Antonio Gramsci

Letteratura e vita nazionale

a cura di Gerratana, Valentino
Editori riuniti, 1996

Indice1

I. Problemi di critica letteraria

Arte e cultura

Ritorno al De Sanctis (Q. 23)

Arte e lotta per una nuova civiltà (Q. 23)

Arte e cultura (Q. 23)

Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura (Q. 6)

[L'arte educatrice] (Q. 6)

Criteri di critica letteraria (Q. 15)

Critica letteraria (Q. 6)

Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali prevalenti tra i letterati (Q. 23)

Alfredo Oriani (Q. 8)

«Il libro di don Chisciotte» di E. Scarfoglio (Q. 4)

Floriano Del Secolo (Q. 6)

Croce e la critica letteraria (Q. 6)

Criteri metodici (Q. 23)

Criteri. Essere un'epoca (Q. 23)

[L'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le altre arti] (Q. 6)

Neolalismo (Q. 23)

Sincerità (o spontaneità) e disciplina (Q. 14)

[Letteratura «funzionale»] (Q. 14)

[Il razionalismo nell'architettura] (Q. 14)

È giusto che lo studio (Q. 14)

L'architettura nuova (Q. 3)

Adriano Tilgher (Q. 2)

Alcuni criteri di giudizio «letterario» (Q. 23)

Criteri metodologici (Q. 14)

Il canto decimo dell'Inferno

Quistione su «struttura e poesia» (Q. 4)

Critica dell'«inespresso»? (Q. 4)

Plinio ricorda che Timante (Q. 4)

Il disdegno di Guido (Q. 4)

La data della morte di G. Cavalcanti (Q. 4)

Vincenzo Morello. «Dante, Farinata, Cavalcante» (Q. 4)

Le «rinunzie descrittive» nella Divina Commedia (Q. 4)

[Il cieco Tiresia] (Q. 4)

[Una lettera di Umberto Cosmo] (Q. 4)

[Rastignac] (Q. 4)

Shaw e Gordon Craig (Q. 4)

Il teatro di Pirandello

Una nota giovanile di Luigi Pirandello (Q. 23)

I nipotini di padre Bresciani. Pirandello (Q. 6)

[L'«ideologia» pirandelliana] (Q. 14)

È da vedere quanto nella «ideologia» pirandelliana (Q. 14)

Sulla concezione del mondo (Q. 5)

[La personalità artistica del Pirandello] (Q. 9)

II. Il carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana

Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana

Nesso di problemi (Q. 21)

Per questa rubrica è da studiare (Q. 15)

Contenuto e forma (Q. 14)

Italia e Francia (Q. 14)

[Degenerazioni artistiche] (Q. 14)

[Letterati e «bohême» artistica] (Q. 6)

Consenso della nazione o degli «spiriti eletti» (Q. 8)

Popolarità della letteratura italiana (Q. 6)

Il gusto melodrammatico (Q. 14)

[Il melodramma] (Q. 9)

Il Cinquecento (Q. 5)

Goldoni (Q. 6)

Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana (Q. 5)

Gli «umili» (Q. 21)

Manzoni e gli «umili» (Q. 14)

Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana (Q. 7)

Adolfo Faggi (Q. 14)

«Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni (Q. 23)

[Ironia e gergo letterario] (Q. 15)

[«Contenutisti» e «calligrafi»] (Q. 15)

Il pubblico e la letteratura italiana (Q. 21)

La cultura nazionale italiana (Q. 23)

[Polemiche inconcludenti] (Q. 14)

[Ciò che è «interessante» nell'arte] (Q. 5)

Cfr. l'articolo «Dell'interesse» (Q. 6)

Cfr. l'articolo di Piero Rébora (Q. 8)

[Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese] (Q. 6)

[Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente] (Q. 8)

[Gli italiani e il romanzo] (Q. 15)

Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori (Q. 23)

[Enrico Thovez] (Q. 5)

Giovanni Cena (Q. 2)

Sul Cena è molto interessante (Q. 6)

Sull'attività svolta dal Cena (Q. 23)

Gino Saviotti (Q. 23)

La «scoperta» di Italo Svevo (Q. 23)

[Secentismo dell'attuale poesia] (Q. 17)

[Letterati puri] (Q. 3)

Poesia cosí detta sociale italiana (Q. 6)

Piedigrotta (Q. 1)

Letteratura italiana. Contributo dei burocratici (Q. 5)

Ho scritto già una nota (Q. 5)

Daniele Varé, Pagine di un diario (Q. 2)

Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia (Q. 9)

La Fiera del Libro (Q. 23)

[G. Zonta] (Q. 15)

III. Letteratura popolare

Letteratura popolare

Concetto di «nazionale-popolare» (Q. 21)

Cfr. ciò che ho scritto (Q. 6)

[Scrittori popolari] (Q. 21)

Diversi tipi di romanzo popolare (Q. 21)

Romanzo e teatro popolare (Q. 21)

Verne e il romanzo geografico-scientifico (Q. 21)

Sul romanzo poliziesco (Q. 21)

1) È da vedere il libro di Henry Jagot (Q. 21)

Derivazioni culturali del romanzo d'appendice (Q. 21)

Articolo di Andrea Moufflet (Q. 17)

A proposito di V. Hugo (Q. 2)

Origine popolaresca del «superuomo» (Q. 16)

Balzac (Q. 14)

Rilievi statistici (Q. 21)

[Gli «eroi» della letteratura popolare] (Q. 8)

[L'Ebreo errante] (Q. 7)

In un articolo di Antonio Baldini (Q. 7)

Scientismo e postumi del basso romanticismo (Q. 25)

Letteratura popolare (Q. 8)

[Le tendenze «populiste»] (Q. 6)

[Biografie romanzate] (Q. 14)

Teatro (Q. 5)

E. De Amicis e G. C. Abba (Q. 19)

Il Guerin Meschino (Q. 6)

Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli (Q. 6)

[«La Farfalla»] (Q. 6)

«Il prigioniero che canta», di Johan Bojer (Q. 17)

Luigi Capuana (Q. 23)

Ada Negri (Q. 2)

[L'episodio Salgari] (Q. 3)

Emilio De Marchi (Q. 21)

Sezione cattolica. Il gesuita Ugo Mioni (Q. 7)

La collezione «tolle et lege» (Q. 21)

Bibliografia

Carattere negativo nazionale-popolare della letteratura italiana (Q. 5)

Per le quistioni teoriche (Q. 8)

Edoardo Perino (Q. 2)

«I poeti del popolo siciliano» di Filippo Fichera (Q. 2)

Romanzi d'appendice (Q. 7)

Oscar Maria Graf (Q. 23)

P. Ginisty, «Eugène Sue» (Q. 9)

Tentativi francesi di letteratura popolare (Q. 23)

Romanzi e poesie popolaresche (Q. 5)

Occorre ricordare (Q. 23)

Cfr. Ernesto Brunetto (Q. 23)

Origine popolaresca del superuomo (Q. 16)

Wells (Q. 5)

IV. I nipotini di padre Bresciani

I nipotini di padre Bresciani

[Brescianesimo] (Q. 23)

Letteratura di guerra (Q. 23)

Vedere il cap. IX (Q. 23)

Due generazioni (Q. 23)

A molti poetuzzi odierni (Q. 14)

Parlando di Gioacchino Belli (Q. 14)

Ugo Ojetti e i gesuiti (Q. 5)

Ricercare il giudizio (Q. 23)

Alfredo Panzini (Q. 23)

Nell'«Italia che scrive» del giugno 1929 (Q. 23)

La traduzione delle «Opere e i Giorni» (Q. 5)

La «Vita di Cavour» del Panzini (Q. 23)

G. Papini (Q. 17)

Nel marzo 1932 Papini ha scritto (Q. 8)

È da vedere la conferenza «Carducci» (Q. 17)

Papini come apprendista gesuita (Q. 8)

È da notare come gli scrittori (Q. 23)

Il cattolicismo atteggia lo stile (Q. 8)

G. Papini, quando voleva (Q. 23)

Nell'«Italia Letteraria» del 27 agosto 1933 (Q. 17)

Prezzolini (Q. 23)

L'articolo in cui Prezzolini (Q. 1)

Articolo di Prezzolini (Q. 23)

Luca Beltrami (Polifilo) (Q. 23)

Bellonci e Crémieux (Q. 23)

Goffredo Bellonci (Q. 1)

Giovanni Ansaldo (Q. 23)

Curzio Malaparte (Q. 23)

Vedi nell'«Italia Letteraria» (Q. 23)

L'accademia dei Dieci (Q. 3)

«La Fiera letteraria» divenuta poi «L'Italia letteraria» (Q. 1)

La «Fiera Letteraria» (Q. 5)

Adelchi Baratono (Q. 23)

I futuristi (Q. 1)

Novecentisti e strapaesani (Q. 23)

Novecentismo di Bontempelli (Q. 23)

Stracittà e strapaese (Q. 6)

Riccardo Bacchelli (Q. 23)

Jahier, Raimondi e Proudhon (Q. 23)

Enrico Corradini (Q. 5)

Saranno da vedere i giornali (Q. 7)

Antonio Fradeletto (Q. 23)

Mario Puccini (Q. 23)

Ardengo Soffici (Q. 7)

Giulio Bechi (Q. 23)

Cfr. l'articoletto di Croce (Q. 8)

Lina Pietravalle (Q. 23)

Una sfinge senza enigmi (Q. 9)

Ugo Bernasconi (Q. 15)

Ignobile pigiama (Q. 1)

Riccardo Balsamo-Crivelli (Q. 1)

Tommaso Gallarati Scotti (Q. 23)

Cardarelli e la «Ronda» (Q. 5)

Valentino Piccoli (Q. 6)

Intellettuali siciliani (Q. 1)

[Gli animali poveri] (Q. 8)

Ritratto del contadino italiano (Q. 6)

«Arte Cattolica» (Q. 23)

Scrittori «tecnicamente» cattolici (Q. 23)

Scrittori «tecnicamente» brescianeschi (Q. 5)

Per questi scrittori (Q. 23)

Alessandro Luzio (Q. 8)

Filippo Crispolti (Q. 5)

Ho già notato (Q. 6)

In un articolo pubblicato nel «Momento» (Q. 23)

Un famoso parabolano arruffone (Q. 1)

Angelo Gatti (Q. 6)

Bruno Cicognani (Q. 6)

Su Bruno Cicognani (Q. 23)

Arnaldo Frateili (Q. 23)

Sentimento religioso e intellettuali del secolo XIX (fino alla guerra mondiale) (Q. 16)

Note bibliografiche

Intellettuali italiani. Carducci (Q. 3)

Nicola Zingarelli (Q. 2)

I nipotini del padre Bresciani (Q. 8)

Maddalena Santoro (Q. 23)

Amy A. Bernardy (Q. 2)

V. Lingua nazionale e grammatica

Note per una introduzione allo studio della grammatica

Saggio del Croce. Questa tavola rotonda è quadrata (Q. 29)

Quante forme di grammatica possono esistere? (Q. 29)

Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali (Q. 29)

Diversi tipi di grammatica normativa (Q. 29)

Grammatica storica e grammatica normativa (Q. 29)

Grammatica e tecnica (Q. 29)

La cosí detta «quistione della lingua» (Q. 29)

Linguistica

Giulio Bertoni e la linguistica (Q. 3)

È stupefacente la recensione (Q. 6)

Antonio Pagliaro, «Sommario di linguistica arioeuropea» (Q. 6)

[La lingua in Dante] (Q. 5)

Del Bartoli, «Quistioni linguistiche e diritti nazionali» (Q. 29)

VI. Osservazioni sul folclore

Osservazioni sul folclore

Giovanni Crocioni (Q. 27)

«Diritto naturale» e folclore (Q. 27)

[Preistoria contemporanea] (Q. 9)

[I canti popolari] (Q. 5)

Appendice Cronache teatrali

1916

«La falena» di Bataille al Carignano

Dina Galli all'Alfieri

«Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti all'Alfieri

«Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano

Un commediografo dialettale

«L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini

Emma Gramatica al Carignano

La compagnia Ruggeri al Carignano

«Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri

«Il piccolo santo» di Bracco al Carignano

«Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri

L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano

«Il signor di Courpières» di Hermant al Carignano

La serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano

Serata in onore di R. Ruggeri

La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri

Ermete Novelli all'Alfieri

«Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero all'Alfieri

Teatro inglese

«L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano

«La prigioniera» di Poggio al Carignano

Olga Vittoria Gentilli

«L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri

Il Grand-Guignol al Carignano

«Quacquarà» di Capuana all'Alfieri

«La malquerida» di Benavente al Carignano

Angelo Musco all'Alfieri

Alfredo Sainati al Carignano

«Il titano» di Niccodemi al Carignano

Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al Carignano

In un saggio recentissimo su Shakespeare

Vedere proiettata sulla scena

Sfogo necessario

Tina Bondi al Carignano

Melanconie...

Teatro e cinematografo

«Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans al Carignano

Sichel

Giulio Tempesti al Chiarella

«Le due sponde» di Poggio all'Alfieri

«Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano

«Robespierre» di Sardou al Carignano

«La nemica» di Niccodemi al Carignano

«La mare» allo Scribe

Armando Falconi

«... e chi vive si dà pace» di Novelli al Carignano

«Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe

Tina Di Lorenzo

«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri

1917

«Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri

«L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona Traversi al Carignano

Luigi Carini

«Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano

L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs d'mia fômna» di Leoni)

«Piccolo harem» di Costa al Carignano

«La marea» di Hastings al Carignano

«L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri

«Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano

In principio era il sesso...

«La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri

«All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano

«L'amazzone» di Bataille al Carignano

Il tramonto di Guignol

La serata di Emma Gramatica al Carignano

«U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri

La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al Carignano)

«Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri

«Liolà» di Pirandello all'Alfieri

«Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano

«Scuru» di Martoglio all'Alfieri

«La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano

L'industria teatrale

L'industria teatrale

Ancora i fratelli Chiarella

L'industria teatrale

Continuazione della vita

Contrasti

«Cosí è (se vi pare)» di Pirandello

Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al Carignano)

«Mimí» di Fraccaroli al Carignano

«Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano

Ruggero Ruggeri

«L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri

«Il piacere dell'onestà» di Pirandello al Carignano

1918

«Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano

Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al Carignano)

«Fum e Fiame» di Leoni al Rossini

«La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al Carignano

«A 'berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello all'Alfieri

«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella

«Il nuovo falco» di Teglio al Carignano

«Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri

«Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano

«Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri

«Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano

Angelo Musco

Giosuè Borsi

«Occhi consacrati» di Bracco al Carignano

«Marionette che passione!...» di Rosso di San Secondo al Carignano

«Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano

«Racanaca» di Villauri all'Alfieri

Virgilio Talli

«S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri

«La dame de chambre» di Gandera al Carignano

«Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano

«Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano

«L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli al Carignano

«Il marito ideale» di Wilde al Carignano

«Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano

«Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri

«Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano

«Le galere» di Tumiati all'Alfieri

«La signora innamorata» di Berrini al Carignano

«La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano

1919

«Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle all'Alfieri

«Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano

«Una donna qualunque» di Wilde al Carignano

«Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano

«L'arch an cel» di Leoni al Rossini

«Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri

«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano

La serata della Vergani al Carignano

«U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri

«L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano

«Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri

«La ca 'veuida» di Nicola al Rossini

«L'innesto» di Pirandello al Carignano

«Fedeltà» di Calzini al Carignano

«Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri

«La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano

«L'intesa» di Rocca e «La trappola sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri

«La volata» di Niccodemi al Chiarella

Gli spettacoli al Teatro del Popolo

«I giocatori» di Poggio al Carignano

«La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella

«L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano

«Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella

«Nino er boja» di Monaldi allo Scribe

«La nostra immagine» di Bataille al Carignano

«Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella

«Il silenzio» di Pescetti al Carignano

«Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella

Emma Gramatica

«Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo

«Addio sogno» di Motta al Carignano

«Il soldato millantatore» («Miles gloriosus») di Plauto al Carignano

«Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri

«La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella

«Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella

1920

«La principessa» di Géraldy al Carignano

«La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano

«La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano

«Io prima di te» di Veneziani al Carignano

«Chimere» di Chiarelli al Carignano

«Pane altrui» di Turghenieff al Balbo

«Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri

«La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe

«Il beffardo» di Berrini al Regio

«Come prima, meglio di prima» di Pirandello al Carignano

«L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al Carignano

«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella

«Gli interessi creati» di Benavente al Balbo

«Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo

«Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano

«Il bell'Apollo» di Praga al Carignano

«Anfissa» di Andreieff al Carignano

«Glauco» di Morselli al Carignano

Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli, «Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez)

Indice dei nomi

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1 Il numero che segue ciascun titolo indica il quaderno in cui si trova la nota nell'edizione critica.

I. Problemi di critica letteraria

Arte e cultura

Ritorno al De Sanctis. Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare la parola d'ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo al De Sanctis!»? (cfr. tra l'altro il 1° numero del settimanale «Il Quadrivio»). Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all'arte e alla letteratura, o significa assumere verso l'arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi? Posto questo atteggiamento come «esemplare», è da vedere: 1) in che sia consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l'attività del De Sanctis e le impressero una determinata direzione.

Né si può dire che la biografia del De Sanctis, pur essendo essenzialmente coerente, sia stata «rettilinea», come volgarmente s'intende. Il De Sanctis, nell'ultima fase della sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al romanzo «naturalista» o «verista» e questa forma di romanzo, nell'Europa occidentale, fu l'espressione «intellettualistica» del movimento piú generale di «andare al popolo», di un populismo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l'avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana. Del De Sanctis è da ricordare il saggio Scienza e Vita, il suo passaggio alla sinistra parlamentare, il suo timore di tentativi forcaioli velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis: «Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura». Ma cosa significa «cultura» in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale, «concezione della vita e dell'uomo», una «religione laica», una filosofia che sia diventata appunto «cultura», cioè che ha generato un'etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l'unificazione della «classe colta», e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del «Circolo filologico» che avrebbe dovuto determinare «l'unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è «nazionale», diverso da quello della destra storica, piú ampio, meno esclusivista, meno «poliziesco» per cosí dire. È questo lato dell'attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività che d'altronde non era nuovo ma rappresentava lo sviluppo di germi già esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico.

Arte e lotta per una nuova civiltà. Il rapporto artistico mostra, specialmente nella filosofia della prassi, la fatua ingenuità dei pappagalli che credono di possedere in poche formulette stereotipate, la chiave per aprire tutte le porte (queste chiavi si chiamano propriamente «grimaldelli»). Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l'altro un semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, piú o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro campo: in quello della critica politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo; non è critica e storia dell'arte, e non può essere presentato come tale, pena il confusionismo e l'arretramento o la stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta culturale.

Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista «personalità», è un «momento» dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una «punta» storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il momento dato, chi rappresenta questa attività predominante, questa «punta» storica; ma come giudicare chi rappresenta le altre attività, gli altri elementi? Non sono «rappresentativi» anche questi? E non è «rappresentativo» del «momento» anche chi ne esprime gli elementi «reazionari» e anacronistici? Oppure sarà da ritenersi rappresentativo chi esprimerà tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni dell'insieme storico-sociale?

Si può anche pensare che una critica della civiltà letteraria, una lotta per creare una nuova cultura, sia artistica nel senso che dalla nuova cultura nascerà una nuova arte, ma ciò appare un sofisma. In ogni modo è forse partendo da tali presupposti che si può intendere meglio il rapporto De Sanctis-Croce e le polemiche sul contenuto e la forma. La critica del De Sanctis è militante, non «frigidamente» estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della «struttura» delle opere; cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis, che rendono tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico che nel De Sanctis erano organicamente uniti e fusi. Nel Croce vivono gli stessi motivi culturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e del loro trionfo; continua la lotta, ma per un raffinamento della cultura (di una certa cultura) non per il suo diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Ma anche nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis.

Insomma, il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): in essa devono fondersi la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo.

In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano subalterno, la fase della «Voce». Il De Sanctis lottò per la creazione ex novo in Italia di un'alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo (Guerrazzi e il padre Bresciani): la «Voce» lottò solo per la divulgazione, in uno strato intermedio, di quella stessa cultura, contro il provincialismo ecc. ecc.: la «Voce» fu un aspetto del crocismo militante, perché volle democratizzare ciò che necessariamente era stato «aristocratico» nel De Sanctis e si era mantenuto «aristocratico» nel Croce. Il De Sanctis doveva formare uno Stato Maggiore culturale, la «Voce» volle estendere agli ufficiali subalterni lo stesso tono di civiltà e perciò ebbe una funzione, lavorò nella sostanza e suscitò correnti artistiche, nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi, suscitò un maggior bisogno di interiorità e di espressione sincera di essa, anche se dal movimento non fu espresso nessun grande artista.

(Scritto da Raffaello Ramat nell'«Italia Letteraria» del 4 febbraio 1934: «È stato detto che per la storia della cultura a volte può maggiormente servire lo studio di uno scrittore minore che quello d'un sommo; e in parte è pur vero: perché se in questo – nel sommo – stravince l'individuo, che finisce col non esser piú di alcun tempo, e potrebbe darsi il caso – come s'è dato – di attribuire al secolo qualità proprie dell'uomo; in quello, nel minore, pur che sia uno spirito attento e autocritico, è dato scorgere i momenti della dialettica di quella particolare cultura con chiarezza maggiore, in quanto non riescono, come nel sommo, a «unificarsi»).

Il problema qui accennato trova un riscontro per assurdo nell'articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura, nell'«Italia Letteraria» del 6 aprile 1930 (sesto capitolo di uno studio panoramico intitolato 1900-1930 che sarà probabilmente raccolto in volume e che occorrerà tener presente per «I nipotini del padre Bresciani»). In questa serie di articoli il Gargiulo mostra il piú completo esaurimento intellettuale (uno dei tanti giovani senza «maturità»): egli si è completamente incanagliato nella banda dell'«Italia Letteraria» e nel capitolo citato assume come proprio questo giudizio espresso da G. B. Angioletti nella prefazione all'antologia Scrittori Nuovi compilata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini: «Gli scrittori di questa Antologia sono dunque nuovi non perché abbiano trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt'altro; lo sono perché hanno dell'arte un'idea diversa da quella degli scrittori che li precedettero. O, per venir subito all'essenziale, perché credono all'arte, mentre quelli credevano a molte altre cose che con l'arte nulla avevano a che vedere. Tale novità, perciò, può consentire la forma tradizionale e il contenuto antico; ma non può consentire deviamenti dall'idea essenziale dell'arte. Quale possa essere questa idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma mi sia consentito ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione (!) che per essere stata silenziosa (!) non sarà meno memorabile (!), intendono di essere soprattutto artisti, laddove i loro predecessori si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologisti, edonisti, ecc.». Il discorso non è molto chiaro e ordinato: se qualcosa di concreto se ne può estrarre è la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro. Questa concezione dell'artista è un nuovo «guardarsi la lingua» nel parlare, è un nuovo modo di costruire «concettini». E puri costruttori di concettini, non di immagini, sono i piú dei poeti esaltati dalla «banda», con a capo Giuseppe Ungaretti (che tra l'altro scrive una lingua sufficientemente infranciosata e impropria). Il movimento della «Voce» non poteva creare artisti, ut sic, è evidente; ma lottando per una nuova cultura, per un nuovo modo di vivere, indirettamente promuoveva anche la formazione di temperamenti artistici originali, poiché nella vita c'è anche l'arte. La «rivoluzione silenziosa» di cui parla l'Angioletti è stata solo una serie di confabulazioni da caffè e di mediocri articoli di giornale standardizzato e di rivistucole provinciali. La macchietta del «sacerdote dell'arte» non è una grande novità anche se muta il rituale.

Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una «nuova cultura» e non per una «nuova arte» (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell'arte, perché questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d'arte possibili». Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso.

Cosí non si può dire che si formerà una nuova «aura poetica», secondo una frase che è stata di moda qualche anno fa. L'«aura poetica» è solo una metafora per esprimere l'insieme degli artisti già formatisi e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già consolidato di formazione e rivelazione.

Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura. Cfr. nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del seicento (1931), il capitolo in cui parla delle accademie gesuitiche di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create in Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito Fülöp-Miller). Ma perché non le avvicina alle botteghe di pittura e di scultura del '400-500? Erano anche quelle «accademie gesuitiche»? E perché ciò che si faceva per la pittura e la scultura non potrebbe farsi per la poesia? Il Croce non tiene conto dell'elemento sociale che «vuole avere» una propria poesia, elemento «senza scuola», cioè che non si è impadronito della «tecnica» e dello stesso linguaggio: in realtà si tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto e crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore che «copia» un quadro di Raffaello fa «accademia gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala» nell'arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché non potrebbero farsi esercizi di versificazione fra operai? Non servirà ciò a educare l'orecchio alla musicalità del verso, ecc.?

[L'arte educatrice] «L'arte è educatrice in quanto arte, ma non in quanto "arte educatrice", perché in tal caso è nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che tutti concordemente desideriamo un'arte che somigli a quella del Risorgimento e non, per esempio, a quella del periodo dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo desiderio non c'è il desiderio di un'arte a preferenza di un'altra, sí bene di una realtà morale a preferenza di un'altra. Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella anziché una brutta persona, non si augura già uno specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa». (Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169-70; cap. Fede e programmi del 1911).

«Quando un'opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con l'imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere; per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica, il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede l'intervento dell'elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale. I piú alti critici di poesia ammoniscono, in questo caso, di non ricorrere a ricette letterarie, ma, com'essi dicono, di "rifare l'uomo". Rifatto l'uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di affetti, da essa sorgerà, se sorgerà, una nuova poesia». (B. Croce, Cultura e Vita morale, pp. 241-42; capitolo Troppa filosofia del 1922).

Questa osservazione può essere propria del materialismo storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per «partenogenesi» ma per l'intervento dell'elemento «maschile» – la storia –l'attività rivoluzionaria che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti sociali.

Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio «uomo», per il cambiamento, diventa anch'esso «nuovo», poiché entra in nuovi rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il «nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al «canto del cigno» del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia un po' il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?)

Criteri di critica letteraria. Il concetto che l'arte è arte e non propaganda politica «voluta» e proposta, è poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate correnti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che contribuiscano a rafforzare determinate correnti politiche? Non pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in termini piú radicali e di una critica piú efficiente e conclusiva. Posto il principio che nell'opera d'arte sia solamente da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli nell'opera d'arte stessa. Anzi che ciò sia ammesso dalle moderne correnti estetiche si vede nel De Sanctis e nello stesso Croce. Ciò che si esclude è che un'opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato. Ancora si ricerca se un'opera d'arte non sia fallita perché l'autore sia stato deviato da preoccupazioni pratiche esteriori, cioè posticce e insincere. Questo pare il punto cruciale della polemica: Tizio «vuole» esprimere artificiosamente un determinato contenuto e non fa opera d'arte. Il fallimento artistico dell'opera d'arte data (poiché Tizio ha dimostrato di essere artista in altre opere da lui realmente sentite e vissute) dimostra che quel tale contenuto in Tizio è materia sorda e ribelle, che l'entusiasmo di Tizio è fittizio e voluto esteriormente, che Tizio in realtà non è, in quel determinato caso, artista, ma servo che vuol piacere ai padroni. Ci sono dunque due serie di fatti: uno di carattere estetico, o di arte pura, l'altro di politica culturale (cioè di politica senz'altro). Il fatto che si giunge a negare il carattere artistico di un'opera può servire al critico politico come tale per dimostrare che Tizio come artista non appartiene a quel determinato mondo politico, e poiché la sua personalità è prevalentemente artistica, che nella sua vita intima e piú sua, quel determinato mondo non opera, non esiste: Tizio pertanto è un commediante della politica, vuol far credere di essere ciò che non è ecc. ecc. Il critico politico dunque denuncia Tizio, non come artista, ma come «opportunista politico». Che l'uomo politico faccia una pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica: se il mondo culturale per il quale si lotta è un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d'accordo con loro. Lo stesso modo di porre la quistione può essere un indizio della saldezza di un tal mondo morale e culturale: e infatti il cosí detto «calligrafismo» non è che la difesa di piccoli artisti che opportunisticamente affermano certi principii ma si sentono incapaci di esprimerli artisticamente cioè nell'attività loro propria e allora vaneggiano di pura forma che è il suo stesso contenuto ecc. ecc. Il principio formale della distinzione delle categorie spirituali e della loro unità di circolazione, pur nel suo astrattismo, permette di cogliere la realtà effettuale e di criticare l'arbitrarietà e la pseudovita di chi non vuole giocare a carte scoperte o è semplicemente un mediocre che è stato dal caso posto a un luogo di comando.

Critica letteraria. Nel fascicolo del marzo 1933 dell'«Educazione Fascista» l'articolo polemico di Argo con Paul Nizan (Idee d'oltre confine) a proposito della concezione di una nuova letteratura che sorga da un integrale rinnovamento intellettuale e morale. Il Nizan pare ponga bene il problema quando comincia dal definire che cosa è un integrale rinnovamento delle premesse culturali e limita il campo della ricerca stessa. L'unica obbiezione fondata di Argo è questa: l'impossibilità di saltare uno stadio nazionale, autoctono della nuova letteratura e i pericoli «cosmopolitici» della concezione del Nizan. Da questo punto di vista molte critiche del Nizan a gruppi di intellettuali francesi sono da rivedere: «N. R. F.», il «populismo» ecc., fino al gruppo del «Monde», non perché le critiche non colpiscano giusto politicamente, ma appunto perché è impossibile che la nuova letteratura non si manifesti «nazionalmente» in combinazioni e leghe diverse, piú o meno ibride. È tutta la corrente che occorre esaminare e studiare, obbiettivamente. D'altronde per il rapporto tra letteratura e politica, occorre tener presente questo criterio: che il letterato deve avere prospettive necessariamente meno precise e definite che l'uomo politico, deve essere meno «settario» se cosí si può dire, ma in modo «contraddittorio». Per l'uomo politico ogni immagine «fissata» a priori è reazionaria: il politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L'artista deve invece avere immagini «fissate» e colate nella loro forma definitiva. Il politico immagina l'uomo come è e nello stesso tempo come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a «conformarsi» al fine. L'artista rappresenta necessariamente «ciò che è» in un certo momento di personale, di non conformista ecc., realisticamente. Perciò dal punto di vista politico, il politico non sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale. Se la storia è un continuo processo di liberazione e di autocoscienza, è evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come cultura, sarà subito superato e non interesserà piú. Di ciò mi pare occorra tener conto nel valutare i giudizi del Nizan sui diversi gruppi.

Ma da un punto di vista obiettivo, come ancora oggi per certi strati della popolazione è «attuale» Voltaire, cosí possono essere attuali, e anzi lo sono, questi gruppi letterari e le combinazioni che essi rappresentano: obiettivo vuol dire, in questo caso, che lo sviluppo del rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali, tutt'altro: ancora oggi, giova ripeterlo, molti sono tolemaici e non copernicani. (Esistono molti «conformismi», molte lotte per nuovi conformismi, e combinazioni diverse tra ciò che è, variamente atteggiato, e ciò chi si lavora a far diventare, e sono molti che lavorano in questo senso). Porsi dal punto di vista di una «sola» linea di movimento progressivo, per cui ogni acquisizione nuova si accumula e diventa la premessa di nuove acquisizioni, è grave errore: non solo le linee sono molteplici, ma si verificano anche dei passi indietro nella linea «piú» progressiva. Inoltre il Nizan non sa porre la quistione della cosí detta «letteratura popolare», cioè della fortuna che ha in mezzo alle masse nazionali la letteratura da appendice (avventurosa, poliziesca, gialla ecc.), fortuna che è aiutata dal cinematografo e dal giornale. Eppure è questa quistione che rappresenta la parte maggiore del problema di una nuova letteratura in quanto espressione di un rinnovamento intellettuale e morale: perché solo dai lettori della letteratura d'appendice si può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per creare la base culturale della nuova letteratura. Mi pare che il problema sia questo: come creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d'appendice come Dostojevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace ecc. Bisogna a questo scopo abbandonare molti pregiudizi, ma specialmente occorre pensare che non si può avere il monopolio, non solo, ma che si ha di contro una formidabile organizzazione d'interessi editoriali. Il pregiudizio piú comune è questo: che la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo. La premessa della nuova letteratura non può non essere storico-politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell'humus della cultura popolare cosí come è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e convenzionale.

Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali prevalenti tra i letterati. Per quali forme di attività hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l'attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d'arte si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del «dominio», del «comando» di un «eroe» sui produttori che interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi motivo di volate oratorie. La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò la «contadina» ha ancora piú spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto piú esterno e romantico e perché la donna con la sua bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori.

Il lavoro dell'impiegato è fonte inesausta di comicità: in ogni impiegato si vede l'Oronzo E. Marginati del vecchio «Travaso». Il lavoro dell'intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua espressione di «eroismo» e di «superumanismo», con l'effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano «genii» della loro propria taglia e, si sa, se un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi intelligente.

Non si può certo imporre a una o a piú generazioni di scrittori di aver «simpatia» per uno o altro aspetto della vita, ma che una o piú generazioni di scrittori abbiano certi interessi intellettuali e morali e non altri ha pure un significato, indica che un certo indirizzo culturale predomina fra gli intellettuali. Anche il verismo italiano si distingue dalle correnti realistiche degli altri paesi, in quanto o si limita a descrivere la «bestialità» della cosí detta natura umana (un verismo in senso gretto) oppure rivolge la sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che era l'Italia reale in contrasto con l'Italia «moderna» ufficiale: non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro e della fatica. Per gli intellettuali della tendenza verista la preoccupazione assillante non fu (come in Francia) di stabilire un contatto con le masse popolari già «nazionalizzate» in senso unitario, ma di dare gli elementi da cui appariva che l'Italia reale non era ancora unificata: del resto c'è differenza tra il verismo degli scrittori settentrionali e di quelli meridionali (per esempio Verga, nel quale il sentimento unitario era molto forte, come appare dall'atteggiamento assunto nel 1920 verso il movimento autonomista di «Sicilia Nuova»).

Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna di epos l'attività produttiva che pure rappresenta tutta la vita degli elementi attivi della popolazione: quando se ne occupano, il loro atteggiamento è quello del Padre Bresciani.

(Sono da vedere gli scritti di Luigi Russo sul Verga e su G. C. Abba). G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di scrittore «nazionale-popolare», pur non essendo «popolaresco» e non facendo parte di nessuna corrente che critichi per ragioni di partito o settarie la posizione della classe dirigente. Sono da analizzare non solo gli scritti dell'Abba che hanno valore poetico, ma anche gli altri, come quello rivolto ai soldati, che fu premiato dalle autorità governative e militari e per qualche tempo fu diffuso nell'esercito. Nella stessa direzione è da ricordare il saggio del Papini pubblicato in «Lacerba» dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa è troppo astratta e oratoria, e deturpata dal suo titanismo di genio incompreso. Qualcosa è notevole nell'opera di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il Proudhon), anche di carattere popolare-militare, mal condita però dallo stile biblico e claudelliano dello scrittore, che spesso lo rende meno efficace e indisponente, perché maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere «nazionale-popolare» come programma, ma lo è appunto per programma, ciò che la ha resa una manifestazione deteriore della cultura: il Longanesi deve anche aver scritto un libriccino per le reclute, ciò che dimostra come le scarse tendenze nazionali-popolari nascano forse piú che altro da preoccupazioni militari). La preoccupazione nazionale-popolare nell'impostazione del problema critico-estetico e morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto su i Narratori) come risultato di un «ritorno» alle esperienze del De Sanctis dopo il punto d'arrivo del crocianesimo.

È da osservare che il brescianesimo in fondo è individualismo antistatale e antinazionale anche quando e quantunque si veli di nazionalismo e statalismo frenetico. «Stato» significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali; è quindi necessario un «contatto» sentimentale e ideologico con tali moltitudini e, in una certa misura, simpatia e comprensione dei loro bisogni e delle loro esigenze. Ora, l'assenza di una letteratura nazionale-popolare, dovuta all'assenza di preoccupazioni e di interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il «mercato» letterario aperto all'influsso di gruppi intellettuali di altri paesi, che «popolari-nazionali» in patria, lo diventano in Italia perché le esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia. Cosí il popolo italiano si è appassionato, attraverso il romanzo storico-popolare francese (e continua ad appassionarsi, come dimostrano anche i piú recenti bollettini librari), alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e conosce la figura popolaresca di Enrico IV piú che quella di Garibaldi, la Rivoluzione del 1789 piú che il Risorgimento, le invettive di Victor Hugo contro Napoleone III piú che le invettive dei patrioti italiani contro Metternich; si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente piú francese che italiano.

Per l'indirizzo nazionale-popolare dato dal De Sanctis alla sua attività critica, è da vedere l'opera di Luigi Russo: Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, Ed. La Nuova Italia, 1928 e il saggio del De Sanctis La Scienza e la Vita. Si può forse dire che il De Sanctis abbia fortemente sentito il contrasto «Riforma-Rinascimento», cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale-statale e abbia cercato di reagire contro di esso. Ecco perché ad un certo punto si stacca dall'idealismo speculativo e si avvicina al positivismo e al verismo (simpatie per Zola, come il Russo per Verga e Di Giacomo). Come pare osservi il Russo nel suo libro (cfr. la recensione di G. Marzot, nella «Nuova Italia» del maggio 1932) «il segreto dell'efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato [...]; e nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un'attività piú vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso discorso La Scienza e la Vita».

L'antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha nessun significato politicamente rilevante e coerente; è la forma di opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale.

Alfredo Oriani. Occorre studiarlo come il rappresentante piú onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione. La sua posizione non è però critica-ricostruttiva, e quindi tutti i motivi della sua sfortuna e dei suoi fallimenti. In realtà a chi si richiamava l'Oriani? Non alle classi dominanti, da cui tuttavia si attendeva riconoscimenti e onori, nonostante le sue diatribe corrosive. Non ai repubblicani, cui tuttavia si apparenta la sua forma mentale recriminatoria. La Lotta politica sembra il manifesto per un grande movimento democratico nazionale popolare, ma l'Oriani è troppo imbevuto di filosofia idealistica, quale si venne foggiando nell'epoca della Restaurazione, per saper parlare al popolo come capo e come eguale nello stesso tempo, per far partecipare il popolo alla critica di se stesso e delle sue debolezze senza tuttavia fargli perdere la fede nella propria forza e nel proprio avvenire. La debolezza dell'Oriani è in questo carattere meramente intellettuale delle sue critiche, che creano una nuova forma di dottrinarismo e di astrattismo. Tuttavia vi è un movimento abbastanza sano di pensiero che si dovrebbe approfondire. La fortuna di Oriani in questi ultimi tempi è piú un'imbalsamazione funeraria che un'esaltazione di nuova vita del suo pensiero.

Il libro di don Chisciotte di E. Scarfoglio (Alfredo Oriani). È un episodio della lotta per svecchiare la cultura italiana e sprovincializzarla. In sé il libro è mediocre. Vale per il tempo e perché forse è stato il primo tentativo del genere.

Dovendo scrivere su Oriani è da notare il brano che gli dedica lo Scarfoglio (p. 227 dell'edizione Mondadori, 1925). Per lo Scarfoglio (che scrive verso il 1884) l'Oriani è un debole, uno sconfitto, che si consola atterrando tutto e tutti: «Il signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di fantasmi malamente e fiaccamente formati; di piú, l'instrumento della lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani». È interessante una citazione, forse dal libro Quartetto, in cui Oriani scrive: «Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai né scenderò mai alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto». Questo tratto mi pare fondamentale del carattere di Oriani, che era un velleitario, sempre scontento di tutti perché nessuno riconosceva il suo genio e che, in fondo, rinunziava a combattere per imporsi, cioè aveva egli stesso una ben strana stima di sé. È uno pseudo-titano; e nonostante certe sue innegabili doti, prevale in lui il «genio incompreso» di provincia che sogna la gloria, la potenza, il trionfo, proprio come la signorina sogna il principe azzurro.

Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia di Oriani. Con lettere inedite, nel «Pègaso» dell'ottobre 1930.

Appare l'Oriani nella cosí detta «tragedia» della sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal pubblico nazionale, di apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani «incompreso», o si trattava di una sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è Oriani diventato «popolare», «maestro di vita», ecc.? Molto si pubblica su di lui, ma l'edizione nazionale delle sue opere è comprata e letta? C'è da dubitarne. Oriani e Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente piú attuale di Oriani. Perché Oriani non riuscí a formarsi una scuola, un gruppo di discepoli, perché non organizzò una rivista? Voleva essere «riconosciuto» senza sforzo da parte sua (oltre ai lamenti presso gli amici piú intimi). Mancava di volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita politica e morale della nazione. Ciò che lo rendeva antipatico a molti doveva essere appunto questo giudizio istintivo che si trattava di un velleitario che voleva essere pagato prima d'aver compiuto l'opera, che voleva esser riconosciuto «genio», «capo», «maestro», per un diritto divino da lui affermato perentoriamente. Certo Oriani deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti piú bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale.

Croce e la critica letteraria. L'estetica di Croce sta diventando normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l'articolo sull'estetica dell'ultima edizione dell'Encyclopedia Britannica). Un'affermazione di essa dice che compito precipuo dell'estetica moderna ha da essere «la restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell'arte, contro quello affettivo, che l'arte ha per istituto di risolvere in sé». Questo brano mostra quali siano le preoccupazioni «morali» del Croce, oltre che le sue preoccupazioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali» e quindi «politiche». Si potrebbe domandare se l'estetica, come scienza, possa avere altro compito oltre quello di elaborare una teoria dell'arte e della bellezza, dell'espressione. Qui estetica significa «critica in atto» in «concreto», ma la critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell'arte in concreto, delle «espressioni artistiche individuali»?

Criteri metodici. Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l'attività critica normale non può avere prevalentemente carattere «culturale» ed essere una critica di «tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.

E in questo caso, come scegliere l'opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all'arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell'organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di «non poesia» e non di «poesia», diventerebbe stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una caccia all'uomo, oppure potrebbe essere ritenuta «casuale» e quindi irrilevante. Pare certo che l'attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell'opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale. Sulla scelta: il criterio piú semplice, oltre l'intuizione del critico e l'esame sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e quasi impossibile da farsi individualmente, pare quello della «fortuna libraria», intesa in due sensi: «fortuna di lettori» e «fortuna presso gli editori» che in certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da organi governativi, ha pure il suo significato perché indica quale indirizzo lo Stato vorrebbe dare alla cultura nazionale. Partendo dai criteri della estetica crociana, si presentano gli stessi problemi: poiché «frammenti» di poesia possono trovarsi da per tutto, nell'«Amore Illustrato» come nell'opera di scienza strettamente specializzata, il critico dovrebbe conoscere «tutto» per essere in grado di rilevare la «perla» nel brago. In realtà ogni singolo critico sente di appartenere a una organizzazione di cultura che opera come insieme; ciò che sfugge a uno viene «scoperto» e segnalato da un altro ecc. Anche il dilagare dei «premi letterari» non è che una manifestazione, piú o meno bene organizzata, con maggiori o minori elementi di frode, di questo servizio di «segnalazione» collettiva della critica letteraria militante.

È da notare che in certi periodi storici l'attività pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di una nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione all'edizione francese dell'autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita una teoria sociologica su questa base, per giustificare l'assenza, negli Stati Uniti, di una fioritura culturale umanistica e artistica. In ogni caso questa teoria, per avere almeno un'apparenza di giustificazione, deve essere in grado di mostrare una vasta attività creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza risposta la quistione: se questa attività «poetico-creativa» esiste ed è vitale, esaltando tutte le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi dell'uomo, come non esalta l'energia letteraria e non crea un'epica? Se ciò non avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti di energie «burocratiche», di forze non espansive universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che i costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta, concepissero liricamente il loro lavoro? Ciò che è da rilevare è che le forze che dirigono questa grandiosa attività pratica, non sono repressive solo nei confronti del lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono repressive universalmente, ciò che appunto è tipico e fa sí che una certa energia letteraria, come in America, si manifesti nei refrattari all'organizzazione dell'attività pratica che si vorrebbe gabellare come «epica» in se stessa. Tuttavia la situazione è peggiore dove alla nullità artistica non corrisponde neanche un'attività pratico-strutturale di una certa grandiosità e si giustifica la nullità artistica con un'attività pratica che si «verificherà» e a sua volta produrrà un'attività artistica.

In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei confronti dei propri avversari, ma in quanto scatena forze latenti, le potenzia, le esalta, è espansiva e l'espansività è di gran lunga il suo carattere distintivo. Le restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in special modo le restaurazioni che avvengono nell'epoca attuale, sono universalmente repressive: il «padre Bresciani», la letteratura brescianesca diventa predominante. La psicologia che ha preceduto una tale manifestazione intellettuale è quella creata dal panico, da una paura cosmica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono quindi controllare altro che con una universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della sua fase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà e i sentimenti: la libertà e la spontaneità creatrice spariscono e rimane l'astio, lo spirito di vendetta, l'accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica, negazione implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell'Ebreo di Verona.

Quistione della gioventú letteraria di una generazione. Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo libro, occorrerà tener conto dell'«età», perché il giudizio sarà sempre anche di cultura: un frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono promesse, anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.

Criteri. Essere un'epoca. Nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1928 Arturo Calza scrive: «Bisogna cioè riconoscere che – dal 1914 in qua – la letteratura ha perduto non solo il pubblico che le forniva gli alimenti (!), ma anche quello che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in questa [nostra] società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti piú acuti e piú turbinosi di crisi morale e spirituale che preparano (!) le grandi rinnovazioni, il filosofo, e dunque anche, necessariamente, il poeta, il romanziere e il drammaturgo, vedono intorno a sé piuttosto una società "in divenire" che una società assestata e assodata in uno schema definitivo (!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e sempre mutevoli parvenze di costumi e di vita che non vita e costumi saldamente stabiliti e organizzati; piuttosto semi e germogli, che non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond'è che – come scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della "Tribuna" (Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi e anzi "intensificato" altri giornali – "noi viviamo nella maggiore assurdità artistica fra tutti gli stili e tutti i tentativi, senza piú capacità di essere un'epoca"». Quante parole inutili tra il Calza e il Forges Davanzati. Forse che solo oggi c'è stata una crisi storica? E non è anzi vero che proprio nei periodi di crisi storica, le passioni e gli interessi e i sentimenti si arroventano e si ha in letteratura il «romanticismo»? Gli argomenti dei due scrittori zoppicano e si rivoltano contro gli argomentatori: come mai il Forges Davanzati non si accorge che il non aver capacità di essere un'epoca non può limitarsi all'arte ma investe tutta la vita? L'assenza di un ordine artistico (nel senso in cui può intendersi l'espressione) è coordinata all'assenza di ordine morale e intellettuale, cioè all'assenza di sviluppo storico organico. La società gira su se stessa, come un cane che vuol prendersi la coda, ma questa parvenza di movimento non è svolgimento.

[L'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le altre arti.] Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli, prima di scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava a memoria ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere l'osservazione che l'elemento artistico di un'opera non può essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali), gustato a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il De Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di introdursi nel mondo culturale e sentimentale dello scrittore, e neanche questo è sempre vero, specialmente per gli scrittori non contemporanei, il cui mondo culturale e sentimentale è diverso dall'attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di un lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come bella, e domandare per essere artisticamente gustata, senza pregiudizi «extraestetici», un certo distacco psicologico dalla cultura odierna. Ma l'opera d'arte contiene anche altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo culturale e sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo come espressione puramente verbale, quale può essere fotografato in un certo tempo e luogo dalla grammatica, ma come un insieme di immagini e modi di esprimersi che non rientrano nella grammatica. Questi elementi appaiono piú chiaramente nelle altre arti. La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua italiana, non cosí il linguaggio della pittura, della musica e delle arti figurative in genere: eppure esistono anche queste differenze di linguaggio ed esse sono tanto piú appariscenti quanto piú dalle manifestazioni artistiche degli artisti si scende alle manifestazioni artistiche del folklore in cui il linguaggio di queste arti è ridotto all'elemento piú autoctono e primordiale (ricordare l'aneddoto del disegnatore che fa il profilo di un negro e gli altri negri scherniscono il ritrattato perché il pittore gli ha riprodotto «solo mezza faccia»). Esiste però, dal punto di vista culturale e storico, una grande differenza tra l'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le espressioni linguistiche delle altre arti. Il linguaggio «letterario» è strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni gruppo sociale ha una sua «lingua», tuttavia occorre notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua popolare e quella delle classi colte c'è una continua aderenza e un continuo scambio. Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti, per i quali, si può notare che attualmente si verificano due ordini di fenomeni: 1) in essi sono sempre vivi, per lo meno in quantità enormemente maggiore che per la lingua letteraria, gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli elementi tecnico-espressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc. Wagner ha dato alla musica elementi linguistici che tutta la letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua storia, ecc. Ciò avviene perché il popolo partecipa scarsamente alla produzione di questi linguaggi, che sono propri di una élite internazionale ecc., mentre può abbastanza rapidamente (e come collettività, non come singoli) giungere alla loro comprensione. Tutto ciò per indicare che realmente il «gusto» puramente estetico, se può chiamarsi primario come forma e attività dello spirito, non è tale praticamente, in senso cronologico, cioè.

È stato detto da taluno (per esempio da Prezzolini, nel volumetto Mi pare...) che il teatro non può dirsi un'arte ma uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli spettatori non possono gustare esteticamente il dramma rappresentato, ma si interessano solo all'intrigo ecc. (o qualcosa di simile). L'osservazione è falsa nel senso che, nella rappresentazione teatrale, l'elemento artistico non è dato solo dal dramma nel senso letterario, il creatore non è solo lo scrittore: l'autore interviene nella rappresentazione teatrale con le parole e con le didascalie che limitano l'arbitrio dell'attore e del régisseur, ma realmente nella rappresentazione l'elemento letterario diventa occasione a nuove creazioni artistiche, che da complementari e critico-interpretative stanno diventando sempre piú importanti: l'interpretazione dell'autore singolo e il complesso scenico creato dal régisseur. È giusto però che solo la lettura ripetuta può far gustare il dramma cosí come l'autore l'ha prodotto. La conclusione è questa: un'opera d'arte è tanto piú «artisticamente» popolare quanto piú il suo contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma come un'attività in continuo sviluppo. L'immediata presa di contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore l'unità di contenuto e forma ha la premessa di unità del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella sua propria lingua: si può dire che si forma la situazione come di uno che ha imparato l'inglese in un corso accelerato Berlitz e poi legge Shakespeare; la fatica della comprensione letterale, ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre dizionario, riduce la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla piú.

Neolalismo. Il neolalismo come manifestazione patologica del linguaggio (vocabolario) individuale. Ma non si può impiegare il termine in senso piú generale, per indicare tutta una serie di manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie se non manifestazioni di neolalismo culturale? Nei periodi di crisi si hanno le manifestazioni piú estese e molteplici di neolalismo. La lingua e i linguaggi. Ogni espressione culturale ha una sua lingua storicamente determinata, ogni attività morale e intellettuale: questa lingua è ciò che si chiama anche «tecnica» e anche «struttura». Se un letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè diventasse un «neolalico» nel senso patologico della parola) e fosse imitato da altri (ognuno con linguaggio arbitrario) si parlerebbe di Babele. La stessa impressione non si prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico ecc. (Questo punto è da meditare e approfondire). Dal punto di vista della storia della cultura, e quindi anche della «creazione» culturale (da non confondersi con la creazione artistica, ma da avvicinare invece alle attività politiche, e infatti in questo senso si può parlare di una «politica culturale») tra l'arte letteraria e le altre forme di espressione artistica (figurative, musicali, orchestriche ecc.) esiste una differenza che bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente giustificato e comprensibile. L'espressione «verbale» ha un carattere strettamente nazionale-popolare-culturale: una poesia di Goethe, nell'originale, può essere capita e rivissuta compiutamente solo da un tedesco (o da chi si è «intedescato»). Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc., possono invece essere capiti quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo, anche di spiriti non cosmopolitici, anche se non ha superato l'angusta cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia la cosa non è cosí semplice come potrebbe credersi tenendosi alla buccia. L'emozione artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a una statua di Michelangelo o ascoltando una melodia di Verdi è certo un'emozione artistica (lo stesso giapponese o lappone resterebbe insensibile e sordo se ascoltasse la declamazione di una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley o ammirerebbe l'arte del declamatore come tale); tuttavia l'emozione artistica del giapponese o del lappone non sarà della stessa intensità e colore dell'emozione di un italiano medio e tanto meno di un italiano colto. Ciò che significa che accanto o meglio al di sotto dell'espressione di carattere cosmopolitico del linguaggio musicale, pittorico ecc., c'è una piú profonda sostanza culturale, piú ristretta, piú «nazionale-popolare». Non basta: i gradi di questo linguaggio sono diversi; c'è un grado nazionale-popolare (e spesso prima di questo un grado provinciale-dialettale-folcloristico), poi il grado di una determinata «civiltà», che può determinarsi empiricamente dalla tradizione religiosa (per esempio cristiana, ma distinta in cattolica, protestante, ortodossa ecc.) e anche, nel mondo moderno, di una determinata «corrente culturale-politica». Durante la guerra, per esempio, un oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico italiano, nella sua lingua incompresa, delle devastazioni compiute dai tedeschi nel Belgio; se il pubblico simpatizzava con l'oratore, il pubblico ascoltava attentamente e «seguiva» l'oratore, si può dire che lo «comprendeva». È vero che nell'oratoria non è solo elemento la «parola»: c'è il gesto, il tono della voce ecc., cioè un elemento musicale che comunica il leitmotiv del sentimento predominante, della passione principale e l'elemento orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce e articola l'onda sentimentale e passionale.

Per stabilire una politica di cultura queste osservazioni sono indispensabili; per una politica di cultura delle masse popolari esse sono fondamentali. Ecco la ragione del «successo» internazionale del cinematografo modernamente e, prima, del melodramma e della musica in generale.

Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L'individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C'è dell'originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi di un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C'è un conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità». Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende piú difficile la cosa. È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità. Battere l'accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» piú utile, piú libera in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè quale è la «necessità»? Ognuno è portato a far di sé l'archetipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale), è un dato «oggettivo» o universale, cosí come non può non essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l'edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.

Nella letteratura (arte) contro la sincerità e spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può essere un falso conformismo, una falsa socialità, cioè l'adagiarsi nelle idee fatte e abitudinarie. Ricordare l'esempio classico di Nino Berrini che «scheda» il passato e cerca l'originalità nel fare ciò che non appare nelle schede. Principii del Berrini per il teatro: 1) lunghezza del lavoro: fissare la media della lunghezza, stabilendola su quei lavori che hanno avuto successo; 2) studio dei finali. Quali finali hanno avuto successo e strappato l'applauso? 3) studio delle combinazioni: per esempio nel dramma sessuale borghese, marito, moglie, amante, vedere quali combinazioni [sono] piú sfruttate, e per esclusione «inventare» nuove combinazioni, meccanicamente trovate. Cosí il Berrini aveva trovato che un dramma non deve avere piú di 50.000 parole, cioè non deve durare piú di un tanto tempo. Ogni atto o ogni scena principale deve culminare in un modo dato e questo modo è studiato sperimentalmente, secondo una media di quei sentimenti e di quegli stimoli che tradizionalmente hanno avuto successo, ecc. Con questi criteri è certo che non si possono avere catastrofi commerciali. Ma è questo «conformismo», o «socialità», nel senso detto? Certo no. È un adagiarsi nel già esistente.

La disciplina è anche uno studio del passato, in quanto il passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento «ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio, cioè elemento di «uniformità» necessaria, non di uniformità «oziosa», impigrita.

[Letteratura «funzionale».] Cosa corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la letteratura «secondo un piano», cioè là letteratura «funzionale», secondo un indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un equivoco. Forse che l'architettura sola ha scopi pratici? Certo apparentemente cosí pare, perché l'architettura costruisce le case d'abitazione, ma non si tratta di questo: si tratta di «necessità». Si dirà che le case sono piú necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di coltura. Si dovrebbe concludere che proprio i «pratici» si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini, di rendere tutti «artisti». Ancora. La coercizione sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La coercizione, l'indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla piú: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate. Sarebbe da vedere se la coercizione non è sempre esistita! Perché è esercitata inconsciamente dall'ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in fondo sempre di «razionalismo» contro l'arbitrio individuale. Allora la quistione non verte sulla coercizione, ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale funzionalità, o di atto d'arbitrio, ecco tutto. La coercizione è tale solo per chi non l'accetta, non per chi l'accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma «rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si può dire della coercizione ciò che i religiosi dicono della determinazione divina: per i «volenti» essa non è determinazione, ma libera volontà. In realtà la coercizione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali e tradizionalisti, i quali, tutto al piú, ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco, gradualmente. È curioso che in architettura si contrappone il razionalismo al «decorativismo», e questo viene chiamato «arte industriale». È curioso, ma giusto. Infatti dovrebbe chiamarsi sempre industriale qualsiasi manifestazione artistica che è diretta a soddisfare i gusti di singoli compratori ricchi, ad «abbellire» la loro vita, come si dice. Quando l'arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è «industriale», ma disinteressata, cioè arte. Mi pare che il concetto di razionalismo in architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto fecondo di conseguenze di principi di politica culturale; non è casuale che esso sia nato proprio in questi tempi di «socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di forze centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di individualismo e di estetiche dell'individualismo nella politica culturale.

[Il razionalismo nell'architettura.] Quistioni di nomi. È evidente che in architettura «razionalismo» significa semplicemente «moderno»: è anche evidente che «razionale» non è altro che un modo di esprimere il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia avvenuto nell'architettura prima che in altre arti si capisce, perché l'architettura è «collettiva» non solo come «impiego», ma come «giudizio». Si potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre esistito, cioè che si è sempre cercato di raggiungere un certo fine secondo un certo gusto e secondo le conoscenze tecniche della resistenza e dell'adattabilità del «materiale».

Di quanto e del come il «razionalismo» dell'architettura possa diffondersi nelle altre arti è quistione difficile e che sarà risolta dalla «critica dei fatti» (ciò che non vuol dire che sia inutile la critica intellettuale ed estetica che prepara quella dei fatti). Certo è che l'architettura pare di per sé, e per le sue connessioni immediate col resto della vita, la piú riformabile e «discutibile» delle arti. Un quadro o un libro o una statuina, può tenersi in luogo «personale» per il gusto personale; non cosí una costruzione architettonica. È anche da ricordare indirettamente (per ciò che vale in questo caso) l'osservazione del Tilgher che l'opera d'architettura non può essere messa alla stregua delle altre opere d'arte per il «costo», l'ingombro, ecc... Distruggere un'opera costruttiva, cioè fare e rifare, tentando e riprovando, non si adatta molto all'architettura.

È giusto che lo studio della funzione non è sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto sulla stessa «funzione» nascono discordie, cioè anche l'idea e il fatto di funzione è individuale o dà luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la «decorazione» non sia «funzionale» e si intende «decorazione» in senso largo, per tutto ciò che non è strettamente «funzionale» come la matematica. Intanto la «razionalità» porta alla «semplificazione», ciò che è già molto. (Lotta contro il secentismo estetico che appunto è caratterizzato dal prevalere dell'elemento esternamente decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso largo, cioè di funzione in cui sia compresa la «funzione estetica»). È molto che si sia giunti ad ammettere che l'«architettura è l'interpretazione di ciò che è pratico». Forse questo potrebbe dirsi di tutte le arti che sono una «determinata interpretazione di ciò che è pratico», dato che all'espressione «pratico» si tolga ogni significato «deteriore, giudaico» (o piattamente borghese: è da notare che «borghese» in molti linguaggi significa solo «piatto, mediocre, interessato», cioè ha assunto il significato che una volta aveva l'espressione «giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno importanza, perché linguaggio = pensiero, modo di parlare indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire). Certo per le altre arti le quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso modo che per l'architettura, tuttavia il «modello» dell'architettura è utile, dato che a priori si deve ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi problemi, qualunque sia l'espressione formale particolare di esso. Si potrebbe dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica non è che espressione e il problema rientra nel suo circolo iniziale con diverse parole.

L'architettura nuova. Speciale carattere obbiettivo dell'architettura. Realmente l'«opera d'arte» è il «progetto» (l'insieme dei disegni e dei piani e dei calcoli, coi quali persone diverse dall'architetto «artista-progettista» possono realizzare l'edifizio, ecc.): un architetto può essere giudicato grande artista dai suoi piani, anche senza aver edificato materialmente nulla. Il progetto sta all'edifizio materiale come il «manoscritto» sta al libro stampato: l'edifizio è l'estrinsecazione sociale dell'arte, la sua «diffusione», la possibilità data al pubblico di partecipare alla bellezza (quando è tale), cosí come il libro stampato.

Cade l'obbiezione del Tilgher al Croce a proposito della «memoria» come causa dell'estrinsecazione artistica: l'architetto non ha bisogno dell'edifizio per «ricordare» ma del progetto. Ciò sia detto anche solo considerando la «memoria» crociana come approssimazione relativa nel problema del perché il pittore dipinge, lo scrittore scrive ecc. e non si accontenta di costruire fantasmi per solo suo uso e consumo: e tenendo conto che ogni progetto architettonico ha un carattere di «approssimazione» maggiore che il manoscritto, la pittura ecc. Anche lo scrittore introduce innovazioni per ogni edizione del libro (o corregge le bozze modificando ecc., cfr. Manzoni): nell'architettura la quistione è piú complessa, perché l'edifizio è compiuto mai in sé completamente, ma deve avere degli adattamenti anche in rapporto al «panorama» in cui viene inserito ecc. (e non si possono fare di esso delle seconde edizioni cosí facilmente come di un libro ecc.). Ma il punto piú importante da osservare oggi è questo: che in una civiltà a rapido sviluppo, in cui il «panorama» urbano deve essere molto «elastico», non può nascere una grande arte architettonica, perché è piú difficile pensare edifizi fatti per l'«eternità». In America si calcola che un grattacielo debba durare non piú di 25 anni, perché si suppone che in 25 anni l'intera città «possa» mutare fisionomia, ecc. ecc. Secondo me, una grande arte architettonica può nascere solo dopo una fase transitoria di carattere «pratico», in cui cioè si cerchi solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni elementari del popolo col massimo di convenienze: ciò inteso in senso largo, non cioè solo per quanto riguarda il singolo edifizio, la singola abitazione o il singolo luogo di riunione per grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso architettonico, con strade, piazze, giardini, parchi, ecc.

Adriano Tilgher, Perché l'artista scrive o dipinge, o scolpisce, ecc.?, nell'«Italia che scrive» del febbraio 1929.

Articolo tipico della incongruenza logica e della leggerezza morale del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la teoria del Croce in proposito, alla fine dell'articolo la ripresenta tale e quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice il Tilgher che secondo il Croce «l'estrinsecazione fisica [...] del fantasma artistico ha scopo essenzialmente mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa significa per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un valore puramente personale, individuale, o anche di gruppo? Lo scrittore si preoccupa solo di sé o storicamente è portato a pensare anche agli altri? ecc.

Alcuni criteri di giudizio «letterario». Un lavoro può essere pregevole: 1) perché espone una nuova scoperta che fa progredire una determinata attività scientifica. Ma non solo l'«originalità» assoluta è un pregio. Può infatti avvenire: 2) che fatti ed argomenti già noti siano stati scelti e disposti secondo un ordine, una connessione, un criterio piú adeguato e probante di quelli precedenti. La struttura (l'economia, l'ordine) di un lavoro scientifico può essere «originale» essa stessa. 3) I fatti e gli argomenti già noti possono aver dato luogo a considerazioni «nuove», subordinate, ma tuttavia importanti.

Il giudizio «letterario» deve, evidentemente, tener conto dei fini che un lavoro si è proposto: di creazione e riorganizzazione scientifica, di divulgazione dei fatti ed argomenti noti in un determinato gruppo culturale, di un determinato livello intellettuale e culturale ecc. Esiste perciò una tecnica della divulgazione che occorre adattare volta per volta e rielaborare: la divulgazione è un atto eminentemente pratico, in cui occorre esaminare la conformità dei mezzi al fine, cioè appunto la tecnica adoperata. Ma anche l'esame e il giudizio del fatto e dell'argomentazione «originale», ossia dell'«originalità» dei fatti (concetti - nessi di pensiero) e degli argomenti sono molto difficili e complessi e richiedono le piú ampie cognizioni storiche. È da vedere nel capitolo dal Croce dedicato al Loria questo criterio: «Altro è metter fuori una osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». Si presentano i casi estremi: di chi trova che non c'è mai stato nulla di nuovo sotto il sole e che tutto il mondo è paese, anche nella sfera delle idee e di chi invece trova «originalità» a tutto spiano e pretende sia originale ogni rimasticatura per via della nuova saliva. Il fondamento di ogni attività critica pertanto deve basarsi sulla capacità di scoprire la distinzione e le differenze al di sotto di ogni superficiale e apparente uniformità e somiglianza, e l'unità essenziale al disotto di ogni apparente contrasto e differenziazione alla superficie. (Che occorra, nel giudicare un lavoro, tener conto del fine che l'autore si propone esplicitamente, non significa certo perciò che debba essere sottaciuto o misconosciuto o svalutato un qualsiasi apporto reale dell'autore, anche se in opposizione al fine proposto. Che Cristoforo Colombo si proponesse di andare «a la busca del Gran Khan», non sminuisce il valore del suo viaggio reale e delle sue reali scoperte per la civiltà europea).

Criteri metodologici. Nell'esaminare criticamente una «dissertazione» può essere quistione: 1) di valutare se l'autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre tutte le conseguenze dalle premesse che ha assunto come punto di partenza (o di vista): può darsi che manchi il rigore, che manchi la coerenza, che ci siano omissioni tendenziose, che manchi la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.); 2) di valutare i punti di partenza (o di vista), le premesse, che possono essere negate in tronco, o limitate, o dimostrate non piú valide storicamente; 3) di ricercare se le premesse sono omogenee tra loro, o se, per incapacità o insufficienza dell'autore (o ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o storicamente non avvicinabili. Cosí la valutazione critica può avere diversi fini culturali (o anche polemico-politici): può tendere a dimostrare che Tizio individualmente è incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio appartiene è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale «crede» o pretende di appartenere a un gruppo culturale, si inganna o vuole ingannare, che Tizio si serve delle premesse teoriche di un gruppo rispettabile per trarre deduzioni tendenziose e particolaristiche ecc.

Il Canto decimo dell'Inferno

Quistione su «struttura e poesia» nella Divina Commedia secondo B. Croce e Luigi Russo. Lettura di Vincenzo Morello come «corpus vile». Lettura di Fedele Romani su Farinata. De Sanctis. Quistione della «rappresentazione indiretta» e delle didascalie nel dramma: le «didascalie» hanno un valore artistico? contribuiscono alla rappresentazione dei caratteri? In quanto limitano l'arbitrio dell'attore e caratterizzano piú concretamente il personaggio dato, certamente. Il caso del Don Giovanni di Shaw con l'appendice del manualetto di John Tanner: quest'appendice è una didascalia, da cui un attore intelligente può e deve trarre elementi per la sua interpretazione. La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da Giasone: Medea è rappresentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole rappresentare quel viso. (C'è però il caso di Niobe, ma in opera di scultura: coprire il viso avrebbe significato togliere il contenuto proprio all'opera). Farinata e Cavalcante: il padre e il suocero di Guido. Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato: la struttura avrebbe dovuto condurre a una valutazione estetica del canto piú esatta, poiché ogni punizione è rappresentata in atto. Il De Sanctis notò l'asprezza contenuta nel canto per il fatto che Farinata d'un tratto muta carattere: dopo essere stato poesia diventa struttura, egli spiega, fa da Cicerone a Dante. La rappresentazione poetica di Farinata è stata mirabilmente rivissuta dal Romani: Farinata è una serie di statue. Poi Farinata recita una didascalia. Il libro di Isidoro del Lungo sulla Cronica di Dino Compagni: in esso è stabilita la data della morte di Guido. È strano che gli eruditi non abbiano prima pensato a servirsi del Canto X per fissare approssimativamente questa data (qualcuno l'ha fatto?). Ma neanche l'accertamento fatto dal Del Lungo serví a interpretare la figura di Cavalcante e a dare una spiegazione dell'ufficio fatto fare da Dante a Farinata.

Qual è la posizione di Cavalcante, qual è il suo tormento? Cavalcante vede nel passato e vede nell'avvenire, ma non vede nel presente, in una zona determinata del passato e dell'avvenire in cui è compreso il presente. Nel passato Guido è vivo, nell'avvenire Guido è morto, ma nel presente? È morto o vivo? Questo è il tormento di Cavalcante, il suo assillo, il suo unico pensiero dominante. Quando parla, domanda del figlio; quando sente «ebbe», il verbo al passato, egli insiste e tardando la risposta, egli non dubita piú: suo figlio è morto; egli scompare nell'arca infuocata.

Come Dante rappresenta questo dramma? Egli lo suggerisce al lettore, non lo rappresenta; egli dà al lettore gli elementi perché il dramma sia ricostruito e questi elementi sono dati dalla struttura. Tuttavia una parte drammatica c'è e precede la didascalia. Tre battute: Cavalcante appare, non dritto e virile come Farinata, ma umile, abbattuto, forse inginocchiato e domanda dubbiosamente del figlio. Dante risponde, indifferente o quasi e adopera il verbo che si riferisce a Guido al passato. Cavalcante coglie subito questo fatto e urla disperatamente. C'è il dubbio in lui, non la certezza; domanda altre spiegazioni con tre domande in cui c'è una gradazione di stati d'animo. «Come dicesti: egli "ebbe"?» – «Non vive egli ancora?» – «Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?» Nella terza domanda c'è tutta la tenerezza paterna di Cavalcante; la generica «vita» umana è vista in una condizione concreta, nel godimento della luce, che i dannati e i morti hanno perduto. Dante indugia a rispondere e allora il dubbio cessa in Cavalcante. Farinata invece non si scuote. Guido è il marito di sua figlia, ma questo sentimento non ha in lui potere in quel momento. Dante sottolinea questa sua forza d'animo. Cavalcante si affloscia ma Farinata non muta aspetto, non muove collo, non piega costa. Cavalcante cade supino, Farinata non ha nessun gesto di abbattimento; Dante analizza negativamente Farinata per suggerire i (tre) movimenti di Cavalcante, lo stravolgimento del sembiante, la testa che ricade, il dorso che si piega. Tuttavia c'è qualcosa di mutato anche in Farinata. La sua ripresa non è piú cosí altera come la prima sua apparizione.

Dante non interroga Farinata solo per «istruirsi», egli lo interroga perché è rimasto colpito della scomparsa di Cavalcante. Egli vuole che gli sia sciolto il nodo che gli impedí di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto.

Critica dell'«inespresso»?. Le osservazioni da me fatte potrebbero dar luogo all'obbiezione: che si tratti di una critica dell'inespresso, di una storia dell'inesistito, di un'astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura. Qualcosa come la posizione che spesso assume il Manzoni nei Promessi Sposi, come quando Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell'Adda e del confine, pensa alla treccia nera di Lucia: «... e contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un dramma, conoscendone le circostanze.

L'obbiezione ha una parvenza di verità: se Dante non può immaginarsi, come il Manzoni, ponente dei limiti alla sua espressione per ragioni pratiche (il Manzoni si propose di non parlare dell'amore sessuale e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza, per ragioni di «morale cattolica»), il fatto sarebbe avvenuto per «tradizione di linguaggio poetico», che del resto Dante non avrebbe sempre osservato (Ugolino, Mirra, ecc.), «rincalzato» dai suoi speciali sentimenti per Guido. Ma si può ricostruire e criticare una poesia se non nel mondo dell'espressione concreta, del linguaggio storicamente realizzato? Non un elemento «volontario» dunque, «di carattere pratico o intellettivo» tarpò le ali a Dante: egli «volò con le ali che aveva» per cosí dire, e non rinunziò volontariamente a nulla. Su questo argomento del neomaltusianismo artistico del Manzoni cfr. il libretto del Croce; e l'articolo di Giuseppe Citanna nella «Nuova Italia» del giugno 1930.

Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia effigiando Agamennone velato. Il Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in questo artificio non l'incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimento profondo dell'artista che attraverso gli atteggiamenti piú strazianti del volto, non avrebbe saputo dare un'impressione tanto penosa d'infinita mestizia come con questa figura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura pompeiana del sacrifizio d'Ifigenia, diversa per la composizione generale dal dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata.

Di queste diverse rappresentazioni del sacrifizio di Ifigenia parla Paolo Enrico Arias nel «Bollettino dell'Istituto Nazionale del dramma antico di Siracusa», articolo riassunto dal «Marzocco» del 13 luglio 1930.

Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di figure velate: es. Medea che uccide i figli. La quistione è stata trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completamente soddisfacente?

Il disdegno di Guido. Nella recensione scritta da G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l'interpretazione della poesia, «Marzocco», 14 aprile 1929) del libro postumo di Enrico Sicardi, La lingua italiana in Dante (Casa Ed. «Optima», Roma), si riporta l'interpretazione del Sicardi sul «disdegno» di Guido. Cosí, scrive il Sicardi, dovrebbe interpretarsi il passo: «Io non faccio il viaggio di mia libera scelta; non sono libero di venire o non venire; invece sono qui condotto da colui che m'aspetta lí fermo e col quale il vostro Guido ebbe a disdegno di venire qui, ossia di accompagnarsi qui con lui». L'interpretazione del Sicardi è formale, non sostanziale: egli non si ferma a spiegare in che consista il «disdegno» (o della lingua latina, o dell'imperialismo virgiliano o delle altre spiegazioni date dagli interpreti). Dante ebbe largita la «grazia» dal Cielo: come potevasi concedere la medesima grazia ad un ateo? (ciò non è esatto: perché la «grazia» per la sua stessa natura, non può essere limitata da nessuna ragione). Per il Sicardi nel verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» il cui si riferisce certamente a Virgilio, ma non è un complemento oggetto, ma uno dei soliti pronomi a cui manca il segnacaso con. E l'oggetto di ebbe a disdegno? Si ricava dal precedente «da me stesso non vegno» ed è, mettiamo il caso, o il sostantivo venuta o, se si vuole, una proposizione oggettiva: di venire.

Nella sua recensione il Gargàno scrive a un certo punto: «L'amico di Guido dice al povero padre deluso di non veder vivo per l'Inferno anche il suo figliolo ecc.». Deluso? È troppo poco: si tratta di una parola del Gargàno o è ricavata dal Sicardi? Non si pone il problema: ma perché Cavalcante deve proprio aspettarsi che Guido venga con Dante nell'Inferno? «Per l'altezza d'ingegno»? Cavalcante non è mosso dalla «razionalità» ma dalla «passione»: non c'è nessuna ragione perché Guido dovesse accompagnare Dante; c'è solo che Cavalcante vuol sapere se Guido in quel momento è vivo o morto ed uscire cosí dalla sua pena.

La parola piú importante del verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» non è «cui» o «disdegno» ma è solo ebbe. Su «ebbe» cade l'accento «estetico» e «drammatico» del verso ed esso è l'origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata: e c'è la «catarsi»; Dante si corregge, toglie dalla pena Cavalcante, cioè interrompe la sua punizione in atto.

La data della morte di Guido Cavalcanti fu fissata criticamente per la prima volta da Isidoro Del Lungo nella sua opera Dino Compagni e la sua Cronica di cui nel 1887 fu pubblicato il «volume terzo, contenente gli indici storico e filologico a tutta l'opera e il testo della "Cronica" secondo il codice Laurenziano Ashburnhamiano»; i volumi I e II furono finiti nel 1880 e stampati poco dopo. Bisogna vedere se il Del Lungo, nel fissare la data della morte di Guido, pone in rapporto questa data con il Canto X: mi pare di ricordare di no. Sullo stesso argomento bisognerebbe vedere del Del Lungo: Dante nei tempi di Dante, Bologna 1888; Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898, e specialmente Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII, pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, che è una riproduzione, riveduta e corretta, e talvolta accresciuta, di una parte dell'opera su Dino Compagni e la sua Cronica.

Vincenzo Morello. Dante, Farinata, Cavalcante, in 8°, p. 80, ed. Mondadori, 1927. Contiene due scritti: 1) Dante e Farinata. Il canto X dell'Inferno letto nella «Casa di Dante» in Roma il XXV aprile MCMXXV e 2) Cavalcanti e il suo disdegno. Nella scheda bibliografica dell'editore è detto: «Le interpretazioni del Morello daranno occasione a discussioni fra gli studiosi, perché si distaccano completamente da quelle tradizionali, e vengono a conclusioni diverse e nuove». Ma il Morello aveva una qualsiasi preparazione per questo lavoro e per questa indagine? Egli inizia il primo scritto cosí: «La critica dell'ultimo trentennio ha cosí profondamente esplorato le sorgenti (!) dell'opera dantesca, che ormai i sensi piú oscuri, i riferimenti piú difficili, le allusioni piú astruse e perfino i particolari piú intimi dei personaggi delle Tre Cantiche, si può dire siano penetrati e chiarificati». Chi si contenta gode! Ed è molto comodo muovere da una simile premessa: esime dal fare un proprio lavoro e molto faticoso di scelta e di approfondimento dei risultati raggiunti dalla critica storica ed estetica. E continua: «Sí che, dopo la debita preparazione, noi possiamo oggi leggere ed intendere la Divina Commedia, senza piú smarrirci nei labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta informazione storica e la deficiente disciplina intellettuale gareggiavano nel costruire e rendere inestricabili». Il Morello dunque avrebbe fatto la debita preparazione e sarebbe in possesso di una perfetta disciplina intellettuale: non sarà difficile mostrare che egli ha letto superficialmente lo stesso canto X e non ne ha compreso la lettera piú evidente. Il canto X è, secondo il Morello, «per eccellenza politico» e «la politica, per Dante, è cosa tanto sacra, quanto la religione», quindi occorre una «disciplina piú che mai rigida» nella interpretazione del canto X per non sostituire le proprie tendenze e le proprie passioni a quelle altrui e per non abbandonarsi alle piú strane aberrazioni. Il Morello afferma che il canto X è per eccellenza politico, ma non lo dimostra e non lo può dimostrare perché non è vero: il canto X è politico come politica è tutta la Divina Commedia, ma non è politico per eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo per non affaticare le sue meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e grande teorico e della politica, gli sarà facile dare una interpretazione politica del canto X dopo aver leggiucchiato il canto nella prima edizione venuta alla mano, servendosi delle idee generali che circolano sulla politica di Dante e di cui ogni buon giornalista di cartello, come il Morello, deve avere una qualche infarinatura nonché un certo numero di schede d'erudizione.

Che il Morello non abbia letto che superficialmente il canto X si vede dalle pagine in cui tratta dei rapporti tra Farinata e Guido Cavalcanti (p. 35). Il Morello vuol spiegare l'impassibilità di Farinata durante lo svolgimento «dell'episodio» di Cavalcante. Ricorda l'opinione del Foscolo, per il quale questa indifferenza dimostra la forte tempra dell'uomo, che «non permette agli affetti domestici di distoglierlo dal pensare alle nuove calamità della patria» e del De Sanctis, per il quale Farinata rimane indifferente, perché «le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio, non all'anima che è tutta fisa in un pensiero unico: l'arte mal appresa». Per il Morello vi può essere «forse una spiegazione piú convincente». Cioè: «Se Farinata non muta aspetto, né muove collo, né piega costa, cosí come il poeta vuole, è forse, non perché insensibile o non curante del dolore altrui, ma perché ignora la persona di Guido, come ignorava quella di Dante e perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia. Egli è morto nel 1264, tre anni prima del ritorno dei Cavalcanti a Firenze, quando Guido aveva sette anni; e si fidanzò con Bice all'età di nove anni (1269), cinque anni dopo la morte di Farinata. Se è vero che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non pare avvenuta». Il brano è strabiliante da parecchi punti di vista e mostra quanto sia deficiente la disciplina intellettuale del Morello. 1) Farinata stesso dice apertamente e chiaramente che gli eresiarchi del suo gruppo ignorano i fatti «quando s'approssiman e son», non sempre, e in ciò consiste la loro punizione specifica oltre l'arca infuocata «per avere voluto vedere nel futuro» e solamente in questo caso «s'altri non ci adduce» essi ignorano. Dunque il Morello non ha neanche letto bene il testo. 2) È proprio da dilettante, nei personaggi di un'opera d'arte, andare a cercare le intenzioni oltre la portata della espressione letterale dello scritto. Il Foscolo e il De Sanctis (specialmente il De Sanctis) non si allontanano dalla serietà critica; il Morello invece pensa realmente alla vita concreta di Farinata nell'Inferno oltre il canto di Dante e pensa persino poco probabile che i demoni o gli angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell'uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi (donde la fortuna delle avventure a catena): è la mentalità del Rosini che scrive la Monaca di Monza o di tutti gli scribacchiatori che scrivono le continuazioni di opere illustri o ne svolgono e amplificano episodi parziali.

Che tra Cavalcante e Farinata vi sia rapporto intimo nella poesia di Dante risulta dalla lettera del Canto e dalla sua struttura: Cavalcante e Farinata sono vicini (qualche illustratore immagina addirittura che siano nella stessa arca), i loro due drammi si intrecciano strettamente e Farinata viene ridotto alla funzione strutturale di «explicator» per far penetrare il lettore nel dramma di Cavalcante. Esplicitamente, dopo l'«ebbe», Dante contrappone Farinata a Cavalcante nell'aspetto fisico-statuario che esprime la loro posizione morale: Cavalcante cade, si affloscia, né piú appare fuori, Farinata «analiticamente» non muta aspetto né muove collo né piega costa.

Ma l'incomprensione della lettera del canto da parte del Morello si rivela anche dove egli parla di Cavalcante, pp. 31 e segg.: «È rappresentato, in questo canto, anche il dramma della famiglia attraverso lo strazio delle guerre civili; ma non da Dante e da Farinata; sí bene da Cavalcante». Perché «attraverso lo strazio delle guerre civili»? Questa è un'aggiunta cervellotica del Morello. Il doppio elemento, famiglia-politica, è in Farinata e infatti la politica lo sorregge sotto l'impressione del disastro famigliare della figlia. Ma in Cavalcante solo motivo drammatico è l'amore figliale e infatti egli crolla appena è certo che il figlio è morto. Secondo il Morello, Cavalcante «domanda a Dante piangendo – Perché mio figlio non è teco? – Piangendo. Questo di Cavalcante si può veramente dire il pianto della guerra civile». Stupidaggine, conseguente all'affermazione che il canto X è «per eccellenza politico». E piú oltre: «Guido era vivo all'epoca del mistico viaggio; ma era morto quando Dante scriveva. E dunque di un morto Dante realmente scriveva, non ostante, per la cronologia del viaggio, dovesse infine apprendere al padre il contrario», ecc.: passo che dimostra come il Morello abbia appena sfiorato il contenuto drammatico e poetico del canto e l'abbia, letteralmente, sorvolato nella lettera testuale.

Superficialità piena di contraddizioni perché poi il Morello si ferma sulla predizione di Farinata, senza pensare che se questi eresiarchi possono sapere il futuro, devono sapere il passato, dato che il futuro diventa sempre passato: ciò non lo porta a rileggersi il testo e ad accertarne il significato.

Ma anche la cosí detta interpretazione politica che il Morello fa del X canto è superficialissima: essa non è altro che la ripresa della vecchia quistione: Dante fu guelfo o ghibellino? Per il Morello, sostanzialmente, Dante fu ghibellino e Farinata è «il suo eroe», solo che Dante fu ghibellino come Farinata, cioè «uomo politico» piú che «uomo di parte». Si può, in questo argomento dire tutto ciò che si vuole. In realtà Dante, come egli stesso dice, «fece parte per se stesso»: egli è essenzialmente un «intellettuale» e il suo settarismo e la sua partigianeria sono d'ordine intellettuale piú che politico in senso immediato. D'altronde la posizione politica di Dante potrebbe esser fissata solo con un'analisi minutissima non solo di tutti gli scritti di Dante stesso, ma delle divisioni politiche del suo tempo che erano molto diverse da quelle di cinquant'anni prima. Il Morello è troppo irretito nella retorica letteraria per essere in grado di concepire realisticamente le posizioni politiche degli uomini del Medio Evo verso l'Impero, il Papato e la loro repubblica comunale.

Quello che fa sorridere nel Morello è il suo «disdegno» per i commentatori che affiora qua e là come a p. 52, nello scritto Cavalcanti e il suo disdegno dove dice che «la prosa dei commentatori spesso altera il senso dei versi»; ma guarda chi lo dice!

Questo scritto Cavalcanti e il suo disdegno appartiene precisamente a quella letteratura d'appendice intorno alla Divina Commedia, inutile e ingombrante con le sue congetture, le sue sottigliezze, le sue alzate d'ingegno da parte di gente che per avere la penna in mano, si crede in diritto di scrivere di qualunque cosa, sgomitolando le fantasticherie del suo talentaccio.

Le «rinunzie descrittive» nella Divina Commedia. Da un articolo di Luigi Russo, Per la poesia del «Paradiso» dantesco (nel «Leonardo» dell'agosto 1927), tolgo alcuni accenni alle «rinunzie descrittive» di Dante che, in ogni caso, hanno diversa origine e spiegazione che per l'episodio di Cavalcante. Se ne è occupato A. Guzzo nella «Rivista d'Italia» del 15 novembre 1924, pp. 456-79 (Il «Paradiso» e la critica del De Sanctis). Scrive il Russo: «Il Guzzo parla delle "rinunzie descrittive" che sono frequenti nel Paradiso: – Qui vince la memoria mia lo ingegno, – Se mò sonasser tutte quelle lingue – ecc., ed egli ritiene che questa è una prova che, dove Dante non può trasfigurare celestialmente la terra, egli "piuttosto rinunzia a descrivere il fenomeno celeste anziché, con astratta e artificiosa fantasia, capovolgere, invertire, violentare l'esperienza" (p. 478). Ora anche qui il Guzzo, come gli altri dantisti, riman vittima di una valutazione psicologica di parecchi versi di quel genere, che ricorrono nel Paradiso. Tipico il caso del Vossler che una volta si serví di queste "rinunzie descrittive" del poeta, come fossero confessioni d'impotenza fantastica, per concludere, sulla testimonianza dell'artista stesso, sull'inferiorità dell'ultima cantica; e, recentemente, nel suo ravvedimento critico, si richiamò invece proprio a quelle rinunzie descrittive, per attribuir loro un valore religioso, quasi il poeta volesse avvertire di tratto in tratto che quello è il regno dell'assoluto trascendente (Die Göttliche Komödie, 1925, II Band, pp. 771-72). Ora a me pare che mai il poeta riesce tanto espressivo, come in queste sue confessioni di impotenza espressiva, le quali, invero, vanno considerate non nel loro contenuto (che è negativo), ma nel loro tono lirico (che è positivo, e qualche volta iperbolicamente positivo). Quella è la poesia dell'ineffabile; e non bisogna scambiare la poesia dell'ineffabile per ineffabilità poetica» ecc.

Per il Russo non si può parlare di rinunzie descrittive in Dante. Si tratta, in forma negativa, di espressioni piene, sufficienti, di tutto quello che si agita veramente nel petto del poeta.

Il Russo accenna in nota a un suo studio, Il Dante del Vossler e l'unità poetica della Commedia, nel vol. XII degli «Studi Danteschi» diretti da M. Barbi, ma il richiamo al Vossler si deve riferire ai tentativi di gerarchizzare artisticamente le tre cantiche.

[Il cieco Tiresia.] Nel 1918, in un «Sotto la Mole» intitolato Il cieco Tiresia è pubblicato un cenno dell'interpretazione data in queste note della figura di Cavalcante. Nella nota pubblicata nel 1918 si prendeva lo spunto dalla notizia pubblicata dai giornali che una ragazzina, in un paesello d'Italia, dopo aver preveduto la fine della guerra per il 1918 diventò cieca. Il nesso è evidente. Nella tradizione letteraria e nel folclore, il dono della previsione è sempre connesso con l'infermità attuale del veggente, che mentre vede il futuro non vede l'immediato presente perché cieco. (Forse ciò è legato alla preoccupazione di non turbare l'ordine naturale delle cose: perciò i veggenti non sono creduti, come Cassandra; se fossero creduti, le loro previsioni non si verificherebbero, in quanto gli uomini, posti sull'avviso, opererebbero diversamente e i fatti allora si svolgerebbero diversamente dalla previsione ecc.).

[Una lettera di Umberto Cosmo] Da una lettera del prof. U. Cosmo (dei primi mesi del 1932) riporto alcuni brani sull'argomento di Cavalcante e Farinata: «Mi pare che l'amico nostro abbia colpito giusto, e qualche cosa che s'avvicinava alla sua interpretazione ho sempre insegnato io. Accanto al dramma di Farinata c'è anche il dramma di Cavalcante, e male hanno fatto i critici, e fanno, a lasciarlo nell'ombra. L'amico farebbe dunque opera ottima a lumeggiarlo. Ma per lumeggiarlo bisognerebbe discendere un po' piú nell'anima medioevale. Ognuno dei due, Farinata e Cavalcante, soffre il suo dramma. Ma il proprio dramma non tocca l'altro. Sono legati dalla parentela dei figli, ma sono di parte avversa. Perciò non si incontrano. È la loro forza come dramatis personae, è il loro torto come uomini. Piú difficile mi pare provare che l'interpretazione lede in modo vitale la tesi del Croce sulla poesia e la struttura della Commedia. Senza dubbio anche la struttura dell'opera ha valore di poesia. Con la sua tesi il Croce riduce la poesia della Commedia a pochi tratti e perde quasi tutta la suggestione che si sprigiona da essa. Cioè perde quasi tutta la sua poesia. La virtú della grande poesia è di suggerire piú che non dica e suggerire sempre cose nuove. Di qui la sua eternità. Bisognerebbe dunque mettere bene in chiaro che tale virtú di suggestione che promana dal dramma di Cavalcante promana dalla struttura dell'opera (la previsione dei dannati del futuro e l'ignoranza del presente, il loro essere in quel determinato cono d'ombra, come dice assai felicemente l'amico, l'essere nella stessa tomba (!?) i due sofferenti, l'essere legati da quelle determinate leggi costruttive). Tutte parti della struttura che diventano fonte di poesia. Togliete queste e la poesia svanisce. – Per raggiungere piú sicuro l'effetto, mi pare, sarebbe bene riprovare la tesi con qualche altro esempio. Io, scrivendo del Paradiso, sono arrivato alla conclusione che dove la costruzione è debole, è debole anche la poesia... Ma piú efficace sarebbe forse di cercare la riprova in qualche episodio plastico dell'Inferno o del Purgatorio. Penso dunque che l'amico farebbe assai bene a svolgere con il rigore del suo raziocinio e la chiarezza della sua espressione la sua tesi. Il ravvicinamento con le Didascalie dei drammi propriamente detti è arguto e può illuminare. Ti soggiungo qualche indicazione bibliografica piú facile. Lo studio del Russo si può vedere completo in L. Russo, Problemi di metodo critico, Bari, Laterza, 1929. Nella «Critica» sarebbe bene vedere ciò che scrisse l'Arangio Ruiz («Critica», XX, 340-57). L'articolo è dichiarato dal Barbi «bellissimo». Pretenzioso nella sua filosofica sicumera, lo studio di Mario Botti (Per lo studio della genesi della poesia dantesca. La seconda cantica: poesia e struttura nel poema) in «Annali dell'Istruzione media», 1930, pp. 432-73. Il Barbi se ne occupa, ma non dice nulla di nuovo, nell'ultimo fascicolo degli «Studi Danteschi» (XVI, pp. 47 sgg.), Poesia e struttura nella Divina Commedia. Per la genesi dell'ispirazione centrale della Divina Commedia. Anche il Barbi, in uno studio Con Dante e coi suoi interpreti (vol. XV, «Studi Danteschi»), passa in rivista le ultime interpretazioni del canto di Farinata. E pure il Barbi pubblicò un suo commento nel vol. VIII degli «Studi Danteschi».

Ci sarebbe da osservare molte cose su queste note del prof. Cosmo.

[Rastignac.] Poiché occorre infischiarsi del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all'edifizio commentatorio e chiarificatorio del divino poema ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare debba proprio essere quello polemico, per stroncare un filisteo classico come Rastignac, per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono far le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac. Ma Rastignac conta meno di un fuscello nel mondo culturale ufficiale! Non ci vuole molta bravura per mostrarne l'inettitudine e la zerità. Ma intanto la sua conferenza è stata tenuta alla Casa di Dante romana: da chi è diretta questa Casa di Dante della città eterna? Anche la Casa di Dante e i suoi dirigenti contano nulla? E se contano nulla perché la grande cultura non li elimina? E come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato il Barbi, nelle sue rassegne degli «Studi Danteschi» per mostrarne la deficienza ecc.? Eppoi, piace poter prendere per il bavero un uomo come il Rastignac e servirsene da palla per un gioco solitario del calcio.

Shaw e Gordon Craig. Polemica tra i due sul teatro. Shaw difende le sue didascalie lunghissime come aiuto non alla rappresentazione ma alla lettura. Secondo Aldo Sorani («Marzocco» del 1° novembre 1931) queste didascalie dello Shaw «sono precisamente il contrario di quel che Gordon Craig desidera e richiede come atto a ridar vita sulla scena alla fantasia dell'autore drammatico, a ricreare quell'atmosfera da cui l'opera d'arte è sorta e si è imposta allo stesso autore».

Il teatro di Pirandello

Una nota giovanile di Luigi Pirandello. Pubblicata dalla «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1934 e scritta dal Pirandello negli anni 1889-90, quando era studente a Bonn: «Noi lamentiamo che alla nostra letteratura manchi il dramma – e sul riguardo si dicono tante cose e tante altre se ne propongono – conforti, esortazioni, additamenti, progetti – opera vana: il vero marcio non si vede e non si vuol vedere. Manca la concezione della vita e dell'uomo. E pure noi abbiamo campo da dare all'epica e al dramma. Arido stupido alessandrinismo, il nostro». Forse però questa nota del Pirandello non fa che riecheggiare discussioni di studenti tedeschi sulla necessità generica di una Weltanschauung ed è piú superficiale di quanto non paia. In ogni modo il Pirandello si è fatta una concezione della vita e dell'uomo, ma essa è «individuale», incapace di diffusione nazionale-popolare, che però ha avuto una grande importanza «critica», di corrosione di un vecchio costume teatrale.

I nipotini di padre Bresciani. Pirandello. Pirandello non appartiene a questa categoria di scrittori, tutt'altro. Lo noto qui per raggruppare insieme le note di cultura letteraria. Su Pirandello occorrerà scrivere un saggio speciale, utilizzando tutte le note da me scritte durante la guerra, quando Pirandello era combattuto dalla critica, che era incapace persino di riassumere i suoi drammi (ricordare le recensioni dell'Innesto nei giornali torinesi dopo la prima rappresentazione e le profferte di colleganza fattemi da Nino Berrini) e suscitava le furie di una parte del pubblico. Ricordare che Liolà fu da Pirandello tolta dal repertorio per le dimostrazioni ostili dei giovani cattolici torinesi alla seconda replica. Cfr. l'articolo della «Civiltà Cattolica» del 5 aprile 1930 Lazzaro ossia un mito di Luigi Pirandello.

L'importanza del Pirandello mi pare di carattere intellettuale e morale, cioè culturale, piú che artistica: egli ha cercato di introdurre nella cultura popolare la «dialettica» della filosofia moderna, in opposizione al modo aristotelico-cattolico di concepire l'«oggettività del reale». L'ha fatto come si può fare nel teatro e come può farlo il Pirandello stesso: questa concezione dialettica dell'oggettività si presenta al pubblico come accettabile, in quanto essa è impersonata da caratteri di eccezione, quindi sotto veste romantica, di lotta paradossale contro il senso comune e il buon senso. Ma potrebbe essere altrimenti? Solo cosí i drammi del Pirandello mostrano meno il carattere di «dialoghi filosofici», che tuttavia hanno abbastanza, poiché i protagonisti devono troppo spesso «spiegare e giustificare» il nuovo modo di concepire il reale; d'altronde il Pirandello stesso non sempre sfugge da un vero e proprio solipsismo, poiché la «dialettica» in lui è piú sofistica che dialettica.

[L'«ideologia» pirandelliana.] Forse ha ragione il Pirandello a protestare egli per il primo contro il «pirandellismo», cioè a sostenere che il cosí detto pirandellismo è una costruzione astratta dei sedicenti critici, non autorizzato dal suo concreto teatro, una formula di comodo, che spesso nasconde interessi culturali e ideologici tendenziosi, che non vogliono confessarsi esplicitamente. È certo che Pirandello è sempre stato combattuto dai cattolici: ricordare il fatto che Liolà è stata ritirata dal repertorio dopo le cagnare inscenate al teatro Alfieri di Torino dai giovani cattolici per istigazione del «Momento» e del suo mediocrissimo recensore teatrale Saverio Fino. Lo spunto contro Liolà fu dato da una pretesa oscurità della commedia, ma in realtà tutto il teatro del Pirandello è avversato dai cattolici per la concezione pirandelliana del mondo, che, qualunque essa sia, qualunque sia la sua coerenza filosofica, è indubbiamente anticattolica, come invece non era la concezione «umanitaria» e positivistica del verismo borghese e piccolo borghese del teatro tradizionale. In realtà non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia «filosofia». È certo però che nel Pirandello ci sono dei punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all'ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo «filosofico», oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? cioè la «filosofia» implicita è esplicitamente solo «cultura» ed «eticità» individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? e ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico? 2) questi punti di vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?

Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, «dialettale» e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita. Ora pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare «storicamente» popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di «intellettuali» travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani che pensano e operano cosí proprio perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell'idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere «dialettico» e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo cioè dell'intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare.

Ma non mi pare che il problema culturale del teatro pirandelliano sia ancora esaurito in questi termini. In Pirandello abbiamo uno scrittore «siciliano», che riesce a concepire la vita paesana in termini «dialettali», folcloristici (se pure il suo folclorismo non è quello influenzato dal cattolicismo, ma quello rimasto «pagano», anticattolico sotto la buccia cattolica superstiziosa), che nello stesso tempo è uno scrittore «italiano» e uno scrittore «europeo». E in Pirandello abbiamo di piú: la coscienza critica di essere nello stesso tempo «siciliano», «italiano» ed «europeo», ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello accanto al suo grande significato «culturale» (come ho notato in altre note). Questa «contraddizione», che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare Il Turno, si rappresenta l'incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due «province» cosí lontane storicamente). Quello che importa è però questo: il senso critico-storico del Pirandello, se lo ha portato nel campo culturale a superare e dissolvere il vecchio teatro tradizionale, convenzionale, di mentalità cattolica o positivistica, imputridito nella muffa della vita regionale o di ambienti borghesi piatti e abbiettamente banali, ha però dato luogo a creazioni artistiche compiute? Se anche l'intellettualismo del Pirandello non è quello identificato dalla critica volgare (di origine cattolica tendenziosa, o tilgheriana dilettantesca) è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è piú un critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta, un critico del costume nazionale-regionale che un poeta? Oppure dove è realmente poeta, dove il suo atteggiamento critico è diventato contenuto-forma d'arte e non è «polemica intellettuale», logicismo sia pure non da filosofo, ma da «moralista» in senso superiore? A me pare che Pirandello sia artista proprio quando è «dialettale» e Liolà mi pare il suo capolavoro, ma certo anche molti «frammenti» sono da identificare di grande bellezza nel teatro «letterario».

Letteratura su Pirandello. Per i cattolici: Silvio D'Amico, Il Teatro italiano (Treves, 1932) e alcune note della «Civiltà Cattolica». Il capitolo di D'Amico sul Pirandello è stato pubblicato nell'«Italia Letteraria» del 30 ottobre 1932 e ha determinato una vivace polemica tra il D'Amico stesso e Italo Siciliano nell'«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932. Italo Siciliano è autore di un saggio, Il Teatro di L. Pirandello, che pare sia abbastanza interessante perché tratta precisamente dell'«ideologia» pirandellista. Per il Siciliano il Pirandello «filosofo» non esiste, cioè la cosí detta «filosofia pirandelliana» è «un melanconico, variopinto e contradditorio ciarpame di luoghi comuni e di sofismi decrepiti», «la famosa logica pirandelliana è vano e difettoso esercizio dialettico», e «l'una e l'altra (la logica e la filosofia) costituiscono il peso morto, la zavorra che tira giú – e talvolta fatalmente – un'opera d'arte di indubbia potenza». Per il Siciliano «il faticoso arzigogolare del P. non si è trasformato in lirismo o poesia, ma è restato grezzo e, non essendo profondamente vissuto, ma "plaqué", inassimilato, talvolta incompatibile, ha nociuto, ha impastoiato e soffocato la vera poesia pirandelliana». Il Siciliano, pare, reagí alla critica di Adriano Tilgher, che aveva fatto del Pirandello «il poeta del problema centrale», cioè aveva dato come «originalità artistica» del Pirandello ciò che era un semplice elemento culturale, da tenersi subordinato e da esaminare in sede culturale. Per il Siciliano la poesia del Pirandello non coincide con questo contenuto astratto, sicché questa ideologia è completamente parassitaria: cosí pare, almeno, e se cosí è, non pare giusto. Che questo elemento culturale non sia il solo del Pirandello può essere concesso e d'altronde è quistione d'accertamento filologico; che questo elemento culturale non sempre si sia trasfigurato artisticamente è anche da concedersi. Ma in ogni modo rimane da studiare: 1) Se esso è diventato arte in qualche momento; 2) se esso, come elemento culturale, non ha avuto una funzione e un significato nel mutare sia il gusto del pubblico, sprovincializzandolo e modernizzandolo, e se esso non ha mutato le tendenze psicologiche, gli interessi morali degli altri scrittori di teatro, confluendo col futurismo migliore nel lavoro di distruzione del basso ottocentismo piccolo borghese e filisteo.

