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di Giovanni Sabbatucci
Sommario: 1. Il trasformismo 'storico'. 2. Il trasformismo come
categoria morale. 3. Il trasformismo come scelta di sistema. 4.
Trasformismo e storia d'Italia. □ Bibliografia.
1. Il trasformismo 'storico'
Il termine 'trasformismo' entrò nel linguaggio politico
italiano tra la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire, con
chiara connotazione polemica, la politica inaugurata in quel periodo
dall'allora presidente del Consiglio Agostino Depretis. Per la
verità il vocabolo traeva origine da un'espressione
pronunciata dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella
l'8 ottobre 1882, nell'imminenza delle prime elezioni politiche a
suffragio 'allargato', che si sarebbero tenute di lì a due
settimane. In risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui
stipulati in campagna elettorale con la Destra di Marco Minghetti e
lo accusavano di aver così snaturato il programma della
Sinistra, Depretis si giustificava con una frase destinata a restare
celebre: "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole
accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e
diventare progressista, come posso io respingerlo?" (cit. in
Candeloro, 1970, p. 161).
Non era la prima volta che il presidente del Consiglio si esprimeva
in questi termini. Esattamente sei anni prima, e sempre a Stradella,
nel corso della campagna elettorale del 1876, Depretis aveva
esplicitamente invocato "quella concordia, quella feconda
trasformazione dei partiti" che sola avrebbe consentito la
formazione di una "salda maggioranza". In quello stesso discorso,
però, il leader della Sinistra aveva contraddittoriamente
ricondotto la portata del suo appello entro i termini di quello che
oggi definiremmo un accordo bipartisan, facendo riferimento alla
"concordia delle due grandi parti politiche che devono alternarsi al
potere" (cit. in De Mattei, 1941, p. 9). E del resto l'esito
trionfale delle discusse elezioni del 1876 avrebbe garantito alla
Sinistra una maggioranza non solo salda, ma addirittura
schiacciante, rendendo superflua qualsiasi ipotesi di accordo con
l'opposizione. Nel 1882, invece, ogni accenno all'alternanza era
scomparso, mentre si dava per scontata la convergenza dei moderati
sulle posizioni 'progressiste' che Depretis aveva sempre rivendicato
come sue.
In realtà, da questo punto di vista, le parole del presidente
del Consiglio contenevano una buona dose di insincerità. Che
gli uomini della Destra moderata (o almeno quelli che si
riconoscevano nelle posizioni di Minghetti) si fossero trasformati,
o si stessero trasformando, in progressisti era affermazione quanto
meno opinabile. Minghetti era lo stesso uomo politico che, poco meno
di dieci anni prima (nel 1873), da capo del governo aveva proposto
al Depretis allora capo dell'opposizione un accordo 'centrista' in
tutto e per tutto simile a quello che poi si sarebbe realizzato a
parti invertite nel 1882. Il leader della Sinistra, che pure non era
alieno da simili prospettive e non era nemmeno nuovo a combinazioni
politiche 'trasversali' (aveva fatto parte per due volte di governi
a guida moderata), aveva allora rifiutato la proposta, privilegiando
l'esigenza di tenere unita la sua parte politica in vista di una
prossima ascesa al potere; e i fatti gli avrebbero dato ragione. La
diversa scelta operata da Minghetti nel 1882 era motivata in parte
dalle preoccupazioni suscitate dalla appena varata riforma
elettorale circa la possibile irruzione nell'arena parlamentare di
forze non legittimate (preoccupazioni comuni, come vedremo, a larga
parte della Sinistra di governo), in parte dalla presa d'atto del
carattere irreversibile della sconfitta subita con la cosiddetta
'rivoluzione parlamentare' del marzo 1876 e più ancora con le
elezioni dell'ottobre di quell'anno: non era certo, dunque, il
risultato di una significativa evoluzione politico-ideologica.
