IL CONCETTO DI LAVORO NELLA CIVILTA’ FAUSTIANA
Pasquale Lucio Losavio
http://pasqualelosavio.xoom.it/pasqualelosavio/
4.1 L’Homo faber: il contesto storico.
Homo faber viene pubblicato nel 1929, ben
otto anni dopo le analisi della Crisi mondiale e di Relativisti
contemporanei, il clima storico e culturale è decisamente
mutato. Tilgher ne viene influenzato nel suo atteggiamento teorico.
Rimane fedele alla sua costante attenzione al mutare degli
avvenimenti, coerente con la sua visione dello stretto legame tra
vita e filosofia per cui, restando fermi alcuni motivi legati
all’essenza, quasi genetica, del pensatore, tutto il resto si
modella sul perenne e irrazionale fluire della Vita e della Storia.
La stretta operata dal regime fascista
sulla libertà di espressione dopo l’attentato a Mussolini, la
chiusura del Mondo di Giovanni Amendola e, infine, le misure di
pubblica sicurezza cui Tilgher viene sottoposto, fanno si che il suo
atteggiamento si faccia formalmente prudente. Insieme a tutto
ciò, si acuì, in lui, la consapevolezza che, ormai, le
visioni della Crisi mondiale, cioè l’imminenza inevitabile
del crollo della società borghese, si allontanavano. Nasce in
lui la convinzione che le spinte disgregatrici possano essere
convogliate nell’ambito di una società modernizzata e
tecnicizzata che allontani da sé la prospettiva di una fine
imminente.
La valutazione sul futuro della
società capitalistica si fa meno catastrofica. Gli anni in
cui maturano le analisi di Homo faber, vedono la stabilizzazione del
regime ( sono gli anni del Concordato con la Chiesa ) e l’aprirsi di
un vivace dibattito sulla possibilità di una svolta
modernizzatrice del Fascismo. Si spiegano così i giudizi
positivi, di Tilgher, sui nuovi processi di razionalizzazione del
lavoro o, per esempio, sui contenuti della Carta del Lavoro fascista
considerata superiore alla legislazione sociale del bolscevismo.
E’ una parentesi ottimistica nella
prevalente cupezza delle visioni tilgheriane, un atto di fiducia
nella razionalità dei processi in atto nella società.
La fiducia che questi processi potessero frenare la disgregazione
della Civiltà capitalistica, risolvendo in unità i
conflitti sociali.
In Homo faber, Tilgher intende analizzare
come il concetto di lavoro si è trasformato lungo i secoli
sino ad arrivare al concetto di lavoro proprio della Civiltà
capitalistico-faustiana che, impregnando di sé tutti gli
ambiti, la definisce fin nella sua animità. Il concetto di
lavoro viene sentito come il motore interno, il fulcro ideale,
attraverso il quale si può penetrare nell’anima stessa di una
determinata Civiltà.
Il problema della ‘santità’ del
lavoro era poco sentito, all’epoca, come concetto filosofico,
interessava poco i filosofi, mentre era stato approfondito dai
sociologi e dagli studiosi di economia, attenti ai processi di
razionalizzazione del lavoro e, in special modo, alla nuova
organizzazione del lavoro all’interno delle fabbriche. Da questo
punto di vista, possianmo considerare, ad esempio, che le analisi di
Homo faber, anticipano, da una prospettiva filosofica, le stesse
analisi che il Gramsci dei Quaderni, più tardi,
affronterà in Americanismo e fordismo.
4.2 Le matrici filosofiche: Bergson, Fichte, Marx.
Homo faber è sicuramente il libro di
Tilgher più conosciuto all’estero. Già dallo stesso
titolo dell’opera è chiara la matrice bergsoniana della
concezione di Tilgher. Homo faber è un concetto chiave
dell’évolution créatrice ( 1907 ) di Bergson che opera
la distinzione tra uomo e animale proprio sulla base della
capacità, dell’uomo, di atti intelligenti che si trasformano
in capacità di fabbricare oggetti, utensili, che poi adopera
nell’attività fabrile.
Tilgher celebra il pensiero di Bergson, indicandolo
come il teorico della civiltà industriale e ponendo uno
stetto legame tra l’élan vital bergsoniano e l’impulso umano
alla costruzione tecnica.
“L’umile strumento produttivo, la
macchina…diventa qualcosa attraverso cui l’evoluzione creatrice
perpetua il suo sforzo incessante di creazione…E’ rinuncindo
all’istinto, allo strumento organico, è buttandosi a
fabbricare strumentri artificiali che la vita attraverso l’uomo
assicura la perennità dello slancio vitale che era andato ad
impantanarsi nelle sabbie dell’istinto e preserva e perpetua la
libertà. Nel pensiero di Bergson, dunque la tecnica
industriale dell’uomo è la continuazione, nel senso
più rigoroso della parola, dello slancio vitale che ha creato
i mondi…Nessun filosofo ha mai posto più in alto, ha
più degnamente celebrato il lavoro produttivo dell’uomo.
