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Torniamo allo Statuto è il titolo di un articolo pubblicato il 1º gennaio 1897 nella rivista Nuova Antologia. Ne fu autore il deputato della Destra storica Sidney Sonnino (già ministro e futuro Presidente del Consiglio del Regno d’Italia) che con tale scritto denunciò l’inefficienza delle istituzioni e le reciproche ingerenze dei poteri fra governo e Parlamento.
Secondo Sonnino la grave situazione si sarebbe risolta,
semplicemente, applicando la carta costituzionale dello Statuto
Albertino allora in vigore. Quest’ultimo prevedeva, infatti, che
il potere esecutivo fosse di competenza del Re quale unico
tenutario delle sorti del governo che sarebbe stato così
svincolato dai giochi parlamentari.
L'articolo ebbe grande risonanza ma non un seguito legislativo,
poiché sarebbe stato impopolare e anacronistico tornare a
istituzioni che non contemplassero un controllo del governo da
parte del Parlamento.
L’articolo
Alla fine del XIX Secolo, la convinzione che il sistema
parlamentare del Regno d'Italia fosse oggetto di degenerazioni che
lo avevano allontanato dallo Statuto albertino del 1848 era
largamente condivisa. Sidney Sonnino riprese questo giudizio nel
famoso articolo Torniamo allo
Statuto pubblicato anonimo il 1º gennaio 1897 nella
rivista Nuova Antologia.
L'ingerenza del Parlamento sul governo
Nell'articolo Sonnino denunciò il disprezzo della nazione
per il parlamentarismo così come veniva praticato e nello
stesso tempo rilevò il pericolo del socialismo da un lato e
del clericalismo dall’altro. Segnalò lo sconfinamento del
potere legislativo (soprattutto della Camera dei deputati) in
quello del sovrano nel momento in cui i governi non dipendevano
più (come previsto dallo Statuto Albertino) dal re ma dal
sostegno delle mutevoli maggioranze parlamentari.
La reazione del governo
In questo contesto il governo, dipendendo dalla Camera dei
deputati, secondo Sonnino reagiva in modo da costringerla
all’obbedienza attraverso le sue emanazioni nei singoli collegi,
«promettendo favori e minacciando dispetti e danni».
Invece, rilevava l'autore dell'articolo, se si fosse tornati alla
lettera dello Statuto Albertino, che identificava nel re il potere
esecutivo, si sarebbe risanata la vita parlamentare: il deputato
si sarebbe liberato dalle pressioni degli elettori che chiedevano
favoritismi attraverso il governo, e i ministri avrebbero evitato
le illecite ingerenze parlamentari. Succube della «questione
cosiddetta politica e di fiducia» che si poneva
frequentemente, la Camera risultava inoltre costretta a lasciar
passare provvedimenti che disapprovava piegandosi ai decreti legge
del governo.
Far dipendere i ministri dal re, però, non significava
secondo l’autore dell’articolo che il governo non potesse
dipendere anche dai voti della Camera, sempre che questi fossero
derivati «da una vera volontà ponderata e costante, e
rivelino un serio movimento dell’opinione pubblica».
L'ingerenza del governo sul re e sul Parlamento
L’articolo proseguiva con la denuncia del modo di condurre le
crisi di governo, con le minacce al re di disordini nel caso non
si favorisse questa o quell’altra parte politica,
dell’indifferenza per i programmi, del modo di farsi temere e di
illudere.
L’autore passava poi a descrivere lo strapotere del governo una
volta costituito. La Camera che avesse mostrato di ribellarsi si
sarebbe vista minacciare lo scioglimento senza che questo venisse
più impugnato dal re. Né in caso di sfiducia da
parte del Parlamento il governo aveva l’obbligo assoluto di
dimettersi poiché la revoca era in effetti di competenza
del sovrano. La Camera pagava così, duramente, l’ingerenza
nei poteri del re avvalendosi della facoltà di controllare
le sorti del governo.
Il tentativo di riunire i conservatori
L’articolo costituiva soprattutto un vano tentativo di chiamare a
raccolta tutti i liberali e i conservatori per la costituzione di
un grande partito anticlericale e antisocialista che avrebbe
potuto più efficacemente combattere i suoi avversari con
delle istituzioni più efficienti.
Esso ebbe un enorme scalpore, sia perché molti erano
convinti delle opinioni che conteneva ma non avevano il coraggio
di esporle, sia perché ricevette diverse e severe critiche.