A subire un'evoluzione in senso opposto, e dunque in qualche misura
a 'trasformarsi', erano stati piuttosto gli uomini della Sinistra
moderata. Chiusasi, con la formazione nel maggio 1881 del quarto
ministero Depretis, la parentesi progressista dei governi Cairoli,
esauritasi, con l'approvazione della nuova legge elettorale, la
stagione delle riforme, gli eredi della Sinistra risorgimentale
apparivano soprattutto preoccupati di rafforzare le loro basi di
consenso e di garantire al tempo stesso la solidità delle
istituzioni nel segno di un liberalismo moderato non molto diverso,
nella sostanza, da quello dei loro antichi rivali. Ad accentuare le
loro preoccupazioni contribuivano da un lato le sempre più
visibili manifestazioni di un nuovo dissenso politico e sociale (non
solo di ispirazione radical-repubblicana, ma anche di matrice
socialista) che stava trovando proprio allora nuove e più
definite forme organizzative, dall'altro le possibili conseguenze
della riforma elettorale che loro stessi avevano voluto e approvato
dopo non pochi tentennamenti (v. Romanelli, 1988). Una riforma che,
pur essendo ispirata a un prudente gradualismo (legare il suffragio
al requisito dell'istruzione primaria significava diluire in tempi
molto lunghi l'accesso alle urne del grosso della popolazione),
accresceva di tre volte il corpo elettorale e soprattutto lo mutava
dal punto di vista qualitativo, rendendolo meno controllabile e
minacciando di favorire, accanto alla sinistra moderata, anche una
sinistra estrema ben radicata in alcuni strati della piccola
borghesia e delle nascenti élites operaie.
Furono soprattutto queste preoccupazioni a rendere necessaria e
urgente, agli occhi dei moderati di ambo le parti, un'operazione
politica volta a superare gli schieramenti tradizionali (i cui
confini peraltro non erano mai stati nettamente segnati e da molti
anni ormai si andavano facendo sempre più incerti) e a dar
vita così a una nuova grande maggioranza 'centrista',
teoricamente inattaccabile e capace dunque di garantire l''area
della legittimità' (v. Sabbatucci, 1990) dalle possibili
incursioni delle forze antisistema, fin allora neutralizzate dalla
stessa ristrettezza del suffragio. L'operazione, destinata a
rivelarsi irreversibile e a segnare nel lungo periodo la storia
della politica italiana, si attuò in effetti già nella
campagna elettorale del 1882: grazie anche al meccanismo dei collegi
plurinominali introdotto dalla nuova legge (che in teoria avrebbe
dovuto moralizzare e spersonalizzare i termini della competizione),
numerosi furono i casi di accordi fra Destra e Sinistra sul nome di
uno o più candidati. La consacrazione ufficiale della nuova
maggioranza si ebbe però nel maggio 1883, con la formazione
del quinto ministero Depretis, ufficialmente appoggiato da una parte
cospicua della vecchia Destra.
Non si trattò, peraltro, di un'operazione indolore. Anche a
prescindere dalle accese polemiche che essa suscitò,
soprattutto a sinistra (e dalle quali ebbe origine la stessa parola
'trasformismo'), l'alleanza Depretis-Minghetti accelerò in
primo luogo il processo di individuazione e di separazione di una
sinistra 'radicale' (che in realtà esisteva già da
alcuni anni, ma non si poneva in netta soluzione di
continuità con le componenti progressiste della Sinistra di
governo). In secondo luogo provocò all'interno della stessa
maggioranza una vasta dissidenza raccolta attorno a cinque fra i
personaggi più prestigiosi della Sinistra storica: Crispi,
Nicotera, Cairoli, Zanardelli e Baccarini. In realtà,
nonostante la sua non trascurabile consistenza parlamentare, la
cosiddetta 'pentarchia' non assunse mai il ruolo e la figura di una
nuova ed efficiente opposizione: i suoi leaders erano infatti divisi
da forti rivalità (Crispi faceva parte per se stesso e i
progressisti settentrionali, Cairoli, Zanardelli e Baccarini, non
avevano nulla in comune con un personaggio discusso come Nicotera) e
tutt'altro che determinati a costituire un solido fronte comune in
vista di un'alternativa di governo. Alternativa che sfumò
definitivamente con l'ingresso (aprile 1887) di Crispi e Zanardelli
nell'ottavo e ultimo ministero Depretis.