Nessuno prima di lui aveva detto con tanta chiarezza che è in
quanto fabbro che l’uomo celebra la sua divinità. E’ grazie a
Bergson che homo faber diventa homo sapiens.”
E’ certamente una visione unilaterale del
pensiero di Bergson. Lo stesso Bergson avvertirà in seguito i
pericoli insiti in una visione così celebrativa del lavoro
fabrile. Anche Hannah Arendt rileva, nel suo Vita activa, il nesso
stretto tra la scuola bergsoniana e il pensiero di Tilgher, il quale
“…sottolinea il carattere centrale dell’idea del lavoro, chiave
della nuova concezione e immagine della vita.”
Bergson concepisce la tecnica come “…motore
ultimo della storia…” e in ciò è in accordo con Marx
ma , la sua filosofia, va ancora oltre in quanto “la sua filosofia
della tecnica supera i confini della filosofia della storia, diventa
un capitolo della storia della Vita e dell’Universo.” Raggiungendo
così “…le profonde intuizioni dei grandi maestri della
Rinascenza italiana: Marsilio Ficino e Giordano Bruno e dei mistici
ebraici.”
Il capitolo in cui sono inserite queste
considerazioni, Il concetto di lavoro nella filosofia del secolo
XIX, è teso a dimostrare che “da Kant al Pragmatismo e a
Bergson la curva di sviluppo della filosofia dello spirito tende
sempre più alla concezione dello spirito come
produttività, come fattività, come
demiurgicità, e alla concezione di questa come
fabbrilità, come lavoro industriale.”
“Il mondo, la natura, rimanda alla
Conoscenza: afferma l’idealismo kantiano e postkantiano. La
Conoscienza rimanda alla Volontà e alla Vita: affermano con
sempre maggiore coscienza le correnti irrazionalistiche e
vitalistiche dell’ultimo mezzo secolo di speculazione. Il mondo
è in quanto lo spirito lo conosce. Lo spirito conosce in
quanto conoscere è funzione ineliminabile e necessaria del
volere, del vivere. E vivere è sempre, in vario modo,
realizzarsi come unità attraverso il caos della
molteplicità, è sempre imporre un ordine al disordine,
senso all’insensato, è sempre sforzo tensione
fattività demiurgicità, in una parola: lavoro.”
Antesignano di questa concezione demiurgica
è senz’altro Fichte. Un autore certamente vicino alle
concezioni tilgheriane e da lui approfonditamente studiato. La
tensione che arde nell’uomo moderno di dominare la natura, senza che
mai questa tensione si plachi in una calma contemplazione, ma sia
sempre una febbre di attività che si svolge all’infinito con
un Io che deve ridurre alla disciplina il non-io, che sempre gli si
pone contro, è sicuramente di derivazione fichteana. Tilgher
accomuna in questa concezione anche Marx come il lettore più
coerente dell’ ‘idealismo soggettivo fichteano’.
“Secondo Marx, che in ciò è
fedele discepolo della Dottrina della scienza di Fichte, lo spirito
umano è una forza o potenza inizialmente vaga indeterminata
incosciente, che acquista coscienza determinazione concretezza solo
a patto di avvertire in sé, sotto forma di urto e di arresto,
un limite che le impedisca di espandersi liberamente. Il limite, in
quanto avvertito e sentito come tale, trasforma quella forza vaga
diffusa indeterminata in bisogno acuto e pungente, in cocente
insoddisfazione, e perciò stesso la spinge ad urtare contro
il limite, a cercare di rimuoverlo e annullarlo. Il limite,
l’oggetto, ha così doppia funzione: da una parte arresta,
dall’altra stimola l’attività…Esso è, insieme,
negazione e condizione dell’attività.”
“Così, in questa concezione di Marx
il lavoro assurge ad importanza demiurgica. Filosofare è
agire, è produrre, è lavorare. Conoscere il mondo
è trasformare il mondo. Il vero filosofo è il
lavoratore. In questo senso Marx disse che il proletariato
rivoluzionario era il legittimo erede della filosofia classica
tedesca.”
E’ su questa visione di
‘demiurgicità’, che presuppone sempre una materia su cui
operare ed è quindi differente del concetto di ‘creazione’,
si fonda la ‘visione moderna della vita’ che Tilgher intende
avvalorare con il suo Homo faber.
4.3 Il concetto di lavoro nella storia.
Fedele alla sua visione della intima
diversità tra mondo antico e mondo contemporaneo, ‘la visione
moderna della vita’ è in netto contrasto con la visione che,
del lavoro, ha la civiltà classica.