La posizione ideologica del D'Amico verso il «pirandellismo» è espressa in queste parole: «Con buona pace di quei filosofi che, a cominciare da Eraclito, pensano il contrario, è ben certo che, in senso assoluto, la nostra personalità è sempre identica e una, dalla nascita al Dilà; se ognuno di noi fosse "tanti", come dice il Padre dei Sei personaggi, ciascuno di questi "tanti" non avrebbe né da godere i benefici né da pagare i debiti degli "altri" che porta in sé; mentre l'unità della coscienza ci dice che ognuno di noi è sempre "quello" e che Paolo deve redimere le colpe di Saulo perché, anche essendo divenuto "un altro", è sempre la stessa persona».

Questo modo di porre la quistione è abbastanza scempio e ridicolo e d'altronde sarebbe da vedere se nell'arte del Pirandello non predomini l'umorismo, cioè l'autore non si diverta a far nascere certi dubbi «filosofici» in cervelli non filosofici e meschini per «sfottere» il soggettivismo e il solipsismo filosofico. Le tradizioni e l'educazione filosofica del Pirandello sono di origine piuttosto «positivistica» e cartesiana alla francese; egli ha studiato in Germania, ma nella Germania dell'erudizione filologica pedantesca, di origine non certo hegeliana ma proprio positivistica. È stato in Italia professore di stilistica e ha scritto sulla stilistica e sull'umorismo non certo secondo le tendenze idealistiche neohegeliane ma piuttosto in senso positivistico. Perciò appunto è da accertare e fissare che l'«ideologia» pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco. Non è escluso che le idee del Tilgher abbiano reagito sul Pirandello, che cioè il Pirandello abbia, accettando le giustificazioni critiche del Tilgher, finito col conformarvisi e perciò occorrerà distinguere tra il Pirandello prima dell'ermeneutica tilgheriana e quello successivo.

È da vedere quanto nella «ideologia» pirandelliana sia, per dir cosí, della stessa origine di ciò che pare formi il nucleo degli scritti «teatrali» di Nicola Evreinov. Per l'Evreinov la teatralità non è solamente una determinata forma di attività artistica, quella che si esprime tecnicamente nel teatro propriamente detto. Per l'Evreinov la «teatralità» è nella vita stessa, è un atteggiamento proprio all'uomo, in quanto l'uomo tende a credere e a farsi credere diverso da ciò che è. Occorre vedere bene queste teorie dell'Evreinov, perché mi pare che egli colga un tratto psicologico esatto, che dovrebbe essere esaminato e approfondito. Cioè esistono parecchie forme di «teatralità» in questo senso: una è quella comunemente nota e appariscente in forma caricaturale che si chiama «istrionismo»; ma ne esistono anche delle altre, che non sono deteriori, o sono meno deteriori e alcune che sono normali e anche meritorie. In realtà ognuno tende, a suo modo, sia pure, a crearsi un carattere, a dominare certi impulsi e istinti, ad acquistare certe forme «sociali» che vanno dallo snobismo, alle convenienze, alla correttezza, ecc. Ora cosa significa: «ciò che si è realmente» e da cui si cerca di apparire «diversi?» «Ciò che si è realmente» sarebbe l'insieme degli impulsi e istinti animaleschi e ciò che si cerca di apparire è il «modello» sociale-culturale, di una certa epoca storica, che si cerca di diventare; mi pare che ciò «che si è realmente» è dato dalla lotta per diventare ciò che si vuol diventare.

Come ho notato altrove, il Pirandello è criticamente un «paesano» siciliano che ha acquisito certi caratteri nazionali e certi caratteri europei, ma che sente in se stesso questi tre elementi di civiltà come giustapposti e contradditori. Da questa esperienza gli è venuto l'atteggiamento di osservare le contraddizioni nelle personalità degli altri e poi addirittura di vedere il dramma della vita come il dramma di queste contraddizioni.

Del resto un elemento non solo del teatro dialettale siciliano (Aria del continente) ma di ogni teatro dialettale italiano e anche del romanzo popolare è la descrizione, la satira e la caricatura del provinciale che vuole apparire «trasfigurato» in un carattere «nazionale» o europeo-cosmopolita, e non è altro che un riflesso del fatto che non esiste ancora una unità nazionale-culturale nel popolo italiano, che il «provincialismo» e particolarismo è ancora radicato nel costume e nei modi di pensare e di agire; non solo, ma che non esiste un «meccanismo» per elevare la vita dal livello provinciale a quello nazionale europeo collettivamente e quindi le «sortite», i «raids» individuali in questo senso assumono forme caricaturali, meschine, «teatrali», ridicole, ecc. ecc.

Sulla concezione del mondo implicita nei drammi di Pirandello occorre leggere la prefazione di Benjamin Crémieux alla traduzione francese di Enrico IV (Éditions de la «N. R. F.»).

[La personalità artistica del Pirandello.] Altrove ho notato come in un giudizio critico-storico su Pirandello, l'elemento «storia della cultura» debba essere superiore all'elemento «storia dell'arte», cioè che nell'attività letteraria pirandelliana prevale il valore culturale al valore estetico. Nel quadro generale della letteratura contemporanea, l'efficacia del Pirandello è stata piú grande come «innovatore» del clima intellettuale che come creatore di opere artistiche: egli ha contribuito molto piú dei futuristi a «sprovincializzare» l'«uomo italiano», a suscitare un atteggiamento «critico» moderno in opposizione all'atteggiamento «melodrammatico» tradizionale e ottocentista.

La quistione è però ancor piú complessa di quanto appaia da questi cenni. E si pone cosí: i valori poetici del teatro pirandelliano (e il teatro è il terreno piú proprio del Pirandello, l'espressione piú compiuta della sua personalità poetico-culturale) non solo devono essere isolati dalla sua attività prevalentemente di cultura, intellettuale-morale, ma devono subire una ulteriore limitazione: la personalità artistica del Pirandello è molteplice e complessa. Quando il Pirandello scrive un dramma, egli non esprime «letterariamente», cioè con la parola, che un aspetto parziale della sua personalità artistica. Egli «deve» integrare la «stesura letteraria» con la sua opera di capocomico e di regista. Il dramma del Pirandello acquista tutta la sua espressività solo in quanto la «recitazione» sarà diretta dal Pirandello capocomico, cioè in quanto Pirandello avrà suscitato negli attori dati una determinata espressione teatrale e in quanto Pirandello regista avrà creato un determinato rapporto estetico tra il complesso umano che reciterà e l'apparato materiale della scena (luce, colori, messinscena in senso largo). Cioè il teatro pirandelliano è strettamente legato alla personalità fisica dello scrittore e non solo ai valori artistico-letterari «scritti». Morto Pirandello (cioè, se Pirandello oltre che come scrittore, non opera come capo-comico e come regista) cosa rimarrà del teatro di Pirandello? Un «canovaccio» generico, che in un certo senso può avvicinarsi agli scenari del teatro pregoldoniano: dei «pretesti» teatrali, non della «poesia» eterna. Si dirà che ciò avviene per tutte le opere di teatro e in un certo senso ciò è vero. Ma solo in un certo senso. È vero che una tragedia di Shakespeare può avere diverse interpretazioni teatrali a seconda dei capocomici e dei registi, cioè è vero che ogni tragedia di Shakespeare può diventare «pretesto» per spettacoli teatrali diversamente originali: ma rimane che la tragedia «stampata» in libro, e letta individualmente, ha una sua vita artistica indipendente, che può astrarre dalla recitazione teatrale: è poesia e arte anche fuori del teatro e dello spettacolo. Ciò non avviene per Pirandello: il suo teatro vive esteticamente in maggior parte solo se «rappresentato» teatralmente, e se rappresentato teatralmente avendo il Pirandello come capocomico e regista. (Tutto ciò sia inteso con molto sale).

II. Carattere non

nazionale-popolare della

letteratura italiana.

Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana.

Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione della nazione italiana e della lotta per l'unità politica e territoriale e che hanno continuato e continuano ad ossessionare almeno una parte degli intellettuali italiani. Alcuni di tali problemi (come quello della lingua) molto antichi. Risalgono ai primi tempi della formazione di una unità culturale italiana. Nati per il confronto tra le condizioni generali dell'Italia e quelle di altri paesi, specialmente della Francia o per il riflesso di condizioni peculiari italiane come il fatto che la penisola fu la sede dell'Impero Romano e divenne la sede del maggiore centro della religione cristiana. L'insieme di questi problemi è il riflesso della faticosa elaborazione di una nazione italiana di tipo moderno, contrastata da condizioni di equilibrio di forze interne e internazionali.

Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di approfondimento; la trattazione ne è stata perciò fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse una soluzione politico-sociale concreta e coerente. Quando si dice che non è mai esistita una coscienza dell'unità organica di tali problemi occorre intendersi: forse è vero che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente la quistione, perché da una tale impostazione rigorosamente critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed è caratteristica della nostra vita nazionale. D'altronde pare inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni che ancora ossessionano gli intellettuali e anzi vengono oggi presentate come in via di organica soluzione (unità della lingua, rapporto tra arte e vita, quistione del romanzo e del romanzo popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione francese, quistione della «popolarità» del Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915-18 e coi rivolgimenti successivi, onde l'impiego inflazionistico dei termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia piú utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e proposte per la soluzione. Ecco il «catalogo» delle piú significative quistioni da esaminare ed analizzare: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» (per usare l'espressione di Ruggero Bonghi); 2) esiste un teatro italiano: polemica impostata da Ferdinando Martini e che va collegata con l'altra sulla maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3) quistione della lingua nazionale, cosí come fu impostata da Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5) è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come quella protestante: cioè l'assenza di lotte religiose vaste e profonde determinata dall'essere stata in Italia la sede del papato quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6) l'Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?; 7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare nel periodo delle lotte per l'indipendenza e l'unità nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso con le frasi di «ribellismo», di «sovversivismo», di «antistatalismo» primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura popolare in senso stretto (romanzi d'appendice, d'avventure, scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità» persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere, specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per l'infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha però un primato italiano nel melodramma, che in un certo senso è il romanzo popolare musicato.

Una delle ragioni per cui tali problemi non sono stati trattati esplicitamente e criticamente è da trovarsi nel pregiudizio rettorico (d'origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre esistita da Roma antica ad oggi e su alcuni altri idoli e borie intellettuali che se furono «utili» politicamente nel periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza, diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che realmente lottarono per costituire l'Italia moderna e perché inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato. Altre volte questi problemi sono mal posti per l'influsso di concetti estetici di origine crociana, specialmente quelli concernenti il cosí detto «moralismo» nell'arte, il «contenuto» estrinseco all'arte, la storia della cultura da non confondersi con la storia dell'arte ecc. Non si riesce a intendere concretamente che l'arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il «contenuto» dell'arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall'esterno (pretendendo un'arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall'intimo, perché si modifica tutto l'uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l'uomo è l'espressione necessaria.

Connessione del «futurismo» col fatto che alcune di tali quistioni sono state mal poste e non risolute, specialmente il futurismo nella forma piú intelligente datagli dai gruppi fiorentini di «Lacerba» e della «Voce», col loro «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco. Ultima manifestazione «Strapaese». Ma sia il futurismo di Marinetti, sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato, oltre il resto, in questo ostacolo: l'assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.

Anche la letteratura regionale è stata essenzialmente folcloristica e pittoresca: il popolo «regionale» era visto «paternalisticamente», dall'esterno, con spirito disincantato, cosmopolitico, da turisti in cerca di sensazioni forti e originali per la loro crudezza. Agli scrittori italiani ha proprio nuociuto l'«apoliticismo» intimo, verniciato di rettorica nazionale verbosa. Da questo punto di vista sono stati piú simpatici Enrico Corradini e il Pascoli, col loro nazionalismo confessato e militante, in quanto cercarono risolvere il dualismo letterario tradizionale tra popolo e nazione, sebbene siano caduti in altre forme di rettorica e di oratoria.

Per questa rubrica è da studiare il volume di B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Laterza, Bari, 1933. Il concetto di popolare nel libro del Croce non è quello di queste note: per il Croce si tratta di un atteggiamento psicologico, per cui il rapporto tra poesia popolare e poesia d'arte è come quello tra il buon senso e il pensiero critico, tra l'accorgimento naturale e l'accorgimento esperto, tra la candida innocenza e l'avveduta e accurata bontà. Tuttavia dalla lettura di alcuni saggi di questo libro pubblicati nella «Critica» pare si possa dedurre che mentre dal Trecento al Cinquecento la poesia popolare, anche in questo senso, ha una importanza notevole, perché è legata ancora a una certa vivacità di resistenza delle forze sociali sorte col movimento di ripresa verificatosi dopo il Mille e culminato nei Comuni, dopo il Cinquecento queste forze sono abbrutite completamente e la poesia popolare decade fino alle forme attuali in cui l'interesse popolare è soddisfatto dal Guerin Meschino, e da simile letteratura. Dopo il Cinquecento cioè si rende radicale quel distacco tra intellettuali e popolo che è alla base di queste note e che tanto significato ha avuto per la storia italiana moderna politica e culturale.

Contenuto e forma. L'accostamento di questi due termini può assumere nella critica d'arte molti significati. Ammesso che contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma. Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i cosí detti contenutisti sono stati «piú democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio, cioè volevano una letteratura che non fosse per gli «intellettuali», ecc. Si può parlare di una priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare in questo senso, che l'opera d'arte è un processo e che i cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma è «piú facile» parlare di contenuto che di forma, perché il contenuto può essere «riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell'elaborazione, i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto, niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche forma e in realtà quando si è raggiunta la «forma» soddisfacente anche il contenuto è cambiato. È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di gergo da conventicola di teste vuote.

Anche questa è da porre fra le quistioni della storia nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme: 1) c'è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D'Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l'ipocrisia stilistica Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell'opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo «melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e forma» oltre che un significato «estetico» hanno anche un significato «storico». Forma «storica» significa un determinato linguaggio, come «contenuto» indica un determinato modo di pensare, non solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate all'Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma. Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come fenomeno di massa, s'intende, perché papi singoli sono da per tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro è quello in cui al convenzionale barocco è successo il convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però. Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate: D'Annunzio è stato l'ultimo accesso di malattia del popolo italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però l'ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di conversione. D'altronde qui si fa una quistione storica, per spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente (discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto» e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due culture; individuale è il gusto «sobrio», non l'altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la cultura nazionale). Né si dica che di tale quistione non occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed espressione si identificano ed insistere sulla «forma» non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni forma di cultura, anche quella «antiretorica», ahimè!

La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere diverse risposte, a seconda di ciò che s'intende per romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste definizioni e importa non precisamente l'aspetto «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della «democrazia» (in senso largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo può essere stato «democratico» mentre il «liberalismo» può esserlo non stato). In questo senso ci interessa il problema per l'Italia ed esso è legato ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un teatro italiano, la quistione della lingua, perché la letteratura non è stata popolare, ecc. Occorre dunque, nella sterminata letteratura sul romanticismo, isolare questo aspetto e di esso interessarsi, teoricamente e praticamente, come fatto storico cioè e come tendenza generale che può dar luogo a un movimento attuale, a un attuale problema da risolvere. In questo senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne è l'aspetto sentimentale-letterario (piú sentimentale che letterario, nel senso che l'aspetto letterario è stato solo una parte dell'espressione della corrente sentimentale che ha pervaso tutta la vita e una parte molto importante della vita, e di questa vita solo una piccolissima parte ha potuto trovare espressione nella letteratura). La ricerca quindi è di storia della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia letteraria in quanto parte e aspetto di una piú vasta storia della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano, teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti piú importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole parlare). È da vedere come in Italia anche queste discussioni abbiano assunto un aspetto intellettuale e astratto: i pelasgi del Gioberti, le popolazioni «preromane», ecc., in realtà niente che fosse in rapporto col vivente popolo attuale che invece interessava il Thierry e la storiografia politica affine. Si è detto che la parola «democrazia» non deve essere assunta in tal senso, solo nel significato «laico» o «laicista» che si vuol dire; ma anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una unità non servile, dovuta all'obbedienza passiva, ma un'unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto, è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e perciò si capisce il significato della domanda: «è esistito un romanticismo italiano»?

Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi della corrente culturale idealistica Croce-Gentile) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell'ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789: l'artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del 1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si «parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra. Da tal punto di vista, s'intende il significato «nazionale», seppure poco profondo, delle correnti conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche; queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben radicate e intense. Se non si studia la cultura italiana fino al 1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende ben poco. Tuttavia occorre distinguere: c'è misto un sentimento nazionale antifrancese, nell'ammirazione per le cose di Francia: si vive di riflesso e si odia nello stesso tempo. Almeno fra gli intellettuali. Nel popolo i sentimenti «francesi» non sono tali, appaiono come «senso comune», come cose proprie del popolo stesso e il popolo è francofilo o francofobo secondo che viene aizzato o meno dalle forze dominanti. Era comodo far credere che la Rivoluzione del 1789, poiché avvenuta in Francia, era come se avvenuta in Italia, per quel tanto che delle idee francesi era comodo servirsi per guidare le masse; ed era comodo servirsi dell'antigiacobinismo forcaiolo per andare contro la Francia, quando ciò serviva.

[Degenerazioni artistiche.] Luigi Volpicelli, nella «Italia Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare tra parentesi, ha amato sempre l'arte piú per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all'arte; e forse proprio per questo è cosí diffidente verso gli artisti di oggi, i quali, volendo nell'arte la pura e sola arte, finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di pochi iniziati».

Osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un'arte «storica» (se non si vuole impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un'arte espressa in termini di cultura «comprensibili», cioè universali, o «obbiettivi», o «storici» o «sociali» che è la stessa cosa. Non vuole «neolalismi» artistici, specialmente se il «neolalico» è anche un imbecille.

Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l'articolo di Adriano Tilgher nell'«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su per giú: per ricordare le proprie opere, dato che, secondo l'estetica crociana, l'opera d'arte è «perfetta» anche già e solo nel cervello dell'artista. Ciò che potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade nella quistione della «natura dell'uomo» e nella quistione «cos'è l'individuo?». Se non si può pensare l'individuo fuori della società, e quindi se non si può pensare nessun individuo che non sia storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e anche l'artista, e ogni sua attività, non può essere pensata fuori della società, di una società determinata. L'artista pertanto non scrive o dipinge, ecc., cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l'istante della creazione, ma è artista solo in quanto «segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi. Ma ogni individuo-artista è tale in modo piú o meno largo e comprensivo, piú o meno «storico» o «sociale». Ci sono i «neolalici» o i «gerghisti», cioè quelli che essi soli possono rivivere il ricordo dell'istante creativo (ed è di solito un'illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità), altri che appartengono a conventicole piú o meno larghe (che hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali, cioè «nazionali-popolari». L'estetica del Croce ha determinato molte degenerazioni artistiche, e non è poi vero che ciò sia avvenuto sempre contro le intenzioni e lo spirito dell'estetica crociana stessa; per molte degenerazioni, sí, ma non per tutte, e specialmente per questa fondamentale, dell'«individualismo» artistico espressivo antistorico (o anti-sociale, o anti-nazionale-popolare).

[Letterati e «bohême» artistica.] È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca l'interesse per l'uomo vivente, per la vita vissuta (Le Cose viste di Ugo Ojetti sono poi quel gran capolavoro di cui si è incominciato a parlare da quando Ojetti è stato direttore del «Corriere della Sera» e cioè dell'organismo letterario che paga meglio gli scrittori e dà piú fama? Anche nelle Cose viste si parla specialmente di scrittori, da quelle che io ho letto anni fa, almeno. Si potrebbe rivedere). È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale.

Sugli intellettuali questa osservazione di Prezzolini (Mi pare..., p. 16) scritta nel 1920: «L'intellettuale da noi ha la pretesa di fare il parassita. Si considera come l'uccellino fatto per la gabbietta d'oro che dev'essere mantenuto a pastone e a chicchini di miglio. Lo sdegno che c'è ancora per tutto quello che somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pitia aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti di marcia interiore. Bisogna che gli intellettuali capiscano che i bei tempi per queste mascherate interessanti sono passati. Di qui a qualche anno non sarà permesso essere ammalati di letteratura o restare inutili». Gli intellettuali concepiscono la letteratura come una «professione» a sé, che dovrebbe «rendere» anche quando non si produce nulla immediatamente e dovrebbe dar diritto a una pensione. Ma chi stabilisce che Tizio è veramente un «letterato» e che la società può mantenerlo in attesa del «capolavoro»? Il letterato rivendica il diritto di stare in «ozio» («otium et non negotium»), di viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche modo (anche l'Ariosto, letterato per eccellenza, aveva incombenze amministrative e politiche): un'immagine del letterato del Rinascimento falsa e sbagliata. Oggi il letterato [è] professore e giornalista o semplice letterato (nel senso che tende a diventarlo, se è funzionario, ecc.).

Si può dire che la «letteratura» è una funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli, ciò non avviene nella letteratura. La quistione è dell'«apprendissaggio»: ma si può parlare di «apprendissaggio» artistico letterario? La funzione intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno dimostrato di essere effettivamente produttivi «artisticamente». Né ciò nuocerà all'«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà solo alla «bohème» artistica e non sarà un male, tutt'altro.

Consenso della nazione o degli «spiriti eletti». Cosa deve interessare di piú un artista, il consenso all'opera sua della «nazione» o quello degli «spiriti eletti»? Ma può esserci separazione tra «spiriti eletti» e «nazione»? Il fatto che la quistione sia stata posta e si continui a porre in questi termini, mostra per se stesso una situazione determinata storicamente di distacco tra intellettuali e nazione. Quali sono poi gli «spiriti» riputati «eletti»? Ogni scrittore o artista ha i suoi «spiriti eletti», cioè si ha la realtà di una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di «spiriti eletti», disgregazione che appunto dipende dalla non aderenza alla nazione-popolo, dal fatto che il «contenuto» sentimentale dell'arte, il mondo culturale è astratto dalle correnti profonde della vita popolare-nazionale, che essa stessa rimane disgregata e senza espressione. Ogni movimento intellettuale diventa o ridiventa nazionale se si è verificata una «andata al popolo», se si è avuta una fase «Riforma» e non solo una fase «Rinascimento» e se le fasi «Riforma-Rinascimento» si susseguono organicamente e non coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui tra il movimento comunale – riforma – e quello del Rinascimento c'è stato un iato storico dal punto di vista della partecipazione popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo scrivere «romanzi d'appendice» e versi da melodramma, senza un periodo di andata al popolo non c'è «Rinascimento» e non c'è letteratura nazionale.

Popolarità della letteratura italiana. «Nuova Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato, non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi, per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche d'italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura manca in massima di qualità modeste e necessarie, di ciò che s'indirizza all'uomo medio, all'uomo degli economisti (?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne costituisce l'originalità, come il merito, ch'essa non tocca né potrà mai toccare alla popolarità delle altre grandi letterature europee». Il Reggio accenna al fatto che invece le arti figurative italiane (dimentica la musica) sono popolari in Europa e si domanda: o esiste un abisso tra la letteratura e le altre arti italiane, e questo abisso sarebbe impossibile da spiegare, oppure il fatto deve essere spiegato con ragioni secondarie, extrartistiche, cioè mentre le arti figurative (e la musica) parlano un linguaggio europeo e universale, la letteratura ha i suoi limiti nei confini della lingua nazionale. Non mi pare che l'obbiezione regga: 1) perché c'è stato un periodo storico in cui anche la letteratura italiana fu popolare in Europa (Rinascimento) oltre alle arti figurative e anzi insieme a queste: cioè l'intera cultura italiana fu popolare. 2) Perché in Italia, oltre alla letteratura, non sono popolari neanche le arti figurative (sono popolari invece Verdi, Puccini, Mascagni ecc.). 3) Perché la popolarità delle arti figurative italiane in Europa è relativa: si limita agli intellettuali e in alcune altre zone della popolazione europea, è popolare perché legata a ricordi classici o romantici; non come arte. 4) Invece la musica italiana è popolare tanto in Europa come in Italia. L'articolo del Reggio continua sui binari della solita retorica, quantunque qua e là contenga osservazioni sagaci.

Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo melodrammatico, cioè dall'espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco. Una delle cause di questo gusto è da ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e alla meditazione intima e individuale della poesia e dell'arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per «oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di tipo urbano e paesano. Nella provincia, per esempio, è molto seguita l'oratoria funebre e quella delle preture e dei tribunali (e anche delle conciliature): queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di «tifosi» di carattere popolare, e un pubblico costituito (per i tribunali) da quelli che attendono il proprio turno, testimoni, ecc. In certe sedi di pretura mandamentale, l'aula è sempre piena di questi elementi, che si imprimono nella memoria i giri di frase e le parole solenni, se ne pascono e le ricordano. Cosí nei funerali di maggiorenti, cui affluisce molta folla, spesso solo per sentire i discorsi.

Le conferenze nelle città hanno lo stesso ufficio e cosí i tribunali, ecc. I teatri popolari con gli spettacoli cosí detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato, ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per creare questo gusto e il linguaggio conforme.

Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti espressi non siano retorici o melodrammatici.

Cfr. l'Antologia compilata dallo Schiavi; poesie del Gori. Traduzione possibile di M. Martinet e di altri scrittori che oggi [sono] piú numerosi che in passato: traduzioni sobrie, del tipo di quelle del Togliatti per Whitman e Martinet.

[Il melodramma.] Ho accennato in altra nota come in Italia la musica abbia in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare e come i genii musicali abbiano avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati. È da ricercare: 1°) se la fioritura dell'opera in musica coincide in tutte le sue fasi di sviluppo (cioè non come espressione individuale di singoli artisti geniali, ma come fatto, manifestazione storico-culturale) con la fioritura dell'epica popolare rappresentata dal romanzo. Mi pare di sí: il romanzo e il melodramma hanno l'origine nel settecento e fioriscono nel primo 50° del secolo XIX, cioè essi coincidono con la manifestazione e l'espansione delle forze democratiche popolari-nazionali in tutta l'Europa. 2°) Se coincidono l'espansione europea del romanzo popolare anglo-francese e quella del melodramma italiano.

Perché la «democrazia» artistica italiana ha avuto una espressione musicale e non «letteraria»? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani? Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni, e questo fenomeno si verifica anche in Italia, sebbene in misura meno larga (anche il settecento italiano, specialmente nella seconda metà, è piú «nazionale» che cosmopolita), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai «nazionale» ma europea, in due sensi: o perché l'«intrigo» del dramma si svolge in tutti i paesi d'Europa e piú raramente in Italia, muovendo da leggende popolari o da romanzi popolari; o perché i sentimenti e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica. (È da collegare questo fatto con la popolarità di Shakespeare e anche dei tragici greci, i cui personaggi, travolti da passioni elementari – gelosia, amor paterno, vendetta, ecc. – sono essenzialmente popolari in ogni paese). Si può perciò dire che il rapporto melodramma italiano – letteratura popolare anglo-francese non è sfavorevole criticamente al melodramma, poiché il rapporto è storico-popolare e non artistico-critico. Verdi non può essere paragonato, per dir cosí, a Eugenio Sue, come artista, se pure occorre dire che la fortuna popolare di Verdi può solo essere paragonata a quella del Sue, sebbene per gli estetizzanti (wagneriani) aristocratici della musica, Verdi occupi lo stesso posto nella storia della musica che Sue nella storia della letteratura. La letteratura popolare in senso deteriore (tipo Sue e tutta la sequela) è una degenerazione politico-commerciale della letteratura nazionale-popolare, il cui modello sono appunto i tragici greci e Shakespeare.

Questo punto di vista sul melodramma può anche essere un criterio per comprendere la popolarità del Metastasio che fu tale specialmente come scrittore di libretti.

Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono significativi per giudicare il carattere astratto dalla realtà nazionale-popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928 Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana, commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o rare») che è stata riconosciuta come una bellissima opera d'arte (cfr. Benedetto Croce nella «Critica» del 1930). Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929, cosí imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla commedia: l'autore ignoto della Venexiana è un ritardatario, un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace (anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza. Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi, gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.

È interessante ciò che è avvenuto per la Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo proclamò maggiore non solo dell'Ariosto (nella commedia) e del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre 1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.

È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento: uno veramente nazionale-popolare (nei dialetti, ma anche in latino) legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e l'altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è portato sugli scudi dai retori.

Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi? Goldoni è quasi «unico» nella tradizione letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace critica dell'aristocrazia corrotta e imputridita.

Conflitto Goldoni-Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe, scritte per dimostrare che il popolo accorre alle piú insulse strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l'inverosimile (presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).

Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore «fonte» della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non è il popolo, o il passato che continua nel «popolo», ma è invece l'insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell'800 quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventú, ma che è appunto «deformazione» perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l'ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della cosí detta poesia sepolcrale: è un'ispirazione «politica», come egli stesso scrive nella lettera al Guillon).

Gli «umili». Questa espressione – «gli umili» – è caratteristica per comprendere l'atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della «letteratura per gli umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell'espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevskij c'è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che magari è «oggettivamente» costituito di «umili» ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato. Nell'intellettuale italiano l'espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l'altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.

Manzoni e gli «umili». L'atteggiamento «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi Sposi) in quanto è d'origine «cristiana» e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su questo argomento del «democraticismo» o «popolarismo» del Manzoni vedere altre note). Anche su questo punto dei rapporti tra l'atteggiamento del Manzoni e le teorie dei Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni.

Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in quanto esso rappresenta persone delle «classi subalterne» che «non hanno storia», cioè la cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato. (Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia delle classi subalterne», in cui si può fare riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia della prassi).

Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana. Atteggiamento verso il popolo nei Promessi Sposi. [Il] carattere «aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal «compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (Su questo argomento ho scritto altra nota). Vedere se spunti interessanti nel libro di A. A. Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni, Ed. «La Cultura», Roma-Milano 1931.

Sul libro dello Zottoli cfr. Filippo Crispolti, Nuove indagini sul Manzoni, nel «Pègaso», di agosto 1931. Questo articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per comprendere l'atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli «umili». Ma in realtà mi pare che il Crispolti abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni «gesuiticamente». Dice il Crispolti del Manzoni: «Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo con cui vede i piú di coloro che non sono popolo». Ma non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono «popolari»; questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l'epigramma su Paolo Bourget: che per il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito «popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata, inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o «partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con «occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio severo «i piú di coloro che non sono popolo»: egli trova «magnanimità», «alti pensieri», «grandi sentimenti» solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco.

Che non abbia un gran significato il fatto che gli «umili» abbiano una parte di prim'ordine nel romanzo manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è «popolare-nazionale», ma aristocratico.

Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo del Crispolti. Si può mostrare che il «cattolicismo» anche in uomini superiori e non «gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuí a creare in Italia il «popolo-nazione» neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e solamente aulico. Il Crispolti accenna solo al fatto che il Manzoni per un certo tempo accolse la concezione del Thierry (per la Francia) della lotta di razza nel seno del popolo (Longobardi e Romani, come in Francia Franchi e Galli) come lotta tra umili e potenti. Lo Zottoli cerca di rispondere al Crispolti nel «Pègaso» del settembre 1931.

Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931 scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox Dei» nei Promessi Sposi. La sentenza è citata due volte (secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell'ultimo capitolo ed appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è un grand'uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox populi, vox Dei». Il Faggi fa osservare che questo solenne proverbio è impiegato da don Abbondio un po' enfaticamente, mentre egli si trova in quella felice disposizione d'animo per la morte di don Rodrigo, ecc.; non ha particolare importanza o significato. L'altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi, ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in parentesi, con intonazione ironica. Negli Sposi Promessi (cap. III del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce di Dio?»

Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si tratti d'idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano nella ben nota espressione di conscentia generis humani». Ma il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo cattolicismo. Cosí riporta per esempio il famoso parere di Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l'opinione del card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso comune piú banale. Che il card. Borromeo si trovi d'accordo con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare sia legato al tempo e al fatto che l'autorità ecclesiastica aveva un potere politico e un'influenza; che Perpetua pensi che don Abbondio debba ricorrere all'arcivescovo di Milano, è cosa naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la testa in quel momento e Perpetua avesse piú «spirito di corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo cosí parli. Non c'entra la voce di Dio in questo caso. Cosí non ha molto rilievo l'altro caso: Renzo non crede all'efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in ciò si trova d'accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche qui di «casistica» e non di morale. Il Faggi scrive che «il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma ciò ha un significato piú complesso di ciò che il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili» c'è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c'è la chiesa, e Dio non s'incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s'incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.

Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione non come un'epopea popolare.

«Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni. Nel «Marzocco» dell'11 novembre 1928 è pubblicato un articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, nel quale sono contenuti alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell'arte religiosa», esposto nello studio critico sullo Shakespeare: «L'arte in generale e in particolare l'arte drammatica fu sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di questi rapporti s'erano fatta in ogni età gli uomini piú eminenti e destinati perciò a guidare gli altri... Ci fu poi una deviazione nell'arte che l'asserví al passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche nell'arte cristiana». Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di P. Biezuchov.

Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell'uomo colto. Ciò appunto è il tratto piú rilevante della religione del Tolstoi che intende l'Evangelo «democraticamente», cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subíto la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico. Il rilievo del Faggi che «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida» non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che è l'arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti eminenti, ma la «realtà» è espressa dagli umili, dai semplici di spirito.

Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c'è popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo. Perpetua, secondo don Abbondio, aveva detto presso a poco ciò che disse poi il Borromeo, ma intanto si tratta di quistioni pratiche e poi è notevole come lo spunto sia oggetto di comicità. Cosí il fatto che il parere di Renzo sul valore del voto di verginità di Lucia coincide esteriormente col parere di padre Cristoforo. L'importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell'Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e folgorante come ha l'apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere «sillogistico». In realtà anche nel Manzoni si possono trovare notevoli tracce di brescianesimo. (È da notare che prima del Parini, furono i gesuiti a «valorizzare» «paternalisticamente» il popolo: cfr. La giovinezza del Parini, Verri e Beccaria di C. A. Vianello (Milano, 1933), dove si accenna al padre gesuita Pozzi «che tanto prima del Parini insorse a difendere ed esaltare – innanzi al consesso del migliore patriziato milanese – «il plebeo» o proletario, come ora si direbbe» (vedi «Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1934, p. 272).

In un secondo articolo pubblicato nel «Marzocco» del 9 settembre 1928, il Faggi (Tolstoi e Shakespeare) esamina l'opuscolo di Tolstoi su Shakespeare, al quale aveva accennato nell'articolo precedente: Leo N. Tolstoi: Shakespeare, eine kritische Studie, Hannover, 1906. Il volumetto contiene anche un articolo di Ernest Crosby su L'atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi lavoratrici e una breve lettera di Bernardo Shaw sulla filosofia dello Shakespeare. Tolstoi vuole demolire lo Shakespeare partendo dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica non è artistica, ma morale e religiosa. L'articolo del Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all'opinione di molti illustri inglesi, che non c'è in tutta l'opera dello Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse lavoratrici. Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo, parteggia manifestamente per le classi elevate della società: il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le volte che egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o argomento di riso (cfr. ciò che già detto del Manzoni, la cui tendenza è analoga, sebbene le manifestazioni ne siano attenuate).

La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare «pensatore», non contro Shakespeare «artista». Secondo lo Shaw nella letteratura si deve dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell'avvenire: Shakespeare non fu «moralmente» superiore al suo tempo ecc.

In queste note occorre evitare ogni tendenziosità moralistica tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità del «senno di poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell'arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un'opera è subordinata alla ricerca del perché essa è «letta», è «popolare», è «ricercata» o, all'opposto, del perché non tocca il popolo e non l'interessa, mettendo in evidenza la assenza di unità nella vita culturale nazionale.

[Ironia e gergo letterario.] Nel «Marzocco» del 18 settembre 1932 Tullia Franzi scrive sulla quistione sorta tra il Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare: «Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure». Lo Swan scrisse al Manzoni: «Un barbaro che non era privo d'ingegno is a phrase, calculated to draw upon you the anathema of every admirer of our bard». Nonostante che Swan conoscesse gli scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l'ironia manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles de génie»). Lo Swan pubblicò come prefazione alla sua traduzione la lettera dove il Manzoni gli spiega il significato della sua espressione ironica. Ma la Franzi ricorda che nelle altre traduzioni inglesi l'espressione manzoniana o è taciuta o è resa anodina (scrive uno scrittore straniero ecc.). Cosí nelle traduzioni in altre lingue, ciò che dimostra come questa ironia che ha bisogno di essere spiegata per essere compresa e assaporata, sia in fondo un'ironia in «gergo», da conventicola letteraria. Mi pare che il fatto sia molto piú esteso di quanto non sembri, e renda difficile tradurre dall'italiano non solo ma anche, spesso, comprendere un italiano che parla in conversazione. La «finezza» di cui pare si abbia bisogno in tali conversazioni non è un fatto dell'intelligenza normale, ma il fatto di dover conoscere fatterelli e atteggiamenti intellettuali di «gergo», proprii di letterati e anzi di certi gruppi di letterati. (Nell'articolo della Franzi è da notare una metafora «femminile» sorprendente: «Col sentimento di un uomo che, strapazzato e battuto dalla sua sposa per sospetto geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni e benedice quelle percosse che gli sono testimonianza di amore, il Manzoni accolse questa lettera». Un uomo che si rallegra di essere bastonato dalla moglie è certo una forma originale di femminismo contemporaneo).

[«Contenutisti» e «calligrafi».] Polemica svoltasi nell'«Italia Letteraria», nel «Tevere», nel «Lavoro Fascista», nella «Critica Fascista» tra «contenutisti» e «calligrafi». Pareva da alcuni accenni che Gherardo Casini (Direttore del «Lavoro fascista» e redattore capo della «Critica fascista») dovesse impostare almeno criticamente in modo esatto il problema, ma il suo articolo nella «Critica» del 1° maggio è una delusione. Egli non riesce a definire i rapporti tra «politica» e «letteratura» nel terreno della scienza e dell'arte politica come non riesce a definirli nel terreno della critica letteraria: egli non sa praticamente indicare come possa essere impostata e condotta una lotta o aiutato un movimento per il trionfo di una nuova cultura o civiltà, né si pone il problema del come possa avvenire che una nuova civiltà, affermata come già esistente, possa non avere una sua espressione letteraria e artistica, possa non espandersi nella letteratura, mentre è sempre avvenuto il contrario nella storia, che ogni nuova civiltà, in quanto era tale, anche compressa, combattuta, in tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni intellettuali e morali per l'espressione legislativa e statale. Poiché nessuna opera d'arte può non avere un contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i «contenutisti» sono semplicemente i portatori di una nuova cultura, di un nuovo contenuto e i «calligrafi» i portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o diversa cultura (a parte ogni quistione di valore su questi contenuti o «culture» per il momento, sebbene in realtà è proprio il valore delle culture in contrasto e la superiorità di una sull'altra che decide del contrasto). Il problema quindi è di «storicità» dell'arte, di «storicità e perpetuità» nel tempo stesso, è di ricerca del fatto se il fatto bruto, economico-politico, di forza, abbia (e possa) subíto l'elaborazione ulteriore che si esprime nell'arte o se invece si tratti di pura economicità inelaborabile artisticamente in modo originale in quanto l'elaborazione precedente già contiene il nuovo contenuto, che è nuovo solo cronologicamente. Può avvenire infatti, dato che ogni complesso nazionale è una combinazione spesso eterogenea di elementi, che gli intellettuali di esso, per il loro carattere cosmopolitico, non coincidano col contenuto nazionale, ma con un contenuto preso a prestito da altri complessi nazionali o addirittura cosmopoliticamente astratto. Cosí il Leopardi si può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristico dei paesi in cui il sensismo era forma culturale organica. Quando nel paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale si affermano ed espandono, è certo che esse non possono creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi [è naturale] che ci sia un «calligrafismo» cioè, in realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni «contenuto» passionale serio e profondo. Pertanto il «calligrafismo» sarà la letteratura organica di tali complessi nazionali, che come Lao-tse, nascono già vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento, senza «romanticismi» ma anche senza «classicismi» o con un romanticismo di maniera, in cui la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle «estati di San Martino», di un vecchio voronovizzato, non di una virilità o maschilità irrompente, cosí come il classicismo sarà anch'esso di maniera, «calligrafismo» appunto, mera forma come una livrea da maggiordomo. Avremo «strapaese» e «stracittà», e lo «stra» avrà piú significato di quanto non sembri.

È da notare inoltre come in questa discussione manchi ogni serietà di preparazione: le teorie del Croce saranno da accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza e citarle con scrupolo. Invece è da notare come nella discussione esse siano riferite a orecchio, «giornalisticamente». È evidente che il momento «artistico» come categoria, nel Croce, anche se esso è presentato come momento della pura forma, non è il presupposto di nessun calligrafismo né la negazione di nessun contenutismo, cioè del vivace irrompere di nessun nuovo motivo culturale. Neanche conta, in realtà, il concreto atteggiamento del Croce, come politico, verso questa o quella corrente di passioni e sentimenti; come esteta il Croce rivendica il carattere di liricità dell'arte, anche se come politico rivendichi e lotti per il trionfo di un determinato programma invece che di un altro. Pare anzi che con la sua teoria della circolarità delle categorie spirituali, non possa negarsi che nell'artista il Croce presupponga una forte «moralità», anche se non come fatto morale consideri l'opera d'arte ma come fatto estetico, cioè consideri un momento e non un altro del circolo come quello di cui si tratta. Cosí, per esempio, nel momento economico considera il «brigantaggio», come l'affare di borsa, ma non pare che come uomo lavori allo sviluppo del brigantaggio piú che agli affari di borsa (e si può dire che, in misura della sua importanza politica, il suo atteggiamento non sia senza ripercussione sugli affari di borsa). Questo stesso fatto, della poca serietà della discussione e del non soverchio scrupolo dei disputanti nell'impadronirsi dei termini del problema e nello scrupolo dell'esattezza, non è certo documento che il problema sia vitale e di importanza eccezionale: è una polemica di piccoli e mediocri giornalisti piú che i «dolori del parto» di una nuova civiltà letteraria.

Il pubblico e la letteratura italiana. In un articolo pubblicato dal «Lavoro» e riportato in estratti dalla «Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928, Leo Ferrero scrive: «Per una ragione o per l'altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano piú pubblico. [...] Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e l'ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. [...] Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è piú deleterio dell'ammirazione convenzionale) è il piú grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani».

L'«ammirazione» del Ferrero non è altro che una metafora e un «nome collettivo» per indicare il complesso sistema di rapporti, la forma di contatto tra una nazione e i suoi scrittori. Oggi questo contatto manca, cioè la letteratura non è nazionale perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. Inoltre non c'è una gerarchia nel mondo letterario, cioè manca una personalità eminente che eserciti una egemonia culturale. Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l'espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni piú profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d'arte, altrimenti alla letteratura d'arte viene preferita la letteratura d'appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente.

La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica («Pègaso», agosto 1930) Ugo Ojetti fa due osservazioni notevoli. 1) Ricorda che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori e quella «des honnêtes gens», cioè del pubblico «illuminato», che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico (cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio illuminato come esiste in Francia), «manca la persuasione o, se si vuole, l'illusione che questi (lo scrittore) compia opera d'importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perché, come ella (il Fracchia) dice "ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e cosí è sempre stato, e cosí sarà sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l'importanza, la grandezza, il valore e la durata". Giusto, ma non in Italia ecc.». (L'Ojetti prende lo spunto dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioacchino Volpe, pubblicata nell'«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 e che si riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell'Accademia in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra l'altro: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente, vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all'ascesa, alcune buone e promettenti realizzazioni»).

2) L'altra osservazione dell'Ojetti è questa: «La scarsa popolarità della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. È vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici ecc. ecc.». Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c'è continuità e unità. L'affermazione di una continuità ed unità è solo un'affermazione retorica o ha valore di mera propaganda suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare artificialmente ciò che non esiste, non è una realtà in atto. (Una certa continuità e unità parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono spezzate col D'Annunzio e successori). Il passato, compresa la letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura libresca e scolastica; ciò che poi significa che il sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene dire che esso è solo ancora in via di formazione, riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».

Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. G. Volpe si possono estrarre altri brani tipici: «Solo un po' [piú] di coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare l'elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.». Il Volpe aveva un po' «sul serio» parafrasato i versi giocosi del Giusti: «Eroi, eroi, che fate voi? – Ponziamo il poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature.

Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano troppe traduzioni di misure legislative-corporative che proteggano gli scrittori italiani (è da ricordare l'ordinanza del sottosegretario agli Interni on. Bianchi, poi «interpretata» e di fatto revocata, e che era connessa a una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del Fracchia già citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e che oggi si riconosce non valgono nulla. All'ingrosso il fatto è giusto, ma se ne deve dedurre che l'attuale periodo letterario non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla vita nazionale effettiva, sicché neanche per «ragioni pratiche» vengono esaltate opere che poi magari potrebbero essere riconosciute artisticamente nulle perché la loro «praticità» sarà stata superata. Ma è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono stranieri e ce ne sarebbero di piú se fossero tradotti, come i libri di Remarque, ecc. Realmente il tempo presente non ha una letteratura aderente ai suoi bisogni piú profondi ed elementari, perché la letteratura esistente, salvo rare eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a gruppi ristretti che della vita nazionale sono le mosche cocchiere. Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche ecc. Ma se i libri fossero esaminati da un punto di vista di storia della cultura, si lamenterebbe lo stesso e peggio, perché il contenuto ideologico e culturale dell'attuale letteratura è quasi zero, ed è, per di piú, contraddittorio e discretamente gesuitico.

Non è neanche vero (come ha scritto l'Ojetti nella lettera al Fracchia) che in Italia non esista una «critica del pubblico»; esiste, ma a suo modo, perché il pubblico legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua disposizione. Perché questo pubblico preferisce ancora Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui romanzi gialli? D'altronde questa critica del pubblico italiano ha una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori, dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali ecc. Né si tratta di esotismo al cento per cento, perché in musica lo stesso pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma all'estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. Questo fatto è la riprova piú perentoria che in Italia c'è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la «sua» letteratura all'estero, perché la sente piú «sua» di quella cosí detta nazionale. In questo fatto è posto un problema di vita nazionale essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura sia prodotta nella stessa comunità nazionale. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso piú stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; cosí come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi ecc. D'altronde non si sa se il centro politico dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi di superarla: è certo però che i letterati, in questo caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i loro cervelli vuoti si accaniscono nell'esaltazione nazionalistica per non sentire il peso dell'egemonia da cui si dipende e si è oppressi.

[Polemiche inconcludenti.] Si moltiplicano gli scritti sul distacco tra arte e vita. Articolo di Papini, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1933, articolo di Luigi Chiarini nell'«Educazione Fascista» del dicembre 1932. Attacchi contro Papini nell'«Italia Letteraria» ecc... Polemiche noiose e quanto inconcludenti. Papini è cattolico e anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto risultano da questa doppia qualità. In ogni modo questo rinnovarsi delle polemiche (alcuni articoli di «Critica Fascista», quelli di Gherardo Casini e uno di Bruno Spampanato contro gli intellettuali sono i piú notevoli e si avvicinano di piú al nocciolo della quistione) è sintomatico e mostra come si senta il disagio per il contrasto tra le parole e i fatti, tra le affermazioni recise e la realtà che le contraddice.

Pare però che oggi sia piú possibile far riconoscere la realtà della situazione: c'è indubbiamente piú buona volontà di comprendere, piú spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe creare una effettiva unità nazionale-popolare, anche se con mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col «volontarismo»: per lo meno si sente che questa unità manca e che tale mancanza è una debolezza nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l'attuale epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto. Le debolezze, d'altronde, sono evidenti: la prima è quella dell'essere persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale popolare-nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve far nulla piú oltre di radicale, ma che si tratta solo di «organizzare», educare, ecc.; tutt'al piú si parla di «rivoluzione permanente» ma in significato ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è dialettica, è milizia, quindi rivoluzione. Le altre debolezze sono di piú difficile comprensione: esse infatti possono risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della base economica di questi gruppi intellettuali.

[Ciò che è «interessante» nell'arte.] Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per «interessante» nell'arte in generale e specialmente nella letteratura narrativa e nel teatro. L'elemento «interessante» muta secondo gli individui o i gruppi sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della cultura, non dell'arte, ecc. Ma è perciò un fatto completamente estraneo e separato dall'arte? Intanto l'arte stessa interessa, è interessante cioè per se stessa, in quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo carattere piú intimo all'arte di essere interessante per se stessa, quali altri elementi di «interesse» può presentare un'opera d'arte, per esempio un romanzo o un poema o un dramma? Teoricamente infiniti. Ma quelli che «interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo gli elementi che si ritiene contribuiscano piú direttamente alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del romanzo, del poema, del dramma. Un grammatico si può interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella lingua italiana letteraria: ecco un elemento «interessante» che non contribuirà molto alla diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del Carducci erano un elemento «interessante» per una cerchia piú vasta, per la corporazione dei letterati di professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque un elemento di «fortuna» immediata già notevole, contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti» variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le idiosincrasie personali.

L'elemento piú stabile di «interesse» è certamente l'interesse «morale» positivo o negativo, cioè per adesione o per contraddizione: «stabile» in un certo senso, cioè nel senso della «categoria morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente legato a questo è l'elemento «tecnico» in un certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo di far capire nel modo piú immediato e piú drammatico il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del dramma: cosí abbiamo nel dramma i «colpi» di scena, nel romanzo l'«intrigo» prevalente, ecc. Tutti questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista dell'arte essi sono in un certo senso «indifferenti», cioè extra-artistici: sono dati di storia della cultura e da questo punto di vista devono essere valutati.

Che ciò avvenga, che cosí sia, è appunto provato dalla cosí detta letteratura mercantile, che è una sezione della letteratura popolare-nazionale: il carattere «mercantile» è dato dal fatto che l'elemento «interessante» non è «ingenuo», «spontaneo», intimamente fuso nella concezione artistica, ma ricercato dall'esterno, meccanicamente, dosato industrialmente come elemento certo di «fortuna» immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che anche la letteratura commerciale non dev'essere trascurata nella storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da questo punto di vista, perché il successo di un libro di letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore esistente) quale sia la «filosofia dell'epoca», cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa letteratura è uno «stupefacente» popolare, è un «oppio». (Da questo punto di vista si potrebbe fare un'analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che è forse il piú «oppiaceo» dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione, sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede piú «sistematicamente»).

Cfr. l'articolo Dell'interesse di Carlo Linati nei «Libri del giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che consista quel «quid» per cui i libri interessano e finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid» per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi tempi è diventato «scottante» ed è vero, come è naturale che sia. C'è stato un certo risveglio di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il problema del perché i libri italiani non siano letti, del perché essi siano ritenuti «noiosi» e «interessanti» invece quelli stranieri, ecc. Il risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non è «nazionale» nel senso che non è popolare e che si subisce come popolo l'egemonia straniera. Onde programmi, polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla. Sarebbe necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento culturale-morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma ciò appunto non può avvenire per la contraddizione ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e lotta contro la tradizione della pastasciutta.

Cfr. l'articolo di Piero Rébora, Libri italiani ed editori inglesi, nell'«Italia che scrive» del marzo 1932. Perché la letteratura italiana contemporanea non ha quasi corso in Inghilterra: «Scarsa capacità di obiettiva narrazione e d'osservazione, egocentrismo morboso, antiquata ossessione erotica; ed insieme, caos linguistico e stilistico, pel quale molti nostri libri son scritti tuttora con torbido impressionismo lirico che infastidisce il lettore italiano e stordisce uno straniero. Centinaia di vocaboli usati dagli scrittori contemporanei non si trovano nei vocabolari e nessuno sa quello che significhino esattamente». «Sopratutto, forse, rappresentazione dell'amore e della donna piú o meno incomprensibile per gli anglo-sassoni, verismo provinciale semi-vernacolo, mancanza di unità linguistica e stilistica». «Occorrono libri di tipo europeo, non di trito verismo provinciale». «L'esperienza m'insegna che il lettore straniero (e probabilmente anche l'italiano) trova nei nostri libri spesso qualcosa di caotico, di urtante, di ripugnante quasi, inseritosi chissà come qua e là, in mezzo a pagine invece ammirevoli, rivelanti un ingegno solido e profondo». «Vi sono romanzi, libri di prose, commedie riuscitissime, che sono irremissibilmente guastate da due o tre pagine, da una scena, da qualche battuta magari, di sconcertante volgarità, sciatteria, disgustosità; che rovina tutto». «... Il fatto rimane che un professore italiano all'estero non riesce, anche con la maggior buona volontà, a mettere insieme una dozzina di buoni libri italiani contemporanei, che non contengano qualche pagina disgustosa, discreditante, [disastrosa] per la nostra elementare dignità, penosamente triviale, che è meglio non metter sotto il naso di intelligenti lettori stranieri. Taluni hanno il malvezzo di chiamare tali pudori e tali disgusti con l'infamante nome di "puritanismo"; mentre invece si tratta solo ed unicamente di "buon gusto"».

L'editore, secondo il Rébora, dovrebbe intervenire di piú nel fatto letterario, e non essere solo un commerciante-industriale, funzionando da prima istanza «critica», specialmente per quanto riguarda la «socialità» del lavoro ecc.

[Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese.] Cfr. il saggio di G. A. Borgese Il senso della letteratura italiana nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un motto, non può riassumere lo spirito di un'epoca o di un popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero: chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà dell'analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo dell'intimità; per la tedesca: audacia della libertà; per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà, magnificenza, grandezza». Insomma il Borgese trova che il carattere della letteratura italiana è «teologico-assoluto-metafisico-antiromantico» ecc., e forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di casta, non sente il dramma della storia, non è cioè popolare-nazionale.

Parla del libro del Bonghi: «L'autore e i suoi amici si accorsero presto, ma troppo tardi per correggere un titolo divenuto in breve tempo eccessivamente famoso, che il piccolo libro avrebbe dovuto intitolarsi piuttosto: perché la prosa italiana non sia popolare in Italia. Questo appunto è debole relativamente nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso del prosaico: l'interesse, la curiosità osservatrice, l'amore paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l'attuazione drammatica e progressiva del divino».

È interessante poco prima un brano sul De Sanctis e il rimprovero buffo: «Vedeva vivere la letteratura italiana da piú di sei secoli e le chiedeva di nascere». In realtà il De Sanctis voleva che la «letteratura» si rinnovasse perché si erano rinnovati gli italiani, perché sparito il distacco tra letteratura e vita ecc. È interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della critica attuale.

«La sua limitata popolarità (della letteratura italiana), il singolare e quasi aristocratico e appartato genere di fortuna che le toccò per tanto tempo, non si spiega soltanto (!) con la sua inferiorità: si spiega piú completamente (!) con le sue altezze (! altezze mescolate con inferiorità!), con l'aria rarefatta in cui si sviluppò. Non-popolarità è come dire non-divulgazione; conseguenza che discende dalla premessa: odi profanum vulgus et arceo. Tutt'altro che popolana e profana, questa letteratura nacque sacra, con un poema, che il suo stesso poeta chiamò sacro (sacro perché parla di Dio, ma quale argomento piú popolare di Dio? E nella Divina Commedia non si parla solo di Dio ma anche dei diavoli e della loro "nuova cennamella") ecc. ecc.». «Il destino politico, che, togliendo all'Italia libertà e potenza materiale, ne fece quello che biblicamente, leviticamente, si chiamerebbe un popolo di sacerdoti».

Il saggio conchiude, meno male, che il carattere della letteratura italiana può cambiare, anzi deve cambiare ecc. ma ciò è stonato con il complesso del saggio stesso.

[Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente.] Da un articolo di Paolo Milano nell'«Italia letteraria» del 27 dicembre 1931: «Il valore che si dà al contenuto di un'opera d'arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. Un simile aforisma può tornare in mente a chi rifletta sullo sforzo, da tante generazioni (?) avviato (sic) e che si sta tuttora compiendo, di creare una tradizione del moderno romanzo italiano. Quale società, anzi quale ceto dipingere? I tentativi piú recenti non consistono forse nel desiderio di uscire dai personaggi popolareschi che tengono la scena nell'opera manzoniana e verghiana? E le mezze riuscite non si possono forse ricondurre alle difficoltà e all'incertezza nel fissare un ambiente (fra alta borghesia oziosa e gente minuta e bohème marginale)?».

Il brano è sorprendente per il modo meccanico ed esteriore di porre le quistioni. Infatti avviene che «generazioni» di scrittori tentino a freddo di fissare l'ambiente da descrivere senza con ciò stesso manifestare il loro carattere «astorico» e la loro povertà morale e sentimentale? Del resto per «contenuto» non basta intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è essenziale per il contenuto è l'atteggiamento dello scrittore e di una generazione verso questo ambiente. L'atteggiamento solo determina il mondo culturale di una generazione e di un'epoca e quindi il suo stile. Anche nel Manzoni e nel Verga, non i «personaggi popolareschi» sono determinanti, ma l'atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato dall'ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni del verismo applicato piú razionalmente che dallo Zola. L'atteggiamento del Manzoni è il piú diffuso nella letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera, negli scrittori subalterni, nell'atteggiamento «brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico.

[Gli italiani e il romanzo.] Sarà da vedere un discorso sul tema «Gli italiani e il romanzo», tenuto da Angelo Gatti e riprodotto in parte dall'«Italia Letteraria» del 9 aprile 1933. Una notazione interessante pare quella che tocca i rapporti tra moralisti e romanzieri in Francia e in Italia. In Francia il tipo del moralista è ben diverso da quello italiano, che è piuttosto «politico»: l'italiano studia come «dominare», come essere piú forte, piú abile, piú furbo; il francese come «dirigere» e quindi come «comprendere» per influenzare e ottenere un «consenso spontaneo e attivo». I Ricordi politici e civili del Guicciardini, sono di questo tipo. Cosí in Italia grande abbondanza di libri come il Galateo, in cui si bada all'atteggiamento esteriore delle classi alte. Nessun libro come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e capillari. Questa differenza nel «romanzo» che in Italia è piú esteriore, gretto, senza contenuto umano nazionale-popolare o universale.

Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori. Estratto dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti (nel «Pègaso» del settembre 1930): «Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche a vincere? D'italiani, in basso e in alto, manovali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non v'è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d'anime, quale contrasto piú profondo e concreto di questo tra due razze, e la piú antica delle due, la piú ricca cioè d'usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della propria energia e resistenza?».

Molte osservazioni o aggiunte da fare. In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull'emigrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma, già prima di partire dall'Italia. Che i letterati non si occupino dell'emigrato all'estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all'estero, ha voluto dire l'emigrazione in massa. D'altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo piú retorica) la letteratura sugli italiani all'estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l'Ojetti, rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d'immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e... gli italiani.

[Enrico Thovez.] Nel trattare questa quistione ma specialmente nel fare la storia dell'atteggiamento di tutta una serie di letterati e di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non andava.

La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era falsa teoricamente: la poesia cosí detta di forma è caratterizzata dall'indifferenza del contenuto, cioè dall'indifferenza morale, ma è anche questo un «contenuto», il «vuoto storico e morale dello scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla «Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo prima della guerra.

Sul Thovez bisognerebbe vedere anche le polemiche che suscitò col suo atteggiamento. Nell'articolo Enrico Thovez poeta e il problema della formazione artistica di Alfonso Ricolfi nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 c'è qualche spunto utile, ma troppo poco. Bisognerebbe trovare l'articolo di Prezzolini Thovez il precursore.

Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (cfr. Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per l'educazione dei contadini (scuole dell'Agro Romano e delle Paludi Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morí a Roma il 7 dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della «Nuova Antologia» a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore-capo della rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati all'Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una lettera autobiografica del Cena). Ricordare l'articolo del Cena Che fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).

Sul Cena è molto interessante l'articolo di Arrigo Cajumi Lo strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24 novembre 1929).

Del Cajumi sarà utile ricercare le raccolte di articoli; il Cajumi è molto capace nel trovare certi nessi nel mondo della cultura italiana. Del Cajumi occorre ricordare la quistione di Arrigo ed Enrico: Enrico segretario di redazione dell'«Italia Nostra» il settimanale dei neutralisti intellettuali del 1914-15 e direttore dell'«Ambrosiano» nel periodo in cui l'«Ambrosiano» era controllato da Gualino; mi pare che nel giornale, come direttore responsabile, firmasse cav. o comm. Enrico Cajumi; Arrigo, scrittore di articoli letterari e di cultura nella «Stampa», corrispondente della «Stampa» da Ginevra, durante le sessioni della S. d. N., esaltatore della politica e dell'oratoria di Briand. Perché questo cambiamento di Arrigo in Enrico e di Enrico in Arrigo? Il Cajumi era in terz'anno della Università di Torino quando io ero in primo anno: era un giovane brillante come studente e come conversatore. Ricordare l'episodio di Berra, nel '18 o '19, cioè appena nella «Stampa» cominciò ad apparire la firma di Arrigo Cajumi; il Berra mi raccontò d'aver incontrato Enrico Cajumi e di aver parlato con lui di questi articoli: il Cajumi si mostrava offeso che lo si potesse credere l'autore per l'Enrico-Arrigo. Dall'Università di Torino il Cajumi si trasferí nel '12-13 all'Università di Roma e divenne amico, oltre che allievo di Cesare De Lollis, specializzandosi nella letteratura francese. Che si tratti della stessa persona è dimostrato dall'attuale culto di Arrigo per il De Lollis e dal fatto che egli è del gruppo che ha continuato «La Cultura». Ancora: il Cajumi, col nome di Enrico, continuò a firmare l'«Ambrosiano» anche quando se ne era allontanato, credo per un ammutinamento della redazione; in un articolo della «Stampa» su Marco Ramperti, ricordava in questo tempo, di aver conosciuto personalmente il Ramperti durante una sua avventura giornalistica, e di averlo visto lavorare da vicino: ora il Ramperti era appunto il critico drammatico dell'«Ambrosiano». Adesso il Cajumi è impiegato presso la ditta Bemporad di Firenze e scrive solo articoli di riviste e di letteratura nella «Stampa» (credo) e nell'«Italia Letteraria».

Dall'articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870, morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore della nostra borghesia compí al rimorchio delle nuove idee che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente piú amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo dall'abbrutimento del lavoro paterno e del natio paesello, Cena entrò inconsciamente nella corrente che in Francia – proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!) attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre évangiles zoliani, all'affare Dreyfus, alle Università popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu definita come l'andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato una parola d'ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France è il tipo piú compiuto di scrittore libresco e di casta). Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui l'originalità (!) della sua posizione, ma l'ambiente della lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il socialismo di un Prampolini. Era la seconda generazione piccolo-borghese dopo l'unità italiana (della prima ha scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici dominanti, in letteratura piú connessa al De Amicis o allo Stecchetti che al Carducci, lontana da d'Annunzio, e che preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po' di maniera e stiracchiato tutto ciò). «Cresciuto fra incredibili stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né popolano: "Come mi facessi un'istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora ho veramente il senso di essere un vittorioso". "Sento profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol"».

Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il suicida si gettasse sotto un'automobile reale, ma nell'edizione definitiva non mantenne la scena: «... Studioso di cose sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino, non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di sindacalismo non v'è traccia, di Sorel manca il nome. Il modernismo non lo preoccupava». Questo brano mostra quanto sia superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta a volta popolano, proletario, contadino. La «Stampa» è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini politici siciliani che fondavano partiti democratici sociali, o addirittura laburisti e cade nel tranello di molti pubblicisti da ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le salse. Il Cajumi dimentica che a Torino la «Stampa» era, prima della guerra, a destra della «Gazzetta del Popolo», giornale democratico moderato. È poi grazioso l'accoppiamento Croce-Missiroli-Jaurès-Oriani per gli studi sociali.

Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale, o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?

Sull'attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell'Agro Romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro Marcucci. (Il Cena intendeva proprio «andare al popolo»; è interessante vedere come praticamente cercò di attuare il suo proposito, perché ciò mostra cosa poteva intendere un intellettuale italiano, d'altronde pieno di buone intenzioni, per «amore per il popolo»).

Gino Saviotti. Sul carattere antipopolare o almeno apopolare-nazionale della letteratura italiana hanno scritto e continuano a scrivere molti letterati. Ma in queste scritture l'argomento non è posto nei suoi termini reali e le conclusioni concrete sono spesso stupefacenti. Per esempio di Gino Saviotti, che volentieri scrive contro la letteratura dei letterati, si trova citato nell'«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 questo brano riportato da un articolo pubblicato nell'«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun'anni dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella nostra cosí detta poesia!». Nel 1934 è stato dato al Saviotti un premio letterario (una parte del premio Viareggio) per un romanzo in cui si rappresenta lo sforzo di un popolano per diventare «artista» (cioè per diventare «artista professionale», non essere piú «popolano», ma innalzarsi al rango degli intellettuali di professione): argomento essenzialmente «antipopolare» ed esaltazione della casta, come modello di vita «superiore»: ciò che di piú vecchio e stantío può trovarsi nella tradizione italiana.

La «scoperta» di Italo Svevo. Italo Svevo fu rivelato al pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva conosciuto personalmente a Trieste (tuttavia è da ricordare che Italo Svevo aveva scritto qualche volta nella «Critica Sociale» intorno al 1900).

Commemorando lo Svevo, la «Fiera Letteraria» sostenne che prima di questa rivelazione c'era stata la «scoperta» italiana: «In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l'errore della "scoperta francese" (cioè dovuta al Crémieux, al quale però dello Svevo aveva parlato il Joyce, quindi la «Fiera Letteraria» gioca sull'equivoco); anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell'opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l'"Esame" e il "Quindicinale", lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro omaggio all'amico scomparso». («Fiera Letteraria» del 23 settembre 1928 – lo Svevo era morto il 13 settembre – in un editoriale introduttivo a un articolo del Montale Ultimo addio, e a uno di Giovanni Comisso, Colloquio). Ma questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere): «Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: – Ma voialtri italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete – Quale? – Italo Svevo, triestino». Il Linati dice che nessuno conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscí finalmente a «scoprire» una copia di Senilità e ne scrisse sull'«Esame». Ecco come i letterati italiani hanno «scoperto» Svevo «fieramente». Si tratta di un puro caso? Non pare. Per la «Fiera Letteraria» sono da ricordare almeno altri due «casi», quello degli Indifferenti di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese, di cui parlò solo dopo che fu indicato da un concorso a premio letterario. In realtà questa gente si infischia della letteratura e della poesia, della cultura e dell'arte: esercita la professione di sacrestano letterario e nulla piú.

[Secentismo dell'attuale poesia.] Che una parte della attuale poesia sia «puro secentismo» appare per confessione spontanea di alcuni critici ortodossi di essa. Per esempio Aldo Capasso in un suo saggio su Ungaretti (brano citato in «Leonardo» del marzo 1934) scrive: «L'aura attonita non potrebbe formarsi, se il poeta fosse meno laconico». L'«aura attonita» richiama la famosa definizione che «del poeta il fine è la maraviglia». Si può notare tuttavia che il secentismo classico, purtroppo, è stato popolare e continua ad esserlo tuttora (è noto come all'uomo del popolo piacciano le acrobazie d'immagini in poesia), mentre il secentismo attuale è popolare fra gli intellettuali puri.

L'Ungaretti ha scritto che le sue poesie piacevano ai suoi compagni di trincea «del popolo», e può esser vero: piacere di carattere particolare legato al sentimento che la poesia «difficile» (incomprensibile) deve esser bella e l'autore un grande uomo appunto perché staccato dal popolo e incomprensibile: ciò avvenne anche per il futurismo ed è un aspetto del culto popolare per gli intellettuali (che in verità sono ammirati e disprezzati nello stesso tempo).

[Letterati puri.] Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d'avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos'è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l'ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal '24 al '29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri: «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest'assoluta probità, questa perla dov'è?» (G. Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese. Il «popolo» però ha dato il titolo a molti importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che si intitolano al popolo.

Poesia cosí detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr. l'articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di Mario Rapisardi nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio 1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo? Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle miserie del contadino siciliano ecc.

L'articolo del Vaccalluzzo può servire per iniziare uno studio sul Rapisardi anche per le indicazioni che dà. Procurarsi un prospetto delle opere del Rapisardi, ecc. Importa specialmente la raccolta Giustizia che, dice il Vaccalluzzo, la aveva cantata come poeta proletario (!), «piú con veemenza di parole che di sentimento»: ma appunto questa Giustizia è poesia da democratico-contadino, secondo i miei ricordi.

Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti e di gusti è stato cosí rapido e sconvolgente, cosí vorticoso e subitaneo, ed è ancora cosí lontano dall'essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».

La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). E poi l'epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride piú di cuore: si sogghigna e si fa dell'arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essicata, è stata essicata perché era diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr. l'apologo francese del becco funzionario).

Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Articolo di Orazio Pedrazzi nell'«Italia Letteraria» del 4 agosto 1929: Le tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la burocrazia italiana sia cosí «antiletteraria» come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e si vuol dire l'alta burocrazia) non scrive della sua propria attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il «bello scrivere», «l'arte», ecc.: forse si potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi l'attività svolta, all'estero, dal personale diplomatico, al fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c'è, per lo piú è «apologetica». «In Francia, in Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.

Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria, intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i superiori non per il popolo-nazione). Nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei Sabelli».

Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente, «Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre 1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in Cina non so di che grado: ha firmato l'accordo tra il governo italiano e quello di Ciang-Kai-Sceck nel '28 o '29. Queste pagine di diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione (non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet di un ufficio speciale di revisione costituito di persone intelligenti, perché le loro fesserie extra-diplomatiche nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.

Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia ha scritto un Saggio di Scienza politica (Roma, Treves, 1932, in 8°, pp. XXXII-710) che sarebbe insieme una storia universale e un manuale di Politica e di Diplomazia (secondo Alberto Lumbroso, che lo esalta nel «Marzocco» del 17 aprile 1932).

La Fiera del Libro. Poiché il popolo non va al libro (a un certo tipo di libro, quello dei letterati professionali) il libro andrà al popolo. L'iniziativa fu lanciata dalla «Fiera Letteraria» e dal suo direttore d'allora Umberto Fracchia, nel 1927 a Milano. L'iniziativa in sé non era cattiva e ha dato qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per andare al popolo e non solo «materialmente», con le bancarelle, gli strilloni ecc. In realtà, un'organizzazione per portare il libro al popolo esisteva ed esiste, ed è rappresentata dai «pontremolesi», ma il libro cosí diffuso è quello della piú bassa letteratura popolare, dal Segretario degli amanti al Guerino ecc. Questa organizzazione potrebbe essere «imitata», ampliata, controllata e fornita di libri meno scemi e con maggiore varietà di scelta.

[G. Zonta.] È da tener nota della grande Storia della Letteratura Italiana di Giuseppe Zonta, in quattro grossi volumi, con note bibliografiche di Gustavo Balsamo-Crivelli, pubblicata dall'Utet di Torino, per la speciale attenzione che l'autore pare abbia dato all'influsso sociale nello svolgimento dell'attività letteraria. L'opera, pubblicata a fascicoli dal 1928 al '32 non ha dato luogo a grandi discussioni, a quanto pare dalle pubblicazioni disponibili (letto un solo cenno affrettato nell'«Italia Letteraria»). Lo Zonta, d'altronde, non è il primo venuto nel campo della filologia (cfr. il suo L'anima dell'ottocento del 1924).

III. Letteratura popolare

Letteratura popolare

Concetto di «nazionale-popolare». In una nota della «Critica Fascista» del 1° agosto 1930 si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l'altro di Napoli, abbiano iniziato la pubblicazione in appendice di questi romanzi: Il conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo di A. Dumas, e il Calvario di una madre di Paolo Fontenay. Scrive la «Critica»: «L'ottocento francese è stato senza dubbio un periodo aureo per il romanzo d'appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il gusto, l'interesse, l'esperienza letteraria non fossero per niente mutate da allora ad ora. Non solo, ma [...] perché non tener conto che esiste, malgrado le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente è pronta a spargere lacrime d'inchiostro sulla infelice sorte delle patrie lettere». La «Critica» confonde diversi ordini di problemi: quello della non diffusione tra il popolo della cosí detta letteratura artistica e quello della non esistenza in Italia di una letteratura «popolare», per cui i giornali sono «costretti» a rifornirsi all'estero (certo nulla impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare artistica – l'esempio piú evidente è la fortuna «popolare» dei grandi romanzieri russi – anche oggi; ma non esiste, di fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana di letteratura «popolare» perché manca una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri); la «Critica» non si pone neanche questi problemi e non sa trarre le conclusioni «realistiche» dal fatto che se i romanzi di cento anni fa piacciono, significa che il gusto e l'ideologia del popolo sono proprio quelli di cento anni fa. I giornali sono organismi politico-finanziari e non si propongono di diffondere le belle lettere «nelle proprie colonne», se queste belle lettere fanno aumentare la resa. Il romanzo d'appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari (ricordare l'esempio del «Lavoro» di Genova sotto la direzione di Giovanni Ansaldo, che ristampò tutta la letteratura francese d'appendice, nello stesso tempo in cui cercava di dare ad altre parti del quotidiano il tono della piú raffinata cultura), ciò che significa successo politico e successo finanziario. Perciò il giornale cerca quel romanzo, quel tipo di romanzo che piace «certamente» al popolo, che assicurerà una clientela «continuativa» e permanente. L'uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la scelta del giornale non è neanche personale, ma spesso di gruppo famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il «bel romanzo interessante» (ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma certo le donne si interessano specialmente al romanzo e alla cronaca dei fatti diversi). Da ciò derivò sempre il fatto che i giornali puramente politici o d'opinione non hanno mai potuto avere una grande diffusione (eccetto periodi di intensa lotta politica): essi erano comprati dai giovani, uomini e donne, senza preoccupazioni famigliari troppo grandi e che si interessavano fortemente alla fortuna delle loro opinioni politiche e da un numero mediocre di famiglie fortemente compatte come idee. In generale i lettori di giornali non sono dell'opinione del giornale che acquistano, o ne sono scarsamente influenzati: perciò è da studiare, dal punto di vista della tecnica giornalistica, il caso del «Secolo» e del «Lavoro» che pubblicavano fino a tre romanzi d'appendice per conquistare una tiratura alta e permanente (non si pensa che per molti lettori il «romanzo d'appendice» è come la «letteratura» di classe per le persone colte: conoscere il «romanzo» che pubblicava la «Stampa» era una specie di «dovere mondano» di portineria, di cortile e di ballatoio in comune; ogni puntata dava luogo a «conversazioni» in cui brillava l'intuizione psicologica, la capacità logica d'intuizione dei «piú distinti» ecc.; si può affermare che i lettori di romanzo d'appendice s'interessano e si appassionano ai loro autori con molta maggiore sincerità e piú vivo interesse umano di quanto nei salotti cosí detti colti non s'interessassero ai romanzi di D'Annunzio o non s'interessino alle opere di Pirandello).

Ma il problema piú interessante è questo: perché i giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi (o mantenersi) devono pubblicare i romanzi d'appendice di un secolo fa (o quelli moderni dello stesso tipo)? E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere, nonostante che essa debba essere redditizia? È da osservare il fatto che in molte lingue, «nazionale» e «popolare» sono sinonimi o quasi (cosí in russo, cosí in tedesco in cui «volkisch» ha un significato ancora piú intimo, di razza, cosí nelle lingue slave in genere; in francese «nazionale» ha un significato in cui il termine «popolare» è già piú elaborato politicamente, perché legato al concetto di «sovranità», sovranità nazionale e sovranità popolare hanno uguale valore o l'hanno avuto). In Italia il termine «nazionale» ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con «popolare», perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è «libresca» e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente piú legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Il termine corrente «nazionale» è in Italia legato a questa tradizione intellettuale e libresca, quindi la facilità sciocca e in fondo pericolosa di chiamare «antinazionale» chiunque non abbia questa concezione archeologica e tarmata degli interessi del paese.

Sono da vedere gli articoli di Umberto Fracchia nell'«Italia Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso» dell'agosto 1930. I lamenti del Fracchia sono molto simili a quelli della «Critica Fascista». La letteratura «nazionale» cosí detta «artistica», non è popolare in Italia. Di chi la colpa? Del pubblico che non legge? Della critica che non sa presentare ed esaltare al pubblico i «valori» letterari? Dei giornali che invece di pubblicare in appendice «il romanzo moderno italiano» pubblicano il vecchio Conte di Montecristo? Ma perché il pubblico non legge in Italia mentre legge negli altri paesi? Ed è poi vero che in Italia non si legga? Non sarebbe piú esatto porsi il problema: perché il pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana? Lo stesso Fracchia non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano (e quindi devono vendere, relativamente) opere straniere, minacciando provvedimenti governativi? E un tentativo di intervento governativo non c'è stato, almeno in parte, per opera dell'on. Michele Bianchi, sottosegretario agli interni?

Cosa significa il fatto che il popolo italiano legge di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l'egemonia intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato piú agli intellettuali stranieri che a quelli «paesani», cioè che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto meno egualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d'origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un'articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura nazionale-popolare e non ristretta alla sola letteratura narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in generale (scienze della natura, storia ecc.). Perché non sorgono in Italia degli scrittori come il Flammarion? perché non è nata una letteratura di divulgazione scientifica come in Francia e negli altri paesi? Questi libri stranieri, tradotti, sono letti e ricercati e conoscono spesso grandi successi. Tutto ciò significa che tutta la «classe colta», con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi, dai piú infimi (romanzacci d'appendice) ai piú elevati, tanto vero che ricerca i libri stranieri in proposito, ma perché l'elemento intellettuale indigeno è piú straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione. La quistione non è nata oggi; essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politico-nazionale unitaria della penisola. Il libro di Ruggero Bonghi sulla impopolarità della letteratura italiana. Anche la quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato nell'unità della lingua. Ma l'unità della lingua è uno dei modi esterni e non esclusivamente necessario dell'unità nazionale: in ogni caso è un effetto e non una causa. Scritti di F. Martini sul teatro: sul teatro esiste e continua a svilupparsi tutta una letteratura.

In Italia è sempre mancata e continua a mancare una letteratura nazionale-popolare, narrativa e d'altro genere. (Nella poesia sono mancati i tipi come Béranger e in genere il tipo dello chansonnier francese). Tuttavia sono esistiti scrittori, popolari individualmente e che hanno avuto grande fortuna: il Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri continuano ad essere pubblicati e diffusi: Carolina Invernizio è stata letta e forse continua ad esserlo, nonostante sia di un livello piú basso dei Ponson e dei Montépin. F. Mastriani è stato letto ecc. (G. Papini ha scritto un articolo sulla Invernizio nel «Resto del Carlino», durante la guerra, verso il 1916: vedere se l'articolo è stato raccolto in volume. Il Papini scrisse qualcosa d'interessante su questa onesta gallina della letteratura popolare, appunto notando come essa si facesse leggere dal popolino. Forse, nella bibliografia del Papini pubblicata nel saggio del Palmieri – o in altra – si potrà trovare la data di questo articolo e altre indicazioni).

In assenza di una sua letteratura «moderna», alcuni strati del popolo minuto soddisfano in vari modi le esigenze intellettuali e artistiche che pur esistono, sia pure in forma elementare ed incondita: diffusione del romanzo cavalleresco medioevale – Reali di Francia, Guerino detto il Meschino ecc. – specialmente nell'Italia meridionale e nelle montagne; I Maggi in Toscana (gli argomenti rappresentati dai Maggi sono tratti dai libri, novelle e specialmente da leggende divenute popolari, come la Pia dei Tolomei; esistono varie pubblicazioni sui Maggi e sul loro repertorio).

I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno «umanesimo» capace di diffondersi fino agli strati piú rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta. La letteratura popolare francese, che è la piú diffusa in Italia, rappresenta invece, in maggiore o minor grado, in un modo che può essere piú o meno simpatico, questo moderno umanesimo, questo laicismo a suo modo moderno: lo rappresentarono il Guerrazzi, il Mastriani e gli altri pochi scrittori paesani popolari. Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo. Non bisogna lasciarsi illudere dalla discreta diffusione che hanno certi libri cattolici: essa è dovuta alla vasta e potente organizzazione della chiesa, non ad una intima forza di espansività: i libri vengono regalati nelle cerimonie numerosissime e vengono letti per castigo, per imposizione o per disperazione. Colpisce il fatto che nel campo della letteratura avventurosa i cattolici non abbiano saputo esprimere che meschinerie: eppure essi hanno una sorgente di prim'ordine nei viaggi e nella vita movimentata e spesso arrischiata dei missionari. Tuttavia anche nel periodo di maggior diffusione del romanzo geografico d'avventure, la letteratura cattolica in proposito è stata meschina e per nulla comparabile a quella laica francese, inglese e tedesca: le vicende del cardinal Massaja in Abissinia sono il libro piú notevole, per il resto c'è stata l'invasione dei libri di Ugo Mioni (già padre gesuita), inferiori a ogni esigenza. Anche nella letteratura popolare scientifica i cattolici hanno ben poco, nonostante i loro grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e che l'astronomia sia la scienza che piú interessa il popolo. Questa letteratura cattolica trasuda di apologetica gesuitica come il becco di muschio e stucca per la sua meschinità gretta. L'insufficienza degli intellettuali cattolici e la poca fortuna della loro letteratura sono uno degli indizi piú espressivi della intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale: la religione è rimasta allo stato di superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per l'impotenza degli intellettuali laici (la religione non è stata né sostituita né intimamente trasformata e nazionalizzata come in altri paesi, come in America lo stesso gesuitismo: l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt'al piú, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio).

Cfr. ciò che ho scritto a proposito del Conte di Montecristo come modello esemplare di romanzo d'appendice. Il romanzo d'appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell'uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male, ecc.

[Scrittori popolari.] Nel «Marzocco» del 13 settembre 1931, Aldo Sorani (che si è occupato spesso, in diverse riviste e giornali, della letteratura popolare) ha pubblicato un articolo: Romanzieri popolari contemporanei in cui commenta la serie di articoli sugli «Illustri ignoti» pubblicati dallo Charensol nelle «Nouvelles Littéraires» (di cui è nota piú avanti). «Si tratta di scrittori popolarissimi di romanzi d'avventure e d'appendice, sconosciuti o quasi al pubblico letterario, ma idoleggiati e seguiti ciecamente da quel piú grosso pubblico di lettori che decreta le tirature mastodontiche e di letteratura non s'intende affatto, ma vuol essere interessato e appassionato da intrecci sensazionali di vicende criminali od amorose. Per il popolo sono essi i veri scrittori e il popolo sente per loro un'ammirazione ed una gratitudine che questi romanzieri tengon deste somministrando ad editori e lettori una mole di lavoro cosí continua ed imponente da parere incredibile e insostenibile da forze, non dico intellettuali, ma fisiche». Il Sorani osserva che questi scrittori «si sono asserviti ad un compito stremante e adempiono ad un servizio pubblico reale se infinite schiere di lettori e di lettrici non possono farne a meno e gli editori conseguono dalla loro inesauribile attività lauti guadagni». Il Sorani impiega l'espressione di «servizio pubblico reale» ma ne dà una definizione meschina, e che non corrisponde a quella di cui si parla in queste note. Il Sorani nota che questi scrittori, come appare dagli articoli dello Charensol, «hanno reso piú severi i loro costumi e piú morigerata in genere la loro vita, dal tempo ormai remoto in cui Ponson du Terrail o Xavier de Montépin esigevano una notorietà mondana e facevano di tutto per accaparrarsela [...], pretendendo che, alla fine, essi non si distinguevano dai loro piú accademici confratelli che per una diversità di stile. Essi scrivevano come si parla, mentre gli altri scrivevano come non si parla!» (Tuttavia anche gli «illustri ignoti» fanno parte, in Francia, delle associazioni di letterati, tal quale il Montépin. Ricordare anche l'astio di Balzac contro Sue per i successi mondani e finanziari di questo).

Scrive ancora il Sorani: «Un lato non trascurabile della persistenza di questa letteratura popolare (...) è offerto dalla passione del pubblico. Specialmente il grosso pubblico francese, quel pubblico che taluno crede il piú smaliziato, critico e blasé del mondo, è rimasto fedele al romanzo d'avventure e d'appendice. Il giornalismo francese di informazione e di grande tiratura è quello che non ha ancora saputo o potuto rinunziare al romanzo d'appendice. Proletariato e borghesia sono ancora in grandi masse cosí ingenui (?) da aver bisogno degli interminabili racconti emozionanti e sentimentali, raccapriccianti o larmoyants per nutrimento quotidiano della loro curiosità e della loro sentimentalità, hanno ancora bisogno di parteggiare tra gli eroi della delinquenza e quelli della giustizia o della vendetta».

«A differenza del pubblico francese, quello inglese o americano s'è riversato sul romanzo d'avventure storiche (e i francesi no?!) o su quello d'avventure poliziesche ecc. (luoghi comuni sui caratteri nazionali)».

«Quanto all'Italia, credo che ci si potrebbe domandare perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia. (Non è detto con esattezza: non ci sono in Italia scrittori, ma i lettori sono una caterva). Dopo il Mastriani e l'Invernizio, mi pare che siano venuti a mancare tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili. Perché questo genere di romanzieri non ha continuato (?) ad allignare tra noi? La nostra letteratura è stata anche nei suoi bassifondi troppo accademica e letterata? I nostri editori non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo spregevole? I nostri scrittori non hanno fantasia capace d'animare le appendici e le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo contentati e ci contentiamo di importare quanto producono gli altri mercati? Certo non abbondiamo come la Francia di "illustri sconosciuti" e una qualche ragione per questa deficienza ci deve essere e varrebbe forse la pena di ricercarla».

Diversi tipi di romanzo popolare. Esiste una certa varietà di tipi di romanzo popolare ed è da notare che, seppure tutti i tipi simultaneamente godano di una qualche diffusione e fortuna, tuttavia prevale uno di essi e di gran lunga. Da questo prevalere si può identificare un cambiamento dei gusti fondamentali, cosí come dalla simultaneità della fortuna dei diversi tipi si può ricavare la prova che esistono nel popolo diversi strati culturali, diverse «masse di sentimenti» prevalenti nell'uno o nell'altro strato, diversi «modelli di eroi» popolari. Fissare un catalogo di questi tipi e stabilire storicamente la loro relativa maggiore o minore fortuna ha pertanto una importanza ai fini del presente saggio: 1) Tipo Victor Hugo – Eugenio Sue (I Miserabili, I Misteri di Parigi): a carattere spiccatamente ideologico-politico, di tendenza democratica legata alle ideologie quarantottesche; 2) Tipo sentimentale, non politico in senso stretto, ma in cui si esprime ciò che si potrebbe definire una «democrazia sentimentale» (Richebourg-Decourcelle ecc.); 3) Tipo che si presenta come di puro intrigo, ma ha un contenuto ideologico conservatore-reazionario (Montépin); 4) Il romanzo storico di A. Dumas e di Ponson du Terrail, che oltre al carattere storico, ha un carattere ideologico-politico, ma meno spiccato: Ponson du Terrail tuttavia è conservatore-reazionario e l'esaltazione degli aristocratici e dei loro servi fedeli ha un carattere ben diverso dalle rappresentazioni storiche di A. Dumas, che tuttavia non ha una tendenza democratico-politica spiccata, ma è piuttosto pervaso da sentimenti democratici generici e «passivi» e spesso si avvicina al tipo «sentimentale»; 5) Il romanzo poliziesco nel suo doppio aspetto (Lecocq, Rocambole, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin); 6) Il romanzo tenebroso (fantasmi, castelli misteriosi ecc.: Anna Radcliffe ecc.); 7) Il romanzo scientifico d'avventure, geografico, che può essere tendenzioso o semplicemente d'intrigo (J. Verne – Boussenard).

Ognuno di questi tipi ha poi diversi aspetti nazionali (in America il romanzo d'avventure è l'epopea dei pionieri ecc.). Si può osservare come nella produzione d'insieme di ogni paese sia implicito un sentimento nazionalistico, non espresso retoricamente, ma abilmente insinuato nel racconto. Nel Verne e nei francesi il sentimento antinglese, legato alla perdita delle colonie e al bruciore delle sconfitte marittime è vivissimo: nel romanzo geografico d'avventure i francesi non si scontrano coi tedeschi, ma con gli inglesi. Ma il sentimento antinglese è vivo anche nel romanzo storico e persino in quello sentimentale (per es. George Sand). (Reazione per la guerra dei cento anni e l'assassinio di Giovanna D'Arco e per la fine di Napoleone).

In Italia nessuno di questi tipi ha avuto scrittori (numerosi) di qualche rilievo (non rilievo letterario, ma valore «commerciale», di invenzione, di costruzione ingegnosa di intrighi, macchinosi sí ma elaborati con una certa razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che ha avuto tanta fortuna internazionale (e finanziaria per gli autori e gli editori) ha avuto scrittori in Italia; eppure molti romanzi, specialmente storici, hanno preso per argomento l'Italia e le vicende storiche delle sue città, regioni, istituzioni, uomini. Cosí la storia veneziana, con le sue organizzazioni politiche, giudiziarie, poliziesche, ha dato e continua a dare argomento ai romanzieri popolari di tutti i paesi, eccetto l'Italia. Una certa fortuna ha avuto in Italia la letteratura popolare sulla vita dei briganti, ma la produzione è di valore bassissimo.

L'ultimo e piú recente tipo di libro popolare è la vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un tentativo inconsapevole di soddisfare le esigenze culturali di alcuni strati popolari piú smaliziati culturalmente, che non si accontentano della storia tipo Dumas. Anche questa letteratura non ha in Italia molti rappresentanti (Mazzucchelli, Cesare Giardini ecc.): non solo gli scrittori italiani non sono paragonabili per numero, fecondità, e doti di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi, ma ciò che è piú significativo essi scelgono i loro argomenti fuori d'Italia (Mazzucchelli e Giardini in Francia, Eucardio Momigliano in Inghilterra), per adattarsi al gusto popolare italiano che si è formato sui romanzi storici specialmente francesi. Il letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata di Masaniello, di Michele di Lando, di Cola di Rienzo senza credersi in dovere di inzepparla di stucchevoli «pezze d'appoggio» retoriche, perché non si creda... non si pensi... ecc. ecc. È vero che la fortuna delle vite romanzate ha indotto molti editori a iniziare la pubblicazione di collane biografiche, ma si tratta di libri che stanno alla vita romanzata come la Monaca di Monza sta al Conte di Montecristo; si tratta del solito schema biografico, spesso filologicamente corretto, che può trovare al massimo qualche migliaio di lettori, ma non diventare popolare.

È da notare che alcuni dei tipi di romanzo popolare su elencati hanno una corrispondenza nel teatro e oggi nel cinematografo. Nel teatro la fortuna considerevole di D. Niccodemi è certo dovuta a ciò: che egli ha saputo drammatizzare spunti e motivi eminentemente legati all'ideologia popolare; cosí in Scampolo, nell'Aigrette, nella Volata ecc. Anche in G. Forzano esiste qualcosa del genere, ma sul modello di Ponson du Terrail, con tendenze conservatrici. Il lavoro teatrale che in Italia ha avuto il maggior successo popolare è La Morte Civile del Giacometti, di carattere italiano: non ha avuto imitatori di pregio (sempre in senso non letterario). In questo reparto teatrale si può notare come tutta una serie di drammaturghi, di grande valore letterario, possono piacere moltissimo anche al pubblico popolare: Casa di Bambola di Ibsen è molto gradita al popolo delle città, in quanto i sentimenti rappresentati e la tendenza morale dell'autore trovano una profonda risonanza nella psicologa popolare. E cosa dovrebbe essere poi il cosí detto teatro d'idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi con soluzioni drammatiche che rappresentino una catarsi «progressiva», che rappresentino il dramma della parte piú progredita intellettualmente e moralmente di una società e che esprime lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esistenti? Queste passioni e questo dramma però devono essere rappresentati e non svolti come una tesi, un discorso di propaganda, cioè l'autore deve vivere nel mondo reale, con tutte le sue esigenze contraddittorie e non esprimere sentimenti assorbiti solo dai libri.

Romanzo e teatro popolare. Il dramma popolare viene chiamato, con un significato dispregiativo, dramma o drammone da arena, forse perché esistono in alcune città dei teatri all'aperto chiamati Arene (l'Arena del Sole a Bologna). È da ricordare ciò che scrisse Edoardo Boutet sugli spettacoli classici (Eschilo, Sofocle) che la Compagnia Stabile di Roma diretta appunto dal Boutet dava all'Arena del Sole di Bologna il lunedí – giorno delle lavandaie – e sul grande successo che tali rappresentazioni avevano. (Questi ricordi di vita teatrale del Boutet furono stampati per la prima volta nella rivista «Il Viandante» pubblicata a Milano da T. Monicelli negli anni 1908-9). È anche da rilevare il successo che nelle masse popolari hanno sempre avuto alcuni drammi dello Shakespeare, ciò che appunto dimostra come si possa essere grandi artisti e nello stesso tempo «popolari».

Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è pubblicata una nota di Gaio (Adolfo Orvieto), molto significativa: «Danton», il melodramma e il «romanzo nella vita». La nota dice: «Una compagnia drammatica di recente "formazione", che ha messo insieme un repertorio di grandi spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle Due orfanelle – con la speranza legittima di richiamare un po' di gente a teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un novissimo dramma d'autore ungherese e di soggetto franco-rivoluzionario: Danton». Il dramma è di De Pekar ed è «pura favola patetica con particolari fantastici di estrema libertà» (per es. Robespierre e Saint-Just assistono al processo di Danton e altercano con lui, ecc.). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si vale dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza pericolose deviazioni modernistiche. Tutto è elementare, limitato, di taglio netto. Le tinte fortissime e i clamori si alternano alle opportune smorzature e il pubblico respira e consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?» La conclusione dell'Orvieto è significativa. Cosí nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare il Conte di Montecristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo.

Verne e il romanzo geografico-scientifico. Nei libri del Verne non c'è mai nulla di completamente impossibile: le «possibilità» di cui dispongono gli eroi del Verne sono superiori a quelle realmente esistenti nel tempo, ma non troppo superiori e specialmente non «fuori» della linea di sviluppo delle conquiste scientifiche realizzate; l'immaginazione non è del tutto «arbitraria» e perciò possiede la facoltà di eccitare la fantasia del lettore già conquistato dall'ideologia dello sviluppo fatale del progresso scientifico nel dominio del controllo delle forze naturali. Diverso è il caso di Wells e di Poe, in cui appunto domina in gran parte l'«arbitrario», anche se il punto di partenza può essere logico e innestato in una realtà scientifica concreta: nel Verne c'è l'alleanza dell'intelletto umano e delle forze materiali, in Wells e in Poe l'intelletto umano predomina e perciò Verne è stato piú popolare, perché piú comprensibile. Nello stesso tempo però questo equilibrio nelle costruzioni romanzesche del Verne è diventato un limite, nel tempo, alla sua popolarità (a parte il valore artistico scarso): la scienza ha superato Verne e i suoi libri non sono piú «eccitanti psichici».

Qualche cosa di simile si può dire delle avventure poliziesche, per es. di Conan Doyle; per il tempo erano eccitanti, oggi quasi nulla e per varie ragioni: perché il mondo delle lotte poliziesche è oggi piú noto, mentre Conan Doyle in gran parte lo rivelava, almeno a un gran numero di pacifici lettori. Ma specialmente perché in Sherlock Holmes c'è un equilibrio razionale (troppo) tra l'intelligenza e la scienza. Oggi interessa di piú l'apporto individuale dell'eroe, la tecnica «psichica» in sé, e quindi Poe e Chesterton sono piú interessanti ecc.

Nel «Marzocco» del 19 febbraio 1928, Adolfo Faggi (Impressioni da Giulio Verne) scrive che il carattere antinglese di molti romanzi del Verne è da riportare a quel periodo di rivalità fra la Francia e l'Inghilterra che culminò nell'episodio di Fashoda. L'affermazione è errata e anacronistica: l'antibritannicismo era (e forse è ancora) un elemento fondamentale della psicologia popolare francese; l'antitedeschismo è relativamente recente ed era meno radicato dell'antibritannicismo, non esisteva prima della Rivoluzione francese e si è incancrenito dopo il '70, dopo la sconfitta e la dolorosa impressione che la Francia non era la piú forte nazione militare e politica dell'Europa occidentale, perché la Germania, da sola, non in coalizione, aveva vinto la Francia. L'antinglesismo risale alla formazione della Francia moderna, come Stato unitario e moderno, cioè alla guerra dei cento anni e ai riflessi dell'immaginazione popolare della epopea di Giovanna D'Arco; è stato rinforzato modernamente dalle guerre per l'egemonia sul continente (e nel mondo) culminate nella Rivoluzione francese e in Napoleone: l'episodio di Fashoda, con tutta la sua gravità, non può essere paragonato a questa imponente tradizione che è testimoniata da tutta la letteratura francese popolare.

Sul romano poliziesco. Il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura sulle «Cause Celebri». A questa, d'altronde, è collegato anche il romanzo del tipo Conte di Montecristo; non si tratta anche qui di «cause celebri» romanzate, colorite con l'ideologia popolare intorno all'amministrazione della giustizia, specialmente se ad essa si intreccia la passione politica? Rodin dell'Ebreo Errante non è un tipo di organizzatore di «intrighi scellerati» che non si ferma dinanzi a qualsiasi delitto ed assassinio e invece il principe Rodolfo non è, al contrario, l'«amico del popolo» che sventa altri intrighi e delitti? Il passaggio da tale tipo di romanzo a quelli di pura avventura è segnato da un processo di schematizzazione del puro intrigo, depurato da ogni elemento di ideologia democratica e piccolo borghese: non piú la lotta tra il popolo buono, semplice e generoso e le forze oscure della tirannide (gesuiti, polizia segreta legata alla ragion di Stato o all'ambizione di singoli principi ecc.) ma solo la lotta tra la delinquenza professionale o specializzata e le forze dell'ordine legale, private o pubbliche, sulla base della legge scritta. La collezione delle «Cause Celebri», nella celebre collezione francese, ha avuto il corrispettivo negli altri paesi; fu tradotta in italiano, la collezione francese, almeno in parte, per i processi di fama europea, come quello Fualdès, per l'assassinio del corriere di Lione ecc.

L'attività «giudiziaria» ha sempre interessato e continua a interessare: l'atteggiamento del sentimento pubblico verso l'apparato della giustizia (sempre screditato e quindi fortuna del poliziotto privato o dilettante) e verso il delinquente è mutato spesso o almeno si è colorito in vario modo. Il grande delinquente è stato spesso rappresentato superiore all'apparato giudiziario, addirittura come il rappresentante della «vera» giustizia: influsso del romanticismo, I Masnadieri di Schiller, racconti di Hoffmann, Anna Radcliffe, il Vautrin di Balzac.

Il tipo di Javert dei Miserabili è interessante dal punto di vista della psicologia popolare: Javert ha torto dal punto di vista della «vera giustizia», ma l'Hugo lo rappresenta in modo simpatico, come «uomo di carattere», ligio al dovere «astratto» ecc.; da Javert nasce forse una tradizione secondo cui anche il poliziotto può essere «rispettabile». Rocambole di Ponson du Terrail. Gaboriau continua la riabilitazione del poliziotto col «signor Lecoq» che apre la strada a Sherlock Holmes.

Non è vero che gli Inglesi nel romanzo «giudiziario» rappresentano la «difesa della legge», mentre i Francesi rappresentano l'esaltazione del delinquente. Si tratta di un passaggio «culturale» dovuto al fatto che questa letteratura si diffonde anche in certi strati colti. Ricordare che il Sue, molto letto dai democratici delle classi medie, ha escogitato tutto un sistema di repressione della delinquenza professionale.

