Antonio Gramsci

Sul fascismo

a cura di Enzo Santarelli
Editori riuniti, 1973

Indice


1916

Lotta di classe e guerra


1917

Il riformismo borghese


1918

Cavour e Marinetti

Il sindacalismo integrale

Il regime dei pascià


1919

Covre

Spagna

L'Italia, le alleanze e le colonie

L'unità nazionale


1920

Il potere in Italia

Gli spezzatori di comizi

La fase attuale della lotta

Giolitti al potere

Previsioni

Cos'è la reazione?

La forza dello Stato


1921

Il popolo delle scimmie

I becchini detta borghesia italiana

Italia e Spagna

Forze elementari

Liberalismo e blocchi

Socialisti e fascisti

Sovversivismo reazionario

Bonomi

Il carnefice e la vittima

Insurrezione di popolo

Colpo di Stato

I due fascismi

Tra realtà e arbitrio

Legalità

La lotta agraria in Italia

I partiti e la massa

Il sostegno dello Stato


1922

Un anno

La mano dello straniero

L'esperienza dei metallurgici a favore dell'azione generale

Le origini del gabinetto Mussolini


1923

Il nostro indirizzo sindacale

Che fare?

Parlamentarismo e fascismo in Italia


1924

Il fallimento del sindacalismo fascista

Italia e Jugoslavia

Il problema di Milano

Il partito popolare

Gioda o del romanticismo

«Capo»

Le elezioni

Fascismo e forze borghesi tradizionali

Il Vaticano

Bonomi e i suoi amici

Il Mezzogiorno e il fascismo

Le elezioni in Italia

La crisi della piccola borghesia

Il destino di Matteotti

La crisi italiana

La caduta del fascismo


1925

Dopo il discorso del 3 gennaio

La legge sulle associazioni segrete

La nuova situazione


1926

Il fascismo e la sua politica

La questione sarda e il fascismo

Un esame della situazione italiana


Dai «Quaderni del carcere»

Sovversivo

La questione dell'arditismo

Giolitti e Croce

La favola del castoro

Concordati e trattati internazionali

Ugo Ojetti e i gesuiti

Curzio Malaparte

Giovanni Cena

G. A. Fanelli

Autarchia finanziaria dell'industria

La composizione demografica europea

Popolarità politica di D'Annunzio

Il cesarismo

La questione italiana

La paura del kerenskismo

Paradigmi di storia etico-politica

Sulla struttura economica nazionale

Caratteri italiani 

Apoliticismo

Origine popolaresca del «superuomo»

Le idee di Agnelli

Sindacato e corporazione

Gentile e la filosofia della politica

Taylor e l'americanismo

Azioni e titoli di Stato


Appendice 1

Dichiarazioni al Tribunale speciale

Discussioni nel carcere di Turi


Appendice 2

Discutiamo, se vi pare


Indice dei nomi


Lotta di classe e guerra1

La dottrina di Carlo Marx ha dimostrato anche ultimamente la sua fecondità e la sua eterna giovinezza offrendo un contenuto logico al programma dei piú strenui avversari del partito socialista, ai nazionalisti. Corradini saccheggia Marx, dopo averlo vituperato. Trasporta dalla classe alla nazione i principi, le constatazioni, le critiche dello studioso di Treviri; parla di nazioni proletarie in lotta con nazioni capitalistiche, di nazioni giovani che debbono sostituire, per lo sviluppo della storia mondiale, le nazioni decrepite. E trova che questa lotta si esplica nella guerra, si afferma nella conquista dei mercati, nel subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del suo sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l'eletta, la degna.

Perciò Corradini non avversa, a parole, la lotta di classe. «Sopprimere la lotta di classe, egli dice, val quanto sopprimere la guerra. Non è possibile. Entrambe sono vitali, l’una all'interno delle nazioni, l'altra fuori. Servono a muovere e rifornire di materiale umano fresco, classi, nazioni, il mondo». Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale. Per cui dal punto di vista della logica formale i ragionamenti corradiniani non fanno grinza, ma perdono ogni valore quando vogliono diventare norma di vita, coscienza di un dovere. La storia non ha esempi di uno uguale a uno; questa uguaglianza è formula matematica, non constatazione di rapporto fra due realtà affermatesi nel passato o attuali. Tizio è uguale solo a se stesso, e volta a volta, anche; non Tizio bambino uguale a Tizio uomo adulto. E cosí la classe non è uguale alla nazione e quindi non può averne le stesse leggi. Tanto vero che dopo affermato il principio, lo stesso Corradini pone tali limitazioni che finisce, senza avvedersene, col fare rovinare tutta la sua costruzione. Egli afferma che bisogna insegnare al proletariato il massimo rispetto per la produzione.

E per produzione egli intende il capitalismo nazionale, cioè quel complesso di attività economiche, buone e cattive, naturali e fittizie, che in parte servono ad aumentare la ricchezza investita in macchine ed in aziende [una parola censurata] i socialisti vogliono socializzare lo sfruttamento, e in gran parte vivono ai danni del benessere generale e quindi specialmente di quello proletario. E rispettare questo pare sia alquanto difficile ai proletari, i quali non fanno la lotta di classe solamente per aumentare i salari, come crede il Corradini, ammiratore naturalmente dei riformisti nazionali, ma specialmente per sostituire la propria classe che lavora a quella dei capitalisti che la fa lavorare. E ciò per quei principi fondamentali dello spirito umano, per cui ogni uomo vuole che la sua attività sia autonoma e non subordinata alla volontà e agli interessi di estranei. E come la borghesia francese, esaltata dal Corradini, lottò per la sua autonomia economica e raggiunse contemporaneamente anche la realizzazione dell'autonomia nazionale, che prima non esisteva, cosí ora il proletariato internazionale lotta per una cosa che ancora non esiste, perché si lotta sempre per raggiungere qualche cosa che non si possiede ancora.

E questa nazione proletaria che è l'unificazione di tutti i proletari del mondo, supera la nazione di quanto Carlo Marx, che la sua logica nutriva di realtà storica, è superiore ad Enrico Corradini, che si diverte a riempire la botte senza fondo della logica formale con i torniti periodi della lingua italiana e di quanto la lotta di classe, morale perché universale supera la guerra, immorale perché particolaristica, e fatta non per volontà dei combattenti, ma per un principio che questi non possono condividere.

Il riformismo borghese2

La Gazzetta di Torino ha finalmente trovato un direttore: il signor Italo Minunni. La Gazzetta di Torino assume cosí, finalmente, un carattere netto e preciso.

Il signor Italo Minunni viene alla Gazzetta dalla Perseveranza di Milano, ed era andato alla Perseveranza dall'Idea nazionale. Ma non è la sua carriera giornalistica che ci importa. Ci importa notare un fenomeno che in questa carriera è anche esteriormente marcato. Lo sviluppo del nazionalismo in Italia ha segnato e sta segnando il sorgere della classe borghese come organismo combattivo e cosciente. Finora abbiamo avuto in Italia una borghesia politica, senza programmi chiari ed organici, senza attività economica coerente e rettilinea. Le grandi battaglie politiche-economiche, che si sono verificate negli altri paesi sono sempre ignorate in Italia appunto per questo.

[Otto righe censurate]

Il nazionalismo sta dando coscienza di sé alla classe borghese. L'Idea nazionale è, da questo punto di vista, il giornale piú importante d'Italia (dopo l'Avanti!): è riuscito a dare il la a tutta la stampa borghese italiana. È il fornitore di idee, di spunti polemici, di coraggio per tutta la stampa borghese italiana. Ed è diventata anche l'incubatrice di energie giornalistiche che sciamano dalla sua redazione e galvanizzano le gelatinose colonne degli altri giornali borghesi. Una di queste energie è appunto Italo Minunni, che a Torino sosterrà le ragioni del trust di Dante Ferraris. Non è un economista, quantunque sia specializzato in «articoli» economici. È un audace, è uno spregiudicato, è un «muso» duro. È un documento vivo dell'impotenza liberale italiana, se non dell'idea liberale. Rappresenta, in confronto dell'idea liberale, un pensiero immaturo, un pensiero confuso e inorganico che si impone con l'audacia.

Tra l'idea liberale e l'idea nazionalista c'è la stessa differenza che tra il socialismo rivoluzionario e il riformismo. I nazionalisti, come Italo Minunni, sono i riformisti della borghesia. La borghesia italiana, nel suo sviluppo, è arrivata appena allo stadio corporativista. I nazionalisti sono i paladini dei «diritti» delle corporazioni borghesi che fanno coincidere, naturalmente, coi «diritti» della nazione, cosí come molti riformisti fanno coincidere con tutto il proletariato una o un'altra categoria di lavoratori, per la quale brigano e cercano strappare dei benefici.

Il riformismo nazionalista si esprime specialmente nel protezionismo, che è conquista di benefici particolari a danno dell'intiera classe produttrice borghese e a danno di tutti i consumatori. I siderurgici, i cotonieri, gli armatori, gli agrari sono le quattro categorie borghesi che il riformismo nazionalista sostiene, e ai rappresentanti delle quali chiede che lo Stato dia i mezzi per arricchire privatamente a danno dell'industria e dell'agricoltura e a danno dell'intiera nazione. Ora questo riformista si occupa anche di alcuni ceti proletari. Filippo Carli (anch'egli covato nella redazione dell'Idea nazionale) ha teorizzato i futuri rapporti fra capitale e lavoro:

[cinque righe censurate].

Nello stesso numero della Gazzetta di Torino in cui Italo Minunni fa la sua presentazione, Filippo Carli stampa appunto la conclusione di un suo studio — presentato al Congresso di Parigi delle Camere di commercio interalleate — sull'organizzazione dell'industria dopo la guerra, dal punto di vista dei rapporti tra capitale e lavoro. Luigi Federzoni ha aderito e ha sostenuto nell'Idea nazionale la proposta di legge Ciccotti per una distribuzione di terre incolte (senza una distribuzione di capitali per metterle in valore) ai contadini reduci di guerra.

Ora questo riformismo pianta le sue tende anche a Torino. Conquisterà probabilmente la classe borghese. Il liberalismo, che pure come pensiero è superiore a questo conglomerato di retorica e di voracità parassitaria, non avrà il coraggio di contrastargli il terreno, e se volesse non riuscirebbe.

Il liberalismo dovrebbe aspettare che i borghesi, dal corporativismo, dallo spirito di categoria, arrivassero fino alla comprensione della classe, degli interessi totali della classe, che possono anche domandare il sacrifizio delle categorie parassitarie.

[Undici righe censurate]

Cavour e Marinetti3

È stato lanciato un nuovo programma politico. Eccolo nelle sue parti essenziali:

Lotta contro l'analfabetismo. Viabilità. Costruzione dì nuove strade e ferrovie. Scuole laiche elementari obbligatorie con sanzioni penali. Insegnamento tecnico obbligatorio nelle officine.

Parlamento: equa compartecipazione di industriali, agricoltori, ingegneri e commercianti al governo del paese — limite minimo di età per la deputazione portato a 22 anni; abolizione del Senato.

Dopo un periodo di prova, un Parlamento cosí composto potrà essere abolito, per giungere a un governo tecnico senza Parlamento, composto di 20 tecnici eletti mediante il suffragio universale e controllato da un'Assemblea di 20 giovani non ancora trentenni, anch'essi eletti col suffragio universale.

Abolizione dell'autorizzazione maritale. Divorzio. Suffragio universale uguale e diretto a tutti i cittadini, uomini e donne. Scrutinio di lista a larga base. Rappresentanza proporzionale.

Costituzione di un vasto demanio mediante la proprietà delle Opere pie, degli Enti pubblici e con la espropriazione di tutte le terre incolte e mal coltivate.

Energica tassazione dei beni ereditari e limitazione dei gradi successori.

Imposta diretta e progressiva con accertamento integrale.

Libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione, di stampa.

Trasformazione ed epurazione della polizia. Abolizione della polizia politica. Abolizione dell'intervento dell'esercito per ristabilire l'ordine.

Giustizia gratuita e giudice elettivo.

I minimi salari elevati in rapporto alle necessità della esistenza. Massimo legale di 8 ore di lavoro. A uguale lavoro uguale salario per gli uomini e le donne. Trasformazione della beneficenza in assistenza e previdenza sociale. Pensioni operaie.

Sequestro della metà di tutte le sostanze guadagnate con forniture di guerra.

Esercito: mantenerlo fino allo smembramento dell'impero austro-ungarico, per quindi diminuirne gli effettivi al minimo.

Religione: anticlericalismo integrale; espulsione dei preti, dei frati e delle monache.

Amministrazione: riforma radicale della burocrazia, divenuta oggi fine a se stessa e Stato nello Stato. Sviluppo delle autonomie regionali e comunali. Decentramento. Diminuire gli impiegati di due terzi, raddoppiando gli stipendi. Concorsi difficili ma non teorici. Dare ai capi-servizio la responsabilità diretta. Principio elettivo nelle cariche maggiori.

Sviluppo della marina mercantile e della navigazione fluviale. Canalizzazione delle acque e bonifiche. Difesa dei consumatori.

Questo programma è stata scritto da Filippo Tomaso Marinetti per conto del nuovo partito politico futurista. Sfrondato delle amplificazioni verbali, delle imprecisioni di linguaggio, di qualche lieve contraddizione, esso non è altro che il programma liberale che i nipoti di Cavour avrebbero dovuto realizzare per i migliori destini d'Italia. Ma i nipoti di Cavour hanno dimenticato gli insegnamenti e le dottrine del loro antenato. Il programma liberale sembra cosí straordinario e pazzesco che i futuristi lo fanno proprio, persuasi di essere originalissimi e ultra-avveniristici. È lo scherno piú atroce delle classi dirigenti. Cavour non riesce a trovare in Italia altri discepoli e assertori che F. T. Marinetti e la sua banda di scimmie urlatrici.

Il sindacalismo integrale4

Nazionalismo rivoluzionario

La malafede degli innovatori popolareschi —scrive Maurizio Maraviglia nell'Idea nazionale— ha accreditato il preconcetto che il nazionalismo sia una dottrina conservatrice, la quale tende a mantenere e consolidare i privilegi di classe.

Il nazionalismo è invece essenzialmente rivoluzionario, anzi la sola vera dottrina rivoluzionaria, perché ha come punto di riferimento la nazione — nella sua unità politica, economica e spirituale —, mentre le altre dottrine non hanno punto di riferimento o ne hanno uno molto minore: la classe, il partito, la fazione, e magari le persone proprie degli stessi innovatori. Il nazionalismo è principio d'energia e come tale non rifugge dalle piú ardite innovazioni: un economista nazionalista — Filippo Carli — si è fatto banditore del «partecipazionismo» e dell'«azionariato sociale», e la sua propaganda ha trovato larga eco nel campo nazionalista.

Maurizio Maraviglia, come gli altri nazionalisti, crede aver esaurito trionfalmente la sua dimostrazione, affermando la «storicità» del punto di riferimento della sua dottrina. Ma le affermazioni hanno valore dogmatico, ed è questo uno strano modo di essere storicisti e rivoluzionari. La distinzione effettiva tra la dottrina nazionalista e le altre dottrine è implicitamente posta dal Maraviglia stesso in una questione di «dignità», non di storicità; la nazione è piú degna della classe, dei partiti, dei singoli individui. Il rivoluzionarismo internazionalista si riduce quindi ad un'elegantissima questione retorica, simile in tutto alle questioni che i vecchi letterati facevano nel bel tempo antico per stabilire la maggiore dignità di un genere poetico piuttosto che di un altro, di un'opera d'arte piuttosto che di un'altra.

Nella storia non c'è il piú o il meno degno: c'è solo il necessario, il vivo e l'inutile, il cadavere. La classe, il partito, hanno altrettanta dignità che la nazione; essi anzi sono la nazione stessa, che non è un'astratta entità metafisica, ma concreta lotta politica di individui associati per il raggiungimento di un fine. Il fine è l'unica discriminante possibile di «dignità». E il fine non è un fatto, ma un'idea che si realizza attraverso i fatti. Fine rivoluzionario è la libertà, intesa come organizzazione spontanea di individui che accettano una disciplina per trovar in modo piú adeguato e idoneo i mezzi necessari allo sviluppo dell'umanità spirituale loro; intesa come massimo incremento dell'individuo, di tutti gli individui, ottenuto autonomamente dagli individui stessi. I nazionalisti sono conservatori, sono la morte spirituale, perché di «una» organizzazione fanno la «definitiva» organizzazione, perché hanno per fine non un'idea, ma un fatto del passato, non un universale, ma un particolare, definito nello spazio e nel tempo.

Il rivoluzionarismo nazionalista è pertanto solo confusionarismo. Se i partiti, le classi, gli individui sono necessari storicamente, hanno un loro compito da svolgere, il proporsene l'annullamento significa anche annullare il punto di riferimento cui si dice di tanto tenere: la nazione. E il fine reale cui i nazionalisti effettivamente rivelano di tendere non è altro che il consolidamento e la perpetuazione dei privilegi di un ceto economico: gli industriali odierni, e di un ceto politico, quello costituito dalle loro proprie persone di sedicenti innovatori. A danno delle energie economiche e politiche che la lotta politica, nel libero giuoco della concorrenza, può suscitare e avvalorare. A danno della nazione, che non è alcunché di stabile e definitivo, ma è solo un momento dell'organizzazione economico-politica degli uomini, è una conquista quotidiana, un continuo sviluppo verso momenti piú completi, affinché tutti gli uomini possano trovare in essa il riflesso del proprio spirito, la soddisfazione dei propri bisogni. Essa si è allargata dal Comune artigiano allo Stato nazionale, dal feudo nobilesco allo Stato nazionale borghese, in una affannosa ricerca di libertà ed autonomie. Tende ad allargarsi maggiormente, perché la libertà ed autonomie realizzate finora non bastano piú, tende a organizzazioni piú vaste e comprensive: la Lega delle Nazioni borghesi, l'Internazionale proletaria,

Il rivoluzionarismo nazionalista, la storicità della dottrina nazionalista è retorica e confusione.

Un romanzo economico-politico

Il nazionalismo è principio di energia e non rifugge dalle piú ardite innovazioni. Una di queste ardite innovazioni sarebbe, per il Maraviglia, il «sindacalismo integrale» di Filippo Carli.

Filippo Carli ha scritto, in numerose puntate, un deliziosissimo romanzo economico-politico. È una costruzione ciclopica, quella del Carli, che non trascura nulla: l'economia, la finanza, la morale, la politica vi trovano il loro piano prestabilito. Trascura una cosa sola: la storia, e la storia italiana in particolare. Per il Carli il maggior delitto che si sia perpetrato in omnibus saeculis saeculorum è l'assassinio delle corporazioni artigiane medioevali. Il suo sindacalismo integrale non è infatti che una programmazione delle corporazioni, ed è integrale perché non limitato ai comuni, ma esteso a tutta la nazione.

Il Carli propugna nient'altro che la instaurazione di uno Stato secondo ragione, uno Stato a priori, estratto dalla coscienza della classe dirigente. In esso si arriverebbe alla soppressione della lotta di classe, della cosí detta faziosità, della demagogia. Perché queste terribili cose non esistevano, per il Carli, nel Comune medioevale. E infatti non esistevano nel Comune come circoscrizione territoriale chiusa (almeno in determinati periodi), ma esistevano tra il Comune e il castello feudale, tra l'artigiano e il signore feudale, tra la città e il contado.

Le classi si trovarono, in certi momenti, ad essere divise anche territorialmente, ecco tutto, ed è naturale che in seno a ogni comunità territoriale non esistesse lotta di classe, perché la comunità era omogenea e la lotta di classe era la guerra intercomunale, o tra guelfi e ghibellini. La restaurazione del corporativismo, il sindacalismo integrale, non ha quindi alcun punto di riferimento storico nel passato, che non sia illusorio e arbitrario.

Né per il presente la sua arbitrarietà è minore. Il proletariato dovrebbe rinunziare alla lotta politica. La sua collaborazione sarebbe ottenuta mediante la «compartecipazione» e l'«azionariato sociale»: il proletariato economicamente dovrebbe diventare solidale con la borghesia, e quindi non pensare piú alla rivoluzione sociale, all'abolizione dei privilegi. Il proletariato sarebbe sottoposto a una «cultura» intensiva, sarebbe educato alla comprensione dei fini sociali di produzione e di vita nazionale. Il Carli ha dell'educazione e della cultura un concetto molto vago ed empirico: le immagina come veste esteriore, come abito da festa per la fiera nazionalistica. Esse infatti porrebbero come fine educativo due esteriorità, due fatti, la nazione e la produzione, mentre queste sono strumenti di vita morale, non fini morali. La nazione-ipotesi del Carli dovrebbe essere una Germania abitata da italiani; uno Stato germanico nel quale gli italiani alla barbarie morale sostituirebbero la gentile civiltà latina; un luteranesimo cattolico, una botte per aceto riempita di marsala.

Dilettantismo nazionalista

Il Carli appartiene a quel certo numero di studiosi che, per l'ammirazione che hanno per certi fenomeni economico-politici tedeschi, finiscono col confondere in essi tutta la vita tedesca, tutta l'attività tedesca. Non tengono conto delle screpolature, degli antagonismi che esistono anche in Germania; immaginano che la Germania debba perpetuare il suo sistema attuale e, perfezionato, propongono questo sistema a modello universale. La verità è alquanto diversa, e anche in Germania la borghesia stava subendo fatalmente la sua evoluzione liberale, stava distruggendo le sue corporazioni: la guerra è stata il massimo tentativo di conservazione di un sistema antieconomico di produzione, il tentativo di integrare il deficit sociale col bottino della vittoria. Il Carli, ipnotizzato dalle apparenze, confonde queste col tessuto storico vivo, e la sua opera letteraria, che pure si presenta irta di dimostrazioni, filata logicamente, e viziata dal dilettantismo, dall'amplificazione gratuita, dall'astrattismo ideologico.

Ardita innovazione davvero! Ma il Maraviglia stesso ne fa giustizia. Il Maraviglia chiama «ardita» l'innovazione, ma non l'accetta, e non si comprende l'aggettivo se appunto non ci si rifà al dilettantismo e al metodo accademico delle dimostrazioni nazionaliste: si chiama «ardito» anche ciò che si ritiene falso, si porta a comprovare l'energia vitale di una dottrina una costruzione che si giudica barocca e inconsistente. Il Maraviglia chiamerebbe questo metodo faziosità e demagogismo nei socialisti. Nei nazionalisti noi ci accontenteremo di chiamarlo confusionismo e dilettantismo.

Il regime dei pascià5

L'Italia è il paese dove si è sempre verificato questo fenomeno curioso: gli uomini politici, arrivando al potere, hanno immediatamente rinnegato le idee e i programmi d'azione propugnati da semplici cittadini.

Quando l'on. Orlando proibisce il congresso del partito socialista, egli continua questa tradizione gloriosa. Infatti l'on. Orlando è un santone del liberalismo, e nei libri, nelle definizioni contenute nei libri essere liberali significa: governare col metodo della libertà, essere persuasi che gli avvenimenti si verificano solo quando sono necessari ed è perfettamente inutile avversarli, che le idee e i programmi d'azione trionfano solo quando corrispondono a bisogni e sono lo svolgimento di premesse solidamente affermatesi, pertanto irriducibili e incoercibili, essere persuasi che il metodo della libertà è il solo utile perché evita conflitti morbosi nella compagine sociale. Ma l'on. Orlando diventa presidente del consiglio e il suo liberalismo un errore di gioventù.

Cosí l'on. Nitti. Il finanziere F. S. Nitti è sempre stato un liberista: deputato d'opposizione ha pronunziato vigorosi discorsi di critica costruiti su idee larghissime di libertà economica, sulla teoria che lo Stato non deve mai immischiarsi nell'attività privata commerciale, non deve farsi distributore di ricchezze, non deve farsi promotore di consorzi e monopoli. Diventato ministro, l’on. Nitti propugna il cartello delle banche, fa da levatrice alla nascita di elefantiaci bambinelli industriali, che vivono solo in quanto abbondantemente sfamati dall'erario nazionale.

Cosí Giolitti, cosí Crispi, cosí tutta la tradizione gloriosa del nostro geniale paese.

Perché questo fenomeno? È solo esso dovuto alla mancanza di carattere e di energia morale dei singoli?

Anche a ciò, indubbiamente. Ma esiste anche un perché politico: i ministri non sono mandati e sorretti al potere da partiti responsabili delle deviazioni individuali di fronte agli elettori, alla nazione. In Italia non esistono partiti di governo organizzati nazionalmente, e ciò significa che in Italia non esiste una borghesia nazionale che abbia interessi uguali e diffusi: esistono consorterie, cricche, clientele locali che esplicano un'attività conservatrice non dell'interesse generale borghese (che allora nascerebbero i partiti nazionali borghesi), ma di interessi particolari di clientele locali affaristiche. I ministri, se vogliono governare, o meglio se vogliono rimanere per un certo tempo al potere, bisogna s'adattino a queste condizioni: essi non sono responsabili dinanzi a un partito che voglia difendere il suo prestigio e quindi li controlli e li obblighi a dimettersi se deviano; non hanno responsabilità di sorta, rispondono del loro operato a forze occulte, insindacabili, che tengono poco al prestigio e tengono invece molto ai privilegi parassitari.

Il regime italiano non è parlamentare, ma, come è stato ben definito, regime dei pascià, con molte ipocrisie e molti discorsi democratici.

Covre6

Falsi capitani, falsi tenenti, falsi eroi, falsi mariti: la cronaca diventa ogni giorno piú ricco repertorio di spunti novellistici e farseschi. Ma la cronaca del falso capitano, falso tenente, falso ardito, falso eroe del Montello, Luigi Covre, è alquanto diversa dalle altre. Covre non è un avventuriere comune. Covre è un «eroe» sociale, è un individuo rappresentativo, ha rappresentato per otto giorni l'«anima» collettiva della classe dirigente torinese, è stato per otto giorni il dittatore di Torino, ha sostituito il prefetto, ha sostituito l'eccellenza sua generale del Corpo d'armata, ha esercitato funzione stataria. Ed era un avventuriero, un falso capitano, un falso tenente, un falso ardito, un falso eroe del Montello, ed era stato licenziato dalla Cassa di risparmio e denunciato per truffa, licenziato dalla Cassa di risparmio della quale è presidente il senatore di Cambiano, il marchese Ferrero di Cambiano, proprio il senatore marchese Ferrero di Cambiano che presiede l'Unione liberale monarchica, proprio il senatore marchese che presiede l'organizzazione politica della classe dirigente torinese e il quale parlò ad una riunione di ufficiali, chiamati a rapporto nel salone Ghersi in seguito alle imprese da Masaniello gallonato del falso capitano, ecc., ecc., avventuriero truffatore Luigi Covre.

Perché Masaniello Covre poté, per ben otto giorni, scorrazzare le vie e le piazze di Torino col suo codazzo di armati di coltello, potè capeggiare un pronunziamento contro la prefettura, potè oltrepassare, le tasche piene di sassi, in un'automobile «ufficiale», il cordone di carabinieri che circondava la Casa del popolo di corso Siccardi, poté lanciare i sassi nel salone gremito di operai, di donne, e di bambini, potè [cinque righe censurate]? Perché non fu arrestato, perché il senatore marchese di Cambiano non lo indicò come un truffatore, il senatore marchese che presiede la Cassa di risparmio e l'organizzazione politica della classe dirigente di Torino? No, non è un avventuriere comune questo falso capitano Luigi Covre; Torino non è una trattoria dove un falso eroe riesca a sbafare cibi e vini; il prefetto, l'eccellenza sua generale del Corpo d'armata non sono ingenui filistei che si possano lasciar abbagliare dal luccichio di medaglie e di discorsetti; gli assembramenti che applaudivano le concioni cannibalesche di questo avventuriere tra il Masaniello e il Coccapieller, non erano lazzaroni napoletani affamati dalla gabella sulle frutta, o artigiani romaneschi incantati dalla fraseologia demagogica di un paranoico della politica.

[Quattro righe censurate]. E Torino ebbe il suo Masaniello, ebbe il suo Coccapieller, Luigi Covre, che non è un avventuriere comune, non è un volgare scroccone, ma un eroe, un eroe sociale, un uomo rappresentativo, il quale continua la serie di quegli eroi rappresentativi che nella Terza Italia, nell'Italia del capitalismo, abbondano piú dei Cromwell, dei Martin Lutero e dei Mazzini.

Spagna7

La crisi in cui si dibatte la vita politica spagnuola s'è iniziata il 1° giugno 1917 col pronunciamento pretoriano dei Comitati (Juntas) di difesa militare, che determinarono lo scoppio di uno sciopero generale rivoluzionario, soffocato con la strage nell'agosto successivo.

I rapporti di classe si sono profondamente modificati in Ispagna per effetto della guerra mondiale: si è formata una classe nuova di proprietari, per lo spostarsi della ricchezza nazionale nelle mani dei nuovi ricchi, che hanno trafficato sulla miseria e la morte dei concittadini; si è esasperata la tensione sociale per il formarsi di una moltitudine di poverissimi, che mancano della elementare sicurezza fisiologica del domani; si è costituito un proletariato organizzato rivoluzionario energico e disciplinato, che risorge piú potente e piú audace da ogni lotta.

Dall'agosto 1917 la Spagna è controllata e oppressa dai Comitati militari, consigli irresponsabili di pretoriani che operano localmente, pensosi solo di mantenere intatti e accrescere privilegi e immunità ottenuti in un momento di paura.

Lo Stato non ha piú alcun potere e alcuna funzione; il dominio della legge è soppiantato dall'arbitrio di rozzi e crudeli uomini che si credono competenti in ogni scibile per virtù della sciabola e dei galloni. I generali minacciano, approvano, biasimano l'opera dei governi che non riescono a reggersi e ad esplicare una attività sistematica per questa ingerenza continua e provocatrice che toglie ogni prestigio alle istituzioni ed ha abolito di fatto lo Stato: il parlamento, la magistratura, la pubblica amministrazione sono state incorporate nell'attività generale del militarismo.

La vita collettiva della nazione è cosí uscita fuori, anche formalmente, da ogni legalità costituzionale e attraversa una fase sussultoria, che rende impossibile ogni previsione del futuro prossimo, che è distruzione di ricchezza e di vite umane, che è disordine crudele e caos barbarico. La Spagna è un paese senza Stato; [essa è entrata in modo definitivo, in quella fase oscura e catastrofica, caratterizzata dallo sciogliersi di ogni vincolo sociale omogeneo e dal disfacimento di ogni disciplina politica unitaria, verso la quale si avviano tutti gli aggregati capitalistici].

Le reazioni sociali a una tale «sistemazione» degli affari pubblici sono state diverse e di varia natura. I ceti regionali della classe proprietaria iniziarono movimenti antidinastici, per l'autonomia della Guascogna e della Catalogna, che mascheravano malamente il desiderio degli armatori, dei proprietari di miniere e di aziende industriali (la Catalogna e la Guascogna sono le due zone piú ricche della Spagna) di sottrarre al fisco dello Stato accentrato a Madrid lo scellerato frutto delle forniture di guerra all'Intesa, di esonerarsi da ogni tributo allo Stato, proprio quando lo Stato maggiormente aveva bisogno di cespiti per l'amministrazione generale, di risanare, con provvidenze e lavori pubblici, le ferite mortali inferte alla società spagnuola dalla speculazione sfrenata degli avventurieri dell'industria e del commercio.

Cosí la classe proprietaria si decompone per lo stimolo dei fermenti particolaristici ed egoistici disgregando e sgretolando la produzione e la vita politica mentre il proletariato, sul quale ricadono pesantemente le conseguenze economiche del disordine, si compone come personalità distinta, consapevolmente e energicamente fattiva.

Lo spirito di classe si educa, il movimento sindacale attinge una ampiezza e una pienezza spirituale sbalorditive, diventando la prima e la piú potente forza sociale organizzata e disciplinata nazionalmente della Spagna.

La «plebe» spagnuola, individualista come tutti gli aggregati umani che non hanno subito le esperienze dolorose dello sfruttamento intensivo dell'industrialismo, s'assoggetta nei sindacati operai a una disciplina che stupisce e addolora gli ammiratori letterati della Spagna romantica tradizionale gitani-mandole-tauromachie. In pochi mesi il proletariato spagnuolo ha realizzato uno sforzo rude, la cui efficacia è rivelata dai recentissimi avvenimenti: lo sciopero generale è stato proclamato e attuato a Barcellona con una fulminea unanimità che ha sorpreso e interrorito la classe proprietaria. Ma il fatto piú esemplare è stata l'istituzione della censura rossa operaia come pegno di fraterna solidarietà fra i lavoratori. Appena il governo sospese le garanzie costituzionali e comunicò il catalogo delle quistioni che i giornali non potevano trattare, il sindacato dei tipografi decretò una contro censura e interdisse ai giornali di pubblicare notizie e giudizi che potevano spezzare la disciplina rivoluzionaria degli operai; i tipografi si rifiutarono di comporre le informazioni riguardanti riprese parziali di lavoro, atti di sabotaggio, di intimidazione governativa o padronale, repressioni poliziesche o militaresche ecc.; il decreto sindacale sulla censura rossa fu scrupolosamente rispettato anche dai tipografi disorganizzati dei giornali clericali.

Il movimento operaio, sviluppatosi per contraccolpi sociali cosí repentini e anormali, si è organizzato e ha preso forma all'infuori dei tradizionali partiti sovversivi di Spagna: [esso è orientato decisamente verso il comunismo dei Consigli degli operai e contadini e ha fatto proprio il linguaggio dei bolscevichi russi (oltre Nuestra palabra, i comunisti spagnuoli pubblicano El soviet e El maximalista).]

Questa formidabile spinta proletaria ha determinato nuove reazioni e nuovi orientamenti nella mentalità della classe possidente e nei ristretti gruppi politici che si succedono ininterrottamente al governo.

Pochi mesi fa la Catalogna borghese pareva tutta fieramente unita contro il governo centrale, che si appoggiava sull'esercito contro la minaccia separatista. Gli operai rimanevano indifferenti sulla quistione dell'autonomia e il governo lusingò gli operai con leggi sociali e cercò di punire quegl'imprenditori che, abusando e approfittando del disordine pubblico, contravvenivano ai decreti sul contratto di lavoro e licenziavano chi osasse protestare.

[L'alta borghesia e gli industriali, interroriti dal montare dell'onda proletaria, si allearono perciò ai Comitati di difesa militare contro gli operai e il governo centrale.] La borghesia stessa si armò. Già nell'agosto 1917 i membri del circolo piú aristocratico di Madrid avevano domandato al ministro dell'interno la patente di «poliziotti onorari». Oggi la borghesia si è armata regolarmente, costituendo i corpi di milizia dei Somaten («Stiamo attenti!») che, [in unione ai Comitati militari,] esercitano sul paese un potere arbitrario e terroristico che inceppa la produzione economica e svuota e paralizza l'azione dello Stato.

Il Parlamento era un fantasma; esso è rimasto chiuso quasi sempre durante la guerra; nessun governo vitale poteva nascere da un Parlamento i cui 400 deputati si dividono in 22 cricche personali. L'azione parlamentare è stata sostituita dal regime dei decreti a getto continuo, che rimangono lettera morta per il marasma amministrativo [e il prevalere dei gruppi pretoriani e dei Somaten.

La mentalità del militarismo spagnolo è tutta dipinta da questo episodio: il governatore militare di Madrid, generale Aguilera, chiamato dal presidente Romanones, quando la minaccia dello sciopero generale incombeva sulla capitale, pose queste condizioni per ubbidire al capo dello Stato: «Ogni cartuccia sparata deve significare un morto. Si batterà duramente, senza distinzione di sesso. Si dovrà essere implacabili contro tutti i manifestanti, uomini e donne».] Il potere arbitrario concesso ai privati «difensori della proprietà» ha significato nel mese [di febbraio l'uccisione a revolverate di tre piccoli contadini saliti in ferrovia senza biglietto.]

L'insanabile conflitto tra lo Stato regolare e lo Stato dei comitati militari e dei Somaten si è rivelato in tutta la sua gravità nella caduta del ministero Romanones e l'assunzione al governo del ministero Maura-La Cierva. Il governatore civile di Barcellona, signor Montanes, aveva fatto scarcerare gli organizzatori dei sindacati operai arrestati per lo sciopero generale. I comitati militari minacciarono di morte il Montanes se non si dimetteva dalla sua carica dopo aver rimesso in prigione gli scarcerati. I comitati militari erano spalleggiati dal generale Milan Del Bosch, governatore militare, che inviò una intimazione a Romanones, rimproverandolo di non avergli concesso i pieni poteri assoluti per mobilizzare gli operai e costringerli ai lavori forzati. Il ministero Romanones si dimette: i pretoriani delle Juntas pongono il veto alla formazione di un ministero di cui facciano parte il riformista Melquiades Alvarez e il liberale Alba; solo il ministero del sangue Maura-La Cierva è di loro gradimento.

[Esso non può vivere nell'orbita costituzionale. Gode la «fiducia» delle forze irresponsabili, non gode la fiducia del parlamento. Cosí il re ha concesso l'autorizzazione allo scioglimento delle Cortes: i comizi elettorali dovrebbero essere convocati immediatamente. Ma non si può dire ancora se le elezioni avranno luogo; i rivoluzionari si asterranno e non sarà un'astensione pacifica.]

L'Italia, le alleanze e le colonie8

La Lega delle nazioni doveva rappresentare, nel mito della guerra democratica, il superamento storico di ogni sistema di equilibrio ottenuto attraverso le alleanze parziali e le intese cordiali. Appunto perciò, contemporaneamente al trattato preliminare di pace — nel quale la Lega delle nazioni apparve per la prima volta come personalità giuridica internazionale attiva ed operante — è stato pubblicato un comunicato ufficiale che annunzia una alleanza militare tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia.

La Germania verrà ridotta a una cosa vana senza soggetto statale; non avrà esercito, non avrà materiale bellico, sarà isolata dalla Francia da una vastissima zona senza fortificazioni, senza un apparato permanente difensivo e offensivo, non avrà sottomarini, avrà una flotta navale minima, non avrà una flotta aerea. Eppure contro le «aggressioni» tedesche, la Francia non si crede tutelata sufficientemente; il presidente Wilson e Lloyd George credono anch'essi che la Francia non sia tutelata sufficientemente e perciò si sono obbligati di proporre al Senato degli Stati Uniti e al Parlamento della Gran Bretagna un impegno, ai termini del quale gli Stati Uniti e la Gran Bretagna «voleranno» in aiuto della Francia in caso d'aggressione non provocata e diretta contro di essa da parte della Germania.

Per la sua portata, questo trattato di alleanza è di gran lunga piú importante del trattato di pace; esso è anzi il vero trattato di pace, in quanto assicura permanentemente l'egemonia del blocco anglo-sassone nel mondo, che s'è accaparrato, associandosi la Francia, una magnifica testa di ponte in Europa. La divisione della preda avviene perfettamente secondo lo schema della favola; l'«impegno» anglo-americano ne riproduce la fase «quia nominor leo».

Risulta sempre piú evidente in quale tristissima posizione internazionale sia venuto a trovarsi lo Stato capitalista italiano. L'Italia è senza alleati. L'Italia è stata ridotta a pupilla della Lega delle nazioni, cioè dell'Inghilterra, degli Stati Uniti e della Francia. L'Italia ha ampliato la sfera della sua sovranità nominale, ma ha perduto la sua sovranità effettiva di grande potenza.

L'Italia era «assurta» al rango di grande potenza, per il gioco d'equilibrio tra le grandi coalizioni militari e imperiali. Il re d'Italia aveva continuato la politica dei principi piemontesi: una continua altalena tra l'Oriente e l'Occidente, tra l'Austria e la Francia. Cosí il Piemonte era riuscito a rafforzarsi e ad estendere la sua sovranità fino alle Alpi, da Nizza al Monte Bianco (Ginevra sfuggi per miracolo al gioco paziente ed audace), cosí era riuscito a diventare l'Italia con Roma capitale, cosí continuò, con la Triplice alleanza e con gli accordi inglesi, a inserirsi in un gioco piú ampio, che avrebbe dovuto avere per teatro il mondo.

Il regno della concorrenza politica internazionale è tramontato, insieme alle altre forme di concorrenza (è questo uno dei segni piú manifesti del disfacimento del sistema capitalistico, al quale vengono meno le condizioni essenziali di sviluppo storico e di vita): la vita internazionale è irrigidita in un monopolio di potenza: Inghilterra-Stati Uniti (Francia). Crollato completamente l'antagonista germanico-austro-ungarico, è finita per l'Italia capitalista ogni possibilità di altalenarsi e quindi di svilupparsi come potenza internazionale: per uno Stato capitalista ciò che significa la paralisi e la decadenza immancabile.

L'unità nazionale9

La borghesia italiana è nata e si è sviluppata affermando e realizzando il principio dell'unità nazionale. Poiché l'unità nazionale ha rappresentato nella storia italiana, come nella storia degli altri paesi, la forma di una organizzazione tecnicamente piú perfetta dell'apparato mercantile di produzione e di scambio, la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana.

Oggi, per gli intimi, insanabili conflitti creati dalla guerra nella sua compagine, la borghesia tende a disgregare la nazione, a sabotare e a distruggere l'apparato economico cosí pazientemente costruito.

Gabriele D'Annunzio, servo smesso della massoneria anglo-francese, si ribella ai suoi vecchi burattinai, racimola una compagnia di ventura, occupa Fiume, se ne dichiara «padrone assoluto» e costituisce un governo provvisorio. Il gesto di D'Annunzio aveva inizialmente un mero valore letterario: D'Annunzio preparava e viveva gli argomenti di un futuro poema epico, di un futuro romanzo di psicologia sessuale e di una futura collezione di «Bollettini di guerra» del comandante Gabriele D'Annunzio.

Niente di straordinario e di mostruoso nell'avventura letteraria di Gabriele D'Annunzio: è possibile che in una classe, sana politicamente e spiritualmente perché coesa e organizzata economicamente, esistano dei singoli, pazzi politicamente perché dissestati, perché non inscritti in una realtà economica concreta.

Ma il colonnello D'Annunzio trova dei seguaci, ottiene che una parte della classe borghese assuma una forma imperniando la sua attività nel gesto di Fiume. Il governo di Fiume viene contrapposto al governo centrale, la disciplina armata al potere del governo di Fiume viene contrapposta alla disciplina legale del governo di Roma.

Il gesto letterario diventa un fenomeno sociale. Come in Russia i governi di Omsk, di Ekaterinodar, di Arcangelo ecc., in Italia il governo di Fiume viene assunto come la base di una riorganizzazione dello Stato, come l'energia sana, che rappresenta il «vero» popolo, la «vera» volontà, i «veri» interessi, la quale deve scacciare dalla capitale gli usurpatori. D'Annunzio sta a Nitti come Kornilov a Kerenskij. Il gesto letterario ha scatenato in Italia la guerra civile.

La guerra civile è stata scatenata proprio dalla classe borghese che tanto la depreca, a parole. Perché guerra civile significa appunto urto dei due poteri che si disputano a mano armata il governo dello Stato, urto che si verifica, non in campo aperto tra due eserciti ben distinti, schierati regolarmente, ma nel seno stesso della società, come scontro di gruppi raccogliticci, come molteplicità caotica di conflitti armati in cui non è possibile, alla grande massa di cittadini, orizzontarsi, in cui la sicurezza individuale e dei beni sparisce e le succede il terrore, il disordine, l'«anarchia». In Italia, come in tutti gli altri paesi, come in Russia, come in Baviera, come in Ungheria, è la classe borghese che ha scatenato la guerra civile, che immerge la nazione nel disordine, nel terrore, nell’«anarchia». La rivoluzione comunista, la dittatura del proletariato sono state, in Russia, in Baviera, in Ungheria e saranno in Italia, il tentativo supremo delle energie sane del paese per arrestare la dissoluzione, per ripristinare la disciplina e l'ordine, per impedire che la società si inabissi nella barbarie bestiale inerente alla fame determinata dalla cessazione del lavoro utile durante il periodo del terrorismo borghese.

Poiché ciò è successo, poiché il gesto letterario ha dato inizio alla guerra civile, poiché l'avventura dannunziana ha rivelato e dato forma politica a uno stato di coscienza diffuso e profondo, se ne conclude che la borghesia è morta come classe, che il cemento economico che la rendeva coesa è stato corroso e distrutto dai trionfanti antagonismi di casta, di gruppo, di ceto, di regione; se ne conclude che lo Stato parlamentare non riesce piú a dare forma concreta alla realtà obbiettiva della vita economica e sociale dell'Italia.

E l'unità nazionale, che si riassumeva in questa forma, scricchiola sinistramente. Chi si meraviglierebbe leggendo domani la notizia che a Cagliari, a Sassari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, a Venezia, ad Ancona... un generale, un colonnello o anche un semplice tenente degli arditi è riuscito a far ammutinare dei reparti di truppa, ha dichiarato di aderire al governo di Fiume e ha decretato che i cittadini della sua giurisdizione non devono piú pagare le imposte al governo di Roma?

Oggi lo Stato centrale, il governo di Roma, rappresenta i debiti di guerra, rappresenta la servitù verso la finanza internazionale, rappresenta una passività di cento miliardi. Ecco il reagente che corrode l'unità nazionale e la compagine della classe borghese; ecco la causa sotterranea che illumina il fatto del come ogni atto di indisciplina «borghese», di indisciplina nell'ambito della proprietà privata, di insurrezione «reazionaria» contro il governo centrale trovi aderenze, simpatie, giornali, quattrini. Se un tenente degli arditi fonda un governo a Cagliari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, ad Ancona, a Udine, contro il governo centrale, egli diventa il perno di tutte le diffidenze, di tutti gli egoismi dei ceti proprietari del luogo, egli trova simpatie, adesioni, quattrini, perché questi proprietari odiano lo Stato centrale, vorrebbero esonerarsi dal pagamento delle imposte che lo Stato centrale dovrà imporre per pagare le spese di guerra.

I governi locali, dissidenti sulla questione di Fiume, diventeranno l'organizzazione di questi antagonismi irriducibili; essi tenderanno a mantenersi, a creare Stati permanenti, come è avvenuto nell'ex impero russo e nella monarchia austro-ungarica. I proprietari di Sardegna, di Sicilia, di Valdaosta, del Friuli, ecc. dimostreranno che i popoli sardo, siciliano, valdostano, friulano ecc. non sono italiani, che già da tempo aspiravano all'indipendenza, che l'opera di italianizzazione forzata che il governo di Roma ha condotto, con l'insegnamento obbligatorio della lingua italiana, è fallita, e manderanno memoriali a Wilson, a Clemenceau, a Lloyd George... e non pagheranno le imposte.

In tali condizioni è stata ridotta la nazione italiana dalla classe borghese, che in ogni sua attività tende solo ad accumulare profitto. L'Italia è psicologicamente nelle stesse condizioni di prima del '59: ma non è piú la classe borghese che oggi ha interessi unitari in economia e in politica. Storicamente la classe borghese italiana è già morta, schiacciata da una passività di cento miliardi, disciolta dagli acidi corrosivi dei suoi interni dissidi, dei suoi inguaribili antagonismi. Oggi la classe «nazionale» è il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento della nazione, perché la unità dello Stato è la forma dell'organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell'Internazionale comunista. Solo lo Stato proletario, la dittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione della unità nazionale, perché è l'unico potere reale che possa costringere i borghesi faziosi a non turbare l'ordine pubblico, imponendo loro di lavorare, se vogliono mangiare.

Il potere in Italia10

I cambi sono disastrosi, l'autorità dello Stato (borghese) va in pezzi, gli appetiti perversi e le passioni faziose non conoscono piú limiti: bisogna salvare l'Italia, bisogna salvare la collettività, bisogna salvare il popolo che è notoriamente superiore alle categorie, ai ceti, ai partiti, alle classi.

La Stampa batte angosciosamente campana a martello. Lo scrittore dei suoi editoriali, di solito malinconico con sfumature di sublime tenerezza, è diventato lugubre perdutamente. Egli ha dimenticato il saggio avvertimento che dalle stesse colonne della Stampa Bergeret impartí alla scempia improntitudine dei giornalisti antibolscevichi: «Di grazia, non fate venire i vermi ai bambini e ai pizzicaroli!»; lo scrittore batte campana a martello per impressionare la classe operaia, per far venire i vermi ai proletari; è persuaso che gli operai non siano spiritualmente superiori al livello dei droghieri e dei bambini e crede di poterli convincere a inginocchiarsi umilmente ai piedi del Salvatore: Giovanni Giolitti, martello dei nuovi ricchi, della massoneria e del fascio.

Quando un piccolo borghese, agente intellettuale del capitalismo, da malinconico diventa lugubre, gli è che il suo borsellino non è piú sicuro nemmeno tra i materassi. Allora il piccolo borghese si rabbuffa come un gufo sull'architrave della porta di casa, stride sconsolatamente e pare gema: cittadini, è inutile sfondiate l'uscio, poiché nel letto di casa marcisce solo un mucchietto di putredine cadaverica.

Quale borsellino difende la Stampa?

Lo Stato italiano era stato finora dominato dal capitale investito nella grande industria: il governo italiano è stato finora sempre in mano dei capitalisti pesanti che ai loro interessi di casta superprivilegiata hanno sacrificato tutti gli altri interessi della nazione. I partiti storici della borghesia italiana sono stati distrutti da questa egemonia soffocante e distruttiva che politicamente ha preso nome da Giovanni Giolitti ed è stata esercitata con la violenza piú estrema e con la corruzione piú svergognata. La guerra e le conseguenze della guerra hanno rivelato e hanno sviluppato forze nuove che tendono a una sistemazione nuova delle basi economiche e politiche dello Stato italiano. Tutta la struttura intima dello Stato italiano ha subito e continua a subire un intenso processo di trasformazione organica, i cui risultati... normali non sono ancora prevedibili con esattezza, eccettuato uno: cambieranno le conventicole dirigenti, cambierà il personale amministrativo, il potere di Stato cadrà completamente in altre mani da quelle tradizionali, da quelle... giolittiane.

Il capitale industriale, negli altri paesi capitalistici, è riuscito lentamente a creare un sistema di equilibrio col capitale fondiario e a ordinare lo Stato democratico costituzionale: è riuscito in Inghilterra, per esempio, per mezzo delle masse operaie, interessate all'abolizione dei dazi sui cereali e all'introduzione del libero scambio. In Italia il capitale industriale ha creato lo Stato come tale e ha spadroneggiato senza concorrenti. Il potere di Stato non si è preoccupato di niente altro che dello sviluppo, morboso spesso, del capitale industriale: protezioni, premi, favori d'ogni specie e di ogni misura. Le campagne sono state saccheggiate, la fertilità del suolo è stata isterilita, le popolazioni contadine hanno dovuto emigrare. Il potere di Stato ha difeso selvaggiamente le casseforti: gli eccidi di operai sfruttati nella fabbrica, e di contadini poveri messi nell'impossibilità di vivere dalla legislazione doganale che essiccava il suolo, faceva abbattere le foreste, faceva straripare i fiumi, non si contano nella storia italiana contemporanea. Lo Stato, per lo sviluppo dell'apparato industriale, assorbì la piccola borghesia campagnola, gli intellettuali, nei suoi organismi amministrativi, nei giornali, nelle scuole, nella magistratura: cosí la campagna non ebbe mai un partito politico proprio, non esercitò mai un peso negli affari pubblici. Il potere di Stato si accollò persino la funzione di banca degli industriali: le emissioni dei buoni al 4½ per cento servirono infatti, come è noto, a rastrellare i risparmi dei contadini e degli emigrati a centinaia di milioni: milioni che Giolitti dava alla Terni, ad Ansaldo, ecc., per forniture, per armamento, per la guerra libica.

La guerra ha portato alla ribalta un grande partito dei contadini, il partito popolare. Che le campagne non avessero mai avuto una rappresentanza propria, espressione specifica dei propri interessi e delle proprie aspirazioni politiche, si vede dalla composizione stessa del partito popolare, aristocratico e demagogico, poggiante insieme sui grandi e medi proprietari e sui contadini poveri e i piccoli proprietari. Il partito popolare aspira al governo, aspira al potere di Stato, aspira a costruire un suo Stato e ne ha i mezzi. La guerra ha determinato l'organizzazione dell'apparato industriale sotto il controllo delle banche: i clericali sono, oggi, in Italia, i maggiori e piú efficaci agenti per il rastrellamento del risparmio. Essi dominano già molte banche; in breve tempo riuscirebbero a dominarle tutte, se padroni del potere di Stato; in breve tempo tutte le clientele e le cricche tradizionali sarebbero spazzate via e sostituite: il partito popolare (700.000 tessere!) ha molti appetiti e molte ambizioni da saziare!

La patria è in pericolo, bisogna salvare il popolo e la collettività! Ohibò, è solo in pericolo il borsellino delle clientele giolittiane, è in pericolo il potere degli industriali politicanti e insaziabili, è in pericolo la carriera politica degli agenti piccolo-borghesi dell'affarismo capitalistico.

Certo lo Stato borghese non resisterà alla crisi. Nelle condizioni in cui è ridotto attualmente, la crisi lo manderà in pezzi. Ma la classe operaia non si preoccupa per il fatto che lo Stato borghese vada in pezzi, anzi contribuisce al fatto con tutte le sue forze. La classe operaia si preoccupa del fenomeno per un'altra ragione: perché comprende che sta per giungere la sua ora storica, gravida di responsabilità. La classe degli industriali è impotente a evitare che il partito politico dei contadini si impadronisca dello Stato e dell'industria e assoggetti l'uno e l'altra alle bramosie dei grandi e medi proprietari terrieri: la classe degli industriali è impotente a evitare che sia distrutta l'industria, che lo Stato dei contadini ricchi sacrifichi la produzione industriale per liberarsi dai debiti con l'estero, che il partito popolare riduca l'Italia a una sfera d'influenza del capitalismo straniero, a un paese di contadini che direttamente si provvedono di fuori dei prodotti industriali e manufatti. Ma gli operai si preoccupano del problema per i loro interessi vitali di classe, non per gli interessi economici e politici degli industriali, perché la loro classe andrebbe distrutta, perché la loro funzione storica di progresso civile verrebbe annientata, con l'annientamento dell'industria.

Il compito storico della classe operaia si delinea nitidamente per l'Italia, come si è delineato per la Russia. Le intime contraddizioni del sistema capitalistico hanno dilacerato tutta la rete dei rapporti interni della classe proprietaria e dei rapporti tra classe proprietaria e classe lavoratrice. I capitalisti sono impotenti ad arginare l'azione corrosiva dei veleni sviluppatisi nel corpo sociale; le distruzioni si succedono, le rovine si accumulano sulle rovine, i valori di civiltà minacciano di essere travolti irrimediabilmente. Solo la classe operaia, prendendo nelle sue mani il potere di Stato, può operare il rinnovamento. Essa, proseguendo senza transigere per la sua strada, non collaborando con la borghesia, determinerà la scissione esplicita delle classi nelle campagne, staccherà i contadini poveri e i piccoli proprietari dai ricchi, dagli sfruttatori, e se ne farà ausiliari per la creazione dello Stato operaio, per andare «al potere». Collaborando con la borghesia, la classe operaia ritarderebbe il processo rivoluzionario che si svolge nella società italiana e che deve culminare nella rottura in due tronconi del partito popolare, nell'irruzione violenta della lotta di classe nelle campagne: per qualche tempo ancora i contadini poveri si stringerebbero negli stessi ranghi dei proprietari, per non essere stritolati dalla città, dall'industria filibustiera. La classe operaia, che aborre dalla fraseologia patriottica, che aborre dalla fraseologia dei salvatori della industria e della produzione, di fatto è l'unica che tenda realmente a «salvare la patria» e a evitare la catastrofe industriale: ma per il compimento di questa sua missione vuole «tutto» il potere, e non sviene affatto per i gemiti lugubremente toccanti degli agenti della borghesia, dei salvatori del popolo e della collettività italiana, «superiore» alle categorie e alle classi.

Gli spezzatori di comizi11

È nota agli operai, per dolorosa esperienza, la istituzione capitalistica degli «spezzatori di scioperi». Gli operai hanno scarsi mezzi di resistenza contro la potenza del capitale, ma anche con questi mezzi scarsi possono toccare abbastanza profondamente il profitto e costringere il capitale a venire a patti; il capitale ricorre agli spezzatori di sciopero, sostituisce i ferrovieri, i postelegrafonici, gli elettricisti, i panettieri, i gasisti; con elementi volontari, con la sua guardia bianca, tenta di non lasciare interrompere la produzione, di non scontentare completamente la clientela, di impedire che scadano e si corrompano le condizioni generali del suo profitto.

Oggi è nata un'istituzione «originale»: quella dello spezzatore di comizi. Migliaia e migliaia di operai si radunano a comizio nelle piazze. Gli operai hanno scarse possibilità di riunione. Hanno interesse a usufruire completamente di queste scarse possibilità. Il comizio è per la classe operaia il mezzo piú importante per acquistare una coscienza di classe; il capitalismo attraverso la produzione industriale cerca dividere la classe in tante categorie, in tanti gruppi, in tante comunità slegate e disperse: nelle manifestazioni di massa, nei comizi, la classe si ritrova tutta, il metallurgico accanto al muratore, il calzolaio accanto al falegname, il gommaio accanto al panettiere, e sente la sua unità nella vibrazione comune per uno stesso ideale, nell'accettazione comune di uno stesso programma, di uno stesso metodo di lotta. Ebbene no: lo spezzatore di comizio non può permettere che migliaia e migliaia di operai affermino in un comizio la stessa disciplina che essi attuano in tutte le manifestazioni della lotta di classe, non può permettere che con questa disciplina si creino le condizioni in cui solo un comizio può svolgersi ed essere utile per l'educazione della classe operaia. Lo spezzatore di comizio vuole che la sua personcina, gonfia di vento parolaio e di vanità, sovrasti le migliaia e migliaia di operai, sia superiore alle volontà riunite di migliaia e migliaia di operai: egli priva cosí la classe operaia delle scarse possibilità di riunione di cui dispone, non permette alla classe operaia di svolgere le sue manifestazioni, di dimostrare la sua forza, di acquistare piú chiara coscienza della sua volontà collettiva. Se osservate, vedete che difficilmente lo spezzatore di comizi è un operaio di fabbrica, è un operaio industriale: quasi sempre egli è uno spostato, un uomo dai cento mestieri, che rivela nella sua irrequietezza fisica e... vocale la irrequietezza della sua vita economica, della sua vita di lavoro, che riflette nel suo cervello e nelle sue idee la incertezza e la confusione delle condizioni materiali della sua vita. Perciò anche lo spezzatore di comizi afferma di essere antiautoritario e di essere antimarxista perché Marx era «autoritario»; la verità è che Marx aveva preveduto questo tipo di pseudorivoluzionario e aveva messo in guardia la classe operaia contro i suoi metodi e la sua fraseologia; perché Marx credeva che la rivoluzione non si fa con la gola, ma col cervello, non si fa col vano dimenarsi fisico, col sommovimento del sangue nelle vene, ma colla disciplina della classe operaia che porta nella costruzione della società comunista le stesse virtù di lavoro metodico e ordinato che ha imparato nella grande produzione industriale.

La fase attuale della lotta12

1) La fisionomia della lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la quistione della proprietà sui mezzi di produzione. L'imperversare delle crisi nazionali e internazionali che annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il capitale è stremato; l'ordine attuale di produzione e di distribuzione non riesce piú a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione, strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri.

2) Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d'ordine lanciata dalla Confederazione generale dell'industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova forte organizzazione della classe proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su larga scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l'autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle piú dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza.

3) La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.

4) Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo, e di non comprendere nulla della missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato rivoluzionario. Il partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale comunista, non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria. Il partito socialista, come organizzazione politica della parte d'avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un'azione d'insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo. Il partito socialista, essendo costituito da quella parte della classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare dall'oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito d'iniziativa cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di accentrare in sé l'attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo da diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l'unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all'insieme dei movimenti e infondere la persuasione nelle folle che un ordine è immanente nello spaventoso attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il partito socialista è rimasto, anche dopo il congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario [...].

Giolitti al potere13

Giolitti al potere rappresenterà essenzialmente l'angusto spirito di terrore e di vendetta che caratterizza la piccola borghesia nel momento attuale. Giolitti succederà a Nitti, ma esiste e può esistere una differenza sostanziale tra questi due uomini? Nessuno dei due rappresenta un partito, nessuno dei due rappresenta interessi diffusi in ragguardevoli strati della popolazione, organizzati politicamente ai fini di governo parlamentare: tanto Nitti che Giolitti devono la loro fortuna politica all'essersi fatti i promotori, con i mezzi del potere di Stato, degli interessi della plutocrazia. Il grado di sviluppo raggiunto da questa forma di organizzazione dell'apparecchio nazionale di produzione e di distribuzione ha proletarizzato in gran parte e tende sempre piú a proletarizzare le classi medie; la democrazia parlamentare perde le sue basi di appoggio, il paese non può essere piú governato costituzionalmente, non esiste e non potrà piú esistere una maggioranza parlamentare capace di esprimere un ministero forte e vitale, che abbia cioè il consenso dell'«opinione pubblica», che abbia il consenso del «paese», cioè delle classi medie. A tre riprese l'on. Nitti ha cercato di organizzare una qualsiasi base parlamentare ai suoi governi polizieschi che dovevano garantire i profitti dell'alta banca, che dovevano infrenare l'opposizione economica del proletariato al capitalismo, che dovevano armare forze sufficienti a comprimere e soffocare la sollevazione popolare che fermenta minacciosa e potrebbe esplodere da un momento all'altro; per tre volte l'on. Nitti ha fallito e i suoi tentativi, poiché hanno dimostrato l'impossibilità di governare politicamente la società italiana, hanno contribuito ad accelerare la disgregazione dello Stato, ad esasperarne gli intimi contrasti, ad accrescere l'avvilimento morale e la dissoluzione civile.

Il ritorno di Giolitti al potere, di questo vecchio che durante la guerra ha avuto paura, di questo uomo senza avvenire, senza previsioni del futuro a lunga scadenza, di questo vecchio che non può avere altra ambizione che di tenere fortemente in mano l'arma del potere di Stato per brandirla sulla testa dei suoi nemici; per farli tremare alla loro volta come egli ha tremato, per interrorirli come egli è stato interrorito — il ritorno di Giolitti al potere è l'avvento al potere dello spirito di terrore e di vendetta che caratterizza la piccola borghesia nel momento attuale. Questa classe che piú aveva sperato dalla guerra e dalla vittoria, ha piú perduto a causa della guerra e della vittoria; essa aveva creduto che la guerra veramente significasse prosperità, libertà, sicurezza della vita materiale, soddisfazione delle sue vanità nazionalistiche, aveva creduto che la guerra avrebbe significato tutti questi beni per il «paese», cioè per la propria classe. Ha invece tutto perduto, ha visto rovinare il suo castello del sogno, non ha piú libertà di scelta, è ridotta nella piú tormentosa miseria dal continuo aumento dei prezzi, ed è esasperata, furiosa, imbestialita: vuole vendicarsi, genericamente, incapace com'è di identificare le cause reali del marasma in cui è piombata la nazione. I fautori del ritorno di Giolitti al potere, gli scrittori della Stampa, in quanto partecipano di questa diffusa psicologia delle classi medie, ne hanno dato una efficacissima espressione letteraria e hanno cercato di presentarla come un programma di governo. I giolittiani sono gente che ricorda, sono gente che vuole ricordare, che non aspira ad altro che a frugare affannosamente nel passato; questa mania da vecchi senza avvenire, i giolittiani la chiamano arte di governo, la sola arte di governo che restaurerà il prestigio dello Stato, che ripristinerà il potere delle istituzioni. Anche da questo punto di vista il ritorno di Giolitti è un segno vistoso della decadenza delle classi dirigenti italiane, è un documento della scaduta capacità politica della casta governativa italiana. Era un assioma politico che ai governi borghesi conviene piú dimenticare che ricordare: il principio di prescrizione era diventato ragion di Stato; la mania moralisteggiante era posta in ridicolo e rappresentata come propria delle epoche di decadenza, dei paesi in dissolvimento. In Italia forse piú che in ogni altro paese il principio di prescrizione era diventato metodo di ordinaria amministrazione: l'Italia era il paese classico delle amnistie, degli indulti, delle grazie sovrane. Giolitti vuole vendicarsi; la piccola borghesia vuole vendicarsi; gli scrittori della Stampa solleticano e aizzano questo spirito di vendetta, che è espressione di timor panico, non di forza, che è creatore di marasma, non principio d'ordine. Cosí l'avvento di Giolitti al potere, di questo vecchiardo senza avvenire, di questo vecchiardo che vede solo il passato e non può fare previsioni a lunga scadenza nel futuro, di questo vecchiardo che ha avuto paura e vuole fare paura, cosí l'avvento di Giolitti al potere può essere veramente assunto a simbolo dello sfacimento della società italiana, del dissolversi delle classi dirigenti, della decadenza della cultura e dell'intelligenza della casta governativa italiana.

Gli scrittori della Stampa sperano di coinvolgere il proletariato in questa sarabanda di imbestialiti e di epilettici in preda al timor panico. Ma il proletariato ha una dottrina, il comunismo critico, che gli dà un orientamento, ha una concezione reale della storia che lo pone fuori da queste crisi di pazzia furiosa. Il proletariato sa che la guerra mondiale non fu un errore, ma una necessità dello sviluppo storico del capitalismo giunto alla fase imperialista, alla fase in cui le economie nazionali non possono piú sussistere, ma tendono a evadere dai limiti nazionali per organizzarsi internazionalmente, alla fase caratterizzata dai monopoli e dai trusts, alla fase in cui la banca diventa la forma dell'organizzazione dell'apparecchio nazionale di produzione e distribuzione. Il fallimento della guerra e della vittoria significa che questa organizzazione dell'economia non è possibile in regime di proprietà privata; in regime di proprietà privata, essa è uno spaventoso strumento di oppressione, di sfruttamento, di avvilimento della stragrande maggioranza della popolazione: pochi individui stabiliscono i piani di produzione e di distribuzione per il loro profitto, per il loro arricchimento individuale, pochi individui accentrano nelle loro mani i destini delle masse sterminate della popolazione lavoratrice e usano ogni mezzo di violenza e di frode per mantenere questo potere, per dominare questa fonte della loro ricchezza. Il proletariato non vuole, come i piccoli borghesi interroriti, distruggere questo apparecchio perfezionato dell'economia, vuole espropriarlo e socializzarlo, vuole svilupparlo ancor di piú e farne lo strumento della sua totale emancipazione, vuole con esso, emancipando sé, liberare anche tutte le altre classi oppresse, anche la piccola borghesia che oggi è diventata epilettica e aspira solo ad accumulare altre rovine sulle rovine, a determinare nuovo marasma nel marasma già esistente.

Previsioni14

Poiché non esiste nel nostro paese nessuna forza organizzata diffusamente, armata di una volontà chiara e diritta, che persegua (e mostri di poter perseguire) un piano di azione politica che aderisca al processo storico e sia pertanto una interpretazione della storia reale e immediata, e non un piano prestabilito a freddo e astrattamente — poiché una forza di tal genere non esiste ancora (secondo noi essa può essere e sarà soltanto il Partito comunista italiano), non resta, a chi voglia, nell'attuale situazione, compiere opera utile di rischiaramento e di educazione politica, altro che tentare di fare delle previsioni, considerando le forze in giuoco come elementari, come spinte da istinti oscuri e opachi, come semoventesi non in vista di un fine consapevole ma per un fenomeno di tropismo determinato dalle passioni e dai bisogni elementari: la fame, il freddo, la paura cieca e folle dell’Incomprensibile. Specialmente quest'ultimo motivo (la paura, il folle terrore della creatura nudo bruco che si sente travolta in una tempesta di cui non conosce le leggi, la direzione esatta, la durata approssimativa) pare predomini oggi nella società italiana e possa dare una spiegazione alquanto soddisfacente degli avvenimenti in corso.

Se, a breve scadenza, una potente forza politica di classe non emerge dal caos (e questa forza, per noi, non può essere altro che il Partito comunista italiano), e questa forza non riesce a convincere la maggioranza della popolazione che un ordine è immanente nell'attuale confusione, che anche questa confusione ha una sua ragion d'essere, poiché non può immaginarsi il crollo di una civiltà secolare e l'avvento di una civiltà nuova senza tale subisso apocalittico e tale rottura formidabile, se questa forza non riesce a collocare la classe operaia nelle coscienze delle moltitudini e nella realtà politica delle istituzioni di governo, come classe dominante e dirigente, il nostro paese non potrà superare la crisi attuale, il nostro paese non sarà piú, per almeno duecento anni, una nazione e uno Stato, il nostro paese sarà il centro di un maelstrom che trascinerà nei suoi vortici tutta la civiltà europea.

Il sentimento della paura folle è proprio della piccola borghesia e degli intellettuali, come è proprio di questi strati della popolazione il sentimento della vanità e dell'ambizione nazionalistica. La piccola borghesia e gli intellettuali, per la posizione che occupano nella società e per il loro modo di esistenza, sono portati a negare la lotta delle classi e sono condannati quindi a non comprendere nulla dello svolgimento della storia mondiale e della storia nazionale che è inserita nel sistema mondiale e obbedisce alle pressioni degli avvenimenti internazionali. La piccola borghesia e gli intellettuali, con la loro cieca vanità e la loro sfrenata ambizione nazionalistica, dominarono la guerra italiana, ne diffusero una ideologia astratta e ampollosa e ne furono travolti e stritolati, perché la guerra italiana era un momento secondario della guerra mondiale, era l'episodio marginale di una gigantesca lotta per la spartizione del mondo tra forze egemoniche che avevano bisogno dell'Italia come di una semplice pedina nel loro formidabile giuoco. Vinta e stritolata nel campo internazionale, pareva che la piccola borghesia fosse stata vinta e distrutta anche nel campo nazionale, per l'irrompere del proletariato subito dopo l'armistizio fino al 16 novembre.

La lotta di classe, compressa durante la guerra, irresistibilmente tornava a dominare la vita nazionale, e pareva dovesse spazzar via i suoi negatori: ma la lotta di classe, ma il proletariato non era riuscito durante la guerra, nella compressione e nell'oppressione della guerra, ad acquistare la coscienza di sé e della sua missione storica, non era riuscito a espellere dal suo seno il proprio incrostamento parassitario piccolo borghese e intellettuale. Anche il proletariato ha la sua «piccola borghesia», come il capitalismo; e l'ideologia dei piccoli borghesi che aderiscono alla classe operaia non è, come forma, diversa da quella dei piccoli borghesi che aderiscono al capitalismo. Vi si trova lo stesso elemento di vanità sconfinata (il proletariato è la piú gran forza! il proletariato è invincibile! nulla potrà arrestare il proletariato nella sua fatale marcia in avanti!) e lo stesso elemento di ambizione internazionale, senza una esatta comprensione delle forze storiche che dominano la vita del mondo, senza la capacità di identificare nel sistema mondiale il proprio posto e la propria funzione. Oggi vediamo che, irrompendo dopo l'armistizio, la lotta di classe proletaria non ottenne che di issare ai fastigi della politica nazionale altro che la propria piccola borghesia vanitosa e petulante; oggi vediamo che il «massimalismo» socialista in nulla si differenzia, come forma, dall'ideologia piccolo borghese della guerra: si ricorre al nome di Lenin invece che a quello di Wilson, c'è il richiamo alla Terza Internazionale invece che alla Lega delle nazioni, ma il nome è solamente un nome e non il simbolo di un attivo stato di coscienza; la Terza Internazionale, come la Lega delle nazioni, è un mito sguaiato, non una organizzazione di volontà reali e di azioni trasformatrici dell'equilibrio mondiale.

