Lorianismo

da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Nel maggio 1895, Antonio Labriola scriveva ad Engels: «Ora abbiamo anche una Loria in veste spagnuola... E così abbiamo la scala completa di Löria, Lória, Loría, Lorií». Almeno tra gli studiosi di scienze sociali, questo nome circolava all'epoca in diversi paesi. E tuttavia, anche dopo aver provato l'intera gamma di spostamenti d'accento, esso potrebbe oggi risultare oscuro a parecchi.

Di Achille Loria, economista e sociologo di scuola positivistica, verrebbe da dire, adottando il gergo giornalistico tipico dei recensori di spettacoli, che ottenne un buon successo di pubblico, ma collezio­nò secche stroncature da parte della critica più autorevole. In Italia, ricorda Benedetto Croce, egli godeva di «universale reputazione d'ingegno originale». Ma chi era poi Loria? L'accademico dei Lincei o un apprezzato teorico del socialismo? Il confutatore di Marx o un suo semplice epigono? L'intellettuale antiborghese o un cacciatore di cavalierati e onorificenze varie?

Per Croce, come del resto per Labriola, nient'altro che un dissimulatore e un plagiario di Marx. Anche una indubbia autorità in materia di marxismo come Engels, nella sua prefazione del 1894 al terzo libro del Capitale, ne mette in risalto la ciarlataneria, accomunandolo a due maschere del teatro buffo, Sganarello e Dulcamara: «La loro classica unità noi la troviamo impersonata nel nostro illustre Loria».

Eppure, malgrado il misero credito scientifico concessogli da prestigiose personalità della cultura, il professor Loria poteva vantare un lusinghiero seguito presso la gente comune: i suoi testi avevano una certa diffusione, le sue conferenze pubbliche erano sempre affollate. Questa patente contraddizione non doveva sfuggire ad Antonio Gramsci, acutissimo osservatore di piccoli e grandi fenome­ni della cultura e del costume.

Appena agli esordi giornalistici, Gramsci pubblica sull’Avanti! del 16 dicembre 1915 «Pietà per la scienza del prof. Loria», un articolo denso di sarcasmo sulle teorie e gli atteggiamenti esteriori di colui che si avviava a diventare uno dei suoi più frequenti bersagli polemici.

Certo era agevole ironizzare su un sussiegoso pensatore impegnato a stabilire «le fatali interdipendenze tra il misticismo e la sifilide», a sostenere che «il più perfetto tipo d'umanità, l'ideale dell'eugenia è il professore universitario», o addirittura che il vincolo che incatena il proletariato al capitale sarebbe stato spezzato dallo sviluppo dell'aviazione: in un prossimo avvenire, l'operaio disoccu­pato o licenziato avrebbe potuto volteggiare per gli spazi celesti a bordo di un aereo, nutrendosi lautamente di uccelli catturati con fronde e vischio.

Ma Gramsci non si limita a irridere le stravaganze di un tale «pagliaccio del pensiero», «re degli zingari della scienza». La sua riflessione si accentrerà progressivamente sulle ragioni nasco­ste che consentivano a un Loria di acquistare «spontaneamente» numerosi proseliti, di erigersi a «pilastro della cultura», a «maestro».

Nel 1935, Gramsci intitola il Quaderno speciale 28 al «Lorianismo», inteso come categoria paradigmatica che, pur seguitando a comprendere le eccentricità di Loria (le principali sono anzi elencate all' inizio del quaderno), trascende oramai l'etimo originario.

Sotto la voce «Lorianismo», Gramsci si propone di trattare «alcuni aspetti deteriori e bizzarri della mentalità di un gruppo di intellettuali italiani e quindi della cultura nazionale (disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell'attivi­tà scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indul­genza etica nel campo dell'attività scientifico-culturale ecc.)».

Il caso di Loria induce a meditare sulla debolezza degli «argini critici» anche in tempi normali. Allora, «è da pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà ancora debole e gracile». Valga per tutti l'esempio dell'hitlerismo, che ha svelato il «lorianismo mostruo­so» che covava in un paese dominato in apparenza da un ceto intellettuale di estrema serietà.

Con la polemica gramsciana contro il dilettantismo, l'opportuni­smo, la originalità intellettuale ad ogni costo, personaggi quali Enrico Ferri, Arturo Labriola, Filippo Turati e tanti altri hanno trovato un posto nella galleria dei «loriani». Una galleria capiente, destinata anche dopo Gramsci ad accogliere ospiti rinomati, ma soprattutto a mantenere costantemente aperte le sue porte.

Antonio A. Santucci

ricercatore dell'Istituto Gramsci di Roma

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Antologia sul Lorialismo

Q 28 § 0 Di alcuni aspetti deteriori e bizzarri della mentalità di un gruppo di intellettuali italiani e quindi della cultura nazionale (disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell'attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indulgenza etica nel campo dell'attività scientifico-culturale ecc., non adeguatamente combattute e rigidamente colpite: quindi irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale), che possono essere descritti sotto il titolo comprensivo di «lorianismo».

Q 28 § 1 Registro dei principali «documenti», in cui si trovano le principali «bizzarrie» di Achille Loria. (Ricordati a memoria: esiste ora la Bibliografia di Achille Loria, compilata da Luigi Einaudi, supplemento al n. 5, settembre-ottobre 1932, della «Riforma Sociale»; la lista non è completa, evidentemente, e forse mancano «bizzarrie» ben piú significative di quelle ricordate. La fatica dell'Einaudi è anch'essa significativa, poiché avvalora la «dignità» scientifica del Loria, e mette necessariamente, dinanzi al lettore-giovane contemporaneo, tutti gli scritti del Loria su uno stesso «piano», colpendo la fantasia con la massa del «lavoro» fatto dal Loria: 884 numeri in questi tempi di civiltà «quantitativa». L'Einaudi merita per questa sua «fatica» di essere iscritto ad honorem nella lista dei Loriani; d'altronde è da notare che l'Einaudi, come organizzatore di movimenti culturali, è responsabile delle «bizzarrie» del Loria e su questo punto particolare sarebbe da scrivere una nota).

1) Le influenze sociali dell'aviazione (Verità e fantasia) in «Rassegna Contemporanea» (diretta da Colonna di Cesarò e da V. Picardi), Roma, III fascicolo, 1° gennaio 1910, pp. 20-28, ripubblicato nel II vol. di Verso la giustizia sociale (Idee, battaglie ed apostoli), che ha come titolo proprio Nell'alba di un secolo (1904-1915), Milano, Società Editrice Libraria, 1915, in 8°, pp. 522. (Non mi pare che nella pubblicazione nella «Rassegna Contemporanea», esistesse il sottotitolo Verità e fantasia: occorrerebbe vedere se la ristampa in volume presenta dei cambiamenti nel testo). Questo articolo è tutto un capolavoro di «bizzarrie»: vi si trova la teoria dell'emancipazione operaia dalla coercizione del salario di fabbrica non piú ottenuta per mezzo della «terra libera» ma per mezzo degli aeroplani che opportunamente unti di vischio, permetteranno l'evasione dalla presente società con il nutrimento assicurato dagli uccelli impaniati; una teoria della caduta del credito fiduciario, dello sfrenarsi delle birbonate sessuali (adulteri impuniti, seduzioni, ecc.); sull'ammazzamento sistematico dei portinai per le cadute di cannocchiali; un compendio della teoria, altrove svolta, sul grado di moralità secondo l'altezza dal livello del mare, con la proposta pratica di rigenerare i delinquenti portandoli nelle alte sfere dell'aria su immensi aeroplani, correzione di una precedente proposta di edificare le carceri in alta montagna, ecc. ecc. (Questo articolo, data l'amenità del contenuto, si presta a diventare «libro di testo negativo» per una scuola di logica formale e di buon senso scientifico).

2) Una conferenza tenuta a Torino durante la guerra e pubblicata subito dopo nella «Nuova Antologia» (nella Bibliografia di Einaudi, al n. 222 è citata una conferenza – La pietà della scienza – conferenza tenuta il 13 dicembre 1915 a beneficio degli ospedali territoriali di Torino della Croce Rossa e pubblicata in «Conferenze e Prolusioni», IX, n. 1, e che potrebbe essere quella in quistione). Il Loria parlò del «dolore universale» in modo molto «bizzarro», come appare da ciò, che unico documento concreto da lui esibito per dimostrare una legge universale del dolore fu la lista di ciò che costa la claque agli attori di teatro, secondo una statistica fissata dal Reina (quindi mostruoso dolore degli attori). È vero che, secondo il suo metodo solito, il Loria fece intravedere la parte positiva del problema, affermando seriamente che la natura provvidenziale crea una difesa e un antidoto contro l'avvelenamento universale del dolore come si vede dal fatto che i poverelli costretti a pernottare all'aria aperta e sul nudo sasso hanno la pelle piú spessa degli uomini che dormono sulle soffici piume.