In questa letteratura poliziesca si sono sempre avute due correnti: una meccanica – d'intrigo – l'altra artistica: Chesterton oggi è il maggiore rappresentante dell'aspetto «artistico» come lo fu un tempo Poe: Balzac con Vautrin, si occupa del delinquente, ma non è «tecnicamente» scrittore di romanzi polizieschi.

1) È da vedere il libro di Henry Jagot: Vidocq, ed. Berger-Levrault, Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di Balzac e ad Alessandro Dumas (lo si ritrova anche un po' nel Jean Valjean dell'Hugo e specialmente in Rocambole). Vidocq fu condannato a otto anni come falso monetario, per una sua imprudenza, 20 evasioni ecc. Nel 1812 entrò a far parte della polizia di Napoleone e per 15 anni comandò una squadra di agenti creata apposta per lui: divenne famoso per gli arresti sensazionali. Congedato da Luigi Filippo, fondò un'agenzia privata di detectives, ma con scarso successo: poteva operare solo nelle file della polizia statale. Morto nel 1857. Ha lasciato le sue Memorie che non sono state scritte da lui solo e in cui sono contenute molte esagerazioni e vanterie.

2) È da vedere l'articolo di Aldo Sorani Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso» dell'agosto 1930, notevole per l'analisi di questo genere di letteratura e per le diverse specificazioni che ha avuto finora. Nel parlare del Chesterton e della serie di novelle del padre Brown il Sorani non tiene conto di due elementi culturali che paiono invece essenziali: a) non accenna all'atmosfera caricaturale che si manifesta specialmente nel volume L'innocenza di padre Brown e che anzi è l'elemento artistico che innalza la novella poliziesca del Chesterton, quando, non sempre, l'espressione è riuscita perfetta; b) non accenna al fatto che le novelle del padre Brown sono «apologetiche» del cattolicismo e del clero romano, educato a conoscere tutte le pieghe dell'animo umano dall'esercizio della confessione e della funzione di guida spirituale e di intermediario tra l'uomo e la divinità, contro lo «scientismo» e la psicologia positivistica del protestante Conan Doyle. Il Sorani, nel suo articolo, riferisce sui diversi tentativi, specialmente anglosassoni, e di maggior significato letterario, per perfezionare tecnicamente il romanzo poliziesco. L'archetipo è Sherlock Holmes, nelle sue due fondamentali caratteristiche: di scienziato e di psicologo: si cerca di perfezionare l'una o l'altra caratteristica o ambedue insieme. Il Chesterton ha appunto insistito sull'elemento psicologico, nel gioco delle induzioni e deduzioni col padre Brown, ma pare abbia ancora esagerato nella sua tendenza col tipo del poeta-poliziotto Gabriel Gale.

Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di identificarne l'origine psicologica: sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano. Ma questa spiegazione si può applicare a tutte le forme della letteratura, popolare o d'arte: dal poema cavalleresco (Don Chisciotte non cerca di evadere anch'egli, anche praticamente, dal tritume e dalla standardizzazione della vita quotidiana di un villaggio spagnolo?) al romanzo d'appendice di vario genere. Tutta la letteratura e la poesia sarebbe dunque uno stupefacente contro la banalità quotidiana? In ogni modo l'articolo del Sorani è indispensabile per una futura ricerca piú organica su questo genere di letteratura popolare.

Il problema: perché è diffusa la letteratura poliziesca? è un aspetto particolare del problema piú generale: perché è diffusa la letteratura non-artistica? Per ragioni pratiche e culturali (politiche e morali), indubbiamente: e questa risposta generica è la piú precisa, nei suoi limiti approssimativi. Ma anche la letteratura artistica non si diffonde anch'essa per ragioni pratiche e politico-morali e solo mediatamente per ragioni di gusto artistico, di ricerca e godimento della bellezza? In realtà si legge un libro per impulsi pratici (e occorre ricercare perché certi impulsi si generalizzino piú di altri) e si rilegge per ragioni artistiche. L'emozione estetica non è quasi mai di prima lettura. Ciò si verifica ancor di piú nel teatro, in cui l'emozione estetica è una «percentuale» minima dell'interesse dello spettatore, perché nella scena giocano altri elementi, molti dei quali non sono neppure d'ordine intellettuale, ma di ordine meramente fisiologico, come il «sex-appeal», ecc. In altri casi l'emozione estetica nel teatro non è originata dall'opera letteraria, ma dall'interpretazione degli attori e del regista: in questi casi occorre però che il testo letterario del dramma che dà il pretesto all'interpretazione non sia «difficile» e ricercato psicologicamente, ma invece «elementare e popolare» nel senso che le passioni rappresentate siano le piú profondamente «umane» e di immediata esperienza (vendetta, onore, amore materno, ecc.) e quindi l'analisi si complica anche in questi casi. I grandi attori tradizionali venivano acclamati nella Morte civile, nelle Due orfanelle, nella Gerla di papà Martin, ecc., piú che nelle complicate macchine psicologiche: nel primo caso l'applauso era senza riserve, nel secondo era piú freddo, destinato a scindere l'attore amato dal pubblico, dal lavoro rappresentato, ecc.

Una giustificazione simile a quella del Sorani della fortuna dei romanzi popolari si trova in un articolo di Filippo Burzio sui Tre Moschettieri di Alessandro Dumas (pubblicato nella «Stampa» del 22 ottobre 1930 e riportato in estratti dall'«Italia Letteraria» del 9 novembre). Il Burzio considera i Tre Moschettieri una felicissima personificazione, come il Don Chisciotte e l'Orlando Furioso, del mito dell'avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla natura umana, che sembra gravemente e progressivamente straniarsi dalla vita moderna. Quanto piú l'esistenza si fa razionale (o razionalizzata, piuttosto, per coercizione, che se è razionale per i gruppi dominanti, non è razionale per quelli dominati, e che è connessa con l'attività economico-pratica, per cui la coercizione si esercita, sia pure indirettamente, anche sui ceti «intellettuali»?) e organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato all'individuo preciso e prevedibile (ma non prevedibile per i dirigenti come appare dalle crisi e dalle catastrofi storiche), tanto piú il margine dell'avventura si riduce, come la libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della proprietà privata... Il taylorismo è una bella cosa e l'uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le ragioni profonde dell'inquietudine occidentale, risponderei senza esitare: la decadenza della fede (!) e la mortificazione dell'avventura». «Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la risposta, che trent'anni fa sembrava certa, sarà meglio tenerla in sospeso. Se l'attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due».

La quistione è questa: che il Burzio non tiene conto del fatto che c'è sempre stata una gran parte di umanità la cui attività è sempre stata taylorizzata e ferreamente disciplinata e che essa ha cercato di evadere dai limiti angusti dell'organizzazione esistente che la schiacciava, con la fantasia e col sogno. La piú grande avventura, la piú grande «utopia» che l'umanità ha creato collettivamente, la religione, non è un modo di evadere dal «mondo terreno»? E non è in questo senso che Balzac parla del lotto come di oppio della miseria, frase ripresa poi da altri? (Cfr. nel quaderno 1° degli Argomenti di cultura). Ma il piú notevole è che accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole «avventure», ma certezza di vita e che il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall'ossessione della non «prevedibilità del domani», dalla precarietà della propria vita quotidiana, cioè da un eccesso di «avventure» probabili. Nel mondo moderno la quistione si colorisce diversamente che nel passato per ciò che la razionalizzazione coercitiva dell'esistenza colpisce sempre piú le classi medie e intellettuali, in una misura inaudita; ma anche per esse si tratta non di decadenza dell'avventura, ma di troppa avventurosità della vita quotidiana, cioè di troppa precarietà nell'esistenza, unita alla persuasione che contro tale precarietà non c'è modo individuale di arginamento: quindi si aspira all'avventura «bella» e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa libera, contro l'avventura «brutta» e rivoltante, perché dovuta alle condizioni imposte da altri e non proposte.

La giustificazione del Sorani e del Burzio vale anche a spiegare il tifo sportivo, cioè spiega troppo e quindi nulla. Il fenomeno è vecchio almeno come la religione, ed è poliedrico, non unilaterale: ha anche un aspetto positivo, cioè il desiderio di «educarsi» conoscendo un modo di vita che si ritiene superiore al proprio, il desiderio di innalzare la propria personalità proponendosi modelli ideali (cfr. lo spunto sull'origine popolaresca del superuomo negli Argomenti di cultura), il desiderio di conoscere piú mondo e piú uomini di quanto sia possibile in certe condizioni di vita, lo snobismo ecc. ecc. Lo spunto della «letteratura popolare come oppio del popolo» è annotato in una nota sull'altro romanzo di Dumas: Il Conte di Montecristo.

Derivazioni culturali del romanzo d'appendice. È da vedere il fascicolo della «Cultura» dedicato a Dostojevskij nel 1931. Vladimiro Pozner in un articolo sostiene giustamente che i romanzi di Dostojevskij sono derivati culturalmente dai romanzi d'appendice tipo E. Sue ecc. Questa derivazione è utile tener presente per lo svolgimento di questa rubrica sulla letteratura popolare, in quanto mostra come certe correnti culturali (motivi e interessi morali, sensibilità, ideologie ecc.) possono avere una doppia espressione: quella meramente meccanica di intrigo sensazionale (Sue ecc.) e quella «lirica» (Balzac, Dostojevskij e in parte V. Hugo). I contemporanei non sempre si accorgono della deteriorità di una parte di queste manifestazioni letterarie, come è avvenuto in parte per il Sue, che fu letto da tutti i gruppi sociali e «commuoveva» anche le persone di «cultura», mentre poi decadde a scrittore letto solo dal «popolo» (la «prima lettura» dà puramente, o quasi, sensazioni «culturali» o di contenuto e il «popolo» è lettore di prima lettura, acritico, che si commuove per la simpatia verso l'ideologia generale di cui il libro è espressione spesso artificiosa e voluta).

Per questo stesso argomento è da vedere: 1) Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in 16°, pp. X-505, Milano-Roma, ed. La Cultura, L. 40 (vedere la recensione di L. F. Benedetto nel «Leonardo» del marzo 1931: da essa appare che il Praz non ha fatto con esattezza la distinzione tra i vari gradi di cultura, onde alcune obbiezioni del Benedetto, che d'altronde non pare colga egli stesso il nesso storico della quistione storico-letteraria); 2) Servais Étienne: Le genre romanesque en France depuis l'apparition de la «Nouvelle Héloïse» jusqu'aux approches de la Révolution, ed. Armand Colin; 3) Alice Killen: Le Roman terrifiant ou «Roman noir» de Walpole a Anne Radcliffe et son influence sur la littérature française jusqu'en 1840, ed. Champion e di Reginald W. Hartland (presso lo stesso editore) Walter Scott et le «Roman frénétique» (l'affermazione del Pozner che il romanzo di Dostojevskij sia «romanzo d'avventura» è probabilmente derivata da un saggio di Jacques Rivière sul «romanzo d'avventure», forse pubblicato nella «N. R. F.», che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme drammatiche e psicologiche» cosí come l'hanno concepito Balzac, Dostojevskij, Dickens e George Elliot); 4) un saggio di André Moufflet su Le style du roman feuilleton nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931.

Articolo di Andrea Moufflet nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931 sul romanzo d'appendice. Il romanzo d'appendice, secondo il Moufflet, è nato dal bisogno di illusione, che infinite esistenze meschine provavano, e forse provano ancora, quasi a rompere la grama monotonia a cui si vedono condannate.

Osservazione generica: si può fare per tutti i romanzi e non solo d'appendice: occorre analizzare quale particolare illusione dà al popolo il romanzo d'appendice, e come questa illusione cambi coi periodi storico-politici: c'è lo snobismo, ma c'è un fondo di aspirazioni democratiche che si riflettono nel romanzo d'appendice classico. Romanzo «tenebroso» alla Radcliffe, romanzo d'intrigo, d'avventura, poliziesco, giallo, della malavita ecc. Lo snob si vede nel romanzo d'appendice che descrive la vita dei nobili o delle classi alte in generale, ma questo piace alle donne e specialmente alle ragazze, ognuna delle quali, del resto, pensa che la bellezza può farla entrare nella classe superiore.

Esistono per il Moufflet i «classici» del romanzo d'appendice, ma ciò è inteso in un certo senso: pare che il romanzo d'appendice classico sia quello «democratico» con diverse sfumature da V. Hugo, a Sue, a Dumas. L'articolo del Moufflet sarà da leggere, ma occorre tener presente che egli esamina il romanzo d'appendice come «genere letterario», per lo stile ecc., come espressione di un'«estetica popolare» ciò che è falso. Il popolo è «contenutista», ma se il contenuto popolare è espresso da grandi artisti, questi sono preferiti. Ricordare ciò che [ho] scritto per l'amore del popolo per Shakespeare, per i classici greci, e modernamente per i grandi romanzieri russi (Tolstoi, Dostojevskij). Cosí, nella musica, Verdi.

Nell'articolo Le mercantilisme littéraire di J. H. Rosny aîné, nelle «Nouvelles Littéraires» del 4 ottobre 1930 si è detto che V. Hugo scrisse i Miserabili ispirato dai Misteri di Parigi di Eugenio Sue e dal successo che questi ebbero, tanto grande che quarant'anni dopo l'editore Lacroix ne era ancora stupefatto. Scrive il Rosny: «Le appendici, sia nell'intenzione del direttore del giornale, sia nell'intenzione dell'appendicista, furono prodotti ispirati dal gusto del pubblico e non dal gusto degli autori». Questa definizione è anch'essa unilaterale. E infatti il Rosny scrive solo una serie di osservazioni sulla letteratura «commerciale» in genere (quindi anche quella pornografica) e sul lato commerciale della letteratura. Che il «commercio» e un determinato «gusto» del pubblico si incontrino non è casuale, tanto è vero che le appendici scritte intorno al '48 avevano un determinato indirizzo politico-sociale che ancora oggi le fa ricercare e leggere da un pubblico che vive gli stessi sentimenti del '48.

A proposito di V. Hugo ricordare la sua dimestichezza con Luigi Filippo e quindi il suo atteggiamento monarchico costituzionale nel '48. È interessante notare che, mentre scriveva i Miserabili, scriveva anche le note di Choses vues (pubblicate postume) e che le due scritture non sempre vanno d'accordo. Vedere queste quistioni, perché di solito l'Hugo è considerato uomo d'un blocco solo, ecc. (Nella «Revue des Deux Mondes» del '28 o '29, piú probabilmente del '29, ci deve essere un articolo su questo argomento).

Origine popolaresca del «superuomo». Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale, ecc. ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure abbiano origini molto piú modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d'appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d'appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il cosí detto romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente «superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma Il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo piú compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell'Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi.

Cosí, quando si legge che uno è ammiratore del Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c'è molto del romanzo d'appendice. Vautrin è anch'egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo Morello è diventato «Rastignac» per una tale filiazione... popolaresca e ha difeso «Corrado Brando»).

La fortuna del Nietzsche è stata molto composita: le sue opere complete sono edite dall'editore Monanni e si conoscono le origini culturali-ideologiche del Monanni e della sua piú affezionata clientela.

Vautrin e l'«amico di Vautrin» hanno lasciato larga traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua «Folla» (ricordare il torinese «amico di Vautrin» della «Folla»). Largo seguito popolaresco ha avuto l'ideologia del «moschettiere» presa dal romanzo del Dumas.

Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s'intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d'arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente.

Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo e che [è] ancor piú calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i «nemici personali» del Montecristo, ecc.

Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr. «i selvaggi», «pizzo di ferro», ecc.).

Cfr. il libro di Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Edizione della Cultura): accanto alla ricerca del Praz, sarebbe da fare quest'altra ricerca: del «superuomo» nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi (la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono particolarmente influenzati da tali immagini romanzesche, che sono come il loro «oppio», il loro «paradiso artificiale» in contrasto con la meschinità e le strettezze della loro vita reale immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come: «è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora», fortuna particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di queste «pecore» dicono: oh! avessi io il potere anche per un giorno solo ecc.; essere «giustizieri» implacabili è l'aspirazione di chi sente l'influsso di Montecristo.

Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di «manomorta» culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare. A parte l'epigramma della «manomorta» e la soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un esame critico, esiste un'altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente ed è appunto la letteratura d'appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac).

In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si disserta del «superuomo» d'appendice: quello intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort e quello che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere. Nei Tre moschettieri, Athos ha piú dell'uomo fatale generico del basso romanticismo: in questo romanzo gli umori individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l'attività avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell'individuo è legata a forze oscure di magia e all'appoggio della massoneria europea, quindi l'esempio è meno suggestivo per il lettore popolaresco. Nel Balzac le figure sono piú concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell'atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e appunto perciò la loro influenza è piú «confessabile», non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della «Folla» ma anche da mediocri intellettuali come V. Morello, che però ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla «alta coltura».

Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco.

Per il «superuomo» del Nietzsche, oltre all'influsso romantico francese (e in generale del culto di Napoleone) sono da vedere le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e quindi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke, la teoria della potenza ecc.).

Ma forse il «superuomo» popolaresco dumasiano è da ritenersi proprio una reazione «democratica» alla concezione d'origine feudale del razzismo, da unire all'esaltazione del «gallicismo» fatta nei romanzi di Eugenio Sue.

Come reazione a questa tendenza del romanzo popolare francese è da ricordare Dostojevschi: Raskolnikov è Montecristo «criticato» da un panslavista-cristiano. Per l'influsso esercitato su Dostojevschi dal romanzo francese d'appendice è da confrontare il numero unico dedicato a Dostojevschi dalla «Cultura».

Nel carattere popolaresco del «superuomo» sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da «primadonna» piú che da superuomo; molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.

Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un articolo di Louis Gillet nella «Revue des deux mondes» del 15 dicembre 1932.

Questo tipo di «superuomo» ha la sua espressione nel teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la letteratura d'appendice quarantottesca): è da vedere il repertorio «classico» di Ruggero Ruggeri come Il marchese di Priola, L'artiglio, ecc. e molti lavori di Henry Bernstein.

Balzac. (Cfr. qualche altra nota: accenni all'ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente). Confrontare l'articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell'8 agosto 1931. Il Bourget comincia col notare come oggi si dà sempre piú importanza alle idee di Balzac: «l'école traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir chaque jour, inscrit son nom à côté de celui de Bonald, de Le Play, de Taine lui même». Invece non era cosí nel passato. Sainte-Beuve, nell'articolo dei Lundis consacrati a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure alle sue idee politiche e sociali. Taine, che ammirava lo scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza dottrinale. Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che le idee politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di essere discusse: «Il était catholique, légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un immense bonhomme, mais de second ordre». Zola scrive: «Rien de plus étrange que ce soutien du pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et qui a écrit l'oeuvre la plus révolutionnaire». Eccetera.

Si capisce l'articolo del Bourget. Si tratta di trovare in Balzac l'origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza al servizio della reazione (tipo Maurras), che d'altronde è il destino piú esatto del positivismo stabilito dal Comte.

Balzac e la scienza. Cfr. la «Prefazione generale» della Commedia umana, dove il Balzac scrive che il naturalista avrà l'onore eterno di aver mostrato che «l'animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou mieux, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer. Les espèces zoologiques résultent des ces différences... Pénétré de ce système, je vis que la société ressemble à la nature. Ne fait-elle pas de l'homme, suivant les milieux où son action se déploie, autant d'hommes différents qu'il y a des variétés zoologiques?... Il a donc existé, il existera de tout temps des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques. Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un oisif (!!), un savant, un homme d'Etat, un commerçant, un marin, un poëte, un pauvre (!!), un prêtre, sont aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l'âne, le corbeau, le requin, le veau marin, la brebis».

Che Balzac abbia scritto queste cose e magari le prendesse sul serio e immaginasse di costruire tutto un sistema sociale su queste metafore, non fa maraviglia e neanche diminuisce per nulla la grandezza di Balzac artista. Ciò che è notevole è che oggi il Bourget e, come egli dice, la «scuola tradizionalista», si fondi su queste povere fantasie «scientifiche» per costruire sistemi politico-sociali senza giustificazione di attività artistica.

Partendo da queste premesse il Balzac si pone il problema di «perfezionare al massimo queste specie sociali» e di armonizzarle tra loro, ma siccome le «specie» sono create dall'ambiente, bisognerà «conservare» e organizzare l'ambiente dato per mantenere e perfezionare la specie data. Eccetera. Pare che non avesse torto Flaubert scrivendo che non merita la pena di discutere le idee sociali di Balzac. E l'articolo del Bourget mostra solo quanto sia fossilizzata la scuola tradizionalista francese.

Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza importanza come «programma pratico», cioè dal punto di vista da cui l'esamina il Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostruire il mondo poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realizzata artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto. E si capisce l'ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della filosofia della prassi: che l'uomo sia tutto il complesso delle condizioni sociali in cui egli si è sviluppato e vive, che per «mutare» l'uomo occorre mutare questo complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac. Che «politicamente e socialmente» egli sia un reazionario, appare solo dalla parte extra-artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche questo «complesso di condizioni» o «ambiente» sia inteso «naturalisticamente» è anche vero; infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria francese, ecc.

Rilievi statistici. Quanti romanzi di autore italiano hanno pubblicato i periodici popolari piú diffusi, come il «Romanzo Mensile», la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata», il «Mattino Illustrato»? La «Domenica del Corriere» forse nessuno in tutta la sua vita (circa 36 anni) su circa un centinaio di romanzi pubblicati. La «Tribuna Illustrata» qualcuno (negli ultimi tempi una serie di romanzi polizieschi del principe Valerio Pignatelli); ma occorre notare che la «Tribuna» è enormemente meno diffusa della «Domenica», non è bene organizzata redazionalmente ed ha un tipo di romanzo meno scelto.

Sarebbe interessante vedere la nazionalità degli autori e il tipo dei romanzi d'avventura pubblicati. Il «Romanzo Mensile» e la «Domenica» pubblicano molti romanzi inglesi (quelli francesi tuttavia devono prevalere) e di tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlock Holmes e Arsenio Lupin) ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy è molto diffusa e i suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto molte ristampe anche nel «Romanzo Mensile» che pure deve avere una grande diffusione) e persino australiani (di Guido Boothby che ha avuto diverse edizioni): prevale certamente il romanzo poliziesco o affine, imbevuto di una concezione conservatrice e retriva o basato sul puro intrigo. Sarebbe interessante sapere chi, nella redazione del «Corriere della Sera», era incaricato di scegliere questi romanzi e quali direttive gli erano state impartite, dato che nel «Corriere» tutto era organizzato sapientemente. Il «Mattino Illustrato», sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi del tipo «Domenica», ma si lascia guidare da quistioni finanziarie e spesso da velleità letterarie (cosí credo abbia pubblicato Conrad, Stevenson, London): lo stesso è da dire a proposito dell'«Illustrazione del Popolo» torinese. Relativamente, e forse anche in modo assoluto, l'amministrazione del «Corriere» è il centro di maggior diffusione dei romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all'anno con tirature altissime. Deve venir poi la Casa Sonzogno, che deve avere anche una pubblicazione periodica. Un confronto nel tempo dell'attività editoriale della Casa Sonzogno darebbe un quadro abbastanza approssimativo delle variazioni avvenute nel gusto del pubblico popolare; la ricerca è difficile, perché la Sonzogno non stampa l'anno di pubblicazione e non numera spesso le ristampe, ma un esame critico dei cataloghi darebbe qualche risultato. Già un confronto tra i cataloghi di 50 anni fa (quando il «Secolo» era in auge) e quelli odierni sarebbe interessante: tutto il romanzo lacrimoso-sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio, eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve ancora resistere (come la Capinera del Mulino, del Richebourg): d'altronde ciò non vuol dire che tali libri non siano letti da certi strati della popolazione di provincia, dove «si gusta» ancora dagli «spregiudicati» Paul De Kock e si discute animatamente sulla filosofia dei Miserabili. Cosí sarebbe interessante seguire la pubblicazione dei romanzi a dispense, fino a quelli di speculazione, che costano decine e decine di lire e sono legati a premi.

Un certo numero di romanzi popolari hanno pubblicato Edoardo Perino e piú recentemente il Nerbini, tutti a sfondo anticlericale e legati alla tradizione guerrazziana. (È inutile ricordare il Salani, editore popolare per eccellenza). Occorrerebbe compilare una lista degli editori popolari.

[Gli «eroi» della letteratura popolare.] Uno degli atteggiamenti piú caratteristici del pubblico popolare verso la sua letteratura è questo: non importa il nome e la personalità dell'autore, ma la persona del protagonista. Gli eroi della letteratura popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla loro origine «letteraria» e acquistano la validità del personaggio storico. Tutta la loro vita interessa, dalla nascita alla morte, e ciò spiega la fortuna delle «continuazioni», anche se artefatte: cioè può avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia morire l'eroe e il «continuatore» lo faccia rivivere, con grande soddisfazione del pubblico che si appassiona nuovamente, e rinnova l'immagine prolungandola col nuovo materiale che gli è stato offerto. Non bisogna intendere «personaggio storico» in senso letterale, sebbene anche questo avvenga, che dei lettori popolari non sappiano piú distinguere tra mondo effettuale della storia passata e mondo fantastico e discutano sui personaggi romanzeschi come farebbero su quelli che hanno vissuto, ma in un modo traslato, per comprendere che il mondo fantastico acquista nella vita intellettuale popolare una concretezza fiabesca particolare. Cosí avviene per esempio che avvengano delle contaminazioni tra romanzi diversi, perché i personaggi si rassomigliano: il raccontatore popolare unisce in un solo eroe le avventure dei vari eroi ed è persuaso che cosí debba essere fatto per essere «intelligenti».

[L'Ebreo Errante.] Diffusione dell'Ebreo Errante in Italia nel periodo del Risorgimento. Vedere l'articolo di Baccio M. Bacci Diego Martelli, l'amico dei «Macchiaioli» nel «Pègaso» del marzo 1931. Il Bacci riporta integralmente in parte e in parte riassume (pp. 298-99) alcune pagine inedite dei Ricordi della mia prima età, in cui il Martelli racconta che spesso (tra il '49 e il '59) si riunivano in casa sua gli amici del padre, tutti patriotti e uomini di studio come il padre stesso: Atto Vannucci, Giuseppe Arcangeli, insegnante di greco e di latino, Vincenzo Monteri, chimico, fondatore dell'illuminazione a gas a Firenze, Pietro Thouar, Antonio Mordini, Giuseppe Mazzoni, triumviro con Guerrazzi e Montanelli, il Salvagnoli, il Giusti, ecc.: discutevano di arte e di politica e talvolta leggevano i libri che circolavano clandestini. Vieusseux aveva introdotto l'Ebreo Errante: ne fu fatta lettura in casa Martelli, davanti agli amici intervenuti da Firenze e da fuori. Racconta Diego Martelli: «Chi si strappava i capelli, chi pestava i piedi, chi mostrava le pugna al cielo...».

In un articolo di Antonio Baldini («Corriere della Sera», 6 dicembre 1931) su Paolina Leopardi (Tutta-di-tutti) e i suoi rapporti con Prospero Viani, si ricorda, sulle tracce di un gruppo di lettere pubblicate da C. Antona-Traversi («Civiltà moderna», anno III, n. 5, Firenze, Vallecchi) che il Viani soleva inviare alla Leopardi i romanzi di Eugenio Sue (I misteri di Parigi e anche L'ebreo errante) che Paolina trovava «deliziosi». Ricordare il carattere di P. Viani, erudito, corrispondente della Crusca e l'ambiente in cui viveva Paolina, accanto all'ultrareazionario Monaldo, che scriveva la rivista «Voce della Ragione» (di cui Paolina era la redattrice capo) ed era avverso alle ferrovie, ecc.

Scientismo e postumi del basso romanticismo. È da vedere la tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi intensamente del problema della criminalità. È essa legata al fatto che alla tendenza di sinistra avevano aderito Lombroso e molti dei piú «brillanti» seguaci che parevano allora la suprema espressione della scienza e che influivano con tutte le loro deformazioni professionali e i loro specifici problemi? O si tratta di un postumo del basso romanticismo del '48 (Sue e le sue elucubrazioni di diritto penale romanzato)? O è legato a ciò che in Italia [impressionava] certi gruppi intellettuali la grande quantità di reati di sangue ed essi pensavano di non poter procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente» (cioè naturalisticamente) questo fenomeno di «barbarie»?

Letteratura popolare. Cfr. E. Brenna, La letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX (Milano, F.I.L.P., 1931, pp. 246, L. 6). Dalla recensione dovuta alla prof. E. Formiggini-Santamaria («Italia che scrive» marzo 1932) si traggono questi spunti: il libro della Brenna ebbe un premio d'incoraggiamento nel concorso Ravizza, che pare aveva per tema appunto la «letteratura educativa popolare». La Brenna ha dato un quadro dell'evoluzione del romanzo, della novella, di scritti di divulgazione morale e sociale, del dramma, degli scritti vernacoli piú diffusi nel secolo XIX con riferimenti al secolo XVIII e in rapporto coll'indirizzo letterario nel suo globale svolgimento.

La Brenna ha dato al termine «popolare» un senso molto largo, «includendoci cioè anche la borghesia, quella che non fa della coltura il suo scopo di vita, ma che può accostarsi all'arte»; cosí ha considerato come «letteratura educativa del popolo tutta quella di stile non aulico e ricercato, includendovi per es. I Promessi Sposi, i romanzi del D'Azeglio e gli altri della stessa indole, i versi del Giusti e quelli che prendono ad argomento le lievi vicende e la serena natura, come le rime del Pascoli e di Ada Negri. La Formiggini-Santamaria fa alcune considerazioni interessanti: «Questa interpretazione del tema si giustifica pensando quanto sia stata scarsa nella prima metà del secolo scorso la diffusione dell'alfabeto tra gli artigiani e i contadini (ma la letteratura popolare non si diffonde solo per lettura individuale, ma anche per letture collettive; altre attività: i Maggi in Toscana, i cantastorie nell'Italia meridionale, sono proprie di ambienti arretrati dove [è] diffuso l'analfabetismo; anche le gare poetiche in Sardegna e Sicilia), e scarsa anche la stampa di libri adatti (cosa vuol dire «adatti»? e la letteratura non fa nascere nuovi bisogni?) alla povera mentalità di lavoratori del braccio; l'A. avrà pensato che, rievocando soltanto questi, il suo studio sarebbe riuscito molto ristretto. Pure a me pare che l'intenzione implicita nel tema dato, sia stata di far risaltare, insieme con la scarsità di scritti d'indole popolare del sec. XIX, il bisogno di scrivere per il popolo libri adatti, e di far ricercare – attraverso l'analisi del passato – i criteri ai quali una letteratura popolare debba ispirarsi. Non dico che non dovesse esser dato uno sguardo alle pubblicazioni che nelle intenzioni degli scrittori dovevano servire ad educare il popolo senza tuttavia arrivare ad esso; ma da tale cenno avrebbe dovuto piú esplicitamente risultare per quale motivo la buona intenzione restò intenzione. Vi furono invece altre opere (specialmente nella seconda metà del sec. XIX) che si proposero in prima linea il successo e secondariamente l'educazione, ed ebbero molta fortuna nelle classi popolari. È vero che, prendendole in esame, la Brenna avrebbe dovuto staccarsi molto spesso dal campo dell'arte, ma nell'analisi di quei libri che si diffusero e si diffondono tuttora tra il popolo (per es. gli illogici, complicati, tenebrosi romanzi della Invernizio), nello studio su quei drammoni d'arena che strapparono lacrime ed applausi al pubblico domenicale dei teatri secondari (e che sono pur sempre ispirati ad amore della giustizia e al coraggio) si sarebbe meglio potuto trovare l'aspetto piú emergente dell'animo popolare, il segreto di ciò che può educarlo quando sia portato in un campo d'azione meno unilaterale e piú sereno».

La Formiggini nota poi che la Brenna non si è occupata dello studio del folclore, e ricorda che bisogna occuparsi almeno delle favole e novelle tipo fratelli Grimm.

La Formiggini insiste sulla parola «educativa» ma non indica il contenuto che dovrebbe avere tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La «tendenziosità» della letteratura popolare educativa d'intenzione è cosi insipida e falsa, risponde cosí poco agli interessi mentali del popolo che l'impopolarità è la sanzione giusta.

[Le tendenze «populiste».] Cfr. Alberto Consiglio, Populismo e nuove tendenze della letteratura francese, «Nuova Antologia», 1° aprile 1931. Il Consiglio prende le mosse dall'inchiesta delle «Nouvelles Littéraires» sul «Romanzo operaio e contadino» (nei mesi luglio-agosto 1930). L'articolo è da rileggere, quando l'argomento volesse esser trattato organicamente. La tesi del Consiglio (piú o meno esplicita e consapevole) è questa: di fronte al crescere della potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia, alcune sezioni dell'intellettualismo francese reagiscono con questi movimenti «verso il popolo». L'avvicinamento al popolo significherebbe quindi una ripresa del pensiero borghese che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che, per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte dell'ideologia proletaria. Sarebbe un ritorno a forme «democratiche» piú sostanziali del corrente «democratismo» formale.

È da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una fase necessaria di transizione e un episodio dell'«educazione popolare» indiretta. Una lista delle tendenze «populiste» e una analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe «scoprire» una di quelle che Vico chiama «astuzie della natura», cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario.

[Biografie romanzate.] Se è vero che la biografia romanzata continua, in un certo senso, il romanzo storico popolare tipo A. Dumas padre, si può dire che da questo punto di vista, in questo particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». È da vedere ciò che pubblica la Casa ed. «Corbaccio», e qualche altra, e specialmente i libri di Mazzucchelli. È da notare però che la biografia romanzata, se ha un pubblico popolare, non è popolare in senso completo come il romanzo d'appendice: essa si rivolge a un pubblico che ha o crede avere delle pretese di cultura superiore, alla piccola borghesia rurale e urbana che crede essere diventata «classe dirigente», e arbitra dello Stato. Il tipo moderno del romanzo popolare è quello poliziesco, «giallo», e in questo settore si ha zero. Cosí si ha zero nel romanzo d'avventure in senso largo, sia del tipo Stevenson, Conrad, London, sia del tipo francese odierno (Mac-Orlan, Malraux, ecc.).

Teatro. «Il dramma lacrimoso e la commedia sentimentale avevano popolato il palcoscenico di pazzi e di delinquenti di ogni genere e la Rivoluzione francese – tranne pochi lavori d'occasione – niente aveva ispirato agli autori drammatici che segnasse un nuovo indirizzo d'arte e che sviasse il pubblico dai sotterranei misteriosi, dalle foreste perigliose, dai manicomi...» (Alberto Manzi, Il conte Giraud, il Governo italico e la censura nella «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929).

Il Manzi riporta un brano di un opuscolo dell'avv. Maria Giacomo Boïeldieu, del 1804: «Ai nostri giorni la scena si è trasformata: e non è raro il caso di veder gli assassini nelle loro caverne e i pazzi nel manicomio. Non si può lasciare ai tribunali il compito di punire quei mostri che disonorano il nome di uomo, e ai medici quello di cercar di curare gli sventurati i cui delitti colpiscono penosamente l'umanità, anche se simulati? Quale possente attrattiva, quale soluzione può esercitare sullo spettatore il quadro dei mali che nell'ordine morale e fisico desolano la specie umana, e dai quali da un momento all'altro e per la piú piccola scossa dei nostri nervi esauriti, possiamo noi stessi diventare vittime meritevoli di compassione?! Che bisogno c'è di andare al teatro per vedere Briganti (commedia tipo: Robert chef des brigands, di Lamartelière, finito poi impiegato di Stato, e il cui enorme successo, nel 1791, fu determinato dalla frase «guerre aux châteaux, paix aux chaumières»; derivata dai Masnadieri di Schiller) Pazze e Malati d'amore (commedie tipo Nina la pazza per amore, Il cavaliere de la Barre, Il delirio, ecc.)», ecc. ecc. Il Boïeldieu critica «il genere che, in realtà, mi sembra pericoloso e da deplorare».

L'articolo del Manzi contiene qualche spunto sull'atteggiamento della censura napoleonica contro questo tipo di teatro, specialmente quando i casi anormali rappresentati toccavano il principio monarchico.

E. De Amicis e G. C. Abba. Significato della Vita Militare del De Amicis. La Vita Militare è da porre accanto ad alcune pubblicazioni di G. C. Abba, nonostante il contrasto intimo e il diverso atteggiamento. G. C. Abba è piú «educatore» e piú «nazionale-popolare»: egli è certamente piú concretamente democratico del De Amicis perché politicamente piú robusto ed eticamente piú austero. Il De Amicis, nonostante le apparenze superficiali, è piú servile verso i gruppi dirigenti in forme paternalistiche.

Nella Vita Militare è da vedere il capitolo: «L'Esercito Italiano durante il colera del 1867» perché ritrae l'atteggiamento del popolo siciliano verso il governo e gli «italiani» dopo la sommossa del settembre 1866. Guerra del 1866, sommossa di Palermo, colera: tre fatti che non possono essere staccati. Sarà da vedere l'altra letteratura sul colera in tutto il Mezzogiorno nel 1866-67. Non si può giudicare il livello civile della vita popolare di quel tempo senza trattare questo argomento. (Esistono pubblicazioni ufficiali sui reati contro le autorità – soldati, ufficiali, ecc. – durante il colera?)

Il Guerin Meschino. Nel «Corriere della Sera» del 7 gennaio 1932 è pubblicato un articolo firmato Radius con questi titoli: I classici del popolo. Guerino detto il Meschino. Il sopratitolo I classici del popolo è vago e incerto: il Guerino, con tutta una serie di libri simili (I Reali di Francia, Bertoldo, storie di briganti, storie di cavalieri, ecc.) rappresenta una determinata letteratura popolare, la piú elementare e primitiva, diffusa tra gli strati piú arretrati e «isolati» del popolo: specialmente nel Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I lettori del Guerino non leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno Sherlock Holmes. A questi strati corrisponde un determinato folclore e un determinato «senso comune».

Radius ha solo leggiucchiato il libro e non ha molta dimestichezza con la filologia. Egli dà di Meschino un significato cervellotico: «il nomignolo fu appioppato all'eroe per via della sua grande meschinità genealogica»: errore colossale che muta tutta la psicologia popolare del libro e muta il rapporto psicologico-sentimentale dei lettori popolari verso il libro. Appare subito che Guerino è di stirpe regia, ma la sua sfortuna lo fa diventare «servo», cioè «meschino» come si diceva nel Medio Evo e come si trova in Dante (nella Vita Nova, ricordo perfettamente). Si tratta dunque di un figlio di re, ridotto in ischiavitú, che riconquista, coi suoi propri mezzi e con la sua volontà, il suo rango naturale: c'è nel «popolo» piú primitivo questo ossequio tradizionale alla nascita che diventa «affettuoso» quando la sfortuna colpisce l'eroe e diventa entusiasmo quando l'eroe riconquista, contro la sfortuna, la sua posizione sociale.

Guerino come poema popolare «italiano»: è da notare, da questo punto di vista, quanto sia rozzo e incondito il libro, cioè come non abbia subíto nessuna elaborazione e perfezionamento, dato l'isolamento culturale del popolo, lasciato a se stesso. Forse per questa ragione si spiega l'assenza di intrighi amorosi, l'assenza completa di erotismo nel Guerino.

Il Guerino come «enciclopedia popolare»: da osservare quanto debba essere bassa la cultura degli strati che leggono il Guerino e quanto poco interesse abbiano per la «geografia», per esempio, per accontentarsi e prendere sul serio il Guerino. Si potrebbe analizzare il Guerino come «enciclopedia» per averne indicazioni sulla rozzezza mentale e sulla indifferenza culturale del vasto strato di popolo che ancora se ne pasce.

Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli. Nel «Corriere della Sera» dell'8 gennaio 1932 è pubblicata la lettera inviata da Garibaldi a Raffaele Giovagnoli il 25 giugno 1874 da Caprera, subito dopo la lettura del romanzo Spartaco. La lettera è molto interessante per questa rubrica sulla «letteratura popolare» poiché il Garibaldi ha scritto anche egli dei «romanzi popolari» e nella lettera sono gli spunti principali della sua «poetica» in questo genere. Spartaco del Giovagnoli, d'altronde, è uno dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche all'estero, in un periodo in cui il «romanzo» popolare da noi era «anticlericale» e «nazionale», aveva cioè caratteri e limiti strettamente paesani. Per ciò che ricordo, mi pare che Spartaco si presterebbe specialmente a un tentativo che, entro certi limiti, potrebbe diventare un metodo: si potrebbe cioè «tradurlo» in lingua moderna: purgarlo delle forme retoriche e barocche come lingua narrativa, ripulirlo di qualche idiosincrasia tecnica e stilistica, rendendolo «attuale». Si tratterebbe di fare, consapevolmente, quel lavorio di adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi stili che la letteratura popolare subiva tradizionalmente quando si trasmetteva per via orale e non era stata fissata e fossilizzata dalla scrittura e dalla stampa. Se questo si fa da una lingua in un'altra, per i capolavori del mondo classico che ogni età ha tradotto e imitato secondo le nuove culture, perché non si potrebbe e dovrebbe fare per lavori come Spartaco e altri, che hanno un valore «culturale-popolare» piú che artistico? (Motivo da svolgere). Questo lavorio di adattamento si verifica ancora nella musica popolare, per i motivi musicali popolarmente diffusi: quante canzoni d'amore non sono diventate politiche, passando per due tre elaborazioni? Ciò avviene in tutti i paesi e si potrebbero citare dei casi abbastanza curiosi (per es. l'inno tirolese di Andreas Hofer che ha dato la forma musicale alla Molodaia Gvardia).

Per i romanzi ci sarebbe l'impedimento dei diritti d'autore che oggi mi pare durino fino a ottanta anni dalla prima pubblicazione (non si potrebbe però eseguire il rimodernamento per certe opere: per esempio I Miserabili, l'Ebreo Errante, Il conte di Montecristo, ecc. che sono troppo fissati nella forma originale).

[«La Farfalla».] Cfr. Antonio Baldini, Stonature di cinquant'anni fa: la Farfalla petroliera, «Nuova Antologia», 16 giugno 1931. «La Farfalla», fondata da Angelo Sommaruga a Cagliari e dopo due anni trasportata a Milano (verso il 1880). Il periodico finí col diventare la rivista di un gruppo di «artisti... proletari». Vi scrissero Paolo Valera e Filippo Turati. Valera dirigeva allora «La Plebe» (quale? vedere) e scriveva i suoi romanzi: Milano sconosciuta e Gli scamiciati, séguito alla Milano sconosciuta. Vi scrivevano Cesario Testa, che dirigeva l'«Anticristo», e Ulisse Barbieri. La stessa impresa editoriale della «Farfalla» pubblicava una «Biblioteca naturalista» e una «Biblioteca socialista». Almanacco degli Atei per il 1881. Zola, Vallès, di Goncourt, romanzi sui bassi fondi, galere, postriboli, ospedali, strade (Lumpenproletariat), anticlericalismo, ateismo, naturalismo (Stecchetti «poeta civile»). G. Aurelio Costanzo, Gli eroi della soffitta (da ragazzi, in casa, avendo visto il libro, pensavamo che si parlasse di lotte fra i topi). Carducci dell'Inno a Satana, ecc. Stile barocco come quello di Turati (ricordare i suoi versi riportati da Schiavi nell'antologia Fiorita di canti sociali): «Budda, Socrate, Cristo han detto il vero: – Per Satanasso un infedel vel giura. – Vivono i morti e strangolarli è vano». (Questo «episodio» di vita «artistica» milanese potrà essere studiato e ricostruito a titolo di curiosità e anche non senza un interesse critico ed educativo). Sulla «Farfalla» del periodo cagliaritano ha scritto Raffa Garzia, Per la storia del nostro giornalismo letterario, in «Glossa Perenne», febbraio 1929.

Il prigioniero che canta, di Johan Bojer (tradotto da L. Gray e G. Dauli, casa Editrice Bietti, Milano, 1930). Due aspetti culturali da osservare: 1) la concezione «pirandelliana» del protagonista, che continuamente ricrea la sua «personalità» fisica e morale, che è sempre diversa e pur sempre uguale. Può interessare per la fortuna del pirandellismo in Europa e allora occorre vedere quando il Bojer ha scritto il suo libro; 2) aspetto piú strettamente popolare, contenuto nell'ultima parte del romanzo. Per esprimersi in termini «religiosi» l'autore sostiene in forma pirandelliana la vecchia concezione religiosa e riformistica del «male»: il male è nell'interno dell'uomo (in senso assoluto); in ogni uomo c'è per cosí dire un Caino e un Abele, che lottano tra loro: occorre, se si vuole eliminare il male dal mondo, che ognuno vinca in sé il Caino e faccia trionfare l'Abele: il problema del «male» non è dunque politico, o economico-sociale, ma «morale» o «moralistico». Mutare il mondo esterno, l'insieme dei rapporti, non conta nulla: ciò che è importante è il problema individuale-morale. In ognuno c'è il «giudeo» e il «cristiano», l'egoista e l'altruista: ognuno deve lottare in se stesso ecc., ammazzare il giudaismo che è in se stesso. È interessante che il pirandellismo sia servito al Bojer per cucinare questo vecchio piatto, che una teoria che passa per antireligiosa ecc. sia servita per ripresentare la vecchia impostazione cristiana del problema del male ecc.

Luigi Capuana. Estratto da un articolo di Luigi Tonelli, Il carattere e l'opera di Luigi Capuana («Nuova Antologia», 1° maggio 1928): «Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza d'incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di "c'era una volta"; ma dopo averne fatta l'amara esperienza, il re lo distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c'interessa anche sotto il riguardo ideologico; ché, in un periodo d'infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il coraggio (!) di bollare a fuoco (!) "le sciocche sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche sentimentalità dell'uguaglianza economica e della comunità dei beni", ed esprimere l'urgenza di "tagliar corto alle agitazioni che han già creato uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile", ed affermare la necessità di una coscienza nazionale: "Ci fa difetto la dignità nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all'eccesso. È l'unico caso in cui l'eccesso non guasta"». Il Tonelli è sciocco, ma il Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto crispino di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa valeva allora la sua ideologia del «C'era una volta», che esaltava un paternalismo anacronistico e tutt'altro che nazionale, nell'Italia di allora.

Del Capuana occorrerà ricordare il teatro dialettale e le opinioni sulla lingua nel teatro, a proposito della quistione della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta, Malia, Il cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero successo. Il Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro «non soltanto dalla convinzione che "bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano" [...], ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente (!) dialettali, e nel dialetto trovano la loro piú naturale e schietta espressione». Ma cosa poi significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è spiegato (è da ricordare ancora che il Capuana scriveva in dialetto la sua corrispondenza con una sua «mantenuta», donna del popolo, cioè comprendeva che l'italiano non gli avrebbe permesso di essere capito con esattezza e «simpaticamente» dagli elementi del popolo, la cui cultura non era nazionale, ma regionale, o nazionale-siciliana; come, in tali condizioni, si potesse passare dal teatro dialettale a quello nazionale è una affermazione per enigmi e dimostra solo scarsa comprensione dei problemi culturali nazionali).

È da vedere, nel teatro di Pirandello, perché certe commedie sono scritte in italiano e altre in dialetto: nel Pirandello l'esame è ancor piú interessante, poiché Pirandello ha, in un altro momento, acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato. La lingua non ha ancora acquistato una «storicità» di massa, non è ancora diventata un fatto nazionale. Liolà di Pirandello, in italiano letterario vale ben poco, sebbene il Fu Mattia Pascal, da cui è tratta, possa ancora leggersi con piacere. Nel testo italiano l'autore non riesce a mettersi all'unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere concretamente italiani dinanzi a un pubblico italiano. In realtà in Italia esistono molte lingue «popolari» e sono i dialetti regionali che vengono solitamente parlati nella conversazione intima, in cui si esprimono i sentimenti e gli affetti piú comuni e diffusi; la lingua letteraria è ancora, per molta parte, una lingua cosmopolita, una specie di «esperanto», cioè limitata all'espressione di sentimenti e nozioni parziali ecc.

Quando si dice che la lingua letteraria ha una grande ricchezza di mezzi espressivi, si afferma una cosa equivoca ed ambigua; si confonde la ricchezza espressiva «possibile» registrata nel vocabolario o contenuta inerte negli «autori», con la ricchezza individuale, che si può spendere individualmente; ma è quest'ultima la sola ricchezza reale e concreta ed è su di essa che si può misurare il grado di unità linguistica nazionale che è data dalla vivente parlata del popolo, dal grado di nazionalizzazione del patrimonio linguistico. Nel dialogo teatrale è evidente l'importanza di tale elemento; dal palcoscenico il dialogo deve suscitare immagini viventi, con tutta la loro concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati dall'incomprensione della lingua e delle sue sfumature. Le parole della parlata famigliare si riproducono nell'ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri e nei giornali o ricercate nel vocabolario, come sarebbe il sentire in teatro parlar francese da chi il francese ha imparato nei libri senza maestro: la parola è ossificata, senza articolazione di sfumature, senza la comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l'impressione di essere goffi, o che goffi siano gli altri. Si osservi nell'italiano parlato quanti errori di pronunzia fa l'uomo del popolo; profúgo, roséo ecc. ciò che significa che tali parole sono state lette e non sentite, non sentite ripetutamente, cioè collocate in prospettive diverse (periodi diversi), ognuna delle quali abbia fatto brillare un lato di quel poliedro che è ogni parola (errori di sintassi ancor piú significativi).

Ada Negri. Articolo di Michele Scherillo nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927. Su Ada Negri bisognerebbe fare uno studio storico-critico. Può chiamarsi, in un periodo della sua vita, «poetessa proletaria» o semplicemente «popolare»? Nel campo della cultura mi pare rappresenti l'ala estrema del romanticismo del '48; il popolo diventa sempre piú proletariato, ma è visto ancora sotto la specie di popolo, non per i germi di originale ricostruzione che contiene in sé (ma piuttosto per la caduta che rappresenta da «popolo» a «proletariato»?) (In Stella mattutina, Treves, 1921, la Negri ha narrato i casi della sua vita di bambina e adolescente).

[L'episodio Salgari.] L'episodio Salgari, contrapposto a Giulio Verne, con l'intervento del ministro Fedele, campagne ridevoli nel «Raduno» organo del Sindacato autori e scrittori ecc., è da porre insieme alla rappresentazione della farsa Un'avventura galante ai bagni di Cernobbio data il 13 ottobre 1928 ad Alfonsine per la celebrazione del primo centenario della morte di Vincenzo Monti. Questa farsa, pubblicata nel 1858 come complemento editoriale di un lavoro teatrale di Giovanni De Castro, è di un Vincenzo Monti, professore a Como in quel torno di tempo (a una semplice lettura appare l'impossibilità dell'attribuzione al Monti) ma fu «scoperta», attribuita al Monti e rappresentata ad Alfonsine, dinanzi alle autorità, in una festa ufficiale, nel centenario montiano. (Vedere, caso mai, nei giornali del tempo, l'autore della mirabile scoperta e i personaggi ufficiali che la bevettero cosí grossa).

Emilio De Marchi. Perché il De Marchi, nonostante che in parecchi suoi libri ci siano molti elementi di popolarità, non è stato e non è molto letto? Rileggerlo e analizzare questi elementi, specialmente in Giacomo l'idealista. (Sul De Marchi e il romanzo d'appendice ha scritto un saggio Arturo Pompeati nella «Cultura», non soddisfacente).

Sezione cattolica. Il gesuita Ugo Mioni. Ho letto in questi giorni (agosto 1931) un romanzo di Ugo Mioni La ridda dei milioni stampato dall'Opera di S. Paolo di Alba. A parte il carattere prettamente gesuitico (e antisemita) che è particolarissimo di questo romanzaccio, mi ha colpito la trascuratezza stilistica e anche grammaticale della scrittura del Mioni. La stampa è pessima, i refusi e gli errori formicolano e questo è già grave in libretti dedicati ai giovani del popolo che spesso in essi imparano la lingua letteraria; ma se lo stile e la grammatica del Mioni possono aver sofferto per la cattiva stampa, è certo che lo scrittore è pessimo oggettivamente. In ciò il Mioni si stacca dalla tradizione di compostezza e anzi di falsa eleganza e lindura degli scrittori gesuitici come il padre Bresciani. Pare che Ugo Mioni (attualmente Mons. U. M.) non sia piú gesuita della Compagnia di Gesú.

La collezione «Tolle et lege» della Casa editrice «Pia Società S. Paolo», Alba-Roma, su 111 numeri contenuti in una lista del 1928, aveva 65 romanzi di Ugo Mioni e non sono certo tutti quelli pubblicati dal prolifico monsignore, che d'altronde non ha scritto solo romanzi d'avventura, ma anche di apologetica, di sociologia e anche un grosso trattato di «Missionologia». Case editrici cattoliche per pubblicazioni popolari: esiste anche una pubblicazione periodica di romanzi. Male stampati e in traduzioni scorrette.

Bibliografia

Carattere negativo nazionale-popolare della letteratura italiana. Nel 1892 l'editore Hoepli indisse un referendum sulla letteratura italiana raccolto in volume, I migliori libri italiani consigliati da cento illustri contemporanei che dev'essere interessante da vedere per questa rubrica, per stabilire quali siano state le opere piú apprezzate e da chi e per quali ragioni.

Per le quistioni teoriche cfr. Croce, Conversazioni critiche, seconda serie, pp. 237 sgg.: «I romanzi del Settecento» dove lo spunto è preso dal libro di Giambattista Marchesi Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del Settecento, coll'aggiunta di una bibliografia dei romanzi editi in Italia in quel secolo (Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1903).

Edoardo Perino. Sull'attività editoriale del Perino, che segnò un'epoca a Roma (il Perino stampò letteratura anticlericale a dispense illustrate, cominciando con la Beatrice Cenci di Guerrazzi), cfr. il Memoriale di G. De Rossi, che dovrebbe essere stato pubblicato nel '27 o nel '28.

I poeti del popolo siciliano di Filippo Fichera, Isola del Liri, Soc. Tip. A. Macioce e Pisani, 1929. Credo si possano trovare in questo volume indicazioni per identificare l'importanza in Sicilia delle «gare poetiche» o «tenzoni» tenute in pubblico come rappresentazioni teatrali popolari. Che carattere hanno? Da una recensione pubblicata nel «Marzocco» del 1929 pare puramente religioso.

Romanzi d'appendice. Nelle «Nouvelles Littéraires» del mese di luglio 1931 e seguenti, cfr. la rassegna degli odierni scrittori francesi di romanzi d'appendice Les illustres inconnus di G. Charensol. Finora sono apparsi brevi schizzi su M. Leblanc (autore di Arsenio Lupin), di Allain (autore di Fantomas) e di altri quattro o cinque (autore di Zigomar, ecc.).

Oscar Maria Graf. È stato tradotto in francese un romanzo di Oscar Maria Graf: Nous sommes prisonniers... (ed. Gallimard, 1930) che pare sia interessante e significativo come tentativo letterario di un operaio (panettiere?) tedesco.

P. Ginisty, Eugène Sue (Grandes vies aventureuses), Parigi, Berger-Levrault, 1932, in 16°, pp. 228, 10 franchi.

Tentativi francesi di letteratura popolare. È stata pubblicata un'antologia di scrittori operai americani (Poèmes d'ouvriers américains, traduits par N. Guterman et P. Morhange dalle edizioni «Les Revues», 1930, 9 franchi, Parigi) che ha avuto molto successo nella critica francese come si vede dagli estratti pubblicati nel prospetto editoriale.

Nel 1925 alle «Editions Aujourd'hui» è stata pubblicata una Antologie des écrivains ouvriers raccolta da Gaston Depresle con prefazione di Barbusse (scritti, tra l'altro, di Marguerite Andoux, Pierre Hamp ecc.).

La Libreria Valois ha pubblicato nel 1930: Henri Poulaille, Nouvel âge littéraire nel cui prospetto editoriale sono elencati i nomi di C. L. Philippe, Carlo Péguy, G. Sorel, L. e M. Bonneff, Marcell Martinet, Carlo Vildrac ecc. (non appare se si tratta di un'antologia o di una raccolta di articoli critici del Poulaille). Da vedere i tentativi di Enrico Rocca nel «Lavoro Fascista» per sollecitare una collaborazione letteraria di operai. Critica di questi tentativi.

Romanzi e poesie popolaresche di Ferdinando Russo (in dialetto napoletano).

Occorre ricordare onorevolmente, nel campo della letteratura per i ragazzi, «Il Giornalino della Domenica» di Vamba con tutte le sue iniziative e le sue organizzazioni. Per la collaborazione di padre Pistelli (esempio raro di un grande filologo che lavora genialmente per i ragazzi) cfr. l'articolo di Lea Nissim, Omero Redi e le «Pístole» nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1928.

Cfr. Ernesto Brunetto, Romanzi e romanzieri d'appendice nel «Lavoro Fascista» del 19 febbraio 1932.

Origine popolaresca del superuomo. (Cfr. pagina 23 bis). Su questo argomento è da vedere l'opera del Farinelli Il romanticismo nel mondo latino (3 voll., Bocca, Torino). Nel vol. 2°, un capitolo dove si parla del motivo dell'«uomo fatale» e del «genio incompreso».

Wells. Cfr. l'articolo di Laura Torretta, L'ultima fase di Wells, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Interessante e pieno di spunti utili per questa rubrica. Wells dovrà essere considerato come scrittore che ha inventato un nuovo tipo di romanzo di avventure, diverso da quello di Verne. Nel Verne ci troviamo, generalmente, nell'ambito del verosimile, con una anticipazione sul tempo. Nello Wells lo spunto generale è inverosimile, mentre i particolari sono scientificamente esatti o almeno verosimili; Wells è piú immaginoso e ingegnoso. Verne piú popolare. Ma Wells è scrittore popolare anche in tutto il resto della sua produzione: è scrittore «moralista» e non solo nel senso normale ma anche in quello deteriore. Però non può essere popolare in Italia e in genere nei paesi latini e in Germania: è troppo legato alla mentalità anglosassone.

IV. I nipotini di padre Bresciani

I nipotini di padre Bresciani.

[Brescianesimo.] Esame di una parte cospicua della letteratura narrativa italiana, specialmente degli ultimi decenni. La preistoria del brescianesimo moderno (del dopoguerra) può essere identificata in una serie di scrittori come: Antonio Beltramelli, con libri del tipo Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.; Polifilo (Luca Beltrami), con le diverse rappresentazioni dei «popolari di Casate Olona»; ecc. La letteratura abbastanza folta e diffusa in certi ambienti e che ha un carattere piú tecnicamente «sagrestano»; essa è poco conosciuta nell'ambiente laico di cultura e per niente studiata. Il suo carattere tendenzioso e propagandistico è apertamente confessato: si tratta della «buona stampa». Tra la letteratura di sagrestia e il brescianesimo laico sta una corrente letteraria che negli ultimi anni si è molto sviluppata (gruppo cattolico fiorentino guidato da Giovanni Papini, ecc.): un esempio tipico di essa sono i romanzi di Giuseppe Molteni. Uno di questi, Gli Atei, riflette il mostruoso scandalo Don Riva - suor Fumagalli in un modo ancor piú mostruosamente aberrante: il Molteni giunge ad affermare che appunto per la sua qualità di prete obbligato al celibato e alla castità bisogna compatire Don Riva (che violentò e contagiò una trentina di fanciullette di pochi anni, offertegli dalla Fumagalli per tenerselo «fedele») e crede che a tale massacro possa essere contrapposto, come moralmente equivalente, il volgare adulterio di un avvocato ateo. Il Molteni era molto noto nel mondo letterario cattolico: è stato critico letterario e articolista di tutta una serie di quotidiani e periodici clericali, fra i quali l'«Italia» e «Vita e Pensiero».

Il brescianesimo assume una certa importanza nel «laicato» letterario del dopoguerra e va sempre piú diventando la «scuola» narrativa preminente e ufficiosa.

Ugo Ojetti e il romanzo Mio figlio ferroviere. Caratteristiche generali della letteratura dell'Ojetti e diversi atteggiamenti «ideologici» dell'uomo. Scritti sull'Ojetti di Giovanni Ansaldo che d'altronde rassomiglia all'Ojetti molto piú di quanto potesse parere una volta. La manifestazione piú caratteristica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta al padre Enrico Rosa, pubblicata nel «Pègaso» e riprodotta nella «Civiltà Cattolica» con commento del Rosa. L'Ojetti dopo l'annunzio della avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa non solo era persuaso che ormai tutte le manifestazioni intellettuali italiane sarebbero state controllate secondo uno stretto conformismo cattolico e clericale, ma si era già adattato a questa idea e si rivolse al padre Rosa con uno stile untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali della Compagnia di Gesú per impetrare una «giusta» libertà artistica. Non si può dire, alla luce degli avvenimenti posteriori (discorso alla Camera del Capo del Governo) se sia stata piú abbietta la prostrazione dell'Ojetti o piú comica la sicura baldanza del padre Rosa che, in ogni caso, diede una lezione di carattere all'Ojetti, s'intende al modo dei gesuiti. L'Ojetti è rappresentativo da piú punti di vista: ma la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale.

Alfredo Panzini: già nella preistoria con qualche brano, per esempio, della Lanterna di Diogene (l'episodio del «livido acciaro» vale un poema di comicità), poi Il padrone sono me, Il mondo è rotondo e quasi tutti i suoi libri dalla guerra in poi. Nella Vita di Cavour è contenuto un accenno proprio al padre Bresciani, veramente strabiliante se non fosse sintomatico. Tutta la letteratura pseudo-storica del Panzini è da riesaminare dal punto di vista del brescianesimo laico. L'episodio Croce-Panzini, riferito nella «Critica» è un caso di gesuitismo personale, oltre che letterario.

Di Salvatore Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: «Oremus sull'altare, e flatulenze in sacrestia»; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca.

Margherita Sarfatti e il suo romanzo Il Palazzone. Nella recensione di Goffredo Bellonci pubblicata dall'«Italia Letteraria» del 23 giugno 1929, si legge: «verissima quella timidezza della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che "esso è benigno e accogliente per le future giostre"». Questa vergine pudica che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile: la vergine Fiorella avrà presentito anche le future «molte miglia» e il suo «pelliccione» ben scosso. Sul punto delle giostre ci sarebbe da fare qualche amena divagazione: si potrebbe ricordare l'episodio leggendario su Dante e la meretricula, riportato nella raccolta Papini (Carabba) per dire che di «giostre» può parlar l'uomo, non la donna; sarebbe anche da ricordare l'espressione del cattolico Chesterton nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a proposito della lotta dei sessi, per dire che il punto di vista della chiave non può essere quello della serratura. (È da rilevare come Goffredo Bellonci, che civetta volentieri con l'erudizione «preziosa» – a buon mercato – per fare spicco nel giornalistume romano, trovi «vero» che una vergine pensi alle giostre).

Mario Sobrero e il romanzo Pietro e Paolo può rientrare nel quadro generale del brescianesimo per il chiaroscuro.

Francesco Perri e il romanzo Gli emigranti. Questo Perri non è poi Paolo Albatrelli dei Conquistatori? In ogni modo è da tener conto anche dei Conquistatori. Negli Emigranti il tratto piú caratteristico è la rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato ma che lo può diventare: una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da rimbambito pretenzioso. Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe «verista» ed egli sarebbe l'iniziatore di una specie di neorealismo; ma può oggi esistere un verismo non storicistico? Il verismo stesso del secolo XIX è stato in fondo una continuazione del vecchio romanzo storico nell'ambiente dello storicismo moderno. Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico e si capisce. Vi sono due riferimenti generici: uno al fenomeno dell'emigrazione meridionale, che ha avuto un certo decorso storico e uno ai tentativi di invasione delle terre signorili «usurpate» al popolo che anche essi possono essere ricondotti a epoche ben determinate. Il fenomeno migratorio ha creato una ideologia (il mito dell'America) che ha contrastato la vecchia ideologia alla quale erano legati i tentativi sporadici ma endemici di invasione delle terre, prima della guerra. Tutt'altro è il movimento del '19-'20 che è simultaneo e generalizzato ed ha una organizzazione implicita nel combattentismo meridionale. Negli Emigranti tutte queste distinzioni storiche, che sono essenziali per comprendere e rappresentare la vita del contadino, sono annullate e l'insieme confuso si riflette in modo rozzo, brutale, senza elaborazione artistica. È evidente che il Perri conosce l'ambiente popolare calabrese non immediatamente, per esperienza propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di vecchi schemi regionalistici (se egli è l'Albatrelli occorre tener conto delle sue origini politiche, mascherate da pseudonimi per non perdere, nel 1924, l'impiego al Comune o alla Provincia di Milano). L'occupazione (il tentativo di) a Pandure nasce da «intellettuali», su una base giuridica (nientemeno che le leggi eversive di G. Murat) e termina nel nulla, come se il fatto (che pure è verbalmente presentato come un'emigrazione di popolo in massa) non avesse sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale. Puro meccanismo di frasi. Cosí l'emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco Blèfari, è (per dirla con la parola di un altro calabrese dal carattere temprato come l'acciaio, Leonida Rèpaci) un parafulmine di tutti i guai. Insistenza sugli errori di parola dei contadini, che è tipica del brescianesimo, se non dell'imbecillità letteraria in generale. Le «macchiette» (Il Galeoto ecc.), compassionevoli, senza arguzia e umorismo. L'assenza di storicità è «voluta» per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in realtà sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio.

Leonida Rèpaci: nell'Ultimo Cireneo è da smontare il congegno combinato in modo rivoltante; da vedere I fratelli Rupe che sarebbero i fratelli Répaci che pare siano stati da qualcuno paragonati ai Cairoli.

Umberto Fracchia: da vedere specialmente: Angela Maria. (Nel quadro generale occupano il primo posto Ojetti-Beltramelli-Panzini; in essi il carattere gesuitesco-retorico è piú appariscente, e piú importante è il posto loro assegnato nelle valutazioni letterarie piú correnti).

Letteratura di guerra. Quali riflessi ha avuto la tendenza «brescianistica» nella letteratura di guerra? La guerra ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi, ad apprezzarsi reciprocamente nella comune sofferenza e nella comune resistenza in forme di vita eccezionali che determinavano una maggiore sincerità e un piú approssimato avvicinarsi all'umanità «biologicamente» intesa. Cosa hanno imparato dalla guerra i letterati? E in generale cosa hanno imparato dalla guerra quei ceti da cui normalmente sorgono in maggior numero gli scrittori e gli intellettuali? Sono da seguire due linee di ricerca: 1) Quella riguardante lo strato sociale, ed essa è già stata esplorata per molti aspetti dal prof. Adolfo Omodeo nella serie di capitoli Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, usciti nella «Critica» e poi raccolti in volume. La raccolta dell'Omodeo presenta un materiale già selezionato, secondo una tendenza che si può anche chiamare nazionale-popolare, perché l'Omodeo implicitamente si propone di dimostrare come già nel 1915 esistesse robusta una coscienza nazionale-popolare, che ebbe modo di manifestarsi nel tormento della guerra, coscienza formata dalla tradizione liberale democratica; e quindi mostrare assurda ogni pretesa di palingenesi in questo senso nel dopo guerra. Che l'Omodeo riesca ad assolvere il suo compito di critico è altra quistione; intanto l'Omodeo ha una concezione di ciò che è nazionale-popolare troppo angusta e meschina, le cui origini culturali sono facili da rintracciare; egli è un epigono della tradizione moderata, con in piú un certo tono democratico o meglio popolaresco che non sa liberarsi da forti striature «borbonizzanti». In realtà la quistione di una coscienza nazionale-popolare non si pone per l'Omodeo come quistione di un intimo legame di solidarietà democratica tra intellettuali-dirigenti e masse popolari, ma come quistione di intimità delle singole coscienze individuali che hanno raggiunto un certo livello di nobile disinteresse nazionale e di spirito di sacrifizio. Siamo cosí ancora al punto dell'esaltazione del «volontarismo» morale, e della concezione di élites che si esauriscono in se stesse e non si pongono il problema di essere organicamente legate alle grandi masse nazionali.

2) La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a scrittori «professionali» che scrivevano per essere pubblicati, ha avuto in Italia varia fortuna. Subito dopo l'armistizio è stata molto scarsa e di poco valore: ha cercato la sua fonte d'ispirazione nel Feu di Barbusse. È molto interessante da studiare Il diario di guerra di B. Mussolini per trovarvi le tracce dell'ordine di pensieri politici, veramente nazionali-popolari, che avevano formato, anni prima, la sostanza ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti il processo per l'eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno 1914. Si è poi avuta una seconda ondata di letteratura di guerra, che ha coinciso con un movimento europeo in questo senso, prodottosi dopo il successo internazionale del libro del Remarque e col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque. Questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo «brescianesco». Esempio caratteristico il libro di C. Malaparte La rivolta dei santi maledetti a cui si è già accennato. È da vedere l'apporto a questa letteratura del gruppo di scrittori che sogliono essere chiamati «vociani» e che già prima del 1914 lavoravano con concordia discorde per elaborare una coscienza nazionale-popolare moderna. Dai «minori» di questo gruppo sono stati scritti i libri migliori, per esempio quelli di Giani Stuparich. I libri di Ardengo Soffici sono intimamente repugnanti, per una nuova forma di rettoricume peggiore di quella tradizionale. Una rassegna della letteratura di guerra sotto la rubrica del brescianesimo è necessaria.

Vedere il cap. IX: «Guerre et Littérature» del volume di B. Crémieux sulla Littérature Italienne (ed. Kra, 1928, pp. 243 sgg.). Per il Crémieux la letteratura italiana di guerra segna una scoperta del popolo da parte dei letterati. Ma il Crémieux esagera! Tuttavia il capitolo è interessante e da rileggere. D'altronde anche l'America è stata scoperta dall'italiano Colombo e colonizzata da Spagnoli e Anglosassoni.

Due generazioni. La vecchia generazione degli intellettuali è fallita, ma ha avuto una giovinezza (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.). La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.). Asini brutti anche da piccoletti.

A molti poetuzzi odierni si potrebbe applicare il verso del Lasca contro il Ruscelli: «delle Muse e di Febo mariuolo». E piú che di poesia si deve infatti parlare di mariuoleria per ottenere premi letterari e sovvenzioni d'Accademia.

Parlando di Gioacchino Belli nella prima edizione dell'Ottocento (Vallardi), Guido Mazzoni ne trova una che è impagabile e può servire per caratterizzare gli scrittori di questa rubrica, specialmente Ugo Ojetti. Per il Mazzoni la debolezza di carattere del Belli «si trasformava in un aiuto di prim'ordine alle sue facoltà artistiche, perché lo rendeva piú malleabile alle impressioni».

Ugo Ojetti e i gesuiti. La Lettera al Rev. Padre Enrico Rosa di U. Ojetti è stata pubblicata nel Pègaso del marzo 1929 e riportata nella «Civiltà Cattolica» del 6 aprile successivo con la lunga postilla del p. Rosa stesso. La lettera dell'Ojetti è raffinatamente gesuitica. Comincia cosí: «Rev.do Padre, tanta è dall'11 febbraio la calca dei convertiti a un cattolicesimo di convenienza e di moda che Ella permetterà ad un romano, di famiglia, come si diceva una volta, papalina, battezzato in S. Maria in Via ed educato alla religione proprio in S. Ignazio di Roma e da loro Gesuiti, d'intrattenersi mezz'ora con Lei, di riposarsi cioè dal gran bailamme considerando un uomo come lei, integro e giudizioso, che era ieri quel ch'è oggi e quello che sarà domani». Piú oltre, ricordando i suoi primi maestri gesuiti: «Ed eran tempi difficili, ché fuori a dir Gesuita era come dire subdola potenza o fosca nequizia, mentre là dentro, all'ultimo piano del Collegio Romano sotto i tetti (– dove era posta la scuola – di religione – gesuita dove l'Ojetti fu educato –), tutto era ordine, fiducia, ilare benevolenza e, anche in politica, tolleranza e mai una parola contro l'Italia, e mai, come purtroppo accadeva nelle scuole di Stato, il basso ossequio alla supremazia vera o immaginaria di questa o di quella cultura straniera sulla nostra cultura». Ancora: ricorda di essere «vecchio abbonato della "Civiltà Cattolica"» e «fedele lettore degli articoli ch'Ella vi pubblica» e perciò «io scrittore mi dirigo a lei scrittore, e le dichiaro il mio caso di coscienza». C'è tutto: la famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l'educazione gesuitica, l'idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della «Civiltà Cattolica», il padre Rosa come vecchia guida spirituale dell'Ojetti, il ricorso dell'Ojetti oggi alla sua guida per un caso di coscienza. L'Ojetti dunque non è un cattolico di oggi, un cattolico dell'11 febbraio, per convenienza o per moda; egli è un gesuita tradizionale, la sua vita è un «esempio» da portare nelle prediche ecc. L'Ojetti non è mai stato «made in Paris», non è mai stato un dilettante dello scetticismo e dell'agnosticismo, non è mai stato voltairriano, non ha mai considerato il cattolicesimo tutto al piú come un puro contenuto sentimentale delle arti figurative. Perciò l'11 febbraio l'ha trovato preparato ad accogliere la Conciliazione con «ilare benevolenza»; egli non pensa neppure (dio liberi) che si possa trattare di un instrumentum regni perché egli stesso ha sentito «che forza sia nell'animo degli adolescenti il fervore religioso, e come, una volta acceso, esso porti il suo calore in tutti gli altri sentimenti, dall'amore per la patria e per la famiglia fino alla dedizione verso i capi, dando alla formazione morale del carattere addirittura un premio e una sanzione divina». Non è questa, in compendio, la biografia, anzi l'autobiografia dell'Ojetti? Però, però: «E la poesia? E l'arte? E il giudizio critico? E il giudizio morale? Tornerete tutti a obbedire ai Gesuiti?» domanda uno spiritello all'Ojetti, nella persona di «un poeta francese, che è davvero un poeta». L'Ojetti non per nulla è stato alla scuola dei gesuiti: a queste domande ha trovato una soluzione squisitamente gesuitica, salvo che in un aspetto: nell'averla divulgata e resa aperta. L'Ojetti dovrebbe ancora migliorare la sua «formazione morale del carattere» con sanzione e premio divino: queste sono cose che si fanno e non si dicono. Ecco infatti la soluzione dell'Ojetti: «... la Chiesa, fermi i suoi dogmi, sa indulgere ai tempi e ben l'ha dimostrato nel Rinascimento (ma dopo il Rinascimento c'è stata la Controriforma, di cui i gesuiti sono appunto campioni e rappresentanti) e Pio undecimo, umanista, sa di quant'aria abbisogni la poesia per respirare; e che ormai da molti anni, senza aspettare la Conciliazione, anche in Italia la cultura laica e quella religiosa collaborano cordialmente nella scienza e nella storia». «Conciliazione non è confusione. Il Papato condannerà com'è suo diritto; il Governo d'Italia permetterà com'è suo dovere. E Lei, se lo crederà opportuno, spiegherà sulla "Civiltà Cattolica" i motivi della condanna e difenderà le ragioni della fede; e noi qui, senza ira, difenderemo le ragioni dell'arte, se proprio ne saremo convinti, perché potrà darsi, come spesso è avvenuto da Dante al Manzoni, da Raffaello al Canova, che anche a noi fede e bellezza sembrino due lati dello stesso volto, due raggi della stessa luce. E talvolta ci sarà caro educatamente discutere. Baudelaire, ad esempio, è o non è un poeta cattolico?» «Il fatto è che oggi il conflitto pratico e storico è risolto. Ma quell'altro – tra assoluto e relativo, tra spirito e corpo, eterno contrasto che è nella coscienza di ciascuno di noi, dice Ojetti, cosa per cui B. Croce e G. Gentile, non cattolici, furono contro il Modernismo (?), soddisfatti (?) di vederlo sconfitto perché (?) sarebbe stato la cattiva (?) Conciliazione, il subdolo equivoco fatto sacra dottrina – che è intimo ed eterno (e se è eterno come può essere conciliato?) non lo è, non può esserlo; e l'aiuto che a ciascuno può dare e dà quotidianamente la religione per risolverlo, a noi cattolici (come si può essere cattolici col "contrasto eterno"? si può essere tutt'al piú gesuiti!) la religione lo dava anche prima. Pochezza nostra se non siamo riusciti ancora con quell'aiuto a risolverlo una volta per sempre (!?); ma Ella sa che proprio dal continuo risorgere, rinnovarsi e rinfocarsi di quell'eterno conflitto sprizzano e sfavillano poesia ed arte».

Documento stupefacente davvero di gesuitismo e di bassezza morale. L'Ojetti può creare una nuova setta supergesuitica: un modernismo estetizzante gesuitico!

La risposta del p. Rosa è meno interessante perché gesuiticamente piú anodina: il Rosa si guarda bene dal guardare per il sottile nel cattolicismo di Ojetti e in quello dei neo convertiti. Troppo presto: è bene che Ojetti e C. si dicano cattolici e si strofinino ai gesuiti, forse anzi da loro non si domanderà di piú. Dice bene il Rosa: «convenienza o moda tuttavia – diciamolo tra noi in confidenza e di passaggio – che è forse un minor male e quindi un certo bene, rispetto a quella convenienza o moda antecedente, di futile anticlericalismo e di gretto materialismo, per cui molti [...] si tenevano lontani dalla professione della fede che pure serbavano ancora in fondo all'anima "naturalmente cristiana"».

Ricercare il giudizio brusco e tagliente datone dal Carducci.

Alfredo Panzini. In altra nota è stato già rilevato come F. Palazzi, nella sua recensione del libro di Panzini I giorni del sole e del grano osservi come l'atteggiamento del Panzini verso il contadino sia piuttosto quello del negriero che non quello di un disinteressato e candido georgico; ma questa osservazione si può estendere ad altri, oltre che al Panzini, che è solo il tipo o la maschera di un'epoca. Ma altre osservazioni fa il Palazzi che sono strettamente legate al Panzini (e collegate a certe ossessioni del Panzini, come quella, per esempio della «livida lama»). Scrive il Palazzi (ICS del giugno 1929): «Quando (il Panzini) vi fa l'elogio, a mezza bocca, del frugale pasto consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgerete che la sua bocca fa le smorfie di disgusto e nell'intimo pensa come mai si possa vivere di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha messo sotto la terra il tartufo e in fondo al mare le ostriche. [...]. "Una volta – egli confesserà – mi è venuto anche da piangere". Ma quel pianto non sgorga dai suoi occhi, come da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che sono sotto i suoi occhi, per la bellezza intravista di certi umili atteggiamenti, per la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che pur non mancano tra i coltivatori rudi dei campi? Oh, no! egli piange perché a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si ricorda di quando sua madre li chiamava pure cosí, e si rivede bambino e ripensa alla brevità ineluttabile della vita, alla rapidità della morte che ci è sopra. "Signor arciprete, mi raccomando: poca terra sopra la bara". Il Panzini insomma piange perché si fa pena. Piange di sé e della morte e non per gli altri. Egli passa accanto all'anima del contadino senza vederla. Vede le apparenze esteriori, ode quel che esce appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la proprietà non sia per caso sinonimo di "rubare"».

Nell'«Italia che scrive» del giugno 1929, Fernando Palazzi, recensendo I giorni del sole e del grano del Panzini, nota: «... soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera». Panzini negriero, in una parola.

La traduzione delle Opere e i Giorni di Esiodo, stampata dal Panzini nel 1928 (prima nella «Nuova Antologia» poi in volumetto Treves), è esaminata nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 da Angiolo Orvieto (Da Esiodo al Panzini). La traduzione tecnicamente è molto imperfetta. Per ogni parola del testo il Panzini ne adopera due o tre delle sue; si tratta piú di una traduzione commento che di una traduzione, alla quale manca «il colorito particolarissimo dell'originale, salvo quella certa solennità maestosa ch'egli in piú luoghi è riuscito a conservare». L'Orvieto cita alcuni gravi spropositi del Panzini: invece d'«infermità che portano la vecchiezza all'uomo» il Panzini traduce «infermità che la vecchiezza porta agli uomini». Esiodo parla della «quercia che porta in vetta le ghiande e in mezzo (nel tronco) le api» e il Panzini traduce comicamente «le querce montane (!) maturano le ghiande, e quelle delle convalli (!) accolgono le api nel loro tronco», distinguendo due famiglie di querce ecc. (un alunno di liceo sarebbe stato bocciato per un tale sproposito). Per Esiodo le Muse sono «donatrici di gloria coi carmi», per Panzini «gloriose nell'arte del canto». Altri esempi porta l'Orvieto in cui appare che oltre alla conoscenza superficiale del greco, gli spropositi del Panzini siano anche dovuti al pregiudizio politico (caso tipico di brescianesimo) come là dove muta il testo per far partecipare Esiodo alla campagna demografica.

Sarà da vedere se le riviste di filologia classica si sono occupate della traduzione del Panzini: in ogni modo l'articolo dell'Orvieto mi pare sufficiente per il mio scopo (bisogna rivederlo perché in questo momento me ne manca una parte).

La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate nell'«Italia Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929 ed è stata ristampata (riveduta e corretta? sarebbe interessante un esame minuzioso, se ne valesse la pena) dall'editore Mondadori, in un volume delle «Scie» con notevole ritardo. Nell'«Italia Letteraria» del 30 giugno, col titolo Chiarimento è pubblicata una lettera inviata dal Panzini, con la data del 27 giugno 1929, al direttore del «Resto del Carlino»: il Panzini, con stile seccato e intimamente allarmato, si lamenta per un piccante commento, pubblicato dal giornale bolognese alle due prime puntate del suo scritto che era giudicato «piacevole giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini risponde in stile da telegramma: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato (Carteggio Nigra-Cavour)». (Come se la sola documentazione per la vita del Cavour fosse questo Carteggio!) Il Panzini cerca poi di difendersi, assai male, dall'aver accennato a una forma di dittatura propria del Cavour, «umana», che ellitticamente poteva sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura: figurarsi la tremarella del Panzini nel procedere per questi «ignes». L'episodio ha un certo significato, perché mostra come molti si siano cominciati ad accorgere che queste scritture pseudo-nazionali e patriottiche del Panzini sono stucchevoli, insincere e mostrano la trama. L'imbecillità e l'inettitudine del Panzini di fronte alla storia sono incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far credere all'esistenza di chissà mai quali profondità, come quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo storico! In realtà è una forma di stenterellismo che si dà l'aria del Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un'altra puntata contro il Panzini si può leggere nella «Nuova Italia» di quel torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour è scritta come se il Cavour fosse Pinocchio!

Né si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue scritture di storia, sia «piacevole e drammatico»: egli è piuttosto farsesco e la storia è rappresentata come una «piacevolezza» da commesso viaggiatore o da farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti sono altrettanti Panzini che si beano della propria fatua stupidaggine.

Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità: è una raccolta stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un documento di primo ordine del gesuitismo letterario del Panzini. Esemplificazione: «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell'unità d'Italia la piú romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini, oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati messi in circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza accorgersi che in molti casi, come in questo, è implicito un giudizio «diffamatorio» del popolo italiano: il Panzini deve essersi fatto uno schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente i propri scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un gran Re».

Questo luogo comune, questa oleografia da bettola di Vittorio Emanuele è da unire all'altro sulla «tradizione» militare del Piemonte e della sua aristocrazia. In realtà in Piemonte è proprio mancata una «tradizione» militare nel senso non burocratico della parola, cioè è mancata una «continuità» di personale militare di prim'ordine, e ciò è proprio apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna personalità (eccetto che nel campo garibaldino), ma invece sono affiorate molte deficienze interne gravissime. In Piemonte esisteva una tradizione militare «popolare»; dalla sua popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito; apparvero di tanto in tanto capacità militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc., ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell'aristocrazia, nell'ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla restaurazione e la prova se ne ebbe nel '48 quando non si sapeva dove metter le mani per dare un capo all'esercito e dopo aver domandato invano un generale alla Francia, si finí con l'assumere un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II consistevano solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere stato molto raro in Italia se tanto si insiste per farlo rimarcare: lo stesso si dica per il «galantomismo»; si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l'essere galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di Vittorio Emanuele II è da ricordare l'aneddoto riferito da F. Martini nel suo libro postumo di memorie (ed. Treves); racconta il Martini che dopo la presa di Roma Vittorio Emanuele abbia detto che gli dispiaceva non ci fosse piú nulla da «piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava l'aneddoto (credo Q. Sella) pareva dimostrare che non ci fosse stato nella storia un re piú conquistatore di Vittorio Emanuele. Dell'aneddoto si potrebbe dare forse altra spiegazione piú terra terra, legata alla concezione dello stato patrimoniale e alla varia misura della lista civile. È da ricordare poi l'epistolario di Massimo D'Azeglio pubblicato dal Bollea nel «Bollettino Storico Subalpino» e il conflitto tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella su quistioni economiche.

Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto sugli episodi «galanti» della vita di Vittorio Emanuele come se essi fossero tali da rendere piú popolare la figura del re: si narra di alti funzionari e di ufficiali che andavano nelle famiglie di contadini per convincerle a mandare delle ragazze a letto col re per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare l'ammirazione popolare.

«... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà guerriera». Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la «tradizione» guerriera della sua famiglia, si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi tempi.

«Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto d'accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori», e via di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti (!) del re alla corte delle Tuglierí (sic) furono cosí audaci «che tutte le dame ne rimasero amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico Re montanaro!» (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati dal Paleologue, ma che differenza di tòcco. Il Paleologue, pur data la materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo cortigiano: il Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da trivio, del commerciante in tratta delle bianche). «Cavour era assai piú raffinato. Cavallereschi però tutti e due, e oserei (!) dire, romantici (!)». «Massimo D'Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era...».

L'accenno del Panzini, di cui si parla a p. 37 e che gli attirò i fulmini... confinari del «Resto del Carlino» è contenuto nella seconda puntata della Vita di Cavour edizione «Italia Letteraria» (numero del 16 giugno) ed è bene riportarlo perché sarà stato cassato o modificato nell'ed. Mondadori: «Non ha bisogno di assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e terribile. L'aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura piú forte che non quella di assumere molti portafogli nei ministeri».

Pare incredibile che una tale frase sia potuta sfuggire al pavido Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino» l'abbia beccato. Dalla risposta del Panzini si può spiegare l'infortunio: «Quanto a certe puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò (?!) i poteri dittatori assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto (!?) scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la dittatura dell'umana grandezza di Cavour». Pare evidente che l'intento del Panzini fosse adulatorio, ma la sua innocenza politica e quindi storica gli diede lo sgambetto e trasformò l'adulazione servile in una smorfia equivoca. Non si può parlare di dittatura per il Cavour, tanto meno nel 1859 e anzi questa fu una debolezza nello svolgimento della guerra e nella posizione dei piemontesi in seno all'alleanza con Napoleone. Sono note le opinioni del Cavour sulla dittatura e sulla funzione del Parlamento, opinioni di cui il Panzini pavidamente tace, sebbene il parlarne non sarebbe stato certo pericoloso. Ciò che è curioso è che piú oltre il Panzini stesso mostra come il Cavour fosse stato tagliato fuori dallo svolgimento della guerra e sebbene ministro della guerra, non ricevesse neppure i bollettini dell'esercito. Per un dittatore non c'è male. Il Cavour non riuscí neppure a far valere le sue prerogative costituzionali di capo del Governo, che del resto non erano contemplate nello Statuto, e quindi il suo conflitto col re dopo l'armistizio di Villafranca. In realtà non la politica di Cavour fu continuata dalla guerra del '59, ma un miscuglio delle velleità politiche di Napoleone e delle tendenze assolutiste piemontesi impersonate dal re e da un gruppo di generali. Si ripeté la situazione del 1848-49, e se non ci fu disastro militare, ciò fu dovuto alla presenza dell'esercito francese: ma il risultato della situazione politica anormale fu grave lo stesso, perché nell'alleanza Napoleone ebbe l'egemonia illimitata, e il Piemonte un posto troppo subordinato.

«... la guerra d'Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette». (Affermazione impagabile per uno storico: si afferma che Cavour è stato un genio politico ecc., ma l'affermazione non diventa mai dimostrazione e rappresentazione concreta. Il significato della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e della capacità politica di Cavour nell'averla voluta, è «omesso» per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è sguaiatamente triviale: non si cerca di spiegare perché Napoleone abbia collaborato con Cavour (le citazioni d'appoggio dovrebbero essere troppe: occorrerà rivedere il libro o l'annata dell'«Italia Letteraria»).

«Al Museo napoleonico in Roma c'è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore (non è un pugnale dei soliti, a quanto pare!)». «Può questo pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho esperienza (!), ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida lama» della Lanterna di Diogene. Forse si è trovato per caso presente a qualche torbido in Romagna e [deve] aver visto qualche paio d'occhi guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che passano il cuore ecc.).

«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l'aspetto di Belzebú, legga il romanzo L'Ebreo di Verona di Antonio Bresciani e si divertirà (sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni (ma il De Sanctis era contemporaneo del Bresciani), quel padre gesuita fu un potente narratore». (Questo brano si potrebbe porre come epigrafe al saggio sui «Nipotini del padre Bresciani»: esso si trova nella puntata terza della Vita di Cavour edizione dell'«Italia Letteraria», n. del 23 giugno 1929).

Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena tipo Alessandro Dumas, A. Panzini è il Ponson du Terrail del quadro. Il Panzini vuole cosí ostentatamente mostrare di «saperla lunga» sull'animo e sulla natura degli uomini, di essere un cosí furbissimo furbo, un realista cosí disincantato dalla tenebrosa nequizia dell'uman genere e specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene voglia di rifugiarsi in Condorcet e in Bernardin de Saint-Pierre, che almeno non furono cosí trivialmente filistei. Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità: la storia ti diventa una sequela di storielle poco divertenti perché insalivate dal Panzini, senza nesso né di individualità eroiche, né di altre forze sociali; quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo, molto piú accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a puntate. Al luogo comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» si possono contrapporre i giudizi che il Panzini volta per volta dà dei singoli generali come il La Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di scherno trivialmente spiritoso: «Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da «demagogo». Il Della Rocca non voleva piú mandare i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re). Altre allusioni del genere per il La Marmora e per il Cialdini (anche se Cialdini non fu piemontese) e mai è riferito il nome di un generale piemontese che abbia in qualche modo brillato: altro accenno al Persano.

Non si comprende proprio cosa il Panzini abbia voluto scrivere con questa Vita di Cavour, perché non si tratta certo di una vita di Cavour né di una biografia dell'uomo Cavour, né di un profilo del politico Cavour. In verità, dal libro del Panzini, il Cavour, uomo e politico, esce piuttosto malconcio e ridotto a proporzioni da Gianduia: la sua figura non ha nessun rilievo concreto, perché a dare un rilievo non bastano certo le giaculatorie che il Panzini continuamente ripete: eroe, superbo, genio ecc. Questi giudizi, non essendo giustificati (perciò si tratta di giaculatorie), potrebbero addirittura parere canzonature, se non si comprendesse che la misura che il Panzini adopera per giudicare l'eroismo, la grandezza, il genio ecc. non è altro che la sua personale misura, la genialità, la grandezza, l'eroismo del sig. Panzini Alfredo. Allo stesso modo e per la stessa ragione, il Panzini abbonda nel trovar attivi il dito di dio, il fato, la provvidenza negli avvenimenti del Risorgimento; si tratta della concezione volgare dello «stellone» condita con parole da tragedia greca e da padre gesuita, ma non perciò meno triviale. In realtà l'insistenza balorda sull'«elemento extra umano» oltre che imbecillità storica, significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che pure ebbe non piccola parte negli avvenimenti. Cosa potrebbe significare che la rivoluzione italiana è stata un evento miracoloso? Che tra il fattore nazionale e quello internazionale dell'evento, è l'internazionale che aveva il peso maggiore e creava difficoltà che parevano insormontabili. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour sarebbe messa ben piú in rilievo e la sua funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben piú da esaltare (a parte ogni altra considerazione). Ma il Panzini vuol dare colpi a molte botti con molti cerchi e non riesce a raccapezzare niente di sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari: tutti furono grandi, rivoluzionari ecc. come al buio tutti i gatti sono bigi.

Nell'«Italia Letteraria» del 2 giugno 1929 è pubblicata un'intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di Cavour». Vi si dice che lo stesso Bruers ha indotto il Panzini a scrivere il libro «in modo che il pubblico potesse avere finalmente un "Cavour" italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno inglese, e uno francese». Nell'intervista il Panzini dice che la sua Vita «non è una monografia nel senso storico-scientifico della parola; è un profilo destinato non ai dotti, agli "specialisti" ma al vasto pubblico» (cioè chincaglieria per negri). Il Panzini è persuaso che nel suo libro ci siano delle parti originali e precisamente il fatto di aver dato importanza all'attentato di Orsini per spiegare l'atteggiamento di Napoleone III; secondo il Panzini Napoleone III sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò con impegno d'onore (!) il futuro sovrano della Francia»; Orsini, mandatario della Carboneria (che non esisteva piú da un bel pezzo) avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du Terrail; Orsini, se mai vi appartenne, doveva aver dimenticato, al tempo dell'attentato, da un bel pezzo, la Carboneria; le sue repressioni del '48 nelle Marche furono proprio dirette contro i vecchi carbonari, e ancora, l'Orsini, dopo aver superato, come gli altri rivoluzionari, la Carboneria nella «Giovane Italia» e nel mazzinianismo, era stato già in rotta con Mazzini). Le ragioni dell'atteggiamento personale di Napoleone verso Orsini (che in ogni modo fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova; anche la grande serietà dell'Orsini che non era un qualunque scalmanato, dovette imporsi e dimostrare che l'odio dei rivoluzionari italiani per Napoleone non era una bazzecola: occorreva far dimenticare la caduta della Repubblica Romana e cercare di distruggere l'opinione diffusa che Napoleone fosse il maggior nemico dell'unità d'Italia. Il Panzini poi dimentica (per «chiarezza») che c'era stata la guerra di Crimea e l'orientamento generale di Napoleone pro-italiano (che però, essendo conservatore, non doveva essere gradito ai rivoluzionari); tanto che l'attentato sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta l'ipotesi del Panzini si basa sull'aver visto il famoso pugnale che passava il cuore e sull'ipotesi che fosse un oggetto carbonaro: un romanzo alla Ponson e niente altro.

G. Papini. In Papini manca la rettitudine: dilettantismo morale. Nel primo periodo della sua carriera letteraria questa deficienza non impressionava, perché Papini basava la sua autorità su se stesso, era il «partito di se stesso». Divertiva, non poteva essere preso sul serio, altro che da pochi filistei (ricordare la discussione con Annibale Pastore). Oggi Papini si è innestato in un vasto movimento da cui trae autorità: la sua attività è divenuta perciò canagliesca nel senso piú spregevole, dello sparafucile, del sicario mercenario. Se un bambino rompe i vetri per divertirsi e per monelleria, sia pure artificiosa, è una cosa: ma se rompe i vetri per conto dei venditori di vetro è un'altra cosa.

Nel marzo 1932 Papini ha scritto un articolo nella «Nuova Antologia» (contro Croce) e uno sul «Corriere della Sera» sull'Edipo di A. Gide. Ho letto finora solo quest'ultimo: è raffazzonato, prolisso, pomposo e vuoto. Nel marzo devono essere nominati i nuovi Accademici che devono completare i seggi dell'Accademia d'Italia: i due articoli sono evidentemente la «tesi» e la «tesina» di laurea di G. Papini.

È da vedere la conferenza Carducci, alma sdegnosa, tenuta dal Papini a Forlí per l'inaugurazione della «Settimana romagnola di poesia» e pubblicata nella «Nuova Antologia» del 1° settembre 1933. La falsità, l'insincerità istrionica di questa conferenza è tale da cavar gli occhi.

Sarebbe interessante, oltre che per il Papini, fare una ricerca dell'avversione contro Roma che fu di moda in Italia fino al 1919 nel movimento vociano e futurista. Discorso del Papini Contro Roma e B. Croce; del binomio odioso per il Papini del 1913 è rimasto odioso Benedetto Croce. Da confrontare l'atteggiamento verso il Croce apertamente triviale di questo discorso sul Carducci e quello untuosamente gesuitico e cristianuccio del saggio Il Croce e la Croce.

Papini come apprendista gesuita. L'articolo di Papini nella «Nuova Antologia» del 1° marzo 1932 (Il Croce e la Croce) mi pare dimostri che anche come gesuita il Papini non sarà mai piú che un modesto apprendista. Questo è un vecchio somaro che vuole continuare a fare il somarello nonostante il peso degli anni e gli acciacchi e sgambetta e saltella turpemente. Mi pare che la caratteristica di questo articolo sia l'insincerità. Vedere come il Papini inizi l'articolo coi soliti lazzi stereotipati e meccanici contro il Croce e come verso la fine, facendo l'agnello pasquale, annunzi untuosamente che nella raccolta delle sue opere, gli scritti sul Croce saranno espurgati di ogni «piacevolezza» e apparirà solo la discussione «teorica». L'articolo è scritto di getto, si vede, e nel corso della scrittura il Papini ha cambiato atteggiamento, ma non si è curato d'intonare i latrati delle prime pagine ai belati delle ultime: il letterato soddisfatto di sé e dei colpi di fioretto, che egli crede azzeccati, è sempre superiore al pseudocattolico, ma anche al gesuita, ahi lui! e non ha voluto sacrificare il già scritto. Ma tutto lo scritto appare impacciato, tirato, costruito meccanicamente, come una ciliegia tira l'altra, specialmente la seconda parte, in cui la ipocrisia traspare in modo repugnante. Mi pare però che Papini appaia ossessionato dal Croce: il Croce ha in lui la funzione della coscienza, delle «mani insanguinate» di lady Macbeth, e che egli reagisca a questa ossessione ora facendo lo spavaldo, tentando lo scherzo e lo sfottimento, ora piagnucolando miseramente. Lo spettacolo è sempre pietoso. Lo stesso titolo dell'articolo è sintomatico: che il Papini si serva della «croce» per fare dei bisticci testimonia della qualità letteraria del suo cattolicesimo.

È da notare come gli scrittori della «Civiltà Cattolica» se lo tengono diletto, lo vezzeggiano, lo coccolano e lo difendono da ogni accusa di poca ortodossia. Frasi di Papini contenute nel libro su S. Agostino e che mostrano la tendenza al secentismo (i gesuiti furono spiccati rappresentanti del secentismo): «quando si dibatteva per uscire dalle cantine dell'orgoglio a respirare l'aria divina dell'assoluto», «salire dal letamaio alle stelle» ecc. Papini si è convertito non al cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo (si può dire, del resto, che il gesuitismo, col suo culto del papa e l'organizzazione di un impero assoluto spirituale, è la fase piú recente del cristianesimo cattolico).

Il cattolicismo atteggia lo stile del Papini. Non dirà piú «sette» ma «quanti sono i peccati capitali»: «Non già che mancassero traduzioni italiane del capo d'opera goethiano: il Manacorda ne ha tenute presenti, fra integre e no, tante quanti sono i peccati capitali» (Il Faust svelato in «Corriere della Sera» del 26 aprile 1932).

G. Papini, quando voleva far venire i vermi ai filistei italiani, nel 1912-13, scrisse in «Lacerba», l'articolo Gesú Peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate congetture tratte dagli Evangeli apocrifi. Per questo articolo pareva dovesse subire un'azione giudiziaria, con grande suo spavento. Aveva sostenuto come plausibile e probabile l'ipotesi di rapporti omosessuali tra Gesú e Giovanni. Nel suo articolo su Cristo romano, nel volume Gli operai della vigna, con gli stessi procedimenti critici e lo stesso «vigore» intellettuale, sostiene che Cesare è un precursore di Cristo, fatto nascere a Roma dalla Provvidenza per preparare il terreno al cristianesimo. In un terzo periodo è probabile che il Papini, impiegando le geniali illuminazioni critiche che caratterizzano A. Loria, giunga a concludere della necessità di rapporti tra il cristianesimo e l'inversione.

Nell'«Italia Letteraria» del 27 agosto 1933 Luigi Volpicelli cosí scrive di Papini (incidentalmente, in un saggio su Problemi della letteratura d'oggi, uscito in varie puntate): «Non basta a cinquant'anni – voglia perdonare Papini la mia franchezza – non basta dire: lo scrittore dev'essere maestro; occorre poter dire almeno: ecco qui, gente ruffiana, l'arte vera, l'arte maestra. Ma limitarsi a proporre, nel cinquantesimo anno di età, o giú di lí, lo scrittore come maestro, quando maestri non si è mai stati, non vale nemmeno da mea culpa. E già, siamo alle solite, infatti! Papini ha esercitato tutti i mestieri, per poi sporcificarli tutti: il filosofo, per concludere che la filosofia è una specie di cancrena al cervelletto, il cattolico, per incenerare l'universo con un appropriato dizionario, il letterato, per sancir da ultimo che della letteratura non sappiamo che farcene. Ciò non toglie che Papini non si sia conquistato un posticino nella storia della letteratura dentro il capitolo i "polemisti". Ma la polemica vale l'oratoria: è proprio la forma pura e vuota, è mero amor di parola e di tecnica, di gesto, un calligrafismo spirituale e congenito; insomma, la cosa piú lontana possibile dallo scrittore come maestro».