Il proletariato non riuscì ad esprimere altro che una nuova piccola borghesia, incapace e senza un fine storico reale; la lotta di classe, che doveva tendere alle sue conclusioni dialettiche, alla fondazione di uno Stato operaio, si sparpagliò in una molteplicità di piccole distruzioni e di azioni [una parola mancante] e la piccola borghesia, che sembrava distrutta, riprese fiato, si raggruppò; avendo visto che la lotta di classe non è riuscita a svilupparsi e a concludersi, nuovamente la nega, nuovamente si diffonde la persuasione che si tratti di delinquenza, di barbarie, di avidità sanguinaria. La reazione, come psicologia diffusa, è un portato di questa incomprensione: gli elementi di questa psicologia sono la paura folle e l’abbiezione piú bassa, correlative necessarie dell'ambizione e della vanità che caratterizzarono gli stessi strati della popolazione prima della rovina economica e della caduta del programma nazionalista. Ma le forze elementari scatenate dal fallimento del massimalismo «piccolo-borghese», dalla disperazione che invade gli animi per la incomprensione delle leggi che governano anche questa crisi, per la persuasione che il paese sia in balìa di spiriti demoniaci incontrollabili e imponderabili, ma queste forze elementari non possono non avere un movimento politico, non possono non condurre a una conclusione politica. La convinzione diffusa nei ceti industriali e piccolo borghesi della necessità della reazione, valorizza i gruppi e i programmi generali di chi ha sempre sostenuto la reazione: l'alta gerarchia militare, il fascismo, il nazionalismo. La questione adriatica riprende l'aspetto di questione nazionale, la guerra alla Jugoslavia riprende l'aspetto di missione nazionale. La reazione significa guerra nuovamente, e non guerra limitata, ma guerra in grande stile, poiché i grandi Stati capitalisti, proprio essi, si sono opposti alle aspirazioni dei nazionalisti italiani. Non vi pare di sentire in prossimità l'eco delle parole d'ordine: — la nazione proletaria deve lottare contro le nazioni capitaliste! Chi ha ferro ha pane! — non vi pare di risentire gli aforismi politici sulla decadenza francese e sulla gioventù espansiva dell'Italia?

L'Italia è veramente in preda a spiriti demoniaci incontrollati e imponderabili: l'unico principio d'ordine è contenuto nella classe operaia, nella volontà proletaria di inserire concretamente e attivamente l'Italia nel processo storico mondiale; questo principio d'ordine può esprimersi politicamente solo in un partito comunista ferreamente organizzato e che abbia un fine ben chiaro e netto da proporsi. Il problema attuale, il problema storico fondamentale della vita italiana, è la organizzazione del partito comunista, che dia coscienza e movimento autonomo e preciso alle forze vive che esistono nel nostro paese e possono ancora salvarlo dalla perdizione.

Cos'è la reazione?15

Molto sibillinamente la Stampa annuncia che l'on. Giolitti, rafforzato dalle recenti dimostrazioni di fiducia (??) accordate alla sua politica dalla nazione italiana, si accinge a tradurre in atto la seconda parte del suo programma di governo: restaurazione dello Stato. Molto sibillinamente la Stampa prevede (avviso a chi tocca!) che la seconda parte del programma di governo dell'on. Giolitti: restaurazione dello Stato, determinerà, da parte degli anarchici, dei comunisti e dei fascisti (!?) l'unanime e concorde grido d'allarme contro la reazione.

Cosa sarà dunque questa «reazione» che la Stampa preannuncia? Cosa significa «applicazione della giustizia», ecc., ecc.? Intanto occorre fissare questo punto: che l'on. Giolitti è sempre stato un reazionario, che l'on. Giolitti è stato anzi l'esponente tipico della reazione capitalistica italiana. Il capitalismo è reazionario quando non riesce piú a dominare le forze produttive di un paese. Il capitalismo italiano ha incominciato ad essere reazionario da quando il governo italiano, abbandonato il programma liberoscambista del conte di Cavour e della vecchia Destra, è diventato protezionista e «riformista». Incapace a dominare nei quadri della libera concorrenza le forze produttive italiane, il capitalismo ha ridotto lo Stato all'ufficio di un suo diretto agente commerciale, il capitalismo ha ridotto la milizia nazionale, la burocrazia, la magistratura, tutti gli istituti del potere governativo, all'ufficio di immediati strumenti del suo permanere e del suo svilupparsi. L'on. Giolitti è stato l'uomo politico piú rappresentativo di questa azione svolta dal capitalismo in Italia.

Oggi l'on. Giolitti continua e non può non continuare la sua politica tradizionale: egli è sempre lo stesso reazionario. Oggi l'on. Giolitti intensifica la sua attività reazionaria perché il capitalismo si rivela sempre piú incapace a dominare le forze produttive. La tattica delle «aristocrazie operaie» non è piú efficace; non vale piú a nulla la tattica di favorire i cooperatori di Reggio Emilia nello stesso tempo in cui si massacrano i contadini poveri meridionali; non vale piú a nulla la tattica di corrompere direttamente i deputati socialisti settentrionali nello stesso tempo in cui, attraverso l'azione poliziesca dei prefetti e l'azione intimidatrice dei mazzieri debellisti si riempie il Parlamento di una ventraia di ascari meridionali. Oggi le grandi masse popolari partecipano alla lotta economica e alla lotta politica: oggi la necessità di strappare il pane di bocca ai lavoratori industriali e agricoli è divenuta assillante per il capitalismo. Occorrono i grandi mezzi: lo Stato borghese deve farsi sempre piú reazionario, deve sempre piú direttamente e violentemente intervenire nella lotta delle classi, per reprimere i tentativi che il proletariato fa nella via della sua emancipazione.

Questa «reazione» non è solo italiana: essa è un fenomeno internazionale, perché il capitalismo non solo in Italia ma in tutto il mondo è divenuto incapace a dominare le forze produttive. Il fenomeno del «fascismo» non è solo italiano, cosí come non è solo italiano il formarsi del partito comunista. Il «fascismo» è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato, cioè di un rincrudimento della reazione capitalistica, di un inasprimento della lotta capitalistica contro le esigenze piú vitali della classe proletaria. Il fascismo è l'illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza: è nota legge storica che il costume precede il giure. Il fascismo italiano ha incendiato l'Avanti! di Milano e di Roma, ha incendiato il Proletario di Pola e il Lavoratore di Trieste e nessun fascista è stato punito: lo Stato restaurato non incendierà piú, sopprimerà «legalmente». Il fascismo ha assaltato Camere del lavoro e municipi socialisti: lo Stato restaurato scioglierà «legalmente» le Camere del lavoro e i municipi che vorranno rimanere socialisti. Il fascismo assassina i militanti della classe operaia: lo Stato restaurato li manderà «legalmente» in galera e, restaurata anche la pena di morte, li farà «legalmente» uccidere da un nuovo funzionario governativo: il carnefice. Questo sviluppo è universale, si è verificato già in parte e continuerà a svilupparsi normalmente anche in Italia. I comunisti hanno preveduto questo sviluppo fin dallo scoppio della guerra mondiale, crisi decisiva dell'incapacità capitalistica a dominare le forze produttive mondiali senza l'intervento attivo e permanente della violenza diretta. Perciò i comunisti non grideranno alla reazione giolittiana come a cosa nuova. Continueranno a svolgere la loro azione, freddamente, metodicamente, coraggiosamente, persuasi di rappresentare l'avvenire della civiltà europea e mondiale, persuasi di rappresentare le forze che devono trionfare di tutto e di tutti, a meno che la civiltà umana non debba definitivamente essere sommersa dallo scatenamento di animalità e di barbarie determinato dall'imperialismo e dal militarismo.

La forza dello Stato16

La forza dello Stato borghese risiede tutta nell'organizzazione armata ufficiale. Dall'armistizio fino ad oggi l'organizzazione armata dello Stato italiano non ha cessato un istante dal rivelarsi in intimo e progressivo sfacelo; la decomposizione si è allargata fino a tutte le altre istituzioni che si reggono sulla forza armata: l'amministrazione della giustizia, l'amministrazione del potere governativo.

La lotta attuale tra D'Annunzio e Giolitti è l'episodio culminante di questo sfacelo. Vi è alcunché di simbolico in questa lotta. Lo Stato italiano, pur nella sua farragginosa e mastodontica macchinosità, è stato sempre una cosa cosí buffa, che non maraviglia debba essere sfasciato proprio da un tipo come D'Annunzio. L'on. Giolitti è stato uno dei maggiori costruttori dello Stato italiano; l'on. Giolitti è l'uomo che, dal '90 ad oggi, ha tenuto per un maggior numero di anni il potere governativo, egli conosce alla perfezione tutti i pezzi e tutte le nervature di questa macchina, egli può dirsi la impersoni, tanto la sua attività ha contribuito a darle forma e movimento: oggi l'on. Giolitti stesso è impotente a tenerla insieme, è impotente a impedirne il sabotaggio e la completa rovina. E da parte di chi? Non già di una grande forza avversaria, non già di un grande partito rivoluzionario che organizzi le masse popolari per farne un potente ariete da scagliare contro i baluardi del privilegio capitalistico; ma da parte di un letterato-guerriero, da parte di un uomo che vuole semplicemente divertirsi, da parte di un personaggio storico tutto italiano, nel quale si uniscono la psicologia di Coccapieller con quella di un Davide Lazzaretti. Lo Stato italiano, in qualunque modo abbia fine questa lotta, è irrimediabilmente compromesso nel suo prestigio e nella sua dignità: la dimostrazione sperimentale del suo non essere, della sua incapacità politica, della sua anemia organizzativa, è stata data perentoriamente.

Ma come andrà a finire la lotta? L'assenza, proprio in questo periodo storico, di un forte partito politico del proletariato rivoluzionario, di un partito comunista rigidamente accentrato, capace di formare con la sua organizzazione la prima, provvisoria impalcatura di uno Stato operaio, autorizza l'affermazione che solo un rincrudimento di barbarie e di reazione sarà la fine di questa lotta. La dissoluzione del potere borghese non significa di per se stessa nascita di un partito proletario se manca l'organizzazione politica della classe oppressa, se l'organizzazione esistente non ha un programma e un piano d'azione, la dissoluzione non può essere arrestata energicamente e continua a corrompere e a far imputridire tutto il corpo sociale. Stato significa accentramento di comando e d'azione. Lo Stato italiano cade in pezzi appunto perché i poteri locali non funzionano secondo le parole d'ordine che partono dal centro governativo: pullulano invece i gruppi armati locali, che si sostituiscono all'organizzazione armata ufficiale, ubbidiscono a interessi locali, svolgono una lotta da partigiani contro gli avversari locali. Il fascismo è l'espressione di questo corrompersi dei poteri statali. D'Annunzio lotta contro Giolitti perché esiste il fascismo bolognese, milanese, torinese, fiorentino, ecc.; Giolitti è impotente contro D'Annunzio perché a Bologna, a Milano, a Torino, a Firenze i suoi funzionari sostengono il fascismo, armano i fascisti, si confondono coi fascisti; perché in tutti questi centri il fascismo si confonde con la gerarchia militare, perché in tutti questi centri il potere giudiziario lascia impunito il fascismo. Il fascismo, come fenomeno nazionale, non può fondare un suo Stato, non può organizzarsi in potere centrale, perché si confonde già con lo Stato, perché trova già la sua centralizzazione nell'attuale governo di Giolitti; il fascismo, come fenomeno dannunziano, è una contraddizione, non è un'antitesi, è una faccia dello stesso governo giolittiano, non ha niente di rivoluzionario, perché non è capace di superare dialetticamente il suo apparente avversario, perché non è capace di sostituirlo. Lo Stato italiano si dibatte in questa sua crisi morbosa, di intimo disfacimento; può risultare da essa solo nuova barbarie, nuovo caos, nuova anarchia, nuova reazione. Mai, come in questo momento, lo Stato italiano è stato una cosa risibile, una cosa buffa: ma purtroppo, nella vita degli Stati, essere buffi e ridicoli significa impunità per i violenti e nessuna sicurezza per le persone, significa sopruso, angheria, prepotenza, significa reazione contro i lavoratori.

Ecco perché noi crediamo che la discussione odierna fra le tendenze del Partito socialista italiano interessi tutta la massa lavoratrice e non solo i «tesserati». La quistione posta è questa: avrà il proletariato rivoluzionario il suo partito indipendente di classe, capace di centralizzare tutti gli sforzi di ribellione del popolo lavoratore, capace di fondare uno Stato operaio, capace di salvare dall'attuale caos gli elementi di rigenerazione e di ricostruzione, e di organizzarli fortemente e permanentemente? Oggi il partito socialista è impari al suo compito storico, è impotente a dominare la situazione, perché contiene nel suo seno le stesse contraddizioni che dilaniano lo Stato borghese. Come la borghesia non riesce piú a tenere in piedi uno Stato forte, rispettato, ubbidito dalle molteplici parti che lo compongono, cosí non riuscirebbe a reggersi uno Stato popolare che risultasse dall'avvento al potere del partito socialista cosí come oggi è composto. Uno Stato di tal genere non avrebbe nessuna forza, come l'attuale Stato giolittiano-fascista; sarebbe una continuazione del caos e dell'anarchia odierni: non sarebbe un energico colpo d'arresto alla dissoluzione borghese, ma una ulteriore fase di questa dissoluzione, con in piú una completa demoralizzazione delle masse popolari. Ecco perché la discussione delle tendenze oggi interessa tutto il proletariato; il partito si disgrega perché si disgrega lo Stato borghese, perché le ideologie e i programmi, in simili situazioni, tendono a chiarirsi fino allo spasimo, perché piú fortemente si sentono le responsabilità. Il partito si disgrega perché sta nascendo un nuovo partito, il partito comunista, il partito del proletariato rivoluzionario; perché il proletariato rivoluzionario, neppure in momenti come l'attuale intende compromettere il suo avvenire in qualche combinazione del genere di quella preparata dal conte Karoly in Ungheria. Ciò che avviene oggi alla borghesia è un insegnamento prezioso per la classe operaia; Giolitti non può governare coi fascisti, la classe operaia non potrà governare e si rifiuterà di governare coi riformisti e cogli opportunisti: nello Stato operaio, come nello Stato borghese, non possono farsi esperimenti di mezzadria, senza seguito di rovine e di maggior corruzione.

Il popolo delle scimmie17

Il fascismo è stato l'ultima «rappresentazione» offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell'avventura fiumana è l'ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l'episodio piú importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana.

Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell'ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel «cretinismo parlamentare». Questo fenomeno, che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente «avvento della sinistra al potere», diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell'istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull'amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l'azione diretta, è la pressione dall'esterno. La settimana rossa del giugno 1914, contro gli eccidi, è il primo, grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbitrii del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova piú una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia.

La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del lavoro per galvanizzare il morticino - controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di «radiose giornate di maggio», con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della giungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della giungla, di possedere tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza.

Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente raggiunto questo fine, si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l'idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di «vero rivoluzionarismo», di «sindacalismo nazionale». L'azione diretta delle masse nei giorni 2-3 dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all'attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni piú ricchi e piú sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito ed esaurito dalla guerra.

L'avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell'organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente «il fascismo», non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l'istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l'esercito, la polizia, la magistratura. Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il «popolo delle scimmie» è caratterizzato appunto dall'incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale, per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici «rivoluzionari» e disgregare la piú potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del «popolo delle scimmie», della piccola borghesia.

Sviluppandosi, il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce piú a nascondere la sua vera natura. Conduce una campagna feroce contro l'on. Nitti presidente del consiglio, campagna che giunge fino all'aperto invito ad assassinare il primo ministro; lascia tranquillo l'on. Giolitti e gli permette di portare «felicemente» a termine la liquidazione dell'avventura fiumana; l'atteggiamento del fascismo verso Giolitti ha subito segnato la fortuna di D'Annunzio e ha posto in rilievo il vero fine storico dell'organizzazione della piccola borghesia italiana. Quanto piú forti sono diventati i «fasci», quanto meglio inquadrati sono i loro effettivi, quanto piú audaci e aggressivi essi si dimostrano contro le Camere del lavoro, e i comuni socialisti, tanto piú caratteristicamente espressivo è stato il loro atteggiamento verso il D'Annunzio invocante l'insurrezione e le barricate. Le pompose dichiarazioni di «vero rivoluzionarismo» si sono concretate in un petardo inoffensivo fatto esplodere sotto un androne della Stampa!

La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del «fascismo», si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre piú larga scala, la violenza privata all'«autorità» della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre piú larghi strati della popolazione.

I becchini della borghesia italiana18

Dove vuol giungere l'on. Giolitti? Chiunque abbia un briciolo di senno politico, a qualsiasi partito appartenga, non può non farsi questa domanda, dinanzi allo spettacolo offerto dall'Italia in questo momento.

I giornalisti borghesi, gli stessi che piú si accaniscono, con la loro bassa e triviale letteratura contro i comunisti, non riescono a nascondere il loro profondo turbamento interiore. Gli stessi scrittori della Stampa che nel 1918 e '19 affermavano: «preferiamo, per amore del popolo italiano, il bolscevismo al fascismo», gli stessi scrittori della Stampa che oggi devono, per obbligo d'ufficio, sostenere l'on. Giolitti in ogni sua azione, dimostrano di essere esterrefatti e disorientati. Dove vuol giungere l'on. Giolitti? Questi polemisti della borghesia, nonostante il loro partito preso e la loro unilateralità, sentono, per quel poco di rozza intuizione psicologica e politica di cui sono forniti, che nella situazione creata dalla guerra e dai tre anni dopo l'armistizio, non basta piú riempire le colonne dei giornali di parole grosse e di minacce, sentono che non basterebbe piú neanche l'arresto di tutti i militanti comunisti e lo scioglimento del partito. Che i giornali, nei milioni e milioni di copie quotidiane, urlino: «La colpa di tutto risale al bolscevismo!», non basta piú a trasformare lo spirito popolare. Tre anni di esperienza reale valgono piú di ogni propaganda ideologica (?). Il popolo italiano ha visto che l'istituto della giustizia non ha piú funzionato dallo scoppio della guerra ad oggi; il popolo italiano ha perduto ogni fiducia nella giustizia. Enormità inutili sono state commesse durante la guerra, inutili completamente, anche dal punto di vista delle necessità militari; esse sono diventate leggenda popolare, si sono incorporate nel costume, nessuna forza dialettica può distruggere i sentimenti che hanno suscitato. Enormità inutili, da ogni punto di vista, anche dal punto di vista della piú rigida e angusta ragion di Stato, sono state lasciate commettere dopo l'armistizio. L'istituto della giustizia non è stato neppure capace di interpretare gli interessi piú reali e permanenti della borghesia: sarebbe forse bastato, per lo spirito popolare, un solo atto, forse anche la sola apparenza di un solo atto. Invece nulla, assolutamente nulla. Dall'incendio dell’Avanti! di Milano, nel 1919, fino a oggi, nessuno è stato condannato, nessuno è stato neppure molestato per le violenze contro i beni e contro le persone della classe operaia. O che si ritiene il popolo italiano composto di soli idioti, composto solo di ciechi, sordi, muti, composto solo di abbrutiti e demoralizzati? O che si ritiene che il popolo italiano sia assolutamente incapace di ricordare? Per quanto la classe borghese italiana, durante la guerra, abbia logorato una gran parte della sua intelligenza e della sua capacità a dirigere e governare le masse, tuttavia neppure il piú pessimista dei suoi avversari può pensarla ridotta a tal grado di abbrutimento e demoralizzazione. I polemisti della borghesia sentono che non si offende impunemente il sentimento piú profondo delle masse popolari: il sentimento della giustizia. Essi hanno l'impressione viva dell'abisso in cui la società italiana è stata spinta. Non c'è convinzione nei loro discorsi anticomunisti. Posti dinanzi all'orrore degli avvenimenti, questi uomini hanno perduto la tranquillità: essi non riescono piú a compilare i loro componimenti a freddo. Nella stessa rabbiosa secchezza e inumanità dei piú forsennati si riesce a cogliere una intima disperazione, un folle terrore che non sono dovuti a persone corporali, a nemici corporali, ma a un ignoto e incontrollabile fantasma che essi comprendono e sentono suscitato, che essi comprendono essere stato scatenato nel paese. E l'ansia di tutta questa gente si domanda: «Dove vuol giungere l'on, Giolitti?».

Mai come in questo momento l'onorevole Giolitti è riuscito a concentrare nella sua persona l'attenzione e le ansie delle classi borghesi italiane. Non lo comprendono e perciò! sono maggiormente spinti verso di lui; forse ne hanno paura, ma appunto perciò si aggrappano disperatamente a lui. Non lo comprendono: sanno, sono sicuri che, se Giolitti avesse voluto, con l'energia dimostrata verso D'Annunzio avrebbe potuto far cessare di colpo le imprese fasciste e organizzare le forze fasciste per una forma di reazione piú cauta e meno disastrosa. La capacità politica di cui dispongono è sufficiente per far loro comprendere che la distruzione delle Camere del lavoro e dei giornali peggiora le condizioni economiche e politiche della classe operaia e inasprisce permanentemente la guerra civile. Comprendono che la lotta, in condizioni tali, non finirà mai e che nel dilemma: o potere borghese o potere operaio sta per inserirsi un termine medio: distruzione degli uni o degli altri. Conoscono il popolo italiano: sanno che finora non ha avuto capi, e che la soppressione degli individui rappresentativi non muterà per nulla i rapporti di forza: in Italia i capi sfungano da ogni angolo e soppresso un partito nasce «una vendita di carbone» o addirittura una camorra. Perciò i polemisti della borghesia non comprendono l'on. Giolitti, non comprendono dove voglia giungere e non sono tranquilli e scrivono senza convinzione.

Ci convinciamo di avere avuto ragione quando, all'avvento dell'on. Giolitti al potere, abbiamo scritto: l'on. Giolitti non ha nessun programma e non si basa su nessuna consistente e reale classe della società italiana. Egli è l'esponente delle classi medie interrorite e disperate per il fatto che non comprendono piú il meccanismo di sviluppo della storia. L'on. Giolitti è un vecchio che durante la guerra ha avuto paura; egli, dopo decine e decine di anni di potere incontrastato, ha sofferto nel maggio 1915 le peggiori offese e le maggiori umiliazioni che un vecchio abituato al potere possa soffrire. È un vecchio senza avvenire, senza previsioni per il futuro; è stato oltraggiato sanguinosamente, ha avuto paura di finire sul patibolo (se nel 1917 Cadorna avesse attuato la sua dittatura, l'on. Giolitti avrebbe ricevuto i peggiori colpi della reazione militarista e bonapartista), ha un solo desiderio, vendicarsi crudelmente, essere il becchino di una classe che deve intimamente disprezzare. L'on. Giolitti, dopo l'armistizio, era il vero rappresentante delle classi medie, che anch'esse avevano avuto paura, che anch'esse perché non ancorate a modi di esistenza ferreamente stabiliti dal salario degli operai o dal profitto dei capitalisti non hanno un indirizzo, non possono far previsioni nel futuro, che anch'esse vogliono sfogare una inesausta sete di vendetta. Cosí l'on. Giolitti è giunto al potere, logicamente, e ha realizzato il suo piano. Egli si è vendicato e continua a vendicarsi. Egli si è vendicato di D'Annunzio e di Mussolini. Si è vendicato di D'Annunzio organizzando contro Fiume l'opinione pubblica borghese come si era fatto contro di lui nel maggio 1915; ha isolato D'Annunzio come egli stesso era stato isolato. Si è vendicato di Mussolini perché gli ha fatto mancare la parola data, perché lo ha dimostrato in tutta la sua impotenza, perché è riuscito a non fargli ripetere neppure una delle cose atroci del bel tempo andato. Si è vendicato dell'interventismo, perché, nella forma odierna di fascismo, riesce a manovrarlo, a indirizzarlo ai suoi fini politici immediati. Si vendica dei socialisti, che non hanno voluto apertamente appoggiarlo nel maggio 1915 e non si decidono ad appoggiarlo apertamente oggi. E lascia perciò che si scatenino tutte le forze incomposte, che bollano tutti i fermenti impuri, che si distrugga e si crei l'irreparabile. Questo periodo di storia offre un grandissimo numero di tali fenomeni di terrore, di disperazione, di freddo e cieco spirito di vendetta. Ogni periodo di trapasso è anzi caratterizzato da tali fenomeni di pazza disperazione delle classi medie: la classe media è oggi al governo in Italia, ed è rappresentata da un uomo che ne sintetizza tutta la psicologia e il disorientamento. Scettico, senza aspirazioni, senza previsioni per il futuro, non legato piú da nessun legame alla popolazione che disprezza perché ne ha sempre conosciuto la parte peggiore e piú inetta, l'on. Giolitti, che ha vissuto tutte le soddisfazioni e tutti i tormenti che un uomo possa vivere, vuole essere il becchino della borghesia. Non si preoccupa neppure se, lasciandole aizzare contro, fino all'estremo limite dell'umanità, il popolo, non determinerà tale ondata di esasperazione disumana, che si oltrepassi ogni limite e tutto venga sommerso di quanto sopravvive ancora di civiltà.

Noi siamo tranquilli, perché abbiamo una bussola, perché abbiamo una fede. Anche se immersi nella realtà piú cupa e atroce, noi crediamo nello sviluppo delle forze buone del popolo lavoratore, noi siamo sicuri che esse trionferanno di qualsiasi demoralizzazione, di qualsiasi piú oscura barbarie. La nostra concezione del mondo si sintetizza nella profonda persuasione che il male non riuscirà mai a prevalere.

Italia e Spagna19

Cos'è il fascismo, osservato su scala internazionale? È il tentativo di risolvere i problemi di produzione e di scambio con le mitragliatrici e le revolverate. Le forze produttive sono state rovinate e sperperate nella guerra imperialista: venti milioni di uomini nel fiore dell'età e dell'energia sono stati uccisi; altri venti milioni sono stati resi invalidi; le migliaia e migliaia di legami che univano i diversi mercati mondiali sono stati violentemente strappati; i rapporti tra città e campagna, tra metropoli e colonie, sono stati capovolti; le correnti d'emigrazione, che ristabilivano periodicamente gli squilibri tra l'eccedenza di popolazione e la potenzialità dei mezzi produttivi nelle singole nazioni, sono state profondamente turbate e non funzionano piú normalmente. Si è creata un'unità e simultaneità di crisi nazionali che rende appunto asprissima e irremovibile la crisi generale. Ma esiste uno strato della popolazione in tutti i paesi — la piccola e media borghesia — che ritiene di poter risolvere questi problemi giganteschi con le mitragliatrici e le revolverate, e questo strato alimenta il fascismo, da gli effettivi al fascismo.

In Ispagna l'organizzazione della piccola e media borghesia in gruppi armati si è verificata prima che in Italia, è stata iniziata già negli anni 1918 e '19. La guerra mondiale ha piombato in una crisi terribile la Spagna prima che gli altri paesi: i capitalisti spagnoli avevano infatti saccheggiato il paese e venduto tutto il vendibile già nei primi anni della conflagrazione. L'Intesa pagava meglio di quanto potessero pagare i consumatori poveri spagnoli, e i proprietari vendettero all'Intesa tutta la ricchezza e la merce che avrebbe dovuto servire alla popolazione nazionale. La Spagna già nel 1916 era uno dei paesi europei piú ricchi finanziariamente, ma piú poveri di merci e di energie produttive. Il movimento rivoluzionario divenne impetuoso, i sindacati organizzarono la quasi totalità della massa industriale, gli scioperi, le serrate, gli stati d'assedio, lo scioglimento delle Camere del lavoro e delle Leghe, gli eccidi, le fucilate nelle strade divennero il tessuto quotidiano della vita politica. Si formarono i fasci (i somaten) antibolscevichi; essi si costituirono inizialmente, come in Italia, con personale militare, preso dai clubs (juntas) degli ufficiali, ma rapidamente allargarono le loro basi, fino ad arruolare, come a Barcellona, 40.000 armati. Seguirono la stessa tattica che i fascisti in Italia: aggressione dei capi sindacalisti, violenta opposizione agli scioperi, terrorismo contro le masse, opposizione a ogni forma organizzativa, aiuto alla polizia regolare nelle repressioni, negli arresti, aiuto ai crumiri nelle agitazioni di sciopero e nelle serrate. Da tre anni la Spagna si dibatte in questa crisi: la libertà pubblica è sospesa ogni quindici giorni, la libertà personale è divenuta un mito, i sindacati operai funzionano in gran parte clandestinamente, la massa operaia è affamata ed esasperata, la grande massa popolare è ridotta in condizioni di selvatichezza e di barbarie indescrivibili. E la crisi si accentua, e si è ormai giunti all'attentato individuale.

La Spagna è un paese esemplare. Essa rappresenta una fase che tutti i paesi dell'Europa occidentale attraverseranno, se le condizioni economiche generali si manterranno come oggi, con le stesse tendenze odierne. In Italia attraversiamo la fase attraversata dalla Spagna nel 1919: la fase dell'armamento delle classi medie e dell'introduzione, nella lotta di classe, dei metodi militari dell'assalto e del colpo di sorpresa. Anche in Italia la classe media crede di poter risolvere i problemi economici con la violenza militare; crede di sanare la disoccupazione con le revolverate, crede di calmare la fame e di asciugare le lacrime delle donne del popolo con le raffiche di mitragliatrice. L'esperienza storica non vale per i piccoli borghesi che non conoscono la storia; i fenomeni si ripetono e si ripeteranno ancora negli altri paesi, oltre che in Italia; non si è ripetuto in Italia, per il partito socialista, ciò che già da qualche anno si era verificato in Austria, in Ungheria, in Germania? L'illusione è la gramigna piú tenace della coscienza collettiva; la storia insegna, ma non ha scolari.

Forze elementari

In una intervista col corrispondente del Temps l'on. Giolitti ha solennemente dichiarato di volere ad ogni costo che l'ordine sia ristabilito. Sono stati convocati dal governo il generale dei carabinieri, il comandante delle regie guardie, il capo di stato maggiore e tutti i comandanti di corpo d'armata: si è discusso, si provvederà. Con quali mezzi? Entro quali limiti? È possibile che il governo, anche volendo, possa provvedere? Alle circolari e alle convocazioni del governo si accompagnano gli ordini, i richiami, le scomuniche delle autorità fasciste, anch'esse seriamente preoccupate della piega che assumono gli avvenimenti e degli immancabili colpi di ritorno: ma anche queste autorità, quantunque molto «rispettate e temute», non pare riescano a ottenere molta ubbidienza dai ranghi e dalle file dei loro gregari. Come non esiste uno Stato politico, come non esiste piú coesione morale e disciplinare negli organismi e tra gli individui che costituiscono la macchina statale, cosí non esiste una coesione e una disciplina neppure nell'«organizzazione» fascista, nello Stato ufficioso che dispone a suo buon piacere oggi della vita e dei beni della nazione italiana. È divenuto ormai evidente che il fascismo non può essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe, come movimento di forze politiche consapevoli di un fine reale: esso ha dilagato, ha rotto ogni possibile quadro organizzativo, è superiore alle volontà e ai propositi di ogni Comitato centrale o regionale, è divenuto uno scatenamento di forze elementari irrefrenabili nel sistema borghese di governo economico e politico: il fascismo è il nome della profonda decomposizione della società italiana, che non poteva non accompagnarsi alla profonda decomposizione dello Stato e oggi può essere spiegato solo con riferimento al basso livello di civiltà che la nazione italiana aveva potuto raggiungere in questi sessanta anni di amministrazione unitaria.

Il fascismo si è presentato come l'antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto cosí un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato. Per comprendere tutto il significato di queste affermazioni basta ricordare: che l'Italia aveva il primato per gli omicidi e per gli eccidi; che l'Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove le generazioni giovani sono meno rispettate e protette; che in alcune regioni italiane sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l'uva; che in alcune regioni i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali.

La lotta di classe ha sempre assunto in Italia un carattere asprissimo per questa immaturità «umana» di alcuni strati della popolazione. La crudeltà e l'assenza di simpatia sono due caratteri peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimentalismo fanciullesco alla ferocia piú brutale e sanguinaria, dall'ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui. Su questo terreno semibarbarico che lo Stato ancora gracile e incerto nelle sue articolazioni piú vitali a stento riusciva lentamente a dissodare, pullulano oggi, dopo la decomposizione dello Stato, tutti i miasmi. C'è molto di vero nell'affermazione dei giornali fascisti che non tutti quelli che si chiamano fascisti e operano in nome dei fasci appartengono all'organizzazione; ma che dire di una organizzazione il cui simbolo può venire usato per coprire azioni della natura di quelle che quotidianamente insozzano l'Italia? L'affermazione d'altronde dà agli avvenimenti un carattere ben piú grave e decisivo di quello che vorrebbero dargli gli scrittori dei giornali borghesi. Chi potrà infrenarli, se lo Stato è incapace e le organizzazioni private sono impotenti?

Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbitri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni, può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato «restaurato» come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l'unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dai rapporti di produzione.

Liberalismo e blocchi20

La piú strana delle tesi che avviene di sentir sostenere nella presente lotta elettorale è questa: che in essa è rinato il liberalismo. La piú strana delle proposizioni che avviene di sentir sostenere è questa, che la formazione dei blocchi è una prova di questa rinascita, che il programma dei blocchi è un programma liberale, che liberale è l'azione loro.

Non neghiamo che queste affermazioni possano avere un valore energetico. Esse possono servire a risvegliare nell'animo di qualche borghese, se pure esistono ancora borghesi che serbino nozione della storia della loro classe, il ricordo dell'età dell'oro della borghesia. L'età del liberalismo è l'età dell'eroismo individuale borghese e dell'eroismo di partito. Liberali erano i borghesi che da soli, senza chiedere sostegno se non al sentimento della loro responsabilità, senza chiedere altra difesa che la libertà, creavano un nuovo mondo economico e morale, spezzando i limiti di ogni precedente schiavitù. Liberali erano i partiti che facevano della libertà la premessa di ogni programma e quasi esaurivano in questa affermazione ideale ogni loro virtù. Chiamare liberali i borghesi di oggi, che del valore morale della libertà hanno perduto la coscienza è perciò assai peggio che stranezza, cosí com'è mancanza assoluta di comprensione politica credere liberali i partiti borghesi odierni, o peggio ancora, il blocco nel quale essi sono scomparsi.

Bisognerebbe però anzitutto, cercare se oggi esistano partiti borghesi, e riconoscere che da quando la nazionalizzazione dell'economia ha sostituito alla concorrenza politica fra città e campagna il loro accordo in un sistema statale di protezione reciproca, da allora i partiti della borghesia, i partiti nel senso classico della parola, sono venuti meno. Dove il contrasto fra città e campagna non ha mai assunto una forma organica e storicamente continua, come in Italia nell'epoca moderna, partiti non ne sono esistiti mai, o sono scomparsi appena è scomparso il fervore che aveva permesso la loro formazione sulla base non di interessi reali, ma di affermazioni ideali pure. In Italia i partiti sono morti con la Destra, e la parola liberalismo da allora, mutando significato, è diventata sinonimo di arte di governo. Era prima una premessa, la premessa all'esistenza di ogni partito; divenne poi qualche cosa come una conseguenza, una risultante, la risultante dell'azione dei singoli gruppi piú o meno armonicamente composta dall'abilità del governante. Non fu piú teoria di libertà e affermazione di responsabilità, ma teoria e pratica di equilibrio e di accomodamento e quindi negazione del valore delle affermazioni ideali e scomparsa del senso della responsabilità. Chi simbolizza questo processo di trasformazione è Giovanni Giolitti, e non per niente la costituzione dei blocchi, che è l'ultimo atto di essa, si è compiuta dietro sua ispirazione e per sua volontà.

Nel blocco è morto il partito politico, e la pratica dell'accomodamento si estende dal Parlamento agli stessi gruppi politici del paese. Nel blocco la tattica liberale muore e confessa di essere morta.

Ma la fine del liberalismo è ancora piú esplicitamente confessata nel programma. Programma dei blocchi è la difesa contro l'assalto che si muove alle posizioni della borghesia. Ma una classe che si difende e fa della difesa l'unico principio suo di governo cessa, per questo solo fatto, di essere una classe liberale, cessa di avere la capacità di mantenere nel proprio seno l'aspirazione allo sviluppo di ogni energia senza altro limite che non sia la stessa libertà. L'essere la borghesia arrivata a questo punto, è il segno piú certo del suo scadimento.

Sono morti nel suo seno i partiti, rimane solo la classe, e nemmeno un governo di partito, cioè costituito in nome di un principio ideale, la borghesia non può piú avere, ma solo un governo di classe a scopo di conservazione. Questo e non altro noi vogliamo esprimere quando affermiamo che è giunta per essa l'età della dittatura.

Della dittatura borghese i blocchi sono una forma, la forma piú elevata, la forma piú bassa, quella nella quale la dignità della storia scende al livello della farsa e dell'oscenità. Ma nel simbolo dei blocchi le insegne fasciste ricordano che la dittatura borghese è pure una cosa seria e tragica; quando dalla scena elettorale si passa alle lotte combattute in campo aperto, esse ricordano agli operai che la borghesia non cede senza aver provato l'uso di ogni mezzo di difesa e di distruzione.

Con tutto ciò il liberalismo non ha niente a che fare, come nulla ha a che fare il coraggio con la violenza dei fascisti operanti all'ombra dello Stato. Lo spirito del liberalismo vive in coloro che lottano, soli, non avendo altro sostegno che la loro forza, il senso della loro responsabilità, non avendo altro scopo che la realizzazione delle loro idee, per una sempre piú profonda liberazione del mondo.

Socialisti e fascisti21

La posizione politica del fascismo è determinata da queste circostanze elementari:

1) I fascisti, nei sei mesi della loro attività militante, si sono caricati di un pesantissimo bagaglio di atti delittuosi che rimarranno impuniti solo finché l'organizzazione fascista sarà forte e temuta.

2) I fascisti hanno potuto svolgere la loro attività solo perché decine di migliaia di funzionari dello Stato, specialmente dei corpi di pubblica sicurezza (questure, guardie regie, carabinieri) e della magistratura, sono diventati i loro complici morali e materiali. Questi funzionari sanno che la loro impunità e la loro carriera sono strettamente legate alle fortune dell'organizzazione fascista, e perciò hanno tutto l'interesse a sostenere il fascismo in qualsiasi tentativo voglia fare per consolidare la sua posizione politica.

3) I fascisti posseggono, disseminati in tutto il territorio nazionale, depositi di armi e munizioni in quantità tale da essere almeno sufficienti per costituire un'armata di mezzo milione di uomini.

4) I fascisti hanno organizzato un sistema gerarchico di tipo militare che trova il suo naturale ed organico coronamento nello stato maggiore.

Rientra nella comune logica dei fatti elementari che i fascisti non vogliano andare in galera e che vogliano invece usare la loro forza, tutta la forza di cui dispongono, per rimanere impuniti e per raggiungere il fine massimo di ogni movimento: il possesso del governo politico.

Cosa intendono fare i socialisti e i capi confederali per impedire che sul popolo italiano venga a gravare la tirannia dello stato maggiore, dei latifondisti e dei banchieri? Hanno stabilito un piano? Hanno un programma? Non pare. I socialisti e i capi confederali potrebbero aver stabilito un piano «clandestino»? Questo sarebbe inefficace, perché solo un'insurrezione delle grandi masse può spezzare un colpo di forza reazionario, e le insurrezioni delle grandi masse, se hanno bisogno di una preparazione clandestina, hanno anche bisogno di una propaganda legale, aperta, che dia un indirizzo, che orienti gli spiriti, che prepari le coscienze.

I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all'offensiva. I socialisti, abituati a rimasticare stupidamente alcune formulette pseudomarxiste, negano la rivoluzione «volontarista», «miracolista», ecc., ecc. Ma se l'insurrezione del proletariato venisse imposta dalla volontà dei reazionari, che non possono avere scrupoli «marxisti», come dovrebbe comportarsi il partito socialista? Lascerebbe, senza resistenza, la vittoria alla reazione? E se la resistenza fosse vittoriosa, se i proletari insorti e armati sconfiggessero la reazione, che parola d'ordine darebbe il partito socialista: di consegnare le armi o di continuare nella lotta fino in fondo? Noi crediamo che queste domande, in questo momento, siano tutt'altro che accademiche e astratte. Può darsi, è vero, che i fascisti, che sono italiani, che hanno tutte le indecisioni e le debolezze di carattere della piccola borghesia italiana, imitino la tattica seguita dai socialisti nell'occupazione delle fabbriche: si traggano indietro e abbandonino alla giustizia punitiva di un governo ricostruttore della legalità quei dei loro che hanno commesso dei delitti e i loro complici. Può darsi; è però cattiva tattica affidarsi agli errori degli avversari, immaginare i propri avversari incapaci e inetti.

Chi ha la forza, se ne serve. Chi sente il pericolo di andare in galera, si arrampica sugli specchi per conservare la libertà. Il colpo di stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti, dei banchieri, è lo spettro minaccioso che dall'inizio incombe su questa legislatura. Il partito comunista ha il suo indirizzo: lanciare la parola d'ordine dell'insurrezione, condurre il popolo in armi fino alla libertà, garantita dallo Stato operaio. Qual è la parola d'ordine del partito socialista? Come possono le masse ancora fidarsi di questo partito, che esaurisce la sua attività politica nel gemito e si propone solo di far tenere dai suoi deputati dei «bellissimi» discorsi in Parlamento?

Sovversivismo reazionario22

Al gioco non troppo significativo delle combinazioni tra i vari gruppi parlamentari, argomento prediletto della cabalistica dei corrispondenti romani, è seguito ieri alla Camera il debutto di colui che ama presentarsi ed essere presentato come il capo della reazione italiana: Mussolini. E Mussolini debuttando ha creduto bene ricordare, quasi a titolo di merito, le sue origini sovversive. È una posa o è il desiderio di conciliarsi con ciò maggiormente i favori del nuovo padrone? L'uno e l'altro motivo senza dubbio concorrono, ed è pur vero che il passato sovversivismo del nuovissimo reazionario è un elemento il quale contribuisce non poco a tratteggiarne la figura. Bisogna però parlarne con spregiudicatezza e sfrondare un poco anche questo mito mussoliniano, caro al capo della vecchia ala rivoluzionaria del partito socialista. È merito della maggiore maturità di coscienza portata dalle concrete esperienze rivoluzionarie di questi ultimi anni, se, ripensando agli atteggiamenti e ai fatti di quel tempo, non possiamo a meno di vederli ridotti a proporzioni tanto diverse da quelle che ci apparivano allora? Nel parlare alla Camera, Mussolini ha usato forse una sola parola esatta quando, a proposito del suo modo di concepire i conflitti politici e di agire, ha parlato di blanquismo. La confessione ci permette di metterci dal punto di vista piú opportuno per cogliere e rendere con esattezza quanto istintivamente percepiamo oggi di illogico, di goffo, di grottesco, nella figura di Mussolini. Il blanquismo, è la teoria sociale del colpo di mano ma, a pensarci bene, il sovversivismo mussoliniano non aveva preso di esso che la parte materiale. Anche la tattica della III Internazionale si è detto che ha dei punti di contatto col blanquismo, ma la teoria della rivolta proletaria quale viene diffusa da Mosca e quale è stata attuata dai bolscevichi forma una cosa sola con quella marxista della dittatura del proletariato. Del blanquismo Mussolini aveva ritenuto solo l'esteriorità, o meglio, egli stesso lo aveva fatto diventare qualcosa di esteriore, lo aveva ridotto alla materialità della minoranza dominatrice e dell'uso delle armi nell'attacco violento. L'inquadramento dell'azione della minoranza nel movimento di massa, e il processo che fa della rivolta il mezzo per una trasformazione dei rapporti sociali, tutto ciò era scomparso. La settimana rossa romagnola, il tipico movimento mussoliniano, era quindi definita nel modo piú esatto da coloro che la chiamavano una rivoluzione senza programma.

Ma non basta; si può sostenere che per il capo dei fascisti le cose, da allora ad oggi, non sono cambiate. La sua posizione è, in fondo, ancora quella di una volta. Anche oggi egli non è altro che un teorico, se cosí si può dire, e un inscenatore di colpi di mano. Il blanquismo, nella sua materialità, può essere oggi sovversivo, domani reazionario. Sempre però esso è rivoluzionario e ricostruttore solo in apparenza, condannato a mancare di continuità e di sviluppo, dannato a non saper saldare insieme l'uno e l'altro colpo di mano nella linea di un processo storico. Oggi i borghesi, mezzo impauriti e mezzo stupefatti, guardano a quest'uomo che si è messo ai loro servizi come ad una specie di nuovo mostro, rivoluzionatore di situazioni reali e creatore di storia. Nulla di piú falso. L'incapacità di saldare insieme gli anelli di una costruzione storica è tanto grande nel blanquismo di questo epilettico quanto lo è nel sovversivismo malthusiano dei D'Aragona e dei Serrati. Sono tutti di una sola famiglia. Rappresentano, tanto l'uno quanto gli altri, una stessa impotenza. Se nella reazione italiana appare oggi una consistenza e una continuità, essa proviene da altri elementi, da altri fattori, di carattere non solo nazionale ma comune a tutti i paesi e di natura ben diversa da quella che vorrebbe far credere questo esasperato esaltatore di se stesso. La lotta contro le rivendicazioni e la resistenza contro la riscossa operaia partono da basi ben piú concrete, ma è senza dubbio significativo, per la serietà della vita politica italiana, che al culmine di una costruzione che è tenuta assieme da un poderoso sistema di forze reali si trovi questo uomo che si diletta a fare i giochi di forza e a masturbarsi colle parole.

I politici della borghesia, che giudicano dalla impotenza loro e dalla loro paura, parlano di un sovversivismo reazionario. Per noi e per tutti coloro che qualcosa comprendono del gioco di forze che fa la politica, non si tratta che di una mosca cocchiera.

Bonomi23

Il nuovo presidente del consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. Ministro della guerra, non solo egli ha permesso agli ufficiali di partecipare attivamente alle fazioni politiche, ma questa partecipazione ha minuziosamente organizzato. Egli ha proceduto alla smobilitazione degli ufficiali non secondo un piano tecnico, ma secondo un piano politico reazionario per cui gli ufficiali smobilitati dovevano metodicamente diventare i quadri della guardia bianca. I depositi di armi e di munizioni furono messi a disposizione del fascismo; i comandi d'armata e di divisione ebbero la parola d'ordine di studiare le posizioni strategiche della guerra civile e di compilare minuziosi piani d'attacco. Ufficiali superiori furono incaricati di girare l'Italia, di riferire, di suggerire. L'onorevole Bonomi è il vero rappresentante di questa fase sanguinosa della storia borghese. Come Noske, come Millerand e Briand, egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e ne sanno corrompere gli uomini.

L'avvento di Bonomi al potere, dopo l'ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà legale. Essere comunisti, lottare per l'avvento al potere della classe operaia non sarà un delitto solo secondo il giudizio di un Lanfranconi o di un Farinacci, sarà un delitto «legale», sarà sistematicamente perseguito in nome della legge, non piú solo in nome del locale fascio di combattimento. Si svolgerà in Italia lo stesso processo che si è svolto negli altri paesi capitalistici. Contro l'avanzata della classe operaia avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l'avanguardia della reazione antiproletaria poiché meglio conoscono le debolezze della classe operaia e perché hanno delle vendette personali da compiere. I comunisti non si sono fatti mai delle illusioni in proposito. Sanno di dover combattere una lotta mortale, senza quartiere. Bonomi è il primo anello della catena di delitti che la socialdemocrazia si accinge a commettere in Italia. L'organizzatore del fascismo militarizzato ha la missione di concentrare in un solo movimento tutte le correnti antiproletarie e anticomuniste che pullulano nel nostro paese per un disperato tentativo di arginare la sempre piú minacciosa insurrezione delle masse contro il capitalismo distruttore; ma neanche in Italia i massacri e gli attentati contro la libertà riusciranno a risolvere la crisi economica e a risollevare l'edifizio sociale rovinato dalla guerra imperialista.

Il carnefice e la vittima24

Il governo e la stampa borghese cercano un diversivo per mascherare il fallimento delle trattative di pace tra i parlamentari fascisti e i parlamentari riformisti. Il diversivo è già trovato: il partito comunista. Il partito comunista non vuole la pacificazione, il partito comunista è la causa di tutte le disgrazie e di tutte le sofferenze che si abbattono sul popolo italiano, il partito comunista è un'associazione di briganti, di assassini, di delinquenti comuni, il partito comunista è l'origine sola del fascismo. Siccome il partito comunista non vuole la pacificazione, cosí il governo di Bonomi non può fare a meno di continuare a lasciar fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti farà piacere. Le centinaia e migliaia di depositi di armi e munizioni che i fascisti spesso pubblicamente hanno accumulato non verranno sequestrati. Le mitragliatrici, i cannoni, i lanciafiamme, i moschetti saranno lasciati ai fascisti. I fascisti potranno ancora sfilare nelle città, incolonnati, col moschetto in ispalla, con l'elmetto in testa, coi tascapane pieni di bombe. Lo Stato non interverrà, non applicherà le leggi, non aprirà le prigioni, non disturberà i giudici. Lo Stato non è, per ciò che riguarda i fascisti, un'amministrazione delle leggi, un'organizzazione repressiva e punitiva; lo Stato non esiste per i fascisti, lo Stato riconosce nei fascisti una autorità indipendente e tratta con loro, da pari a pari, e riconosce loro il diritto, se non avverrà la pacificazione, di continuare impunemente a incendiare, ad assassinare, a invadere città e villaggi, a decretare esili e scioglimenti di pubbliche amministrazioni. C'è dell'ironia in questa azione pacificatrice del governo italiano. Chi sarà dunque il custode e il garante del «trattato di pace»? Chi si fiderà della parola di un governo che in tal modo, clamorosamente, confessa o di essere impotente o di essere in malafede? Come farà rispettare la «carta» che dovrebbe essere giurata dai sovversivi e dai fascisti, questo governo che non fa rispettare la carta fondamentale dello Stato giurata dal re al popolo italiano?

I comunisti non parteciperanno certamente a questo «mercato di sciocchi», non compiranno certamente questo delitto contro il popolo italiano. Non può esserci pace tra il carnefice e la sua vittima, non può esserci pace tra il popolo e i suoi massacratori. Il partito comunista si assume tutte le responsabilità di questo suo atteggiamento. Sa di diventare il bersaglio della coalizione reazionaria, ma è sicuro che anche se «pacifista» diverrebbe egualmente il bersaglio della reazione coalizzata. La classe operaia italiana ha già visto quanto valgano le parole del governo italiano, dopo lo sgombero delle fabbriche occupate. Non dovevano esserci rappresaglie: a migliaia gli operai sono stati cacciati in galera, e i tribunali sudano sette camicie per imbastire un colossale complotto; a centinaia di migliaia gli operai sono stati buttati sulla strada a crepare di fame con le loro famiglie. A Torino anche gli operai socialisti hanno già avuto la scottatura per la loro fiducia nella parola dei reazionari: hanno lasciato che in un primo tempo fossero licenziati dalle officine i comunisti, i piú audaci lottatori della rivoluzione, hanno firmato un patto; oggi è venuta la loro volta, oggi essi vengono licenziati. Chi fa rispettare ai reazionari i patti, le promesse, i giuramenti? Ma non dimostrano essi, già prima della pacificazione, tutta la loro malafede? Non è coi comunisti, non è col partito comunista come piccolo nucleo di individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del capitale; essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità, sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa, taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga gli attuali rapporti di classe. A Ferrara non si era neppure ancora formata una sezione comunista, eppure a Ferrara il fascismo è stato specialmente feroce. In tutte le zone agricole, nel Polesine, nel Reggiano, nelle Puglie, dove il fascismo ha instaurato il regime coloniale, il partito comunista, essenzialmente operaio e urbano, aveva scarsissime forze. Dove il partito comunista era specialmente forte, come a Torino, il fascismo ha tardato fino al mese di aprile ad entrare in campo. La sua aggressività ha coinciso con la crisi industriale, con la serrata della Fiat, ed è apparsa luminosamente come una coordinata tattica della lotta capitalistica contro l'organizzazione sindacale. Il fascismo non è una particolare associazione, come non è una particolare organizzazione il comunismo: il fascismo è un movimento sociale, è l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori, ricostruire il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista. In questa lotta l'iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al fascismo appartiene l'iniziativa della guerra civile: la classe lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace tra la vittima e il carnefice. Chi oggi vuole trascinare il proletariato alla pacificazione, è già anch'egli un carnefice: per la pietà che ispirano oggi i dieci uccisi, costoro preparano per domani la strage di mille. Non è neppure pietà cotesta, è ipocrisia vile; il partito comunista non vuole essere né ipocrita né vile, appunto perché sente davvero la pietà umana per il destino atroce del popolo lavoratore.

Insurrezione di popolo25

Nei 365 giorni dell'anno 1920, 2.500 italiani (uomini, donne, bambini e vecchi) hanno trovato la morte nelle vie e nelle piazze, sotto il piombo della pubblica sicurezza e del fascismo. Nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921 circa 1.500 italiani sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista, circa 40.000 liberi cittadini della democratica Italia sono stati bastonati, storpiati, feriti; circa 20.000 altri liberissimi cittadini della democraticissima Italia sono stati esiliati con bandi regolari, o costretti a fuggire con le minacce dalle loro sedi di lavoro e vagolano per il territorio nazionale, senza difesa, senza impiego, senza famiglia; circa 300 amministrazioni comunali elette col suffragio universale sono state costrette a dimettersi; una ventina di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari sono stati distrutti; centinaia e centinaia di Camere del lavoro, di case del popolo, di cooperative, di sezioni comuniste e socialiste sono state saccheggiate ed incendiate; 15 milioni di popolazione italiana dell'Emilia, del Polesine, delle Romagne, della Toscana, dell'Umbria, del Veneto, della Lombardia sono stati tenuti permanentemente sotto il dominio di bande armate, che hanno incendiato, hanno saccheggiato, hanno bastonato impunemente, hanno violato i domicili, hanno insultato le donne e i vecchi, hanno ridotto alla fame e alla disperazione centinaia di famiglie, hanno calpestato tutti i sentimenti popolari, dalla religione alla famiglia, hanno fatto impazzire per il terrore e morire dei bambini e dei vecchi. Tutto questo è stato permesso dalle autorità ufficiali, è stato o taciuto o esaltato dai giornali; una pazzia collettiva parve avere invaso la classe dirigente, il Parlamento, i governi. Tutta questa gente pensava che la vita nazionale potesse normalizzarsi secondo il ritmo fascista; che nessuna reazione, né psicologica, né fisica, dovesse fermentare nella popolazione in tal modo tormentata, avvilita, schiacciata.

Oggi la situazione muta. Non si tratta piú di individui o di gruppi che si rivoltano, che cercano di difendersi e di vendicare i loro morti; sono intere popolazioni che insorgono, senza distinzioni di partiti politici popolari; il prete fa suonare la campana a stormo, mentre la donna prepara l'olio bollente e gli uomini si armano di tutto ciò che possa colpire, formano squadre di difesa, e d'un tratto, sentendo ribollire tutto l'odio accumulato, tutte le umiliazioni patite, diventano furiosi e danno la caccia al fascista come a un invasore straniero che si è messo al bando dell'umanità con le sue nefandezze e la sua ferocia. E lo Stato finalmente si muove; oggi che la popolazione insorge, lo Stato si muove; oggi che la furia popolare vuoi far giustizia dei dolori sofferti, lo Stato si muove. Con prudenza, con cautela, perché non si tratta già di colpire la povera gente, si tratta di colpire i figli dei borghesi, gente che va al saccheggio gridando «viva l'Italia, viva il re», adorna del tricolore; gente scelta, insomma, per bene, legata con vincoli di parentela ai deputati, alla gerarchia militare, alla magistratura.

E infatti. Tredici fascisti vengono uccisi dalla forza pubblica, 13 componenti di una banda armata di 600 persone, diretta contro una città: lutti, pianti, desolazione. Duemilacinquecento italiani sono stati uccisi nel 1920; 1.500 italiani sono stati uccisi nei primi sei mesi del 1921; ma erano di bassa casta, ma erano del bestiame popolare che è troppo numeroso, che è troppo ingombrante per le disponibilità in viveri, che è esuberante per la possibilità produttiva dell'apparecchio capitalistico industriale e agricolo; perciò nessuna protesta per la loro uccisione, nessun lutto, non lacrime, non desolazione per la loro fine violenta. I 13 valgono piú dei 4.000; la morte di 13 fa dimenticare la morte dei 4.000, fa dimenticare i dolori, le sofferenze dei milioni e milioni di popolazione sottoposta al regime dell'invasione fascista. Tutto ciò è naturale. Sarebbe sciocco attendersi diversi stati d'animo, sarebbe assurdo sperare in un'azione permanente da parte dello Stato e dei giornali contro il terrore fascista. Domandate alla classe dirigente di schiacciare il fascismo, sarebbe come domandarle il suicidio. Le armi che per cinque minuti sono state spianate contro i fascisti, non tarderanno a spianarsi contro il popolo insorto; l'insurrezione popolare servirà allo Stato borghese per identificare le armi in possesso dei lavoratori e per cercare di rastrellarle. Le piú assurde leggende saranno create contro il popolo barbaro, inumano, formato di cannibali; per 13 morti borghesi si permetterà un'ecatombe di 1.000 lavoratori.

Se il popolo non sta in guardia, permanentemente, se esso si lascia disarmare, se esso si lascia illudere dalle promesse di chi mai ha mantenuto una promessa [...]. Questa che attraversiamo è veramente l'ora della collera popolare; guai a quei partiti politici che non sapranno prendere una decisione, che dall'esperienza storica degli altri paesi non sapranno trarre un indirizzo alla propria azione.

Il partito comunista è al suo posto: esso sta diventando il partito piú popolare d'Italia, per il valore dei suoi inscritti che si pongono a capo delle popolazioni insorte e le guidano alla liberazione e alla pace. Le popolazioni vanno convincendosi che il partito comunista è oggi l'unico partito che voglia l'ordine e la tranquillità e che possa assicurare questi due beni inestimabili alla società degli uomini. Le popolazioni vanno facendo la loro esperienza diffusa e profonda sul valore della democrazia parlamentare e della legislazione borghese, incapaci a dare pane, pace, sicurezza delle persone e del domicilio alle masse, e insorgono e si unificano nelle città e nei villaggi. I giornali borghesi, in quanto vedono comunisti dappertutto, hanno un'intuizione precisa della realtà italiana: in Italia ogni insurrezione di popolo si orienta rapidamente verso il partito comunista, in Italia la rivoluzione comunista sarà il movimento piú popolare e piú profondo che mai si sia verificato nella storia del nostro paese.

Colpo di Stato26

Gli Stenterelli della Confederazione generale del lavoro sono permanentemente in vena di allegria. Intere regioni sono messe a ferro e a fuoco dalla guardia bianca, l'attività sindacale è completamente spezzata, non sussiste piú nessuna garanzia costituzionale per gli individui e per le associazioni, gli operai e i contadini vengono fucilati impunemente da bande armate mercenarie che si spostano liberamente da provincia a provincia e da regione a regione, ma gli Stenterelli della Confederazione non perdono perciò né l'appetito né il buon umore.

Esiste in Italia la possibilità di un colpo di Stato? Quale deve essere l'atteggiamento della Confederazione, dell'organismo massimo del proletariato italiano, nei riguardi di questa possibilità? Gli Stenterelli confederali ridono del fatto che solo si faccia l'ipotesi del colpo di Stato. Ma non viviamo oggi in Italia in piena atmosfera di colpo di Stato? Cosa significa, cosa rappresenta la situazione di intere province e di intere regioni in cui è il fascismo che governa e non piú l'autorità ufficiale? Non è stata forse restaurata la pena di morte, non è stato ripristinato l'uso del bastone, e queste forme di punizione non sono forse amministrate da organismi extralegali?

Questo è l'ambiente del colpo di Stato, non è ancora il colpo di Stato nella sua piena efficienza. Esiste ancora il Parlamento, il governo è ancora scelto e controllato dal Parlamento; nessuna legge eccezionale ha ancora abolito formalmente le garanzie statutarie. Ma è possibile immaginare che l'attuale condizione di cose possa durare ancora per molto tempo? Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese. Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi e che spezzerà le resistenze opposte dalla tradizione del funzionamento statale con un colpo di forza diretto contro gli organismi centrali di governo. Avremo allora il «colpo di Stato», secondo lo schema che le ideologie democratiche sullo Stato parlamentare hanno costruito: si verificheranno delle resistenze da parte del popolo, dei tentativi di insurrezione locale, delle resistenze da parte della burocrazia, che a ragione temerà di essere sacrificata per soddisfare le esigenze economiche di una turba di disoccupati in cerca di impiego e di stipendi. La parte piú reazionaria e spregiudicata della classe dirigente imporrà la sua dittatura sanguinosa, scioglierà le organizzazioni operaie, consegnerà tutti i poteri nelle mani della casta militare. Esiste o non esiste questo pericolo? E come deve comportarsi la Confederazione nei suoi riguardi? 

Abbiamo, in una manchette, ricordato che la Confederazione generale del lavoro di Germania dedicò tre mesi di lavoro organizzativo per essere in grado di spezzare il colpo di Stato Kapp-Luttwitz. Gli Stenterelli della Confederazione italiana prendono la palla al balzo per concludere che dunque bisogna collaborare con «quelle forze non rigidamente rivoluzionarie e classiste che sono contrarie al colpo di Stato». In Germania le masse proletarie spezzarono, con lo sciopero generale insurrezionale, il tentativo di Kapp-Luttwitz; oggi si ricomincia, oggi il pericolo del colpo di Stato è accresciuto. I «collaboratori» non rigidamente rivoluzionari che per nulla avevano contribuito alla resistenza, si opposero alla continuazione del movimento insurrezionale, si opposero al proseguimento della lotta per l'instaurazione della Repubblica dei soviet tedeschi. Cosí le forze reazionarie non furono represse, poterono ritirarsi in buon ordine, sparpagliarsi secondo un piano prestabilito e riprendere il lavoro di armamento, di reclutamento, di organizzazione che oggi dà a Kapp e Luttwitz una maggiore probabilità di buona riuscita.

L'esperienza tedesca dovrebbe insegnare qualcosa alle organizzazioni operaie degli altri paesi: essa non insegna nulla agli Stenterelli italiani. Questi beceri della politica si illudono ancora di potere, con delle contrattazioni vergognose, evitare le bastonate e le pallottole alle loro persone. Neppure l'esempio ungherese è stato sufficiente per indurli a stabilire una linea d'azione che sia aderente alla realtà degli avvenimenti. Ciò che oggi succede in Italia non li scuote minimamente: continuano a cullarsi nella piú beata e beota indifferenza.

Incendi, assassini, bastonature, fucilazioni in massa, scioglimenti di organizzazioni, occupazione delle sedi operaie, impossibilità di riunione, formazione di una massa, che ogni giorno diviene piú numerosa, di profughi, di esiliati, di affamati; creazione di stati d'animo che dalla disperazione minacciano di passare alla pazzia e al furore collettivo: tutto ciò non li preoccupa, non li scuote, non li induce ad acquistare un maggior senso della responsabilità. Essi scherzano, essi ridono, essi si divertono a far dello spirito sul partito comunista, che non ha la forza necessaria per proclamare la... rivoluzione.

L'esperienza ungherese ha lasciato un insegnamento: i reazionari, per battere i comunisti, accarezzano in un primo tempo i socialisti, scendono a patti con loro, fanno degli accordi di pacificazione; una volta battuti i comunisti, gli accordi e i patti vengono stracciati e anche i socialisti assaporano la corda e la pallottola. L'allegria, che permanentemente caratterizza gli Stenterelli confederali, appare, secondo la logica degli avvenimenti, l'anticipazione della smorfia granguignolesca di questa povera élite dirigente del proletariato italiano, che per le sue indecisioni, per la sua inettitudine, per la sua incapacità a comprendere le situazioni politiche minaccia d'essere travolta in un caos di barbarie senza precedenti nella storia del nostro paese.

I due fascismi27

La crisi del fascismo, sulle cui origini e cause tanto si sta scrivendo in questi giorni, è facilmente spiegabile con un serio esame dello sviluppo stesso del movimento fascista.

I fasci di combattimento nacquero, all'indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra il partito socialista e le associazioni interventiste nel periodo della guerra, i fasci ottennero l'appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo colla necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la stessa caratteristica loro di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato.

Il fascismo conservò sempre questo vizio d'origine. Il fervore dell'offensiva armata impedí fino ad oggi l'aggravarsi del dissidio fra i nuclei urbani, piccolo-borghesi, prevalentemente parlamentari e collaborazionisti, e quelli rurali, formati da proprietari terrieri grandi e medi e dagli stessi coloni, interessati alla lotta contro i contadini poveri e le loro organizzazioni, recisamente antisindacali, reazionari, piú fiduciosi nell'azione armata diretta che nell'autorità dello Stato e nell'efficacia del parlamentarismo.

Nelle zone agricole (Emilia, Toscana, Veneto, Umbria), il fascismo ebbe il maggior sviluppo, raggiungendo, coll'appoggio finanziario dei capitalisti e la protezione delle autorità civili e militari dello Stato, un potere senza condizioni. Se da una parte l'offensiva spietata contro gli organismi di classe del proletariato è servita ai capitalisti, che nel volgere di un anno poterono vedere tutto l'apparecchio di lotta dei sindacati socialisti infrangersi e perdere ogni efficacia è innegabile però che la violenza, degenerando, ha finito per creare al fascismo un'opinione diffusa di ostilità nei ceti medi e popolari.

Gli episodi di Sarzana, Treviso, Viterbo, Roccastrada scossero profondamente i nuclei fascisti urbani, personificati in Mussolini, che cominciarono a vedere un pericolo nella tattica esclusivamente negativa dei fasci delle zone agricole. D'altra parte questa tattica aveva già dato ottimi frutti trascinando il partito socialista su un terreno transigente e favorevole alla collaborazione nel paese ed in Parlamento.

Il dissidio latente comincia da questo momento a manifestarsi in tutta la sua profondità. Mentre i nuclei urbani, collaborazionisti, vedono ormai raggiunto l'obiettivo, propostosi, dell'abbandono dell'intransigenza classista da parte del partito socialista, e si affrettano a verbalizzare la vittoria col patto di pacificazione, i capitalisti agrari non possono rinunziare alla sola tattica che assicura loro il «libero» sfruttamento delle classi contadine, senza seccature di scioperi e di organizzazioni. Tutta la polemica che commuove il campo fascista, fra favorevoli e contrari alla pacificazione, si riduce a questo dissidio, le cui origini non si debbono ricercare che nelle origini stesse del movimento fascista.

Le pretese dei socialisti italiani, di aver cioè essi provocata la scissione nel movimento fascista colla loro abile politica di compromesso, sono nient'altro che una riprova del loro dema-gogismo. In realtà la crisi fascista non è di oggi, ma di sempre. Cessate le ragioni contingenti che mantenevano compatte le schiere antiproletarie, era fatale che i dissidi si manifestassero con maggiore evidenza. La crisi è quindi niente altro che il chiarirsi di una situazione di fatto preesistente.

Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata dal Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti ed industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso una collaborazione coi socialisti e coi popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici agrari proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria. Per questa parte, la piú importante nei confronti della classe operaia, non avrà alcun valore il «patto di tregua» che i socialisti vantano come una vittoria. La «crisi» segnerà soltanto l'uscita dal movimento dei fasci di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di «partito» il fascismo.

Ma il fascismo, quello vero, che i contadini e gli operai emiliani, veneti, toscani conoscono per la dolorosa esperienza degli ultimi due anni di terrore bianco, continuerà, anche magari cambiando il nome.

Compito degli operai e dei contadini rivoluzionari è di approfittare del periodo di relativa sosta, determinata dai dissidi interni delle bande fasciste, per infondere alle masse oppresse ed inermi una chiara coscienza della reale situazione della lotta di classe e dei mezzi adatti a vincere la baldanzosa reazione capitalistica.

Tra realtà e arbitrio28

Nella lettera colla quale il vicesegretario generale dei fasci, si è dimesso dalla carica, e che ha maggior valore in quanto rappresenta un'espressione del pensiero di tutto il gruppo collaborazionista parlamentarista che fa capo a Benito Mussolini, Cesare Rossi critica aspramente la degenerazione del movimento fascista provocata dai gruppi agrari:

«La nostra balda minoranza del 1919, — egli scrive, — è stata travolta dalle successive ondate impetuose di nuove forze che, non essendo né culturali né politiche, necessariamente rappresentavano solo lo stato d'animo d'artificio o d'esaltazione o interessi di classe, di casta e di zona».

Per l'azione delle forze agrarie innestatesi al movimento piccolo-borghese dei reduci urbani, il fascismo «laddove appare come dominatore è diventato un puro, autentico ed esclusivo movimento di conservazione e di reazione». Il vicesegretario dei fasci conferma le nostre osservazioni sulla crisi del fascismo, che è essenzialmente dissidio fra nuclei urbani e nuclei rurali, e non di oggi, ma congenito allo sviluppo stesso del movimento fascista.

Mussolini ed il suo gruppo di piccoli borghesi, di appartenenti alle categorie medie, vogliono romperla coi nuclei agrari intransigenti, i quali, persistendo nella tattica della violenza armata antiproletaria, minacciano di inimicare l'opinione pubblica. Il fascismo collaborazionista, sindacalista nazionale, si preoccupa, a ragione, della sua base elettorale.

Il movimento fascista si avvia a grandi passi verso la scissione. Dal prossimo congresso dei fasci usciranno due fascismi. Le necessità della lotta antiproletaria giustificano agli occhi del capitalismo agrario il mantenimento della guardia bianca. Il fascismo rurale rimarrà e proseguirà nel suo sviluppo reazionario, finché rimarranno le ragioni che ne determinarono il sorgere e l'affermarsi. Per questa parte il fascismo si identifica collo stesso capitalismo agrario nella lotta contro i proletari delle zone rurali.

Quale avvenire attende la frazione collaborazionista mussoliniana che Cesare Rossi vuol ricondurre ai programmi primitivi di reduci di guerra interventisti? Il fascismo mussoliniano si propone esplicitamente l'organizzazione politica delle classi medie, della «piccola borghesia lavoratrice»; si propone di diventare, secondo i propositi di Agostino Lanzillo, un «partito medio, equidistante dai socialisti e dai popolari, come dalla plutocrazia e dal grande capitalismo, piú sensibile, per educazione e tradizione, degli altri due gruppi alle grandi idee nazionali e che raccolga in sé quanto di sano e di buono ha la borghesia rinnovata dalla guerra».

Questi propositi del gruppo collaborazionista sono la conseguenza logica di tutta una posizione assunta dai suoi maggiori esponenti nei confronti dei problemi economici, di tutta una teoria ed un programma sulla situazione storica italiana. «La realtà del mondo è capitalistica», è la base dei programmi mussoliniani.

Ma Mussolini ha uno strano, errato concetto della realtà capitalistica, delle attuali condizioni di sviluppo del capitalismo. Egli concepisce la realtà capitalistica come il riflesso della vita industriale di anni fa, di prima della guerra, del periodo anteriore ai trust ed all'accentramento nella banca del capitale industriale. Il capitano di industria è oggi scomparso, l'imprenditore è una figura economica arretrata, la sua attività si è trasformata in quella del semplice tecnico.

La guerra ha accentuato tale fenomeno. Le industrie si sono andate sviluppando e contemporaneamente accentrando sotto il controllo delle banche. L'imprenditore, l'industriale, è scomparso per dar posto alle grandi società per azioni, investenti i capitali delle grandi banche. Industriali sono diventati i depositari negli istituti finanziari, cioè i grandi latifondisti, i proprietari terrieri, gli agrari, che vi hanno impiegati i loro redditi per moltiplicarveli. Che interesse possono costoro avere all'incremento tecnico e sociale dell'industria? Essi non badano che agli alti dividendi, sia pure a costo della rovina di intere industrie.

Questa, e non le arbitrarie concezioni di Mussolini, è la realtà economica. L'errore gravissimo di valutazione, il grossolano equivoco, ignoranza imperdonabile per chi ha il «tic» del realismo, condannano il leader fascista a veder fallire tutti i suoi sforzi per entrare in qualche modo attivamente nella realtà delle lotte politiche, riflesso della realtà delle lotte economiche. Lo sviluppo fascista — non del suo fascismo piccolo-borghese e collaborazionista, ma di quello che si identifica col terrore bianco dei capitalisti agrari, colla reazione armata che ha spezzato ogni attività proletaria in Emilia, Toscana, Veneto, ecc. — gli ha dato l'importanza di un capitano di ventura medioevale o di un Machno a proporzioni ridotte.