La fine del trasformismo 'storico' viene comunemente fatta
coincidere con la morte di Agostino Depretis (luglio 1887) e con
l'ascesa di Francesco Crispi alla Presidenza del Consiglio. E in
effetti, da allora, la stessa espressione 'trasformismo' uscì
dal linguaggio politico corrente. In realtà, pur tenendo
conto delle cospicue differenze fra i due statisti, quanto meno
nello stile di governo, proprio la successione 'interna' di Crispi,
che ereditò dal suo predecessore sia la compagine
ministeriale sia la maggioranza parlamentare, segnò la
definitiva affermazione del modello trasformista in senso lato: di
un modello, cioè, caratterizzato dalla presenza di una
'grande maggioranza' mobile e plastica, pronta a spezzarsi e a
ricomporsi attorno alla figura di singoli leaders, non fondata su
precise pregiudiziali di programma, ma ugualmente capace di
monopolizzare l'area della legittimità costituzionale (e
dunque di bloccare sul nascere qualsiasi alternativa di governo),
relegando le opposizioni ai lati estremi e simmetrici dello
schieramento parlamentare.
2. Il trasformismo come categoria morale
L'operazione politica avviata da Depretis nell'autunno 1882 aveva,
come si è visto, scopi evidenti di stabilizzazione.
Ciò non toglie che, almeno nelle intenzioni del suo
principale promotore, essa si iscrivesse in una logica e in una
cultura di segno positivista e moderatamente progressista. L'accenno
di Depretis alla "trasformazione" non solo alludeva a una tendenza
ormai in atto da molti anni, che mirava al superamento delle vecchie
divisioni nel nome degli interessi nazionali (e vedeva infatti il
continuo proliferare di 'centri-sinistri', di 'terzi partiti', di
'sinistre giovani' e via elencando), ma rinviava anche a un contesto
lessicale e culturale in cui il termine 'trasformazione'
(così come 'evoluzione') acquistava una connotazione
implicitamente positiva (v. Bollati, 1983, p. XI).
Questa connotazione risultò capovolta nel passaggio al
derivato 'trasformismo' che divenne subito sinonimo di politica
senza principî, di amoralità, di sostanziale
corruzione. Uno slittamento semantico comune a molti termini del
linguaggio politico, in particolare al coevo 'opportunismo', calco
del francese opportunisme, parola coniata per indicare una politica
sostanzialmente analoga, sia nella pratica sia nelle motivazioni, a
quella avviata in Italia da Depretis. Sembra che all'origine del
termine vi fosse un riferimento all'abilità dei Gambetta e
dei Ferry nello sfruttare le 'opportunità' a loro
disposizione: il sostantivo 'opportunità' era dunque usato in
senso positivo, mentre i derivati 'opportunismo' e 'opportunista'
acquistarono subito, nel linguaggio degli oppositori radicali, il
significato spregiativo che tuttora conservano.
Se 'opportunismo' è diventato un termine universale -
ricorrente soprattutto nel linguaggio e negli schemi mentali del
movimento operaio - quella di 'trasformismo' è invece rimasta
una categoria tipicamente italiana. Una categoria che non solo
è stata usata come chiave di lettura dell'intera storia
politica unitaria (il che, come vedremo, è, almeno in parte,
legittimo), ma addirittura, anche in analisi recenti e raffinate (v.
Altan, 1989), è stata assunta a elemento cardine del
carattere nazionale: il trasformismo come vizio italico, come segno
di un'inclinazione, maturata attraverso i secoli, a non prendere
troppo sul serio fedi e ideologie, ma anche, in positivo, come
manifestazione di uno speciale talento applicato alla
capacità di adattamento e di sopravvivenza. Italiano era del
resto il più famoso trasformista di tutti i tempi: quel
Leopoldo Fregoli, attore livornese nato nel 1867 e morto nel 1936,
la cui specialità consisteva nel cambiare abito e trucco con
prodigiosa rapidità. Il suo lungo e indiscusso successo sulle
scene di mezzo mondo contribuì certamente alla fortuna del
vocabolo e anche alla piegatura semantica che lo identificava in
buona sostanza con l'abitudine a mutar casacca con disinvoltura:
donde l'uso improprio dei termini trasformismo e trasformista in
riferimento al passaggio di uomini o gruppi politici da uno
schieramento all'altro.