“I Greci sentiranno il lavoro
essenzialmente come pena e dolore: basterebbe a dimostrarlo il fatto
che la parola che in greco significa lavoro, ponos, ha la stessa
radice della parola latina poena…e per i Greci, invece, esso andava
inseparabilmente congiunto ad ogni specie di lavoro materiale.”
L’atteggiamento di disprezzo e il senso di
infelicità legati al lavoro, “…è causa ed effetto
insieme dell’istituto della schiavitù.”Ma tutto discende e
converge nella generale esperienza e visione del mondo ellenica.
“Per il Greco ( l’ho dimostrato ne La
visione greca della vita ) il mondo esterno delle cose e degli
oggetti è divenire senza fine di fenomeni che sorgono e
trapassano, nascono e muoiono, si generano e si corrompono, girando
continuamente in circolo sopra sé medesimi, senza principio
ne fine, in una vicenda incessante, eterna e vana. Salvarsi
dall’oceano in perenne tempesta del mondo esteriore e ritirarsi
nelle profondità della propria anima, sottratta al
cangiamento, assorta in una inalterabile identità: tale
l’ideale che il Greco assegna alla vita.”
Una visione che richiama alla mente l’
‘eterno ritorno’ nietzscheano in cui sono inutili gli sforzi umani
di modificare un mondo che ritorna eternamente uguale e rende
inefficacie la ‘demiurgicità’ dello spirito. Stranamente il
nome di Nietzsche non appare in Homo faber. Il mondo greco appariva
a Tilgher come il regno di un ‘misticismo della calma’, di una
saggezza serena, che proprio Nietzsche aveva sconvolto demolendo il
mito apollineo dello spirito greco. E del resto anche nel mondo
classico, la concezione del lavoro, aveva risvolti ben più
complessi di quelli del solo disprezzo e rifiuto.
Dove il lavoro, pur rimanendo pena e
dolore, trova una prima giustificazione è nel mondo ebraico.
Il lavoro diventa espiazione sulla Terre del peccato originale.
L’ebreo con il lavoro riscatta il peccato dei progenitori, ma
è con il riposo del sabato che partecipa del Divino: “Col
riposo del sabato l’uomo partecipa all’altissima quiete che
seguì i giorni della creazione, e affranca per un po’
sé stesso e le creature, intelligenti e brute, che sono al
suo servizio dalla dura legge del lavoro.”
La prospettiva comunque comincia a
cambiare, lo sguardo sul mondo e la vita comincia a mutare.
“Il mondo così non è
semplicemente essere, è dover essere; non è
realtà già data e compiuta che si tratta solo di
contemplare, è un ideale che deve essere realizzato dallo
sforzo dell’uomo; la vita non è eterno ritorno sempre delle
medesime cose e dei medesimi eventi, è graduale e continuo
processo di restaurazione dell’armonia primigenia distrutta. Il
termine di questo processo si proietta alla fantasia ebraica come il
Regno di Dio in terra, inteso come restaurazione dell’antica armonia
tra giustizia e felicità da attuarsi tutta in una volta e una
volta per tutte per divino soprannaturale subitaneo intervento.”
Da un lato l’attesa escatologica e la
febbre messianica distolgono l’attenzione dal lavoro materiale,
dall’altro, nella letteratura rabbinica, l’attesa si stempera in una
graduale realizzazione del Regno di Dio in Terra, che rivaluta la
dignità del lavoro. Tuttavia, il Regno di Dio è ancora
il regno dell’ozio beato, dove tutto ci è concesso senza
sforzo. E’ il ritorno allo stato originario del Paradiso terrestre.
Con Gesù, nella veste
contraddittoria rispetto all’argomento che ne danno i Vangeli, il
lavoro e le ricchezze cessano di essere un male, diventano
semplicemente indifferenti.
“Lavoro e ricchezza sono da Gesù
condannati solo in quanto generano preoccupazione delle cose
materiali ed effimere, e ne sono generati, e perciò
distolgono da Dio e dal Regno, la sola cosa che importi. In
sé e per sé. essi sono per Gesù qualcosa di
eticamente indifferente, che diventa eticamente negativo sol quando
per esso l’uomo si attacca al mondo e dimentica Dio. L’antitesi
escatologica tra felicità materiale e valore religioso
è così superata.”
Nel primo Cristianesimo, in cui è
ancora viva l’attesa escatologica, il lavoro diviene solo lo
strumento con cui si estrinseca l’amore e la carità verso i
fratelli. In questo senso è positivo.
“Nondimeno, nessun valore intrinseco,
nessuna autonoma dignità è ancora riconosciuta al
lavoro. Se questo ha una qualche nobiltà spirituale, essa gli
viene esclusivamente dal fine cui serve come mezzo. Per sé,
non ha importanza né valore alcuno.” Naturale in una
comunità che, pur vivendo nel mondo terreno, ne attende la
fine e non sente alcuno stimolo a migliorare, col lavoro, le proprie
condizioni.
