il libro del Croce su G. B. Vico, in cui
il concetto di "provvidenza" è tradotto in termini
speculativi e in cui si dà inizio all‘interpretazione
idealistica della filosofia vichiana. Per il significato di
"fortuna" nel Machiavelli è da vedere Luigi Russo (nota a
p. 23 dell‘edizione del Principe). Secondo il Russo, per il
Machiavelli "fortuna" ha un duplice significato, obbiettivo e
soggettivo.
La "fortuna" è la forza naturale delle cose (cioè il
nesso causale), la concorrenza propizia degli eventi, quella che
sarà la Provvidenza del Vico, oppure è quella
potenza trascendente di cui favoleggiava la vecchia dottrina
medioevale - cioè dio - e per il Machiavelli
ciò non è poi che la virtù stessa
dell‘individuo e la sua potenza ha radice nella stessa
volontà dell‘uomo. La virtù del Machiavelli, come
dice il Russo, non è più la virtù degli
scolastici, la quale ha un carattere etico e ripete la sua forza
dal cielo, e nemmeno quella di Tito Livio, che sta a significare
per lo più il valore militare, ma la virtù dell‘uomo
del Rinascimento, che è capacità, abilità,
industria, potenza individuale, sensibilità, fiuto delle
occasioni e misura delle proprie possibilità. Il Russo
ondeggia in seguito nella sua analisi. Per lui il concetto di
fortuna, come forza delle cose, che nel Machiavelli come negli
umanisti serba ancora un carattere naturalistico e meccanico
troverà il suo inveramento ed approfondimento storico solo
nella razionale provvidenza di Vico e di Hegel. Ma è bene
avvertire che tali concetti, nel Machiavelli, non hanno mai un
carattere metafisico come nei filosofi veri e propri
dell‘Umanesimo ma sono semplici e profonde intuizioni (quindi
filosofia !!) della vita, e come simboli di sentimento vanno
intesi e spiegati. Sulla lenta formazione metafisica di questi
concetti, per il periodo premachiavellico, il Russo rimanda al
Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento (cap. "Il
concetto dell‘uomo nel Rinascimento" e l‘"Appendice"), Firenze,
Vallecchi. (Sugli stessi concetti del Machiavelli cfr F. Ercole,
La politica di Machiavelli).
Q 14 §33
Machiavelli. Interpretazione del Principe. Se, come è stato
scritto in altre note, l‘interpretazione del Principe deve (o
può) esser fatta ponendo come centro del libro
l‘invocazione finale, è da rivedere quanto di "reale" ci
sia nella interpretazione così detta "satirica e
rivoluzionaria" di esso (come si esprime Enrico Carrara nella nota
al passo rispettivo dei Sepolcri nella sua opera scolastica Storia
ed esempi della Letteratura Italiana, VII, L‘Ottocento, p. 59 (ed.
Signorelli, Milano). Per ciò che riguarda il Foscolo non
pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del
Principe, cioè dell‘attribuzione al Machiavelli di
intenzioni riposte democratiche e rivoluzionarie; più
giusto pare l‘accenno del Croce (nel libro sulla Storia del
Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri, e cioè:
"Il Machiavelli, per il fatto stesso di "temprare" lo scettro,
ecc., di rendere il potere dei principi più coerente e
consapevole, ne sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa
sia realmente questo potere ecc."; cioè la scienza
politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che
ai governati per comprendersi reciprocamente. Nei Ragguagli del
Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è invece
posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è da
domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini? Machiavelli o i
suoi avversari?
La quistione è dal Boccalini posta così: "I nemici
del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di punizione
perchè ha esposto come i principi governano e così
facendo ha istruito il popolo; ha "messo alle pecore denti di
cane", ha distrutto i miti del potere, il prestigio
dell‘autorità , ha reso più difficile il governare,
poichè i governati ne possono sapere quanto i governanti,
le illusioni sono rese impossibili ecc.". E‘ da vedere tutta
l‘impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi
pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono
tali perchè non facciano in realtà ciò
che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono
antimachiavellici perchè il Machiavelli abbia avuto torto,
ma perchè ciò che il Machiavelli scrive "si fa e non
si dice", anzi è fattibile appunto perchè non
è criticamente spiegato e sistemato. Il Machiavelli
è odiato perchè "ha scoperto gli altarini" dell‘arte
di governo ecc. La quistione si pone anche oggi e l‘esperienza
della vita dei partiti moderni è istruttiva; quante volte
si è sentito il rimprovero per aver mostrato criticamente
gli errori dei governanti: "mostrando ai governanti gli errori che
essi fanno, voi insegnate loro a non fare errori", cioè
"fate il loro gioco".