Ma ora che il fascismo si va sgretolando, per naturale conseguenza dello sviluppo della lotta di classe, egli e la sua frazione vanno perdendo l'importanza politica che avevano come capi diretti e rappresentanti parlamentari del movimento antiproletario specie nelle zone agricole.

Mussolini e il suo gruppo vedono il loro avvenire nell'organizzazione dei ceti medi, cioè nel tentativo dei ceti medi di resistere alla proletarizzazione, che è portato fatale dello sviluppo storico del capitalismo.

Legalità29

Fin dove la legalità afferma i suoi limiti? Quando questi non sono piú rispettati? È certo difficile fissare qualunque limite, dato il carattere assai elastico che assume il concetto della legalità. Per ogni governo tutto ciò che si manifesta nel campo dell'azione contro di esso sorpassa i limiti della legalità. Epperò si può dire che la legalità è determinata dagli interessi della classe che detiene in ogni società il potere. Nella società capitalistica la legalità è rappresentata dagli interessi della classe borghese. Quando un'azione tende a colpire in qualunque modo la proprietà privata ed i profitti che ne derivano, quell'azione diventa subito illegale. Questo avviene nella sostanza. Nella forma la legalità si presenta alquanto diversa. Avendo la borghesia, conquistando il potere, concesso eguale diritto di voto al padrone ed al suo salariato, apparentemente la legalità è venuta assumendo l'aspetto di un insieme di norme liberamente riconosciute da tutte le parti di un aggregato sociale. Ci è stato ora chi ha scambiato la sostanza con la forma e dato quindi vita alla ideologia liberale-democratica. Lo Stato borghese è lo Stato liberale per eccellenza. Ognuno può in esso esprimere liberamente il suo pensiero attraverso il voto. Ecco alla lunga a che si riduce la legalità formale nello Stato borghese: all'esercizio del voto. La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degl'ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell'umanità. Non s'era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l'una interna, la sostanziale; l'altra esterna, la formale.

Scambiando queste due facce, gli ideologi della democrazia liberale hanno ingannato per un certo periodo di anni le grandi masse popolari, facendo credere ad esse che il suffragio le avrebbe portate alla liberazione da tutte le catene che le legavano. In questa illusione disgraziatamente non sono caduti soltanto i miopi assertori della democrazia liberale. Molta gente che si reputava e si reputa marxista ha creduto che l'emancipazione della classe proletaria si dovesse compiere attraverso l'esercizio sovrano della conquista del suffragio. Qualche imprudente si è persino servito del nome di Engels per giustificare questa sua credenza. Ma la realtà ha distrutto tutte queste illusioni. La realtà ha mostrato nel modo piú evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gl'interessi della classe dominante, vale a dire, nella società capitalistica, con gl'interessi della classe padronale. In realtà, specialmente la esperienza che di ciò si è fatta in questi ultimi tempi contiene molti ed importanti insegnamenti.

La classe operaia giovandosi del suo diritto di voto aveva conquistato per sé un grande numero di comuni e province. Le sue organizzazioni avevano raggiunto un potente sviluppo numerico ed erano riuscite ad imporre patti vantaggiosi per gli operai. Ma il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale ed obbedito solo alla sua vera legge, alla legge del suo interesse e della sua conservazione. I comuni sono stati strappati ad uno ad uno con la violenza alla classe operaia; le organizzazioni sono state sciolte con l'uso della forza armata; la classe operaia e contadina è stata scacciata dalle sue posizioni, dalle quali minacciava troppo l'esistenza della proprietà privata. È sorto cosí il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo della illegalità la sola cosa legale. Niente organizzazione, se non quella fascista; niente diritto di voto, se non per darlo ai rappresentanti agrari ed industriali. Questa la legalità che la borghesia riconosce, quando essa è costretta a ripudiare l'altra formale. L'esperienza di questi ultimi tempi non è dunque priva di insegnamenti per coloro che hanno prima onestamente creduto nella efficacia delle garanzie legali concesse dallo Statuto liberale borghese.

Esiste un punto nella storia, in cui la borghesia è costretta a ripudiare ciò che essa stessa ha creato. Questo punto si è verificato in Italia. Non tener conto dell'esperienza che ne deriva o è ingenuità somma, meritevole delle piú severe sanzioni, o è malafede, la quale va spietatamente punita. Tale ci sembra in effetto il caso di quegli organizzatori socialisti che mostrano oggi di meravigliarsi, perché, ad esempio, il ministro on. Beneduce non riesce a far rispettare i contratti di lavoro. Per gente la quale tiene a dirsi ancora sul terreno della lotta di classe tutto ciò è enorme. È forse lecito ad un organizzatore, il quale pretenda di non aver rinnegati i princìpi di lotta di classe, chiedere ad un ministro di quali facoltà può disporre per impedire le violazioni da parte dei padroni dei concordati di lavoro? Simili domande non possono che ingenerare dubbi ed incertezze nella classe operaia. È naturale che il ministro del lavoro non abbia alcuna facoltà all'infuori di essere lo strumento in mano ad agrari ed industriali. Fino a quando gli organizzatori socialisti non sapranno fare di meglio che rivolgersi al ministro del lavoro, perché richiami i padroni al rispetto dei concordati, la classe operaia continuerà a subire tutte le violazioni, senza nemmeno potere organizzare una propria difesa.

Gli industriali si dimettono dalle commissioni arbitrali. È anche questa una conseguenza logica della situazione. Gli industriali vogliono oggi riprendere tutto quanto il loro potere. Gli industriali non vogliono piú riconoscere limitazioni di sorta alla propria volontà. Essi hanno accettato i comitati arbitrali quando lo slancio rivoluzionario delle masse minacciava la loro esistenza. Ora che la situazione sembra favorevole ad ogni calcolo reazionario, i padroni non possono nemmeno badare a conservare qualche scrupolo. Apertamente, essi si sono messi per la via della ripresa integrale e dispotica del potere sulle masse operaie. Gli organizzatori socialisti che cosa sanno escogitare di fronte a queste tendenze della classe padronale? Tutto quello che gli organizzatori socialisti sanno fare è denunciare all'opinione pubblica l'inadempienza padronale e l'impotenza del ministro del lavoro. Ma intanto la classe operaia risente tutte le conseguenze dell'atteggiamento padronale e dell'incertezza dei suoi dirigenti. Mentre essi rivolgono domande al ministero del lavoro, cresce la fame; la miseria si moltiplica; la reazione si rafforza. Quegli organizzatori socialisti che durante la guerra andavano a stringere le mani insanguinate dei generali nei comitati di mobilitazione, sono gli stessi che oggi chiedono l'aiuto e l'intervento dei ministri del lavoro. Ieri essi si rendevano complici degli assassini che avevano scatenato la guerra infrenando lo slancio rivoluzionario delle masse con le decisioni dei comitati arbitrali; oggi lasciano la classe operaia indifesa, mentre dappertutto i padroni non rispettano piú i concordati e li violano a loro piacere.

Solo la proposta del Comitato sindacale comunista è in grado di organizzare una difesa operaia contro l'assalto capitalistico; solo unendo tutte le forze operaie in un esercito compatto si può pensare ad una seria opposizione ai capitalisti, che, obbedendo ad una parola d'ordine, tendono a ridurre in schiavitù tutta la classe operaia. Ma per i signori organizzatori socialisti, persino domandare il rispetto dei concordati è oggi troppo rivoluzionario.

La lotta agraria in Italia30

La politica che gli agrari vanno esercitando in Italia acquista per gli operai sempre maggior valore, a mano a mano che essa si precisa. Gli agrari non sono soltanto gli arbitri della situazione nelle campagne; che anzi ciò serve ad essi per altre mire, meno note, ma di gran lunga assai piú importanti dal punto di vista dei loro interessi di classe. È un fatto che gli agrari sono oggi i padroni delle banche. Essere i padroni delle banche vuol dire, in breve, avere nelle mani anche le sorti delle industrie. Ecco in qual modo la classe operaia si ricollega immediatamente alla classe dei contadini, ed ecco perché il proletariato di città deve seguire con attenzione tutto quanto si svolge in mezzo ai lavoratori delle campagne. Gli agrari, schiacciando la classe dei contadini, mirano ad ottenere anche l'assoggettamento degli operai di città. In questo senso, parlando del fascismo rurale, che ha la sua centrale nel Bolognese, noi abbiamo sempre sostenuto che gli operai non possono disinteressarsi del modo come si risolve la crisi del fascismo. Se i contadini continuano ad essere terrorizzati nelle campagne, gli operai a loro volta risentiranno gli effetti di questo stato di cose. D'altra parte non è soltanto la violenza nelle campagne che determina la crisi nella città. Le industrie non potranno prendere il loro normale sviluppo, se non quando si libereranno dall'influenza di questi avventurieri di campagna, divenuti capitani d'industria, senza merito proprio specifico. È possibile che questo avvenga per un processo evolutivo della politica interna dello Stato, senza cioè determinare urti e contrasti violenti? Il tentativo del partito popolare di modificare i rapporti tra contadini e proprietari, cercando di associare il lavoro al capitale non può essere destinato che al fallimento. Anche nella quistione delle disdette dei patti agricoli si rivela la impotenza del partito popolare e di qualunque altro partito che ne segua le orme.

Rispetto ai popolari, i deputati agrari non rappresentano che una piccola minoranza. Ma la forza effettiva dei deputati agrari nelle stesse sfere governative supera la forza dei popolari. Non è il caso di parlare di nuovo della debolezza delle istituzioni parlamentari. Basta però dimostrare che ciò che conta oggi non è il numero dei deputati, ma la forza organizzata che si possiede nel paese. Gli agrari per questo sono assai piú forti dei popolari. L'episodio di Treviso non dice forse che i popolari sono prigionieri degli agrari o, se non prigionieri, impotenti di fronte alla loro azione? A Treviso un giornale popolare viene distrutto; le stesse sedi delle organizzazioni popolari vengono prese d'assalto e devastate.

Ma i popolari, che pur hanno parecchi ministri nel presunto gabinetto, e per colmo il ministro della giustizia, non hanno potuto osare neppure di prendere i soliti provvedimenti che si adottano per i delitti piú comuni. I popolari dunque possono solo fino a un certo punto sostenere gli interessi dei contadini. Essi lo possono solo temporaneamente, fino a quando cioè non urtano contro gli interessi degli agrari. Tale è appunto il caso delle disdette.

Il ministro Micheli ha accordato la proroga. Questa proroga è anche appoggiata dai socialisti. L'atteggiamento degli agrari può spingere i due partiti — popolare e socialista — a scegliere una piú netta posizione nell'ambito della collaborazione parlamentare; ma non per questo gli agrari cessano di avere una forza preponderante nel determinare l'indirizzo della politica interna. Gli agrari hanno mezzi diretti a propria disposizione per organizzare la loro difesa contro la classe lavoratrice. La dimostrazione di questo essi l'hanno con l'organizzazione del fascismo nelle campagne. Essi possono quindi, quando vogliono, imporre ancora la loro volontà ai contadini, opponendosi anche alle decisioni del governo. Socialisti e popolari a scopo elettorale fan vedere di avere molto a cuore il bene dei contadini, ma essi non sanno che non possono indicare alcuna via concreta per impedire ai proprietari d'attuare i loro piani.

Il problema della terra torna oggi all'ordine del giorno della politica italiana. Dappertutto le classi contadine sono in fermento. Solo un partito rivoluzionario — e in Italia non vi è che il partito comunista — solo un partito rivoluzionario può oggi comprendere questo problema e propugnarne la soluzione.

Il problema della terra è il problema della rivoluzione, la quale in Italia è possibile solo se coincide con gli interessi dei contadini ed operai. Questa coincidenza si verifica oggi. Come nell'aprile 1920, oggi pure operai e contadini sono uniti dal medesimo interesse nella lotta contro lo sfruttamento padronale. Il problema della rivoluzione italiana è dunque il problema dell'unità degli operai e contadini. Occorre che ai comunisti non sfugga questo lato importante della rivoluzione in Italia.

I partiti e la massa31

La crisi costituzionale in cui si dibatte il Partito socialista italiano interessa i comunisti in quanto essa è il riflesso della piú profonda crisi costituzionale in cui si dibattono le grandi masse del popolo italiano. Da questo punto di vista la crisi del partito socialista non può e non deve essere considerata isolatamente: essa è la parte di un quadro piú comprensivo, che abbraccia anche il partito popolare e il fascismo.

Politicamente le grandi masse non esistono se non inquadrate nei partiti politici: i mutamenti d'opinione che si verificano nelle masse sotto la spinta delle forze economiche determinanti vengono interpretati dai partiti, che si scindono prima in tendenze, per poi scindersi in una molteplicità di nuovi partiti organici: attraverso questo processo di disarticolazione, di neoassociazione, di fusione tra gli omogenei si rivela un piú profondo ed intimo processo di decomposizione della società democratica per il definitivo schieramento delle classi in lotta per la conservazione o la conquista del potere di Stato e del potere sull'apparecchio di produzione.

Nel periodo dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche il partito socialista ha rappresentato la maggioranza del popolo lavoratore italiano, costituita di tre classi fondamentali, il proletariato, la piccola borghesia, i contadini poveri. Di queste tre classi solo il proletariato era essenzialmente e perciò permanentemente rivoluzionario: le altre due classi erano «occasionalmente» rivoluzionarie, erano «socialiste di guerra», accettavano l'idea della rivoluzione in generale per i sentimenti di ribellione antigovernativa germogliati durante la guerra. Poiché il partito socialista era costituito in maggioranza di elementi piccolo-borghesi e contadini, esso avrebbe potuto fare la rivoluzione solo nei primi tempi dopo l'armistizio, quando i sentimenti di rivolta antigovernativa erano ancora vivaci e attivi; d'altronde, essendo il partito socialista costituito in maggioranza di piccoli borghesi e di contadini (la cui mentalità non è molto diversa da quella dei piccoli borghesi di città), esso non poteva che essere oscillante, esitante, senza un programma netto e preciso, senza indirizzo, senza, specialmente, una coscienza internazionale. L'occupazione delle fabbriche, essenzialmente proletaria, trovò impreparato il partito socialista, che era solo parzialmente proletario, che era già, per i primi colpi del fascismo, in crisi di coscienza nelle altre sue parti costitutive. La fine dell'occupazione delle fabbriche scompaginò completamente il partito socialista; le credenze rivoluzionarie infantili e sentimentali caddero completamente; i dolori della guerra si erano in parte attutiti (non si fa una rivoluzione per i ricordi del passato!); il governo borghese apparve ancora forte nella persona di Giolitti e nell'attività fascista; i capi riformisti affermarono che pensare alla rivoluzione comunista in generale era pazzesco; Serrati affermò che era pazzesco pensare alla rivoluzione comunista in Italia, in quel periodo. Solo la minoranza del partito, formata dalla parte piú avanzata e colta del proletariato industriale, non mutò il suo punto di vista comunista e internazionalista, non si demoralizzò per gli avvenimenti quotidiani, non si lasciò illudere dalle apparenze di robustezza e di energia dello Stato borghese. Cosí nacque il partito comunista, prima organizzazione autonoma e indipendente del proletariato industriale, della sola classe popolare essenzialmente e permanentemente rivoluzionaria.

Il partito comunista non divenne subito partito delle piú grandi masse. Ciò prova una sola cosa: le condizioni di grande demoralizzazione e di grande abbattimento in cui erano piombate le masse in seguito al fallimento politico dell'occupazione delle fabbriche. La fede si era spenta in un gran numero dei dirigenti; ciò che prima era stato esaltato veniva oggi deriso; i sentimenti piú intimi e delicati della coscienza proletaria venivano turpemente calpestati da questa ufficialità subalterna dirigente, divenuta scettica, corrottasi nel pentimento e nel rimorso del suo passato di demagogia massimalista. La massa popolare, che subito dopo l'armistizio si era schierata intorno al partito socialista, si smembrò, si liquefece, si disperse. La piccola borghesia che aveva simpatizzato col socialismo, simpatizzò col fascismo; i contadini, senza appoggio ormai nel partito socialista, ebbero piuttosto simpatie per il partito popolare. Ma non fu senza conseguenze questa confusione degli antichi effettivi del partito socialista coi fascisti da una parte, coi popolari dall'altra.

Il partito popolare si avvicinò al partito socialista: nelle elezioni parlamentari le liste aperte popolari, in tutte le circoscrizioni, accolsero a centinaia e migliaia i nomi dei candidati socialisti; nelle elezioni municipali verificatesi in alcuni comuni rurali, dalle elezioni politiche ad oggi, spesso i socialisti non presentarono lista di minoranza e consigliarono i loro aderenti a riversare i voti sulla lista popolare; a Bergamo il fenomeno ebbe una manifestazione clamorosa: gli estremisti popolari si staccarono dall'organizzazione bianca e si fusero coi socialisti, fondando una Camera del lavoro e un settimanale diretto e scritto da socialisti e popolari insieme. Obiettivamente, questo processo di riavvicinamento popolare-socialista rappresenta un progresso. La classe contadina si unifica, acquista la coscienza e la nozione della sua solidarietà diffusa, spezzando l'involucro religioso nel campo popolare, spezzando l'involucro della cultura anticlericale piccolo-borghese nel campo socialista. Per questa tendenza dei suoi effettivi rurali il partito socialista si stacca sempre piú dal proletariato industriale, e quindi pare venga a spezzarsi quel forte legame unitario che il partito socialista pareva aver creato tra città e campagna; siccome però questo legame non esisteva in realtà, nessun danno effettivo emerge dalla nuova situazione. Un vantaggio reale invece si rende evidente: il partito popolare subisce una fortissima oscillazione a sinistra e diventa sempre piú laico; esso finirà con lo staccarsi dalla sua destra, costituita di grandi e medi proprietari terrieri, cioè entrerà decisamente nel campo della lotta di classe, con un formidabile indebolimento del governo borghese.

Lo stesso fenomeno si profila nel campo fascista. La piccola borghesia urbana, rafforzata politicamente da tutti i transfughi del partito socialista, aveva cercato dopo l'armistizio di mettere a frutto la capacità di organizzazione e di azione militare acquistata durante la guerra. La guerra italiana è stata diretta, in assenza di uno stato maggiore efficiente, dalla ufficialità subalterna, cioè dalla piccola borghesia. Le delusioni patite in guerra avevano destato fortissimi sentimenti di ribellione antigovernativa in questa classe, la quale, perduta dopo l'armistizio l'unità militare dei suoi quadri, si sparpagliò nei vari partiti di massa, portandovi fermenti di ribellione, ma anche incertezza, oscillazioni, demagogia. Caduta la forza del partito socialista dopo l'occupazione delle fabbriche, con rapidità fulminea questa classe, sotto la spinta dello stesso stato maggiore che l'aveva sfruttata in guerra, ricostruì i suoi quadri militarmente, si organizzò nazionalmente. Maturazione rapidissima, crisi costituzionale rapidissima. La piccola borghesia urbana, giocattolo in mano allo stato maggiore e alle forze piú retrograde del governo, si alleò agli agrari e spezzò, per conto degli agrari, l'organizzazione dei contadini. Il patto di Roma tra fascisti e socialisti segna il punto d'arresto di questa politica ciecamente e politicamente disastrosa per la piccola borghesia urbana, la quale comprese che vendeva la sua «primogenitura» per un piatto di lenticchie. Se il fascismo continuava nelle spedizioni punitive tipo Treviso, Sarzana, Roccastrada, la popolazione sarebbe insorta in massa e, nell'ipotesi di una sconfitta popolare, non certo i piccoli borghesi avrebbero preso in mano il potere, ma lo stato maggiore e i latifondisti. Il fascismo si avvicina nuovamente al socialismo, la piccola borghesia cerca di rompere i legami con la grande proprietà terriera, cerca di avere un programma politico che finisce col rassomigliare stranamente a quello di Turati e D'Aragona.

È questa la situazione attuale della massa popolare italiana: una grande confusione, successa alla unità artificiale creata dalla guerra e personificata dal partito socialista, una grande confusione che trova i punti di polarizzazione dialettica nel partito comunista, organizzazione indipendente del proletariato industriale; nel partito popolare, organizzazione dei contadini; nel fascismo, organizzazione della piccola borghesia. Il partito socialista, che ha dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche rappresentato la confusione demagogica di queste tre classi del popolo lavoratore, è oggi il massimo esponente e la vittima piú cospicua del processo di disarticolazione (per un nuovo, definitivo assetto) che le masse popolari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia.

ll sostegno dello Stato32

Nel bel tempo antico, quando i ricordi del Risorgimento erano ancora vivaci e la conquista della Costituzione rappresentava ancora un valore per la grande massa della popolazione italiana, si svolse una interessante polemica tra i liberali e i repubblicani sulla natura e sulla importanza del giuramento di fedeltà al re che i deputati devono prestare in Parlamento. I liberali cosí ragionavano: se i deputati rifiutano di prestare questo giuramento, se i deputati ottengono che l'istituzione del giuramento sia abolita, lo Stato stesso viene a mancare del suo principale sostegno. La Costituzione è un patto reciproco di fedeltà tra popolo e sovrano: se il popolo, attraverso le persone dei suoi rappresentanti, si sottrae all'obbligo di fedeltà, se il popolo domanda, con l'abolizione del giuramento, libertà di operare contro la Costituzione, anche il sovrano viene, di diritto, ad essere sciolto dai suoi vincoli, anche al sovrano viene riconosciuta la libertà di organizzare e di attuare il colpo di Stato contro la Costituzione.

Il governo rappresenta il sovrano nel Parlamento nazionale, il governo è anzi responsabile per il sovrano dinanzi al Parlamento nazionale e dinanzi al popolo. Se il governo lascia impunemente violare la Costituzione, se il governo permette la formazione nel paese di bande armate, se il governo permette che associazioni private costituiscano depositi di armi e munizioni, se il governo permette che decine di migliaia di privati cittadini, armati, inquadrati militarmente, con casco e moschetto, dopo avere, indisturbati, percorso il paese, invadano la capitale e sfoggino apertamente la loro «potenza», cosa significa ciò se non questo: avere il governo, responsabile per il sovrano, violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione? Cosa significa ciò se non che si sta preparando, da parte degli organismi statali che si raggruppano nel potere esecutivo, un colpo di Stato? Cosa significa ciò se non che in Italia viviamo già nell'ambiente da cui automaticamente deve sbocciare il colpo di Stato?

Il patto tra popolo e sovrano è dunque ormai denunziato, per volontà del potere statale che rappresenta il secondo. Automaticamente tutti i giuramenti di fedeltà sono denunziati. Cosa lega ormai gli impiegati al governo? Cosa lega ormai gli ufficiali all'autorità suprema? La popolazione deve, per la logica stessa degli avvenimenti, dividersi in due parti: favorevoli e contrari al colpo di Stato reazionario, o meglio favorevoli al colpo di Stato reazionario e favorevoli a un'insurrezione popolare capace di spezzare il colpo di Stato reazionario. La stessa Costituzione contempla l'eventualità: essa riconosce al popolo il diritto di insorgere in armi contro ogni tentativo dei poteri statali di infrangere la Costituzione stessa. Perché infatti un patto, che non può non essere bilaterale, dovrebbe rimanere valido per una parte se l'altra parte lo infrange? Perché un impiegato o un ufficiale dovrebbe mantenersi fedele a una legge che piú non esiste? Perché dovrebbe conservare i segreti di Stato e non comunicarli ai partiti rivoluzionari, se conservare questi segreti significa favorire il colpo di Stato, cioè l'abolizione anche formale delle leggi e delle libertà statutarie, mentre comunicare questi segreti ai partiti rivoluzionari significa contribuire a salvare la libertà popolare, significa certamente mantenersi fedele allo spirito del giuramento prestato?

Lo Stato borghese vive in grandissima parte sul lavoro e sull'abnegazione di migliaia di funzionari civili e militari che compiono, spesso con vera passione, il loro dovere, che hanno vivo il senso dell'onore, che hanno preso sul serio il giuramento prestato all'atto di iniziare il loro servizio. Se non esistesse questo nucleo fondamentale di persone sincere, lealmente devote al loro ufficio, lo Stato borghese crollerebbe in un istante, come un castello di carta. Sono costoro il vero, l'unico sostegno dello Stato, non certo gli altri, i concussori, i prevaricatori, i poltroni, i parassiti dello Stato. Ora: a chi giova il colpo di Stato? Esso può giovare solo appunto a questi altri, ai concussori, ai prevaricatori, ai poltroni, ai parassiti: spesso, anzi quasi sempre, il colpo di Stato non è altro che lo strumento della feccia statale per mantenere le posizioni occupate e divenute micidiali per la società; questa gente non ha scrupoli, si infischia dei giuramenti e dell'onore, essa odia tutti i lavoratori e, primi fra tutti, quelli che lavorano nei suoi stessi uffici e sono il vivente rimprovero della sua disonestà e del suo parassitismo.

Oggi la situazione storica è questa: una sola grande classe sociale è in grado di opporsi validamente ai tentativi liberticidi della reazione scatenata, la classe degli operai, il proletariato. Questa classe compie oggi la stessa funzione liberatrice che nel Risorgimento è stata propria dei liberali. Questa classe ha un suo partito, il partito comunista, col quale devono collaborare tutti gli elementi disinteressati e sinceri dello Stato italiano, che vogliono mantenere fede al loro ufficio di custodi delle libertà popolari contro tutti gli assalti delle forze oscure del passato che non vuol morire.

Un anno33

Tutta la storia italiana dal 1900 (cioè dall'uccisione di Umberto I e dalla caduta degli inani tentativi dottrinari di creare uno Stato costituzionale con un rigido corpo di leggi scritte), e forse anche tutta la storia contemporanea del nostro paese dall'avvento dell'unità nazionale, sarebbe un enigma se si prescindesse dall'assumere come punto centrale della visione storica l'incessante sforzo di determinati ceti governativi per incorporare nella classe dirigente le personalità piú eminenti delle organizzazioni operaie. La democrazia italiana, come si è creata fin dal 1870, manca di una solida struttura di classe per la non verificatasi prevalenza di nessuna delle due classi proprietarie: i capitalisti e gli agrari. La lotta tra queste due classi ha rappresentato nella storia degli altri paesi il terreno per la organizzazione dello Stato moderno, liberale e parlamentare. In Italia questa lotta è quasi assolutamente mancata, o, per meglio dire, si è attuata in una forma equivoca, come un assoggettamento, di natura burocratica e plutocratica, delle regioni centrali e meridionali del paese, abitate dalle classi agrarie, alle regioni settentrionali, dove invece aveva trovato sviluppo il capitale industriale e finanziario.

La necessità di mantenere un regime democratico, che nello stesso tempo era dominio di minoranze borghesi e si attuava come predominio di una ristretta parte della nazione sulla maggior parte del territorio, spinse incessantemente i rappresentanti dell'industrialismo e della plutocrazia settentrionale a cercare di ampliare i propri quadri di classe dominante incorporandovi le masse operaie e annullando la lotta di classe nella propria zona. Fino al 1900 i capitalisti settentrionali cercarono in un'alleanza coi latifondisti meridionali di soffocare contemporaneamente la lotta di classe del proletariato industriale e le esplosioni di violenza delle classi povere del contadiname meridionale. Ma apparve chiaro che questa alleanza a lungo andare avrebbe capovolto la situazione, dando il potere dello Stato ai latifondisti e facendo perdere al settentrione le posizioni di privilegio conquistate con l'unità nazionale. Il tentativo di Umberto e di Sonnino di dare allo Stato una rigida struttura costituzionale, togliendo al Parlamento le prerogative di fatto che era riuscito a conquistare, fu il punto di risoluzione di queste lotte. Definitivamente, con l'uccisione dì Umberto, il capitalismo ebbe il sopravvento, e all'alleanza su piano nazionale delle classi proprietarie cercò di sostituire un sistema di alleanza col proletariato urbano, sulla cui base potesse svilupparsi, come negli altri paesi capitalistici, una vera democrazia parlamentare. Giolitti è il rappresentante tipico di questa tendenza, e tutta la storia del movimento socialista dal 1900 a oggi non è altro che il risultato delle successive combinazioni escogitate dal giolittismo per procurarsi l'appoggio delle classi operaie. In nessun paese come in Italia è stato favorito dai governi il sorgere e il sistemarsi di organizzazioni sindacali e cooperative. Attraverso il consolidarsi di questi interessi costituiti era presumibile che sarebbe nata dal seno della classe operaia tutta una stratificazione piccolo-borghese di funzionari che facilmente avrebbe ascoltato le parole di adescamento degli statisti borghesi. Questo piano ventennale della parte piú intelligente della borghesia italiana è giunto oggi a completa maturazione. Nella sua estrema vecchiaia Giolitti si vede sul punto di cogliere finalmente i frutti del suo lunghissimo e pazientissimo lavoro. E a questa conclusione si giunge proprio nei giorni che segnano l'anniversario del congresso di Livorno.

Un anno fa apparve chiaramente ai comunisti quale fosse il reale indirizzo della vita politica italiana, e nonostante l'estrema difficoltà del momento, nonostante che il loro atto potesse sembrare, a una gran parte della classe operaia, avventato e prematuro, i comunisti non esitarono ad assumere una precisa posizione, scindendo la propria responsabilità e quindi, in ultima analisi, la responsabilità di tutto il proletariato italiano, dagli atti politici che ineluttabilmente dovevano essere compiuti dallo strato piccolo-borghese che in vent'anni di storia si era venuto costituendo e fortemente organizzando nel seno della classe operaia.

I cosiddetti massimalisti unitari, con quella ignoranza della storia sociale del loro paese che sempre li ha distinti, credettero invece che il tenere imprigionate in una formazione di partito verbalmente rivoluzionaria le tendenze collaborazioniste, fosse sufficiente per evitare che il fatto storico si compiesse. I massimalisti sostennero che una collaborazione preordinata e quotidianamente predicata, rappresentasse una manifestazione di volontarismo; essi si rifiutarono sempre, con una cocciutaggine da muli bendati, di riconoscere che tutta la storia italiana, per i suoi presupposti peculiari e per il modo con cui si era costituito lo Stato unitario, dovesse necessariamente condurre alla collaborazione.

Ma Giolitti conosceva meglio dei massimalisti la storia del movimento socialista italiano: egli sapeva, perché in gran parte egli stesso ne era stato il creatore, che il sistema delle cooperative e tutte le altre organizzazioni di resistenza, di previdenza e di produzione della classe operaia italiana non erano nate per uno sforzo autonomo della classe operaia stessa, non erano nate per un impulso di creazione originale e rivoluzionario, ma dipendevano da tutta una serie di compromessi in cui la forza del governo rappresentava la parte dominante. Ciò che il governo aveva creato, il governo poteva distruggere. Ciò che il governo aveva creato senza ufficialmente compromettere l'autorità statale, poteva essere dal governo distrutto con lo stesso metodo. Il fascismo divenne cosí lo strumento per ricattare il partito socialista, per determinare la scissione tra la piccola borghesia incrostata tenacemente agli interessi costituiti della classe operaia e il resto del partito socialista che si limitava a pascersi di formule ideologiche, poiché si era dimostrato incapace a condurre a termine lo sforzo rivoluzionario del proletariato. Ancora una volta l'economia ha prevalso sulle ideologie. Oggi i rappresentanti degli interessi costituiti, cioè delle cooperative, degli uffici di collocamento, delle affittanze collettive, dei comuni, delle casse di previdenza hanno, sebbene in minoranza nel partito, il sopravvento sugli oratori, sui giornalisti, sui professori, sugli avvocati che perseguono irraggiungibili e vacui piani ideologici.

In un anno, intensificando fino all'assurdo la politica dei compromessi, che è la politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, la borghesia è riuscita ad ottenere ciò che da venti anni pazientemente aveva preparato. Il grande partito socialista che nel 1919 sembrava essere l'unificatore di tutte le tendenze alla rivolta che covavano fin nei bassi strati della popolazione italiana, è completamente disgregato. Ne sono risultate due forze politiche, nessuna delle quali è in grado di dominare la situazione: da una parte la tendenza riformista, che verrà rapidamente incorporata nel seno della borghesia, dall'altra il partito comunista. Ma questi obiettivi risultati del congresso di Livorno non sono tali da scoraggiare i comunisti. Essi anzi sono forti appunto perché non rifiutano di guardare in faccia la situazione e di valutarla nei suoi reali rapporti di forza. Perché il proletariato potesse diventare una classe indipendente era necessario che si disgregasse l'edificio di falsa prepotenza economica costruito in venti anni di compromessi. Un crollo di tal genere non poteva mancare di avere conseguenze gravissime di indebolimento per lo stesso proletariato. I comunisti ebbero il coraggio di affrontare la situazione e di farla precipitare. Del resto se di questo coraggio avessero mancato, il crollo sarebbe avvenuto ugualmente e neppure l'attuale forza conservata dal proletariato si sarebbe salvata dallo sfacelo. È una premessa necessaria per la rivoluzione che anche in Italia avvenga la completa dissoluzione della democrazia parlamentare. Il proletariato diventa classe dominante e si pone a capo di tutte le forze rivoluzionarie del paese solo quando sperimentalmente, per una riprova della realtà storica, le tendenze collaborazioniste dimostrano di essere incapaci a risolvere la crisi economica e politica. I massimalisti non hanno voluto convincersi a Livorno di questa verità che scaturisce da tutta la dottrina marxista: essi hanno creduto di potere con la coercizione ideologica di una vuota disciplina di partito impedire che il processo storico si attuasse integralmente in tutti i suoi momenti e che un anello della catena potesse essere saltato. Sono stati puniti nel loro orgoglio miracolista. Per la mancanza di ogni capacità politica e di ogni comprensione della storia reale del popolo italiano, essi hanno raggiunto solo il miserabile successo di ritardare artificialmente un esperimento che a quest'ora sarebbe già stato liquidato dalle sue stesse risultanze, e quindi hanno ai dolori e alle sofferenze imposte alla classe operaia dall'oppressione capitalista aggiunto nuovi dolori e nuove sofferenze che avrebbero potuto essere risparmiate.

La mano dello straniero34

Quale pressione hanno esercitato gli interessi e gli agenti stranieri nella determinazione e nello svolgimento della crisi parlamentare italiana, oggi solo provvisoriamente e malamente conclusa? A questo proposito, come è facile comprendere, è dato a noi disporre solo di indizi molto vaghi e generici: la molteplicità degli indizi rappresenta però, di per se stessa, un documento di alto valore storico e di carattere probativo.

Dopo la caduta del primo ministero Nitti, i sostenitori dell'uomo di Stato basilisco affermarono che nella nuova orientazione della politica italiana non erano estranei gli influssi della Francia. Il Resto del Carlino, allora nittiano e antigiolittiano, pubblicò un documento impressionante: la prova ufficiale che il signor Clemenceau si era rivolto all'on. Nitti per domandargli che fosse ad ogni costo represso il movimento operaio italiano, e la «dignitosa» risposta dell'on. Nitti al Clemenceau. Il Resto del Carlino dimenticò però di rilevare che, immediatamente dopo l'ingiunzione francese, fu dall'on. Nitti istituita, con decreto-legge, la regia guardia, unicamente destinata a reprimere il movimento operaio: dimenticò cioè di rilevare che l'on. Nitti, se rispose «dignitosamente» all'ingiunzione straniera, in realtà ubbidì all'ingiunzione stessa, passando sopra alla Costituzione del regno, che vieta la creazione di milizie mercenarie, e alle «buone norme parlamentari», che avrebbero domandato almeno una regolare discussione dinanzi alla Camera dei deputati.

Se si può fare una distinzione tra Nitti e Giolitti a questo proposito, essa è di carattere formale, non sostanziale: Giolitti piú apertamente accetta la soggezione agli stranieri, Nitti invece cerca di «salvar la faccia» e fa di necessità virtù. Giolitti è la «tradizione» della soggezione italiana; il suo atteggiamento del maggio 1915 non può essere spiegato in altro modo che con gli impegni tassativi da lui personalmente assunti con lo stato maggiore prussiano. Il suicidio del generale Pollio, che si era recato a Berlino per firmare la convenzione militare che nel 1912 mutava radicalmente il vecchio trattato della Triplice alleanza, è stato l'indizio piú evidente di questa rottura di contratto: che l'on. Giolitti conservasse un profondo rancore verso la Corona per aver ceduto alle nuove pressioni fu poi dimostrato dall'aver egli posto, come caposaldo del suo programma di governo dopo l'armistizio, l'abolizione dell'articolo 5 dello Statuto, che appunto dà alla Corona la prerogativa del dichiarare le guerre.

Caduta la dinastia Hohenzollern, e svanita ogni possibilità di un suo ritorno, l'orientamento politico dell'on. Giolitti mutò, i suoi rancori sbollirono. Prima della guerra, secondo l'espressione di Paolo Bourget, tre baluardi esistevano in Europa della «civiltà classica»: il Vaticano, lo stato maggiore tedesco, la Camera dei lords britannica. Dopo la guerra due di queste istituzioni sono cadute. Il Vaticano ha mutato radicalmente la sua struttura: la sua base tradizionale, che era la vecchia aristocrazia terriera, le è venuta a mancare per la stessa ragione per cui sono venuti a mancare il militarismo prussiano e la Camera dei lords, ed è stata sostituita dalla classe dei contadini piccoli e medi. In Europa la maggior forza di conservazione è rappresentata dal Parlamento francese, in cui ancora l'aristocrazia terriera domina. Come prima della guerra il punto di vista dell'on. Giolitti era, in definitiva, quello dello Junker prussiano, cosí come è oggi quello dell'hobereau vandeano. Spregiudicato e cinico, l'on. Giolitti apertamente lascia che i francesi, molto meno riguardosi dei tedeschi, spadroneggino nel nostro paese. È naturale che i suoi bassi agenti, i vari Pippo Naldi del giornalismo, siano ancora piú cinici e spregiudicati del principale e giungano fino al piú sfacciato servilismo verso i funzionari dello Stato francese in Italia.

A parte gli episodi di corruzione individuale, la quistione degli influssi stranieri in Italia è la quistione fondamentale della nostra vita politica. Nei suoi termini essenziali essa può essere cosí definita: la classe piú conservatrice, quella dei grandi proprietari terrieri, approfitta della crisi industriale per riprendere il sopravvento in tutti gli Stati europei. La reazione, in tutta Europa, ha un carattere spiccatamente agrario. La Francia, dove i latifondisti conservano una maggiore potenza politica, diventa il centro reazionario mondiale. I conservatori di tutti i paesi si orientano verso la Francia e ne ricevono gli ordini. In Italia questa soggezione, per la maggior depressione generale del paese e per la maggior vigliaccheria delle classi di governo, si manifesta in forme piú brutali. Si è vista La Stampa, con tutta la schiera degli altri giornali giolittiani, partecipare alla manovra dei conservatori francesi per la caduta di Briand durante la conferenza di Washington (pubblicazione del telegramma di Pertinax sull'incidente Briand-Schanzer). Si è vista la democrazia giolittiana rovesciare il ministro Bonomi per rimandare la conferenza di Genova, secondo gli intendimenti del signor Poincaré. Ma i nittiani procederebbero diversamente? Il creatore della regia guardia per decreto-legge riuscirebbe certo a salvare le forme piú che non faccia l'onorevole Giolitti, ma la sua politica non sarebbe fondamentalmente diversa da quella del vecchio di Dronero.

L'esperienza dei metallurgici a favore dell'azione generale35

Il conflitto nel quale si trova attualmente impegnato il proletariato metallurgico assurge, per asprezza e per estensione, al livello delle grandi lotte del passato. Il proletariato metallurgico è stato il primo, dopo l'armistizio, a conquistare le otto ore. Il proletariato metallurgico è stato anche il primo a conquistare all'operaio migliori condizioni di esistenza nell'officina ed il primo anche a subire l'urto iniziale dell'offensiva industriale. Dopo le giornate di settembre, abbassate le bandiere rosse dai camini delle officine, in queste erano rientrati i padroni e non certo con propositi di conciliazione con la classe operaia, che aveva tentato di espropriarli. Sarebbe stupido pretendere che i capitalisti creino agli operai facili condizioni per la loro lotta e non pensino a rinsaldare soprattutto il proprio potere, quando questo è minacciato dalle basi. Che cosa ora poteva accadere dopo settembre nelle officine? Doveva prevedersi: settembre non era stato per gli operai una vittoria, ma una sconfitta. Come in tutti gli eserciti che ripiegano, era compito dei dirigenti operai preparare la ritirata in modo che questa non si verificasse con disordine, non determinasse panico nelle file dei combattenti. Condotta con abilità, la ritirata doveva arrestarsi su una linea di difesa, alla cui fortificazione dovevano rivolgersi tutti gli sforzi nella retrovia. Invece dopo settembre la classe operaia è stata abbandonata a se stessa; si è trovata di fronte alle piú difficili situazioni senza una parola d'ordine precisa che le indicasse la via da seguire. La ritirata degli operai avvenuta inizialmente nel piú grande disordine non poteva non avere conseguenze funeste per la vita delle organizzazioni. Vennero infatti le prime lotte contro i licenziamenti. I metallurgici compresero che già fin da allora era necessario fermare la ritirata e resistere alla pressione del nemico. Subire i licenziamenti, come volevano gli industriali, significava prepararsi a breve scadenza ad una diminuzione di salari. La lotta appariva come una necessità urgente di difesa per tutto il proletariato. Senza volere qui indagare ancora ciò che abbiamo mille volte messo a nudo, ci accontentiamo di rilevare che gli operai metallurgici vennero lasciati soli a combattere e dovettero anche questa volta ripiegare. I licenziamenti furono fatti, ma i padroni non erano ancora contenti della forza riacquistata nell'officina. Essi volevano affermare in modo ancora piú brutale il loro potere e pensavano a nuove umiliazioni da infliggere alla classe operaia. Ed ecco giungere il turno dei salari. I metallurgici resistono: in molte parti incrociano le braccia, fermi e decisi a combattere.

Ma anche questa volta agli operai viene a mancare una parola d'ordine, sicché essi si trovano di nuovo slegati, incerti nella lotta. E gli industriali, abusando della loro forza, rompono i patti, attuano riduzioni di salario, violano anche le otto ore. Questa situazione non è stata però legalizzata da nessun concordato. Gli industriali si sentono sempre vincolati da un patto, anche se essi non lo rispettano piú. E perciò vogliono che l'organizzazione riconosca questo stato di fatto e danno battaglia per l'abolizione del carovita da includersi nei nuovi patti di lavoro. La lotta da sotterranea diventa palese, da tacita scoppia in tutta la sua crudezza. A questo punto l'organizzazione non può piú ignorare che sono avvenute delle riduzioni di salari e che gl'industriali dopo aver strappato i concordati vogliono rendere legittimo questo stato di fatto creato con la violenza. Per l'organizzazione il problema è uno solo: acconsentire o lottare? Un anno di esperienza del proletariato metallurgico, al quale si riannodano le sorti di tutte le altre categorie operaie, sta a dimostrare che oggi non è piú possibile rimandare la lotta. Gl'industriali non rispettano piú alcun concordato; essi agiscono secondo che si sentono forti. L'organizzazione non può nemmeno piú fare affidamento nei patti che essa stessa stipula con la parte padronale, se questa non diventa consapevole della sua forza. La lotta è il solo mezzo che resti agli operai ed all'organizzazione, per porre un termine alla ritirata di settembre. Ma la lotta non dev'essere intesa come lo sforzo di una categoria. La realtà di questi mesi ha mostrato come sia fallace la tattica di condurre a scaglioni gli operai alla lotta. I tessili, gli operai chimici, i metallurgici della Lombardia, della Liguria, della Venezia Giulia sanno cosa è costato loro l'aver lottato da soli contro la classe padronale. Nessuna propaganda per il fronte unico è stata migliore di quella fatta in questi ultimi mesi dalla realtà degli avvenimenti medesimi. Si sono rovesciati diversi ministeri, si è creduto di trovare un limite alle pretese industriali, nominando un'apposita commissione d'inchiesta, ma tutte le promesse, tutti i tentativi si sono risolti su questo terreno a danno degli operai. La realtà dunque ha persuaso il proletariato alla lotta generale. Sotto la spinta di questa convinzione, penetrata nella coscienza degli operai, anche i piú avversi al fronte unico hanno dovuto modificare il loro atteggiamento ed orientarsi, nolenti o volenti, verso l'azione di tutte le forze operaie, schierate su un unico campo di lotta. La medesima forza suggestiva dell'unità ha dato origine in Italia all'organismo dell'Alleanza del lavoro, in cui gli operai ripongono oggi tutte le loro speranze di lotta. L'Alleanza del lavoro è come la nuova fortezza, nella quali la classe operaia spera finalmente di trovare la ragione della sua sicurezza. Grande è perciò il compito dell'Alleanza del lavoro in questo momento decisivo per la vita del proletariato italiano. I metallurgici del Piemonte e della Lombardia chiedendo a fianco loro l'intervento dell'Alleanza del lavoro, non lo hanno fatto certamente a scopo di minaccia, per ottenere un atto di solidarietà molto vaga, ma nella ferma persuasione che solo combattendo sotto la bandiera dell'unità proletaria oggi è possibile fronteggiare l'offensiva padronale. Se ciò non intendono oggi coloro che hanno la responsabilità dell'estrema disfatta della classe operaia, questa ha ben diritto di chiedere domani conto ad essi, facendone espiare con il sangue le colpe di viltà e di tradimento.

Tutto oggi è a favore della lotta generale: l'esperienza del passato e la realtà presente; la volontà delle masse e le condizioni di vita in cui le vorrebbe spingere la classe padronale. Non intendere questo, opporsi anche oggi alla unità delle forze operaie, impedirne con vani compromessi la realizzazione, significa macchiarsi di un delitto che nella storia si paga di persona.

Le origini del gabinetto Mussolini36

Gli elementi della crisi italiana, che ha avuto una soluzione violenta con l'avvento del fascismo al potere, possono essere brevemente riassunti nel modo seguente.

La borghesia italiana è riuscita a organizzare il suo Stato non tanto mediante la propria forza intrinseca quanto per essere stata favorita nella sua vittoria sulle classi feudali e semifeudali da tutta una serie di circostanze d'ordine internazionale (la politica di Napoleone III nel 1852-60, la guerra austro-prussiana del 1866, la sconfitta della Francia a Sedan e lo sviluppo che prese a seguito di questo avvenimento l'impero tedesco). Lo Stato borghese s'è cosí sviluppato piú lentamente e seguendo un processo che non è dato osservare in molti altri paesi. Il regime italiano alla vigilia della guerra non oltrepassava i limiti del puro regime costituzionale; non si era ancora prodotta la divisione dei poteri; le prerogative parlamentari erano molto limitate; non esistevano grandi partiti politici parlamentari. In quel momento la borghesia italiana doveva difendere l'unità e l'integrità dello Stato contro gli attacchi ripetuti delle forze reazionarie, rappresentate soprattutto dall'alleanza dei grandi proprietari terrieri con il Vaticano. La grande borghesia industriale e commerciale, guidata da Giovanni Giolitti, cercò di risolvere il problema con una alleanza di tutte le classi urbane (la prima proposta di collaborazione governativa fu fatta a Turati nei primi anni del XX secolo) con la classe dei braccianti agricoli; non si trattava però di un progresso parlamentare; si trattava piuttosto di concessioni paternalistiche d'ordine immediato che il regime faceva alle masse lavoratrici organizzate in sindacati e cooperative agricole.

La guerra mondiale spazzò via tutti questi tentativi. Giolitti, d'accordo con la Corona, nel 1912 si era impegnato ad agire a fianco della Germania nella guerra del 1914 (la convenzione militare firmata a Berlino nel 1912 dal generale Pollio, capo di stato maggiore italiano, entrò in vigore esattamente il 2 agosto 1914; il generale si suicidò durante il periodo della neutralità italiana, non appena la Corona si dimostrò favorevole al nuovo orientamento politico pro Intesa). Giolitti fu violentemente messo in disparte dai nuovi gruppi dirigenti, rappresentanti l'industria pesante, la grande proprietà fondiaria e lo stato maggiore, che arrivò persino a ordire una congiura per farlo assassinare.

Le nuove forze politiche, che dovevano fare la loro comparsa dopo l'armistizio, si consolidarono durante la guerra. I contadini si raggrupparono in tre organizzazioni molto potenti: il partito socialista, il partito popolare (cattolico) e l'associazione degli ex combattenti. Il partito socialista organizzava piú di un milione di braccianti agricoli e di mezzadri nell'Italia centrale e settentrionale; il partito popolare raggruppava altrettanti piccoli proprietari e contadini medi nelle stesse zone; le associazioni combattentistiche si svilupparono soprattutto nell'Italia meridionale e nelle regioni arretrate che non avevano tradizioni politiche. La lotta contro i grandi agrari divenne rapidamente molto intensa su tutto il territorio italiano: le terre furono invase, i proprietari dovettero emigrare verso i capoluoghi delle regioni agricole, a Bologna, Firenze, Bari, Napoli; dal 1919 essi cominciarono a organizzare squadre di borghesi per lottare contro la «tirannia dei contadini» nelle campagne. Mancava a questo immenso sollevamento delle classi lavoratrici nelle campagne una parola d'ordine chiara e precisa, un orientamento unico, deciso e determinato, un programma politico concreto.

Il partito socialista avrebbe dovuto dominare la situazione; ma se la lasciò sfuggire di mano. Il 60 per cento degli iscritti al partito erano contadini; fra i 150 deputati socialisti al Parlamento, 110 erano stati eletti nelle campagne; su 2.500 amministrazioni comunali conquistate dal partito socialista italiano 2.000 erano esclusivamente contadine; i quattro quinti delle cooperative amministrate dai socialisti erano cooperative agricole. Il partito socialista nella sua ideologia e nel suo programma rifletteva il caos che regnava nelle campagne; tutta la sua attività si riduceva a declamazioni massimaliste, a dichiarazioni chiassose nel Parlamento, ad affiggere manifesti, a canti e fanfare. Tutti i tentativi fatti dall'interno del partito socialista per imporre le questioni operaie e l'ideologia proletaria furono combattute con accanimento con le armi piú sleali; cosí nella sessione del Consiglio nazionale socialista tenuta a Milano nell'aprile 1920, Serrati giunse a dire che lo sciopero generale che era scoppiato in quel momento in Piemonte e che era appoggiato dagli operai di tutte le categorie, era stato provocato artificialmente da agenti irresponsabili del governo di Mosca.

Nel marzo 1920, le classi possidenti cominciarono a organizzare la controffensiva. Il 7 marzo fu convocata a Milano la prima Conferenza nazionale degli industriali che creò la Confederazione generale dell'industria italiana. Nel corso di questa conferenza fu elaborato un piano preciso e completo d'azione capitalista unificata; tutto vi era previsto, dall'organizzazione disciplinata e metodica della classe dei fabbricanti e dei commercianti fino allo studio minuto di tutti gli strumenti di lotta contro i sindacati operai, fino alla riabilitazione politica di Giovanni Giolitti. Nei primi giorni di aprile la nuova organizzazione otteneva già il suo primo successo politico: il partito socialista dichiarava anarchico e irresponsabile il grande sciopero del Piemonte che era scoppiato in difesa dei Consigli di fabbrica e per ottenere il controllo operaio sull'industria; il partito minacciò di sciogliere la sezione di Torino, che aveva diretto lo sciopero. Il 15 giugno Giolitti formava il suo ministero di compromesso con gli agrari e con lo Stato maggiore, rappresentato da Bonomi, ministro della guerra. Un lavorio febbrile d'organizzazione controrivoluzionaria cominciò allora di fronte alla minaccia dell'occupazione delle fabbriche, prevista persino dai dirigenti riformisti riuniti nella conferenza della Federazione degli operai metallurgici (Fiom), che si tenne a Genova nello stesso anno. In luglio, il ministero della guerra, Bonomi alla testa, cominciò la smobilitazione di circa 60.000 ufficiali nel modo seguente: gli ufficiali smobilitati conservavano i quattro quinti della loro paga; per la maggior parte essi furono inviati nei centri politici piú importanti, con l'obbligo di aderire ai «fasci di combattimento»; questi ultimi erano rimasti fino a quel momento una piccola organizzazione di elementi socialisti, anarchici, sindacalisti e repubblicani, favorevoli alla partecipazione dell'Italia alla guerra a fianco dell'Intesa. Il governo Giolitti fece sforzi immani per avvicinare la Confederazione dell'industria alle associazioni degli agrari, specie quelle dell'Italia centrale e settentrionale. Fu in questo periodo che apparvero le prime squadre armate di fascisti e che si ebbero i primi episodi terroristici. Ma l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai metallurgici ebbe luogo in un momento in cui tutto questo lavoro era in gestazione; il governo Giolitti fu costretto a prendere un atteggiamento conciliante e a ricorrere a una cura omeopatica piuttosto che a un'operazione chirurgica.

Il nostro indirizzo sindacale37

Nel Sindacato rosso del 15 settembre il compagno Nicola Vecchi ripropone una sua vecchia tesi: «Bisogna costituire un organismo nazionale sindacale di classe, autonomo e indipendente da tutti i partiti e transitoriamente indipendente da tutte le Internazionali».

Quale deve essere il nostro atteggiamento verso una tale proposta? Quale deve essere la direttiva di propaganda dei comunisti per arginare in mezzo alla massa possibili correnti di opinione in accordo con la tesi del compagno Vecchi? Quale è, concretamente, nell'attuale situazione, il nostro indirizzo sindacale: in quale modo, cioè, intendiamo noi mantenerci a contatto con le grandi masse proletarie, per interpretarne i bisogni, per raccoglierne e concretarne la volontà, per aiutare il processo di sviluppo del proletariato verso la sua emancipazione, che continua nonostante tutte le repressioni e tutta la violenza dell'obbrobriosa tirannia fascista?

Noi siamo, in linea di principio, contro la creazione di nuovi sindacati. In tutti i paesi capitalistici il movimento sindacale si è sviluppato in un senso determinato, dando luogo alla nascita e al progressivo sviluppo di una determinata grande organizzazione, che si è incarnata con la storia, con la tradizione, con le abitudini, coi modi di pensare della grande maggioranza delle masse proletarie. Ogni tentativo fatto per organizzare a parte gli elementi sindacali rivoluzionari è fallito in sé ed ha servito solo a rafforzare le posizioni egemoniche dei riformisti nella grande organizzazione. Che costrutto han ricavato in Italia i sindacalisti dalla creazione dell'Unione sindacale? Essi non sono riusciti ad influenzare che parzialmente e solo episodicamente la massa degli operai industriali, cioè della classe piú rivoluzionaria della popolazione lavoratrice. Hanno, durante il periodo che va dall'uccisione di Umberto I alla guerra libica, conquistato la direzione di grandi masse agrarie della pianura padana e delle Puglie, ottenendo questo solo risultato: queste masse, appena allora entrate nel campo della lotta di classe (in quel periodo si verificò appunto una trasformazione della cultura agraria che aumentò di circa il 50 per cento la massa dei braccianti), si allontanarono ideologicamente dal proletariato d'officina e, sindacaliste anarchiche fino alla guerra libica, cioè nel periodo in cui il proletariato si radicalizzava, divennero riformiste successivamente, costituendo dopo l'armistizio e fino all'occupazione delle fabbriche la passiva massa di manovra che i dirigenti riformisti gettavano, in ogni occasione decisiva, fra i piedi dell'avanguardia rivoluzionaria.

L'esempio americano è ancora piú caratteristico e significativo dell'esempio italiano. Nessuna organizzazione è giunta al livello di abbiezione e di servilismo controrivoluzionario dell'organizzazione di Gompers. Ma voleva dire questo che gli operai americani fossero abbietti e servi della borghesia? No, certamente: eppure essi rimanevano attaccati all'organizzazione tradizionale. Gli IWW (sindacalisti rivoluzionari) fallirono nel loro tentativo di conquistare dall'esterno le masse controllate da Gompers, si staccarono da esse, si fecero massacrare dalle guardie bianche. Invece, il movimento guidato dal compagno Foster, nell'interno della Federazione americana del lavoro, con parole d'ordine che interpretavano la situazione reale del movimento e i sentimenti piú profondi degli operai americani, conquista un sindacato dopo l'altro e mostra chiaramente quanto debole e incerto sia il potere della burocrazia gompersiana.

Noi siamo dunque in linea di principio contro la creazione di nuovi sindacati. Gli elementi rivoluzionari rappresentano la classe nel suo complesso, sono il momento piú altamente sviluppato della sua coscienza a patto che rimangano con la massa, che ne dividano gli errori, le illusioni, i disinganni. Se un provvedimento dei dittatori riformisti costringesse i rivoluzionari ad uscire dalla Confederazione generale del lavoro e ad organizzarsi a parte (ciò che naturalmente non può escludersi), la nuova organizzazione dovrebbe presentarsi ed essere veramente diretta all'unico scopo di ottenere la reintegrazione, di ottenere nuovamente l'unità tra la classe e la sua avanguardia piú cosciente.

La Confederazione generale del lavoro nel suo complesso rappresenta ancora la classe operaia italiana. Ma quale è l'attuale sistema di rapporti tra la classe operaia e la confederazione? Rispondere esattamente a questa domanda vuol dire, secondo me, trovare la base concreta del nostro lavoro sindacale, e quindi stabilire la nostra funzione e i nostri rapporti con le grandi masse.

La Confederazione generale del lavoro è ridotta, come organizzazione sindacale, ai suoi minimi termini, a un decimo forse della sua potenzialità numerica del 1920. Ma la frazione riformista che dirige la confederazione ha mantenuto quasi intatti i suoi quadri organizzativi, ha mantenuto sul posto di lavoro i suoi militanti piú attivi, piú intelligenti, piú capaci e che, diciamo francamente la verità, sanno lavorare meglio, con maggior tenacia e perseveranza dei nostri compagni.

Una gran parte, la quasi totalità degli elementi rivoluzionari che nei passati anni avevano acquistato capacità organizzative e direttive e abitudini di lavoro sistematico sono invece stati massacrati o sono emigrati o si sono dispersi.

La classe operaia è come un grande esercito che sia stato privato di colpo di tutti i suoi ufficiali subalterni; in un tale esercito sarebbe impossibile mantenere la disciplina, la compagine, lo spirito di lotta, la unicità di indirizzo colla sola esistenza di uno stato maggiore. Ogni organizzazione è un complesso articolato che funziona solo se esiste un congruo rapporto numerico tra la massa e i dirigenti. Noi non abbiamo quadri, non abbiamo collegamenti, non abbiamo servizi per abbracciare con la nostra influenza la grande massa, per potenziarla, per farla ridiventare uno strumento efficace di lotta rivoluzionaria. I riformisti sono enormemente in migliori condizioni di noi su questo punto e sfruttano abilmente la loro situazione.

La fabbrica continua a sussistere ed essa organizza naturalmente gli operai, li raggruppa, li mette a contatto tra loro. Il processo di produzione ha mantenuto il suo livello degli anni 1919-20, caratterizzato da una funzione sempre piú ingombrante del capitalismo e quindi da una sempre piú decisiva importanza dell'operaio. L'aumento dei prezzi di costo, determinato dalla necessità di mantenere mobilizzati in permanenza 500.000 aguzzini fascisti, non è certo una prova brillante che il capitalismo abbia riacquistato la sua giovinezza industriale. L'operaio è dunque naturalmente forte nella fabbrica, è concentrato, è organizzato nella fabbrica. Esso è invece isolato, disperso, debole fuori della fabbrica.

Nel periodo prima della guerra imperialistica era il rapporto inverso che si verificava. L'operaio era isolato nella fabbrica ed era coalizzato fuori: dall'esterno premeva per ottenere una migliore legislazione d'officina, per diminuire l'orario di lavoro, per conquistare la libertà industriale.

La fabbrica operaia è oggi rappresentata dalla commissione interna. Viene subito spontaneamente la domanda: perché i capitalisti e i fascisti, che hanno voluto la distruzione dei sindacati, non distruggono anche le commissioni interne? Perché, mentre il sindacato ha perduto organizzativamente terreno sotto l'incalzare della reazione, la commissione interna ha invece allargato la sua sfera organizzativa? È un fatto che in quasi tutte le fabbriche italiane si è ottenuto ciò: che ci sia una sola commissione interna; che tutti gli operai, e non solo gli organizzati, votino nelle elezioni della commissione interna. Tutta la classe operaia è dunque oggi organizzata nelle commissioni interne che hanno cosí definitivamente perduto il loro carattere strettamente corporativo.

È questa, obbiettivamente, una grande conquista di amplissima significazione: essa serve ad indicare che nonostante tutto, nel dolore e sotto l'oppressione del tallone ferrato dei mercenari fascisti, la classe operaia, sia pure molecolarmente, si sviluppa verso l'unità, verso una maggiore omogeneità organizzativa.

Perché i capitalisti e i fascisti hanno permesso e continuano a permettere che una tale situazione si sia formata e permanga? Per il capitalismo e per il fascismo è necessario che la classe operaia sia privata della sua funzione storica di guida delle altre classi oppresse della popolazione (contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle Isole, piccoli borghesi urbani e rurali), è necessario cioè che sia distrutta l'organizzazione esterna alla fabbrica e concentrata territorialmente (sindacati e partiti) che esercita un influsso rivoluzionario su tutti gli oppressi e toglie al governo la base democratica del potere. Ma i capitalisti, per ragioni industriali, non possono volere che ogni forma di organizzazione sia distrutta: nella fabbrica è possibile la disciplina e il buon andamento della produzione solo se esiste almeno un minimo di costituzionalità, un minimo di consenso da parte dei lavoratori.

I fascisti piú intelligenti, come Mussolini, sono persuasi, essi per i primi, della non espansività della loro ideologia «superiore alle classi» oltre la stessa cerchia di quello strato piccolo-borghese che, non avendo nessuna funzione nella produzione, non ha coscienza degli antagonismi sociali. Mussolini è persuaso che la classe operaia non perderà mai la sua coscienza rivoluzionaria e ritiene necessario permettere un minimo di organizzazione. Tenere, col terrore, le organizzazioni sindacali entro limiti ristrettissimi, significa dare il potere della confederazione in mano ai riformisti: conviene che la confederazione esista come embrione e che si innesti in un sistema sparpagliato di commissioni interne, in modo che i riformisti controllino tutta la classe operaia, siano i rappresentanti di tutta la classe operaia.

È questa la situazione italiana, è questo il sistema di rapporti che oggi esiste da noi tra la classe proletaria e le organizzazioni. Le indicazioni sono chiare per la nostra tattica:

1) lavorare nella fabbrica per costruire gruppi rivoluzionari che controllino le commissioni interne e le spingano ad allargare sempre piú la loro sfera d'azione;

2) lavorare per creare collegamenti tra le fabbriche, per imprimere alla attuale situazione un movimento che segni la direzione naturale di sviluppo delle organizzazioni di fabbrica: dalla commissione interna al consiglio di fabbrica.

Solo cosí noi ci terremo nel terreno della realtà, a stretto contatto con le grandi masse. Solo cosí, nel lavoro operoso, nel crogiolo piú ardente della vita operaia, riusciremo a ricreare i nostri quadri organizzativi, a far scaturire dalla grande massa gli elementi capaci, coscienti, pieni di ardore rivoluzionario perché consapevoli del proprio valore e della insopprimibile loro importanza nel mondo della produzione.

Che fare?38

Cari amici della Voce,

Ho letto nel n. 10 (15 settembre) della Voce la interessante discussione tra il compagno G. P. di Torino e il compagno S. V. È chiusa la discussione? Si può domandare che ancora per molti numeri la discussione rimanga aperta e invitare tutti i giovani operai di buona volontà a parteciparvi, esprimendo, con sincerità e onestà intellettuale, la loro opinione in proposito?

Come va posto il problema.

Incomincio io, e affermo senz'altro che, mi pare almeno, il compagno S. V. non ha impostato bene il problema ed è caduto in qualche errore, gravissimo dal suo stesso punto di vista.

Perché è stata sconfitta la classe operaia italiana? Perché essa non aveva una unità? Perché il fascismo è riuscito a sconfiggere, oltre che fisicamente, anche ideologicamente, il partito socialista che era il partito tradizionale del popolo lavoratore italiano? Perché il partito comunista non si è rapidamente sviluppato negli anni 1921-22 e non è riuscito a raggruppare intorno a sé la maggioranza del proletariato e delle masse contadine?

Il compagno S. V. non si pone queste domande. Egli risponde a tutte le angosciose inquietudini che si manifestano nella lettera del compagno G. P. con l'affermazione che sarebbe bastata l'esistenza di un vero partito rivoluzionario e che la sua organizzazione futura basterà nel futuro, quando la classe operaia avrà ripreso la possibilità di movimento. Ma è vero tutto ciò, o, almeno, in che senso ed entro quali limiti è vero?

Il compagno S. V. suggerisce al compagno G. P. di non pensare piú entro determinati schemi, ma di pensare entro altri schemi che non precisa. Bisogna precisare. Ed ecco cosa appare necessario fare immediatamente, ecco quale deve essere l'«inizio» del lavoro per la classe operaia: bisogna fare una spietata autocritica della nostra debolezza, bisogna incominciare dal domandarsi perché abbiamo perduto, chi eravamo, cosa volevamo, dove volevamo arrivare. Ma bisogna prima fare anche un'altra cosa (si scopre sempre che l'inizio ha sempre un altro... inizio): bisogna fissare i criteri, i principi, le basi ideologiche della nostra stessa critica.

Ha la classe operaia la sua ideologia?

Perché i partiti proletari italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare dalle parole all'azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare la battaglia. Pensate: in piú di trenta anni di vita, il partito socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell'Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato. Perché nella Valle del Po il riformismo si era radicato cosí profondamente? Perché il partito popolare, cattolico, ha piú fortuna nell'Italia settentrionale e centrale che nell'Italia del sud, dove pure la popolazione è piú arretrata e dovrebbe quindi piú facilmente seguire un partito confessionale? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché in Sicilia e non altrove si è sviluppato il riformismo dei De Felice, Drago, Tasca di Cutò e consorti? Perché nell'Italia del sud c'è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c'è stata altrove? Noi non conosciamo l'Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l'Italia, cosí com'è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d'azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza hanno avuto i fatti di Milano del '98? Che insegnamento hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero generale di Milano del 1904? Quanti operai sanno che allora, per la prima volta, fu affermata esplicitamente la necessità della dittatura proletaria? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo? Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci sono anche repubblicani? Che importanza e che significato ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?

Basta porsi queste domande per accorgersi che noi siamo completamente ignoranti, che noi siamo disorientati. Sembra che in Italia non si sia mai pensato, mai studiato, mai ricercato. Sembra che la classe operaia italiana non abbia mai avuto una sua concezione della vita, della storia, dello sviluppo della società umana. Eppure la classe operaia ha una sua concezione: il materialismo storico; eppure la classe operaia ha avuto dei grandi maestri (Marx, Engels) che hanno mostrato come si esaminano i fatti, le situazioni, e come dall'esame si traggano gli indirizzi per l'azione.

Ecco la nostra debolezza, ecco la principale ragione della disfatta dei partiti rivoluzionari italiani: non avere avuto una ideologia, non averla diffusa tra le masse, non avere fortificato le coscienze dei militanti con delle certezze di carattere morale e psicologico. Come maravigliarsi che qualche operaio sia divenuto fascista? Come maravigliarsene se lo stesso S. V. dice in un punto: «chi sa mai, anche noi, persuasi, potremmo diventare fascisti»? (Queste affermazioni non si fanno neppure per scherzo, neppure per ipotesi... di propaganda.) Come maravigliarsene, se in un altro articolo, della stesso numero della Voce, si dice: «Noi non siamo anticlericali»? Non siamo anticlericali? Che significa ciò? Che non siamo anticlericali in senso massonico, dal punto di vista razionalistico dei borghesi? Bisogna dirlo, ma bisogna dire che noi, classe operaia, siamo anticlericali in quanto siamo materialisti, che noi abbiamo una concezione del mondo che supera tutte le religioni e tutte le filosofie finora nate sul terreno della società divisa in classi. Purtroppo... la concezione non l'abbiamo, ed ecco la ragione di tutti questi errori teorici, che hanno poi un riflesso nella pratica, e ci hanno condotto finora alla sconfitta e all'oppressione fascista.

L'inizio... dell'inizio!

Che fare dunque? Da che punto incominciare? Ecco: secondo me bisogna incominciare proprio da questo, dallo studio della dottrina che è propria della classe operaia, che è la filosofia della classe operaia, che è la sociologia della classe operaia, dallo studio del materialismo storico, dallo studio del marxismo. Ecco uno scopo immediato per i gruppi di amici della Voce: riunirsi, comprare dei libri, organizzare lezioni e conversazioni su questo argomento, formarsi dei criteri solidi di ricerca e di esame e criticare il passato, per essere piú forti nell'avvenire e vincere.

La Voce dovrebbe, in tutti i modi possibili, aiutare questo tentativo, pubblicando schemi di lezioni e di conversazioni, dando indicazioni bibliografiche razionali, rispondendo alle domande dei lettori, stimolando la loro buona volontà. Quanto meno finora si è fatto, tanto piú è necessario fare, e con la massima rapidità possibile. I fatti incalzano: la piccola borghesia italiana, che aveva riposto nel fascismo le sue speranze e la sua fede, vede quotidianamente crollare il suo castello di carta. L'ideologia fascista ha perduto la sua espansività, perde anzi terreno: spunta nuovamente il primo albore della nuova giornata proletaria.

Parlamentarismo e fascismo in Italia39

Il 10 dicembre è stato promulgato un decreto reale, che ha posto fine alla sessione parlamentare apertasi nel maggio 1921: non si sa ancora se la chiusura della sessione significa anche la chiusura della legislatura. Ciò dipenderà meno dalla situazione politica generale che dalla situazione interna del partito fascista.

Nel momento in cui scriviamo in tutti i fasci locali sono in corso, sotto il controllo dei prefetti e la sorveglianza diretta dei carabinieri, le elezioni dei nuovi dirigenti del partito. Se le elezioni, come è probabile, date le misure preventive del governo e del Comitato centrale provvisorio del partito fascista, avranno come risultato la vittoria del mussolinismo, le elezioni si terranno nella primavera prossima. Se il governo ha la certezza di poter costituire delle liste relativamente omogenee di candidati fascisti e di far eleggere una maggioranza dalla quale non avrà da temere, una volta tenute le elezioni, situazioni impreviste, gli sarà piú facile ridurre al minimo l'opposizione e ottenere un voto popolare clamoroso in favore dei nuovi padroni del paese. Il governo ha già cominciato a prendere provvedimenti affinché la volontà popolare possa esprimersi su basi allargate: ha, per cominciare, soppresso quel po' di stampa legale che restava al partito comunista.

La legislatura che sta per finire ha visto la liquidazione progressiva di tutti i partiti tradizionali della grande e della piccola borghesia. Essa si aprì sotto il governo Giolitti che, con il brillante concorso di D'Aragona, Turati e Modigliani, riuscì poco dopo a far restituire ai capitalisti le fabbriche occupate dagli operai metallurgici. All'inizio la Camera non contava che un gruppetto di una trentina di fascisti; in una delle sue ultime votazioni essa si è mostrata disposta a rinnovare i pieni poteri a Mussolini con una maggioranza schiacciante, nella quale entrarono anche i voti del gruppo parlamentare del partito popolare.

Mai in nessuno Stato borghese si è vista un'assemblea legislativa cadere tanto in basso. Nata per soffocare sotto una valanga di schede elettorali la guerra civile che nel maggio 1921 si era scatenata con estrema violenza in tutta l'Italia, questa Camera è servita solo a dimostrare l'incapacità assoluta della democrazia di fronte al fascismo, cui essa non ha neanche potuto impedire di dare le apparenze della legalità a un colpo di forza compiuto con l'aiuto di elementi di destra.

