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Thovez, Enrico.
Letterato italiano (Torino 1869 - ivi 1925). T. fu un sensibile
interprete, all'alba del sec. 20º, dell'insofferenza verso i
poeti della generazione precedente, specie verso Carducci e
D'Annunzio e anticipatore di movimenti d'idee e motivi d'arte
destinati a svilupparsi nei crepuscolari e nei poeti posteriori. Tra
le opere Il pastore, il gregge e la zampogna (1900).
Vita e opere
Laureatosi in lettere a Torino nel 1896, conoscitore delle
letterature classiche e straniere moderne, esordì, nel 1895,
in piena celebrazione del centenario tassiano, negando recisamente
ogni grandezza al Tasso; una serie di articoli dell'anno seguente,
intesi a denunziare plagi del D'Annunzio da scrittori francesi e
inglesi, diede clamoroso avvio all'attività critica,
appassionata e spregiudicata. Tale attività si segnalò
quindi sin dagli inizi per le prese di posizione decise e polemiche,
dalle quali emergeva un'esigenza di rinnovamento poetico propugnata
con fervore soprattutto nel volume Il pastore, il gregge e la
zampogna. T. si fece banditore di un nuovo realismo, più
profondo e moderno di quello che la letteratura italiana aveva
saputo esprimere nel secondo Ottocento, e di una poesia che
ripudiasse la lingua aulica, la rima, i metri chiusi della
tradizione. Di tale poesia "sincera", capace di escludere ogni
diaframma tra ispirazione ed elaborazione tecnica, tentò di
dare esempio con Il poema dell'adolescenza (1901; 2a ed. 1924) e
Poemi d'amore e di morte (1922), ma con risultati che non possono
essere considerati che alla stregua di un'intelligente
approssimazione alla poesia. Si occupò anche di arti
figurative (fu pittore, e direttore per un decennio del Museo civico
di arte moderna di Torino) e di musica e pubblicò diversi
volumi di saggi (Il tramonto di Zarathustra, 1906; Mimi dei moderni,
1919; Il Vangelo della pittura, 1921; La ruota d'Issione, 1925;
ecc.). Tra le pubblicazioni postume si ricordano Scritti inediti
(1938) e Diario e lettere inedite. 1887-1901 (1939).
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Dalla lettura del suo Diario emerge un’enorme autostima nei
confronti dei colleghi critici e artisti: «non posso
nascondermi che ho la testa dieci volte più larga della loro
e che io mi sento a mio agio nella pittura e nella scultura e nella
musica tanto quanto nella poesia, dove si degnerebbero di concedermi
dell'autorevolezza, che io ho dieci volte più conoscenza
della natura umana e più buon senso delle questioni di loro,
che io sono più serio, più preciso e che ho una forza
d'idealità, un culto della bellezza che si rivela anche nella
vita comune, nelle mie parole, nella mia condotta, nei miei
amori».