Questa concezione è legata alla teoria fanciullesca del
"tanto peggio, tanto meglio". La paura di "fare il gioco" degli
avversari è delle più comiche ed è legata al
concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli stupidi;
è anche legata alla non comprensione delle
"necessità " storico-politiche, per cui "certi errori
devono essere fatti" e il criticarli è utile per educare la
propria parte. Pare che le intenzioni del Machiavelli nello
scrivere il Principe siano state più complesse e anche
"più democratiche" di quanto non sarebbero secondo
l‘interpretazione "democratica". Cioè il Machiavelli
ritiene che la necessità dello Stato unitario
nazionale è così grande che tutti accetteranno che
per raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi
che sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si
sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito
si dà a questa espressione o almeno gli hanno dato
certe correnti democratiche. Per il Machiavelli "educare il
popolo" può aver significato solo renderlo convinto e
consapevole che può esistere una sola politica, quella
realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre
stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali
metodi impiega per raggiungere il fine, perchè solo chi
vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo.
La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare
a quella dei teorici e dei politici della filosofia della prassi,
che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un
"realismo" popolare, di massa e hanno dovuto lottare contro una
forma di "gesuitismo" adeguato ai tempi diversi. La "democrazia"
del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è
cioè il consenso attivo delle masse popolari per la
monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice
dell‘anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in
quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione
che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l‘appoggio
della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale,
centralizzato, ecc.
Q 8 *48
Machiavelli. Il moderno Principe. Grande politica e piccola
politica. La grande politica abbraccia le quistioni connesse colla
fondazione di nuovi Stati e colla lotta per la difesa e la
conservazione di una determinata struttura sociale politica. La
piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono
nell‘interno di una struttura già stabilita per le lotte di
preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica.
E‘ grande politica pertanto il tentare di escludere la grande
politica dall‘ambito della vita statale e di ridurre tutto a
piccola politica. E‘ invece da dilettanti porre le quistioni in
modo tale che ogni elemento di piccola politica non può non
diventare quistione di grande politica, di riorganizzazione
statale.
La politica internazionale ripresenta le due forme:
1) la grande politica per le quistioni che riguardano la statura
relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci;
2) la piccola politica le quistioni diplomatiche minute
nell‘interno di una organizzazione già consolidata.
Il Machiavelli studia solo le quistioni di grande politica:
creazione di nuovi Stati, conservazione e difesa delle nuove
strutture: quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala,
cioè su tutta l‘area statale. Il Russo nei
Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento
dell‘autorità e dell‘individuo) e dei Discorsi quello
dell‘egemonia (momento dell‘universale o della libertà).
Ma anche nel Principe non mancano gli accenni al momento
dell‘egemonia o del consenso accanto a quello della
autorità e della forza: certo però l‘osservazione
è giusta. Così è giusta l‘osservazione che
non c‘è opposizione di principio tra principato e
repubblica, ma si tratta piuttosto della ipostasi dei due momenti
di autorità e universalità.
Q 1 §10
Si suole troppo considerare Machiavelli come il "politico in
generale" buono per tutti i tempi: ecco già un errore di
politica.
Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne nella repubblica
fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio
reciproco; 3) lotte degli stati italiani per equilibrio europeo.
Su Machiavelli opera l'esempio della Francia e della Spagna che
hanno raggiunto una forte unità statale1. Fa un "paragone
ellittico" come direbbe il Croce2 e desume le regole per un forte
stato in generale e italiano in particolare.
Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte
politica rappresenta la filosofia del tempo che tende alla
monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere
uno sviluppo e un'organizzazione borghese. In Machiavelli si trova
in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo; la sua
"ferocia" è contro i residui del feudalismo, non contro le
classi progressive; il principe deve porre fine all'anarchia
feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi
sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere
militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di
lotta per la formazione e il consolidamento del potere,
l'indicazione di classe contenuta nell' Arte della guerra si deve
intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della
città vogliono porre fine al disordine interno e
all'anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa,
costituendo una forza armata sicura e fedele3.