A dire il vero, si deve riconoscere retrospettivamente che i tre governi che hanno preceduto l'avvento del fascismo al potere avevano la buona intenzione di ostacolare lo sviluppo del movimento fascista e di ristabilire una certa legalità democratica. Giolitti si illuse di trattare il morbo fascista con la stessa cura omeopatica usata nel settembre 1920 con gli operai. Dopo aver facilmente separato D'Annunzio dal fascismo, credette di poter aver ragione di quest'ultimo minacciando Mussolini di rivelazioni sensazionali. Nonostante il suo decreto del luglio 1921, che elevò fino ai limiti dell'assurdo le tariffe doganali facendo ai capitalisti e agli agrari larghe concessioni, Giolitti fu costretto a battere in ritirata dalla volontà irriducibile della destra reazionaria.

Il gabinetto Bonomi che gli succedette sembrò ancora piú deciso: a Sarzana i carabinieri, a Modena le guardie regie spararono su qualche decina di fascisti che avevano tentato di sostituirsi alle autorità legali. Ma di fronte all'offensiva immediata della reazione che portò al suicidio del generale D'Amelio, comandante delle guardie regie, il governo Bonomi, vistosi privato di tutti i mezzi, non potendo neanche piú impiegare le forze armate per garantire l'incolumità personale dei deputati antifascisti, si ridusse a creare, di sottomano e con il concorso dei nittiani e dei riformisti del gruppo Modigliani, un'organizzazione armata di tipo fascista, quella degli «arditi del popolo».

Cosí cadde anche il gabinetto Bonomi dopo essere riuscito, con le sue mezze misure, a rendere piú decisa l'avanzata fascista. Il terzo gabinetto, quello di Facta, coronò l'opera dei due predecessori. Facta, un avvocatuccio di provincia, Giolitti, un politico insignificante, dovevano mascherare le grandi manovre strategiche della democrazia, difesa da un gruppo considerevole di industriali e banchieri dell'Italia del nord, per soffocare, se necessario con l'aiuto dell'esercito, il fascismo. Ma era evidentemente troppo tardi: le forze di cui disponeva la democrazia erano insufficienti. Verso la metà del 1922, il governo Facta tentò di ridurre gli effettivi dei carabinieri — che erano sotto il controllo diretto del ministro della guerra, l'agrario fascista principe Di Scalea — per farne passare la metà, circa 30.000, nella guardia regia, subordinata alla direzione generale di polizia, allora nelle mani dei giolittiani. Verso la metà d'ottobre il capo di stato maggiore, generale Badoglio, credeva ancora di poter affermare che il fascismo potesse essere liquidato in quindici giorni con i mezzi ordinari della polizia e dell'esercito.

I giornali annunciarono per il 4 novembre (1922) un grande discorso di Gabriele D'Annunzio a Roma, di cui si diceva che avrebbe provocato, parallelamente all'azione dei generali giolittiani, un «movimento di folla». Ma i fascisti erano in grado di parare dal punto di vista sia politico che militare il colpo preparato. Essi riuscirono a ingannare persino Giolitti, al quale lasciarono credere che la crisi imminente poteva essere scongiurata mediante una soluzione parlamentare; si parlò di costituire un nuovo governo in cui non dovevano entrare che tre o quattro fascisti. Riuscirono egualmente a intimorire il re, a separarlo da Facta e da Giolitti e, approfittando della confusione provocata da queste manovre politiche, il 29 ottobre fecero marciare le loro truppe sulla capitale.

La maggioranza parlamentare che era stata favorevole alla politica dei giolittiani contro il fascismo e persino, a rigore, alla formazione di un governo di sinistra, apertamente e decisamente antifascista, cadde subito in ginocchio davanti al manganello di Mussolini: gli accordò i pieni poteri che egli si era preso; incassò, senza batter ciglio, gli insulti dei trionfatori; non abbozzò neanche il minimo gesto di protesta contro i metodi d'intimidazione e di vendetta personali del nuovo governo. Questi eccessi raggiunsero l'acme con il saccheggio della casa di Nitti e con il tentativo di assassinio dello stesso uomo politico alla vigilia del rinnovamento dei pieni poteri a Mussolini.

Questa situazione nel Parlamento italiano ha ovviamente avuto ripercussioni di varia natura sulla piccola frazione rivoluzionaria della Camera. Le misure prese dal Comitato esecutivo del partito comunista contro il compagno Bombacci sono, a questo proposito, assai significative. Bombacci ritenne di dover tenere nei riguardi del governo fascista, in occasione della discussione sui rapporti commerciali tra l'Italia e la Russia, un linguaggio banalmente cortese e degno di un politicante di piccolo calibro. E tuttavia, la situazione imponeva chiaramente a ogni rappresentante del proletariato rivoluzionario, un determinato atteggiamento. Dopo un anno e mezzo di tergiversazioni, il governo italiano si era deciso a sottoporre alla Camera un progetto di accordo commerciale con la Russia che, pur costituendo un grande progresso sul progetto precedente, non comportava ancora il riconoscimento de jure della Repubblica dei soviet, benché il Consiglio dei commissariati del popolo si fosse rifiutato di ratificare il trattato precedente, precisamente perché non comportava il riconoscimento de jure. Il governo fascista, entrando in questa nuova fase dei negoziati, cedeva di fronte alla pressione esercitata dai capitalisti italiani, i quali, dinanzi al naufragio imminente del capitalismo tedesco, vedevano l'equilibrio economico europeo minacciato e vedevano affacciarsi nuovi pericoli economici e politici dalla parte della Francia. La politica francese tendeva, infatti, a imporre all'Italia una sorta di vassallaggio. I negoziati tra l'Italia e la Russia sono, in questo momento, ispirati assai piú dal desiderio di esercitare una pressione sulla Francia e sull'Inghilterra che dalla reale volontà di stabilire rapporti commerciali con la Repubblica dei soviet.

Il terreno era dunque estremamente favorevole per una offensiva comunista che doveva stabilire in modo inequivocabile:

1) il fallimento della politica estera del governo fascista che, strettamente legato alla Francia, aveva contribuito a provocare la catastrofe economica della Germania e, di conseguenza, l'asservimento dell'Italia alla Francia;

2) la politica perseguita dalla Confederazione generale dell'industria italiana contro il governo fascista e il modo con cui questo era stato costretto ad accettare il punto di vista degli industriali;

3) la funzione antimperialista della Repubblica dei soviet e la necessità, per le nazioni economicamente deboli che vogliano salvaguardare la loro indipendenza, di trovare un terreno di collaborazione economica e politica con l'Unione dei soviet.

I capitalisti, attraverso l'organo dell'onorevole Olivetti, segretario generale della Confederazione industriale, sostenevano che i nuovi negoziati con la Russia non avevano raggiunto i risultati attuali solo perché in Russia il capitalismo è stato «completamente ristabilito», perché gli stessi bolscevichi provano che la civiltà moderna significava e non può significare altro che regime capitalistico.

Il compagno Bombacci, invece di portare nella discussione la voce fiera e dignitosa del proletariato internazionale, vittorioso in Russia dove tiene saldamente il potere nelle sue mani, lasciando vivacchiare per propria convenienza alcune forme di economia privata che non rappresentano che un'infima parte dell'economia nazionale, si abbassò fino all'adulazione della rivoluzione fascista e della mania di grandezza di Mussolini con luoghi comuni di una banalità sconsolante. Già, è opportuno ricordarlo, fin dagli inizi della partecipazione alla vita parlamentare della frazione fascista, gli operai avevano visto con dolore e stupore che Bombacci non sapeva tenere con questi individui, le cui mani erano macchiate di sangue proletario, che rapporti improntati a una deplorevole cordialità.

La cortesia amichevole di Bombacci nei riguardi dei suoi «colleghi» fascisti è stata largamente sfruttata dai giornali opportunisti nelle loro polemiche contro il nostro partito. In una recente riunione fascista, il segretario generale del fascio, Giunta, parlando della «curiosa abitudine» di Bombacci, è giunto fino al punto di proporre, in tono semi scherzoso, di accordare a Bombacci la tessera di adesione al partito di Mussolini.

Il Partito comunista italiano doveva porre un termine a questo spettacolo indecoroso provocato dalla debolezza e dalla incapacità di un compagno inviato alla Camera dall'eroico proletariato di Trieste perché vi facesse del parlamentarismo rivoluzionario...

Il fallimento del sindacalismo fascista40

La conferenza dei capi dell'industria italiana e dei principali dirigenti del sindacalismo fascista, tenuta il 19 dicembre scorso a Roma, sotto gli auspici e alla presenza del presidente del consiglio Mussolini, ha dato formale riconoscimento al fallimento del programma e dei metodi del fascismo in campo sindacale.

Tutti ricordano i tentativi disperati del fascismo, prima e dopo l'avvento al potere, di creare un movimento sindacale al proprio servizio. Tutti ricordano egualmente come questi tentativi, pur avendo dato risultati relativamente positivi fra i lavoratori delle campagne, fallirono completamente fra gli operai. È stato facile per i fascisti, date le condizioni di vita e di lavoro dei contadini poveri e dei braccianti, dispersi nei villaggi e uniti soltanto da deboli vincoli sindacali, distruggere le organizzazioni socialiste dei lavoratori agricoli e costringere con il terrore e il boicottaggio economico le masse lavoratrici della campagna ad entrare nelle corporazioni fasciste.

Le cose hanno preso una piega del tutto diversa con gli operai industriali, eccezion fatta tuttavia dei ferrovieri, esposti alle misure coercitive dello Stato, sulla testa dei quali è sempre sospesa la minaccia del licenziamento, e dei lavoratori portuali che avevano già una organizzazione di carattere fondamentalmente corporativo, che dipendeva, nella sua azione, dalla situazione del traffico marittimo, dal movimento dei porti italiani che offrono gradi ineguali di prosperità, in rapporto diretto con il bilancio delle esportazioni e delle importazioni e i considerevoli acquisti periodici di grano, carbone e caffè.

Nelle grandi città industriali i fascisti sono soltanto riusciti a raccogliere gruppi sparsi, sempre costituiti da disoccupati e da elementi criminali, ai quali la tessera di adesione al fascio assicura l'impunità per gli atti di sabotaggio, i furti e gli atti di violenza contro i capi officina. Era dunque necessaria per la politica fascista la conquista delle masse proletarie.

Il governo fascista può mantenersi al potere soltanto rendendo la vita impossibile a tutte le organizzazioni non fasciste. Mussolini ha fondato il suo potere sugli strati profondi di quella piccola borghesia che, non avendo nessuna funzione nella produzione e ignorando, di conseguenza, gli antagonismi e le contraddizioni che scaturiscono dal regime capitalistico, credevano fermamente che la lotta di classe fosse un'invenzione diabolica dei socialisti e dei comunisti. Tutta la concezione «gerarchica» del fascismo discende da questo spirito piccolo-borghese. Di qui il concetto di una società moderna costituita da una serie di piccole corporazioni organizzate sotto il controllo dell'élite fascista, nella quale si trovano concentrati tutti i pregiudizi e tutte le velleità utopistiche dell'ideologia piccolo-borghese. Di qui la necessità di creare un sindacalismo «integrale», che è una sintesi riveduta del sindacalismo cristiano democratico, in cui l'idea della nazione, elevata a divinità, si sostituisce all'idea religiosa.

Questo bel programma fu ripudiato dagli industriali, che si sono rifiutati di dare la loro adesione alle corporazioni nazionali fasciste, in breve a sottomettersi al controllo dei Rossoni e C. I fascisti, in risposta al rifiuto degli industriali, si sono abbandonati, qualche mese fa, a una propaganda demagogica in grande stile, che si è spinta fino ad incitare gli operai metallurgici e tessili a preparare uno sciopero generale. Questa campagna contro gli industriali ha raggiunto il suo punto culminante dopo la visita di Mussolini alla Fiat di Torino, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma. I 6-7.000 operai della Fiat, riuniti in un cortile della fabbrica per ascoltare Mussolini, fecero al capo del fascismo un'accoglienza nettamente ostile. I fascisti accusarono allora gli industriali torinesi di coltivare l'antifascismo nelle masse, di preferire i negoziati con i sindacati riformisti, di licenziare gli operai fascisti, di impedire alle corporazioni nazionali di svilupparsi, ecc. Giunsero perfino ad aggredire il capo della Fiat, il senatore Giovanni Agnelli, in un caffè di Torino.

La situazione è divenuta molto seria sia per gli industriali che per il governo. Il Comitato sindacale del partito comunista è intervenuto nella lotta per invitare le masse operaie a partecipare alla lotta contro gli industriali, anche se essa era stata scatenata per iniziativa dei fascisti, e ad allargare il movimento. Ma l'azione fu bruscamente interrotta per ordine dei dirigenti fascisti, e a questo è seguita la conferenza del 19 dicembre. Nel discorso pronunciato a questa conferenza Mussolini ha riconosciuto l'impossibilità di raccogliere in un solo sindacato operai e padroni. Il «sindacalismo integrale», secondo Mussolini, può soltanto applicarsi nel campo dell'agricoltura. I fascisti devono rispettare l'indipendenza delle organizzazioni industriali sforzandosi di impedire i conflitti di classe. Il senso di questo discorso è chiaro. I fascisti rinunciano non solo ad una parvenza di lotta contro gli industriali, ma anche al tentativo di conciliare, sotto il loro arbitrato e controllo, gli interessi di classe; si propongono soltanto come compito di organizzare gli operai... per consegnarli piedi e mani legati ai capitalisti.

È il principio della fine del sindacalismo fascista. Subito dopo la conferenza numerosi proprietari fondiari hanno elevato fiere proteste contro il diverso trattamento che il fascismo fa all'industria e all'agricoltura. Hanno denunciato le violenze commesse dalle organizzazioni sindacali fasciste a danno dei proprietari per costringerli a rispettare i contratti di lavoro, dichiarati, ovviamente, da questi ultimi come assurdi e contrari agli interessi della nazione; hanno imposto la ricostruzione della Confederazione dell'agricoltura, assorbita dalla corporazione fascista.

A Parma i conflitti tra fascisti e agrari hanno già provocato tutta una serie di incidenti. A Reggio Emilia il deputato Corgini, ex sottosegretario agli interni del governo Mussolini, è stato espulso dai fascisti. È evidente quindi il successo della tattica adottata dal nostro partito per smascherare davanti alle masse i dirigenti fascisti che non sono avari di gesti grandiloquenti contro gli industriali. I fascisti hanno ancora certo la soddisfazione di vedere migliaia di operai assistere alle loro riunioni, ma si è riusciti a metterli col piede al muro, a obbligarli a rimangiarsi le loro rivendicazioni, a screditarli anche agli occhi degli elementi piú arretrati delle masse lavoratrici. Se questa tattica si generalizza e si estende alle campagne, sarà affrettata sia la disgregazione del fascismo sia la riorganizzazione delle forze rivoluzionarie.

Questa tattica, è vero, è avversata dai riformisti e dai massimalisti istallatisi alla direzione delle Centrali dei sindacati legali, padroni d'altronde anche degli unici giornali proletari che si pubblicano ancora in Italia. Socialisti e massimalisti dimostrano cosí ancora una volta di non voler realmente combattere il fascismo. Certo essi correrebbero un grosso rischio se pretendessero di affrontare il fascismo per contestargli, nel seno delle sue stesse organizzazioni, il controllo e la direzione delle masse. Ma è una ragione per rinunciarvi? D'altra parte è certo che larghe masse non solo di operai agricoli ma anche di operai di fabbrica, non avendo nessun altro mezzo per lottare contro la borghesia, si lascerebbero trascinare dalla demagogia fascista sperando cosí di aver ragione dei padroni. L'intransigenza dei riformisti e dei massimalisti non si volge in realtà contro il fascismo, ma contro la parte piú povera e arretrata del proletariato. Per colmo questa intransigenza manca di logica e ammette fin troppe concessioni pratiche ai detentori fascisti del potere.

Italia e Jugoslavia41

Il trattato d'amicizia concluso tra l'Italia e la Jugoslavia, che liquida la questione di Fiume e apre una nuova era nei rapporti tra i due paesi, è stato determinato principalmente da tre cause:

1) L'avvicinarsi della campagna elettorale in Italia. Il governo fascista intende sottrarre una delle sue carte principali all'opposizione, la quale nei circoli borghesi non manca di sottolineare il fiasco completo della politica estera fascista, il cui unico risultato è l'isolamento dell'Italia.

2) La formazione del governo Venizelos in Grecia. Il governo Mussolini si è convinto di non poter prendere due piccioni con una fava. Venizelos è l'uomo politico che, dopo il trattato di Versailles, si è maggiormente opposto ai piani espansionistici dell'imperialismo italiano. Nel suo conflitto con la Jugoslavia l'Italia aveva contro di sé i trattati. Nel suo conflitto con la Grecia l'Italia ha i trattati dalla sua parte. L'intesa stabilitasi tra i governi di Roma e di Belgrado attesta la loro intenzione di voler rispettare lo statu quo vigente. A tutte queste cause si aggiunge la politica della Francia nei confronti della Piccola Intesa. Se, come lasciavano credere le apparenze alcune settimane fa, il conflitto per Fiume si fosse aggravato, la Francia affiancandosi alla Piccola Intesa avrebbe costituito un pericolo per l'Italia.

3) Il nuovo piano di politica estera che fino al 1922 era personale di Mussolini, diventa quello del governo italiano. A questo piano si collegano le trattative ispano-italiane, la politica di avvicinamento ai soviet, il conflitto tra l'Italia (lepidamente sostenuta dalla Spagna) e l'Inghilterra e la Francia a proposito di Tangeri. Il preludio di questa nuova politica è stata l'occupazione di Corfú, una reazione alquanto esagerata all'uccisione del generale Tellini.

La convinzione personale di Mussolini è sempre stata che l'Italia, anziché ipnotizzarsi su Fiume e la Dalmazia, compromettendo la sua sicurezza nell'Adriatico, deve acquistare questa sicurezza attraverso concessioni alla Jugoslavia, le quali le lascerebbero inoltre le mani libere nell'Oriente mediterraneo. (A questo riguardo si è avvicinato piú alla politica del Corriere della sera, della Stampa e della tendenza Nitti che a quella della grande maggioranza dei fascisti e soprattutto dei nazionalisti, ultimi venuti al fascismo.)

La questione dalmata era di fatto liquidata fin dal giorno in cui il trionfo dei partiti reazionari in Jugoslavia e la repressione del movimento contadino nei latifondi dei grandi proprietari italiani della regione, avevano dato a questi ultimi la certezza che i loro diritti non sarebbero stati sacrificati ai contadini croati.

La situazione in Dalmazia è abbastanza analoga a quella della Galizia e dei paesi baltici. I proprietari fondiari e la massa dei contadini appartengono a nazionalità diverse. Il primo discorso della Corona pronunciato a Belgrado dopo il ritorno della dinastia annunciò l'espropriazione dei latifondisti dalmati, la liberazione dei contadini dal giogo feudale e la spartizione delle terre. Tutto è oggi cambiato. L'anno scorso le truppe italiane d'occupazione si sono ritirate da certe zone del paese senza che nulla di spiacevole accadesse ai proprietari. La campagna di stampa cominciata contro di loro dagli agrari è cessata; il trattato italo-iugoslavo concluso recentemente ha cambiato la situazione.

Il trattato italo-jugoslavo è diretto contro gli interessi britannici o contro gli interessi francesi? A questa questione posta oggi da una parte della stampa risponderanno i fatti. Un esame obiettivo della situazione e la conoscenza delle opinioni sostenute da Mussolini nel corso della sua carriera di giornalista fascista ci autorizzano a credere che la politica italiana diventerà sempre piú anglofoba, pur mantenendo la parvenza di un equilibrio tra la Francia e la Gran Bretagna. Bisogna anche tener conto del fatto che il partito fascista, massa piccolo-borghese nazionalista, influenza la politica governativa. I fascisti vorrebbero instaurare una politica di completa indipendenza di fronte alle grandi potenze che pretendono dominare il mondo. La debolezza politica dell'Italia costringe nondimeno a dei compromessi tra le dichiarazioni di cui è prodiga la propaganda interna e l'azione pratica. Perciò la politica estera fascista continuerà a fondarsi sul bluff e a essere incline alle avventure.

Il problema di Milano42

Bisogna porre con grande precisione e con grande franchezza agli operai di Milano il problema... di Milano. Perché a Milano, grande città industriale, con un proletariato che è il piú numeroso fra i centri industriali italiani, che da solo rappresenta piú di un decimo degli operai di fabbrica di tutta Italia, perché a Milano non è sorta una grande organizzazione rivoluzionaria, mentre il movimento è sempre stato rivoluzionario? Perché a Milano non ci sono stati mai piú di 3.000 organizzati nel partito socialista? Perché a Milano, anche quando il movimento era al suo massimo di altezza, comandavano effettivamente i riformisti? Perché a Milano tutte le associazioni operaie, sindacali, cooperative, mutue, sono sempre state nelle mani dei riformisti o semi-riformisti, anche quando le masse erano spinte nelle strade dal piú entusiastico slancio rivoluzionario?

Bisogna porre nettamente e francamente il problema delle masse, e chiamarle a risolverlo coi loro propri mezzi, con la loro volontà, coi loro sacrifici. Il problema è vitale, è il piú importante problema della rivoluzione italiana. È possibile pensare a una rivoluzione italiana se la schiacciante maggioranza del proletariato milanese non è prima stata nettamente conquistata a una concezione precisa e tagliente di ciò che sarà la dittatura proletaria, dei sacrifici e degli sforzi inauditi che essa domanderà alle masse lavoratrici? A Milano sono i maggiori centri vitali del capitalismo italiano: il capitalismo italiano può essere solo decapitato a Milano.

Per la rivoluzione italiana esiste già un problema pieno di incognite, quello di Roma, della capitale politica e amministrativa, dove non esiste un proletariato industriale numeroso che possa avere il sopravvento sulla numerosa borghesia: i fascisti hanno mostrato una delle soluzioni che il problema di Roma può avere. Ma essa sarebbe utopistica per la rivoluzione proletaria senza una netta vittoria a Milano, se a Milano non si crea una situazione tale per cui decine e decine di migliaia di operai devoti, entusiasti e che abbiano delle idee molto chiare e dei fini molto precisi possano essere armati e solidamente inquadrati. Il problema di Milano non è quindi una questione locale: esso è un problema nazionale e in un certo senso anche internazionale. Gli operai di Milano devono persuadersi di ciò e dalla comprensione dei doveri formidabili che incombono su di loro devono trarre tutta l'energia e tutto l'entusiasmo che sono necessari per condurre a termine il compito necessario.

Non sarebbe difficile rintracciare le cause remote e vicine per cui a Milano si è creata l'attuale situazione, nella quale, è inutile nasconderlo, sono i riformisti ad avere l'effettivo controllo delle masse. Poche grandi fabbriche, numero infinito di piccole e piccolissime officine, grande quantità di piccoli borghesi addetti al commercio, grande numero di impiegati, tradizione democratica fortissima nei vecchi operai, ecc., ecc.. Ma a noi basta ricordare lo slancio rivoluzionario dimostrato sempre dalle masse operaie milanesi per giungere a queste conclusioni:

1) la situazione attuale si è creata per gli errori del partito socialista negli anni dopo la guerra;

2) è possibile, con un lavoro assiduo, paziente, di ogni giorno, di ogni ora, con la piú devota abnegazione dei migliori operai, mutare la situazione.

Il partito socialista non si è preoccupato dell'importanza enorme che Milano avrebbe avuto nella rivoluzione e non ha mai cercato di creare una grande organizzazione politica. Negli anni 1919-20, per essere all'altezza dei suoi compiti di centro organizzativo dell'economia nazionale, Milano avrebbe dovuto avere una sezione socialista di almeno 30-40.000 soci: cosa possibilissima in una città che conta circa 300.000 lavoratori, quando la grande maggioranza segue il partito che dice di volere la rivoluzione. Invece a Milano sembrava che gli operai venissero appositamente tenuti lontani dall'organizzazione di partito. I circoli rionali non avevano che una molto scarsa importanza e d'altronde accoglievano solo gli inscritti al partito. Nella sezione gli elementi operai non avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La tribuna era sempre occupata dai grandi assi della demagogia riformista e massimalista, che parlavano ore e ore sui grandi problemi della politica internazionale o... comunale; non una discussione seria sui problemi piú intimamente operai, come i consigli di fabbrica, le cellule d'officina, il controllo operaio, nella trattazione dei quali anche il piú semplice operaio avrebbe avuto una competenza e dei punti di vista da prospettare. Chi lavorava erano i riformisti: lo scheletro intiero dell'organizzazione operaia milanese era costituito dai riformisti. Sapientemente scaglionati in tutti i punti strategici piú importanti, sapendo lavorare silenziosamente e metodicamente, sapendo piegarsi e scomparire quando il turbine rivoluzionario diventava piú violento, i riformisti saldarono fortissime catene entro le quali oggi la classe operaia milanese circola senza neppure accorgersene. Era tipico di Milano e estremamente significativo dell'assenza di una organizzazione rivoluzionaria, il fatto che quando il movimento di piazza raggiungeva il suo massimo, quando da tutti gli angoli della città brulicava la massa fin nei suoi elementi piú miseri e piú apatici, gli anarchici prendevano il sopravvento nella direzione; quando il movimento era medio e le grosse parole bastavano, allora i massimalisti erano i leoni; quando invece c'era stagnazione e solo le forze piú attive organizzate erano viventi, allora la direzione era dei riformisti. Il regime fascista ha ridotto ai minimi termini il movimento di classe: i riformisti trionfano su tutta la linea.

Cosa significa tutto ciò? Che noi, gli operai rivoluzionari lavoriamo molto male. Solo per la nostra incapacità, solo per il nostro torpore, i riformisti sono forti e pare rappresentino le masse. Bisogna quindi imparare a lavorare, bisogna prospettarsi il problema in ogni fabbrica, in ogni casa, in ogni rione, del come lavorare per acquistarsi la simpatia delle grandi masse, della parte piú povera della classe operaia che è anche la piú numerosa e che darà le piú folte e fedeli schiere di soldati alla rivoluzione.

E bisogna discutere e far discutere. Le nostre colonne hanno anche e specialmente questo scopo.

Il partito popolare43

Il travaglio al quale la preparazione politica elettorale sottopone il partito popolare è degno di essere seguito con un po' di serietà e esaminato con attenzione superiore a quella che gli prestano non soltanto gli organi del fascismo, ma anche quelli delle altre correnti politiche italiane. Si è presa l'abitudine di considerare le frazioni in cui il partito popolare si divide in un modo molto meccanico, all'infuori di ogni esame delle forze reali a cui queste correnti fanno capo. E invece quello del partito popolare è proprio il caso in cui le espressioni «destra, sinistra e centro» non significano nulla per sé, ma acquistano un significato solo in relazione con la struttura dei gruppi sociali che nell'organismo unitario del partito si sono per un certo tempo confusi. Il problema che noi riteniamo si debba porre non è quello della prevalenza della destra o della sinistra, ma quello di vedere se la preparazione politica delle elezioni potrà offrire l'occasione a questi diversi gruppi sociali di trovare ognuno la propria definizione e la propria strada.

Il fascismo considera un suo grande successo l'aver ottenuto il distacco dal tronco unitario del partito di un gruppo di «estrema destra». Si può discutere però se esso abbia ragione. Il «gruppo di estrema destra» è il gruppo dei vecchi cattolici reazionari: aristocrazia nera, proprietari di terre, già legati non tanto al rispetto della Costituzione dello Stato italiano quanto alla conservazione dell'ordine sociale esistente. Che si tratti di gruppi costituzionali, nel senso stretto della parola, lo dimostra il fatto che essi furono l'anima dell'opposizione clericale allo Stato italiano nei primi decenni della sua vita e che allo Stato italiano si ricollegarono solo quando parve e fu necessario sostenerlo per evitare la riscossa degli operai e dei contadini contro di esso. Ma Giolitti, il tipico uomo di Stato conservatore italiano, aveva risolto il problema di legare a sé questi gruppi in modo ben piú brillante di quello che ha fatto oggi il fascismo. La sua soluzione permetteva ai cattolici reazionari di mantenere le aderenze di massa che ad essi offriva l'apparato democratico della Chiesa, di sfruttare questo apparato nel periodo elettorale per la lotta contro i partiti di classe e di trasformare le forze cosí raccolte in sostegno permanente dello Stato. Il «patto Gentiloni» fu la schematizzazione evidente di questo sistema.

Fino a che la estrema destra reazionaria rimaneva nel seno del partito popolare era sempre aperta la via a una soluzione di questo genere. La sua uscita e la sua costituzione in gruppo politico autonomo può darsi sia stato un successo parlamentare contro l'autoritarismo di don Sturzo, ma ha posto il problema del partito popolare e soprattutto delle masse che vi aderiscono in modo ben diverso di prima.

Nel partito popolare vi è sempre una «destra», e noi comprendiamo in questa destra anche il cosiddetto «centro». È una destra di professionisti, di borghesi medi e piccoli, la quale ha nel dopoguerra esercitato verso le masse popolari una funzione analoga a quella che i reazionari cattolici esercitavano verso le masse aderenti ad essi attraverso l'organizzazione della Chiesa. Essa ha fatto accettare a queste masse un programma «riformista» nei confronti dello Stato italiano, cioè ha fatto credere che il soddisfacimento dei loro bisogni di liberazione economica e politica si potesse ottenere senza spezzare la macchina dello Stato, senza sostituire a uno Stato borghese, sedicente liberale, uno Stato degli operai e dei contadini, senza porre agli operai e ai contadini il problema della conquista del potere, politico. Questo gruppo è certamente responsabile della sconfitta di cui i contadini [popolari] subiscono oggi le conseguenze tanto quanto i contadini socialisti; e il suo disagio politico diventa di giorno in giorno piú grande, perché di giorno in giorno i contadini stessi si stanno convincendo che oggi un programma «riformista» non ha piú nessun significato. Il fascismo tende a dare alla dittatura di classe della borghesia una stabilità e una permanenza che derivano dalla trasformazione aperta dello Stato sedicente liberale di un tempo in organo e forma di questa dittatura. Chiunque ha un interesse economico di classe da difendere trova davanti a sé sbarrata la via inesorabilmente. Ogni contadino popolare per ciò deve oggi concludere quello che noi concludiamo: che nessuna conquista è possibile, se non come conseguenza di una lotta che si proponga di togliere di mezzo l'ostacolo unico della dittatura del fascismo. Il gruppo borghese che ha inquadrato e politicamente diretto la massa popolare nel dopoguerra viene in questo modo ad aver esaurita la propria funzione. Il contrasto tra la sua mentalità e il suo programma e la mentalità e il programma delle masse che ancora seguono il partito è destinato a diventare sempre piú profondo, via via che il fascismo procede nel suo cammino, e l'approfondimento non potrà non avvenire nella direzione da noi indicata.

La vera crisi del partito popolare sta qui. A capo di essa vi è un gruppo il quale non è piú in grado di comprendere e risolvere il problema delle masse che lo seguono. Vi è anche la sinistra, ma forse valgono per essa le stesse cose che abbiamo dette della destra. L'unica manifestazione politica della sinistra è stata la proposta di astenersi dalle elezioni, cioè una proposta che è l'indizio di mentalità esclusivamente parlamentaristica, contraria a quella che dovrebbe essere propria di un partito di masse.

Il partito popolare continua invece a essere un partito di massa e non può prescindere dalla vita che queste masse conducono e dalla mentalità che in esse si crea. È inevitabile che il suo atteggiamento di opposizione al fascismo appaia alla massa in un momento ben diverso di quello che pensano i capi, appaia come l'indizio di intenzione di lotta che nei capi non esiste; ed è inevitabile che il dissidio debba finire per portare a crisi ben piú profonde delle attuali. Una soluzione chiarificatrice si avrà solo quando nel seno stesso del partito vi sarà un gruppo che avrà il coraggio di riconoscere che il programma «riformista» degli anni passati non ha piú nessun valore oggi, e che se è vero che le masse hanno oggi bisogno di legalità e di libertà per riprendere e sviluppare le loro conquiste economiche, è pur vero che libertà e legalità oggi si acquistano solo abbattendo la dittatura del fascismo. Anche per i popolari, o almeno per quelli che operano nell'interesse delle masse che li sostengono, il programma «riformista» deve risolversi in un programma di lotta, e di lotta non per conquiste e rivendicazioni personali.

Gioda o del romanticismo44

Ho letto il piú recente brano di prosa di Mario Gioda, la lettera aperta che Mario Gioda, unico animatore e duce del fascismo torinese, dopo la dipartita di Cesare Maria De Vecchi, ha inviato al comm. Fragola, direttore del grande quotidiano Piemonte. Ho letto e ho gustato. Ho letto, assaporandole voluttuosamente, parole e frasi che non leggevo piú da anni e anni (quanto tempo è passato!): «Un botoletto ringhioso e sdentato», «La palta anonimamente lanciata ricade sul gru-gno...» del botoletto, «Fognose rodomontate pennaiole»... 

Mario Gioda, Gioda Mario, Paolo Valera, l'amico di Vautrin, Ulisse Barbieri, sangue, sangue, sangue, quarti di disfattista appesi ai ganci delle pubbliche macellerie, uno sputo di Francesco Barberis sulla piattaforma del tramvai, il quarto moschettiere, l'uomo che si risveglia da un sonnellino con un baffo piegato alla Guglielmo, Mario Gioda, Gioda Mario...

Mario Gioda è un microcosmo. La vita degli uomini e delle cose, la storia dei popoli e della natura hanno avuto un solo fine: creare Mario Gioda. L'intelligenza di quest'uomo è un filtro portentoso che trattiene tutta la polvere d'oro della corrente universale della vita e della storia. Ma ogni uomo, e per forza maggiore ogni creatura eletta, ha il suo grano di follia, ha la sua debolezza; Mario Gioda mette mano alla spada del moschettiere, mette mano allo spiedo del cacciatore di Ossian, mette mano alla livida lama del vagabondo che esce sempre fuori dalle fogne dei bassifondi sociali, e squarta, buca pancini, appende ai ganci della sua fantastica macelleria le membra sanguinolenti dei nemici, se i nemici gli ricordano che egli è stato impiegato in una azienda la cui modernità rifugge da ogni romanticismo di merciaioli ambulanti.

Si dice — ogni intenditore profondo, ogni attento scrutatore del fascismo ripete — che il fascismo sia un movimento romantico, che il fascismo sia addirittura il romanticismo italiano. Pur essendo persuaso che il fascismo sia un movimento sociale, cioè politico-economico, che in Italia si è verificato e ha potuto trionfare per una congiuntura storica eccezionale, non mi sento di rigettare questa profonda visione sintetica del fascismo. L'ambiente in cui i singoli fascisti si sono formati, l'ideologia di cui si sono abbondantemente nutricati, possono essere chiamati romanticismo; ma parlo dei fascisti come Mario Gioda, non come Cesare Maria De Vecchi, come Massimo Rocca, come Cesare Forni, dei fascisti del vecchio mussolinismo, dei fascisti che erano anarchici, sindacalisti, socialisti rivoluzionari fino all'agosto 1914, che sono diventati interventisti per la guerra rivoluzionaria, che sono diventati fascisti della prima ora, ecc., ecc., non dei fascisti d'origine agraria, che poi hanno conquistato il fascismo e non lo vogliono mollare a nessun costo. Massimo Rocca era impiegato di casa Sonzogno, ha tradotto, ha collaborato alla diffusione di migliaia e decine di migliaia di romanzi di Ponson du Terrail, di Ettore Malot, di Enrico Richebourg, di Eugenio Sue. Mario Gioda era l'«Amico di Vautrin» della Folla di Paolo Valera, era il discepolo piú geniale e promettente di Paolo Valera, deve avere ancora nel cassetto un grosso romanzo sui bassifondi di Torino, un romanzo come I misteri di Parigi di E. Sue, un romanzo in cui, col metodo estentivo di Carolina Invernizio, una pacifica città provinciale di onesti lavoratori, di pacifici piccolo-borghesi pensionati dello Stato, diventa una sentina di vizi, un acquario di serpente di mare, una corte dei miracoli di tutti i mostri sociali. Ecco il romanticismo, ecco l'ambiente romantico in cui si è formata l'anima fascista. Perché il romanzo d'appendice, tipo casa Sonzogno, era cosí popolare in Italia prima della guerra? Perché Il secolo è stato il giornale piú diffuso? Perché Carolina Invernizio è stata la romanziera (e il romanziere) piú letta? Perché ha ancora tanta fortuna il teatro di Dario Niccodemi? Perché il sovversivismo italiano era prima della guerra prevalentemente «criminalista» e pareva fine della rivoluzione quello di riformare le prigioni e i manicomi? Perché il piú grande sforzo teorico e oratorio di Filippo Turati è stato rivolto ad ottenere il voto alle prostitute, con estrema eleganza chiamate «salariate dell'amore»? Il romanzo d'appendice, l'ideologia per cui è nato ed ha avuto enorme fortuna il romanzo d'appendice, è il romanticismo. Victor Hugo è stato un grande romantico e il piú grande scrittore di romanzi d'appendice: Scampolo è la sorella di Gavroche; Mario Gioda, Massimo Rocca sono diventati anarchici leggendo le lotte di Jean Valjean contro Javert, commovendosi all'idillio di Mario, all'eroismo materno di Fantina, alla capitolazione della nobiltà dinanzi al diritto del popolo, generoso pur nella sua abiezione e nei suoi delitti. Mario Gioda e Massimo Rocca hanno rassodato la loro concezione nei romanzi di Eugenio Sue, sono diventati anticlericali leggendo L'ebreo errante, hanno assorbito le teorie sulla delinquenza di Eugenio Sue, il piú completo rappresentante e grandiosamente imbecille di tutto questo movimento romantico, sissignori, romantico e profondamente romantico ed estensivamente romantico e socialmente romantico. Il romanticismo francese del '48 ha anch'esso lanciato una parte della piccola borghesia sulle barricate, accanto alla classe operaia; ma la classe operaia era ancora debole, non riusì a prendere il potere; il potere fu preso da Luigi Bonaparte, la piccola borghesia romantica divenne cesarea. È questo il lato romantico del movimento fascista, dei fascisti come Mario Gioda, Massimo Rocca, Curzio Suckert, Roberto Farinacci, ecc., ecc.: una fantasia squilibrata, un brivido di eroici furori, un'irrequietezza psicologica che non hanno altro contenuto ideale che i sentimenti diffusi nei romanzi d'appendice del romanticismo francese del 48: anarchici pensavano la rivoluzione come un capitolo dei Miserabili coi suoi Grantavin, l'Aigle de Meaux e C., con contorno di Gavroche e di Jean Valjean; fascisti, vogliono fare i «principi Rodolfo» del buon popolo italiano. La congiuntura storica ha permesso che questo romanticismo diventasse «classe dirigente», che tutta l'Italia diventasse un romanzo d'appendice...

«Capo»45

Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo». Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivolu-zionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi, che si dica, cioè, di volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta preparazione teorica «rivoluzionaria».

Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni piú profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso? Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria e subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità.

Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione piú sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso all'intuizione geniale dell'uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli.

Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha piú, malauguratamente, l'esempio vivente piú caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin.

Il compagno Lenin è stato l'iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l'esponente e l'ultimo piú individualizzato momento di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intiero. Era egli divenuto per caso il capo del partito bolscevico? Per caso il partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trent'anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente piú strane e piú assurde. Essa è avvenuta, nel campo internazionale, al contatto delle piú avanzate civiltà capitalistiche dell'Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la II Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale, rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l'orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a disposizione dei milioni d'oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul trono degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa. Il Partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, dell'intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l'uno senza l'altro, il proletariato classe dominante senza che il partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato centrale del partito sia l'ispiratore della politica del governo, senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: — una repubblica con a capo Lenin senza il partito comunista sarebbe anche il nostro ideale — aveva un grande significato storico. Era la prova che il proletariato esercitava non solo piú un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto diventare e non avrebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il partito comunista fosse il partito del governo; la sua coscienza di classe gli impediva ancora di riconoscere oltre alla sua sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase.

Un'altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano? Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato sacro romano impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera piú indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro feroce meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino e fa stupire. Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Piú di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all'appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall'eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff.

Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia.

La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione, sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè al governo e alla storia.

Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione piú violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com'era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l'orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...

Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo.

Le elezioni46

In un recente articolo editoriale dell'Avanti! è stata pubblicata questa dichiarazione fatta dall'on. Mussolini a un organizzatore socialista: «Per strapparmi il potere occorrerà attraversare laghi di sangue». Questa dichiarazione e il discorso fatto dall'on. Mussolini all'assemblea plenaria degli innumerevoli mandarini fascisti hanno finito col convincere l'Avanti! (o almeno col fargli stampare) che proprio in Italia non c'è da sperare in un mutamento legale del governo. Naturalmente però l'Avanti non trae da questa constatazione tutte le conseguenze che invece un rivoluzionario deve trame: né ciò fa meraviglia. Ancora nel 1920, dopo le prime imprese terroristiche del fascismo, dopo che le prime sentenze dei tribunali ebbero mostrato la palese connivenza della magistratura col fascismo, dopo che fu evidente come almeno una parte dei funzionari statali addetti alla pubblica sicurezza era diventata fascista, aveva la tessera del fascio, partecipava alle spedizioni fasciste, giurava il falso dinanzi ai giudici per sorreggere il fascismo, — nell'Avanti! stesso (ma edizione torinese) noi traemmo la conseguenza che il fascismo avrebbe cercato di conquistare il potere governativo ad ogni costo, per legalizzare il suo passato criminoso, per assicurare l'impunità ai suoi inscritti e specialmente ai suoi complici che occupavano alte posizioni nella gerarchia statale. Un governo di sinistra era diventato impossibile in Italia fin da quel tempo. Ogni strategia riformista che avesse avuto lo scopo di organizzare un governo di sinistra, senza che simultaneamente non si fosse verificato un potenziamento organizzativo, militare e politico, della classe operaia, avrebbe accelerato il colpo di stato fascista o, in mancanza di un accordo tra il fascismo, gli industriali e la Corona avrebbe determinato un colpo di Stato militarista, con un Cadorna, un Caviglia, un Giardino alla testa. Un governo di sinistra avrebbe dovuto, per acquistarsi il favore popolare, liquidare il fascismo coi tribunali comuni: era risaputo, d'altronde, che le questure, le prefetture, le procure raccoglievano e archiviavano tutto il materiale necessario per questa futura azione penale, appena il fascismo, secondo la concezione poliziesca dell'on. Giolitti, si fosse esaurito in se stesso come il movimento rivoluzionario dopo l'occupazione delle fabbriche. È la cosa piú naturale di questo mondo, e la piú facilmente prevedibile, che un movimento come quello fascista, che non ha nessuna radice nell'economia, che è il risultato organizzato di una decomposizione sociale, si afferma solo con la violenza individuale e col terrorismo sistematico; che doveva perciò a tutti i costi prendere il potere e che, una volta issato, deve cercare di mantenersi in sella fino a quando il sangue non gli arrivi alla gola e lo soffochi. Nel 1920 bisognava liberarsi dai riformisti e lasciarli manovrare per proprio conto; bisognava che la maggioranza del partito socialista fosse rimasta unita intorno alla bandiera dell'Internazionale comunista, avesse riorganizzato il proletariato e la classe contadina, che anche dopo la fallita occupazione delle fabbriche e delle terre erano ancora molto forti oggettivamente, avesse lottato contro il fascismo, fosse passato alla controffensiva e avesse preso il potere.

Nel 1924 la situazione non è piú cosí semplice e facile come allora. Le masse sono disperse, una gran parte di esse è prigioniera del fascismo nelle corporazioni nazionali; la milizia nazionale, centralizzata, coi quadri selezionati, con un armamento piú abbondante e «piú pesante» è ben altrimenti forte delle squadre d'azione. I nostri compiti e i nostri doveri sono divenuti cento volte piú difficili e piú gravi di responsabilità. L'Avanti! e il partito socialista hanno fatto un passo indietro anche dalle posizioni che occupavano nel 1921. Nel 1921 l'Avanti! e il partito socialista erano contrari all'azione generale proposta dai comunisti e la sabotarono in ogni modo fino alla catastrofe dello sciopero «legalitario» dell'agosto 1922, che ebbe solo il risultato di spingere gli industriali e la Corona verso il fascismo e di far decidere l'on. Mussolini al colpo di Stato; ma almeno l'Avanti! e il partito socialista accettavano l'azione caso per caso, ammettevano che almeno quando era presa direttamente alla gola dal fascismo la classe operaia dovesse fare qualcosa. Oggi invece pensano all'astensionismo dalle elezioni, si schierano coi riformisti contro i comunisti, perché i comunisti vogliono in ogni caso partecipare alla lotta elettorale accanto agli operai e ai contadini che dai fascisti saranno in ogni caso obbligati a votare.

Che conseguenza avrebbe l'astensione? Darebbe la possibilità teorica di fare una propaganda all'estero per inficiare il risultato delle elezioni, per «dimostrare» che il fascismo non è un governo di maggioranza. Ma se si ritiene che il fascismo non può essere sostituito legalmente, neppure da una democrazia liberale; se si ritiene che il governo dell'on. Mussolini ha aperto in Italia un processo attivo rivoluzionario; se si ritiene che il fascismo può essere rovesciato solo da una insurrezione popolare, cosa conviene di piú: fare propaganda all'estero, sicuri che ciò non eviterà per nulla di attraversare i laghi di sangue previsti dall'on. Mussolini, o far propaganda all'interno, fra le masse operaie e contadine, smuovendole dal loro torpore, dalla loro passività con l'esempio di un partito che si getta nella lotta, che affronta i pericoli, che non ha paura del fascismo, contribuendo cosí a disperdere questa atmosfera di panico indistinto, apocalittico, questo ebete stupore delle masse che il fascismo ha sostituito alle nebbie democratiche per opprimere e asservire il popolo lavoratore? È questo l'unico significato che può avere la partecipazione alle elezioni per ogni operaio che non abbia rinnegato i suoi ideali e la volontà di lotta tenace e implacabile per liberare la sua classe. I sepolcri tinti di rosso dell'Avanti! e del partito socialista hanno rinnegato tutto ciò fino dal 1920 e perciò hanno nuovamente fatto blocco coi riformisti contro i comunisti.

Fascismo e forze borghesi tradizionali47

[...] Per il contenuto delle tesi, voglio sentire il vostro parere, perché la mancanza di contatto diretto con gli avvenimenti italiani, che conosco solo per la lettura dei quotidiani piú importanti, mi fa sempre dubitare della fallacia delle mie conclusioni. Dirò in breve ciò che penso.

Dobbiamo insistere poco sul passato specialmente per ciò che riguarda il nostro partito Accenneremo all'estrema confusione che si è prodotta in Italia per il fenomeno fascista, determinato dalla mancanza di unità della nazione, dal dissolvimento dello Stato per l'entrata nella vita storica di enormi masse popolari che non sapevano contro chi lottare, per la debolezza di sviluppo del capitalismo che di fatto non ha sottomesso al suo controllo l'economia del paese, poiché esistono ancora in Italia un milione di artigiani e la stragrande maggioranza dell'agricoltura è precapitalistica. Inoltre la questione dei rapporti tra città e campagna si pone in Italia, per la questione meridionale, su una base territoriale netta, determinando la nascita di partiti autonomisti o di partiti come la democrazia sociale, di tipo originale. Questa confusione la facciamo servire per spiegare l'incertezza di molti atteggiamenti del partito e di un certo settarismo che aveva paralizzato il partito. La situazione si è chiarita, e ciò è indubbio. Il fascismo ha determinato il suo carattere. Le elezioni hanno dato modo di spingere la situazione dei partiti a una certa chiarezza. Esame dei partiti piccoli borghesi: popolare e repubblicano per l'Italia settentrionale e centrale, rappresentanti dei contadini e degli artigiani, della democrazia sociale nel Mezzogiorno, con le sue appendici di nittismo, amendolismo, ecc. — significato dell'entrata nel listone di Orlando e De Nicola, santoni meridionali che rappresentano il tentativo del capitalismo borghese di trovare una certa unificazione nel fascismo o di impedire che l'unità, anche per un istante, appaia infranta. Distinzione tra fascismo e forze borghesi tradizionali che non si lasciano «occupare»: Corriere, Stampa — le banche — lo stato maggiore — la Confederazione generale dell'industria. Queste forze, che hanno nel periodo 1921-22 assicurato la fortuna del fascismo per evitare il crollo dello Stato, che si sono create cioè col fascismo quelle forze di massa popolare che erano loro venute meno nel '19-'20 con l'irrompere delle masse piú elementari e passive nella vita storica — queste forze oggi risentono della situazione internazionale, sono un aspetto italiano della situazione internazionale, che tende a sinistra, per il riconquistato dominio di sé della borghesia. Si verificano due correnti: una, quella della Stampa, che apertamente pone la questione della collaborazione coi socialisti, che non sarebbe neppure aliena da un esperimento Mac-Donald, in Italia, nelle forme e nei modi che la situazione italiana consente, — l'altra, quella del Corriere, che è piú attaccata al conservatorismo borghese e che farebbe l'alleanza coi socialisti, ma solo dopo il passaggio di costoro sotto molte forche caudine. La Stampa, in una parola, tende a conservare l'egemonia settentrionale-piemontese sull'Italia e non è contraria, pur di raggiungere lo scopo, a far entrare l'aristocrazia operaia nel sistema egemonico. Il Corriere ha una concezione piú italiana, piú unitaria, — piú commerciale e meno industriale — della situazione, e come ha appoggiato Salandra e Nitti, i due primi presidenti meridionali di governo (i siciliani sono meridionali per modo di dire), cosí appoggerebbe Amendola, cioè un governo in cui la piccola borghesia meridionale e non l'aristocrazia operaia del Nord, partecipi alle forze realmente dominanti. Come si svilupperà la situazione? Il solo fatto che il fascismo esiste come grande organizzazione armata, determina questo sviluppo. Arrivereranno al colpo di Stato le forze che ho descritto? Non credo. Esse non hanno fiducia che i riformisti, in caso di colpo di Stato, siano capaci, partecipando al governo, di infrenare il movimento di massa che si scatenerà ineluttabilmente. I riformisti non hanno avuto il coraggio di unirsi a queste forze, che volevano agire nei mesi di settembre-ottobre 1922 e che avevano affidato al generale Badoglio l'incarico di aprire il fuoco contro il fascismo. Certo i riformisti tentennano piú ancora oggi che i fascisti sono piú forti militarmente e hanno il governo nelle mani. Forse Modigliani praticamente e... Rigola teoricamente sono i due riformisti soli favorevoli a una tale situazione [...].

Il Vaticano48

Il Vaticano è senza dubbio la piú vasta e potente organizzazione privata che sia mai esistita. Ha, per certi aspetti, il carattere di uno Stato, ed è riconosciuto come tale da un certo numero di governi. Benché lo smembramento della monarchia austro-ungherese abbia considerevolmente diminuito la sua influenza, esso rimane tuttora una delle forze politiche piú efficienti della storia moderna. La base organizzativa del Vaticano è in Italia: qui risiedono gli organi dirigenti delle organizzazioni cattoliche, la cui complessa rete abbraccia una gran parte del globo.

In Italia l'apparato ecclesiastico del Vaticano si compone di circa 200.000 persone; cifra imponente, soprattutto quando si consideri che essa comprende migliaia e migliaia di persone dotate di intelligenza, cultura, abilità consumata nell'arte dell'intrigo e nella preparazione e condotta metodica e silenziosa dei disegni politici. Molti di questi uomini incarnano le piú vecchie tradizioni d'organizzazione delle masse e, di conseguenza, la piú grande forza reazionaria esistente in Italia, forza tanto piú temibile in quanto insidiosa e inafferrabile. Il fascismo prima di tentare il suo colpo di Stato dovette trovare un accordo con essa. Si dice che il Vaticano, benché molto interessato all'avvento del fascismo al potere, abbia fatto pagare molto caro l'appoggio al fascismo. Il salvataggio del Banco di Roma, dove erano depositati tutti i fondi ecclesiastici, è costato, a quel che si dice, piú di un miliardo di lire al popolo italiano.

Poiché si parla spesso del Vaticano e della sua influenza senza conoscerne esattamente la struttura e la reale forza d'organizzazione, non è senza interesse darne un'idea precisa. Il Vaticano è un nemico internazionale del proletariato rivoluzionario. È evidente che il proletariato italiano dovrà risolvere in gran parte con mezzi propri il problema del papato, ma è egualmente evidente che non vi arriverà da solo, senza il concorso efficace del proletariato internazionale. L'organizzazione ecclesiastica del Vaticano riflette il suo carattere internazionale. Essa costituisce la base del potere del papato in Italia e nel mondo. In Italia si trovano due tipi diversi d'organizzazione cattolica: 1) l'organizzazione di massa, religiosa per eccellenza, ufficialmente basata sulla gerarchia ecclesiastica: è l'Unione popolare dei cattolici italiani, o, come è chiamata correntemente nei giornali, l'Azione cattolica; 2) un partito politico, il Partito popolare italiano, che per poco non è entrato in conflitto aperto con l'Azione cattolica. Esso stava diventando infatti sempre piú l'organizzazione del basso clero e dei contadini poveri, mentre l'Azione cattolica si trova nelle mani dell'aristocrazia, dei grandi proprietari e delle alte autorità ecclesiastiche, reazionarie e simpatizzanti col fascismo.

Il papa è il capo supremo tanto dell'apparato ecclesiastico che dell'Azione cattolica. Quest'ultima ignora i congressi nazionali ed ogni altra forma di organizzazione democratica. Essa ignora anche, almeno ufficialmente, tendenze, frazioni e correnti di idee differenti. Essa è costruita gerarchicamente dalla base al vertice. Per contro il partito popolare è ufficialmente indipendente dalle autorità ecclesiastiche, accoglie nelle sue file anche dei non-cattolici — pur avendo tra l'altro nel suo programma la difesa della religione —, subisce tutte le vicissitudini alle quali è sottoposto un partito di massa, ha già conosciuto piú di una scissione, è il terreno di lotte di tendenze accanite che riflettono i conflitti di classe delle masse rurali italiane.

Pio XI, l'attuale papa, il 260° successore di san Pietro, prima di essere eletto papa, era cardinale di Milano. Dal punto di vista politico, apparteneva a quella specie di reazionari italiani che sono noti con il nome di «moderati lombardi», gruppo composto di aristocratici, di grandi proprietari terrieri e di grandi industriali che si collocano piú a destra del Corriere della sera. Il papa attuale, quando si chiamava ancora Felice Ratti ed era cardinale di Milano, manifestò piú volte le sue simpatie per il fascismo e Mussolini. I «moderati» milanesi intervennero presso il Ratti, eletto papa, per assicurare il suo appoggio al fascismo, al momento del colpo di Stato.

In Vaticano il papa è assistito dal sacro collegio, composto di 60 cardinali nominati dal papa stesso, che a loro volta designano il papa ogniqualvolta il trono di san Pietro rimane vacante. Di questi 60 cardinali, 30 almeno sono sempre scelti tra il clero italiano per assicurare l'elezione di un papa di nazionalità italiana. Dopo vengono gli spagnoli con 6 cardinali, i francesi con 5, ecc. L'amministrazione internazionale della Chiesa è affidata a un collegio di patriarchi e arcivescovi preposti ai diversi riti nazionali ufficialmente riconosciuti. La corte pontificia ricorda l'organizzazione governativa di un grande Stato. Circa 200 funzionari ecclesiastici presiedono i diversi dipartimenti e sezioni, o fanno parte di diverse commissioni, ecc. La piú importante fra le sezioni è, senza dubbio, la segreteria di Stato che dirige gli affari politici e diplomatici del Vaticano. Alla sua testa si trova il cardinale Pietro Gasparri che ha già esercitato le funzioni di segretario di Stato al fianco dei due predecessori di Pio XI. Il partito popolare fu costituito sotto la sua alta protezione: è un uomo potente, molto dotato e, a quel che si dice, di spirito democratico. La verità è che egli è stato il bersaglio di attacchi furiosi dei giornali fascisti che hanno persino chiesto le sue dimissioni.

Ventisei Stati hanno i loro rappresentanti presso il Vaticano, che a sua volta è rappresentato presso 37 Stati.

In Italia, in particolare a Roma, si trova la direzione centrale dei 215 ordini religiosi, 89 maschili e 126 femminili, gran parte dei quali esistono da 1.000 e persino da 1.500 anni, che hanno conventi e congregazioni in tutti i paesi. I benedettini, per esempio, che si sono specializzati nell'istruzione, vantavano nel loro ordine, nel 1920, 7.100 monaci, distribuiti in 160 conventi, e 11.800 monache. L'ordine maschile è diretto da un primate e conta i seguenti dignitari: un cardinale, 6 arcivescovi, 9 vescovi, 121 priori. I benedettini amministrano 800 chiese e 170 scuole. E questo non è che uno dei 215 ordini cattolici! La santa società di Gesù conta ufficialmente 17.540 membri, tra cui 8.586 padri, 4.957 studenti e 3.997 fratelli laici. I gesuiti sono molto potenti in Italia. Grazie ai loro intrighi essi riescono qualche volta a far sentire la loro influenza persino tra le file dei partiti proletari. Durante la guerra essi cercarono, tramite Francesco Ciccotti, allora corrispondente dell'Avanti! a Roma, oggi nittiano, di ottenere da Serrati che l'Avanti! cessasse la campagna contro il loro ordine che si era impadronito di tutte le scuole private di Torino.

Sempre a Roma risiede la Congregazione per la propagazione della fede che con i suoi missionari cerca di diffondere il cattolicesimo in tutti i paesi. Essa ha al suo servizio 16.000 missionari e 30.000 missionarie, 6.000 preti indigeni e 29.000 catechisti: e questo soltanto nei paesi non cristiani. Essa ministra, inoltre, 30.000 chiese, 147 seminari, con 6.000 allievi, 24.000 scuole popolari, 409 ospedali, 1.183 dispensari medici, 1.263 orfanotrofi e 63 tipografie.

La grande istituzione mondiale chiamata l'Apostolato della preghiera è creazione dei gesuiti: essa abbraccia 26 milioni di aderenti divisi in gruppi di 15 persone, che hanno ciascuno alla testa un «fervente» e una «fervente». Essa distribuisce una pubblicazione periodica centrale che esce in 51 edizioni diverse e in 39 lingue, fra le quali 6 dialetti indiani, uno del Madagascar ecc., conta un milione e mezzo di abbonati e ha una tiratura di 10 milioni di esemplari. L'Apostolato della preghiera è indubbiamente una delle migliori organizzazioni di propaganda religiosa. Sarebbe molto interessante studiare i suoi metodi. Essa riesce con mezzi molto semplici a esercitare una influenza enorme sulle larghe masse della popolazione rurale, eccitandone il fanatismo religioso e suggerendo la politica che piú conviene agli interessi della Chiesa. Una delle sue pubblicazioni, certamente la piú diffusa, costava prima della guerra due soldi l'anno: era un foglietto illustrato di carattere sia religioso che politico. Ricordo aver letto nel 1912 il passaggio seguente: «Noi raccomandiamo a tutti i nostri lettori di pregare per i fabbricanti di zucchero proditoriamente attaccati dai cosiddetti antiprotezionisti, vale a dire i framassoni e i miscredenti». Era l'epoca in cui il partito democratico in Italia conduceva una vivace campagna contro il protezionismo doganale, urtando cosí gli interessi dei zuccherieri. I propagandisti del libero scambio erano, a quest'epoca, spesso attaccati dai contadini, ispirati dai gesuiti dell'Apostolato della preghiera.

Bonomi e i suoi amici49

Si vuole rivalorizzare Bonomi, il Pier Soderini della democrazia italiana. I suoi amici personali pubblicano raccolte di vecchi articoli di Bonomi, assunti alla gloria di documento storico. I giornali dell'opposizione costituzionale riproducono dall'Azione, organo del clan Bonomi, i pezzi apologetici del grande statista Bonomi, le dimostrazioni sull'inutilità storica del fascismo in Italia dopo il ministero Bonomi, fatte da Bonomi, ecc., ecc., ecc. Questi episodi hanno la loro importanza, hanno il loro significato nel quadro generale delle fatiche cui si sottopone la democrazia borghese per rifare la sua élite dirigente, per arginare in qualche modo l'azione corrosiva del fascismo e aprirsi nuovi spiragli verso l'avvenire: Bonomi è un ex socialista; nonostante sia collare dell'Annunziata, qualche volta ancora si lascia andare a chiamarsi socialista. Turati ha molta stima di Bonomi, crede che Bonomi sia ancora socialista; perché tutto il riformismo turatiano si è avvicinato a Bonomi, potrebbe, nel suo complesso, ornarsi di un grande collare dell'Annunziata. Bonomi-Amenndola sono e diventeranno sempre piú i due anelli piú forti della catena che va dallo stato maggiore al Corriere della sera, al Mondo, alla Stampa, al Partito socialista unitario.

Bisogna dunque parlare di Bonomi e dei suoi amici perché sia piú chiaro il significato del «blocco della libertà» e dei fini reali che esso si propone; bisogna parlare di Bonomi per ricordare specialmente:

1) che egli è stato ministro della guerra nel gabinetto costituito da Giolitti nella prima metà del 1920, dopo la costituzione della Confederazione generale dell'industria. I giolittiani non volevano Bonomi, in nessun modo, a nessun costo: sino alla vigilia della sua «investitura» la Stampa condusse una campagna violentissima, atroce, contro Bonomi. Bonomi fu «imposto» a Giolitti, e questa imposizione era di per se stessa eloquentissima, data la situazione d'allora; Bonomi fu imposto come ministro della guerra, per il dicastero intorno a cui in tutte le formazioni ministeriali dal '20 al '22 si svolsero le lotte piú violente (basta ricordare l'episodio Amendola-Di Scalea nel ministero Facta) tra reazione e democrazia, tra fascismo e antifascismo. Bonomi rappresentò, nel gabinetto Giolitti, la sentinella avanzata del militarismo, della Corte, della reazione piú nera che allora esistesse in Italia, quando il fascismo si ammantava ancora di programmi e di parole demagogiche.

2) Bonomi procedette, nel luglio 1920, alla smobilitazione degli ufficiali rimasti nei quadri dopo l'armistizio. È noto il piano di questa smobilitazione: esso fu il piano di preparazione della guerra civile che doveva essere scatenata contro il proletariato e contro i contadini alla fine del 1930. Gli ufficiali smobilitati entrarono nei fasci per comando dei loro superiori, per applicare il piano elaborato al ministero della guerra, di cui era titolare Bonomi. Questa massa militarizzò il fascismo attraverso la costituzione delle «disperate» e delle squadre d'azione rionali comandate dai membri delle «disperate», secondo un piano che era già stato applicato in Russia dai socialrivoluzionari, anch'essi aiutati dagli elementi «tecnici» forniti dall'ufficialità zarista. Bonomi e lo stato maggiore sapevano servirsi dell'esperienza internazionale, e nel ministero della guerra c'era il russo addetto a funzionare da collegamento. Che significato ha avuto la manovra politica di Mussolini conosciuta col nome di «tendenzialità repubblicana»? Ha avuto appunto questo significato: impedire che il fascismo divenisse un mero strumento di Bonomi e dello stato maggiore, conservare ai dirigenti del fascismo — Mussolini e consorti — il predominio e l'iniziativa della reazione, togliere agli ufficiali comandati le funzioni direttive che essi avevano rapidamente acquistato specialmente nella Valle padana e nell'Italia centrale: la manovra mussoliniana si concluse infatti con lo scioglimento delle «disperate» e con la rivalorizzazione degli elementi politici del fascismo. Bonomi fu sconfitto da Mussolini allora, ma si consolò perché il fascismo aveva fatto proprio il suo programma reazionario, perché Mussolini, pur di comandare, di primeggiare, aveva accettato la nuova situazione creatasi nel «suo» fascismo e anzi intendeva condurla fino alle estreme conseguenze.

Questo è stato l'ufficio di Bonomi nei primi tempi del fascismo, questo è stato il suo contributo allo sviluppo della reazione in Italia. Il passato indica chiaramente la sua attuale funzione, spiega il significato dei tentativi che si fanno per rimetterlo a galla, per dargli un posto di leader della democrazia risorgente nel blocco della libertà. A Hitler-Mussolini, il Corriere della sera, preferisce Noske-Bonomi: ecco tutto.

Il Mezzogiorno e il fascismo50

Fatto saliente della lotta politica attuale italiana è il tentativo di soluzione che il Partito nazionale fascista ha voluto dare dei rapporti tra lo Stato-governo e il Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno è diventato la riserva dell'opposizione costituzionale. Il Mezzogiorno ha manifestato ancora una volta la sua distinzione «territoriale» dal resto dello Stato, la sua volontà di non lasciarsi assorbire impunemente in un sistema unitario esasperato — che significherebbe solo accrescimento delle antiche oppressioni e dei vecchi sfruttamenti trincerandosi dietro una serie di posizioni costituzionali, parlamentaristiche, di democrazia formale, che hanno pur il loro valore e il loro significato se il Partito nazionale fascista ha ritenuto opportuno, solo per decapitare il movimento dei suoi santoni, Orlando, De Nicola, di dover fare le concessioni che ha fatto. Mussolini, insomma, non ha fatto altro che applicare la tattica giolittiana, in una situazione nuova, estremamente piú difficile e complicata di tutte le situazioni passate, con una popolazione che almeno parzialmente si è risvegliata e ha cominciato a partecipare alla vita pubblica, in un periodo nel quale la diminuita emigrazione pone con maggior violenza i problemi di classe che tendono a diventare problemi «territoriali», perché il capitalismo si presenta come straniero alla regione, e come straniero si presenta il governo che del capitalismo amministra gli interessi.

Molti compagni si domandano spesso, con maraviglia, il perché dell'atteggiamento di opposizione al fascismo dei due grandi giornali dell'Italia settentrionale, il Corriere della sera e la Stampa. Non ha forse il fascismo creato la situazione che questi due giornali volevano? Non hanno questi due giornali contribuito potentemente alla fortuna del fascismo negli anni 1920-21? Perché oggi lavorano in senso inverso, lavorano a togliere al fascismo la sua base popolare, a minargli il terreno sotto i piedi, mettendo lo scompiglio e orientando le masse piccolo-borghesi verso gli «ideali di libertà»?

Evidentemente il Corriere e la Stampa non sono due «puri» giornali, che tendono solo a mantenere ed allargare la cerchia dei loro abbonati e lettori insistendo su motivi cari alla mentalità di massa: se cosí fosse, a quest'ora i due giornali conoscerebbero già il ferro e la benzina delle squadre fasciste e l'«occupazione» da parte di redattori ligi ai nuovi padroni. Il Corriere, la Stampa non sono stati occupati non si sono lasciati occupare perché non sono stati occupati e non si sono lasciati occupare questi tre ordini di «istituzioni» nazionali: lo stato maggiore, le banche (ossia la banca, la Banca commerciale, che esercita un incontrastato monopolio), la Confederazione generale dell'industria.

La Stampa e il Corriere sono tradizionalmente i due rappresentanti di queste «istituzioni», i due partiti di queste istituzioni nazionali. La Stampa, piú «sinistra», pone oggi apertamente la quistione di un governo radicale-socialista come possibile successore del fascismo, non sarebbe neppure aliena da un esperimento «MacDonald» in Italia; la Stampa vede il pericolo meridionale e cerca di risolverlo determinando l'entrata dell'aristocrazia operaia nel sistema di egemonia governativa settentrionale piemontese, cerca cioè di ottenere che le forze rivoluzionarie del Mezzogiorno siano decapitate nazionalmente, che diventi impossibile un'alleanza tra le masse contadine del Sud, che non potranno da sole rovesciare mai il capitalismo, e la classe operaia del Nord, compromessa e disonorata in un'alleanza con gli sfruttatori. Il Corriere ha una concezione piú «unitaria», piú «italiana» per cosí dire — piú commerciale e meno industriale — della situazione. Il Corriere ha appoggiato Salandra e Nitti, i due primi presidenti meridionali (i presidenti siciliani rappresentavano la Sicilia, non il Mezzogiorno, perché la quistione siciliana è notoriamente distinta dalla quistione del Mezzogiorno), era favorevole all'Intesa e non alla Germania, come la Stampa, è libero-scambista permanente e non solo nei periodi elettorali giolittiani, come la Stampa; non si spaventava, come la Stampa, durante la guerra, che l'apparecchio statale passasse dalle mani della burocrazia massonica giolittiana nelle mani dei «pugliesi» di Salandra. Il Corriere è piú attaccato al conservatorismo, farebbe anche l'alleanza coi riformisti, ma solo dopo il passaggio di costoro sotto molte forche caudine; il Corriere vuole un governo «Amendola», cioè che la piccola borghesia meridionale, e non l'aristocrazia operaia del Nord, entri ufficialmente a far parte del sistema di forze realmente dominanti; vuole in Italia una democrazia rurale, che abbia in Cadorna il suo capo militare e non in Badoglio, come vorrebbe la Stampa, che abbia in campo politico un Poincaré italiano, non un Briand italiano. Il Corriere non si spaventa, come la Stampa, che si abbia nuovamente un periodo come il decennio 1890-900, un periodo in cui le insurrezioni dei contadini meridionali si saldino, automaticamente, alle insurrezioni operaie delle città industriali, in cui ai «fasci siciliani» corrisponda un '98 milanese: il Corriere ha fiducia nelle «forze naturali» e nei cannoni di Bava-Beccaris. La Stampa crede che Turati-D'Aragona-Modigliani siano armi assai piú sicure dei cannoni per domare le rivolte dei contadini e per fare evacuare le fabbriche occupate.

Alle concezioni precise e organiche del Corriere e della Stampa, il fascismo contrappone discorsi e misure puramente meccaniche e ridicolmente coreografiche.

Il fascismo è responsabile della distruzione del sistema di protezionismo operaio conosciuto col nome di «cooperativismo reggiano», di «evangelismo prampoliniano», ecc., ecc. Il fascismo ha tolto ai «democratici» l'arma piú forte per far deviare sugli operai l'odio delle masse contadine che deve riversarsi sui capitalisti. Il «succhionismo rosso» non esiste piú; ma le condizioni del Mezzogiorno non sono migliorate per ciò. Al «succhionismo rosso» è successo il «succhionismo tricolore»; come evitare che il contadino meridionale veda nel fascismo le sintesi concentrate di tutti i suoi oppressori e i suoi sfruttatori? Rovesciato il castello di carta del riformismo emiliano-romagnolo, bisognò sciogliere la guardia regia, cui non si potevano piú dare a bere gli alcoolici antioperai. Gli industriali qualcosa fecero per aiutare Mussolini: la Confederazione generale dell'industria, nella sua conferenza del giugno 1923, cosí parlò per bocca del presidente, on. Benni: «Cosí pure certamente andrà presto a termine un'altra azione lunga e complessa che noi abbiamo iniziato per il Mezzogiorno d'Italia. Vogliamo portare il nostro contributo, con un'azione pratica, al risorgere dell'Italia meridionale ed insulare, dove già si manifestano promettenti i primi indizi di un salutare risveglio economico. È un'opera non semplice; ma è necessario che la classe industriale ci si dedichi, perché è interesse di tutti che la compagine della nazione si amalgami ancor piú sulla base degli interessi economici». Gli industriali aiutarono Mussolini con le belle parole, ma alle belle parole seguirono poco dopo dei fatti piú espressivi delle parole: la conquista delle società cotoniere del salernitano e il trasferimento delle macchine, camuffate da ferro vecchio, nella zona tessile lombarda.

La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che transitoriamente, episodicamente, con la corruzione e col ferro e col fuoco. Il fascismo ha esasperato la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi posto con chiarezza il problema in tutta la sua estensione e con tutte le sue possibili conseguenze politiche, ha intralciato l'azione della classe operaia e ha contribuito in larga parte al fallimento della rivoluzione degli anni 1919-20.

Oggi il problema è ancora piú complicato e difficile che non fosse in quegli anni, ma esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni rivoluzione che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e decisamente. Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che esiste, le masse contadine meridionali hanno assunta un'importanza enorme nel campo rivoluzionario. O il proletariato, attraverso il suo partito politico, riesce in questo periodo a crearsi un sistema di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola borghesia amendoliana, diventando una riserva delle controrivoluzioni, giungendo fino al separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente industriale del Nord. La parola d'ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridionali con la quistione in generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico organicamente sottomesso al regime capitalistico: la quistione meridionale è anche quistione territoriale, ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un programma di governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle masse.