Papini è sempre stato un «polemista» nel senso che dice il Volpicelli, e lo è ancor oggi, poiché non si sa se nell'espressione «polemista cattolico» a Papini interessi piú il sostantivo o l'aggettivo. Col suo «cattolicismo» Papini avrebbe voluto dimostrare di non essere un puro «polemista», cioè un «calligrafo», un funambolo della parola e della tecnica, ma non c'è riuscito! Il Volpicelli ha torto nel non precisare: il polemista è polemista di una concezione del mondo, sia pure il mondo di Pulcinella, ma Papini è il polemista «puro», il boxeur di professione della parola qualsiasi: Volpicelli avrebbe dovuto giungere esplicitamente all'affermazione che il cattolicismo in Papini è un vestito da clown, non la «pelle» formata dal suo sangue «rinnovato», ecc.

Prezzolini. Il Codice della Vita italiana (Editrice la S. A. «La Voce», Firenze, 1921) conchiude il periodo originario e originale dell'attività del Prezzolini, dello scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Subito dopo, Prezzolini «entra in crisi», con alti e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva vituperato.

Un momento della crisi è rappresentato dalla lettera scritta nel 1923 a P. Gobetti, Per una società degli Apoti, ristampata nel volumetto Mi pare. Il Prezzolini sente che la sua posizione di «spettatore» «è un po', un pochino (!), vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di prender parte? Non c'è qualche cosa di uggioso (!), di antipatico (!), di mesto (!), nello spettacolo di questi giovani [...] che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perché e per come?» Trova una soluzione, molto comoda: «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche [...] per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Il modo di vedere la situazione è strabiliante: «Il momento che si traversa è talmente credulo (!), fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero (!), un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle (! e al tempo della guerra libica non era lo stesso? eppure allora Prezzolini non si limitò a proporre una Società di Apoti!): il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitú dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le bevono", tanto non solo l'abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque».

Un'affermazione di un gesuitismo sofistico singolare: «Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo (!), non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.

Differenza tra il Prezzolini e Gobetti; vedere se la lettera ha avuto risposta e quale.

L'articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno diritto un posto per essa nella preparazione dell'Italia contemporanea» è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L'articolo è stato provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio «protestantesimo» della «Voce». Lo scrittore della «Tribuna» ex-nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d'allora. Su questo argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel '25-'26 diretto da Gorgerino. Bisogna poi ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del '23 e il suo volume sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo d'Italia».

Articolo di Giuseppe Prezzolini, Monti, Pellico, Manzoni, Foscolo veduti da viaggiatori americani, in «Pègaso» del maggio 1932. Prezzolini riferisce un brano del critico d'arte americano H. Y. Tuckermann (The Italian Sketch-Book, 1848, p. 123): «Alcuni dei giovani elementi liberali, in Italia, si dimostrano assai disillusi perché uno, il quale stava per diventare un martire della loro causa, si sia votato invece alla devozione, e si mostrano spiacenti che egli abbia ad impiegar la sua penna per scrivere inni cattolici e odi religiose». Cosí commenta il Prezzolini: «Il dispetto che i piú accesi provavano per non aver trovato in Pellico uno strumento di piccola polemica politica, è dipinto in queste "osservazioni"». Perché si dovesse trattare di volgare «dispetto» e perché, prima del '48, la polemica contro le persecuzioni austriache e clericali dovesse esser «piccola» è appunto un mistero «profano» della mentalità brescianesca.

Luca Beltrami (Polifilo). Per rintracciare gli scritti brescianeschi del Beltrami (I popolari di Casate Olona) è da vedere la Bibliografia degli scritti di Luca Beltrami, dal marzo 1881 al marzo 1930, curata da Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato, con prefazione di Guido Mazzoni. Da un cenno pubblicato nel «Marzocco» dell'11 maggio 1930 appare che gli scritti del Beltrami sull'ipotetico «Casate Olona» sono stati ben trentacinque. Il Beltrami ha postillato questa sua Bibliografia. A proposito di «Casate Olona» il «Marzocco» scrive: «... la bibliografia dei trentacinque scritti sull'ipotetico "Casate Olona" gli suggerisce l'idea di ricomporre in unità quelle sue dichiarazioni proposte e polemiche d'indole politico-sociale che, male intonate a un regime democratico parlamentare, sotto un certo aspetto devono considerarsi un'anticipazione di cui altri – non il Beltrami – avrebbe potuto menar vanto di antiveggente precursore (!?)». Il Beltrami era un conservatore moderato e non è certo che il suo «precorrimento» sia accettato con entusiasmo. I suoi scritti, d'altronde, sono di una volgarità intellettuale sconcertante.

Bellonci e Crémieux. La «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 riassume un articolo, abbastanza scemo e spropositante, pubblicato da G. Bellonci nel «Giornale d'Italia». Il Crémieux nel suo Panorama scrive che in Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto preciso: 1) che non esiste una concentrazione della classe colta unitaria, i cui componenti scrivano e parlino «sempre» una lingua «viva» unitaria, cioè diffusa ugualmente in tutti gli strati sociali e gruppi regionali del paese; 2) che pertanto tra la classe colta e il popolo c'è un distacco marcato: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che in gran parte è il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste inoltre un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la cosí detta classe colta parla la lingua nazionale in certi momenti e i dialetti nella parlata famigliare, cioè in quella piú viva e aderente alla realtà immediata; d'altra parte, però, la reazione ai dialetti, fa sí che, nello stesso tempo, la lingua nazionale rimanga un po' fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus e la musica del periodo) che caratterizza le regioni, sono influenzati il lessico, la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni sciacquò in Arno il suo lessico personale lombardizzante, meno la morfologia e quasi affatto la sintassi, che è piú connaturata allo stile, alla forma personale artistica e all'essenza nazionale della lingua. Anche in Francia qualcosa di simile si verifica come contrasto tra Parigi e la Provenza, ma in misura molto minore, quasi trascurabile; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce quasi piú il passato remoto etimologico, che è sostituito dall'imperfetto, ciò che in Zola si verifica solo casualmente.

Il Bellonci scrive contro l'affermazione del Crémieux: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall'alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità e per assenza di critica e di capacità di distinguere. Poiché proprio fino al Cinquecento Firenze esercita un'egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento del mondo) e c'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, sviluppo rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre piú la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare a un'egemonia fiorentina con mezzi statali, ribattuta dall'Ascoli, che, piú storicista, non crede alle egemonie culturali per decreto, non sorrette cioè da una funzione nazionale piú profonda e necessaria?

La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il Crémieux, che esista (che sia esistita, avrà voluto dire) una lingua greca perché vi hanno da essa varietà doriche, joniche, eoliche?», è solo comica; mostra che egli non ha capito il Crémieux e non capisce nulla in queste quistioni, ma ragiona per categorie libresche, come lingua, dialetto, «varietà», ecc.

Goffredo Bellonci, Pagine e idee, Edizione Sapientia, Roma. Pare che sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una macchietta del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della politica, una vittima di Mario Missiroli che era già una vittima di Oriani e di Sorel.

Giovanni Ansaldo. In un posticino a parte, nella rubrica dei «Nipotini del padre Bresciani» deve essere inserito anche Giovanni Ansaldo. È da ricordare il suo dilettantismo politico-letterario, che gli fece sostenere, in un certo periodo, la necessità di «essere in pochi», di costituire un'«aristocrazia»: il suo atteggiamento era banalmente snobistico piú che espressione di un fermo convincimento etico-politico, un modo di fare della letteratura «distinta», da salotto equivoco. Cosí l'Ansaldo è divenuto la «Stelletta nera» del «Lavoro», stelletta con cinque punte, da non confondersi con quella che nei «Problemi del Lavoro» serve a indicare Franz Weiss e che ha sei punte (che l'Ansaldo ci tenga alle sue cinque punte appare dall'Almanacco delle Muse del 1931, rubrica genovese; l'Almanacco delle Muse fu pubblicato dall'Alleanza del Libro). Per l'Ansaldo tutto diventa eleganza culturale e letteraria: l'erudizione, la precisione, l'olio di ricino, il bastone, il pugnale; la morale non è serietà morale ma eleganza, fiore all'occhiello. Anche questo atteggiamento è gesuitico, è una forma di culto del proprio particolare nell'ordine dell'intelligenza, una esteriorità da sepolcro imbiancato. Del resto, come dimenticare che appunto i gesuiti sono sempre stati maestri di «eleganza» (gesuitica) di stile e di lingua?

Curzio Malaparte. Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert, italianizzato verso il 1924 in Malaparte per un bisticcio con i Buonaparte (cfr. collezione della rivista «La Conquista dello Stato»). Nel primo dopoguerra sfoggiò il nome straniero. Appartenne all'organizzazione di Guglielmo Lucidi che arieggiava al gruppo francese di «Clarté» di H. Barbusse e al gruppo inglese del «Controllo democratico»; nella collezione della rivista del Lucidi intitolata «Rassegna (o Rivista) Internazionale» pubblicò un libro di guerra La rivolta dei santi maledetti, una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei soldati italiani a Caporetto, brescianescamente corretta in senso contrario nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio. Il carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco: per aver successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri sull'Italia barbara e sua esaltazione della «Controriforma»; niente di serio e di meno che superficiale.

A proposito dell'esibizione del nome straniero (che a un certo punto cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco e fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt – Corrado – viene latinizzato in Curzio) è da notare una corrente abbastanza diffusa in certi intellettuali italiani del tipo «moralisti» o moralizzatori: essi erano portati a ritenere che all'estero si era piú onesti, piú capaci, piú intelligenti che in Italia. Questa «esteromania» assumeva forme tediose e talvolta repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei, ma era piú diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche rivoltanti; è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese» o qualcosa di simile. Tale stato d'animo pare non sia stato caratteristico solo di alcuni gruppi intellettuali italiani, ma si sia verificato, in certe epoche di avvilimento morale, anche in altri paesi. In ogni modo è un segno rilevante di assenza di spirito nazionale-popolare oltre che di stupidaggine. Si confonde tutto un popolo con alcuni strati corrotti di esso, specialmente della piccola borghesia (in realtà poi questi signori, essi stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che nei paesi essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è molto diffusa e può paragonarsi al Lumpen-proletariat delle città industriali; la camorra e la maffia non è altro che una simile forma di malavita che vive parassitariamente sui grandi proprietari e sul contadiname. I moralizzatori cadono nel pessimismo piú scempio perché le loro prediche lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini, invece di concludere alla propria inettitudine organica, trovano piú comodo giungere alla conclusione della inferiorità di un intero popolo, per cui non rimane altro che accomodarsi: «Viva Franza, viva Lamagna, purché se magna!» Questi uomini, anche se talvolta mostrano un nazionalismo dei piú spinti, dovrebbero essere segnati dalla polizia tra gli elementi capaci di far la spia contro il proprio paese.

Vedi nell'«Italia Letteraria» del 3 gennaio 1932 l'articolo di Malaparte: Analisi cinica dell'Europa. Negli ultimi giorni del 1931 nei locali dell'«École de la Paix» a Parigi, l'ex Presidente Herriot tenne un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot parlò il Malaparte in contradditorio: «Siccome anche voi, sotto certi aspetti (sic), siete un rivoluzionario, dissi tra l'altro a Herriot (scrive Malaparte nel suo articolo), penso che siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che l'uno non esclude l'altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. – Io non sono un rivoluzionario, mi rispose Herriot; sono semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un patriota».

Cosí, per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora diventa ancor piú difficile comprendere cosa significa «rivoluzionario» e per Malaparte e in generale. Se nel linguaggio comune di certi gruppi politici, rivoluzionario stava assumendo sempre piú il significato di «attivista», di «interventista», di «volontarista», di «dinamico» è difficile dire come Herriot possa esserne qualificato e perciò Herriot con spirito ha risposto di essere un «cartesiano». Per Malaparte pare possa intendersi che «rivoluzionario» è diventato un complimento, come una volta «gentiluomo» o «grande galantuomo» o «vero galantuomo» ecc. Anche questo è brescianesimo: dopo il '48 i gesuiti chiamavano se stessi «veri liberali» e i liberali, libertini e demagoghi.

L'accademia dei Dieci. Vedi articolo di C. Malaparte Una specie di Accademia nella «Fiera Letteraria» del 3 giugno 1928: il «Lavoro d'Italia» avrebbe pagato 150.000 lire il romanzo Lo Zar non è morto scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il "Romanzo dei Dieci" i tesserati della Confederazione, in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150.000 lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano, oltre i nomi del Presidente e del Segretario generale del "Raduno", quelli del Segretario nazionale e di due membri del Direttorio del Sindacato autori e scrittori!... Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al Segretario del P. N. F. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei Sindacati all'ora del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile. Nell'articolo c'è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora Sottosegretario all'Istruzione Pubblica e contro Fedele, ministro. Nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un secondo articolo Coda di Accademia in cui rincara sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del «Sindacato Scrittori» e che fece ridere mezzo mondo).

«La Fiera letteraria» divenuta poi «L'Italia letteraria» è stata sempre, ma sta diventando sempre piú un sacco di patate. Ha due direttori, ma è come se non ne avesse nessuno e un segretario esaminasse la posta in arrivo, tirando a sorte gli articoli da pubblicare. Il curioso è che i due direttori, Malaparte e Angioletti, non scrivono nel loro giornale ma preferiscono altre vetrine. Le colonne della redazione devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e dei due il piú comico è quest'ultimo che compila la Rassegna della Stampa, saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza idee. Titta Rosa è piú ponteficale e si dà arie da grande pontefice disincantato anche quando scrive delle baggianate. L'Angioletti pare abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare: non ha l'improntitudine di Malaparte. È interessante notare come l'«Italia letteraria» non si arrischi a dare giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i cani grossi. Cosí è avvenuto per gl'Indifferenti di Moravia, ma cosa piú grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro veramente saporoso, che fu recensito solo quando entrò in terna per il premio dei trenta, mentre non era stato notato nelle pagine della «Nuova Antologia». Le contraddizioni di questo gruppo di graffiacarte sono veramente spassose, ma non vale la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del Libro della Jungla: «noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.

La «Fiera Letteraria» nel numero del 9 settembre 1928 pubblicò un manifesto Per un'unione letteraria europea firmato da quattro settimanali letterari: «Les Nouvelles Littéraires», di Parigi, «La Fiera Letteraria» di Milano, «Die Literarische Welt» di Berlino, «La Gaceta Literaria» di Madrid, in cui si annunziava una certa collaborazione europea tra i letterati aderenti a questi quattro giornali e quelli degli altri paesi europei, con convegni annuali, ecc. In seguito non se ne parlò piú.

Adelchi Baratono. Ha scritto nel II fascicolo della rivista «Glossa perenne» (che era diretta da Raffa Garzia e iniziò a pubblicarsi nel 1928 o '29) un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti «sfottendi». Tra l'altro: «L'arte e la letteratura di un tempo non può e non dev'essere (!) che quella corrispondente alla vita (!) e al gusto del tempo, e tutte le deplorazioni, come non servirebbero a mutarne l'ispirazione e la forma, cosí sarebbero anche contrarie a ogni criterio (!) storico (!) e quindi giusto (?) di giudicare».

Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico o non sono invece pieni di contraddizioni? E allora come si verifica la «corrispondenza»? Il periodo del Risorgimento era «corrisposto» dal Berchet o dal padre Bresciani? La deplorazione lamentosa e moralistica sarebbe certo scema, ma si può fare la critica e giudicare senza piangere. Il De Sanctis era un fautore deciso della rivoluzione nazionale, tuttavia seppe giudicare brillantemente il Guerrazzi e non solo il Bresciani. L'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile. Se fosse vero che un giudizio di merito sui contemporanei è impossibile per difetto di obbiettività e universalità, la critica dovrebbe chiudere bottega; ma Baratono teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria.

I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.

Novecentisti e strapaesani. Il Barocco e l'Arcadia adattati ai tempi moderni. (Il solito Malaparte che fu redattore capo del «900» di Bontempelli, divenne poco dopo il «caposcuola» degli strapaesani e il calabrone punzecchiatore di Bontempelli).

Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto scritto da Bontempelli per la rivista «900» non è altro che l'articolo di G. Prezzolini Viva l'artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p. 51 della raccolta di articoli Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Il Bontempelli non ha fatto che svolgere e illanguidire, meccanizzandoli, una serie di spunti contenuti nell'articolo del Prezzolini. La commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica estensione delle parole del Prezzolini stampate a pagina 56 di Mi pare... È da rilevare che l'articolo del Prezzolini è molto goffo e pedantesco: risente dello sforzo fatto dall'autore, dopo l'esperienza di «Lacerba» per diventare piú «leggero e brioso»: ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene masticato e insalivato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine moltiplicandola. Un epigramma diventa in Prezzolini un articolo e in Bontempelli un volume.

Stracittà e strapaese. Confrontare nell'«Italia Letteraria» del 16 novembre 1930 la lettera aperta di Massimo Bontempelli a G. B. Angioletti con postilla di quest'ultimo (Il Novecentismo è vivo o è morto?). La lettera è stata scritta dal Bontempelli subito dopo la sua nomina ad Accademico e sprizza da ogni parola la soddisfazione dell'autore di poter dire d'aver «fatto mordere la polvere» ai suoi nemici, Malaparte e la banda dell'«Italiano». Questa polemica di Strapaese contro Stracittà, secondo il Bontempelli, era mossa da sentimenti oscuri e ignobili, cosa che si può accettare, a chi tenga conto dell'arrivismo dimostrato dal Malaparte in tutto il periodo dopo la guerra: era una lotta di un gruppetto di letterati «ortodossi» che si vedevano colpiti dalla «concorrenza sleale» dei letterati già scrittori del «Mondo», come il Bontempelli, l'Alvaro, ecc., e vollero dare un contenuto di tendenza ideologico-artistico-culturale alla loro resistenza ecc. Meschinità da una parte e dall'altra. La postilla dell'Angioletti è ancora piú meschina della lettera del Bontempelli.

Riccardo Bacchelli. Il diavolo al Pontelungo (ed. Ceschina, Milano). Questo romanzo del Bacchelli è stato tradotto in inglese da Orlo Williams e la «Fiera Letteraria» del 27 gennaio 1929 riporta l'introduzione del Williams alla sua traduzione. Il Williams nota che il Diavolo al Pontelungo è «uno dei pochi romanzi veri, nel senso che noi diciamo romanzo in Inghilterra», ma non pone in rilievo (sebbene parli dell'altro libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è uno dei pochi scrittori italiani che si possono chiamare «moralisti» nel senso inglese e francese (ricordare che il Bacchelli è stato collaboratore della «Voce» e anzi per qualche tempo ne ha avuto la direzione in assenza del Prezzolini); lo chiama invece raisonneur, poeta dotto: raisonneur nel senso che troppo spesso interrompe l'azione del dramma con commenti intorno ai moventi delle azioni umane in generale. (Lo sa il tonno è il libro tipico di Bacchelli «morale» e non pare molto ben riuscito). In una lettera al Williams, riportata nell'introduzione, Bacchelli dà queste informazioni sul Diavolo: «Nelle linee generali (!) il materiale è storico strettamente (!) tanto nella prima che nella seconda parte. Sono storici (!) i protagonisti, come Bakunin, Cafiero, Costa. Nell'intendere l'epoca, le idee e i fatti, ho cercato d'essere storico in senso stretto: rivoluzionarismo cosmopolita, primordi della vita politica del Regno d'Italia, qualità del socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico machiavellismo (sarebbe piuttosto da dire guicciardinismo nel senso dell'uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie fonti sono l'esperienza della vita politica fatte a Bologna, che è la città politicamente piú suscettibile e sottile d'Italia (mio padre era uomo politico, deputato liberale conservatore) (il giudizio che il Bacchelli dà di Bologna politica è essenzialmente giusto, ma non per il popolo, per le classi possidenti e intellettuali collegate contro la campagna irrequieta e violenta in modo elementare; a Bologna vivono in uno stato permanente di panico sociale, con la paura di una jacquerie e il timore aguzza l'orecchio politico), i ricordi di alcuni fra gli ultimi sopravvissuti dei tempi e dell'Internazionale anarchica (ho conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakunin nei fatti di Bologna del '74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del professor Ettore Zoccoli nel suo libro sull'anarchia e i quaderni di Bakunin che lo storiografo austriaco dell'anarchia, Nettlau, ha ristampato nella sua rarissima biografia stampata in pochi esemplari. Il francese (era invece svizzero) James Guillaume tratta anch'egli di Bakunin e Cafiero nell'opera sull'Internazionale, che non conosco, ma dalla quale credo di discostarmi in vari punti importanti. Quest'opera fece parte (!) di una polemica posteriore sulla Baronata di Locarno, della quale non mi sono curato (tuttavia questa polemica illuminò il carattere di Bakunin e quindi i suoi rapporti col Cafiero). Tratta di cose meschine e di quistioni di danaro (puah!). Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia scritto le parole piú giuste e piú umane intorno alla personalità variabile, inquieta e confusa di Bakunin. Marx, come non di rado, fu soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione credo di poterle dire che il libro si fonda sopra una base di concetto sostanzialmente storico. Come e con quale sentimento artistico io abbia saputo svolgere questo materiale europeo (!) e rappresentativo, questo è argomento sul quale il giudicare non spetta a me». (Il diavolo al Pontelungo è da porre insieme a Pietro e Paolo del Sobrero per il chiaroscuro nel saggio sui «nipotini del padre Bresciani»: del resto nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la «Ronda» fu una manifestazione di gesuitismo artistico.

Jahier, Raimondi e Proudhon. Articolo di Giuseppe Raimondi Rione Bolognina nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno 1928; ha in epigrafe questo motto di Proudhon: «La pauvreté est bonne, et nous devons la considérer comme le principe de notre allégresse». L'articolo è una specie di manifesto «ideologico-autobiografico» e culmina in queste frasi: «Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io ho sempre avuto chiaro il senso della divisione delle classi sociali. Io resterò, purtroppo (sic), fra quelli che lavorano. Dall'altra parte, ci sono quelli che io posso rispettare, per i quali posso anche provare della sincera gratitudine (!); ma qualcosa mi impedisce di piangere (!) con loro, e non mi riesce di abbracciarli con spontaneità (!). O mi mettono soggezione (!) o li disprezzo». (Un bel modo di presentare una superiore forma di dignità operaia!) «È nei sobborghi che si sono sempre fatte le rivoluzioni, e il popolo non è da nessuna parte cosí giovane, sradicato da ogni tradizione, disposto a seguire un improvviso moto di passione collettivo, come nei sobborghi, che non sono piú città e non sono ancora campagna. [...] Di qui finirà per nascere una civiltà nuova, e una storia che avrà quel senso di rivolta e di riabilitazione secolare proprio dei popoli che solo la morale dell'età moderna ha fatto riconoscere degni. Se ne parlerà come oggi si parla del Risorgimento italiano e dell'Indipendenza americana. L'operaio è di gusti semplici: si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte della Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità resterà sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli suburbani e delle Università Popolari. [...] Lasciategli i suoi difetti, risparmiategli le vostre ironie. Il popolo non sa scherzare. La sua modestia è vera, come la sua fiducia nell'avvenire». (Molto oleografico, ma abbastanza alla moda del Proudhon deteriore, anche nel tono assiomatico e perentorio).

Nell'«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 lo stesso Raimondi parla della sua deferente amicizia per Piero Jahier, e delle loro conversazioni: «... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell'influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell'importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre piú evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi. Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri (!) interessi. In me l'ammirazione per Proudhon è piuttosto sentimentale, d'istinto, come un affetto e un rispetto, che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è tutta di intelletto, derivata dallo studio, perciò (!) profondissima».

Questo signor Giuseppe Raimondi era un discreto poseur con la sua «ammirazione ereditata»; aveva trovato uno dei cento modi di distinguersi nella gioventú letterata odierna; ma da qualche anno non se ne sente piú parlare. (Bolognese: collabora con L. Longanesi nell'«Italiano», poi viene violentemente e sprezzantemente diffidato dal Longanesi, «rondista»).

Enrico Corradini. È stata ristampata nel 1928 nella Collezione teatrale Barbera la Carlotta Corday di E. Corradini, che nel 1907 o 8, quando fu scritta, ebbe accoglienze disastrose e [fu] ritirata dalle scene. Il Corradini stampò il dramma con una prefazione (anch'essa ristampata nella ed. Barbera) in cui accusava del disastro un articolo dell'«Avanti!» che aveva sostenuto il Corradini aver voluto diffamare la rivoluzione francese. La prefazione del Corradini deve essere interessante anche dal punto di vista teorico, per la compilazione di questa rubrica del brescianesimo, perché il Corradini sembra far distinzione fra «piccola politica» e «grande politica» nelle «tesi» contenute nei lavori d'arte. Naturalmente per il Corradini, la sua essendo «grande politica», l'accusa di «politicantismo» in sede artistica non potrebbe essere elevata contro di lui. Ma la quistione è un'altra: nelle opere d'arte si tratta di vedere se c'è intrusione di elementi extra-artistici, siano questi di alto o di basso carattere, cioè se si tratta di «arte» o di oratoria a fini pratici. E tutta l'opera del Corradini è di questo tipo: non arte e anche cattiva politica, cioè semplice rettorica ideologica.

Saranno da vedere i giornali contenenti la sua commemorazione (il Corradini è morto il 10 dicembre 1931). Del Corradini è da vedere la sua teoria della «nazione proletaria» in lotta con le nazioni plutocratiche e capitaliste, teoria che serví di ponte ai sindacalisti per passare al nazionalismo prima della guerra libica e dopo. La teoria connessa col fatto dell'emigrazione di grandi masse di contadini in America e quindi con la quistione meridionale. I romanzi e i drammi del Corradini sotto rubrica del Brescianesimo.

Antonio Fradeletto. Già radicale massone, convertito poi al cattolicismo. Era un pubblicista retorico sentimentale, oratore delle grandi occasioni, rappresentava un tipo della vecchia cultura italiana che pare tenda a sparire in quella forma primitiva, perché il tipo si è universalizzato e stemperato. Scrittori di argomenti artistici, letterari e «patriottici». In ciò appunto consisteva il tipo: che il patriottismo non era un sentimento diffuso e radicato, lo stato d'animo di uno strato nazionale, un dato di fatto, ma una «specialità oratoria» di una serie di «personaggi» (cfr. Cian, per esempio), una qualifica professionale per cosí dire. (Non confondere con i nazionalisti, sebbene Corradini sia appartenuto a questo tipo e si differenziasse in ciò dal Coppola e anche dal Federzoni. Neanche D'Annunzio è mai rientrato perfettamente in questa categoria. Ciò che è notevole è che sarebbe molto difficile spiegare a uno straniero, specialmente a un francese, in che consisteva questo tipo, che è legato allo sviluppo particolare della cultura e della formazione nazionale italiana. Nessun confronto possibile, per esempio, col Barrès o con Peguy).

Mario Puccini. Cola o Ritratto dell'Italiano, Casa Editrice Vecchioni, Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano, territoriale durante la guerra, nel quale il Puccini vorrebbe rappresentare il «vecchio italiano» ecc.: «... il carattere di Cola, [...] senza reazioni ma senza entusiasmi, capace di fare il proprio dovere e anche di compiere qualche atto di valore ma per obbedienza e per necessità e con un tenero rispetto per la propria pelle, persuaso sí e no della necessità della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici [...] il tipo di una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle esigenze ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare oltre gli "ordini del governo" e oltre le modeste funzioni della vita individuale, contento in una parola dell'esistenza di pianura senza ambizione delle alte cime». (Dalla recensione pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1928, p. 270).

Ardengo Soffici. Filiazione del Lemmonio Boreo dal Jean-Christophe di Romain Rolland. Perché il Lemmonio Boreo fu interrotto? Il piglio donchisciottesco del Lemmonio Boreo è esteriore e fittizio: in realtà esso manca di sostanza epico-lirica: è una coroncina di fatterelli, non un organismo.

Potrebbe aversi in Italia un libro come il Jean- Christophe? Jean-Christophe, a pensarci bene, conclude tutto un periodo della letteratura popolare francese (dai Miserabili a Jean-Christophe); il suo contenuto supera quello del periodo precedente: dalla democrazia al sindacalismo. Jean-Christophe è il tentativo di un romanzo «sindacalista» ma fallito: il Rolland era tutt'altro che un antidemocratico, quantunque risentisse fortemente gli influssi morali e intellettuali della temperie sindacalista.

Dal punto di vista nazionale-popolare quale era l'atteggiamento del Soffici? Una esteriorità donchisciottesca senza elementi ricostruttivi, una critica superficiale ed estetistica.

Giulio Bechi. Morto il 28 agosto 1917 al fronte (cfr. giornali e riviste del tempo: ne scrisse Guido Biagi nel «Marzocco»; cfr. i Profili e caratteri di Ermenegildo Pistelli). Mario Puccioni (Militarismo e italianità negli scritti di Giulio Bechi, nel «Marzocco» del 13 luglio 1930), scrive: «La mentalità dei parlamentari sardi volle vedere in Caccia grossa solo un attacco spietato contro usi e persone e riuscí a fargli passare un guaio – cosí Giulio diceva con frase partenopea – di due mesi di arresto nella fortezza di Belvedere»; ciò che non è esatto perfettamente (pare che il Bechi sia stato sfidato a duello per aver «parlato male delle donne sarde» e quindi punito dall'autorità militare per essersi messo in condizioni di essere sfidato). Il Bechi andò in Sardegna col 67° fanteria. La quistione del contegno del Bechi nella repressione del cosí detto brigantaggio nuorese, con misure da stato d'assedio, illegali, e l'aver trattato la popolazione come negri, arrestando in massa vecchi e bambini, risulta dal tono generale del libro e dallo stesso titolo di esso ed è piú complessa di quanto paia al Puccioni, il quale cerca di mettere in rilievo come il Bechi protestasse per l'abbandono in cui era lasciata la Sardegna e come esaltasse le virtú native dei sardi. Il libro mostra invece come il Bechi abbia colto l'occasione di fare della mediocre letteratura su avvenimenti gravi e tristi per la storia nazionale.

Cfr. l'articoletto di Croce («I seminatori di G. Bechi») riportato nelle Conversazioni critiche, Serie seconda, pp. 348 sgg. Il Croce dà un giudizio favorevole di questo romanzo e in generale dell'opera letteraria del Bechi, specialmente della Caccia grossa, sebbene distingua tra la parte «programmatica e apologetica» del libro e la parte piú propriamente artistica e drammatica. Ma anche Caccia grossa non è essenzialmente un libro da politicante e dei peggiori che si possano immaginare?

Lina Pietravalle. Dalla recensione scritta da Giulio Marzot del romanzo della Pietravalle Le Catene (Mondadori, 1930, pp. 320, L. 12): «A chi domanda con quale sentimento partecipa alla vita dei contadini, Felicia risponde: "Li amo come la terra, ma non mischierò la terra col mio pane". C'è dunque la coscienza di un distacco: si ammette che anche (!) il contadino possa avere la sua dignità umana, ma lo si costringe entro i limiti della sua condizione sociale».

Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un critico talvolta intelligente.

Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese, nelle sue pretese di obbiettività scientifica e sperimentale, non contenesse già, in genere, la posizione ideologica che ebbe poi grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con «distacco», come «natura» estrinseca sentimentalmente allo scrittore, come spettacolo ecc. È la posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia, la pretesa «naturalistica» dell'obbiettività sperimentale degli scrittori francesi, che aveva un'origine polemica contro gli scrittori aristocratici, si innestò in una posizione ideologica preesistente, come appare dai Promessi Sposi, in cui esiste lo stesso «distacco» dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale. In ciò Manzoni si distingue dal Grossi che nel Marco Visconti non canzona i popolani e persino dal D'Azeglio delle Memorie, almeno per ciò che riguarda le note sulla popolazione dei castelli romani.

Una sfinge senza enigmi. Nell'«Ambrosiano» dell'8 marzo 1932 Marco Ramperti aveva scritto un articolo La Corte di Salomone in cui, tra l'altro scriveva: «Stamattina mi sono destato sopra un "logogrifo" di quattro righe, intorno a cui avevo vegliato nelle ultime sette ore di solitudine, senza naturalmente venirne a capo di nulla. Ombra densa! Mistero senza fine! Al risveglio mi accorsi, però, che nell'atonia febbrile avevo scambiato la Corte di Salomone con l'Italia Letteraria, il "logogrifo" enigmatico con un carme del poeta Ungaretti...». A queste eleganze del Ramperti l'Ungaretti risponde con una lettera pubblicata nell'«Italia Letteraria» del 10 aprile e che mi pare un «segno dei tempi». Se ne possono ricavare quali «rivendicazioni» l'Ungaretti ponga al «suo paese» per essere compensato dei suoi meriti nazionali e mondiali. (L'Ungaretti non è che un buffoncello di mediocre intelligenza): «Caro Angioletti, di ritorno da un viaggio faticoso per guadagnare lo scarso pane dei miei bimbi, trovo i numeri dell'"Ambrosiano" e della "Stampa" nei quali un certo signor Ramperti ha creduto di offendermi. Potrei rispondergli che la mia poesia la capivano i contadini, miei fratelli, in trincea; la capisce il mio Duce che volle onorarla di una prefazione; la capiranno sempre i semplici e i dotti di buona fede. Potrei dirgli che da 15 anni tutto ciò che di nuovo si fa in Italia e fuori, porta in poesia l'impronta dei miei sogni e del mio tormento espressivo; che i critici onesti, italiani e stranieri, non si fanno pregare per riconoscerlo; e, del resto, non ho mai chiesto lodi a nessuno. Potrei dirgli che una vita durissima come la mia, fieramente italiana e fascista, sempre, davanti a stranieri e connazionali, meriterebbe almeno di non vedersi accrescere le difficoltà da parte di giornali italiani e fascisti. Dovrei dirgli che se c'è cosa enigmatica nell'anno X (vivo d'articoli nell'assoluta incertezza del domani, a quaranta anni passati!), è solo l'ostinata cattiveria verso di me da parte di gente di... spirito. – Con affetto – Giuseppe Ungaretti». La lettera è un capolavoro di tartuferia letteraria e di melensaggine presuntuosa.

Ugo Bernasconi. Scrittore di massime morali, novelliere, critico d'arte e credo anche pittore. Collaboratore del «Viandante» di Monicelli e quindi di una certa tendenza.

Si potrebbero estrarre alcune delle sue massime migliori. «Vivere è sempre un adattarsi. Ma adattarsi a qualche cosa per salvare qualche cos'altro. In questa alternativa si forma e si palesa tutto il carattere di un uomo».

«La vera Babele non è tanto dove si parlano lingue diverse, ma dove tutti credono di parlare la stessa lingua, e ciascuno dà alle stesse parole un significato diverso».

«Tanto è il valore del pensiero teorico per un proficuo operare, che talvolta può dare buon frutto anche la piú balorda delle teorie, che è quella: non teorie ma fatti». («Pègaso» del giugno 1933).

Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia» (16 giugno 1929) chiama l'uniforme del bagno penale «quella specie di ignobile pijama». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina del pubblico» che press'a poco diceva: «In treno due si incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. – "Certo per ragioni politiche" dice l'altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che l'essere stato in carcere non desta piú repulsione, perché si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti piú tipici del senso comune popolare italiano. Il Barilli è perfino al di sotto [di] questo senso comune: filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».

Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del Pubblico» della «Domenica del Corriere» è da notare questo inciso del signor Domenico Claps («L'Italia che scrive», giugno 1929) in un articolo su Riccardo Balsamo-Crivelli (che nel titolo e nel sommario è confuso con Gustavo!): «chi gliel'avrebbe detto che questo libro (Cammina... cammina...) si sarebbe adottato come testo di lingua all'Università di Francoforte?» Ahilui! una volta che prima della guerra all'Università di Strasburgo adoperavano come testo di lingua le «Cartoline del Pubblico»! Naturalmente per Università bisogna intendere solo il seminario di filologia romanza, chi sceglie non è il professore ma solo il lettore d'italiano che può essere un semplice studente universitario italiano e per «testo di lingua» bisogna intendere il testo che dia agli studenti tedeschi un modello della lingua parlata dalla media degli italiani e non della lingua letteraria o artistica. La scelta delle «Cartoline del Pubblico» è pertanto molto assennata e il signor Domenico Claps è anch'egli un «italiano meschino» al quale il Balsamo-Crivelli dovrebbe mandare i padrini.

Tommaso Gallarati Scotti. Nella sua raccolta di novelle Storie dell'Amor Sacro e dell'Amor Profano è da ricordare il racconto in cui si parla del corpo di una prostituta saracena portato nell'Italia Meridionale da un barone crociato e che la popolazione adora come la reliquia di una santa: sono sbalorditive le considerazioni del Gallarati Scotti, che pure è stato un «modernista» antigesuita. Tutto ciò dopo la novella boccaccesca di frate Cipolla e il romanzo del portoghese Eça de Queiroz La Reliquia, tradotto da L. Siciliani (ed. Rocco Carabba, Lanciano) e che è una derivazione del Cipolla boccaccesco. I Bollandisti sono rispettabili, perché almeno hanno contribuito a estirpare qualche radice di superstizione (sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in una cerchia molto ristretta e servano piú che altro per far credere agli intellettuali che la chiesa combatte le falsificazioni storiche), l'estetismo gesuitico-folcloristico del Gallarati Scotti è rivoltante. È da ricordare il dialogo riferito nelle Memorie di W. Steed tra un giovane protestante e un Cardinale a proposito di S. Gennaro e la noticina di B. Croce a una lettera di G. Sorel a proposito di una sua conversazione con un prete napoletano sul sangue di S. Gennaro (a Napoli esistono, pare, altri tre o quattro sangui che bollono «miracolosamente» ma che non sono «sfruttati» per non screditare quello popolarissimo di S. Gennaro). La figura letteraria del Gallarati Scotti entra di scorcio fra i nipotini di padre Bresciani.

Cardarelli e la Ronda. Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella «Nuova Italia» dell'ottobre 1930. Il Russo appunto trova nel Cardarelli il tipo (moderno-fossile) di ciò che fu l'abate Vito Fornari a Napoli in confronto del De Sanctis. Dizionario della Crusca. Controriforma, Accademia, reazione, ecc.

Sulla Ronda e sugli accenni alla vita pratica del '19-'20-'21 confrontare Lorenzo Montano, Il Perdigiorno, Edizione dell'Italiano, Bologna 1928 (sono raccolte nel volumetto le note d'attualità del Montano pubblicate dalla Ronda).

Valentino Piccoli. Del Piccoli sarà utile ricordare la nota Un libro per gli immemori (nei «Libri del giorno» dell'ottobre 1928) in cui recensisce il libro di Mario Giampaoli 1919, (Roma-Milano, Libreria del Littorio, in 16°, pp. 335 con 40 illustrazioni fuori testo, L. 15). Il Piccoli adopera per il Giampaoli gli stessi aggettivi che adopera per Dante, per Leopardi e per qualsiasi grande scrittore che egli passa il tempo a coprire delle sue allumacature. Ricorre spesso l'aggettivo «austero», ecc., «pagine d'antologia», ecc.

Intellettuali siciliani. È interessante il gruppo del «Ciclope» di Palermo. Mignosi, Pignato, Sciortino ecc. Relazioni di questo gruppo con Piero Gobetti.

[Gli animali poveri.] Secondo Luigi Tonnelli («L'Italia che scrive», marzo 1932, Pietro Mignosi) nel volume Epica e santità del Mignosi (Palermo, Priulla, 1925) sarebbe contenuto un «bellissimo "Canto" un po' alla Rimbaud, in lode degli "animali poveri"», e cita: «vermi e sorci, mosche, pidocchi e poeti, che tutte le armi della terra non riescono a sterminare».

Ritratto del contadino italiano. Cfr. Fiabe e leggende popolari del Pitré (p. 207), una novellina popolare siciliana, alla quale (secondo D. Bulferetti nella «Fiera Letteraria» del 29 gennaio 1928) corrisponde una xilografia di vecchie stampe veneziane, in cui si vede Iddio impartire dal cielo questi ordini: al papa: tu prega, all'imperatore: tu proteggi, al contadino: e tu affatica.

Lo spirito delle novelline popolari dà la concezione che di se stesso e della sua posizione nel mondo il contadino si è rassegnato ad assorbire dalla religione.

«Arte Cattolica». Edoardo Fenu, in un articolo Domande su un'arte cattolica pubblicato nell'«Avvenire d'Italia» e riassunto nella «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928, rimprovera a «quasi tutti gli scrittori cattolici» il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del racconto, deve cioè essere, manzonianamente, il "sugo" dell'arte stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico per davvero (!), non andrà mai a battere la fronte contro le pareti opache (!) dell'eresia, morale o religiosa. Un cattolico, per il solo fatto (!) di essere tale, è già investito (! dal di fuori?) di quello spirito semplice e profondo che, trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia, farà della sua (!) un'arte schietta, serena, nient'affatto pedante. È dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a farci capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L'arte cattolica dovrà (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia (solo le lumache si possono smarrire nelle fungaie) degli inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti». (In letteratura) «... se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il bilancio è pressoché fallimentare. Scuole... ne verbum quidem. Scrittori? Sí; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per "signorine"».

Molte contraddizioni, improprietà e ingenuità melense nell'articolo del Fenu. Ma la conclusione implicita è giusta: il cattolicismo è sterile per l'arte, cioè non esistono e non possono esistere «anime semplici e sincere» che siano scrittori colti e artisti raffinati e disciplinati. Il cattolicismo è diventato, per gli intellettuali, una cosa molto difficile, che non può fare a meno, anche nel proprio intimo, di una apologetica minuziosa e pedantesca. Il fatto è già antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere», d'allora in poi, è diventato pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. Da allora la chiesa ha adoperato un doppio metro, per misurare l'ortodossia: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo, al quale non si domanda che di «credere» genericamente e di avere ossequio per le pratiche del culto: nessuna lotta effettiva ed efficace contro la superstizione, contro le deviazioni intellettuali e morali, purché non siano «teorizzate». In realtà un contadino cattolico, intellettualmente può essere inconscio protestante, ortodosso, idolatra: basta che dica di essere «cattolico». Anche agli intellettuali non si domanda molto, se si limitano alle esteriori pratiche del culto; non si domanda neanche di credere, ma solo di non dare cattivo esempio, trascurando i «sacramenti» specialmente quelli piú visibili e sui quali cade il controllo popolare: il battesimo, il matrimonio, i funerali (il viatico ecc.). È invece difficilissimo essere intellettuale attivo «cattolico» e artista «cattolico» (romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere apostoliche ecc., e le deviazioni dall'indirizzo ortodosso chiesastico sono state nella storia tante e cosí sottili che cadere nell'eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia è cosa facilissima. Il sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere «ortodossamente». Perciò nell'arte la religione non è piú un sentimento nativo, è un motivo, uno spunto. E la letteratura cattolica può avere dei padri Bresciani e degli Ugo Mioni, non può avere piú un S. Francesco, un Passavanti, un [Tommaso] da Kempis; può essere «milizia», propaganda, agitazione, non piú ingenua effusione di fede che non è incontrastata, ma polemizzata, anche nell'intimo di quelli che sono sinceramente cattolici. L'esempio del Manzoni può essere portato a prova: quanti articoli sul Manzoni ha pubblicato la «Civiltà Cattolica» nel suoi 84 anni di vita e quanti su Dante? In realtà i cattolici piú ortodossi diffidano del Manzoni e ne parlano il meno che possono: certo non lo analizzano come fanno per Dante e qualche altro.

Scrittori «tecnicamente» cattolici. È notevole la scarsità degli scrittori cattolici in Italia, scarsità che ha una sua ragione d'essere, nel fatto che la religione è staccata dalla vita militante in tutte le sue manifestazioni. S'intende «scrittori» che abbiano una qualche dignità intellettuale e che producano opere d'arte, dramma, poesia, romanzo. Già accennato al Gallarati Scotti per un tratto caratteristico delle Storie dell'Amor Sacro e dell'Amor Profano, che ha una sua dignità artistica ma che puzza di modernismo. Paolo Arcari (piú noto come scrittore di saggi letterari e politici, del resto già direttore della rivista liberale «L'azione liberale» di Milano, ma che ha scritto qualche romanzo). Luciano Gennari (che scrive in lingua francese). Non è possibile un confronto tra l'attività artistica dei cattolici francesi (e la statura letteraria) e quella degli italiani. Crispolti ha scritto un romanzo di propaganda Il Duello. In realtà, il cattolicismo italiano è sterile nel campo letterario come negli altri campi della cultura (cfr. Missiroli, Date a Cesare...) Maria di Borio (ricordare l'episodio tipico della Di Borio durante la conferenza della indú Arcandamaia sul valore delle religioni ecc.). Gruppo fiorentino del «Frontespizio», guidato dal Papini, svolge una attività letterario-cattolica estremista, ciò che è una riprova dell'indifferentismo dello strato intellettuale per la concezione religiosa.

Scrittori «tecnicamente» brescianeschi. Per questi scrittori occorre vedere: Giovanni Casati, Scrittori cattolici italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di Filippo Meda, Milano, Romolo Ghirlanda editore. Via Unione 7, in 8°, pp. VIII-112, L. 15,00. Di questo dizionario occorrerà vedere anche le possibili successive edizioni e confrontarle tra loro, per controllare le aggiunte o le omissioni volute.

Don Giovanni Casati è lo specialista cattolico in bio-bibliografia. Dirige la «Rivista di Letture» che consiglia e sconsiglia i libri da leggere e da acquistare per i privati e per le biblioteche cattoliche; sta compilando un repertorio Scrittori d'Italia dalle origini fino ai viventi in ordine alfabetico (secondo l'articolo della «Civiltà Cattolica» del 2 marzo 1929 da cui tolgo queste notizie, sono comparsi finora quelli delle lettere A-B); ha scritto un volume di Saggi di libri letterari condannati dall'Indice.

Nel dizionario degli Scrittori cattolici italiani viventi ne sono registrati 591. Alcuni non risposero all'appello; il Casati, nel caso di scrittori che pubblicano libri presso librerie non cattoliche, ne ha interpretato il silenzio «come tacita preghiera di non farli figurare nel dizionario». Bisognerebbe vedere perché sono stati richiesti: perché «battezzati» o perché nei loro libri appariva un carattere strettamente e confessatamente «cattolico»? Dice la «Civiltà Cattolica» che nel Dizionario mancano, per esempio, Gaetano De Sanctis, Pietro Fedele e «non pochi altri professori d'Università e scrittori di vaglia». Il De Sanctis è certamente uno scrittore «cattolico», volutamente, confessatamente cattolico: ma Pietro Fedele? Lo sarà diventato negli ultimi anni; non lo fu certamente almeno fino al 1924. Appare dunque che il criterio nel fissare la «cattolicità» non è stato molto rigoroso e che si è voluto confondere tra «cattolici» scrittori e scrittori «cattolici».

Nel Dizionario non sono inclusi i giornalisti e pubblicisti che non hanno pubblicato qualche libro: cosí non appare il conte Della Torre, direttore dell'«Osservatore Romano» e il Calligari (Mikros) direttore dell'«Unità Cattolica» (morto recentemente). Alcuni si scusano «per modestia».

Chi sono i «convertiti» compresi nel Dizionario (Tipi: Papini, Giuliotti, Mignosi, ecc.). Dice la «Civiltà Cattolica»: «Dalla guerra in qua si nota un certo ridestarsi della coscienza religiosa negli scrittori contemporanei, un interessamento insolito per i problemi religiosi, un orientarsi piú di frequente verso la Chiesa Cattolica, al quale (orientarsi) avranno certamente non poco contribuito i convertiti compresi nel dizionario del Casati».

Dei 591 scrittori cattolici italiani viventi, 374 («salvo errore», scrive la «Civiltà Cattolica») sono uomini di Chiesa, sacerdoti e religiosi, tra cui tre cardinali, nove vescovi, tre o quattro abati (senza contare Pio XI); 217 sono laici, tra cui 49 donne: una sola donna è religiosa.

La «Civiltà Cattolica» nota qualche errore. Esiste un Katholischer Literaturkalender (ed. Herder, Freiburg i. B., 1926) che registra 5313 scrittori cattolici tedeschi. Per la Francia, l'Almanach Catholique Français (pubblicato da Bloud et Gay, Parigi, fin dal 1920) pubblica un piccolo dizionario delle «principales personnalités catholiques». Per l'Inghilterra, The Catholic Who's Who, 1928 (Londra, Burns Oates and Washbourne).

La «Civiltà Cattolica» si augura che, allargati i quadri (inclusione giornalisti e pubblicisti) e vinta la ritrosia dei «modesti», l'elenco italiano si raddoppi, il che sarebbe sempre ben poco. Il curioso è che la «Civiltà Cattolica» parli di «snidare alcuni dalla propria modestia» e accenna all'«orientalista prof. P. S. Rivetta», il quale se è modesto come «orientalista» e come «prof. P. S. Rivetta», non è certo modesto come «Toddi», freddurista del «Travaso delle Idee», e redattore del foglio «Via Vittorio Veneto» per le garçonnes e per i frequentatori dei caffè di lusso e per tutti gli snobs.

Per questi scrittori è da confrontare Monsignor Giovanni Casati, Scrittori Cattolici Italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di F. Meda, pp. VIII-112, in-8°, nelle varie edizioni.

È da rilevare il fatto che da qualche anno gli scrittori cattolici in senso stretto cercano di organizzarsi a sé, di formare una corporazione solidale e che si controlla e si esalta attraverso tutta una serie di pubblicazioni e di iniziative. Ragione di questo atteggiamento militante e spesso aggressivo, che è connesso alla nuova situazione che legalmente e ufficialmente il cattolicismo è venuto conquistando nel paese.

Alessandro Luzio. Articolo di A. Luzio nel «Corriere della Sera» del 25 marzo 1932 (La morte di Ugo Bassi e di Anita Garibaldi) in cui si tenta una riabilitazione del padre Bresciani. Le opere del Bresciani «al postutto non possono, quanto al contenuto, venir liquidate con sommarie condanne». Il Luzio pone insieme il saggio del De Sanctis con un epigramma del Manzoni (il quale, interrogato se conoscesse l'Ebreo di Verona, avrebbe risposto, secondo il diario di Margherita di Collegno: «Ho letto i due primi periodi; paiono due sentinelle che dicano non andate avanti») e poi chiama «sommarie» le condanne; non c'è del gesuitico in questo furbo giocherello?

E ancora: «Non simpatico certo è il tono con cui egli, portavoce della reazione susseguita ai moti del '48-49, rappresentava e giudicava gli assertori delle aspirazioni nazionali: ma in piú d'uno dei suoi racconti, soprattutto nel Don Giovanni ossia il Benefattore occulto (volumi 26-27 della "Civiltà Cattolica"), non mancano accenti di umana e cristiana pietà per le vittime; parziali episodi vengono equamente messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e la straziante fine di Anita Garibaldi». Ma forse che il Bresciani poteva far diversamente? Ed è proprio notevole, per giudicare il Luzio, che egli dia per buono al Bresciani proprio il suo gesuitismo e la sua demagogia di bassa lega.

Filippo Crispolti. Uno dei documenti piú brescianeschi del Crispolti è l'articolo La madre di Leopardi nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1929. Che dei puri eruditi, appassionati anche delle minuzie biografiche dei grandi uomini, come il Ferretti, abbiano cercato di «riabilitare» la madre del Leopardi, non fa meraviglia: ma le allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto del Ferretti, fanno ribrezzo. Tutto il tono è ripugnante, intellettualmente e moralmente. Intellettualmente perché il Crispolti interpreta la psicologia del Leopardi con i suoi «grandi dolori» giovanili (certamente suo è il manoscritto inedito di memorie cui si riferisce due volte) per essere povero, cattivo ballerino e noioso conversatore: paragone ripugnante. Moralmente perché il tentativo di giustificare la madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso tecnico della parola. Davvero che tutte le madri aristocratiche dei primi del secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero portare documenti in contrario a profusione e anche l'esempio del D'Azeglio non serve, perché la durezza nell'educazione fisica per avere dei soldati, è ben diversa dalla secchezza morale e sentimentale: quando il D'Azeglio bambino si ruppe il braccio e il padre lo indusse a tenere nascosto il male una notte intera per non spaventare la madre, chi non vede quale sostrato affettuoso famigliare è contenuto nell'episodio e come ciò doveva esaltare il bambino e legarlo piú intimamente ai genitori? (Questo episodio del D'Azeglio è citato in un altro articolo dello stesso fascicolo della «Nuova Antologia», Pellegrinaggio a Recanati, di Alessandro Varaldo). La difesa della madre del Leopardi non è un puro fatto d'erudizione curiosa, è un elemento ideologico, accanto alla riabilitazione dei Borboni, ecc.

Ho già notato in altro paragrafo come il Crispolti non esiti a porre se stesso come paradigma per giudicare il dolore del Leopardi. Nel suo articolo Ombre di romanzi manzoniani il Manzoni diventa paradigma per autogiudicare il romanzo effettivamente scritto dal Crispolti Il duello e un altro romanzo Pio X che poi non fu scritto. L'arroganza del Crispolti è persino ridicola: i Promessi sposi trattano di un «impedimento brutale ad un matrimonio», il Duello del Crispolti tratta del duello; ambedue si riferiscono al dissidio che esiste nella società tra l'adesione al Vangelo che condanna la violenza, e l'uso brutale della violenza. C'è una differenza tra il Manzoni e il Crispolti; il Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti è un gesuita laico; il Manzoni era un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico) ed era favorevole alla caduta del potere temporale; il Crispolti era un reazionario nerissimo e lo è rimasto; se si staccò dagli intransigenti papalini e accettò di essere senatore è stato solo perché voleva che i cattolici diventassero il partito ultradestro della nazione.

È interessante la trama del romanzo non scritto Pio X solo perché riferisce alcune difficoltà obbiettive che si presentano nella convivenza a Roma di due potenze come la monarchia e il papa, riconosciuto come sovrano già dalle guarentigie. Ogni uscita del papa dal Vaticano per attraversare Roma domanda: 1) ingenti spese statali per l'apparato d'onore dovuto al papa; 2) è una minaccia di guerra civile perché bisogna obbligare i partiti progressivi a non fare dimostrazioni e implicitamente pone la quistione se questi partiti possano mai andare al potere col loro programma, cioè interferisce sulla sovranità dello Stato sinistramente.

In un articolo pubblicato nel «Momento» del giugno 1928 (prima quindicina, pare, perché riportato in estratto dalla «Fiera Letteraria» dopo questo periodo) Filippo Crispolti ha raccontato come qualmente, quando nel 1906 si pensò in Isvezia di dare il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile attestato di ammirazione al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: furono chieste pertanto informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni del Crispolti furono favorevoli. Cosí, il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da nessun altro che da Filippo Crispolti.

Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei tanti tappi di sughero che salgono sulle creste melmose dei bassifondi agitati. Nel «Lavoro fascista» del 23 agosto 1929 egli dà per probabile l'affermarsi in Italia di una filosofia, «la quale, pur non rinunciando a nessuno dei valori concreti dell'idealismo, è in grado di comprendere, nella sua pienezza filosofica e sociale, l'esigenza religiosa. Questa filosofia è lo spiritualismo, dottrina sintetica (!), la quale non esclude l'immanenza, ma conferisce il primato logico (!) alla trascendenza, riconosce praticamente (!) il dualismo e quindi conferisce al determinismo, alla natura, un valore che si concilia con le esigenze dello sperimentalismo». Questa dottrina corrisponderebbe al «genio prevalente della stirpe italica» di cui il Bruers, nonostante il nome esotico, sarebbe naturalmente il coronamento storico, spirituale, immanente, trascendente, ideale, determinato, pratico e sperimentale nonché religioso.

Angelo Gatti. Suo romanzo Ilia e Alberto pubblicato nel 1931 (vedi): romanzo autobiografico. Il Gatti si è convertito al cattolicismo gesuitico. Tutta la chiave, il nodo centrale del romanzo, è in questo fatto: Ilia, donna sana, riceve in bocca gocciole di saliva di un tubercolotico, per uno starnuto o un colpo di tosse (o che so io – non ho letto il romanzo, ma solo delle recensioni) o altro; diventa tubercolotica e muore.

Mi pare strano e puerile che il Gatti abbia insistito su questo particolare meccanico ed esterno, che pure nel romanzo deve essere importante, se un recensore ci si è trattenuto. Ricorda le solite sciocchezze che le comari dicono per spiegare le infezioni. Forse Ilia stava sempre a bocca aperta dinanzi alla gente che le tossiva e le starnutava sul viso in tramvai e nelle calche dove si sta pigiati? E come ha potuto accertare che proprio quella sia stata la causa del contagio? O si tratta di un ammalato che a bella posta infettava la gente sana? È veramente strabiliante che il Gatti si sia servito di questa ficelle per il suo romanzo.

Bruno Cicognani. Il romanzo Villa Beatrice. Storia di una donna, pubblicato nel «Pègaso» del 1931. Il Cicognani appartiene al gruppo di scrittori cattolici fiorentini: Papini, Enrico Pea, Domenico Giuliotti.

Villa Beatrice può chiamarsi il romanzo della filosofia neoscolastica di padre Gemelli, il romanzo del «materialismo» cattolico, un romanzo della «psicologia sperimentale» tanto cara ai neoscolastici e ai gesuiti? Confronto tra romanzi psicoanalitici e il romanzo di Cicognani. È difficile dire in che cosa la dottrina e la religiosità del cattolicismo contribuiscano alla costruzione del romanzo (dei caratteri del dramma): nella conclusione, l'intervento del prete è esteriore, il risveglio religioso in Beatrice è solamente affermato, e i mutamenti nella protagonista potrebbero anche solo essere giustificati da ragioni fisiologiche. Tutta la personalità, se può parlarsi di personalità, di Beatrice, è descritta minuziosamente come un fenomeno di storia naturale, non è rappresentata artisticamente: il Cicognani «scrive bene», nel senso volgare della parola, come «scriverebbe bene» un trattato del gioco degli scacchi. Beatrice è «descritta»; come la freddezza sentimentale impersonificata e tipizzata. Perché essa è «incapace» di amare e di entrare in relazione affettiva con chiunque altro (anche la madre e il padre) in un modo esasperato e da decalcomania? Ella è fisiologicamente imperfetta negli organi genitali, soffre fisiologicamente nell'abbraccio e non potrebbe partorire? Ma questa imperfezione intima (e perché la natura non la costruí brutta esteriormente, indesiderabile ecc.? Contraddizione della natura!) è dovuta al fatto che ella soffre di cuore. Il Cicognani crede che fin dallo stato di ovulo fecondato il nuovo essere che eredita una malattia organica si prepara alla difesa contro l'attacco futuro del male: ecco che l'ovulo-Beatrice, nata con il cuore debole, si costruisce un organo sessuale imperfetto che la farà repugnare dall'amore e da ogni emotività ecc. ecc. Tutta questa teoria è del Cicognani, è il quadro generale del romanzo: naturalmente Beatrice non è cosciente di questa determinazione della sua esistenza psichica; essa non opera perché crede di essere cosí, ma opera perché è cosí all'infuori della sua coscienza: in realtà la sua coscienza non è rappresentata, non è un motore che spieghi il dramma. Beatrice è un «pezzo anatomico» non una donna.

Il Cicognani non evita le contraddizioni, perché pare che talvolta Beatrice soffra di dover essere fredda, come se questa sofferenza non fosse essa stessa una «passione» che potrebbe precipitare il mal di cuore; pare quindi che solo l'unione sessuale e il concepimento col parto siano pericolosi «per la natura», ma allora la natura avrebbe dovuto provvedere altrimenti alla «salvaguardia» dell'ovaia di Beatrice: avrebbe dovuto costruirla «sterile» o meglio «fisiologicamente» incapace di unione sessuale. Tutto questo pasticcio Ugo Ojetti ha esaltato come il raggiungimento da parte del Cicognani della «classicità artistica».

Il modo di pensare del Cicognani potrebbe essere incoerente ed egli potrebbe aver scritto tuttavia un bel romanzo: ma questo appunto non è il caso.

Su Bruno Cicognani scrive Alfredo Gargiulo nell'«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 (cap. XIX di 1900-1930): «L'uomo e l'artista fanno nel Cicognani una cosa sola: nondimeno si sente il bisogno di dichiarar subito, quasi in separata sede (!), la simpatia che ispira l'uomo. L'umanissimo Cicognani! Qualche sconfinamento, lieve del resto, nell'umanitarismo di tipo romantico o slavo: che importa? Ognuno sarà disposto a perdonarglielo, in omaggio a quell'autentica (!) fondamentale umanità». Dal seguito non si capisce bene ciò che il Gargiulo intende dire: è forse «mostruoso» criticamente che l'uomo e l'artista si identifichino? O la attività artistica non è l'umanità dell'artista? E cosa significa quell'aggettivo «autentica» e l'altro «fondamentale»? Sono sinonimi dell'aggettivo «vero» che ormai è screditato per la sua vacuità. (Occorrerà, per questa rubrica, rileggere tutta l'esposizione del Gargiulo).

Umanità «autentica, fondamentale» può significare concretamente, nel campo artistico, una cosa sola: «storicità», cioè carattere «nazionale-popolare» dello scrittore, sia pure nel senso largo di «socialità», anche in senso aristocratico, purché il gruppo sociale che si esprime sia vivo storicamente e il «collegamento» sociale non sia di carattere «pratico-politico» immediato, cioè predicatorio-moralistico, ma storico o etico-politico.

Arnaldo Frateili. È il critico letterario della «Tribuna», ma appartiene alla schiera intellettuale dei Forges che isterilisce la terra ove pone piede. Ha scritto un romanzo Capogiro (Milano, Bompiani, 1932). Frateili: si presenta alla fantasia come appare in una caricatura-ritratto pubblicata dall'«Italia Letteraria»: una faccia da fesso pretenzioso con la goccetta al naso. Prende tabacco il Frateili? Ha il cimurro il Frateili? Perché quella goccetta? Si tratta di un errore «zincografico»? di un colpo di matita fuori programma? E perché allora il disegnatore non ha cancellato la goccetta? Problemi angosciosi: i soli che interessano a proposito del Frateili.

Sentimento religioso e intellettuali del secolo XIX (fino alla guerra mondiale). Nel 1921 l'editore Bocca di Torino raccolse in tre grossi volumi, con prefazione di D. Parodi, una serie di Confessioni e professioni di fede di Letterati, Filosofi, uomini politici, ecc., apparse precedentemente nella rivista «Coenobium», pubblicata a Lugano dal Bignami, come risposte a un quistionario sul sentimento religioso e i suoi diversi rapporti. La raccolta può essere interessante per chi vuole studiare le correnti di opinione verso la fine del secolo scorso e il principio dell'attuale tra gli intellettuali specialmente «democratici», sebbene sia difettosa per molti aspetti. Nel 1° volume sono contenute le risposte dei seguenti letterati, ecc. italiani: Angiolo Silvio Novaro, prof. Alfredo Poggi, prof. Enrico Catellani, Raffaele Ottolenghi, prof. Bernardino Varisco, Augusto Agabiti, prof. A. Renda, Vittore Marchi, direttore del giornale «Dio e Popolo», Ugo Janni, pastore valdese, A. Paolo Nunzio, Pietro Ridolfi Bolognesi, Nicola Toscano Stanziale, direttore della «Rassegna critica», dott. Giuseppe Gasco, Luigi Di Mattia, Ugo Perucci, maestro elementare, prof. Casimiro Tosini, direttore di Scuola Normale, Adolfo Artioli, prof. Giuseppe Morando, direttore della «Rivista Rosminiana», preside del Liceo Ginnasio di Voghera, prof. Alberto Friscia, Vittorio Nardi, Luigi Marrocco, pubblicista, G. B. Penne, Guido Piccardi, Renato Bruni, prof. Giuseppe Rensi.

Nel 2° volume: Francesco Del Greco, prof. direttore di Manicomio, Alessandro Bonucci, prof. d'Università, Francesco Cosentini, prof. d'Università, Luigi Pera, medico, Filippo Abignente, direttore del «Carattere», Giampiero Turati, Bruno Franchi, redattore-capo della «Scuola Positiva di Diritto Criminale», Manfredi Siotto-Pintor, prof. di Università, prof. Enrico Caporali, Giovanni Lanzalone, direttore della rivista «Arte e Morale», Leonardo Gatto-Roissard, tenente degli alpini, Pietro Raveggi, pubblicista, Widar Cesarini-Sforza, Leopoldo De Angelis, prof. Giovanni Predieri, Orazio Bacci, Giuseppe Benetti, pubblicista, prof. G. Capra-Cordova, Costanza Palazzo, Pietro Romano, Giulio Carvaglio, Leone Luzzatto, Adolfo Faggi, prof. d'Università, Ercole Quadrelli, Carlo Francesco Gabba, senatore, prof. di Università, dott. Ernesto Lattes, pubblicista, Settimio Corti, prof. di filosofia, Bruno Villanova d'Ardenghi (Bruno Brunelli), pubblicista, Paolo Calvino, pastore evangelico, prof. Giuseppe Lipparini, prof. Oreste Ferrini, prof. Luigi Rossi Casè, prof. Antioco Zucca, Vittoria Fabrizi de' Biani, prof. Guido Falorsi, prof. Benedetto De Luca, pubblicista, Giacomo Levi Minzi, bibliofilo (!) della Marciana, prof. Alessandro Arrò, Bice Sacchi, prof. Ferdinando Belloni-Filippi, Nella Doria-Cambon, prof. Romeo Manzoni.

Nel 3° volume: Romolo Murri, Giovanni Vidari, professore d'Università, Luigi Ambrosi, prof. d'Università, Salvatore Farina, Angelo Flavio Guidi, pubblicista, Conte Alessandro d'Aquino, Baldassarre Labanca, prof. di Storia del Cristianesimo all'Università, Giannino Antona-Traversi, autore drammatico, prof. Mario Pilo, Alessandro Sacchi, prof. d'Università, Angelo De Gubernatis, prof. d'Università, Giuseppe Sergi, prof. d'Università, Adolfo Zerboglio, prof. d'Università, Vittorio Benini, prof. d'Università, Paolo Arcari, Andrea Lo Forte Randi, Arnaldo Cervesato, Giuseppe Cimbali, prof. d'Università, Alfredo Melani, architetto, Silvio Adrasto Barbi, prof., prof. Massimo Bontempelli, Achille Monti, prof. Università, Velleda Benetti, studentessa, Achille Loria, prof. Francesco Pietropaolo, prof. Amilcare Lauria, Eugenio Bermani, scrittore, Ugo Fortini del Giglio, avv. Luigi Puccio, Maria Nono-Villari, scrittrice, Gian Pietro Lucini, Angelo Valdarmini, prof. Università, Teresina Bontempi, ispettrice degli asili d'infanzia nel Canton Ticino, Luigi Antonio Villari, Guido Podrecca, Alfredo Panzini, avv. Amedeo Massari, prof. Giuseppe Barone, Giulio Caprin, avv. Gabriele Morelli, Riccardo Gradassi Luzi, Torquato Zucchelli, tenente colonnello onorario (sic), Ricciotto Canudo, prof. Felice Momigliano, Attilio Begey, Antonino Anile, prof. Università, Enrico Morselli, professore Università, Francesco Di Gennaro, Ezio Maria Gray, Roberto Ardigò, Arturo Graf, Pio Viazzi, Innocenzo Cappa, duca Colonna Di Cesarò, Pasquale Villari, Antonio Cippico, Alessandro Groppali, prof. Università, Angelo Marzorati, Italo Pizzi, Angelo Crespi, E. A. Marescotti, F. Belloni-Filippi, prof. Università, Francesco Porro, astronomo, prof. Fortunato Rizzi.

Un criterio metodico da tener presente nell'esaminare lo atteggiamento degli intellettuali italiani verso la religione (prima del Concordato) è dato da ciò che in Italia i rapporti tra Stato e Chiesa erano molto piú complessi che negli altri paesi: essere patriotta significò essere anticlericale, anche se si era cattolici, sentire «nazionalmente» significava diffidare del Vaticano e delle sue rivendicazioni territoriali e politiche. Ricordare come il «Corriere della Sera» in una elezione parziale a Milano, prima del 1914, combatté la candidatura del marchese Cornaggia, temporalista, preferendo che fosse eletto il candidato socialista.

Note bibliografiche

Intellettuali italiani. Carducci. La signora Foscarina Trabaudi Foscarini De Ferrari ha compilato due volumi, Il Pensiero del Carducci (Zanichelli, Bologna), di tutta la materia contenuta nei venti volumi delle opere del Carducci in forma di indice analitico-sistematico dei nomi e concetti trattati. È indispensabile per una ricerca delle opinioni generali del Carducci e della sua concezione della vita. (Cfr. l'articolo di Guido Mazzoni, Il pensiero del Carducci attraverso gli indici delle sue opere nel «Marzocco» del 3 novembre 1929).

Nicola Zingarelli, Le idee politiche del Petrarca, «Nuova Antologia», 16 giugno 1928.

I nipotini del padre Bresciani. Ghita, la «illustre fregona» (novella del Cervantes).

Maddalena Santoro: L'amore ai forti, Romanzo, Bemporad, 1928 (ultrabrescianesco).

Amy A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana. Piemonte, Vol. I, Zanichelli, Bologna, L. 20. (Fare bibliografie di tutte le collezioni che si occupano della vita regionale e che abbiano un certo valore. Bibliografia legata alla quistione del folklore).

V. Lingua nazionale e grammatica

Note per una introduzione allo

studio della grammatica

Saggio del Croce: Questa tavola rotonda è quadrata. Il saggio è sbagliato anche dal punto di vista crociano (della filosofia crociana). Lo stesso impiego che il Croce fa della proposizione mostra che essa è «espressiva» e quindi giustificata: si può dir lo stesso di ogni «proposizione», anche non «tecnicamente» grammaticale, che può essere espressiva e giustificata in quanto ha una funzione, sia pure negativa (per mostrare l'«errore» di grammatica si può impiegare una sgrammaticatura). Il problema va quindi posto in altro modo, nei termini di «disciplina alla storicità del linguaggio» nel caso delle «sgrammaticature» (che sono assenza di «disciplina mentale», neolalismo, particolarismo provinciale, gergo, ecc.) o in altri termini (nel caso dato del saggio crociano l'errore è stabilito da ciò, che una tale proposizione può apparire nella rappresentazione di un «pazzo», di un anormale, ecc. ed acquistare valore espressivo assoluto; come rappresentare uno che non sia «logico» se non facendogli dire «cose illogiche»? ecc.). In realtà tutto ciò che [non] è «grammaticalmente esatto» può anche essere giustificato dal punto di vista estetico, logico, ecc., se lo si vede non nella particolare logica, ecc., dell'espressione immediatamente meccanica, ma come elemento di una rappresentazione piú vasta e comprensiva.

La quistione che il Croce vuol porre: «Cosa è la grammatica?» non può avere soluzione nel suo saggio. La grammatica è «storia», o «documento storico»: essa è la «fotografia» di una fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) formatosi storicamente e in continuo sviluppo, o i tratti fondamentali di una fotografia. La quistione pratica può essere: a che fine tale fotografia? Per fare la storia di un aspetto della civiltà o per modificare un aspetto della civiltà?

La pretesa del Croce porterebbe a negare ogni valore a un quadro rappresentante tra l'altro una... sirena, per esempio, cioè si dovrebbe concludere che ogni proposizione deve corrispondere al vero o al verosimile, ecc.

(La proposizione può essere non logica in sé, contradditoria, ma nello stesso tempo «coerente» in un quadro piú vasto).

Quante forme di grammatica possono esistere? Parecchie, certamente. C'è quella «immanente» nel linguaggio stesso, per cui uno parla «secondo grammatica» senza saperlo, come il personaggio di Molière faceva della prosa senza saperlo. Né sembri inutile questo richiamo, perché il Panzini (Guida alla Grammatica italiana, 18° migliaio) non pare distinguere tra questa «grammatica» e quella «normativa», scritta, di cui intende parlare e che per lui pare essere la sola grammatica possibile esistente. La prefazione alla prima edizione è piena di amenità, che d'altronde hanno il loro significato in uno scrittore (e ritenuto specialista) di cose grammaticali, come l'affermazione che «noi possiamo scrivere e parlare anche senza grammatica». In realtà oltre alla «grammatica immanente» in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non scritta, una (o piú) grammatica «normativa», ed è costituita dal controllo reciproco, dall'insegnamento reciproco, dalla «censura» reciproca, che si manifestano con le domande: «Cosa hai inteso, o vuoi dire?», «Spiegati meglio», ecc., con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire «norme» o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo manifestarsi «spontaneo» di un conformismo grammaticale, è necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a strati sociali locali o a centri locali, ecc. (Un contadino che si inurba, per la pressione dell'ambiente cittadino, finisce col conformarsi alla parlata della città; nella campagna si cerca di imitare la parlata della città; le classi subalterne cercano di parlare come le classi dominanti e gli intellettuali, ecc.).

Si potrebbe schizzare un quadro della «grammatica normativa» che opera spontaneamente in ogni società data, in quanto questa tende a unificarsi sia come territorio, sia come cultura, cioè in quanto vi esiste un ceto dirigente la cui funzione sia riconosciuta e seguita.

Il numero delle «grammatiche spontanee o immanenti» è incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno ha una sua grammatica. Tuttavia, accanto a questa «disgregazione» di fatto sono da rilevare i movimenti unificatori, di maggiore o minore ampiezza sia come area territoriale, sia come «volume linguistico». Le «grammatiche normative» scritte tendono ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il «volume linguistico» per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che d'altronde pone in un piano piú alto l'«individualismo» espressivo, perché crea uno scheletro piú robusto e omogeneo all'organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo è il riflesso e l'interprete. (Sistema Taylor e autodidattismo).

Grammatiche storiche oltre che normative. – Ma è evidente che uno scrittore di grammatica normativa non può ignorare la storia della lingua di cui vuole proporre una «fase esemplare» come la «sola» degna di diventare, «organicamente» e «totalitariamente», la lingua «comune» di una nazione, in lotta e concorrenza con altre «fasi» e tipi o schemi che esistono già (collegati a sviluppi tradizionali o a tentativi inorganici e incoerenti delle forze che, come si è visto, operano continuamente sulle «grammatiche» spontanee e immanenti nel linguaggio). La grammatica storica non può non essere «comparativa»: espressione che, analizzata a fondo, indica la intima coscienza che il fatto linguistico, come ogni altro fatto storico, non può avere confini nazionali strettamente definiti, ma che la storia è sempre «storia mondiale» e che le storie particolari vivono solo nel quadro della storia mondiale. La grammatica normativa ha altri fini, anche se non [si] può immaginare la lingua nazionale fuori del quadro delle altre lingue, che influiscono per vie innumerevoli e spesso difficili da controllare su di essa (chi può controllare l'apporto di innovazioni linguistiche dovute agli emigrati rimpatriati, ai viaggiatori, ai lettori di giornali e lingue estere, ai traduttori, ecc.?)

La grammatica normativa scritta è quindi sempre una «scelta», un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale. Potrà discutersi sul modo migliore di presentare la «scelta» e l'«indirizzo» per farli accettare volentieri, cioè potrà discutersi dei mezzi piú opportuni per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia un fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi, cioè che si tratti di un atto politico.

Quistioni: di che natura è questo atto politico, e se debba sollevare opposizioni di «principio», una collaborazione di fatto, opposizioni nei particolari, ecc. Se si parte dal presupposto di centralizzare ciò che esiste già allo stato diffuso, disseminato, ma inorganico e incoerente, pare evidente che non è razionale una opposizione di principio, ma anzi una collaborazione di fatto e un accoglimento volenteroso di tutto ciò che possa servire a creare una lingua comune nazionale, la cui non esistenza determina attriti specialmente nelle masse popolari, in cui sono piú tenaci di quanto non si creda i particolarismi locali e i fenomeni di psicologia ristretta e provinciale; si tratta insomma di un incremento della lotta contro l'analfabetismo ecc. L'opposizione di «fatto» esiste già nella resistenza delle masse a spogliarsi di abitudini e psicologie particolaristiche. Resistenza stupida determinata dai fautori fanatici delle lingue internazionali. È chiaro che in questo ordine di problemi non può essere discussa la quistione della lotta nazionale di una cultura egemone contro altre nazionalità o residui di nazionalità.

Il Panzini non si pone neanche lontanamente questo problema e perciò le sue pubblicazioni grammaticali sono incerte, contraddittorie, oscillanti. Non si pone per esempio il problema di quale oggi sia, dal basso, il centro di irradiazione delle innovazioni linguistiche; che pure non ha poca importanza pratica. Firenze, Roma, Milano. Ma d'altronde non si pone neanche il problema se esista (e quale sia) un centro di irradiazione spontanea dall'alto, cioè in forma relativamente organica, continua, efficiente, e se essa possa essere regolata e intensificata.

Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali. 1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d'arte e quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose; 7) i rapporti di «conversazione» tra i vari strati della popolazione piú colti e meno colti – (una quistione alla quale forse non si dà tutta l'importanza che si merita è costituita da quella parte di «parole» versificate che viene imparata a memoria sotto forma di canzonette, pezzi d'opera, ecc. È da notare come il popolo non si curi di imparare bene a memoria queste parole, che spesso sono strampalate, antiquate, barocche, ma le riduca a specie di filastrocche utili solo per ricordare il motivo musicale); 8) i dialetti locali, intesi in diversi sensi (dai dialetti piú localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali piú o meno vasti: cosí il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia, ecc.).

Poiché il processo di formazione, di diffusione e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come «decisivo» e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria: si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità, e l'intervento organizzato accelererà i tempi del processo già esistente; quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire: in ogni caso, se l'intervento è «razionale», essa sarà organicamente legata alla tradizione, ciò che non è di poca importanza nell'economia della cultura.

Manzoniani e «classicisti». Avevano un tipo di lingua da far prevalere. Non è giusto dire che queste discussioni siano state inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna, anche se non molto grandi. In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti piú intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale. Oggi si sono verificati diversi fenomeni che indicano una rinascita di tali quistioni: pubblicazioni del Panzini, Trabalza-Allodoli, Monelli, rubriche nei giornali, intervento delle direzioni sindacali, ecc...

Diversi tipi di grammatica normativa. Per le scuole. Per le cosí dette persone colte. In realtà la differenza è dovuta al diverso grado di sviluppo intellettuale del lettore o studioso, e quindi alla tecnica diversa che occorre impiegare per fare apprendere o intensificare la conoscenza organica della lingua nazionale ai ragazzi, verso i quali non si può prescindere didatticamente da una certa rigidità autoritaria perentoria («bisogna dire cosí») e gli «altri» che invece bisogna «persuadere» per far loro accettare liberamente una determinata soluzione come la migliore (dimostrata la migliore per il raggiungimento del fine proposto e condiviso, quando è condiviso). Non bisogna inoltre dimenticare che nello studio tradizionale della grammatica normativa sono stati innestati altri elementi del programma didattico d'insegnamento generale, come quello di certi elementi della logica formale: si potrà discutere se questo innesto è opportuno o no, se lo studio della logica formale è giustificato o no (pare giustificato e pare anche giustificato che sia accompagnato a quello della grammatica, piú che dell'aritmetica, ecc., per la somiglianza di natura e perché insieme alla grammatica la logica formale è relativamente vivificata e facilitata), ma non bisogna prescindere dalla quistione.

Grammatica storica e grammatica normativa. Posto che la grammatica normativa è un atto politico, e che solo partendo da questo punto di vista si può giustificare «scientificamente» la sua esistenza, e l'enorme lavoro di pazienza che il suo apprendimento richiede (quanto lavoro occorre fare per ottenere che da centinaia di migliaia di reclute della piú disparata origine e preparazione mentale risulti un esercito omogeneo e capace di muoversi e operare disciplinatamente e simultaneamente: quante «lezioni pratiche e teoriche» di regolamenti, ecc.) è da porre il suo rapporto con la grammatica storica. Il non aver definito questo rapporto spiega molte incongruenze delle grammatiche normative, fino a quella del Trabalza-Allodoli. Si tratta di due cose distinte e in parte diverse, come la storia e la politica, ma che non possono essere pensate indipendentemente: come la politica dalla storia. D'altronde, poiché lo studio delle lingue come fenomeno culturale è nato da bisogni politici (piú o meno consapevoli e consapevolmente espressi) le necessità della grammatica normativa hanno influito sulla grammatica storica e sulle «concezioni legislative» di essa (o almeno questo elemento tradizionale ha rafforzato nel secolo scorso l'applicazione del metodo naturalistico-positivistico allo studio della storia delle lingue concepito come «scienza del linguaggio»). Dalla grammatica del Trabalza e anche dalla recensione stroncatoria dello Schiaffini («Nuova Antologia», 16 settembre 1934) appare come anche dai cosí detti «idealisti» non sia compreso il rinnovamento che nella scienza del linguaggio hanno portato le dottrine del Bartoli. [La] tendenza dell'«idealismo» ha trovato la sua espressione piú compiuta nel Bertoni: si tratta di un ritorno a vecchie concezioni rettoriche, sulle parole «belle» e «brutte» in sé e per sé, concezioni riverniciate con un nuovo linguaggio pseudo-scientifico. In realtà si cerca di trovare una giustificazione estrinseca della grammatica normativa, dopo averne altrettanto estrinsecamente «mostrato» la «inutilità» teoretica e anche pratica.

Il saggio del Trabalza sulla Storia della grammatica potrà fornire indicazioni utili sulle interferenze tra grammatica storica (o meglio storia del linguaggio) e grammatica normativa, sulla storia del problema, ecc.

Grammatica e tecnica. Per la grammatica può porsi la quistione come per la «tecnica» in generale? La grammatica è solo la tecnica della lingua? In ogni caso, è giustificata la tesi degli idealisti, specialmente gentiliani, dell'inutilità della grammatica e della sua esclusione dall'insegnamento scolastico? Se si parla (ci si esprime con le parole) in un modo determinato storicamente per nazioni o per aree linguistiche, si può prescindere dall'insegnare questo «modo storicamente determinato»? Ammesso che la grammatica normativa tradizionale fosse insufficiente, è questa una buona ragione per non insegnare nessuna «grammatica», cioè per non preoccuparsi in nessun modo di accelerare l'apprendimento del modo determinato di parlare di una certa area linguistica, ma di lasciare che la «lingua si impari nel vivente linguaggio» o altra espressione del genere impiegata dal Gentile o dai gentiliani? Si tratta, in fondo, di una forma di «liberalismo» delle piú bislacche e strampalate. Differenze tra il Croce e il Gentile. Al solito il Gentile si fonda sul Croce, esagerandone all'assurdo alcune posizioni teoretiche. Il Croce sostiene che la grammatica non rientra in nessuna delle attività spirituali teoretiche da lui elaborate, ma finisce col trovare nella «pratica» una giustificazione di molte attività negate in sede teoretica: il Gentile esclude anche dalla pratica, in un primo tempo, ciò che nega teoreticamente, salvo poi a trovare una giustificazione teoretica delle manifestazioni pratiche piú superate e tecnicamente ingiustificate.

Si deve apprendere «sistematicamente» la tecnica? È successo che alla tecnica di Ford si contrapponga quella dell'artigiano di villaggio. In quanti modi si apprende la «tecnica industriale»: artigiano, durante lo stesso lavoro di fabbrica, osservando come lavorano gli altri (e quindi con maggior perdita di tempo e di fatica e solo parzialmente); con le scuole professionali (in cui si impara sistematicamente tutto il mestiere, anche se alcune nozioni apprese dovranno servire poche volte in tutta la vita e anche mai); con le combinazioni di vari modi, col sistema Taylor-Ford che crea un nuovo tipo di qualifica e di mestiere ristretto a determinate fabbriche, e anche macchine o momenti del processo produttivo.

La grammatica normativa, che solo per astrazione può essere ritenuta scissa dal linguaggio vivente, tende a fare apprendere tutto l'organismo della lingua determinata, e a creare un atteggiamento spirituale che renda capaci di orientarsi sempre nell'ambiente linguistico (vedi nota sullo studio del latino nelle scuole classiche). Se la grammatica è esclusa dalla scuola e non viene «scritta», non perciò può essere esclusa dalla «vita» reale, come è stato già detto in altra nota: si esclude solo l'intervento organizzato unitariamente nell'apprendimento della lingua e, in realtà, si esclude dall'apprendimento della lingua colta la massa popolare nazionale, poiché il ceto dirigente piú alto, che tradizionalmente parla in «lingua», trasmette di generazione in generazione, attraverso un processo lento che incomincia coi primi balbettamenti del bambino sotto la guida dei genitori, e continua nella conversazione (coi suoi «si dice cosí», «deve dirsi cosí», ecc.) per tutta la vita: in realtà la grammatica si studia «sempre», ecc. (con l'imitazione dei modelli ammirati, ecc.). Nella posizione del Gentile c'è molta piú politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, come del resto è stato notato altre volte e in altre occasioni: c'è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c'è un «lasciar fare, lasciar passare» che non è giustificato, come era nel Rousseau (e il Gentile è piú rousseauiano di quanto creda) dall'opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un'ideologia astratta, «astorica».

La cosí detta «quistione della lingua». Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata «la quistione della lingua» che da questo punto di vista diventa interessante da studiare. Essa è stata una reazione degli intellettuali allo sfacelo dell'unità politica che esistè in Italia sotto il nome di «equilibrio degli Stati italiani», allo sfacelo e alla disintegrazione delle classi economiche e politiche che si erano venute formando dopo il Mille coi Comuni e rappresenta il tentativo, che in parte notevole può dirsi riuscito, di conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento). Il libretto di Dante ha anch'esso non piccolo significato per il tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a teoria, gli intellettuali italiani del periodo piú rigoglioso dei Comuni, «rompono» col latino e giustificano il volgare, esaltandolo contro il «mandarinismo» latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha cosí grandi manifestazioni artistiche. Che il tentativo di Dante abbia avuto enorme importanza innovatrice, si vede piú tardi col ritorno del latino a lingua delle persone colte (e qui può innestarsi la quistione del doppio aspetto dell'Umanesimo e del Rinascimento, che furono essenzialmente reazionari dal punto di vista nazionale-popolare e progressivi come espressione dello sviluppo culturale dei gruppi intellettuali italiani e europei).

Linguistica

Giulio Bertoni e la linguistica. Bisognerebbe scrivere una stroncatura del Bertoni come linguista, per gli atteggiamenti assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di linguistica e nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato dalla «Nuova Italia» dell'agosto 1930). Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in che consistano queste innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.

Del resto nell'articolo pubblicato qualche anno fa nel «Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non distingue per nulla il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il gioco dei chiaroscuri lo mette in seconda linea, a differenza del Casella che nel recente articolo sul «Marzocco» a proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo l'originalità del Bartoli: nell'articolo bertoniano del «Leonardo» è da rilevare come il Campus appaia addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari ario-europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente e semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai suggerimenti del Bartoli stesso; è il Bartoli che disinteressatamente ha messo in valore il Campus e ha sempre cercato di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non senza accademica malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in cui occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per dare una giusta prospettiva, ha combinato le cose in modo che il Bartoli è messo in un cantuccio. Errore del Bartoli di aver collaborato col Bertoni nella compilazione del Manualetto, e dico errore e responsabilità scientifica. Il Bartoli è apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al Bertoni la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una falsa strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano una colpa.

D'altronde il Bertoni, se non ha capito il Bartoli, non ha nemmeno capito l'estetica del Croce, nel senso che dall'estetica crociana non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di costruzione della scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare, liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista sostanziale che si sdilinquisce di fronte all'idealismo perché questo è piú di moda e permette di fare della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il Manualetto, senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni: mi pare che il Croce abbia piú di tutto voluto prender atto benevolmente che in questo ramo degli studi, dove il positivismo trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel senso idealistico. A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo. L'innovazione del Bartoli è appunto questa, che della linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto una scienza storica, le cui radici sono da cercare «nello spazio e nel tempo» e non nell'apparato vocale fisiologicamente inteso.

Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in questo campo: la sua figura di studioso mi è sempre stata ripugnante intellettualmente: c'è in essa qualcosa di falso, di non sincero nel senso letterale della parola; oltre alla prolissità e alla mancanza di «prospettiva» nei valori storici e letterari.

Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e quella che si chiama comunemente «linguistica»? Ricordare a questo proposito l'articolo del Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in questa quistione.

È stupefacente la recensione benevola che Natalino Sapegno ha pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di Linguaggio e Poesia («Bibliotheca» editrice, Rieti, 1930, L. 5). Il Sapegno non s'accorge che la teoria del Bertoni essere la nuova linguistica una «sottile analisi discriminativa delle voci poetiche da quelle strumentali» è tutt'altro che una novità perché si tratta del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui si dividono le parole in «brutte» e «belle», in poetiche e non poetiche o antipoetiche ecc., cosí come si erano similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni non aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed è meraviglioso che queste stoltezze gli siano passate per buone dal Croce e dagli allievi del Croce. Cosa sono le parole avulse e astratte dall'opera letteraria? Non piú elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e come tali il linguista le studia. E cos'è la giustificazione che il Bertoni fa dell'«esame naturalistico delle lingue, come fatto fisico e come fatto sociale»? Come fatto fisico? Cosa significa? Che anche l'uomo, oltre che elemento della storia politica deve essere studiato come fatto biologico? Che di una pittura si deve fare anche l'analisi chimica? ecc. Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo meccanico sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?

Che questi crociani non si accorgano di tutto questo è stupefacente e serve a indicare quale confusione il Bertoni abbia contribuito a diffondere in questo campo. Addirittura scrive il Sapegno che per questa indagine del Bertoni (sulla bellezza delle singole parole astratte: come se il vocabolo piú «frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella concreta opera d'arte tutta la sua freschezza e ingenuità primitiva) «è difficile e delicata, ma non perciò meno necessaria: per essa la glottologia, meglio che scienza del linguaggio, rivolta a scoprire leggi piú o meno fisse e sicure, si avvierà a diventare storia della lingua, attenta ai fatti particolari e al loro significato spirituale». E ancora: «Il nucleo di questo ragionamento (del Bertoni) è, come ognuno può vedere, un concetto tuttora vivo e fecondo dell'estetica crociana. Ma l'originalità del Bertoni consiste nell'averlo sviluppato ed arricchito per una concreta via, dal Croce soltanto additata, o magari iniziata, ma non mai seguita fino in fondo e di proposito», ecc. Se il Bertoni «rivive il pensiero crociano» ma anzi lo arricchisce, e il Croce si riconosce nel Bertoni, occorre dire che il Croce stesso deve essere riveduto e corretto: ma a me pare che il Croce sia stato solo molto indulgente col Bertoni, per non aver approfondito la quistione e per ragioni «didattiche».

Le ricerche del Bertoni sono in parte e sotto un certo aspetto un ritorno a vecchi sistemi etimologici: «sol quia solus est», come è bello che il «sole» contenga in sé implicita l'immagine della «solitudine» nell'immenso cielo e via via: «come è bello che in Puglia la libellula con le sue alucce in forma di croce, sia detta la morte», e cosí via. Ricordare in uno scritto di Carlo Dossi la storiella del professore che spiega la formazione delle parole: «all'inizio cadde un frutto, facendo pum! ed ecco il "pomo"», ecc. «E se fosse caduta una pera?» domanda il giovanetto Dossi.

Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea. Fasc. I: Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria di Scienze e Lettere del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della Scuola di Filologia Classica dell'Università di Roma, Serie seconda: Sussidi e materiali, II, 1»). Sul libro del Pagliaro cfr. la recensione di Goffredo Coppola nel «Pègaso» del novembre 1930.

Il libro è indispensabile per vedere i progressi fatti dalla linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di cambiato (a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata la base in cui collocare gli studi linguistici. L'identificazione di arte e lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha permesso di risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri inesistenti o arbitrari, ma i linguisti, che sono essenzialmente storici, si trovano dinanzi l'altro problema: è possibile la storia delle lingue all'infuori della storia dell'arte e ancora è possibile la storia dell'arte?

Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in quanto non sono arte, ma «materiale» dell'arte, in quanto prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo ecc. Queste quistioni non sono risolte, o lo sono con un ritorno alla vecchia rettorica rimbellettata (cfr. Bertoni).

Per il Perrotto (anche per il Pagliaro?), l'identificazione tra arte e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile (o arbitrario?) il problema dell'origine del linguaggio, che significherebbe domandarsi perché l'uomo è uomo (linguaggio = fantasia, pensiero): mi pare che non sia molto preciso; il problema non può risolversi per mancanza di documenti e quindi è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite storico, della storia ipotetica, congetturale e sociologica, ma non storia «storica». Questa identificazione permetterebbe anche di determinare ciò che nella lingua è errore, cioè non lingua. «Errore è la creazione artificiale, razionalistica, voluta, che non s'afferma perché nulla rivela, che è particolare all'individuo fuori della sua società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che lingua = storia e non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono come i gerghi: non è vero che siano assolutamente non lingue perché sono in qualche modo utili: hanno un contenuto storico-sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra dialetto e lingua nazionale-letteraria. Eppure anche il dialetto è lingua-arte. Ma tra il dialetto e la lingua nazionale-letteraria qualcosa è mutato: precisamente l'ambiente culturale, politico-morale-sentimentale. La storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono individuali (come avviene nell'arte) ma sono di un'intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha «progredito» storicamente: naturalmente anch'esse diventano individuali, ma non dell'individuo-artista, dell'individuo-elemento storico-culturale completo determinato.

Anche nella lingua non c'è partenogenesi, cioè la lingua [che] produce altra lingua, ma c'è innovazione per interferenze di culture diverse ecc., ciò che avviene in modi molto diversi e ancora avviene per intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico «molecolarmente», cioè imprestandogli singole parole o forme ecc.). L'interferenza e l'influenza «molecolare» può avvenire nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio artistico in queste innovazioni ha il carattere del «gusto culturale», non del gusto artistico, cioè per la stessa ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli «ideali» estetici, legati a determinate culture.

[La lingua in Dante.] Importanza dello scritto di Enrico Sicardi La lingua italiana in Dante, edito a Roma dalla Casa Ed. «Optima» con prefazione di Francesco Orestano. Ne ho letto la recensione di G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l'interpretazione della poesia) nel «Marzocco» del 14 aprile 1929. Il Sicardi insiste sulla necessità di studiare le «lingue» dei vari scrittori, se si vuole interpretare esattamente il loro mondo poetico. Non so se tutto ciò che il Sicardi scrive sia esatto e specialmente se sia possibile «storicamente» lo studio delle «particolari» lingue dei singoli scrittori, dato che manca un documento essenziale: una vasta testimonianza della lingua parlata nei tempi dei singoli scrittori. Tuttavia il richiamo metodologico del Sicardi è giusto e necessario (ricordare nel libro del Vossler, Idealismo e positivismo sullo studio della lingua, l'analisi estetica della favola di La Fontaine sul corvo e la volpe e l'erronea interpretazione di «son bec» dovuta all'ignoranza del valore storico di «son»).

Del Bartoli, Quistioni linguistiche e diritti nazionali, discorso tenuto all'inaugurazione dell'anno accademico torinese 1934, pubblicato nel 1935 (vedi nota in «Cultura» dell'aprile 1935). Pare dalla nota che il discorso sia molto discutibile per alcune parti generali: per esempio l'affermazione che «l'Italia dialettale è una e indivisibile».

Notizie sull'Atlante linguistico pubblicate in due numeri di un Bollettino.

VI. Osservazioni sul folclore

Osservazioni sul folclore

Giovanni Crocioni (nel volume Problemi fondamentali del Folclore, Bologna, Zanichelli, 1928) critica come confusa e imprecisa la ripartizione del materiale folcloristico proposta dal Pitrè nel 1897 nella Premessa alla Bibliografia delle tradizioni popolari e propone una sua ripartizione in quattro sezioni: arte, letteratura, scienza, morale del popolo. Ma anche questa ripartizione è criticata come imprecisa, mal definita e troppo lata. Raffaele Ciampini, nella «Fiera Letteraria» del 30 dicembre 1928, domanda: «È essa scientifica? Come per es. farvi rientrare le superstizioni? E che vuole dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché, allora, non parlare [anche] di una religione del popolo?» Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento «pittoresco» (in realtà finora è stato solo raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione e la classificazione di tale materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell'erudizione, né con ciò si misconosce l'importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch'essa per lo piú implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso piú largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico). Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popolo (cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contradditorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal piú grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati.

Anche il pensiero e la scienza moderna danno continuamente nuovi elementi al «folclore moderno», in quanto certe nozioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso e piú o meno sfigurate, cadono continuamente nel dominio popolare e sono «inserite» nel mosaico della tradizione (la Scoperta dell'America di C. Pascarella mostra come le nozioni, diffuse dai manuali scolastici e dalle «Università popolari», su Cristoforo Colombo e su tutta una serie di opinioni scientifiche, possano essere bizzarramente assimilate). Il folclore può essere capito solo come un riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, sebbene certe concezioni proprie del folclore si prolunghino anche dopo che le condizioni siano (o sembrino) modificate o diano luogo a combinazioni bizzarre.

Certo esiste una «religione di popolo», specialmente nei paesi cattolici e ortodossi, molto diversa da quella degli intellettuali (che siano religiosi) e specialmente da quella organicamente sistemata dalla gerarchia ecclesiastica – sebbene si possa sostenere che tutte le religioni, anche le piú dirozzate e raffinate, siano «folclore» in rapporto al pensiero moderno, con la capitale differenza che le religioni e quella cattolica in primo luogo, sono appunto «elaborate e sistemate» dagli intellettuali (c. s.) e dalla gerarchia ecclesiastica e pertanto presentano speciali problemi (è da vedere se una tale elaborazione e sistemazione non sia necessaria per mantenere il folclore disse- minato e molteplice: le condizioni della Chiesa prima e dopo la Riforma e il Concilio di Trento e il diverso sviluppo storico-culturale dei paesi riformati e di quelli ortodossi dopo la Riforma e Trento sono elementi molto significativi). Cosí è vero che esiste una «morale del popolo», intesa come un insieme determinato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente legata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli imperativi che sono molto piú forti, tenaci ed effettuali che non quelli della «morale» ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti.

Il Ciampini trova molto giusta la necessità sostenuta dal Crocioni che il folclore sia insegnato nelle scuole dove si preparano i futuri insegnanti, ma poi nega che possa porsi la quistione della utilità del folclore (c'è indubbiamente confusione tra «scienza del folclore», «conoscenza del folclore» e «folclore» cioè «esistenza del folclore»; pare che il Ciampini qui voglia proprio dire «esistenza del folclore» cosí che l'insegnante non dovrebbe combattere la concezione tolemaica, che è propria del folclore). Per il Ciampini il folclore (?) è fine a se stesso o ha la sola utilità di offrire a un popolo gli elementi per una piú profonda conoscenza di se stesso (qui folclore dovrebbe significare «conoscenza e scienza del folclore»). Studiare le superstizioni per sradicarle sarebbe per il Ciampini, come se il folclore uccidesse se stesso, mentre la scienza non è che conoscenza disinteressata, fine a se stessa! Ma allora perché insegnare il folclore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Per mostrar loro ciò che non devono distruggere?

Come appare, le idee del Ciampini sono molto confuse e anzi intimamente incoerenti, poiché, in altra sede, il Ciampini stesso riconoscerà che lo Stato non è agnostico ma ha una sua concezione della vita e ha il dovere di diffonderla, educando le masse nazionali. Ma questa attività formativa dello Stato, che si esprime, oltre che nell'attività politica generale, specialmente nella scuola, non si svolge sul niente e dal niente: in realtà essa è in concorrenza e in contradditorio con altre concezioni esplicite ed implicite e tra queste non delle minori e meno tenaci è il folclore, che pertanto deve essere «superato». Conoscere il «folclore» significa pertanto per l'insegnante conoscere quali altre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni piú giovani per estirparle e sostituirle con concezioni ritenute superiori. Dalle scuole elementari alle... Cattedre d'agricoltura, in realtà, il folclore era già sistematicamente battuto in breccia: l'insegnamento del folclore agli insegnanti dovrebbe rafforzare ancor piú questo lavoro sistematico. È certo che per raggiungere il fine occorrerebbe mutare lo spirito delle ricerche folcloristiche oltre che approfondirle ed estenderle. Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo cosí l'insegnamento sarà piú efficiente e determinerà realmente la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore. Un'attività di questo genere, fatta in profondità, corrisponderebbe nel piano intellettuale a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.

«Diritto naturale» e folclore. Viene esercitata ancora oggi una certa critica, per lo piú di carattere giornalistico e superficiale, non molto brillante contro il cosí detto diritto naturale (cfr. qualche elucubrazione di Maurizio Maraviglia e i sarcasmi e le beffe piú o meno convenzionali e stantie dei giornali e delle riviste). Qual è il significato reale di queste esercitazioni?