3) Articolo Perché i veneti non addoppiano ed i valtellinesi triplano; l'Einaudi lo cita al n. 697 e dopo il titolo aggiunge «in Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis» annotando: «È l'estratto in un foglietto di 1 col., ma nella Miscellanea c. s. edita in Trieste, maggio 1909, 2 voll., p. 1050, con ritr. non si rileva questo articolo». L'articolo era stato inviato dal Loria al Comitato triestino per le onoranze ad Attilio Hortis nel cinquantenario della sua attività letteraria; il Comitato non poteva inserire l'articolo nella Miscellanea per la sua ridicola insulsaggine, ma non volle neppure mancare di riguardi al Loria che a Trieste era un esponente «illustre» della scienza italiana. Cosí fu comunicato al Loria che il suo «contributo» non poteva essere pubblicato nella Miscellanea già stampata in tipografia e che l'avrebbe pubblicato il (settimanale) letterario «Il Palvese». L'estratto catalogato dall'Einaudi è del «Palvese», dove occorrerebbe rintracciarlo per curiosità. L'articolo espone un aspetto (quello linguistico) della dottrina loriana sull'influenza dell'«altimetria» sullo sviluppo della civiltà (ciò che dimostra, tra l'altro, che in Loria non manca lo spirito di sistema e una certa coerenza e quindi che le sue «bizzarrie» non sono casuali e dovute ad impulsi di dilettantismo improvvisatore, ma corrispondono a un sustrato «culturale» che affiora continuamente): i montanari, moralmente piú puri, fisicamente piú robusti, «triplicano» le consonanti; la gente di pianura, invece (e guai se si tratta di popolazioni che stanno al livello del mare, come i veneziani), oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e non riesce neppure ad «addoppiare». Il Loria ricorre alla «testimonianza della propria coscienza» e afferma che da malato egli non riesce a domandare alla cameriera che una scempia taza di brodo.

4) La prefazione alla 1a edizione di una delle prime opere «scientifiche» del Loria, in cui il Loria parla della sua prolusione all'Università di Siena, e della impressione suscitata nel pubblico accademico dall'esposizione delle sue «originali» dottrine materialistiche: vi si trova accennata la sua teoria della connessione tra «misticismo» e «sifilide» (per «misticismo» il Loria intende tutti gli atteggiamenti che non siano «positivistici» o materialistici in senso volgare). Su tale argomento, nella Bibliografia è citato un articolo: Sensualità e misticismo in «Rivista Popolare», XV, 15 novembre 1909, pp. 577-578.

5) «Documenti ulteriori a suffragio dell'economismo storico» nella «Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1929.

Questi cinque «documenti» sono i piú vistosi che si ricordino in questo momento: ma è da ricordare che nel caso del Loria non si tratta di qualche caso di «dormicchiamento» intellettuale, sia pure con ricadute negli stessi delirii: si tratta di un filone «profondo», di una continuità abbastanza sistematica che accompagna tutta la sua carriera letteraria. Né si può negare che il Loria sia uomo di ingegno e che abbia del giudizio. In tutta una serie di articoli le «bizzarrie e stranezze» appaiono qua e là, estemporaneamente, ma ci sono quelle di un certo tipo, legate cioè a determinati «nessi di pensiero». Per esempio, si vede la teoria «altimetrica» apparire nella quistione «penitenziaria» e in quella «linguistica». Cosí in un articoletto pubblicato nella «Prora» che usciva a Torino durante la guerra (diretto da un certo Cipri-Romanò, giornalettucolo un po' losco, certamente di bassissima speculazione ai margini della guerra e dell'antidisfattismo) si dividevano i protagonisti della guerra mondiale in mistici (Guglielmo e Francesco Giuseppe o Carlo) e positivisti (Clémenceau e Lloyd George) e si parlava della fine dello zarismo come di un destino antimistico (nello stesso numero della «Prora» apparve Il vipistrello disfattista di Esuperanzo Ballerini).

Ricca di elementi comici è la poesia Al mio bastone. Nel XXXV anno di possesso, in «Nuova Antologia» del 16 novembre 1909.

La «leziosità letteraria» notata dal Croce è un elemento secondario dello squilibrio loriano, ma ha una certa importanza: 1) perché si manifesta continuamente; 2) perché l'immagine e l'enfasi letteraria trascinano meccanicamente il Loria al grottesco come nei secentisti e sono origine immediata di alcune «bizzarrie». Altro elemento del genere è la pretesa infantile e scriteriata all'«originalità» intellettuale ad ogni costo. Non manca nel Loria, oltre al «grande opportunismo», anche una notevole dose di «piccolo opportunismo» della piú bassa estrazione: si ricordano in proposito due articoli, quasi simili e pubblicati a breve distanza di tempo nella «Gazzetta del Popolo» (ultrareazionaria) e nel «Tempo» di Pippo Naldi (nittiano allora) nei quali un'immagine del Macaulay era svolta nell'uno in un senso e nell'altro nel senso opposto (si trattava della Russia e forse gli articoli sono del 1918: sulla Russia il Loria scrisse nel «Tempo» del 10 marzo 1918 e nella «Gazzetta» del 1° giugno successivo).

A proposito delle osservazioni del Croce sulla dottrina loriana dei «servi a spasso» e della sua importanza nella sociologia loriana è da ricordare un capocronaca della «Gazzetta del Popolo» del '18 o anni successivi (prima del '21), in cui il Loria parla degli intellettuali come di quelli che tengono dritta la «scala d'oro» sulla quale sale il popolo, con avvertimenti al popolo di tenersi buoni questi intellettuali, ecc. ecc.

Loria non è un caso teratologico individuale: è invece l'esemplare piú compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un determinato periodo storico; in generale di quello strato di intellettuali positivisti che si occuparono della quistione operaia e che erano piú o meno convinti di approfondire e rivedere e superare la filosofia della prassi. Ma è da notare che ogni periodo ha il suo lorianismo piú o meno compiuto e perfetto e ogni paese ha il suo: l'hitlerismo ha mostrato che in Germania covava, sotto l'apparente dominio di un gruppo intellettuale serio, un lorianismo mostruoso che ha rotto la crosta ufficiale e si è diffuso come concezione e metodo scientifico di una nuova «ufficialità». Che Loria potesse esistere, scrivere, elucubrare, stampare a sue spese libri e libroni, niente di strano: esistono sempre gli scopritori del moto perpetuo e i parroci che stampano continuazioni della Gerusalemme Liberata. Ma che egli sia diventato un pilastro della cultura, un «maestro», e che abbia trovato «spontaneamente» un grandissimo pubblico, ecco ciò che fa riflettere sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici che pur esistevano: è da pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà intellettuale ancora debole e gracile.

Solo oggi (1935), dopo le manifestazioni di brutalità e d'ignominia inaudita della «cultura» tedesca dominata dall'hitlerismo, qualche intellettuale si è accorto di quanto fosse fragile la civiltà moderna – in tutte le sue espressioni contraddittorie, ma necessarie nella loro contraddizione – che aveva preso le mosse dal Primo Rinascimento (dopo il Mille) e si era imposta come dominante attraverso la Rivoluzione francese e il movimento d'idee conosciuto come «filosofia classica tedesca» e come «economia classica inglese». Perciò la critica appassionata di intellettuali come Giorgio Sorel, come Spengler, ecc., che riempiono la vita culturale di gas asfissianti e sterilizzanti.

Q 9§ 28 Il signor Nettuno. All'inizio di questa serie di note sul lorianismo potrà essere citata la novella raccontata dal barbiere nei primi capitoli della seconda parte del Don Chisciotte. Il pazzo che ricorre al vescovo per essere liberato dal manicomio, sostenendo, in una lettera assennatissima, di essere savio e quindi tenuto arbitrariamente segregato dal mondo. L'arcivescovo che invia un suo fiduciario che si convince di aver da fare realmente con un sano di mente, finché, nel congedarsi del presunto savio dai suoi amici del manicomio, non avviene la catastrofe. Un pazzo, che dice di essere Giove, minaccia che se l'amico se ne andrà, egli non farà piú piovere sulla terra, e l'amico, temendo che l'inviato del vescovo non si spaurisca, dice: Non si spaventi, perché se il signor Giove non farà piú piovere, io che sono Nettuno, troverò ben modo di rimediare. Ebbene, queste note appunto riguardano scrittori che in uno o in molti istanti della loro attività scientifica, hanno dimostrato di essere il «signor Nettuno».

Q 28 § 18 L'altimetria, i buoni costumi e l'intelligenza. Nell'«utopia» di Ludovico Zuccolo: Il Belluzzi o la Città felice, ristampato da Amy Bernardy nelle «Curiosità letterarie» dell'ed. Zanichelli (che non è precisamente un'utopia, perché si parla della repubblica di San Marino) si accenna alla teoria loriana dei rapporti tra l'altimetria e i costumi umani. L. Zuccolo sostiene che «gli uomini di animo dimesso o di cervello ottuso si uniscono piú facilmente a consultare degli affari comuni»: questa sarebbe la ragione della saldezza degli ordinamenti di Venezia, degli svizzeri e di Ragusa, mentre gli uomini di natura vivace ed acuta, come i fiorentini, sono portati alla sopraffazione o «a occuparsi dei privati interessi senza punto occuparsi dei pubblici». Come allora spiegarsi che i sanmarinesi, di natura vivace ed acuta, abbiano tuttavia conservato per tanti secoli un governo popolare? Perché a San Marino la sottigliezza d'aria che rende ben composti e vigorosi i corpi, produce anche gli «spiriti puri e sinceri». È vero che lo Zuccolo parla anche delle ragioni economiche, cioè la mediocrità delle ricchezze individuali, per cui il piú ricco ha «poco davantaggio» e al piú povero non manca nulla. Questa eguaglianza è assicurata da buone leggi: proibizione dell'usura, inalienabilità della terra ecc.