Le elezioni in Italia51

Tutti i partiti si dichiarano soddisfatti dei risultati delle elezioni, perché tutti fino alla vigilia delle stesse mancavano di un metro di giudizio e si chiedevano fino a qual punto si sarebbe spinto il terrorismo fascista. Questa costatazione rivela di colpo quale è il nodo della situazione italiana: la disorganizzazione delle masse, l'impossibilità di tenere delle riunioni, la scarsa diffusione dei giornali apertamente ostili al fascismo.

La debolezza reale del fascismo tuttavia è stata rivelata dal successo dell'opposizione, accolto con tale rabbia dai fascisti da provocare in alcuni casi rappresaglie immediate contro le organizzazioni operaie e contadine.

In tutta l'Italia del nord il voto degli operai ha dimostrato l'inconsistenza delle corporazioni nazionali fasciste. I fascisti se ne sono immediatamente resi conto e hanno già proceduto, in molte località, allo scioglimento dei loro sindacati.

L'atteggiamento del fascio nei confronti della democrazia potrebbe essere descritto con l'espressione biblica: Nec tecum nec sine te vivere possum: non posso vivere né con te né senza di te. Praticamente la contraddizione si risolve in una enorme buffonata: i liberi elettori sono andati alle urne a manifestare il loro diritto sovrano scortati da veri e propri plotoni di esecuzione. Si tenga conto dei morti, degli emigrati, dei carcerati che hanno anch'essi votato! E Mussolini ha ottenuto il 6 aprile 4.600.000 suffragi su 7.600.000 e 400 mandati su circa 536.

Queste elezioni hanno però avuto una grande importanza: i loro risultati permettono di rendersi conto dell'orientamento generale della vita politica italiana.

Prima del 6 aprile tra gli operai era largamente diffusa l'opinione che la borghesia progressiva radicale avrebbe fatto la sua «rivoluzione antifascista». Si diceva che la classe operaia avrebbe dovuto, per qualche tempo, cedere il posto sulla scena politica all'opposizione costituzionale, necessaria in questo momento storico. La tattica dell'astensione proposta dai riformisti (Turati) e il ripudio da parte dei riformisti e dei massimalisti della proposta comunista di un blocco operaio e contadino erano suggeriti da questa convinzione. Cosí si spiega anche la tattica del partito comunista che dovette, a suo rischio e pericolo, rompere con lo stato d'animo «liquidazionista» delle grandi masse. Le elezioni hanno dimostrato che l'opposizione costituzionale (Bonomi-Amendola) non ha nessuna forza nel paese: in tutta l'Italia settentrionale e centrale essa non ha ottenuto che i suffragi di un'infima minoranza antifascista; essa ha avuto solo un successo relativo nell'Italia meridionale, fra i contadini della Campania e della Sicilia, il che si spiega col fatto che il partito popolare (cattolico) in queste regioni è debole e infeudato ai grandi proprietari. Le elezioni hanno pressoché annientato le prospettive del blocco borghese-socialista (Turati) e rafforzato le posizioni del partito comunista, al quale si apre la possibilità di un'intensa campagna per un governo operaio e contadino.

La resistenza e la combattività della classe operaia si sono rivelate superiori alle previsioni. I tre partiti proletari hanno raccolto insieme 1.120.000 suffragi (riformisti 470.000; massimalisti 340.000; comunisti 310.000). A Milano i voti operai sono stati piú numerosi di quelli del Partito socialista unificato alle elezioni del 1919, cioè all'epoca del piú alto sviluppo rivoluzionario. Dai 56.000 voti del 1919 si è passati ai 66.000 voti nel 1924. In tutte le città grandi e piccole (eccettuata Milano) la lista fascista si è trovata persino in minoranza in confronto a tutte le opposizioni riunite, fra le quali i partiti operai occupano il primo posto. Il proletariato ha brillantemente ripreso la sua funzione storica di avversario principale della reazione: da queste elezioni risulta che nessuna opposizione efficace è possibile contro il fascismo al di fuori dell'opposizione rivoluzionaria. Ciò è confermato dal brillante successo del partito comunista, che aveva 13 mandati nel precedente Parlamento e che ne avrà 18 nella nuova legislatura, mentre i riformisti cadono da 83 a 25 e i massimalisti da 46 a 22. Nella maggior parte delle città industriali il partito comunista ha ottenuto piú voti dei massimalisti; nel Sud i comunisti hanno avuto piú voti dei massimalisti e riformisti messi insieme. A Milano, dove i massimalisti erano particolarmente forti, grazie all'azione dell'Avanti!, i comunisti hanno cionondimeno conquistato due seggi.

La massa contadina sembra essere stata completamente disgregata. Essa ha disertato il partito popolare, caduto da 106 a 36 mandati, ed ha formato, per sottrarsi al terrorismo, tutta una serie di raggruppamenti politici locali che si sono presentati alle urne come filofascisti. Nella sua grande maggioranza la massa rurale ha votato per la lista fascista: nei villaggi dove il voto di ciascun elettore è facilmente controllabile, i fascisti hanno ottenuto il 100 per cento dei suffragi e persino di piú, giacché hanno «votato» anche i morti e gli emigrati.

Cosí il fascismo ha vinto, e il governo Mussolini è uscito dalle urne rafforzato all'interno e all'estero. (Il cambio italiano è oggi piú favorevole). Le conseguenze saranno molteplici. La nuova Camera cercherà di assumere il carattere di costituente fascista, di creare una legalità fascista, di abrogare lo Statuto e le libertà democratiche; già si annunciano provvedimenti rigorosi contro la stampa di opposizione. Non e improbabile — come ha lasciato capire Amendola in un discorso programmatico — che l'opposizione costituzionale sollevi la questione pregiudiziale di nuove elezioni per una Costituente, e in questo caso la sua parola d'ordine sarà quella del blocco borghese-socialdemocratico.

Il partito comunista esce rafforzato dalle elezioni per assumere in un prossimo futuro dei compiti di primo piano. Nei centri urbani le sue organizzazioni si sono attestate su solide posizioni. Le direttive date dalla direzione del partito sono state seguite con perfetta disciplina. Meno forte è l'organizzazione comunista tra i salariati agricoli, particolarmente numerosi nel nostro paese. Nelle zone puramente agricole (Italia meridionale) tuttavia non abbiamo subito una perdita di seggi: ne abbiamo conquistato tre in Sicilia, Puglia e Campania. In Sicilia e in Puglia i voti sono esclusivamente contadini, il che conferisce loro un significato particolare; essi sono stati superiori alle nostre speranze. La condizione economica delle popolazioni in queste regioni è spaventosa: l'emigrazione è resa impossibile dalla recente legge americana, e ciò provoca una congestione demografica nel momento in cui i grandi proprietari riducono la superficie coltivata. Solo il terrorismo fascista impedisce che si scateni un'ondata di rivolte analoga a quella del 1860-70 e 1890-1900.

All'indomani delle elezioni, il nostro partito ha piú larghe possibilità di agitazione. I suoi compiti sono essenzialmente i seguenti: 1) obbligare il partito massimalista ad uscire dall'equivoco ed a decidersi per il blocco con i comunisti o per la fusione con i riformisti; 2) elaborare un programma di governo operaio e contadino suscettibile di soddisfare le masse contadine che sono le piú provate dal terrore fascista.

La campagna sistematica per l'attuazione di queste parole d'ordine deve soprattutto affrettare la soluzione della crisi nel partito popolare, il quale, sotto la pressione delle masse contadine e nonostante gli sforzi dei suoi dirigenti, sta staccandosi dalla politica del Vaticano, mentre Turati si sforza di asservire alla destra borghese una parte degli operai. Dare scacco a tutti questi piani e stringere solidi vincoli con i contadini del Sud e delle Isole: questo è il dovere del nostro partito. Il modo in cui il nostro partito saprà assolvere ai suoi compiti determinerà il carattere di tutto un periodo della storia del nostro paese.

La crisi della piccola borghesia52

La crisi politica determinata dall'assassinio dell'on. Matteotti è tuttora in pieno sviluppo e non si può ancora dire quali saranno i suoi sbocchi conclusivi.

Essa presenta aspetti diversi e molteplici. Rileviamo innanzi tutto la lotta che si è riaccesa intorno al governo fra forze avverse del mondo plutocratico e finanziario per la conquista da parte degli uni e la conservazione da parte degli altri di un'influenza predominante nel governo dello Stato. Alla oligarchia finanziaria facente capo alla Banca commerciale si contrappongono quelle forze che un tempo si raccoglievano intorno alla fallita Banca di sconto ed oggi tendono a ricostituire un proprio organismo finanziario che dovrebbe scalzare la predominante influenza della prima. La loro parola d'ordine è «costituzione di un governo di ricostruzione nazionale», con la eliminazione della zavorra (si intendono i patrocinatori della attuale politica finanziaria). Si tratta in sostanza di un gruppo di pescicani non meno nefasti degli altri, che sotto la maschera dell'indignazione per l'assassinio di Matteotti ed in nome della «giustizia», muovono all'arrembaggio delle casse dello Stato. Il momento è buono e naturalmente cercano di non lasciarselo sfuggire. Dal punto di vista della classe operaia il fatto piú importante è però un altro, e precisamente la ripercussione fortissima che gli avvenimenti di questi giorni hanno avuto nei ceti medi e piccolo-borghesi: la crisi della piccola borghesia precipita.

Se si tien conto delle origini e della natura sociale del fascismo si comprenderà l'importanza enorme di questo elemento che viene a sgretolare le basi della dominazione fascista. Questo improvviso e radicale spostamento dell'opinione pubblica, polarizzatasi intorno ai partiti della cosiddetta «opposizione costituzionale», pone questi partiti in prima fila nella lotta politica: essi devono rendersi conto, come alcuni strati della stessa classe operaia, delle necessità e delle condizioni che tale lotta impone.

Nel campo operaio non è mancata la immediata ripercussione di questo spostamento di forze: il proletariato ha oggi la sensazione di non essere piú isolato nella lotta contro il fascismo e ciò, oltre all'immutato spirito antifascista che lo anima, determina nell'animo suo la convinzione che la dittatura fascista potrà essere abbattuta ed entro un periodo di tempo assai piú breve di quanto non si sia pensato per il passato. Il fatto che la rivolta morale della popolazione tutta contro il fascismo, nella classe operaia si è manifestata con sia pure parziali scioperi, come forma energica della lotta; l'aver sentito il bisogno e l'aver ritenuto possibile sotto certe condizioni lo sciopero generale nazionale contro il fascismo, dimostra che la situazione va mutando con una rapidità del tutto imprevista. Chi ha dei dubbi in proposito vada fra gli operai e sentirà come sono accolti i malinconici comunicati della Confederazione generale del lavoro imploranti la calma, nei quali si definiscono «elementi irresponsabili» ed «agenti provocatori» quanti fanno propaganda per l'azione: questo linguaggio eravamo abituati un tempo a leggerlo nei comunicati polizieschi...

Dall'atteggiamento e dalla condotta dei vari partiti schierati oggi sul fronte della lotta antifascista si può subito fare una prima constatazione: l'impotenza dell'opposizione costituzionale.

Questi partiti, nel passato, con l'opposizione al fascismo tendevano evidentemente ad attirare a sé la piccola borghesia ed in parte quegli strati della borghesia che, vivendo ai margini della plutocrazia dominante, risentono in parte le conseguenze del suo predominio assoluto e schiacciante nella vita economica e finanziaria del paese. Essi tendono verso sistemi meno dittatoriali di governo. Questi partiti oggi possono dire di aver raggiunto lo scopo, che costituisce per loro la premessa per condurre a fondo la lotta contro il fascismo. La loro azione però, che nella situazione attuale dovrebbe avere un valore decisivo si mostra incerta, equivoca ed insufficiente. Essa riflette in sostanza l'impotenza della piccola borghesia ad affrontare da sola la lotta contro il fascismo, impotenza determinata da un complesso di ragioni, dalle quali deriva altresì l'atteggiamento caratteristico di questi ceti eternamente oscillanti fra il capitalismo ed il proletariato.

Essi coltivano l'illusione di risolvere la lotta contro il fascismo sul terreno parlamentare, dimenticando che la natura fondamentale del governo fascista è quella di una dittatura armata, nonostante tutti i ciondoli costituzionali che cerca di appiccicare alla milizia nazionale. Questa d'altronde non ha eliminato l'azione dello squadrismo e dell'illegalismo: il fascismo nella sua vera essenza è costituito dalle forze armate operanti direttamente per conto della plutocrazia capitalistica e degli agrari. Abbattere il fascismo significa, in definitiva, schiacciare definitivamente queste forze, e ciò non si può ottenere che sul terreno dell'azione diretta. Qualsiasi soluzione parlamentare sarà impotente. Qualunque sia il carattere del governo che da tale soluzione potesse derivare, si tratti del rimpasto del governo di Mussolini o dell'avvento di un governo cosiddetto democratico (ciò che d'altronde è assai difficile), nessuna garanzia potrà avere la classe operaia che i suoi interessi ed i suoi diritti piú elementari saranno tutelati, anche nei limiti consentiti da uno Stato borghese e capitalista, fino a quando quelle forze non saranno eliminate.

Per ottenere ciò, occorre lottare contro di esse sul terreno su cui è possibile vincere sul serio e cioè sul terreno dell'azione diretta. Sarebbe un'ingenuità affidare questo compito allo Stato borghese, sia pure liberale e democratico, il quale non esiterebbe a ricorrere al loro aiuto nel caso non si sentisse abbastanza forte per difendere il privilegio della borghesia e mantener soggetto il proletariato.

Da tutto ciò deriva la conclusione che una reale opposizione al fascismo può essere condotta solo dalla classe operaia. I fatti dimostrano quanto fosse rispondente a realtà la posizione da noi assunta in occasione delle elezioni generali, opponendo all'opposizione costituzionale l'«opposizione operaia» come la sola base reale ed efficace per abbattere il fascismo. Il fatto che forze non operaie confluiscano sul fronte della lotta antifascista, non cambia la nostra affermazione, secondo la quale la classe operaia è la sola classe che possa e debba essere la guida direttiva in questa lotta.

La classe operaia deve trovare però la sua unità, nella quale essa ritroverà tutta la forza necessaria per affrontare la lotta. Da ciò la proposta del partito comunista a tutti gli organismi proletari per uno sciopero generale, contro il fascismo; da ciò il nostro atteggiamento, di fronte agli impotenti piagnistei socialdemocratici!

Il destino di Matteotti53

Vi è una espressione incisiva del compagno Radek, da lui usata nel commemorare, in una assemblea di comunisti, al congresso della Internazionale, un militante del nazionalismo tedesco fucilato nella Ruhr dai nazionalisti francesi, che ci torna a mente ogni volta che pensiamo al destino di Giacomo Matteotti. «Pellegrino del nulla» chiamava il compagno Radek il combattente sfortunato, ma tenace fino al sacrificio di sé, di una idea la quale non può condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza via di uscita. «Pellegrino del nulla» appare a noi Giacomo Matteotti quando consideriamo la sua vita e la sua fine in relazione con tutte le circostanze che danno ad esse un valore non piú «personale», ma di indicazione generale e di simbolo.

Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae la sua origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irriducibili contrasti; esiste una crisi che la guerra ha accelerata, approfondita, resa insuperabile. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno «Stato» nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce piú a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivistici di alcune ristrette categorie privilegiate; vi sono dall'altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono piú vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi. Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi.

Ma il modo di uscirne è uno solo. È che le centinaia di migliaia di lavoratori, che la grande maggioranza della popolazione lavoratrice italiana sia guidata a superare il contrasto spezzando i quadri dell'ordine politico ed economico attuale e sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose, nel quale gli interessi e le volontà di chi lavora e produce trovino soddisfazione ed espressione complete. Il risveglio degli operai e dei contadini d'Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pioneri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine.

Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l'età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana. Ricordare come la guida sia, praticamente, venuta meno, e il movimento si sia esaurito in se stesso, lasciando aperta la via al trionfo sfacciato dei suoi piú fieri nemici, è superfluo, forse, ricordare oggi, se non per mettere in luce la contraddizione interna, insanabile che viziava dalle fondamenta la concezione politica e storica di questi primi capi della riscossa degli operai e dei contadini d'Italia, che condannava l'azione a un insuccesso tragico, pauroso. Il risvegliare alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai è cosa vana, se non si conclude con la indicazione dei mezzi e delle vie per cui le forze risvegliate delle masse lavoratrici potranno giungere a una concreta e completa affermazione di sé. A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere. L'azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti. Iniziava una serie di conquiste e non pensava alla difesa di esse. Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini, e non le dava la organizzazione di combattimento senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare. Poneva le premesse di una rivoluzione, e non creava un movimento rivoluzionario. Scuoteva le basi di uno Stato, e credeva di poter eludere il problema della creazione di uno Stato nuovo. Scatenava la ribellione, e non sapeva guidarla alla vittoria. Parlava da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria.

Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l'ultima espressione, la piú evidente, la piú tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto. Ma se l'impeto di riscossa e gli sforzi tenaci durati nel passato hanno potuto essere vani, se ha potuto crollare paurosamente, in tre anni, l'edificio pezzo a pezzo cosí faticosamente costruito, non deve, non può rimanere vano questo sacrificio supremo, in cui tutto l'insegnamento di un passato di dolori e di errori si riassume.

Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba, e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d'Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano a frotte per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d'Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza piú avere una via aperta a sé.

I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti.

Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitú non può rinunciare a combattere per la sua redenzione. La crisi della società italiana che da questo risveglio è stata acuita fino alla esasperazione non si supera col terrore; essa non si concluderà se non con l'avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate, con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato. Ma per questo occorre che una organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria una organizzazione nella quale prende carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Una organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani.

Una organizzazione il cui proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquiste immediate e parziali, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre piú alte e a quella che tutto le deve garantire: la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai.

Queste cose hanno inteso gli operai riformisti che nel ricordare il loro capo caduto hanno chiesto di entrare nel nostro partito.

Il sacrificio di Matteotti — essi dicono ai loro compagni — si celebra lavorando alla creazione del solo strumento per cui l'idea da cui egli era mosso, l'idea della redenzione completa dei lavoratori, possa ricevere attuazione e realtà: il partito di classe degli operai, il partito della rivoluzione proletaria.

Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaia cesserà di essere «pellegrina del nulla», cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio, per voler risolvere il contradditorio problema di creare un mondo nuovo senza mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime, solo per essi la classe operaia diventerà libera e padrona dei propri destini.

La crisi italiana54

La crisi radicale del regime capitalistico, iniziatasi in Italia cosí come in tutto il mondo con la guerra, non è stata risanata dal fascismo. Il fascismo, con il suo metodo repressivo di governo, aveva reso molto difficile e, anzi, quasi totalmente impedito le manifestazioni politiche della crisi generale capitalistica; non ha però segnato un arresto di questa e tanto meno una ripresa e uno sviluppo dell'economia nazionale. Si dice generalmente e anche noi comunisti siamo soliti affermare che l'attuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell'economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce piú e non potrà piú riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo «fascista». Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l'incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitalistica nei suoi confronti.

Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo-borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e quindi la lotta non solo contro i partiti operai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti politici non fascisti, contro tutte le associazioni non direttamente controllate dal fascismo ufficiale.

Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze piú radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo della industria e dato il carattere regionale dell'industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe «territorialmente» nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c'era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana.

Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente mol-tiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire. L'applicazione della violenza fascista per costringere i risparmiatori ad investire i loro capitali in una determinata direzione non ha dato molti frutti per i piccoli industriali: quando ha avuto successo, non ha che rimbalzato gli effetti della crisi da un ceto all'altro, allargando il malcontento e la diffidenza già grandi nei risparmiatori per il monopolio esistente nel campo bancario, aggravato dalla tattica dei colpi di mano cui i grandi imprenditori devono ricorrere nell'angustia generale per assicurarsi credito.

Nelle campagne il processo della crisi è piú strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi il bilancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli proprietari è stato gravato di un passivo di circa 7.000 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell'Italia settentrionale e centrale. Nel Mezzogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l'assenza dell'emigrazione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminuzione della superficie coltivata e quindi del raccolto. Il raccolto del grano è stato l'anno scorso di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato su scala nazionale superiore alla media, ma è stato inferiore alla media nel Mezzogiorno. Quest'anno il raccolto è stato inferiore alla media in tutta Italia; è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata, le quali impediscono alla crisi di rivelarsi in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitalismo: tuttavia già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popolare determinato dal disagio economico.

La crisi generale del sistema capitalistico non è stata dunque arrestata dal regime fascista. In regime fascista le possibilità di esistenza del popolo italiano sono diminuite. Si è verificata una restrizione dell'apparato produttivo proprio nello stesso tempo in cui aumentava la pressione demografica per le difficoltà dell'emigrazione transoceanica. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro, dal carovita: ciò ha determinato una emigrazione di operai qualificati, cioè un impoverimento delle forze produttive umane che erano una delle piú grandi ricchezze nazionali. Le classi medie, che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l'espressione della crisi capitalistica in questo periodo.

Questi elementi, rapidamente accennati, servono solo per ricordare tutta la portata della situazione attuale che non ha in se stessa nessuna virtù di risanamento economico. La crisi economica italiana può solo essere risolta dal proletariato. Solo inserendosi in una rivoluzione europea e mondiale il popolo italiano può riacquistare la capacità di far valere le sue forze produttive umane e ridare sviluppo all'apparato nazionale di produzione. Il fascismo ha solo ritardato la rivoluzione proletaria, non l'ha resa impossibile: esso ha contribuito anzi ad allargare ed approfondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l'esperimento fascista sarà veramente popolare.

La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua prima manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale italiana, cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato. Le elezioni del 6 aprile, avendo mostrato quanto fosse solo apparente la stabilità del regime, rincuorarono le masse, determinarono un certo movimento nel loro seno, segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti e che ancora oggi caratterizza la situazione. Le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme: l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista operava potentemente a disciogliere tutti gli organismi dello Stato controllati e dominati dal fascismo, si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui la inaudita campagna di minaccie contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario. L'ondata di sdegno suscitata dal delitto sorprese il partito fascista che rabbrividì di panico e si perdette: i tre documenti scritti in quell'attimo angoscioso dall'on. Finzi, dal Filippelli, da Cesarino Rossi e fatti conoscere alle opposizioni, dimostrano come le stesse cime del partito avessero perduto ogni sicurezza e accumulassero errori su errori; da quel momento il regime fascista è entrato in agonia; esso è sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici, ma è sorretto cosí come la corda sostiene l'impiccato.

Il delitto Matteotti dette la prova provata che il partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane piú che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolivar, dei Garibaldi.

L'ondata popolare antifascista provocata dal delitto Matteotti trovò una forma politica nella secessione dall'aula parlamentare dei partiti di opposizione. L'Assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese: la crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale, acquistò cosí uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato, un governo antifascista contro il governo fascista. Il partito fascista fu impotente a frenare la situazione: la crisi lo aveva investito in pieno, devastando le fila della sua organizzazione: il primo tentativo di mobilitazione della milizia nazionale fallì in pieno, solo il 20 per cento avendo risposto all'appello; a Roma solo 800 militi si presentarono alle caserme. La mobilitazione diede risultati rilevanti solo in poche province agrarie, come Grosseto e Perugia, permettendo cosí di far calare a Roma qualche legione decisa ad affrontare una lotta sanguinosa.

Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento popolare antifascista; esse rappresentano politicamente l'ondata di democrazia che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le opposizioni si era orientata all'inizio anche l'opinione della grande maggioranza del proletariato. Era dovere di noi comunisti cercare di impedire che un tale stato di cose si consolidasse permanentemente. Perciò il nostro gruppo parlamentare entrò a far parte del Comitato delle opposizioni accettando e mettendo in rilievo il carattere precipuo che la crisi politica assumeva di esistenza di due poteri, di due parlamenti. Se avessero voluto compiere il loro dovere, cosí come era indicato dalle masse in movimento, le opposizioni avrebbero dovuto dare una forma politica definita allo stato di cose obbiettivamente esistente, ma esse si rifiutarono. Sarebbe stato necessario lanciare un appello al proletariato, che solo è in grado di sostanziare un regime democratico, sarebbe stato necessario approfondire il movimento spontaneo di scioperi che andava delineandosi. Le opposizioni ebbero paura di essere travolte da una possibile insurrezione operaia: non vollero perciò uscire dal terreno puramente parlamentare nelle questioni politiche e dal terreno del processo per l'assassinio dell'on. Matteotti nella campagna per tenere desta l'agitazione nel paese. I comunisti, che non potevano accettare la forma di blocco di partiti data al Comitato delle opposizioni, furono messi alla porta.

La nostra partecipazione in un primo tempo al comitato e la nostra uscita in un secondo tempo hanno avuto come conseguenza:

1) ci hanno permesso di superare la fase piú acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici; rimanendo isolato, il nostro partito sarebbe stato travolto dall'ondata democratica; 2) abbiamo spezzato il monopolio dell'opinione pubblica che le opposizioni minacciavano di instaurare: una parte sempre maggiore della classe lavoratrice va convincendosi che il blocco delle opposizioni rappresenta un semifascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefici che il terrore e l'illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni con l'abbassamento del livello di vita del popolo italiano.

La situazione obbiettiva, dopo due mesi, non è mutata. Esistono ancora di fatto due governi nel paese che lottano l'un contro l'altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese. L'esito della lotta dipenderà dai riflessi che la crisi generale eserciterà nel seno del Partito nazionale fascista, dall'atteggiamento definitivo dei partiti che costituiscono il blocco delle opposizioni, dall'azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro partito.

In che cosa consiste la crisi del fascismo? Per comprenderla si dice che occorra prima definire l'essenza del fascismo, ma la verità è che non esiste una essenza del fascismo nel fascismo stesso. L'essenza del fascismo era data negli anni 1922-23 da un determinato sistema dei rapporti di forza esistenti nella società italiana: oggi questo sistema è profondamente mutato e l'«essenza» è svaporata alquanto. Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell'essere riuscito a costituire un'organizzazione di massa della piccola borghesia. È la prima volta nella storia che ciò si verifica. L'originalità del fascismo consiste nell'aver trovato la forma adeguata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia unitaria: questa forma di organizzazione è l'esercito in campo. La milizia è quindi il perno del Partito nazionale fascista: non si può sciogliere la milizia senza sciogliere anche tutto il partito. Non esiste un partito fascista che faccia diventare qualità la quantità, che sia un apparato di selezione politica d'una classe o di un ceto: esiste solo un aggregato meccanico indifferenziato e indifferenziabile dal punto di vista delle capacità intellettuali e politiche, che vive solo perché ha acquistato nella guerra civile un fortissimo spirito di corpo, rozzamente identificato con l'ideologia nazionale. Fuori del terreno dell'organizzazione militare il fascismo non ha dato e non può dare niente, e anche su questo terreno ciò che esso può dare è molto relativo.

Cosí congegnato dalle circostanze, il fascismo non è in grado di conseguire nessuna delle sue premesse ideologiche. Il fascismo dice oggi di voler conquistare lo Stato; nello stesso tempo dice di voler diventare un fenomeno prevalentemente rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme è difficile comprendere. Per conquistare lo Stato occorre essere in grado di sostituire la classe dominante nelle funzioni che hanno una importanza essenziale per il governo della società. In Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che parlamento nell'organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nell'organizzazione dell'economia nazionale e internazionale.

La formula «conquista dello Stato» è vuota di senso in bocca ai fascisti o ha un solo significato: escogitazione di un meccanismo elettorale che dia la maggioranza parlamentare ai fascisti sempre e ad ogni costo. La verità è che tutta l'ideologia fascista è un trastullo per i balilla. Essa è un'improvvisazione dilettantesca, che nel passato, con la situazione favorevole, poteva illudere i gregari, ma oggi è destinata a cadere nel ridicolo presso i fascisti stessi. Residuo attivo del fascismo è solo lo spirito militare di corpo cementato dal pericolo di uno scatenamento di vendetta popolare: la crisi politica della piccola borghesia, il passaggio della stragrande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni, il fallimento delle misure generali annunziate dai capi fascisti possono ridurre notevolmente l'efficienza militare del fascismo, non possono annullarla.

Il sistema delle forze democratiche antifasciste trae la sua forza maggiore dall'esistenza del Comitato parlamentare delle opposizioni che è riuscito a imporre una certa disciplina a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popolare. Che massimalisti e popolari ubbidiscano a una stessa disciplina e lavorino in uno stesso piano programmatico, ecco il tratto piú caratteristico della situazione. Questo fatto rende lento e faticoso il processo di sviluppo degli avvenimenti e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettativa, di lente manovre avvolgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al comitato e con l'accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante tra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà piú possibile se non molto piú tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un'insurrezione delle masse disilluse e del fascismo e dell'antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce da una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell'ottobre 1922, che diventerebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti dal blocco e di una loro alleanza con noi.

Lo sforzo maggiore dei partiti intermedi (riformisti e costituzionali) aiutati dai popolari di sinistra è stato rivolto finora a questo scopo: mantenere nella stessa compagine i due estremi. Lo spirito servile dei massimalisti si è adattato alla parte dello sciocco nella commedia: i massimalisti hanno accettato di valere nelle opposizioni quanto il partito dei contadini o i gruppi di Rivoluzione liberale.

Le forze piú grandi sono portate alle opposizioni dai popolari e dai riformisti che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L'influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l'adesione di larghi strati dell'esercito, del combattentismo, della corte. La divisione del lavoro di agitazione avviene tra i vari partiti a seconda della loro tradizione e del loro compito sociale. I costituzionali, poiché la tattica del blocco tende a isolare il fascismo, hanno la direzione politica del movimento. I popolari conducono la campagna morale sulla base del processo e delle sue concatenazioni col regime fascista, con la corruzione e la criminalità fiorite intorno al regime. I riformisti riassumono questi due atteggiamenti e si fanno piccini per far dimenticare il loro passato demagogico, per far credere redenti e di essere tutt'una cosa con l'onorevole Amendola e col senatore Albertini.

L'atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni ha registrato dei successi notevoli: è un successo indubbiamente aver provocato la crisi del «fiancheggiamento», aver cioè obbligato i liberali a differenziarsi attivamente dal fascismo e a porgli delle condizioni. Ciò ha avuto già e piú avrà in seguito ripercussioni nel seno del fascismo stesso, e ha creato un dualismo tra il partito fascista e l'organizzazione centrale del combattentismo. Ma esso ha spostato ancora a destra il punto di equilibrio del blocco delle opposizioni, cioè ha accentuato il carattere conservatore dell'antifascismo: i massimalisti non se ne sono accorti, i massimalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Albertini, ma anche di Salandra e di Cadorna.

Come si risolverà questo dualismo di poteri? Ci sarà un compromesso tra il fascismo e le opposizioni? E se il compromesso sarà impossibile, avremo una lotta armata?

Il compromesso non è da escludere assolutamente; esso è però molto improbabile. La crisi che attraversa il paese non è un fenomeno superficiale, sanabile con piccole misure e piccoli espedienti: essa è la crisi storica della società capitalista italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della popolazione. Tutti i rapporti sono esasperati: grandissime masse di popolazione attendono ben altro che un piccolo compromesso. Se questo si verificasse, esso significherebbe il suicidio dei maggiori partiti democratici; all'ordine del giorno della vita nazionale si porrebbe immediatamente l'insurrezione armata coi fini piú radicali. Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati. La cronaca quotidiana registra perciò solo un susseguirsi di episodi politici che denotano il disgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma inesorabile del sistema fascista di tutte le forze periferiche.

Avverrà dunque un urto armato? Una lotta in grande stile sarà evitata sia dalle opposizioni che dal fascismo. Avverrà il fenomeno inverso che nell'ottobre 1922: allora la marcia su Roma fu la parata coreografica d'un processo molecolare per cui le forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali, Vaticano, massoneria, Corte, ecc.) erano passate dalla parte del fascismo. Se il fascismo volesse resistere, esso sarebbe distrutto in una lunga guerra civile alla quale non potrebbero non prendere parte il proletariato e i contadini. Opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo s'impegni. Il fascismo tenderà invece a conservare una base di organizzazione armata da far rientrare in campo appena si profili una nuova ondata rivoluzionaria, ciò che è ben lungi dal dispiacere agli Amendola e agli Albertini e anche ai Turati e ai Treves.

Il dramma si svolgerà a data fissa, con ogni probabilità; esso è predisposto per il giorno in cui si dovrebbe riaprire la Camera dei deputati. Alla coreografia militaresca dell'ottobre '22 sarà sostituita una piú sonora coreografia democratica. Se le opposizioni non rientrano nel Parlamento, e i fascisti, come vanno dicendo, convocano la maggioranza come costituente fascista, avremo una riunione delle opposizioni e una parvenza di lotta tra le due assemblee.

È possibile però che la soluzione si abbia nella stessa aula parlamentare, dove le opposizioni rientreranno nel caso molto probabile di una scissione della maggioranza, per cui il governo di Mussolini sia messo nettamente in minoranza. Avremo in questo caso la formazione di un governo provvisorio di generali, senatori ed ex presidenti del consiglio, lo scioglimento della Camera e lo stato d'assedio.

Il terreno su cui la crisi si svolgerà continuerà ad essere il processo per l'assassinio Matteotti. Avremo ancora delle fasi acutamente drammatiche in proposito, quando saranno resi pubblici i tre documenti di Finzi, di Filippelli, di Rossi, e le piú alte personalità del regime saranno travolte dalla passione popolare. Tutte le forze reali dello Stato, e specialmente le forze armate, intorno alle quali già si comincia a discutere, dovranno schierarsi definitivamente da una parte o dall'altra, imponendo la soluzione già delineata e concertata.

Quale deve essere l'atteggiamento politico e la tattica del nostro partito nella situazione attuale? La situazione è «democratica» perché le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto. Qualunque possa essere perciò lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propaganda, di organizzazione. Ciò naturalmente non esclude che lotte cruente possano verificarsi e che il nostro partito non debba subito prepararsi e essere pronto ad affrontarle, tutt'altro: ma anche queste lotte devono essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza. Se esistono nel nostro partito gruppi e tendenze che vogliano per fanatismo forzare la situazione, occorrerà lottare contro di essi in nome dell'intiero partito, degli interessi vitali e permanenti della rivoluzione proletaria italiana. La crisi Matteotti ci ha offerto molti insegnamenti a questo proposito. Ci ha insegnato che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vogliono fare il passo piú lungo della gamba. Questa prudenza si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chiama «blocco delle opposizioni». Essa è destinata a scomparire, certamente e anche in un periodo di tempo non lungo; ma intanto esiste e può essere superata solo se noi volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l'insieme della classe lavoratrice. Cosí dobbiamo lottare contro ogni tendenza di destra, che volesse un compromesso con le opposizioni, che tentasse di intralciare gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il lavoro di preparazione per la fase successiva.

Il primo compito del nostro partito consiste nell'attrezzarsi in modo da diventare idoneo alla sua missione storica. In ogni fabbrica, in ogni villaggio deve esistere una cellula comunista, che rappresenti il partito e l'Internazionale, che sappia lavorare politicamente, che abbia dell'iniziativa. Bisogna perciò lottare contro una certa passività che esiste ancora nelle nostre file, contro la tendenza a tenere angusti i ranghi del partito. Dobbiamo invece diventare un grande partito, dobbiamo cercare di attirare nelle nostre organizzazioni il piú gran numero possibile di operai e contadini rivoluzionari per educarli alla lotta, per formarne degli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente. Lo Stato operaio e contadino può essere costruito solo se la rivoluzione disporrà di molti elementi qualificati politicamente; la lotta per la rivoluzione può essere condotta vittoriosamente solo se le grandi masse sono, in tutte le loro formazioni locali, inquadrate e guidate da compagni onesti e capaci. Altrimenti si torna davvero, come gridano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell'impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della sconfitta delle classi lavoratrici. Neanche noi comunisti vogliamo tornare agli anni 1919-20.

Un grande lavoro deve essere compiuto dal partito nel campo sindacale. Senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare. I riformisti possono volere dei piccoli sindacati, possono tentare di formare solo delle corporazioni di operai qualificati. Noi comunisti vogliamo il contrario dei riformisti e dobbiamo lottare per riorganizzare la grandi masse. Certo bisogna porsi il problema concretamente e non solo come forma. Le masse hanno abbandonato il sindacato, perché la Confederazione generale del lavoro, che pure ha una grande efficienza politica (essa è nient'altro che il partito unitario), non si interessa degli interessi vitali delle masse. Noi non possiamo proporci di creare un nuovo organismo che abbia lo scopo di supplire la latitanza della confederazione; possiamo però e dobbiamo proporci il problema di sviluppare, attraverso le cellule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il partito comunista rappresenta la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane. Le nostre cellule devono spingere le commissioni interne a incorporare nel loro funzionamento tutte le attività proletarie. Occorre pertanto suscitare un largo movimento delle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un'organizzazione di comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore. Questa azione reale nella fabbrica e nel villaggio rivalorizzerà il sindacato, ridonandogli un contenuto e una efficienza, se parallelamente si verificherà il ritorno all'organizzazione di tutti gli elementi d'avanguardia per la lotta contro i dirigenti attuali riformisti e massimalisti. Chi si tiene lontano dai sindacati è oggi un alleato dei riformisti, non un militante rivoluzionario: egli potrà fare della fraseologia anarcoide, non sposterà di una linea le ferree condizioni in cui la lotta reale si svolge.

La misura in cui il partito nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli iscritti, riuscirà a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico sarà la misura dei nostri progressi nel cammino della rivoluzione, consentirà il passaggio a una fase successiva di sviluppo. Tutto il partito, in tutti i suoi organismi, ma specialmente con la sua stampa, deve lavorare unitariamente per ottenere il massimo rendimento del lavoro di ognuno. Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati. Per ottenere ciò occorre riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione lavoratrice veda l'espressione della sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nella storia.

La caduta del fascismo55

Primo: vi è un problema politico contingente, e cioè come si rovescia il ministero presieduto da Benito Mussolini. Le opposizioni borghesi, le quali hanno posto questo problema nel modo piú ristretto possibile, credendo cosí di aver un compito piú facile da assolvere, si stanno dibattendo dal mese di giugno in un vicolo cieco. Pensare infatti di ridurre la crisi del ministero Mussolini a una qualsiasi crisi ministeriale è cosa assurda. Anzitutto vi è la milizia che obbedisce solo a Mussolini e lo pone assolutamente al di fuori del terreno di una manovra politica normale. Per superare l'ostacolo della milizia si è lottato per parecchi mesi, ma sopra un terreno inadeguato. Si è lavorato l'esercito, si è scoperto il re. Ma alla fine ci si è trovati al punto di prima. Mussolini non se ne va. Anche, dato che con la milizia si possano fare i conti a buon mercato, non appena la questione della eliminazione di Mussolini dal governo viene posta in modo concreto, un problema non solo piú grave ma di carattere ancora piú decisivo si presenta: chi farà il processo Matteotti? Un governo Mussolini non può lasciar fare il processo Matteotti. I motivi sono noti. Ma Mussolini non se ne può nemmeno andare e non se ne andrà fino a che non è sicuro che il processo non verrà fatto, né da lui né da nessuno. Anche qui i motivi tutti li sanno. Non fare il processo (e non fare il processo vuoi dire liberare, presto o tardi e forse piú presto che tardi, gli attuali arrestati) vuol però dire andare incontro a una insurrezione dell'opinione pubblica, vuol dire porre il governo alla mercé di qualsiasi ricattatore e spacciatore di documenti riservati e mantenersi ritti sul filo di una spada. Non fare il processo vuol dire lasciare una piaga sempre aperta, con la possibilità di una «opposizione morale» ben piú importante ed efficace, in determinate occasioni, di qualsiasi opposizione politica. Ora, che la borghesia, in «ogni» sua frazione, sia disposta a non parlar piú né del delitto né del processo, pur di ridare saldezza al suo regime, è cosa da non mettere in dubbio. Si dice che il tema sia anzi già stato sviluppato, in riunioni delle opposizioni. Ma altrettanto vero è che la campagna sul delitto e per il processo non può essere lasciata in retaggio a gruppi antiborghesi, ad esempio, a un partito proletario. Metter le cose in tacere, non significherebbe infatti ottenere che 39 milioni di italiani se ne dimentichino. Nessuna novità, dunque, per vie normali. La politica del fascismo e della borghesia reazionaria si è inceppata — il giorno in cui l'opinione pubblica è unanimemente insorta per il delitto Matteotti, e Mussolini è stato travolto da questa insurrezione fino a compiere alcune mosse che dovevano avere ed avranno conseguenze incalcolabili — in un ostacolo irremovibile. Per qualcosa di simile e di molto meno grave, ai tempi del processo Dreyfus, la società e lo Stato francese furono portati fino sul limite di una rivoluzione. Era però in gioco, si dice, qualcosa di piú profondo di una questione morale, era in gioco un problema di rotazione di classi e categorie sociali al governo. Ma anche in Italia, e con le dovute aggravanti, è cosí.

E veniamo quindi al secondo aspetto del problema, al problema sostanziale, non del ministero Mussolini, o della milizia, o del processo, e simili, ma del regime di cui la borghesia ha dovuto servirsi per spezzare le forze del movimento proletario. Questo secondo aspetto è, per noi e per tutti, l'essenziale, ma è collegato col primo inscindibilmente. Anzi, tutti i dilemmi e le incertezze e difficoltà che rendono impossibile la previsione di una soluzione di carattere limitato, come hanno in mente le opposizioni e tutti i borghesi, sono un sintomo di contrasti sostanziali profondissimi. Alla base di tutto vi è il problema stesso del fascismo, movimento che la borghesia riteneva dovesse essere semplice «strumento» di reazione nelle sue mani ed invece, una volta evocato e scatenato, è peggio del diavolo, e non si lascia piú dominare, ma va avanti per conto suo. L'uccisione di Matteotti, dal punto di vista della difesa del regime, fu un profondissimo errore. L'«affare» del processo, che nessuno riesce a liquidare in modo pulito, è tale una ferita nel fianco del regime quale nessun movimento rivoluzionario, nel giugno 1924, era in grado di aprire. Esso è del resto non altro che la espressione e la conseguenza diretta della tendenza del fascismo a non porsi piú come semplice «strumento» della borghesia, ma a procedere nella serie delle sopraffazioni, delle violenze, dei delitti, secondo una sua ragione interna, che degli interessi della conservazione del regime attuale finisce per non tenere piú conto.

Ed è quest'ultimo punto quello che noi dobbiamo esaminare e giudicare piú attentamente, per avere un filo direttivo nella risoluzione del problema che stiamo discutendo. La tendenza del fascismo che abbiamo cercato di caratterizzare spezza l'alternativa normale di periodi di reazione e periodi di «democrazia» in modo che a tutta prima può sembrare favorevole alla conservazione di una linea reazionaria e ad una piú rigida difesa del regime capitalistico, ma in realtà può risolversi nel contrario. Vi sono infatti elementi i quali influiscono sulla situazione in modo recisamente contrario ad ogni piano di conservazione del regime borghese e dell'ordine capitalistico. Vi è la crisi economica, vi è il disagio delle grandi masse, vi è la esasperazione provocata dalla compressione fascista e poliziesca. Vi è una situazione tale per cui, mentre i centri politici della borghesia non riescono a concludere le loro manovre di salvataggio, si rende sempre piú possibile l'intervento in campo delle forze della classe lavoratrice, e il dilemma fascismo-democrazia tende a convertirsi, nell'altro: fascismo-insurrezione proletaria.

La cosa può essere tradotta anche in termini molto concreti. Nel giugno, immediatamente dopo il delitto Matteotti, il colpo subito dal regime fu cosí forte che un intervento immediato di una forza rivoluzionaria ne avrebbe posto in pericolo le sorti. L'intervento non fu possibile perché nella maggioranza le masse erano o incapaci di muoversi oppure orientate verso le soluzioni intermedie, sotto la influenza dei democratici e dei socialdemocratici. Sei mesi di incertezza e di crisi senza vie di uscita hanno accelerato inesorabilmente il processo di distacco delle masse dai gruppi borghesi e di adesione al partito e alle tesi rivoluzionarie. La liquidazione completa della posizione delle opposizioni, la quale appare ogni giorno piú certa, darà a questo processo una spinta definitiva. Allora, anche di fronte alle masse, il problema della caduta del fascismo si presenterà nei suoi termini veri.

Dopo il discorso del 3 gennaio56

Situazione politica

Nell'ultima riunione del Comitato centrale si era detto che la situazione politica e generale era tale da far giudicare che la parola d'ordine dei comitati operai e contadini potesse trasformarsi da parola di agitazione in parola di azione: potesse, cioè entrare nella fase della realizzazione concreta. A questa realizzazione noi avevamo affermato che doveva essere rivolta l'attività del partito e dei suoi organi; fino ad oggi, però, non abbiamo ottenuto in questo campo grandi risultati.

Come si è intanto sviluppata la situazione politica in questo periodo di tempo? Le opposizioni avevano pensato effettivamente a provocare un movimento antifascista, il quale avrebbe dovuto avere il suo sbocco a Milano, con cui giungere alla caduta del fascismo e alla instaurazione della dittatura militare. Ma quando si trattò di affrontare concretamente il problema della esecuzione di questo piano, nel Comitato delle opposizioni si manifestarono delle divergenze e dei dissidi, naturalmente difficili da superare, e in realtà non si concluse nulla di serio. Il fascismo, consapevole di questo piano delle opposizioni, reagì con un'azione che ebbe come suo punto culminante il famoso discorso di Mussolini; e il governo, con i provvedimenti relativi alla stampa i quali resero impossibile la pubblicazione dei documenti scandalistici che servivano all'opposizione per la sua campagna fra le masse popolari, tolse all'Aventino l'unica sua forza e liquidò senz'altro le opposizioni.

Le opposizioni avevano sperato nel re; ma con la loro azione spinsero invece il re a legarsi maggiormente a Mussolini, poiché il re ebbe paura della situazione che le opposizioni andavano determinando, tanto è vero che persino alcuni elementi della Corte avevano sconsigliato la pubblicazione del memoriale Rossi che segnò l'inizio della controffensiva fascista.

Cadute cosí le speranze delle opposizioni, l'azione loro fu trasmessa a Giolitti, Salandra e Orlando, che presero posizione contro la legge elettorale, e intorno ai quali si determinò la formazione di un grande blocco democratico-popolare con a capo Giolitti.

L'Aventino ha oggi finito la sua funzione storica: la parte borghese di esso prende una posizione propria e nuova e da luogo alla formazione di un centro liberale-costituzionale con fisionomia e programma politico proprio. Nel seno dell'Aventino vi sono tuttavia degli elementi che tendono ad altri sbocchi: questi elementi sanno che le forze costituzionali dell'Aventino vogliono soltanto succedere a Mussolini e che si serviranno del comitato d'azione delle opposizioni soltanto come di un comitato di provocazione (il quale, tuttavia, farà molto poco poiché Giolitti vuole evitare ogni azione violenta); ma credono di poter restare con le forze costituzionali dell'opposizione, per utilizzarne le disponibilità finanziarie e materiali, e di poter cospirativamente allargare e acutizzare l'azione in modo da condurla a soluzioni diverse da quelle a cui tendono quelle forze costituzionali. In questo senso tali elementi hanno parlato con noi e ci hanno anche fatto delle proposte. Noi non abbiamo nessuna fiducia in questi elementi; tuttavia crediamo necessario seguirne attentamente l'attività, porli dinanzi a problemi concreti e prospettare loro chiaramente quella che potrebbe essere la nostra piattaforma di azione. Le forze di questi gruppi del resto sono scarse e si riassumono in pochi repubblicani, negli aderenti all'«Italia libera», nei migliolisti e in pochi unitari.

Da parte del fascismo o, meglio, di Mussolini, si tende con la nuova legge elettorale a ottenere un risultato elettorale uguale a quello dello scorso 6 aprile, ma in modo pacifico e su di una piattaforma mussoliniana anziché fascista. Mussolini poggia oggi, piú che sugli elementi estremisti del suo partito, su di una riorganizzazione della Confederazione generale dell'industria che sposti la situazione; egli accetta in realtà il programma dei fiancheggiatori, sebbene se ne sia separato nel campo parlamentare. Liberandosi degli elementi squadristi estremisti, Mussolini formerà un partito conservatore e, con la nuova legge elettorale, riuscirà senza difficoltà a formarsi una maggioranza mussoliniana anziché fascista, senza violenza fisica e sostituendo a tale violenza la frode.

Tra le forze antifasciste, quelle confederali sono certamente le maggiori, ma tutta la tattica confederale è rivolta a eliminare le forze rivoluzionarie in modo da far sembrare che esse siano scomparse.

La tattica confederale, d'altra parte, rende piú evidente dinanzi alle masse la necessità che i comitati operai e contadini diventino una realtà, poiché le masse operaie, come classe, non possono fare a meno di cercare degli organi e delle forme in cui sia loro possibile trovare un'espressione politica propria. Quando nel 1919 i sindacati abbandonarono il terreno di classe, la massa trovò nel Consiglio di fabbrica la sua espressione politica con cui affermava una volontà diversa da quella che i dirigenti sindacali esprimevano con i loro organismi sindacali. Oggi i confederali costringono nuovamente gli operai a cercarsi la loro via e il loro mezzo di espressione, per cui la nostra parola d'ordine dei comitati operai e contadini diventa piú che mai viva e reale.

La tattica confederale crea anche la tendenza a non organizzarsi e a far convergere tutto il nostro lavoro, anche nel campo sindacale, verso l'organizzazione dei comitati operai e contadini.

La situazione economica generale e soprattutto l'aumento del prezzo del pane ci danno i maggiori argomenti per la nostra propaganda e la nostra campagna.

Nel corso di questo ultimo periodo, non si è presentata al partito la possibilità di fare delle proposte alle opposizioni. In generale, le masse non credevano piú nelle opposizioni e, d'altra parte, sentivano che nelle opposizioni qualcuno avrebbe voluto fare qualcosa. Per questo si era prodotto quello stato di incertezza e di disintegrazione caratteristico di questi ultimi tempi e nel quale le iniziative trovavano un terreno sfavorevole.

Una situazione identica si era anche determinata nel campo parlamentare. Noi siamo rientrati nel Parlamento nel modo che vi è noto e col discorso di Grieco, che sfatò molte leggende messe in giro dalle opposizioni sul conto nostro, e che ebbe una buona ripercussione fra le masse. Ma il nostro intervento ultimo non ebbe il successo che aveva avuto il primo nostro intervento alla Camera. Il Parlamento ha ormai perduto ogni importanza dinanzi al paese, e il momento stesso della nostra rientrata aveva perduto molta della drammaticità del primo momento della ripresa parlamentare. D'altra parte anche i fascisti, compresi i meno intelligenti, hanno imparato in questo periodo di tempo a diventare degli uomini politici, e cioè a saper ingoiare dei rospi per ottenere determinati scopi politici; e ciò ha aumentato le difficoltà del nostro intervento, che dal punto di vista parlamentare e in quanto si riferisce al modo come esso è avvenuto non ha avuto un grande successo. Nel meccanismo parlamentare noi non siamo molto addestrati ancora.

In conclusione, possiamo dire che questo ultimo periodo di tempo ha avuto il valore di portare a una maggiore chiarificazione della situazione e degli atteggiamenti politici: oggi siamo di fronte alla formazione del partito conservatore che permetterà a Mussolini di rimanere ancora al potere, alla formazione di un centro liberale-costituzionale che raccoglie tutte le forze costituzionali dell'opposizione, a una sinistra rappresentata dal nostro partito. Tutti gli altri gruppi perdono di mano in mano ogni importanza: essi vanno scomparendo e sono destinati a scomparire. L'Aventino è disgregato, sebbene continui a vivere, piú che altro, come un insieme di blocchi; i popolari hanno disgregato l'Aventino con quella loro affermazione che da ogni partito delle opposizioni potevano essere fatte delle dichiarazioni programmatiche e di principio. Gli unitari si sono posti completamente sul terreno costituzionale; quanto ai massimalisti, essi sentono che le opposizioni vorrebbero cacciarli dal loro seno per formare un blocco elettorale da cui debbono naturalmente essere esclusi i gruppi politici che, anche soltanto verbalmente, facciano delle affermazioni anticostituzionali; ma i massimalisti faranno il possibile per trovare un compromesso e per restare nelle opposizioni.

Con coloro che, nel seno dell'opposizione, vogliono l'insurrezione noi dobbiamo mantenere dei rapporti; anzitutto perché ciò ci è utile dal punto di vista informativo, e poi perché è bene seguire certe correnti che si vanno determinando e dalle quali si sentono, ad esempio, delle dichiarazioni come la seguente: non vi è piú via di mezzo tra il fascismo e il comunismo, e noi scegliamo il comunismo. Affermazioni di questo genere, oltre ad avere un valore reale, sono anche degli indizi non trascurabili della disgregazione che va producendosi e approfondendosi nell'Aventino.

Particolarmente ci interessano gli atteggiamenti di Miglioli e di Lussu. Miglioli riprende la pubblicazione del suo giornale e, con la richiesta di mezzi da parte nostra, si lega a noi, mentre accetta una redazione formata in parte di elementi nostri. In questo giornale, che temporaneamente rimane organo estremista popolare, Miglioli farà una campagna in favore dell'adesione all'Internazionale rossa dei contadini; nel campo dell'organizzazione, egli convocherà dei convegni contadini ai quali parteciperanno rappresentanti nostri e dell'Internazionale rossa dei contadini.

Anche l'atteggiamento di Lussu, che chiede di andare a Mosca e fa delle dichiarazioni interessanti, dimostra uno spostamento di forze nelle masse dei contadini da cui i dirigenti sono premuti e che ha per noi un valore.

In generale, la disgregazione dell'Aventino ha rafforzato le tendenze rivoluzionarie e rivela uno spostamento delle masse alla base: in questi mesi non è stato possibile ottenere in forme organizzative la dimostrazione di questo spostamento: ma esso è avvenuto, e verso di noi; in forma molecolare, ma è avvenuto.

Quale sarà il lavoro pratico che il partito dovrà svolgere in base all'esame della situazione?

Noi dobbiamo intensificare l'attività rivolta a illustrare in mezzo alle masse il significato e il valore della nostra parola d'ordine dei comitati operai e contadini.

Dobbiamo impostare la lotta politica in forma piú chiara per tutti gli operai.

Dobbiamo mettere all'ordine del giorno (come preparazione concreta e non come soluzione immediata) il problema della preparazione dell'insurrezione. Gli ultimi avvenimenti politici segnano l'inizio di una fase in cui l'insurrezione diventa una possibilità, diventa l'unico mezzo di espressione della volontà politica delle masse alle quali è tolta ogni altra forma di espressione. Il partito ha il dovere di apprestare alle masse i mezzi adeguati. Noi dobbiamo perciò:

allargare le basi della nostra organizzazione;

organizzare le cellule di strada, le quali debbono anche avere un compito di controllo su tutta la vita della popolazione delle grandi città, in modo che al momento utile sia possibile da parte nostra il dare quei colpi decisivi che assicurano il successo all'insurrezione;

porci il problema dell'armamento, il quale deve essere considerato sotto due aspetti: l'organizzazione degli uomini e la preparazione necessaria per l'acquisto e l'immagazzinamento delle armi. Questa seconda parte del problema potrà essere risolta con maggiore facilità se il partito, come massa, lavorerà convenientemente nelle cellule di strada;

indicare alle cellule di strada il lavoro politico che esse debbono compiere anche in rapporto alla parola d'ordine dei comitati operai e contadini, i quali non possono essere costituiti soltanto dagli operai di officina, ma debbono diventare degli organismi di massa, con la partecipazione di tutta la popolazione che non è raccolta nelle officine e con l'intervento delle donne.

In tutto il nostro lavoro politico dobbiamo osservare il principio fondamentale: non lanciare mai parole d'ordine troppo lontane dalle forze di cui disponiamo; far coincidere a ogni parola d'ordine una preparazione reale e materiale adeguata.

Inoltre occorre allargare il centro del partito. Occorre che il partito possa disporre di un suo Comitato esecutivo politico (nel senso che sia dedicato largamente al lavoro politico che oggi è necessario svolgere) e degli organi appositi per il lavoro di organizzazione. Le nostre forze organizzative sono insufficienti, e noi dobbiamo porci il problema di aumentarle. Il Comintern vorrebbe che il partito dotasse ogni federazione di un funzionario: ciò non ci sarà possibile, per ora; ma noi dobbiamo almeno giungere alla creazione dei segretari regionali per tutte le regioni d'Italia, e specialmente per quelle dove il movimento è meno sviluppato e occorre quindi un maggior lavoro e una maggiore attività continuativa.

Il lavoro delle cellule è insufficiente. Bisognerebbe ottenere che ogni cellula facesse una relazione ogni settimana alla sua zona; la zona facesse una relazione quindicinale alle federazioni; e le federazioni inviassero almeno una volta al mese una diffusa relazione sul lavoro politico compiuto e sulla situazione locale all'Esecutivo. Sulla base di queste relazioni il Comitato esecutivo dovrebbe continuamente inviare alle federazioni delle istruzioni e delle indicazioni e dei suggerimenti che rendessero piú largo e completo e proficuo il lavoro in ogni luogo. Questo dovrebbe essere il lavoro politico principale dell'Esecutivo fra la massa del partito.

Il lavoro di carattere organizzativo dovrebbe essere affidato ad altri organi.

Quando si lancia una parola d'ordine importante come quella dei comitati operai e contadini, si segue tutta una gradazione di concetti. Tra la fase dell'agitazione e della propaganda e quella della realizzazione di tale parola d'ordine, corre un periodo per cosí dire crepuscolare, che è appunto quello da noi definito di «poco successo»; ma che non significa affatto che la parola d'ordine dei comitati operai e contadini sia stata o debba essere abbandonata. Dopo gli ultimi avvenimenti essa diventa anzi piú radicale, e rimane la nostra parola d'ordine, il centro della nostra azione, intorno alla quale si deve, naturalmente, svolgere tutto quel lavoro di agitazione a cui accenna il compagno Valle. Io ho già in questo senso dato delle istruzioni alle nostre federazioni: tutte le federazioni e le sezioni debbono, anzi, essere incaricate di studiare la situazione locale e i bisogni particolari degli operai dei diversi luoghi: questo esame preliminare costituisce il lavoro preparatorio di partito. In seguito i nostri organismi locali debbono organizzare dei convegni di officina nei quali i problemi della vita operaia vengono prospettati per riassumerli nella parola organizzativa generale della creazione dei comitati operai e contadini — organizzazioni di massa — incaricati della direzione delle agitazioni e delle manifestazioni operaie. Tutto il nostro lavoro deve essere svolto secondo questa direttiva.

Certamente noi dobbiamo far pressione sui bisogni della massa, ma per organizzarli in una forma che li riassuma, e che è quella dei comitati operai e contadini. Noi dobbiamo essere i motori di questa formazione: il processo è lento, ma avviene; e già fin d'oggi la nostra propaganda e la nostra agitazione coincidono con qualche prima realizzazione, sebbene ancora incerta.

Quanto alla nostra azione sindacale fra la massa, io ritengo che essa debba svolgersi anche fra la massa non organizzata sindacalmente. Ciò ci pone di fronte alla minaccia di una scissione sindacale, che formalmente dobbiamo evitare, ma che non ci deve immobilizzare. Noi riusciremo anzi a superarla nella misura in cui riusciremo a far dirigere il movimento dai comitati operai e contadini, nelle fabbriche e [...] cittadini.

Per ciò che si riferisce al partito massimalista, il compagno Serrati ha fatto l'opuscolo, che sarà pubblicato e diffuso. È certo che dobbiamo fare qualche cosa per illustrate la posizione del partito massimalista. Per determinare una maggiore attività nella sinistra del partito socialista e affrettare la disgregazione del partito, io credo che dobbiamo attaccare la sinistra stessa.

Serrati esagera quando dice che la situazione dall'ultima Centrale a oggi si è capovolta. Le opposizioni avevano un'influenza sulle masse, ma noi sappiamo, e lo abbiamo sempre affermato, che la borghesia è attaccata al fascismo: i borghesi e il fascismo stanno fra di loro nel rapporto con cui gli operai e i contadini si trovano verso il Partito comunista russo.

Serrati. Dicevo capovolta nel senso della speranza che era diffusa nelle masse.

Gramsci. Anche questo non è esatto.

Serrati. È almeno piú esatto.

Gramsci. Le masse erano influenzate dalla borghesia, ma con una grande oscurità e confusione: ora, dinanzi a cento di confusione, dieci di chiarezza rappresentano per noi un vantaggio.

Serrati. Hai ragione.

Gramsci. Oggi le classi hanno preso posizione su scala nazionale. Il fascismo ha ridato alla borghesia una coscienza e una organizzazione di classe. In questo processo di omogeneizzazione che si è compiuto la classe operaia ha pure fatto un progresso: si è uniformizzata. L'alleanza fra gli operai e i contadini ha fatto un passo in avanti; l'atteggiamento di Miglioli e di Lussu ne sono un indizio, e in questo senso hanno un valore e meritano la nostra attenzione. In quanto si è creato un nuovo ordinamento nelle forze sociali del paese, dobbiamo riconoscere che si è fatto un progresso.

L'attività del partito ha avuto delle manchevolezze. Ma non si può non riconoscere un notevole miglioramento nel partito in generale, una maggiore iniziativa nelle organizzazioni locali. Il partito è oggi uno strumento di lotta migliore che nel passato e migliorerà nel movimento e in quanto l'azione si intensificherà.

Il compagno Longo chiede delle indicazioni precise circa la creazione dei comitati operai e contadini e la funzione delle cellule: chi non ha voglia di lavorare dice: datemi un modello preciso e io inizio il lavoro. In realtà le cellule si sono fermate dal momento in cui hanno incominciato a lavorare. Qualsiasi definizione non porterebbe che alla passività e all'inazione.

La situazione attuale è situazione che richiede una agitazione generale: la insufficienza della nostra organizzazione, naturalmente, la ostacola. Occorre intensificare il nostro lavoro in tutti i campi dell'organizzazione e dell'agitazione

Per ciò che si riferisce al partito massimalista, sono d'accordo con Serrati: presenteremo alle masse la situazione del partito socialista, ma a scopo di agitazione, come agitazione e null'altro.

Questione sindacale

Il comitato sindacale deve diventare un organismo di massa, il quale diriga le masse operaie organizzate nella Confederazione generale del lavoro e quelle che ne sono fuori: evitando, naturalmente le scissioni e i contrasti con la confederazione, ma senza rinunciare a nessuna azione per il timore di questi contrasti. Noi dobbiamo servirci del nostro apparecchio sindacale per generalizzare, acutizzare e dirigere ogni movimento, fino alla creazione dei comitati operai e contadini.

L'attuale statuto della confederazione tende a impedire che qualunque membro della confederazione diventi responsabile dei movimenti di massa. Noi dobbiamo eludere questo tentativo. Lo statuto della confederazione non ci permetterà mai di conquistare questo organismo: come in Russia, noi dovremo creare un'organizzazione centralizzata dei consigli di fabbrica che sostituirà l'organizzazione attuale sindacale per la mobilitazione e l'azione delle masse.

Il nostro Comitato sindacale sarà modificato nel senso che il compagno Azzario sarà sostituito dal compagno Germanetto. Al compagno Azzario dobbiamo dire che la sua mozione ha violato la disciplina o meglio le direttive del partito. Certo, la Confederazione del lavoro non aspettava che un pretesto per espellerci, e qualsiasi mozione avrebbe forse avuto il risultato di quella presentata, ma la prima parte di questa mozione è certamente in contrasto con le direttive date dal Comitato sindacale.

Dobbiamo reagire contro la tendenza a non organizzarsi che l'atto della Confederazione generale del lavoro certamente alimenta fra gli operai.

Questione Trotskij

La mozione dovrebbe richiamarsi alla questione della bolscevizzazione dei partiti, questione che è posta all'ordine del giorno dell'Allargato.

Dovrebbe contenere l'esposizione del pensiero di Trotskij: le sue previsioni circa il supercapitalismo americano, il quale avrebbe un suo braccio in Europa nell'Inghilterra, e che produrrebbe una prolungata schiavitù del proletariato sotto il predominio del capitale americano. Noi respingiamo queste previsioni, le quali, rinviando la rivoluzione a tempo indefinito, sposterebbero tutta la tattica della Internazionale comunista, che dovrebbe tornare all'azione di propaganda e di agitazione fra le masse. E sposterebbero pure la tattica dello Stato russo, poiché se si rimanda la rivoluzione europea per una intera fase storica, se, cioè, la classe operaia russa non potrà, per un lungo periodo di tempo, contare sull'appoggio del proletariato di altri paesi, è evidente che la rivoluzione russa deve modificarsi. In questo senso è accolta con tanto favore la democrazia sostenuta da Trotskij.

Nella mozione si dovrebbe, inoltre, dire come le concezioni di Trotskij e soprattutto il suo atteggiamento rappresentano un pericolo, in quanto la mancanza di unità nel partito in un paese in cui vi è un solo partito, scinde lo Stato. Ciò produce un movimento controrivoluzionario; la qual cosa non significa, però, che Trotskij sia un controrivoluzionario: ché in questo caso ne dovremmo chiedere l'espulsione.

Dalla questione Trotskij si dovrebbero, infine, dedurre degli insegnamenti per il nostro partito. Trotskij, prima degli ultimi provvedimenti, si trovava nella posizione in cui attualmente si trova Bordiga nel nostro partito: egli aveva nel Comitato centrale una parte puramente figurativa. La sua posizione costituiva uno stato tendenziale di frazione, cosí come l'atteggiamento di Bordiga mantiene nel nostro partito una situazione frazionistica obbiettiva. Sebbene Bordiga abbia formalmente ragione, politicamente ha torto. Il Partito comunista italiano ha bisogno di avere la sua omogeneità e che sia abolita questa situazione potenziale di frazione.

L'atteggiamento di Bordiga, come fu quello di Trotskij, ha delle ripercussioni disastrose: quando un compagno che ha il valore di Bordiga si apparta, nasce negli operai una sfiducia nel partito, e quindi si produce del disfattismo. Cosí come in Russia, quando Trotskij assunse quel suo atteggiamento, molti operai pensarono che nella Russia tutto fosse in pericolo. Ciò che per fortuna apparve non vero.

La legge sulle associazioni segrete57

Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il partito fascista ha presentato questa legge rivolta prevalentemente contro la massoneria.

Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla «psicosi di guerra», quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata.

Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere — cosa allora inconcepibile per i fascisti stessi — se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad infrenare, con le armi, la sua avanzata sanguinosa.

Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler «conquistare lo Stato». Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria?

Poiché noi pensiamo che questa fase della «conquista fascista» sia una delle piú importanti attraversate dallo Stato italiano, e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, cosí crediamo necessaria un'analisi, anche se affrettata, della quistione.

Che cos'è la massoneria? Voi avete fatto molte parole sul significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo.

La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l'Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l'entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila.

È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un'infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi piú estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario.

Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna ricordare all'onorevole Martire come, accanto ai gesuiti che vestono l'abito talare, esistono i gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale montura che indichi il loro ordine religioso.

Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in tutta una serie di articoli pubblicati da Civiltà cattolica quale fosse il programma politico del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie classi semifeudali, tendenzialmente borboniche nel meridione, o tendenzialmente austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della Civiltà cattolica, e cioè il Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato unitario, attraverso l'astensione parlamentare, l'infrenamento dello Stato liberale per tutte quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo punto, la creazione di un'armata di riserva rurale da porre contro l'avanzata del proletariato, poiché fin dal '71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario.

L'onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della massoneria, l'unità spirituale della nazione italiana.

Poiché la massoneria in Italia ha rappresentato l'ideologia e l'organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico, per cui le classi piú arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso cinquanta anni fa; ed è oggi invece il fenomeno piú grande di regressione...

La borghesia industriale non è stata capace di infrenare il movimento operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d'ordine del fascismo, dopo l'occupazione delle fabbriche, è stata perciò questa: «I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte contro gli operai».

Se non m'inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano...

[Interruzioni]

Mussolini. Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del fascismo rurale del 1921-22.

Gramsci. Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la piú grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del dopoguerra, sia nel dominio dell'attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura.

L'elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria dei conservatori in Inghilterra, con la liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento fascista italiano; le vecchie forze sociali, ma non assorbite completamente da esso, hanno preso il sopravvento nell'organizzazione degli Stati, portando nell'attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo sviluppo della rivoluzione proletaria. Esaminata su questo terreno, l'attuale legge contro le associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana? Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime capitalistico o sarà solo un nuovo perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare Tizio, Caio e Sempronio?... Il problema pertanto è questo: la situazione del capitalismo in Italia si è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l'impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d'opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l'impossibilità per la borghesia di creare una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo la quistione meridionale, cioè la quistione dei contadini, legata strettamente al problema dell'emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere... [Interruzioni]

Mussolini. Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.

Gramsci. Il significato dell'emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l'alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare...

Rossoni. Quindi la nazione si deve espandere nell'interesse del proletariato.

Gramsci. Noi abbiamo una nostra concezione dell'imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l'«imperialismo» italiano è consistito solo in questo: che l'operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l'Italia è solo stata un mezzo dell'espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni piú puerili di una pretesa superiorità demografica dell'Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l'Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una quistione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente, ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l'Italia di prima della guerra dal punto di vista demografico si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l'emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva, che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia.

È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto piú rapidamente quanto piú il sistema capitalistico mondiale non funziona piú per assorbire l'emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.

I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi?

Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la quistione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri... [Interruzioni del deputato Greco] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia.

Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori sono anch'essi un partito.

Voci. Meno...

Mussolini. La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Gramsci. Il Corriere della sera non vuole fare la rivoluzione.

Farinacci. Neanche l'Unità!

Gramsci. Il Corriere della sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le Isole, e perciò altrettanto pericolosa che l'attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della sera ha sostenuto sempre un'alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L'una e l'altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una piú larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le «conquiste» del Risorgimento.

Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere cosí conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La «rivoluzione» fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.

Mussolini. Di una classe ad un'altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni]

Gramsci. È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere...

Mussolini. Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all'opposizione: i Motta, i Conti...

Farinacci. E sussidiano i giornali sovversivi! [Commenti]

Mussolini. L'alta banca non è fascista, voi lo sapete!

Gramsci. La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso.

Mussolini. I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c'è bisogno di accomodamenti.

Gramsci. Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si proponeva...

Farinacci. E ci chiamate sciocchi?

Gramsci. Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana...

Mussolini. Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.

Gramsci. Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l'assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell'incendio delle logge, e infine impiega oggi l'azione legislativa, per cui determinate personalità dell'alta banca e dell'alta burocrazia finiranno per l'accordarsi ai dominatori per non perdere il loro posto, ma con la massoneria il governo fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.

Mussolini. Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti]

Gramsci. Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte, senza che il partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

Mussolini. Facciamo quello che fate in Russia...

Gramsci. In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Mussolini. Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! (Si ride).

Gramsci. In realtà l'apparecchio poliziesco dello Stato considera già il partito comunista come un'organizzazione segreta.

Mussolini. Non è vero!

Gramsci. Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Mussolini. Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli!

Gramsci. È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l'applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo di Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

Una voce. Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il meridione.

Gramsci. Sono meridionale!

Mussolini. A proposito di violenze elettorali io le ricordo un articolo di Bordiga che le giustifica a pieno!

Paolo Greco. Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell'articolo.

Gramsci. Non le violenze fasciste, le nostre. Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi piú essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire. Noi dobbiamo dire alla popolazione lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente [Rumori, interruzioni] Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza. [Interruzioni, rumori]

Farinacci. Ma allora, perché non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di Bombacci! La manderanno via dal partito!

Gramsci. La borghesia italiana quando ha fatto l'unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, cosí ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato all'avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo dei programmi e dei non programmi... [Interruzioni, commenti]

Presidente. Non interrompete!