Per comprendere ciò occorre, mi pare, distinguere alcune delle espressioni che tradizionalmente ha assunto il «diritto naturale»:

1) La espressione cattolica, contro la quale gli attuali polemisti non hanno il coraggio di prendere una netta posizione, sebbene il concetto di «diritto naturale» sia essenziale ed integrante della dottrina sociale e politica cattolica. Sarebbe interessante ricordare lo stretto rapporto che esiste tra la religione cattolica, cosí come è stata intesa sempre dalle grandi masse e gli «immortali principii dell'89». I cattolici stessi della gerarchia ammettono questo rapporto quando affermano che la rivoluzione francese è stata una «eresia» o che da essa si è iniziata una nuova eresia, riconoscono cioè che allora è avvenuta una scissione nella stessa fondamentale mentalità e concezione del mondo e della vita: d'altronde solo cosí si può spiegare la storia religiosa della Rivoluzione francese, ché sarebbe altrimenti inesplicabile l'adesione in massa alle nuove idee e alla politica rivoluzionaria dei giacobini contro il clero, di una popolazione che era certo ancora profondamente religiosa e cattolica. Per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, – ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta.

2) La espressione di diversi gruppi intellettuali, di diverse tendenze politico-giuridiche, che è quella sulla quale si è svolta finora la polemica scientifica sul «diritto naturale». A questo proposito la quistione è stata risolta fondamentalmente dal Croce, col riconoscimento che si è trattato di correnti politiche e pubblicistiche, che avevano il loro significato e la loro importanza in quanto esprimevano esigenze reali nella forma dogmatica e sistematica della cosí detta scienza del diritto (cfr. la trattazione del Croce). Contro questa tendenza si svolge la polemica «apparente» degli attuali esercitatori di scienza del diritto, che in realtà, non distinguendo tra il contenuto reale del «diritto naturale» (rivendicazioni concrete di carattere politico-economico-sociale), la forma della teorizzazione e le giustificazioni mentali che del contenuto reale dà il diritto naturale, sono essi piú acritici e antistorici dei teorici del diritto naturale, cioè sono dei muli bendati del piú gretto conservatorismo (che si riferisce anche alle cose passate e «storicamente» superate e spazzate via).

3) La polemica in realtà mira ad infrenare l'influsso che specialmente sui giovani intellettuali potrebbero avere (e hanno realmente) le correnti popolari del «diritto naturale», cioè quell'insieme di opinioni e di credenze sui «proprii» diritti che circolano ininterrottamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti. La religione ha molto influsso su queste correnti, la religione in tutti i sensi, da quella come è realmente sentita e attuata a quella quale è organizzata e sistematizzata dalla gerarchia, che non può rinunziare al concetto di diritto popolare. Ma su queste correnti influiscono, per meati intellettuali incontrollabili e capillari, anche una serie di concetti diffusi dalle correnti laiche del diritto naturale e ancora diventano «diritto naturale», per contaminazioni le piú svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermati dallo «storicismo». Esiste dunque una massa di opinioni «giuridiche» popolari, che assumono la forma del «diritto naturale» e sono il «folclore» giuridico. Che tale corrente abbia importanza non piccola è stato dimostrato dalla organizzazione delle «Corti d'Assisi» e di tutta una serie di magistrature arbitrali o di conciliazione, in tutti i campi dei rapporti individuali e di gruppo, che appunto dovrebbero giudicare tenendo conto del «diritto» come è inteso dal popolo, controllato dal diritto positivo o ufficiale. Né è da pensare che l'importanza di questa quistione sia sparita con l'abolizione delle giurie popolari, perché nessun magistrato può in una qualsiasi misura prescindere dall'opinione: è anzi probabile che la quistione si ripresenti in altra forma e in misura ben piú estesa che nel passato, ciò che non mancherà di sollevare pericoli e nuove serie di problemi da risolvere.

[Preistoria contemporanea.] Raffaele Corso chiama il complesso dei fatti folcloristici una «preistoria contemporanea», ciò che è solo un bisticcio per definire un fenomeno complesso che non si lascia definire brevemente. Si può ricordare in proposito il rapporto tra le cosí dette «arti minori» e le cosí dette «arti maggiori», cioè tra l'attività dei creatori d'arte e quella degli artigiani (delle cose di lusso o per lo meno non immediatamente utilitarie). Le arti minori sono sempre state legate alle arti maggiori e ne sono state dipendenti. Cosí il folclore è sempre stato legato alla cultura della classe dominante, e, a suo modo, ne ha tratto dei motivi che sono andati a inserirsi in combinazione con le precedenti tradizioni. Del resto niente di piú contraddittorio e frammentario del folclore.

In ogni modo si tratta di una «preistoria» molto relativa e molto discutibile e niente sarebbe piú disparato che voler trovare in una stessa area folcloristica le diverse stratificazioni. Ma anche il confronto tra aree diverse, sebbene sia il solo indirizzo metodico razionale, non può permettere conclusioni tassative, ma solo congetture probabili, poiché è difficile fare la storia delle influenze che ogni area ha accolto e spesso si paragonano entità eterogenee. Il folclore, almeno in parte, è molto piú mobile e fluttuante della lingua e dei dialetti, ciò che del resto si può dire per il rapporto tra cultura della classe colta e lingua letteraria: la lingua si modifica, nella sua parte sensibile, molto meno del contenuto culturale; e solo nella semantica si può, naturalmente, registrare una adesione tra forma sensibile e contenuto intellettuale.

[I canti popolari.] Una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri: 1°) i canti composti dal popolo e per il popolo; 2°) quelli composti per il popolo ma non dal popolo; [3°)] quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l'origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione.

Appendice

Cronache teatrali dall'«Avanti!»,

1916-1920

«La falena» di Bataille al Carignano. Freddissima accoglienza ha avuto la nuova commedia del Bataille, La falena, portata dinanzi al pubblico torinese dalla compagnia Gramatica-Carini-Piperno. E il pubblico non ha avuto torto. Tre atti lunghi, pesanti, senza azione, costruiti completamente sul dialogo, che a forza di voler essere sottile, raffinato, diventa monotono, stucchevole, senza vivacità. La psicologia d'eccezione, se non è incarnata in una creatura viva, che diventi il centro motore di una azione adeguata, può riuscire a far costruire un romanzo passabile, ma nel teatro è fatalmente destinata a partorire opere fiacche, senza nerbo, come questa del Bataille. Vedendo svolgersi sulla scena i casi melodrammatici di una donna, che sapendo la sua vita crudelmente limitata da una malattia vuol godere tutto il piacere e vivere tutte le illusioni che un amore capriccioso le consente [censura].

Anche l'esecuzione fu da parte degli attori poco convincente e un tantino monotona, ciò che del resto non meraviglia.

(13 gennaio 1916).

Dina Galli all'Alfieri. Magnifica la serata d'onore di Dina Galli, che ormai è diventata a Torino la piú popolare e la piú ammirata delle attrici. Ella ha saputo, pur nel tritume della produzione comica francese, crearsi una personalità, rinnovandosi in ogni personaggio, riuscendo a trovare per ogni figurino una nota nuova, che le desse almeno l'apparenza della vita, rendendo signorile e ingenua anche la volgarità che in altri sarebbe stata abietta. E il pubblico l'ha colmata di fiori e di applausi.

(20 gennaio 1916).

«Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti all'Alfieri. Dobbiamo riconfermare la prima impressione. Ce ne dispiace per l'Ambrosini, specialmente, del quale ricordiamo con sempre vivo godimento i bozzetti storici di grandissimo valore, ma la nuova commedia Paolo e Virginia non ci convince e non ci può piacere. E non per la ingenuità tecnica, per le manchevolezze sceniche, che si possono perdonare in un primo tentativo e che possono anzi essere prova di ingegno drammatico potente che si dibatte sulle prime fra le pastoie delle necessità della pratica, ma perché la commedia è una offesa al buon gusto e al senso comune. Tutto è artificioso, voluto, riflesso. Nessun abbandono dell'autore verso le creature della sua fantasia che le renda indipendenti, libere, vive di attività propria, ma invece la sensazione implacabile della preoccupazione del successo, dello sforzo cerebrale, e senza possibilità di uno sbocco nell'azione. Il primo atto è appiccicato colla colla al resto: serve per lo spunto, per giustificare il titolo, per poter riallacciare i personaggi col celebre romanzo del languido e rugiadoso Saint-Pierre, e per poter adombrare, senza riuscire a completarlo, il carattere di Virginia, condannata a vivere di una vita doppia, libresca per il ricordo dei due sfortunati amanti del buon tempo antico, e piena di impulsi e di curiosità di vivere della monelluccia moderna. Ma del resto tutti i personaggi ragionano, ricordano e mai operano. La comicità è di parole, di freddure, e non sempre di buon gusto, anzi per lo piú tolte dal vecchio repertorio caricaturale, cosicché spesso gli attori ne rimangono oppressi; come il povero Conforti (Paolo), al quale è fatta ripetere, per cercare di renderlo piú scialbo e piú grottesco, la vecchia boutade del viaggiatore che non può cambiare il posto incomodo con un altro, perché nello scompartimento egli è solo.

E altre e altre, stillicidio noioso e schiacciante con parentesi di grossolanità come quella dell'albergatrice da due anni vedova che non ha potuto nell'intervallo coniugale procurarsi la piú piccola soddisfazione. Gli interpreti fecero del loro meglio per dare tutto ciò che era possibile: ammirevoli, come al solito, la Galli e il Guasti.

(23 gennaio 1916).

«Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano. Pomo della discordia tra il conte e la contessa Alberti pare sia il fatto che il loro unigenito è femmina e non maschio. Quindi separazione legale, carta bollata, ecc., e sentenza del tribunale che fa sí che Luciana, la prole non desiderata dal padre, debba trascorrere la sua vita a pezzi e bocconi, quattro mesi con l'uno e quattro mesi con l'altro dei suoi cosí suscettibili genitori. E la fanciulla, educata dal padre, a quanto dice l'autore, senza pregiudizi, o almeno, senza troppi pregiudizi femminili, prepara un complotto per rifare la famiglia cosí poco tragicamente separata. Salva la mamma da un cattivo passo, la conserva degna del papà, e poi riconosciutasi innamorata di un amico d'infanzia, scappa dal papà, gli impone un dilemma: o far la pace o perdere la figliuola che va a marito, e riesce dopo un seguito di avvenimenti superlativamente banali, a non essere piú pomo della discordia, ma a maritarsi e a riconciliare i suoi fieri genitori. Tutta la commedia è imperniata sulla figura della fanciulla, che la Gramatica seppe rendere con vivacità e con spontaneità veramente degne della sua fama di grande artista, e su alcune parti del dialogo, d'un humour per lo piú convenzionale, ma non senza qualche sprazzo di sano spirito piccolo borghese. Questo ormai forma a un tempo la ragione dei mezzi successi delle commedie del Testoni e della debolezza del suo teatro, fatto tutto di tali piccole cose che non riescono mai a organizzarsi in una commedia, in tutta una commedia. Insieme alla Gramatica, che seppe, senza contrasto troppo stridente, rendere e forse migliorare ciò che il Testoni aveva fatto della figura di Luciana, fu notevole il Carini. Non altrettanto bene gli altri.

(27 gennaio 1916).

Un commediografo dialettale. Certa stampa cittadina ha menato grande scalpore sulla commedia dialettale di Mario Leoni: L'erbô d'la libertà, che sarà data stasera al Rossini. Pare si tratti di una rievocazione di quel periodo della storia piemontese in cui maggiormente si risentivano i contraccolpi della Rivoluzione francese. Il nome dell'autore, temperamento di letteratucolo provinciale, autore di plumbei romanzi di appendice e di superficiali drammacci da stadera, nonché assessore della Giunta clerico-moderata, non dà certo troppo affidamento per la rievocazione di un periodo che ebbe momenti di vera epicità e di dolorosa delusione.

(28 gennaio 1916).

«L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini. Grande avvenimento cittadino l'altra sera al Rossini. C'erano il sindaco e l'ing. Sincero, l'antipapa; gli assessori, i consiglieri comunali piú intellettuali da Fino a Grassi, e il vecchio teatro accoglieva tutti con la tranquilla bonomia di un vecchio, del quale il ritorno per una volta dei bei giorni passati non turba lo scetticismo sereno, frutto di tante alterne vicende di gloria e di decadenza. Serata familiare anche! Ché Torino è in fondo ancora una grande città di provincia, dove tutti ci si conosce, e dove si corre a sentire e applaudire l'opera del collega o del conoscente per dovere d'amicizia, ben disposti a essergli grati di una serata trascorsa cosí senza grande divertimento e senza molta noia, lasciando riposare cervello e nervi. All'amico molti applausi e quattro chiamate ha concesso la platea del Rossini. E non vorremmo noi contrastare. Ché anche per la critica, occorre un punto d'appoggio. Ma L'erbô d'la libertà non è né bello né brutto: è nel pensiero di un dolce accomodantismo. C'è tutto o niente: l'azione, se non fosse posta nel 1798, avrebbe potuto svolgersi nel 1848, a Torino o a Milano o a Berlino. C'è chi crede e sacrifica per gli ideali rivoluzionari; c'è la fucilazione del mitissimo e ingenuo agitatore Tenivell, ma c'è la caricatura leggera delle nuove idee e dei nuovi costumi; c'è il cittadino calzolaio Barberis che è vestito di rosso e cambia nome alla moglie ed al figlio e sacrifica ai piedi dell'albero un pacco di biglietti del vecchio governo... fuori corso, con un po' di sentimentalismo e un paio di amoretti e infine la trovata: «Meglio bastardo che figlio di tedesco!».

Non è l'opera che contribuisca a rialzare il teatro dialettale piemontese; manca in essa calore e vita; non ha mai suscitato il brivido dell'interesse e del consenso che percorre la folla e la attanaglia e fa scattare lo spettatore nell'apostrofe che eccita il sorriso di noi, troppo blasés, ma consacra il successo dell'autore popolare.

L'erbô avrà delle repliche e Mario Leoni, alla fine della carriera di fortunato negoziante di stoffe, allieta la sua vecchiaia con lo stringere le catene matrimoniali alle coppie amanti, col firmare molti atti di stato civile e con lo scrivere commedie. E continui pure per molti anni.

(30 gennaio 1916).

Emma Gramatica al Carignano. Dopo La moglie di Claudio, che la Gramatica interpretò rendendo un po' troppo manierata la donna fatale di una moda ormai tramontata (ma non è manierata già in sé ogni donna fatale?), abbiamo sentito un breve atto di J. M. Barrie, che potrebbe definirsi una spiritosa conferenza dialogata ed elaborata scenicamente sull'Età delle attrici. In esso, piú che nel dramma a forti tinte, la Gramatica poté meglio mostrare tutte le doti che la distinguono di spontaneità e di una certa sottile arguzia.

(31 gennaio 1916).

La compagnia Ruggeri al Carignano. Il nuovo corso di recite iniziato dalla compagnia di Ruggero Ruggeri si è già dalle prime sere affermato vittoriosamente. A dir il vero, non bisognerebbe parlare di compagnia, ma del solo Ruggeri e di qualche altro meno peggio, poiché ormai è invalso, nella organizzazione delle nostre migliori compagnie, l'uso di circondare gli elementi ottimi con altri molto scadenti, se non addirittura pessimi, che servono solo per il chiaroscuro, per dare maggiore risalto ai primi, con quanto scapito dell'effetto generale di una recita, è facile a chiunque capire.

L'anima della compagnia è Ruggeri, che nelle tre commedie finora date: Il marchese di Priola, Il bosco sacro, L'avventuriero, ha saputo mostrare quanto sia grande la duttilità del suo ingegno artistico, la potenzialità di rinnovamento, la facilità (apparente, almeno, perché si sa dovuta a lunghi studi e coscienziosa preparazione) di investirsi di parti sempre nuove, di personaggi antipodici, che ne riescono migliorati, umanizzati dalla calda simpatia dell'interprete.

(5 febbraio 1916).

«Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri. Continua a far affollare l'elegante teatro di Piazza Solferino Scampolo di Dario Niccodemi, che ormai è arrivato alla nona replica. La figurina selvaggiamente ingenua della protagonista, pur nel suo convenzionalismo sentimentale e nella pretesa di voler rappresentare in un tipo universale la vita della strada, fatta di semplicità e di sincerità in contrapposizione alla vita artefatta della restante umanità, è riuscita a conquistare la simpatia del pubblico. Molto contribuirono al successo gli attori, specialmente A. Guasti e D. Galli, che hanno saputo dare, di personaggi questa volta italiani, una interpretazione sicura ed efficace, abbandonando per un momento i soliti e abusati tipi delle Gobette, e dei pittori in fregola di piacevoli avventure. Si annunzia intanto che la compagnia sta lavorando alle prove di un'altra novità italiana: La campana, tre atti di G. Forzano, noto finora solo come manipolatore di intrugli melodrammatici e di riviste-pasticcio.

(6 febbraio 1916).

«Il piccolo santo» di Bracco al Carignano. Il piccolo santo è veramente piú creatura di Ruggeri che di Bracco; seguendo l'artista in tutto il sottile lavorio col quale egli riesce a plasmare atto per atto, parola per parola il carattere di don Fiorenzo, anche nelle sue piú evanescenti sfumature (che spesso sono le piú significative), pare impossibile immaginare un altro interprete, e una vita dell'opera all'infuori di questa cornice e di questi scenari. La suggestione è cosí avvincente che non si bada a tutto il resto, né all'incertezza che può essere stata cagionata dalla scomparsa di un attore misurato ed efficace come il Bonafini, né all'insufficienza di qualche altro.

Nelle repliche che certo si succederanno con la stessa fortuna, molti di questi inconvenienti spariranno, e l'insieme dello spettacolo sarà ancor piú perfetto.

(13 febbraio 1916).

«Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri. La compagnia della Galli ha ridato la commedia di Nino Berrini Il poeta e la signorina, e pare voglia ancora replicarla, quantunque l'accoglienza non sia stata molto calorosa. Se Ferdinando Martini si occupasse ancora di queste bazzecole e si ponesse di nuovo la questione del perché non esiste un teatro nazionale italiano, gli si potrebbe rispondere, prendendo le mosse dall'ultima produzione, che il difetto d'origine è l'insincerità degli autori, specialmente giovani. La mancanza di un genio può spiegare il non sorgere di capolavori. Ma il teatro non si nutre solo di capolavori, e questi d'altronde non paiono sfungare con molta frequenza neanche fuori d'Italia.

È proprio l'insincerità, la mania letteraria che impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti piú modesti. Per il razzo di una trovata, per il barbaglio di una situazione piccante o di un personaggio che nessuno ha mai posto in scena, si sacrifica tutto quello che può veramente dare ossa e carne a una commedia.

E cosí sia, se cosí meglio piace.

(13 febbraio 1916).

L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano. La compagnia di R. Ruggeri ha ripreso l'Amleto, e, se è lodevole lo sforzo che l'attore ha fatto per dare di Amleto una raffigurazione pienamente umana, non si può però dire che Shakespeare sia stato bene interpretato. Sicuro: perché nelle opere del tragico inglese non c'è solo il protagonista, e la tragedia non è solo la tragedia di questo. La caratteristica del capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella saturazione di poesia di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona del dramma; niente c'è di inutile, niente da trascurare, ogni anche piccolo accenno concorre alla catastrofe ed è indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di diventare un dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale. Tutti i personaggi sono grandi nella concezione shakespeariana: fortemente messi in rilievo, e presi nel turbine di fatalità che ha in Amleto la vittima principale; e se non si riesce a dare di tutto ciò che la concezione del lavoro vuole, Amleto continuerà a essere pietra di paragone per la virtú di plasticità dei nostri migliori attori, ma non sarà l'Amleto di Shakespeare, e il pubblico, pur persuaso di aver sentito un capolavoro (lo dicono tutti e da tanto tempo) uscirà da teatro con qualche delusione e lievemente propenso a non credere del tutto ai capolavori.

(20 febbraio 1916).

«Il signor di Courpières» di Hermant al Carignano. Il signor di Courpières di Abel Hermant è una commedia cadaverica, costrutta di pezzi anatomici da gabinetto sperimentale, freddamente, come potrebbe fare un giocatore di scacchi che si pone le difficoltà e laboriosamente se le risolve per passare il tempo. Il protagonista è il tipo dell'aristocratico spiantato, cinico, amorale, che nella società borghese cui non può adattarsi, risolve il suo problema sociale con le amanti ricche o che si vendono ad altri per mantenerlo, senza sentire mai un brivido di passione, un palpito di umanità se non forse verso i suoi simili dei sobborghi, gli apaches e gli Alphonses della suburra. Ma nel letamaio fiorisce una violetta (come sono sentimentali i cinici e gli scettici convenzionalmente professionali!), una fanciulla della borghesia danarosa che nell'ultimo atto, quando la catastrofe sembra imminente, e il signor di Courpières sta per farsi suicidare (ammazzarsi tutto da sé sarebbe troppo banale) avendo falsificato una cambiale, lo salva perché vuol redimerlo e rigenerarlo.

La commedia fu zittita e cadde nell'indifferenza generale.

(24 febbraio 1916).

Serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano. Ruggero Ruggeri annunzia per venerdí la sua serata d'onore con L'amico delle donne di A. Dumas. Il Ruggeri nella sua pur breve permanenza a Torino, e nel limitato numero di rappresentazioni che ha potuto dare, ha dimostrato che egli sta fuori di ogni ruolo convenzionale. La sua potente personalità supera ogni professionismo. La tragicità di Amleto non fissa nessun abito acquisito nel carattere dell'attore. Il «fascino slavo» del Bosco sacro trova in lui l'immediatezza espressiva che non può dargli un brillante che per la continuità della sua funzione si lascia soverchiare da abitudini fisiche e vocali che conguagliano i caratteri comici piú disparati. Perciò il pubblico giustamente ha reso sempre omaggio, e piú lo farà venerdí alle doti eccezionali di Ruggero Ruggeri.

(2 marzo 1916).

La serata in onore di R. Ruggeri fece affollare in modo eccezionale il Teatro Carignano.

La commedia di A. Dumas figlio L'amico delle donne non è tale, di per se stessa, da incatenare un pubblico per cinque atti non tutti leggeri. Ma il dialogo, fitto di leggeri ricami dialettici, superficialmente piacevole e interessante per i confronti tra la moda teatrale del passato e quella attuale, sembra fatto apposta per mettere in rilievo tutte le qualità buone dell'attore insigne, che riempie di sé tutti i cinque atti, rendendo passabile e simpatico quel tipo di perpetuo seccatore che nella vita reale sarebbe l'amico delle donne come l'immaginava Dumas figlio.

(5 marzo 1916).

La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri. Stasera Amerigo Guasti darà la sua serata d'onore con L'asino di Buridano di de Flers e Caillavet. L'altra sera Dina Galli ha dato la sua con Amore veglia degli stessi autori. Il pubblico ha affollato il teatro come nei primi giorni della lunghissima stagione teatrale, prova la piú significativa della simpatia che la compagnia ha saputo suscitare. Credo infatti che quella Galli-Guasti-Bracci sia l'unica compagnia italiana che meriti veramente questo nome, poiché presenta organicità di ruoli e graduazioni di capacità, che pur lasciando agio ai principes di mettere in rilievo le loro doti speciali, non nuoce all'insieme e dà risalto anche alle parti secondarie.

Il Guasti, la Galli e il Bracci hanno sempre trovato nella Galli, nella Casilini, nel Conforti, nel Fuggetta e negli altri dei cooperatori intelligenti, sempre alacri, che hanno contribuito indubbiamente al buon successo costante delle rappresentazioni, senza far diminuire perciò la personalità dei maggiori, anzi forse mettendole maggiormente in risalto.

(6 marzo 1916).

Ermete Novelli all'Alfieri. Un pubblico speciale aspettava l'altra sera la rentrée di Ermete Novelli: di ammiratori che avevano seguito con affetto nella sua lunga carriera il vecchio attore, e di giovani che forse lo sentivano per la prima volta e volevano fissarsi nella memoria l'immagine dell'interprete sommo di talune figure popolaresche, come papà Martin, concepite ingenuamente, attuate e poste in azione in drammi poco consistenti e artisticamente nulli, ma nei quali tuttavia il richiamo a sentimenti umani elementari, radicati, innati quasi, e diffusi universalmente lascia all'attore la piú grande libertà di creazione individuale, personale. Che rimane di queste rappresentazioni nello spirito dell'ascoltatore? Non certo un godimento artistico, una nuova esperienza estetica, derivante dalla produzione drammatica. Il godimento, l'esperienza la dà l'attore con la sua arte d'interprete. Il fatto stesso che il dramma è concepito su una trama tenue, elementare, fa sí che esso venga assorbito immediatamente senza contrasti e senza sforzi, e che tutta l'attenzione si rivolga al modo, alla vita particolare che il Novelli riesce a infondere anche ai piú frusti e abusati motivi sentimentali. L'attore è in realtà egli stesso l'autore, perché tutto ciò che non solo rende sopportabile, ma anche piacevole e interessante il vecchio dramma di Cormon e Grangé è opera sua, tutta sua. Molti applausi a ogni fine d'atto, e molti anche a scena aperta.

(16 marzo 1916).

«Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero all'Alfieri. Una successione di quadretti appena abbozzati, di figurine comiche, sentimentali e grottesche formano tutta la commedia dei fratelli Quintero: Le memorie di don Rodrigo. Nessuna novità, né di ambiente, né di caratteri. Don Rodrigo è un vecchio spagnuolo che, arricchitosi attraverso una vita di stenti e di lavoro indefesso, s'è formata una filosofia della vita discretamente banale e convenzionale, e scrive le sue memorie nelle quali molte fame usurpate troveranno il loro implacabile giustiziere. Intorno a lui e alla sua filosofia volteggia il mondo circostante: dei figli o idioti o incapaci, che lo portano alla rovina, dei nipoti che s'adattano a trarre, da ciò che era stato motivo di eleganza e di bon ton, i mezzi per vivere, e delle conoscenze incasellate secondo i tipi che piú possono trarre l'epigramma e lo scherno dalle labbra del solitario. E siccome don Rodrigo, ovverossia i fratelli Quintero, non sono della vita troppo profondi osservatori o filosofi, troppo acuti, cosí i fatti che dovrebbero essere postillati dal protagonista sono spesso noiosamente monotoni, fatuamente superficiali, e la commedia, se non fosse stata retta da Ermete Novelli e da una sua giovane cooperatrice, Hesperia Sperani, sarebbe caduta senza infamia e senza lode.

(18 marzo 1916).

Teatro inglese. Domani la compagnia di Luigi Carini porrà in iscena una novità di un autore inglese: L'onore di John Glayde, di Alfredo Sutro. Come a chi ha lo stomaco guasto per il soverchio uso di dolciumi nauseosi è utile consigliare un buon bicchiere di gin, cosí il pubblico, abituato ad ascoltare le frivole e cerebralmente idiote costruzioni del teatro francese, molto potrà giovarsi di un contatto un po' vivo e simpatico con le produzioni del teatro inglese. Esse, oltre che per la rivelazione di un mondo morale alquanto diverso dal nostro, hanno il pregio di un humour non superficiale e di parole, un fondamento spirituale per cui le contraddizioni e le incongruenze della vita sono viste da un angolo visuale nuovo, originale per noi, pur senza sforzi e anfanamenti.

Naturalmente bisogna ascoltare già persuasi che tutto ciò che di strano e di diverso dal solito può esserci presentato, non è il risultato di uno sforzo scenico, ma il portato naturale di un mondo diverso dal nostro per costumi, per tradizioni di idee e di cultura.

(20 marzo 1916).

«L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano. L'onore di John Glayde di Alfredo Sutro non si distacca quasi per niente dalla media comune delle commedie costruite su un caso di adulterio. Un uomo di affari che si appassiona piú al giuoco titanico della Borsa che alla felicità domestica, ritrova al suo improvviso ritorno che la moglie gli è diventata un'estranea, che ella si è costruita una vita nuova, delle possibilità nuove di esistenza, e non vuol piú saperne di lui.

Ma è il modo che maggiormente offende il suo senso d'onore, non il fatto in sé. La commedia che gli viene rappresentata, la finzione che lo circonda e lo soffoca pur nel roseo cerchio delle braccia femminee, lo esaspera, ma lo riconduce al senso della realtà.

Il dominatore riconosce il suo torto: ha giocato male, e ha perduto. Di fronte a lui l'avversario non ha altro torto che l'insincerità, la frode sleale che ha sorpreso la buona fede di chi, per conoscere gli uomini, ha trascurato l'altra metà del genere umano, ma nient'altro. E perciò non si erge esecutore della giustizia offesa: la punizione della moglie e del suo amante è in loro stessi, nella loro coscienza turbata di mentitori, che germinerà disillusioni e nuovi tradimenti e nuove vittime.

Questo scioglimento psicologico che per essere perfettamente, kantianamente morale, può rappresentare nel teatro una semplice ma grande novità, è preparato da quattro atti non altrettanto semplici e piani. Il dialogo, e forse vi contribuisce la traduzione scolorita e qualche volta spropositata, è monotono, e nello svolgimento non mancano incongruenze e colpi di scena artificiosi.

Luigi Carini rese molto bene la parte di John Glayde, e la Gentilli in quella di Mary (la moglie) fu in qualche momento perfetta. Il Baghetti con la sua comicità fluida e schietta salvò la situazione che pareva dovesse diventare burrascosa, e contribuí cosí al successo finale, se non entusiastico, certo assai notevole.

(23 marzo 1916).

«La prigioniera» di Poggio al Carignano. La prigioniera di Oreste Poggio è di quelle commedie che si fanno applaudire per l'onestà delle intenzioni piú che per la realizzazione artistica di un momento drammatico dello spirito umano. Una fanciulla povera si vende a un amatore vecchio e ricco, lo tradisce con un suo impiegato infedele, e ne viene punita con l'impossibilità in cui viene messa di abbandonarsi anche dopo la vedovanza, alla sua passione. L'amante è un briccone (ella naturalmente non lo vede sotto questa luce) e i documenti delle sue azioni delittuose dovranno servire a rendere prigioniera la donna, a preservarla dalla iattura che la nuova unione rappresenterebbe per lei. Finalmente un fatto nuovo (la prova del tradimento e della malafede del lontano) la rende libera e dalla prigionia esteriore impostale dal vecchio marito morto per il dolore e dalla prigionia interiore della passione per un indegno.

La commedia si perde spesso e volentieri in azioni secondarie, in episodi graziosi in sé, ma perfettamente inutili per lo svolgersi dell'azione principale; e le giustificazioni psicologiche dei momenti sono disperse nel dialogo fiorito di massime moraleggianti e di spunti che, cosí come sono presentati, rappresentano un di piú, un'imbottitura sgraziata e superflua. Il successo fu buono, perché i particolari riuscirono a interessare e a tenere sempre desti l'attenzione e l'interesse del pubblico che assisteva, e il Carini, la Gentilli, il Baghetti e il Dondini dettero un'interpretazione ottima nel complesso e piena di vita.

(30 marzo 1916).

Olga Vittoria Gentilli. Un teatro affollatissimo ha voluto dimostrare a Olga Vittoria Gentilli come ella nella sua breve permanenza nella nostra città sia riuscita a far apprezzare l'intelligenza sua d'artista e i nobili tentativi per formarsi una personalità e imprimere alle interpretazioni di personaggi ormai entrati nella tradizione una nota speciale. L'abbiamo sentita nel Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, una delle opere d'arte piú vive e piú efficaci del teatro europeo, rendere con grazia e spigliatezza il malizioso spirito settecentesco, e nelle produzioni moderne abbandonarsi al suo istinto femminile e dare senza artificio e morbosità anche le piú contorte e irreali figure di donne prodigalmente create dalla fantasia degli odierni scrittori. Nelle Marionette di Pierre Wolf, tutte le buone qualità della Gentilli ebbero agio di manifestarsi, e in qualche momento il pubblico le tributò un vero trionfo.

(1° aprile 1916).

«L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri. L'aria del continente, di Nino Martoglio, è un seguito di scene giocose, caricaturali, nelle quali il filo conduttore dell'azione non è dato dal carattere dei personaggi, ma dall'ambiente. Don Cola Dusciu ha dovuto recarsi a Roma per subire una operazione chirurgica che il medico del suo paese non sarebbe stato capace di eseguire; e come ogni buon paesano che si rispetti si è ubriacato dell'aria del continente, si è slanciato in quella che a lui sembrava la bella vita, ha fatto delle pazzie e ha sprecato il suo denaro per una donnina da caffè-concerto, e infine se l'è portata con sé in patria. L'ambiente gli si rivolta contro: la sorella non ne vuol sapere di novità continentali, i buoni villici si scandalizzano per le libertà che la donnina si prende e che don Cola, volendo fare l'uomo superiore ai pregiudizi, le consente. Ma il suo temperamento di siciliano non tarda a riprendere il sopravvento; la corte che si fa alla sua amante da parte di alcuni damerini lo incomincia a irritare, a mettere in sospetto. E quando viene a sapere, quasi contemporaneamente, che Milla ha concesso i suoi favori a suo cognato e a suo nipote, e che ella non è una romanesca, una continentale, ma una siciliana qualunque, un'avventuriera che l'ha preso in giro e ha sfruttato la sua ingenuità provinciale, perde la testa, ripudia la sua mania innovatrice di costumi e scaccia l'intrusa.

Nei tre atti compaiono sulla scena, resi grotteschi per un maggior successo d'ilarità, alcuni momenti della vita paesana siciliana, e alcuni tipi caratteristici di essa: la mamma, gelosa custode di pure tradizioni familiari, il viveur di provincia, i giocatori di scopone dei circoli di lettura, ecc., in mezzo ai quali il soffio di vita continentale porta lo scompiglio e la rivoluzione. La comicità delle situazioni che ne nascono viene portata al parossismo con un piccolo sforzo dialogico, e la esuberante personalità del Musco fa il resto. Pare, in certi momenti che un'aria di follia frenetica sia arrivata dal continente, tanto l'azione è convulsa.

Il pubblico ha applaudito a ogni fine di atto, tutti gli attori, e specialmente il Musco e la Anselmi, e ha chiamato insistentemente al proscenio l'autore.

(12 aprile 1916).

Il Grand-Guignol al Carignano. Il Grand-Guignol ha portato sulle scene di questo teatro le sue figure di incubo, il suo realismo truce e ingenuo nello stesso tempo, la rappresentazione di una vita esasperata e sussultante di terrore e di spasimi. Nessuna interiorità, nessun urto drammatico di coscienze e di caratteri.

Della tragicità non c'è che la maschera esteriore, lo spasimo fisico che cerca comunicarsi allo spettatore inebetito con un brivido irresistibile. Bisogna dire che Alfredo Sainati e Bella Starace sono maestri nel raggiungere gli effetti che si propongono di conseguire. La materia bruta, il tritume del fattaccio di cronaca si organizzano nella elasticità della loro personalità artistica che sa atteggiarsi nei modi piú truci, piú sanguinosamente suggestivi. E cosí lo spettatore, che va a teatro per incanagliarsi, per sentire uno strappo di nervi che gli dia l'impressione della vita fittizia della suburra, del bassofondo, è soddisfatto e applaude.

(25 aprile 1916).

«Quacquarà» di Capuana all'Alfieri. Quacquarà di Luigi Capuana non è altro che una smilza novella d'ambiente diluita in tre atti, inzeppata di dialoghi e controscene che non portano nessun contributo a una perspicua e viva rappresentazione del protagonista. Don Mario Mamuca è un povero deficiente, perseguitato dai monelli del suo paese che lo tormentano rifacendogli dietro il richiamo delle quaglie: quacquarà, quacquarà. È un nobile spiantato, mezzo analfabeta, che scrive dei versi che non tornano e vive di ripieghi e di elemosine larvate. S'innamora di una ricca signorina che sarebbe felicissima di farsene il paravento per un suo piú precoce errore, perché ha già 35 anni. Il matrimonio però va anch'esso a monte e Quacquarà registra nel libro dei suoi ricordi e dei pettegolezzi paesani un'altra delusione. Tutta la commedia è un susseguirsi di episodi inorganici, appena abbozzati, pieno di lungagnate verbose. È questo un lavoro che Luigi Capuana, che pure era un forte ingegno e uomo di buon gusto, ha lasciato inedito ai suoi eredi, che non hanno certo reso un omaggio alla sua memoria presentandolo al pubblico.

(27 aprile 1916).

«La malquerida» di Benavente al Carignano. La malquerida di Benavente ha fatto ricordare a qualcheduno le produzioni del teatro classico. Naturalmente ogni richiamo è possibile: un'anfora di Samo rassomiglia piú a un boccale di Montelupo che al lupo mannaro, e cosí l'intreccio di Malquerida può far ricordare Eschilo e Shakespeare. Anche in essa infatti una passione perversa attanaglia due creature umane, ed è istintiva, elementare, dovuta al fato, ma la tragedia si estrinseca in forma granguignolesca, e cioè senza profondità di vita interiore, senza tormenti e slanci lirici, riducendosi a gesti brutali. La giovinetta Rosaria non ha mai saputo e potuto amare come padre, il nuovo marito che sua madre ha preso; e d'altronde questo odio ingiustificato fa sí che Renzo non possa in lei vedere una figlia; e una passione morbosa si impadronisce di lui. Per non lasciarla andar via di casa, ne fa uccidere il fidanzato, monta una macchina infernale per rovinare un innocente, un povero Cristo innamorato di Rosaria, ma non riesce a far sí che la verità non venga conosciuta da sua moglie. La quale per salvare l'onore della famiglia e perché comprende che nella passione dell'uomo c'è un elemento imponderabile di fatalità, è disposta a perdonare, ma quando un bacio che dovrebbe essere di conciliazione, di oblio, rivela a Rosaria che ella ama il suo padrigno, e i due si avvinghiano disperatamente comprendendosi alfine, la madre urla la sua vendetta, la sua collera, e cade uccisa da Renzo. Nel dramma non c'è nulla piú dell'intreccio, abilmente condotto in modo che gli intrighi vadano creando malintesi, imbrogli psicologici che determinano un crescendo e preparino gli animi alla scossa finale. Ma l'abilità piú o meno grande di facitor di ficelle, non può sostituire ciò che solo può rendere umane e logiche anche le piú bestiali vibrazioni dei sensi. Particolarmente efficace fu l'interpretazione della Starace-Sainati.

(30 aprile 1916).

Angelo Musco all'Alfieri. Angelo Musco ha dato la sua serata d'onore molto festeggiato e applaudito. La sua personalità d'attore, se in un primo momento può anche non piacere e perfino irritare, finisce alla fine per farsi comprendere e stimare. Angelo Musco è eminentemente un attore della commedia dell'arte: egli non può mantenersi mai nei limiti che l'autore ha fissato ai personaggi; vuole aggiungere qualcosa di suo personale, e per l'ingegno che ha duttile, pieghevole, riesce quasi sempre a convincere. Il teatro dialettale gli dà naturalmente largo campo agli sbizzarrimenti, e siccome le produzioni del suo repertorio sono, come del resto il novantanove per cento di tutti i repertori, nient'altro che commedie dell'arte che vivono della vita effimera della ribalta, cosí la sua maniera potrebbe anche essere la migliore.

(30 aprile 1916).

Alfredo Sainati al Carignano. Un teatro affollatissimo per la serata di Alfredo Sainati. L'orribile esperimento del De Lorde, Cravatta nera di L. Ruggi, Revenant del Satèrne, truci e sanguinolenti produzioni granguignolesche, mostrano Sainati nel suo piú noto carattere di attore drammatico di eccezione, procurandogli gli applausi entusiastici degli spettatori, che potrebbero offrire lo spunto a una ricerca psicologica simile a quella che Arturo Graf ha fatto per la tragedia. Perché il pubblico si diverte al Grand-Guignol? Se la natura umana rifugge dal dolore, dalla sofferenza, come mai nel teatro ciò può essere un motivo di attrazione? Non potendosi parlare di godimenti artistici per ciò che riguarda la creazione di fantasmi poetici espressi plasticamente dal dramma, è evidente che la ragione della fortuna di questo teatro è dovuta tutta agli attori che sanno, come il Sainati, dare vita anche a dei pupazzi incolori e incongruenti come quelli che di solito popolano la loro scena.

(14 maggio 1916).

«Il titano» di Niccodemi al Carignano. La guerra evidentemente ha imposto una moratoria anche all'arte. L'azione che si svolge al fronte fa rivolgere tutte le energie degli uomini di buona volontà alla pratica, alla speculazione dell'esaltamento passeggero, che opportunamente solleticato, dà buon gettito di applausi e di cassetta. Santa retorica si dice per le manifestazioni simili del passato, del Risorgimento; perché né Berchet, né Silvio Pellico, né il Giusti, né il Dall'Ongaro, né Poerio ponevano un fine economico all'arte patriottica. Volgare speculazione deve semplicemente giudicarsi quella del Niccodemi, che ha allegramente imbastito, con quella abilità che si è acquistata nel suo garzonato di autore rotto a tutte le piccole astuzie della scena, una commedia di palpitantissima attualità.

Quattro convenzionalità sono i personaggi: il bene assoluto (Marco Asciani), il male assoluto (Gilberto Guidi) suo cognato, l'innocenza sciupata (sorella di Marco), l'innocenza ingenua ed elementare (una bambina). Marco ha partecipato alla guerra con i suoi due figli; questi vi hanno lasciato la vita, egli l'ha scampata per miracolo, e sua moglie è morta di crepacuore. Uscendo dall'ospedale rinnovato di corpo e d'anima, mentre si dispone a diventare l'apostolo di una vita nuova, di una nuova morale, è travolto in uno scandalo di frodi in forniture militari. È Gilberto, l'uomo della preistoria, il bruto pieno di vizi, che essendo stato da lui posto a capo della propria banca, ha speculato sulla vita, sulla incolumità dei soldati per arricchirsi, per alimentare le sue basse cupidigie di gaudente. Marco perde nella crisi tutto il patrimonio, e mentre prima era chiamato titano per la ferrea volontà che esprimeva negli affari, ora si chiama da sé titano perché scopre che per fare il modesto impiegato è necessaria una forza morale ben maggiore di quella richiesta per fare il capitalista. Gilberto sparisce silenziosamente nella sorridente marina di Anzio, perché la coscienza gli è diventata una carceriera implacabile, e decide di non ritornare piú a galla; affinché la nuova Italia non veda piú la fisionomia del frodatore militare. Questa è la nuda trama, impolpata con le piú svariate zeppe di repertorio: una porta sfondata, un marito che sta per strangolare la moglie per farsi consegnare dei valori, un fratello che crede per un momento la sorella adultera col... marito, una requisitoria formidabile contro i fornitori militari, che ricorda la filippica contro i preti della Morte civile del Giacometti, una piccola Scampolo che come un pappagallino ammaestrato recita graziosamente le ingenuità piú artificiali di questo mondo, e cosí via.

Il colpo era sicuro. La tirata contro i fornitori, eloquente come una forbita orazione di avvocato fiscale, suscitò i frenetici applausi dalla platea (ingresso) e dal loggione; le poltrone e i palchi prudentemente si astennero. Gli attori non erano altro che fonografi, e non poterono per mancanza di materia prima, creare nessun carattere. Il Ruggeri è artista tale che si mantiene alto anche in simili spappolamenti teatrali; e il Niccodemi, come Gilberto della sua commedia, troverà nella sua coscienza la carceriera che lo punirà dall'aver speculato sul dramma nazionale, per raggiungere in poco tempo solo ciò che un onesto e lungo lavoro gli avrebbe dato allo stesso modo.

(18 maggio 1916).

Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al Carignano. Dopo qualche replica del Titano di Niccodemi, e del Piccolo santo di Bracco, martedí Ruggeri interpreterà per la prima volta fra noi, la piú difficile e complessa, forse, di tutte le tragedie di Shakespeare: Macbeth.

Dopo la sua personalissima interpretazione di Amleto, e anche perché ormai da molto tempo nessun altro attore ebbe il coraggio di misurarsi con un'opera di tanta difficoltà e responsabilità, questo Macbeth di Ruggero Ruggeri è atteso con immenso interesse.

E poiché i giudizi del pubblico e della critica milanese furono cosí vari e discordi, la seconda prova tentata a Torino potrà aver valore di giudizio di appello e decisivo.

(22 maggio 1916).

In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain Rolland ha incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento critico migliore della tragicità dell'autore inglese: «Shakespeare nel creare i suoi personaggi procede senza sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso riveste il suo pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; mai egli muove dal di fuori». Cadono cosí tutte le interpretazioni che del Macbeth la critica giornalistica ha recentemente cucinato per il grande pubblico. Non tragedia dell'orrore, né della paura, né dell'ambizione, come è stata volta a volta chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere, ben definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il dramma, e ne è l'eroe. È una volontà, cosí, senz'altro; volontà che riceve stimoli all'azione dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua personalità e fa propri, senza perdere un atomo della libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli uomini, e senza la quale non può esservi tragedia. Shakespeare lo ha posto in un ambiente storico, in un tempo e in luogo nei quali anche il soprannaturale era elemento della realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto perciò questo soprannaturale non è meccanico, non è astrazione fredda, non è ripiego comodo per trarre dai fatti elementi di successo; è certo esistenza, integrazione necessaria del dramma.

Vediamo svolgersi questo dramma con una logica interiore inflessibile. La predizione delle streghe del primo atto è l'inizio di esso. Macbeth è incerto in principio, titubante; la grandezza del destino che lo attende lo scrolla fin nell'intimo della sua umanità, fa traballare, ma non distrugge d'un tratto nella sua coscienza le leggi morali che ne sono la base granitica:

Quando

mi voglia re la sorte coronarmi,

essa pure dovrà senza il mio sprone.

Ma la realtà lo attanaglia; sua moglie è lo sprone della sua volontà incerta e vacillante. Lady Macbeth, creatura meno complessa, piú elementare, che appunto perciò il destino stronca cosí, semplicemente, senza trovare resistenza, è di quelle che tra il pensiero e l'azione non pongono intermezzo. Solo nel quarto atto, dopo che la causa scagliata da lui nel mondo ha prodotto effetti che egli non poteva prevedere, anche Macbeth si riduce a questa semplicità di concezione:

D'ora in avanti

i primi impulsi del mio cuor saranno

gl'impulsi di mia mano.

Macbeth ha a questo punto ritrovato se stesso: ma attraverso quali sanguinose esperienze! L'assassinio del re e dei suoi custodi ha fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L'abisso ha chiamato l'abisso, secondo la sua tragica necessità. La pazzia sembra afferrarlo per un istante con la tortura dell'ombra di Banco. Ma egli, nella sua forte volontà, vince questi richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un'ombra, preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta piú, non esita piú. Tutto gli diventa avverso, ma egli è sicuro della sua fortuna.

La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti. E Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni uomo a quella degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La morte di Lady Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle sue labbra; il suo cuore è impietrito; non vive che la volontà atroce.

Lady Macbeth soccombe alla visione dei fantasmi che ella stessa ha suscitato. È una debole, in fondo, che solo l'esasperazione fa diventare furia perversa. Come nel suo romanzo grottesco Chamisso impersona nell'ombra che è fuggita, la coscienza di Pietro Schlemil, Shakespeare rappresenta plasticamente nella morte del sonno il rimorso della donna. E il sonno uccide quel già vibrante fascio di nervi, nei quali la lampada della vita non dà che qualche incerto guizzo.

Il sangue cola a ruscelli in questa tragedia: si ha l'incubo del rosso nel riviverla integralmente. Re Duncano, le due sue guardie del corpo, Banco, lady Macduff, e tutta la sua famiglia muoiono e tutte queste morti sono necessarie nell'azione, fatali, date le premesse. Una orribile gorgona ha abbacinato Macbeth; Banco lo aveva subito capito, fin dalla prima previsione delle streghe:

Spesso a render certo

il nostro danno gli stromenti delle

tenebre il vero dicono e con lievi

cose ci attraggono per gettarci poi

nei piú oscuri raggiri.

Ma bisogna che Macbeth veda tutto il baratro, nel quale egli è precipitato per persuadersi di ciò. Bisogna che veda muoversi la selva, e che un uomo nato pei ferri del chirurgo lo turbi dimostrandogli vana la sua sicurezza. Solo allora il titano del male sente che tutto è crollato intorno a sé e ritorna debole, pauroso, uomo insomma. E la giustizia lo colpisce.

Ruggeri darà stasera il gigantesco lavoro di Shakespeare. È un avvenimento artistico, al quale non possono essere estranei anche i nostri lettori, i quali anzi perché meno intellettualmente corrotti, sono i piú degni d'avvicinare e di risentire i brividi di passione del tragico inglese. Potranno Ruggeri e i suoi collaboratori ridare integralmente questi brividi, questa vita intensa, anelante alla distruzione, alla strage infeconda? Vedremo.

(23 maggio 1916).

Vedere proiettata sulla scena, incarnata in persone operanti e parlanti, rinchiusa in un determinato orizzonte, un'opera che per noi è solo vissuta della vita delle parole, delle immagini che la fantasia ricrea, dei segni materiali della carta stampata, produce sempre un urto che non si riesce subito a superare. Qualche cosa si interpone tra voi e l'opera, una personalità estranea che diventa invadente, ingombrante talvolta, e alla quale bisogna abituarsi. Come tutte le opere di poesia, la tragedia di Shakespeare vive autonoma nella cerchia delle parole. La suggestione di vita non ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio fatale. Anzi. Ogni urto brutale con tutto ciò che è convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze dell'ora e delle possibilità interpretative, produce squarci dolorosi, mortificazioni umilianti. L'arbitrio direttoriale che toglie e riduce non può non essere sacrilego. L'opera deve rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita, dalla fantasia dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una personalità che è stata concepita in quel dato modo e in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la libertà crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth di Ruggeri e dimenticare alquanto quello di Shakespeare. E l'uno è infinitamente inferiore all'altro e l'adattamento non può avvenire con facilità, senza mortificazioni.

Ruggeri ha cercato per quanto gli è stato possibile, di ridurre la tragedia alla sua persona. L'ha modernizzata, in un certo senso, poiché le opere che egli è solito dare con piú successo, si conchiudono in un solo eroe, che come il tenore dei melodrammi diventa centro dell'universo. E Shakespeare invece è polifono: le azioni dell'eroe trovano risonanze in tutto l'ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di molti particolari nuoce, cosí, enormemente, alla rappresentazione dell'eroe stesso, lo rende meno vivo. Vedere davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale piú che il sentirla ricordare dall'assassino. Vedere come Banco sia fraudolentemente sgozzato, accresce l'orrore della rievocazione dello spettro. Vedere come fossero vivi lady Macduff, e i suoi figlioli, e come i sicari tronchino nelle loro gole la parola ingenua, il rimbrotto femminile, è necessario per l'effetto d'insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di sangue e d'orrore. Il tiranno è tale per i soprusi inumani che compie, non per le parole che escono dalle sue labbra. L'opera cosí scarnificata diventa un moncherino, grottesco talvolta. L'espressione di Macduff che rassomiglia la moglie e i figli a una chioccia ghermita coi pulcini da un avvoltoio, non avrebbe fatto ridere la platea se questa avesse avuto dinanzi agli occhi il quadro della strage compiuta freddamente dalla volontà del re.

Piccole osservazioni che si potrebbero moltiplicare se ciò non fosse inutile, e se noi non sentissimo per Ruggeri una grande gratitudine anche per il poco che ci ha dato, e che serve da stimolo per accostarci con piú amore all'opera. Come non servirà a nulla osservare che Ruggeri è cosí infetto di lebbra dannunziana vacua e declamatoria, che troppo spesso la sua riflessione critica ne viene sorpassata e annegata in una sentimentalità melodrammatica che stona terribilmente colla creatura di Shakespeare, né decadente, né ammalata di modernità floreale e liberty.

E il pubblico, anch'esso compenetrato dello sforzo che il Ruggeri, la Vergani, e gli altri hanno fatto, ha applaudito, e talvolta con vera convinzione.

(25 maggio 1916).

Sfogo necessario. Inizi di nuovi corsi di recite in tutti i teatri di Torino. Produzioni per tutti i gusti, o per meglio dire, per tutti i cattivi gusti. Mediocrità uggiosa, asfissiante. Torino è diventata una buona piazza per il trust che regola il mercato artistico italiano: vi si smerciano anche i prodotti piú indigesti. Eppure non dovrebbe essere cosí: la fortuna dei concerti di Toscanini, delle esecuzioni di Cavalleria dimostrano che la superiorità del prodotto, l'intenzione artistica non nocciono alla cassetta; tutt'altro. Ma Toscanini, Mascagni hanno dovuto essere invitati da una istituzione privata, in un teatro municipale, non ancora caduto in balia della bassa speculazione. Il trust ha ammazzato la concorrenza, ha rotto la molla che costringeva a dare il meglio se si voleva molto pubblico, e si è formata la palude, la marcita che favorisce prosperità ai girini e alle erbacce.

Scala decrescente di valori. Ma da che grado si incomincia a contare?

Al Carignano la compagnia Bondi-Orlandini, di nuova formazione. Demi-monde di A. Dumas, questo abile cesellatore di brillanti chimici, ha dato inizio al nuovo corso, che si annunzia breve. Disinvoltura meccanica, molte stonature nell'insieme artistico, qualche buono spunto che dimostra della buona volontà. Ma nient'altro; e per il Carignano è troppo poco.

Al Chiarella e all'Alfieri, operette. Cinema-star e la Signorina del cinematografo, pur dopo le grandi chiacchiere che hanno suscitato, e il fluire di tanto inchiostro patriottico, non riescono a sollevarsi dal pattume. La compagnia Caracciolo al Chiarella pone in linea qualche ottimo elemento, ma l'insieme persuade poco.

All'Alfieri quella Gattini-Angelini dicono non abbia avuto ancora occasione di mostrare tutte le sue qualità. Sarebbe tempo le mostrasse una buona volta, per cancellare l'impressione si tratti di una troupe di dilettanti che non conoscono neppure l'abbicci della scena.

Al Parco Michelotti, Casaleggio sciorina tutto un ricchissimo programma di novità. Sembrerebbe che il teatro dialettale non sia mai stato tanto in voga. Ma si tratta evidentemente di un falso allarme. L'esperienza del passato (i nomi sono sempre gli stessi) deve ben servire a qualcosa. Adesso Casaleggio ha trovato anche un'altra via dell'avvenire: il concorso. Che i numi preservino da altri malanni.

Ma gli applausi scoppiano lo stesso fragorosi. L'estate attutisce i sensi, il caldo fa ingurgitare anche i tamarindi fatti con prugne secche. Ha poi torto il trust di far di Torino il rifugio degli invalidi? Ognuno ha il governo che si merita; l'affermazione è vecchia, ma forse purtroppo, sempre d'attualità.

(4 giugno 1916).

Tina Bondi al Carignano. Una commedia che si fa sempre applaudire, La trilogia di Dorina del Rovetta, ha dato occasione a Tina Bondi di porre in valore alcune sue buone qualità di attrice, che il pubblico fu lieto di riconoscere e di applaudire. Niente di eccezionale, pertanto, o di rivelativo. La Bondi è essenzialmente una riflessiva e una volitiva, e ciò spiega come spesso non riesca a superare una freddezza esteriore che nuoce molto all'efficacia delle sue interpretazioni, e che si manifesta anche nelle intonazioni della voce e nella plastica degli atteggiamenti fisici. Ma d'altronde la rende interessante e le procura le simpatie che vanno sempre agli uomini, e alle donne, di buona volontà.

(18 giugno 1916).

Melanconie... Un preconcetto ancora solidamente radicato fa ritenere a moltissimi che il teatro sia uno dei tanti luoghi di divertimento piú o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza non deve ritenersi un danno, anzi per molti, i clericali, per esempio, deve ritenersi una fortuna. Perciò nessuno ha fatto rilevare e ha deplorato che a Torino da piú di un mese e mezzo non sia aperto nessun teatro degno di tal nome, e non si è domandato quale sia la causa dello strano avvenimento.

Perché non è certamente la guerra coi suoi contraccolpi che ha determinato la clausura. Al contrario, la mancanza di un ritrovo non banale ha dato luogo a un pullulare malsano di varietà e di canzonettisterie, nelle quali, per disperazione, vanno a finire tutti gli annoiati, non solo, ma anche tutti quelli che dopo una giornata di lavoro febbrile e pesante, sentono la necessità di una serata di svago, sentono il bisogno di una occupazione cerebrale che completi la vita, che non riduca l'esistenza a un puro esercizio di forze muscolari. Poiché questa è una delle ragioni che dànno un valore sociale al teatro. Accanto all'attività economica, pratica, e all'attività conoscitiva, che ci rende curiosi degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di esercitare la sua attività estetica. L'impastoiare questa è un limitare arbitrariamente la nostra personalità; ed essa si vendica, a nostre spese. L'astinenza artificiosa porta al vizio solitario: l'assenza di possibilità buone per la ricreazione intellettuale fa sfungare i ritrovi piú o meno osceni, dove si logora una apprezzabilissima parte di noi stessi e si pervertisce il gusto. A Torino una completa mancanza di spettacoli teatrali non si era mai avuta. Il comune stesso, quando era retto da uomini meno intellettualmente beceri, si preoccupava del problema, e a ragione. Quando il Carignano era ancora esercíto dal municipio, si facevano con le migliori compagnie dei contratti speciali che permettevano ai torinesi di sapere dove poter recarsi spendendo utilmente i propri quattrini. Il municipio si interessava di regolar lui la bilancia di tutte le attività cittadine; faceva ciò che dovrebbe fare ogni ente comunale che si rispetti, che prevede e provvede nella misura del possibile, a tutti i bisogni degli amministrati.

In seguito Torino si è abbiosciata, ha perduto completamente ogni fisionomia intellettuale. È diventata ormai, per quanto riguarda i teatri, una sezione del gran feudo del trust, che fa e disfà, ordina e scompone a seconda dei suoi interessi immediati, e quasi sempre, come avviene, anche contro i suoi interessi, per incapacità industriale e ristretta visione delle cose.

E cosí mentre città, non solo come Milano e Roma, ma anche come Bologna, Genova, Firenze, hanno completa la loro vita cittadina, da noi bisogna accontentarsi delle scemenze vernacole del parco Michelotti, o delle recite da circo equestre del Vittorio Emanuele. Naturalmente poi i benpensanti finiranno col domandare che un decreto luogotenenziale limiti e magari espella l'esercito di canzonettiste che ha invaso tutti i locali disponibili della città. Perché da noi si batte sulle dita dei bimbi che fan le bizze, e si fa la casistica del permesso e del proibito, ma non si cerca mai di dare le possibilità affinché i bisogni che trovano nella bizza o nel pervertimento l'unico loro sfogo, possano invece incanalarsi nei diritti e naturali loro alvei.

(21 agosto 1916).

Teatro e cinematografo. Si dice che il cinematografo sta ammazzando il teatro. Si dice che a Torino le imprese teatrali hanno tenuti chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il pubblico diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi. A Torino è sorta e si è affermata la nuova industria delle films, a Torino sono stati aperti dei cinematografi lussuosi, come non ce ne sono molti in Europa, e tutti i ritrovi del genere sono sempre affollatissimi.

Parrebbe quindi che ci fosse almeno un fondo di vero nella dolorosa constatazione che il gusto del pubblico ha degenerato, e che per il teatro si avvicinano dei brutti giorni.

Noi siamo invece persuasissimi che queste lamentele sono fondate su un estetismo bacato, e che si può facilmente dimostrare che esse dipendono da un falso concetto. La ragione della fortuna del cinematografo e dell'assorbimento che esso fa del pubblico, che prima frequentava i teatri, è puramente economica. Il cinematografo offre le stesse, stessissime sensazioni che il teatro volgare, a migliori condizioni, senza apparati coreografici di falsa intellettualità, senza promettere troppo mantenendo poco. Gli spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie; le produzioni piú comunemente date non sono che tessuti di fatti esteriori, vuoti di ogni contenuto umano, nei quali delle marionette parlanti si agitano variamente, senza mai attingere una verità psicologica, senza mai riuscire a imporre alla fantasia ricreatrice dell'ascoltatore un carattere, delle passioni veramente sentite ed espresse adeguatamente. L'insincerità psicologica, la bolsa espressione artistica hanno ridotto il teatro allo stesso livello della pantomima. Si cerca, e nient'altro, di creare nel pubblico l'illusione di una vita solo esteriormente diversa da quella solita di tutti, nella quale cambiano solo l'orizzonte geografico, l'ambiente sociale, dei personaggi, tutto ciò che nella vita è argomento di cartolina illustrata, di curiosità visiva, non di curiosità artistica, fantastica. E nessuno può negare che la film abbia per questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico. È piú completa, piú varia, è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in realtà sono anche nel teatro. Prendersela col cinematografo è semplicemente buffo. Parlare di volgarità, di banalità, ecc., è retorica bolsa. Quelli che credono veramente a una funzione artistica del teatro, dovrebbero invece essere lieti di questa concorrenza. Perché essa serve a far precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero carattere. Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di divertirsi (cioè di riposarsi cambiando il termine della propria attenzione) con una pura e semplice distrazione visiva: il teatro, industrializzandosi, ha cercato in questi ultimi tempi di soddisfare solo questo bisogno. È diventato un affare senz'altro, è diventato una bottega di paccottiglia a buon mercato. Solo per caso si dànno ormai produzioni che abbiano un valore eterno, universale. Il cinematografo, che quest'ufficio può compiere con piú agio e piú a buon mercato, lo supera nel successo, e tende a sostituirlo. Le imprese e le compagnie finiranno col persuadersi che è necessario cambiar strada, se vogliono continuare a esistere. Non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche piú modestamente un'opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono lavoro e attività per esser degnamente rappresentati, sono anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D'Annunzio, Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia piú adatta alla loro espressione. E le inutili, noiose, insincere tirate retoriche ritorneranno a essere letteratura, nient'altro che letteratura, morta e seppellita nei libri e nelle biblioteche.

(26 agosto 1916).

«Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans al Carignano. Come avvenne che un seminarista, mentre si trova sul punto di pronunziare i voti sacerdotali e diventare un umile servo di Dio, sia richiamato sotto le armi e mandato in trincea invece che in sanità, si addimostri uomo di fegato, cada nelle tentazioni della carne e prenda moglie.

La trama di questa farsa in tre atti, rappresentata dalla compagnia Sichel, non abbonda di finezze, né d'intreccio, né di sentimento, come tutte le farse. Prenderla sul serio sarebbe troppo ingenuo. Si propone di sollazzare piacevolmente, prospettando dei bozzetti cui la grande guerra che incombe non dà neppure l'ombra di una tragicità qualsiasi. Rosalia, la baionetta sanguinosa, diventa un eufemismo, senza traccia dell'acre ironia che vi possono mettere i soldati che ne sono i fidanzati. Il soldato ridiventa il solito tipo che Cuttica ha popolarizzato: cafone sempliciotto, che parla e opera per far ridere anche se non è piú il cappellone dei tempi di pace. La trama sentimentale del seminarista che si innamora e con l'aiuto delle circostanze sempre propizie, come si conviene all'eroe, riesce a pronunziare i voti terreni di marito esemplare, serve a collegare l'insieme ma non dà un'unità essenziale all'azione. Sichel, Rossi, Lotti, la Zucchini con la loro varia interpretazione, sempre piacevole e senza essere eccezionale, sono tuttavia riusciti a tenere l'attenzione sveglia e suscitare dei sorrisi benevoli e persino qualche risatella senza conseguenze. Perché non sarà certamente la guerra che farà diventare piú seriamente raccolti gli scrittori e tantomeno il pubblico.

(6 settembre 1916).

Sichel. È uno degli attori meglio quotati, a Torino. Mi dicono sia molto popolare e che persino sotto i portici gli ammiratori si fermino a osservarlo, e se lo additino sbirciando, e si ricordino scambievolmente i momenti di ilarità. Certo è che in questa stagione il Carignano è sempre stato affollatissimo, e gli spettatori hanno mostrato di divertirsi e Sichel è stato festeggiatissimo e ha avuto l'onore (come si dice) di molti applausi a solo, di molti segni di distinzione. Ma io mi spiego la curiosità nelle vie e tutto il resto, molto facilmente. E credo di non sbagliare. Ho domandato a piú d'uno: in che consiste l'arte comica di Sichel? Nessuno m'ha saputo rispondere, nessuno m'ha saputo definire una cosa della cui esistenza pure sembra si sia persuasi. Ho domandato: perché il repertorio della compagnia Sichel è cosí monotono, cosí uguale, cosí scialbo? e le commedie da essa date sono le peggiori del repertorio generale? E ho visto che la fama della bravura di questo attore non aveva davvero alcuna base seria. Perché gli ammiratori sorridono e si allietano anche nel vedere l'attore sotto i portici, cioè anche quando non riveste i panni di un personaggio comico? Perché la comicità di Sichel non esiste affatto come fatto artistico, non è qualcosa che possa essere descritto e criticato come fatto artistico, ma è solo un'impressione fugace, una suggestione esteriore, un superficialissimo fenomeno psicologico. Sichel ha trovato il suo train speciale, e a esso adatta tutte le parti che deve interpretare. È sempre lo stesso, conserva sempre la stessa espressione, la stessa faccia per tutti i personaggi. È sempre serio, e le commedie che dà sono sempre allegre. Sembra sempre una persona qualunque, una delle tante persone cosiddette serie che si incontrano sotto i portici, e dice invece delle cose che non sono serie; ha la faccia delle persone comuni, che perché comuni non sono né troppo imbecilli né troppo intelligenti, e i tipi che rappresenta con predilezione sono invece quelli di cretini nati, di idioti completi. Se la commedia non li vuole proprio cosí, l'attore pensa lui a completarli: ha una mezza dozzina di intercalari diversi, che ripetuti a sazietà... «basta intendersi!», «io capisco tutto!» ecc., dànno l'apparenza del cretino anche all'uomo piú furbo. Da questo contrasto, tra la serietà fisica e muscolare, e le parole, le situazioni cretine, nasce per gli spettatori l'impressione della forza comica dell'attore, il quale naturalmente, essendo sempre uguale, non può svestirsene neanche quando ridiventa il cittadino cav. Giuseppe Sichel, rispettabile come qualsiasi altro cittadino di questo mondo. E ciò basta per gli spettatori, i quali sono di buona pasta. Perdonano tutto, non vedono affatto tutto ciò che di meccanico c'è in questa apparente comicità. Si divertono e non cercano di piú: passano piacevolmente qualche ora e al teatro non domandano altro. Sichel è l'attore fatto apposta per i pubblici di mediocre levatura. Appiattisce tutto, mediocrizza tutto, anche la banalità, la volgarità della pochade. E si merita pertanto gli applausi a solo, i segni di distinzione. Come dicono gli inglesi: è l'uomo piú adatto per il ruolo che piú gli si adatta.

(23 settembre 1916).

Giulio Tempesti al Chiarella. La compagnia di Giulio Tempesti aveva annunziato cinque recite straordinarie con cinque produzioni diverse. Il successo della prima sera ha fatto replicare la Cena delle beffe.

La meteora benelliana non accenna ancora a tramontare. La virtuosità personale del Tempesti riesce ancora a tener su un castelletto di carta pesta e di stucco cinquecentesco, e a far inghiottire non solo, ma anche a far applaudire le lunghe declamazioni del poema drammatico di Sem, che fanno rimpiangere anche la noiosa novella del Grazzini saccheggiato dall'autore. Il Tempesti, che è l'attore benelliano per eccellenza, e nel quale la vuota declamazione è diventata abito artistico, continua stasera a prodursi nel Napoleone del Pelaez d'Avoine e si completerà con la Morte civile di Pietro Giacometti.

(28 settembre 1916).

«Le due sponde» di Poggio all'Alfieri. Commedia piccolo-borghese a tesi. L'autore polemizza nientemeno che con Giorgio Ohnet per ciò che ha voluto dimostrare nel Padrone delle ferriere. E drammatizza un fatto diverso, in cui le persone rivestono caratteri rappresentativi di classe. La tesi è banale tanto quanto quella del romanzatore francese. Le due sponde sono l'aristocrazia e la borghesia, fra le quali sarebbe impossibile gettare un qualsiasi ponticello sentimentale, senza crisi e disastro a breve scadenza. Le persone sono naturalmente scelte bene: una marchesina pettegola e capricciosa e un ingegnere lacrimoso, figlio di un non meno lacrimoso repubblicano che riesce a far entrare in ogni cosa i santi principî. Noiosi tutte e tre, e determinanti una vita comune cosí noiosa da non trovare nell'adulterio che la piú aspettabile delle soluzioni. L'ultima scena, in cui dalle labbra del vecchio scocca una parola a effetto sicuro, «sgualdrina», rivolta a una donna che è per l'autore solo un'aristocratica, ha salvato l'intiera commedia dalla caduta altrimenti immancabile.

(29 settembre 1916).

«Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano. Quando Alfredo De Sanctis presentò per la prima volta questo lavoro di un giovanissimo scrittore polacco, da qualcuno fu fatto il nome di Shakespeare, come punto limite di riferimento critico. Ma si è ben lungi dalla rivelazione clamorosa di un genio drammatico, e si è specialmente ben lungi dalla giustificazione della levata di scudi tentata da qualche altro contro il crudo realismo dell'autore. Il quale pone sulla scena un bordello, e gente da bordello. Ma senza esagerare, con molte cautele, come sfondo scenico e morale piú che come macchina drammatica intimamente necessaria.

Il dramma è nella coscienza del vecchio ebreo Jankel Scepsiovitische; egli è riuscito a salvare nel naufragio della sua vita di speculatore del piacere almeno un sentimento, elementarmente umano: l'amore per la figlia, dalla quale il suo spirito intimamente religioso aspetta la redenzione. E il dio della sua razza lo punisce in questo amore, in questo residuo di umanità. La vergine è avvelenata dall'ambiente vizioso: l'esempio della madre, il contatto con donne della casa hanno pervertito il suo spirito, e senza rivolte, senza ribellioni, naturalmente, ella cade in peccato. I tre atti non sono molto complessi, né molto densi di drammaticità. Un solo carattere rigidamente scolpito e profondamente vissuto: il vecchio padre. In lui si esaurisce l'azione. La materia putrescente della casa di tolleranza è presentata rivestita di un blando romanticismo di maniera, senza troppe parole, è vero, anzi di una scheletrica rappresentazione che in qualche momento impressiona, ma anche senza una giustificazione intima. La lotta è tra l'ebreo Jankel che crede, e il vecchio dio che travolge la sua credenza, ricacciandolo nel fango. Alfredo De Sanctis ha posto bene in rilievo questo unico carattere del dramma: l'ultima scena, della rivolta del vecchio contro l'implacabile Jehova, è stata un vero trionfo per l'attore che nella sua misura e correttezza è stato di una efficacia stupefacente. Un altro attore si è fatto notare: il Bissi, nei panni di una figurina umoristica del mondo ebraico, sbozzata con vivacità e completa di vita rappresentativa.

Il dramma ha conquistato lentamente: ma si è imposto per ciò che in esso è di vitale. L'ultima scena, la scena culminante dell'azione, ha procurato agli attori cinque o sei chiamate.

(21 ottobre 1916).

«Robespierre» di Sardou al Carignano. Un dramma inedito di Sardou, e su Robespierre. Teatro affollatissimo; il pubblico s'interessa vivamente alle produzioni teatrali che ricostruiscono un periodo storico, che promettono la ricostruzione completa, con persone vive e parlanti, di un periodo storico che impressiona vivamente anche nella narrazione impersonale, in cui gli avvenimenti sono logicamente ordinati secondo il principio di causalità, e i singoli perdono molta parte della loro individualità attiva, e appaiono solo per ciò che di fattivo hanno creato e lasciato. Ma il dramma di Sardou, a parte l'elemento artistico completamente assente, non ha mantenuto nessuna promessa. Il Robespierre della storia dà solo il nome al lavoro; di ciò che è la sua personalità di rivoluzionario non è dato nulla, se non una melensa rappresentazione di terrore dei morti, delle ombre dei decapitati. Sardou immagina attorno a Robespierre un dramma dei soliti: il dramma della paternità violentata. E costringe la storia entro questa sua trama: Massimiliano, nei giorni del terrore, ritrova un figlio natogli da una aristocratica, e lotta per salvare dalla ghigliottina il giovane e sua madre. Ma l'odio e la paura che egli ha seminato intorno a sé tendono continuamente agguati al suo sentimento paterno, e come supremo oltraggio, armano la mano del figlio contro il padre. Ma l'abile sceneggiatore francese non riesce a far dimenticare il Robespierre ormai fissatosi nelle coscienze attraverso la storia: il dramma che egli escogita per cercare effetti sensazionali, rimane una superficiale successione di scene e di dialoghi, che dovrebbero apparire drammatici per il protagonista quale storicamente è conosciuto, e il quale è invece completamente svuotato della sua piú vera e concreta vita, quella di rivoluzionario. Cosí i cinque atti e due quadri passano nella loro puerile e convenzionale meccanicità teatrale, applauditi mediocremente e finiscono nell'ultima scena, quella del parricidio, senza che quest'ultimo colpo riesca piú a scuotere e commuovere. Sardou ha fatto violenza alla storia, ha posto in iscena un Robespierre di sua invenzione, che avrebbe dovuto essere piú uomo e meno personaggio; ma non ha saputo crearlo, quest'uomo, e ne è venuto fuori un fantoccio ridicolo.

Alfredo De Sanctis ha molto contribuito con la sua arte, a tener su il lavoro, ma molto spesso anch'egli, per la refrattarietà della materia, è stato convenzionale.

(29 ottobre 1916).

«La nemica» di Niccodemi al Carignano. Dario Niccodemi si è costruito un mito teatrale. Ed esso serve a spiegare in gran parte il successo spettacoloso dei lavori del fortunato scrittore italo-francese. Viene da ripensare alle idee di Riccardo Wagner sul dramma musicale, e al suo rifugiarsi nella mitologia medioevale germanica, per poter dare il massimo di realismo poetico alle creature della sua fantasia, per rendere piú sostanzialmente suggestiva la sua musica, trasportando l'uditorio in un mondo soprannaturale, nel quale il linguaggio musicale sia immaginato possibile e naturalissimo. Ma ciò che nel Wagner è ricerca affannosa di maggiore sincerità fantastica, nel Niccodemi è mezzo di successo. Il suo mondo mitologico è l'aristocrazia; il pubblico che affolla i teatri e rende redditizia la professione di scrittore drammatico è la piccola borghesia. L'insincerità di Dario Niccodemi cerca la sua giustificazione, cerca di rendersi naturale e possibile mitizzandosi. Una idea morale, elementarissima, o che riesca a far presa subito sul pubblico sentimentale, pronto a commuoversi e a diventare salice piangente, diventa sostanza di dramma non per forza propria, per la sua profonda umanità, ma perché serve di cauterio e distacca due classi, due concezioni quanto mai fittizie e artificiali: quella aristocratica e quella piccolo-borghese. Gli urti che ne derivano, i discorsi che è possibile far fare, le predichette, tutta la cattiva letteratura degli scrittori sociali del basso romanticismo francese come Eugenio Sue, o Dumas figlio, si dànno accolta e toccano il cuore, e strappano l'applauso. Cosí nell'Aigrette, cosi in questa nuovissima Nemica. La ficelle è sempre la stessa. Nella Nemica la macchina è anche piú complicata, e i precordi vengono piú violentemente scossi. Roberto di Nièvres è odiato da sua madre; una fanciulla che lo ama, la figlia di un notaio che vorrebbe diventare duchessa, respinta da lui, gli rivela un mistero: Roberto è figlio di un amore colpevole di sua madre, è un intruso, che ha usurpato al secondogenito la ricchezza, il titolo, tutte le fortune e i sorrisi della vita. L'anima medioevale della madre odia in lui la colpa, l'usurpazione. Grande colpo. Il Niccodemi aveva evidentemente su questa deviazione feudale dell'animo di una madre impostato il suo lavoro. Altrimenti non si capirebbe il personaggio del notaio Regnault, depositario di tutti gli scandali aristocratici e che è introdotto a posta per preparare l'urto tra madre e figlio. Ma nel secondo atto il dramma si complica e raggiunge il colmo del successo esteriore.

Nella scena culminante Roberto viene a sapere che Anna di Nièvres non è sua madre affatto, che egli è un figlio naturale del duca morto. La rivelazione della figlia del notaio non era esatta, ma è servita magnificamente per la progressione degli effetti. Nel terzo atto lo scioglimento è coordinato con la guerra. Roberto e suo fratello Gastone vanno a combattere: Gastone muore, e l'ultima sua parola «mamma» riallaccia i legami tra Roberto e Anna di Nièvres; Roberto ritrova una madre. L'effetto era sicuro, e il successo fu grande, anche per la buonissima interpretazione della compagnia Di Lorenzo-Falconi. L'analisi fatta in principio è l'unica che si possa fare: bisogna giustificare il successo, poiché non lo si può spiegare con ragioni che interessino da vicino l'arte.

(9 novembre 1916).

«La madre» allo Scribe. Una famiglia di provincia. Padre, madre e un figlio di trent'anni. Dissidio fra i coniugi: il signore ha sedotto una domestica e ne ha avuto un figlio di ormai venti anni, e la signora dopo questo tradimento coniugale si è chiusa nel suo orgoglio di moglie ferita e nell'amore della legittima prole. Siamo in piena guerra europea e all'inizio della guerra italiana; la terza categoria del 1885 non è stata ancora chiamata. Vittorio, il legittimo, che ha letto molti articoli della «Gazzetta» e se ne serve con molto vigore nelle conversazioni e nelle discussioni, non vuole attendere e si arruola. La fidanzata lo ammira, ed è fiera di lui, il genitore e il futuro suocero anch'essi; la madre, Clara, no, e ci vuole tutta una rievocazione di carta stampata per convincerla a fare la madre spartana. Al secondo atto scoppia il dramma, Vittorio si incontra al fronte con Pietro, il fratello naturale di cui ignora l'esistenza, e un misterioso fluido li avvicina, li affratella: quando si dice la voce del sangue!... Pietro è gravemente ferito; suo padre è disperato e non può dimostrare il suo dolore per non colpire la suscettibilità di sua moglie. Ma questa, nel dolore, si è purificata; ogni orgoglio umano è caduto. Si riavvicina al marito, incomincia ad amare attraverso suo figlio, l'altro, l'intruso, e perdona e piange e tutti piangono, e gli animi di tutti sono diventati una dolcissima marmellata che fa piangere di consolazione tutti come tanti vitellini. E Vittorio muore, gloriosamente, mentre Pietro ritorna, anch'egli riabilitato del suo giovanile sovversivismo, e la domestica traditora, sua madre, rientra nella casa dei suoi antichi padroni, e Pietro descrive, proprio come un inviato speciale, la presa di Gorizia, e la morte del suo amico, e un nuovo alito di bontà spira su tutti i cuori, e ci si sente tutti rimminchioniti per tanta dolcezza, per tanto candore, e si ringrazia il buon Dio che da tanto male, tanto bene ha saputo trarre, irrorandone i cuori, facendo di questi altrettanti vasi d'elezione.

Il teatro non era molto affollato: il successo esteriore fu notevole. La commedia è presentata con abilità. La declamazione fatta in dialetto, perde una gran parte della sua retorica: e del resto nel lavoro non tutto è retorica, e qualche piccola scena è realmente efficace. Tra i personaggi di contorno c'è un alpino gianduiesco, volgarmente e popolarescamente eroico, reso con tutta la volgarità possibile da Mario Casaleggio, tutto da ridere. Cosí la mozione degli affetti è completata, e l'anonimo autore che abilmente si è saputo servire del materiale emotivo d'attualità, è stato ampiamente premiato delle sue fatiche: cinquecento lire, una medaglia d'oro e il cumulo di pettegolezzi e di ipotesi sul suo anonimo. Quanto basta per rendere felice un letterato anche se dialettale.

(12 novembre 1916).

Armando Falconi. Non so se Armando Falconi sia, come si dice nel gergo dei cronisti teatrali, un figlio dell'arte. Non sono uno schedaiolo della cronaca, un documentario, e mi manca la pezza giustificatrice in proposito. Ma, del resto, ciò poco importa. L'atto di nascita non spiega molto, in fondo, sulle qualità di un individuo. Conoscere l'ambiente in cui un carattere si è formato, spesso non serve ad altro che a trarre in errore. Ciò che importa è accertare se questo carattere esiste veramente, e quale ne è il peso specifico, la individuazione specifica. Trattandosi di un attore drammatico, ciò che importa è accertare se egli da attore è diventato artista, se veramente la sua umanità si distingue da quella degli infiniti altri mortali per la capacità di ricreare gli individui concreti che la fantasia degli scrittori crea, per la capacità di dimenticare in questa ricreazione se stesso come tal dei tali, per assorbire, assimilare ed esprimere integralmente tutti quegli elementi di individuazione concreta coi quali lo scrittore ha realizzato la sua intuizione drammatica. Ma come esistono pochi uomini che siano dei caratteri dal punto di vista morale, cosí esistono pochi attori che siano artisti, cioè caratteri dal punto di vista della vita artistica. Il dolersene sarebbe perfettamente inutile: e il far credere il contrario può esser solo compito dell'ipocrita cortigianeria giornalistica, che di ogni villan che parteggiando viene, fa un Marcello (esempio recente Antonio Salandra) come di ogni istrione che dirige una compagnia e sa condur bene i suoi affari, fa un Salvini o una Ristori.

Con ciò non si dice che anche gli altri non siano necessari, e in quanto esplicano un compito necessario, non siano rispettabili. Bisogna però rimetterli al loro posto, ecco tutto, e avere una coscienza chiara del loro valore, e della loro attività. Ciò per tutte le espressioni di vita, quella morale come quella artistica. E questi altri si possono classificare, dividere in categorie, perché la loro persona si confonde nel grigio di una collettività, le loro caratteristiche non riescono a farli emergere dalla folla di simili, il loro vario atteggiarsi costituisce una serie, precisamente come avviene nella industria meccanica. Sono sempre la stessa ruota, la stessa valvola, lo stesso bullone, che può applicarsi indifferentemente a un centinaio o a un migliaio di macchine diverse. La serie per gli attori drammatici si chiama ruolo: e il ruolo al tempo della commedia dell'arte, si chiamava maschera. Ciò che nel gergo dei cronisti teatrali si chiama figlio dell'arte, non è che la espressione moderna di un fatto di un antico passato: figlio dell'arte vuol dire maschera. Ecco perché ho incominciato domandandomi se Armando Falconi apparteneva anche per lo stato civile a questa rispettabile categoria. Perché, anche se per avventura, il suo albero genealogico fosse bianco per questo rispetto, egli non apparterrebbe meno alla categoria. Egli che si è fatto una maschera della comicità; una maschera, cioè qualcosa di inarticolabile e di immutabile: qualcosa che solo casualmente diventa espressione, perché casualmente la smorfia continuata può anche essere espressione di una vita, ma che altrimenti non è che smorfia, che trucco esteriore. Il quale può anche piacere, può anche far ridere e procurare il successo, ma non fa arte, non è un fatto estetico, è semplicemente un fatto commerciale. Necessario, in quanto anche la produzione drammatica è in grandissima parte un fatto commerciale, e perciò rispettabile. Ma il rispetto non può cambiarsi in ammirazione, e tanto meno in ammirazione per un altro fatto che non esiste. Pensateci bene e vedrete che ho ragione. Come ho avuto ragione a fare delle digressioni, poiché dovendo parlare di un fatto che non esiste (Falconi artista) ho dovuto fare delle premesse che togliessero alla conclusione ogni apparenza di malignità e di ipercritica.

(8 dicembre 1916).

«... e chi vive si dà pace» di Novelli al Carignano. Una rappresentazione vivace e colorita di un piccolo mondo di campagna, che vive gagliardamente la sua piccola vita, senza sottilizzare intorno a essa, senza smarrirsi nell'autoanalisi esasperata. Rappresentazione, non inquieta morale e psicologia dialogata; perciò arte, anche se i momenti in cui essa si afferma in valori definitivi, non siano troppo numerosi. O piuttosto esperimento, tentativo artistico, nel quale si rivelano le possibilità di una piú congrua solidificazione complessiva. Lo spunto è tenue e semplice. È la storia di un uomo che dopo la morte di sua moglie, si rifà una casa ritrovando nella donna di servizio la compagna che gli è necessaria per riempire la solitudine. Si arriva alla conclusione attraverso una serie di quadretti, sbozzati con abilità e sicurezza, cui dànno colore oltre che la bonaria sete di vivere del protagonista, la malizia gaia della donna, o gli intrighi di una madre che vorrebbe accasare la sua figliuola e l'intervento di un amico di casa che postilla col suo sorriso paesano lo svolgersi degli avvenimenti e l'adattamento graduale alle necessità della vita del vedovo, che subito dopo la morte della moglie diceva di volersi persino ammazzare.

Il Novelli ha trovato nella compagnia Di Lorenzo degli interpreti efficacissimi per il suo lavoro. La Di Lorenzo, il Falconi e il Biliotti hanno dato il massimo risalto ai personaggi, coadiuvati ottimamente dagli altri. Gli attori e l'autore furono molte volte chiamati alla ribalta.

(15 dicembre 1916).

«Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe. Non sono poche le disgrazie che hanno afflitto la memoria e il nome dello statista piemontese. Da quelle procurategli dai suoi sedicenti continuatori in politica, alle piú recenti che hanno tratto la figura di Cavour a calcare le scene nelle truccature degli attori degni e indegni a seconda del caso. G. B. Ferrero nei suoi cinque atti ha recato l'estremo oltraggio allo statista; l'ha rimpicciolito a macchietta regionale, a macchietta dialettale, e Mario Casaleggio ne ha assunto la parte, con quella serietà di intendimenti che poteva aspettarsi da un istrione della sua fatta. Cinque atti, un autore dialettale, Mario Casaleggio! E non esiste nessun nume che preservi le figure storiche rispettabili da questi oltraggi degli ammiratori da strapazzo!

(20 dicembre 1916).

Tina Di Lorenzo. Esiste un pregiudizio, ancora radicato in molti, sebbene battuto in breccia dalla categoria degli uomini che pensano. Per esso si classificano gli uomini e li si giudica a seconda dei caratteri comuni che essi mostrano di avere tra loro. Si segue precisamente il criterio proprio delle scienze naturali, che devono classificare le piante e gli animali e non possono farlo che a seconda delle forme appariscenti alla superficie di questi esseri. Ma la classificazione non è precisamente la forma di conoscenza che deve adottarsi con gli uomini, né il riuscire a fissare dei tipi (serie di esseri simili rappresentate da esemplari che ne sintetizzano le caratteristiche) è una forma di giudizio. Perché negli uomini, che noi possiamo studiare e conoscere anche nelle loro qualità individuali, ciò che piú interessa è precisamente l'individuo e il complesso di doti che lo fanno inconfondibile nella specie: che lo rendono insostituibile da qualsiasi altro esemplare della sua specie. Se ciò si può dire degli uomini in genere (e ogni uomo, anche il piú comunemente detto comune, ha qualcosa che lo rende in sé interessante) si deve dire specialmente di quel certo numero di essi che estrinsecano la loro attività attraverso forme di vita in cui la fantasia creatrice ha il predominio assoluto sulla logicità. Se la logicità può ancora dare modo di stabilire delle categorie (scuole, costumi, ecc.) la fantasia non è che prettamente individuale. E gli attori di teatro, quando sono artisti, sono appunto di questo numero di individui. E Tina Di Lorenzo è di essi. Perciò non può essere classificata neppure in quella categoria, lusinghiera apparentemente, dei grandi. Perché dire grande vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a dei confronti, classificare. E invece l'artista non è grande o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio può essere rivolto solo alla osservazione del come lo sia, può essere rivolto a stabilire il come si svolge questa sua particolare attività, che è tutta lui, che è ciò che ci interessa. Cogliere l'attimo vivo, abbandonarsi al fluire di questa vita, e risentirla in sé come qualcosa di solidamente compatto, che si impone all'ammirazione, che ci domina in quel momento, come fosse tutto il mondo, il solo mondo esistente. A noi basta affermare nella Di Lorenzo l'esistenza di questa attività fantastica. Essa si afferma concretamente ogni qualvolta il lavoro da interpretare le dà la possibilità di ricreare una donna che veramente abbia vita. La Di Lorenzo riesce a calarsi nel suo animo, a intenderne la necessità psicologica, e diventar lei.

Ogni opera drammatica è una sintesi di vita, è un frammento di vita. L'artista deve continuare il lavoro fantastico dell'autore. Nella sintesi, nel frammento deve sentire la continuità, l'accessorio, l'alone che circonda la luce, ciò che è vita diffusa, ma sentirlo in relazione all'esistente creato dall'autore, sentirlo come lo sentiva la fantasia dell'autore quando scriveva quelle tali parole. Perché dovendo dare vita fisica, reale persona alla bocca che pronunzia quelle parole, deve creare un accordo, un'armonia, solo dalla quale scaturisce la bellezza. E questa bellezza scaturisce dalle interpretazioni della Di Lorenzo. E la suggestione è accresciuta da altri fattori. Principalissimo un fascino speciale, diffuso in tutti i momenti dell'attività dell'artista, che riesce a incatenare l'attenzione anche quando la materia sorda, imposta dalle necessità pratiche della professione e del mercato, non le permette un lavoro definitivo di creazione. È un fascino difficile da definire, difficile perché il costume non libero dai pregiudizi della morale volgare, dà apparenza di volgarità a ciò che non è certamente tale che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si esprime con la parola banale di femminilità.

Ma non è possibile nella cronaca fare piú che delle affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare l'osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare un po' la loro retina da certi pregiudizi.

(22 dicembre 1916).

«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri. Cerchiamo invano in questi nuovissimi tre atti dialogati di Roberto Bracco un punto di appoggio, una giustificazione delle parole e dei gesti che sentiamo dire e vediamo fare dai personaggi. Il dialogo si esaurisce in se stesso, è solo vuota declamazione, i gesti sono solo irritazione di muscoli motori, non segni fisici di un linguaggio interiore. I tre atti sono un susseguirsi disorganico e disordinato di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la fantasia dell'autore riesca ad attuare la sua intenzione rappresentandosela in una azione concreta e avvincente. Sentiamo che questa intenzione è diffusa blandamente in tutte le parole, le discussioni, le declamazioni retrospettive, e passiamo di illusione in disillusione, sempre in attesa che la sfinge riveli il suo enigma, e convincendoci infine che la sfinge è solo una larva di stucco e non racchiude alcun enigma. L'esposizione dell'intreccio può perciò dare solo un'idea di questa volontà che non ha trovato uno sbocco. Il dramma avrebbe dovuto scaturire dall'urto di tre personaggi. Una giovinetta, Mirella, che nel primo atto sembra debba promettere tutta una serie di impressioni vive e liete di colori sgargianti, ma che in seguito si affloscia e diventa una figura lattiginosa, dolciastra, senza anima. Due uomini: Luciano D'Alvezza, un gaudente, un amorale, un conquistatore di donne, che affoga negli imbrogli e per liberarsi dal fango che sta per sommergere il rudere del suo blasone marchionale, va volontario alla guerra, ma non senza aver cercato all'ultima ora di usare violenza a Mirella. E Michele, contraltare di Luciano, lavoratore indefesso, volontà e costanza di ferro, il quale si innamora di Mirella, si promette a lei, crede per un momento di aver costruito definitivamente la magione austera della sua felicità. Il lavoro, che a mala pena era riuscito a puntellarsi fino a questo punto, precipita definitivamente nell'incognito indistinto. I rimasti, Mirella e Michele sono ormai solamente dei bambocci-fonografi. Dalle parole che si scambiano dovrebbe apparire come qualmente Mirella è preda di una fatale passione per il lontano eroe che muore al fronte per una salva di aggettivi, e come qualmente Michele non vuole usurpare nel cuore della donzella il posto che il lontano amante vi ha preso. La fine cosí verbosamente impiastricciata ha suscitato qualche sibilo e molte proteste. Gli ottimi artisti della compagnia di Luigi Carini, che avevano preparato un'interpretazione degna di un bel lavoro, non potevano che far apparire mortificate le loro qualità.

(29 dicembre 1916).

«Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri. Il cartellone della compagnia di Luigi Carini annunzia la prossima ripresa del Matrimonio di Figaro, cinque atti del Beaumarchais. La vecchia commedia è stata già applaudita l'anno scorso nella efficace interpretazione che la stessa compagnia offrí al pubblico torinese in un altro teatro. Ne facciamo cenno ai nostri lettori per due motivi. La commedia del Beaumarchais è una autentica opera d'arte, e per chi vuole affinare il proprio gusto niente vale di piú dell'accostarsi simpaticamente a un capolavoro genuino, integrale, in cui ogni parola, ogni atto, ogni personaggio ha intensa vita artistica, in cui non si bada all'effetto, al successo, ma la sincerità e la spontaneità sono qualità precipue. E la commedia del Beaumarchais è documento storico di primo ordine. Essa mostra in azione, vivente di immortale bellezza, la società francese prerivoluzionaria. I rapporti sociali, le condizioni di alcune categorie di individui, i costumi, le idee dominanti appaiono nella loro realtà dinamica, materiate e concrete nella vita vissuta, soffuse di una gioconda gaiezza, vivificate da una ironia profonda e corrosiva. I cinque atti, per l'efficacia culturale, sia storica che artistica, equivalgono a un intiero corso di conferenze e a qualsiasi profondissima disquisizione sull'essenza dell'arte.

(4 gennaio 1917).

«L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona Traversi al Carignano. La compagnia Borelli-Piperno ha già presentato due esumazioni del teatro italiano quasi contemporaneo. L'ondina di Marco Praga e Le Rozeno di Camillo Antona Traversi. Due lavori pleonastici, che hanno rivissuto e rivivranno per alcune sere di quella effimera vita alla quale erano destinate. Che ci fossero o no, a nessuno era importato finora e a nessuno importerà per l'avvenire. La necessità di variare il solito menu, ora che la guerra impedisce la superproduzione di novità francesi, le ha fatte rispolverare, e il ristabilirsi in equilibrio della bilancia le farà riscomparire. La commedia del Traversi è la piú massiccia e pesante delle due. È una macchinosa concezione che si fa tiepidamente applaudire perché costruita su uno dei motivi sentimentali di piú facile presa: la maternità che mantiene puri i suoi affetti anche attraverso la putredine dell'ambiente sociale e familiare. Accoglienza glaciale ai primi due atti; e stentati applausi agli ultimi due.

(4 gennaio 1917).

Luigi Carini. Il carattere si rivela nell'individuo attraverso una serie di atti intimamente omogenei, quantunque distinti l'uno dall'altro per la coloritura occasionale determinata dalla spontaneità. Studiare un carattere vuol dire quindi rivivere questi atti singoli, trovare per ciascuno di essi il particolare fremito di vita fisica che meglio risuoni col loro significato spirituale, e nel distinto comprendere l'omogeneo, nel tortuoso zig-zag dell'azione trovare la linea dorsale che unifichi l'azione stessa in una personale vita. Nell'opera artistica di Luigi Carini l'osservatore attento sorprende facilmente i mirabili risultati di un simile lavoro di critica sottile. Ma carattere non vuol dire gesto eccezionale, o, almeno, solo gesto eccezionale. Carattere è invece piuttosto continuità; e la continuità la si ritrova nei piccoli atti piú che nei grandi, nei piccoli episodi, piú che nelle grandi situazioni drammatiche. Le possibilità d'arte di un attore si misurano in questa continuità, nella capacità che egli possiede di dare impronta omogeneamente distinta a una continuità di piccole cose. Questa capacità esuberante dà a Luigi Carini un posto ben distinto nella storia dell'arte di teatro. Essa gli nuoce un po' nella conquista dei grandi successi. Perché di solito si rimane estasiati di fronte alle congestioni muscolari e sanguigne degli atleti da cinematografi, mentre la forza serena e tranquilla fa rimanere un po' freddi. Ma il torto è di chi va in estasi o rimane freddo, non dell'uomo forte. La grandiosità apparente di una grande mole riempie la pupilla senza eccitare la fantasia. Il minuto lavoro del cesellatore, compiuto nei particolari, eccita la fantasia dopo aver occupato la pupilla, ma deve essere studiato con serietà, si rivela nella sua perfetta bellezza solo agli spiriti che se ne sappiano rendere degni. Bisogna accostarsi con simpatia benevola, e con l'arco dell'attenzione ben teso. Cosí come bisogna fare per le interpretazioni del Carini. E non già che egli non sappia montare le situazioni fortemente impressionanti e non sappia raggiungere gli acuti e spasmodici culmini della drammaticità. Ma da artista che sente la dignità dell'arte sua, non abusa di queste droghe piccanti. E si tiene nei limiti dell'umanità normale, riuscendo lo stesso, e anzi piú efficacemente, a far risentire l'angoscia piú profonda e la gioia piú spirituale. La congestionabilità non rompe affatto la monotonia, né il volume è grandezza. Un bassorilievo di Donatello è meno monotono della piazza di S. Pietro con tutte le sue enormi fughe di enormi colonne e il mostruoso volume dello spazio occupato nella superficie del mondo e nell'orizzonte del cielo. Il ritmo dell'uno è piú incalzante e piú vario del ritmo della seconda, e contiene un numero maggiore di momenti di intensità espressiva. Si pensa a tutto ciò ascoltando sulla scena il Carini, seguendolo con attenzione raccolta nel suo sempre vario atteggiarsi, che è volta a volta però un atteggiarsi unitario, e vedendo come il lavoro critico di riflessione sulla parte assunta diventi spontaneità, ingenuità nel migliore significato di questa parola. Sono mezzi espressivi molto semplici nell'apparenza, ma che rivelano un lavoro delicato e sottile di scelta, una padronanza sempre vigile anche quando l'abbandono è massimo.

Sono queste qualità che permettono al Carini di assumere ed esprimere con intensità pari delle parti disparate per il contenuto sentimentale. Figaro nella commedia del Beaumarchais o Claudio nella Moglie del Dumas: il gaio amatore di novità che è lodato dagli uni e biasimato dagli altri, che ride degli sciocchi e sfida i malvagi, che ride di tutto per paura di essere obbligato a piangere, e lo scienziato umanitario, l'inventore di armi sempre piú perfette che con la perfezione dei mezzi distruttivi tende all'instaurazione della pace universale e uccide la moglie viperina non per i suoi tradimenti coniugali, ma perché tradisce la patria. Due uomini, pertanto nella loro antipodica costruzione, e che dànno all'attore la stoffa necessaria per interpretazioni nutrite di elementi espressivi pieni di finezza e aderenti perfettamente a degli individui di carne e ossa.

Il Carini è del numero di quei pochi attori che fanno amare il teatro e che non abbassano la loro arte al livello del circo equestre e dello schermo cinematografico. E a lui perciò abbiamo voluto, con queste linee, fare omaggio.

(16 gennaio 1917).

«Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano. Sacha Guitry, oltre che uno scrittore di teatro, è anche un uomo di spirito. I suoi lavori, oltre che opere d'arte, piú o meno perfette, piú o meno compiute in tutto il loro svolgimento, si distinguono per la genialità inventiva dell'autore. Sono piccole cose dal punto di vista dell'intreccio esteriore e della complicazione psicologica. L'autore fa dire ai suoi personaggi che la vita non è complicata che per coloro i quali da lontano vedono solo i momenti culminanti di essa, e questi accumulano in breve spazio di tempo fingendo cosí una condensazione che nella realtà non esiste. Pertanto nelle sue commedie, come in questa, rappresenta dei momenti di vita in cui l'azione fisica è sostituita da una azione interiore che è segnata dai singoli trapassi di stato d'animo, e siccome questi si concretano ordinariamente, per l'individuo isolato, nella riflessione monologata, cosí due atti di Facciamo un sogno! sono parlati da un personaggio, e i personaggi dei quattro atti sono solamente tre, la moglie, il marito e l'amante. L'azione è solo trapasso di stati d'animo, questi culminano in due o tre osservazioni spiritose e si cullano in una atmosfera di parole, di frasi, di periodi sempre vari e scolpiti solidamente in un poliorama interiore dello spirito individuale. Teatro d'eccezione? Teatro che non si può sunteggiare, ma che è vivo lo stesso, e non stanca, e sa farsi applaudire, ed è preferibile al solito guazzabuglio macchinoso, sia la macchina una psiche, o sia una garçonnière a doppio fondo.

(19 gennaio 1917).