L'interpretazione morale, o moralista, del trasformismo traeva in
verità alimento da alcuni dati reali, relativi ai caratteri
assunti dalla pratica di governo e dalla lotta politica in Italia
dopo la svolta del 18821883. Il venir meno di ogni discriminante
ideologica e programmatica fra i due maggiori schieramenti in campo
(ossia la fine di quel sia pur imperfetto modello bipolare che aveva
caratterizzato la scena parlamentare italiana nel primo ventennio
postunitario) ebbe come effetti un visibile degrado del dibattito
politico all'interno della 'grande maggioranza' costituzionale e il
trasferimento delle funzioni proprie dell'opposizione a forze non
pienamente legittimate (l'estrema radicale, repubblicana e poi
socialista) oppure a gruppi eterogenei o marginali, pronti peraltro
a rientrare alla prima occasione nel gioco delle combinazioni
ministeriali (la pentarchia o l'ala più dura della vecchia
Destra).
La necessità per l'esecutivo - non più sorretto da una
maggioranza in qualche modo precostituita - di costruirsi la sua
base di consenso giorno per giorno, mediando fra gruppi di pressione
e interessi locali, non giovò certamente alla qualità
dell'azione di governo né alla trasparenza dei processi
decisionali. La combinazione fra queste maggioranze e un apparato
statale fortemente accentrato - elemento essenziale, quest'ultimo,
della "formula trasformistica" (v. Vivarelli, 1991, vol. II, pp.
64-71) - esaltava l'intreccio triangolare fra i singoli deputati, il
governo e una pubblica amministrazione da sempre poco portata a
interpretare il suo ruolo in modo imparziale.
Questi fenomeni, che peraltro furono solo esaltati e non creati
dalla prassi trasformistica (l'uso disinvolto degli apparati
pubblici, ad esempio, era parte essenziale della pratica di governo
della Destra storica), non vanno però considerati, in
un'ottica essenzialmente deprecatoria, solo in quanto manifestazioni
di malcostume e fomite di corruzione; né tanto meno possono
essere ricondotti a un presunto carattere nazionale (categoria,
quest'ultima, sfuggente quant'altre mai e già fortemente
criticata da Croce). Essi erano invece la conseguenza di un
determinato assetto istituzionale e il risultato di alcune precise
scelte politiche. Scelte sicuramente opinabili e forse non
coraggiose, ma non prive di motivazioni serie: in quel periodo la
fedeltà alle istituzioni delle forze escluse dall'area della
legittimità (estrema sinistra da un lato, cattolici
dall'altro) era tutt'altro che scontata; e l'Italia, unificata da
appena un ventennio, aveva un disperato bisogno di
rispettabilità anche internazionale (il 1882 è non
solo l'anno della riforma elettorale, ma anche quello della Triplice
alleanza). Dunque, ciò che spingeva i moderati di ambo le
parti a far blocco al centro era non tanto una smodata brama di
potere, quanto un eccesso di prudenza. In altri termini, il
trasformismo non nasceva da una connaturata inclinazione al
compromesso dei politici italiani, ma era il portato della debolezza
originaria dello Stato unitario, della fragilità delle
istituzioni e della cronica esiguità delle loro basi di
consenso. Non era il prodotto di un carattere nazionale, ma la
risposta, forse sbagliata, a un problema reale.
3. Il trasformismo come scelta di sistema
Inteso in questo senso ampio, il trasformismo non fu, e non
è, certamente un fenomeno solo italiano. Le sue origini si
possono rintracciare nella teoria e nella pratica del juste milieu
guizotiano ai tempi della Monarchia di luglio: un modello, questo, a
cui, pur dandone un'interpretazione dinamica, si era già
esplicitamente ispirato Cavour nel promuovere la politica del
'connubio'. A livello di teoria costituzionale, il trasformismo
trovava una sorta di giustificazione preventiva nelle opere del
giurista svizzero Johann Kaspar Bluntschli, autore nel 1869 di un
fortunato trattato di politica in cui si sosteneva tra l'altro la
necessità dell'unione fra i partiti medi, ossia conservatori
e liberali, al fine di impedire la prevalenza di quelli estremi
(reazionari e radicali) nella conduzione dello Stato. Tradotta negli
anni settanta dell'Ottocento in Francia e in Italia, apprezzata e
citata, non a caso, da Marco Minghetti (v., 1881), l'opera di
Bluntschli esercitò una forte influenza in tutta Europa (v.