Gramsci. Questa legge non varrà affatto ad infrenare il movimento che voi stessi preparate nel paese. Poiché la massoneria passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge.

Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e piú cosciente. C'è qualcosa di vero in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento di quei fini che sono insiti nella sua esistenza e nella forza generale della società, senza che un'avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini.

Ma non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso della reazione! Questa è una legge che serve per l'Italia, che dovrà essere applicata in Italia, dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo luogo la questione dei contadini italiani, a risolvere la questione dell'Italia meridionale. Non per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti il risanamento del Mezzogiorno.

Una voce. Parli della massoneria.

Gramsci. Volete che io parli della massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna neppure alla massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l'urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda! Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale.

Mussolini. Voi non fate pagare le tasse in Russia!...

Una voce. Rubano in Russia, non pagano le tasse!

Gramsci. Non è questa la quistione, egregio collega, che dovrebbe conoscere almeno le relazioni parlamentari che su tali quistioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che ogni anno lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere...

Mussolini. Non è vero.

Gramsci. ... somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una base al capitalismo dell'Italia settentrionale [Interruzioni, commenti]. Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano si formerà necessariamente, nonostante la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, la unione degli operai e dei contadini contro il comune nemico.

Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi, non avete superato questa contraddizione che era già radicale; voi l'avete anzi fatta sentire piú duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le organizzazioni gli effetti piú micidiali della vostra attività stessa [Interruzioni]. Questa è la quistione piú importante nella discussione di questa legge!

Voi potete «conquistare lo Stato», potete modificare i codici, voi potete cercare di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fino ad oggi piú diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi [Interruzioni]. È molto difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di Tsankov. In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti dall'estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del partito comunista e delle forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti.

Mussolini. Il partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il partito fascista italiano!

Gramsci. Ma rappresenta la classe operaia.

Mussolini. Non la rappresenta!

Farinacci. La tradisce, non la rappresenta.

Gramsci. Il vostro è un consenso ottenuto col bastone.

Farinacci. Parla di Miglioli!

Gramsci. Precisamente. Il fenomeno Miglioli ha una grande importanza appunto nel senso di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglioli se il fenomeno Miglioli non avesse questa grande importanza dell'indicare un nuovo orientamento delle forze rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi lavoratrici.

Concludendo: la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la merce reazionaria antiproletaria! Non è la massoneria che vi importa! La massoneria diventerà un'ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali comprenderanno ciò molto bene dall'applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo sviluppo della società italiana [Interruzioni].

Presidente. Ma non interrompano! Lascino parlare. Lei però, onorevole Gramsci, non ha parlato della legge!

Rossoni. La legge non è contro le organizzazioni!

Gramsci. Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. Gli operai e i contadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi [Interruzioni, rumori]. Perché esso solo rappresenta oggi la situazione del nostro paese... [Interruzioni]

Presidente. Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!

Gramsci. Bisogna ripeterle, invece, bisogna che lo sentiate fino alla nausea. Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo [ Commenti ].

La nuova situazione58

La nuova situazione del paese e le condizioni in cui sarà posto il nostro partito con l'applicazione della legge sulle associazioni segrete ci imporranno quanto prima una revisione completa di tutta l'attività organizzativa del partito. Se, nella situazione di un anno fa, fu buona cosa sviluppare un'azione di reclutamento, la situazione opposta di oggi ci porrà il problema della revisione dei nostri quadri organizzativi e del modo come far fallire l'attacco legale rivolto contro il partito. La trattazione di questi problemi organizzativi importantissimi richiederà un'apposita sessione della Centrale.

Quanto al problema di accrescere l'attività e la capacità politica del partito, si deve riconoscere che esso è importante e che deve essere esaminato a fondo. La scomparsa della Confederazione generale del lavoro rende necessario un piú grande lavoro da parte nostra, e una piú vasta attività da parte della sezione di agitazione e propaganda, che riesca ad adattare le parole d'ordine generali alle situazioni locali in modo da tradurle effettivamente in azione concreta e continua. La proposta della compagna Silvia di rendere piú efficienti gli uffici centrali di lavoro a questo scopo e di accrescere i rapporti fra il centro e la periferia è buona. La conoscenza di tutte le situazioni locali richiederebbe però al centro un'attenta indagine e l'esame della stampa dei vari centri; limitando per ora questo campo di attività ai centri maggiori, ciò può essere fatto. Cosí, sarà certamente utile di mantenere un contatto diretto con le maggiori e piú importanti cellule; si potrà anzi di questo particolare lavoro incaricare un compagno. Certo tutto il modo della nostra attività e del nostro lavoro, come le direttive di organizzazione del partito, dovrà essere riesaminato in rapporto alla nuova situazione.

Circa i fatti di Torino, se è vero che il compagno Boschi ebbe il torto di agire per conto proprio, senza alcuna consultazione né della massa, né dell'organizzazione del partito, né delle cellule della Fiat e neppure delle stesse commissioni interne e trascurando ogni agitazione e azione politica tra gli operai e nei confronti della Fiat, si deve però riconoscere che i risultati nel loro insieme furono buoni e che la situazione oggettiva prodottasi ci fu favorevole. Il concordato concluso dalle commissioni interne comuniste della Fiat fu l'ultimo concordato concluso da un'organizzazione operaia: ciò ha la sua importanza e avrà un valore anche nella storia del movimento operaio torinese e italiano.

Situazione politica

Col colpo Zaniboni si è chiuso un ciclo della storia del nostro paese, il ciclo apertosi con l'occupazione delle fabbriche. Coloro che avevano creduto di risolvere la questione del movimento proletario in modo opportunista sono stati schiacciati: con l'attentato di Zaniboni il partito riformista è stato sciolto.

Tutta l'azione dell'Avanti si è chiusa con un fallimento completo. Il processo di fascistizzazione della stampa si può ormai ritenere completo; la massoneria, come grande forza politica che aveva avuto un lungo predominio in Italia, è liquidata!

Nel campo borghese i fascisti hanno avuto il completo sopravvento. Il fascismo è giunto oggi al sommo della sua parabola e va unificando intorno a sé la borghesia, e riducendo quindi al minimo le debolezze organizzative della borghesia stessa. Il Gran Consiglio fascista è divenuto l'organo centrale della borghesia che domina su tutto. E questa sua unificazione intorno al fascismo, permette alla borghesia di mantenersi anche se le sue basi economiche sono storicamente superate, poiché l'organizzazione può permettere ad una classe di mantenere, per un certo tempo, il potere anche quando viene a mancare ad esso la base economica.

Le contraddizioni economiche non sono state naturalmente risolte né possono esserlo, dal fascismo; si sono anzi acuite. Le forze economiche, che in Italia sono sempre state insufficienti, non sono aumentate. Si verifica oggi una concentrazione economica che provocherà o accelererà il distacco delle classi medie dalla borghesia. Fino ad oggi la piccola borghesia aveva avuto in Italia una funzione economica: la funzione del risparmio. Il piccolo risparmio dell'Italia meridionale aveva una grande importanza; un tempo esso era investito in buoni del tesoro, poi si raccolse nella Banca di sconto, e in questi ultimi tempi nelle due banche di emissione dell'Italia meridionale: il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia. Oggi il fascismo vuole unificare l'emissione per assorbire i due banchi meridionali e realizzare la massima concentrazione del capitale. Al monopolio politico corrisponde, cioè, il monopolio economico completo della grande borghesia rappresentata dal fascismo.

Ciò avrà le sue conseguenze, specialmente nell'Italia meridionale: il colpo dato alle banche meridionali e alle forze politiche che ad esse si appoggiavano e a tutta l'economia meridionale non potrà non provocare delle reazioni ed aprire dei contrasti.

Il modo come viene risolta la questione del pagamento dei vecchi debiti e quella dei prestiti americani avrà pure delle conseguenze gravi: piú di metà dell'industria italiana cadrà in mano degli stranieri; per cui gli operai saranno doppiamente sfruttati e doppiamente spinti alle agitazioni e alle lotte; e nella piccola borghesia si produrrà, come reazione a questa colonizzazione dell'Italia, una rinascita del sentimento nazionale in opposizione al fascismo.

La piccola borghesia, inoltre, con la liquidazione del rassismo, viene a perdere dei privilegi che si era illusa di essersi conquistata per sé e di poter mantenere, mantenendo nelle sue mani il potere. Nell'interno stesso del fascismo, quindi, che recluta nei suoi quadri organizzati specialmente elementi provenienti dalla piccola borghesia, si produrranno delle lotte. Il fascismo, infine, con le ultime leggi relative alle amministrazioni comunali e alle organizzazioni sindacali, ha distrutto tutti gli organismi di massa, ha annullato ogni forza di manifestazione della volontà popolare, ha di fatto annullato i poteri rappresentativi. I fascisti attueranno una specie di rastrellamento tra i contadini, allettando gli elementi piú corruttibili con le cariche di rettore e altre del genere; e anche nel campo industriale rastrelleranno uno strato di operai, formato di elementi direttivi, che corromperanno con la concessione di determinati privilegi (cariche nelle corporazioni, ecc.). Gli elementi che erano coi riformisti passeranno coi fascisti; e ciò darà una certa efficienza reale all'organizzazione fascista e risolverà momentaneamente e apparentemente la situazione. Ma in realtà preparerà una situazione ancora piú grave. Fra i contadini l'amministrazione comunale ha un'importanza enorme; e le nomine dei rettori cagioneranno delle lotte asprissime, anche nell'interno dello stesso fascismo, fino a determinare una situazione di sollevamento terribile. E, d'altra parte lo sforzo fascista di disgregare le masse proletarie creando un'aristocrazia operaia con elementi proletari corrotti, non riuscirà a contenere la pressione delle masse eccessivamente sfruttate e spinte dalle necessità economiche; e specialmente se noi riusciremo a dare a queste masse un'organizzazione.

In Italia la situazione è rivoluzionaria quando il proletariato del Nord è forte; se il proletariato del Nord è debole i contadini si accodano alla piccola borghesia; e reciprocamente i contadini dell'Italia meridionale rappresentano un elemento di forza e di impulso rivoluzionario per gli operai del Nord. Gli operai settentrionali e i contadini meridionali sono dunque le due forze rivoluzionarie immediate (i contadini del meridione sono l'80 per cento controllati dai preti) alle quali dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione.

Noi dobbiamo organizzare gli operai del Nord: specialmente con la scomparsa della Confederazione generale del lavoro questo compito si impone in tutta la sua interezza. Su ciò ritorneremo trattando della questione sindacale.

Nell'Italia meridionale il fascismo ha in parte eliminato uno strato di antichi dirigenti che controllavano gran parte delle masse contadine e rappresentarono la forza maggiore dell'antifascismo. La formazione di un partito d'azione meridionale non è cosa possibile. Si manifesta, invece, una tendenza che potremmo chiamare un «migliolismo» meridionale e che deve essere da noi utilizzata in tutta la sua portata. Se noi riusciremo a dare un'organizzazione ai contadini meridionali, avremo vinto la rivoluzione; al momento dell'azione decisiva uno spostamento delle forze armate borghesi dal Nord al Sud per opporsi all'insurrezione dei contadini meridionali alleati coi proletari settentrionali, assicura maggiore possibilità, di azione per gli operai. Il nostro compito generale è dunque chiaro: organizzare gli operai del Nord e i contadini meridionali e saldare la loro alleanza rivoluzionaria.

La linea generale della nostra politica in questa ultima fase è stata confermata. Avremo ancora dei tentativi da parte dei vecchi ceti dirigenti che non si rassegneranno tanto facilmente ad aver perduto il potere, e dovremo prepararci alle ripercussioni conseguenti. Ci troveremo indubbiamente di fronte a delle lotte molto gravi e violente, che richiederanno una salda organizzazione del partito, attorno al quale si stringono sempre piú le masse. E dovremo risolvere nel modo piú completo il problema del collegamento con queste masse. Dovremo salvaguardare il partito da ogni indebolimento derivato da lotte di frazione.

Impostare sempre con esattezza le direttive del partito e riuscire a spiegare il gioco delle varie forze, anziché limitarci alla ripetizione delle solite formule sulla lotta di classe senza una rispondenza di contenuto con la realtà quotidiana e complessa. Il fatto Zaniboni, ad esempio, ci spiega l'atteggiamento di molti partiti: l'atteggiamento dell'Avanti nella questione dei prestiti americani e l'avvicinamento avvenuto fra i repubblicani ed i massimalisti. Esistevano in questi partiti delle illusioni di successo nei loro strani progetti e metodi di lotta. E l'Avanti si presentava, su determinate questioni, con un programma di governo, affrontava certi problemi dal punto di vista di chi se ne pone la soluzione pratica e immediata.

Dovremo, soprattutto, risolvere il grande problema sindacale.

E rafforzare la propaganda per creare dei quadri periferici politicamente piú efficienti. Ampliare le nostre scuole di partito: oggi dobbiamo proporci di tenere a un gran numero di compagni una scuola di due giorni che sviluppi questi due argomenti essenziali: la situazione italiana; natura e compiti del partito.

E dovremo infine accrescere la nostra attività letteraria: almeno due pubblicazioni dovranno essere fatte nel piú breve tempo possibile: l'una sulla storia del movimento operaio italiano, l'altra sulla situazione italiana, le forze sociali del nostro paese, ecc.

Situazione sindacale

Il fascismo ha distrutto di fatto tutte le organizzazioni che spontaneamente erano sorte nel campo operaio. Noi dobbiamo oggi porci due problemi:

1) quale atteggiamento dobbiamo tenere verso la Confederazione generale del lavoro?

2) quale deve essere la nostra azione pratica sindacale?

La Confederazione generale del lavoro procederà nei confronti della organizzazione confederale come nel '23 verso il sindacato dei ferrovieri. Si proporrà cioè di assicurarsi che in una qualsiasi eventuale ripresa di movimento sindacale il controllo su tale movimento resti agli attuali dirigenti confederali. Noi dobbiamo, quindi, mentre affermiamo che la Confederazione generale del lavoro deve continuare ad essere l'organizzazione base del proletariato, condurre un'azione concreta sindacale, e ricostruttiva sindacale intorno a noi in modo che il movimento sindacale risorga controllato da noi.

I fascisti nel '23 si erano posti nel campo sindacale un programma massimo: il monopolio sindacale che avrebbe dovuto avere il suo completamento nelle rappresentanze fasciste di fabbrica. Fino ad oggi gli organismi di fabbrica erano rimasti nelle mani degli operai. D'ora innanzi gli industriali faranno i contratti con le corporazioni fasciste; ma essi saranno costretti poi a fare i necessari adattamenti con la massa di fabbrica. Gli industriali non vogliono una grande organizzazione sindacale esterna, ma vogliono una certa organizzazione degli operai perché ciò serve al buon funzionamento della fabbrica, e su questo terreno reale hanno posto infatti la questione del patto coi fascisti. Da ciò deriva che la sola organizzazione effettiva operaia rimane nella fabbrica, e che la nostra azione nelle fabbriche acquista un'importanza decisiva.

I riformisti nelle fabbriche non faranno nulla: la consultazione delle masse di mano in mano che si avvicina alla fabbrica si sposta verso sinistra, e ciò facilita e rende piú proficuo il nostro lavoro.

Poiché i fascisti con la legge elettorale e con la introduzione dei podestà hanno abolito ogni possibilità di manifestazione di vita politica per la classe operaia, questa deve creare dei mezzi propri di espressione. Il partito comunista ha quindi il compito di stimolare la creazione di organismi che costituiscono tali mezzi: la situazione stessa congiura a rendere necessaria e possibile la creazione di comitati operai che dalle forme piú embrionali giungano ad assumere le forme piú complete, che partendo dalla fabbrica si estendano nelle masse, diventino organismi rappresentativi della massa.

Il lavoro sindacale diventa in tal modo il solo lavoro politico quotidiano delle nostre sezioni comuniste, il comitato sindacale diventa la sezione del partito; fino ad oggi il comitato sindacale era presentato alle masse come un organismo contrapposto alla Confederazione generale del lavoro; d'ora innanzi diventa un organismo di lavoro del partito e che col partito deve essere quindi meglio collegato.

Il comitato sindacale deve fare un piano di lavoro in rapporto alla struttura organizzativa che sarà data al partito, e ponendo a capo di lavori importanti elementi capaci, in modo che la capacità abbia prevalenza sulla elettività.

Occorrerà pure precisare la nostra azione verso la Confederazione generale del lavoro nel caso che essa voglia trasportarsi all'estero, tenendo conto del fatto che si tratta di una questione delicata e che bisogna assolutamente non prestarsi al gioco dei riformisti i quali vorranno farci passare per provocatori.

Gli industriali cercheranno in tutti i modi di ostacolare la nostra azione di penetrazione e di conquista nelle fabbriche e tenteranno anche di modificare la composizione delle masse operaie piú avanzate. Prima della guerra dall'Italia emigravano i braccianti e pochi operai qualificati; dopo l'avvento del fascismo si è verificato il contrario: molti operai qualificati sono andati all'estero dove l'opera loro è stata molto apprezzata. Oggi la Fiat e Gualino si propongono di licenziare un grande numero di operai, i quali dovranno emigrare, e di assumere dei lavoratori non qualificati veneti e siciliani. Ciò modifica la composizione della classe operaia torinese e la indebolisce; dà il mezzo agli industriali di far credere ad una soluzione da parte loro della questione meridionale: gli industriali assumerebbero i contadini meridionali impossibilitati di emigrare. Inoltre ciò può far nascere fra gli operai torinesi e quelli siciliani delle lotte che rappresenterebbero una debolezza per la massa e un vantaggio per gli industriali. Queste eventualità debbono preoccupare e debbono richiamare la nostra attenzione e la nostra vigilanza su quanto avviene alla Fiat.

Di fronte al tentativo dei fascisti di far accettare i loro concordati dalle commissioni di fabbrica occorre condurci con grande abilità: se noi ci opporremo apertamente esporremo i compagni ad essere licenziati; bisogna agitare e muovere la massa. Non si può stabilire una regola costante per la nostra azione in questo campo, la quale deve essere dettata dalla situazione delle masse operaie nelle varie occasioni e circostanze. L'importante è che noi agitiamo fra gli operai le rivendicazioni che interessano la massa e ci presentiamo come i sostenitori degli interessi dei lavoratori, e specialmente di quelli piú sfruttati e meno retribuiti, e che ci opponiamo alla creazione di una situazione di privilegio per una aristocrazia operaia a danno del resto della massa; che ci opponiamo, ad esempio, al cottimo collettivo privilegiato, il quale da luogo alla formazione di nuove stratificazioni operaie.

Noi non dobbiamo creare i quadri organizzativi per la Confederazione generale del lavoro o per i dirigenti di essa; ma dobbiamo sviluppare nelle fabbriche una azione di difesa sindacale nel senso di mantenere negli operai il concetto dell'organizzazione sindacale di classe, di creare intorno a noi l'organizzazione sindacale che, in un momento di eventuale ripresa del movimento, ricostituisca sulle nostre basi politiche e sulle nostre direttive la massima organizzazione proletaria, lasciandone fuori l'attuale burocrazia dirigente. I dirigenti confederali, specialmente se all'estero, non faranno nulla nella massa delle fabbriche; manterranno uno scheletro esilissimo di organizzazione rappresentato da un certo numero di comitati nominali ed estranei alle masse. Noi invece fra gli operai delle officine ricostruiremo il movimento sindacale reale, sulla base dei nostri principi ed in modo da assicurarcene il controllo avvenire.

I problemi pratici di organizzazione dovranno essere risolti appena si presenteranno. Oggi è necessario fissare la direzione e gli obbiettivi della nostra azione sindacale. Oggi non possiamo che limitarci ad un'opera di agitazione con la parola d'ordine della difesa sindacale operaia, contro l'organizzazione corporativista. In seguito vedremo se sarà possibile e come e dove organizzare completamente delle forze sindacali. Ma in ogni caso dobbiamo essere contrari alla formazione di sindacati di fabbrica, i quali ostacolerebbero il lavoro delle nostre cellule, facendoci apparire come scissionisti.

Morelli. Noi dobbiamo anche agitare la parola d'ordine della lotta contro i riformisti dei sindacati e per l'unità sindacale internazionale.

Gramsci. Queste parole restano naturalmente come contenuto generale della nostra...

Ma oggi l'azione sindacale nostra deve svilupparsi in nome della difesa sindacale di classe: il fatto stesso che questa azione e quella ricostruttiva del movimento sindacale siano condotte da noi, e da noi soli, costituisce il modo migliore e piú reale di lottare contro i riformisti e contro l'influenza riformista dei sindacati.

Gli organismi che inquadreranno le forze sindacali ricostituite saranno i comitati di difesa sindacale; in un primo tempo poiché si tratterà piú che altro di sviluppare dell'agitazione, di questa azione sindacale fra gli operai potranno anche essere incaricati gli stessi comitati di agitazione nelle fabbriche. Di mano in mano però che si otterrà qualche risultato pratico occorrerà differenziare la funzione dei comitati di agitazione da quella dei comitati di difesa sindacale.

Non bisogna dimenticare che nelle fabbriche e tra la massa operaia noi dovremo far vivere e operare, ciascuno nel proprio campo, tre organismi diversi e con funzioni proprie:

le cellule, che costituiscono la organizzazione politica del proletariato: il partito comunista;

i comitati di agitazione, organismi di massa, che attraverso le conferenze di officina si allargano negli organismi di massa piú completi: i comitati operai e contadini;

i comitati di difesa sindacale, organismi sindacali, che partono come base di lavoro dalla fabbrica e potranno far capo in ogni città ad un unico comitato di difesa sindacale, il quale corrisponderà alle camere del lavoro di un tempo.

Questi diversi organismi rispondenti a tre diversi campi di attività non debbono mai essere fra di loro confusi.

Il fascismo e la sua politica59

15. Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia. Esso è perciò favorito nelle sue origini, nella sua organizzazione e nel suo cammino da tutti indistintamente i vecchi gruppi dirigenti, a preferenza però degli agrari i quali sentono piú minacciosa la pressione delle plebi rurali. Socialmente però il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni (fenomeni di capitalismo agrario nell'Emilia, origine di una categoria di intermediari di campagna, «borse della terra», nuove ripartizioni di terreni). Questo fatto e il fatto di aver trovato una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni militari in cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla guerriglia contro i lavoratori, permettono al fascismo di concepire ed attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi ceti dirigenti. Assurdo parlare di rivoluzione. Le nuove categorie che si raccolgano attorno al fascismo traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità di «capitalismo nascente». Ciò spiega come sia possibile la lotta contro gli uomini politici del passato e come esse possano giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini. Nella sostanza il fascismo modifica il programma di conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte piú decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.

16. Il metodo fascista di difesa dell'ordine, della proprietà e dello Stato è, ancora piú del sistema tradizionale dei compromessi e della politica di sinistra, disgregatore della compagine sociale e delle sue sovrastrutture politiche. Le reazioni che esso provoca devono essere esaminate in relazione alla sua applicazione sia nel campo economico che nel campo politico.

Nel campo politico, anzitutto, l'unità organica della borghesia nel fascismo non si realizza immediatamente dopo la conquista del potere. Al di fuori del fascismo rimangono i centri di una opposizione borghese al regime. Da una parte non viene assorbito il gruppo che tiene fede alla soluzione giolittiana del problema dello Stato. Questo gruppo si collega a una sezione della borghesia industriale e, con un programma di riformismo «laburista» esercita influenza sopra strati di operai e piccoli borghesi. Dall'altra parte il programma di fondare lo Stato sopra una democrazia rurale del Mezzogiorno e sopra la parte «sana» della industria settentrionale (Corriere della sera, liberismo, Nitti) tende a diventare programma di una organizzazione politica di opposizione al fascismo con basi di massa nel Mezzogiorno (Unione nazionale).

Il fascismo è costretto a lottare contro questi gruppi superstiti molto vivacemente e a lottare con vivacità anche maggiore contro la massoneria, che esso considera giustamente come centro di organizzazione di tutte le tradizionali forze di sostegno dello Stato. Questa lotta, che è, volere o no, l'indizio di una spezzatura nel blocco delle forze conservatrici e antiproletarie, può in determinate circostanze favorire lo sviluppo e l'affermazione del proletariato come terzo e decisivo fattore di una situazione politica.

Nel campo economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del paese. Ciò non può fare a meno di provocare un malcontento nella piccola borghesia la quale, con l'avvento del fascismo, credeva giunta l'era del suo dominio.

Tutta una serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova concentrazione industriale (abolizione della imposta di successione, politica finanziaria e fiscale, inasprimento del protezionismo), e ad esse corrispondono altre misure a favore degli agrari e contro i piccoli e medi coltivatori (imposte, dazio sul grano, «battaglia del grano»). L'accumulazione che queste misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi lavoratrici e medie a favore della plutocrazia. Il disegno di favorire la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate; un piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza. Nello stesso piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle due grandi banche meridionali. Queste due banche adempiono oggi la funzione di assorbire i risparmi del Mezzogiorno e le rimesse degli emigranti (600 milioni), cioè la funzione che nel passato adempivano lo Stato con l’emissione di buoni del tesoro e la Banca di sconto nell'interesse di una parte dell'industria pesante del Nord. Le banche meridionali sono state controllate fino ad ora dalle stesse classi dirigenti del Mezzogiorno, le quali hanno trovato in questo controllo una base reale del loro dominio politico. La soppressione delle banche meridionali come banche di emissione farà passare questa funzione alla grande industria del Nord che controlla, attraverso la Banca commerciale, la Banca d'Italia e verrà in questo modo accentuato lo sfruttamento economico «coloniale» e l'impoverimento del Mezzogiorno, nonché accelerato il lento processo di distacco dallo Stato anche della piccola borghesia meridionale.

La politica economica del fascismo si completa con i provvedimenti intesi a rialzare il corso della moneta, a risanare il bilancio dello Stato, a pagare i debiti di guerra e a favorire l'intervento del capitale inglese-americano in Italia. In tutti questi campi il fascismo attua il programma della plutocrazia (Nitti) e di una minoranza industriale-agraria ai danni della grande maggioranza della popolazione le cui condizioni di vita sono progressivamente peggiorate.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all'«imperialismo». Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il dominio del mondo.

17. Si determinano, in conseguenza della politica del fascismo, profonde reazioni delle masse. Il fenomeno piú grave è il distacco sempre piú deciso delle popolazioni agrarie del Mezzogiorno e delle Isole dal sistema di forze che reggono lo Stato. La vecchia classe dirigente locale (Orlando, Di Cesarò, De Nicola, ecc.) non esercita piú in modo sistematico la sua funzione di anello di congiunzione con lo Stato. La piccola borghesia tende quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all'estremo; questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari.

Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d'Italia acquistano una funzione rivoluzionaria, benché in modo piú lento. Il Vaticano — la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo — non controlla piú le popolazioni rurali in modo completo attraverso i preti, l'Azione cattolica e il partito popolare. Vi è una parte dei contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle autorità ecclesiastiche, ed ora, sotto la pressione economica e politica del fascismo, accentua il proprio orientamento di classe e incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell'Azione cattolica, fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressione di quel periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal 1870 come imminente alla società italiana.

Quanto al proletariato, l'attività disgregatrice delle sue forze trova un limite nella resistenza attiva della avanguardia rivoluzionaria e in una resistenza passiva della grande massa, la quale rimane fondamentalmente classista e accenna a rimettersi in movimento non appena si rallenta la pressione fisica del fascismo e si fanno piú forti gli stimoli dell'interesse di classe. Il tentativo di portare nel suo seno la scissione con i sindacati fascisti, si può considerare fallito. I sindacati fascisti, mutando il loro programma, diventano ora strumenti diretti di compressione reazionaria al servizio dello Stato.

18. Ai pericolosi spostamenti e ai nuovi reclutamenti di forze che sono provocati dalla sua politica il fascismo reagisce facendo gravare su tutta la società il peso di una forza militare e un sistema di compressione il quale tiene la popolazione inchiodata al fatto meccanico della produzione senza possibilità di avere una vita propria, di manifestare una propria volontà e di organizzarsi per la difesa dei propri interessi.

La cosiddetta legislazione fascista non ha altro scopo che quello di consolidare e rendere permanente questo sistema. La nuova legge elettorale politica, le modificazioni dell'ordinamento amministrativo con la introduzione del podestà per i comuni di campagna, ecc. vorrebbero segnare la fine della partecipazione delle masse alla vita politica e amministrativa del paese. Il controllo sulle associazioni impedisce ogni forma permanente «legale» di organizzazione delle masse. La nuova politica sindacale toglie alla Confederazione del lavoro e ai sindacati di classe la possibilità di concludere dei concordati per escluderli dal contatto con le masse che si erano organizzate attorno ad essi. La stampa proletaria viene soppressa. Il partito di classe del proletariato ridotto alla vita pienamente illegale. Le violenze fisiche e le persecuzioni di polizia sono adoperate sistematicamente, soprattutto nelle campagne, per incutere il terrore e mantenere una situazione da stato d'assedio,

Il risultato di questa complessa attività di reazione e di compressione è lo squilibrio tra il rapporto reale delle forze sociali e il rapporto delle forze organizzate, per cui a un apparente ritorno alla normalità e alla stabilità corrisponde una acutizzazione di contrasti pronti a prorompere ad ogni istante per nuove vie.

18 bis. La crisi seguita al delitto Matteotti ha fornito un esempio della possibilità che l'apparente stabilità del regime fascista sia turbata dalle basi per il prorompere improvviso di contrasti economici e politici approfonditisi senza che fossero avvertiti. Essa ha in pari tempo fornito la prova della incapacità della piccola borghesia a guidare ad un esito, nell'attuale periodo storico, la lotta contro la reazione industriale-agraria.

La questione sarda e il fascismo60

Carissimo Lussu,

ti unisco il questionario annunziato. Rispondimi come ti pare piú opportuno e se ritieni ciò necessario politicamente aggiungi qualche quistione e modifica e sopprimi qualcuna di quelle suesposte.

Saluti

Antonio Gramsci

1. La politica economica che il gruppo fascista rappresentato dall'on. Paolo Pili cerca di attuare in Sardegna quali reali successi ha avuto? È riuscito a far conquistare al fascismo e al governo il consenso almeno di una parte dei contadini e dei pastori sardi? E se non ha conquistato un consenso attivo, ha però determinato una qualsiasi forma di aspettazione passiva che oggettivamente possa essere giustificata favorevole al fascismo e al governo?

2. Come reagiscono contro l'attività dell'on. Pili i vecchi gruppi di speculatori e di bagarini, siano essi sardi o continentali?

3. Qual è l'atteggiamento del partito sardo di fronte a questo momento politico, dato che l'on. Pili tende a realizzare alcune rivendicazioni del programma tradizionale del sardismo?

La politica dell'on. Pili ha provocato nelle file sardiste uno spostamento a sinistra per la ricerca di una maggiore diffusione del fascismo?

4. La politica di compressione esercitata dal regime fascista, che ha condotto alla soppressione del regime rappresentativo nel 90 per cento dei municipi sardi, ha obbiettivamente portato a rendere piú acuto il problema regionalistico e a porre la questione della autonomia su un terreno piú radicale di rivendicazioni a tipo nazionale?

5. Poiché l'esperienza del dopoguerra ha dimostrato l'impossibilità che il problema regionale sardo possa essere risolto dalle sole masse popolari della Sardegna, se queste masse non sono alleate a determinate forze sociali e politiche del continente italiano, a quali forze sociali e politiche il Partito sardo d'azione crede necessario allearsi?

6. Poiché la quistione regionale sarda è legata indissolubilmente al regime borghese capitalistico che ha bisogno, per sussistere, non solo di sfruttare la classe degli operai industriali attraverso il lavoro salariato, ma anche di far pagare alle masse contadine del Mezzogiorno e delle Isole una taglia doganale e una taglia fiscale, e poiché la coalizione dei partiti democratici di sinistra e socialdemocratici non può avere nel suo programma la espropriazione della borghesia industriale e dei grandi proprietari terrieri, non sembra chiaro al Partito sardo d'azione che unico alleato continentale della popolazione lavoratrice sarda può essere il blocco rivoluzionario operaio e contadino sostenuto dall'Internazionale dei contadini?

7. Quali sono le opinioni diffuse fra i sardisti a proposito del programma dell'Internazionale dei contadini?

Perché il direttorio del Partito sardo d'azione non ha risposto, sia pure per via interna, al manifesto trasmesso al congresso di Macomer del 1925 dell'Internazionale dei contadini?

8. Qual è l'opinione media dei contadini e dei pastori sardi sulla rivoluzione operaia e contadina che si è affermata vittoriosamente in Russia? Esiste una corrente popolare che giudica la Rivoluzione russa come vittoria politica dei contadini di tutto il mondo e quindi anche dei contadini sardi piú avanzati?

Un esame della situazione italiana61

I

Della situazione politica italiana occorre esaminare tre elementi fondamentali.

1) L'elemento positivo rivoluzionario, cioè i progressi realizzati dalla tattica del fronte unico. La situazione attuale della organizzazione dei Comitati di unità proletaria e i compiti delle frazioni comuniste in questi comitati.

2) L'elemento politico rappresentato dalla disgregazione del blocco borghese agrario fascista. Situazione interna del partito dominante e significato della crisi che attraversa.

3) L'elemento politico rappresentato dalla tendenza a costituire un blocco democratico di sinistra che ha il suo perno sul partito repubblicano in quanto è la pregiudiziale repubblicana che deve costituire il terreno di questa coalizione democratica.

L'esame del primo punto deve esser fatto anche allo scopo di verificare la giustezza della linea politica fissata dal III congresso. Ciò che caratterizza il III congresso del nostro partito è il fatto che esso non solo ha posto genericamente il problema della necessità di realizzare la direzione del partito comunista in seno alla classe operaia e della classe operaia in seno alla popolazione lavoratrice italiana, ma ha anche cercato di concretare praticamente gli elementi politici attraverso i quali questa direzione avrebbe potuto realizzarsi, cioè ha cercato di individuare quei partiti e quelle associazioni attraverso alle quali si esplica l'influenza borghese o piccolo-borghese sulle classi lavoratrici e che sono passibili di un rivolgimento, di un capovolgimento dei valori classisti. Cosí occorre verificare dai risultati la giustezza del terreno organizzativo fissato dal partito come quello piú adatto per il raggruppamento immediato delle forze messe in movimento dalla tattica del fronte unico, cioè i comitati di agitazione.

Positivamente si può affermare che il nostro partito è riuscito a conquistare una posizione netta di iniziativa politica in mezzo alle masse lavoratrici. In quest'ultimo scorcio di tempo tutti gli organi giornalistici dei partiti che controllano le masse popolari italiane sono stati riempiti da polemiche contro l'azione di conquista del nostro partito. Tutti questi partiti sono sulla difensiva contro la nostra azione, e in realtà essi sono indirettamente guidati da noi poiché almeno il sessanta per cento della loro attività è dedicato a respingere le nostre offensive o è determinato nel senso di dare alle loro masse una soddisfazione che le tolga dalla nostra influenza.

È evidente che nelle condizioni di oppressione e di controllo rappresentate dalla politica fascista i risultati della nostra tattica non possono essere misurabili statisticamente sulla scala delle grandi masse. Tuttavia è innegabile che quando determinati elementi di partiti democratici e socialdemocratici si spostano sia pure molecolarmente verso il terreno tattico preconizzato dai comunisti, questo spostamento non può essere casuale e di significato puramente individuale. Praticamente la questione può essere rappresentata cosí: in ogni partito ma specialmente nei partiti democratici e socialdemocratici nei quali l'apparato organizzativo è molto rilassato, esistono tre strati. Lo strato superiore molto ristretto, che di solito è costituito di parlamentari e di intellettuali strettamente legati spesso alla classe dominante. Lo strato inferiore costituito di operai e contadini, di piccoli borghesi urbani, come massa di partito o come massa di popolazione influenzata dal partito. Uno strato intermedio che nella situazione attuale ha un'importanza ancora superiore all'importanza che aveva nei periodi normali in quanto rappresenta spesso il solo strato attivo e politicamente vivace di questi partiti. È questo strato intermedio che mantiene il legame tra il superiore gruppo dirigente e le masse del partito e della popolazione influenzata dal partito. È sulla compattezza di questo strato medio che i gruppi dirigenti contano per una futura ripresa dei diversi partiti e per una ricostruzione di essi partiti su una larga base. Ora è appunto su una notevole parte di questi strati medi dei diversi partiti a carattere popolare che si esercita la influenza del movimento per il fronte unico. È in questo strato medio che si verifica questo fenomeno molecolare di disgregazione delle vecchie ideologie e dei vecchi programmi politici e si vedono gli inizi di una nuova formazione politica sul terreno del fronte unico. Vecchi operai riformisti o massimalisti che esercitano una larga influenza in certe fabbriche o in certi quartieri urbani, elementi contadini che nei villaggi o nei borghi di provincia rappresentano le personalità piú avanzate del mondo rurale, ai quali i contadini del villaggio o del borgo ricorrono sistematicamente per avere consigli e direttive pratiche; piccoli intellettuali di città che come esponenti del movimento cattolico di sinistra irraggiano nella provincia un'influenza che non può e non deve essere misurata dalla loro modestia, ma dev'essere misurata dal fatto che in provincia appaiono come una tendenza di quel partito che i contadini erano abituati a seguire. Ecco gli elementi sui quali il nostro partito esercita un'attrazione sempre crescente e i cui esponenti politici sono un indice sicuro di movimenti alla base spesso piú radicali ancora di quanto non appaia da questi spostamenti personali.

Una attenzione particolare deve essere data alla funzione che nell'attività per il fronte unico è svolta dalla nostra gioventù. Occorre perciò tener presente che nell'azione della gioventù dev'essere consentita una maggiore elasticità che non sia consentita al partito. È evidente che il partito non può addivenire a fusioni con gli altri gruppi politici o ad accettazioni di nuovi membri sulla base del fronte unico che tende a creare l'unità d'azione della classe operaia e l'alleanza tra operai e contadini e non può essere la base di formazioni del partito. Per i giovani invece la questione si pone diversamente. Per la loro stessa natura i giovani rappresentano lo stadio elementare di formazione del partito. Per entrare nella «gioventù» non si può domandare di essere già comunisti nel senso completo della parola ma solo di avere una volontà di lotta e di voler diventare comunisti. Perciò questo punto deve servire come riferimento generale per fissare meglio la tattica propria dei giovani. Un elemento del quale occorre tener molto conto perché ha un valore storico non indifferente è questo: se ha importanza il fatto che un massimalista, un riformista, un repubblicano, un popolare, un sardista, un democratico meridionale aderiscono al programma del fronte unico proletario e della alleanza fra operai e contadini, molta maggior importanza ha il fatto che a tale programma aderisca un membro dell'azione cattolica come tale. Infatti i partiti d'opposizione sia pure in forme inadeguate e vischiose tendono a creare e mantenere un distacco tra le masse popolari e il fascismo. L'Azione cattolica invece rappresenta oggi una parte integrante del fascismo, tende attraverso l'ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata in un certo senso, nell'intenzione di una tendenza fortissima del partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso partito fascista nella funzione di partito di massa e di organismo di controllo politico sulla popolazione. Ogni nostro successo sia pure limitato nel campo dell'Azione cattolica significa pertanto che noi riusciamo a impedire lo svolgimento della politica fascista in un campo che sembrava precluso a qualsiasi iniziativa proletaria.

Concludendo su questo punto possiamo affermare che la linea politica del III congresso è stata verificata come giusta e il bilancio della nostra azione per il fronte unico è largamente attivo.

Occorre fissare un punto speciale per l'azione sindacale, sia nel senso della posizione da noi attualmente occupata nei sindacati di classe, che nel senso di un'attività reale sindacale da svolgere e che nella nostra posizione verso le corporazioni.

Sul 2° punto occorre fissare con esattezza la situazione interna del blocco borghese agrario fascista e della organizzazione fascista propriamente detta.

Le due tendenze del fascismo

Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come organismo politico e incorporare nell'apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d'accordo con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l'Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano e dall'altra parte gli elementi piú moderati dell'ex Aventino. È certo che mentre il fascismo nella sua ala nazionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso l'Azione cattolica, dall'altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo di Di Cesare e del gruppo Amendola.

L'altra tendenza è ufficialmente impersonata da Farinacci. Essa obbiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo. 1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze d'interesse specialmente doganali. È certo che l'attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La seconda contraddizione è di gran lunga la piú importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo. Un elemento che occorre tener presente è il fatto dell'asservimento completo in cui l'Italia è stata messa dal governo fascista verso l'America. Nella liquidazione del debito di guerra sia verso l'America che verso l'Inghilterra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commerciabilità delle obbli-gazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni momento al ricatto politico dei governi americano ed inglese, che possono in ogni momento gettare sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani. Il debito Morgan d'altra parte è stato contratto in condizioni ancora peggiori. Sui cento milioni di dollari del prestito il governo italiano ha a sua disposizione solo trentatre milioni. Degli altri 67 milioni il governo italiano può disporre solo coll'alto consenso personale di Morgan, ciò che significa che il vero capo del governo italiano è Morgan. Questi elementi possono servire per dare alla piccola borghesia nella difesa dei suoi interessi attraverso il partito fascista come tale un'intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e l'attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell'indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati. A questo proposito un compito del nostro partito dev'essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d'ordine degli Stati uniti soviettisti d'Europa come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste. 

In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di organizzazione, di princìpi generali. Essa è piú uno stato d'animo diffuso che una tendenza vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costitutivi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo.

La crisi economica generale è l'elemento fondamentale della crisi politica. Occorre esaminare gli elementi di questa crisi perché tra di essi alcuni sono inerenti alla situazione generale italiana e funzioneranno negativamente anche nel periodo di dittatura proletaria. Questi elementi principali possono essere cosí fissati: dei tre elementi che tradizionalmente costituiscono l'attivo della bilancia italiana, due, le rimesse degli emigrati e l'industria del forestiero, sono crollati. Il terzo elemento, l'esportazione, subisce una crisi. Se ai due fattori negativi — rimesse degli emigrati ed industria del forestiero — e al terzo fattore parzialmente negativo — esportazione — si aggiunge la necessità di forti importazioni granarie per il fallimento del raccolto, è evidente che le prospettive per i prossimi mesi si presentano come catastrofiche. È necessario tener conto di questi quattro elementi per comprendere l'impotenza del governo e della classe dirigente. Certo, se il governo niente o quasi niente può fare per aumentare le rimesse degli emigrati (tener conto dell'iniziativa prospettata dal signor Giuseppe Zuccoli, presunto successore di Volpi al dicastero delle Finanze) e per far prosperare l'industria del forestiero, qualche cosa invece può fare per aumentare l'esportazione. Tuttavia è possibile in questo senso una grande politica che se pure non rimargini la ferita per lo meno tenda a cicatrizzarla. Qualcuno pensa alla possibilità di una certa politica di lavoro basata sull'inflazionismo. Naturalmente non è da escludere in senso assoluto questa possibilità, ma: 1) se anche si verificasse, i suoi risultati nel campo economico sarebbero relativamente minimi; 2) i suoi risultati sarebbero invece catastrofici nel campo politico. Occorre infatti tener presente questi elementi:

1) L'esportazione rappresenta nella bilancia italiana solamente una parte dell'attività, al massimo i due terzi. 2) Per pareggiare la bilancia non solo occorrerebbe condurre l'attuale base produttiva al suo massimo rendimento, ma occorrerebbe allargare la stessa base produttiva comprando all'estero nuovi macchinari, ciò che peggiorerebbe ancora la bilancia. 3) Le materie prime per l'industria italiana sono importate dall'estero e devono essere pagate con moneta non svalutata. Un aumento della produzione su larga scala porterebbe alla necessità di un'enorme massa di capitale circolante per l'acquisto delle materie prime. 4) Occorre tener presente che il fascismo come fenomeno generale ha, in Italia, portato al minimo i salari e gli stipendi della classe lavoratrice. L'inflazione è comprensibile in un paese ad alti salari, come surrogato del fascismo, per abbassare il livello di vita delle classi lavoratrici e quindi ridare elasticità alla borghesia italiana. Non è comprensibile in Italia dove il tenore di vita della classe operaia sta rasentando già la fame.

Tra gli elementi della crisi economica: la nuova organizzazione delle società per azioni coi voti privilegiati, che è uno degli elementi di rottura fra piccola borghesia e capitalismo, e il fatto del dislivello verificatosi in quest'ultimo tempo fra la massa del capitale delle società anonime che si va concentrando in poche mani e la massa del risparmio nazionale. Questo dislivello dimostra come le fonti del risparmio vadano essiccandosi, perché i redditi attuali non sono piú sufficienti ai bisogni.

Sul terzo elemento politico. È evidente che avviene nel campo della democrazia un certo raggruppamento con carattere piú radicale che nel passato. L'ideologia repubblicana si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei partiti democratici e in questo caso anche in buona parte degli strati superiori.

Vecchi capi ex aventiniani hanno rifiutato l'invito a riprendere i contatti con la casa reale. Si dice che lo stesso Amendola nell'ultimo periodo della sua vita fosse diventato completamente repubblicano e facesse in questo senso propaganda personale. I popolari sarebbero diventati anche essi tendenzialmente repubblicani, ecc. È certo che si fa un grande lavoro per determinare sul terreno repubblicano un raggruppamento neodemocratico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista e instaurare un regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista. A questo risveglio democratico repubblicano hanno contribuito gli ultimi avvenimenti europei come l'avventura Pilsudski in Polonia ed i sussulti preagonici del cartello francese. Il nostro partito deve porsi il problema generale delle prospettive della politica nazionale. Gli elementi possono essere cosí stabiliti: se pur è vero che politicamente il fascismo può avere come successore una dittatura del proletariato — poiché nessun partito o coalizione intermedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente nella scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti — non è però certo e neanche probabile che il passaggio dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato. Bisogna tener conto del fatto che le forze armate esistenti, data la loro composizione, non sono conquistabili immediatamente e che esse saranno l'elemento determinante della situazione. Si possono fare delle ipotesi alle quali attribuire volta per volta maggiore carattere di probabilità. È possibile che dal governo attuale si passi a un governo di coalizione, nel quale uomini come Giolitti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi diano una maggiore elasticità immediata. Gli ultimi avvenimenti parlamentari francesi dimostrano di quale elasticità sia capace la politica borghese per allontanare la crisi rivoluzionaria, spostare gli avversari, logorarli, disgregarli. Una crisi economica improvvisa e fulminea non improbabile in una situazione come quella italiana potrebbe portare al potere la coalizione democratica repubblicana, dato che essa si presenterebbe agli ufficiali dell'esercito e a una parte della stessa milizia e ai funzionari dello stato in genere (elemento di cui bisogna tener molto conto in situazioni come quella italiana) come capace di infrenare la rivoluzione. Queste ipotesi hanno per noi solo un valore generale di prospettiva. Esse ci servono per fissare questi punti:

1) Noi dobbiamo fin da oggi restringere al minimo l'influenza e l'organizzazione dei partiti che possono costituire la coalizione di sinistra per rendere sempre piú probabile una caduta rivoluzionaria del fascismo, in quanto gli elementi energici ed attivi della popolazione sono sul nostro terreno nel momento della crisi. 2) In ogni caso noi dobbiamo tendere a rendere piú breve che sia possibile l'intermezzo democratico avendo fin da oggi disposto a nostro favore il maggior numero di condizioni favorevoli.

È da questi elementi che dobbiamo trarre l'indicazione per la nostra attività pratica immediata. Intensificare l'attività generale del fronte unico e l'organizzazione di sempre nuovi comitati d'agitazione per centralizzarli almeno su scala regionale e provinciale. Nei comitati le nostre frazioni devono cercare prima di tutto di ottenere il massimo di rappresentanze delle diverse correnti politiche di sinistra evitando sistematicamente ogni settarismo di partito. Le questioni devono essere dalle nostre frazioni impostate oggettivamente come espressioni degli interessi della classe operaia e dei contadini.

Tattica verso il partito massimalista.

Necessità, di impostare piú energicamente il problema meridionale. Se il nostro partito nel Mezzogiorno non si mette a lavorare seriamente, il Mezzogiorno sarà la base piú forte della coalizione di sinistra.

Tattica verso il Partito sardo d'azione, in vista di un suo prossimo congresso.

Per l'Italia meridionale e per le Isole creazione dei gruppi di lavoro regionali nel resto d'Italia.

II

Per ciò che riguarda la situazione internazionale mi pare che essa sia specialmente dominata dalla questione dello sciopero generale inglese e delle conseguenze da trarre rispetto ad esso. Lo sciopero inglese ha posto due problemi fondamentali per il nostro movimento:

1) Il problema delle prospettive generali, cioè il problema di un preciso apprezzamento della fase attuale che attraversa il regime capitalista. È finito il periodo della cosiddetta stabilizzazione? A che punto noi ci troviamo per rispetto alle capacità di resistenza del regime borghese? È evidente che non solo dal punto di vista teorico e scientifico, ma anche dal punto di vista pratico ed immediato è interessante e necessario verificare con esattezza qual è il punto preciso della crisi capitalistica. Ma è anche evidente che sarebbe stolto ogni orientamento politico sulla base di un apprezzamento diverso del grado preciso della crisi capitalistica, se questo diverso apprezzamento non si riflette immediatamente in direttive politiche ed organizzative realmente differenti. Il problema da porre mi pare debba essere questo: nel campo internazionale, ciò significa praticamente due cose: 1) nel campo di quel gruppo di Stati capitalistici che sono la chiave di volta del sistema borghese; 2) nel campo di quegli Stati che rappresentano come la periferia del mondo capitalistico: siamo noi per passare dalla fase di organizzazione politica delle forze proletarie alla fase di organizzazione della rivoluzione? Ossia pure, siamo per passare dalla prima delle due fasi suddette a una fase intermedia, nella quale una determinata forma di organizzazione tecnica può accelerare l'organizzazione politica delle masse e quindi accelerare il passaggio alla fase risolutiva della conquista del potere? Questi problemi secondo me debbono essere posti in discussione, ma è evidente che la loro soluzione non è possibile in un piano puramente teorico: essa è possibile solo sulla base di dati concreti relativi all'efficienza reale sia delle forze rivoluzionarie che delle forze borghesi.

Alcune serie di osservazioni e di criteri devono essere posti alla base di questo esame:

1) L'osservazione che nei paesi a capitalismo avanzato la classe dominante possiede delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico. La politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull'economia. L'apparato statale è molto piú resistente di quanto spesso non si può credere e riesce ad organizzare nei momenti di crisi forze fedeli al regime piú di quanto la profondità della crisi potrebbe lasciar supporre. Ciò si riferisce specialmente agli Stati capitalistici piú importanti. Negli Stati periferici tipo della serie, come l'Italia, la Polonia, la Spagna e il Portogallo, le forze statali sono meno efficienti. Ma in questi paesi si verifica un fenomeno che deve essere tenuto nel massimo conto. Il fenomeno a parer mio consiste in ciò: in questi paesi tra il proletariato e il capitalismo si distende un largo strato di classi intermedie le quali vogliono e in un certo senso riescono a condurre una propria politica con ideologie che spesso influenzano larghi strati del proletariato, ma che hanno una particolare suggestione sulle masse contadine. Anche la Francia, nonostante che occupi una posizione eminente nel primo gruppo degli Stati capitalistici, partecipa per alcune sue caratteristiche alla situazione degli Stati periferici.

Ciò che mi pare caratteristico della fase attuale della crisi capitalistica consiste nel fatto che, a differenza del '20-'21-'22, oggi le formazioni politiche e militari delle classi medie hanno un carattere radicale di sinistra, o almeno si presentano dinanzi alle masse come radicali di sinistra. Lo sviluppo della situazione italiana, dati i suoi caratteri peculiari, mi pare possa in un certo senso dare il modello per le diverse fasi attraversate dagli altri paesi. Nel '19 e '20 le formazioni militari e politiche delle classi medie erano da noi rappresentate dal fascismo primitivo e da D'Annunzio. È noto che in quegli anni tanto il movimento fascista come il movimento dannunziano erano disposti anche ad allearsi con le forze proletarie rivoluzionarie per rovesciare il governo di Nitti, che appariva come il mezzano del capitale americano per asservire l'Italia (Nitti è stato in Europa il precursore di Dawes). La seconda fase del fascismo — '21 e '22 — è nettamente reazionaria. Dal '23 si inizia un processo molecolare per cui gli elementi piú attivi delle classi medie si spostano dal campo reazionario fascista al campo delle opposizioni aventiniane. Questo processo precipita in una cristallizzazione che poteva essere fatale al fascismo nel periodo della crisi Matteotti. Per la debolezza del nostro movimento, debolezza che d'altronde aveva essa stessa un significato, il fenomeno è interrotto dal fascismo, e le classi medie sono respinte in una nuova polverizzazione politica. Oggi il fenomeno molecolare ha ripreso su una scala di molto superiore a quello iniziatosi nel '23 ed è accompagnato da un fenomeno parallelo di raggruppamento delle forze rivoluzionarie intorno al nostro partito, ciò che assicura che una nuova crisi tipo Matteotti difficilmente potrà avere un nuovo 3 gennaio. Queste fasi attraversate dall'Italia, in una forma che chiamerei classica ed esemplare, le ritroviamo in quasi tutti i paesi che abbiamo chiamati periferici del capitalismo. La fase attuale italiana, cioè un raggruppamento a sinistra delle classi medie, la troviamo in Ispagna, in Portogallo, in Polonia, nei Balcani. Solo in due paesi, Cecoslovacchia e Francia, troviamo una continuità nella permanenza del blocco di sinistra, fatto che dovrebbe essere secondo me particolarmente studiato. La conclusione di queste osservazioni che naturalmente dovranno essere perfezionate ed esposte in forma sistematica, mi pare possa essere questa: realmente noi entriamo in una fase nuova dello sviluppo della crisi capitalistica. Questa fase si presenta in forme distinte nei paesi della periferia capitalistica e nei paesi di avanzato capitalismo. Tra queste due serie di Stati la Cecoslovacchia e la Francia rappresentano i due anelli di congiunzione. Nei paesi periferici si pone il problema della fase che ho chiamata intermedia tra la preparazione politica e la preparazione tecnica della rivoluzione. Negli altri paesi, Francia e Cecoslovacchia comprese, mi pare che il problema sia ancora quello della preparazione politica. Per tutti i paesi capitalistici si pone un problema fondamentale, quello del passaggio dalla tattica del fronte unico, inteso in senso generale, a una tattica determinata, che si ponga i problemi concreti della vita nazionale e operi sulla base delle forze popolari cosí come sono storicamente determinate.

Tecnicamente si tratta del problema delle parole d'ordine e anche delle forme di organizzazione. Se non avessi un certo timore di sentire gridare all'ordinovismo, direi che oggi uno dei problemi piú importanti che si pongono specialmente nei grandi paesi capitalistici è quello dei consigli di fabbrica e del controllo operaio, come base di un raggruppamento nuovo della classe proletaria che permetta una migliore lotta contro la burocrazia sindacale e permetta di inquadrare le masse ingentissime che sono disorganizzate non solo in Francia, ma anche in Germania ed in Inghilterra. Per l'Inghilterra mi pare in ogni modo che il problema del raggruppamento delle masse proletarie possa essere posto anche sullo stesso terreno sindacale. Il nostro partito inglese deve avere un programma di riorganizzazione democratica delle Trade-unions. Solo nella misura in cui i sindacati locali inglesi si coordineranno come le nostre Camere del lavoro e daranno alle Camere del lavoro poteri adeguati sarà possibile: 1) liberare gli operai inglesi dall'influenza della burocrazia sindacale; 2) ridurre l'influenza esercitata nel Labour party dal partito di MacDonald (ILP) che oggi funziona appunto come forza centralizzatrice locale nella polverizzazione sindacale; 3) creare un terreno in cui sia possibile agli elementi organizzati del nostro partito di esercitare direttamente un'influenza sulla massa operaia inglese. Io penso che una riorganizzazione in tal senso delle Trade-unions, sotto l'impulso del nostro partito, avrebbe il significato e l'importanza di una vera e propria germinazione soviettista. D'altronde essa sarebbe nella linea della tradizione storica della classe operaia inglese, dal chartismo fino ai comitati di azione del 1919.

Il secondo problema fondamentale posto dallo sciopero generale inglese è quello del Comitato anglo-russo. Io penso che nonostante la indecisione, la debolezza e se si vuole il tradimento della sinistra inglese durante lo sciopero generale, il Comitato anglo-russo debba essere mantenuto perché è il terreno migliore per rivoluzionare non solo il mondo sindacale inglese, ma anche i sindacati di Amsterdam. In un solo caso ci dovrebbe essere una rottura tra i comunisti e la sinistra inglese: se l'Inghilterra fosse alla vigilia della rivoluzione proletaria e il nostro partito cosí forte da poter condurre da solo la insurrezione.

Postilla. Queste non sono state scritte solo per preparare il lavoro del Comitato direttivo. Esse sono ben lungi dall'essere definitive, ma rappresentano solo il canovaccio per una prima discussione.

Sovversivo62

Il concetto prettamente italiano di «sovversivo» può essere spiegato cosí: una posizione negativa e non positiva di classe: il «popolo» sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei cosí detti signori. Nel concetto di «signore» c'è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un elemento fondamentale di distinzione: c'è anche l'avversione contro la burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino, anche il medio proprietario, odia il «funzionario», non lo Stato, che non capisce, e per lui è questo il «signore» anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde l'apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un «morto di fame», Quest'odio «generico» è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo appunto la posizione negativa e polemica elementare; non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio avversario. Le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell'avversario: ma appunto questo processo è ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale.

Un altro elemento per comprendere il concetto di «sovversivo» è quello dello strato noto con l'espressione tipica dei «morti di fame». I «morti di fame» non sono uno strato omogeneo, e si possono commettere gravi errori nella loro identificazione astratta. Nel villaggio e nei piccoli centri urbani di certe regioni agricole esistono due strati distinti di «morti di fame»: uno è quello dei «giornalieri agricoli»; l'altro, quello dei piccoli intellettuali. Questi giornalieri non hanno come caratteristica fondamentale la loro situazione economica, ma la loro condizione intellettuale-morale. Il contadino tipico di queste regioni è il piccolo proprietario o il mezzadro primitivo (che paga l'affitto con la metà, il terzo o anche i due terzi del raccolto secondo la fertilità e la posizione del fondo), che possiede qualche strumento di lavoro, il giogo di buoi e la casetta che spesso si è fabbricato egli stesso nelle giornate non lavorative, e che si è procurato il capitale necessario o con qualche anno di emigrazione, o andando a lavorare in «miniera» o con qualche anno di servizio nei carabinieri, ecc., o facendo qualche anno il domestico di un grande proprietario, cioè «industriandosi» e risparmiando. Il «giornaliero», invece, non ha saputo o voluto industriarsi e non possiede nulla, è un «morto di fame», perché il lavoro a giornata è scarso e saltuario.

Il «morto di fame» piccolo-borghese è originato dalla borghesia rurale: la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l'essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare manualmente: cosí si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari, ecc., ecc. Questo strato è un elemento perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni, ecc.) e dà il «sovversivo» locale, e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini, organizzando ai suoi servizi anche i «giornalieri morti di fame». In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il «sovversivismo» di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro «coraggio» disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati. Un altro elemento da esaminare è il cosí detto «internazionalismo» del popolo italiano. Esso è correlativo al concetto di «sovversivismo». Si tratta in realtà di un vago «cosmopolitismo» legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è conservato per l'assenza di una «storia politica e nazionale» italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno. Altrove ho notato che è però esistito ed esiste un particolare sciovinismo italiano, piú diffuso di quanto non pare. Le due osservazioni non son contraddittorie: in Italia l'unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione (o forse nessuna tradizione, perché prima del 1870 l'Italia non è mai stata un corpo unito e anche il nome Italia, che al tempo dei romani indicava l'Italia meridionale e centrale fino alla Magra e al Rubicone, nel medioevo perdette terreno di fronte al nome Longobardia (vedere lo studio di C. Cipolla sul nome Italia, pubblicato negli Atti dell'Accademia di Torino). L'Italia ebbe e conservò però una tradizione culturale che non risale all'antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all'età classica dall'Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base, molto debole invero, del Risorgimento e dell'unità per accentrare intorno alla borghesia gli strati piú attivi e intelligenti della popolazione, ed è ancora il sostrato del nazionalismo popolare: per l'assenza in questo sentimento dell'elemento politico-militare e politico-economico, cioè degli elementi che sono alla base della psicologia nazionalista francese o tedesca o americana, avviene che molti cosí detti «sovversivi» e «internazionalisti» siano «sciovinisti» in questo senso, senza credere di essere in contraddizione. Ciò che è da notarsi per capire la virulenza che assume talvolta questo sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale (Cinquecento-Seicento; spiegare questo fenomeno: cultura aulica, cortigiana, cioè quando la borghesia dei Comuni era in decadenza, e la ricchezza da produttiva era diventata usuraia, con concentrazioni di «lusso», preludio alla completa decadenza economica). Il concetto di rivoluzionario e di internazionalista, nel senso moderno della parola, è correlativo al concetto preciso di Stato e di classe: scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe (comprensione dello Stato esiste non solo quando lo si difende, ma anche quando lo si attacca per rovesciarlo); quindi, scarsa efficienza dei partiti, ecc. Bande zingaresche, nomadismo politico non sono fatti pericolosi e cosí non erano pericolosi il sovversivismo e l'internazionalismo italiano. Il «sovversivismo» popolare è correlativo al «sovversivismo» dall'alto, cioè al non essere mai esistito un «dominio della legge», ma solo una politica di arbitrio e di cricca personale o di gruppo.

Tutte queste osservazioni non possono essere, naturalmente, categoriche e assolute: esse servono a tentare di descrivere certi aspetti di una situazione, per valutare meglio l'attività svolta per modificarla (o la non attività, cioè la non comprensione dei propri compiti) e per dare maggior risalto ai gruppi che da questa situazione emergevano per averla capita e modificata nel loro ambito.

La questione dell'arditismo63

Il rapporto che esistette nel 1917-18 tra le formazioni di arditi e l'esercito nel suo complesso può portare ed ha portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sì un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata senz'altro la disfatta e la fuga; 2) che non bisogna considerare l'arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione. Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l'arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare.

Nella lotta politica, oltre alla guerra di movimento e alla guerra d'assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l'arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, cosí come si è rivelata nel 1914-18. Anche la guerra di movimento e la guerra di assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso; la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri, ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; cosí nell'arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell'arditismo moderno. Nella guerra d'assedio piú che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie piú esteso e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.

Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimmiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito; entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l'illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che all'attività privata illegale si possa contrapporre un'altra attività simile, cioè combattere l'arditismo coll'arditismo è una cosa sciocca; vuoi dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d'assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre: a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che, nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi sul modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.

Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell'arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare: come funzione di arma speciale l'arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico-militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.

Giolitti e Croce64

Nella commemorazione di Giolitti (morto il 17 luglio 1928) scritta per il Journal des débats, Maurice Pernot dice: «Egli prese come punto di partenza un'idea originale e forse giusta: nel momento in cui in Italia si delineavano due forze nuove, cioè una borghesia intraprendente e una classe operaia organizzata, bisognava sostituire ai vecchi governi di partito un governo di opinione pubblica e far partecipare queste due forze alla vita politica del paese». L'affermazione non è esatta né in generale né in alcuni particolari. Cosa vuoi dire «sostituire ai governi di partito un governo di opinione pubblica»? Significa sostituire al governo di «certi» partiti il governo di «altri» partiti. Nel caso concreto, in Italia, significava distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche, che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i loro privilegi e il loro parassitismo, e determinare una piú larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale attraverso il Parlamento. Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l'industria del Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari terrieri, per dare alla nuova borghesia piú largo spazio nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato. Giolitti ottenne questo colle leggi liberali sulla libertà di associazione e di sciopero, ed è da notare come nelle sue Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e sulla grettezza dei proprietari. Ma Giolitti non creò nulla: egli «capì» che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese, e ci riuscì. In realtà, Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedì la formazione di un'Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia piú strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese. È Giolitti che ha creato cosí la struttura contemporanea dello Stato italiano; e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che continuare l'opera sua, accentuando questo o quell'elemento subordinato.

Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma non proprio nel senso che sostengono molti critici; Giolitti fu antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un'espressione dell'assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per l'esistenza del Senato cosí come è organizzato); cosí si spiega che Giolitti fosse l'uomo delle «crisi extraparlamentari». Che il contrasto tra il Parlamento come si pretendeva fosse e come era realmente, cioè poco meno di nulla, abbia screditato il parlamentarismo, era inevitabile avvenisse: ma è la lotta contro il parlamentarismo da parte di Giolitti, e non l'essere egli parlamentarista, che ha screditato il parlamentarismo. (Un gesto «parlamentarista» di Giolitti fu quello fatto col discorso di Cuneo sull'articolo 5 dello Statuto, ma si trattò di una manovra per sgominare gli avversari politici: infatti Giolitti non ne fece nulla quando andò al potere).

Si può osservare, e bisognerà documentare cronologicamente, come Giolitti e Croce, uno nell'ordine della politica attuale, l'altro nell'ordine della politica culturale e intellettuale, abbiano commesso gli stessi e precisi errori. L'uno e l'altro non compresero dove andava la corrente storica, e praticamente aiutarono ciò che poi avrebbero voluto evitare e cercarono di combattere. In realtà, come Giolitti non comprese quale mutamento aveva portato nel meccanismo della vita politica italiana l'ingresso delle grandi masse popolari, cosí Croce non capì, praticamente, quale influsso culturale (nel senso di modificare i quadri direttivi intellettuali) avrebbero avuto le passioni immediate di queste masse. Da questo punto di vista è da vedere la collaborazione del Croce alla Politica di F. Coppola (anche il De Ruggiero vi collaborò nello stesso periodo): come mai il Croce, che aveva assunto un determinato atteggiamento verso Coppola e C. nel periodo 1914-15 con gli articoli dell'Italia nostra e della Critica (e il Coppola era specialmente preso di mira dalle noterelle di Italia nostra scritte, mi pare, dal De Lollis) potè nel 1919-20 dare a questo gruppo l'appoggio della sua collaborazione, proprio con articoli in cui il sistema liberale era criticato e limitato? ecc.

La favola del castoro65

(Il castoro, inseguito dai cacciatori che vogliono strappargli i testicoli da cui si estraggono dei medicinali, per salvar la vita, si strappa da se stesso i testicoli.) Perché non c'è stata difesa? Scarso senso della dignità umana e della dignità politica dei partiti: ma questi elementi non sono dati naturali, deficienze proprie di un popolo in modo permanentemente caratteristico. Sono dei «fatti storici» che si spiegano con la storia passata e con le condizioni sociali presenti. Contraddizioni apparenti: dominava una concezione fatalistica e meccanica della storia (Firenze 1917, accusa di bergsonismo) e però si verificavano atteggiamenti di un volontarismo formalistico sguaiato e triviale: per esempio, il progetto di costituire nel 1920 un Consiglio urbano a Bologna coi soli elementi delle organizzazioni, cioè di creare un doppione inutile, di sostituire a un organismo storico radicato nelle masse, come la Camera del lavoro, un organismo puramente astratto e libresco. C'era almeno il fine politico di dare una egemonia all'elemento urbano, che con la costituzione del Consiglio veniva ad avere un centro proprio, dato che la Camera del lavoro era provinciale? Questa intenzione mancava assolutamente e d'altronde il progetto non fu realizzato.

Il discorso di Treves sull'«espiazione»: questo discorso mi pare fondamentale per capire la confusione politica e il dilettantismo polemico dei leaders. Dietro a queste schermaglie c'è la paura delle responsabilità concrete, dietro a questa paura la nessuna unione con la classe rappresentata, la nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti: partito paternalistico, di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere. Perché non difesa? L'idea della psicosi di guerra, e che un paese civile non può «permettere» che si verifichino certe scene selvagge. Queste generalità erano anch'esse mascherature di altri motivi piú profondi (d'altronde, erano in contraddizione con l'affermazione ripetuta ogni volta dopo un eccidio: l'abbiamo sempre detto noi che la classe dominante è reazionaria!), che sempre si incentrano nel distacco dalla classe, cioè nelle «due classi»: non si riesce a capire ciò che avverrà se la reazione trionfa, perché non si vive la lotta reale, ma solo la lotta come «principio libresco». Altra contraddizione intorno al volontarismo: se si è contro il volontarismo si dovrebbe apprezzare la «spontaneità». Invece, no: ciò che era «spontaneo» era cosa inferiore, non degna di considerazione non degna neppure di essere analizzata. In realtà, lo «spontaneo» era la prova piú schiacciante dell'inettitudine del partito, perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili. Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919-1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.

Un documento eccezionale di questo distacco tra rappresentati e rappresentanti è costituito dal cosí detto patto di alleanza tra confederazione e partito, che può essere paragonato a un concordato fra Stato e Chiesa. Il partito, che è in embrione una struttura statale, non può ammettere nessuna divisione dei suoi poteri politici, non può ammettere che una parte dei membri si pongano come aventi uguaglianza di diritto, come alleati del «tutto», cosí come uno Stato non può ammettere che una parte dei suoi sudditi, oltre le leggi generali facciano con lo Stato cui appartengono e attraverso una potenza straniera, un contratto speciale di convivenza con lo Stato stesso. L'ammissione di una tale situazione implica la subordinazione di fatto e di diritto dello Stato e del partito alla cosí detta maggioranza dei rappresentanti: in realtà, a un gruppo che si pone come anti-Stato e antipartito e che finisce con l'esercitare indirettamente il potere. Nel caso del patto d'alleanza apparve chiaro che il potere non apparteneva al partito.

Al patto d'alleanza corrispondevano gli strani legami tra partito e gruppo parlamentare, anch'essi d'alleanza e di parità di diritto. Questo sistema di rapporti faceva sì che concretamente il partito non esistesse come organismo indipendente, ma solo come elemento costitutivo di un organismo piú complesso che aveva tutti i caratteri di un partito del lavoro, discentrato, senza volontà unitaria, ecc. Dunque i sindacati devono essere subordinati al partito? Porre cosí la quistione sarebbe errato. La quistione deve essere impostata cosí: ogni membro del partito, qualsiasi posizione o carica occupi, è sempre un membro del partito ed è subordinato alla sua direzione. Non ci può essere subordinazione tra sindacato e partito: se il sindacato ha spontaneamente scelto come suo dirigente un membro del partito, significa che il sindacato accetta liberamente le direttive del partito, e, quindi, ne accetta liberamente (anzi ne desidera) il controllo sui suoi funzionari. Questa quistione non fu impostata giustamente nel 1919, quantunque esistesse un grande precedente istruttivo, quello del giugno 1914: perché in realtà non esisteva una politica delle frazioni, cioè una politica del partito.

Concordati e trattati internazionali66

La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione (sia pure di una speciale determinata giurisdizione). Che poteri ha acquistato il Reich sulla Città del Vaticano in virtù del recente concordato? E ancora la fondazione della Città del Vaticano dà un'apparenza di legittimità alla finzione giuridica che il concordato sia un comune trattato internazionale bilaterale. Ma si stipulavano concordati anche prima che la Città del Vaticano esistesse, ciò che significa che il territorio non è essenziale per l'autorità pontificia (almeno da questo punto di vista). Un'apparenza, perché mentre il concordato limita l'autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dell'altra parte: se limitazione esiste per quest'altra parte, essa si riferisce all'attività svolta nel territorio del primo Stato, sia da parte dei cittadini della Città del Vaticano, sia cittadini dell'altro Stato che si fanno rappresentare dalla Città del Vaticano. Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale. Non si tratta certo piú della stessa forma di sovranità supernazionale (suzeraineté), quale era formalmente riconosciuta al papa nel medioevo, fino alle monarchie assolute e in altra forma anche dopo, fino al 1848; ma ne è una derivazione necessaria di compromesso.

D'altronde, anche nei periodi piú splendidi del papato e del suo potere supernazionale, le cose non andarono sempre molto lisce: la supremazia papale, anche se riconosciuta giuridicamente, era contrastata di fatto in modo spesso molto aspro e, nell'ipotesi piú ottimistica, si riduceva ai privilegi politici, economici e fiscali dell'episcopato dei singoli paesi.

I concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini. Lo Stato ottiene (e in questo caso occorrerebbe dire meglio il governo) che la Chiesa non intralci l'esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga, cosí come una stampella sostiene un invalido. La Chiesa cioè si impegna verso una determinata forma di governo (che è determinata dall'esterno, come documenta lo stesso concordato) di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri: ecco in che consiste la capitolazione dello Stato, perché di fatto esso accetta la tutela di una sovranità esteriore di cui praticamente riconosce la superiorità. La stessa parola «concordato» è sintomatica...

Gli articoli pubblicati nei Nuovi studi sul concordato sono tra i piú interessanti e si prestano piú facilmente alla confutazione. (Ricordare il «trattato» subito dalla repubblica democratica georgiana dopo la sconfitta del generale Denikin).

Ma anche nel mondo moderno, cosa significa praticamente la situazione creata in uno Stato dalle stipulazioni concordatarie? Significa il riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è piú quella medioevale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto un monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell'educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato, poiché assicura alla casta posizioni e condizioni preliminari che con le sole sue forze, con l'intrinseca adesione della sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere e avere.

S'intende quindi la lotta sorda e sordida degli intellettuali laici e laicisti contro gli intellettuali di casta, per salvare la loro autonomia e la loro funzione. Ma è innegabile la loro intrinseca capitolazione e il loro distacco dallo Stato. Il carattere etico di uno Stato concreto, di un determinato Stato, è definito dalla sua legislazione in atto e non dalle polemiche dei franchi tiratori della cultura. Se questi affermano: «Lo Stato siamo noi», essi affermano solo che il cosí detto Stato unitario è solo appunto «cosí detto», perché di fatto nel suo seno esiste una scissione molto grave, tanto piú grave in quanto è affermata implicitamente dagli stessi legislatori e governanti i quali infatti dicono che lo Stato è nello stesso tempo due cose: quello delle leggi scritte e applicate e quello delle coscienze che intimamente non riconoscono quelle leggi come efficienti e cercano sordidamente di svuotarle (o almeno limitarle nell'applicazione) di contenuto etico. Si tratta di un machiavellismo da piccoli politicanti; i filosofi dell'idealismo attuale, specialmente della sezione pappagalli ammaestrati dei Nuovi studi, si possono dire le piú illustri vittime del machiavellismo. È utile da studiare la divisione del lavoro che si cerca di stabilire tra la casta e gli intellettuali laici: alla prima viene lasciata la formazione intellettuale e morale dei giovanissimi (scuole elementari e medie), agli altri lo sviluppo ulteriore del giovane nell'università. Ma la scuola universitaria non è sottoposta allo stesso regime di monopolio cui invece sottosta la scuola elementare e media. Esiste l'università del Sacro Cuore e potranno essere organizzate altre università cattoliche equiparate in tutto alle università statali. Le conseguenze sono ovvie: la scuola elementare e media è la scuola popolare e della piccola borghesia, strati sociali che sono monopolizzati educativamente dalla casta, poiché la maggioranza dei loro elementi non giungono all'università, cioè non conosceranno l'educazione moderna nella sua fase superiore critico-storica, ma solo conosceranno l'educazione dogmatica.

L'università è la scuola della classe (e del personale) dirigente in proprio, è il meccanismo attraverso il quale avviene la selezione degli individui delle altre classi da incorporare nel personale governativo, amministrativo, dirigente. Ma con l'esistenza a parità di condizioni di università cattoliche anche la formazione di questo personale non sarà piú unitaria e omogenea. Non solo: ma la casta, nelle università proprie, realizzerà una concentrazione di cultura laico-religiosa, quale da molti decenni non si vedeva piú e si troverà di fatto in condizioni molto migliori della concentrazione laico-statale. Non è infatti neanche lontanamente paragonabile l'efficienza della Chiesa, che sta tutta come un blocco a sostegno della propria università, con l'efficienza organizzativa della cultura laica. Se lo Stato (anche nel senso piú vasto di società civile) non si esprime in una organizzazione culturale secondo un piano centralizzato e non può neanche farlo, perché la sua legislazione in materia religiosa è quella che è, e la sua equivocità non può non essere favorevole alla Chiesa, data la massiccia struttura di questa e il peso relativo e assoluto che da tale struttura omogenea si esprime, e se i titoli dei due tipi di università sono equiparati, è evidente che si formerà la tendenza a che le università cattoliche siano esse il meccanismo selettivo degli elementi piú intelligenti e capaci delle classi inferiori da immettere nel personale dirigente.

Favoriranno questa tendenza: il fatto che non c'è discontinuità educativa tra le scuole medie e l'università cattolica, mentre tale discontinuità esiste per le università laico-statali; il fatto che la Chiesa, in tutta la sua struttura, è già attrezzata per questo lavoro di elaborazione e selezione dal basso. La Chiesa, da questo punto di vista, è un organismo perfettamente democratico (in senso paternalistico): il figlio di un contadino o di un artigiano, se intelligente e capace, e se duttile abbastanza per lasciarsi assimilare dalla struttura ecclesiastica e per sentirne il particolare spirito di corpo e di conservazione e la validità degli interessi presenti e futuri, può, teoricamente, diventare cardinale e papa. Se nell'alta gerarchia ecclesiastica l'origine democratica è meno frequente di quanto potrebbe essere, ciò avviene per ragioni complesse, in cui solo parzialmente incide la pressione delle grandi famiglie aristocratiche cattoliche o la ragione di Stato (internazionale); una ragione molto forte è questa: che molti seminari sono assai male attrezzati e non possono educare compiutamente il popolano intelligente, mentre il giovane aristocratico dal suo stesso ambiente familiare riceve senza sforzo di apprendimento una serie di attitudini e di qualità che sono di primo ordine per la carriera ecclesiastica: la tranquilla sicurezza della propria dignità e autorità, e l'arte di trattare e governare gli altri.

Una ragione di debolezza della Chiesa nel passato consisteva in ciò: che la religione dava scarse possibilità di carriera all'infuori della carriera ecclesiastica, il clero stesso era deteriorato qualitativamente dalle «scarse vocazioni», o dalle vocazioni di soli elementi intellettualmente subalterni. Questa crisi era già molto visibile prima della guerra; era un aspetto della crisi generale delle carriere a reddito fisso con organici lenti e pesanti, cioè dell'inquietudine sociale dello strato intellettuale subalterno (maestri, insegnanti medi, preti, ecc.) in cui operava la concorrenza delle professioni legate allo sviluppo dell'industria e dell'organizzazione privata capitalistica in generale (giornalismo, per esempio, che assorbe molti insegnanti, ecc.). Era già incominciata l'invasione delle scuole magistrali e delle università da parte delle donne e con le donne dei preti, ai quali la Curia (dopo le leggi Credaro) non poteva proibire di procurarsi un titolo pubblico che permettesse di concorrere anche a impieghi di Stato e aumentare cosí la «finanza» individuale. Molti di questi preti, appena ottenuto il titolo pubblico, abbandonarono la Chiesa (durante la guerra, per la mobilitazione e il contatto con ambienti di vita meno soffocanti e angusti di quelli ecclesiastici, questo fenomeno acquistò una certa ampiezza).

L'organizzazione ecclesiastica subiva dunque una crisi costituzionale che poteva essere fatale alla sua potenza, se lo Stato avesse mantenuto integra la sua posizione di laicità, anche senza bisogno di una lotta attiva. Nella lotta tra le forme di vita, la Chiesa stava per perire automaticamente, per esaurimento proprio. Lo Stato salvò la Chiesa.

Le condizioni economiche del clero furono migliorate a piú riprese, mentre il tenore della vita generale, ma specialmente dei ceti medi, peggiorava. Il miglioramento è stato tale che le «vocazioni» si sono meravigliosamente moltiplicate, impressionando lo stesso pontefice, che le spiegava appunto con la nuova situazione economica. La base della scelta degli idonei al clericato è stata quindi ampliata, permettendo piú rigore e maggiori esigenze culturali. Ma la carriera ecclesiastica, se è il fondamento piú solido della potenza vaticana, non esaurisce le sue possibilità. La nuova struttura scolastica permette l'immissione nel personale dirigente laico di cellule cattoliche che andranno sempre piú rafforzandosi, di elementi che dovranno la loro posizione solamente alla Chiesa. È da pensare che l'infiltrazione clericale nella compagine dello Stato sia per aumentare progressivamente, poiché nell'arte di selezionare gli individui e di tenerli permanentemente a sé legati la Chiesa è quasi imbattibile. Controllando i licei e le altre scuole medie, attraverso i suoi fiduciari, essa seguirà, con la tenacia che le è caratteristica, i giovani piú valenti delle classi povere e li aiuterà a proseguire gli studi nelle università cattoliche. Borse di studio, sussidiate da convitti, organizzati con la massima economia, accanto alle università, permetteranno questa azione.

La Chiesa, nella sua fase odierna, con l'impulso dato dall'attuale pontefice all'Azione cattolica, non può accontentarsi solo di creare preti, essa vuole permeare lo Stato (ricordare la teoria del governo indiretto elaborata dal Bellarmino) e per ciò sono necessari i laici, è necessaria una con-centrazione di cultura cattolica rappresentata da laici. Molte personalità possono diventare ausiliari della Chiesa piú preziosi come professori d'università, come alti funzionari dell'amministrazione, ecc., che come cardinali o vescovi.

Allargata la base di scelta delle «vocazioni», una tale attività laico-culturale ha grandi possibilità di estendersi. La università del Sacro Cuore e il centro neoscolastico sono solo le prime cellule di questo lavoro. È intanto stato sintomatico il congresso filosofico del 1929: vi si scontrarono idealisti attuali e neoscolastici e questi parteciparono al congresso animati da spirito battagliero di conquista. Il gruppo neoscolastico, dopo il concordato, voleva appunto apparire battagliero, sicuro di sé per interessare i giovani. Occorre tener conto che una delle forze dei cattolici consiste in ciò, che essi s'infischiano delle «confutazioni perentorie» dei loro avversari non cattolici: la tesi confutata essi la riprendono imperturbati e come se nulla fosse. Il «disinteresse» intellettuale, la lealtà e onestà scientifica, essi non le capiscono o le capiscono come debolezza e dabbenaggine degli altri. Essi contano sulla potenza della loro organizzazione mondiale che si impone come fosse una prova di verità, e sul fatto che la grande maggioranza della popolazione non è ancora «moderna», è ancora tolemaica come concezione del mondo e della scienza.

Se lo Stato rinunzia a essere centro attivo e permanentemente attivo di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente. Ma lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa che abbia la capacità di limitarne il dominio spirituale sulle moltitudini. Si può prevedere che le conseguenze di una tale situazione di fatto, restando immutato il quadro generale delle circostanze, possono essere della massima importanza.

La Chiesa è uno Shylok anche piú implacabile dello Shylok shakespeariano: essa vorrà la sua libbra di carne, anche a costo di dissanguare la sua vittima e con tenacia mutando continuamente i suoi metodi, tenderà a raggiungere il suo programma massimo. Secondo l'espressione di Disraeli: «I cristiani sono gli ebrei piú intelligenti, che hanno capito come occorreva fare per conquistare il mondo».

La Chiesa non può essere ridotta alla sua forza «normale» con la confutazione in sede filosofica dei suoi postulati teorici e con le affermazioni platoniche di una autonomia statale (che non sia militante); ma solo con l'azione pratica quotidiana, con l'esaltazione delle forze umane creatrici in tutta l'area sociale.

Un aspetto della quistione che occorre ben valutare è quello delle possibilità finanziarie del Centro vaticano. L'organizzazione sempre piú in sviluppo del cattolicismo negli Stati Uniti dà la possibilità di raccogliere fondi molto vistosi, oltre alle rendite normali ormai assicurate (che però dal 1937 diminuiranno di 15 milioni all'anno per la conversione del debito pubblico dal 5% al 3,50%) e all'obolo di san Pietro. Potrebbero nascere quistioni internazionali a proposito dell'intervento della Chiesa negli affari interni dei singoli paesi, con lo Stato che sussidia permanentemente la Chiesa? La quistione è elegante, come si dice. La quistione finanziaria rende molto interessante il problema della cosí detta indissolubilità tra trattato e concordato proclamata dal pontefice. Ammesso che il papa si trovasse nella necessità di ricorrere a questo mezzo politico di pressione sullo Stato, non si porrebbe subito il problema della restituzione delle somme riscosse (che sono legate appunto al trattato e non al concordato)? Ma esse sono cosí ingenti ed è pensabile che saranno state spese in gran parte nei primi anni, che la loro restituzione può ritenersi praticamente impossibile. Nessuno Stato potrebbe fare un cosí gran prestito al pontefice per trarlo d'imbarazzo, e tanto meno un privato o una banca. La denunzia del trattato scatenerebbe una tale crisi nella organizzazione pratica della Chiesa, che la solvibilità di questa, sia pure a grande scadenza, sarebbe annientata. La convenzione finanziaria annessa al trattato deve essere pertanto considerata come la parte essenziale del trattato stesso, come la garanzia di una quasi impossibilità di denunzia del trattato, prospettata per ragioni polemiche e di pressione politica.

Brano di lettera di Leone XIII a Francesco Giuseppe: «E non taceremo, che in mezzo a tali impacci Ci manca pure il modo di sopperire del proprio alle incessanti e molteplici esigenze materiali, inerenti al governo della Chiesa. Vero è che ne vengono in soccorso le offerte spontanee della carità; ma Ci sta sempre innanzi con rammarico il pensiero che esse tornano di aggravio ai Nostri figli, e d'altra parte non si deve pretendere che inesauribile sia lo carità pubblica». «Del proprio» significa: «riscosse con imposte» dai cittadini di uno Stato pontificio, per i cui sacrifizi non si prova rammarico, a quanto pare; sembra naturale che le popolazioni italiane paghino le spese della Chiesa universale.

Nel conflitto tra Bismarck e la Santa Sede si possono trovare gli spunti dì una serie di quistioni che potrebbero essere sollevate per il fatto che il Vaticano ha la sede in Italia ed ha determinati rapporti con lo Stato italiano. Bismarck «fece lanciare dai suoi giuristi — scrive il Salata, op. cit., p. 271 — la teoria della responsabilità dello Stato italiano per i fatti politici del papa, che l'Italia aveva costituito in tale condizione di invulnerabilità e irresponsabilità per danni ed offese recati dal pontefice ad altri Stati».

Ugo Ojetti e i gesuiti67

La Lettera al rev. padre Enrico Rosa di U. Ojetti è stata pubblicata nel Pegaso del marzo 1929 e riportata nella Civiltà cattolica del 6 aprile successivo, con la lunga postilla del padre Rosa stesso.

La lettera dell'Ojetti è raffinatamente gesuitica. Comincia cosí: «Reverendo padre, tanta è dall'll febbraio la calca dei convertiti a un cattolicesimo di convenienza e di moda che Ella permetterà ad un romano, di famiglia, come si diceva una volta, papalina, battezzato in Santa Maria in Via ed educato alla religione proprio in Sant'Ignazio di Roma e dai loro gesuiti, d'intrattenersi mezz'ora con Lei, di riposarsi cioè dal gran bailamme considerando un uomo come Lei, integro e giudizioso, che era ieri quel ch'è oggi e quello che sarà domani». Piú oltre, ricordando i suoi primi maestri gesuiti: «Ed eran tempi difficili, che fuori a dir gesuita era come dire subdola potenza o fosca nequizia, mentre là dentro, all'ultimo piano del Collegio romano sotto i tetti [dove era posta la scuola di religione gesuita dove l'Ojetti fu educato], tutto era ordine, fiducia, ilare benevolenza e, anche in politica, tolleranza e mai una parola contro l'Italia, e mai, come purtroppo accadeva nelle scuole di Stato, il basso ossequio alla supremazia vera o immaginata di questa o di quella cultura straniera sulla nostra cultura». Ancora: ricorda di essere «vecchio abbonato» della Civiltà cattolica e «fedele lettore degli articoli ch'Ella vi pubblica» e perciò «io scrittore mi dirigo a lei scrittore, e le dichiaro il mio caso di coscienza».

C'è tutto: la famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l'educazione gesuitica, l'idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della Civiltà cattolica, il padre Rosa come vecchia guida spirituale dell'Ojetti, il ricorso dell'Ojetti, oggi, alla guida di lui per un caso di coscienza. L'Ojetti dunque non è un cattolico di oggi, non un cattolico dell' 11 febbraio, per convenienza o per moda; egli è un gesuita tradizionale, la sua vita è un «esempio» da portare nelle prediche, ecc. L'Ojetti non è mai stato made in Paris, non è mai stato un dilettante dello scetticismo e dell'agnosticismo, non è mai stato volterriano, non ha mai considerato il cattolicismo tutto al piú come un puro contenuto sentimentale delle arti figurative. Perciò l'11 febbraio l'ha trovato preparato ad accogliere la Conciliazione con «ilare benevolenza»; egli non pensa neppure (Dio liberi!) che si possa trattare di un instrumentum regni, perché egli stesso ha sentito «che forza sia nell'animo degli adolescenti il fervore religioso, e come, una volta acceso, esso porti il suo calore in tutti gli altri sentimenti, dall'amore per la patria e per la famiglia fino alla dedizione verso i capi, dando alla formazione morale del carattere addirittura un premio e una sanzione divina». Non è questa in compendio, la biografia, anzi l'autobiografia dell'Ojetti?

Però, però: «E la poesia? E l'arte? E il giudizio critico? E il giudizio morale? Tornerete tutti a obbedire ai gesuiti?», domanda uno spiritello all'Ojetti, nella persona di «un poeta francese, che è davvero un poeta». L'Ojetti non per nulla è stato alla scuola dei gesuiti; a queste domande ha trovato una soluzione squisitamente gesuitica, salvo che in un aspetto; nell'averla divulgata e resa aperta. L'Ojetti dovrebbe ancora migliorare la sua «formazione morale del carattere» con sanzione e premio divino: queste sono cose che si fanno e non si dicono. Ecco infatti la soluzione dell'Ojetti: «... la Chiesa, fermi i suoi dogmi, sa indulgere ai tempi e ben l'ha mostrato nel Rinascimento [ma dopo il Rinascimento c'è stata la Controriforma, di cui i gesuiti sono appunto campioni e rappresentanti], e Pio undecimo, umanista, sa di quant'aria abbisogni la poesia per respirare, e che ormai, da molti anni, senza aspettare la Conciliazione, anche in Italia la cultura laica e quella religiosa collaborano cordialmente nella scienza e nella storia». «Conciliazione non è confusione. Il papato condannerà, com'è suo diritto; il governo d'Italia permetterà, com'è suo dovere. E Lei, se lo crederà opportuno, spiegherà sulla Civiltà cattolica i motivi della condanna e difenderà le ragioni della fede, e noi qui, senza ira, difenderemo le ragioni dell'arte, se proprio ne saremo convinti, perché potrà darsi, come spesso è avvenuto da Dante al Manzoni, da Raffaello al Canova, che anche a noi fede e bellezza sembrino due lati dello stesso volto, due raggi della stessa luce. E talvolta ci sarà caro educatamente discutere. Baudelaire, ad esempio, è o non è un poeta cattolico?» «Il fatto è che oggi il conflitto pratico e storico è risolto. Ma nell'altro [«tra assoluto e relativo, tra spirito e corpo», «eterno contrasto che è nella coscienza di ciascuno di noi», dice Ojetti, cosa per cui B. Croce e G. Gentile, non cattolici, «furono contro il modernismo (?), soddisfatti (?) di vederlo sconfitto perché (?) sarebbe stato la cattiva (?) Conciliazione, il subdolo equivoco fatto sacra dottrina»] che è intimo ed eterno [e se è eterno come può essere conciliato?] non lo è, non può esserlo; e l'aiuto che a ciascuno può dare e dà quotidianamente la religione per risolverlo, a noi cattolici [come si può essere cattolici col «contrasto eterno»? Si può essere tutt'al piú gesuiti! ] la religione lo dava anche prima. Pochezza nostra se non siamo riusciti ancora con quell'aiuto a risolverlo una volta per sempre (!?); ma Ella sa che proprio dal continuo risorgere, rinnovarsi e rinfocarsi di quell'eterno conflitto sprizzano e sfavillano poesia ed arte».

Documento stupefacente davvero di gesuitismo e di bassezza morale. L'Ojetti può creare una nuova setta supergesuita: un modernismo estetizzante gesuitico!

La risposta del padre Rosa è meno interessante perché gesuiticamente piú anodina. Il Rosa si guarda bene dal guardare per il sottile nel cattolicismo di Ojetti e in quello dei neoconvertiti. Troppo presto: è bene che Ojetti e C. si dicano cattolici e si strofinino ai gesuiti, forse anzi da loro non si domanderà di piú. Dice bene il Rosa: «Convenienza e moda tuttavia, diciamolo tra noi in confidenza e di passaggio, che è forse un minor male e quindi un certo bene, rispetto a quella convenienza e moda antecedente, di futile anticlericalismo e di gretto materialismo, per cui molti o interessati o timidi si tenevano lontani dalla professione della fede che pure serbavano ancora in fondo all'anima naturalmente cristiana».

Curzio Malaparte68

Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert, italianizzato verso il 1924 in Malaparte, per un bisticcio con i Buonaparte.

Nel primo dopoguerra sfoggiò il nome straniero. Appartenne all'organizzazione di Guglielmo Lucidi, che arieggiava al gruppo francese di Clarté di Henri Barbusse e al gruppo inglese del Controllo democratico; nella collezione della rivista del Lucidi intitolata Rassegna (o Rivista) internazionale pubblicò un libro di guerra, La rivolta dei santi maledetti. una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei soldati italiani a Caporetto, brescianamente corretta in senso contrario nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio.

Il carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco: per aver successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri sull'Italia barbara e sua esaltazione della Controriforma: niente di serio e di meno che superficiale.

A proposito dell'esibizione del nome straniero (che a un certo punto cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco e fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt [Corrado] viene latinizzato in Curzio) è da notare una corrente abbastanza diffusa in certi intellettuali italiani del tipo «moralisti» o moralizzatori: essi erano portati a ritenere che all'estero si era piú onesti, piú capaci, piú intelligenti che in Italia. Questa «esteromania» assumeva forme tediose e talvolta repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei, ma era piú diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche rivoltanti; è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese!» o qualcosa di simile. Tale stato d'animo pare non sia stato caratteristico solo di alcuni gruppi intellettuali italiani, ma si sia verificato, in certe epoche di avvilimento morale, anche in altri paesi. In ogni modo è un segno rilevante di assenza di spirito nazionale-popolare, oltre che di stupidaggine. Si confonde tutto un popolo con alcuni strati corrotti di esso, specialmente della piccola borghesia (in realtà poi questi signori, essi stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che nei paesi essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è molto diffusa e può paragonarsi al Lumpenproletariat delle città industriali; la camorra e la, «mafia» non è altro che una simile forma di malavita, che vive parassitariamente sui grandi proprietari e sul contadiname. I moralizzatori cadono nel pessimismo piú scempio, perché le loro prediche lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini, invece di concludere alla propria inettitudine organica, trovano piú comodo giungere alla conclusione della inferiorità di un intero popolo, per cui non rimane altro che accomodarsi: «Viva Franza, viva Spagna, purché se magna!». Questi uomini, anche se talvolta mostrano un nazionalismo dei piú spinti, dovrebbero essere segnati dalla polizia tra gli elementi capaci di far la spia contro il proprio paese.

Vedi nell'Italia letteraria del 3 gennaio 1932 l'articolo di Malaparte: Analisi cinica dell'Europa. Negli ultimi giorni del 1931, nei locali dell'École de la paix a Parigi, l'ex presidente Herriot tenne un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot parlò il Malaparte in contraddittorio: «" Siccome anche voi, sotto certi aspetti [sic] siete un rivoluzionario — dissi tra l'altro a Herriot — [scrive Malaparte nel suo articolo] penso che siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che l'uno non esclude l'altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. " " Io non sono un rivoluzionario — mi rispose Herriot — sono semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un patriota "».

Cosí, per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora diventa ancor piú difficile comprendere cosa significa «rivoluzionario» e per Malaparte e in generale. Se nel linguaggio comune di certi gruppi politici «rivoluzionario» stava assumendo sempre piú il significato di «attivista», di interventista, di volontarista, di «dinamico», è difficile dire come Herriot possa esserne qualificato e perciò Herriot con spirito ha risposto di essere un «cartesiano». Per Malaparte pare possa intendersi che «rivoluzionario» è diventato un complimento, come una volta «gentiluomo» o «grande galantuomo» o «vero gentiluomo», ecc. Anche questo è brescianesimo: dopo il '48 i gesuiti chiamavano se stessi «veri liberali» e i liberali, libertini e demagoghi.

Vedi l'articolo di Curzio Malaparte, Una specie di accademia, nella Fiera letteraria del 3 giugno 1928: il Lavoro d'Italia avrebbe pagato 150.000 lire il romanzo Lo zar non è morto, scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il "romanzo dei Dieci" i tesserati della confederazione, in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150.000 lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano oltre i nomi del presidente e del segretario generale del "raduno" quelli del segretario nazionale e di due membri del direttorio del sindacato autori e scrittori!... Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al segretario del PNF. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei sindacati all'ora del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile.

Nell'articolo c'è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora sottosegretario all'Istruzione pubblica e contro Fedele, ministro. Nella Fiera letteraria del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un secondo articolo, Coda di un'accademia, in cui rincara sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del sindacato scrittori e che fece ridere mezzo mondo.)

Giovanni Cena69

La figura di Cena deve essere studiata sotto due punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (confrontare Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per l'educazione dei contadini (scuole dell'Agro romano e delle Paludi pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morì a Roma il 7 dicembre 1917. Nel 1900-01 fu corrispondente della Nuova antologia a Parigi e a Londra. Dal 1902 redattore-capo della rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. Nei Candidati all'immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una lettera autobiografica del Cena.

Sul Cena è molto interessante l'articolo di Arrigo Cajumi, Lo strano caso di Giovanni Cena (Italia letteraria, 24 novembre 1929).

Dall'articolo sul Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870, morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore della nostra borghesia compì al rimorchio delle nuove idee che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente piú amaro ed energico, causato dalle origini proletarie [! o contadine?] e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo dall'abbrutimento del lavoro paterno e del natìo paesello, Cena entrò inconsciamente nella corrente che in Francia, proseguendo una tradizione [!] derivata [!] da Proudhon via via [!] attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre évangiles zoliani, all'affare Dreyfus, alle università popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in Guéhenno [! piuttosto in Pierre Dominique e in altri], fu definita come l'andata al popolo [il Cajumi trasporta nel passato una parola d'ordine odierna, dei populisti: nel passato tra popolo e scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la rivoluzione francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France è il tipo piú compiuto di scrittore libresco e di casta]. Il nostro [Cena] veniva dal popolo: di qui l'originalità [!] della sua posizione, ma l'ambiente della lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il socialismo di un Prampolini. Era la seconda generazione piccolo-borghese dopo l'unità italiana (della prima ha scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei Sansoussi), estranea alla politica delle classi conservatrici dominanti, in letteratura piú connessa al De Amicis, allo Stecchetti che al Carducci, lontana dal D'Annunzio, e che preferirà formarsi sul Tolstoj, considerato piuttosto come pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale [simbolisti e poesia sociale?], alla pace perpetua, insulterà i governanti perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi sogni neppure per le cannonate del 1914 [un po' di maniera e stiracchiato tutto ciò]». «Cresciuto fra incredibili stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né popolano: " Come mi facessi un'istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora ho veramente il senso di essere un vittorioso ". " Sento profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol".»

Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il suicida si gettasse sotto un'automobile reale, ma nell'edizione definitiva non mantenne la scena: «... Studioso di cose sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino, non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di sindacalismo non v'è traccia, di Sorel manca il nome. Il modernismo non lo preoccupava». Questo brano mostra quanto sia superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta a volta popolano, proletario, contadino. La Stampa è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini politici siciliani, che fondavano partiti democratico-sociali o addirittura laburisti, e cade nel tranello di molti pubblicisti da ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le salse. Il Cajumi dimentica che, a Torino, la Stampa era, prima della guerra, a destra della Gazzetta del popolo, giornale democratico moderato. È poi grazioso l'accoppiamento Croce-Missiroli-Jaurès-Oriani per gli studi sociali.

Nello scritto Che fare? 70 il Cena voleva fondere i nazionalisti coi filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo-borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale, o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio71?

G. A. Fanelli72

Un volume che può essere considerato come l'espressione-limite teratologica della reazione degli intellettuali di provincia alle tendenze «americaniste» di razionalizzazione dell'economia, è quello di G. A. Fanelli (il cui settimanale rappresenta l'estrema destra retriva nell'attuale situazione italiana): L'artigianato. Sintesi di un'economia corporativa, Roma, ed. Spes, 1929, in 8°, pp. XIX+ 505, L. 30, di cui la Civiltà cattolica del 17 agosto 1929 pubblica una recensione nella rubrica Problemi sociali (del p. Brucculeri). È da notare che il padre gesuita difende la civiltà moderna (almeno in alcune sue manifestazioni) contro il Fanelli.

Brani caratteristici del Fanelli citati dalla Civiltà cattolica: «Il sistema [dell'industrialismo meccanico] presenta l'inconveniente di riassorbire per indiretta via, neutralizzandola, la maggior parte dei materiali vantaggi che essa può offrire. Dei cavalli-vapore installati, i tre quarti sono adibiti nei trasporti celeri, resi indispensabili dalla necessità di ovviare ai facili deperimenti che cagionano i forti concentramenti di merci. Della quarta parte, adibita alla produzione delle merci, circa la metà è impiegata alla produzione delle macchine, sicché, a somme fatte, di tutto l'enorme sviluppo meccanico che opprime il mondo col peso del suo acciaio, non altro che un ottavo dei cavalli installati viene impiegato nella produzione dei manufatti e delle sostanze alimentari» (p. 205 del libro). «L'italiano, temperamento asistematico, geniale, creatore, avverso alle razionalizzazioni, non può adattarsi a quella metodicità della fabbrica, in cui solo è riposto il rendimento del lavoro in serie. Che, anzi, l'orario di lavoro diviene per lui puramente nominale per lo scarso rendimento che egli dà in un lavoro sistematico. Spirito eminentemente musicale, l'italiano può accompagnarsi col solfeggio nel lavoro libero, attingendo da tale ricreazione nuove forze ed ispirazioni. Mente aperta, carattere vivace, cuore generoso, portato nella bottega... l'italiano può esplicare le proprie virtù creative, a cui, del resto, si appoggia tutta l'economia della bottega. Sobrio come nessun altro popolo, l'italiano sa attingere, nella indipendenza della vita di bottega, qualunque sacrifizio o privazione per far fronte alle necessità dell'arte, mentre mortificato nel suo spirito creatore dal lavoro squalificato della fabbrica, egli sperpera la paga nell'acquisto di un oblio e di una gioia che gli abbrevia l'esistenza» (p. 171 del libro).

Nel piano intellettuale e culturale il libro del Fanelli corrisponde all'attività letteraria di certi poeti di provincia che ancora continuano a scrivere continuazioni, in ottava rima, della Gerusalemme liberata e vittoriosa (conquistata), a parte certa mutria altezzosa e buffa. È da notare che le «idee» esposte dal Fanelli hanno avuto, in certi anni, una grande diffusione, ciò che era in curioso contrasto col programma «demografico» da una parte, e col concetto di «nazione militare» dall'altra, poiché non si può pensare a cannoni e corazzate costruite da artigiani o alla motorizzazione coi carri a buoi, né al programma di un'Italia «artigiana» e militarmente impotente in mezzo a Stati altamente industrializzati con le relative conseguenze militari: tutto ciò dimostra che i gruppi intellettuali che esprimevano queste lorianate in realtà s'infischiavano, non solo della logica, ma della vita nazionale, della politica e di tutto quanto.

Non è molto difficile rispondere al Fanelli. Il Brucculeri stesso nota giustamente che ormai l'artigianato è legato alla grande industria e ne dipende: esso ne riceve materie prime semilavorate e utensili perfezionati. Che l'operaio italiano (come media) dia una produzione relativamente scarsa può essere vero: ma ciò dipende da ciò che in Italia l'industrialismo, abusando della massa crescente di disoccupati (che l'emigrazione solo in parte riusciva ad assorbire), è stato sempre un industrialismo di rapina, che ha speculato sui bassi salari e ha trascurato lo sviluppo tecnico; la proverbiale «sobrietà» degli italiani è solo una metafora per significare che non esiste un tenore di vita adeguato al consumo di energia domandato dal lavoro di fabbrica (quindi anche bassi rendimenti). L'«italiano» tipo, presentato dal Fanelli, è coreografico e falso per ogni rispetto: nell'ordine intellettuale sono gli italiani che hanno creato l'«erudizione» e il paziente lavoro d'archivio: il Muratori, il Tiraboschi, il Baronio, ecc., erano italiani e non tedeschi: la «fabbrica» come grande manifattura ebbe certo in Italia le sue prime manifestazioni organiche e razionali. Del resto, tutto questo parlare di artigianato e di artigiani è fondato su un equivoco grossolano: perché nell'artigianato esiste un lavoro in serie e standardizzato dello stesso tipo «intellettuale» di quello della grande industria razionalizzata: l'artigiano produce mobili, aratri, roncole, coltelli, case di contadini, stoffe, ecc., sempre di uno stesso tipo, che è conforme al gusto secolare di un villaggio, di un mandamento, di un distretto, di una provincia, al massimo di una regione. La grande industria cerca di standardizzare il gusto di un continente o del mondo intiero per una stagione o per qualche anno; l'artigianato subisce una standardizzazione già esistente e mummificata di una valle o di un angolo del mondo. Un artigianato a «creazione individuale» arbitraria incessante è cosí ristretto che comprende solo gli artisti nel senso stretto della parola (e ancora: solo i «grandi» artisti che diventano «prototipi» dei loro scolari).

Autarchia finanziaria dell'industria73

Un articolo notevole di Carlo Pagni, A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo (nella Riforma sociale del settembre-ottobre 1929) esamina il volume di Massimo Fovel, Economia e corporativismo (Ferrara, Sate, 1929) e accenna a un altro scritto dello stesso Fovel, Rendita e salario nello Stato sindacale (Roma, 1928); ma non si accorge o non mette espressamente in rilievo che il Fovel nei suoi scritti concepisce il «corporativismo» come la premessa per l'introduzione in Italia dei sistemi americani piú avanzati nel modo di produrre e di lavorare.

Sarebbe interessante sapere se il Fovel scrive «estraendo dal suo cervello» oppure se egli ha dietro di sé (praticamente e non solo «in generale») determinate forze economiche che lo sorreggono e lo spingono. Il Fovel non è mai stato uno «scienziato» puro, che esprima certe tendenze cosí come gli intellettuali, anche «puri», esprimono sempre. Egli, per molti aspetti, rientra nella galleria del tipo Ciccotti, Naldi, Bazzi, Preziosi, ecc., ma è piú complesso, per l'innegabile suo valore intellettuale. Il Fovel ha sempre aspirato a diventare un grande leader politico, e non è riuscito perché gli mancano alcune doti fondamentali: la forza di volontà diretta a un solo fine e la non volubilità intellettuale tipo Missiroli; inoltre troppo spesso egli si è troppo chiaramente legato a piccoli interessi. Ha cominciato come «giovane-radicale», prima della guerra: avrebbe voluto ringiovanire, dandogli un contenuto piú concreto e moderno, il movimento democratico tradizionale, civettando un po' coi repubblicani, specialmente federalisti e regionalisti (Critica politica di Oliviero Zuccarini). Durante la guerra fu neutralista giolittiano. Nel 1919 entra nel PS a Bologna, ma non scrive mai sull'Avanti! Prima dell'armistizio fa delle scappate a Torino. Gli industriali torinesi avevano acquistato la vecchia e malfamata Gazzetta di Torino per trasformarla e farne un loro organo diretto. Il Fovel aspirava a diventare il direttore della nuova combinazione ed era certamente in contatto con gli ambienti industriali. Invece fu scelto come direttore Tommaso Borelli, «giovane liberale», al quale successe ben presto Italo Minunni dell'Idea nazionale (ma la Gazzetta di Torino, anche sotto il nome di Paese e nonostante le somme prodigate per svilupparla, non attecchì e fu soppressa dai suoi sostenitori). Lettera «curiosa» del Fovel nel 1919: egli scrive che «sente il dovere» di collaborare all'Ordine Nuovosettimanale; risposta in cui vengono fissati i limiti di una sua possibile collaborazione, dopo di che la «voce del dovere» si tace repentinamente. Il Fovel si aggregò alla banda Passigli, Montelli, Gardenghi, che aveva fatto del Lavoratore di Trieste un centro d'affari assai lucrosi, e che doveva avere dei contatti con l'ambiente industriale torinese: tentativo di Passigli di trasportare l'Ordine Nuovo a Trieste con gestione «commercialmente» redditizia (vedere per la data la sottoscrizione di 100 lire fatta dal Passigli che era venuto a Torino per parlare direttamente); quistione se un «galantuomo» poteva collaborare al Lavoratore. Nel 1921, negli uffici del Lavoratore furono trovate carte appartenenti al Fovel e al Gardenghi, da cui risultava che i due compari giocavano in borsa sui valori tessili durante lo sciopero guidato dai sindacalisti di Nicola Vecchi e dirigevano il giornale secondo gli interessi del loro giuoco. Dopo Livorno, Fovel non fece parlare di sé per qualche tempo. Ricomparve nel 1925, collaboratore dell'Avanti di Nenni e Gardenghi e impostò una campagna favorevole all'infeudamento dell'industria italiana alla finanza americana, campagna subito sfruttata (ma doveva esserci già accordo preventivo) dalla Gazzetta del popolo, legata all'ing. Ponti della Sip. Nel 1925-'26 il Fovel collaborò spesso alla Voce repubblicana. Oggi (1929) sostiene il corporativismo come premessa a una forma italiana d'americanizzazione, collabora al Corriere padano di Ferrara, ai Nuovi studi, ai Nuovi problemi, ai Problemi del lavoro e insegna (pare) all'università di Ferrara.

Ciò che nella tesi del Fovel, riassunta dal Pagni, pare significativo, è la sua concezione della corporazione come di un blocco industriale-produttivo autonomo, destinato a risolvere in senso moderno e accentuatamente capitalistico il problema di un ulteriore sviluppo dell'apparato economico italiano, contro gli elementi semifeudali e parassitari della società che prelevano una troppo grossa taglia sul plusvalore, contro i cosí detti «produttori di risparmio». La produzione del risparmio dovrebbe diventare una funzione interna (a miglior mercato) dello stesso blocco produttivo, attraverso uno sviluppo della produzione a costi decrescenti che permetta, oltre a una maggior massa di plusvalore, piú alti salari, con la conseguenza di un mercato interno piú capace, di un certo risparmio operaio e di piú alti profitti. Si dovrebbe avere cosí un ritmo piú accelerato di accumulazione di capitali nel seno stesso dell'azienda e non attraverso l'intermediario dei «produttori di risparmio» che in realtà sono divoratori di plusvalore. Nel blocco industriale-produttivo l'elemento tecnico: direzione e operai, dovrebbe avere il sopravvento sull'elemento «capitalistico» nel senso piú «meschino» della parola, cioè all'alleanza tra capitani d'industria e piccoli borghesi risparmiatori dovrebbe sostituirsi un blocco di tutti gli elementi direttamente efficienti nella produzione, che sono i soli capaci di riunirsi in sindacato e quindi di costituire la corporazione produttiva (donde la conseguenza estrema, tratta dallo Spirito, della corporazione proprietaria). Il Pagni obietta al Fovel che la sua trattazione non è una nuova economia politica, ma solo una nuova politica economica; obiezione formale, che può avere un rilievo in certa sede, ma non tocca l'argomento principale; le altre obiezioni, concretamente, non sono altro che la constatazione di alcuni aspetti arretrati dell'ambiente italiano per rispetto a un simile rivolgimento «organizzativo» dell'apparecchio economico. Le deficienze maggiori del Fovel consistono nel trascurare la funzione economica che lo Stato ha sempre avuto in Italia per la diffidenza dei risparmiatori verso gli industriali; e nel trascurare il fatto che l'indirizzo corporativo non ha avuto origine dalle esigenze di un rivolgimento delle condizioni tecniche dell'industria e neanche da quelle di una nuova politica economica, ma piuttosto dalle esigenze di una polizia economica, esigenze aggravate dalla crisi del 1929 e ancora in corso.

In realtà le maestranze italiane, né come individui singoli né come sindacati, né attivamente, né passivamente, non si sono mai opposte alle innovazioni tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro, all'introduzione di automatismi piú perfetti e di piú perfette organizzazioni tecniche del complesso aziendale. Tutt'altro. Ciò è avvenuto in America e ha determinato la semiliquidazione dei sindacati liberi e la loro sostituzione con un sistema di isolate (fra loro) organizzazioni operaie di azienda. In Italia, invece, ogni anche minimo e timido tentativo di fare della fabbrica un centro di organizzazione sindacale (ricordare la quistione dei fiduciari di azienda) è stato combattuto aspramente e stroncato risolutamente. Un'analisi accurata della storia italiana prima del '22 e anche prima del '26, che non si lasci allucinare dal carnevale esterno, ma sappia cogliere i motivi profondi del movimento operaio, deve giungere alla conclusione obiettiva che proprio gli operai sono stati i portatori delle nuove e piú moderne esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente; si può dire anche che qualche industriale capì questo movimento e cercò di accaparrarselo (cosí è da spiegare il tentativo fatto da Agnelli di assorbire l'Ordine Nuovo e la sua parola nel complesso Fiat, e di istituire cosí una scuola di operai e di tecnici specializzati per un rivolgimento industriale e del lavoro con sistemi «razionalizzati»: l'Ymca cercò di aprire dei corsi di «americanismo» astratto, ma nonostante le forti somme spese, i corsi fallirono).

A parte queste considerazioni, un'altra serie di quistioni si presenta: il movimento corporativo esiste e per alcuni aspetti le realizzazioni giuridiche già avvenute hanno creato le condizioni formali in cui il rivolgimento tecnico-economico può verificarsi su larga scala, perché gli operai né possono opporsi ad esso né possono lottare per diventarne essi stessi i portabandiera. L'organizzazione corporativa può diventare la forma di tale rivolgimento, ma si domanda: si vedrà una di quelle vichiane «astuzie della provvidenza» per cui gli uomini senza proporselo e senza volerlo ubbidiscano agli imperativi della storia? Per ora, si è portati a dubitarne. L'elemento negativo della «polizia economica» ha avuto finora il sopravvento sull'elemento positivo dell'esigenza di una nuova politica economica che rinnovi, ammodernandola, la struttura economico-sociale della nazione pur nei quadri del vecchio industrialismo. La forma giuridica possibile è una delle condizioni, non la sola condizione e neanche la piú importante: è solo la piú importante delle condizioni immediate. L'americanizzazione richiede un ambiente dato, una data struttura sociale (o la volontà decisa di crearla) e un certo tipo di Stato. Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberismo o della libertà effettiva politica, ma nel senso piú fondamentale della libera iniziativa e dell'individualismo economico che giunge con mezzi propri, come «società civile», per lo stesso sviluppo storico, al regime della concentrazione industriale e del monopolio. La sparizione del tipo semifeudale del redditiero è in Italia una delle condizioni maggiori del rivolgimento industriale (è, in parte, il rivolgimento stesso), non una conseguenza. La politica economico-finanziaria dello Stato è lo strumento di tale sparizione: ammortamento del debito pubblico, nominatività dei titoli, maggior peso della tassazione diretta su quella indiretta nella formazione delle entrate di bilancio. Non pare che questo sia o sia per diventare l'indirizzo della politica finanziaria. Anzi, lo Stato crea nuovi redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitarla del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà, finora l'indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste, e sta sempre piú diventando, per gli interessi costituiti che sorgono sulla vecchia base, una macchina di conservazione dell'esistente cosí come è e non una molla di propulsione. Perché? Perché l'indirizzo corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anche esso, provocando gravi rivolgimenti sociali, e crea occupazioni di nuovo tipo (organizzativo e non produttivo) ai disoccupati delle classi medie. Rimane sempre una via d'uscita: l'indirizzo corporativo, nato in dipendenza di una situazione cosí delicata, di cui bisogna mantenere l'equilibrio essenziale, a tutti i costi, per evitare una immane catastrofe, potrebbe procedere a tappe lentissime, quasi insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine: anche il bambino meglio e piú solidamente fasciato si sviluppa tuttavia e cresce. Ed ecco perché sarebbe interessante sapere se il Fovel è la voce di se stesso o è l'esponente di forze economiche che cercano, ad ogni costo, la loro via. In ogni caso, il processo sarebbe cosí lungo e troverebbe tante difficoltà, che nel frattempo nuovi interessi possono costituirsi e fare nuova tenace opposizione al suo sviluppo fino a stroncarlo.

La composizione demografica europea74

In Europa i diversi tentativi di introdurre alcuni aspetti dell'americanismo e del fordismo sono dovuti al vecchio ceto plutocratico, che vorrebbe conciliare ciò che, fino a prova contraria, pare inconciliabile: la vecchia e anacronistica struttura sociale demografica europea con una forma modernissima di produzione e di modo di lavorare quale è offerta dal tipo americano piú perfezionato, l'industria di Enrico Ford. Perciò l'introduzione del fordismo trova tante resistenze «intellettuali» e «morali» e avviene in forme particolarmente brutali e insidiose, attraverso la coercizione piú estrema. Per dirla in parole povere, l'Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefizi che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercizio di parassiti che, divorando masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale. La reazione europea all'americanismo è pertanto da esaminare con attenzione; dalla sua analisi risulterà piú di un elemento necessario per comprendere l'attuale situazione di una serie di Stati del vecchio continente e gli avvenimenti politici del dopoguerra.

L'americanismo, nella sua forma piú compiuta, domanda una condizione preliminare, di cui gli Americani che hanno trattato questi problemi non si sono occupati, perché essa in America esiste «naturalmente»: questa condizione si può chiamare «una composizione demografica razionale» e consiste in ciò che non esistono classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitane. La «tradizione», la «civiltà» europea, è invece proprio caratterizzata dall'esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata, che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell'esercito prima professionale, poi di leva, ma professionale per l'ufficialità. Si può anzi dire che quanto piú vetusta è la storia di un paese, tanto piú numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del «patrimonio» degli «avi», di questi pensionati della storia economica. Una statistica di questi elementi economicamente passivi (in senso sociale) è difficilissima, perché è impossibile trovare la «voce» che li possa definire ai fini di una ricerca diretta; indicazioni illuminanti si possono ricavare indirettamente, per esempio dall'esistenza di determinate forme di vita nazionale. Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di questi indizi e dei piú rilevanti. Il cosí detto «mistero di Napoli». Sono da ricordare le osservazioni fatte dal Goethe su Napoli e le «consolanti conclusioni morali» che ne ha tratto Giustino Fortunato75. Il Goethe aveva ragione nel demolire la leggenda del «lazzaronismo» organico dei napoletani e nel rilevare invece che essi sono molto attivi e industriosi. Ma la quistione consiste nel vedere quale sia il risultato effettivo di questa industriosità: essa non è produttiva e non è rivolta a soddisfare i bisogni e le esigenze di classi produttive. Napoli è la città dove la maggior parte dei proprietari terrieri del Mezzogiorno (nobili e no) spendono la rendita agraria. Intorno a qualche decina di migliaia di queste famiglie di proprietari, di maggiore o minore importanza economica, con le loro corti di servi e di lacchè immediati, si organizza la vita pratica di una parte imponente della città, con le sue industrie artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con lo sminuzzamento inaudito dell'offerta immediata di merci e servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un'altra parte importante della città si organizza intorno al transito e al commercio all'ingrosso. L'industria «produttiva» nel senso che crea e accumula nuovi beni, è relativamente piccola, nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata come la quarta città industriale dell'Italia, dopo Milano, Torino e Genova.

Questa struttura economico-sociale di Napoli (e su di essa è oggi possibile, attraverso le attività dei consigli provinciali dell'economia corporativa avere informazioni sufficientemente esatte) spiega molta parte della storia di Napoli città, cosí piena di apparenti contraddizioni e di spinosi problemi politici. Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per tutta una serie numerosa (le famose «cento città») di città non solo dell'Italia meridionale e delle isole, ma dell'Italia centrale e anche di quella settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara, ecc). Si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare.

Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato è questo: che la media e la piccola proprietà terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene data a mezzadria primitiva (cioè in affitto con corrisponsione in natura e servizi) o in enfiteusi; esiste cosí un volume enorme (in rapporto al reddito lordo) di piccola e media borghesia di «pensionati» e «redditieri», che ha creato, in certa letteratura economica degna di Candide, la figura mostruosa del cosí detto «produttore di risparmio», cioè di uno strato di popolazione passiva economicamente che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare; modo di accumulazione di capitale dei piú mostruosi e malsani, perché fondato sull'iniquo sfruttamento usurario dei contadini tenuti al margine della denutrizione e perché costa enormemente; poiché al poco capitale risparmiato corrisponde una spesa inaudita quale è quella necessaria per sostenere spesso un livello di vita elevato di tanta massa di parassiti assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è formata nella penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei Comuni medioevali e la decadenza dello spirito d'iniziativa capitalistica della borghesia urbana, una tale situazione anormale, determinatrice di stagnazione storica, è chiamato dallo storico Niccolò Rodolico «ritorno alla terra» ed è stato assunto addirittura come indice di benefico progresso nazionale, tanto le frasi fatte possono ottundere il senso critico).

Un'altra sorgente di parassitismo assoluto è sempre stata l'amministrazione dello Stato. Renato Spaventa ha calcolato che in Italia un decimo della popolazione (4 milioni di abitanti) vive sul bilancio statale. Avviene anche oggi che uomini relativamente giovani (di poco piú che 40 anni), con buonissima salute, nel pieno vigore delle forze fisiche e intellettuali, dopo venticinque anni di servizio statale, non si dedicano piú a nessuna attività produttiva, ma vivacchiano con le pensioni piú o meno grandi, mentre un operaio può godere una assicurazione solo dopo i 65 anni e per il contadino non esiste limite di età al lavoro (perciò un italiano medio si maraviglia se sente dire che un americano multimilionario continua ad essere attivo fino all'ultimo giorno della sua vita cosciente). Se in una famiglia un prete diventa canonico, subito il «lavoro manuale» diventa «una vergogna» per l'intiero parentado; ci si può dedicare al commercio tutt'al piú.

La composizione della popolazione italiana era già stata resa «malsana» dall'emigrazione a lungo termine e dalla scarsa occupazione delle donne nei lavori produttivi di nuovi beni; il rapporto tra popolazione «potenzialmente» attiva e quella passiva era uno dei piú sfavorevoli dell'Europa 76. Esso è ancora piú sfavorevole se si tiene conto: 1) delle malattie endemiche (malaria, ecc.) che diminuiscono la media individuale del potenziale di forza di lavoro; 2) dello stato cronico di denutrizione di molti strati inferiori contadineschi (come risulta dalle ricerche del prof. Mario Camis pubblicate nella Riforma sociale del 1926), le cui medie nazionali dovrebbero essere scomposte per medie di classe: se la media nazionale raggiunge appena lo standard fissato dalla scienza come indispensabile, è ovvio concludere alla denutrizione cronica di uno strato non indifferente della popolazione. Nella discussione al Senato del bilancio preventivo per l'anno 1929-30, l'on. Mussolini affermò che in alcune regioni, per intiere stagioni, si vive di sole erbe77; 3) della disoccupazione endemica esistente in alcune regioni agricole, e che non può risultare dalle inchieste ufficiali; 4) della massa di popolazione assolutamente parassitaria che è notevolissima e che per i suoi servizi domanda il lavoro di altra ingente massa parassitaria indirettamente; e di quella «semiparassitaria» che è tale perché moltiplica in modo anormale e malsano attività economiche subordinate, come il commercio e l'intermediariato in generale.

Questa situazione non esiste solo in Italia; in misura maggiore o minore esiste in tutti i paesi della vecchia Europa e in forma peggiore ancora esiste in India e in Cina, ciò che spiega il ristagno della storia in questi paesi e la loro impotenza politico-militare. (Nell'esame di questo problema non è in quistione immediatamente la forma di organizzazione economico-sociale, ma la razionalità delle proporzioni tra i diversi settori della popolazione nel sistema sociale esistente: ogni sistema ha una sua legge delle proporzioni definite nella composizione demografica, un suo equilibrio «ottimo» e squilibri che, non raddrizzati con opportuna legislazione, possono essere di per sé catastrofici, perché essiccano le sorgenti della vita economica nazionale, a parte ogni altro elemento di dissoluzione.) L'America non ha grandi «tradizioni storiche e culturali» ma non è neanche gravata da questa cappa di piombo: è questa una delle principali ragioni (piú importante certo della cosí detta ricchezza naturale) della sua formidabile accumulazione di capitali, nonostante il tenore di vita superiore, nelle classi popolari, a quello europeo. La non-esistenza di queste sedimentazioni vischiosamente parassitarle, lasciate dalle fasi storiche passate, ha permesso una base sana all'industria e specialmente al commercio e permette sempre piú la riduzione della funzione economica rappresentata dai trasporti e dal commercio a una reale attività subalterna della produzione, anzi il tentativo di assorbire queste attività nell'attività produttiva stessa. Ricordare gli esperimenti fatti da Ford e i risparmi fatti dalla sua azienda con la gestione diretta del trasporto e del commercio della merce prodotta, risparmi che hanno influito sui costi di produzione, cioè hanno permesso migliori salari e minori prezzi di vendita. Poiché esistevano queste condizioni preliminari, già razionalizzate dallo svolgimento storico, è stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando abilmente la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L'egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e della ideologia.

Il fenomeno delle «masse» che ha tanto colpito il Romier non è che la forma di questo tipo di società «razionalizzata», in cui la «struttura» domina piú immediatamente le soprastrutture e queste sono «razionalizzate» (semplificate e diminuite di numero).

Rotary club e massoneria: il Rotary è una massoneria senza piccoli borghesi e senza la mentalità piccolo-borghese. L'America ha il Rotary e l'Ymca, l'Europa ha la massoneria e i gesuiti. Tentativi di introdurre l'Ymca in Italia; aiuto dato dall'industria italiana a questi tentativi (finanziamento di Agnelli e reazione violenta dei cattolici). Tentativi di Agnelli di assorbire il gruppo dell'Ordine Nuovo, che sosteneva una sua forma di «americanismo» accetta alle masse operaie.

In America la razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo: questa elaborazione finora è solo nella fase iniziale e perciò (apparentemente) idillica. È ancora la fase dell'adattamento psicofisico alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari; non si è verificata ancora (prima della crisi del 1929), se non sporadicamente, forse, alcuna fioritura «superstrutturale»; cioè non è ancora stata posta la quistione fondamentale dell'egemonia. La lotta avviene con armi prese dal vecchio arsenale europeo e ancora imbastardite, quindi sono ancora «anacronistiche» in confronto dello sviluppo delle «cose». La lotta che si svolge in America (descritta dal Philip) è ancora per la proprietà del mestiere, contro la «libertà industriale», cioè simile a quella svoltasi in Europa nel secolo XVIII, sebbene in altre condizioni; il sindacato operaio americano è piú l'espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro e perciò lo stroncamento che ne domandano gli industriali ha un aspetto «progressivo». L'assenza della fase storica europea, che anche nel campo economico è segnata dalla rivoluzione francese, ha lasciato le masse popolari americane allo stato grezzo; a ciò si aggiunga l'assenza di omogeneità nazionale, il miscuglio delle culture-razze, la quistione dei negri.

In Italia si è avuto un inizio di fanfara fordistica (esaltazione della grande città, piani regolatori per la grande Milano, ecc., l'affermazione che il capitalismo è ancora ai suoi inizi e che occorre preparargli dei quadri di sviluppo grandiosi, ecc.; su ciò è da vedere nella Riforma sociale qualche articolo di Schiavi), poi si è avuta la conversione al ruralismo e all'illuministica depressione della città, l'esaltazione dell'artigianale e del patriarcalismo idillico, accenni alla «proprietà del mestiere» e a una lotta contro la libertà industriale. Tuttavia, anche se lo sviluppo è lento e pieno di comprensibili cautele, non si può dire che la parte conservatrice, la parte che rappresenta la vecchia cultura europea con tutti i suoi strascichi parassitari, sia senza antagonisti (da questo punto di vista è interessante la tendenza rappresentata dai Nuovi studi, dalla Critica fascista e dal centro intellettuale di studi corporativi organizzato presso l'università di Pisa).

Il libro del De Man è anch'esso, a suo modo, un'espressione di questi problemi che sconvolgono la vecchia ossatura europea, una espressione senza grandezza e senza adesione a nessuna delle forze storiche maggiori che si contendono il mondo.

Popolarità politica di D'Annunzio78

Come si spiega la relativa popolarità «politica» di Gabriele D'Annunzio? È innegabile che in D'Annunzio sono sempre esistiti alcuni elementi di «popolarismo»: nei suoi discorsi come candidato al Parlamento, nel suo gesto nel Parlamento, nella tragedia La gloria, nel Fuoco (discorso su Venezia e l'artigianato), nel Canto di calendimaggio e giù giù fino alle manifestazioni (alcune almeno) politiche fiumane. Ma non mi pare che siano «concretamente» questi elementi di reale significato politico (vaghi, ma reali) a spiegare questa relativa popolarità. Altri elementi hanno concorso: 1) l'apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo; 2) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, che non esistevano cioè «direttive» storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché dopo quattro anni di guerra decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non piú imposte dalla disciplina statale, ma liberamente e volontariamente scelte a se stessi; 4) quistioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente: le donne di Fiume attiravano molto (e su questo elemento insiste stranamente anche Nino Daniele nel suo volumetto su D'Annunzio). Questi elementi sembrano inetti solo se non si pensa che i ventimila giovani raccoltisi a Fiume non rappresentavano una massa socialmente e territorialmente omogenea, ma erano «selezionati» da tutta Italia, ed erano delle origini piú diverse e disparate; molti erano giovanissimi e non avevano fatto la guerra ma avevano letto la letteratura di guerra e i romanzi di avventura. Tuttavia, al di sotto di queste motivazioni momentanee e d'occasione pare si debba anche porre un motivo piú profondo e permanente, legato a un carattere permanente del popolo italiano: l'ammirazione ingenua e fanatica per l'intelligenza come tale, per l'uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. Per apprezzare questo nazionalismo bisogna pensare alla Scoperta dell'America di Pascarella: il Pascarella è l'«aedo» di questo nazionalismo e il suo canzonatorio è il piú degno di tale epopea. Questo sentimento è diversamente forte nelle varie parti d'Italia (è piú forte in Sicilia e nel Mezzogiorno), ma è diffuso da per tutto in una certa dose, anche a Milano e a Torino (a Torino certo meno che a Milano e altrove), è piú o meno ingenuo, piú o meno fanatico, anche piú o meno «nazionale» (si ha l'impressione, per esempio, che a Firenze sia piú regionale che altrove, e cosí a Napoli, dove è anche di carattere piú spontaneo e popolare in quanto i napoletani credono di essere piú intelligenti di tutti come massa e singoli individui; a Torino poche «glorie» letterarie e piú tradizione politico-nazionale, per la tradizione ininterrotta di indipendenza e libertà nazionale). D'Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: «apoliticità» fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili, dal piú sinistro al piú destro, e l'essere D'Annunzio ritenuto popolarmente l'uomo piú intelligente d'Italia.

Sono interessanti alcune pagine del volume Per l'Italia degli italiani, «Bottega di poesia», Milano 1923. In un punto, D'Annunzio ricorda la sua tragedia La gloria e se ne richiama per la sua politica verso i contadini che devono «regnare» perché sono i «migliori». Concetti politici reali, neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.

A proposito delle duemila lire date per gli affamati della carestia del 1921, cerca, in fondo, di farle dimenticare, presentando l'offerta come un tratto di politica «machiavellica»: avrebbe dato per ringraziare di aver liberato il mondo da un'illusione, ecc. Si potrebbe studiare la politica di D'Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè, per condurre le grandi masse all'«idea» nazionale o nazionalista imperialista).

Il cesarismo79

Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Compilare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità «eroica».

Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall'esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell'Italia, dopo la morte del Magnifico, è appunto successo questo.

Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo; e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria, è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo.

Si tratta di vedere se nella dialettica «rivoluzione-restaurazione» è l'elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in toto. Del resto, il cesarismo è una formula polemico-ideologica, e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica» e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato anch'esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. I governi «laburisti» di MacDonald erano soluzioni di tale specie in un certo grado; il grado di cesarismo si intensificò quando fu formato il governo con MacDonald presidente e la maggioranza conservatrice. Cosí in Italia nell'ottobre 1922, fino al distacco dei «popolari» e poi gradatamente fino al 3 gennaio 1925, e ancora fino all'8 novembre 1926, si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma piú pura e permanente, sebbene anch'essa non immobile e statica. Ogni governo di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può e non può svilupparsi fino ai gradi piú significativi (naturalmente l'opinione volgare è invece che i governi di coalizione siano il piú «solido baluardo» contro il cesarismo). Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto piú diverso da quello che fu fino a Napoleone III. Nel periodo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l'avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari, ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio. Si riproduce in questo campo la stessa situazione esaminata a proposito della formula giacobino-quarantottesca della cosí detta «rivoluzione permanente». La tecnica politica moderna è completamente mutata dopo il '48, dopo l'espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico-private, di partito e sindacali) e le trasformazioni avvenute nell'organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell'insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, intieri partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo. Lo schema generico delle forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né A né B nella lotta per costituire (o ricostituire) un equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un'ipotesi generica, uno schema sociologico (di comodo per l'arte politica). L'ipotesi può essere resa sempre piú concreta, portata a un grado sempre maggiore di approssimazione alla realtà storica concreta e ciò può ottenersi precisando alcuni elementi fondamentali.

Cosí, parlando di A e di B si è solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si può precisare di quale tipo di forze progressive e regressive si tratta e ottenere cosí maggiori approssimazioni. Nel caso di Cesare e di Napoleone I, si può dire che A e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire «assolutamente» a una fusione e assimilazione reciproca dopo un processo molecolare; ciò che infatti avvenne, almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini storico-politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un elemento di maggiore approssimazione. Un altro elemento è il seguente: la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica «momentanea» della forza dominante tradizionale, e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si era scissa politicamente (faziosamente) in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella giacobino-repubblicana. Le lotte interne di fazione erano tali da rendere possibile l'avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma «precoce»; tuttavia, la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come la storia successiva dimostrò abbondantemente. Napoleone III rappresentò (a suo modo, secondo la statura dell'uomo, che non era grande) queste possibilità latenti e immanenti: il suo cesarismo dunque ha un colore particolare. Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per cosí dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante e tali da rappresentare un completo rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo dì Stato a un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.

Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare-Napoleo-ne I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a quest'ultimo. Nel mondo moderno l'equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente, e anzi si approfondisce specialmente coll'avvento di forme cesaree. Tuttavia, il cesarismo ha anche nel mondo moderno un certo margine, piú o meno grande, a seconda dei paesi e del loro peso relativo nella struttura mondiale, perché una forma sociale ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa, e specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza progressiva antagonistica, per la natura e il modo di vita peculiare di essa, debolezza che occorre mantenere: perciò si è detto che il cesarismo moderno piú che militare è poliziesco.

Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo, sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all'equilibrio delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all'influenza egemonica. Cosí non si comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza studiare la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.

Un episodio storico molto importante da questo punto di vista è il cosí detto movimento per l'affare Dreyfus in Francia; anche esso rientra in questa serie di osservazioni, non perché abbia portato al «cesarismo», anzi proprio per il contrario: perché ha impedito l'avvento di un cesarismo che si stava preparando, di carattere nettamente reazionario. Tuttavia il movimento Dreyfus è caratteristico perché sono elementi dello stesso blocco sociale dominante che sventano il cesarismo della parte piú reazionaria del blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla campagna, ma agli elementi subordinati della città guidati dal riformismo socialista (però anche alla parte piú avanzata del contadiname). Del tipo Dreyfus troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali un personale diverso e piú numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente «progressivo» in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure «forze marginali», ma non assolutamente progressive, in quanto non possono «fare epoca». Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell'antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo di esprimere una volontà ricostruttiva in proprio.

La questione italiana80

Sono da vedere i discorsi tenuti dal ministro degli Esteri Dino Grandi al Parlamento nel 1932 e le discussioni che da quei discorsi derivarono nella stampa italiana e internazionale. L'on. Grandi impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l'espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici. L'impostazione dell'onorevole Grandi è un abile tentativo di costringere ogni possibile congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale attività diplomatica) ad occuparsi della «quistione italiana», come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale.

In che consiste la quistione italiana secondo questa impostazione? Consiste in ciò: che l'incremento demografico è in contrasto con la relativa povertà del paese, e cioè nell'esistenza di un superpopolamento. Occorrerebbe pertanto che all'Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente, sia demograficamente, ecc. Ma non pare che la quistione cosí impostata sia di facile soluzione e non possa dar luogo ad obiezioni fondamentali. Se è vero che i rapporti generali internazionali, cosí come si vengono sempre piú irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all'Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se, a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti, non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a condizioni storico-sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico, che fanno dell'economia nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè, non costa troppo caro, intendendo per Stato, come è necessario, non solo l'amministrazione dei servizi statali, ma anche l'insieme delle classi che lo compongono in senso stretto e lo dominano? Pertanto è possibile pensare che senza un mutamento di questi rapporti interni, la situazione possa mutare in meglio anche se intemazionalmente i rapporti migliorassero? Può anche essere osservato che la proiezione nel campo internazionale della quistione può essere un alibi politico di fronte alle masse del paese.

Che il reddito nazionale sia basso, può concedersi, ma non viene poi esso distrutto (divorato) dalla troppa popolazione passiva, rendendo impossibile ogni capitalizzazione progressiva, sia pure con ritmo rallentato? Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata, e occorre stabilire se la composizione demografica sia «sana» anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà moderna (e in tempi normali ha un'importanza anch'essa relativa) tutt'al piú impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica. La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall'aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la piú razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della classe economica dominante, del suo spirito d'iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, e l'azienda economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo internazionale può sanare la situazione. Non si ha esempio nella storia moderna di colonie di «popolamento»; esse non sono mai esistite. L'emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non è di ricchezza «naturale» per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita.

Che non si vogliano (o non si possano) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività «demografica», proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.

La paura del kerenskismo81

È uno dei tratti piú rilevanti degli anni del dopoguerra. Corrisponde forse, in una certa misura, alla paura del lafayettismo nel periodo successivo alla rivoluzione francese.

Intorno al kerenskismo si è formato tutto un «mito negativo». Sono state attribuite al Kerenskij tutte le qualità negative, le debolezze, le irrisolutezze, le deficienze di un'intiera epoca storica. Non essere il Kerenskij del proprio paese, è diventata l'ossessione di tutta una serie di capi di governo. Da questa paura sono derivate alcune delle massime politiche del machiavellismo attuale e dei principi critici su cui si svolge la propaganda politica di massa. Ma cosa c'è di reale in questa paura? Non si osserva che uno degli elementi del kerenskismo è appunto questa paura di essere Kerenskij, cioè il fatto che a un indirizzo positivo si sostituisce un indirizzo negativo nella vita politica, si pensa piú al «non fare» che al «fare concreto», si è ossessionati dall'avversario che si sente dominare nell'interno stesso della propria personalità. Del resto, si è «Kerenskij» non per volontà, cosí come la volontà non può fare evitare di essere Kerenskij. Kerenskij è stato l'espressione di un determinato rapporto di forze politiche, organizzative, militari immediate, che non era stato creato da lui e che egli non riuscì a correggere, nonostante i suoi sforzi disperati, tanto disperati e incomposti da dargli l'aspetto di un Arlecchino. Si è preso sul serio il quadro morale e intellettuale di Kerenskij dipinto dai suoi nemici come arma di lotta contro di lui, come mezzo immediato per liquidarlo e isolarlo, e se ne è fatto un uomo di paglia assoluto fuori del tempo e dello spazio, un tipico «ilota» da mostrare agli «spartiati» per educarli. Si potrebbe dimostrare che non è vero che Kerenskij non abbia ricorso alle misure di forza, tutt'altro; ma forse appunto questo suo ricorso alla forza accelerò il processo politico da cui fu travolto. In realtà, il Kerenskij ebbe molti successi relativi, e la sua linea politica non era sbagliata in sé; ma ciò contò poco nell'insieme delle forze scatenate intorno a lui, che erano incontrollabili da politici di tipo Kerenskij, cioè dall'insieme delle forze sociali di cui Kerenskij era l'espressione piú adeguata.

Paradigmi di storia etico-politica82

La Storia dell'Europa nel secolo XIX pare sia il saggio di storia etico-politica che deve diventare il paradigma della storiografia crociana offerto alla cultura europea. Ma occorre tener conto degli altri saggi: Storia del regno di Napoli,Storia d'Italia dal 1871 al 1915, e anche: La rivoluzione napoletana del 1799 e Storia dell'età barocca in Italia. I piú tendenziosi e dimostrativi sono però la Storia d'Europa e la Storia d'Italia. Per questi due saggi si pongono subito le domande: è possibile scrivere (concepire) una storia d'Europa nel secolo XIX senza trattare organicamente della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche? E può farsi una storia d'Italia nell'età moderna senza trattare delle lotte del Risorgimento? Ossia: è a caso o per una ragione tendenziosa che il Croce inizia le sue narrazioni dal 1815 e dal 1871? cioè prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto? dal momento in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora nel fuoco e col ferro? in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma? e invece assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politica? Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d'Europa non è altro che un frammento di storia, l'aspetto «passivo» della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione «riformistica» che durò fino al 1870.

Si pone il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità, non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione-rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì cosí a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo, nel 1831, nel 1848. Ma, nelle condizioni attuali, il movimento corrispondente a quello del liberalismo moderato e conservatore non sarebbe poi precisamente il movimento fascista?

Forse non è senza significato che nei primi anni del suo sviluppo il fascismo affermasse di riannodarsi alla tradizione della vecchia destra o destra storica. Potrebbe essere una delle tante manifestazioni paradossali della storia (un'astuzia della natura, per dirla vichianamente) questa per cui il Croce, mosso da preoccupazioni determinate, giungesse a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondarie, di ordine superficialmente romantico ma non per ciò meno irritanti per la compostezza classica del Goethe. L'ipotesi ideologica potrebbe essere presentata in questi termini: si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l'intervento legislativo dello Stato e attraverso l'organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni piú o meno profonde per accentuare l'elemento «piano di produzione», verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza perciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l'appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l'unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell'industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le piú avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti. Che un tale schema possa tradursi in pratica e in quale misura e in quali forme, ha un valore relativo: ciò che importa politicamente e ideologicamente è che esso può avere ed ha realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la grande massa dei piccoli borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali.

Questa ideologia servirebbe come elemento di una «guerra di posizione» nel campo economico (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento) internazionale, cosí come la «rivoluzione passiva» lo è nel campo politico. Nell'Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell'epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo del 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante oltre che pratico (per l'Italia), ideologico (per l'Europa) è il fascismo.

Sulla struttura economica nazionale83

Nella Riforma sociale del maggio-giugno 1932 è stata pubblicata una recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande industria in Italia, Bari, Laterza, 1931), recensione che contiene spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma l'autore potrebbe essere identificato nel prof. De Viti De Marco).

Si obietta prima di tutto al Morandi di non tener conto di ciò che è costata l'industria italiana: «All'economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili e altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un'epoca. L'economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare. un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifizi minori o maggiori».

È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell'introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione piú utilmente; ma tutto questo esame deve essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D'altronde, il solo criterio dell'utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un'altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l'unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l'introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un'emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intiere regioni, è certissimo. L'emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte e dall'altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale, tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l'abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati.

Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l'avventura salutare nel Sud, dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all'uomo richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionista che ha consentito Io sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l'economia rurale del Sud in economia industriale. Tuttavia, si può pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime salariale», e si può vedere qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi proprietari e dell'industria molitoria, ecc.

Si rimprovera al Morandi l'eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l'indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta. Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie, ecc.), che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato. Critica molto giusta: una gran parte dell'attività della Destra storica, da Cavour al 1876, fu dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare; solo con l'avvento della Sinistra, e specialmente con Crispi, si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d'ogni genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende possibile la politica «produttivistica» successiva.

«Cosí, ad esempio non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d'opera in Lombardia nei primi decenni dopo l'unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell'economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l'incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali.» La quistione però non è cosí semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l'eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati.

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle piú importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari, ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz'altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell'Ilva, dell'Ansaldo, della Banca di sconto, della Snia Viscosa, dell'Italgas. «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rivelato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l'autore considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi, se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l'Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni dei mercati, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mete da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente, che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non s'erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possano sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel paese piú progredito — come sarebbe stato razionale — non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo, sì, ma ormai superate; e se questo fatto non si presentasse «piú utile» per gli industriali, che speculavano sul basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi governativi piú che su una produzione tecnicamente perfezionata.

Nel fare l'analisi della relazione della Banca commerciale italiana all'assemblea sociale per l'esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella Riforma sociale, luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni: vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma il patrio protezionismo, che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita, rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di piú veniva conteso all'industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, " ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace ", la quale consisté nel prendere a prestito " a rotazione " all'estero, per prestare a piú lunga scadenza all'interno. " Una tale politica di tesoreria aveva però — dice la relazione — il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo ". Quando scoppiò la crisi mondiale, gli " investimenti liquidi " non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile; il risparmio estero arrestò il suo flusso; le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per piú aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931... (L'errore) antico consisteva nell'aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci " indipendenti dall'estero "; senza riflettere che, a mano a mano che non " dipendevamo " dall'estero per i prodotti, si rimaneva sempre piú dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all'estero per i capitali. L'esempio di altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è possibile: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una piú rapida accumulazione. L'Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiare una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

Caratteri italiani84

Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è «individualista»: alcuni dicono «dannosamente», altri «fortunatamente», ecc. Questo «individualismo», per essere valutato esattamente, dovrebbe essere analizzato poiché esistono diverse forme di «individualismo», piú progressive, meno progressive, corrispondenti a diversi tipi di civiltà e di. vita culturale. Individualismo arretrato, corrispondente a una forma di «apoliticismo» che corrisponde oggi all'antico «anazionalismo»; si diceva una volta: «Venga Francia, venga Spagna, purché se magna», come oggi si è indifferenti alla vita statale, alla vita politica dei partiti, ecc.

Ma questo «individualismo» è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l'adesione ai partiti politici «regolari»), significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo «splendido isolamento» del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico «moderni», come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive piú progressive, si «preferiscono» forme organizzate di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita»; quindi, le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legate alle classi alte. Ogni livello o tipo di civiltà ha un suo «individualismo» cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali. Questo «individualismo» italiano (che poi è piú o meno accentuato e dominante secondo i settori economico-sociali del territorio) è proprio di una fase in cui i bisogni piú immediati economici non possono trovare soddisfazione regolare permanentemente (disoccupazione endemica fra i lavoratori rurali e fra i ceti intellettuali piccoli e medi). La ragione di questo stato di cose ha origini storiche lontane, e del mantenersi di tale situazione è responsabile il gruppo dirigente nazionale.

Si pone il problema storico-politico: una tale situazione può essere superata coi metodi dell'accentramento statale (scuola, legislazione, tribunali, polizia) che tenda a livellare la vita secondo un tipo nazionale? cioè con un'azione che scenda dall'alto e che sia risoluta ed energica? Intanto si pone la questione del come formare il gruppo dirigente che esplichi una tale azione; attraverso la concorrenza dei partiti e dei loro programmi economici e politici? attraverso l'azione di un gruppo che eserciti il potere monopolisticamente? Nell'un caso e nell'altro è difficile superare l'ambiente stesso, che si rifletterà nel personale dei partiti, o nella burocrazia al servizio del gruppo monopolistico poiché se è pensabile la selezione secondo un tipo di pochi dirigenti, è impossibile una tale selezione «preventiva» delle grandi masse di individui che costituiscono tutto l'apparato organizzativo (statale ed egemonico) di un grande paese. Metodo della libertà, ma non in senso «liberale»: la nuova costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale, il piú basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili. Il torto storico della classe dirigente è stato quello di aver impedito sistematicamente che un tal fenomeno avvenisse nel periodo del Risorgimento e di aver fatto ragion d'essere della sua continuità storica il mantenimento di una tale situazione cristallizzata, dal Risorgimento in poi.

Apoliticismo85

Confrontare le osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare «apoliticismo». Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di «consorteria», una variazione italiana della «cricca» francese e della «camarilla» spagnuola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico, sì, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico-settario (legato all'attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia il termine indica qualcosa di piú legato a interessi economici (specialmente agrari e regionali). Una varietà di questo «apoliticismo» popolare è il «pressappoco» della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie. Perciò anche in Italia c'è un «settarismo» particolare, non di tipo giacobino alla francese o alla russa (cioè fanatica intransigenza per princípi generali e quindi il partito politico che diventa il centro di tutti gli interessi della vita individuale); il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito di consorteria nelle classi dominanti, non si basa su princípi, ma su passioni anche basse e ignobili e finisce con l'avvicinarsi al«punto d'onore» della malavita e all'omertà della mafia e della camorra.

Questo apoliticismo, unito alle forme rappresentative (specialmente dei corpi elettivi locali), spiega la deteriorità dei partiti politici, che nacquero tutti sul terreno elettorale (al congresso di Genova la quistione fondamentale fu quella elettorale); cioè i partiti non furono una frazione organica delle classi popolari (un'avanguardia, un'élite), ma un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un'accolta di piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia. Data la miseria generale del paese e la disoccupazione cronica di questi strati le possibilità economiche che i partiti offrivano erano tutt'altro che disprezzabili. Si è saputo che in qualche posto, circa un decimo degli iscritti ai partiti di sinistra racimolavano una parte dei mezzi per vivere dalle questure, che davano pochi soldi agli informatori data l'abbondanza di essi o li pagavano con permessi per attività marginali da mezzi vagabondi o con l'impunità per guadagni equivoci. In realtà, per essere di un partito bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non esistevano.

Tra gli altri elementi che mostrano manifestamente questo apoliticismo sono da ricordare i tenaci residui di campanilismo e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni di un cosí detto «spirito rissoso e fazioso» (lotte locali per impedire che le ragazze facciano all'amore con giovanotti «forestieri», cioè anche di paesi vicini, ecc.). Quando si dice che questo primitivismo è stato superato dai progressi della civiltà, occorrerebbe precisare che ciò è avvenuto per il diffondersi di una certa vita politica di partito che allargava gli interessi intellettuali e morali del popolo. Venuta a mancare questa vita, i campanilismi sono rinati, per esempio attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. Accanto al «tipo» sportivo, c'è il «tipo» campanilistico «sportivo».

Origine popolaresca del «superuomo»86

Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale, ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure abbiano origini molto piú modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d'appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d'appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il cosí detto romanzo «giallo».) In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente «superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il Conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo piú compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell'Athos dei Tre moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi. Cosí, quando si legge che uno è ammiratore del Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c'è molto del romanzo d'appendice. Vautrin è anch'egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré87.

La fortuna del Nietzsche è stata molto composita: le sue opere complete sono edite dall'editore Monanni e si conoscono le origini culturali ideologiche del Monanni e della sua piú affezionata clientela.

Vautrin e l'«amico di Vautrin» hanno lasciato larga traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua Folla (ricordare il torinese «amico di Vautrin» della Folla). Largo seguito popolaresco ha avuto l'ideologia del «moschettiere», presa dal romanzo del Dumas.

Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, si intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d'arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente. Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo e che è ancor piú calcato in Athos e in Giuseppe Balsamo. Montecristo portato nella politica, è certo oltremodo pittoresco (la lotta contro i «nemici personali» di Montecristo, ecc). Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr. «i selvaggi», «pizzo di ferro», ecc.).

Confrontare il libro di Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (edizione della Cultura). Accanto alla ricerca del Praz, sarebbe da fare quest'altra ricerca: del «superuomo» nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi (la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono particolarmente influenzati da tali immagini romanzesche, che sono come il loro «oppio», il loro «paradiso artificiale» in contrasto con la meschinità e le strettezze della loro vita reale immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come: «è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora», fortuna particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di queste «pecore» dicono: «Oh! avessi io il potere anche per un giorno solo», ecc.; essere «giustizieri» implacabili è l'aspirazione di chi sente l'influsso di Montecristo.

Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di «manomorta» culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare. A parte l'epigramma della «manomorta» e la soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un esame critico, esiste un'altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente; ed è appunto la letteratura d'appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac).

In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si disserta del «superuomo» d'appendice: quello intitolato Ideologia, quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort; e quello che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere. Nei Tre moschettieri, Athos ha piú dell'uomo fatale generico del basso romanticismo: in questo romanzo gli umori individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l'attività avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell'individuo è legata a forze oscure di magia e all'appoggio della massoneria europea, quindi l'esempio è meno suggestivo per il lettore popolaresco. Nel Balzac le figure sono piú concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell'atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e appunto perciò la loro influenza è piú «confessabile», non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della Folla. ma anche da mediocri intellettuali come Vincenzo Morello, che però ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla «alta cultura». Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco.

Per il «superuomo» del Nietzsche, oltre all'influsso romantico francese (e in generale del culto di Napoleone) sono da vedere le tendenze razziste, che hanno culminato nel Gobineau e quindi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke, la teoria della potenza, ecc.). Ma forse il «superuomo» popolaresco dumasiano è da ritenersi proprio una reazione «democratica» alla concezione d'origine feudale del razzismo, da unire all'esaltazione del «gallicismo» fatta nei romanzi di Eugenio Sue.

Come reazione a questa tendenza del romanzo popolare francese è da ricordare Dostoevskij: Raskolnikov è Montecristo «criticato» da un panslavista cristiano. Per l'influsso esercitato su Dostoevskij dal romanzo francese d'appendice è da confrontare il numero unico dedicato a Dostoevskij dalla Cultura.

Nel carattere popolaresco del «superuomo» sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da «primadonna» piú che da superuomo; molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale. Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un articolo di Louis Gillet nella Revue des deux mondes del 15 dicembre 1932. Questo tipo di «superuomo» ha la sua espressione nel teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la letteratura d'appendice quarantottesca): è da vedere il repertorio «classico» di Ruggero Ruggeri come Il marchese di Priola, L'artiglio, ecc., e molti lavori di Henri Bernstein.

Le idee di Agnelli88

Alcune osservazioni preliminari sul modo di porre il problema tanto da parte di Agnelli89 che di Einaudi: 1) Intanto il progresso tecnico non avviene «evolutivamente», un tanto per volta, per cui si possono fare delle previsioni oltre certi limiti: il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se fosse cosí come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe all'ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono senza lavoro alcuno. 2) La quistione poi piú importante è quella della produzione di alimenti: non si pensa che «finora» data la molteplicità di livelli di lavoro tecnicamente piú o meno progrediti, il salario è stato «elastico» solo perché è stata permessa, entro certi limiti, una ridistribuzione degli alimenti e specialmente di alcuni di essi, di quelli che danno il tono alla vita (con gli alimenti occorre porre l'abbigliamento e l'abitazione). Ora nella produzione degli alimenti i limiti alla produttività del lavoro sono piú segnati che nella produzione dei beni manufatti (e si intende «quantità globale» degli alimenti, non loro modificazioni merceologiche, che non ne aumentano la quantità). Le possibilità di «ozio» (nel senso dell'Einaudi) oltre certi limiti, sono date dalla possibilità della moltiplicazione degli alimenti come quantità e non dalla produttività del lavoro, e la «superficie della terra» con il regime delle stagioni ecc., pongono limiti ferrei, quantunque sia da ammettere che prima di raggiungere tali limiti ci sia ancora molto viaggio.

Le polemiche tipo Agnelli-Einaudi fanno pensare al fenomeno psicologico che durante la fame si pensa di piú all'abbondanza di cibo: sono ironiche, per dire il meno. Intanto la discussione è sbagliata psicologicamente, perché tende a far credere che l'attuale disoccupazione sia «tecnica», mentre ciò è falso. La disoccupazione «tecnica» è poca cosa in confronto della disoccupazione generale. Inoltre, il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di «lavoratori» e di «industriali» (datori di lavoro in senso stretto, tecnico), ciò che è falso e porta a ragionamenti illusori. Se cosí fosse, dato che l'industriale ha bisogni limitati, la quistione sarebbe semplice realmente: la quistione di ricompensare l'industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell'eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti. Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore). Dato il rapporto prima notato sul progresso tecnico nella produzione degli alimenti, avviene una selezione dei consumatori di alimenti, in cui i «parassiti» entrano nel conto prima dei lavoratori effettivi e specialmente prima dei lavoratori potenziali (cioè attualmente disoccupati). È da questa situazione che nasce il «fanatismo» dell'eguaglianza, e rimarrà «fanatismo» cioè tendenza estrema e irrazionale, finché tale situazione durerà. Si vede che esso scompare già dove si vede che per lo meno si lavora a far scomparire o attenuare tale situazione generale.

Il fatto che la «società industriale» non è costituita solo di «lavoratori» e di «imprenditori», ma di «azionisti» vaganti (speculatori) turba tutto il ragionamento di Agnelli: avviene che se il progresso tecnico permette un piú ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma «sempre» irrazionalmente agli azionisti e affini. Né oggi si può dire che esistano «imprese sane». Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa «grandezza» del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è cosí grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di «follia» (panico, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel «boom», nel «run» ecc.) e la speculazione diventa una necessità tecnica, piú importante del lavoro degli ingegneri e degli operai.

L'osservazione sulla crisi americana del 1929 appunto questo ha messo in luce: l'esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende «sane», per cui si può dire che «aziende sane» non ne esistono piú: si può pertanto usare la parola «sana» accompagnandola da un riferimento storico: «nel senso di una volta», cioè quando esistevano certe condizioni generali che permettevano certi fenomeni generali non solo in senso relativo, ma anche in senso assoluto 90.

Luigi Einaudi ha raccolto in volume i saggi pubblicati in questi anni di crisi. Uno dei motivi su cui l'Einaudi ritorna piú spesso è questo: che dalla crisi si uscirà quando l'inventività degli uomini avrà ripreso un certo slancio. Non pare che l'affermazione sia esatta da nessun punto di vista. È certo che il periodo di sviluppo delle forze economiche è stato caratterizzato anche dalle invenzioni, ma è esatto che in questo ultimo periodo le invenzioni siano state meno essenziali e anche meno numerose? Non pare: si può dire tutt'al piú che hanno colpito meno le immaginazioni, appunto perché precedute da un periodo di tipo simile, ma piú originale. Tutto il processo di razionalizzazione non è che un processo di «inventività», di applicazione di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l'Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all'introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l'affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre piú vaste masse umane, ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato piú «inventivo» di quello della razionalizzazione? Anche troppo inventivo, a quanto pare, fino all'«invenzione» della vendita a rate e della creazione artificiosa di nuovi bisogni nel consumo popolare. La verità è che pare quasi impossibile creare «bisogni» nuovi essenziali da soddisfare, con nuove industrie completamente originali, tali da determinare un nuovo periodo di civiltà economica corrispondente a quello dello sviluppo della grande industria. Oppure questi «bisogni» sono propri di strati della popolazione socialmente non essenziali e il cui diffondersi sarebbe morboso 91.

Sindacato e corporazione92

Difficoltà che trovano i teorici del corporativismo a inquadrare il fatto sindacale (organizzazione delle categorie) e sorda lotta tra sindacalisti tradizionali (per esempio, E. Rossoni) e corporativisti di nuova mentalità (per esempio, Giuseppe Bottai e Ugo Spirito). In realtà, il Rossoni non riesce a superare la vecchia concezione del sindacalismo formale e astratto, ma è anche vero che neanche il Bottai e lo Spirito riescono a comprendere e superare l'esigenza che sia pure grossolanamente e sordamente il Rossoni rappresenta. D'altronde, neanche il Bottai e lo Spirito sono d'accordo. Il Bottai afferma che il sindacato è un'istituzione necessaria che non può essere assorbita dalla corporazione, ma non riesce a definire cosa debba essere e quale funzione debba avere il sindacato; lo Spirito, invece, con una consequenziarietà formale, sostiene che il sindacato deve essere assorbito nella corporazione, ma in questo assorbimento non appare quali compiti nuovi e quali nuove forme debbano risultare. Lo Spirito in due scritti sul libro del Bottai (Il Consiglio nazionale delle corporazioni, Mondadori, Milano 1932, pp. XI+ 427), il primo pubblicato nel Leonardo del marzo 1933 (Il fascismo nella fase corporativa) e il secondo nell'Italia letteraria del 26 marzo del 1933 (Origine e avvenire della corporazione fascista). accenna al suo dissenso col Bottai. Scrive lo Spirito in questo secondo articolo: «Di quali prospettive intenda parlare il Bottai, si comprende da quel che egli osserva nello stesso articolo (articolo in Lo spettacolo italiano del settembre 1930), a proposito del rapporto tra sindacalismo e corporativismo e quindi tra sindacati e corporazioni e tra corporazioni nazionali e corporazioni di categoria. In una nota pubblicata in Leonardo ho già accennato al risoluto atteggiamento assunto dal Bottai contro ogni tentativo verso un corporativismo integrale che risolva in sé il sindacalismo. Eppure, penso che il concepire in tal modo l'ulteriore sviluppo del corporativismo sia nella stessa logica di tutto il suo pensiero e della sua azione politica, volta a dare realtà e concretezza alla corporazione. Se la corporazione stenta ancora a trovare quella ricchezza che le è indubbiamente riservata, è soltanto perché non riesce a riassorbire in sé il sindacato, al quale resta giustapposta e in gran parte estranea. Il sindacalismo di Stato ha segnato il primo passo verso il corporativismo; oggi bisogna porre il problema del superamento definitivo di una forma sociale troppo legata ancora al passato, e perciò in qualche modo limitatrice dell'originalità del fascismo. Il sindacalismo è espressione del classismo; col sindacato di Stato le classi sono messe allo stesso livello e avviate a una piú spirituale collaborazione, ma soltanto con la corporazione il classismo sarà superato sul serio e con esso il principio dell'arbitraria concorrenza (liberalismo) e della materialistica lotta (socialismo). Allora la corporazione si arricchirà di tutta la vita del sindacato, e, liberata dalla funzione di comporre il dualismo inerente all'ordinamento sindacale, potrà operare senza limiti nella costruzione della nuova vita economica e politica».

Appaiono evidenti le ragioni per cui il Bottai non accetta la tesi dello Spirito, ragioni politiche ed economiche, come appare evidente che la costruzione dello Spirito è una non molto brillante e feconda utopia libresca. Ma è interessante notare che in verità non si comprende neanche cosa lo Spirito intenda per sindacato e per categoria e come egli paia non conoscere la letteratura in proposito. Gli si potrebbero ricordare le polemiche sull'organizzazione per fabbrica (di tipo industriale) in contrapposto a quella per categoria; il diverso significato che la parola «categoria» ha avuto (dal semplice mestiere, per esempio di tornitore, a quello di operaio metallurgico, ecc.) e la discussione stessa se, nonostante che fosse un progresso l'amalgamazione di tutti gli elementi di un'industria in un solo sindacato unitario, tuttavia non fosse necessario, per ragioni tecnico-professionali (sviluppo delle forme di lavoro, degli utensili, ecc.), conservare una traccia dell'organizzazione di mestiere, in quanto il mestiere tecnicamente si mantiene distinto e indipendente.

È da notare, in ogni modo, la giustezza fondamentale dell'intuizione dello Spirito, per la quale, ammesso che il classismo sia stato superato dal corporativismo e da una forma qualsiasi di economia regolata e programmatica, le vecchie forme sindacali, nate sul terreno del classismo, devono essere aggiornate, ciò che potrebbe anche voler dire assorbite dalla corporazione; da ciò si deduce che la resistenza del vecchio sindacalismo formale e astratto è una forma di critica reale ad affermazioni che si possono fare solo sulla carta. Cioè il sindacalismo astratto e formale è solo una forma di feticismo e di superstizione? Nell'elemento sindacato prevale ancora il salariato, da una parte, e il percettore di profitto, dall'altra, oppure realmente il fatto produttivo ha superato quello della distribuzione del reddito industriale tra i vari elementi della produzione? Fino a quando l'operaio, da una parte, e l'industriale, dall'altra, dovranno preoccuparsi del salario e del profitto, è evidente che il sindacalismo vecchio tipo non è superato e non può essere assorbito in altre istituzioni. Il torto scientifico dello Spirito è quello di non esaminare in concreto questi problemi, ma di presentare le quistioni nel loro aspetto formale e apodittico, senza le necessarie distinzioni e le indispensabili fasi di transizione: da ciò forse non solo il suo contrasto col Rossoni ma anche quello col Bottai, il cui spirito politico non può non sentire queste necessità.

Se si parte dal punto di vista della produzione, e non da quello della lotta per la distribuzione del reddito, è evidente che il terreno sindacale deve essere completamente mutato. In una fabbrica di automobili di una certa estensione, oltre agli operai meccanici, lavora un certo numero di operai di altre «categorie»: muratori, elettricisti, materassai, carrozzieri, pellettieri, vetrai, ecc. Questi operai a quale sindacato dovranno appartenere dal punto di vista della produzione? Certamente al sindacato metallurgico o meglio ancora, al sindacato dell'automobile, perché il loro lavoro è necessario per la costruzione dell'automobile. Cioè in ogni complesso produttivo, tutti i mestieri sono rivolti alla costruzione dell'oggetto principale per cui il complesso è specializzato. Ma se la base è il salario, è evidente che i muratori dovranno unirsi ai muratori, ecc., per regolare il mercato del lavoro, ecc. D'altronde, pure riconosciuta la necessità che tutti i mestieri di un'azienda produttiva si uniscano per la produzione, intorno al prodotto stesso, occorre tener conto che ogni mestiere è un fatto tecnico in continuo sviluppo e che di questo sviluppo bisogna esista un organo, che controlli, diffonda, favorisca le innovazioni progressive. Si può riconoscere che nell'attuale grande azienda razionalizzata, le vecchie qualifiche di mestiere vanno sempre piú perdendo importanza e si sviluppano nuove qualifiche spesso limitate a un'azienda o a un gruppo di aziende: tuttavia l'esigenza rimane ed è dimostrata dalle difficoltà dei turnover e dalla spesa che l'eccessivo turnover rappresenta per l'azienda stessa. La soluzione rappresentata dai delegati di reparto eletti dalle squadre di lavorazione, per cui nel complesso rappresentativo tutti i mestieri hanno un rilievo, pare sia finora la migliore trovata. È possibile infatti riunire i delegati per mestiere sulle quistioni tecniche e l'insieme dei delegati sulle quistioni produttive. Finora lo Spirito non si è mai interessato delle quistioni di fabbrica e di azienda: eppure, non è possibile parlare con competenza dei sindacati e dei problemi che essi rappresentano senza occuparsi della fabbrica o dell'azienda amministrativa, delle sue esigenze tecniche, dei rapporti reali che vi si annodano e dei diversi atteggiamenti vitali che gli addetti vi assumono. Per l'assenza di questi interessi vivi, tutta la costruzione dello Spirito è puramente intellettualistica e, se attuata, darebbe luogo solamente a schemi burocratici senza impulso e senza possibilità di sviluppo.

Gentile e la filosofia della politica93

Confrontare l'articolo pubblicato da G. Gentile nello Spectator del 3 novembre 1928 e ristampato nell'Educazione fascista. «Filosofia che non si pensa (!?), ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma con le formule ma con l'azione». Poiché da quando esiste l'uomo, si è sempre «fatto». è sempre esistita l'«azione», questa filosofia è sempre esistita, è stata pertanto la filosofia di... Nitti e di Giolitti. Ogni Stato ha «due filosofie»: quella che si enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e quella che si afferma con l'azione ed è la filosofia reale, cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura queste due filosofie coincidono, divergono, sono in contrasto, sono coerenti intimamente e tra loro. La «formula» gentiliana non è, in realtà, che la mascheratura sofisticata della filosofia politica piú nota col nome di «opportunismo» ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come si dice).

Taylor e l'americanismo94

Eugenio Giovannetti ha scritto, nel Pegaso del maggio 1929, un articolo su Federico Taylor e l'americanismo, in cui scrive: «L'energia letteraria, astratta, nutrita di retorica generalizzante, non è insomma oggi piú in grado di capire l'energia tecnica, sempre piú individuale ed acuta, tessuto originalissimo di volontà singolare e di educazione specializzata. La letteratura energetica è ancora al suo Prometeo scatenato, immagine troppo comoda. L'eroe della civiltà tecnica non è uno scatenato; è un silenzioso che sa portare pei cicli la sua ferrea catena. Non è un ignorante che si goda l'aria: è uno studioso nel piú bel senso classico, perché studium significava "punta viva ". Mentre la civiltà tecnica, o meccanicistica come volete chiamarla, elabora in silenzio questo suo tipo di eroe incisivo, il culto letterario dell'energia non crea che un gaglioffo aereo, un acchiappanuvole scalmanato».

È da rilevare come non si sia cercato di applicare all'americanismo la formuletta del Gentile sulla «filosofia che non si enunzia in formule, ma si afferma nell'azione»; ciò è significativo e istruttivo, perché se la formula ha un valore, è proprio l'americanismo che può rivendicarlo. Invece, quando si parla dell'americanismo, si trova che esso è «meccanicistico», rozzo, brutale, cioè «pura azione», e gli si contrappone la tradizione, ecc. Ma questa tradizione, perché non viene assunta anche come base filosofica, come la filosofia enunziata in formule di quei movimenti per i quali invece la «filosofia è affermata nell'azione»? Questa contraddizione può spiegare molte cose: la differenza, per es., tra l'azione reale, che modifica essenzialmente sia l'uomo che la realtà esterna (cioè la reale cultura) ed è l'americanismo, e il gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario, non le cose, il gesto esterno, non l'uomo interiore. La prima sta creando un avvenire che è intrinseco alla sua attività obiettiva e del quale si preferisce tacere. Il secondo crea solo fantocci perfezionati, stagliati su un figurino retoricamente prefissato, e che cadranno nel nulla non appena saranno recisi i fili esterni che danno loro l'apparenza del moto e della vita.

Azioni e titoli di Stato95

Quale radicale mutamento porterà nell'orientamento del piccolo e medio risparmio l'attuale depressione economica se essa, come pare probabile, si prolunga ancora per qualche tempo? Si può osservare che la caduta del mercato azionario ha determinato uno smisurato spostamento di ricchezza e un fenomeno di espropriazione «simultanea» del risparmio di vastissime masse della popolazione, un po' da per tutto, ma specialmente in America: cosí i processi morbosi che si erano verificati a causa dell'inflazione, nel primo dopoguerra, si sono rinnovati in tutta una serie di paesi, e hanno operato nei paesi che nel periodo precedente non avevano conosciuto l'inflazione. Il sistema che il governo italiano ha intensificato in questi anni (continuando una tradizione già esistente, sia pure su scala piú piccola) pare il piú razionale ed organico, almeno per un gruppo di paesi, ma quali conseguenze potrà avere? Differenza tra azioni comuni e azioni privilegiate, tra queste e le obbligazioni, e tra azioni e obbligazioni del mercato libero e obbligazioni o titoli di Stato. La massa dei risparmiatori cerca di disfarsi completamente delle azioni di ogni genere, svalutate in modo inaudito, preferisce le obbligazioni alle azioni, ma preferisce i titoli di Stato a ogni altra forma di investimento. Si può dire che la massa dei risparmiatori vuole rompere ogni legame diretto con l'insieme del sistema capitalistico privato, ma non rifiuta la sua fiducia allo Stato: vuole partecipare all'attività economica, ma attraverso lo Stato, che garantisca un interesse modico ma sicuro. Lo Stato viene cosí ad essere investito di una funzione di prim'ordine nel sistema capitalistico, come azienda (holding statale) che concentra il risparmio da porre a disposizione dell'industria e dell'attività privata, come investitore a medio e lungo termine (creazione italiana dei vari Istituti di credito mobiliare, di ricostruzione industriale, ecc.; trasformazione della Banca commerciale, consolidamento delle Casse di risparmio, creazione di nuove forme nel risparmio postale, ecc.). Ma, una volta assunta questa funzione, per necessità economiche imprescindibili, può lo Stato disinteressarsi dell'organizzazione della produzione e dello scambio? lasciarla, come prima, all'iniziativa della concorrenza e dell'iniziativa privata? Se ciò avvenisse, la sfiducia che oggi colpisce l'industria e il commercio privato, travolgerebbe anche lo Stato; i! formarsi di una situazione, che costringesse lo Stato a svalutare i suoi titoli (con l'inflazione o in altra forma) come si sono svalutate le azioni private, diventerebbe catastrofico per l'insieme dell'organizzazione economico-sociale. Lo Stato è cosí condotto necessariamente a intervenire per controllare se gli investimenti avvenuti per il suo tramite sono bene amministrati e cosí si comprende un aspetto almeno delle discussioni teoriche sul regime corporativo. Ma il puro controllo non è sufficiente. Non si tratta infatti solo di conservare l'apparato produttivo cosí come è in un momento dato; si tratta di riorganizzarlo per svilupparlo parallelamente all'aumento della popolazione e dei bisogni collettivi. Appunto in questi sviluppi necessari è il maggior rischio dell'iniziativa privata e dovrebbe essere maggiore l'intervento statale, che non è neanche esso scevro di pericoli, tutt'altro.

Si accenna a questi elementi, come a quelli piú organici ed essenziali, ma anche altri elementi conducono all'intervento statale, o lo giustificano teoricamente: l'aggravarsi dei regimi doganali e delle tendenze autarchiche, i premi, il dumping, i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti, cioè, come è stato detto, la «nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali», ecc.

Se lo Stato si proponesse di imporre una direzione economica per cui la produzione del risparmio da «funzione» di una classe parassitaria fosse per divenire funzione dello stesso organismo produttivo, questi sviluppi ipotetici sarebbero progressivi, potrebbero rientrare in un vasto disegno di razionalizzazione integrale: bisognerebbe perciò promuovere una riforma agraria (con l'abolizione della rendita terriera come rendita di una classe non lavoratrice e incorporazione di essa nell'organismo produttivo, come risparmio collettivo da dedicare alla ricostruzione e a ulteriori progressi) e una riforma industriale, per ricondurre tutti i redditi a necessità funzionali tecnico-industriali e non piú a conseguenze giuridiche del puro diritto di proprietà,

Da questo complesso di esigenze, non sempre confessate, nasce la giustificazione storica delle cosí dette tendenze corporative, che si manifestano prevalentemente come esaltazione dello Stato in generale, concepito come qualcosa di assoluto, e come diffidenza e avversione alle forme tradizionali del capitalismo. Ne consegue che teoricamente lo Stato pare avere la sua base politico-sociale nella «piccola gente» e negli intellettuali, ma in realtà la sua struttura rimane plutocratica e riesce impossibile rompere i legami col grande capitale finanziario; del resto è lo Stato stesso che diventa il piú grande organismo plutocratico, l'holding delle grandi masse di risparmio dei piccoli capitalisti. (Lo Stato gesuitico del Paraguay potrebbe essere utilmente richiamato come modello di molte tendenze contemporanee). Che possa esistere uno Stato che si basi politicamente sulla plutocrazia e sulla piccola gente nello stesso tempo non è poi del tutto contraddittorio, come dimostra un paese esemplare, la Francia, dove appunto non si comprenderebbe il dominio del capitale finanziario senza la base politica di una democrazia di redditieri piccolo-borghesi e contadini. Tuttavia la Francia, per ragioni complesse, ha ancora una composizione sociale abbastanza sana, perché vi esiste una larga base di piccola e media proprietà coltivatrice. In altri paesi, invece, i risparmiatori sono staccati dal mondo della produzione e del lavoro; il risparmio vi è «socialmente» troppo caro, perché ottenuto con un livello di vita troppo basso dei lavoratori industriali e specialmente agricoli. Se la nuova struttura del credito consolidasse questa situazione, in realtà si avrebbe un peggioramento: se il risparmio parassitario, grazie alla garanzia statale, non dovesse piú neanche correre le alee generali del mercato normale, la proprietà terriera parassitaria si rafforzerebbe da una parte e dall'altra le obbligazioni industriali, a dividendo legale, certo graverebbero sul lavoro in modo ancora piú schiacciante.

Appendice I

Dichiarazioni al Tribunale speciale96

*

Gramsci. «Confermo le mie dichiarazioni rese alla polizia e al giudice istruttore. Sono stato arrestato malgrado fossi deputato in carica. Sono comunista e la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore dell'Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perché, ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, cosí, mai lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata nei confronti una vigilanza che diviene oggi la mia migliore difesa. Chiedo che vengano sentiti come testi per deporre su questa circostanza il prefetto e il questore di Torino. Se d'altronde l'essere comunista importa responsabilità, l'accetto».

Replica del presidente: «Tra gli scritti sequestrati si parla di guerra e di impossessamento di potere da parte del proletariato. Cosa vogliono significare questi scritti?».

Gramsci: «Penso, signor generale, che tutte le dittature di tipo militare finiscano prima o poi per essere travolte dalla guerra. Sembra a me evidente, in tal caso, che tocchi al proletariato sostituire le classi dirigenti, pigliando le redini del paese per sollevare le sorti della nazione».

Solo ad alcune interruzioni del pubblico ministero Gramsci rispose con vivacità polemica, non risparmiandogli una lezioncina a causa di certe domande codine e accademiche. Alla fine dell'interrogatorio, rispondendo ancora al presidente, Gramsci, come a conclusione, si volse con veemenza ai giudici: «Voi condurrete l'Italia alla rovina e a noi comunisti spetterà di salvarla!».

Discussioni nel carcere di Turi97

Il fascismo cosí come ci si presenta in Italia è una forma particolare di reazione borghese che sta in rapporto alle peculiari condizioni storiche della classe borghese in generale, e del nostro paese in particolare.

Il fascismo in Italia non può essere valutato esattamente senza inquadrarlo nella storia del popolo italiano, nella struttura economica e politica dell'Italia.

Bisogna, almeno, risalire alle ragioni storiche che segnano le tappe della formazione unitaria dello Stato italiano, alla influenza nefasta della Chiesa, all'azione della democrazia e della socialdemocrazia per avere una piú reale spiegazione dei caratteri particolari di questa forma di reazione che in Italia si denomina fascismo.

La stessa mancanza di unità politica della borghesia italiana, che sta in rapporto alla struttura economica del nostro paese, e il cui tratto piú particolare è visibile durante il periodo della lotta per l'indipendenza italiana, ci spiega in parte l'origine e lo sviluppo del fascismo al quale sarà proprio riservata la funzione storica del raggruppamento delle forze borghesi nel momento in cui esistono tutte le premesse storiche per questa realizzazione.

D'altro lato, la mancanza di una vera e propria rivoluzione democratica borghese in Italia, che lascia insoluti tutta una serie di problemi che avrebbero, se risolti, facilitato la maggiore coesione tra la borghesia italiana, acutizza ed accelera per converso la lotta di classe, lo sviluppo della classe lavoratrice.

Pertanto, se con la partecipazione dell'Italia alla guerra mondiale la borghesia italiana sembra realizzare quella unità che prima di allora non aveva conosciuto, il dopo guerra riaprirà tutte le contraddizioni che la guerra aveva in parte attutite e riporrà piú esasperati tutti i vecchi problemi della società italiana.

Il dopo guerra è caratterizzato in Italia da un particolare momento storico che può essere definito il parallelismo delle forze. 

Da un lato le forze borghesi che lottano senza una unità d'azione politica per gravare gli oneri di guerra sulla classe lavoratrice, dall'altro quest'ultima, che, sotto la guida del partito socialista, lotta per la conquista del potere senza avere realizzato una unità di classe.

Ma mentre il proletariato italiano diluisce, per la posizione storicamente errata del PS, la propria efficienza rivoluzionaria in una tattica che non lo porta alla conquista del potere, la borghesia riesce ad operare il proprio raggruppamento delle forze per la lotta contro la classe lavoratrice.

Il movimento fascista della prima ora, che debutta a mezzo delle squadracce al soldo degli agrari in alcune zone agricole e piú particolarmente nella Valle padana, è la manifestazione della lotta della borghesia contro i lavoratori in generale, e in particolare della borghesia rurale contro la associazione dei braccianti agricoli.

La tattica della borghesia italiana ha due direttrici: contro le Camere del lavoro, e contro la Federterra, ma la freccia di queste direttrici si origina nella campagna per far fronte sui centri urbani.

La conversione delle forze rurali verso i centri urbani ripete la tattica dello strozzamento della città da parte della campagna.

I raggruppamenti sociali che costituiscono gli elementi operanti nei quadri delle organizzazioni fasciste sono dati in un primo tempo dai rifiuti sociali, in un secondo momento, cioè, dopo l'appoggio del governo Giolitti, dalla piccola borghesia rurale e urbana la quale crede che sia per essa venuto il momento storico di dirigere le sorti d'Italia.

Questo momento coincide con l'allargamento delle basi sociali del fascismo e con la depressione della spinta rivoluzionaria in Italia, l'indice della quale è dato dal movimento per la occupazione delle fabbriche.

Tutte le fasi ulteriori della lotta politica in Italia riflettono attraverso l'azione tumultuosa, contraddittoria del partito fascista, da un lato, le fasi della lotta di classe, dall'altro, il processo di azione e reazione di strati sociali che la borghesia italiana utilizza per la lotta contro il proletariato; processo che si -svolge quasi uniformemente a quello della centralizzazione del capitale in Italia e che ha come conseguenza la predominanza del capitalismo finanziario, agli interessi del quale tutta la politica del fascismo è subordinata.

Cosí, ad un certo momento, il fascismo diviene la forma di organizzazione piú particolarmente chiamata a difendere gli interessi di questa parte della borghesia italiana riuscendo nello [stesso] tempo e a mezzo di particolari forme di organizzazione ad attutire, sia pure in forma relativa, gli interessi disparati della borghesia.

Questo fatto è stato facilitato in Italia dalle forme istituzionali a base antidemocratica, vincolate da una legislazione che inibisce ogni possibilità di reazione contro lo strapotere di raggruppamenti borghesi economicamente piú forti. Cosí il Parlamento la cui vita è subordinata in definitiva ai poteri discrezionali del re, l'Associazione della magistratura che non è elettiva, ecc.

Collateralmente a questo processo di centralizzazione delle forze borghesi, assistiamo al processo di radicalizzazione della classe lavoratrice, il quale però si svolge con una andatura molto piú lenta del primo.

Il partito comunista con il suo grado ideologico esprime in parte l'estensione di questo processo.

Il fascismo, partendo dal presupposto di risolvere la crisi economica, se ha completamente mancato al suo compito, ha però fornito alla borghesia italiana alcune possibilità per superare senza eccessive scosse la profonda crisi del dopo guerra nel periodo di relativa stabilizzazione.

Naturalmente tutto ciò è avvenuto ai danni della classe lavoratrice.

La crisi economica italiana contenuta in determinati limiti non mancherà di acutizzarsi, e le ripercussioni di questa acutizzazione già si profilano all'orizzonte con le agitazioni proletarie e contadine che ne attestano il loro grado di insofferenza economica e politica.

Per il proletariato italiano sono date oggi tutte le condizioni oggettive per la conquista del potere.

Ma ciò non basta. Il grado di maturità politica di larghi strati di masse specialmente contadine ritarda su quello dei proletari, l'influenza dei partiti politici pseudoproletari, di cricche, non è ancora distrutta.

Per il partito si pone il problema urgente di realizzare l'egemonia del proletariato senza di che non si può parlare di conquista del potere.

Bisogna che il partito si trovi preparato alla piú estrema difesa della borghesia la quale può arrivare in Italia anche a cedere la terra ai contadini.

Il problema fondamentale è e resta quello dei rapporti di forze di classe. L'azione del partito deve tendere a realizzare rapidamente questi rapporti usando la tattica che, tenendo conto delle particolarità delle forze nel nostro paese, sia piú rispondente a spostarle rapidamente in favore della classe lavoratrice.


Appendice II

Discutiamo, se vi pare98

L'Avanti! del 13 gennaio si prende a partito, con una violenza di linguaggio veramente encomiabile in questa parentesi di assenza completa di ogni stampa legale del partito comunista, un mio articolo sul sindacalismo fascista apparso nella Internationale Presse-Korrespondenz del 2 gennaio. È permesso rispondere sull'Avanti! stesso? È permesso discutere obiettivamente le opinioni espresse nel mio articolo, per dare ai lettori dell'Avanti! la possibilità di giudicare questo «documento originalissimo del metodo (cioè del bluffismo e della malafede) col quale i comunisti imbottiscono i cervelli proletari dell'estero, riguardo alla situazione italiana? Il partito comunista, d'altronde, non ha, in questo momento, altra possibilità legale che l'Avanti! per rispondere alle quistioni che gli sono state poste: Per la lotta della Confederazione o per la lotta nell'interno dei sindacati fascisti?

Occorre, innanzi tutto, ristabilire il testo del «curiosissimo documento». Io non ho scritto: «Socialisti e massimalisti dimostrano cosí una volta di piú che essi non vogliono combattere realmente al fascismo. Certo essi correrebbero un grande pericolo, se pretendessero di affrontare il fascismo per contrastargli, nel seno delle sue organizzazioni, il controllo e la direzione delle masse», ma invece: «I socialisti riformisti e massimalisti dimostrano cosí, una volta di piú, di non voler combattere realmente il fascismo. Certo si corrono molti pericoli, se si vuoi affrontare il fascismo per contendergli nel seno delle sue stesse organizzazioni e nelle agitazioni che esso inscena qualche volta, il controllo e la direzione delle masse che entrano in movimento». La differenza è essenziale. Appena letto nell'Avanti! il periodo incriminato in corsivo, ho riguardato il titolo: «Bluffismo e malafede». Va bene, mi sono detto, ma perché proprio «comunista» e non invece massimalista? E d'impulso mi è venuto di scrivere una risposta su questo tono. Ma il mio marxismo, che, ammetto, non appartiene alla intelligente scuola biellese, mi consiglia di iniziare sempre ogni lavoro ed ogni discussione dopo un attento esame delle fonti ed una minuziosa critica del materiale a disposizione, perciò ho voluto vedere, oltre all'edizione tedesca, anche l'edizione francese della Corrispondenza internazionale e ho trovato l'origine filologica dell'errore in cui l'Avanti! è caduto.

Perché l'Avanti! non ha fatto lo stesso mio lavoro, poiché si trattava di un documento tanto curioso ed originale?

Eppure l'Avanti! sa, come io so, che la Corrispondenza dopo la sua soppressione in Germania, ha ripreso le sue pubblicazioni in condizioni molto difficili e disagiate e che la sua edizione originale, data la difficoltà di ricostruire su due piedi un buon apparecchio per le traduzioni, è quella tedesca e non quella francese.

Quando si è marxisti ortodossi come quelli dell'Avanti! non si può dimenticare il canone piú elementare del metodo storico e quindi del marxismo: la critica delle fonti. Era ed è evidente che io, comunista, non potevo aver scritto che solo i socialisti riformisti e massimalisti corrono dei pericoli se affrontano il fascismo sindacale nel seno delle sue stesse organizzazioni e delle sue agitazioni: era ed è evidente che si faceva, nel mio articolo, non una quistione (meschina) di coraggio personale, ma di politica, di tattica sindacale del partito comunista a differenza del Partito socialista unitario e di quello massimalista.

Cosí non ho scritto: «Di qui si vede il successo completo della tattica adottata dal nostro partito per smascherare davanti alle masse i dirigenti federali, che non erano avari di gesti grandiloquenti contro gli industriali», ma invece: «È da notarsi come abbia avuto pieno successo la tattica applicata dal nostro partito per smascherare dinanzi alle masse i dirigenti sindacali fascisti che facevano la voce grossa contro gli industriali». Unisco copia della edizione tedesca della Corrispondenza (pubblicata il 2 gennaio, prima dell'edizione francese) perché il mio contraddittore, marxista intelligente, si persuada proprio che non si tratta di un nuovo episodio di malafede comunista e neppure di un abile ripiego, suggerito dal diabolico metodo moscovita, per ottenere che sempre gli opportunisti mordano iniquamente la polvere.

Hanno, sí o no, i comunisti partecipato all'azione nello svolgimento della vertenza metallurgica? Quale efficacia e quale influenza ha avuto l'intervento dei comunisti? L'Avanti! scrive: «tutta l'azione dei comunisti è consistita... in un appello al fronte unico sotto gli ordini (sic) del sindacalismo fascista».

Tutta l'azione è consistita solo in ciò? E gli operai comunisti che sono in legame con i centri del partito, attraverso la nostra organizzazione, non hanno fatto proprio nulla? Non hanno discusso fra di loro, non sono entrati in nessun rapporto con il restante della massa operaia, non hanno in tutti quei modi che la situazione consente alle grandi masse agglomerate nelle grandi officine torinesi, influito per determinare correnti di opinioni e un movimento reale? Andiamo, via!, l'Avanti! sostenendo ciò dimostrerebbe di essere molto lontano dalla realtà operaia, che pur dice di conoscere cosí bene e cosí da vicino. A Torino i comunisti avevano nettamente conquistato la maggioranza dei lavoratori d'officina; il movimento dei Consigli aveva creato uno strato di circa 10.000 operai che erano stati, almeno per sei mesi, commissari di reparto, che avevano acquistato un notevole grado di capacità organizzativa e di propaganda, come dimostrarono brillantemente durante l'occupazione di settembre, quando la produzione, nonostante l'allontanamento dal lavoro del contingente addetto alla difesa militare, fu aumentata di circa un quarto per rispetto alla gestione capitalistica. A Torino su 32 circoli operai rionali con 12.000 organizzati politicamente, che il partito socialista aveva nel 1920, i massimalisti, dopo la scissione di Livorno, non conservarono neppure un circolo (neppure uno, si badi). La diffusione dell'Avanti! a Torino dal 1920 al 1921 cadde da 30 mila copie a 1.300. E questa massa, dopo l'appello, «l'unico appello» del nostro partito, non avrebbe influito per nulla sulla situazione creata dalla demagogia fascista? Ma che marxismo «intelligente» è quello che fa prendere allo scrittore dell'Avanti! delle cantonate cosí «ortodosse»?

E ci sono i fatti manifesti, oltre che gli indizi degli avvenimenti non affiorati all'onore della cronaca: dopo l'appello comunista i comizi fascisti divennero subito affollati; i fascisti, che compresero, pur non essendo marxisti intelligenti, quale era la causa di questa inaspettata loro popolarità credettero opportuno polemizzare con il manifestino comunista per confutarlo, ribatterlo, mostrarne il «bluffismo e la malafede». E l'agitazione, che poteva straripare, fu subito fatta cessare per ordine di Roma.

«Il partito comunista è per la lotta nella Confederazione o per la lotta nell'interno dei sindacati fascisti?» Ma perché il dilemma? Non si può essere per ambedue queste tattiche? Quale contraddizione di principio esiste fra di esse?

Non siamo marxisti intelligenti come quelli della scuola biellese, ciò è pacifico: siamo dei dialettici e non dei dogmatici. Le formule dell'«intelligenza» marxista: «Col tempo e con la paglia maturano le nespole!; chi la dura la vince!; il tempo è galantuomo!; bandiera rossa trionferà!» non sono le nostre. Noi crediamo necessario partecipare a tutte le azioni delle masse operaie, qualunque sia l'etichetta del momento, qualunque sia l'involucro che il dispotismo armato costringa queste azioni di massa a prendere per rompere la stagnazione.

Il sindacalismo fascista è un fenomeno di coercizione, ma è solamente ciò o è rimasto ciò solamente? La grande massa degli operai e contadini è ridotta, dallo sfruttamento economico e dall'oppressione intellettuale, in condizioni di barbarie; essa è incapace come complesso, di emanciparsi, di progredire nella via della sua liberazione spirituale, per reazioni puramente meccaniche, determinate dallo sfruttamento e dall'oppressione. Il tempo, la realtà, di per sé, non liberano la massa, ma anzi la deprimono e la fanno ancor piú imbarbarire. Occorre che si formino, fuori della massa (pur operando nel suo interno, attivamente e instancabilmente) gruppi ed organizzazioni costituite dagli elementi individuali che non ostante la oppressione e lo sfruttamento capitalistico si sono liberati intellettualmente. Ecco perché il movimento operaio rivoluzionario al suo inizio è stato costituito, in grande maggioranza, di fuorusciti dalla classe dominante; ecco perché i piú grandi teorici del socialismo (da Marx a Lenin) non sono di origine proletaria. Lo spirito proletario rivoluzionario di queste minoranze, di queste organizzazioni iniziali, si manifestava col fatto che esse non si ponevano fuori della massa, come tutrici ufficiali e patentate di trasformarla nei suoi individui, per essa, ma operavano nel suo seno per trasformarla nei suoi individui, per educarla, per trarla fuori dall'indistinto e dall'amorfo, non davano tempo al tempo, non aspettavano che la manna cadesse dal cielo, ma lottavano, si piegavano anche per rialzarsi, facendo insieme rialzare strati interi di popolo lavoratore. Il partito comunista vuol seguire questa tradizione, iniziata dallo stesso Carlo Marx, quando, evidentemente, non era ancora nato il marxismo intelligente della scuola di Biella. Non vuol seguire invece la tradizione del riformismo sindacale, del mandarinismo confederale che ha portato anche in Italia alla formazione di una aristocrazia operaia, che vuol ritornare ai sindacati di mestiere, che vuol estraniarsi dalle lotte della parte piú misera e piú arretrata del popolo lavoratore.

Crede l'Avanti! che molti strati operai e contadini riescano a comprendere molto bene la differenza che passa tra il capolega fascista e l'antico capolega riformista, che era, non meno di questo, autoritario e dispotico, che, come questo, deliberava al di fuori e al di sopra degli organizzati, che «emancipava» la massa creandosi diarie, trasferte, indennità e trascorrendo il suo tempo nelle osterie e nei postriboli, tale e quale il «ras» fascista? E crede che questa «incomprensione» non abbia influito nel trasformare la coercizione in una passività ebete e dolorante? Perché dunque non intervenire nella vita di queste masse, anche se esse sono controllate dal fascismo? Perché non creare nel loro seno gruppi di simpatizzanti e correnti di opinioni che le scuotano, le pervadano e rendano impossibile il dominio della turpe demagogia fascista?

Ma bisogna nello stesso tempo lavorare nella Confederazione, risanarla dal semifascismo che l'ha conquistata. Una tattica sarebbe impossibile senza l'altra. Nessuno dei comunisti del partito ha mai pensato che sia possibile assumere la direzione e il controllo dei sindacati fascisti: c'è anche una sola frase nell'articolo della Corrispondenza internazionale che autorizzi a pubblicare affermazioni cosí inette? I sindacati fascisti, nei limiti delle possibilità oggi esistenti, non possono essere conquistati; si può nel loro seno svolgere soltanto una attività di riflesso, tendente, in linea generale, a disgregarli e questa attività in gran parte non può neppure essere pubblica e non può dar luogo alla formazione di frazioni che operino per modificare costituzionalmente la struttura delle corporazioni.

I comunisti continuano dunque a lavorare nella Confederazione generale del lavoro «per mantenere in vita il sindacalismo di classe, per dare ad essa una direttiva conforme alle necessità della lotta rivoluzionaria del proletariato, per richiamare negli antichi quadri i lavoratori che per apatia e per violenza avversaria se ne sono allontanati». Essi non hanno mai pensato ad abbandonare la Confederazione, nonostante che a Torino, per esempio, la burocrazia confederale abbia, forse piú del fascismo, contribuito a togliere al partito comunista la sua legalità di fatto. I comunisti si meravigliano anzi che, alla vigilia della campagna per il prossimo congresso confederale, l'Avanti! senta la necessità di fare questa strabiliante scoperta, che sarà naturalmente... sostenuta dai riformisti e sarà diffusa in certe zone proletarie, dove la nostra smentita non può giungere. Alla vigilia del congresso, ciò è molto sintomatico, per comprendere la reale volontà di lotta, anche nel seno della Confederazione, che anima lo scrittore dell' Avanti!, mio contraddittore, e la burocrazia sindacale massimalista che si nasconde alle sue spalle. Gli è che le due tattiche — la lotta per contendere ai fascisti il loro dominio sulle masse nel seno delle corporazioni e nelle agitazioni che esse inscenano qualche volta contro gli industriali e i proprietari terrieri, e la lotta nella Confederazione generale del lavoro contro la burocrazia sindacale già mezzo convertita alla ideologia fascista — sono strettamente collegate; sono momenti di uno stesso processo: chi non vuole l'una non vuole neppure l'altra. La realtà, il tempo, ma anche e specialmente la nostra assidua opera di chiarificazione e di critica, aiuteranno le masse a comprendere ciò per liberarsi da tutte le demagogie e da tutti i padroni.

Indice dei nomi

Agnelli Giovanni

Aguilera, generale

Alba Santiago

Albertini Luigi

Alighieri Dante

Amendola Giovanni

Ancona Ugo

Azzario Isidoro


Badoglio Pietro

Balabanoff Angelica

Balzac Honoré

Barberis Francesco

Barbieri Ulisse

Barbusse Henri

Baronio Cesare

Baudelaire Charles

Bava Beccaris Fiorenzo

Bazzi Carlo

Bellarmino Roberto

Benaduce Alberto

Benni Antonio Stefano

Bergeret, pseud. di Ettore Marroni

Bergson Henri

Bernstein Henri

Bismark Otto

Blanqui Louis Auguste

Bodrero Emilio

Bolívar Simòn

Bombacci Nicola

Bonaparte Luigi

Bonomi Ivanoe

Bordiga Amadeo

Borelli Tomaso

Boschi

Bottai Giuseppe

Bourget Paolo

Brando Corrado

Briand Aristide

Brucculeri Angelo


Cabiati Attilio

Cadorna Luigi

Cajumi Arrigo

Camis Mario

Canova Antonio

Caprioglio Sergio

Carducci Giosué

Carli Filippo

Caviglia Enrico

Cavour Camillo Benso di

Celli Anna

Celli Angelo

Cena Giovanni

Cesare Caio Giulio

Chamberlain Houston Stewart

Ciccotti Francesco

Cipolla Carlo

Clemenceau Georges

Coccapieller Francesco

Colonna di Cesarò Giovanni Antonio

Conti Ettore

Coppola Francesco

Corgini Ottavio

Corradini Enrico

Covre Luigi

Credaro Luigi

Crispi Francesco

Croce Benedetto

Cromwell Oliver


D'Amelio Mariano

D'Annunzio Gabriele

D'Aragona Ludovico

Daniel Nino

Dawes Charles

De Amicis Edmondo

De Bellis Vito

De Felice Franco

De Frenzi Giulio

De Gasperi Alcide

De Lollis Cesare

De Man Henri

De Nicola Enrico

Denikin Anton Ivanovič

De Ruggero Guido

De Vecchi Cesare Maria

De Viti de Marco

Di Cesarò, vedi Colonna di Cesarò Giovanni Antonio.

Di Scalea, vedi Lanza di Scalea Pietro.

Disraeli Benjamin

Dominique Pierre

Dostoevskij Fjodor Michajlovič

Drago Aurelio

Dreyfus Alfred

Dumas Alexandre


Einaudi Luigi

Engels Friedrich


Fabbri Luigi

Facta Luigi

Fanelli Giuseppe Attilio

Farinacci Roberto

Fedele Pietro

Federzoni Luigi

Fenimore Cooper

Ferraris Dante

Ferrata Giansiro

Ferrerò di Cambiano Cesare

Filippelli Filippo

Finzi Aldo 

Ford Enrico

Forni Cesare

Fortunato Giustino

Foster William

Fovel Massimo

France Anatole

Francesco Giuseppe

Fragola Ottorino

Freksa Fr.


Gallo Niccolò

Gardenghi Pio

Garibaldi Giuseppe

Gasparri Pietro

Gennari Egidio

Gentile Giovanni

Gentiloni Vincenzo Ottorino

Germanetto Giovanni

Gerratana Valentino

Giardino Gaetano

Gillet Louis

Gioda Mario

Giolitti Giovanni

Giovannetti Eugenio

Gramsci Antonio

Graziadei Antonio

Greco Paolo

Grieco Ruggero


Halevy Daniel 

Herriot Edouard

Hindemburg Paul

Hitler Adolf

Hughes Charles Evans

Hugo Victor


Invernizio Carolina


Jaurés Jean


Kàroly Mihaly

Kapp Wolfgang

Kerenskij Aleksandr Fjodorovič

Kipling Rudyard

Kornilov Lavr Georgevič


La Cierva Juan

Lanfranconi Luigi

Lanza di Scalea Pietro

Lanzillo Agostino

Lazzaretti Davide

Lenin Vladimir Ilic

Leone XIII

Leonetti Alfonso

Lisa Athos

Lloyd George

Longo Luigi

Lucidi Guglielmo

Lussu Emilio

Lutero Martin

Luttwitz Walter


Mac Donald James Ramsay

Machiavelli Niccolo

Machno Nestor I.

Maini Roberto

Malparte Curzio, pseud. di Suckert Kurt

Malot Ettore

Manzoni Alessandro

Maraviglia Maurizio

Marcucci Alessandro

Marinetti Filippo Tommaso

Martinelli Renzo

Martire Egilberto

Marx Karl

Masaniello

Masci Giovanni vedi Gramsci Antonio.

Massara Massimo

Matteotti Giacomo

Maura y Montaner Antonio

Mazzini Giuseppe

Melquiadez Alvarez

Merli Stefano

Micheli Giuseppe

Miglioli Guido

Millerand Alexandre

Minunni Italo

Missiroli Mario

Modigliani Emanuele

Monanni Giuseppe

Montanés Carlos

Montelli

Monti Augusto

Morandi Rodolfo

Morelli, pseud. di Mauro Scoccimarro.

Morello Vincenzo

Morgan John Pierpont jr.

Mortara Giorgio

Motta Giacinto

Muratori Ludovico Antonio

Mussolini Benito


Naldi Pippo

Napoleone I

Napoleone III

Negri Ada

Nenni Pietro

Niccodemi Dario

Nietzsche Friedrich

Nitti Francesco Saverio

Noske Gustav


Ojetti Ugo

Olivetti Camillo

Omodeo Adolfo

Oriani Alfredo

Orlando Vittorio Emanuele

Ossian


Paggi Leonardo

Pagni Carlo

Pascarella Cesare

Pascoli Giovanni

Passigli Giuseppe

Pernot Maurice

Pertinax, pseud. di André Geraud

Petrini Domenico

Philip André

Pili Paolo

Pilsudski Jòsef

Pio XI

Poincaré Raymond

Pollio Alberto

Ponson du Terrail

Ponti Gian Giacomo

Portelli Hugues

Praz Mario

Prezzolini Giuseppe

Proudhon Pierre Josef


Radek Karl Bergandovič

Raffaello Sanzio

Rastigac, vedi Morello Vincenzo

Ratti Felice

Repossi Luigi

Richebourg Enrico

Rigola Rinaldo

Rocca Massimo

Rocco Alfredo

Rodolfo, principe

Rolico Niccolo

Romanones Alvaro de Figueroa y Torres di

Romier Lucien

Romolo Augustolo

Rosa Enrico

Rossi Cesare

Rossoni Edmondo

Ruggeri Ruggero


Salandra Antonio

Salata Francesco

Salgari Emilio

Salter Arthur

Salvatorelli Luigi

Scalarini Giuseppe

Schanzer Carlo

Schlageter Alberto Leo

Schiavi Alessandro

Scoccimarro Mauro

Serrati Giacinto Menotti

Silone Ignazio, pseud. di Secondino Tranquilli

Sederini Piero

Sennino Sidney

Sonzogno

Sorel Georges

Spaventa Renato

Spirito Ugo

Spriano Paolo

Stalin Josif Visarjonovič

Stambuliski Aleksandr

Stecchetti Lorenzo, pseud. di Olindo Guerrini

Sthendal

Sturzo Luigi

Suckert Kurt, vedi Malaparte Curzio 

Sue Eugène


Taylor Fridrich Winslow

Tasca Angelo

Tasca di Cutò

Tellini Enrico

Tiraboschi Gerolamo

Togliatti Palmiro

Tolstoj Leev Nikolaevič

Tranquilli Secondino, vedi Ignazio Silone.

Treitschke Heinrich von

Treves Claudio

Trotskij Lev Davidovič

Tsankov Aleksandr


Umberto I


Valera Paolo

Valle, vedi Tasca Angelo.

Vallès Jules

Vecchi Nicola

Vella Arturo

Venizelos Eleutherios

Volpi Giuseppe


Wagner Richard

Wilson Woodrow


Zaniboni Tito

Zola Emile

Zucaro Domenico

Zuccarini Oliviero

Zuccoli Giuseppe


1 Avanti, ed. piemontese,19 agosto 1916. Non firmato.

2 Avanti, ed. piemontese, 5 dicembre 1917. Non firmato.

3 Il grido del Popolo, 16 marzo 1918. Non firmato.

4 Il Grido del Popolo, 23 marzo 1918; Avanti!, ed. milanese, 30 marzo 1918. firmato A. G.

5 Avanti!, ed. piemontese, il 28 luglio 1918, in "Sotto la Mole".

6 Avanti!, ed. piemontese, il 19 marzo 1919, in "Sotto la Mole".

7 Testo largamente censurato nell'Ordine Nuovo del 1° maggio1919; ripubblicato col titolo: Un paese senza Stato, e con alcune integrazioni al posto dei brani censurati, sull'Avanti!, ed. piemontese del 6 maggio 1919. Tra parentesi quadre riportiamo i brani censurati. Firmato A. G.

8 Avanti!, ed piemontese, 10 maggio 1919. Non firmato.

9 L'Ordine nuovo, 4 ottobre 1919. Non firmato.

10 Avanti!, ed. piemontese, 11 febbraio 1920. Non firmato.

11 Avanti!, ed. piemontese, 5 marzo 1920, in "Sotto la Mole".

12 La seguente relazione fu presentata al Consiglio nazionale di Milano dai rappresentanti della sezione socialista e della federazione provinciale torinese e servì come base alla critica dell'opera e dell'indirizzo della direzione del PSI. Se ne dà uno stralcio. Il titolo è del curatore.

13 L'Ordine Nuovo, 12 giugno 1920. Non firmato.

14 Avanti!, ed. piemontese, 19 ottobre 1920. Non firmato.

15 Avanti!, ed. piemontese, 20 novembre 1920. Non firmato.

16 Avanti!, ed. piemontese, 11 dicembre 1920. Non firmato.

17 L'Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921. Non firmato. Il titolo è tratto da una novella del primo Libro della giungla di Kipling.

18 L'Ordine Nuovo, 7 marzo1921. Non firmato.

19 L'Ordine Nuovo, 11 marzo 1921. Non firmato.

20 L'Ordine Nuovo, 14 maggio 1921. Non firmato.

21 L'Ordine Nuovo, 11 giugno 1921. Non firmato.

22 L'Ordine Nuovo, 22 giugno 1921. Non firmato.

23 L'Ordine Nuovo, 5 luglio 1921. Non firmato.

24 L'Ordine Nuovo, 17 luglio 1921. Non firmato.

25 L'Ordine Nuovo, 23 luglio 1921. Non firmato.

26 L'Ordine Nuovo, 21 luglio 1921. Non firmato.

27 L'Ordine Nuovo, 25 agosto 1921. Non firmato.

28 L'Ordine Nuovo, 26 agosto 1921. Non firmato.

29 L'Ordine Nuovo, 28 agosto 1921. Non firmato.

30 L'Ordine Nuovo, 31 agosto 1921. Non firmato.

31 L'Ordine Nuovo, 25 settembre 1921. Non firmato.

32 L'Ordine Nuovo, 13 novembre 1921. Non firmato.

33 L'Ordine Nuovo, 15 gennaio 1922. Non firmato.

34 L'Ordine Nuovo, 4 marzo 1922. Non firmato.

35 L'Ordine Nuovo, 23 maggio 1922. Non firmato.

36 La correspondance Internationale, 20 novembre 1922. Firmato A. Gramsci. Come per gli altri articoli pubblicati sulla Correspondance internationale (bisettimanale dell'Internazionale comunista pubblicai in tre lingue a Berlino, Vienna e Parigi) si tratta di una stesura che certo si discosta notevolmente dall'originale italiano e non riflette esattamente il pensiero dell'autore.

37 Stato operaio, 18 ottobre 1923. Firmato Antonio Gramsci.

38 La voce della gioventù, 1° novembre 1923. Firmato Giovanni Masci.

39 La correspondance internationale, 28 dicembre 1923. Firmato G. Masci.

40 La correspondance internationale, 3 gennaio 1924. Firmato G. Masci.

41 La correspondance internationde, 30 gennaio 1924. Firmato Masci.

42 L'Unità, 21 febbraio 1924. Non firmato. È il primo articolo di Gramsci pubblicato nell'Unità, il cui primo numero era uscito il 12 febbraio 1924.

43 L'Unità, 22 febbraio 1924. Non firmato.

44 L'Unità, 28 febbraio 1924. Firmato Manalive.

45 L'Ordine Nuovo, 1° marzo 1924. Non firmato. Poi nell'Unità, 6 novembre 1924, col titolo Lenin capo rivoluzionario, e firmato Antonio Gramsci.

46 L'Ordine Nuovo, 1° marzo 1924. Non firmato.

47 Dalla lettera di Gramsci a Scoccimarro e Togliatti del 10 marzo 1924. Il titolo è del curatore.

48 La correspondance internationale, 12 marzo 1924. Firmato G. Masci.

49 L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924. Non firmato.

50 L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924. Non firmato.

51 La correspondance Internationale, 17 aprile 1924. Firmato G. Masci.

52 L'Unità, 2 luglio 1924. Non firmato.

53 Stato operaio, 28 agosto 1924. Non firmato.

54 Relazione al Comitato centrale del partito comunista del 13-14 agosto 1924. L'Ordine Nuovo, 1° settembre 1924. Firmato Antonio Gramsci. L'Unità, 26 agosto 1924, col titolo La crisi delle classi medie.

55 L'Ordine Nuovo, 15 novembre 1924. Non firmato.

56 Verbale della relazione al Comitato centrale del partito comunista del 6 febbraio 1925, che precedette la partenza di Gramsci per Mosca, ove partecipò all'Esecutivo allargato dell'Internazionale comunista. Il titolo è del curatore.

57 Con questo discorso, pronunciato alla Camera il 16 maggio 1925, Gramsci intervenne contro il disegno di legge Mussolini-Rocco rivolto contro la massoneria e indirettamente contro i partiti antifascisti. Pubblicato nell'Unità, 23 maggio 1925. Il titolo è del curatore.

58 Intervento al Comitato centrale del partito comunista del 9-10 novembre 1925. Il titolo è del curatore.

59 Dalle Tesi approvate dal congresso del partito comunista a Lione (gennaio 1926).

60 Da un carteggio del luglio 1926. Il titolo è del curatore.

61 Testo che Gramsci sottopose a discussione preliminare prima di svolgerlo, come relazione, alla riunione del Comitato direttivo del Partito comunista del 2-3 agosto 1926 (APCI, 396/13-27). La prima parte fu pubblicata in Stato operaio (marzo 1928, pp. 82-88) con lievi varianti dal testo qui riprodotto. Tutto il documento è stato pubblicato in Rinascita (14 aprile 1967, pp. 21-22).

62 Da Passato e presente, Roma, 1971, pp. 32-36.

63 Da Note sul Machiavelli, Roma, 1971, pp. 90-92. Il titolo è del curatore.

64 Da Passato e presente, pp. 45-47.

65 Da Passato e presente, pp. 88-91.

66 Da Note sul Machiavelli, pp. 327-336.

67 Da Letteratura e vita nazionale, Roma, 1971, pp. 191-194.

68 Da Letteratura e vita nazionale, pp. 214-217.

69 Da Letteratura e vita nazionale, pp. 123-125.

70Pubblicato dalla Voce nel 1910 (n. d. a.).

71Sull'attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell'Agro romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro Marcucci. Il Cena intendeva proprio "andare al popolo": è interessante vedere come praticamente cercò di attuare il suo proposito, perché ciò mostra cosa poteva intendere un intellettuale italiano, d'altronde pieno di buone intezioni, per "amore per il popolo". [n. d. a.]

72 Da Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Roma, 1971, p. 236-239.

73 Da Note sul Machiavelli, pp. 413-418.

74 Da Note sul Machiavelli, pp. 404-418.

75L'opuscolo del Fortunato su Goethe e il suo giudizio sui napoletani è stato ristampato dalla Biblioteca editrice di Rieti nella collana dei Quaderni critici, diretta da Domenico Petrini. Sull'opuscolo del Fortunato è da leggere la recensione di Luigi Einaudi nella Riforma sociale, forse del 1912 [in realtà, del 1918] (n. d. a.).

76Cfr. le ricerche in proposito del prof. Mortara, per es., nelle Prospettive economiche del 1922 (n. d. a.).

77Cfr. gli Atti parlamentari della sessione, e il discorso del senatore Ugo Ancona, le cui velleità reazionarie furono prontamente rimbeccate dal capo del governo (n. d. a.).

78 Da Passato e presente, pp. 30-32.

79 Da Note sul Machiavelli, pp. 83-88.

80 Da Note sul Machiavelli, pp. 255-257.

81 Da Passato e presente, pp. 63-64.

82 Da Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Roma, 1971, pp. 228-230.

83 Da Note sul Machiavelli, pp. 242-246.

84 Da Passato e presente, pp. 27-28.

85 Da Passato e presente, pp. 28-30.

86 Da Letteratura e vita nazionale, pp. 157-161.

87Vincenzo Morello è diventato «Rastignac» per una tale filiazione... popolaresca e ha difeso Corrado Brando (n. d. a.)

88 Da Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, pp. 324-327.

89Cfr. Riforma sociale, gennaio-febbraio 1933 (n. d. a,)

90È da vedere il libro di sir Arthur Salter, Ricostruzione: come finirà la crisi, Milano, Bompiani, 1932, pp. 398 (n. d. a.).

91Cfr. l'invenzione della «seta artificiale» che soddisfa il bisogno di un lusso apparente dei ceti medio borghesi (n. d. a.).

92 Da Passato e presente, pp. 108-112.

93 Da Note sul Machiavelli, pp. 284-285.

94 Da Note sul Machiavelli, pp. 431-432.

95 Da Note sul Machiavelli, pp. 439-442.

96 Testo della dichiarazione resa da Gramsci il 30 maggio 1928 secondo la ricostruzione di Domenico Zucàro: cfr. Il processone, Roma, 1961, pp. 182-183.

97 Questa «esposizione» di Gramsci sul fascismo, della fine del 1930, è ricostruita in un rapporto di Athos Lisa, in cui è detto a conclusione, dopo il testo da noi riprodotto: «Ho fissato sommariamente affidandomi alla fedeltà della memoria i concetti esposti dal [Gramsci] sceverando da essi ogni elemento settario, cercando di non inficiarli con mie particolari vedute. Non potrei garantire di avere detto con esattezza tutto ciò che fu esposto dal compagno [Gramsci] due anni e mezzo or sono. Chi legge ed è portato a discutere sugli elementi fissati in questa relazione, tenga conto di ciò. Il compagno [Gramsci], se domani sarà portato a leggere questa mia relazione che volentieri ho disteso col presupposto di far cosa utile al partito, mi perdonerà se non mi è stato possibile ridire con eccessiva esattezza quanto egli espose. 22-3-33».

98 Da Stato operaio, 7 febbraio 1924, firmato G. Masci.