Lo Zuccolo ha scritto un'«utopia» vera e propria, La Repubblica di Evandria, posta in una penisola agli antipodi dell'Italia, che, secondo il Gargàno (Un utopista di senso pratico, in «Marzocco» del 2 febbraio 1930) avrebbe un legame con l'Utopia di T. Moro e avrebbe quindi originato il Belluzzi.

Q 28 § 14 A proposito delle teorie «altimetriche» del Loria si potrebbe ricordare, per ridere, che Aristotele trovava che «le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici».

Q 6 § 189 [Attività improduttive.] Il 12 dicembre 1931, nel culmine della crisi mondiale, Achille Loria discute al Senato una sua interrogazione: se il ministero dell'interno «non ritenga opportuno evitare gli spettacoli di equilibrismo che non adempiono a nessuna funzione educativa, mentre sono troppo frequentemente occasione di sciagure mortali». Dalla risposta dell'on. Arpinati pare che «gli spettacoli di equilibrismo appartengano a quelle attività improduttive che il sen. Loria ha analizzato nel Trattato di Economia», e quindi la quistione, secondo il Loria, potrebbe essere un contributo alla soluzione della crisi economica. Si potrebbe fare dello spirito a buon mercato sugli spettacoli di equilibrismo del Loria stesso, che non gli hanno procurato finora nessuna sciagura mortale.

Q 28 § 2 [Loriani.] Col Loria occorre esaminare Enrico Ferri e Lumbroso. Arturo Labriola. Lo stesso Turati potrebbe dare una certa messe di osservazioni e aneddoti. Luzzatti, in altro campo, è da vedere. Guglielmo Ferrero. Corrado Barbagallo (nel Barbagallo le manifestazioni «loriane» sono forse piú occasionali ed episodiche: pure il suo scritto sul capitalismo antico pubblicato nella «Nuova Rivista Storica» del 1929 è estremamente sintomatico; con la postilla un po' comica che segue all'articolo del prof. G. Sanna). Molti documenti del «lorianesimo» in senso largo si possono trovare nella «Critica», nella «Voce» e nell'«Unità» fiorentina.

Q 8 § 74 Enrico Ferri. Il modo di giudicare la musica e il Verdi di Enrico Ferri è raccontato originariamente dal Croce nelle Conversazioni Critiche (serie II, p. 314) in un capitoletto sui Ricordi ed affetti di Alessandro D'Ancona, pubblicati dai Treves nel 1902 e che sarà apparso nella «Critica» dei primi anni (1903 o 1904): «Noto in quello ("ricordo") sul centenario del Leopardi una felicissima invettiva contro i critici letterari della così detta scuola lombrosiana: invettiva che per altro a me pare ormai superflua, avendo io udito, or è qualche settimana, uno di codesti solenni critici, Enrico Ferri, in una sua commemorazione dello Zola tenuta a Napoli, dichiarare circa la quistione se Verdi sia o no un genio: che egli, Ferri, non intendendosi punto di musica, ossia non essendo esposto alle seduzioni della malia di quell'arte, poteva perciò dare in proposito "un giudizio sulla sua obiettività sincero" e affermare con pacata coscienza, che il Verdi è un "ingegno" e non un "genio" tanto vero che suol tenere in perfetto ordine i conti dell'azienda domestica!» L'aneddoto è stato raccontato anche in altra forma: che cioè il Ferri si ritenesse il piú adatto a giudicare obiettivamente e spassionatamente chi fosse piú grande genio, Wagner o Verdi, appunto perché non si intendeva affatto di musica.

Q 9 § 12 Può darsi che la conferenza di Ferri su Zola in cui è contenuta l'affermazione dell'«obiettività» basata sull'ignoranza, sia lo scritto Emilio Zola, artista e cittadino, contenuto nel volume I delinquenti nell'arte ed altre conferenze, pubblicato dall'Unione Tipogr. Ed. Torinese nel 1926 (seconda ediz. interamente rifatta in 8°, pp. XX-350, L. 35). Nel volume si potrà forse trovare qualche altro spunto «loriano» non meno caratteristico di quello «musicale». Nel volume d'altronde sono contenuti scritti che avranno significato per altre rubriche, come i Ricordi di giornalismo e La scienza e la vita nel secolo XIX

Q 28 § 12 Guglielmo Ferrero. Ricordare gli spropositi contenuti nelle prime edizioni di alcuni suoi libri di storia: per es. una misura itineraria persiana creduta una regina, di cui si scrive la biografia romanzata, ecc. (Come sarebbe se tra mille anni, in un'epoca di puritanesimo, si scoprisse un'insegna da villaggio con su «Regia Gabella» e l'immagine di ragazza con la pipa in bocca diventasse una «Regina Gabella» ricettacolo di tutti i vizi). Del resto, il Ferrero non ha cambiato: nella sua Fine delle avventure, che è del 1930, mi pare, si crede possibile tornare alla «guerra dei merletti» e si esalta l'arte militare dei cicisbei.

Q 28 § 10 Credaro-Luzzatti. Ricordare l'episodio parlamentare Credaro-Luzzatti. Era stata proposta una cattedra speciale all'Università di Roma di «filosofia della storia» per Guglielmo Ferrero (nel 1911 o nel '12). Il ministro Credaro, fra l'altro, giustificò la «filosofia della storia» (contro B. Croce che aveva parlato in Senato contro la cattedra) con l'importanza che i filosofi hanno avuto nello svolgimento della storia, citando come esempio... Cicerone. Il Luzzatti assentí gravemente: «È vero! È vero!».

Q 28 § 9 Turati. Il discorso parlamentare sulle «salariate dell'amore». Discorso disonorevole e abbietto. I tratti di «cattivo gusto» del Turati sono numerosi nelle sue «poesie».

Q 28 § 6 Alberto Lumbroso. A. Lumbroso è da collocare nella serie loriana, ma in altro campo e da altro punto di vista.

Si potrebbe fare un'introduzione generale alla rassegna, per dimostrare come Loria non sia una eccezione, nel suo campo, ma si tratti di un fenomeno generale di deterioramento culturale, che forse ha avuto la tumefazione piú vistosa nel campo «sociologico». Cosí sono da ricordare Tommaso Sillani e la sua «casa dei parti», la «gomma di Vallombrosa» di Filippo Carli, del quale è notevole anche un grande articolo della «Perseveranza» (del 1918-1919) sul prossimo trionfo della navigazione a vela su quella a vapore; la letteratura economica dei protezionisti vecchia covata è piena di tali preziosità, che hanno avuto molti continuatori anche in tempi piú vicini, come si può vedere negli scritti del Belluzzo sulle possibili ricchezze nascoste nelle montagne italiane e sullo scatenamento di scempiaggini che ha provocato la prima campagna per il ruralismo e l'artigianato.

Questi elementi generici e vagabondi del «lorianismo» potrebbero servire per rendere piacevole l'argomento. Si potrebbe ricordare come caso limite e assurdo, perché già appartenente alla tecnica clinica-patologica, la candidatura del Lenzi al IV collegio di Torino nel 1914, con l'«aerocigno», il «filopresentaneismo» e la proposta di radere le montagne italiane, ingombranti, per trasportarne il materiale in Libia e fertilizzare cosí il deserto (mi pare però che anche il Kropotkin, nella Lotta per il pane, proponga di macinare i sassi per rendere piú ampia l'area coltivabile).

Il caso del Lumbroso è molto interessante, perché suo padre (Giacomo) era un erudito di gran marca; ma la metodologia dell'erudizione (e la serietà scientifica), a quanto pare non si trasmette per generazione e neppure per il contatto intellettuale il piú assiduo. C'è da domandarsi, nel caso Lumbroso, come i suoi due ponderosi volumi sulle Origini diplomatiche e politiche della guerra abbiano potuto essere accolti nella Collezione Gatti: la responsabilità del sistema è qui evidente. Cosí per Loria e la «Riforma Sociale», per L. Luzzatti e il «Corriere della Sera» (a proposito del Luzzatti è da ricordare il caso del «fioretto» di san Francesco, pubblicato come inedito dal «Corriere» – del 1913 mi pare, o prima – con un commento economico spassosissimo proprio del Luzzatti che aveva poco prima pubblicato un'edizione dei Fioretti nella Collezione Notari; il cosí detto inedito era una variante inviata al Luzzatti dal Sabatier). Del Luzzatti frasi famose, come «Lo sa il tonno» in un articolo del «Corriere», che è stata l'origine casuale del libro del Bacchelli.

Q 3 § 22 In una nota dedicata ad Alberto Lumbroso ho scritto che questi non ha ereditato dal padre le qualità di studioso sobrio, preciso, disciplinato. Giacomo Lumbroso morto nel 1927 (mi pare) fu uno storico dell’età ellenistica, papirologo, lessicografo della grecità alessandrina. (Cfr. l’articolo Giacomo Lumbroso di V. Scialoja, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927). È stato anche professore di storia moderna prima di Fedele?

Q 3 § 23 Loria. Le sue memorie pubblicate nel 1927 da N. Zanichelli, Bologna, sono intitolate: Ricordi di uno studente settuagenario, L. 10.

Q 16 § 8 Roberto Ardigò e la filosofia della praxis. (Cfr. il volume Scritti vari raccolti e ordinati da Giovanni Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922). Raccoglie una parte di scritti d'occasione, tanto del periodo in cui l'Ardigò era sacerdote (per esempio una interessante polemica con Luigi De Sanctis, prete cattolico spretato e divenuto quindi uno dei propagandisti piú verbosi e scriteriati dell'Evangelismo), quanto del periodo successivo allo spretamento dello stesso Ardigò e del suo pontificato positivistico, che l'Ardigò stesso aveva ordinato e disposto per la pubblicazione. Questi scritti possono essere interessanti per un biografo dell'Ardigò e per stabilire con esattezza le sue tendenze politiche, ma in massima parte sono paccotiglia senza nessun valore e scritti in modo scelleratissimo.