Si può dire che questa concezione essenzialmente politica
è così dominante nel Machiavelli che gli fa
commettere gli errori di carattere militare: egli pensa
specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruolate
con un'azione politica, e perciò misconosce il valore
dell'artiglieria. Insomma deve essere considerato come un politico
che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è
necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo
unilaterale, perché non lì è il centro del
suo pensiero.
Q 15 §4
Machiavelli. Elementi di politica. Bisogna proprio dire che i
primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose
più elementari; d‘altronde, essi, ripetendosi infinite
volte, diventano i pilastri della politica e di qualsivoglia
azione collettiva. Primo elemento è che esistono davvero
governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e
l‘arte politica si basano su questo fatto primordiale,
irriducibile (in certe condizioni generali). Le origini di questo
fatto sono un problema a sè, che dovrà essere
studiato a sè (per lo meno potrà e
dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il
fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in
questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e
diretti, governanti e governati.
Dato questo fatto sarà da vedere come si può
dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come
pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo
più precisamente consiste la prima sezione della scienza e
arte politica), e come d‘altra parte si conoscono le linee di
minore resistenza o razionali per avere l‘obbedienza dei diretti o
governati.Nel formare i dirigenti è fondamentale la
premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti
oppure si vogliono creare le condizioni in cui la
necessità dell‘esistenza di questa divisione
sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua
divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto
storico, rispondente a certe condizioni?
Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e
governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di
gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose così come
sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente
omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione
è una creazione della divisione del lavoro, è un
fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro
che vedono in tutto solo "tecnica", necessità
"tecnica" ecc. per non proporsi il problema fondamentale. Dato che
anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e
governati, occorre fissare alcuni principii inderogabili, ed
è anzi su questo terreno che avvengono gli "errori"
più gravi, che cioè si manifestano le
incapacità più criminali, ma più
difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio
dallo stesso gruppo, l‘obbedienza debba essere automatica, debba
avvenire senza bisogno di una dimostrazione di "necessità"
e razionalità non solo, ma sia indiscutibile
(qualcuno pensa e, ciò che è peggio, opera secondo
questo pensiero, che l‘obbedienza "verrà " senza essere
domandata, senza che la via da seguire sia indicata).
Così è difficile estirpare dai dirigenti il
"cadornismo", cioè la persuasione che una cosa
sarà fatta perchè il dirigente ritiene giusto
e razionale che sia fatta: se non viene fatta, "la colpa" viene
riversata su chi "avrebbe dovuto" ecc. Così è
difficile estirpare la abitudine criminale di trascurare di
evitare i sacrifizi inutili. Eppure il senso comune mostra che la
maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono
perchè non si è cercato di evitare il sacrifizio
inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio
altrui e si è giocato con la pelle altrui. Ognuno ha
sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i
soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario,
ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per
esempio: una compagnia era capace di digiunare molti giorni
perchè vedeva che i viveri non potevano giungere per forza
maggiore, ma si ammutinava se un pasto solo era saltato per la
trascuratezza o il burocratismo ecc. Questo principio si estende a
tutte le azioni che domandano sacrifizio. Per cui sempre, dopo
ogni rovescio, occorre prima di tutto ricercare le
responsabilità dei dirigenti e ciò in senso
stretto (per esempio: un fronte è costituito di più
sezioni e ogni sezione ha i suoi dirigenti: è possibile che
di una sconfitta siano più responsabili i dirigenti di una
sezione che di un‘altra, ma si tratta di più e meno, non di
esclusione di responsabilità per alcuno, mai).
Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e
governanti, è vero che i partiti sono finora il modo
più adeguato per elaborare i dirigenti e la
capacità di direzione (i "partiti" possono
presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di
anti-partito e di "negazione dei partiti"; in realtà
anche i così detti "individualisti" sono uomini di partito,
solo che vorrebbero essere "capipartito" per grazia di dio o
dell‘imbecillità di chi li segue). Svolgimento del
concetto generale che è contenuto nell‘espressione "spirito
statale". Questa espressione ha un significato ben preciso,
storicamente determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa
di simile a ciò che si chiama "spirito statale" in ogni
movimento serio, cioè che non sia l‘espressione arbitraria
di individualismi, più o meno giustificati? Intanto lo
"spirito statale" presuppone la "continuità " sia verso il
passato, ossia verso la tradizione, sia verso l‘avvenire,
cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un processo
complesso, che è già iniziato e che
continuerà. La responsabilità di questo
processo, di essere attori di questo processo, di essere solidali
con forze "ig*" materialmente, ma che pur si sentono operanti e
attive e di cui si tiene conto, come se fossero "materiali" e
presenti corporalmente, si chiama appunto in certi casi "spirito
statale".
E‘ evidente che tale coscienza della "durata" deve essere concreta
e non astratta, cioè, in certo senso, non deve oltrepassare
certi limiti; mettiamo che i più piccoli limiti siano una
generazione precedente e una generazione futura, ciò che
non è dir poco, poichè le generazioni si conteranno
per ognuna non trenta anni prima e trenta anni dopo di oggi, ma
organicamente, in senso storico, ciò che per il passato
almeno è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con
gli uomini che oggi sono vecchissimi e che per noi rappresentano
il "passato" che ancora vive fra noi, che occorre conoscere, con
cui occorre fare i conti, che è uno degli elementi del
presente e delle premesse del futuro. E coi bambini, con le
generazioni nascenti e crescenti, di cui siamo responsabili.
(Altro è il "culto" della "tradizione" che ha un valore
tendenzioso, implica una scelta e un fine determinato, cioè
è a base di una ideologia). Eppure, se si può dire
che uno "spirito statale" così inteso è in tutti,
occorre volta a volta combattere contro deformazioni di esso e
deviazioni da esso. "Il gesto per il gesto", la lotta per la lotta
ecc. e specialmente l‘individualismo gretto e piccino, che poi
è un capriccioso soddisfare impulsi momentanei ecc. (In
realtà il punto è sempre quello
dell‘"apoliticismo" italiano che assume queste varie forme
pittoresche e bizzarre).
L‘individualismo è solo apoliticismo animalesco; il
settarismo è "apoliticismo" e se ben si osserva, infatti,
il settarismo è una forma di "clientela" personale, mentre
manca lo spirito di partito, che è l‘elemento fondamentale
dello "spirito statale". La dimostrazione che lo spirito di
partito è l‘elemento fondamentale dello spirito statale
è uno degli assunti più cospicui da sostenere e di
maggiore importanza; e viceversa che l‘"individualismo" è
un elemento animalesco, "ammirato dai forestieri" come gli atti
degli abitanti di un giardino zoologico.
Q 13 §16
Il "troppo" (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico
porta spesso ad affermare che l‘uomo di Stato deve operare solo
nell‘ambito della "realtà effettuale", non
interessarsi del "dover essere", ma solo dell‘"essere". Ciò
significherebbe che l‘uomo di Stato non deve avere prospettive
oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto
Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il
"vero politico". Bisogna distinguere oltre che tra "diplomatico" e
"politico", anche tra scienziato della politica e politico in
atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella
realtà effettuale, perchè la sua
attività specifica non è quella di creare
nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri giuridici un
equilibrio esistente. Così anche lo scienziato deve
muoversi solo nella realtà effettuale in quanto mero
scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato;
egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico
in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò
non può non occuparsi del "dover essere", certo non inteso
in senso moralistico.
La quistione non è quindi da porre in questi termini,
è più complessa: si tratta cioè di vedere se
il "dover essere" è un atto arbitrario o necessario,
è volontà concreta, o velleità ,
desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto è un
creatore, un suscitatore, ma a nè crea dal nulla, nè
si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda
sulla realtà effettuale, ma cos‘è questa
realtà effettuale? E‘ forse qualcosa di statico e
immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo
movimento e mutamento di equilibrio? Applicare la
volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle
forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella
determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per
farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della
realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o
contribuire a ciò). Il "dover essere" è quindi
concretezza, anzi è la sola interpretazione realistica e
storicistica della realtà , è sola storia in atto e
filosofia in atto, sola politica. L‘opposizione
Savonarola-Machiavelli non è l‘opposizione tra essere e
dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo punto
è pura belletristica) ma tra due dover essere, quello
astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del
Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà
immediata, poichè non si può attendere che un
individuo o un libro mutino la realtà ma solo la
interpretino e indichino la linea possibile dell‘azione.