La Chiesa, con il suo progressivo
incarnarsi nel mondo, con l’allontanarsi della spinta escatologica,
si pone con maggiore urgenza il problema del lavoro. Sono Agostino e
Benedetto che danno una prima sistemazione del problema. L’esempio
che si addita è il lavoro dei monaci nei chiostri. Il lavoro
è visto come mezzo di purificazione e di carità e non
deve mai superare i bisogni della semplice sussistenza. Ma ancora il
lavoro non è un valore a sé stante, è sempre
relegato in un ambito subordinato rispetto alla nuda contemplazione
delle cose divine. “Perciò ogni profondo impulso a legarsi
alla terra e a mutarne l’aspetto col lavoro è stroncato alla
radice.” Il fine dell’uomo non è mutare la faccia a questo
mondo perché egli partecipa di un mondo, il Divino,
già compiuto e perfetto.
Per la sintesi scolastica di Tommaso, il
lavoro diventa necessità di natura ed unica fonte legittima
della proprietà e del guadagno. La mobilità sociale
viene esclusa. le corporazioni e i ceti sono come fissati in
gerarchia dalla legge divina. Le cattedrali offrono, nelle loro
raffigurazioni, esempi del lavoro quotidiano che acquista un valore
nel senso di una fatica religiosamente sentita e sopportata. L’usura
è condannata, ma non l’uso industrioso del danaro che
non è ne bene ne male. Il giudizio morale dipende dal suo
uso.
“Lavoro, dunque, sì, ma solo nei
limiti della legge di natura che è legge divina.E dinanzi a
questa legge il lavoro non assurge mai alla dignità di fine
autonomo, resta semplice mezzo subordinato allo scopo che è
la vita, così come questa non assurge mai alla dignità
di fine in sé ma resta semplice mezzo subordinato al vero
scopo che è l’aldilà. Il lavoro fine a sé
stesso, il lavoro pel il lavoro è un concetto che la Chiesa
ripudia per la stessa logica interiore per cui respinge il concetto
della vita fine a sé stessa.”
“Fu il Protestantesimo ad operare nel
concetto di lavoro quella profonda rivoluzione spirituale in forza
della quale esso è giunto ad essere il concetto base e chiave
della visione moderna del mondo e della vita.”
Il lavoro, per Lutero, è servizio
divino e la parola tedesca beruf diviene sinonimo di vocazione,
acquistando valore religioso. “Se l’attività, ogni
attività, in quanto tale, è divina, cade ogni ragione
di differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e
professione. Il principio della giustificazione per la sola fede
negando il valore delle opere buone in quanto tali permette che le
energie si volgano tutte al mondo della materia.”
La rivoluzione viene portata avanti da
Calvino. Il concetto di predestinazione, invece di condannare l’uomo
all’inazione, lo stimola angosciosamente a verificare nella vita
terrena, attraverso i frutti del proprio lavoro incessante, le
scelte imperscrutabili di un Dio da cui lo divide un abisso.
“L’individuo è fronte a fronte con
l’imperscrutabile maestà dell’onnipotenza divina, in una
solitudine sacra e infinita: nel terribile silenzio che gli si
è fatto intorno egli non ode più che la voce della sua
coscienza che gli parla della sua elezione, della sua
responsabilità illimitata, dell’obbligo che gli incombe di
servire Dio e di manifestarne in terra la gloria.”
“Si sprigiona così un attivismo
duro, volontario, teso, che ignora effusioni sentimentali, slanci
del cuore, estasi mistiche, tumulti passionali. L’individuo
assogetta sé e il mondo, cose e persone, a un’implacabile
disciplina volitiva e razionale perché dal mondo negato e
spezzato nella sua immediatezza e plasmato secondo la volontà
e i piani della comunità degli eletti splenda la gloria della
divina maestà. Il calvinista agisce sul mondo delle creature,
ma senza nessun amore per la creatura in quanto tale. Questa
è per lui mezzo e non fine, strumento e non meta, e vale solo
pel fine sacro cui è assogettata. Il calvinista è nel
mondo e agisce sul mondo, in vista non già del mondo, ma del
sopramondo: egli è un aceta mondano.”
Tilgher, aderendo qui alle note tesi di
Weber e Troeltsch, afferma che, con il Calvinismo, si plasma un
nuovo tipo umano, l’uomo della Civiltà capitalistica.
“…è il lavoro metodico, disciplinato, razionale, uniforme,
perciò specializzato. Scegliersi una professione ed
esercitarla con tutta coscienza è dovere religioso. Il
Calvinismo getta così le basi della tremenda disciplina della
fabbrica moderna ( ben diversa dalla molle disciplina
dell’artigianato ), tutta fondata sulla divisione del lavoro.”