Il libro è diviso in varie sezioni. Tra le polemiche (1a sezione) è notevole quella contro la massoneria del 1903; l'Ardigò era antimassone e in forma vivace ed aggressiva.

Tra le lettere (4a sezione) quella indirizzata alla «Gazzetta di Mantova» a proposito del pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele II (nella «Gazzetta di Mantova» del 29 novembre 1883). L'Ardigò aveva accettato di far parte di un comitato promotore del pellegrinaggio. «Il pellegrinaggio però non andava ai versi a molti scalmanati rivoluzionari, che si erano immaginati che io la pensassi come loro e quindi sconfessassi la mia fede politico-sociale colla suddetta adesione. E cosí si espressero privatamente e pubblicamente colle piú fiere invettive al mio indirizzo». Le lettere dell'Ardigò sono enfatiche ed altisonanti: «Ieri, perché tornava loro conto di farmi passare per uno dei loro, che non sono mai stato (e lo sanno o devono saperlo), mi proclamarono, con lodi che mi facevano schifo, il loro maestro; e ciò senza intendermi o intendendomi a rovescio. Oggi, perché non mi trovano pronto a prostituirmi alle loro mire parricide, vogliono pigliarmi per un orecchio perché ascolti e impari la lezione che (molto ingenuamente) si arrogano di recitarmi. Oh! quanto ho ragione di dire con Orazio: Odi profanum vulgus et arceo!».

In una successiva lettera del 4 dicembre 1883 al «Bacchiglione», giornale democratico di Padova, scrive: «Come sapete fui amico di Alberto Mario; ne venero la memoria e caldeggio con tutta l'anima quelle idee e quei sentimenti che ebbi comuni con lui. E conseguentemente avverso senza esitazione le basse fazioni anarchiche antisociali... Tale mia avversione l'ho sempre espressa recisissimamente. Alcuni anni fa in un'adunanza della Società dell'Eguaglianza sociale di Mantova ho parlato cosí: "La sintesi delle vostre tendenze è l'odio, la sintesi della mia è l'amore; perciò io non sono con voi". Ma si continuava a voler far credere alla mia solidarietà col socialismo antisociale di Mantova. Sicché sentii il dovere di protestare, ecc.». La lettera fu ristampata nella «Gazzetta di Mantova» (del 10 dicembre 1883; la «Gazzetta» era un giornale conservatore di estrema destra, allora diretto da A. Luzio) con un'altra coda violentissima perché gli avversari gli avevano ricordato il canonicato, ecc.

Nel luglio 1884 scrive al Luzio che «nulla mi impedirebbe di assentire» alla proposta fattagli di entrare nella lista moderata per le elezioni comunali di Mantova. Scrive anche di credere il Luzio «piú radicale di molti sedicenti democratici... Molti si chiamano democratici e non sono che arruffoni sciocchi...». Nel giugno-agosto 1883 si serviva però del giornale socialista di Imola «Il Moto» per rispondere a una serie di articoli anonimi della liberale (sarà stato conservatore) «Gazzetta dell'Emilia» di Bologna, in cui si diceva che l'Ardigò era un liberale di fresca data e lo si sfotteva brillantemente, se pure con molta evidente malafede polemica. Il «Moto» di Imola «naturalmente» difende l'Ardigò a spada tratta e lo esalta, senza che l'Ardigò cerchi di distinguersi.

Tra i pensieri, tutti triti e banali, spicca quello sul Materialismo storico (p. 271) che senz'altro è da mettere insieme all'articolo sull'Influenza sociale dell'aeroplano di A. Loria. Ecco il pensiero completo: «Colla Concezione materialistica della Storia si vuole spiegare una formazione naturale (!), che ne (sic) dipende solo in parte e solo indirettamente, trascurando altri essenziali coefficienti. E mi spiego. L'animale non vive, se non ha il suo nutrimento. E può procurarselo, perché in lui nasce il sentimento della fame, che lo porta a cercare il cibo. Ma in un animale, oltre il sentimento della fame, si producono molti altri sentimenti, relativi ad altre operazioni, i quali, pur essi, agiscono a muoverlo. Egli è che, col nutrimento si mantiene un dato organismo, che ha attitudini speciali, quali in una specie, quali in un'altra. Una caduta d'acqua fa muovere un mulino a produrre la farina e un telaio a produrre un drappo. Sicché, pel mulino, oltre la caduta dell'acqua, occorre il grano da macinare e pel telaio occorrono i fili da comporre insieme. Mantenendosi col movimento un organismo, l'ambiente, colle sue importazioni d'altro genere (!?), determina, come dicemmo, molti funzionamenti, che non dipendono direttamente dal nutrimento, ma dalla struttura speciale dell'apparecchio funzionante, da una parte, e dall'azione, ossia importazione nuova dell'ambiente dall'altra. Un uomo quindi, per esempio, è incitato in piú sensi. E in tutti irresistibilmente. È incitato dal sentimento della fame, è incitato da altri sentimenti, prodotti in ragione della struttura sua speciale e delle sensazioni e delle idee fatte nascere in lui per l'azione esterna, e per l'ammaestramento ricevuto ecc. ecc. (sic). Deve obbedire al primo, ma deve ubbidire anche agli altri, voglia o non voglia. E gli equilibri che si formano tra l'impulso del primo e di questi altri, per la risultante dell'azione, riescono diversissimi, seconda una infinità di circostanze, che fanno giocare piú l'uno che l'altro dei sentimenti incitanti. In una mandria di porci il sopravvento rimane al sentimento della fame, in una popolazione di uomini, ben diversamente, poiché hanno anche altre cure all'infuori di quella d'ingrassare. Nell'uomo stesso l'equilibrio si diversifica secondo le disposizioni che poterono farsi in lui, e quindi, col sentimento della fame, il ladro ruba e il galantuomo invece lavora: avendo quanto gli occorre per soddisfare alla fame, l'avaro cerca anche il non necessario, e il filosofo se ne contenta e dedica la sua opera alla scienza. L'antagonismo poi può esser tale, che riescono in prevalenza i sentimenti che sono diversi da quelli della fame, fino a farli tacere affatto, fino a sopportare di morire, ecc. ecc. (sic). La forza, onde è ed agisce l'animale, è quella della natura, che lo investe e lo sforza ad agire in sensi multiformi, trasformandosi variamente nel suo organismo. Poniamo che sia la luce del sole, alla quale si dovrebbe ridurre la concezione materialistica della storia, anziché alla ragione economica. Alla luce del sole, intesa in modo, che anche ad essa si possa riferire il fatto della idealità impulsiva dell'uomo». (Fine).

Il brano è stato pubblicato la prima volta in un numero unico (forse stampato dal «Giornale d'Italia») a beneficio della Croce Rossa, nel gennaio 1915. È interessante non solo per dimostrare che l'Ardigò non si era preoccupato mai di informarsi direttamente sull'argomento trattato e non aveva letto che qualche articolo strafalcionesco di qualche periodichetto, ma perché serve a documentare le strane opinioni diffuse in Italia sulla «quistione di ventre». Perché poi solamente in Italia era diffusa questa strana interpretazione «ventraiolesca»? Essa non può non essere connessa ai movimenti per la fame, ma cosí l'accusa di «ventraiolismo» è piú umiliante per i dirigenti che la facevano che per i governati che soffrivano realmente la fame. E nonostante tutto, Ardigò non era il primo venuto.

Q 28 § 11 Graziadei e il paese di Cuccagna. Confrontare nel libretto di Graziadei, Sindacati e Salari, la alquanto comica risposta alla nota del Croce sul graziadeiano paese di Cuccagna, dopo quasi trent'anni. La risposta, comica, ma non sprovvista di una buona dose di gesuitismo politico (crocianesimo tardivo di un certo gruppetto di personaggi laschiani: il Lasca diceva che l'uomo è un pezzo di sterco su due fuscelli) è stata indubbiamente determinata dal saggio pubblicato nel 1926 dall'«Unter dem Banner» su Prezzo e sovraprezzo, che si iniziava appunto con la citazione della nota crociana. (Sarebbe interessante ricercare nella produzione letteraria del Graziadei i possibili accenni al Croce: non ha mai risposto, neppure indirettamente? Eppure la pizzicata era stata forte! In ogni modo, l'ossequio all'autorità scientifica del Croce espresso con tanta unzione dopo trent'anni, è veramente comico). Il motivo del paese di Cuccagna rilevato dal Croce in Graziadei, è di un certo interesse generale, perché serve a rintracciare una corrente sotterranea di romanticismo e di fantasticherie popolari, alimentata dal «culto della scienza», dalla «religione del progresso» e dall'ottimismo del secolo XIX, che è stato anch'esso una forma di oppio. In questo senso è da vedere se non sia stata legittima e di larga portata la reazione del Marx, che colla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto e col cosí detto catastrofismo gettava molta acqua nel fuoco; è da vedere anche in che misura l'«oppiomania» abbia impedito una analisi piú accurata delle proposizioni del Marx.