Il limite e l‘angustia del Machiavelli consistono solo nell‘essere
egli stato una "persona privata", uno scrittore e non il capo di
uno Stato o di un esercito, che è pure una singola persona,
ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un
esercito e non solo eserciti di parole. Nè perciò si
può dire che il Machiavelli sia stato anche egli un
"profeta disarmato": sarebbe fare dello spirito a troppo buon
mercato. Il Machiavelli non dice mai di pensare o di proporsi egli
stesso di mutare la realtà , ma solo e concretamente di
mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per
essere efficienti.
Q 13 §25
«Doppiezza» e «ingenuità» del
Machiavelli. Cfr. articolo di Adolfo Oxilia Machiavelli nel teatro
(«Cultura» dell'ottobre-dicembre 1933).
Interpretazione romantico-liberale del Machiavelli (Rousseau nel
Contratto Sociale, III, 6; Foscolo nei Sepolcri; Mazzini nel breve
saggio sul Machiavelli). Mazzini scrive: «Ecco ciò
che i vostri principi, deboli e vili quanti sono, faranno per
dominarvi: or pensateci». Rousseau vede nel Machiavelli un
«gran republicano», il quale fu costretto dai tempi –
senza che ne derivi alcuna menomazione della sua dignità
morale – a «déguiser son amour pour la
liberté» e a fingere di dare lezioni ai re per darne
«des grandes aux peuples». Filippo Burzio ha notato
che una tale interpretazione, invece di giustificare moralmente il
machiavellismo, in realtà prospetta un
«machiavellismo al quadrato»: giacché l'autore
del Principe non solo darebbe consigli di frode bensí anche
con frode, a rovina di coloro stessi cui sono rivolti.
Questa interpretazione «democratica» del Machiavelli
risalirebbe al Cardinale Polo e ad Alberico Gentili (sarà
da vedere il libro del Villari e quello del Tommasini nella parte
che riguarda la fortuna del Machiavelli). A me pare che il brano
di Traiano Boccalini nei Ragguagli del Parnaso sia molto
piú significativo di tutte le impostazioni dei
«grandi studiosi di politica» e che tutto si riduca a
un'applicazione del proverbio volgare «chi sa il gioco non
l'insegni». La corrente «antimachiavellica» non
è che la manifestazione teorica di questo principio di arte
politica elementare: che certe cose si fanno ma non si dicono.
Proprio da questo pare nasca il problema piú interessante:
perché il Machiavelli ha scritto il Principe, non come una
«memoria» segreta o riservata, come
«istruzioni» di un consigliere a un principe, ma come
un libro che avrebbe dovuto andare nelle mani di tutti? Per
scrivere un'opera di «scienza» disinteressata, come
potrebbe arguirsi dagli accenni del Croce? Pare ciò sia
contro lo spirito dei tempi, sia una concezione anacronistica. Per
«ingenuità», dato che il Machiavelli è
visto come un teorico e non come uomo d'azione? Non pare
accettabile l'ipotesi dell'«ingenuità» vanitosa
e «chiacchierona». Bisogna ricostruire i tempi, e le
esigenze che il Machiavelli vedeva in essi. In realtà, pare
si possa dire, nonostante che il Principe abbia una destinazione
precisa, che il libro non è scritto per nessuno e per
tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della
provvidenza» che potrebbe manifestarsi cosí come si
era manifestato il Valentino o altri condottieri, dal nulla, senza
tradizione dinastica, per le sue qualità militari
eccezionali. La conclusione del Principe giustifica tutto il libro
anche verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi
impiegati per raggiungere un fine se questo fine è
storicamente progressivo, cioè risolve i problemi
essenziali dell'epoca e stabilisce un ordine in cui sia possibile
muoversi, operare, lavorare tranquillamente. Nell'interpretare il
Machiavelli si dimentica che la monarchia assoluta era in quei
tempi una forma di reggimento popolare e che essa si appoggiava
sui borghesi contro i nobili e anche contro il clero. (L'Oxilia
accenna all'ipotesi che l'interpretazione democratica del
Machiavelli nel periodo '700-800 sia stata rafforzata e resa
piú ovvia dal Giorno del Parini, «satirico istitutore
del giovin signore, come il Machiavelli – in altri tempi, con
altre nature e misure d'uomini – sarebbe stato il tragico
istitutore del principe»).