Pombeni, 1994, p. 110) e fornì ulteriori argomenti ai
sostenitori del governo di coalizione come alternativa al modello
bipartitico tipico dei paesi anglosassoni (ma in verità non
sempre funzionante in quel periodo nemmeno in Gran Bretagna).
Il principale campo di applicazione di queste teorie - e il
più importante precedente del trasformismo depretisiano - va
sicuramente individuato nella Francia degli esordi della Terza
Repubblica: la cui nascita stessa - a partire dalla tribolata
approvazione da parte dell'Assemblea Nazionale delle lois
constitutionelles nel 1875 - si dovette a un accordo fra i 'centri'
(monarchici orleanisti e repubblicani moderati), e la cui intera
vita sarebbe stata poi segnata dal rapido succedersi di instabili
governi di coalizione. La storia politica della Francia repubblicana
conobbe, è vero, un dinamismo più pronunciato rispetto
a quella dell'Italia liberale e consentì persino un blando
simulacro di alternanza fra coalizioni a prevalenza conservatrice e
alleanze a tinta progressista (si trattava però, appunto, di
un simulacro, in quanto l'alternanza era dovuta più agli
spostamenti dei gruppi in Parlamento che non ai verdetti
elettorali). Ma i due sistemi politici funzionavano in modo molto
simile. Analoghe erano, in primo luogo, le cause di fondo che, nei
due paesi, facevano apparire praticamente obbligata la via
dell'unione dei centri e che, riferendosi all'esigenza di tutelare
le istituzioni dagli attacchi delle forze politiche estremiste
(anche se in Francia le istituzioni da difendere e da consolidare
erano quelle repubblicane), rinviavano implicitamente all'assenza, o
all'insufficienza, di un patto originario largamente condiviso, di
un quadro di legittimità comunemente accettato. Analoghe,
nella sostanza, erano anche le conseguenze pratiche del modello
adottato: mobilità delle maggioranze, instabilità
degli esecutivi, scarsa trasparenza dei processi decisionali,
corruzione politica favorita dall'assenza di quel fondamentale
correttivo che è rappresentato dall'alternanza di governo per
via elettorale (o dalla semplice possibilità che essa si
verifichi).
In questo senso, il trasformismo italiano non merita né il
giudizio assolutorio formulato nella sua Storia d'Italia da
Benedetto Croce (v., 1928), il quale giungeva a negare al concetto
ogni dignità di categoria politica, né le definizioni
severe che, sulla scorta delle polemiche democratiche di fine
Ottocento, ne hanno dato alcuni fra i maggiori esponenti della
storiografia di questo dopoguerra: sia quelli di formazione marxista
(v. Carocci, 1956 e 1992; v. Candeloro, 1970), che ne hanno messo in
rilievo soprattutto i risvolti conservatori e immobilisti, sia
quelli di formazione salveminiana (v. Vivarelli, 1991), che hanno
insistito sui suoi effetti deleteri sul costume politico e sulla
funzionalità delle istituzioni. In particolare, in un'ottica
di comparazione con altre coeve esperienze europee, sembra eccessivo
il giudizio formulato da Carocci (v., 1992, p. 10), uno dei
più autorevoli studiosi del trasformismo: "una sottospecie
degenerata della maggioranza di centro alla francese". È
forse più corretto parlare della versione italiana -
né particolarmente corrotta né specialmente virtuosa -
di un modello di governo, e di sistema politico, affermatosi in
molti regimi parlamentari europei del tardo Ottocento (non solo in
Italia e in Francia) in alternativa a quello tendenzialmente
bipartitico sviluppatosi nei paesi anglosassoni.