Queste osservazioni riconducono alla quistione della «utilità» o meno di una esposizione del lorianismo. A parte il fatto di un giudizio «spassionato» dell'opera complessiva del Loria e dell'apparente «ingiustizia» di mettere in rilievo solo le manifestazioni strampalate del suo ingegno, rimane, per giustificare queste notazioni, una serie di ragioni. Gli «autodidatti» specialmente sono inclini, per l'assenza di una disciplina critica e scientifica, a fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema. Come reagire? La soluzione migliore sarebbe la scuola, ma è soluzione di lunga attesa, specialmente per le grandi agglomerazioni di uomini che si lasciano portare all'oppiomania. Occorre perciò colpire intanto la «fantasia» con dei tipi «grandiosi» di ilotismo intellettuale, creare l'avversione «istintiva» per il disordine intellettuale, accompagnandolo col senso del ridicolo; ciò, come si è visto sperimentalmente in altri campi, si può ottenere, anche con una certa facilità, perché il buon senso, svegliato da un opportuno colpo di spillo, quasi fulmineamente annienta gli effetti dell'oppio intellettuale. Questa avversione è ancora poco, ma è già la premessa necessaria per instaurare un ordine intellettuale indispensabile: perciò il mezzo pedagogico indicato ha la sua importanza.

Ricordare alcuni episodi tipici: l'Interplanetaria del 1916-17 di Rabezzana; l'episodio del «moto perpetuo» nel 1925, mi pare; figure come Pozzoni di Como e altri, che risolvevano tutto partendo dall'affitto della casa ecc. (Del resto, un episodio clamoroso è stato quello della «Baronata» che ha offerto uno spunto al Diavolo al Pontelungo del Bacchelli). La mancanza di sobrietà e di ordine intellettuale si accompagna molto spesso al disordine morale. La quistione sessuale porta, con le sue fantasticherie, molto disordine: poca partecipazione delle donne alla vita collettiva, attrazione di farfalloni postribolari verso iniziative serie ecc. (ricordare l'episodio narrato da Cecilia De Tormay che è verosimile, anche se inventato); in molte città, specialmente meridionali, alle riunioni femminili, faticosamente organizzate, si precipitavano subito i liberoamoristi coi loro opuscoli neomaltusiani, ecc., e tutto era da rifare. Tutti i piú ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà.

Q 8 § 166 Oltre alle teorie del Loria, cercare se le quistioni sollevate dal Graziadei non hanno origine nelle teorie del Rodbertus. Nella «Histoire des doctrines économiques» di Gide e Rist (V ediz., ristampa del 1929) a p. 504 si legge: «Remarquons aussitôt la différence d'attitude entre Rodbertus et Marx. Le second, tout imprégné de l'économie politique et du socialisme anglais, part de la théorie de l'échange et fait du travail la source de toute valeur. Rodbertus, inspiré par les Saint-Simoniens, part de la production et fait du travail l'unique source de tout produit, proposition plus simple et plus vraie que la précédente, quoique encore incomplète. Non seulement Rodbertus ne dit pas que le travail seul crée la valeur, mais il le nie expressément à diverses reprises, en donnant les raisons de son opinion». In nota il Rist dà riferimenti bibliografici in proposito e cita una lettera di Rodbertus a R. Meyer del 7 gennaio 1872 dove è un accenno al fatto che la «demonstration pourrait, le cas échéant, (s') utiliser contre Marx».

Q 3 § 86 Alfredo Trombetti. Per molti aspetti può esser fatto rientrare nel lorianismo, sempre con l'avvertenza che ciò non significa un giudizio complessivo su tutta la sua opera ma un semplice giudizio di squilibrio tra la «logicità» e il contenuto concreto dei suoi studi. Il Trombetti era un formidabile poliglotta, ma non è un glottologo, o almeno il suo glottologismo non si identificava con il suo poliglottismo: la conoscenza materiale di innumerevoli lingue gli prende la mano sul metodo scientifico. Inoltre egli era un illuminato: la teoria della monogenesi del linguaggio era la prova della monogenesi dell'umanità, con Adamo ed Eva a capostipiti. Perciò i cattolici lo applaudirono ed egli diventò popolare, cioè fu «legato» alla sua teoria da un punto d'onore non scientifico ma ideologico. Negli ultimi tempi ebbe riconoscimenti ufficiali e fu esaltato dai giornali quotidiani come una gloria nazionale, specialmente per l'annunzio dato a un Congresso Internazionale di Linguistica (dell'Aja, ai primi del 1928) della decifrazione dell'etrusco. Mi pare però che l'etrusco continui a essere indecifrato come prima e che tutto si riduca a un ennesimo tentativo fallito.

Nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1928, è pubblicato un articolo di Pericle Ducati, Il Primo Congresso Internazionale Etrusco (27 aprile - 3 maggio 1928), in cui si parla in modo molto strano, ma up to date, della «scoperta» del Trombetti. A p. 199 si parla di «conseguita decifrazione» dell'etrusco, «mercé soprattutto gli sforzi di un italiano, di Alfredo Trombetti». A p. 204 la «conseguita decifrazione» è invece ridotta a «un passo gigantesco nella interpretazione dell'etrusco».

La tesi del Trombetti è questa, già fissata da lui nel Convegno Nazionale Etrusco del 1926: l'etrusco è una lingua intermedia, insieme ad altri idiomi dell'Asia Minore e pre-ellenici, tra il gruppo caucasico e il gruppo ario-europeo con maggiori affinità con quest'ultimo; perciò il lemnio, quale appare dalle due iscrizioni della stele famosa, e l'etrusco quasi s'identificano. Questa tesi rientra nel sistema generale del Trombetti che presuppone provata la monogenesi e quindi ha una base molto fragile. E ancora, presuppone certa l'origine transmarina degli Etruschi, mentre questa opinione, se è la piú diffusa, non è universale: Gaetano De Sanctis e Luigi Pareti sostengono invece l'origine transalpina e non sono due studiosi da disprezzare.

Al Congresso Internazionale Etrusco il Trombetti è passato alla piú precisa determinazione della grammatica ed alla ermeneutica dei testi, saggio del suo libro La lingua etrusca uscito poco dopo. Ebbe grande successo. Contraddittori, non tra gli stranieri, nota il Ducati, ma tra i nazionali, pur «garbatamente e facendo onore alla eccezionale valentia del Trombetti». «Un giovane ed ormai valoroso glottologo, Giacomo Devoto, si è preoccupato del metodo, ché il rigore del metodo gli è sembrato intaccato dalle investigazioni e dai risultati del Trombetti». Qui il Ducati fa una serie di considerazioni veramente strabilianti sul metodo della glottologia contro il Devoto, concludendo: «Guardiamo pertanto ai risultati del Trombetti e non sottilizziamo». Si è visto poi cosa voleva dire non sottilizzare.

Nelle scienze in generale il metodo è la cosa piú importante: in certe scienze poi, che necessariamente devono basarsi su un corredo ristretto di dati positivi, ristretto e non omogeneo, le quistioni del metodo sono ancor piú importanti, se non sono addirittura tutto. Non è difficile con un po' di fantasia costruire ipotesi su ipotesi e dare un'apparenza brillante di logicità a una dottrina: ma la critica di queste ipotesi rovescia tutto il castello di carta e trova il vuoto sotto il brillante.

Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza piú del vecchio, interpreta meglio, ecc.? Niente di tutto ciò. Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso non può far chiasso interpretando l'etrusco: il Trombetti invece afferma di aver decifrato l'etrusco, quindi risolto uno dei piú grandi e appassionanti enigmi della storia: applausi, popolarità, aiuti economici ecc.

Il Ducati ripete, approvando, ciò che gli disse al Congresso un glottologo «assai egregio»: «il Trombetti è una eccezione: si eleva egli assai al di sopra di noi e ciò che a noi non sembra lecito di tentare, a lui è possibile di compiere», e aggiunge le opinioni molto profonde del paleontologo Ugo Antonielli. Per l'Antonielli il Trombetti è un «gigante buono che addita una diritta e sicura via». E se, come argutamente (!) aggiunge lo stesso Antonielli, il nostro italianissimo Trombetti, «per la supina sensibilità di taluni, si fosse chiamato Von Trombetting ovvero Trombetty...»

Poiché la quistione si poneva cosí, bisogna convenire che il Devoto e gli altri oppositori, furono degli eroi e che c'è qualcosa di sano nella scienza italiana.

Il Ducati appoggia questa tendenza nazionalistica nella scienza, senza accorgersi delle contraddizioni in cui cade: se il Trombetti additasse una via diritta e sicura, avrebbe appunto rinnovato o sviluppato e perfezionato il metodo e allora sarebbe lecito tentare a tutti gli studiosi ciò che egli ha fatto. O l'uno o l'altro: o il Trombetti è al di sopra della scienza per sue particolari doti di intuizione o addita una via per tutti. «Caso curioso! Tra i glottologi raccolti a Firenze il Trombetti ha raccolto il plauso piú incondizionato tra gli stranieri». E allora perché il Ducati riporta il Von Trombetting? O non indica ciò piuttosto che la glottologia italiana è piú seria e progredita di quella straniera? Può capitare proprio questo bel caso al nazionalismo scientifico: di non accorgersi delle vere «glorie» nazionali e di essere proprio esso, lo schiavo, il supino servo degli stranieri!