Ancora, nel Calvinismo, il concetto di
lavoro si confonde col sentimento religioso. La definitiva
laicizzazione del lavoro avviene gradualmente attraverso i mutamenti
filosofici e di mentalità che dal Rinascimento in poi
porteranno “l’ascesi mondana del Calvinismo…a trasformarsi in
misticismo attivistico razionalistico laico.”
4.4 La tecnica, le macchine, l’operaio.
Il concetto di lavoro tende sempre
più ad impregnare di sé tutto il ‘mondo della vita’
della società moderna. E si laicizza sempre più sotto
la spinta dell’inarrestabile sviluppo della tecnica, che viene vista
in un modo del tutto nuovo: la sua è una applicazione
sistematica a tutti gli ambiti della vita. La scienza, mano a mano
che progredisce e si lega all’esperienza, interroga la materia quasi
torturandola per obbligarla a rispondere alle sue domande.
Lo sviluppo della tecnica e delle macchine
porta con sé un cambio radicale di prospettiva. Come il
denaro, investito in attività produttive, procura altro
denaro da investire ancora, in un ciclo di autoriproduzione,
così
“La macchina…genera sé medesima.
Nella macchina di oggi rivivono capitalizzate e fuse come momenti
ideali, negate nella loro indipendenza, ma assorbite come elementi,
le macchine del passato. Si potrebbe raffigurare lo sviluppo della
tecnica negli ultimi quattro secoli come un immenso ininterrotto
processo di autogenerazione di una macchina mostruosa, che
più avanza negli anni e più prontamente e
tirannicamente comanda al tempo e allo spazio. A questo processo di
sviluppo, a differenza di quello degli organismi naturali, non si
possono prescrivere confini. Virtualmente, al limite, il raggio
d’azione della macchina si estende all’universo. Triturare la
materia del mondo, ridurla fluida e plastica, violentabile in tutte
le guise secondo gli scopi umani, tale è il fine-limite della
macchina. L’uomo appare a sé stesso artefice di una
capacità demiurgica illimitata, che va man mano sostituendo
alla natura naturata una natura opera e fattura sua, una natura di
laboratorio. Egli ottiene gli stessi prodotti della natura, ma con
processi diversi, e ai prodotti della natura ne aggiunge infiniti
altri che in natura non sono, alla natura naturale sovrapponendo
così a poco a poco un’altra natura di origine e destinazione
umane.”
Abbiamo voluto riportare questo lungo passo
tilgheriano, oltre come esempio della sempre suggestiva sua prosa,
perché emblematico di una stato d’animo e della particolare
ambiguità del suo sentire. Sembra affascinato e rapito dal
vorticoso ed inarrestabile progresso tecnologico ma, nello stesso
tempo, si avverte il timore, lo sgomento di un uomo che vede,
profeticamente, i pericoli di uno sviluppo che violenti la natura,
la torturi e crei un mondo artificiale forse non più
controllabile.
“Da questa esperienza sgorga e su di esse
reinfluisce intensificandole e accelerandole l’ideologia del
Progresso illimitato per mezzo della scienza e della tecnica,
concetto, questo, affatto ignoto al mondo antico e medievale. E nel
primo fiammeggiare delle speranze l’uomo non concepisce limiti alla
sua capacità demiurgica, al Progresso: non v’è cosa
che egli non creda di poter conquistare, non v’è nemico che
egli non speri di poter atterrare, il tempo lo spazio la
povertà la malattia la vecchiaia e la morte stessa. Le
invenzioni tecniche susseguendosi incessantemente, e l’una rendendo
inutile quella precedente nello stesso tempo che la contiene in
sé come momento superato, lo spirito d’immobilità
riceve un colpo motale. L’uomo cessa di pensare il mondo sotto la
categoria statica dell’Essere, dell’Essenza, della Cosa, si abitua a
pensarlo dinamicamente, come travolto nel turbine di un divenire
incessante.”
Queste le categorie filosofiche della
Civiltà moderna che vengono incarnate da un uomo di tipo
nuovo: l’imprenditore. La cellula vivente della Civiltà
faustiana diventa l’impresa che vive solo per espandersi
indefinitamente.