La notevole fortuna incontrata da questo modello va ricondotta in
primo luogo alla lentezza e alla difficoltà del processo di
impianto sul continente delle istituzioni parlamentari e, in
prospettiva, di quel sistema che oggi siamo soliti definire
'democrazia liberale'. Il problema, infatti, non sussisteva nemmeno
nei regimi autoritari, o semiautoritari, dell'Europa centrale, dove
i governi potevano in qualche misura prescindere dall'appoggio delle
assemblee rappresentative. Là dove, invece, la sorte del
potere esecutivo era in vario modo collegata alle manifestazioni
della volontà popolare, tanto più se espresse
attraverso forme di suffragio allargato o universale, l'esigenza di
proteggere le maggioranze parlamentari dalla possibile prevalenza
delle tendenze estremiste si imponeva come prioritaria. Soprattutto
nei paesi - ed erano i più - in cui erano ampie le fratture
politico-ideologiche (o anche religiose o etnico-linguistiche, si
veda il caso del Belgio), forte l'eredità dei conflitti
passati e debole il consenso alle istituzioni, la competizione
bipolare propria del modello anglosassone appariva troppo
pericolosa, in quanto era ritenuta, a torto o a ragione, capace di
rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture preesistenti e di
offrire più larghi spazi di intervento alle forze della
rivoluzione e a quelle della reazione assolutistica.
Nati, come si è visto, per rispondere a un'esigenza
legittima, in una fase in cui le istituzioni liberaldemocratiche
stavano muovendo in molti paesi i loro primi passi, i sistemi lato
sensu trasformistici mostrarono nel tempo una spiccata tendenza
all'autoperpetuazione. Le grandi maggioranze centriste tendevano
infatti fatalmente a usurarsi e, contraddicendo allo scopo
originario per cui erano sorte, lasciavano spazi sempre più
larghi, sulle loro ali estreme, allo sviluppo di opposizioni
'irresponsabili', la cui crescita, a sua volta, serviva a ribadire
l'esigenza di far blocco al centro. Il sistema sopravviveva
ammettendo nell'area della legittimità singole componenti
delle opposizioni, che, nel momento in cui si costituzionalizzavano,
venivano però sostituite da nuove forze radicali. Il ricambio
avveniva dunque attraverso meccanismi di cooptazione e di
esclusione, mai mediante un fisiologico processo di alternanza per
via elettorale: il che certo non giovava né alla
funzionalità del sistema né alla sua moralità.
Questo schema di funzionamento - che facilmente può sfociare
nel modello del "multipartitismo polarizzato" descritto da Giovanni
Sartori (v., 1982) - è tipico di tutti i sistemi politici
originariamente fondati sul blocco al centro con esclusione delle
estreme. Ma proprio in Italia, paese d'origine del trasformismo
storico, esso ha trovato le applicazioni più integrali e
più sistematiche: tanto da informare di sé, pur
nell'alternarsi delle leggi elettorali e degli assetti
istituzionali, oltre un secolo di storia politica del paese.
4. Trasformismo e storia d'Italia
Se il trasformismo inteso in senso etico (o addirittura come dato
antropologico) ha un significato soprattutto polemico, e non aiuta
molto a capire la storia italiana, il trasformismo inteso nel senso
'sistemico' appena descritto si rivela invece una chiave utile per
leggere la vicenda politica nazionale in un'ottica di lungo periodo
(v. Sabbatucci, 1990; v. Salvadori, 1994). Nel caso italiano,
infatti, alla naturale tendenza del sistema all'autoperpetuazione,
si aggiunse l'anomala persistenza di quei fattori di debolezza del
tessuto politico-istituzionale (forti contrasti ideologici e ampie
fratture sociali, carenza di valori generalmente condivisi, presenza
di agguerrite opposizioni antisistema) che abbiamo visto essere
all'origine della tendenza a far blocco al centro.
Secondo molti studiosi (v. Mack Smith, 1959; v. Maranini, 1967; v.
Galli, 1975), la connotazione trasformistica del sistema politico
italiano risalirebbe addirittura al periodo preunitario, più
precisamente al "connubio" fra "centro-destro" e "centro-sinistro"
promosso da Cavour e Rattazzi nel 1852 in sede di Parlamento
subalpino. In realtà, anche a prescindere dalla valenza
patriottica e progressiva di quell'operazione - valenza
vigorosamente sottolineata da Rosario Romeo (v., 1977, t. 2, pp.
59-80) -, va ricordato che essa era chiaramente legata a una precisa
strategia politica (l'alleanza fra la monarchia sabauda e il
movimento liberale-nazionale) e che, a unità raggiunta
(grazie anche all'autoesclusione dalla vita politica di cattolici
intransigenti e legittimisti), il Parlamento italiano riassunse una
configurazione tendenzialmente bipolare, imperniata sulla divisione
fra liberali moderati e liberali progressisti.