Q 14 §51
Machiavelli. Morale e politica. Si verifica una lotta. Si giudica
della "equità " e della "giustizia" delle pretese delle
parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti
non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura
che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il
risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla
stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure
questa parte continua a sostenere di "aver ragione", di essere
nell‘"equo" e ciò che più conta, continua a lottare,
facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue
convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono
ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e
operose nelle coscienze. Significherà che la
quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di
equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti
può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano
ragione, "così stando le cose", e una appaia aver
più ragione dell‘altra "così stando le cose", ma non
abbia ragione "se le cose dovessero mutare".
Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non
sono le cose così come stanno, ma il fine che le parti in
conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine,
che non esiste ancora come realtà effettuale e
giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi
potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non
diventerà un elemento del conflitto, cioè non
sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o
a danno di una o dell‘altra parte? In ogni caso si può
dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di
moralità è assurdo perchè esso
può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il
conflitto tende a modificare; 2) che l‘unico giudizio possibile
è quello "politico" cioè di conformità
del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o
dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione).
Un conflitto è "immorale" in quanto allontana dal fine o
non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea
mezzi più conformi al raggiungimento del fine) ma non
è "immorale" da altri punti di vista "moralistici".
Così non si può giudicare l‘uomo politico dal fatto
che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i
suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso
l‘"essere onesto", cioè l‘essere onesto può essere
un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il
giudizio politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che
opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati
positivi o evita un male e in questo può essere necessario
l‘"operare equamente", ma come mezzo politico e non come giudizio
morale.
Q 5 §127
Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione
di "Principe", così come essa serve nel libro del
Machiavelli, si dovrebbe fare una serie di distinzioni: "principe"
potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un
capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo
tipo di Stato; in questo senso "principe" potrebbe tradursi in
lingua moderna "partito politico". Nella realtà di qualche
Stato il "capo dello Stato", cioè l‘elemento equilibratore
dei diversi interessi in lotta contro l‘interesse prevalente, ma
non esclusivista in senso assoluto, è appunto il "partito
politico"; esso però a differenza che nel diritto
costituzionale tradizionale né regna, né governa
giuridicamente: ha "il potere di fatto", esercita la funzione
egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella
"società civile", che però è talmente
intrecciata di fatto con la società politica che tutti i
cittadini sentono che esso invece regna e governa. Su questa
realtà che è in continuo movimento, non si
può creare un diritto costituzionale, del tipo
tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come
fine dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire,
cioè il riassorbimento della società politica nella
società civile.
Q 4 §4
Machiavellismo e marxismo. Duplice interpretazione del
Machiavelli: da parte degli uomini di Stato tirannici che vogliono
conservare e aumentare il loro dominio e da parte delle tendenze
liberali che vogliono modificare le forme di governo. Questa
seconda tendenza ha la sua espressione nei versi del Foscolo:
"che, temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda ed
alle genti svela ecc.". Il Croce scrive che ciò dimostra la
validità obbiettiva delle posizioni del Machiavelli e
ciò è giustissimo.
Q 4 §8
Machiavelli e Marx. Charles Benoist nella prefazione al Le
Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel, Parigi, Plon,
1907, scrive: "C‘è machiavellismo e machiavellismo:
c‘è un machiavellismo vero e un machiavellismo falso: vi
è un machiavellismo che è di Machiavelli e un
machiavellismo che è qualche volta dei discepoli,
più spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due,
anzi tre machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei
machiavellisti, e quello degli antimachiavellisti; ma eccone un
quarto: quello di coloro che non han mai letto una riga di
Machiavelli e che si servono a sproposito dei verbi, dei
sostantivi e degli aggettivi derivati dal suo nome. Machiavelli
perciò non dovrebbe essere tenuto responsabile di quel che
dopo di lui il primo o l‘ultimo venuto si sono compiaciuti di
fargli dire".
La innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza
politica e storica in confronto del Machiavelli è la
dimostrazione che non esiste una "natura umana" fissa e immutabile
e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo
contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica?) come
un organismo storicamente in isviluppo.