Q 3 §156 Trombetti e la monogenesi del linguaggio. La «Nuova Antologia», che in un articolo di Pericle Ducati (già da me notato precedentemente) aveva esaltato l'opera del Trombetti per l'interpretazione dell'etrusco, nel numero del 1° marzo 1929 pubblica una nota di V. Pisani, Divagazioni etrusche, completamente stroncatoria. Il Pisani ricorda contro il Trombetti alcuni canoni elementari per lo studio critico della scienza delle lingue:

1) Il metodo puramente etimologico è privo di consistenza scientifica: la lingua non è il puro lessico, errore volgare e diffusissimo: le singole parole astrattamente prese, anche somigliantissime in una determinata fase storica, possono: a) essere nate indipendentemente l'una dall'altra; esempio classico mysterion greco ed ebraico, con lo stesso significato: ma in greco il significato è dato da myst- ed -erion è suffisso per gli astratti, mentre in ebraico è il contrario: -erion (o terion) è la radicale fondamentale e myst- (o mys-) è il prefisso generico; cosí haben tedesco non ha la stessa origine di hab?re latino, né to call inglese di καλ?ω greco o di cal?re latino (chiamare), né ähnlich tedesco può unirsi ad ?ν?λογος, greco, ecc. Il Littmann pubblicò, nella «Zeitschrift der Deutschen Morgenl. Gesellschaft», LXXVI, pp. 270 sgg., una lista di queste apparenti concordanze per dimostrare l'assurdità dell'etimologia antiscientifica; b) possono essere state importate da una lingua all'altra, in epoche relativamente preistoriche: per esempio: l'America è stata «scoperta» da Cristoforo Colombo «solo» dal punto di vista della civiltà europea nel complesso, cioè Cristoforo Colombo ha fatto entrare l'America nella zona d'interesse della civiltà europea, della storia europea; ma ciò non esclude, tutt'altro, che elementi europei, o di altri continenti, possano essere andati in America anche in gruppi relativamente considerevoli e avervi lasciato delle «parole», delle forme lessicali piú o meno considerevoli; ciò può ripetersi per l'Australia e per ogni altra parte del mondo; come si può allora affermare, come fa il Trombetti, su numeri relativamente scarsi di forme lessicali (30-40), che tali forme siano documento della monogenesi?

2) Le forme lessicali e i loro significati devono essere confrontate per fasi storiche omogenee delle lingue rispettive, per ogni forma occorre perciò «fare» oltre la storia fonologica anche la storia semantica e confrontare i significati piú antichi. Il Trombetti non rispetta nessuno di questi canoni elementari: a) si accontenta, nei confronti, di significati generici affini, anche non troppo affini (qualche volta stiracchiati in modo ridicolo: ricordo un caso curiosissimo di un verbo di moto arioeuropeo confrontato con una parola di un dialetto asiatico che significa «ombelico» o giú di lí, che dovrebbero corrispondere, secondo il Trombetti, per il fatto che l'ombelico si «muove» continuamente per la respirazione!); b) basta per lui che nelle parole messe a confronto si verifichi la successione di due suoni consonantici rassomigliantisi come, per esempio, t, th, d, dh, s, ecc., oppure p, ph, f, b, bh, v, w, ecc.; si sbarazza delle altre consonanti eventuali considerandole come prefissi, suffissi o infissi.

3) La parentela di due lingue non può essere dimostrata dalla comparazione, anche fondata, di un numero anche grandissimo di parole, se mancano gli argomenti grammaticali di indole fonetica e morfologica (e anche sintattica, sebbene in minor grado). Esempio: l'inglese che è lingua germanica anche se il lessico [è] molto neolatino; il rumeno che è neolatino anche se [ha] molte parole slave; l'albanese che è illirico anche se il lessico [è] greco, latino, slavo, turco, italiano; l'armeno che contiene molto iranico: persiano arabizzato ma sempre arioeuropeo ecc.

Perché il Trombetti ha avuto tanta fama? 1) Naturalmente ha dei meriti, primo fra tutti di essere un grande poliglotta. 2) Perché la tesi della monogenesi è sostenuta dai cattolici, che vedono nel Trombetti «un grande scienziato d'accordo colla Bibbia» e quindi lo portano sugli scudi. 3) La boria delle nazioni. Però il Trombetti è piú apprezzato dai profani che dai suoi colleghi nella sua scienza. Certo la monogenesi non può essere esclusa a priori, ma non può neanche essere provata, o almeno il Trombetti non l'ha provata. Ricordare gli epigrammi del Voltaire contro l'etimologista famigerato Ménage Gilles (1613-1692) sull'etimologia di alfana > equa per esempio. Il metodo acritico del Trombetti applicato all'etrusco non poteva dare risultati certi, evidentemente. La sua interpretazione può essere messa in serie con le tante che ne sono state date: «per caso» potrebbe essere vera, ma di questa verità non può essere data la dimostrazione. (Vedere in che consiste il metodo che il Trombetti chiama «combinatorio»: non ho materiale: pare che significhi questo: il raccostamento di un termine etrusco ignoto con un termine noto di altra lingua riputata affine deve essere controllato coi termini noti di altre lingue affini che somigliano come suono ma non coincidono tra loro nei significati ecc.: ma forse non è questo).

Q 6 § 36 [Gli studi etruschi.] Confrontare Luigi Pareti, Alla vigilia del 1° Congresso Internazionale etrusco, «Marzocco» del 29 aprile 1928, e Pareti, Dopo il Congresso etrusco, «Marzocco», 13 maggio 1928, e Consensi e dissensi storici archeologici al Congresso Etrusco, «Marzocco», 20 maggio 1928.

A proposito delle ricerche linguistiche il Pareti scrive nel 1° articolo: «Assicurati della precisione dei testi trascritti e della completezza delle nostre raccolte, si potrà rielaborarli, in maniera non comune, per quanto concerne la linguistica. Poiché è ormai indispensabile non solo condurre avanti i tentativi di interpretazione, ma procedere storicamente, considerando cioè i termini lessicali ed i fenomeni fonetici nello spazio e nel tempo: distinguendo quel ch'è antico dal recente, e individuando le differenze dialettali di ogni regione. Fissata questa base storico-linguistica, sarà piú facile e sicuro sia risalire dai termini e fenomeni piú antichi, ai confronti con altre lingue che interessino per il problema delle parentele originarie; sia, all'opposto, discendere da alcune peculiarità dei dialetti etruschi nella loro ultima fase, avvicinando termini e fenomeni dialettali attuali. Altrettanto meticolosa ha da essere, naturalmente, l'indagine per sceverare i vari strati, utilizzabili storicamente, della toponomastica. Poiché, in teoria, per ogni nome, occorre rintracciare l'età e lo strato etnico a cui risale, è indispensabile che per ognuno di essi siano raccolte le piú antiche testimonianze, e registrata la forma precisa iniziale, accanto alle posteriori deformazioni. E ciò per evitare la rischiosa comparazione di termini che si possono dimostrare imparagonabili, o per reale deformità fonetica, o per impossibilità cronologica. Di tutto il materiale vagliato sarà poi opportuno redigere lessici e carte topografiche, di comoda e perspicua consultazione». Questi articoli del Pareti sono molto ben fatti e dànno un'idea perspicua delle attuali condizioni degli studi Etruschi.

Q 16 § 6 Il capitalismo antico e una disputa tra moderni. Si può esporre, in forma di rassegna critico-bibliografica, la cosí detta quistione del capitalismo antico. 1) Un confronto tra le due edizioni, la prima in francese, che fu poi tradotta in alcune altre lingue europee, e la seconda, recente, in italiano, del volumetto del Salvioli sul Capitalismo antico con prefazione di G. Brindisi (ed. Laterza). 2) Articoli e libri di Corrado Barbagallo (per es. L'Oro e il Fuoco, i volumi riguardanti l'età classica della Storia Universale che è in via di pubblicazione presso l'Utet di Torino, ecc.) e la polemica svoltasi qualche tempo fa sull'argomento nella «Nuova Rivista Storica» tra il Barbagallo, Giovanni Sanna e Rodolfo Mondolfo. Nel Barbagallo è specialmente da notare, in questa polemica, il tono disincantato di chi la sa lunga sulle cose di questo mondo. La sua concezione del mondo è che niente è nuovo sotto il sole, che «tutto il mondo è paese», che «piú le cose cambiano e piú sono le stesse». La polemica pare un seguito farsesco della famosa «Disputa tra gli antichi e i moderni». Ma questa disputa ebbe una grande importanza culturale e un significato progressivo; è stata l'espressione di una coscienza diffusa che esiste uno svolgimento storico, che si era ormai entrati in pieno in una nuova fase storica mondiale, completamente rinnovatrice di tutti i modi di esistenza, ed aveva una punta avvelenata contro la religione cattolica che deve sostenere che quanto piú retrocediamo nella storia tanto piú dobbiamo trovare gli uomini perfetti, perché piú vicini alle comunicazioni dell'uomo con Dio, ecc.

(A questo proposito è da vedere ciò che ha scritto Antonio Labriola, nel frammento postumo del libro non scritto Da un secolo all'altro, sul significato del nuovo calendario instaurato dalla Rivoluzione francese; tra il mondo antico e il mondo moderno non c'era stata mai una cosí profonda coscienza di distacco, neanche per l'avvento del cristianesimo).