L'operazione varata trent'anni dopo da Depretis, svincolata da ogni
chiara opzione programmatica, ebbe invece un carattere
irreversibile. La grande maggioranza da essa creata non solo
occupava saldamente il centro dello schieramento politico, ma
coincideva, almeno in teoria, con l'area della legittimità
costituzionale e dunque non ammetteva alternative che non fossero
traumatiche. Per rompere quello schema, la classe dirigente liberale
avrebbe dovuto dividersi secondo una netta linea di separazione fra
conservatori e progressisti: il che, però, non poteva fare se
non a prezzo di far entrare nel gioco politico (in funzione
determinante e non solo subalterna) le forze cattoliche e
socialiste, la cui lealtà nei confronti delle istituzioni
continuava a essere quanto meno dubbia. Nei primi anni del secolo
parve, per la verità, che Giolitti e Sonnino si presentassero
come i possibili leaders, in ambito liberale, di due schieramenti
alternativi, ispirati a programmi contrapposti.
In realtà Giolitti e Sonnino, come avevano fatto prima di
loro Crispi e Rudinì, usavano i loro programmi per proporsi
come capi non già di due maggioranze diverse, ma della stessa
'grande maggioranza' liberale, occasionalmente allargata a questo o
a quello spezzone delle forze già escluse dall'area della
legittimità. Paradossalmente, fu il 'conservatore' Sonnino a
portare per la prima volta i radicali al governo, mentre fu il
'progressista' Giolitti a promuovere, sia pur in forme graduali e
coperte, i primi tentativi di inserimento dei cattolici nel quadro
istituzionale dello Stato liberale.
Il sistema fondato sulla grande maggioranza superò bene la
prova del suffragio 'quasi universale' maschile (grazie anche
all'escamotage del patto Gentiloni, che permise alla classe
dirigente di utilizzare a suo vantaggio almeno una parte del voto
cattolico). E sopravvisse persino alla gravissima spaccatura
apertasi nell'area liberale sulla questione dell'intervento nella
grande guerra: la frattura tra interventisti e neutralisti si
manifestò a livello di schieramenti parlamentari solo alla
fine del 1917 (senza peraltro esercitare un'influenza di rilievo
nella formazione delle maggioranze governative) e si chiuse
definitivamente nella primavera-estate del 1920, con la formazione
dell'ultimo ministero Giolitti.
A quel punto, però, il sistema era già entrato in
crisi, non per i contrasti interni alla maggioranza costituzionale,
ma per l'improvviso venir meno di quella maggioranza in seguito
all'esito traumatico delle elezioni del novembre 1919: esito
spiegabile a sua volta con la concomitanza di una gravissima
emergenza politico-sociale (quella del 'biennio rosso' 1919-1920) e
di una riforma elettorale (la rappresentanza proporzionale con
scrutinio di lista) che sconvolgeva d'un colpo il collaudato sistema
di rapporti fra eletti ed elettori su cui il personale politico
liberale aveva costruito le sue fortune.
La perdita dell'autosufficienza da parte della classe dirigente di
matrice risorgimentale non costituiva però la premessa di un
nuovo sistema, alternativo al vecchio. Al contrario, la presenza
minacciosa in Parlamento di una fortissima opposizione antisistema
(i 156 deputati di un Partito socialista schierato su una linea di
radicale rifiuto delle istituzioni) obbligava tutte le altre forze a
confluire in una stessa maggioranza per dare al paese un
qualsivoglia governo; in particolare costringeva la variegata
galassia liberal-democratica a cercare la collaborazione di un
partito cattolico ormai strutturatosi in moderna formazione di massa
ed emancipatosi dalle logiche subalterne del clerico-moderatismo
d'anteguerra. Le ultime maggioranze parlamentari dell'età
liberale furono dunque anch'esse trasformiste in senso lato: nel
senso cioè che erano prive di alternative, non avevano una
connotazione programmatica precisa ed erano guidate da una logica di
mera sopravvivenza.