“Così, sotto la doppia pressione
della necessità economica e tecnica, si accende
nell’imprenditore moderno una divorante furia di attività,
una febbre di lavoro, la quale non ha più altro scopo che
sé stessa, e che considera sé stessa non già
come mezzo per la conquista della ricchezza, per il raggiungimento
del lusso e del piacere, ma come fine a sé medesima. Da
questa visuale psichica imprenditore ed impresa fanno tutt’uno e la
vera ricompensa che l’imprenditore chiede al suo lavoro è nel
ritmo di vita sempre più intenso e vorace di cui palpita e
vibra l’impresa, è nello slancio vitale sempre più
gagliardo e potente che porta l’impresa a crescere nello spazio e
nel tempo, è nella volontà di potenza sempre
più aspra e più dura, grazie alla quale l’impresa vive
e dura e combatte e vince.”[28][228]
Con immagini sorprendentemente simili,
anche Oswald Spengler, ritrarrà, nel suo L’uomo e la tecnica,
il vorticoso evolversi della tecnica e il suo significato per la
civiltà faustiana. Anche per lui, i nuovi eroi di questa
civiltà sono gli imprenditori dotati per natura dell’istinto
predatorio.
“Si tratta ancora una volta di autentici
predatori…Questa volontà di potenza se ne infischia di tutti
i limiti spaziali e temporali: essa ha come scopo specifico
l’illimitato e l’infinito, sottomette intere parti della terra,
avvolge il globo intero con le forme del suo traffico e del suo
sistema d’informazioni, per poi trasformarlo con la forza della sua
energia pratica e con la mostruosità dei suoi procedimenti
tecnici.”
“E queste conseguenze sono mostruose. Il
piccolo gruppo dei dirigenti nati, degli imprenditori e degli
inventori, costringe la natura a fornire un lavoro che viene
misurato in milioni e miliardi di cavalli vapore, e rispetto al
quale il quantum di forza corporale umana non significa più
nulla. Non si comprendono certo i misteri della natura meglio di
prima, ma prende ora il sopravvento l’ipotesi operativa, che non
è ‘vera’, ma soltanto adatta allo scopo, e con il cui aiuto
si costringe la natura a obbedire a un comando umano che si esprime
tramite una leggerissima pressione su un pulsante o su una leva.”
Il libro di Spengler è del 1931, e
la consonanza di temi e l’analogia del sentire è evidente.
Tilgher aveva letto e studiato in modo approfondito lo Spengler del
Tramonto e rivendicava anche lì la primogenitura di talune
visioni. Sia in Spengler che in Tilgher, la considerazione della
tecnica come un destino inevitabile che bisogna accettare, si
coniuga con la certezza del declino inesorabile della civiltà
faustiana. Le conclusioni, però, si tingono di sfumature
diverse. Come afferma Gennaro Sasso, la visione tilgheriana è
meno accentuatamente deterministica di quella di Spengler, si colora
di una attesa fiduciosa, di una fede speranzosa nella
capacità del sistema capitalistico di autocorreggersi,
autoemendarsi e sfuggire al suo destino.
Tra le pieghe mostruose della tecnica e il
destino crudele in cui, la società capitalistica, relega la
maggior parte dell’umanità, tra le miserie in cui sono
costrette a vivere masse sterminate di uomini, Tilgher intravede, ad
esempio, per l’operaio, un futuro più degno e vivibile in cui
parte della sua vita potrà essere destinata ai bisogni
spirituali.
“Soprattutto per l’operaio il problema
è di una impressionante gravità. La macchina, e la
divisione del lavoro che dalla macchina è inseparabile, hanno
meccanizzato spersonalizzato anonimizzato il lavoro dell’operaio. La
creatività è oggi tutta nella macchina e del suo
inventore. L’operaio è ridotto a schiavo della ruota, a servo
della puleggia. Persa ogni spiritualità creatrice, la sua
attività si riduce alla ciclica ripetizione sempre dei
medesimi gesti, sempre degli stessi movimenti, da attività
spirituale si è oscurata in abitudine, si è degradata
in meccanismo. L’operaio è stato espulso dal regno dello
spirito e relegato nel muto regno della natura.”
“…l’evoluzione della civiltà
capitalistica, se da una parte tende sempre più a fare
dell’operaio una ruota, dall’altra, con l’accorciamento della
giornata di lavoro, con la frequenza dei giorni festivi, con gli
alti salari, con l’abbondanza del credito al lavoratore, con
l’incoraggiamento al consumo, tende a rendere sempre più
facile all’operaio tornato a casa di partecipare alla vita dello
spirito e alla cultura in un grado ignoto alle antecedenti
civiltà.”
Del 1932 è Il lavoratore di Ernst
Junger, altro cantore disincantato della civiltà della
tecnica, il cui unico dominatore è l’operaio, il nuovo tipo
umano forgiato nelle ‘tempeste d’acciaio’ della guerra, e
irreggimentato dalla ferrea disciplina della fabbrica.
Tilgher, dal canto suo, cosi ne sintetizza
le caratteristiche: “La macchina non concedendogli un istante di
distrazione, lo forza alla disciplina, all’auto-controllo, alla
temperanza; abituandolo a sentire il suo lavoro personale accordato
al ritmo di una grande officina, sviluppa in lui il senso
dell’organizzazione e della solidarietà, lo avvezza alla
responsabilità e al comando: crea, così, nell’operaio,
almeno le basi di una più alta spiritualità.”