L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs d'mia fômna» di Leoni). Giacomo Albertini, assessore dello stato civile, quando esercita le sue funzioni di cozzone di matrimoni in teatro, si chiama Mario Leoni. E rimane sempre in carattere. Lo stato civile, reparto matrimoni, gli dà l'ispirazione, gli suggerisce i motti di spirito sulla felicità coniugale, sulle miserie della vita coniugale, sulle speranze della vita coniugale. Scrive in dialetto, per la compagnia di Dante Testa, al Rossini: e il dialetto è ricco di arguzie ridanciane, di osservazioni profonde e melanconicamente pungenti sullo stato civile, reparto matrimoni. Mario Leoni di esse ne ha a disposizione un sacco e una sporta; il suo tirocinio di assessore gliene deve aver fatto sentire delle carine, dette con quella bonomia che è propria dell'arguzia piemontese. Il successo di questa nuova commedia è stato solo un successo di arguzia dialettale. 'L môrôs d'mia fômna sono tre atti che non hanno nessuno dei pregi che di solito fanno applaudire le produzioni di teatro. Imbastiti frettolosamente, sconnessi, tardi e stentati nello sviluppo dei motivi, sono però ricchi di metafore dialettali, semplici, non ghiribizzose, che hanno facile presa sull'anima dello spettatore e gli strappano la risata franca e cordiale senza sottintesi e senza sforzi di elaborazione.

'L môrôs d'mia fômna è il nomignolo amichevole che Deodato Fragolini dà all'on. Ferlingotti, un affarista volgare che vorrebbe sposarne la nipote Erminia. L'on. Ferlingotti ha moglie, anzi ha due mogli, una sposata in chiesa, l'altra in municipio, e le ha abbandonate ambedue. Finalmente rintraccia la seconda, che è dattilografa in casa Fragolini, e con lei parte per l'Ungheria, e divorzia (l'assessore Albertini è favorevole al divorzio, e questa sua commedia rientra nel numero delle opere di teatro pro divorzio). Il viaggio clandestino della dattilografa e dell'onorevole sconcerta tutta casa Fragolini. La signora, bisbetica e piena di bizzarrie, infuria su tutti: il giovane figlio, che è innamorato dell'impiegata, si dispera, ma con giudizio; il padre, che non ha altro ufficio che di dire delle scemenze amenamente ridicole, non è mai stato tanto se stesso. Al terzo atto tutti i nodi si sciolgono: la dattilografa rivela le sue vere generalità e riacquista la stima universale; l'onorevole viene squalificato; la giovane Erminia sposa un impiegato di suo zio e il giovane Fragolini sposa la signora divorziata. Il sipario cala su un triplice idillio che deve aver commosso teneramente i precordi dell'assessore.

I tre atti sono stati dalla compagnia di Dante Testa, resi con una franchezza e una semplicità di interpretazione notevoli. Il Testa e la Gemelli si sono fatti spesso applaudire a scena aperta. L'autore è stato chiamato al proscenio una dozzina di volte.

(21 gennaio 1917).

«Piccolo harem» di Costa al Carignano. Ho sentito fare da un operaio la migliore critica di questo lavoro. Sentimento, passioni, ambiente arabo. Può tutto ciò essere rappresentato in teatro, cioè col dialogo, con parole che non raccontano e descrivono, analizzando, ma sono esse stesse quei sentimenti, quelle passioni, quell'ambiente, in una lingua diversa e tanto lontana da quella che può sola essere espressione sincera del mondo che si vuol rappresentare? In questa domanda, che il compagno elevava a criterio generale di giudizio, era contenuta la sua insoddisfazione per il dramma del Costa. Del quale egli comprendeva perfettamente le motivazioni, ammirava il lavoro accurato di esecuzione e la compenetrazione dei vari elementi drammatici, ma senza che per ciò gli sfuggisse lo squilibrio tra queste motivazioni, questi elementi che possono essere di tutti i luoghi e di tutti i tempi e la espressione particolare che dovrebbero avere quando sono posti in un determinato luogo che ha una determinata colorazione storica e folcloristica. E non gli sfuggiva che questa espressione particolare risente dello sforzo di una traduzione non ben riuscita, e risente di certe prolissità e lungaggini e ridondanze figurative che forse si avvertono solo per lo sforzo di contenere nella nostra lingua ciò che in questa altrimenti sarebbe espresso.

Piccolo harem non è un dramma complicato. Oghzala è un'araba algerina che, avendo conosciuto, anche superficialmente, la vita spirituale della famiglia europea, non riesce piú ad adattarsi all'idea musulmana di un uomo che ama nello stesso tempo piú donne, senza pertanto che alcuna di queste possa ritenersi diminuita nella stima di se stessa e esserne offesa nel piú profondo della propria dignità individuale. Questa ribellione all'harem però non diventa un superiore sentimento di piú spirituale umanità; è solo un fatto elementare, istintivo, che l'autore rappresenta in alcuni momenti piú salientemente rappresentativi, e che prepara una catastrofe violenta. Oghzala, l'araba cittadina, si disfà di Mabruka, l'araba dell'oasi, tendendole un tranello, facendola credere adultera con un trucco poco complicato: facendo bussare alla porta di Mabruka il proprio drudo, l'uomo che è servito a lei per avere il figlio che doveva servire a conservarle la predilezione del marito.

Il dramma si sviluppa solo nel quarto atto; i primi tre sono preparatorii. L'autore si accorge della difficoltà di porre subito a contatto gli ascoltatori europei con un mondo esotico, e per tre atti si sforza di suggestionarli, di condurli a comprendere, a impadronirsi dell'animo dei suoi personaggi. E in questo lavorío usa molte parole, molta riflessione che tolgono efficacia al quadro e lo illanguidiscono, snaturando il carattere delle persone che si sdoppiano, facendo opera di cultura nello stesso tempo che devono agire.

Gastone Costa è al suo primo tentativo, e per tutta quella parte in cui esso si è addimostrato vitale si è fatto applaudire.

(25 gennaio 1917).

«La marea» di Hastings al Carignano. Felicita Schart è stata, da giovinetta, resa madre da uno sconosciuto che ha abusato della sua ingenuità e dell'ignoranza intorno alle cose sessuali in cui i parenti l'hanno lasciata: un delitto della cicogna l'avrebbe chiamato Franz Wedekind. Ma per l'autore inglese non è questa ignoranza che diventa motivazione drammatica e spunto a propaganda dialogata contro i pregiudizi dell'educazione giovanile. Felicita Schart viene dai genitori, bigotti e per bene, separata dal suo nato, e per sedici anni ne ignora il destino, ne ignora persino il sesso. Questa violenza brutale rovina la giovine donna, che precipita gradatamente in un abbrutimento morale e fisico, dal quale solo un caso la risolleva. In una camera d'albergo dove si era rinchiusa per uccidersi alla fine, sommersa dalla amarezza della dissoluzione e del suo interiore rodimento materno, incontra un medico che con la robustezza del suo senno la convince a curarsi, promette di ritrovarle il figlio. Felicita Schart si ritempra in piú d'un anno di vita selvaggia sulla spiaggia del mare; la sua bellezza rifiorisce, rinasce l'amore della vita e del piacere. Il dottor Stratton le fa incontrare sua figlia, senza che nessuna voce istintiva le riveli la verità; anzi l'istinto le gioca un atroce giuoco. Ella sostituisce sua figlia nell'amore del fidanzato di questa, e la giovinetta Maisie apprende chi veramente sia sua madre subito dopo che un odio atroce la ha allontanata da lei. La messa in accusa dei pregiudizi sociali diventa cosí completa. Essi sostituiscono nel dramma il feroce destino delle antiche concezioni tragiche della vita. La natura, la elementare natura che ha salvato già dal precipizio la dissolventesi bellezza di Felicita Schart, interviene anche ora. È la voce fragorosa della marea, è la semplice voce di un umile J.-J. Rousseau, Jerry, un bastardo anche egli, che dalla lettura dei libri e dalla solitaria contemplazione delle forze irresistibili della terra trae una forza di convinzione che appaga lo spirito di Maisie, la riconforta, e inizia la sua nuova vita e le suggerisce le prime parole che dovranno riconciliarla con sua madre. Su questi elementi è tessuto il dramma dello Hastings. Ma la loro traduzione in arte non avviene senza convenzionalità e senza sforzi. Il lavoro è troppo spesso stentato, prolisso e risente di un lavorio riflesso che ne vuol fare una dimostrazione logica esteriore alle persone, piuttosto che un'intuizione di vita drammatica. Tutto è prestabilito dalla volontà, gli elementi emotivi e passionali sono sorpassati e sommersi da una necessità di propaganda, che si fonde solo raramente con le necessità delle coscienze individuali. E ne risultano ingenuità, cavillosità urtanti, prediche noiose, colpi di scena di cattivo gusto. È un puritano della natura e della semplicità, che combatte i puritani della convenienza sociale, della moralità borghese e pretesca, conservandone il tono e i metodi. Un convenzionalismo si sostituisce a un altro convenzionalismo.

I primi tre atti furono applauditi, quantunque blandamente; il quarto passò in silenzio. L'interpretazione si distinse per merito del Piperno specialmente, e dell'Almirante, che sostenevano le parti del dottor Stratton e di Jerry il bastardo, le due persone piú vive di tutto il lavoro.

(1° febbraio 1917).

«L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri. Giuseppe Adami costruisce i suoi tre atti su questo motivo: quali reazioni sentimentali provoca l'avvicinamento di un grande uomo a un piccolo mondo provinciale, materiato di piccoli fatti, di piccole anime pettegole, di fanciulle che sognano il cavaliere della leggenda? E l'Adami ha avuto il buon gusto di non fare del grande uomo la solita creatura fatale, d'eccezione, che travolge nel suo cammino tutto e tutti. Ha invece posto in iscena un uomo apparentemente uguale agli altri, che se ne differenzia solo, come avviene di solito nella vita, per l'alone fantastico che la sua fama ha creato intorno alla sua persona, e per la maggiore tolleranza di fronte alla vita vissuta che la piú rapida comprensione e intuizione degli avvenimenti rende naturale in lui. Un essere normale, insomma, e non la abusata caricatura del superuomo, che la comune degli scrittori, non essendo essi stessi dei geni, non riescono a ricreare che come caricatura. Paolo Varchi è l'uomo del sogno. Egli, piombando all'improvviso in un ambiente provinciale, diventa nella fantasia dei suoi ospiti e degli amici degli ospiti, il modello di umanità cui tutti inconsciamente tendono, per l'ingegno, per lo spirito pronto, per la tranquilla e serena placidità con cui giudica tutto e tutti, e anche nelle piccole miserie della vita trova un ritmo superiore, una bellezza che negli altri non appare perché di quelle miserie sono le vittime e gli attori. Questo suo differenziarsi dagli altri suscita il piccolo dramma dei tre atti. Nella casa in cui è l'ospite occasionale, si svolge un idillio. È naturale che la giovinetta, Carmine, paragoni i due uomini che piú la interessano spiritualmente e per un istante dia la preferenza all'uomo del sogno. Come è naturale che Roberto, il fidanzato di Carmine, diffidi di questo fascino intellettuale e diventi ingiusto, duro, grottesco, persino, almeno apparentemente, nel suo rancore inconsiderato. Paolo Varchi è però un grande uomo morale, e non abusa delle illusioni fantastiche di Carmine. Dopo un attimo di abbandono, riprende la padronanza di sé e rinsalda volontariamente l'iato prodotto senza volerlo. Roberto si pente dei suoi grotteschi stati d'animo e ritorna alla fidanzata, che all'immagine di cartone del sogno preferisce di nuovo la realtà viva dei suoi piú profondi sentimenti. Intreccio semplice e dimesso, che in verità non trova un'espressione che non superi sempre la mediocrità, ma che ha il pregio della semplicità e della sincerità intellettuale, e della modestia. Ciò che non è cosa che si incontri ogni giorno nel mercato letterario.

I tre atti furono bene accolti, e molti applausi andarono specialmente agli attori: il Ruggeri e la Vergani tra gli altri.

(7 febbraio 1917).

«Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano. Edmond Rostand ha tirato fuori dal cassetto solo in questi ultimi tempi una sua commedia: I due Pierrot, scritta negli anni giovanili. La commedia doveva essere rappresentata appena composta, in un teatro d'arte parigino, ma quando essa stava per andare in iscena, morí Teodoro de Banville, il poeta poco noto ai piú, che di Pierrot e delle sue avventure sentimentali aveva scritto delicatissime filigrane, bozzetti scenici in cui il lirismo si fondeva mirabilmente con l'azione, creando piccoli capolavori di espressione linguistica perfetta. Edmond Rostand ebbe rispetto del grande morto, e forse ebbe paura del paragone che non poteva mancare. La sua rinunzia fu pertanto anche un atto di probità. E Augusto Berta che della probità ha fatto in tempi non lontani la divisa melensa della sua attività letteraria, non ha esitato a presentarsi nella veste di umbra (i latini con spirito chiamavano ombre i parassiti) di un grande. La sua fregola di letterato mancato e deficiente si è sfogata oscenamente su una creazione poetica collettiva che aveva ormai trovato anche un'espressione individuale definitiva. E ha cucinato sul disgraziato Pierrot un guazzetto disgustoso, che solletica i cattivi istinti del pubblico ora con la piú volgare galanteria da gabinetto riservato ora con un pruriginoso sentimentalismo in versi martelliani in cui di poesia non c'è che l'affermazione sazievolmente ripetuta di essere poesia. È questa bassa volgarità versaiola che maggiormente offende il gusto di chi ha letto il de Banville, questa piatta gelatinosità in cui l'amore, la vita, la gelosia, i rapporti sessuali, sono visti, concepiti ed espressi come si suole leggere nelle pubblicazioni da caserma: «L'amore Illustrato», il «Capriccio», o la «Sigaretta». È seguíto il solito sistema della tricotimia simmetrica, dei tre puntelli legnosi: le tre cene, come ieri erano le tre età della pietra, del ferro e dell'oro. L'azione è nulla: Pierrot prende moglie; Pierrot sta per essere tradito da sua moglie, Viviana la fioraia, col marchese di Priola (altra dolciastra caricatura che al brio e allo spirito di don Giovanni della commedia francese sostituisce i palpeggiamenti postribolari sotto il tavolo); Pierrot che uccide il rivale e poi muore avvelenato dai profumi di un fiore orientale, per elezione spontanea. E su questi tre puntelli di legno, quanta broda di lasagne, quale disgustoso innaffiamento di loia raccolta con lo strofinaccio da tutti gli spurghi poetici della letteratura a un soldo. Un vero bazar del cattivo gusto: una amena giostra di sproloqui rimati, di scemenze triviali sul vecchio repertorio dei motivi poetici. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, armati di colascione e travestiti da marchese di Priola, da Pierrot e da Viviana, non potrebbero dire piú abusati luoghi comuni. Ascoltando, il cervello continuava, per sollevarsi dal martirio, il lavoro del poeta. Ad affermazioni come queste: – Chi è nato all'aria aperta, non regge all'aria chiusa; – a rime come queste: – paese e maionese, – gatto e cioccolatto – il mio cervello contrapponeva fulgide immagini, che regalo al Berta per la sua prossima tricotimia; – la vita è uno spiraglio – or sente di mughetto, or puzza d'aglio – o – la vita è una sanguetta – chi vuol cavarsi sangue, se la metta, – disposto a mandargli per posta le altre che per brevità ometto.

I tre atti del Berta sono stati applauditi. Ha contribuito molto al successo una papera di Lyda Borelli (Pierrot), che, a un certo punto, sbagliandosi di sesso, ha detto: «sono pronta» per «sono pronto». L'intelligenza del pubblico ha colto a volo la grazia indefinibile di una papera simile, prova della intensa femminilità di una artista come la Borelli, ed è scoppiato in una vera ovazione. Sono cose che capitano: un'altra commedia ha avuto successo perché a «timonata» l'attore aveva sostituito «limonata». Il grande attore Tolentino è grande specialmente per la fama creatasi dicendo, con inesprimibile convinzione: «figlio, io sono tuo padre», invece di «padre, io sono tuo figlio», dinanzi a Ermete Zacconi truccato da vegliardo. Sono cose che capitano.

Aspettando che venga il giorno di poter precipitare dalla Mole Antonelliana simili truffatori di applausi, rileggiamo le fantasticherie poetiche su Pierrot, di Teodoro de Banville.

(8 febbraio 1917).

In principio era il sesso.. In principio era il verbo... No, in principio era il sesso.

Di fronte a determinate manifestazioni dello spirito pubblico, voi che avete dei bisogni logici, rimanete in principio sbalorditi. Dato come presupposto un certo fatto, ve ne aspettereste un altro che ne fosse la conseguenza logica. Vedete che invece questo non si verifica e se ne verificano altri non logici al suo posto; vedete che entrano in giuoco nuove forze, forze elementari, istintive, imponderabili nel calcolo delle probabilità.

Andate ad assistere alle recite della Borelli. Avete ancora le orecchie intronate dalle lodi per la Borelli, dalle critiche per le audacie di eleganza della Borelli, per la grande efficacia drammatica della Borelli. Andate ad osservare la proiezione di una film della Borelli. Per una strana fortuna non cadete nel laccio che inconsciamente vi è teso. Rimanete padroni di voi stessi. Potete stabilire in voi stesso un osservatorio. Osservate. Rimanete stupito. Vi pare incredibile. Poi scrollate le spalle e vi ricordate che qualcuno all'affermazione: in principio era il verbo, ha sostituito l'altra: in principio era il sesso.

Intendiamoci bene. Il sesso come forza spirituale, come purezza, non come bassa manifestazione di animalità. Ebbene: bisogna studiare il caso Borelli, come un caso di sessualità. Non c'è altra via per comprenderlo, per spiegarlo, e anche per liberarsene. Non voglio dire che il caso Borelli sia talmente pericoloso da domandare l'intervento del famoso ferro chirurgico. Tuttavia esso è poco piacevole, e lo smagare un certo numero di persone può anche essere utile ai fini di una piú perfetta umanità.

Dante ha posto il problema sessuale in termini elevatissimi. Nell'episodio di Francesca da Rimini egli dice che la forma piú alta della sessualità è data dal fatto che l'amore tra due è necessario, è indeprecabile. Esistono due metà di un tutto: esse si cercano e quando si sono trovate si fondono in una cosa sola. Ora però succede questo fatto. Esistono metà che invece di un'altra sola metà ne hanno due, tre. Alcune potrebbero essere la metà di tutti gli uomini. L'elemento «sesso» ha talmente soverchiato in essi tutti gli altri attributi, tutte le altre possibilità che diventa una specie di magia affascinante.

Tutti gli uomini vi trovano qualcuna delle complementari di se stessi, e ne sono suggestionati. È una specie di mistero orfico che si viene costruendo inconsciamente.

Orfeo col suono della lira si tirava dietro anche le piante e gli animali. Il mito simboleggia il raggiungimento completo della suggestione musicale totale, come forza che attrae tutto ciò che può essere musicabile. Il fenomeno ha dato luogo a qualche creazione letteraria. Guy de Maupassant ha scritto un poemetto in cui una donna, «il sesso», attrae a sé tutte le creature viventi, che la seguono inconsciamente, cosí come seguirebbero un santo o un apostolo che avesse saputo trovare la parola piú semplice che ne scuotesse l'animo fin dalla radice.

Con le dovute limitazioni, ciò succede per l'attrice Lyda Borelli. Questa donna è un pezzo di umanità preistorica, primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non è vero. Nessuno sa spiegare cosa sia l'arte della Borelli, perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare nessuna creatura diversa da se stessa. Ella scande semplicemente i periodi, non recita. Perciò preferisce le opere in versi, e predilige Sem Benelli, il quale scrive per la musica delle parole piú che per il loro significato rappresentativo. Perciò anche la Borelli è l'artista per eccellenza della film, in cui lingua è solo il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi.

L'elemento «sesso» ha trovato nel palcoscenico la sua moderna possibilità di contatto col pubblico. E ha rapinato le intelligenze. Il caso Borelli, se può essere bello per chi lo suscita, non è certo confortante per chi vi si lascia prendere. L'uomo ha lavorato enormemente per ridurre l'elemento «sesso» ai suoi veri limiti. Lasciare che esso di nuovo si dilati a scapito dell'intelligenza è prova di imbestiamento, non certo di elevazione spirituale.

(16 febbraio 1917).

«La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri. La compagnia Sainati, specialista per il repertorio del Grand-Guignol, ha messo in iscena, l'altra sera, due novità spagnuole che nulla hanno di comune colle solite terrifiche produzioni che – con successo del resto – solitamente i Sainati eseguiscono. Le due novità ebbero un'accoglienza piuttosto fredda dal pubblico poco numeroso che s'era dato convegno all'Alfieri.

La canzone della cuna, commedia sentimentale, secondo la definizione stessa dell'autore, in due atti, tenta la riproduzione scenica di un convento di monache spagnuole nel quale una decina di suore, che si sono rifugiate in quel monastero pei soliti motivi inconsolabili, sospirano nostalgicamente sul divino volere che le condanna a perenne sterilità. A chetare un tantino l'insistente ricordo dei fratellini dalle angiolesche manine di latte, pensa un giorno il caso, sotto forma di una prostituta, la quale depone nella «ruota» del convento, una piccina appena nata. Ne segue, naturalmente, grande confusione, ma la figlia del convento viene adottata e affidata alle cure particolari di suor Giovanna. Il primo atto termina mentre la vergine suora, esaltata di essere... madre, dimenticando di pregare colle compagne, guarda e bacia la piccola trovatella. Dal primo al secondo atto passano diciotto anni. La figlia del convento ha appunto diciotto anni e sta per sposarsi con un giovane, pien di vita, che subito dopo le nozze se la porterà lontano, oltre l'oceano, nel mondo nuovo. Le suore sono tristi, sconfortate. Suor Giovanna tace, ma ha il cuore oppresso da una grande pena. La madre adottiva e l'allegra trovatella si trovano un istante sole, in un ultimo colloquio, al quale assiste pure il fidanzato. La suora raccomanda allo sconosciuto che è al di là della grata, la figlia. La voce della povera donna trema, è angosciata.

– Siete triste, – chiede l'uomo che scoppia di felicità.

– Sí, molto, – risponde in un singhiozzo la suora.

– Volete venire con noi suor Giovanna? – chiede lo sposo.

– No, no, non posso. È troppo tardi...

Il distacco è doloroso e dopo l'ultimo fervido abbraccio di separazione suor Giovanna sviene... mentre le preghiere ricominciano al rintocco delle campane del convento.

La trama contiene certo uno spunto poetico e delicato, ma la sua concretizzazione scenica non convince e riesce miserevole cosa. Essa è stata recitata assai lodevolmente, come avviene per tutto quello che rappresenta la compagnia Sainati. Efficace suor Giovanna fu la signora Bella Starace Sainati; buone pure nell'interpretazione dei singoli personaggi minori: la Lenci e la M. Sainati. Ad Alfredo Sainati è affidata una parte di mediocre importanza.

L'altra novità, dei fratelli Quintero: L'ultimo capitolo, non ebbe successo. Lo spunto è vecchio e scarsamente interessante.

(8 marzo 1917).

«All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano. All'ombra delle statue è il risultato abortivo della contaminazione di due motivi drammatici abusati fino al disgusto: «il bastardo» e il «genio che schiaccia gli eredi sotto il peso della sua gloria». La novità avrebbe dovuto consistere precisamente in questo avvicinamento. Perché il figlio del genio, quando viene ad apprendere che è un intruso adulterino, non si dispera e non esala ai numi tutta la piena dei suoi affetti, ma se ne rallegra quasi perché trova finalmente nel fatto rivelatogli la via della liberazione, la via per liberarsi dalla tutela postuma del suo grande padre putativo, e per uscire dall'ombra della statua alla luce della sua personalità vera che col morto non ha niente a che fare. Ma questi spunti non hanno trovato nei tre atti alcuna espressione drammatica adeguata. Hanno dato la stura a una enorme superfluità di parole, di pettegolezzi, di scene disorganiche e senza interesse specifico, che hanno fatto zittire l'intiero lavoro. Un applauso a scena aperta è stato strappato dalla Gramatica, che è riuscita a dare della vivacità e del contenuto drammatico alla persona della protagonista.

(9 marzo 1917).

«L'amazzone» di Bataille al Carignano. Parentesi francese. In Francia hanno creduto necessario far conoscere agli italiani la nuova commedia di Henri Bataille, L'amazzone. Evidentemente si dà molta importanza a questi tre atti. Eppure è del Bataille solito, del Bataille che annega la vita nell'oceano del tenerume sentimentale, che esaspera e diluisce due o tre spunti drammatici in un oceano di tenerume poetico. È cambiato il contenuto: la guerra è diventata il cardine degli affetti e dei sentimenti, la guerra con le sue nuove creature poetiche, che rinnovano la vita spirituale francese, come ieri per Henri Bataille era la provincia che dava gli esempi delle mogli che per non tradire si uccidono, a perpetuo scorno delle parigine corrotte fino alle midolla. È una nuova donna ideale che nell'Amazzone continua il modo antico del commediografo francese. La donna che sacrifica la sua felicità presente per non tradire un fantasma d'amore passato precisamente come nella Marcia nuziale. Con questo di peggio: che nella nuova commedia c'è l'elemento esteriore della guerra, che costringe il patriota a dei convenzionalismi piú crudi e banali che per il passato.

Un grande successo ha ottenuto la Réjane, con le virtú sue della semplicità e della spontaneità.

(12 marzo 1917).

Il tramonto di Guignol. Il Guignol italiano sta per morire. Il suo nome è strettamente legato a quello della compagnia di Alfredo Sainati. La compagnia è diventata, qualche giorno fa, di proprietà del milionario esteta Luca Cortese, l'ultimo dei dannunziani, e il milionario esteta diventando il proprietario di questa e di numerose altre compagnie drammatiche italiane, si propone di rinnovare la tradizione teatrale italiana, sostanziandola di quattrini e di intendimenti e propositi piú strettamente artistici. La morte del Guignol italiano non può tardare a venire, se questi propositi del Cortese non cadranno nel baratro dell'indifferenza, come altre volte è successo per propositi simili.

La storia della fortuna di Guignol è presto raccontata. È la storia di quel ragazzo della fiaba che partí per il mondo, perché voleva sapere quale fosse il significato preciso della banale espressione: «Mi sento venire la pelle d'oca». E viaggiò, viaggiò, traversò paesi strani, incantati, paesi di briganti, di streghe, di mostri favolosi; ebbe avventure, di quelle che si sogliono dire raccapriccianti; ma inutilmente: la sua pelle rimase pelle d'uomo, e non ne volle sapere di diventare pelle d'oca. E aveva già disperato di raggiungere il suo intento e di ritornarsene a casa, convinto che la pelle d'oca fosse una spiritosa invenzione per far star buoni i bimbi bizzosi, quando un avvenimento di polizia urbana pose fine alla sua aspettativa: mentre pensieroso, preoccupato dal dubbio di essere un mostro, differente dagli altri uomini, inferiore agli altri uomini, perché meno sensibile di loro, fu bagnato dalla testa ai piedi da un catino di acqua freddissima. Il miracolo fiorí: la sua pelle si corrugò rabbrividendo, e dalle sue labbra, spontanea, irresistibile sgorgò la frase: «Mi sento venir la pelle d'oca». Guignol sulla scena cerca di ricreare lo strano, miracoloso paese delle oche; il paese dell'orribile, del raccapricciante, che dovrebbe far sentire ai pellegrini che vi viaggiano dei fremiti, dei tuffi al cuore, degli scombussolamenti capillari ed epidermici come al tempo in cui i serpenti a sonagli al braccio dei megateri passeggiavano ingordi sotto gli alberi trasformati in grappoli umani dai primitivi aborigeni delle palafitte? Guignol ha fatto del teatro un gabinetto spiritico per imbestiare gli spiriti. Il terrore è un istinto animalesco, non è un atto dello spirito. Non fa lavorare il cervello, Guignol; cerca di scombussolare il sistema nervoso. Ma quale persona intelligente si lascia manipolare i nervi a questo modo? Guignol vuol far paura; ma le persone intelligenti non hanno paura degli occhiacci spiritati. La paura è certamente un fatto umano, con tutte le sfumature del terrore, dell'allucinazione folle, del delirio. Ma perché essa diventi elemento artistico, deve trovare una espressione linguistica che la trasformi in atto umano, in elemento drammatico graduato secondo l'importanza relativa che essa ha nella vita dell'uomo. Guignol invece ha fatto del terrore fisico tutto il dramma della vita dell'uomo; e pertanto ha ridotto l'uomo a pura fisica, a pura macchina materiale. L'origine marionettistica di Guignol ha avuto questo effetto: ha reso marionette anche gli uomini del teatro propriamente detto.

Guignol italiano ha avuto però un merito. È servito a creare una compagnia di primo ordine Ha servito a formare degli attori eccellenti. La riproduzione plastica del terrore domanda intelligenza e studio. Se Guignol non ha valore estetico linguistico, ha valore estetico plastico. I suoi interpreti devono acquistare, attraverso uno sforzo cosciente e un lavorio interiore indefesso, una grande capacità fisica di espressione, una capacità di rinnovamento che renda possibile la varietà e la novità degli atteggiamenti. Alfredo Sainati è riuscito a costituire cosí una compagnia non comune per affiatamento e per omogeneità. Egli stesso, e la signora Starace Sainati, sono degli attori non comuni, che hanno dimostrato di sapere uscire dal repertorio loro speciale, conservando tuttavia quelle possibilità drammatiche che hanno loro permesso di fare la fortuna di Guignol, anche se gli uomini non vogliono diventare delle oche rabbrividenti. E queste possibilità drammatiche, affermatesi specialmente in alcune rappresentazioni della Fiaccola sotto il moggio, devono appunto aver persuaso il milionario esteta Luca Cortese che valeva la pena di fare uno sforzo per riconquistare all'arte degli artisti che se hanno voluto trovar successo, si sono dovuti adattare a solleticare la parte animalesca dell'animale uomo.

Cosí il Guignol italiano sta per morire di morte violenta, quantunque lenta e angosciosa, poiché non gli sarà possibile di trovare altri interpreti del valore del Sainati. L'ultimo dramma del Grand-Guignol sarà pertanto la morte stessa di Guignol, già decisa, ma che, per non essere dammeno al carattere del personaggio, sarà lentissima come una tortura cinese.

(13 marzo 1917).

La serata di Emma Gramatica al Carignano. Questa sera al teatro Carignano la compagnia di Emma Gramatica rappresenterà per la serata della sua prima attrice uno dei capolavori di Enrico Ibsen: Casa di bambola. Bisogna essere grati alla Gramatica la quale è una delle poche attrici che nella profluvie di lavori scadentissimi si ricorda almeno qualche volta di rappresentare qualcheduna di quelle opere in cui è realizzato perfettamente il dramma moderno, contenuto, vivificato da una profondissima vita morale; azione drammatica sincera e spontaneamente omogenea.

(20 marzo 1917).

«U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri. I tre atti nuovi di Nino Martoglio non sono che un seguito di bozzetti scenici senza intreccio drammatico, senza alcun approfondimento di carattere, senza altra pretesa che non sia quella di dare ad Angelo Musco il modo di creare una macchietta esilarante, perché esteriori e solamente fisiche sono le possibilità rappresentative della commedia. U'riffanti è un traforello di piccola levatura, un tenitore del lotto clandestino, che riesce a salvarsi dalle grinfie della polizia, dando modo a un delegato di PS di rintracciare gli autori e la vittima di un sequestro di persona: la chiave del delitto è data dal numero della cabala, numero che i superstiziosi banditi hanno costretto la vittima a dare, non pensando che potevano diventare termini di corrispondenza segreta. La commedia è stata applaudita, e ha fatto molto ridere per opera dell'arte di Angelo Musco e delle sue sempre nuove capriole e smorfie, esilaranti solo fino a un certo punto.

(21 marzo 1917).

La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al Carignano). Emma Gramatica, per la sua serata d'onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola chiamata, piú per l'interprete insigne che per la creatura superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all'atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri?

Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l'urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le motivazioni da quelle piú elementari a quelle piú squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l'arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l'altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l'umanità di Enrico Ibsen?

Né l'una cosa né l'altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale piú spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitú, di sottomissione all'ambiente, di ipocrita mascheratura dell'animale uomo, fascio di nervi e di muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro costume, a un'altra tradizione, superiore, piú spirituale, meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l'uomo non sono piú soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è piú solo un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l'intima fusione di due anime che ritrovano l'una nell'altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna non è piú solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, ma è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente.

Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non comprende un mondo cosí fatto. L'unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l'unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell'epidermide sensibile.

Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è esaltata l'abolizione dell'istituto dell'autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l'istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, piú schiava ancora quando ritrova l'unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola piú cara quanto è piú stupida, piú diletta ed esaltata quanto piú rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi, i detriti d'umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L'ipocrisia del sacrifizio benefico è un'altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume.

Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un altro costume in formazione, quello che è piú nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale perché profondamente umana, perché fatta di spiritualità piú che di animalità, di anima piú che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni.

(22 marzo 1917).

«Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri. Questa commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità piú che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia piú che il sorriso, il ridicolo piú che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, piú che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale piú che visione sincera e spontanea.

I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità pittoriche, o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con qualche velatura di melanconia, che è anch'essa smorfia fisica piú che passione. Il protagonista della commedia è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi in 34 anni d'insegnamento: un rudere d'umanità, un detrito, senza piú alcuna caratteristica d'uomo all'infuori del profilo fisico. Il movente dell'azione, l'unico che si può sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha servito lo Stato, essendone ricompensato cosí miseramente che non ha potuto crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una moglie giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla giovane vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere, tutti quei quattrini che a lui sono mancati sempre per poter vivere veramente, per essere uomo e non macchina d'insegnamento. Giocare al governo questo tiro birbone diventa per il prof. Toti l'unica ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e perciò le consente le piú ampie libertà; aiuta il suo sostituto nel compito maritale, lo ama come un figlio, e incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è oggetto, va innanzi verso la meta. Giacomino, l'amante di sua moglie, vorrebbe sciogliersi dalla situazione in cui è impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a casa sua il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti sbigottiti, di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie e finalmente riesce a condurre Giacomino nella via del dovere, a continuare il suo compito di marito della giovane moglie dell'impiegato che vuol vendicarsi del governo senza perciò creare altre vittime.

La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto della figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.

(24 marzo 1917).

«Liolà» di Pirandello all'Alfieri. I tre atti nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all'Alfieri. Non hanno avuto almeno quel successo che è necessario perché una commedia diventi redditizia. Ma Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a creare. L'insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che cosí come è, e pertanto finirà con l'imporsi.

Liolà è il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un lungo romanzo ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il 1906 dalla «Nuova Antologia» e poi ristampato dal Treves. In seguito il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà; l'intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente rinnovato: esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente umoristico che lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare del mondo ellenistico. C'è da pensare che l'arte dialettale cosí come è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l'antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata piú viva e piú sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica.

Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall'occhio strabico, l'osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia, vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che ubbidiscono all'impulso della danza e del canto, che sono impastati di suono e di danza come le creature primitive dei drammi satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che fosse imbastito il trucco dell'erede, ora che l'erede legale c'è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l'odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.

(4 aprile 1917).

«Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano. Gli uomini spiritosi sono una parte molto importante della vita sociale moderna: e sono molto popolari. Essi sostituiscono alla verità un motto che fa ridere, alla serietà un motto che fa ridere, alla profondità un motto che fa ridere. L'ideale della loro vita spirituale è il salotto elegante, la conversazione fatua e brillante del salotto, l'applauso discreto e il sorriso velato dei frequentatori di salotti. Riducono tutta la vita al livello di mediocrità spiritosa della vita di salotto: molte parole, amabile scetticismo, con qualche leggero spruzzo di sentimentalismo malinconico. L'uomo spiritoso è diventato ancor piú importante attraverso l'ultima incarnazione che hanno subíto i salotti, e cioè nelle redazioni dei giornali borghesi. L'uomo spiritoso ha cosí allargato la cerchia dei suoi ascoltatori, e ha reso spiritoso tutto: la politica, la guerra, il dolore, la vita e la morte, ottenendo molti plausi e guadagnando molti quattrini. Arnaldo Fraccaroli, che è uno degli uomini spiritosi italiani meglio quotati, ha, nell'ultima sua commedia Non amarmi cosí!, offerto un brillantissimo esempio del come l'uomo spiritoso riduce per il lieto sollazzo dei suoi clienti le cose serie.

Il tema generico è questo: una moglie, alla rivelazione che suo marito non la comprende, scatta in una ribellione, si ripiega su se stessa, approfondisce il proprio io interiore. Un genio drammatico, Ibsen, avrebbe dato a questo dramma il suggello definitivo della sua fantasia poetica. Ma Ibsen non era un uomo spiritoso, era un artista, che viveva profondamente la vita delle sue creature; perciò egli non ha avuto fortuna nei salotti e nei teatri che ne sono l'ingrandimento peggiorato. Arnaldo Fraccaroli ha corretto Ibsen, lo ha reso piacevole e amabile, lo ha latinizzato. Margherita di Fraccaroli è ben piú facile a comprendersi di Nora; le motivazioni dell'urto fra marito e moglie sono in Fraccaroli alla portata di tutte le anime incipriate: Margherita ama male suo marito, è la bambola seccante, perché ama troppo, perché sbaciucchia troppo, perché non lascia mai solo Luciano, perché, e questo è il colmo del paradosso profondissimo, rende troppo facile la vita di Luciano, pulendogli le penne, facendogli trovare sempre a posto, e nel momento piú opportuno, l'ombrello, il soprabito, e le galoches. Luciano dice che Margherita è noiosa, e il dramma precipita. Margherita non lascia la casa maritale. L'uomo di spirito trova che questa soluzione sarebbe una esagerazione, e i salotti aborrono le esagerazioni. Margherita è una complicata anima moderna (con svolgimento a lieto fine). Si fa fare la corte da un imbecille, ma non per ingelosire il marito: non per nulla essa è un'anima complicata. La corte dell'imbecille serve a mascherare un altro finto amante, la cui personalità, attraverso queste amabili complicazioni, rimane immersa nel buio fondo, nel mistero. Ed è questo buio, questo mistero, che porta al lieto fine, al ravvicinamento delle due anime: tra esse rimane lo sfondo del mistero, la minaccia immanente di un nuovo dramma, a rinsaldarle, a farle diventar savie. «Mariti, non scherzate, con le armi caricate», è la profonda verità che il Fraccaroli instilla nell'anima e nella coscienza dei suoi ascoltatori, e la via è facilitata da un lubrificante infallibile: la divina melanconia, coi cirri sull'orizzonte e il pallido raggio di sole che balugina e imbianca i sembianti degli eroi.

L'uomo spiritoso ha raggiunto il suo scopo. Ha trovato nel teatro Carignano il salotto di imbecilli meglio disposti a comprenderlo e ad applaudirlo. L'uomo di spirito è sempre un uomo fortunato. Anche se il suo spirito è passato attraverso tutti i filtri di carta del magazzino internazionale, e ne ha conservato tutti i tanfi e le muffe: dai filtri di Ibsen a quelli di Pierre Wolf e delle sue Marionette.

(5 aprile 1917).

«Scuru» di Martoglio all'Alfieri. È la quarta o la quinta produzione teatrale italiana sul tema della cecità. La prima arrivata a Torino. Ha avuto successo. Ha avuto un grande successo. Ma in esso l'opera personale artistica di Nino Martoglio non entra affatto. La tragicità è nell'ambiente, è nella vita, è nella minaccia che sentiamo immanente per migliaia e migliaia di vite. Basta immaginare il fatto perché si senta un brivido, basta vedere sulla scena delle persone eroiche che presentino in concreto la minaccia, per sentire plasticamente, in tutta la sua violenza brutale, la tragedia incombente. Nino Martoglio non ha elaborato artisticamente il fatto oggettivo. I ciechi di Maurizio Maeterlink sono troppo vivi nella memoria per non sentire che Nino Martoglio ha lasciato inerte la materia, e che essa vive solo per il travaglio inconsapevole degli spettatori, e per la virtú di realizzazione scenica di Angelo Musco e dei suoi collaboratori. Lo strappo che il nostro animo risente è dovuto tutto all'arte semplice del Musco e del Pandolfini. Essi soli dànno al fatto una soggettività: l'unica che in questo caso può avere: il brivido corporale, la maschera della tragicità.

(7 aprile 1917).

«La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano. La maschera: il complesso di atteggiamenti esteriori che gli uomini assumono sotto lo stimolo della realtà sociale che li circonda. La maschera è la patina superficiale del costume, della moda, dello snob, il precipitato di tutte le reazioni tra la vita individuale e la vita collettiva, tra la vita di un individuo e la vita di quella determinata categoria sociale in mezzo alla quale l'individuo ha le radici della sua particolare esistenza. Chi riesce a strappare dal proprio volto questa maschera, chi riesce a vivere non secondo le inconsapute violenze della convenzione sociale, ma solo secondo i dettami del proprio io piú profondo, della sincerità che pure esiste in fondo alla coscienza di ogni individuo? I tre atti di Luigi Chiarelli rappresentano appunto la storia di uno di questi individui, le avventure tragicomiche, le esperienze interiori ed esteriori di uno di questi individui. Le rappresentano in un modo curioso, deformandole, esasperandole, esteriorizzandole, con molte parole, con molti particolari, con molta convenzione, ma riuscendo tuttavia a raggiungere degli effetti di rappresentazione, riuscendo a fondere in un complesso piacevole e spiritoso molte banalità, molti luoghi comuni, molte affermazioni del senso comune piú comune.

L'autore ha volontariamente costruito la macchina convenzionale che regge i tre atti: egli non nasconde la volontà del convenzionale, non tende delle trappole al pubblico; il lavoro suo è come una campana di cristallo, e lascia trasparire il suo volto che sogghigna senza la maschera della falsa serietà drammatica e artistica. Il suo lavoro è pertanto opera di sincerità, e ha un grande valore per l'educazione estetica del pubblico, per correggere il gusto del pubblico, attutito e fatto lapposo dalla falsa grandezza e dall'artificio abilmente nascosto nel teatro solito. La storia è questa. Il conte Paolo Grazia scopre che sua moglie lo inganna, sorprende il flagrante adulterio di sua moglie mentre la sua casa è piena di ospiti, e tutti gli occhi della società sono fissati su di lui. Il conte Paolo è posto come il tipo riassuntivo della maschera sociale del marito; tutti conoscono ciò che egli pensa sul modo con cui un marito deve comportarsi con la moglie adultera: uccidere; l'autore gli ha fatto ripetere a sazietà le idee in proposito. Eppure il marito non uccide: il volto incomincia ad apparire, ma la maschera è ancora troppo tenacemente appiccicata alla pelle. La moglie parte, scompare, e il conte fa credere d'averla uccisa, d'averla precipitata nel lago. Si costituisce, lo assolvono: l'avvocato che lo difende è l'amante di sua moglie. Ritornato a casa riceve l'omaggio di tutte le donne, diventa il ridicolo idolo della mondanità. La maschera si lacera del tutto: avrebbe dovuto servire ad evitare il ridicolo, diventa la calamita di un altro ridicolo, peggiore per chi piú sente, per chi è piú raffinatamente se stesso. Ma il giuoco deve continuare: un cadavere di donna viene trovato nel lago: egli deve riconoscervi sua moglie, deve allestire il funerale. La moglie viva ritorna a lui, in quell'istante, e mentre il funerale si svolge, un nuovo idillio incomincia, questa volta tra due senza maschera, tra due che hanno subíto, attraverso le esperienze del proprio dolore, il lavacro salutare della patina convenzionale che la società spalma sulle coscienze. E il conte deve scappare all'estero, per non essere condannato dalle leggi che hanno assolto l'assassino ma punirebbero il simulatore del reato. Nei tre atti agiscono altre maschere caratteristiche, mariti filosofi, donne adultere, i soliti personaggi da commedia, tutti adattati al grottesco centrale, alla rappresentazione deformata della vita solita del teatro di maniera, resi vivaci dalla volontà costruttrice dell'autore, che con molta abilità e molta elasticità d'ingegno li compone in modo piacevole.

La commedia ha avuto un successo discreto. Essa si replica. La compagnia Talli ne ha dato una interpretazione molto accurata ed efficacissima: attori principali il Betrone, la Melato, il Gandusio e il Paoli.

(11 aprile 1917).

L'industria teatrale. Politeama Chiarella: spettacoli di varietà, Cuttica, Spadaro e compagni. Teatro Carignano: il miracolo vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco tutti i luminari della scienza. Alfieri: 60a rappresentazione della compagnia d'operette di Luigi Maresca. Operette, varietà, vaudevilles di Carosio e di Cuneo, fenomeni viventi Fregoli, Petrolini, Cuttica, Spadaro e Titina. Torino è diventata una fiera, Barnum è diventato il dio tutelare dell'attività estetica e del gusto dei torinesi.

Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo spirito dell'accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú conveniente adibire i teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati, l'industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l'aggettivo «teatrale».

Fa maraviglia una cosa soltanto: che l'autorità militare, cosí fiscale quando si tratta di requisire le scuole o il Teatro del popolo di Corso Siccardi, o il teatro Regio, dove non vanno e non possono andare che compagnie che veramente vogliono offrire al pubblico spettacoli di teatro, utili per l'educazione estetica e che rappresentano il soddisfacimento di una necessità buona, risparmino invece i teatri gestiti dalla ditta Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina caratteristica d'arte e servono allo sfruttamento delle velleità di divertimento volgare.

Il trust teatrale a Torino è andato un po' troppo oltre nella sua abilità industriale, Torino è completamente tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli vi capitano due o tre delle maggiori compagnie drammatiche per una stagione straordinaria. Torino dà molto pubblico agli spettacoli di varietà, non è mai satura di ritrovi equivoci. L'industria teatrale è entrata in concorrenza con il varietà, cerca di accaparrarsi la categoria piú redditizia di questo pubblico. Persegue cosí il suo fine monopolistico. Le compagnie maggiori sono riservate alla provincia, ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano pagati meno, perché i teatri sono piú piccoli e gli incassi sono minori. Il monopolio trionfa. I teatri delle grandi città, anche se adibiti a spettacoli di ordine inferiore, rimangono redditizi, perché c'è tra i 500 mila cittadini quel certo numero di individui che li frequenta lo stesso. Gli artisti di varietà sono pagati meno, e il capitale si impingua. Nei piccoli centri, è necessario il grande nome per attirare la folla; gli artisti sono pagati meno perché la piazza è secondaria, e il capitale si impingua allo stesso modo. Le grandi compagnie si dissolvono, gli attori sono costretti per vivere a dedicarsi al cinematografo; l'industria teatrale, monopolizzata, non se ne preoccupa; i suoi affari prosperano ugualmente per l'impossibilità della concorrenza, per l'abbassamento del livello estetico che fa ricercare lo spettacolo di Petrolini o di Cuttica, e non fa rimpiangere le interpretazioni artistiche di Ermete Zacconi e di Emma Gramatica.

A Torino però il trust ha esagerato nella sua abilità industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia del capitale monopolizzato si contrapponesse un'altra autocrazia. Quale ragione superiore può ormai piú oltre far considerare intangibili i teatri della ditta Chiarella, mentre i locali scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e tangibilissimo è stato il Teatro Regio?

Petrolini, Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro ambienti naturali. Quale superiore ragione artistica deve piú oltre permettere che la città di Torino diventi un feudo del varietà? È doloroso dover ammettere che in una grande città debba essere ristabilito il buon costume da un provvedimento autoritario. Ma è purtroppo cosí. Le esagerazioni del monopolio non possono che essere frenate dai calmieri di Stato.

(28 aprile 1917).

L'industria teatrale. Riceviamo dal sig. Giovanni Chiarella: «Mi rivolgo alla lealtà di V. S. per rettificare le varie inesattezze contenute nell'articolo Industria teatrale apparso nel suo giornale il 28 corrente. Il male informato articolista vorrebbe asserire che la nostra ditta ha danneggiato lo sviluppo artistico teatrale di Torino escludendo o limitando la presentazione delle buone compagnie.

«Orbene: dall'ottobre 1916 a oggi ecco i nomi delle compagnie che agirono nei nostri teatri: compagnie di prosa: Tina di Lorenzo e Armando Falconi – Lyda Borelli e Ugo Piperno – Emma Gramatica – Ermete Novelli – Talli, Melato, Betrone, Gandusio – Ruggero Ruggeri – Alfredo De Sanctis – Dina Galli e Amerigo Guasti – Carini, Gentilli, Baghetti, Dondini – Sichel e soci – Sainati – Tempesti – Musco. Tina Bondi. Compagnie di operetta: Lombardo n. 1 – Città di Milano Lombardo n. 2 – Maresca – Vannutelli.

«Sono dunque 14 compagnie di prosa e 5 di operetta. Totale 19 primarie compagnie. Quasi tutte quelle che la guerra lasciò in piedi si sono avvicendate nei nostri teatri nello spazio di nove mesi. Si chiama questo tagliar fuori una città dal movimento teatrale?

«Agli spettacoli dati da compagnie costituite devonsi aggiungere le stagioni liriche e dal settembre scorso nei nostri teatri si rappresentarono piú che decorosamente 21 opere.

«Non parlo delle varie conferenze, concerti e compagnie francesi. Di fronte a questo importante svolgersi di spettacoli primari, che può essere sempre documentato, l'articolista male informato si scaglia contro di noi perché ci siamo permessi in giugno di far agire al Politeama Chiarella, Fregoli e Cuttica, e al Carignano Gabrielli e non sapendo o non ricordando vorrebbe accusarci di aver ridotto Torino a città tagliata fuori dal movimento teatrale, ridotta, dice, a ospitare soltanto due o tre buone compagnie. Coi dati di fatto, facile è stata la nostra smentita, e alla taccia di affaristi risponderemo affermando senza tema di smentita, che in nessuna città di primo ordine come a Torino i prezzi rimasero modesti. Ed è notorio che i nostri teatri sono aperti costantemente e del tutto gratuitamente a tutte le opere di beneficenza.

«E per rispondere ancora a un'inesattezza, diremo che in nessuna città come a Torino la requisizione ha infierito sui teatri, poiché senza il municipale teatro Regio tre teatri di imprese private furono occupati dall'autorità militare e cioè il Balbo, il Vittorio Emanuele e il Torinese.

«Confidando nell'imparzialità della S. V. per la pubblicazione della presente, ossequi».

Il signor Chiarella fa sfilare i nomi delle compagnie primarie che sono passate nei suoi teatri dall'ottobre 1916 al giugno 1917, e la coroncina dei nomi sembrerebbe dargli ragione. Se egli avesse incluso per i suoi calcoli gli ultimi due anni, avrebbe ancor di piú avuto ragione. Ma noi non volevamo fare il processo della attività industriale della ditta Chiarella sua vita natural durante. Volevamo constatare una tendenza che si è manifestata in questa attività nel 1917, si è acutizzata nel trimestre aprile-giugno, e temiamo voglia diventare definitiva sistemazione d'affari. La preoccupazione ha una legittima ragione d'essere. A Torino c'è molta gente che frequenta i pubblici spettacoli. Constatiamo il fatto, senza tentare di darne una qualsiasi spiegazione. Questa sempre maggior affluenza di pubblico agli spettacoli ha fatto fiorire in modo indecoroso i ritrovi di infimo ordine. La ditta Chiarella, che ha il monopolio dei teatri torinesi, contribuisce a questo abbassamento di livello del gusto generale. Si nota la tendenza, nel criterio degli affari della ditta, di sfruttare questa mania del varietà, invece di indirizzarla a forme superiori di spettacoli. Dall'aprile al giugno, i teatri dei Chiarella hanno ospitato una sola compagnia di prosa per una stagione ordinaria, ed è, neppure a farlo apposta, la compagnia di Sichel, che dà spettacoli dello stesso livello degli spettacoli di varietà. Nel mese di aprile ci sono state anche altre compagnie, ma per recite straordinarie: Musco, 5 giorni, Talli-Melato, 15 giorni, Novelli, 5 giorni. In questo trimestre i teatri torinesi hanno accolto in prevalenza varietà e operette: due mesi della compagnia Maresca, recite della compagnia Lombardo, Città di Milano e Parigi, poi Petrolini all'Alfieri, cinematografo all'Alfieri, Zambi allo Scribe, Gabrielli al Carignano, Fregoli e Cuttica al Chiarella. Nei due mesi di maggio e giugno, solo 10 recite di una compagnia di prosa rispettabile, se non primaria, la compagnia di Tina Bondi.

Il signor Chiarella dice che lo abbiamo tacciato di affarista. Egli è semplicemente un uomo d'affari, che trova nel monopolio il metodo piú sicuro di raggiungere i suoi fini. Gli affari in regime di monopolio, si deformano fatalmente, cosí come si sono deformati quelli della sua industria teatrale. Il monopolio è portato persino a distruggere dei valori economici, e fa sviluppare delle forme contorte e dannose di speculazione: dannose, s'intende, per la collettività, non per il capitalista, e per questo non dannose solo immediatamente. Il trust del consorzio teatrale ha già escluso dai teatri di Torino Ermete Zacconi; ora anche Emma Gramatica è caduta in ostracismo. Per esso le compagnie di prosa si vanno lentamente disgregando, perché, se vogliono vivere e lavorare, devono passare sotto le forche caudine dei patti, delle ingerenze, dei repertori, che il consorzio impone. Il teatro ha una grande importanza sociale: noi ci preoccupiamo della degenerazione di cui è minacciato per opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è possibile, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a teatro: l'industria lo sta lentamente abituando a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito.

Dato questo nostro atteggiamento, preghiamo il signor Chiarella di credere che non vogliamo affatto contribuire a spingere alla requisizione dei suoi locali. Ci pare che sia la sua ditta stessa a offrire l'occasione di una misura del genere. Il Balbo, il Torino, il Vittorio furono requisiti appunto perché da un pezzo non si aprivano piú a spettacoli teatrali degni del nome. Il teatro Vittorio, gestito dai Chiarella, si chiuse il 23 ottobre dopo una stagione teatrale del circo equestre Bisini e fino al giorno della requisizione si aprí solo a lunghissimi intervalli per qualche spettacolo lirico secondario. È questo il pericolo dell'industria monopolizzata: essa fa affari, anche svalorizzandosi in un certo mercato, anche distruggendo i suoi valori: se ne rifà in altri mercati, senza preoccuparsi del disordine che crea, delle tendenze morbose che determina. E non c'è modo di farlo con mezzi economici. Saremmo lieti se a qualcosa servisse la protesta dei giornali. Che se poi il trust Chiarella desidera che si parli delle concessioni fatte per gli spettacoli di beneficenza noi non avremmo alcuna difficoltà: solo che il discorso sarebbe lungo e... pericoloso!

(4 luglio 1917).

Ancora i fratelli Chiarella. Il signor Giovanni Chiarella ci invia una seconda lettera di recriminazioni che non riescono a far mutare le nostre convinzioni. Egli vuole che si faccia notare ai nostri lettori che le compagnie Musco e Novelli continuavano nel mese di aprile corsi di recite iniziati nel mese di marzo, cosí che non appaia che essi siano venuti a Torino per soli cinque giorni. Desidera pure che sia ricordato che la compagnia Talli nello stesso aprile tenne 28 serate. Ciò non toglie naturalmente che nei due mesi di maggio e giugno i teatri dei Chiarella abbiano accolto in prevalenza spettacoli di infimo ordine, mentre a Milano, a Roma, a Bologna, a Firenze, contemporaneamente, la vita teatrale aveva ben altro svolgimento. Non fummo i soli a osservare il fenomeno: altri giornali di Torino ripeterono le cose da noi scritte.

Quanto all'opera deleteria del trust, il Chiarella si appella ai capocomici italiani. Perché appaia però che le nostre osservazioni non erano campate in aria, riportiamo un brano della lettera aperta con cui Marco Praga, presidente della Società italiana degli autori, ha indetto un convegno di capocomici per il 9 luglio:

«Piú voci sono giunte a noi, e voci degne d'essere ascoltate, sia che venissero dai piú eletti e dai piú umili.

«Dicono alcuni capocomici: s'è formato uno stato di cose pel quale l'esercizio della nostra industria è reso troppo difficile, troppo rischioso, se non addirittura impossibile. Ci sono imposti contratti stranamente onerosi. C'è chi s'immischia nella formazione delle compagnie, senza diritto. Il giro delle compagnie è forzoso, ed è subordinato non all'interesse dell'arte e dell'industria teatrale, ma a quello soltanto di chi tiene in suo potere l'agibilità e la disponibilità dei principali teatri nelle città principali. E aspre polemiche e dibattiti dolorosi si sono svolti, su questo argomento, né ebbero ancor fine.

«Dicono i comici: lunghi anni di lotta ci avevano fatto ottenere equi patti di scritture, con l'abolizione di certe clausole viete e sommamente pericolose per noi, e la concessione di tali garanzie che ci assicuravano un pane modesto dandoci quella tranquillità di vita che è indispensabile al miglior esercizio dell'arte nostra. Ed ora d'un tratto, tutto ci fu ritolto; e ci fu ritolto in un momento grave della vita nazionale, in un periodo di crisi quale mai fu attraversato dal teatro italiano. O vivere di ansie e di stenti, o disertare, per rifugiarsi su quella scena muta che non può dare soddisfazioni al nostro amor proprio, ma che ci offre un pane meno incerto e meno duro.

«Dicono alcuni proprietari o conduttori di teatro: Non è manía di monopolio che ci guida, non è manía di accentramento in nostre mani della industria teatrale, e non è un'egemonia a nostro solo profitto che noi vogliamo creare. Ma è il desiderio e il bisogno di disciplinare l'esercizio di questa industria teatrale, disciplina dalla quale non possono derivar danni, ma, anzi, debbono scaturire maggiori fortune per l'arte.

«E dicono, infine, altri proprietari o conduttori di teatro: Noi potremmo e vorremmo offrire condizioni contrattuali piú favorevoli ai capocomici, e non temeremmo la leale concorrenza fra teatro e teatro di una stessa città. Ma per ragioni troppo evidenti dobbiamo seguir la corrente, dobbiamo uniformarci alle disposizioni o ai consigli di chi ha in mano la maggior somma degli interessi teatrali, né possiamo agire se non con il consenso e per il tramite delle agenzie».

Del resto basterebbe ricordare le lettere che Ermete Zacconi (cui pure il Chiarella si rivolge nella sua lettera) ha inviato ai giornali in varie occasioni, e la recente campagna degli organi giornalistici del trust contro Emma Gramatica.

È questo che a noi importa piú di tutte le statistiche, di tutti i calendari che il Chiarella volge a suo favore, non potendo smentire i fatti che a Torino si chiamano Petrolini, Bambi, Cuttica, Spadaro, Gabrielli, nello stesso tempo in cui nelle altre città si chiamano coi nomi delle compagnie drammatiche. Che i Chiarella cerchino di armonizzare il desiderio di non essere in deficit, con l'esplicazione di un alto ideale artistico, è cosa che vogliamo vedere nella realtà e non solo nell'affermazione generica scritta per i giornali. La realtà di questi ultimi due mesi è stata tale da rendere giustificato l'appunto da noi mosso. Il resto è minutaglia inconcludente.

Infine il signor Chiarella propone di sottoporre l'opera da lui prestata per la beneficenza all'esame e al giudizio dei probiviri della stampa. Non vediamo l'importanza dell'esame e del giudizio. Perché il signor Chiarella si tranquillizzi e per evitare un cumulo di beghe e di fastidi perfettamente pleonastici, siamo disposti a riconoscere che il signor Chiarella ha fatto tutto ciò che ha potuto fare, come uomo d'affari, per la beneficenza!!

(8 luglio 1917).

L'industria teatrale. A Milano si sono radunati a convegno, nei giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate all'industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e d'operetta, e gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal presidente della Società degli autori, per cercare di appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo sprecato. Le questioni non furono appianate, i proprietari non cedettero di una linea: ma il signor Giovanni Chiarella continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei capocomici italiani perché documentino il suo illuminato mecenatismo.

I capocomici domandavano il ritorno puro e semplice alle condizioni contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione della propina tre per cento sull'introito di ogni spettacolo, imposta dal trust a favore dell'agenzia Paradossi; 2) abolizione delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e dei proprietari di teatro, eliminandosi l'inconveniente che una parte dell'introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3) ripartizione proporzionale su ogni spettacolo dell'ammontare degli affitti annui per palchi e barcacce, affitti che ora vanno a totale ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a carico dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari di teatro; 6) per le compagnie d'operetta le spese di orchestra a carico dei proprietari di teatro.

I proprietari non accettarono nessuna di queste proposte, sebbene fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a tutti i teatri dell'aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e devoluzione dell'aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per compensarli dell'aumentato prezzo del carbone e dell'aumentata tassa teatrale; 2) riduzione del 5 per cento della percentuale sugli introiti serali devoluta finora ai capocomici. I proprietari invece fecero delle controproposte che miravano a far sorgere degli attriti fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il convegno è servito a qualcosa, è perché ha determinato un avvicinamento tra le tre categorie che sono direttamente danneggiate dal trust: gli autori, i capocomici e gli scritturati. I capocomici hanno concesso agli scritturati un nuovo contratto di locazione d'opera, contratto unico, paga annuale senza stagioni morte.

Certo non basterà questo principio d'accordo per scompaginare il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l'arte, e strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato potrebbe intervenire. Esso può boicottare subdolamente gli artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al cinematografo, a Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni Chiarella si è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi effetti dell'industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose scrivono ora, dopo l'esperienza del convegno di Milano, anche altri giornali. E usano precisamente quel linguaggio, per il quale il Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare affarismo. Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per l'industria propriamente detta, è liberista e avversario dei monopoli per l'industria teatrale, l'unica che studi e svisceri con criteri non amministrativi:

I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio su basi commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi esclusivamente: dell'arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto questa gente si trasformi in un'accolta di mecenati o di persone che si accorgano di non speculare su delle scarpe, sarebbe ingenuità.

Il consorzio oltre aver determinato anche nei teatri di provincia non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto salire il prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri interessi spinto da necessità insite nella sua natura.

Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú teatri gli è possibile, è diventato e diventa proprietario di teatri di secondo e terz'ordine, che non rendono niente, e che rimangono chiusi gran parte dell'anno. E allora escogita quei mezzi balordi del cinematografo, dei visionisti, degli spettacoli sportivi, dei vari Petrolini, in modo da diminuirne anche la secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a dei locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per nozze, banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è precisamente un criterio da caffettiere che ispira il consorzio, il quale è sempre in caccia del genere o dell'individuo che piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi sulla moralità, sul giuoco e su altre miserie. È facile intuire in quali condizioni si trova l'arte drammatica alla mercé di costoro.

Tolte due o tre compagnie favorite, perché attirano gente, le altre che pure l'attirerebbero se potessero recitare durante le stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni possibilità di far bene; e siccome raramente il valore commerciale coincide col valore artistico, il consorzio favorisce il primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che esso grava sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i piú volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati da persone colte, intellettuali e pronte a qualsiasi visione di bellezza.

(17 luglio 1917).

Continuazione della vita. Entrare e uscire. Bisogna abolire le due parole. Non si entra, né si esce: si continua. Incomincio ad ammirare il genio industriale dei fratelli Chiarella. Incomincio a credere che i loro criteri siano gli unici criteri possibili a Torino. Torino ha il teatro che si merita: esso è lo specchio della sua anima, della sua vita.

Sichel, che si maschera da cretino, e ripete sempre lo stesso gesto, e ripete sempre la stessa frase idiota, e tuttavia fa sganasciare di giocondità, è la persona seria, è il pater conscriptus, è il commendatore Usseglio della vita torinese. Non basta il consiglio comunale: al Carignano hanno aperto la succursale. La finzione conquista la vita: non c'è piú finzione e vita, c'è solamente la gelatinosa realtà torinese, e tutto diventa bigio, tutto diventa piatto e volgare.

Cirano diventa il cav. Serafino Renzi. Hanno riaperto il teatro Balbo perché Cirano si ripresentasse in questa sua ultima truccatura. Il giocoliere si è vestito da Cirano, e sbava poesia e agita il pennacchio. È il Cirano da Porta Palazzo, è il Cirano che scrive sui giornali, che ogni giorno si arrovella il piccolo cervello da pulce castrata, e inventa nuove trame e scopre, smente, riconferma nuovi colloqui, e nomina nuovi generali ai 55 barabba, e gira su se stesso, orgoglioso e ammirato del suo roteare. Cirano dello Scribe, Cirano del cav. Renzi, sotto il pennacchio, sotto la volgarità del tuo ultimo trucco, tu continui le gesta di Francesco Rèpaci, continui le gesta di Mario Gioda. Hai anche tu aperto una succursale a Porta Palazzo, ti vedremo passeggiare al chiaro di luna in compagnia del cav. Bonvito, la tua Rossana, e sbavare lunghi racconti di intrighi romanzeschi, e dare prove di complotti e poi soffregarti le mani soddisfatto: provino che non è vero, provino che è inventato. Povero Cirano quanto schifo per la tua finzione, e per la tua vita sdrucciolata nelle lubricità delle latrine follaiole. I fratelli Chiarella hanno veramente del genio. Ti hanno preso per il naso e ti espongono nella loro vetrina: sanno fare i loro affari: Torino, hai il teatro che ti meriti.

Sichel, Renzi, il Trovatore, i Pagliacci, l'operetta tutta da ridere: realtà gelatinosa: lo sberleffo e il gemito sentimentale, la finzione della falsità inzuccherata e la vita dei tuoi angiporti: Cirano che dà il braccio al questurino, il libertario che scrive l'apologia del deputato commissario di polizia. Il teatro non è che la continuazione della tua vita, e la tua vita è tutta nel libro nero della polizia.

(11 settembre 1917).

Contrasti. Una cavallerizza, una moglie adultera, una fanciulla ingenua, un marito sordo e grottesco, due giovanotti eleganti e stupidi, un imbroglione foderato di tutte le grossolanità. I sette personaggi giocano a rincorrersi, a infinocchiarsi reciprocamente: dicono una infinità di scempiaggini, la loro vita è tutta una scempiaggine. Sichel e soci ripetono molto bene le scempiaggini: le ripetono con tanta sicura medesimezza, che si comprende benissimo non sarebbero capaci di ripetere altrettanto bene le cose intelligenti. Si annega nella sciocchezza. Un'atmosfera palpabile di bestialità si forma nella sala dell'Alfieri: promana dai visi ridenti, dagli occhi lucidi, dalle brevi e nervose risate degli spettatori: si diffonde grossa e pesante dagli attori, dal palcoscenico. Neppure un brivido di umanità, di spiritualità. Eppure questi spettatori non sono dei grezzi ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la possibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi, con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al braccio di un amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora chi è sprofondato nel buio da poco, con le pupille abbruciate da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono atteggiare il volto alla serietà, possono sentirsi velare gli occhi di cupa tristezza. Eppure, quando il velario si apre, e le ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in immondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si approfondisce in risatine di compiacimento: continua a perseguitarci nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno che si avvicina.

(3 ottobre 1917).

«Cosí è (se vi pare)» di Pirandello. La verità in sé non esiste, la verità non è altro che l'impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un certo fatto. Questa affermazione può essere (anzi è certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio emesso da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo di superficiale ilarità. Ma ciò non importa. L'affermazione può dare luogo a un dramma lo stesso: non è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime. Ma Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio superficiale. Dei fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non hanno altra ragion d'essere che questa: la curiosità pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa è una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico di parole che non creano né una verità, né una immagine. L'autore li ha chiamati parabola: l'espressione è esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano piú, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché nel teatro non bastano le virtú dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione.

La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La verità in sé non esiste, esiste l'interpretazione che di essa dànno gli uomini. L'interpretazione è vera, quando di un fatto rimangono tali documenti da permettere agli uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto che dà luogo alla parabola esistono solo due testimoni-documenti: e i due sono interessati al fatto, e non appaiono che esteriormente, nell'apparenza sensibile che si sviluppa da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica: marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di mistero. Il mistero solletica tutte le curiosità pettegole del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire l'autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la vecchia un'altra, uno lascia credere che l'altra sia pazza: chi ha ragione? Il signor Ponza sostiene d'essere vedovo di una figlia della signora Frola, d'essersi riammogliato, e di tenere con sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la Frola solo per un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita alla morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia sua figlia, sempre viva. La signora Frola sostiene che il Ponza abbia avuto in un certo momento della sua vita un oscuramento della ragione: che in quel periodo gli sia stata sottratta la moglie e che egli l'abbia creduta morta, e non si sia voluto ricongiungere con lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un altro nome, credendola un'altra persona. I due separatamente sembrano saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione, sebbene reciprocamente operino come se veramente uno faccia la commedia per pietà dell'altro. Quale è la verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti: il paese loro d'origine è distrutto dal terremoto, chi potrebbe informare è morto. La moglie del Ponza fa una breve apparizione, ma l'autore preso nell'incanto della sua dimostrazione, ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io sono l'una e l'altra cosa, io sono ciò che si crede io sia. Uno sgambetto logico semplicemente. Il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica. Un mostro pertanto, non una dimostrazione, non un dramma, e come residuo, del facile spirito e molta abilità scenografica.

Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il Paoli, il Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi applausi a ogni chiusura di velario.

(5 ottobre 1917).

Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al Carignano). Annibale Betrone ha scelto, per la sua serata, la commedia di Paolo Ferrari: La satira e Parini. Scelta poco felice. Se un significato possono avere queste serate speciali, esse lo hanno per il fatto che l'attore beneficiato può scegliere nel repertorio – spesso imposto da necessità industriali, e dal particolare cattivo gusto imperante – quel lavoro che meglio si confà con la sua preparazione, con la sua indole, con le sue qualità piú intime, può scegliersi egli stesso la interpretazione piú aderente alla sua personalità e questa esprimere nel modo piú adeguato, come non è dato sempre di poter fare. Nella commedia del Ferrari un solo personaggio ha vita artistica propria, peculiare, il marchese Colombi. Parini è un incidente, è un personaggio esteriore, sebbene il suo nome appaia nel titolo e la sua persona ritorni spesso sulla scena. Parini è un pretesto, un meccanismo scenico, che serve a determinare un intreccio, ma non ha vita propria, drammatica. Parla e opera secondo uno schema, come un po' fanno tutti gli altri personaggi, eccettuato uno solo, il marchese Colombi, che diventa cosí il vero centro artistico della commedia, l'unica giustificazione artistica della commedia.

La beneficiata del Betrone è diventata cosí invece la beneficiata di Giulio Paoli, per la logica stessa delle cose. Perché un attore sia artista in atto è necessario che le sue possibilità interpretative si sostanzino di vita reale artistica. Il Betrone non poteva trovare questa vita nel personaggio di Giuseppe Parini. Le sue possibilità non potevano che rimanere esteriori, forma senza sostanza, cioè pura ipotesi, sforzo di immaginazione, non plasticità. Un po' di declamazione, nessuna interiorità. Un vero peccato. Perché la serata di Annibale Betrone potrebbe sempre essere una vera manifestazione d'arte, perché il Betrone è attore tale da realizzare, in una opera d'arte, una interpretazione perfetta. Le rappresentazioni solite, di ogni giorno, non dànno mai occasione a una espressione di sé completa. Sono frammentarie, incerte, provvisorie: le abitudini del teatro italiano obbligano gli attori a una varietà di interpretazioni che non può non essere a danno della profondità, della compiutezza. C'è sempre un po' di dilettantismo, di nomadismo, di improvvisato nei nostri attori. Le elaborazioni minuziose, capillari, sono ignorate. L'intuizione può supplire in parte, ma non riesce mai a dare quella pastosità intensa di luci che dà la preparazione, il lavorio critico.

Nel Betrone c'è l'intuizione vigile, pronta, e anche il senso critico, ma non sempre le due possibilità si incontrano in una stessa interpretazione. Accade che il senso critico debba applicarsi a personaggi vuoti di sostanza artistica, e l'interpretazione non sia che virtuosismo esteriore. E accade che un carattere sia interpretato a grandi linee, nel suo complesso, ma manchi all'interpretazione lo studio dei particolari che fa gioire di ogni parola, di ogni cenno, perché in ogni parola, in ogni cenno si vede un momento di vita, perché sempre si coglie l'anima dell'attore che brilla e dà valore. Cosí in questa edizione della commedia di Paolo Ferrari non può apparire dell'arte di A. Betrone che qualche sprazzo inconsapevole, manca la sostanza che si lasci foggiare, che diventi plastica espressione di vita drammatica, o completa estrinsecazione di qualità che pure esistono, ma non riescono a emergere che per incidenza.

(21 ottobre 1917).

«Mimí» di Fraccaroli al Carignano. Mimí, commedia in tre atti di Arnaldo Fraccaroli, è la sintesi drammatica di un romanzo di Carolina Invernizio o di H. Malot e di una raccolta di frizzi e piacevolezze estratta da «Numero» dal «Guerin Meschino». Mimí è una sorella maggiore di Scampolo, come Scampolo balza fuori, tutta sfumata e senza contorni precisi, da una infinità di libri popolareschi nei quali al tipo della cocotte, o a quello della donna fatale viene preferito il tipo della donna di natura, non ancora guastata dalla società, dal contatto con la vita degli altri. Tipo, cioè non creatura viva, individuata: cliché letterario, incipriato e infiocchettato di frasi e di parole che fanno quasi sempre presa facile sul pubblico grosso, che si bea dell'ingenuità artificiosa, come un vecchio infrollito si bea delle smorfie e dei capricci ammaestrati di una minorenne che conosce già alla perfezione l'arte sua. Mimí è un'artista, una pittrice: è una bohême, amica e compagna di ventura di altri bohêmes. Ha la fortuna di trovare tutti galantuomini: affamati, ma galantuomini, milionari, ma galantuomini. E sale, diventa gloriosa, e sempre i galantuomini le allietano l'esistenza. La guerra ha proprio, nella commedia di Fraccaroli, rinnovato il mondo: il mondo è un idillio arcadico, soffuso di foglioline di rosa, in ognuna delle quali è scritto un frizzo per far sempre migliorare il sangue. Mimí anch'ella si mantiene pura e onesta: sta per cedere, sta per insozzare la natura sua candidissima in un'avventura, tiratavi piú che altro dal buon cuore, e dal nobilissimo sentimento della gratitudine, ma non ne fa niente. L'amore vero, quello che si trova cosí spesso citato nell'«Amore illustrato» e nei melodrammi del Piave, la distoglie dai mali passi, e la conduce a un ospedale militare dove il suo bene, arrivatovi proprio caldo caldo, la sospira.

Applausi a ogni atto, sempre piú tiepidi. Il successo relativo (troppo a ogni modo, e apportatore di nuove sciagure) fu dovuto all'interpretazione: suggestiva in Maria Melato, misurata, efficacissima nel Paoli.

(26 ottobre 1917).

«Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano. Silvestro Bonnard messo in iscena non è piú il Silvestro Bonnard di Anatole France. La concretezza della sua personalità non resiste alla traduzione del romanzo in commedia. La sua vita è nella parola, è celebrazione di tutta la realtà, e si dissolve nella scena o si colora di elementi estranei, che cozzano con quelli originari dando luogo a una azione scenica talvolta trivialissima, priva come è completamente di ogni spiritualità, pura macchina teatrale che si trascina terra terra. Bonnard, come Bergeret, come altre creazioni del France, sono concepite liricamente piú che drammaticamente. Sono momenti polemici dello spirito dell'autore, piú che disinteressate fantasticherie artistiche. Hanno un qualcosa del Socrate nei dialoghi platonici, e artisticamente sono definiti, non possono essere trasportati in una temperie che sia diversa da quella che l'autore, sia pure arbitrariamente, ha fissato; in quell'arbitrio è l'unica ragione loro d'essere, quell'arbitrio è la loro giustificazione.

Nella commedia, Silvestro Bonnard diventa un personaggio da romanzo popolare, un protettore svenevole delle orfane e dei pupilli. L'ironia corrosiva diffusa nel romanzo, dilegua nella scena: Bonnard si avvicina ai papà Martin del repertorio di Ermete Novelli e perde quasi del tutto l'Anatole France. Tuttavia la commedia si è sorretta, pur tra qualche incidente, grazie specialmente all'interpretazione che del protagonista ha composto Ruggero Ruggeri.

(8 novembre 1917).

Ruggero Ruggeri. Nel ripensare, prima di scrivere queste note, le impressioni provate, volta a volta nell'assistere alle interpretazioni di Ruggero Ruggeri; nel vagliare criticamente gli elementi che dovrebbero comporre la personalità artistica dell'attore e nell'accostare questi elementi di giudizio, si arriva a un punto morto. Ogni sintesi è impossibile. Le impressioni provate volta a volta non contengono in sé un elemento connettivo che possa servire a saldarle insieme in un giudizio unitario.

Ruggero Ruggeri è l'attore che recita sempre bene. Che in ogni interpretazione – anche di cose mediocri o nulle – sa far risaltare la sua parte, sa farsi notare, sa strappare, a un certo punto, l'applauso. Ripensandoci, si trova che in ciò consiste il suo talento, e la sua deficienza di artista.

Gli autori potranno essergliene grati, il pubblico non deve essergliene grato. E neppure tutti gli autori: gli autori mediocri, che non sanno dire una parola che valga in sé e per sé, che viva di vita propria. Ruggeri è l'attore dell'indistinto: conguaglia tutto: il bello e il brutto diventano uguali attraverso la sua persona, e il bello ne soffre, ne viene diminuito, non è piú lui. Chi si reca a teatro per divertirsi, per passare l'ora, può essere lieto di ciò: difficilmente prova una impressione sgradevole, difficilmente dice d'aver perduto la serata, di non essersi spassato. Ma lo spasso e il passatempo non sono sensazioni estetiche. Il gusto gode nel rivivere con l'attore una creazione di bellezza; prova anzi una doppia sensazione: rivive il fantasma drammatico con l'autore e con l'attore. L'attore esprime plasticamente il fantasma che l'autore ha espresso verbalmente. È una doppia creazione, che, quando è perfetta, deve dare una impressione solida, compiuta, senza residui.

Ruggeri non sa abbandonarsi all'autore, all'espressione verbale; egli vi si sovrappone. E lo fa sempre allo stesso modo. La duttilità dell'ingegno gli serve magnificamente. È adusato a tutti i lenocini dell'arte: possiede la tecnica a perfezione. Ma la pura tecnica è esteriorità: se non si fonde con gli altri elementi che contribuiscono alla creazione, se non diventa spontaneità, essa è un impaccio, è una deficienza piú che una qualità buona. Crea, come appunto in Ruggeri, il conguagliamento, l'indistinto, mentre l'arte è sempre diversità, distinzione, individuazione.

Per limitare e comprendere la fortuna e il successo del Ruggeri bisogna porsi questa domanda: è possibile recitar bene un'opera mancata? e rispondere. La risposta non può essere che negativa, se si ragiona con criteri artistici. Recitar bene un'opera mancata significa solo che l'attore è riuscito a costruire un'apparenza di bellezza, che si è servito di elementi extraartistici, di suggestioni che non hanno affatto a che vedere con l'interpretazione. Ha isolato qualche elemento a successo, e lo ha dilatato fino a dar l'impressione di una compattezza espressiva. È il lavoro solito del Ruggeri. Le commedie e i drammi del suo repertorio sono imperniati su un personaggio: Lo sparviero, L'avventuriero, L'amico delle donne, ecc.; gli altri personaggi sono sfumatura, penombra. L'unico è anch'esso composto di molta sfumatura e penombra, e di pochi sprazzi di luce: ma questa poca luce finisce con l'irradiarsi in tutto il lavoro, col dargli una vita fittizia, che dura tra la prima e l'ultima scena, e lascia in fondo la bocca allappata, e la fantasia inerte.

Ruggeri non sa spogliarsi di questo abito di virtuosismo neanche quando l'espressione verbale ha tale vita intima da poter dar luogo alla vera interpretazione, alla traduzione integrale in valori scenici. Il lavorio di isolamento è trasportato anche alle opere d'arte; anche esse vengono raffazzonate, snaturate, e il successo che le accompagna è in gran parte successo fittizio, perché ottenuto con mezzi esteriori alla loro intima grandezza.

Ruggero Ruggeri non è piccola causa del pervertimento estetico del pubblico di teatro. Egli riesce a dare impressioni di bellezza e di grandezza anche quando la bellezza e la grandezza lasciano il posto al lenocinio e alla tecnica, e il pubblico finisce col confondere, col perdere ogni esatto criterio di giudizio, col ritenere che valgano ugualmente Bernstein e Shakespeare.

(25 novembre 1917).

«L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri. Le sofferenze e le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto diventare generosi, hanno elevato gli uomini. È il motivo dominante. Le sofferenze e le angosce non hanno però fatto diventare sinceri gli uomini che non erano sinceri, e specialmente gli scrittori di teatro. Gli scrittori di teatro, francesi specialmente, ma anche italiani, avevano creato, per uso industriale, un mondo fittizio di avventurieri, di donnine allegre, di vecchie intriganti e di vecchi satiri. Era una riduzione meccanica del mondo, era una visione artificiosa del mondo, utilissima ai fini del successo, perché offriva una inesauribile miniera di spunti, di intrighi, di intrecci, non domandava sforzi di fantasia, non domandava elaborazioni faticose. Il pubblico di scioperati che affollava i teatri si divertiva e si diverte tuttora a quegli intrighi e a quelle gaglioffaggini. Si è parlato però troppo di virtú, di sacrificio, di doveri. Si è dovuto riconoscere, per fini pragmatistici, che la virtú, lo spirito di sacrificio, il sentimento del dovere, sono ancora radicati negli animi. Chi si era troppo compromesso con lo scetticismo, chi aveva lasciato troppi documenti della sua superficialità spirituale, con rappresentazioni gaglioffe di una vita d'eccezione presentata come tutta la vita, ha cercato una via d'uscita, ha gridato al miracolo. La guerra ha fatto il miracolo, le sofferenze e le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto il miracolo. Rimane l'insincerità interiore, rimane la meccanizzazione interiore della vita. La guerra, moralmente, non fa diventare né generosi, né ribaldi, perché può far diventare l'uno e l'altro, e non è ancor detto quali siano in maggioranza questi prodotti, non della guerra, ma delle riflessioni, dei giudizi, delle esasperazioni, degli entusiasmi che la guerra ha servito a rinsaldare o a liquefare a seconda degli uomini, della loro preparazione morale, della loro preparazione umana. La guerra può aver elevato molti o pochi uomini, non ha elevato E. Bernstein: nel caso nostro non lo ha fatto diventare artista, non gli ha suscitato una fantasia creatrice. Egli è rimasto ciò che era ieri: un abile scrittore di teatro, un abile alchimista di parole. La guerra non può far diventare poeta un mercante di parole: può dare semplicemente uno spunto nuovo, può suggerire diversi accostamenti di parole: la macchina generale rimane la stessa. C'è un marito vecchio, che è uno scienziato, ed è un religioso della volontà, che opererebbe cosí come opera anche senza il fattore guerra: sarebbe in qualche istante meno retorico, e forse neppure, perché tutto può diventare retorica.

È il personaggio piú completo, questo vecchio scienziato, che non uccide la moglie adultera, che riesce a dominarsi anche in momenti che si è abituati a vedere tragici in sé e per sé. Gli altri due personaggi sono sbiaditi: le troppe parole che dicono non bastano a circoscriverli: anzi quanto piú parole sublimi pronunziano, tanto piú essi disperdono la loro personalità, che si generalizza e dilegua nell'indistinto. Il soldato ferito, moribondo, «elevato» dalle sofferenze e dalle angosce, morirà: è una grande fortuna per l'autore, perché presentare dei grandi moribondi, è piú facile che rappresentare dei piccoli vivi che dimostrino quotidianamente, nelle piccole cose specialmente, la loro elevazione. L'artificio è troppo visibile per chi non abbandona l'abito critico sul limitare del tempio grandioso della retorica neanche nei momenti di piú infuocata esasperazione sentimentale.

Il dramma di Bernstein è il solito dramma del terzetto classico: l'anima vecchia, non «elevata» dell'autore, ha bisogno della catapulta di guerra per credere davvero che ci siano uomini e donne capaci di compiere il loro dovere. Questo gaglioffismo morale gli imbottitori di crani lo chiamano «l'anima nuova della giovine generazione».

(28 novembre 1917).

«Il piacere dell'onestà» di Pirandello al Carignano. Luigi Pirandello è un «ardito» del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché di moda. C'è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile. Cosí avviene nei tre atti del Piacere dell'onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come programma, la vita come «pura forma». Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la «pura forma» è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si realizza per sé, ma scombussola tutto l'ambiente e arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la «pura forma» si sviluppi in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà di uno deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno svolto pericoloso, e un po' confuso. Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone o un galantuomo, ma solo un uomo che vuole essere l'uno e l'altro, e sa essere effettivamente galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano.

La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto alla virtú di persuasione insita nel processo fantastico dell'intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuí a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della commedia.

(29 novembre 1917).

«Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano. Carlo Veneziani è un professionista dello spirito. Ogni suo lavoro è immancabilmente esuberante di spiritosaggini: tanto esuberante che si finisce per rimanerne stuccati. Il braccialetto al piede, commedia in tre atti di Carlo Veneziani, è naturalmente tutta una spiritosaggine: dalla prima all'ultima parola. Ed è anche tutta una goffaggine: succede spesso che i professionisti dello spirito siano i piú goffi uomini del mondo. Perché essi sono d'una superficialità esasperante, perché la loro particolare attività manca di ogni spontanea vivezza. L'espressione è frusta, i personaggi sono presi dalla cronaca piú banale. Come in questa commedia. Un candidato politico, avvocato, grande avvocato che si fa preparare da un segretario tutto il materiale della sua fama. Che vive d'intrigo, che si prepara nelle alcove il titolo maggiore del successo politico, mentre sua moglie lo aiuta, concedendo le sue grazie a un vecchio, padrone di un giornale.

E come contrasto a questo vecchio cliché, un altro cliché piú vecchio ancora: una donna galante, che si è arricchita oltre oceano, e si addimostra nel vecchio mondo la migliore, fra tutte le fame usurpate che la circondano.

Una farsaccia legata insieme alla meglio, senza vita, senza un attimo di comicità, e che è caduta tra la noia e l'indifferenza.

(5 gennaio 1918).

Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al Carignano). L'amazzone di Henri Bataille è ritornata al Carignano nella traduzione italiana. Si è accostata cosí al pubblico nostro, ha suscitato discussioni e riflessioni: ha avuto e avrà, per quel poco che è consentito alle opere di teatro, efficacia costruttiva di moralità, di attività giudicatrice. Il Bataille continua nell'Amazzone il teatro suo anteriore alla guerra. Rimane uno scrittore moralisteggiante. Non ha, come Bernstein e altri, cambiato di moda. L'atmosfera della drammaticità è sempre la stessa, se pure sono cambiate per la guerra le contingenze, i motivi occasionali dell'azione drammatica. Il Bataille sublima le creature della sua fantasia, assegna loro un compito e un apostolato: dovrebbero esse superare l'ambiente morale in cui vivono, essere gli esempi di una umanità migliore, piú spirituale, in cui gli imperativi categorici del dovere si affermano senza residui. Ma l'espressione artistica viene contaminata da queste giustapposizioni volontarie: i personaggi si sbiadiscono, perdono gran parte della umanità loro, sono bocche da discorsi, simboli in cui si accumulano le esperienze dello scrittore, ponticelli tra l'autore – che non è filosofo, e non sa dare forma filosoficamente adeguata alle sue impressioni – e il pubblico, che l'autore vuole compartecipe dei suoi sentimenti, del suo mondo interiore, che però non riesce a esprimere intrinsecamente e si adagia piú male che bene, nelle forme tradizionali della letteratura.

L'amazzone ha un corpo femminile e un nome: Gina Bardel, ma non è solo una donna. È tutto il complesso delle forze spirituali che spingono gli uomini alla guerra.

È la materializzazione sensibile dello spirito di guerra: è la Francia, è l'idea del dovere, è l'idea del sacrifizio del singolo per la collettività, è l'energia necessaria per questo sacrifizio [alcune righe censurate]. Cosí come Cecima Bellanger, che nei primi due atti è appunto solo questa semplice creatura umana, individuo vivo e dolorante, nel terzo atto si compone in simbolo: è tutto il sacrifizio dell'umanità per la guerra, è la somma di tutti i dolori, di tutte le lacerazioni, di tutte le lacrime che la guerra ha prodotto e fatto versare. Questi dissidi tra individui e simboli, tra la realtà sensibile e l'astrazione ideale contaminano tutto il dramma, lo rendono artisticamente una raffazzonatura, se pure sapientemente costruita. Ma il problema spirituale raggiunge il suo completo sviluppo, il fine morale che l'autore si proponeva di fissare, acquista una concretezza quasi rappresentativa.

La guerra ha domandato ai popoli ogni sacrifizio, e specialmente il sacrifizio massimo, quello della vita. Ma la guerra per ottener ciò ha dovuto incarnarsi in uomini e donne vivi, che la necessità della guerra hanno predicato, che con la parola, con la dimostrazione hanno contribuito a suscitare entusiasmo, a inebriare le coscienze, a mettere a contatto la coscienza individuale con la coscienza universale, a far dimenticare i doveri individuali per un superiore dovere che si è rivelato attraverso le loro parole. Milioni d'uomini sono cosí morti, centinaia di migliaia di famiglie si sono disciolte, centinaia di migliaia di cuori sono stati inguaribilmente feriti. La guerra finisce: il dovere è stato compiuto, il sacrifizio è stato consumato. Qual è il destino oramai dei rimasti, ma di quelli specialmente che hanno incarnato lo spirito della guerra, che hanno rappresentato la necessità, il dovere, lo spirito di sacrifizio? È il problema del dopoguerra spirituale che il Bataille cosí si pone e cerca di risolvere. La vita, la felicità cercano di riattirare a sé questi uomini e queste donne. E pare che i sopravvissuti debbano avere il compito di rifare il mondo, di sanare le ferite profonde inferte dalla guerra alla compagine sociale. Ma cosí non può essere. Predicando la morte, il sacrifizio, quelle creature si sono indissolubilmente votate alla morte, al sacrifizio. Esse devono rappresentare un olocausto al carnaio che hanno contribuito – sia pure per necessità, per alta missione ideale – a determinare.

La vita non deve piú avere un raggio di luce per loro. Questo destino non è segnato nelle leggi, non può comportare sanzioni per quelli che tentino eluderlo. È intrinseco, è una necessità interiore. Quando qualcuno di questi segnati starà per dimenticare, per rientrare nella vita, un fantasma si drizzerà loro di contro: il fantasma del passato sanguinoso, che reca l'impronta anche delle loro piccole mani. Sarà una generazione di puri apostoli del dovere, che si chiuderanno nel chiostro della loro coscienza, che saranno come un ordine laico di sacerdoti addetto al culto dei morti, le vestali che dovranno sempre mantenere accesa la lampada dell'ideale, alimentandola del loro sacrifizio, della loro rinunzia alla gioia e alla felicità.

Questa l'atmosfera morale del dramma. Questo il fine che il Bataille propone come dovere imprescindibile alle «vergini guerriere», alle «seminatrici di coraggio», a tutta quella parte di umanità che si è assunta liberamente e spontaneamente il compito, gravido di responsabilità, di richiamare gli individui al sacrifizio, al senso del dovere. Non è un dopoguerra di riposo, di tranquillo riassestamento delle esigenze della vita. La vita non ricomincia domani per loro, come per i combattenti. Anzi la vita dei combattenti deve essere per loro la fine della vita, dell'attività, del fervore per il velo monacale, per il cilicio che strazia le carni.

Il dramma vale come presentazione della tesi, come esemplificazione del dovere che dovrebbe germinare spontaneamente nelle coscienze. Gina Dardel, la vergine guerriera, quando sta per spogliarsi del cumulo di astrazioni che ha impersonato, e diventare vita sensibile, rinunzia alla vita. Ha contribuito a fare andare un uomo, molti uomini verso la morte, ha inebriato di follia, è stata l'immagine necessaria ai cervelli per veder meglio, per la saldatura tra il reale e l'ideale: il ricordo la riprende, la incatena, ed essa se ne va verso il suo destino.

La compagnia Tina Di Lorenzo ha dato una efficacissima interpretazione del dramma che pure non può, per la sua impostazione, dar luogo a un grande successo.

(10 gennaio 1918).

«Fum e fiame» di Leoni al Rossini. Lo spirochete pallido del pregiudizio di guerra, nel processo di infezione letteraria, è arrivato anche al teatro dialettale: Mario Leoni è stato il veicolo epidemico: i quattro atti di Fum e fiame sono le quattro vittime piú illustri del morbo. La guerra, come abbiamo piú volte visto, è diventata la macchina moralizzatrice, la panacea universale, il motivo comodo e redditizio per una nuova tradizione di «lieti fini».

Prefatto della nuova commedia: Michele, pecora matta, nella famiglia rusticana di pare Lorens, e stato scacciato di casa, dopo aver reso infelice sua moglie Nina, ha vagabondato per molti anni all'estero, ha avuto una figliolina da un suo amore randagio.

Intreccio: Guido, altro figlio di pare Lorens, giovane esonerato, si innamora della cognata, e le offre un prezioso ventaglio (il ricordo goldoniano non giova davvero al lavoro di Mario Leoni); Nina, che è donna di eletta morale, non accetta il regalo galeotto, e il ventaglio passa nei capaci cassettoni di mare Vittoria. Michele ritorna a casa con la sua figliolina. Mare Vittoria lo accoglie come tutte le madri immancabilmente accolgono i figli prodighi: il perdono sarebbe generale, se tra Michele e Nina non si frapponesse la bimba straniera. Un tentativo di conciliazione avviene per mezzo dell'infausto ventaglio, che Michele, per suggerimento di sua madre, offre alla selvatica moglie nel giorno onomastico. Scoppia l'uragano: Nina suppone intenzioni oltraggiose nel dono: Michele viene a conoscenza del peccato di pensiero di suo fratello. Un dramma sanguinoso sta per nascere.

Scioglimento: nell'istante in cui i due fratelli stanno per trovarsi di fronte, l'un contro l'altro armati, suona la belligera squilla. La classe di Michele viene richiamata alle armi. I cuori feroci si compongono in serenità. Guido andrà anch'egli in guerra, volontario. Michele ha la promessa tacita di un coniugale perdono al suo ritorno: Nina si ammansa fino ad accogliere in sua custodia l'innocente bambinetta. L'orizzonte si colora in lontananza del roseo matrimoniale: perché anche Guido ha scoperto la vera sua anima gemella.

Consolazione dei poveri ma onesti genitori che soddisfatti assistono a queste metamorfosi della loro amata prole.

E la commedia finisce coi soliti applausi a Mario Leoni che anche quest'anno ha sfornato l'ennesimo suo capolavoro.

(23 gennaio 1918).

«La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al Carignano. Il nucleo drammatico di questi tre atti dovrebbe consistere in un fatto sessuale. Dovrebbe, ma gli autori non si sono troppo preoccupati dell'unità, della consistenza del loro lavoro: volta a volta, essi si sono lasciati sopraffare dagli episodi, dal particolare scenico, e cosí il dramma si è venuto svolgendo senza nessuna armonia, senza che la molteplicità dei suoi momenti abbia una profonda ragione di esistenza.

L'intreccio si fonda su un abusato giuoco di prospettiva: mentre un motivo drammatico si inizia per un personaggio, lo stesso motivo si conclude e determina la crisi interiore di un altro.

Il conte Rolando D'Astico ha, nella sua giovinezza, in un istante di ebrietà sconsiderata, violentato una cameriera di sua madre. L'episodio non ha lasciato alcuna traccia nella sua vita successiva: egli ha ignorato la donna, il suo destino, le conseguenze di quel momento di pura animalità irresponsabile. Nei vent'anni che sono trascorsi d'allora ha avuto tempo di rovinarsi per un'altra donna, di diventare una «macchietta»: povero, trascurato nell'apparenza esteriore della sua vita di nottambulo filosofeggiante, vivacchia scrivendo articoli per i giornali, conferenze, libri. Gli autori lasciano comprendere come egli sia un genio incompreso, un uomo di grande intelligenza, sebbene ciò non appaia troppo dalla scena, e da qualche battuta piuttosto povera di umorismo e dalla quale appare solo la mania da gazzettiere dello Zambaldi di occuparsi di cose che non intende. Ma lasciamo andare: anche questa non è che una delle tante prove della poca consistenza del dramma. Il conte D'Astico è un uomo oltre che una caricatura di filosofo, come non poteva non essere nelle mani di questi autori. Come tale, conosce un giovanotto, un pittore di belle speranze anch'egli, che è travolto da una passione ossessionante per una donnetta da poco, una ballerina, una che è stata, e continua a essere, merce sessuale. Il pittore, Stefano Landi, ha però avuto una signorina di buona famiglia e l'ha resa madre.

Rolando lo avvia al dovere, alla riparazione necessaria, e ne ottiene la promessa. Ma ecco che egli stesso viene a sapere di essere padre, di non avere compiuto il suo dovere, e per di piú viene a sapere che sua figlia è proprio quella donnetta da poco, quella ballerina che ossessiona Stefano. Che fare? Quale è ora il dovere? Come deve operare un uomo che diventa padre per sbaglio, inconsapevolmente, senza che egli sia stato unito, alla madre del nato, da vincoli spirituali, oltre che dall'accostamento fisico? Il conte D'Astico non sa rispondere a queste domande. Nessuno dei personaggi regolari sa rispondere. Stefano Landi, che non ha mantenuto la promessa, e non ha alcuna voglia di mantenerla, declama una sua interessata teoria sulla spiritualità dell'accoppiamento. Rolando pare accettarla, ma sua figlia, non conoscendolo come padre, lo atterra con le istintive parole della sua femminilità: ella vuole che Stefano sposi la madre del bambino nato da un istante di stordimento primaverile, e inveisce contro gli uomini che non sanno quale destino creino a tante vite, inveisce contro suo padre, l'ignoto egoista che l'ha ridotta la donna di tutti. Cosí avviene che il conte D'Astico, ammalato di cuore, muoia tragicamente dopo questa crudele scena, senza aver risolto nulla, e senza aver potuto, nella sua persona, accogliere ed esprimere il dramma che gli autori, indecisi tra la «macchietta» e la serietà, tra l'episodio e l'unità, non hanno saputo concretare.

Commossero il pubblico alcune scene di spolvero, e ciò procurò molti applausi agli autori, ad Armando Falconi come attore, e agli altri.

(7 febbraio 1918).

«A' berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello all'Alfieri. È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello, un episodio, un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto autentico del temperamento personalissimo dell'autore, ma non è stata elaborata, e rifinita come le altre commedie. Lo spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non esce certo dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali, siano sentimentali, ma l'autore svecchia il motivo antico, lo presenta rivestito di peculiarità caratteristiche, i personaggi sono suoi, della sua fantasia, le parole che dicono hanno una vita nuova, di stile e di passione. In questi due atti c'è poca intensità: la dimostrazione soverchia l'azione, la diluisce, la svanisce. A' berritta ccu li ciancianeddi continua la serie delle altre commedie, è un residuo delle altre commedie: continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l'essere e il voler essere, tra l'apparenza e la realtà, tra l'immagine e il vero, che hanno avuto due momenti drammatici nel Cosí è (se vi pare) e nel Piacere dell'onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta, qualche piccola scena, la vita è solo nell'interprete, in Angelo Musco, che riesce a far superare il tedio delle lunghe parlate non piú interessanti spesso di quelle del piú melenso scrittore di teatro.

C'è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non vuole sul suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello scherno. Egli sopporta il tradimento per conservare la donna, poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo sdoppiamento dell'uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il segreto viene propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene colta in flagrante adulterio. Un tranello è stato teso dalla moglie gelosa dell'adultero, e l'arresto dei due colpevoli rovinerà l'esistenza di don Nuccio, se egli non riesce a far credere che si tratta di una pazzia, che l'accusatrice è stata una pazza. Cosí si chiudono i due atti: il marito becco pone un dilemma: o la strage dei due colpevoli, sua moglie e l'amante, o la finzione della pazzia nell'accusatrice, nella donna gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha rovinato un quarto innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione indirettamente, facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire incompostamente e goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco dalla signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza civile e lascia senza freni la vena di follia che esiste in ogni umano.

La commedia si impernia tutta su Angelo Musco, che riesce colla sua comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata, irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante, a destare l'interesse degli spettatori, che si raccoglie nei due atti per dilatarsi ed espandersi nella risata finale.

(27 febbraio 1918).

«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella. Un ramo di pesco entra un giorno nella stanzetta di una maestrina, e la maestrina ne coglie un frutto mentre il padrone dell'albero, sindaco del villaggio, conte, e uomo di cuore invano verniciato di scetticismo parigino, passa sotto la finestra.

Il conte Filippo si presenta alla maestrina in atteggiamento sguaiatamente spavaldo, si abbonisce dopo cinque minuti di dialogo, si intenerisce dopo un quarto d'ora, se ne va, dopo mezz'ora, mutato, galantuomo, buono, ricolmo di tutte le migliori intenzioni, con un principio di innamoramento. La signorina Maria Bini ha raccontato la storia della sua vita al conte Filippo, e si è rivelata in tutta la sua dolorante umanità di sedicenne sedotta da un rustico don Giovanni, madre separata dal frutto delle sue viscere, imbarcata subdolamente per l'America, ritornata dopo nove anni e ridottasi a fare la maestra per poter ogni giorno recarsi a un cimitero vicino, nel quale devono giacere la polvere e le ossa della sua bambina.