Invece la polemica del Barbagallo era proprio il contrario di progressiva, tendeva a diffondere scetticismo, a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso. Questa posizione del Barbagallo può essere interessante da analizzare perché il Barbagallo si dichiara ancora seguace della filosofia della praxis (cfr. la sua polemichetta col Croce nella «Nuova Rivista Storica» di alcuni anni fa), ha scritto un volumetto su questo argomento nella Biblioteca della Federazione delle Biblioteche popolari di Milano. Ma il Barbagallo è legato da forti vincoli intellettuali a Guglielmo Ferrero (ed è un po' loriano). È curioso che sia professore di storia dell'economia e si affatichi a scrivere una Storia Universale chi ha della storia una concezione cosí puerile e superficialmente acritica; ma non sarebbe maraviglioso che questo suo modo di pensare il Barbagallo lo attribuisse alla filosofia della praxis.

Q 2 § 99 Giuseppe Brindisi, Giuseppe Salvioli, Napoli, Casella, 1928, pp. 142, L. 5 (collezione «Contemporanei»).

Il Brindisi è l'editore e il prefatore della edizione postuma del Capitalismo antico del Salvioli: vedere se in questo volumetto tratta la quistione dei rapporti tra il Salvioli e il materialismo storico nella forma crociana, ecc. (La prefazione al Capitalismo antico è però mediocre e balzellante). Da una recensione del Tilgher in «Italia che scrive» (settembre 1928) vedo che questo argomento è trattato ampiamente, insieme ad un altro, anch'esso interessante: le concezioni sociali del Salvioli, che lo portavano a una specie di socialismo giuridico di Stato (!?) non senza somiglianza con la legislazione sociale fascista.

Q 28 § 17 G. A. Fanelli. Un volume che può essere considerato come l'espressione-limite teratologica della reazione degli intellettuali di provincia alle tendenze «americaniste» di razionalizzazione dell'economia, è quello di G. A. Fanelli (il cui settimanale rappresenta l'estrema destra retriva nell'attuale situazione italiana): L'Artigianato. Sintesi di un'economia corporativa, ed. Spes, Roma, 1929, in 8°, pp. XIX-505, L. 30, di cui la «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929 pubblica una recensione nella rubrica Problemi sociali (del P. Brucculeri). È da notare che il padre gesuita difende la civiltà moderna (almeno in alcune sue manifestazioni) contro il Fanelli. Brani caratteristici del Fanelli citati dalla «Civiltà Cattolica»: «Il sistema (dell'industrialismo meccanico) presenta l'inconveniente di riassorbire per indiretta via, neutralizzandola, la massima parte dei materiali vantaggi che esso può offrire. Dei cavalli-vapore installati, i tre quarti sono adibiti nei trasporti celeri, resi indispensabili dalla necessità di ovviare ai facili deperimenti che cagionano i forti concentramenti di merci. Della quarte parte, adibita alla concentrazione delle merci, circa la metà è impiegata nella produzione delle macchine, sicché, a somme fatte, di tutto l'enorme sviluppo meccanico che opprime il mondo col peso del suo acciaio, non altro che un ottavo dei cavalli installati viene impiegato nella produzione dei manufatti e delle sostanze alimentari» (p. 205, del libro).

«L'italiano, temperamento asistematico, geniale, creatore, avverso alle razionalizzazioni, non può adattarsi a quella metodicità della fabbrica, in cui solo è riposto il rendimento del lavoro in serie. Che anzi, l'orario di lavoro diviene per lui puramente nominale per lo scarso rendimento ch'egli dà in un lavoro sistematico. Spirito eminentemente musicale, l'italiano può accompagnarsi col solfeggio nel lavoro libero, attingendo da tale ricreazione nuove forze ed ispirazioni. Mente aperta, carattere vivace, cuore generoso, portato nella bottega... l'italiano può esplicare le proprie virtú creative, a cui, del resto, si appoggia tutta l'economia della bottega. Sobrio come nessun altro popolo, l'italiano sa attingere, nella indipendenza della vita di bottega, qualunque sacrifizio o privazione per far fronte alle necessità dell'arte, mentre mortificato nel suo spirito creatore dal lavoro squalificato della fabbrica, egli sperpera la paga nell'acquisto di un oblío e di una gioia che gli abbrevia l'esistenza» (p. 171 del libro).

Nel piano intellettuale e culturale il libro del Fanelli corrisponde all'attività letteraria di certi poeti di provincia che ancora continuano a scrivere continuazioni, in ottava rima, della Gerusalemme Liberata e Vittoriosa (Conquistata), a parte certa mutria altezzosa e buffa. È da notare che le «idee» esposte dal Fanelli hanno avuto, in certi anni, una grande diffusione, ciò che era in curioso contrasto col programma «demografico» da una parte, e col concetto di «nazione militare» dall'altra, poiché non si può pensare a cannoni e corazzate costruite da artigiani o alla motorizzazione coi carri a buoi, né al programma di un'Italia «artigiana» e militarmente impotente in mezzo a Stati altamente industrializzati con le relative conseguenze militari: tutto ciò dimostra che i gruppi intellettuali che esprimevano queste lorianate in realtà s'infischiavano, non solo della logica, ma della vita nazionale, della politica e di tutto quanto. Non è molto difficile rispondere al Fanelli: il Brucculeri stesso nota giustamente che ormai l'artigianato è legato alla grande industria e ne dipende: esso ne riceve materie prime semilavorate e utensili perfezionati.

Che l'operaio italiano (come media) dia una produzione relativamente scarsa può essere vero: ma ciò dipende da ciò che in Italia l'industrialismo, abusando della massa crescente di disoccupati (che l'emigrazione solo in parte riusciva ad assorbire) è stato sempre un industrialismo di rapina, che ha speculato sui bassi salari e ha trascurato lo sviluppo tecnico; la proverbiale «sobrietà» degli italiani è solo una metafora per significare che non esiste un tenore di vita adeguato al consumo di energia domandato dal lavoro di fabbrica (quindi anche bassi rendimenti).

L'«italiano» tipo, presentato dal Fanelli è coreografico e falso per ogni rispetto: nell'ordine intellettuale sono gli italiani che hanno creato l'«erudizione» e il paziente lavoro d'archivio: il Muratori, il Tiraboschi, il Baronio, ecc., erano italiani e non tedeschi; la «fabbrica» come grande manifattura ebbe certo in Italia le sue prime manifestazioni organiche e razionali. Del resto, tutto questo parlare di artigianato e di artigiani è fondato su un equivoco grossolano: perché nell'artigianato esiste un lavoro in serie e standardizzato dello stesso tipo «intellettuale» di quello della grande industria razionalizzata: l'artigiano produce mobili, aratri, roncole, coltelli, case di contadini, stoffe, ecc., sempre di uno stesso tipo, che è conforme al gusto secolare di un villaggio, di un mandamento, di un distretto, di una provincia, al massimo di una regione. La grande industria cerca di standardizzare il gusto di un continente o del mondo intero per una stagione o per qualche anno; l'artigianato subisce una standardizzazione già esistente e mummificata di una valle o di un angolo del mondo. Un artigianato a «creazione individuale» arbitraria incessante è cosí ristretto che comprende solo gli artisti nel senso stretto della parola (e ancora: solo i «grandi» artisti che diventano «prototipi» dei loro scolari).

Il libro del Fanelli eccelle per il lorianismo: ma può essere esaminato in altre rubriche: «Americanismo» e «Passato e Presente».

Q 28 § 4 Paolo Orano. Due «stranezze» di P. Orano (a memoria): il «saggio» Ad metalla nel volume Altorilievi (ed. Puccini, Milano), in cui propone agli operai minatori (dopo una catastrofe mineraria) di abbandonare definitivamente lo sfruttamento delle miniere, di tutte le miniere: lo propone da «sindacalista», da rappresentante di una nuova morale dei produttori moderni ecc., cioè propone, come niente, di interrompere e distruggere tutta l'industria metallurgica e meccanica; il volumetto sulla Sardegna (che pare sia il primo scritto pubblicato dall'Orano) dove si parla di un comico «liquido ambiente» ecc. Nei «medaglioni» (I Moderni) e nelle altre pubblicazioni dell'Orano c'è molto da spulciare, fino alla sua piú recente produzione (ricordare il discorso di risposta alla Corona dopo il Concordato, dove c'è una teoria dell'«arbitrario», connesso col bergsonismo, veramente spassosa).

Q 3 § 66 Un articolo di P. Orano su Ibsen sulla «Nuova Antologia» del 1° aprile 1928. Un aforisma pregnante di vacuità: «L'autentico (cioè il corrispettivo rinforzato del tanto screditato "vero") sforzo moderno dell'arte drammatica è consistito nel risolvere scenicamente (!) gli assurdi (!) della vita consapevole (!). Fuori di ciò il teatro può essere un bellissimo gioco consolatore (!), un amabile passatempo, non altro». Altro aforisma come sopra: «Con lui e per lui (Ibsen) abbiamo incominciato a credere all'eternità dell'attimo, perché l'attimo è pensiero, e dal valore assoluto della personalità individuale, che è agente e giudice fuor del tempo e dello spazio, oltre i rimorsi temporali e il nulla spaziale, momento e durata inattingibili al criterio della scienza e della religione».

Q 3 § 132 A proposito dei rapporti tra gli intellettuali sindacalisti italiani e Sorel occorre fare un confronto tra i giudizi che su di essi il Sorel ha pubblicato recensendone i libri (nel «Mouvement socialiste» e altrove) e quelli espressi nelle sue lettere al Croce. Questi ultimi illuminano i primi di una luce spesso ironica o reticente: cfr. il giudizio su Cristo e Quirino di P. Orano pubblicato nel «Mouvement socialiste» dell'aprile 1908 e quello nella lettera al Croce in data 29 dicembre 1907: evidentemente il giudizio pubblico era ironico e reticente, ma l'Orano lo riporta nella edizione Campitelli, Foligno, 1928, come se fosse di lode.