4.5 La “visione moderna della vita”.
In verità, per Tilgher, chi incarna
la nuova visione della vita, la religione del lavoro, l’uomo
demiurgo plasmatore, col suo lavoro, della materia, è
l’imprenditore. E’ un Tilgher che si esprime, come sottolinea Antimo
Negri, in una terminologia fichteano-marxiana. Così Tilgher
definisce la sua ‘visione moderna della vita’.
“Consciamente od inconsciamente, l’uomo
estende all’universo e proietta su un piano cosmico le esperienze
fatte nelle officine ove l’attività industriale va
trasformando la materia del mondo. L’industria spinge più
lontano il limite che la materia oppone allo sforzo dell’uomo, ma
quel limite, respinto, risorge, e lo sforzo dell’uomo, reso
più forte dalla precedente vittoria, si applica di nuovo a
respingerlo ancora più lontano, e così all’infinito.
Per l’attività industriale la materia è un limite
mobile che, sì, incessantemente risorge, ma per essere
indefinitamente respinto sempre più lungi: è, insieme,
il colpo d’arresto allo sforzo dell’uomo e il punto fermo
appoggiandosi al quale esso può far presa sul mondo. La
visione moderna della vita proietta su un piano metafisico questo
schema dell’attività industriale. Per l’uomo moderno lo
spirito è essenzialmente attività ( sforzo,
volontà, azione, prassi ), che ha per destinazione, non
già di specchiare passivamente il mondo e di darne un
duplicato ideale, ma di costituirlo come mondo ( cioè come
cosmo, come regolare ordinanza di cose e di oggetti ) traendolo da
un’amorfa molteplicità, da un plastico e fluido caos, che lo
spirito trova, sì, in sé, ma non come posto da
sé, dal quale non può mai del tutto affrancarsi, ma
sul quale può indefinitamente agire, traducendovi sempre
più adeguatamente l’ordine ideale che interiormente gli
splende.”
Negri avverte che, questa concezione
demiurgica, che sposta sempre più in avanti il limite e non
esaurisce mai l’essere nel conoscere-volere dell’homo faber o
dell’homo tecnologicus, “presuppone, contro la legge dell’entropia,
l’inesauribilità delle risorse naturali.” Ciò apre
problemi e scenari elusi da Tilgher. Per lui, l’homo faber si
realizza come attività infinita, come infinita
libertà. “Al limite ideale l’uomo è padrone del mondo,
è suprema potenza, è Dio.”
Il personaggio simbolo di quest’ ‘uomo
nuovo’ è Faust.
“Faust ha cercato la felicità
dappertutto: l’ha trovata solo quando, vecchio, lavora al
prosciugamento di una palude su cui nuove genti un dì
vivranno in operosità feconda. Nella contemplazione di questo
futuro risultato del suo lavoro egli si gode beato, e all’attimo che
passa grida: Fermati, sei bello! Muore, e Mefistofele va per
prenderne l’anima, ma perde la scommessa, chè in quel momento
Faust gustava un piacere che era del futuro e non del presente. La
civiltà del lavoro è veramente, di necessità,
tutta protesa verso un futuro di cui l’uomo è l’artefice e il
creatore.”
La descrizione che Tilgher ci dà
delle trasformazioni che la Terra, dominata e plasmata dalla
volontà dell’uomo faustiano, subisce, è
ottimisticamente ingenua e risente di una partecipata enfasi nel
descrivere le conquiste del capitalismo.
“Sotto la spinta degli stati d’animo, di
cui il moderno concetto di lavoro è la proiezione ideale, la
terra ha cambiato faccia. Continenti interi sono stati ammessi alla
civiltà capitalistica e mirabilmente sfruttati nelle ancora
intatte risorse; città fondate a migliaia; rimutate dalle
fondamenta le antiche; in modo prodigioso accresciuta la produzione
agricola e industriale e intensificato il traffico commerciale;
quintuplicata la popolazione del mondo e mirabilmente avvicinata nel
tempo e nello spazio grazie allo sviluppo inauditamente sorprendente
dei mezzi di comunicazione; diffusa la cultura e l’igiene; a
dismisura accresciuta la disponibilità individuale e
collettiva delle cose utili e necessarie alla vita; rese di uso
comune e poco men che vili cose che fino a qualche secolo fa erano
lusso di privilegiati; unificato a un grado altissimo il modo di
vivere e di sentire; abbassate le barriere fra città e
campagna; fatto veramente dell’uomo il cittadino della Terra
finalmente, come per miracolo, unificata.”
La fiducia ottimistica che pervade le
descrizioni di Tilgher, sottintende la speranza che la
civiltà capitalistico-faustiana abbia la capacità di
autoemendarsi, di far sì che il superamento di quel limite
che si pone davanti all’infinito, possa trasformarsi nel superamento
anche dei suoi limiti interni.