Nel Machiavelli sono da vedere due elementi fondamentali: 1)
l‘affermazione che la politica è un‘attività
indipendente e autonoma che ha i suoi principi e le sue
leggi diversi da quelli della morale e della religione in generale
(questa posizione del Machiavelli ha una grande portata
filosofica, perché implicitamente innova la concezione
della morale e della religione, cioè innova tutta la
concezione del mondo); 2) contenuto pratico e immediato dell‘arte
politica studiato e affermato con obbiettività realistica,
in dipendenza della prima affermazione.
L‘importanza storica e intellettuale delle scoperte del
Machiavelli si può misurare dal fatto che esse sono ancora
discusse e contraddette ancora al giorno d‘oggi: ciò
significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in
nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora
realizzata "manifestamente" come forma "pubblica" della cultura
nazionale. Non che la dottrina del Machiavelli sia rimasta o fosse
anche al tempo suo una cosa puramente "libresca", il patrimonio di
qualche solitario pensatore. Se così fosse, il Machiavelli
sarebbe stato un utopista, un puro raziocinizzatore. Come disse il
Foscolo, il "Machiavelli ha svelato" qualcosa di reale, ha
teorizzato una pratica. Come questo è avvenuto? Non sarebbe
stato il Machiavelli un politico poco machiavellico, poiché
le sue norme "si applicano, ma non si dicono" L‘affermazione del
Foscolo implica quindi un giudizio storico-politico, che non si
limita solo al fatto costatato dal Croce (e in sé
giustissimo) che il machiavellismo, essendo una scienza, serviva
tanto ai reazionari quanto ai democratici.
Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono
applicate e sono state sempre applicate: egli quindi non vuol
suggerire a chi già sa, né è da pensare in
lui una pura "attività scientifica" che in questa materia
sarebbe stata miracolosa al tempo suo, se oggi stesso trova non
poco contrasto. Il Machiavelli quindi pensa "a chi non sa", a chi
non è nato nella tradizione degli uomini di governo, in cui
tutto il complesso dell‘educazione di fatto, unita con l‘interesse
di famiglia (dinastico e patrimoniale) porta a dare il carattere
del politico realistico. E chi non sa? La classe rivoluzionaria
del tempo, il "popolo" e la "nazione" italiana, la democrazia che
esprime dal suo seno dei "Pier Soderini" e non dei "Valentini". Il
Machiavelli vuol fare l‘educazione di questa classe, da cui deve
nascere un "capo" che sappia quello che si fa e un popolo che sa
che ciò che il capo fa è anche suo interesse,
nonostante che queste azioni possono essere in contrasto con
l‘ideologia diffusa (la morale e la religione).
Questa posizione del Machiavelli si ripete per Marx: anche la
dottrina di Marx è servita oltre che alla classe alla quale
Marx esplicitamente si rivolgeva (in ciò diverso e
superiore al Machiavelli) anche alle classi conservatrici, il cui
personale dirigente in buona parte ha fatto il suo tirocinio
politico nel marxismo.
Q 4 §10
Marx e Machiavelli. Questo argomento può dar luogo a un
duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto
teorici della politica militante, dell‘azione, e un libro che
traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica
attuale del tipo Principe. L‘argomento sarebbe il partito
politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato: non il
partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole
fondare lo Stato. In realtà, se bene si osserva, la
funzione tradizionale dell‘istituto della corona è, negli
Stati dittatoriali, assolta dai partiti: sono essi che pur
rappresentando una classe e una sola classe, tuttavia mantengono
un equilibrio con le altre classi, non avversarie ma alleate e
procurano che lo sviluppo della classe rappresentata avvenga col
consenso e con l‘aiuto delle classi alleate. Ma il protagonista di
questo "nuovo principe" non dovrebbe essere il partito in
astratto, una classe in astratto, uno Stato in astratto, ma un
determinato partito storico, che opera in un ambiente storico
preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di
forze sociali caratteristica e bene individuata. Si tratterebbe
insomma, non di compilare un repertorio organico di massime
politiche, ma di scrivere un libro "drammatico" in un certo senso,
un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero
presentate come necessità individualizzata e non come
principi di scienza.