Q 28 § 5 Nelle lettere di G. Sorel a B. Croce si può spigolare piú di un elemento di lorianesimo nella produzione letteraria dei sindacalisti italiani. Il Sorel afferma, per esempio, che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se il Labriola credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull'esperienza economica francese e non su quella inglese.

Q 9 § 77 [Benito Mussolini.] Nell'introduzione all'articolo sul «Fascismo» pubblicato dall'Enciclopedia Italiana, introduzione scritta dal capo del governo, si legge: «Una siffatta concezione della vita porta il fascismo ad essere la negazione recisa di quella dottrina che costituí la base del socialismo cosí detto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta di interessi tra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell'economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo; il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell'eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce».

L'influsso delle teorie di Loria è evidente.

Q 8 § 77 G. A. Borgese. «Quasi tutte le guerre e le rivolte in ultima analisi si possono ridurre a secchie rapite; l'importante è vedere che cosa nella secchia vedessero rapitori e difensori». «Corriere della Sera» 8 marzo 1932 (Psicologia della proibizione). L'aureo aforisma del Borgese potrebbe essere citato come commento autentico al libriccino in cui G. A. Borgese parla delle nuove correnti di opinione scientifica (Eddington) e annuncia che esse hanno dato il colpo mortale al materialismo storico. Si può scegliere: tra l'«ultima analisi» economica e l'«ultima analisi» secchia rapita.

Q 3 § 89 [I libri perduti di Tito Livio.] A questa corrente [loriana] occorre collegare la famosa controversia sui libri perduti di Tito Livio che sarebbero stati ritrovati a Napoli qualche anno fa da un professore che acquistò cosí qualche istante di celebrità forse non desiderata. Secondo me le cause di questo scandaloso episodio sono da ricercare negli intrighi del prof. Francesco Ribezzo e nella abulía del professore in parola di cui non ricordo il nome. Questo professore pubblicava una rivista, il prof. Ribezzo un'altra rivista concorrente, ambedue inutili o quasi (ho visto la rivista del Ribezzo per molti anni e ho conosciuto il Ribezzo per quello che vale): i due si contendevano una cattedra all'Università di Napoli. Fu il Ribezzo a pubblicare nella sua rivista l'annunzio della scoperta fatta (!) dal collega, che cosí si trovò fatto centro della curiosità dei giornali e del pubblico e fu liquidato scientificamente e moralmente. Il Ribezzo non ha nessuna capacità scientifica: quando lo conobbi io, nel 1910-11 aveva dimenticato il greco e il latino quasi completamente ed era uno «specialista» di linguistica comparata arioeuropea. Questa sua ignoranza risaltava cosí manifesta che il Ribezzo ebbe frequenti conflitti violenti con gli allievi. Al Liceo di Palermo fu implicato nello scandalo dell'uccisione di un professore da parte di uno studente (mi pare nel '908 o nel '909). Mandato a Cagliari in punizione entrò in conflitto con gli studenti, conflitto che nel 1912 diventò acuto, con polemiche nei giornali, minacce di morte al Ribezzo ecc. che fu dovuto trasferire a Napoli. Il Ribezzo doveva essere fortemente sostenuto dalla camorra universitaria napoletana (Cocchia e C.). Partecipò al concorso per la cattedra di glottologia dell'Università di Torino: poiché fu nominato il Bartoli, fece una pubblicazione ridevole. ecc.

Q 3 § 105 Le noccioline americane e il petrolio. In una nota sul lorianesimo ho accennato alla proposta di un colonnello di coltivare ad arachidi 50.000 Kmq. per avere il fabbisogno italiano in olii combustibili. Si tratta del colonnello del Genio navale ingegnere Barberis, che ne parlò in una comunicazione, «Il combustibile liquido e il suo avvenire», al Congresso delle Scienze tenuto in Perugia nell'ottobre 1927. (Cfr. Manfredi Gravina, Olii, petroli e benzina, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928, nota a p. 71).

Q 3 § 111 [Luigi Valli.] Sulle interpretazioni settarie della Commedia di Dante e del dolce stil nuovo da parte di Luigi Valli, cfr. per un'informazione rapida Una nuova interpretazione delle rime di Dante e del dolce stil novo di Benedetto Migliore, nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio 1928.

Q 2 § 13 Luigi Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del dolce stil nuovo (con i precedenti di D. G. Rossetti e del Pascoli) è da porre in una determinata serie del lorianismo. Invece Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta Blondel (Lucia) oppressa dal Condorcet, donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l'Innominato, ecc.) è forse piuttosto da considerare come un «seguace» inconscio delle teorie di Freud, fenomeno curioso a sua volta per tanti aspetti. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione cfr. un articolo in «Arte e vita» del giugno 1920 e il libro postumo Enrichetta Manzoni-Blondel e il Natale del '33, Treves, 1929).

Q 28 § 3 L'ossicino di Cuvier. Esposizione del principio di Cuvier. Ma non tutti sono Cuvier e specialmente la «sociologia» non può essere paragonata alle scienze naturali. Le generalizzazioni arbitrarie e «bizzarre» vi sono estremamente piú possibili (e piú dannose per la vita pratica).

Q 28 § 7 Lorianismo nella scienza geografica. Ricordare il libro del professore Alberto Magnaghi (fuori commercio) sui geografi spropositanti. Mi pare che il libro sia un modello del genere.

Q 8 § 76 [A. O. Olivetti.] In questa rubrica mi pare di non aver registrato promemoria di A. O. Olivetti, che di diritto ci appartiene per ogni rispetto: come inventore di pensamenti genialissimi e come sconnesso e pretensioso erudito da bazar.

Q 8 § 133 Giuseppe De Lorenzo. Anche alcuni aspetti dell'attività intellettuale del De Lorenzo rientrano nella categoria del lorianismo. Tuttavia occorre con lui essere discreti.

Q 28 § 16 Domenico Giuliotti. Alla «dottrina» loriana del nesso necessario tra misticismo e sifilide fa riscontro (fino a un certo punto) Domenico Giuliotti che, nella prefazione a Profili di Santi edito dalla Casa Ed. Rinascimento del Libro, scrive: «Eppure, o edifichiamo unicamente in Cristo o, in altri modi, edifichiamo nella morte. Nietzsche, per esempio, l'ultimo anticristiano di grido, è bene non dimenticare che finí luetico e pazzo». A quanto pare, secondo il Giuliotti, Nietzsche è solo uno di una serie, si tratta di una legge, cioè, ed «è bene non dimenticare» il nesso. Giuliotti dice: state attenti, ragazzi, a non essere anticristiani, perché altrimenti morrete luetici e pazzi; e ancora: «state attente, ragazze, agli anticristiani: essi sono luetici e pazzi». (La prefazione del Giuliotti è riportata dall'«Italia Letteraria» del 15 dicembre 1929: pare che il libro sia una raccolta di vite di santi tradotte dal Giuliotti).

Q 28 § 15 Corso Bovio. Corso Bovio deve essere collocato nel quadro del lorianismo, ma occorre nello stesso tempo, ricordare di mantenere le distanze per la prospettiva. Nel quadro, Loria è un «elefante», cos'è Corso Bovio? Certi fiamminghi mettono sempre un cagnolino nei loro quadri, ma forse il cagnolino è già un animale troppo grosso e stimabile: una blatta è forse piú adeguata a rappresentare Corso Bovio.

Q 3 § 54 Emilio Bodrero. Ramo aristocratico o nazionalistico del lorianismo. Il Bodrero è professore di università, credo di materia filosofica, sebbene non sia per nulla filosofo e neppure filologo o erudito della filosofia. Apparteneva al gruppo ardigoiano. Sottosegretario all'istruzione pubblica con Fedele, cioè in una gestione della Minerva che è stata molto criticata dagli stessi elementi piú spregiudicati del partito al potere. Il Bodrero è, specificamente, autore di una circolare in cui si afferma che l'educazione religiosa è il coronamento dell'istruzione pubblica, che ha servito ai clericali per muovere all'assedio sistematico dell'organismo scolastico e che è diventata per i loro pubblicisti, l'argomentazione polemica decisiva (esposizione nell'opuscolo di Ignotus, il quale però deve ipocritamente tacere che la stessa affermazione è nel concordato). Articolo del Bodrero Itaca Italia nella «Gerarchia» del giugno 1930: stupefacente. Per il Bodrero l'Odissea è «il poema della controrivoluzione», un parallelo tra il dopo guerra troiano-greco e il dopoguerra '19-20 degno di un nuovo Bertoldo. I Proci sono... gli imboscati. Penelope è... la democrazia liberale. Il fatto che i Proci saccheggiano la dispensa di Ulisse, ne stuprano le ancelle e cercano di prendergli la moglie è una... rivoluzione. Ulisse è il... combattentismo. I Feaci sono l'Olanda o la Spagna neutrali che si arricchiscono sui sacrifizi altrui ecc. Ci sono poi delle proposizioni di metodo filologico: chi ha fatto la guerra e ha conosciuto il dopoguerra non può sostenere con sicurezza che l'Iliade e l'Odissea sono di un solo autore e sono unitarie in tutta la loro struttura (anche questa è una variazione della teoria della voce del sangue come origine e mezzo della conoscenza). Si potrebbe osservare, comicamente, che proprio Ulisse è il tipo del renitente alla leva e del simulatore di pazzia!

 

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