4.6 La crisi della “religione del lavoro”.
Ma Tilgher avverte anche i sintomi di un
cambiamento negativo, specie delle mentalità collettive, che
preludono ad una possibile degenerazione di quella ‘religione del
lavoro’, quella ‘santità del lavoro’, che ha consentito e
accompagnato lo sviluppo della civiltà faustiana. I segni
maggiori di decadimento si manifestano proprio nella nazione che
è diventata il simbolo stesso della forza dello sviluppo
tecnologico e capitalistico: l’America.
Il senso del dovere, il dovere di un lavoro
serio e metodico, il senso religioso del lavoro, va trasformandosi
in “…una religione del tutto opposta del riposo e del divertimento.”
Le mutate condizioni sociali più favorevoli e agiate,
favoriscono la nascita di nuovi bisogni, di nuove necessità
di sempre maggiore comfort e benessere, nasce una ‘religione del
Corpo’ che spezza la rigida molla psichica che alimentava la
‘civiltà del lavoro’. L’uomo contemporaneo non trova
più soddisfazione e gioia esclusivamente nel lavoro. La pace
del lavoro disciplinato e metodico, lascia il posto ai nuovi bisogni
di una vita tormentata.
La ‘religione del lavoro’ porta in
sé il seme contraddittorio della sua fine. Il lavoro, abbiamo
visto, dà gioia se implica il superamento di qualcosa di
esterno che ci resiste, una natura da vincere. Ma l’uomo avverte in
ciò la dipendenza da qualcosa che è esterno a
sé. Ora vuole liberarsi da questa dipendenza e cerca qualcosa
che lo soddisfi pienamente e abbia solo in sé stesso la sua
sorgente.
“A chi ha realizzato il senso della sua
dominatrice natura lo stesso bisogno di lavorare appare fatalmente
una servitù, una catena che è d’uopo spezzare. L’anima
allora si apre ad altri bisogni, ascende ad altri ideali, s’impenna
verso altri sogni…in cui traluca e folgori la sua libertà:
l’Arte, il Gioco, il Lusso.”
L’atto stesso del lavorare, si trasforma
nella pura volontà di combattere e vincere, si tramuta in
gioco, in sport. Dalla ‘civiltà del Lavoro’ germoglia la
‘civiltà dello Sport’. La parte finale di Homo faber,
è appunto dedicata alla analisi filosofica di questi aspetti:
lo sport, il gioco, il risparmio, il lusso sono fenomeni che
connotano la situazione storica contemporanea.
Dall’interno stesso della civiltà
faustiana si sviluppano le forze e le mentalità che ne minano
la base psichica, la propria animità. I concetti fondamentali
su cui si è basata questa civiltà si capovolgono nel
loro contrario, neutralizzano quell’ansia di attività
infinita, incarnata dall’etica del lavoro.
Illuminanti, a tal proposito, le analisi,
di Tilgher, sull’abbandono del concetto di ‘risparmio produttivo’,
su cui si fondava e sviluppava la società capitalistica. La
guerra, la gioventù della popolazione, che anela a pericolose
ed eroiche imprese, “…hanno assai screditato la virtù del
risparmio.” Ma è dall’America che viene l’attacco più
potente alla pratica del risparmio. “E’ Ford il teorico
dell’antirisparmio…Il risparmio – si dice – restringe il consumo e
quindi la produzione.”[44][244] Bisogna che si spenda tutto quel che
si guadagna, e “…l’industria fa di tutto perché il bisogno si
generi dove non c’è, si dilati all’infinito dove
c’è.”[45][245]
L’analisi tilgheriana si chiude,
però, ancora una volta, con una pessimistica e lungimirante
visione profetica.
“La verità è che l’industria
americana, sorta a mostruosa grandezza a causa della inaudita
ricchezza naturale del paese, ha bisogno di generare a tutti i costi
la prodigalità e lo sperpero perché sia assorbita
l’immensa massa dei beni che rovescia sul mercato interno e su
quelli esteri che essa cerca freneticamente di conquistare. E
poiché lo sperpero più vero e maggiore è sempre
la guerra, verrà un momento in cui questa apparirà
come la via più spiccia di consumare i beni che il mercato
interno e quelli esteri non sono più capaci di assorbire.
Sarò, forse, pessimista. Ma il maggior pericolo alla pace del
mondo a me pare proprio questa filosofia dell’Antirisparmio che si
viene creando.”
La sensazione è che un cerchio si
chiuda. La parabola del pensiero tilgheriano, cominciata con la fine
del primo conflitto mondiale, sfocia nella previsione di una nuova
catastrofe che avrebbe arrecato una nuova condizione di profondo
disagio e di tragedia.