Quelle maggioranze, però, non potevano più disporre di
alcuni degli strumenti classici del vecchio trasformismo (il
rapporto personale, non mediato dalle strutture partitiche, fra il
capo del governo e i singoli deputati, il legame fra il deputato e
il suo collegio); e mancavano di quel minimo di omogeneità
che la comune matrice liberal-risorgimentale aveva bene o male
assicurato alle maggioranze prebelliche: causa non ultima, questa,
del collasso funzionale dell'intero sistema e della conseguente
ascesa al governo di Mussolini.
Lo stesso Mussolini, peraltro, dopo aver fondato il suo primo
esperimento di governo sulla preesistente maggioranza
liberal-popolare, si fece promotore di una riforma elettorale che
prevedeva, come condizione per il successo del fronte governativo,
la concentrazione di tutte le forze autenticamente 'nazionali' in un
unico 'listone'. Quella realizzata con la legge Acerbo del 1923 e
poi con le elezioni del 1924 fu certamente molto più che una
semplice operazione trasformista: fu la premessa necessaria per
l'instaurazione di una dittatura monopartitica. Essa fu però
grandemente facilitata da una tradizione politica che considerava
normale la concentrazione di tutte le forze 'sane' in un unico
blocco (e anche da una cultura giuspubblicistica che vedeva nel
parlamento più un'articolazione del potere statale che
un'espressione della pluralità dei soggetti operanti nella
società). Questa tendenza di fondo non mutò nella
sostanza nemmeno dopo la caduta del fascismo e la riconquista delle
libertà democratiche. A guerra conclusa, parve naturale che i
partiti che avevano guidato la lotta di liberazione (o almeno i
maggiori fra di essi) continuassero a governare insieme il paese.
Quando, nel 1947, la coalizione tripartita si ruppe per iniziativa
di De Gasperi, le sinistre furono espulse non solo dal governo, ma
anche da una ridefinita area della legittimità, entro la
quale sarebbero poi state riammesse in tempi e modi diversi (i
socialisti col centrosinistra, i comunisti con la solidarietà
nazionale), contestualmente al loro ingresso nelle maggioranze
governative: senza mai assumere dunque la figura del polo
alternativo in un quadro di opposizione costituzionale.
Leggere la storia politica repubblicana nella sola chiave della
continuità col vecchio trasformismo sarebbe riduttivo, oltre
che scorretto. Il modello originario si fondava, come si è
visto, su maggioranze mobili costruite giorno per giorno attraverso
gli accordi con i singoli deputati o con i gruppi di interesse
locali: il tutto in assenza di schieramenti partitici e di gruppi
parlamentari fortemente strutturati. Quello della 'democrazia dei
partiti' attuato in età repubblicana (e già
parzialmente sperimentato negli anni successivi alla prima guerra
mondiale) era invece un modello rigido, i cui equilibri erano in
larga parte predeterminati in base alle intese di vertice fra le
segreterie. La rigidità del sistema e la solidità
delle maggioranze da esso espresse risultavano però attenuate
a causa della frammentazione partitica, favorita dalla legge
elettorale proporzionale, e delle divisioni interne alle formazioni
politiche maggiori: ragion per cui, nella pratica, la vita dei
governi era legata a un complicato gioco di mediazioni fra partiti e
correnti che aveva qualche punto di contatto con quello messo in
atto dai leaders parlamentari dell'Italia prefascista. Restava poi,
come costante immutabile, la sostanziale inamovibilità delle
coalizioni di governo, instabili e conflittuali ma inattaccabili per
via elettorale, e suscettibili di cambiamento solo attraverso
meccanismi di cooptazione e di esclusione.
La 'rivoluzione maggioritaria' dei primi anni novanta - segnata
soprattutto dall'esito vittorioso del referendum del 1993
sull'elezione del Senato - ha avuto per obiettivo proprio la rottura
di questo modello e l'avvento di una democrazia bipolare di stampo
anglosassone. Il tempo dirà se e in quale misura l'obiettivo
sia stato raggiunto. È certo comunque che le resistenze
soggettive e gli ostacoli oggettivi con cui si è dovuto
misurare il processo di transizione verso un modello compiuto di
democrazia dell'alternanza vanno in larga parte attribuiti
all'eredità del trasformismo: inteso come scelta di sistema e
non come mera espressione di un costume politico, come prodotto non
tanto di una irresistibile vocazione al compromesso, quanto
piuttosto di una scarsa propensione a riconoscersi in un quadro di
regole e di valori condivisi.