Il conte Filippo, abbandonata definitivamente la scorza esteriore dello scetticismo e del pariginismo conquistatore, si pone all'opera. Rintraccia il seduttore, un porcospino immorale, dalla cotenna piú spessa di quella di un cinghiale, che ha mandato in America un mezza dozzina di minorenni, che, da perfetto farabutto non può non essere immerso in un brago di maialerie: sua moglie infatti è l'amante del curato, e il curato protegge le capestrerie del marito della sua amante e allontana dal suo capo i fulmini della giustizia.

La figliolina di Maria Bini non è morta, sebbene non sia viva nello stato civile, avendola il padre snaturato privata della sua identità sociale registrata e autenticata. Vive dunque, veste panni, e frequenta la classe proprio dove sua madre è maestra. Ma quale bimbetta sarà dessa? Il mistero dà luogo a una scena impeccabilmente commoventissima, nella quale si contempla la signorina Maria Bini che abbraccia freneticamente un mucchio di testine bionde e brune, tra le quali non può non esserci la testina di una figlia del mistero, del peccato, e della delinquenza piú snaturata e cocciuta.

Il seduttore Giacomo Macchia sta ritto, cinicamente indifferente e muto, innanzi al conte Filippo. Nega tutto, lo sciagurato impudente. Un articolo di codice, un mandato di cattura per manomissione di stato civile, un delegato di P. S. che pronunzia le sacramentali parole: in nome della legge, vi dichiaro in arresto. Giacomo Macchia la molla. La bambina viene identificata. Ella si presenta alla mamma sua e pronunzia alcune di quelle frasi innocenti che fanno cosí bene al cuore dopo aver visto sbavare un rettile del volume e della lunghezza di Giacomo Macchia. Maria Bini rimarrà con la sua creatura, e il conte Filippo sarà il loro angelo tutelare, non avendo potuto essere il rispettivo consorte e padre adottivo.

Tre atti: autore, Dario Niccodemi: titolo La maestrina, interpreti: Tina Di Lorenzo e Armando Falconi, nelle due parti principali, il Migliara e la Donadoni in due parti secondarie. Metodo per la mozione degli affetti: il vecchio metodo bernsteiniano di far culminare l'atto in una scena patetica che ammollisce il cuore. Molta maestria teatrale: nessuna traccia d'arte, e quindi moltissimi applausi.

(28 febbraio 1918).

«Il nuovo falco» di Teglio al Carignano. Il signor Paolo Teglio voleva scrivere una commedia, e voleva che essa fosse originale. Il signor Paolo Teglio, pensa e ripensa, scoprí che fra i tanti ingredienti che la vita e la società pone a disposizione degli scrittori, l'aeroplano non era ancora stato convenientemente sfruttato. Il signor Paolo Teglio decise allora di scrivere una commedia in cui entrasse l'aeroplano. Ma l'aeroplano è un meccanismo che non parla e non si muove senza che uno o piú uomini lo mettano in movimento e lo facciano diventare oggetto di drammaticità (almeno nell'apparenza) di azione, di passioni, di contrasti. L'aeroplano, insomma, si rivela come una pura esteriorità, che in un lavoro drammatico ha la stessa importanza delle sedie, degli alberi, delle pareti di una stanza, delle scarpe che i personaggi riempiono con i loro arti inferiori. Ma il signor Paolo Teglio aveva appreso molte parole che si riferiscono all'aeroplano e alle sue funzioni, aveva persino imparato il grido di guerra degli aviatori: Eja, eja, alalà. Probabilmente il signor Paolo Teglio è un aviatore, o almeno ha provato le emozioni del volo, e perciò crede che di per sé l'aeroplano possa destare negli spettatori di una commedia quell'empito fuso e vago, fatto di brividi carnali e di fantasticheria astratta, che deve provare chi si solleva dalla terra affidandosi a un fragile strumento meccanico. Certo è che nella commedia manca ogni altra drammaticità, ogni azione, ogni movente di azione. C'è un intreccio, ma esso rimane pura successione di scene e dialoghi, senza anima, senza interiorità. Un ingegnere che è stato rovinato da un giovinastro scioperato, e inventa un nuovo aeroplano: un giovinastro scioperato che, dopo commessa una grave colpa, viene toccato dallo spirito del bene e diventa pilota, e si redime. Una signorina che all'insaputa del papà, accompagna il suo amico nei voli e, coi capricci, riesce a farsi condurre a bordo anche per il volo di prova della nuova macchina inventata dal papà e guidata dall'amico convertito al lavoro e all'attività buona. Il nucleo di ogni scena, di ogni dialogo è sempre e solo: l'aeroplano, il volo, che sostituisce la continuità drammatica, che determina un'unità fittizia e puramente esteriore. La commedia è condotta sul canovaccio di una pochade: l'elemento sensuale è sostituito dalla declamazione eroica o letteraria, ma l'impostazione è la stessa: una macchina, non l'interiorità passionale, un susseguirsi di scene, non l'azione, declamazione letteraria piú o meno, non espressione spirituale. Il pubblico ha fatto giustizia dei tre atti del signor Paolo Teglio senza molti sforzi e con molto tedio.

(8 marzo 1918).

«Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri. È la storia di una beffa, che culmina anch'essa in una mangiata, come tutte le beffe classiche. Ma il Barbiera non è un poeta come Sem Benelli: e don Cecè non è Giannetto. Don Cecè è uno scrocco, una macchietta da villaggio siciliano, che i «galantuomini» del paese nutrono, e fanno diventare assessore, perché se ne divertono, perché egli li sollazza con le sue millanterie e i suoi pettegolezzi. La burla è fiera: don Cecè si crede cavaliere, crede di aver conquistato una primadonna di Guittelemme, e si vendica, fieramente anch'egli: una fischiata alla primadonna, un pignoramento per mano d'usciere al rivale in amore, una sommossa delle legittime consorti per gli altri beffatori. Don Cecè è Angelo Musco: i tre atti sono farseschi, senza pretese di successi letterari.

(13 marzo 1918).

«Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano. Due statue settecentesche acquistano vita e movimento per partecipare a una festa mascherata del secolo delle crinoline. Scendono dai loro piedistalli, si confondono tra gli invitati. Si confondono? Ohibò, esse non possono affatto confondersi. I due esemplari del secolo dei lumi, nel trasformarsi da frigido marmo in carne e ossa, sono passati per la fantasia di una poetessa moderna ed hanno subito qualche leggera truccatura: essi diventano gozzaniani. Nella fantasia di un artista probabilmente i due sarebbero saltati vivi, agili, pieni di nervi e di vitalità carnale, da una pagina di Giacomo Casanova. Nella fantasia di Amalia Guglielminetti essi diventano due teneri calamaretti intrisi di bianca farina, che a gara vogliono ognuno saltare per il primo nella bastardella di una moderna friggitoria. Essi appartengono a quel fantasioso settecento di maniera col quale scherzò argutamente Guido Gozzano. Ma il Gozzano metteva nei suoi leggeri fantasmi un sorriso arguto, una tenerezza ironica di superiorità spirituale: egli era quel settecento, erano i suoi sogni, la sua sensibilità, che fioriva diafana e anemica in versi di rimpianto scherzoso, in tenere figurine ritagliate con pazienza su vecchia carta da tappezzeria. La Guglielminetti prende sul serio la sua finzione, e il secolo dei lumi rivive in versi inzuccherati che sono davvero vecchia ammuffita tappezzeria, in cui sono state tagliate delle marionette che hanno la pretesa di vivere da sé, senza sorrisi ironici, povere figurine che nessun giuoco spiritoso fa muovere, che nessuna melanconia profonda sono riuscite a far intenerire.

Vogliono impartire una lezione di galanteria le due statue redivive: fanno sul serio, e i loro discepoli moderni sono anche essi di una furibonda serietà: immaginatevi che anche essi facciano i moderni per partito preso, pur senza giungere alle esagerazioni americane, e poi pensate al contrasto. Quale contrasto, mio Dio, e come sono infelici i moderni! A che serve poter volare, disporre del telefono e dell'automobile? Manca la grazia e il saper fare, manca la parola che fiorisce nel madrigale e nel ghiribizzo. E hanno terribilmente ragione le due statue parlanti: esse stesse sarebbero state diverse se Amalia Guglielminetti non fosse una moderna letterata, che prende troppo sul serio i modelli letterari: sarebbero vivificati dalla spiritualità, la divina Ironia avrebbe con pochi tratti finito la loro mascheratura: e in quei pochi tratti avrebbero avuto la loro ragion d'essere, la loro poetica necessità, poveri calamaretti intrisi di bianca farina, condannati a ballare in una bastardella di moderna friggitoria.

(14 marzo 1918).

«Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri. Ricordate il ragionamento col quale don Ferrante dimostra nei Promessi Sposi che il contagio non può essere causa della peste? Don Ferrante è un logico serrato, e il suo ragionamento non fa una grinza. Dal contrasto tra la realtà e il ragionamento scoppia irresistibile la comicità del personaggio manzoniano, che muore di peste, persuaso però sempre che in essa non entri il contagio. Un personaggio della stessa comicità sembrava che il Martoglio avesse introdotto nella sua commedia il Contravveleno. Nel primo atto don Procopio ha davvero un qualcosa di manzoniano: egli ragiona del colera, dei microbi, del contagio, con la stessa serietà scientifica di don Ferrante. Ma, in complesso, ha una nozione del fenomeno epidemico che si avvicina alla realtà. Gli manca però la precisione e l'esattezza nella descrizione, che è sostituita dalla fede nel sapere e nella cultura moderna. Il pubblico cui si rivolge, per illuminare e scacciare la superstizione, è refrattario, non comprende neppure gli elementari concetti, e don Procopio si avvolge in una matassa di parole strambe, che vengono sfigurate ancora e contorte. Il primo atto è prolisso, esagerato farsescamente nei particolari, eseguito in fretta e senza alcuna cura, ma pure riesce a porre in rilievo questo personaggio, a fargli iniziare un'azione che pare debba continuare. Resisterà la scienza di don Procopio alla suggestione del mondo che lo circonda, soccomberà o trionferà egli, nella sua coscienza, della superstizione dell'ambiente? Estenuato da un digiuno troppo lungo, egli divora avidamente un cibo indigesto e pesante, beve un po' di vino: l'inedia soddisfatta brutalmente lo fa vacillare, lo intorpidisce: si grida al sortilegio, al colera trasmesso per magia. Ma nei due altri atti, non è questo don Procopio che riappare: l'autore non perseguiva un fine artistico, non voleva suscitare comicità di caratteri umani. La commedia si sviluppa (!) e si conclude come una farsa, e in don Procopio è uno dei tanti miserabili affamati, azzeccagarbugli, ottimo cuore, bocca di spropositi banali, che appare. La commedia è via vai di scene, di dialoghi scuciti, che possono o non valere per sé, ma non concretano una unità poetica; trionfa la prolissità, la sconnessione del primo atto senza che abbia sviluppo il motivo organizzatore che in esso era contenuto.

I tre atti sono stati applauditi, specialmente per l'interpretazione vivace e colorita di A. Musco e della sua compagnia.

(20 marzo 1918).

«Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano. A breve distanza di tempo sono state rappresentate a Torino due nuove commedie di Sacha Guitry L'illusionista e Jean La Fontaine: un insuccesso e un mezzo successo. Non è giustificata la diversa accoglienza fatta ai due lavori; non è giustificata almeno da un punto di vista critico. È sempre lo stesso Guitry, che si mantiene allo stesso livello, in queste due ultime commedie come nelle precedenti: La presa di Bergop-Zoom, o Facciamo un sogno. L'Illusionista anzi è piú completa delle altre, rivela meglio l'autore, perché nel titolo stesso è contenuto il programma artistico del Guitry.

Non teatro dei soliti, sebbene l'originalità sia puramente esteriore; non gli intrecci soliti; ma dialogo; puro dialogo, che deve suscitare ondate di simpatia negli spettatori, cosí come deve prima suscitarle in uno degli interlocutori. L'azione non è urto di grandi passioni, elaborazione di forti personalità fantastiche che operano, suscitando contrasti drammatici o comici: è lieve, vellutata creazione di stati d'animo provvisori, che si esauriscono in breve tratto di tempo, finché dura l'illusione che la parola melliflua, che il discorso capzioso sono riusciti a destare. È sempre un illusionista che Sacha Guitry introduce nelle sue commedie, illusionista che incanta le femmine per una breve ora d'amore, che cerca spiritualizzare l'atto sessuale quando esso è piú meccanico e animalesco, nelle avventure da pochades, cosí come esso dovrebbe essere nelle manifestazioni normali della sessualità, nel matrimonio, nella convivenza che ha un fine superiore al piacere. Nell'Illusionista il giuoco scenico è piú raffinato e sottile: la commedia è caduta (almeno nella sua clamorosità) perché l'interpretazione buffonesca ha impedito fin dalla prima battuta che si iniziasse l'incantamento, la suggestione. Gli interpreti non hanno preso sul serio l'autore, e la tenuità comica è diventata grottesca buffoneria, cosí lontana dalle possibilità del dialogo, che questo si è appesantito immediatamente in un immenso tedio, in una sguaiatissima caricatura.

Jean la Fontaine ha avuto miglior fortuna. Esso è la descrizione del ciclo che deve subire il matrimonio perché diventi moralità. Il Guitry, nonostante le apparenze, è autore essenzialmente morale, perché lo sforzo massimo dei suoi lavori consiste nel far arrivare i protagonisti a un piano superiore di spiritualità in cui si giustifichino e si moralizzino gli istinti e i capricci. La giustificazione morale del matrimonio è l'amore; Jean La Fontaine si separa dalla moglie infedele, vive la pienezza della sua intellettualità, raccoglie fama e popolarità, e ritorna alla moglie, non come marito autenticato e legalizzato dal contratto nuziale, ma come uomo, come amante. Nel terzo e nel quarto atto il Guitry applica il suo metodo, crea l'illusione verbale del nuovo contratto, del nuovo ambiente morale in cui dovrà svolgersi l'attività amorosa, la convivenza nuova dei due soci. La Fontaine come storia, come uomo già vissuto, è un pretesto che serve ad aumentare l'illusione, che accresce forza alla dimostrazione implicita di una tesi, col fascino che il grande scrittore esercita in Francia. Il mezzo successo che la commedia ha ottenuto in Italia è dovuto in parte anche alla mancanza di questa suggestione, esteriore quanto si vuole, ma sulla quale lo scaltro autore deve aver calcolato come su un ingrediente di primordine per il grande successo [nel suo paese]. Cosí pure è andata perduta l'intima potenza suggestiva di una gran parte del dialogo, che non risvegliava nel pubblico nostro nessuna eco, nessun richiamo a una tradizione letteraria e di costume vivissima in Francia. Ma la commedia è emersa, malgrado tutto, e ha interessato, come dovrebbe interessare sempre il Guitry, che è superiore indubbiamente alla paccottiglia solita del teatro francese, e stimola il gusto, e raffina, sia pure per antitesi, la sensibilità, tanto nel pubblico, come negli attori, che devono continuamente padroneggiarsi, evitare le esagerazioni, non cadere nel volgare e nel banale. Luigi Carini era Jean La Fontaine, e seppe trarre dal dialogo gli effetti migliori coadiuvato con zelo e misura dagli altri attori della sua compagnia.

(28 marzo 1918).

Angelo Musco. E. A Berta ha fatto tradurre per Angelo Musco, dalla lingua letteraria in dialetto siciliano, una commedia inedita. L'omaggio non è dei piú significativi, data la smania teatrale dello scrittore che lavora (!) perfino per le marionette, ma ha pure il suo valore. Angelo Musco è ormai qualcuno nella storia del teatro italiano, ed è riuscito a imporre il teatro dialettale della sua regione.

Cinquant'anni di vita unitaria sono stati in gran parte dedicati dai nostri uomini politici a creare l'apparenza di una uniformità italiana: le regioni avrebbero dovuto sparire nella nazione, i dialetti nella lingua letteraria. La Sicilia è la regione che ha piú attivamente resistito a questa manomissione della storia e della libertà. La Sicilia ha dimostrato in numerose occasioni di vivere una vita a carattere nazionale proprio, piú che regionale: quando la storia del Risorgimento e di questi ultimi sessant'anni sarà scritta per la verità e l'esattezza, piú che per il desiderio di suscitare artificialmente stati d'animo arbitrari, per la volontà di far credere che esiste ciò che solo si vorrebbe esistesse, molti episodi della storia interna appariranno sotto altra luce, e la causa della unità effettiva italiana (in quanto è necessità economica reale) se ne avvantaggerà. La verità è che la Sicilia conserva una sua indipendenza spirituale, e questa si rivela piú spontanea e forte che mai nel teatro. Esso è diventato gran parte del teatro nazionale, ha acquistato una popolarità nel settentrione come nel centro, che ne denotano la vitalità e l'aderenza a un costume diffuso e fortemente radicato. È vita, è realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti dell'attività sociale, che mette in rilievo un carattere in tutto il suo multiforme atteggiarsi, lo scolpisce drammaticamente o comicamente. Avrà un influsso notevole nel teatro letterario; servirà a sveltirlo, contribuirà, con la virtú efficace dell'esempio, a far decadere questa produzione provvisoria del non ingegno italiano, produzione di uomini togati, falsa, pretenziosa, priva di ogni brivido di ricerca, di ogni possibilità di miglioramento.

Luigi Pirandello, Nino Martoglio specialmente, hanno dato al teatro siciliano commedie che hanno un carattere di vitalità. Ma certo la fortuna è dovuta per molta parte ad Angelo Musco. Attore d'istinto, il Musco si presenta con tutte le disuguaglianze e le impulsività di un uomo ricco di vita interiore, che in ogni interpretazione erompe selvaggiamente in manifestazioni di una plasticità sorprendente. È vita ingenua, sincera, che trova nel movimento plastico l'espressione piú adeguata. Il teatro ritorna alle sue originarie scaturigini: l'attore è veramente interprete ricreatore dell'opera d'arte; questa si confonde col suo spirito, si scompone nei suoi elementi primordiali e si ricompone in una sintesi di movimenti, di danza, elementare, di atteggiamento plastico; perde della sua letteratura verbale e ritorna vita fisica, vita di espressione integrale: tutto il corpo diventa lingua, tutto il corpo parla. Certo l'essere dialettale, l'adagiarsi nelle manifestazioni umane piú vicine all'originarietà umana, dànno questo carattere specifico al teatro siciliano, dànno tutte queste possibilità espressive ad Angelo Musco. Ma è la quistione solita dell'uovo e della gallina: Musco ha il teatro che si merita solo perché se lo merita, perché lo comprende, lo rivive. E il suo merito non è sempre uguale infatti: egli ha qualche volta il torto di sforzare interpretazioni impossibili, perché il lavoro è vuoto di ogni espressività. Ma diventa grande quando l'autore dà almeno uno spunto artistico, che dia possibilità di continuazione, di integrazioni. Basta ricordare Angelo Musco in Liolà di Luigi Pirandello, una delle piú belle commedie moderne che la sguaiata critica pseudo-moraleggiante ha fatto quasi del tutto ritirare dal repertorio.

(29 marzo 1918).

Giosuè Borsi. Giosuè Borsi è egli stesso un rinnovellato della guerra (nella memoria degli amici, almeno, perché morto al fronte). La compagnia Zago ha presentato un suo lavoruccio, di quando il Borsi era ancora volterriano, anticlericale, alla Carducci. Commediola informe, leggera, che potrebbe vivere in un epigramma. A una festa di nozze settecentesca, partecipa il cardinale patriarca di Venezia; egli ricorda la prima confessione ricevuta da sacerdote, e la profonda impressione provatane, perché il penitente era un parricida. Il padre dello sposo, che non ha sentito, ricorda anch'egli qualcosa, e precisamente d'essere stato il primo penitente del patriarca. Disperazione del figlio, subbuglio, e intervento del patriarca che rimette la pace negli animi, turbati dalla sua leggerezza. Il Borsi è tutto in questo lavoretto: egli è stato esaltato dai cattolici per la conversione rivelata dalle carte rimaste, ma la conversione non ha mutato in profondità la superficiale retorica che era caratteristica dei suoi scritti; letterato di spolvero, ammiratore e imitatore del Carducci in ciò che del Carducci era meno vitale, non è stato imposto neppure dalla réclame che i cattolici hanno fatto ai suoi scritti postumi. Il suo misticismo è della stessa lega del suo volterrianismo.

(17 aprile 1918).

«Occhi consacrati» di Bracco al Carignano. Anche questo atto, scritto qualche anno fa, appartiene al teatro delle «riabilitazioni di guerra». Ma il Bracco vi ha messo qualcosa di piú: ha cercato, attraverso alcune scene vigorose, di creare un carattere, il quale è superiore alle contingenze, all'occasionalità, cerca di vivere indipendente, sebbene di scorcio, per accenni, piú che per ricostruzione diffusa e completa.

Una ragazza napoletana è stata sedotta e abbandonata dall'amante. Diventa donna Filomena, fredda e perversa creatura di piacere, ambientata in una osteriola, nella quale è signora e padrona degli uomini che frequentano. In pochi tratti appare il suo animo, irrigidito, astratto da ogni umanità: ha legato a sé un uomo ammogliato, che lascia nella fame e nella sofferenza la moglie e tre figli, senza amarlo, perché ella rimane unita da un odio amoroso col seduttore, con l'uomo che fanciulla ingenua, religiosa, senza alcuna tutela, l'ha tradita e affondata nel fango. E costui ritorna, dopo una sapiente preparazione, fatta da un vecchio mendicante, che rievoca il passato, che risveglia l'umanità di donna Filomena, sia pure facendola urlare di dolore e d'odio: ritorna cieco, umile, pentito, rinnovato, e donna Filomena, colpita nell'intimità piú profonda, perdona, si spoglia dei ricordi del passato, allontana da sé l'amante, e rientra nella normalità morale. Il piccolo dramma, interpretato con vigore dalla Melato, dal Betrone, dal Ninchi, e dal Berti, pur con qualche sforzo per la tinta dialettale voluta conservare al dialogo, ha ottenuto sei chiamate dal pubblico.

(17 aprile 1918).

«Marionette che passione!» di Rosso di San Secondo al Carignano. Avventure di sfaccendati, sceneggiate da un dilettante d'ingegno. L'ingegno permette a Rosso di San Secondo di portare sul teatro la formula famosa: per fare un cannone si prende un buco e lo si avvolge di bronzo: egli prende il vuoto, lo avvolge di parole, messe in ordine dialogico, divise in sezioni (scene e atti). Il vuoto è nei personaggi, nell'intrinseca sostanza dell'anima loro. Sono creature umane? Vivono? Ohibò, sono marionette, solo marionette, ma non in senso ironico: il burattinaio che li fa muovere non è la passione, è la vuotezza spirituale: non vivono; parlano, o meglio, l'autore parla, non i personaggi: essi sono terribilmente uguali, essi sono una tesi, la piú comune e volgare delle tesi: che gli uomini non siano altro che burattini.

Tre sfaccendati si incontrano in un ufficio telegrafico: non hanno nome perché non sono individui, ma tipi. I tre sono agitati da uno stesso demone: la passione. Una cantante tradita e bastonata dall'amico, che pur continua ad amare. Un ingegnere tradito dalla moglie, un signore in grigio tradito dall'amica. La signora è una figura scialba, evanescente; la sua passione potrebbe essere benissimo puro fenomeno nervoso, puro dispetto: non ha certo il carattere della tragicità, non si esprime, perché il nulla non ha espressione. L'ingegnere è personaggio da pochade: la sua passione è tremolio gelatinoso di pover'uomo che ne ha visto una grossa: non poteva non essere tradito, questa l'unica, piccola, ridicola tragicità della sua avventura coniugale. L'uomo in grigio è la base del dramma, il mistagogo, la bocca della verità rivelata. È lo sfaccendato per eccellenza, che da un anno sgomitola dal suo cervello barzellette che l'autore prende sul serio fino a crederle profonda filosofia della vita. I tre si scontrano: la dama sta per entrare in congiunzione con l'ingegnere, ma se questo piccolo fatto, banale e umanissimo, accadesse, due atti non avrebbero ragione d'esistere. Il fatto ameno non accade: il mistagogo s'interpone, parla di apocalissi. Poi si reca egli stesso in casa della dama. Prolissità di scene pseudooriginali, di una meccanicità ingegnosa che invano cerca nascondere il vuoto sostanziale: ridda di larve senza ossa né carne. I tre riuniscono i loro destini intorno a una tavola di ristorante: romanticismo macabro, rugiadoso come una ballata del 1830. La dama viene raggiunta dal suo amatore e sparisce, pregustando nuove botte; l'uomo in grigio si uccide. L'ingegnere si appiccica a una artista, dalla quale sarà fatalmente tradito alla prima occasione. Il pubblico fischia ridendo.

Ha scritto J-H Rosny: «Molti giovani i quali oggi s'accaniscono a scrivere mediocri romanzi (o commedie, aggiungiamo) sedicenti letterari, riuscirebbero a scrivere, se incoraggiati, romanzi d'avventure interessanti, e potrebbero alimentare le appendici dei giornali, con lavori certo piú intelligenti dei romanzi che i giornali invece pubblicano».

Nessuno vorrà incoraggiare Rosso di San Secondo?

(21 aprile 1918).

«Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano. Mister Wu è un personaggio da romanzo d'avventure per persone colte: come quelli di Guido Boothby, costruiti con l'ingrediente comune del meraviglioso concatenarsi degli avvenimenti per l'arbitrio del protagonista, ma in cui però l'autore si sforza di evadere dal dominio del puro avvenimento per rilevare un carattere forte, che ubbidisce alle grandi passioni elementari dell'anima umana, e acquista quindi a tratti un colorito di umanità che impressiona il lettore e lo spettatore. Mister Wu ritrova i suoi antenati nel Veglio della Montagna di Marco Polo e nel dottor Nikola dell'australiano Boothby; nel terzo atto del dramma egli domanda ispirazione a Scarpia, per la sua vendetta. Motivi elementari, semplicissimi, che fanno presa immediatamente nella coscienza degli spettatori e determinano commozioni profonde, all'infuori di ogni forma artistica, di ogni armonia. È questo il segreto del successo dei drammoni popolari, come anche delle grandi tragedie classiche. Gli uni e le altre rappresentano le originarie e fondamentali passioni: l'amore paterno o filiale, la vendetta, la gelosia, l'odio, il fanatismo; esse sono comprese subito anche dal piú ottuso degli spettatori, fanno vibrare all'unisono gli animi, che si compenetrano dell'azione, la comprendono tutta senza residui, se ne esaltano intimamente e applaudono con frenesia. La tragedia classica vive immortale per tutti; ma anche il drammone è immortale e chi non ha educato la sensibilità e la fantasia, si estasia ancora dinanzi alla rozza e artefatta umanità dei romanzi d'appendice, dei drammi di Sardou o di Bernstein.

Mister Wu ha beneficiato di questa predisposizione del gusto, e, in verità, noi non vogliamo sostenere che i suoi casi non meritino piú attenzione dei casi di una bellissima donna da dramma letterario, angosciata dal quadruplice spasimo di un raffinato amore fatalmente accesosi a una gara ippica.

Mister Wu vuole vendicare sua figlia, sedotta da un giovane europeo. È un'anima complicata il signor Wu; cinese educato all'europea, vuole vendicarsi, da uomo al di sotto di ogni civiltà, ma la vendetta prepara disposando la crudeltà orientale con il progredito senso di reciprocità degli europei. Il Veglio della Montagna veste gli abiti del sardoniano Scarpia. Mister Wu incomincia col sequestrare il seduttore di sua figlia, quindi scatena sull'infelice signor Gregory, padre del giovane, tutte le malefiche forze di cui egli dispone nella sua misteriosa potenza: il signor Gregory ha notizia che le navi della sua flotta commerciale affondano o s'incendiano in alto mare: gli affari sono insidiati e non fruttano, i suoi uomini di fatica gli si ribellano e domandano aumenti di mercede ogni tre ore. Fin qui Mister Wu rimane cinese e lo spettatore può credere davvero che nel Cataio le disgrazie possano essere mosse da un uomo come il bimbetto fa muovere le pallottoline del pallottoliere. Ma Wu si ricorda d'essere anche europeo e tende un laccio alla signora Gregory, la madre. La attira in casa sua e la ricatta. Tragica situazione di una madre europea in Cina! Lo scioglimento non tarda. Una mano benefica porge alla signora una potente dose di stricnina; il veleno, per mirabile concatenarsi d'eventi, invece di dare alla storia una Lucrezia in Cina, va a finire nello stomaco di Wu, che muore caprioleggiando. Il destino ha punito un infame, ma salvato una madre dal disonore, ha restituito un figlio ai suoi genitori. Il finale corona il dramma e riscuote gli applausi piú calorosi.

In fondo questi applausi significano come i sentimenti immarcescibili dell'animo umano siano veramente tali, e lo scetticismo non abbia ancora addentato e corroso le ingenue carni dei cuori moderni, antichi invero quanto antico è l'uomo stesso, con le sue ipocrisie e i suoi omaggi alla virtú.

(5 maggio 1918).

«Racanaca» di Villauri all'Alfieri. Racanaca è un buon uomo di Melito, in Sicilia, e nella commedia si segnano i momenti tipici della sua carriera politica. Racanaca non ha un temperamento politico; è corto d'intelletto, è ingenuo, non saprebbe cavarsela negli intrighi e nelle attività un tantino complicate. Un giovane solitario studioso di Melito se ne serve per la realizzazione delle sue teorie politico-economiche, e per soffiargli la moglie. Cosí Racanaca si fa iniziatore a Melito di un sistema di cooperative agricole che dia ai contadini l'illusione di essere diventati i padroni della terra, viene eletto deputato e si stabilisce a Roma.

Due azioni si svolgono parallelamente: una in cui risalta la figura di Racanaca nei suoi rapporti artificiali col mondo esterno, azione ricca di spunti comici, e che ha procurato alla commedia un buon numero di applausi. La seconda dovrebbe sviluppare i motivi passionali per cui Nino Laurenzi, giovane d'ingegno, di dottrina, buon oratore, mette al servizio di Racanaca tutte queste qualità e rimane ignorato, incompreso. Ama la moglie della sua creatura intellettuale. Ma appunto questa parte è appena accennata, molto vagamente adombrata: non c'è saldatura tra le due azioni, che artisticamente dovrebbero ridursi a una sola, non potendosi il fenomeno Racanaca spiegare senza queste motivazioni extrapolitiche. La commedia è di accenni, perciò, piú che una elaborazione compiuta e definitiva. Gli scorci, le impostazioni di luci e di rilievi sono ottenuti meccanicamente, ma esistono tuttavia, e pur senza avere tutta l'efficacia rappresentativa, dànno dei buoni risultati scenici. L'autore non ha ancora spogliato la sua concezione di ciò che di grezzo e immaturo essa trascina con sé; ma questa stessa ingenuità artistica è, in un primo lavoro, promessa di ulteriore elaborazione e di superamento progressivo.

A Roma la fortuna di Racanaca si afferma subito in Parlamento. La sua teoria dell'abolizione della lotta di classe, ottenuta mediante l'illusione proletaria di un condominio dello strumento di lavoro, ottiene successo tra i capitalisti e anche presso alcuni maneggioni della Camera del lavoro. Racanaca è maturo per un portafoglio ministeriale. Un punto d'arresto: il suo segretario, il suo cervello vuole abbandonarlo, perché disilluso nella speranza di un facile adulterio. La speranza viene fatta rinascere dalla signora, che desidera che suo marito continui nella carriera degli onori.

L'adulterio matura nel terzo atto. Uno sciopero generale è scoppiato nell'Agro romano; i contadini hanno invaso le terre, ne pretendono la requisizione da parte dello Stato. Laurenzi prepara un successo popolare al ministro, viatico necessario per una probabile presidenza; la requisizione sarà decretata e finirà con l'essere utile specialmente ai proprietari, ai quali assicurerà un reddito sicuro da ogni alea. E, mentre Racanaca discuterà in seduta la disposizione di legge, Laurenzi coglierà il frutto di tanto lavoro, continuato per anni e anni.

La commedia è piaciuta, indubbiamente; la presentazione obiettiva, senza intenti partigiani, dell'ambiente politico, con le sue ipocrisie, con la sua imbecillità costituzionale, ha strappato spesso risate cordiali. Situazioni farsesche? Ma la vita politica è purtroppo farsa il piú delle volte, e tutta Roma non è, da cinquant'anni, che il teatro di una farsa sinistra ai danni della nazione italiana. Una commedia, per rappresentare una vita politica, dovrebbe ambientarsi in Cina o in Persia, secondo la tradizione letteraria delle Lettere di Montesquieu. La vita politica italiana è composta di cuoiai e salsicciai gabbamondo come nel mondo comico d'Aristofane, e rappresentarla porta necessariamente alla farsa.

Al buon successo della commedia contribuí l'interpretazione ottima di Giulio Paoli, A. Betrone e della signora Frigerio.

(12 maggio 1918).

Virgilio Talli. Virgilio Talli è forse il piú acuto critico letterario che oggi esista in Italia. Non credo che le librerie vendano suoi volumi di saggi, il suo nome probabilmente non apparirà mai nelle storie dell'estetica o della letteratura, ma ciò poco importa. Probabilmente ancora, se il Talli dovesse stendere in iscritto il suo giudizio su un lavoro teatrale, questo giudizio sarebbe banale, generico, privo di vita e zeppo di frasi fatte.

L'energia critica del Talli si rivela e si esaurisce nell'àmbito della compagnia drammatica di cui è direttore: i suoi saggi sono le interpretazioni che la compagnia crea dei drammi e delle commedie, la sua specifica opera è diventata spontaneità, naturalezza negli attori, adesione del gesto, della musica vocale con l'intimo spirito dei personaggi rappresentati. La personalità del Talli viene cosí a sparire nell'insieme, è difficilmente rintracciabile. L'attività sua di rivelatore, di maestro, diventa vita degli altri, dei discepoli. Talli ha fatto rivivere, con mirabile precisione, le famiglie artistiche del quattrocento, in cui c'erano il maestro e i discenti, e il maestro svolgeva l'opera sua pedagogica, educativa in un fitto lavoro di collaborazione umanistica, dalla quale scaturí l'infinito mondo di bellezza del Rinascimento. Questi maestri sono spesso nulla fuori della loro scuola, della tradizione che creano e sviluppano: la loro natura non è tanto di creatori individuali quanto di educatori e rivelatori. La loro grandezza e perfezione è nei discenti, i quali rapidamente assurgono alla completezza, perché il maestro ha loro risparmiato ogni dispersione di energia in tentativi arbitrari, in esperienze inutili. La scuola è per lo spirito ciò che il metodo Taylor è per i gesti meccanici del corpo: economia di esperienza e di fatiche, acceleramento dell'evoluzione spontanea, organizzazione dell'intelletto.

Talli svolge la sua attività nelle prove: lavoro di miniatura, raffinato e sottile sforzo di elaborazione paziente. Il dramma si frantuma nei suoi elementi primordiali: le parole, i movimenti. Ma in ognuno di questi elementi continua a vivere l'intiero dramma. E l'analisi minuziosa incomincia. Il dramma viene esaminato, pesato, studiato, in ogni piú sottile nervatura, in ogni fibrilla di tessuto. Talli è l'orafo che trae dal metallo il suo timbro riposto, ne intuisce il valore effettivo, e lo sgrana in collane e monili di infinito pregio.

La sua fantasia, dall'intuizione rapida dominatrice, padroneggia tutta l'azione, e la rivive per i suoi discepoli. Ogni personaggio acquista una individualità distinta, ogni parola diventa sintesi di uno stato d'animo distinto. Talli ripete la parola, la amplifica, la pone in relazione col discorso interiore sottaciuto di cui è conseguenza: essa perde cosí ogni valore meccanico, di pura sonorità, diventa interiorità, vita spirituale, si colora di tutta una personalità, di tutta un'anima, scocca dalla gola, dalle labbra come una necessità fatale, si comprende come debba essere quella e non un'altra, accompagnata da quel gesto e non da un altro, modulata con quei toni e non con altri. E l'unità spirituale dell'individuo diventa unità spirituale della scena. Tutto vive: l'ambiente dev'essere cosí e non altrimenti, perché anche la esteriore parvenza delle cose si riflette sugli uomini e ne determina sfumature di atteggiamento che non bisogna trascurare.

La parola del Talli è suggestiva in modo irresistibile. In un romanzo di Rudyard Kipling c'è quest'episodio: un mago della volontà vuol provare l'intimo metallo dell'anima di un giovanetto e lo sottopone a un esperimento di illusione. Il giovanetto deve scagliare una brocca piena di acqua: la brocca va in frantumi innumerevoli, l'acqua si versa. Eppure, sotto l'influsso della volontà dominatrice, il giovanetto vede lentamente questi frantumi ritornare al loro posto, saldarsi fra loro: l'acqua versata sparisce e nella fantasia l'immagine della brocca rifiorisce dal nulla, nella sua interezza primitiva.

Cosí Talli sminuzza e ricrea i drammi per i suoi attori, li analizza e sembra distruggerli; ma nella sapiente analisi la sintesi è potenziale e si afferma nelle prime rappresentazioni, dinanzi al pubblico che applaude e non pensa neppure all'artefice maggiore, al maestro che ha raccolto in un fascio le singole energie e le ha rivelate a loro stesse.

(14 maggio 1918).

«S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri. Tre atti ridanciani, onesti e lieti. Lisci come il pavimento cerato di un buon salotto borghese, in cui si lasciano le finestre sempre chiuse con gli scuri, perché la luce non rovini le cromolitografie delle pareti. Si raccontano i casi piuttosto rocamboleschi del principe di Falcomarzano, deputato al parlamento, padre di due rampolli, dei quali la femmina non piú fanciullina, spiantato come uno zingaro errabondo, che aspira a diventare plenipotenziario in Cina, per potere, come Verre in Sicilia, riassestare i suoi negozi.

Il principe vive alla giornata elegantemente truffando i conoscenti, sempre superiore alle miserie della vita, al denaro, al vile borghese che il denaro sborsa. Prende quattromila lire da un imbecille che desidera una onorificenza, a titolo di oblazione per un istituto che ancora non è sorto. Appiccica per ventimila lire un ritratto a un altro imbecille che se ne servirà per provare i suoi diritti al titolo di conte, e cosí via: sempre però mantenendosi nella linea del suo titolo principesco, dell'avvenire politico che vuole conquistare.

Gli riesce di far sposare sua figlia da un ricco giovane borghese, salvando anche in questo caso le apparenze, poiché sua figlia viene rapita. E dopo difficile lotta riesce anche a diventare plenipotenziario a Pechino, sebbene suo figlio abbia sposato una borghesuccia, mettendo in pericolo il maturato disegno, per il quale l'ambasciata doveva essere il premio politico di un matrimonio tra il duchino e una marchesina alquanto calante per la cattiva fama dei genitori.

La trama è svolta piacevolmente, in un dialogo snello e fluido, senza ricercatezze e abuso di spirito verbale. Ruggero Ruggeri era il protagonista. La commedia fu applaudita calorosamente.

(23 maggio 1918).

«La dame de chambre» di Gandera al Carignano. Una commedia dell'intossicamento sessuale, come tante altre che furono e che saranno. Il sesso rimane, e rimarrà ancora per un pezzo, la preoccupazione maggiore della nostra società (della società costituita, della società che non lavora o può non lavorare), l'enigma insolubile: i lettori e i commediografi girano intorno alla Sfinge, claudicanti Edipi, e non potendo penetrare descrivono, ripetono, condiscono con qualche nuova droga piccante.

Il Gandera è dei meno noiosi scrittori di pochades: non esce dal puro meccanismo, dall'esteriorità descrittiva del brivido carnale, ma non cade nella sguaiataggine, o almeno non vi cade troppo spesso: lavora con coscienza, porta a ripulitura i suoi prodotti. Il genere si perfeziona: il mercato è piú esigente: la vita, ahimè, diventa ogni giorno piú difficile e seminata di triboli.

Il Gandera ha complicato sessualmente il vecchio spunto novellistico della moglie che si sostituisce all'amante del marito: un orario delle ferrovie gli è servito da trampolino. Un marito non impartisce piú alla moglie la razione legittima di felicità coniugale. Di chi la colpa? Del marito o della moglie? La moglie vorrebbe uscire dal dilemma dilacerante: il Gandera le viene in aiuto. Il marito si incapriccia della cameriera (un manichino che dal titolo dovrebbe sembrare essere la protagonista del dramma), ne ottiene pietosamente una notte d'amore, e ottiene dall'amico di famiglia l'uso dell'appartamentino. La moglie scopre la tresca, e si reca lei a tentare l'esperienza (di chi la colpa?). Complicazione. Il marito parte durante la notte e viene sostituito nella bisogna dall'amico, che anch'egli vuole tentare la sua gherminella. Giornata delle rivelazioni. Il marito scopre di essere diventato ciò che mai avrebbe voluto. La moglie ha scoperto un amante fatale e l'amico altrettanto. La vita familiare si compone in un raffinatissimo adulterio. Il pubblico ha scoperto un nuovo autore di commedie allegre, che con maggior delicatezza di altri sa fare il solletico alla pianta dei piedi e integrare le delizie di un «virginia».

(4 settembre 1918).

«Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano. In Lift, commedia sessuale-sentimentale di Armont e Gerbidon, troviamo un personaggio quasi originale: l'etairogogo, il professore di belle maniere per le cortigiane geniali, che si propongono la conquista di una brillante posizione sociale. Il professore non ha nulla di socratico, cosí come le sue discenti non hanno nulla da spartire con Aspasia; la galanteria, nei tre atti moderni, è posta bensí come funzione sociale, ma il motivo non supera l'espressione plateale delle comuni pochades, ed è anzi sviluppato con poca disinvoltura e molta prolissità. Rimane irriducibile una forza comica che gli autori non hanno saputo elaborare artisticamente, soggettivandola: essi hanno intravisto un mondo di comicità, ma esso è rimasto inerte, puramente intenzionale.

La cocotte che percorre il curricolo della gloria sociale è, in fondo, una povera figliuola nata in una novella romantica, con aspirazioni piccolo-borghesi per il matrimonio, il talamo familiare e la bianca culla in cui strilla e sgambetta un roseo pargoletto. Il suo ascendere verso la gloria è dovuto a volontà estranee, alle suggestioni del professore; se queste volontà, se queste suggestioni fossero state, dagli autori, viste come dinamismo autonomo di una donna moderna, che solo nella galanteria può trovare la libertà negatale dal costume per l'estrinsecazione delle sue energie sociali buone, avremmo avuto una commedia del costume ricca di contenuto morale, cioè una opera d'arte e non una sceneggiatura commerciale. Gli autori non hanno saputo o non hanno osato: è piú facile e piú gradito al pubblico il lieve colpo di spillo, la burletta superficiale, la caricatura bonaria che non urta troppo di petto la convenzionale moralità e anzi solletica lo scetticismo pelle pelle.

Lift sale dal quartierino povero fino al pranzo ministeriale, all'amicizia di una Eccellenza, al salotto politico in cui si decidono le sorti di uno Stato e magari di un regime, ma è ascensione «alpinistica», non episodio umano di «volere è potere», determinato socialmente dal confluire necessario di tutte le forze agenti della vita contemporanea.

(11 settembre 1918).

«Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano. Lo scrittore di teatro Silvio Zambaldi è come un giocoliere giapponese che estragga scatola da scatola, e il pubblico aspetta finalmente si giunga alla sospirata scatola che deve contenere lo enigma giustificante l'attesa e la spesa. Il giuoco delle scatole si è iniziato con la prima commedia dello Zambaldi, e si inizia colla prima scena di ogni commedia. Lo Zambaldi è ancora e sempre «uno scrittore che promette» e non si decide mai a mantenere; è una scatola chiusa che ne contiene delle altre e si aspetta che finalmente in una si trovi il brillante da incastonare nel diadema del teatro nazionale.

Tardi in treno, i tre nuovi atti di Silvio Zambaldi, presentati dalla compagnia Gandusio, non sono certo il brillante aspettato. Una, due, tre scatole: vuoto finale.

Inizio: interessante come tutti gli inizi perché inizi. Due sposini perdono il treno del viaggio di nozze: la festa di imene sarà celebrata fra le pareti domestiche. Egli è molto stupido, ella è molto ingenua: i parenti sono ingombranti, le persone di servizio sono noiose: lo Zambaldi è infatti uno scrittore realista. Nel primo atto ci presenta: una cameriera pruriginosa che si lascia pizzicare dal collega e da un vecchio signore e quindi va a letto col collega; una vedovella che fa la schizzinosa con un avvocato ma poi consente di essere accompagnata a casa in vettura chiusa; una coppia di suoceri di buaggine infinita; uno zio che è stato tradito dalla moglie. Questa è la natura degli uomini e lo Zambaldi cosí rappresentandola è scrittore realista. Gli sposini si ubriacano (o natura, natura!); ella ingenua confessa un amoretto di bambina, egli si offende e dorme sul sofà. Nei due atti seguenti si assiste allo svolgersi di tutte le stupidaggini, le lungaggini, le chiacchierate, le rivelazioni che devono condurre alla pace generale e alla ricomposizione della famigliola scomposta al suo nascimento: si vede una suocera che imperversa, un suocero che è vittima di sua moglie, una cameriera che piange e si dispera per il fallo commesso, uno zio seduttore di cameriere che ammansa la suocera poiché le ricorda un episodio extramatrimoniale e altre simili originalissime novità servite in un dialogo insipido e lungo e pastaceo come il brodo di lasagne. Il giuoco delle scatole è finito, il pubblico ha rumoreggiato disilluso, ma aspettiamo: il capolavoro sarà per la prossima commedia.

(19 settembre 1918).

«L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli al Carignano. La compagnia Gandusio ha egregiamente recitato per la prima volta a Torino questa commedia dell'Antonelli. Un lavoro che si stacca nettamente da tutta la serie di novità della stagione, per arditezza di concezione e signorilità di svolgimento.

Questo strano sogno che l'autore ha portato sulla scena, superando difficoltà di tecnica teatrale che sembravano insormontabili, questa fine satira della vita ha stupito il pubblico a cui da tempo non si ammanniscono lavori atti a sviluppare un pensiero. Molte cose buone si possono e si debbono attendere da questo giovane autore che sembra fornito di tutte le doti che occorrono per forgiare opere che lascino traccia nella vita del teatro e a cui arrise al Carignano il piú completo successo colla sua fantastica avventura.

A ogni fine d'atto vi furono applausi e chiamate all'autore. Il Gandusio recitò come sempre, bene, e la Pini impersonò in modo perfetto la donnina frivola che non riesce a concepire il male, ma che lo fa, spinta fatalmente a esso da una forza che la domina. Anche l'Almirante, che impersonava l'altro io, seppe dar risalto alla figura del giovane che non conosce il mondo e le sue sozzurre, che non crede al male, né vi vuol credere e che non vede che rose sul suo cammino in questa bella primavera della vita dei suoi venti anni.

(2 ottobre 1918).

«Il marito ideale» di Wilde al Carignano. La compagnia di Irma Gramatica ha presentato una commedia di Oscar Wilde Il marito ideale, nuova per Torino; la commedia non ha avuto successo. Essa è un'opera piú letteraria che teatrale, da leggersi piú che da udirsi. Il contenuto drammatico è lievissimo e si sviluppa in situazioni comuni; l'autore si è dedicato esclusivamente al dialogo, alla parola; i caratteri si rivelano per ciò che le bocche dicono, attraverso il paradosso brillante, l'ingenua affermazione di fede puritana, il racconto di intrighi politici e finanziari. Un romanzo dialogato, che la compagnia della Gramatica ha presentato in modo degno dell'intimo valore letterario dell'opera.

(14 novembre 1918).

«Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano. La compagnia di Irma Gramatica ha rappresentato l'annuale contributo di E. A. Berta al teatro in lingua: Una sentimentale, tre atti in prosa con molte parentesi musicali. La commedia deve essere stata scritta almeno venti anni fa: gli accenni cronologici al passato prossimo vanno dal 1866 al 1880; ma l'autore non ha rimodernato il suo lavoro, sebbene vi abbia introdotte allusioni e avvenimenti recentissimi, senza accorgersi che un ascoltatore appena appena attento dovrebbe immaginare l'eroina della commedia come una donna di almeno cinquantadue anni (suo padre viene fatto morire nel 1866). E. A. Berta non ha voluto interrompere il rito annuale, e non avendo merce fresca, ha spolverato un vecchio prodotto della sua infinita quanto futile mania scrittoria. Nei tre atti si svolge un dramma «interiore» di femminilità offesa e incompresa, con alcune situazioni simili a quelle della «Nora» di Ibsen; simili esteriormente, ma inerti drammaticamente. Il Berta pone il dramma, non lo sviluppa. La sua fantasia non è capace di creare caratteri che abbiano consistenza e solidità umana: il pubblico dovrebbe commuoversi per l'astratta genericità di un dolore ineluttabile in certe situazioni, anche se questo dolore si esprime solo come uggioso belato pecorile e non come umanità individuale straziata che si compone artisticamente in poesia. Una moglie abbandona il tetto coniugale affermando di non essere compresa, e certo pare che cosi sia. Ma il processo drammatico è snervato e superficiale. La protagonista è una povera fanciulla sedotta che si redime nell'amore disinteressato e nel sacrifizio della quotidiana, misera vita familiare. Il seduttore le lascia una eredità di mezzo milione, e questo oro diventa la macchina infernale che distrugge l'amore e la felicità. L'autore abbozza una metafisica dell'oro: nell'oro è la personalità dell'uomo, nell'oro si continua la personalità dell'uomo. L'istinto conduce la donna a voler rinunziare all'eredità: accetta, perché suo marito crede con la ricchezza di poter diventare un grande compositore (egli è violoncellista). Secondo un postulato della metafisica bertiana il bello nasce dal bello, la ricchezza farà bella la casa, dalla bellezza della casa nascerà la bella musica, e il violoncellista che annoterà la bella musica sarà un grande compositore. Nella donna la metafisica si esprime in altre emozioni: il morto seduttore si continua nel suo oro, l'oro compra i mobili e il lusso della casa, il morto seduttore rivive nei mobili e nel lusso. Marito e moglie si allontanano l'uno dall'altra; la vita dell'uno (la bellezza che genera bellezza) è la morte dell'altra (l'oro-bellezza che è la colpa, il tradimento, ecc., ecc.). Cosí riassunta la commedia può parere interessante; l'autore potrebbe apparire capace di connettere idee. Non è cosí. La commedia non è neppure a tesi; essa è un informe accozzo di parole biascicate, senza espressione spirituale poetica, infarcito di spunti banalmente comici che si rincorrono a tira e molla. Il Berta non si accorge della mancanza di unità cronologica della commedia; non riesce cioè neppure a creare una unità esteriore; egli si aggira tra i personaggi, che vuole far vivere e parlare, come uno scarafaggio nella stoppa. Una dozzina di spettatori, con mirabile sangue freddo, sono riusciti a creare agli attori la suggestione necessaria per mezza dozzina di chiamate.

(20 novembre 1918).

«Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri. Desolazione di uno spettacolo «interventista». Imbottitura di cervelli che nessuna suggestione frenetica riesce piú a inverniciare di idealità cromolitografica. Anfanare faticoso di uno scrittore mediocre che per la prima volta si cimenta col romanticismo dei romanzi d'appendice e vuol trarne un dramma sensazionale che solletichi il cattivo gusto della platea, dia un buon gettito di applausi e di quattrini e procuri una nicchia nel camposanto dei benemeriti della quarta guerra del Risorgimento. Alessandro Varaldo dovrebbe per questi suoi tre atti, Appassionatamente, domandare un indennizzo allo Stato; industria di guerra rovinata dallo scoppio improvviso della pace. Tre atti senza un bagliore d'intelligenza. Trionfa il «talento» e cioè l'attitudine a utilizzare gli elementi piú disparati e contraddittori per un piccolo fine immediato: il sentimentalismo rugiadoso della moralina democratica che si esprime affermativamente o per contrasto in personaggi ritagliati nei vecchi clichés del romanzo popolare: l'aristocratica proterva e irriducibile, la dolce fanciulla vero angelo senz'ali, il sacerdote misericordioso e pio, la madre infelice, il bastardo sciagurato che nella carriera del vizio precipita fino all'assassinio. Gli ingredienti vengono agglutinati con la rozza goffaggine dello scettico che finge entusiasmo; i trucchi si succedono sgarbati e superficiali; il dialogo si diluisce senza alcuna suggestione letteraria; le scene si accavallano insensatamente culminando in «cartoline illustrate» pro-mutilati e pro-prestito di guerra; l'azione si scioglie al rombo del cannone che reintegra ognuno nei propri meriti. Ma perché non avere almeno quel tantino di buon gusto che è sufficiente per non condurre piú a spasso, dopo la pace, i cadaveri dell'interventismo blaterone?

(22 novembre 1918).

«Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano. Sabatino Lopez è maestro nel far le bolle di sapone; sa opportunamente impiegare il corto respiro e sgranare dalla cannuccia, con ritmo uguale, quel tanto di bollicine tenui e fatue che accontenti il facile pubblico dei nostri teatri. Bonarietà, semplicità superficiale, dialogo facile, leggero, una pizzicatina alle corde del sentimento, un cartoccino di sale casalingo: nasce la commedia borghese, la commedia «per bene», che sa quel che si dice e quel che si fa, educata, lisciata, profumata allo spigo e al cotogno.

I tre atti Sole d'ottobre, sono del Sabatino Lopez autentico; non ci manca neppure uno zinzino di volterrianesimo, coccarda dell'indipendenza intellettuale dei borghesi capi di famiglia che ricordano i tempi eroici del liberalismo da caffè. Un marito e una moglie, un suocero e una suocera, e un nipotino che fa diventar nonni i due vecchi: il marito ha tradito la moglie e i due nonni lavorano a risolvere il groppo: nel risolverlo bonariamente decidono di sposarsi e dare il buon esempio della convivenza coniugale. Un nulla, adorno di parole drogate per palati casalinghi, che è diventato qualcosa nella recitazione di Irma Gramatica, di Ernesto Sabbatini e degli altri bravi collaboratori della compagnia.

(28 novembre 1918).

«Le galere» di Tumiati all'Alfieri. È un capitolo della storia del Risorgimento italiano che Domenico Tumiati sta scrivendo per il pubblico che frequenta i teatri. Storia per uso del popolo che ha letto I misteri dell'inquisizione di Spagna e nel succedersi degli avvenimenti umani non sa vedere e crede non ci sia altro che il gesto spettacoloso, sia pure gesto di individui altissimi per carattere e energia morale. Cosí è che Domenico Tumiati diffama il Risorgimento italiano e, per quanto è dato a un lavoro di teatro, contribuisce a tener basso il livello medio della intellettualità italiana. Il dramma è concepito come un romanzo d'appendice: è una combinazione di elementi sociali e di lirica (!) individuale. La vita singola si intreccia con la vita sociale per diventarne un simbolo: l'eroe diventa la «vera» anima di un popolo, che si svolge secondo un processo di sviluppo coincidente con avventure amorose, idealizzate da un sublime spirito femminile che si confonde con un fine politico e umano. Il Tumiati molto rozzamente calca la mano su i motivi piú clamorosi: in un atto solo delle Galere si contempla un carcere cupo racchiudente il barone Carlo Poerio e un suo compagno di sventura ridotto agli estremi dalle torture poliziesche: si assiste a un tentativo di fiaccare il carattere del Poerio con l'acquavite fatturata, a un colloquio clandestino del Poerio con lord Gladstone che piange, si sente l'ultimo canto di un usignolo, barbaramente trucidato da uno spietato aguzzino; e finalmente, come finale, i galeotti che intonano in coro una terzina della Divina Commedia. Il pubblico, che si lascia ancora prendere da questi espedienti di teatro commerciale, ha applaudito.

(5 dicembre 1918).

«La signora innamorata» di Berrini al Carignano. La signora innamorata, tre atti di Nino Berrini, è stata scritta prima della guerra. Poiché dal 4 agosto 1914 si è iniziata un'èra nuova, l'autore ha aggiunto l'aggettivo «storica» al sostantivo «commedia», e poiché è oramai opinione diffusa e debitamente autenticata dai competenti in psicologia e sociologia, che il mondo in questi quattro anni si è foggiato su un'anima nuova, Nino Berrini, che ci tiene a essere reputato persona seria e competente di psicologia, ha fatto precedere ai tre atti un prologo in versi martelliani, nel quale spiega la faccenda della storia, dell'anima nuova, della nuova psicologia e del rombo del cannone.

I tre atti appartengono al genere «rivista con pretese letterarie»: una successione di scene in cui si attua l'anima femminile studiata alla stregua del famoso aforisma «la donna è mobile»; in cui si interroga la Sfinge per sapere quale mistero racchiuda la complicata, labirintica, oceanica anima della «donna che si spoglia». Poiché le donne non si spogliano piú, poiché nessuno piú si diverte, e nei salotti non si spettegola piú in grammatica, i tre atti del Berrini sono una commedia storica, cioè preistorica: la storia è solo attuale, è storia dell'anima nuova, del costume rinnovato del mondo.

(5 dicembre 1918).

«La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano. Carlo Veneziani appartiene a un gruppo di scrittori che si è proposto di rinnovare il teatro italiano. Le commedie e i drammi che si scrivono in Italia sono una casistica della vita sessuale che si svolge nell'àmbito della legge umana e che è perennemente insidiata dalle leggi della natura, cioè dai capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di controllo su se stessi. Poiché il costume italiano è essenzialmente sessuale, poiché la sessualità è l'argomento che piú interessa lo spirito degli italiani, è naturale che gli scrittori di teatro non concepiscano altra vita che la sessuale. Ciò significa che gli scrittori italiani di teatro non hanno fantasia, non riescono a superare fantasticamente la mediocrissima umanità della quale fanno parte, mediocrissima umanità che inspira la sua vita spirituale al popolarissimo proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto con la moglie»; e non avendo fantasia, non riuscendo a concepire bene piú grande di quello che i sensi godono nell'alcova, gli scrittori italiani di teatro non sono artisti e il teatro italiano non è un fatto estetico, ma un fatto meramente pratico, d'ordine commerciale.

Ma il teatro italiano aveva finora visto la vita sessuale in due sole forme: quella piú crassamente sguaiata che si propone di solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella romantico-sentimentale che dipende dall'aforisma: «Dopo la voluttà, ogni animale è triste». Perché il teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno sessuale assumesse una terza forma (il tre è numero perfetto nella mitologia cristiana e nel simbolo massonico, che tanta importanza hanno avuto nell'informare il costume italiano) e questa fu escogitata dal gruppo degli innovatori: Pirandello, Chiarelli, Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in confronto della vita sessuale una posizione critica, assolutamente intellettuale, di introspezione.

In certo senso c'è un superamento, sebbene esso possa solo paragonarsi al gesto che fa il cane dopo aver rosicchiato un osso: è un inizio di risanamento del costume, di evasione dalla fogna miasmatica dei sensi.

Carlo Veneziani «dovrebbe» appartenere al gruppo innovatore, la sua commedia in quattro atti La finestra sul mondo che la compagnia Tina di Lorenzo ha presentato al pubblico torinese, «dovrebbe» appartenere alla serie delle nuove commedie. Ma è impossibile farla rientrare in essa: il Veneziani non ha altra visione della vita, altra attitudine all'introspezione, che quella espressa nei motti per ridere pubblicati dai settimanali illustrati. Tra Pirandello e Veneziani c'è l'abisso che separa un uomo intelligente da un collaboratore del «Numero» o del «420». La finestra sul mondo rientra nella serie delle commedie nuove allo stesso modo che un abito smesso rientra nella personalità dell'uomo che l'ha indossato: anche nella mediocrità intellettuale è necessario stabilire delle gerarchie di valori. La commedia è stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal marasma spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui statura non supera la sua statura media, lo soddisfano doppiamente: perché il sesso ci predomina e perché banalmente si sorride della vita sessuale: nella banalità pubblico e autore si compenetrano, identificandosi.

(15 dicembre 1918).

«Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle all'Alfieri. I tre atti di A. De Lorde e Jean Marcèle, Marito suo malgrado sono stati tradotti da Amerigo Guasti, capocomico della compagnia Galli-Guasti-Bracci. È il Guasti che ha scelto, secondo le convenienze della sua compagnia, e ha tradotto secondo il suo cattivo gusto. Non si può giudicare chi sia l'«inventore» della filza di cose brutte che i due autori francesi hanno intitolato Marito suo malgrado. Amerigo Guasti è traduttore troppo «personale», perché sia lecito imputare gli autori francesi, senza visione diretta del documento originale. Si può affermare solo questo: poiché il Guasti, come «letterato», non brilla per troppa sensibilità al bello, la sua scelta non può essere che caduta su una cosa brutta: egli ha poi largamente abbondato nel trasformare in brutto italiano il brutto francese, insaccando nei tre atti tutto il repertorio delle «aggiunte» a braccio che normalmente inserisce nelle altre commedie che non ha tradotto.

L'intrigo dei tre atti è dei piú banali: un imbroglione, munito di carte false, giustificanti un titolo nobiliare, s'introduce in una onesta casa di ricchi borghesi per rubare una grossa dote. Scoperto dopo la cerimonia legale, ma prima della cerimonia sentimentale, viene arrestato, ma l'atto matrimoniale vive per il legittimo proprietario delle carte e del titolo. Questi naturalmente odia le donne, ma poi, come suol succedere, mantiene il matrimonio perché la sposina è... Dina Galli. I tre atti sono infarciti dei soliti giochetti, contrattempi e doppi sensi che dovrebbero far sbellicare dalle risa e infatti ci riescono: chi ha fatto la spesa per andare a ridere, finisce sempre col ridere e divertirsi; si tratta, in fondo, d'un punto d'onore.

(3 gennaio 1919).

«Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano. Nessuno aveva pensato ancora a consolare una delle tante categorie di vittime della guerra: i padri di numerosa prole femminile da marito. Alfredo Testoni ha colmato la lacuna, sfuggita all'attività sociale di beneficienza, che pure sembrava non poter conoscere campi inesplorati.

La guerra ha ucciso, la guerra stimola a ricostruire le generazioni; la guerra ha dissolto le famiglie, la guerra moltiplica le famiglie: la natura è di un'astuzia diabolica. Alfredo Testoni, come scrittore di commedie, deve essere rimasto molto seccato per le vociferazioni che si diffondevano sulle conseguenze corrosive, della vita al fronte dei mariti, per la fedeltà coniugale e non coniugale. La marea di pessimismo diveniva in verità preoccupante: come poter piú scrivere una commedia o una farsa se l'ambiente sociale si fosse definitivamente convertito allo scetticismo? Era necessario un colpo di timone: Pace in tempo di guerra è un colpo di timone, piú che una commedia; timone di gondola (se le gondole hanno timone), per portare una pietruzza alla soluzione del problema dell'amore in tempo di guerra e di dopoguerra. Pertanto Alfredo Testoni ha dimostrato che è possibile ancora scrivere commedie o farse concludentisi con un matrimonio; la sua si conclude con cinque matrimoni e scorre come dolce ruscelletto.

C'è un signor Bellotti con quattro figlie da marito; graziose, veh! graziosissime, sebbene il padre sia imbecille e ridicolo quel tanto che serve per un padre da commedia. Il signor Bellotti si preoccupa per questi benedetti mariti, e tre delle quattro figliuole si preoccupano secolui: tanto si preoccupano che sarebbero disposte, le tre, a sposare un fornitore militare anzianotto, brutto e idiota. L'astuzia della natura soccorre i naufraghi e si presenta sotto le spoglie pregiate di un tenente. Il tenente Serra, come si chiama, espone una sua teoria sulle guerre e il matrimonio: la vita di trincea ha infuocato nell'animo dei cittadini maschi l'aspirazione alla pace domestica, con contorno di idillio e di figliolanza. Il tenente Serra è una forza della natura e opera. Il fornitore militare viene liquidato in breve tempo come si addice a un fornitore militare: con lo scorno e le beffe. Tre figliuole scoprono di botto l'anima gemella e per loro la è fatta. Il caso della quarta figliuola, che poi è la primogenita, essendo complicato e romantico, serve all'intrigo centrale della farsa, che appunto per esso aspira al genere commedia. Questa figliuola Alda è stata vilmente tradita da uno scavezzacollo: la guerra tempra la coscienza dello scavezzacollo, egli si pente e vuole riparare al malfatto. Resistenza da parte di Alda, trionfo finale della forza della natura che legge una lettera-testamento, commuove i presenti fino alle lacrime e raggiunge il suo fine: la commedia si conclude con cinque fidanzamenti, poiché anche l'attendente del Serra sposa la cameriera delle quattro signorine. Il popolo partecipa alla vendemmia d'amore.

I tre atti hanno avuto il successo di tutti gli atti di Alfredo Testoni. Il buon umore fa buon sangue e, tra la guerra e la febbre spagnuola, il buon umore e il buon sangue sono articoli che nei bazar trovano compratori in abbondanza.

(10 gennaio 1919).

«Una donna qualunque» di Wilde al Carignano. Una donna qualunque è una «moralità» scritta da un poeta che faceva professione di immoralità, e che non era uno scrittore di teatro. È una rappresentazione di vita semplice e complicata, ottimista e scettica, ingenua e perversa, proprio com'è la vita «qualunque». E la commedia stessa è ingenua e complicata: tessuta con un dialogo elegante e raffinato, quando chi parla è un elegante e raffinato signore inglese, al quale la fortuna ha dato tutte le condizioni per poter essere scettico ed egoista; «melodrammatica» quando l'azione si svolge per opera di un ingenuo e istintivo giovane «morale»; profondamente drammatica quando chi parla è una donna che ha sofferto. E la posizione esteriore di ognuno è «qualunque» per un altro, è ridicola per un altro, perché lo Wilde osserva il costume con occhio acuto piú di quanto non si reputi utile osservare dalla comune degli scrittori drammatici che non sono poeti: vede gli uomini distinti per classi e per gradi e per concezioni della vita, e trova che la bellezza o il bene (bello e buono sono identici per lui) è creata solo dagli «indipendenti», da coloro che operano per un fine di meccanicità quattrinaria o tradizionale. Le compagnie drammatiche stanno riabilitando in Italia la fama infame di Oscar Wilde, col presentare queste vecchie commedie, nelle quali l'originalità spontanea dello Wilde si manifesta genuinamente piú che nelle stravaganze e nelle avventure giudiziarie; è un merito che si aggiunge alla esecuzione accurata che di Una donna qualunque ha offerto la compagnia Carini.

(16 gennaio 1919).

«Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano. Misteri abissali, sortilegi, inesplorate cavernosità di anime dedaliche, tormenti senza confine e senza possibilità di espressione verbale e che perciò domandano all'autore discorsi zeppi di parole (moltissimi aggettivi e scarsi sostantivi), di metafore, di ampi gesti abbracciatutto, e agli attori un'orchestica sostenuta e grave come di personaggi da tragedia greca.

Fausto Maria Martini appare, in questi tre atti di Il fanciullo che cadde, come uno spirito pesante, goffo, di una pedanteria filistea spessa come il fumo ammorbante di una lucerna da vecchio letterato aristotelico. Non un guizzo vivo di fantasia, una costruzione lenta, volontaria, meramente esteriore di parole e di frasi e di giri e di intrighi e di spettacolosi duelli oratori, senza che dietro la nebbia verbale sia dato scorgere un'anima viva, una concreta figura umana che si attui in una passione, in una gioia, sia pure in una parola, ma che sia atto espressivo e non vuota sonorità vocale.

Il fanciullo che cadde svolge una successione meccanica di scene, nelle quali si contempla lo sgomitolarsi di due stami vitali che la piú brutta delle Parche filò con soverchia velenosa saliva. Gabriella è lo stame femmineo, Luciano quello virile. Tra i due esiste sortilegio. Gabriella sposa il fratello di Luciano e Luciano per allontanare dalle sue frementi nari l'afrore dell'incesto, salpa per l'Oriente profumato e crudele. Ritorna alla morte del fratello, tutto fasciato di misteri, e che trova? Gabriella ha un figliolino, nel quale il morto fratello rivive, e si erge per separare; la madre non può essere l'amante, cosí come non poteva la sposa. Ed ecco che Luciano, dopo una tonitruante spiegazione, parte «per sempre» una seconda volta per l'ignoto, ed ecco che prima della sua partenza, l'«innocente» cade nelle acque burrascose e miseramente affoga. Ed ecco che un nuovo infrangibile misterioso schermo si frappone tra le due anime e un viperino duello si inizia. Una dolce fanciulla, figlia della disperazione e di Luciano, inventa un giuoco grazioso: richiama il misterioso padre presso la misteriosa Gabriella e si fa galeotto tra i due. Il sortilegio crudele non risparmia, ahimè, neanche la dolce fanciulla! Gabriella si dichiara pazza d'amore, delirante di passione carnale per Luciano, sembra avvolgerlo in una magia folle di desideri; lo trascina verso la voluttà, nella stessa camera d'albergo dove il fanciullo cadde, lo invischia, bellissima e proterva, in una squisita rete di parole capziose e gli fa confessare il delitto; egli, per avere la donna, ha ucciso il frutto delle materne viscere. Quindi leva un vindice pugnale. Ed ecco il sortilegio: Luciano disarma Gabriella e le rivela che è innocente e aveva compreso il viperino agguato e aveva secondato il giuoco per meglio conoscerne l'anima nera. Quindi riparte «per sempre», seco portandosi il pugnale, mentre Gabriella pazza di vero amore, si contorce nel letto illibato.

Cosí il sortilegio si chiude, a meno che Fausto Maria Martini non lo riprenda per rifondere tutto il dramma in un romanzo di pirati e corsari dell'arcipelago o in una «film» a lungo metraggio per Febo Mari e Pina Menichelli.

(23 gennaio 1919).

«L'arch an cel» di Leoni al Rossini. Il signor Mario Leoni, al secolo commendatore Giacomo Albertini, ex deputato al Parlamento nazionale, sezione elettiva, ha ieri presentato al pubblico del teatro Rossini l'ultima novità del suo bazar spirituale da rivendugliolo di Porta Palazzo. La novità è intitolata L'arch an cel e si compone di quattro atti, coi personaggi che parlano in dialetto piemontese. Altra volta, scrivendo di una commedia di Mario Leoni, abbiamo affermato che cattive azioni di questo genere non dovrebbero rimanere impunite, e ci siamo augurati che per il signor Mario Leoni si restaurasse la pena corporale che nel Medio evo puniva le donne adultere: una passeggiata per le strade cittadine a schiena d'asino, col corpo nudo impegolato e variegato di penne di pollo.

Il signor Mario Leoni non è uno scrittore, anche se per scrittore s'intenda chi compila l'Almanacco di Chiaravalle o il Libro dei cuochi. Mario Leoni è un rozzo uomo, che ha per cuore una bistecca e per cervello una spugna da massaggio. Con la sua praticoneria da esercente furbo, infarcisce zibaldoni verbali, speculando sul candore e l'ingenuità del pubblico popolare, come una astuta mercantessa di carne femminile può speculare sui primi brividi della pubertà degli adolescenti allevati a bacioni materni e a caramelle sororali. Non è possibile che neanche un'ombra di rispetto si possa sentire per le fatiche di questo dozzinale acciabattone, che non rispetta nulla e nessuno, che mercanteggia la commozione istintiva per il dolore materno, imbrattandolo subito dopo con la piú goffa buffoneria, che impiastriccia le commedie con la stessa disinvoltura che serve allo straccivendolo per ficcare in un sacco sudicio tutti i rifiuti della vita. Col signor Mario Leoni non è possibile, e sarebbe indecoroso, anche accennare a uno spunto critico: non si può dialettizzare il tanfo.

La reazione adeguata e omogenea alle fatiche del signor Mario Leoni può solo essere di natura fisica: una pena corporale come la suddescritta, integrata con qualche beffa del genere novelle cinquecentesche con protagonista il secco e triste pedagogo.

(28 gennaio 1919).

«Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri. Una burla, come in tutte le commedie cinquecentesche che siano «veramente» cinquecentesche, compone e scioglie l'intrigo dei tre atti cinquecenteschi della Madonna Oretta di Gioacchino Forzano. Madonna Oretta è una fiorentina, spirito bizzarro, scaltra e procace, che ricerca in diversi amatori quella razione di felicità, cui ha diritto la sua beltade e il suo vivace temperamento, e che suo marito, l'anzianotto e grossolano Luca, mercante dell'arte della seta, non può ministrarle. Ma Oretta non è poi cosí scaltra e spiritosa e cinquecentesca come il Forzano vorrebbe farci credere di averla fantasticata; la poverina credeva anch'essa di essere scappata fuori, come un fiore di vita, da una novella del Cinquecento, ma poi illanguidí, la meschina, e si fece romantica e sentimentale come una violetta del pensiero e della vita moderna rappresentata in una pochade parigina. Ed ecco come Oretta vive, spensierata e raccolta, nella bottega di Luca, tra gli affari e l'amore: ma un giorno si incontra con un bel cavaliere, il conte Gherardo di San Gimignano, che le appare come san Michele nell'atto di liberare un mercante fallito dai suoi rozzi persecutori. Per un «abile» colpo di pollice del caso, Oretta duella, nella maritale bottega, con Genoveffa, amante del conte, e le infligge un solenne scorno. Quindi si incontra col cavaliere, un uomo fatuo, un presuntuoso, e nella sua scaltrezza, vuole staccarlo dall'amante, scoprendogli come lei, proprio lei, Oretta, che il cavaliere presuntuosamente ha giudicato donna fedele, abbia due amanti e simultaneamente meni per il naso tre uomini. E per convincere meglio il cavaliere della sua ignoranza, rimasta vergine pur attraverso una infinita serie di esperienze amatorie, Oretta pensa la burla: si traveste da giovine poeta e seduce Genoveffa e si fa sorprendere. Ma su quale mai rozzo e maldestro cavaliere aveva Oretta posato il suo amore: Oretta è innamorata e Gherardo è persuaso sia una commediante, Oretta si strugge e lacrima e Gherardo si infurbisce ancora e non può credere. Il dio d'amore è veramente bisbetica ed enigmatica creatura del destino. E cosí Oretta, la spensierata Oretta, la scaltra mercantessa di sete, ridiventa saggia provvisoriamente e si abbandona sul petto maritale di Luca. Ma Oretta è piaciuta lo stesso, anche se poco cinquecentesca, anche se operante in un mondo fittizio, artefatto, fuori di ogni spazio e di ogni tempo, anche se un po' stupidella, essa stessa, per la curiosa pretesa di essere persona viva nell'arte letteraria, pur fuori della individualità della Galli, e di muoversi e agire, e reagire, tra i cartoni dipinti, a uomini cinquecenteschi, vivi solo nel movimento degli attori. È piaciuta, ha divertito, ha fatto ridere fisicamente; il solo fine che l'autore stesso forse si riprometteva di raggiungere.

(5 febbraio 1919).

«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano. Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la presentazione della «moglie» come personificante la visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori del futurismo post-cubistico: l'inferiorità spirituale è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e superfici. Il «marito» invece è fortemente accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice, fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io, inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile: la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si sottomettono alla volontà della trottola socratica. C'è un «amante», perché la commedia rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l'amante non impersona alcuna idea; è sorda materia, è oggettività opaca, è il «fesso» della vita, che logicamente è condotto a rimetterci la pelle, perché la dialettica dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima del concetto puro e l'urlo belluino del protoplasma in movimento: la umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in duello. Il marito non la intende cosí e costruisce, sulle contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi, il trionfo della ragione logica: accetta il duello all'ultimo sangue e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere, l'amante che è il vero marito. La vita è per lui, concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a priori le parti, facendo sempre scacco matto.

La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili, l'autore, i personaggi e il pubblico.

(6 febbraio 1919).

La serata della Vergani al Carignano. Per valutare anche approssimativamente le capacità creatrici di una attrice come Vera Vergani non si può prescindere dalla necessità di un giudizio riassuntivo e sintetico su tutta l'opera sua di artista.

Vera Vergani nulla ha da temere nell'affrontare un simile giudizio che non può non tenere conto di tutti gli elementi che possono giustificare le poche e lievi manchevolezze che si rintracciano nelle sue interpretazioni.

Ma sono queste piccole incertezze che dànno maggiore rilievo alle non comuni virtú della Vergani. Essa è talora imprecisa perché non calca le scene come una marionetta, ma vive, ama e soffre la fugace esistenza di cui le è affidata la creazione. Sono doti che non potevano sfuggire al gran pubblico, anche se degli sforzi solitari e tenaci di qualche artista coscienziosa non si cura. Il valore persuasivo delle interpretazioni della Vergani ha finito per vincere.

Accanto a Ruggero Ruggeri essa non è affatto sacrificata, appunto perché ha raggiunto una maturità che le può permettere di trasfondere la sua personalità indipendentemente da qualsiasi contributo estraneo.

Ieri sera, per la sua serata d'onore, essa ottenne un vero trionfo. Dopo il terzo atto fu chiamata sei volte al proscenio. Il teatro Carignano era affollatissimo.

(22 febbraio 1919).

«U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri. È un'efficace rappresentazione della «scemenza» meridionale (siciliana). La scemenza meridionale è una particolare scemenza, per due rispetti: genericamente e specificamente, è meridionale ed è di casta. Lo scemo meridionale è diverso dallo scemo toscano (Stenterello), è diverso dallo scemo lombardo (Marchese Colombi, per es.). Ma nella scemenza che è generica si distingue una scemenza specifica: quella del barone, del signorotto feudale che si maschera di decoro, che ha delle pretensioni; nel semplice «uomo», rozza umanità senza intelligenza che si colora per atteggiamenti particolari, essa è spettacolo pietoso; nel barone essa è possibilità infinita di comico. Il barone scemo vuole essere qualcosa, crede di essere un valore umano; egli è il suo titolo, è una tradizione di boria, altezzosa coi deboli e strisciante coi forti, è un rapporto tra un essere e un presumersi; tra l'essere abietti, incapaci, ottusi, analfabeti, pietosi, e il presumersi superiori a tutti gli uomini perché si è nobili e gli altri sono scarpari, falegnami, zappatori, «gente che deve lavorare per vivere». Lo «scemo» barone non è neppure piú un uomo: è una scimmia. Non basta: ha dimenticato di essere uomo, non riesce a concepire l'uomo. Il lavoratore meridionale (il lavoratore della terra) è quadrato, robusto, dalla voce profonda, musicale e vigorosa; il barone è degenerato fisicamente, è una decomposizione fisiologica oltre che una decomposizione sociale, è diverso dall'umanità laboriosa che lo circonda nel tipo fisico, nella voce, nel gestire, oltre che per la casta e la moralità.

Francesco Campanozzi ha vigorosamente rappresentato uno di questi scemi nei tre atti che umilmente chiama di farsa. E certo non può esserci tragedia o dramma in uno di questi baroni, e i tre atti sono «storici»; non può esserci commozione profonda, conflitto interiore, urto di grandi passioni nobili o infami. Non può esserci alcuna cosa grande, nel bene o nel male, che sia inerente a umanità: è un balzellare fisico e un crepuscolo tremolante dello spirito e dell'intelligenza, un'inettitudine assoluta, all'azione e al pensiero che solo talvolta si scuote per un istinto confuso della famiglia. Il Campanozzi ha dato espressione plastica a questo mondo che tramonta; ne ha saputo fissare con esatta evidenza alcuni momenti essenziali, anche se il carattere (in senso artistico) centrale non gli è apparso che in uno sviluppo di insieme spesso forzato e scolorito, con antitesi crudamente meccaniche. U baruni di Carnalivari vive tuttavia, e non è spesso che nel teatro si vedano creazioni vive.

(12 marzo 1919).

«L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano. Il teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di San Secondo, Veneziani... e Cavacchioli) risulta in gran parte da un piccolo errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese, volendo arrivare a Bernard Shaw, si sono smarriti nel dedalo delle avventure di Sherlock Holmes. Lo stampo della loro fantasia è da ricercarsi nella vasta fronte di mister Conan Doyle, divenuto baronetto per meriti letterari; in ogni loro commedia l'intrigo è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà di intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito ovverosia della psiche umana: le avventure ideali si connettono per ragione filata, si sviluppano con ritmo sicuro, si intrecciano, si accavallano, si mescolano, unite sempre da una sottile bava di ragno, sulla quale un folletto danza gioiosamente, caprioleggiando, rischiando triplici e quadruplici salti mortali, per ricadere sempre in piedi, gentile, fresco, ilare, smorfieggiante a destra e a mancina per esporsi e proporsi all'ammirazione universale.

È una fantasia legnosamente arida, che scoppietta e frigge per una goccetta d'olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era fatta, i quali pertanto l'hanno recisa per notomizzarla e veder com'era fatta.

Divertono, pur annoiando un po' per la pedanteria, della quale sono figli non degeneri. Divertono e interessano, perché, insomma questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la vecchia moda del teatro romantico da appendice, sfrenare una irrequietudine interiore e corrodere i sedimenti di sugna inacidita che facevano grossi i cuoricini piú microscopici. Ma non sono che uccelli di paradiso impagliati o che saranno impagliati tra breve dagli archivisti delle biblioteche teatrali; non godono della libertà, sono legati a un cordino come i rospi che divertono i monelli; sbalzellano, goffi alquanto per la finzione della libertà, e ricadono molli. È difficile analizzare le loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si può essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto, che non ha ancora esaurito il suo ufficio storico. Sono quasi sempre ben eseguite, perché domandano studio e lavoro e spoltriscono i facili schemi irrigiditi degli attori. L'uccello del paradiso, confessione (!) in tre atti di Enrico Cavacchioli, ha dato modo al Betrone, alla Melato e agli altri bravi artisti della compagnia Talli di determinare una esecuzione che vale in se stessa.

(20 marzo 1919).

«Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri. Giovanni Schiffi, in arte Flick, è un uomo che soffre. Ma questo dolore, questa sofferenza atroce del pagliaccio Flick, dipende da una mera condizione del suo essere fisico; può suscitare la pietà, come la susciterebbe l'esposizione in palcoscenico di un lebbroso, di un cieco, di un qualsiasi infelice accasciato sulla sua sventura che gema e ululi e si contorca. Il dramma (!) di Fausto Maria Martini è costruito coi procedimenti del Grand-Guignol; l'umanità, come poesia, come spirito, come intelligenza che supera e comprende l'essere fisico, vi è assente. Ci troviamo dinanzi a un referto da neuropatologo, un tale che non può ridere, che non può godere, che non può vivere, a una fontanella di lacrime ambulante. È un pagliaccio; è un professionista del riso; ci sarà un contrasto, il dramma nascerà appunto da questo contrasto mostruoso. No, l'autore non pone il dramma in ciò; è un incidente questo contrasto, non è essenziale motivo, e forse non potrebbe esserlo perché la professione di pagliaccio a quanto si sappia non è inerente alla natura umana, non attributo necessario di una passione o di un essere. Flick si domanderà perché, a lui, innocente, sia toccata una tale sciagura, interrogherà la natura, interrogherà gli uomini, si rivolgerà alle stelle e alla luna, magari, per sapere la ragione, maledirà, imprecherà, diverrà patetico rimprovero dell'inconoscibile, del destino, di Dio, del caso perverso che lo ha cosí foggiato, che lo ha condannato a essere l'ombra della vita, senza amore, senza sorriso, senza contrasto tra la gioconda risata e la amara lacrima. Niente di tutto ciò, assolutamente nulla; Flick è un mero referto da gabinetto medico, Flick ha per anima una cipolla lacrimogena, non una sorgente di poesia e di dolore umano.

I contrasti sono ottenuti con mezzi esterni; l'uomo che piange si incontra con l'uomo che ride, che ride senza motivo come egli piange senza motivo: due maschere s'incontrano presso uno specialista e si prendono sotto il braccio, iniziano una vita comune; si completano? nasce da questo contatto un principio di vita? Neppur questo. Una donna è coi due; essa è la consolatrice di Flick, a quanto Flick afferma; ma non è amata da Flick, non determina nel suo cuore un senso, un moto che possa svolgersi in una dialettica e condurre a una evasione dal cerchio chiuso della mera sensibilità animalesca del soffrire. L'uomo che ride guarisce, lui, nell'amore, si porta via la donna nella gioia che non è piú secco scoppiettio d'ilarità effimera; Flick non soffre per ciò, il suo dolore non si modifica, il dramma rimane puro Grand-Guignol, esposizione del meccanico decomporsi di un essere umano per reazioni fisiologiche, a grande effetto, rozzo verismo senza soffio di poesia. L'intrigo è preparato per lo scioglimento; lo scioglimento è a grande effetto, e l'effetto è riposto nella virtuosità dell'attore.

Il prof. Gambetta, neuropatologo, aveva consigliato a Giovanni Schiffi di recarsi ad ammirare il pagliaccio Flick e di abbandonarsi alla giocondità che il pagliaccio dispensava nella sala. Ed ecco che Giovanni Schiffi ricerca in se stesso il riso, in se stesso (ohibò, non pensate che il Martini abbia ricavato da questo motivo una ricerca dell'interiorità) riflesso negli specchi, e danza e folleggia, e ride e si uccide, pugnalandosi, sempre nient'altro che maschera senza anima, senza poesia, senza un briciolo di umanità spirituale.

(21 marzo 1919).

«La ca' veuida» di Nicola al Rossini. Esistono ancora uomini che credono nelle forze buone che pure conducono e dànno una configurazione alla vita: la bontà, la lealtà, la generosità e gli altri astratti che abbondano nei libri delle educande.

Il Nicola è uno di questi e La ca' veuida è un'affermazione di fede. Una onesta e illibata figlia di magistrato pecca col suo fidanzato che deve partire per il fronte e muore. È dessa indegna del genitore e della società? La lealtà la rigenera, la generosità di chi la circonda le ridà un compito e una missione nella vita: la casa che si era vuotata sotto i colpi del destino, si riempirà nuovamente di sorrisi e di speranza. Il dramma è condotto molto ingenuamente e perciò talvolta assume toni accademici e predicatori, ma forse perciò appunto si cattiva le simpatie: sente di buon odore casalingo, e alla fin fine si è nauseati dei tanti che speculano sullo scetticismo e il cinismo, che rinnegano i valori tradizionali della vita e si mettono, il piú delle volte, fuori di ogni vita. Si rimane colpiti dello strano fatto che qualcuno prenda ancora sul serio gli ammonimenti del buon Giannetto: e forse è vero, come avverte Benedetto Croce, che il Buon Giannetto dovrebbe essere riletto e meditato da molti.

(27 marzo 1919).

«L'innesto» di Pirandello al Carignano. Esiste nell'arte del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese d'agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie «amorosamente» il tallo, col quale la mano rude ma esperta del villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo desiderio di frutto, lo accoglie a «occhi chiusi», nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà alla innocente pianta l'origine legittima della sua fecondità? Anche la signora Laura Banti è una sterile pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale ha ricevuto a «occhi chiusi» il germe vitale che la renderà madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto il suo spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l'amore e il corpo fisico del consorte legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i suoi scrupoli e la sua suscettibilità e la sua volontà che sono due con quelli della moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo che compiono il rito fecondatore senza nulla generare. Come venga superato lo stato d'animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del Pirandello.

Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione intima permanente di due vite? E ha irrigidito un'azione, ricca di umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora da giardinaggio, e ha finito col credere, un po' anch'egli, all'accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha presentato questo problema sessuale, che è poi fondamentale nella vita degli uomini, avvolgendolo in una artificiosa bambagia di dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la pianta, una rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi non sapesse come esprimere al pubblico e come organare in atto la concezione che pure era chiara nella sua fantasia.

Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e congestione. L'argomento è posto, ma non vivificato, la passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue «conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto nella storia dell'arte, avranno invece molta parte nella storia della cultura italiana.

(29 marzo 1919).

«Fedeltà» di Calzini al Carignano. Abitava a Siviglia, nel tempo stesso quando Michele Cervantes scriveva il Don Chisciotte e il Geloso d'Estremadura, un artiere del marmo che aveva una moglie bellissima ma fantasiosa e bizzarra assai. Questo marito accoppiava al genio artistico una crudelissima volontà amatoria verso la moglie sua Soledad; il capriccio giunse in lui fino al punto che preparato avea una tagliola, nella cui morsa le trecce della donna assicurava, e solo cosí di lei era sicuro e poteva attendere ai perigliosi lavori di architetto e di capomastro. Ma la donna lo tradí ugualmente, pur dolorando nelle braccia dell'amante, per la tagliola che le irrigidiva la nuca e le spalle; lo tradí per smania di libertà, per provare a se stessa di essere creatura umana vivente e non vile schiava, non proprietà di un padrone; lo tradí col primo uomo che fu tanto ardito da tentare la sorte, in quella misteriosa casa di un sí crudele padrone, posta accanto alle carceri risonanti delle urla dei pazienti torturati, avvolta di sanguigni riflessi patibolari attraversati dalle piacevoli figure dei carnefici, dei manigoldi, dei confessori, delle confraternite e dei becchini. Ma il brutto giuoco dura poco: la fatalità si compie. Il marito precipita nel vuoto, poiché solo l'amore di Soledad lo teneva aggrappato alla vita e lo preservava dal capogiro, e muore. Soledad è libera, diventa fedele al morto; il tradire per lei era lotta per la libertà, per il possesso di se stessa; era un duello, e il duello si fa in due. L'amante viene discacciato, ma anch'egli è spagnuolo, è andaluso, è geloso, è crudele, per di piú si avvale dei servizi di un parassita, il quale naturalmente è un italiano, un italiano disperato, affamato, ma il cuore gonfio di poesia, di dolce malinconia che si traveste in giocondità e brio, il quale a sua volta si innamora di Soledad. Il primo amante rivuole a ogni costo Soledad e la ricatta: va a un convegno e viene pugnalato dalla fantastica donna che circuisce quindi l'italiano con le sue reti e lo convince a trasportare il cadavere fino al prossimo fiume.

Nel dramma del Calzini appaiono molte orme (orme sulla sabbia): v'è un pizzico di Villiers de l'Isle-Adam delle Novelle crudeli, un pizzico di Beaumarchais creatore di Figaro, qualche granellino shakespeariano, e persino un briciolo di Sem Benelli. Manca un autore unico, un poeta unico che unifichi e vivifichi nella sua fantasia tanti figurini; del Calzini c'è solo un'abbondante frasca di parole, che impressionano spesso con abbaglianti luccichii e roboanti sonorità.

Una bellissima messa in scena e una accurata e diligentissima interpretazione della Melato, del Betrone, dell'Olivieri, del Marcacci.

(6 aprile 1919).

«Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri. Il filosofo Filippo Carmi ha girato il mondo piú che Guido da Verona per studiare l'infedeltà femminile in tutti i suoi rapporti con la vita degli uomini, individui e associati. Ha tuttavia scritto già una cinquantina di volumi sull'argomento, e non riesce a concludere la sua laboriosa fatica, poiché gli manca l'esperienza personale dell'infedeltà e della gelosia: egli è una calamita che polarizza verso l'amore, l'onestà e tutte le virtú cardinali e teologali ogni donna in cui s'imbatte: non conosce Acidalia, cioè Venere inquieta, e affannosamente la ricerca, per dovere di filosofo e di uomo morale che si è proposto la nobile missione di guarire radicalmente l'umanità dalla schiavitú sessuale. Nei primi due atti di questa commedia del Niccodemi si assiste ai vani tentativi che il filosofo Pippo fa per essere tradito da una giovine donna che vuole essere onesta finalmente, dopo essere stata l'amante di mezzo mondo; nel terzo atto il filosofo Pippo scopre, nello spazio di qualche ora, di essere stato lo zimbello di tutti, di essere stato tradito da tutto e da tutti e di non essere un filosofo, ma un poveruomo qualsiasi: si consola con una sua segretaria.

Tutto ciò è presentato con molta disinvoltura, senza altra preoccupazione che non sia quella di far ridere fisiologicamente a molto buon mercato: ai tre atti manca ogni intenzione d'arte e ogni elaborazione, anche superficiale; sono un vero scoppiettio di parole infilzate con molta praticaccia del mestiere.

(8 aprile 1919).

«La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano. Per Luigi Antonelli la sostanza di questi suoi tre atti è una «avventura fantastica». La definizione è molto pretenziosa, e implica un giudizio di perfezione: come si dovrebbe definire il Sogno di una notte di mezza estate dello Shakespeare?

Nei tre atti c'è poca avventura e pochissima fantasia; abbonda invece la scaltrezza letteraria, abbonda lo spirito pratico che freddamente applica un metodo e riesce a sistemare un certo equilibrio che dà l'illusione dell'armonia.

L'avventura è il dominio dell'imprevisto, della vita che fiorisce spontaneamente nuova e attuale dal suo morto passato; se la fantasia dell'artista vive questa attualità, sboccia la poesia, si realizza il capolavoro nell'armonia dei caratteri umani, delle azioni che da questi caratteri sono determinate e delle immagini che la espressione suscita. Nessuna avventura nella fiaba dell'Antonelli: essa è una moralità, è una dimostrazione logica, è una tesi, una vecchia tesi diventata accademica e pedantesca per essere troppo ripetuta, una tesi che l'Antonelli nega in atto nel tentativo di fermarla. La giustizia e la verità uccidono, la poesia vivifica. I tre maghi della verità, della giustizia e della poesia si mischiano alla vita degli uomini. La Verità mette a nudo l'essenza di ognuno: ciarlataneria, tradimento, ipocrisia, violenza cozzano e minacciano di condurre al mutuo sterminio. La Giustizia conseguentemente fa giocare le cause e gli effetti: un disastro, uno squallore, la disperazione, il suicidio. La Poesia ricompone, tira a lucido, folleggia, dà impulso alla continuità. La favola centrale è poverissima: una comitiva di amici casuali sbarca in Europa con un bambino: il bambino viene assassinato. Da chi? Giuoco della Verità. È responsabile un figlio, è giusto che un figlio subisca una qualsiasi sanzione, ché un padre epilettico ha ucciso senza sapere che si facesse? Giuoco della Giustizia. Come può risanare un principio vitale dalle rovine accumulatesi per l'affermarsi delle due prime forze? Giuoco della Poesia. La secchezza del processo di sviluppo è invano rivestita di brillantina verbale; nel terzo atto il giuoco non basta piú, le parole si stemperano. La commedia rinnega se stessa; la poesia non vivifica. Fin dove essa si mantiene nel dominio delle premesse la scaltrezza letteraria riesce a suscitare l'interesse, la curiosità si tende ansiosa se non commossa. Ma l'albero della vita non emerge, non incanta con l'atteso lusso di fiori, di colori, di frutti: una banale sequela di bozzetti e una coreografia snervata e tediosa concludono la commedia.

(13 aprile 1919).

«L'intesa» di Rocca e «La trappola sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri. La commedia di Gino Rocca è una lievissima costruzione scenica, culminante in un epigramma che può essere diversamente gustato e che va oltre l'intenzione stessa dell'autore, fervente interventista. Una cocotte italiana divide la sua grazia con tre soldati: un inglese, un francese e un italiano (l'italiano è imboscato); in essa ognuno dei tre trova un fascino come nell'intesa politica ognuna delle tre nazioni (l'italiano è l'amico del cuore, metafora che il dilettantismo morale e politico dell'autore getta lí, con una disinvoltura che in altri tempi e in altri sarebbe giudicata cinico e malvagio disfattismo). Un bozzetto senza importanza e senza altra conseguenza che non sia una risatina nervosa a fior di pelle.

I tre atti di Pilade Vecchietti sono invece una complessa costruzione: essi seguono il modello classico della commedia d'intreccio. Bisogna, in fondo, congratularsi con l'autore, che ha avuto l'audacia di tornare all'antico, in questi tempi di frenetica modernità, di spasmodica ricerca del nuovo e dello strano. La trappola sentimentale espone i casi di una moglie trentacinquenne che sfiora l'adulterio e viene salvata dall'accorto e intelligente marito. Tutti i pezzi dello svolgimento sono preparati con cura e diligenza: la moglie può innamorarsi del primo uomo che le fa la corte (Paolo Anselmi), il marito, che possiede un intiero, un copioso epistolario amoroso di un ignoto anonimo, fa pervenire alla moglie queste lettere, le crea l'illusione di un innamorato misterioso, la culla in un incanto sentimentale che rende ripugnante la realtà. Ma l'autore delle lettere è proprio l'Anselmi, il quale tenta di rivolgere a suo giovamento l'astuzia dell'accorto marito, rimanendo finalmente sconfitto. Una commedia bonaria, senza pretese, che si sgomitola pacatamente e si ascolta senza alcuna scossa e nessuna reazione: un bicchiere di acqua con pochi sali.

(15 aprile 1919).

«La volata» di Niccodemi al Chiarella. L'officina irrompe nel palazzo. Il vecchio palazzo aristocratico, dove i sentimenti, gli affetti, le abitudini, i rapporti familiari sono diventati una muffa variopinta alla superficie ma germinata da una putredine fondamentale, è assediato dalla fervida attività del lavoro moderno, che lo sgretola e provoca numerosi crolli. Il lavoro vince il palazzo, il compartimento stagno della casta si sfascia sotto i colpi di maglio del proletario: la contessina Dora si ribella alla tirannia delle convenzioni ancestrali e sposa Mario Gaddi, un modesto operaio che si è aperta la strada nel mondo con la tenace volontà e l'intelligenza natia.

Il motivo ritorna spesso nel teatro di Dario Niccodemi. Il Niccodemi, come preparazione intellettuale, come esperienza sociale e storica, dipende direttamente dai romantici francesi del '48; è un epigono spirituale degli scrittori borghesi che nel romanzo, nel dramma, nella poesia continuarono la battaglia ideale per i diritti dell'uomo, per l'uguaglianza di fronte al cuore e al sentimento, vinta dai loro antenati dell'89 per i diritti dell'uomo, per l'uguaglianza di fronte alla legge.

Il Niccodemi è un Giorgio Ohnet in ritardo, e Giorgio Ohnet era già in ritardo a Eugenio Sue, a Victor Hugo e alla infinita schiera degli scrittori di appendici. Ma il motivo ha conservato una virtú di suggestione: riesce sempre ad avvincere e a commuovere, segno che il costume non si è modificato ed arricchito sentimentalmente e razionalmente con lo stesso ritmo della legge scritta e del progresso meccanico. La lotta di classe è vista dall'angolo visuale della tenerezza e del buon cuore: non è neppure una distinzione di classi che si fissa, ma una convenzionale caricatura degli uomini, secondo le categorie morali del bene e del male, secondo le categorie letterarie dell'angelo e del piededicapra, secondo le categorie oleografiche di lavoro e del sangue putrido. Sdolcinature piccolo-borghesi, che avrebbero provocato il vomito a Ottavio Mirbeau, e susciterebbero un sorriso ironico sul labbro di Massimo Gorki; prodotto di una invidiuzza inerente alla mentalità del borghesuccio francese che non sa perdonare alla propria mediocrità di sentire una grande ammirazione per il nobile, col quale spera di imparentarsi. Il Niccodemi non si innalza di un dito sulla statura intellettuale e artistica di Carolina Invernizio. La volata è costruita coi procedimenti teatrali abituali al «mago» della scena italiana: grandi urti, situazioni piccanti, conflitti esasperati, che fanno scoccare il desiato applauso promettitore di un buon numero di repliche.

(24 aprile 1919).

Gli spettacoli al Teatro del Popolo. Con L'onore di Sudermann s'è iniziato sabato sera il corso delle rappresentazioni al Teatro del Popolo. La interpretazione della interessante commedia, a fondo psicologico e filosofico, è stata condotta con vero senso artistico dalla compagnia Sangiorgi-Carini, i cui attori sono stati ripetutamente, insistentemente applauditi a ogni fine di atto e anche durante lo svolgimento dell'azione. La commedia ha interessato moltissimo il nostro pubblico che ha potuto vedere e sentire condito in tutte le salse il concetto borghese e bottegaio dell'«onore», che nella società capitalista si compra e si vende come una merce qualunque. E ha applaudito fragorosamente alla invettiva che Roberto, il giovane laborioso emerso dalla nullità del suo ambiente, ha lanciato contro i ricchi, padroni dei corpi e delle anime della povera gente.

Interessantissima anche la brillante commedia rappresentata nella giornata di domenica: Il deputato di Bombignac. L'allegra satira dei costumi parlamentari e delle leggerezze dell'alta aristocrazia non poteva non divertire il pubblico che frequenta i nostri ambienti dato il periodo di dissolvimento che stanno attraversando le classi dirigenti d'Italia e di altri siti.

Non cosí vivo interesse ha destato domenica sera il dramma di Bernstein: La raffica, dove l'azione si svolge esclusivamente nel mondo borghese della nobiltà infrollita dall'ozio e incartapecorita negli affari. I lavori capaci di emozionare il nostro pubblico sono quelli che mettono a contatto il presente con l'avvenire, i dominatori cogli oppressi, il sistema sociale dell'oggi colle ardite speranze del domani. E questo crediamo sia il concetto ispiratore della benemerita commissione del teatro.

Il locale ampio e arieggiato di Corso Siccardi è stato sempre affollatissimo e dobbiamo lodare gli organizzatori per l'allestimento elegante e popolare del caratteristico teatro in cui si svolgeranno le sane rappresentazioni educative del nostro popolo.

(30 aprile 1919).

«I giocatori» di Poggio al Carignano. Al signor Cesare Biliotti capita ogni dieci anni un'avventura bisbetica. Sui ventotto, il signor Cesare s'innamorò della signorina Maria; ma aveva avuto il torto di presentare alla fanciulla un amico, Mario Bini, che destramente gliela soffiò, aggiungiamo, per il prestigio del candore femminile e dell'amicizia, che né Maria né Mario conoscevano l'amore di Cesare. Sui trentotto, il signor Cesare si innamora della signorina Emma, e anche a lei presenta l'amico Mario Bini, il quale si prova a soffiargliela. Ma... in questo ma consiste la commedia.

Mario Bini non ha mutato il pelo, né ha perduto il vizio, ma Cesare Biliotti e le condizioni generali dell'avventura sono mutate. Intanto Mario Bini ha moglie e due figli; è separato dalla moglie ma intimamente ne è innamorato e adora i figlioletti. Cesare, poi, in dieci anni l'ha imparata lunga: ha indossato una palandrana filosofica, si è catafratto contro le avversità e i giuochi del caso; resiste, combatte e vince. La signorina Emma ignora anch'essa l'amore del signor Cesare; è una donnina dal caratterino bizzarro, questa signorina Emma. Ha ventisei anni (l'autore nota scrupolosamente l'età dei personaggi), e da nove anni abita in una bicocca rurale col vecchio e cadente padre e la non piú giovane sorella; è stanca di questa muffa, vuol vivere, vuole espandersi, vuole audacemente conquistarsi la felicità e la luce. Si ribella clamorosamente al genitore, non si commuove per le sue tremule ginocchia e la sua canizie (questo padre è stato un poco di buono, nove anni prima, e l'inesorabile figlia glielo ricorda fremente): se ne andrà col Bini, pur di evadere dalla cella domestica, pur di sentirsi libera, indipendente, se stessa. Cesare Biliotti veglia e opera: ingelosisce Mario Bini, facendogli credere che sua moglie vuol divorziare per sposare il suo primo pretendente e convince la signora Bini a intervenire nell'avventura. Terzo atto. Torino. Una sala di casa Bini. La signorina Emma invece di Mario, trova la signora Maria. Serrato duello tra le due donne. Entrano in scena i due pargoletti. Emma è disfatta. Il marito e la moglie si riconciliano. Il signor Cesare si porta via Emma verso il municipio e la felicità. Gli spettatori, che hanno con molto compiacimento seguito lo sviluppo dell'intrigo e hanno gustato con pacata soddisfazione le centinaia di massime, di paragoni, allegorie e apologhi con cui l'autore lo ha snellito e illeggiadrito, dopo aver applaudito i primi due atti, applaudono anche il terzo godendo di tanta felicità e tanta armonia di cuori e di sentimenti.

(13 maggio 1919).

«La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella. L'amore del titolo ha tradito l'autore; lo ha condotto ad aggiungere alla azione del suo dramma due lunghe scene finali che ne guastano l'armonia, e non hanno alcun fine artistico. Troppo piccola cosa, l'immagine della vena d'oro, per tanto sacrifizio. L'autore era riuscito, in limiti soddisfacenti, a contenere la letteratura: non è riuscito a vincersi sempre, ed è un peccato.

L'azione del dramma culmina nel sacrifizio che un figlio fa di tutta la sua piú intima coscienza per sua madre. I greci non amavano descrivere lo stato d'animo inerente ai dolori che toccano i cardini stessi dell'essere uomini; e neppure Dante. In un quadro di Pompei, Medea assiste all'uccisione dei figli, ma il suo volto è ricoperto da un drappo: il pittore non osò effigiarne la maschera atroce. Cavalcante ricade nell'arca appena gli pare di aver compreso che suo figlio è morto, senza parole, senza gesti, per Dante. Il lettore, l'osservatore possono immaginare, o forse solo sentire un tonfo, un brivido, che li immedesima col dramma: non di piú, forse. Lo Zorzi non è certo riuscito a ottenere di piú, non è riuscito neppure a determinare quel tonfo, quel brivido. È voluto uscire dai limiti, non ha creato nulla: disillusione.

Una donna (una madre), abbandonata dal marito dopo pochi mesi di convivenza fredda ed esteriore, per vent'anni si salva nell'affetto del figlio. È la matrona, la Giulia romana, che fila e alleva la prole in castità. La passione, Afrodite, dorme in lei, non la scuote, non la tormenta. Conosce il poeta Manfredi (il pericolo del poeta in iscena è stato superato dallo Zorzi con misura e garbo), si innamora, con innocenza, con candore. Il figlio interviene brutalmente, selvaticamente, in una scena che è la piú bella e la piú efficace del dramma. Il poeta parte. La contessa Usberti langue, si consuma. Un uomo di scienza, il dottor Albani, trova la parola «umana»; il figlio deve permettere alla madre di amare, contro tutte le leggi, contro tutte le morali, contro tutte le vergogne. È un uomo di scienza che parla: la tesi ne diventa «umana», perde ogni sapore di facile e dilettantesca audacia verbale. E il figlio acconsente e richiama il Manfredi. L'autore non ha saputo fermarsi.

(14 maggio 1919).

«L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano. L'ultimo nemico è un ingegnere tedesco che ritorna in Italia dopo la pace e viene strozzato da un reduce. Commedia del cannibalismo nazionalista. Con tutta l'enfasi e la rozza crudeltà retorica del cannibalismo nazionalista. Greve, tediosa, «prussiana», come ogni cattiva azione nazionalista. Antinazionale, come ogni prodotto della barbarica concezione nazionalista. È come un avviso ai tedeschi: non ritornate in Italia, o gli italiani vi strozzeranno. Gli italiani avrebbero bisogno di voi, perché voi siete laboriosi e tenaci, siete pazienti e mantenete gli impegni. Gli italiani avrebbero bisogno di voi, perché devono moltiplicare i loro impianti industriali e mancano di personale tecnico; i capitalisti italiani vi riaccetterebbero, perché gli affari sono gli affari e non sentimentalismo: ma badate, v'è in Italia chi vi strozzerebbe, perché pensa che l'Italia «debba» far da sé, anche se non può, anche se la sua classe dirigente è costituita di individui che pensano a riacquistare il tempo perduto per la gioia e il sollazzo invece di lavorare, che pensano a dare incremento alla galanteria invece che alla industria e agli studi. Molti spettatori dei palchi e delle poltrone devono essere stati seccati di questa commedia, che denota il sussistere d'uno stato d'animo che turba i traffici. Per noi essa è una cattiva azione nell'ordine artistico, e una evasione dalla sfera dell'umanità nell'ordine morale.

(20 maggio 1919).

«Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella. In un pomeriggio romano afoso di temporale, la signora Elena Demei, consorte del signor Giorgio Demei, rivela alla baronessa Lanfranchi di aver conservato, sulle sue bianche spalle, il sigillo di un bacio impressovi due anni avanti, a San Sebastiano, dalle ardenti labbra di un tenebroso e fatidico andaluso.

Ella è presa, è schiava: avrà un convegno col bel cavaliere che deve rivelarle l'amore. E la moglie inganna astutamente il consorte, e la madre non si intenerisce alle lacrime inconsapevoli dell'innocente figliolina, che ha dieci anni e legge Peter Pan e sta per imparare la regola del tre e svolge componimenti su presaghe e galeotte frasi di Napoleone (che scuole! assegnare alle innocenti bambine temi che corrompono le genitrici), e va in una camera d'albergo. Ahimè, quale delusione. Il bel tenebroso è uno zingaro, un avventuriero, un truffatore, un baro d'amore. La signora fugge, lasciando il suo mantello d'ermellino, come Giuseppe la sua tunica, e il giorno dopo tradisce il marito col medico di casa. La commedia di Amalia Guglielminetti: Un baro d'amore, essenzialmente si regge su due mantelli d'ermellino, una sera di burrasca e una lunga telefonata dietro le quinte: le spagnolerie, le andaluserie, le siviglierie, le lunghe psico-pato-senso-femminilerie sono il bianco mangiare in cui affoga il moscerino stremenzito e volato dalla non fantasia drammatica della Guglielminetti. Il pubblico ha pazientemente ascoltato i primi due atti; al terzo si è scosso dal torpore e ha protestato indelicatamente.

(28 maggio 1919).

«Nino er boja» di Monaldi allo Scribe. Ladri, assassini, prostitute, ruffiani, scatti di coltelli a molla, lividi lampeggiamenti di acciari, urla, sfide, streghe, fatture, donne sfregiate da una parte, tenerezze, senso morboso dell'onore, spirito cavalleresco, coraggio dall'altra. In questo quadro si rileva un personaggio che sintetizza tutto il bene e tutto il male dell'ambiente: il capo della onorata società che entrando in scena fa scattare il ferro e zic, sfregia l'amante traditora. L'azione si complica: nell'ordine delle bassezze c'è una vecchia che se la intende col marito della figliuola, il quale marito è il Giuda pallido e repugnante di questa caverna da mille e una notte; nell'ordine degli eroismi c'è la magnanimità del capo che non uccide il Giuda per le supplicazioni di una sua amante (la quale è la moglie del Giuda, ma ha avuto un figliuolo dal capo, anzi il Giuda l'ha sposata per coprire il fallo e il figliuolo). L'azione culmina nella esecuzione che il capo fa del traditore. E qui è capitato un fatto che rende interessante questo pasticcetto romantico e trucolento (Nino er boja) e le recite del Monaldi. Quando Nino, il capo della paranza, afferra per i capelli, con gesto ampio e magnifico di grandezza, Pietro il traditore e gli taglia la gola, dal pubblico del teatro si sprigiona un sospiro di soddisfazione e da una cinquantina di bocche strette sibila l'approvazione: ben fatto. Sí, il pubblico (un teatrone e scelto, come dicono i cronisti) è rimasto incatenato allo svolgersi dei momenti drammatici della rappresentazione, ha palpitato, ha rabbrividito, si è commosso, e non solo per la virtú degli attori, ma per i fatti in sé, che lo interessavano come lo interessano tuttora i librucciacci sui banditi celebri, sugli sventratori di donne, su Guerin Meschino e i reali di Francia. Con questa differenza: che i lettori di questi libri sono lettori clandestini e in pubblico fanno il chi la sa lunga in letteratura e in buon gusto; in teatro, collettivamente, non nascondono la loro predilezione. È un problema di costume di non trascurabile importanza: a Torino, c'è la possibilità che un teatro zeppo langua e rabbrividisca vedendo e udendo sulla scena ladri, assassini, ruffiani, prostitute, coltelli, sangue, e tutto l'armamento romantico e trucolento del cliché della mala vita.

(2 giugno 1919).

«La nostra immagine» di Bataille al Carignano. Nel recente poema del Bataille, La divine tragédie, è riprodotta l'immagine di un uomo le cui carni in disfacimento cadono, scoprendo la nuda aridezza dello scheletro; ma il braccio ha strappato il cuore dal petto, e lo tende verso l'alto, per salvarlo dalla putredine con un gesto disperatamente eroico.

Il mondo interiore del Bataille è simbolizzato in quella immagine, e anche l'espressione nella quale il Bataille concreta il suo mondo interiore. Una tensione esasperata, uno sforzo spasmodico di raggiungere le cime, che spesso, troppo spesso, si concreta in forme manierate e dolciastre, illanguidisce in compromessi banali e accomodanti. Nei due atti di La nostra immagine, il dissidio si presenta piú vistoso e urtante perché cozza nei due atti, tra un dramma e una farsa. Vediamo prima contrapporsi una madre e una figlia che furiosamente difendono ognuna la propria vita, la propria libertà. Enrichetta, con fredda crudeltà, domanda a sua madre, ancor giovane, ancora ammirata, di sposare un vecchio idiota per espiare il passato di avventure, per mettere in regola le sue carte di stato civile, per darle un nome e permetterle di entrare nel mondo «ufficiale», per permetterle di realizzare la felicità. Tra questa giovinetta, che ragiona freddamente e si dispera, che è crudele e tenera, spietata e commossa, e la donna che è posta dinanzi al compimento di un dovere che deve attuarsi in una cerimonia ridicola ferocemente, l'urto fa sprizzare scintille luminosamente vive di drammaticità. Ma il componimento avviene per un processo in cui tutta l'energia creatrice si è oscurata e ammorbidita: l'esperienza per cui Onorina si umilia e accetta di compiere l'espiazione è un tessuto di mere parole flosce e povere, di scene vuote ed esteriori, disperatamente uggiose e sconfortanti: e il pubblico ha sanzionato giustamente.

Questa sera la commedia si replica.

(13 giugno 1919).

«Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella. Questo lavoro di Bernard Shaw è stato giudicato in Italia dagli echi diluiti della polemica che esso ha suscitato in Inghilterra. È un lavoro semplice e piano, condotto su motivi di umanità semplice e piana (umanità che si incarna in Giulio Cesare e in Cleopatra, semplice e piana, quindi, come può essere nella rappresentazione che dei due può esprimere uno che vuole rispettare i valori fissati dalla storia: e lo Shaw ha voluto rispettare questi valori); si è cercato e si cercherà in esso il paradosso, l'acrobatismo, l'«originalità». Gli italiani non hanno la percezione dello spirito: Shaw è originale perché ha rispettato la buona e normale umanità. Il suo lavoro è una ribellione, una stranezza, un paradosso per gli inglesi. Shaw ha scritto di Giulio Cesare dopo Shakespeare, ha cercato di imporre, con insolente prepotenza, alla fantasia degli inglesi, una immagine di Cesare che non è quella creata da Shakespeare. Lo scandalo può essere paragonato a quello sorto in Italia, in qualche gruppo di esteti fiorentini, quando il Cesareo pubblicò la sua Francesca da Rimini: esiste una sola Francesca, fu scritto, ed è quella di Dante; ogni altra rappresentazione di Francesca è una insolente caricatura. Per gli inglesi, Shakespeare è piú di quanto Dante sia per gli italiani; gli inglesi hanno tutti «riletto» Shakespeare, pochi italiani hanno studiato a scuola i commenti della Divina commedia. Cosí è che da noi il lavoro dello Shaw non sarà presentato al pubblico nella sua vera luce: la rappresentazione efficacissima e drammaticissima di un grande uomo, di un grande uomo di Stato, di un grande generale, Giulio Cesare, visto proprio umanamente, senza sublimazioni tragiche, ma ugualmente grande in ogni sua attività, come fu veramente, come è stato presentato dagli storici antichi, come si rivela dai suoi candidi libri di ricordi che sono tra i capolavori della letteratura romana per il candore e la schiettezza semplice.

Domandare altro allo Shaw, far credere che altro lo Shaw abbia voluto dare, pretendere che sia necessario star lí ad ascoltare con tutto l'arco dell'intelligenza teso per colpire al volo paradossi e originalità se si vuole non apparire cretini, sarebbe stolto e inintelligente.

Cesare e Cleopatra è un bellissimo lavoro anche senza che gli si imprestino arzigogoli ermetici per le persone comuni: un bellissimo lavoro, presentato in forma magnifica dalla compagnia di Emma Gramatica, in tutte le sue parti, degno di essere veduto e riveduto.

(14 giugno 1919).

«Il silenzio» di Pescetti al Carignano. Il dramma si svolge con un protagonista silenzioso: la casa. Dramma sentimentale, di piccole lacerazioni sentimentali, che si esaurisce nel mero dialogo e nelle contrazioni dei muscoli facciali: un motivo tenue, senza conseguenze gravi, che l'autore, giovanissimo, ha il merito grandissimo di aver espresso sobriamente, senza amplificazioni enfatiche e letterarie. Giovanni Bereni vive una sola vita con la sua casa, coi ricordi, con le immagini del passato che perennemente nascono e popolano, viventi creature, il silenzio discreto delle stanze. Giovanni Bereni è il passato, è la contemplazione, è l'inerzia che sogna; la vita pullula intorno e dentro la casa, prorompe vittoriosa, frange e lacera, spalanca le finestre e fa scappare esterrefatti i fantasmi. Una figliuola cresce accanto al Bereni, ama, tende alla vita attiva, si sposa e parte. Ha svuotato la casa, ne ha rotto l'incanto, l'ha spopolata dei suoi abitatori per farsi posto e la lascia cosí, ridotta una tomba, definitivamente. L'azione drammatica è tutta in questa tenuità, interrotta da quadretti brevi, di vita provinciale, ed è condotta con candore, con dizione semplice e quasi scialba. È lavoro di un giovane, perciò è notevole tanta sobria misura e assenza di esaltazione letteraria. Rappresentata con cura dei particolari da Luigi Carini e dai suoi collaboratori, ha ottenuto un successo che non è solo d'incoraggiamento.

(19 giugno 1919).

«Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella. L'interno di una casupola da pastore, ai piedi di una collina irlandese, in una sera di uragano. Un vagabondo bussa e domanda ristoro. Una giovane donna accigliata lo invita a entrare. In casa c'è un morto, il vecchio marito. La compagnia del cadavere non turba la donna che la distanza e la tempesta separano dai viventi. Una cosa la turba: sarà sola anche domani e dopodomani e ci son le pecore da condurre, e in casa non c'è torba, ed ella non può uscire perché bisogna vegliare il cadavere. Il vagabondo veglierà, ella esce. Il vecchio si scuote, fingeva d'esser morto; è un vecchio pastore bizzarro, roso da un'ira cupa e sordida verso la moglie. Si fa dare da bere, si fa consegnare un randello e si distende nuovamente sotto il sudario, gorgogliando acquavite e maledizioni. Nara rientra, con un giovane pastore: parla, della sua vita sacrificata, dei suoi aneliti bramosi alla libertà, alla maternità, accanto al marito, un rozzo tronco di umanità feroce e bisbetica. Il giovane fa l'inventario dell'eredità: le offre di sposarla. Il cadavere si risolleva spettrito, squassato dalla tosse, minaccioso col randello. Scaccia la moglie, furioso, mentre ella sta impassibile, fredda dinanzi a quella frenesia senile che si consuma maledicendo, vogliosa di nuocere, di vedere la nemica ridotta all'abiezione della fame e del vagabondaggio, per quindi uscire, in compagnia del vagabondo che le parla con dolcezza virile e le offre il suo sostegno per una nuova vita, fuori dalla valle, dalla nebbia, dal trito inseguirsi dei giorni, delle settimane, dei mesi, delle stagioni. E il vecchio, dopo aver impaurito il giovanotto, siede insieme a costui e beve, sghignazzando trucemente.

Un seguirsi di rappresentazioni rapide, secche, incisive che si giustificano in se stesse, nel rilievo dei singoli quadretti.

(29 giugno 1919).

Emma Gramatica. Il teatro, come organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza sterilire l'organo «linguistico» della rappresentazione teatrale.

L'industrialismo ha determinato le sue necessarie conseguenze. La compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti che intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente dal lavoro in comune – lavoro di natura particolare, perché tendente a fini di creazione artistica – sono successi i «vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i vincoli della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza hanno rapidamente condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il comico è diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni di lavoro, col «maestro», divenuto mediatore e coll'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione sordida, essa non ha conosciuto piú confini. Il carattere stesso peculiare del lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo. Primeggiare nel guadagno va di pari passo col primeggiare nella compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella libertà di scegliere per sé le parti a successo e spiccare, monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni. La tecnica teatrale ne è stata scombussolata, la produzione si è adattata «facilmente» alle condizioni nuove; facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in un piano infimo, di compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro. Si parla di depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di dissoluzione artistica. L'origine di questi fenomeni vistosi è da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti economici tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato in un trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla schiavitú del salario.

Poche resistenze si verificarono a questo imperversare della concorrenza e della speculazione. Resistere d'altronde è difficile. Qualcuno cercò di salvare almeno una parte della libertà d'espressione artistica di fra le urla e gli stridi avidi del mercato capitalistico. Emma Gramatica è certamente di questi pochi: segno della sua personalità e della sua volontà artistica. Ribellarsi sarebbe stato pazzo e puerile: è finito il tempo delle avventure romantiche e delle audacie donchisciottesche. Del resto queste sono possibili alle iniziative individuali, non alle imprese che domandano un complesso di individui. Ribellarsi avrebbe solo significato essere immediatamente privati delle possibilità maggiori di espressione. Ma c'è adattamento e adattamento. La Gramatica ha conservato una sua libertà di movimento e di scelta: c'è una ricerca continua, una lotta continua nella sua attività: c'è vita. Può conoscere zone inesplorate, può allargare la sfera della sua sensibilità e delle sue esperienze: non cade nella routine, non è diventata una mera impiegata, che ha applicato il metodo Taylor all'espressione plastica della vita, che ha ridotto a meccanismo – complicato, esperto, di 20.000 pezzi mobili, ma meccanismo – ciò che è in quanto imprevedibile e incoercibile: l'espressione.

A Torino, almeno, dove l'industrialismo teatrale opera implacabile come un flagello, la Gramatica è la sola che in questi ultimi anni ha «prodotto» novità, ha suscitato dall'interiore sua vita creature nuove, che vibrano d'amore e di odio o svolgono la quotidiana fatica del vivere in forme non logorate e rese opache dall'abitudine e dallo schema del mestiere, che è regolato dalla legge del minimo sforzo. Ha tentato, ha osato, dicono che abbia anche arrischiato dei capitali senza certezza di rivalsa, per imporre fantasmi artistici che altrimenti non avrebbero mai passeggiato sulle scene italiane. Vive dunque in lei e opera incessantemente, condizionando anche l'attività pratica, il principio della creazione irresistibile e prepotente che foggia una personalità e plasma un carattere secondo le leggi sue proprie: le leggi della bellezza.

(1° luglio 1919).

«Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo. Questa sera il nostro Teatro del Popolo darà la prima rappresentazione di Una donna moderna, commedia in tre atti di Nino Berrini. Il lavoro non è nuovissimo, perché venne rappresentato per la prima volta nel 1912 al Teatro Carignano dalla compagnia di Tina Di Lorenzo. Allora, appena alzato il sipario, prima che l'azione si iniziasse e cominciassero i dialoghi di preparazione, un sussurro di delusione correva fra gli spettatori eleganti e impomatati dell'aristocratico teatro. Quel pubblico, abituato a vedere in iscena la bellissima attrice in vesti sfarzose, contornata da rigidi gentiluomini in marsina, aveva provato e subito manifestato il suo stupore nel vedere la prima attrice in un semplice e umile vestitino di dattilografa, impiegata in un ufficio di avvocato. La commedia infatti svolge le vicende di una signorina che, nata in una ricca famiglia borghese, in seguito a disgrazie familiari è ricondotta alla legge comune del lavoro. Energica e volenterosa, ella si mette nella nuova via acquistando a poco a poco, insieme con l'indipendenza economica, anche una indipendenza morale e sentimentale, trovandosi perciò in contrasto con le tradizioni e con le persone della sua famiglia, rappresentate da un fratello ufficiale e allievo della scuola di guerra a Torino.

La commedia dunque, sia per l'ambiente, sia per le idee cui si ispira, trovò nel pubblico borghese delle resistenze che però vennero vinte dall'azione serrata e dalle verità anche se poco gradite, scaraventate dall'autore senza esitazioni; e conseguí un buon successo con un buon numero di repliche.

La rappresentazione di questa sera pel nostro pubblico ha perciò valore di una prima rappresentazione. L'autore curò personalmente le prove e attende l'esito al Teatro del Popolo come una vera e piú schietta riprova del valore d'arte e di vita dell'opera sua.

(5 luglio 1919).

«Addio sogno» di Motta al Carignano. Luigi Motta è un copioso scrittore di romanzi d'avventure nei quali abbondano i sultani, i pirati, i diamanti, gli scotennatori piú che il buon senso e il buon gusto. L'anno scorso ha incominciato a uscire dal suo dominio, commercialmente cosí fruttuoso, e ha scritto un libretto per operetta. Con questa sua commedia, Addio sogno, il Motta ha voluto tentare le grandi vie. Non contento di aver istupidito tanti innocenti bambini, vorrebbe continuare la sua opera anche con gli adulti. Nei tre atti non è possibile trovare neppure una immagine, neppure un gesto che riveli una sensibilità artistica: si tratta di un mucchietto di scempiaggini, che sono anche mediocri nella loro scempiaggine. Il pubblico scarso ha riso gustosamente dove l'autore si proponeva di far piangere a calde lagrime, e il tentativo del Motta è stato cosí allegramente seppellito.

(10 settembre 1919).

«Il soldato millantatore» («Miles gloriosus») di Plauto al Carignano. Il soldato Pirgopolinice, mentre il giovane Pleusicle è lontano da Atene, perché conduce un'ambasceria a Naupatto, rapisce la meretrice Filocomasia e se la conduce per forza a Efeso. Palestrione, schiavo di Pleusicle, si imbarca per andare ad avvertire il padrone, ma è catturato dai pirati e regalato a Pirgopolinice. Pleusicle viene da lui chiamato a Efeso e diventa ospite di Periplettomene, vicino di casa di Pirgopolinice. Tra le due case viene praticato un passaggio segreto, attraverso il quale Filocomasia vola tra le braccia del suo fedele e perseverante amico Pleusicle. Sceledro, altro schiavo del soldato, mentre insegue una scimmia sui tetti, li sorprende abbracciati; Palestrione e Periplettomene lo convincono che è arrivata a Efeso la madre e una sorella di Filocomasia, e che la donna che egli ha visto abbracciata da un giovane è appunto questa sorella, che rassomiglia a Filocomasia come due gocce d'acqua. Per risolvere la situazione, Palestrione inventa l'intrigo che dovrà liberare lui e i due amanti dalle grinfie di Pirgopolinice e dovrà condurre il soldato a una solennissima beffa e a una solennissima bastonatura. Pirgopolinice, oltre a credersi un secondo Achille (il suo nome significa l'«espugnatore di città») si crede anche un nipote di Venere, un irresistibile conquistatore di donne: Palestrione gli fa credere che la moglie di Periplettomene è innamorata follemente della sua bellezza e della sua virtú, che per lui ha divorziato dal marito e che vuole sposarlo e recargli in dote la casa. Una meretrice di Efeso, Acrotelenzia, viene assunta per far la parte di moglie divorziata e innamorata. Pirgopolinice cade nella rete; rimanda in Atene Filocomasia con l'amante, che si è travestito da marinaio e libera Palestrione, che parte anch'egli con la piccola meretrice ateniese. Ma quando Pirgopolinice, baldanzosamente entra in casa di Periplettomene, viene preso e legato dagli schiavi di costui e sottoposto alla umiliante e indescrivibile punizione degli adulteri colti in flagrante.

La commedia ha avuto un vivo successo nell'adattamento di G. Sinimberghi. Occorre dire subito che il successo è dovuto alla buffoneria intrinseca nell'intrigo e nel carattere tipizzato dei protagonisti e alle virtú comiche degli artisti della compagnia «Eclettica». Di Plauto, in questo adattamento, rimane nulla. Perché di Plauto, nella commedia latina, era il linguaggio, l'espressione particolare del dialogo, la ricchezza del vocabolario popolaresco: tutto ciò che nell'adattamento è precisamente svanito. Il dialogo, come espressione del particolare, come varietà individuale, è pessimo in questo adattamento. La scoloritura incomincia nella traduzione del titolo: gloriosus (millantatore, spaccone) viene reso con «vanaglorioso». Si può immaginare la truculenza iperbolica di Pirgopolinice rappresentata come una «vanagloria» da studentello? Si può immaginare un tipo da commedia, che ha generato Falstaff e il capitan Fracassa e l'Ammazzasette (Pirgopolinice ne ammazza settemila in un giorno) qualificato come un «vanaglorioso»? La commedia è tutta «ridotta» in tal modo.

(11 novembre 1919).

«Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri. In questo «tentativo scenico» (la definizione è dell'autore o è stata autorizzata dall'autore) il Cavacchioli si è «proposto» di arrovesciare il processo di intuizione e di espressione artistica. L'artista intuisce, vede, vive la sua concezione, la unifica, la concreta, nel suo interiore travaglio, e la esprime, le dà una forma linguistica, cioè la conduce alla sua perfezione (quando è perfezione) assoluta, alla sua universalità. Dal generale, dall'indistinto, l'artista giunge all'universale, al distinto individuato, al lirismo. Il Cavacchioli si è «proposto»... cioè ha incominciato col negare in sé l'artista, il fabbro di forme espressive, e ha lavorato con la volontà dello scrittore inchiodato al tavolino professionale. Egli ha fissato l'«esistenza» di una serie di stati d'animo tradizionali nelle belle arti e nella psicologia; cioè è partito – non dal tumulto interiore della fantasia che cerca attraverso una sua intima dialettica, di comporsi, di organarsi, di esprimersi, di giungere alla sua maturità lirica – ma da una astrazione, da un mondo meramente cartaceo, libresco, dove le parole sono cifre, dove i sentimenti non sono, come sono nella vita individuale degli uomini, imprevedibili nel loro svolgimento, nel loro divenire motivo d'azione e di passione, ma sono freddi pezzi anatomici da gabinetto di psicologia letteraria; e ha «tentato» di «materializzarli», di fasciarli in uomini che: – si chiamano Leonardo, hanno quarant'anni, sono calvi baffuti e di grossa pancia quando rappresentano il senso statico, fanfarone, pauroso della vita – si chiamano Gabriele, sono lunghi, allampanati, spettrali, lamentosi quando rappresentano l'ideale sempre calpestato – si chiamano Gabriella quando sono giovani donne, hanno i capelli verdi, sono volubili, carnali, rancide di sentimento e trovano solo nel sentimento la loro umanità – e non si chiamano con un nome, ma con la designazione professionale «il meccanico», quando sono il praticismo inesorabile macchinale dell'esistenza, hanno due ruote al posto degli occhi e sembrano tutto un congegno di leve e di ingranaggi.

Il Cavacchioli non ha raggiunto nessuno dei fini che si era «proposto» perché essi potrebbero essere raggiunti, tutt'al piú, con una conferenza da università popolare arricchita di molte proiezioni. Ha raggiunto una costruzione, degna del «meccanico» che ha due ruote al posto degli occhi e sembra ecc. ecc. L'intrigo dell'azione ha, contro la sua volontà, continuato a essere il tradizionale intrigo, e, come succede per il novantanove per cento degli intrighi, ha guidato l'attenzione degli spettatori attraverso un rosario di scene «ogni figura un fatto», piuttosto che fino al fuoco di una visione drammatica. L'intrigo comune postbellico della moglie che tradisce il marito al fronte dopo averlo, con le sue perfidie di sposa, ahimè!, infedele, spinto a partire volontario, e si pente e si converte alla vita casta e pura quando il marito ritorna cieco, non è stato per nulla «originalizzato» dalle luci diverse, dagli scenari fantastici, dall'essere il «drudo» un avventuriero illusionista, e dai fantocci parlanti, dagli spettri ecc. ecc. Il Cavacchioli è stato un militante della retroguardia marinettiana; in lui il futurismo appare nella sua forma letteraria essenziale, come un travestimento, nell'epoca delle macchine e della grande industria moderna, del romanticismo trucolento e grandiosamente cretino del 1848.

Il «tentativo» ha, tuttavia, fortemente interessato il pubblico. Una lotta si è impegnata tra ammiratori e «denigratori»; fischi, applausi, gente in piedi che si sporge e si tende, fuori dai parapetti e dalle file, per approvare o disapprovare. Risultato: sopravvento degli applausi, una quindicina di chiamate al Cavacchioli e agli interpreti (Tina Di Lorenzo, Luigi Cimara, Ruggero Lupi, Armando Falconi, D. M. Migliari) che avevano spesso ricondotto a umanità viva e individuale gli «stati d'animo» della commedia, contravvenendo ai «propositi» del Cavacchioli.

(27 novembre 1919).

«La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella. Gli operai russi non avevano ancora dato tutto il potere ai soviet. La Russia non era ancora diventata, nella fantasia dei portinai, dei pizzicagnoli e dei farmacisti, l'apocalittico paese di Gog e Magog, dove Satana arruola le sue milizie per mettere il mondo a sacco prima del giudizio universale. Jasnaia Polijana non era ancora stata violata dalla rozzezza e dalla insensibilità dei contadini bolscevichi. Ma da un pezzo gli speculatori occidentali dell'intelligenza avevano già messo a sacco e violato le opere di Tolstoj, senza che nessun giornalista, depositario della fiaccola di Prometeo, ululasse lamentosamente e invocasse tutte le forze sane del mondo contro i sacrileghi e i barbari. Cosí è avvenuto che gli italiani non possono conoscere, dalle edizioni italiane, l'opera che Tolstoj ha intitolato: La sonata a Kreutzer. L'editore italiano ha giudicato che Tolstoj non conoscesse l'arte sua e ha fatto aggiungere alla traduzione francese già modificata sulla traduzione tedesca del testo russo, qualche decina di pagine di impressioni e di descrizioni che rimpolpassero la scarsità verbale di Tolstoj. A questa contraffazione, attraverso la quale la massa degli ammiratori italiani di Tolstoj hanno conosciuto La sonata a Kreutzer, si è aggiunta la traduzione di quest'altra contraffazione del Fleischmann: il «borghesismo» italiano non è tenero col grande scrittore russo. Questi tre atti non hanno niente che li distingua da una pessima contraffazione. La Sonata a Kreutzer è un violento pamphlet, che risulta artisticamente piú efficace dalla commistione del dialogo alla dimostrazione logica fino all'assurdo; non è un dramma di individui particolari, che possano essere immaginati viventi singolarmente. La riduzione scenica non può che risultare una raffazzonatura, se il dramma, che è interiore alla coscienza morale del Tolstoj, viene profilato come urto fra uomini e donne realmente vivi, muoventisi e speranti in un mondo corporeo. E cosí è stato, con un peggiorativo per l'interpretazione artificiosa e superficiale del Tempesti. Una serata da registrare nel catalogo del perverso destino italiano di Tolstoj.

(20 dicembre 1919).

«Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella. Una nota del traduttore, stampata nel programma della serata, avverte:

«Il dramma è dominato da una concezione "claustrale" della vita, che cozza e urta contro un'opposta concezione "umana" della vita stessa. Ma sopra il dramma determinato dall'urto di codeste due opposte concezioni sta, apparentemente, il dramma che si opera in una coscienza, in quella cioè del protagonista principale, di "frate Baldassare".

«Dico apparentemente, perché, a chi ben guarda, non può sfuggire che il dramma di frate Baldassare è, nel suo fondo, generato dall'urto in se stesso di codeste due medesime concezioni della vita: la concezione "claustrale" e quella "umana". Affermare, perciò, la personalità del protagonista, equivale a comprendere lucidamente tutto il significato del dramma».

La personalità del protagonista di questo come di ogni altro lavoro di teatro, può essere afferrata e ricostruita dall'interpretazione dell'attore che lo impersona. Dall'«interpretazione» dell'attore Tempesti non appare che il protagonista abbia una personalità e tanto meno appare che essa sia una personalità «dialettica», vivente e svolgentesi per il cozzo di due concezioni della vita; appare solo la «maniera» di recitare, propria del Tempesti, formatasi nella ripetizione a getto continuo dei lavori teatrali di Sem Benelli. Qualche cosa appare tuttavia chiaramente: il distacco tra l'attore e le parole che l'attore recita, il distacco tra il significato delle parole, tra la vita interiore che le parole esprimono e i gesti, i moti, le contorsioni, le smorfie dell'attore. Appare chiaramente che il protagonista viene dinanzi al pubblico ricoperto da una maschera: la maschera dei protagonisti dalla gola canora e dall'anima di legno dei lavori di Sem Benelli. E cosí viene presentato al pubblico italiano un dramma di Verhaeren...

(24 dicembre 1919).

«La principessa» di Géraldy al Carignano. Susanna, principessa, ama Giorgio Enrico, re. Giorgio Enrico, re, ama Susanna, principessa. Susanna è, dinanzi al mondo, alla corte e nello stato civile, la sorella di Giorgio Enrico. Ma Giorgio Enrico non è fratello di Susanna che nello stato civile; egli è un intruso nel regno e nella dinastia, egli è il frutto di un adulterio della prima moglie del padre di Susanna, e solo per evitare uno scandalo clamoroso e per non insozzare la memoria di una regina, gli è stato trasmesso il potere. Giorgio Enrico potrebbe dunque amare Susanna e Susanna amare Giorgio Enrico: invece Susanna sposa un principe di... Imbritch.

Tutto questo intreccio è sviluppato nella sua esteriorità superficiale. Il conflitto è presentato nelle fasi salienti di bizze, dispetti, sgarberie, rivelazioni esterne. Il dramma è incorniciato nel cerimoniale e nella ragione di Stato, è ridotto a un episodio borghese o piccolo borghese: sí, insomma, è doloroso che un amore legittimo, dinanzi all'innocenza dei fiori e degli astri, debba sacrificarsi alla ragione di Stato, ma questo sacrificio può costare una lacrimuccia, può determinare anche uno strappo abbastanza fiero alle abitudini della vita quotidiana, non far però affiorare dall'intima umanità nessun grido di poesia, non produce nessuna lacerazione vitale. Lo Géraldy immagina i re moderni molto diversi dagli eroi della classicità; essi sono indispensabili nell'intreccio per giustificare l'intreccio stesso, per giustificare i motivi del dramma; ma i motivi, che hanno domandato come attori del conflitto persone regali, sono rimasti inerti nella fantasia, sono rimasti alla fase dell'invenzione; le persone regali non sentono il dramma piú che non lo sentano due coniugi droghieri, improsciuttiti nell'esercizio della professione, resi teneri e patetici di temperamento dallo spettacolo permanente delle provviste di magazzino, che, per distrarsi, leggano una traduzione popolare di Sofocle. Lo Géraldy ha solo lavorato con cura e attenzione letteraria la forma esterna scenica, in modo da presentare al pubblico una cosina ben gentile e garbata, che ha avuto un buon successo di applausi anche e specialmente per la recitazione accurata e viva del Carini, della Gentilli e della Sanmarco.

(3 gennaio 1920).

«La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano. Dov'è la nostra ricchezza? È nell'attività industriale o nell'agricoltura, nelle speculazioni di borsa o nella coltivazione dei campi, nelle città o nella campagna?

Siamo nel dopo guerra: il problema è, come usa dire, di attualità, non v'è studente che abbia masticato un po' di scienza economica e politica il quale non si senta in grado di farvi un discorso, con gli ingredienti di uso (le virtú e i vizi di oggi e di una volta, l'urbanesimo, il decentramento regionale, se occorre) la sua brava dissertazione. Salvator Gotta invece ha scritto una commedia; gli ingredienti però sono gli stessi, quelli di una dissertazione accademica di seconda mano. E quanto all'arte? Vediamo.

Tre uomini: un nonno, un padre, un figlio. Il figlio è stato in guerra, volontario, e la guerra lo ha fatto diventare, cosí dice l'autore, socialista. Il padre è un industriale che si è arricchito con le forniture governative. Il nonno è un ricco campagnuolo, che ama la sua casa e la sua terra, che è legato dai piú tenaci vincoli d'affetto e di tradizione al suolo ch'egli coltiva, al podere che è per lui la sola, la vera ricchezza. Tra questi tre uomini dovrebbero sorgere il contrasto, la tensione drammatica e l'urto. E apparentemente sorgono. L'industriale specula, perde, vuol salvare la sua posizione e non vede di meglio che vendere la vecchia casa, liquidare il podere, trasformarlo in ciò che per lui è ricchezza, in denaro da lanciare nel giuoco e nel circolo degli affari cittadini. Per il nonno questa è una enormità: si ribella, resiste, poi non si sa come, cede, vende casa e podere e va in esilio. E il figlio che prima, allontanatosi dal padre, sembrava volersi dedicare egli pure alla vita dei campi, si pone recisamente contro tutti e fa l'organizzatore dei contadini.

Il contrasto, come si vede, c'è. Siamo davanti a tre posizioni mentali, a tre tendenze diverse, a tre diverse soluzioni di un problema. Ma niente di piú. L'urto deriva da una antitesi logica, non da una contrapposizione di passioni, di volontà, di sentimenti.

Dalla prima battuta all'ultima non vi è nulla che accenni a umanizzare il problema, a far sí che i protagonisti cessino di essere rappresentanti di una tesi o di una idea, e diventino uomini. Non vi è, dal principio alla fine, uno sviluppo. Accenti di umanità profonda avrebbero potuto essere tratti dalla posizione della donna che è insieme figlia, sposa e madre, e invece questa donna non ha un'anima, è un piccolo fantoccio che si può far ballare con tre fili diversi, è un brandello di carne che oscilla senza una direzione e senza un significato.

Ma nessuno ha un'anima qua dentro, nessuno vive di una vita che non sia quella artificiale, che l'autore crede possa consistere nell'essere per l'industria o per l'agricoltura, per il denaro o per i campi. E nessuno parla realmente un linguaggio umano: declamano tutti, declamano per l'una e per l'altra tesi.

Vero è che gli artisti si sforzano di aggiungere con l'azione loro ciò che ai personaggi l'autore non ha dato, e, bisogna dirlo, ci riescono talora assai bene. E il pubblico applaude. Applaude un po' come ai comizi, non perché la rappresentazione artistica lo conquisti e lo faccia vibrare di un sentimento unico, ma perché condivide l'una o l'altra tesi, perché gli piace o non gli piace sentir svalutare il febbrile lavoro delle città di fronte alle calme e sane fatiche dei campi, gli piace o non gli piace veder piú o meno biasimato il contadino che si inurba o quello che resta legato alla sua terra e all'opera sua, e getta contro alla tempesta l'acqua santa invocando da santa Barbara e da san Simone la salvezza delle terre padronali.

Ma a noi, che non vogliamo che dare un giudizio sul valore dell'opera di arte teatrale, sia permesso di non discutere la tesi.

(10 gennaio 1920).

«La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano. La casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non può essere fondata su meri rapporti sessuali, non può essere fondata sul codice, non può essere fondata sulle idee convenzionali di dovere, non può essere fondata su motivi sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i figli esiste la casa...

La logica di questo principio (condotta fino all'assurdo: i figli anche se di un'altra donna, la maternità anche se... presa a prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona i motivi letterari, i motivi... filosofici di intrigo e di conversazione drammatica e poggia lo svolgimento dell'azione su un motivo primordiale di umanità, la piú profonda e istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto: sono di fronte due donne, che si contendono una bambina, l'una per difendere la sua maternità, non per conservare un amante: l'altra per avere in casa una figlia di suo marito, apparire a suo marito come madre, e con questa illusione di maternità ricostruire o costruire la famiglia, dare all'amore una moralità. Lotta atroce, crudele, perché la madre dovrà rinunziare alla sua bambina per assicurarle un avvenire, il nome del padre, una ricchezza, una casa; dramma rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti, senza scene grandiloquenti, e perciò direttamente rivolto a colpire tutte le abitudini sentimentali del pubblico, che reagisce con irti tutti i pregiudizi piccolo-borghesi. Ma il Pirandello è poi riuscito a esprimere il dramma in tutta la sua pienezza? Si ha l'impressione penosa, nei primi due atti, dello stento, del tormento senza uscita, che si adagia nella direzione, nella prolissa insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è accennato vagamente, non conduce e non indica lo sviluppo dell'azione: il terzo atto appare come una rivelazione troppo cruda, troppo offensiva del... buon gusto e delle buone maniere.

Il dramma non si replica.

(13 gennaio 1920).

«Io prima di te» di Veneziani al Carignano. Si contempla, in questi tre atti, lo svolgersi di un intrigo molto drammatico e pieno di risposte e profondissime significazioni: nel terzo atto compare perfino un personaggio simbolico, l'ignoto che fa da reagente sulle coscienze e determina precipitazioni ricche di sapori nuovi e mai gustati.

L'intrigo è questo: il cav. Giovanni Ranzi vuole sempre essere un personaggio di dramma e giammai di commedia, vuole sempre essere protagonista e giammai comparsa sul palcoscenico della vita, vuole sempre essere «prima di te», di lui, di voi, di loro, di tutti. La moglie del cavaliere è amata da un tanghero imbecille, che finanzia le imprese del cavaliere, ed è amata da un tal altro, che è stato un anno in Cina. Una notte (ahi, notte di misteri e di orrori!) il tanghero imbecille ottiene un convegno (o quasi); mentre attende viene ucciso da uno dei «soliti ignoti» che voleva semplicemente derubarlo. Nel frattempo il tal altro si introduce furtivamente nel salotto della dama (scena rivelatrice di riposti amorosi sensi), viene bloccato dalla polizia che cerca l'assassino e dal marito tornato d'improvviso da una partita di caccia. Il marito fa il protagonista con la polizia, facendo arrestare il tal altro come assassino, e fa il protagonista con la moglie, dicendosi l'assassino del povero giovane vittima di ignoti. La moglie è presa nella morsa; la morsa viene allentata dal «solito ignoto» che si presenta, scopre il trucco alla moglie e sta per costituirsi come assassino legittimo. Allora il cavaliere si decide ad essere ancora una volta protagonista, e irrompe furiosamente per... chissà mai cosa dire dinanzi al giudice istruttore.

Si contempla, nei tre atti, lo spettacolo penoso di un mediocre freddurista che si sforza di sembrare intelligente e originale.

(20 gennaio 1920).

«Chimere» di Chiarelli al Carignano. L'ingegner Claudio Rialto è un uomo d'affari; si crede un forte ed è un debole; crede di riuscire a dominare il mondo, ed è una marionetta in pugno al banchiere Rogai. Marina Rialto, sua moglie, è una donna come ce ne sono poche: ha una coscienza questa donna, ha degli ideali e un piano generale della sua vita di sposa amata e amante.

Alla fine del terzo atto Marina dorme su un sofà, stanca per le soverchie emozioni, suo marito rimpannucciatosi dopo una minaccia clamorosa di fallimento e di gattabuia, dorme tranquillo al capezzale della sposa addormentata: il banchiere Rogai dorme anch'egli sicuro che all'indomani Marina diventerà la sua amante.

L'originalità della commedia consiste in questo: l'ideale, che di solito si infrange e quindi si chiama ideale infranto, nel secondo atto si tira un colpo di rivoltella, non muore, e quindi non può chiamarsi ideale rivoltellato: vive al lumicino, l'infelice ideale, per essersi procurata la tubercolosi galoppante e al terzo atto muore per un colpo d'aria. È la sua morte appunto che provoca la scena finale dei tre assopiti. Il Chiarelli insomma esteriorizza in due fantasmi il Bene e il Male che si combattono ferocemente nell'intimo di ogni ben nata e mal nata coscienza: un poeta è il bene, l'ideale, è la purezza ecc., ecc., che vorrebbe tutta per sé la donna; un fallito vizioso ubriacone cinico chiacchierone è il sogghigno della realtà che, come Satana, tira per le gambe la gente e la spedisce al calderone di pece e zolfo. L'ingegnere Claudio Rialto, un debole che si crede un forte, un uomo che si crede un lottatore ed è puramente un energumeno senza numero per l'eroismo, si rivela nella sua piccolezza alla moglie: fallito, si dispera vanamente, si contorce come un vermiciattolo assalito da uno scorpione: il banchiere Rogai, che lo ha rovinato per ricattare Marina, offre a Marina di salvarlo dietro ricompensa: Marina esita, e l'ideale-poeta si tira un colpo, mortale, ma non immediatamente.

L'ideale, divenuto tisico, si decompone ed è naturale muoia di un colpo d'aria, mentre Rogai bacia Marina: il Cinismo ubriaco e sconcio trionfa e ride silenziosamente.

La commedia ha avuto successo contrastato: una parte del pubblico temeva di essere preso in burletta, un'altra parte trovava nei personaggi simbolici significati profondi, degni di pensiero e di matura riflessione. Ha divertito molto lo spettacolo dell'ubriaco in iscena, che parla chiaro dicendo pane al pane vino al vino: un ubriaco sulla scena fa infatti sempre divertire.

(7 febbraio 1920).

«Pane altrui» di Turghenieff al Balbo. Turghenieff ha rivelato all'occidente la vita della nobiltà provinciale russa, ignorante e presuntuosa, credente in Dio, fedele allo zar, crudele col servo che chiama fratello. Tutta l'opera letteraria di Ivan Turghenieff è animata dalla ripugnanza per questa vita, da lui conosciuta in ogni particolare, da lui vissuta dolorosamente. Pane altrui non è che un bozzetto, una scena. Ma è tutta la tragedia del popolo russo che rivela. È la meschinità ripugnante dell'ambiente posta in rilievo con richiami sentimentali, è la reazione della nobiltà dell'anima al costume volgare della nobiltà russa qual era ancora pochi anni fa, in regime di servitú della gleba e di incontrastato feudalismo.

L'interpretazione di Ermete Zacconi è appassionata, ottima, efficace.

(14 marzo 1920).

«Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri. Amore, dolcezza, virtú, generosità, tenerezza, candore: sono queste le doti che campeggiano nei quattro atti di Sorelle d'amore di Henri Bataille. Ma quale passione vivifica queste qualità, quale vita interiore attiva e operante? Nessuna. Esse rimangono inerti, non hanno una giustificazione, sono nient'altro che la monotona descrizione letteraria dei rapporti esterni, di avvenimenti che si succedono, perché le parole li riferiscono nella loro banalità vuota, d'una vuotaggine iridescente come nelle bolle di sapone. Vediamo muoversi e parlare fisicamente una donna: Federica; un essere tenue ed evanescente che ha marito e una figliuola e ama Giuliano. Per sei mesi, per un anno, per due anni, Giuliano attende che l'amore diventi realtà, si conceda alla passione; Federica ama Giuliano seriamente (l'autore lo afferma in modo perentorio), ma non vuole materializzare l'amore. E per quattro atti è un rincorrersi della materia e dello spirito, della carne e dell'anima, nel quarto atto si intravede anche un letto, un materialissimo e volgarissimo letto, ma Federica se ne va e sul letto lascia una rosa, e lascia un bel discorso che dovrà consolare Giuliano, che dovrà indirizzarlo a pensieri e azioni alte e nobili. Tutto ciò è brutto e anche antispirituale, è falso artisticamente ed è falso moralmente, perché non è vivo, perché una tale virtú esangue e snervata rasenta la turpitudine. La commedia di Bataille è una mera esercitazione letteraria, che può essere assunta come documento storico di grande corruzione e di irrimediabile scadimento dei costumi. L'esaltazione fredda di un atteggiamento sentimentale come quello di Federica può nascere solo dopo una stanchezza fisica prodotta dalla voluttà professionale. La madre di Amore è piú bella e piú morale delle sorelle di Amore.

(20 marzo 1920).

«La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe. Nino Martoglio e Luigi Pirandello hanno sceneggiato nei tre atti di una nuova loro commedia dialettale, La bilancia, questo spunto folcloristico: un marito scopre di essere tradito: non si vendica immediatamente, ma pensa di vendicarsi ristabilendo l'equilibrio nei conti coniugali. Il rivale credendolo lontano tranquillamente si è installato nel suo talamo, egli va in casa del rivale e col terrore di un massacro, ne costringe la moglie a prestarsi alla sua vendetta. I tre atti sono freddi e scarni; non si esce dalla esteriore narrazione di un avvenimento di cronaca: l'azione si svolge secondo il piano irrigidito dell'assioma «dente per dente» con un parallelismo crudo senza che entrino in giuoco motivi sentimentali e passionali che diano particolare vita e carattere individuale ai personaggi.

Teatro semivuoto, sebbene la compagnia del Grasso sia composta di buoni attori, che meriterebbero migliore fortuna. La commedia si replica, sebbene non ne valga la pena e il teatro siciliano sia ricco di ben altri lavori.

(24 marzo 1920).

«Il beffardo» di Berrini al Regio. Nino Berrini ha voluto ricostruire, dai documenti letterari, la figura e il dramma interiore di Cecco Angiolieri, poeta senese del secolo XIII. Sarebbe vano porsi il problema se il Berrini sia stato fedele ai «testi»: il lavoro deve essere giudicato nel suo pregio intrinseco. Anche se l'Angiolieri del Berrini non avesse nessun rapporto con l'Angiolieri del XIII secolo, ciò importerebbe poco, è il Berrini riuscito a creare una figura umana, vivente nelle sue azioni e per le sue azioni, il dramma del quale egli è protagonista è un dramma reale, giustificato psicologicamente ed espresso artisticamente? Il Berrini si è lasciato trascinare dalla ricerca letteraria e ha sacrificato l'interiorità all'esteriorità; per contrapposto ha collocato l'Angiolieri in un cupo abisso di orrore, ha cercato di far convergere sulla sua figura dei fasci di luce infernale. L'Angiolieri diventa un Ezzelino da Romano, il frutto di un accoppiamento mostruoso, determinato da questa sua origine a compiere orrende gesta e ad assistere a orrende gesta: il suo ghigno, illeggiadrito da parolette che suonano leziose, diventa superficiale, è staccato dalla sua vita, e la sua vita stessa non esiste piú. Il Berrini è un lavoratore coscienzioso: la sua preoccupazione soverchia del particolare provoca rotture, fragilità, franamenti del mondo interiore che egli si propone di esprimere; provoca disuguaglianze e contrasti che poi il Berrini non riesce a superare artisticamente. Nel Beffardo il Berrini ha sentito ancora piú energicamente il freno di queste preoccupazioni e ha esitato tra il documento storico cui avrebbe voluto rimanere fedele e la concezione sua del dramma di Cecco Angiolieri: non ha osato sacrificare il documento.

I quattro atti del Berrini hanno avuto buon successo: una ventina di chiamate.

(4 aprile 1920).

«Come prima, meglio di prima» di Pirandello al Carignano. Tredici anni prima: la signora Fulvia Gelli abbandona il tetto coniugale, il marito e una figliolina. Tredici anni dopo: la signora Fulvia Gelli rientra sotto il tetto coniugale, col marito ma senza essere riconosciuta (e dovendo non essere riconosciuta) dalla figlia. Nei tredici anni è successo questo: la signora Fulvia è diventata una Flora qualunque; la sua ultima avventura è un disgraziato pretore che abbandona per lei moglie, figli e pretura; la sua ultimissima avventura è un tentativo di suicidio; il marito chirurgo che la salva, è nuovamente preso d'amore per lei e la riporta a casa. Ma nei tredici anni è successo anche questo: il professore Gelli ha educato la figliuola Lina nel culto della madre morta; per Lina la signora Fulvia Gelli è morta, la signora Fulvia ritorna come un'intrusa, come un'estranea, che sarà odiata e disprezzata dalla figliuola.

La commedia consiste in questo contrasto, ma il contrasto è accennato, non è approfondito; gli episodi nei quali si rivela sono di carattere secondario. L'autore non ha curato il lavoro nel dialogo, come è nel suo carattere di scrittore di teatro: il dramma è solamente impostato e non è svolto in nessun modo, né con un'azione serrata, né con una «trattazione» dialogata.

(8 aprile 1920).

«L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al Carignano. L'amico di famiglia, di Caillavet e De Flers, è il lavoro teatrale da cui è stato estratto il libretto dell'operetta: La regina del fonografo. Nessun elemento teatrale di notevole importanza esiste nella commedia che non sia passato nell'operetta: la figura di «amico di famiglia», quantunque dia il titolo, non è effettivamente che la «macchina» che serve esteriormente a saldare i vari episodi dell'azione. La commedia si svolge in questi due motivi: una donna «onesta» dà buoni consigli a una cocotte, e una cocotte dà buoni consigli a una donna onesta. Una cocotte è rammaricata perché come donna ella è sempre scelta e non ha la libertà di scegliere: una moglie le insegna come si possa scegliere l'uomo che piace. La cocotte è stata educata a vedere nell'amore «una carriera», è stata educata a non vedere negli uomini altro che dei clienti, di cui non bisogna mai innamorarsi, per non compromettere la carriera; la moglie invece è stata educata a far innamorare e quindi a mostrarsi innamorata: può insegnare qualcosa. Ma anche la cocotte può insegnare qualcosa alla moglie: può insegnare come si faccia a conservare un uomo, arte che non conosce la fanciulla «onesta» che deve trovar marito e non pensare al domani, non pensare a conservarlo: la cocotte deve sapersi conservare le buone «pratiche». Sono questi due motivi che dànno un qualche sapore ai tre atti, nonostante la farraggine degli episodi e delle situazioni, costruite secondo uno schema, per far ridere a tutti i costi il pubblico.

(27 giugno 1920).

«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella. Nei tre atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana questa matassa: un tale Martino Lori ha sposato la figlia di un illustre scienziato che lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e gli appunti e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni diventa una illustrazione della scienza, è deputato, diventa ministro, diventa senatore; il Lori è da lui trascinato nella carriera politica e giunge fino al posto di consigliere di Stato. Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non sospetta che sua moglie l'abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia invece figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si sostituisca a lui nel curare la fanciulla, divenuta orfana della madre, e la tiri su per conto suo e le costituisca una dote e le trovi un marito aristocratico; non sospetta di nulla, sebbene tutti gli intimi di casa sappiano, e Palma sappia, e il fidanzato di Palma sappia. Non sospetta di nulla e per sedici anni si costruisce una vita sua particolare, che a tutti pare la commedia di un miserabile, contento dei benefizi ricavati dal consenso dato alla moglie per la tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel giorno, dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull'onestà e sulla bontà degli uomini, la verità gli è rivelata. La commedia si impernia su questa rivelazione: dovrebbe essere la rappresentazione di questo dramma fulmineo: il dramma di un uomo che si è costruita tutta la sua vita interiore ed esteriore sull'ignoranza di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d'un tratto si trova sperduto, perché il suo «io» intimo è svanito e il panorama circostante, veduto sempre in un modo per tanti e tanti anni, è mutato radicalmente, è un panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che il Pirandello si limita a dipanare la matassa, a condurre l'intrigo; il lavoro è affrettato, e la figura di Martino Lori non riesce a dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo; è smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non diventa un carattere, rimane una vittima senza energia né sentimentale, né dialettica (come avviene nelle creazioni del Pirandello), che si affloscia e scompare, rientrando nel buio della nullaggine drammatica.

(7 luglio 1920).

«Gli interessi creati» di Benavente al Balbo. Gli uomini sono dei fantocci che si muovono per il mondo e operano guidati dai fili degli interessi. Su questo comune spunto della filosofia popolare il Benavente ha intrecciato la sua commedia; le ha dato un colore di novità introducendo nella scena le maschere del teatro italiano, Pulcinella, Arlecchino, Balanzone, Colombina; gli uomini fantocci appaiono rappresentati da tipi di fantocci uomini creati dal teatro dell'arte. L'intrigo è anch'esso comune: come un furbo avventuriero riesca a combinare un matrimonio, determinando una serie di interessi costituiti intorno alla fortuna del suo amico-padrone. Ma il matrimonio è d'amore: esistono dunque altri fili, oltre agli interessi, che fanno muovere gli uomini e dànno loro una dignità. Tre atti lievi, graziosi, senza pretese, che furono accolti con favore dal non troppo numeroso pubblico.

(27 luglio 1920).

«Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo. Nell'ascoltare la commedia Il fantoccio di Osvaldo Cantoni-Gibertini, si pone irresistibilmente questo problema, che nasce dall'intimità piú preziosa della commedia stessa. Poiché il protagonista, signor Mario Stella, è un superuomo, che soffre della malattia propria dei superuomini, il discentramento scheletrico tra l'io-superuomo e l'io-fantoccio di legno, e poiché Osvaldo Cantoni-Gibertini, se può rappresentare nella pienezza della sua superumanità un superuomo, è da supporsi partecipi della sublimazione geniale e soffra quindi anch'egli di discentramento tra i due «io» – quale dei due «io» di Osvaldo Cantoni-Gibertini ha trovato la sua espressione in questa commedia? L'«io» di legno non stagionato, che a primavera urge l'involucro umano, o l'«io» superuomo? Il problema, che irresistibilmente si è imposto, si è, per questa sua irresistibilità, risolto automaticamente; la commedia è espressione di legnosità non maturata piú di quanto sia espressione di genialità superumana; Osvaldo Cantoni-Gibertini è un genio foderato di una pesantissima cappa da filisteo. Egli ha ridotto in cifra matematica il giudizio del buon senso comune che in ogni uomo c'è un fantoccio; ha materializzato la metafora, ha costituito intorno a essa un intrigo qualsiasi e ha affogato in una nube di trivialità bambagiosa il qualche tratto originale che era risultato casualmente dal giuoco della macchina inventata. Manca al Cantoni-Gibertini proprio quel gusto letterario che è indispensabile per nascondere l'automatismo legnoso sotto l'apparenza umana; il gusto della semplicità e della misura; gli manca specialmente l'equilibrio dell'inventore che non balla la danza indiana intorno al suo ordigno, gridando: come è bello! come è bello! quale grande inventore di ordigni io sono! Il Cantoni-Gibertini insomma ha messo troppo del suo io-fantoccio nella commedia e pochina pochina della sua umanità; ha elaborato un «penso», non ha scritto un'opera letteraria.

(4 agosto 1920).

«Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano. Carlo Veneziani ha rimesso in iscena i personaggi della Bohême. La gaiezza del Mürger si è invenezianizzata in farsaioleria, la vena di malinconia e di sentimento è divenuta fiume lutulento di mutria e di sentimentalismo. Colline, il filosofo, è divenuto un predicatore di energia, un propagandista delle immortali parole d'ordine: «progresso nel lavoro e nell'ordine», «volere è potere», «le bugie hanno le gambe corte», «le donne sono la causa di tutti i mali», «l'ozio è il padre dei vizi». È questa, in fondo, l'originalità della commedia, la quale può essere assunta a simbolo del periodo che attraversa il nostro paese. Nella rovina di tutte le forze morali che sostengono ogni società bene organizzata, nel venir meno di ogni norma di condotta, che serva all'individuo e alla collettività, in Italia, che ha dato i natali a Stenterello, sono i farsaioli che parlano delle cose serie e fanno la predica della saggezza: cosí avviene che le cose serie e la saggezza predicate da tali bocche non siano piú distinguibili dalle farsaiolerie e la vita italiana diventi sempre piú gioconda.

Per la cronaca: nella commedia del Veneziani, Colline, deluso in amore, sposa l'affittasoffitte, risolve radicalmente il problema dell'alloggio, diventa genitore di tre pargoletti, ma non perde l'abitudine di dormire sulle pubbliche panche. Sono stati applauditi i primi due atti, il terzo è stato accolto da applausi commisti con abbondanti zittii e qualche fischio. Luigi Carini (Colline) recitò con molto buon gusto e collaborò parecchio alla buona riuscita del lavoro.

(13 ottobre 1920).

«Il bell'Apollo» di Praga al Carignano. Piero Badia, signore milanese dell'anno di grazia 1893, è il «bell'Apollo». Ciò significa che Piero Badia è un conquistatore di signore, è uno specialista nella professione di sedurre e di abbandonare; ma la parola «Apollo» non deve trarre in errore: non c'è alcuna traccia di lirismo nella figura di Piero Badia, egli non esplica la sua attività come creazione artistica, come espressione di una personalità che non può ritrovarsi altro che nel sedurre belle signore. Piero Badia è un omaccione molto volgare e molto banale, che si preoccupa solo di godere senza far nascere scandali e senza determinare drammi incresciosi.

In che consistano questi quattro atti di Marco Praga, non si riesce a stabilire con esattezza: probabilmente Marco Praga ha semplicemente voluto scrivere quattro atti, ben congegnati tecnicamente, che avessero un buon successo di platea. Pare la commedia sia stata, tempo fa, una battaglia contro lo spirito dei tempi e sia stata una battaglia perduta. La fortuna odierna proverebbe in questo caso che si è fatto un passo indietro nell'educazione del buon gusto popolare. Poiché nella commedia si vede un uomo, e precisamente l'eroe, il bell'Apollo, infilarsi le scarpe dinanzi al pubblico; poiché il bell'Apollo è un uomo senza cuore, che fa all'amore col solo cervello; poiché si assiste a scene veramente «ardite» e si odono proposizioni molto ciniche, è da supporre che la battaglia, che la commedia ha rappresentato tempo fa, sia stata combattuta per il «realismo».

La battaglia meritava di essere perduta: la commedia non ha alcuna consistenza drammatica, essa è una pura esteriorità di parole e di scene ben congegnate. Manca in questa commedia ogni rappresentazione di caratteri; sarebbe stato meglio trarre dall'argomento un romanzo d'appendice con un urlo popolaresco contro il cinico signore che non si preoccupa se i suoi sollazzi lascino uno strascico di cuori insanguinati. In un tale romanzo d'appendice ci sarebbe stata piú umanità e quindi piú arte che in questo quadro sbiadito di un cinismo di maniera che ragiona su se stesso e si giustifica con ragionamenti da lenone che non vuol abbandonare la professione lucrativa.

La commedia ha avuto successo: c'è però da domandarsi quanto abbia contribuito al successo l'interpretazione degli attori. È un successo da teatro moderno o da teatro dell'arte? Pare veramente che si ritorni indietro di duecento anni; il pubblico non si preoccupa del lavoro artistico, ma dell'interpretazione artistica.

Non ci sarebbe niente di male, se dal teatro non ricavassero fama e quattrini scrittori che non meritano né l'una, né gli altri a cosí buon mercato.

(20 ottobre 1920).

«Anfissa» di Andreieff al Carignano. Per il borghese che ha cenato bene e ha tre ore da perdere tra la cena e il letto, un dramma è qualcosa di mezzo tra il digestivo e l'afrodisiaco. Per il critico, dramma è una contrapposizione di «caratteri», cioè di marionette che giocano alla vita. Anfissa di Andreieff non è né l'una cosa né l'altra. Il borghese che vuol digerire ne riceve come un pugno sullo stomaco, il critico vi cerca invano le marionette. La drammaticità di Anfissa è nell'inasprimento, portato fino all'assurdo, fino alla lacerazione, fino al delitto, di un contrasto originariamente semplice di passioni.

Nel centro è un uomo, Teodoro Kostamarov, un avvocato, orgoglioso, vano, sensuale, grande ingegno per la città di provincia. Ha pose da superuomo, ma da superuomo provinciale: insulta gli avversari in un'arringa, prende a schiaffi per via chi non lo saluta, è un conquistatore di donne, uno sprezzatore della moralità comune, ma non ha maggiore originalità di un libertino. In complesso una figura che vuol dominare restando legata a terra. Una crisi, che sorge piú da contrasti esteriori che da un intimo dissenso, lo sconvolge, gli fa perdere il dominio di sé, lo fa insieme incerto e brutale, violento e pauroso.

Intorno, tre figure di donne, o meglio in tutte una figura sola: l'essere che vive dell'amore e del dominio dell'uomo, ne vive fino al sacrifizio, alla perdita di sé, all'odio, al delitto.

La moglie di Kostamarov, tradita, trascurata, chiama presso di sé la sorella, Anfissa, vedova che giunge con non si sa qual fama di autorità, e spera che la sorella, ammonendo, esortando, inspirando magari un nuovo sentimento, le riporti l'affetto e la fedeltà del marito. Ma questi ama Anfissa, fin dal giorno che ne ha sposato la sorella e Anfissa ama essa pure il cognato. Il sentimento, doppiamente colpevole, dei cognati si esaspera nella strana situazione in cui essi vengono a trovarsi. Giungerà esso a purificarsi, a trionfare come un sentimento primordiale, che non ha bisogno di giustificazioni, che non soffre attenuazioni, che di per sé vale ed è tutto? Il dramma si dibatte per quattro atti, per alcuni mesi di vita, e si chiude con un delitto. Dico che si dibatte e non lo dico per esprimere un giudizio di condanna. La scena è anzi perfetta. Se qualcosa vi è da rimproverare, è piuttosto la tensione che non si allenta per un attimo, dalla prima all'ultima battuta, dando l'impressione di una logicità perfetta e di uno sviluppo pienamente conforme alle leggi della vita. Ma il dibattersi angoscioso, in cui la drammaticità, in cui i limiti della comune esistenza sono superati, in cui si giunge alla tragedia e alla poesia, è quello di alcune coscienze prese nelle spire di una sorte che per essere fatta della loro stessa passione non appare meno come qualcosa di tragicamente imponente. È tutto spiegabile, a cominciare dalla prima ripulsa di Anfissa fino alla sua caduta, e alle promesse dell'amante, e al suo desiderio piccino di vendetta e all'esasperarsi nella donna del sentimento e della gelosia. È un processo tutto umano di sviluppo quello che porta alla stanchezza dell'uno e all'odio dell'altra, alle offese che l'uomo fa all'amore e la donna all'orgoglio, alla violenta scena, in cui Anfissa di fronte alla famiglia riunita rinfaccia a Teodoro di aver tradito la moglie, di essersi fatto della cognata un'amante e di cercare ora un'amante nuova nella terza sorella, giovane, ingenua, ignara. È tutto umano e tutto si snoda con agilità e rapidità, ma tu senti che un gorgo di passione si è aperto nel quale questi uomini sono trascinati come festuche, che si è prodotta una lacerazione che non può essere chiusa perché forze e sentimenti umani si adoprano a renderla sempre piú grande e profonda.

Il delitto, col quale si chiude il dramma, quando Anfissa uccide col veleno l'uomo che odia e ama, grava in realtà sull'azione fin dalle prime scene. Si direbbe un destino se non fosse una cosa che vien fuori in modo cosí chiaro dal cuore di questi uomini.

In questo senso Andreieff ha scritto un dramma borghese, non solo introducendo in un ambiente comune un fatto tragico o qualche elemento di tragicità, ma cercando di ottenere da un esacerbato contrasto di passioni una trasfigurazione dell'ambiente, e se un appunto è da fargli, è quello di avere in questo senso troppo insistito, introducendo a esempio elementi secondari che servono a creare e mantenere un senso di diffusa drammaticità e di incertezza, ma sono poco strettamente collegati con l'azione scenica principale, restano impliciti e non si spiegano con essa. Tale la figura della nonna che ha avvelenato il primo marito, che fa la sorda ed è l'incubo del protagonista.

Anche su di ciò però l'appunto sarebbe valido se l'opera drammatica non fosse opera d'arte, cioè di poesia, soggetta a nessuna logicità che non sia quella della fantasia del poeta, che ha in sé la sua legge e soltanto a essa deve obbedire. Riconosciamo che la vita stessa non è logica, ma è piena di elementi che non si pesano con la bilancia del ragionatore; e riconosciamo soprattutto che Andreieff ha dato vita a un quadro tragico di cui la figura della nonna, nella stessa sua incerta posizione, è un elemento essenziale. Se quell'essere parlasse e si sapesse chiaramente chi è, verrebbe meno non solo un elemento scenico di incomparabile suggestione, ma sarebbe distrutto un elemento intuitivo che è inseparabile dal resto dell'opera d'arte. Lo stesso si dica di molti altri particolari e del rilievo e della finitezza loro.

Tutto ciò fu reso dalla compagnia in modo scenicamente perfetto. Se però vi è nel dramma un'ombra di pesantezza, questo difetto fu accentuato dal tipo di recitazione, specialmente della signora Melato, tipo di recitazione che risente troppo della scena cinematografica e tenne sí avvinto il pubblico, ma finí per stancarlo. Cosí avvenne che alcuni passaggi parvero pesanti per soverchia tensione, e avvenne che dopo tre atti, condotti a termine con successo e con un buon numero di chiamate, alla fine si sentí qualche zittio.

Confessiamo però che il pubblico borghese del teatro non era dei meglio adatti a seguire e sentire l'opera d'arte. L'intiera verità di essa doveva purtroppo fargli l'impressione di un pugno sullo stomaco.

Auguriamo dunque a questo dramma un pubblico migliore, piú rozzo, piú immediatamente sincero, piú vicino a godere e soffrire l'impetuosa angoscia della tragedia. Gli auguriamo un pubblico di proletari.

(14 novembre 1920).

«Glauco» di Morselli al Carignano. Glauco, l'eroe della mitologia greca, è presentato, al principio del primo atto, come un pescatore, il pescatore piú povero della Sicilia, privo di ogni ricchezza, ma pieno il cuore delle piú grandi cose. Tende l'orecchio al canto delle sirene e agli allettamenti dei tritoni e sogna terre lontane. Sogna l'Africa piena di mostri da uccidere, di oro e di regni da conquistare, sogna la Colchide verso la quale l'eroe Giasone sta guidando gli Argonauti. Sogna soprattutto la gloria che uguaglia gli uomini agli dei. Ma insieme a queste alte voci di gloria anche una modesta voce di amore parla al cuore del giovane. È l'amore di Scilla, una fresca e tranquilla vena di acqua chiara, in mezzo a un tumulto di insoddisfatte brame.

Glauco convince i pescatori a partire con lui per l'Africa, con un carico di lana tessuta.

Lasciata l'isola, egli li trascinerà poi con sé alle imprese che sogna. Ma la lana è di Forchis, il pastore padre di Scilla, ricchezza e grettezza riunite, e Forchis come la figlia cosí nega al pescatore la stoffa. I sogni debbono precipitare. E Scilla, la fanciulla che poco prima si è disperata nel vedere Glauco, entusiasta dei suoi progetti, dimenticare la voce tenera e sicura dell'amore, ora dà essa l'aiuto suo perché i progetti possano diventare realtà. Consegna ai pescatori la chiave della capanna dove si trova la stoffa: i pescatori la rubano e fanno vela per l'Africa. Glauco è sulla poppa della nave e tende le braccia alla fanciulla che si abbatte su una pietra della riva, come schiacciata da un'altra pietra invisibile.

Cosí all'inizio si prospetta un fondamentale contrasto, sul quale dovrebbe correre tutta la tessitura della tragedia.

Piú che di sentimenti, vuol essere contrasto di aspirazioni e di concezioni. Forse, e bisogna pur dire subito queste parole, anche se in esse e già implicito un giudizio, è piú che altro un contrasto di tesi e di simboli. Il quadro vuol quindi avere una cornice piú ampia di quella di ogni comune azione scenica nella quale uomini parlano e vogliono e agiscono e il ricorso a personaggi, scene e decorazioni mitologiche è fondamentalmente giustificato da questa aspirazione. Ma fin dal primo atto appaiono gli strappi e attraverso di essi l'arida, ossuta schematicità dei simboli: la fanciulla che invoca la virtú come la sola cosa che può fare di una capanna una reggia, le soddisfazioni e le dolcezze umili, le grettezze, le bassezze anche della vita contrastanti con l'ardore di un sogno.

Tutto ciò l'autore vuol rendere concreto e vivente in modo che sia drammatico e lirico insieme, ma la scena decorativa e simbolica rende stentato, difficile a esser còlto immediatamente il ritmo della vita, e la lirica non c'è ancora.

Dopo il primo atto il difetto si accentua. Glauco è andato in Colchide, ha combattuto e vinto, ha liberato un popolo, è diventato re e giunge, nel viaggio di ritorno, all'isola di Circe. È un dominatore che arriva e la maga lo vuol conquistare con le sue arti, avvincerlo, tenerlo per sempre legato a sé col suo magico influsso, come tiene chiusi in stalla gli altri eroi che sono venuti per godere di lei, e ch'essa ha cambiato in porci. Glauco vince. Fingendosi ubriaco e dormente carpisce alla dea il bacio che lo rende immortale e poi respingendone l'amplesso fugge, richiamato dal ricordo di Scilla, dalla voce sempre viva dell'amore di lei. La sua nave si allontana veloce spinta dai tritoni, e la dea si vendica, recide il filo della vita di Scilla, strappandolo dalle mani delle Parche.

Cosí quando l'eroe giunge alla Sicilia e scende alla riva i pastori stanno piangendo la morte della ragazza che si è gettata in mare. Il corpicino giace sulla sabbia e dopo essersi fatto legare a esso con la catena dell'ancora, Glauco si fa gettare in mare. Dalla profondità salgono ancora il suo lamento e il suo pianto.

Questa, nella sua trama e nella sua conclusione, la favola. E di piú che la favola che vi è in questo dramma? L'autore, dicevamo, ha voluto metterci grandi cose. Per velare dietro di esso grandi cose ha scelto e sceneggiato un soggetto mitologico. Le cose grandi però, sono rimaste cosí, dietro un velo, una velleità senza espressione definita. Tale è pure la liricità di questa tragedia. È esatto dire che si tratta di un tentativo apertamente confessato di fare in teatro cosa, se non nuova, diversa almeno dal comune, di trasfigurare l'azione scenica con una intuizione di poesia. Ma è pure esatto dire che il tentativo è fallito. La mitologia ha inaridito la fonte della poesia, invece di alimentarla. Chi conosca la serena e grande poesia dei miti greci, non ravvisa in questa tragedia che un travestimento di problemi o di pseudoproblemi moderni.

Forse chi è abituato al teatro attuale vi trova qualcosa di nuovo. Ma per il nuovo si perde il meglio, si perde quello che conta e che vale: si perde la spontaneità e la pienezza dell'azione, si oscilla tra una realtà e un sogno che non hanno entrambi consistenza che di parole.

Non si afferra, di concreto, nulla che non potrebbe esser contenuto in una qualsiasi mediocre favola borghese.

Il successo c'è stato, sebbene un po' tiepido.

Tre chiamate a ogni atto. Nessun entusiasmo.

(21 novembre 1920).

Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli, «Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez). Pirandello, Fraccaroli, Lopez. Tre atti unici, del genere, «per rivista mensile "Lettura", "Secolo XX"». Tre novelline dialogate: le prime due farsesche, la terza sentimentalmente rosea, per fanciulle di buona famiglia, che abitano nella mitica provincia gozzaniana. La prima, Cecé, di Luigi Pirandello, è una sciocchezza semplice senza capo né coda: si descrive, a puro titolo di fare il solletico sotto la pianta dei piedi, come avvenga che un viveur riesca a non pagare seimila lire a una prostituta. La seconda Ma non lo nominare, di Arnaldo Fraccaroli, è una sciocchezza con molte complicazioni. Arnaldo Fraccaroli ha scritto la sciocchezza pensando che il pubblico fosse la sublimazione sintetica di 10 abbonati da 20 anni al «Corriere della Sera» e alla «Domenica del Corriere», che poi hanno alquanto mutato la loro psicologia leggendo assiduamente anche il «Corriere dei Piccoli», moltiplicati per 10 scrittori di «cartoline del pubblico», divisi per 4 ammiratori di Luigi Barzini, ridotti ai minimi termini di intelligenza. Il Fraccaroli descrive come avvenga che, in un albergo con parco, un signore, travestendosi da iettatore, riesca a far scappare, da un angolo propizio ai convegni amorosi, una cocotte, la madre che la cocotte ha preso in affitto, un pescecane, un celebre scrittore genere «milanese», un ricco di prima della guerra e un polacco, e come poi, nell'angolo propizio, corrompa una dama morigerata.

La commedia di Sabatino Lopez, Schiccheri, tu sei grande! rappresentata come conclusione, ha guadagnato enormemente per il confronto; la bonarietà casalinga del Lopez è diventata grandezza goldoniana. Dopo aver visto tutta la flora e la fauna che può sorgere dalla putrefazione dell'intelligenza, del senso comune e del buon gusto, vedere un buon diavolaccio di vecchio dottore che riesce felicemente a trovar marito per due nipoti! Sabatino Lopez è diventato grande, come sono grandi le Piramidi, quando la pianura del Nilo è una marcita popolata di ranocchi.

(16 dicembre 1920).

Indice dei nomi

Abba Giuseppe Cesare

Abignente Filippo

Adami Giuseppe

Adrasto Barbi Silvio

Agabiti Augusto

Albatrelli Paolo

Albertini Giacomo, vedi Leoni M.

Alighieri Dante

Allain Pierre

Allodoli Ettore

Almirante Luigi

Alvarez Quintero Serafin e Joaquin

Alvaro Corrado

Ambrosi Luigi

Ambrosini Luigi

Andoux Marguerite

Andreev Leonid Nikolaevič

Angelini

Angioletti Giovanni Battista

Angiolieri Cecco

Anile Antonino

Ansaldo Giovanni

Anselmi Rosina

Antici Leopardi Adelaide

Antona Traversi Camillo

Antona Traversi Giannino

Antonelli Luigi

Arangio Ruiz Vladimiro

Arcangeli Giuseppe

Arcari Paolo

Ardigò Roberto

Arias Paolo Enrico

Ariosto Ludovico

Aristofane

Armont

Arrò Alessandro

Artioli Adolfo

Asch Shalom

Ascoli Graziadio Isaia

Bacchelli Riccardo

Bacci Baccio Maria

Bacci Orazio

Baghetti Aristide

Bakunin Michail Aleksandrovič

Baldini Antonio

Balsamo Crivelli Gustavo

Balsamo Crivelli Riccardo

Balzac Honoré de

Bambi

Banville Théodore de

Baratono Adelchi

Barbi Michele

Barbiera Raffaello

Barbieri Ulisse

Barbusse Henri

Bardi Giovanni

Barilli Bruno

Barone Giuseppe

Barnum Phineas

Barrès Maurice

Barrie James Matthew

Bartoli Matteo

Barzini Luigi

Bassi Ugo

Bataille Henri

Baudelaire Charles

Beaumarchais Pierre Augustin Caron de

Bechi Giulio

Becque Henri

Begey Attilio

Belli Gioacchino

Bellonci Goffredo

Belloni Filippi Ferdinando

Beltramelli Antonio

Beltrami Luca

Benavente y Martinez Jacinto

Benedetto Luigi Foscolo

Benelli Sem

Benetti Giuseppe

Benetti Velleda

Benini Vittorio

Béranger Pierre Jean de

Berchet Giovanni

Bergson Henri

Bermani Eugenio

Bernardin de Saint Pierre Jacques Henri

Bernardy Amy A.

Bernasconi Ugo

Bernstein Henri

Berra Camillo

Berrini Nino

Berta Augusto

Berti Domenico

Bertoni Giulio

Betrone Annibale

Biagi Guido

Bianchi Michele

Bibbiena (Bernardo Dovizi)

Biliotti

Bissi

Bodrero Emilio

Böieldien Maria Giacomo

Bojer Johan

Bollea Lucio C.

Bonafini

Bonald Louis de

Bondi Tina

Bonghi Ruggero

Bonifacio VIII

Bonneff L. e M.

Bontempelli Massimo

Bontempi Teresina

Bonucci Alessandro

Boothby Guido

Borbone, famiglia

Borelli Lyda

Borgese Giuseppe Antonio

Borsi Giosuè

Botti Mario

Bourget Paul

Boussenard Pierre

Boutet Edoardo

Bovio Libero

Bracci

Bracco Roberto

Brenna Ernestina

Bresciani Antonio

Briand Aristide

Bruers Antonio

Brunetto Ernesto

Bruni Renato

Bulferetti Domenico

Buonarroti Michelangelo

Burzio Filippo

Cafiero Andrea

Caillavet Gaston Armand de

Cairoli, fratelli

Cajumi Arrigo

Calligari Ernesto

Calvino Paolo

Calza Arturo

Calzini Raffaele

Cambon Victor

Campanile Achille

Campanozzi Francesco

Campus Giovanni

Canova Antonio

Cantoni Gibertini Osvaldo

Canudo Ricciotto

Capasso Aldo

Caporali Enrico

Cappa Innocenzo

Capra Cordova G.

Caprin Giulio

Capuana Luigi

Caracciolo

Cardarelli Vincenzo

Carducci Giosuè

Carini Luigi

Carlo Emanuele I di Savoia

Carmi Filippo

Caro Annibale

Caro Edme Marie

Carosio

Carvaglio Giulio

Casaleggio Mario

Casanova Giacomo

Casati Giovanni

Casella Mario

Casilini

Casini Gherardo

Catellani Enrico

Cavacchioli Enrico

Cavalcanti Guido

Cavour Camillo Benso

Celli Angelo

Celli Anna

Cena Giovanni

Cervantes Saavedra Miguel de

Cervesato Arnaldo

Cesare Caio Giulio

Cesareo

Cesarini Sforza Widar

Chamberlain Houston Stewart

Chamisso Adalbert von

Chang Kai shek

Charensol G.

Chesterton Gilbert Keith

Chiarella, fratelli

Chiarella Giovanni

Chiarelli Luigi

Chiarini Luigi

Cialdini Enrico

Ciampini Raffaele

Cian Vittorio

Cicognani Bruno

Cimara Luigi

Cimbali Giuseppe

Cippico Antonio

Citanna Giuseppe

Claps Domenico

Cola di Rienzo

Collegno Margherita Provana di

Colombo Cristoforo

Colonna Di Cesarò

Comisso Giovanni

Compagni Dino

Comte Auguste

Condorcet Antoine Nicolas de

Conforti

Conrad Joseph

Consiglio Alberto

Cooper Fenimore

Coppola Francesco

Coppola Goffredo

Cormon Eugène (Pierre Étienne Piestre)

Cornaggia Medici Castiglioni Carlo Ottavio

Corradini Enrico

Corso Raffaele

Cortese Luca

Corti Settimio

Cosentini Francesco

Cosmo Umberto

Costa Andrea

Costa Gastone

Costanzo Giuseppe Aurelio

Craig Edward Gordon

Crémieux Benjamin

Crespi Angelo

Crispi Francesco

Crispolti Filippo

Croce Benedetto

Crocioni Giovanni

Crosby Ernest

Cuneo

Cuttica Primo

D'Alia Antonino

Dall'Ongaro Francesco

D'Amico Silvio

D'Annunzio Gabriele

D'Aquino Alessandro

Daudet Alphonse

Dauli Gian

Dauwillans

Da Verona Guido

D'Azeglio Massimo

De Amicis Edmondo

De Angelis Leopoldo

De Bildt

De Castro Giovanni

Decourcelle Pierre

De Frenzi Giulio, vedi Federzoni L.

De Gubernatis Angelo

Dei Sabelli Luca (Luca Pietromarchi)

Del Greco Francesco

Della Rocca Morozzo Enrico

Della Torre Giuseppe

Del Lungo Isidoro

De Lollis Cesare

Del Secolo Floriano

De Luca Benedetto

De Marchi Emilio

Depresle Gaston

De Rossi Giuseppe

De Sanctis Alfredo

De Sanctis Francesco

De Sanctis Gaetano

Di Borio Maria

Dickens Charles

Di Gennaro Francesco

Di Giacomo Salvatore

Di Lorenzo Tina

Di Mattia Luigi

Dominique Pierre

Donadoni

Donatello

Dondini Cesarino

Doria Cambon Nella

Dossi Carlo

Dostojevskij Fëdor Michajlovič

Doyle Arthur Conan

Dreyfus Alfred

Duhamel Georges

Dumas Alexandre

Dumas Alexandre, figlio

Eça de Queiroz José

Elliott George

Emanuele Filiberto di

Engels Friedrich

Enrico IV

Eraclito

Eschilo

Esiodo

Evreinov Nikolaj Nikolaevič

Ezzelino III da Romano

Fabrizi de' Biani Vittoria

Faggi Adolfo

Falconi Armando

Falorsi Guido

Falqui Enrico

Farina Salvatore

Farinata degli Uberti

Farinelli Arturo

Fedele Pietro

Federzoni Luigi

Fenu Edoardo

Ferrari Paolo

Ferrero Giovanni Battista

Ferrero Leo

Ferretti Giovanni

Ferrini Oreste

Fichera Filippo

Fino Saverio

Flammarion Camille

Flaubert Gustave

Fleischmann

Flers Robert de

Fontenay Paul

Ford Henry

Forges Davanzati Roberto

Formiggini Santamaria Emilia

Fornari Vito

Fortini del Giglio Ugo

Forzano Giovacchino

Foscolo Ugo

Fraccaroli Arnaldo

Fracchia Umberto

Fradeletto Antonio

France Anatole

Francesco d'Assisi

Franchi Bruno

Franzi Tullia

Frateili Arnaldo

Fregoli Leopoldo

Freud Sigmund

Frigerio

Friscia Alberto

Fualdès, processo

Fucini Renato

Fuggetta

Füllöp-Miller René

Fumagalli Maria Giuseppina

Gabba Carlo Francesco

Gaboriau Émile

Gabrielli Cesare

Gallarati Scotti Tommaso

Galli Dina

Gandera Felix

Gandusio Antonio

Gargàno Giuseppe, S.

Gargiulo Alfredo

Garibaldi Anita

Garibaldi Giuseppe

Garzia Raffaele

Gasco Giuseppe

Gatti Angelo

Gattini

Gatto-Roissard Leonardo

Gemelli

Gemelli Agostino

Gennari Luciano

Gentile Giovanni

Gentilli Olga Vittoria

Géraldy Paul

Gerbidon

Giacometti Pietro

Giampaoli Mario

Giardini Cesare

Gide André

Gillet Louis

Ginisty P.

Gioberti Vincenzo

Gioda Mario

Giovagnoli Raffaele

Giovanna d'Arco

Giuliotti Domenico

Giusti Giuseppe

Gobetti Piero

Gobineau Joseph Arthur

Goethe Wolfgang

Goldoni Carlo

Goncourt Edmond e Jules Huot de

Gorgerino

Gori P.

Gorkij Maksim

Gotta Salvatore

Gozzano Guido

Gozzi Carlo

Gozzi Gaspare

Gradassi Luzi Riccardo

Graf Arturo

Graf Oscar Maria

Gramatica Emma

Gramatica Irma

Grangé (Pierre-Eugène Basté)

Grassi

Grasso Giovanni

Gray Ezio Maria

Gray L.

Graziadei Antonio

Grazzini Antonio

Grimm Jacob e Wilhelm

Groppali Alessandro

Grossi Tommaso

Gualino Riccardo

Guasti Amerigo

Guéhenno Jean

Guerrazzi Francesco Domenico

Guglielminetti Amalia

Guicciardini Francesco

Guidi Angelo Flavio

Guillaume James

Guillon Sylvestre

Guitry Sacha

Guterman N.

Guzzo Augusto

Hagenbeck Karl

Halévy Daniel

Hamp Pierre

Harkness Margaret

Hartland Reginald W.

Hastings

Hermant Abel

Herriot Édouard

Herzen Aleksandr Ivanovič

Hofer Andreas

Hoffmann Ernst Theodor

Amadeus

Hugo Victor

Ibsen Herik

Invernizio Carolina

Jagot Henry

Jahier Piero

Janni Ugo

Jaurès Jean

Joyce James

Killen Alice

Kipling Rudyard

Kock Paul de

Labanca Baldassarre

La Fontaine Jean de

La Marmora Ferrero Alfonso

Lamartelière Jean Henri Ferdinand

Lamberti

Lanzalone Giovanni

Lao-Tse

Lasca, vedi Grazzini Antonio

Lattes Ernesto

Lauria Amilcare

Leblanc Maurice

Le Breton André

Lenci

Leoni Mario

Leopardi Giacomo

Leopardi Monaldo

Leopardi Paolina

Le Play Pierre Guillaume Frédéric

Lessing Gotthold Ephraim

Levi Minzi Giacomo

Linati Carlo

Lipparini Giuseppe

Lo Forte Randi Andrea

Lombardo Carlo

Lombroso Cesare

London Jack

Longanesi Leo

Lopez Sabatino

Lorde André de

Loria Achille

Loria Arturo

Lotti

Lovarini Emilio

Lucidi Guglielmo

Lucini Gian Pietro

Luigi Filippo d'Orléans

Lumbroso Alberto

Lupi Ruggero

Luzio Alessandro

Luzzatto Leone

Machiavelli Niccolò

Mac Orlan Pierre

Maeterlinck Maurice

Malaparte Curzio (Kurt Erik Suckert)

Malot Hector

Malraux André

Manacorda Guido

Manzi Alberto

Manzoni Alessandro

Manzoni Romeo

Maraviglia Maurizio

Marcacci

Marcèle Jean

Marchesi Giambattista

Marchi Vittore

Marcucci Alessandro

Maresca Luigi

Marescotti E. A.

Marginati Oronzo

Mari Febo

Marinetti Filippo Tommaso

Marrocco Luigi

Martelli

Martelli Diego

Martinet Marcel

Martinez Sierra Gregorio

Martini Ferdinando

Martini Fausto Maria

Martoglio Nino

Marx Karl

Marzorati Angelo

Marzot Giulio

Masaniello (Tommaso Aniello)

Mascagni Pietro

Massaja Guglielmo

Massari Amedeo

Mastriani Francesco

Maupassant Guy de

Maurras Charles

Mazzini Giuseppe

Mazzolotti Piero

Mazzoni Giuseppe

Mazzoni Guido

Mazzucchelli Mario

Meda Filippo

Melani Alfredo

Melato Maria

Menichelli Pina

Metastasio Pietro

Metternich Klemens Wenzel

Michele di Lando

Michelotti Gigi

Migliara

Migliari Dora M.

Mignosi Pietro

Milano Paolo

Mioni Ugo

Mirafiori Rosa Vercellana Guerrieri di

Mirbeau Octave

Missiroli Mario

Molière (Jean Baptiste Coquelin)

Molteni Giuseppe

Momigliano Eucardio

Momigliano Felice

Monaldi Gastone

Monelli Paolo

Monezy

Monicelli Tommaso

Montale Eugenio

Montanelli Giuseppe

Montano Lorenzo

Montépin Xavier de

Monteri Vincenzo

Montesquieu Charles de Secondat

Monti Achille

Monti Augusto

Monti Vincenzo

Morando Giuseppe

Moravia Alberto

Mordini Antonio

Morelli Gabriele

Morello Vincenzo

Morhange P.

Morselli Enrico

Mortier Alfredo

Mosso

Motta Luigi

Moufflet André

Murat Gioacchino

Mürger Henri

Murri Romolo

Musco Angelo

Mussolini Benito

Napoleone I

Napoleone III

Nardi Vittorio

Negri Ada

Nettlau Max

Niccodemi Dario

Nicola

Nietzsche Friedrich

Nigra Costantino

Ninchi Annibale

Nissim Lea

Nizan Paul

Nono Villari Maria

Novaro Angiolo Silvio

Novelli Ermete

Nunzio A. Paolo

Ohnet Georges

Ojetti Ugo

Olivieri

Omodeo Adolfo

Orczy Emmuska

Orestano Francesco

Oriani Alfredo

Orlandini

Orsini Felice

Orvieto Adolfo

Orvieto Angiolo

Ottolenghi Raffaele

Owen Robert

Pagliaro Antonio

Palazzi Fernando

Palazzo Costanza

Paléologue Maurice

Palmieri Enzo

Pandolfini Turi

Panzini Alfredo

Paoli Giulio

Papini Giovanni

Parini Giuseppe

Parodi Dominique

Pascarella Cesare

Pascoli Giovanni

Passavanti Iacopo

Pastore Annibale

Pea Enrico

Pedrazzi Orazio

Péguy Charles

Pekar Gyula

Pelaez d'Avoine

Pellico Silvio

Penne Giovanni Battista

Pera Luigi

Perri Francesco

Perrotto, vedi Coppola G.

Persano Carlo Pellion di

Perucci Ugo

Pescetti

Petrolini Ettore

Pettinello

Philippe Charles Louis

Piccardi Guido

Piccoli Valentino

Pietravalle Lina

Pietropaolo Francesco

Pignatelli Valerio

Pignato Luca

Pilo Mario

Pindemonte Ippolito

Pini

Pintor Fortunato

Pio XI

Piperno Ugo

Pirandello Luigi

Pistelli Ermenegildo

Pitré Giuseppe

Pizzi Italo

Plauto Tito Maccio

Plinio Cecilio Secondo

Podrecca Guido

Poe Edgar Allan

Poerio Carlo

Poggi Alfredo

Poggio Oreste

Polo Marco

Pompeati Arturo

Ponson du Terrail Pierre Alexis

Porro Francesco

Poulaille Henri

Pozner Vladimir

Pozzi, padre

Praga Marco

Prampolini Giacomo

Praz Mario

Predieri Giovanni

Prezzolini Giuseppe

Proudhon Pierre Joseph

Puccini Giacomo

Puccini Mario

Puccio Luigi

Puccioni Mario

Quadrelli Ercole

Quintero, vedi Alvarez Quintero

Radcliffe Anne

Radius Emilio

Raimondi Giuseppe

Ramat Raffaello

Ramperti Marco

Rapisardi Mario

Ravachol (François August Koenigstein)

Raveggi Pietro

Rébora Piero

Reggio Ercole

Réjane Gabrielle

Remarque Erich Marie

Renda Antonio

Rensi Giuseppe

Renzi Serafino

Rèpaci Francesco Antonio

Rèpaci Leonida

Richebourg Emile

Ricolfi Alfonso

Ridolfi Bolognesi Pietro

Rimbaud Arthur

Ristori Adelaide

Riva Giovanni

Rivetta Pietro Silvio

Riviere Jacques

Rizzi Fortunato

Robespierre Maximilien

Rocca Enrico

Rocca Gino

Rolland Romain

Romani Fedele

Romano Pietro

Rosa Enrico

Rosini Giovanni

Rosny J. H.

Rossi

Rossi Casè Luigi

Rosso di San Secondo Piermaria

Rostand Edmond

Rousseau Jean Jacques

Rovetta Girolamo

Rubieri Ermolao

Ruggeri Ruggero

Ruggi Lorenzo

Ruscelli Gerolamo

Russo Ferdinando

Russo Luigi

Ruzzante (Antonio Beolco)

Sabbatini Ernesto

Sacchi Alessandro

Sacchi Bice

Sainati Alfredo

Sainati M.

Sainte Beuve Charles Augustin

Salandra Antonio

Salgari Emilio

Salinari Carlo

Salvagnoli Vincenzo

Salvini Tommaso

Sand George

Sand Maurice

Sanesi Ireneo

Sangiorgi

Sanmarco

Santoro Maddalena

Sanzio Raffaello

Sapegno Natalino

Sardou Victorien

Sarfatti Margherita

Satèrne

Savarese Nino

Saviotti Gino

Scarfoglio Edoardo

Scherillo Michele

Schiaffini Alfredo

Schiavi Alessandro

Schiller Friedrich

Sciortino Giuseppe

Secchi Angelo

Sella Quintino

Sergi Giuseppe

Servais Étienne

Shakespeare William

Shaw George Bernard

Shelley Percy Bysshe

Sicardi Enrico

Sichel Giuseppe

Siciliani Luigi

Siciliano Italo

Sincero

Sinimberghi G.

Siotto Pintor Manfredi

Sobrero Mario

Soffici Ardengo

Sofocle

Sommaruga Angelo

Sorani Aldo

Sorel Georges

Soulié Frédéric

Spadaro Odoardo

Spampanato Bruno

Sperani Hesperia

Starace Sainati Bella

Stecchetti Lorenzo (Olindo Guerrini)

Steed Henry Wikham

Stendhal (Henri Beyle)

Stevenson Robert

Stuparich Giani

Sudermann Hermann

Sue Eugène

Sutro Alfredo

Svevo Italo

Swan Charles

Synge John M.

Taine Hippolyte

Talli Virgilio

Tanner John

Taylor Frederic Winslow

Teglio Paolo

Tempesti Giulio

Terenzio Afro

Testa Cesario

Testa Dante

Testoni Alfredo

Thibaudet Albert

Thierry Augustin

Thouar Pietro

Thovez Enrico

Tilgher Adriano

Timante di Sicione

Titta Rosa Giovanni

Togliatti Palmiro

Tolentino

Tolstoj Lev Nikolaevič

Tommaso da Kempis

Tonelli Luigi

Torretta Laura

Toscanini Arturo

Toscano Stanziale Nicola

Tosini Casimiro

Trabalza Ciro

Trabaudi Foscarini De Ferrari Foscarina

Treischke Heinrich von

Tuckermann Henry Theodor

Tumiati Domenico

Turati Filippo

Turati Giampiero

Turgenev Ivan Sergeevič

Ungaretti Giuseppe

Vaccalluzzo Nunzio

Valdarmini Angelo

Valera Paolo

Vallès Jules

Vamba (Luigi Bertelli)

Vannucci Atto

Vannutelli

Varaldo Alessandro

Varé Daniele

Varisco Bernardino

Vecchietti Pilade

Veneziani Carlo

Verdi Giuseppe

Verga Giovanni

Vergani Vera

Verhaeren Émile

Verne Giulio

Vernon

Vianello C. A.

Viani Prospero

Viazzi Pio

Vico Giambattista

Vidari Giovanni

Vidocq François Eugène

Vieusseux Giampietro

Vildrac Charles

Villanova d'Ardenghi Bruno

Villari Luigi Antonio

Villari Pasquale

Villauri

Villiers de L'Isle Adam Philippe Auguste

Vittorini Elio

Vittorio Emanuele II di Savoia

Volpe Gioacchino

Volpicelli Luigi

Voltaire (François Marie Arouet)

Vossler Karl

Wagner Richard

Wallace Edgar

Wedekind Franz

Weiss Franz

Wells H. George

Whitman Walt

Wilde Oscar

Williams Orlo

Wolf Pierre

Zacconi Ermete

Zambaldi Silvio

Zambi

Zerboglio Adolfo

Zingarelli Nicola

Zoccoli Ettore

Zola Emile

Zonta Giuseppe

Zorzi Guglielmo

Zottoli Angelandrea

Zucca Antioco

Zucchelli Torquato

Zucchini Majone Ermenegilda