Antonio Gramsci

Scritti politici III

a cura di Paolo Spriano
Editori Riuniti, 1973

Indice

1921

I partiti e la massa

Un Partito di masse

Bisogna parlar chiaro

Le masse e i capi

Il sostegno dello Stato

Gestione capitalistica e gestione operaia

Il Partito comunista e le agitazioni operaie in corso

Un governo qualsiasi

1922

Il Papa e la Chiesa scismatica

La sostanza della crisi

Giolitti e i popolari

Insegnamenti

Una lettera a Trotskij sul futurismo

Il nostro indirizzo sindacale

Il problema di Milano

«Capo»

Contro il pessimismo

Il Mezzogiorno e il fascismo

Il programma de «L'Ordine Nuovo»

Problemi di oggi e di domani

La crisi della piccola borghesia

Sí, l'ora della coerenza

Il destino di Matteotti

La crisi italiana

La caduta del fascismo

1925

La funzione del riformismo in Italia

La scuola di Partito

Necessità di una preparazione ideologica di massa

L'intervento alla Camera sulla massoneria

«La Rivoluzione liberale» e il fronte unico operaio

La volontà delle masse

La situazione interna del nostro Partito ed i compiti del prossimo congresso

L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale

L'organizzazione base del Partito

Opportunismo e fronte unico

1926

Il significato e i risultati del III Congresso del Partito comunista d'Italia

Il compagno G. M. Serrati e le generazioni del socialismo italiano

Un esame della situazione italiana

L'URSS verso il comunismo

In che direzione si sviluppa l'Unione soviettista?

I contadini e la dittatura del proletariato

Russia, Italia e altri paesi

Ancora delle capacità organiche della classe operaia

Noi e la concentrazione repubblicana

Lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico

Lettera a Togliatti

Alcuni temi della quistione meridionale

Appendice

La situazione italiana e i compiti del PCI

Indice dei nomi

Scritti politici

III

I partiti e la massa1

La crisi costituzionale in cui si dibatte il Partito socialista italiano interessa i comunisti in quanto essa è il riflesso della piú profonda crisi costituzionale in cui si dibattono le grandi masse del popolo italiano. Da questo punto di vista la crisi del Partito socialista non può e non deve essere considerata isolatamente: essa è la parte di un quadro piú comprensivo, che abbraccia anche il Partito popolare e il fascismo.

Politicamente le grandi masse non esistono se non inquadrate nei partiti politici: i mutamenti d'opinione che si verificano nelle masse sotto la spinta delle forze economiche determinanti vengono interpretati dai partiti, che si scindono prima in tendenze, per poi scindersi in una molteplicità di nuovi partiti organici: attraverso questo processo di disarticolazione, di neoassociazione, di fusione tra gli omogenei si rivela un piú profondo ed intimo processo di decomposizione della società democratica per il definitivo schieramento delle classi in lotta per la conservazione o la conquista del potere di Stato e del potere sull'apparecchio di produzione.

Nel periodo dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche il Partito socialista ha rappresentato la maggioranza del popolo lavoratore italiano, costituita di tre classi fondamentali, il proletariato, la piccola borghesia, i contadini poveri. Di queste tre classi solo il proletariato era essenzialmente e perciò permanentemente rivoluzionario: le altre due classi erano «occasionalmente» rivoluzionarie, erano «socialiste di guerra», accettavano l'idea della rivoluzione in generale per i sentimenti di ribellione antigovernativa germogliati durante la guerra. Poiché il Partito socialista era costituito in maggioranza di elementi piccolo-borghesi e contadini, esso avrebbe potuto fare la rivoluzione solo nei primi tempi dopo l'armistizio, quando i sentimenti di rivolta antigovernativa erano ancora vivaci e attivi; d'altronde, essendo il Partito socialista costituito in maggioranza di piccoli borghesi e di contadini (la cui mentalità non è molto diversa da quella dei piccolo-borghesi di città), esso non poteva che essere oscillante, esitante, senza un programma netto e preciso, senza indirizzo, senza, specialmente, una coscienza internazionalista. L'occupazione delle fabbriche, essenzialmente proletaria, trovò impreparato il Partito socialista, che era solo parzialmente proletario, che era già, per i primi colpi del fascismo, in crisi di coscienza nelle altre sue parti costitutive. La fine dell'occupazione delle fabbriche scompaginò completamente il Partito socialista; le credenze rivoluzionarie infantili e sentimentali caddero completamente; i dolori della guerra si erano in parte attutiti (non si fa una rivoluzione per i ricordi del passato!); il governo borghese apparve ancora forte nella persona di Giolitti e nell'attività fascista; i capi riformisti affermarono che pensare alla rivoluzione comunista in generale era pazzesco; Serrati affermò che era pazzesco pensare alla rivoluzione comunista in Italia, in quel periodo. Solo la minoranza del Partito, formata dalla parte piú avanzata e colta del proletariato industriale, non mutò il suo punto di vista comunista e internazionalista, non si demoralizzò per gli avvenimenti quotidiani, non si lasciò illudere dalle apparenze di robustezza e di energia dello Stato borghese. Cosí nacque il Partito comunista, prima organizzazione autonoma e indipendente del proletariato industriale, della sola classe popolare essenzialmente e permanentemente rivoluzionaria.

Il Partito comunista non divenne subito partito delle piú grandi masse. Ciò prova una sola cosa: le condizioni di grande demoralizzazione e di grande abbattimento in cui erano piombate le masse in seguito al fallimento politico dell'occupazione delle fabbriche. La fede si era spenta in un gran numero dei dirigenti; ciò che prima era stato esaltato veniva oggi deriso; i sentimenti piú intimi e delicati della coscienza proletaria venivano turpemente calpestati da questa ufficialità subalterna dirigente, divenuta scettica, corrottasi nel pentimento e nel rimorso del suo passato di demagogia massimalista. La massa popolare, che subito dopo l'armistizio si era schierata intorno al Partito socialista, si smembrò, si liquefece, si disperse. La piccola borghesia che aveva simpatizzato col socialismo, simpatizzò col fascismo; i contadini, senza appoggio ormai nel Partito socialista, ebbero piuttosto simpatie per il Partito popolare. Ma non fu senza conseguenze questa confusione degli antichi effettivi del Partito socialista coi fascisti da una parte, coi popolari dall'altra.

Il Partito popolare si avvicinò al Partito socialista: nelle elezioni parlamentari le liste aperte popolari, in tutte le circoscrizioni, accolsero a centinaia e migliaia i nomi dei candidati socialisti; nelle elezioni municipali verificatesi in alcuni comuni rurali, dalle elezioni politiche ad oggi, spesso i socialisti non presentarono lista di minoranza e consigliarono i loro aderenti a riversare i voti sulla lista popolare; a Bergamo il fenomeno ebbe una manifestazione clamorosa: gli estremisti popolari si staccarono dall'organizzazione bianca e si fusero coi socialisti, fondando una Camera del lavoro e un settimanale diretto e scritto da socialisti e popolari insieme. Obiettivamente, questo processo di riavvicinamento popolare-socialista rappresenta un progresso. La classe contadina si unifica, acquista la coscienza e la nozione della sua solidarietà diffusa, spezzando l'involucro religioso nel campo popolare, spezzando l'involucro della cultura anticlericale piccolo-borghese nel campo socialista. Per questa tendenza dei suoi effettivi rurali il Partito socialista si stacca sempre piú dal proletariato industriale, e quindi pare venga a spezzarsi quel forte legame unitario che il Partito socialista pareva aver creato tra città e campagna; siccome però questo legame non esisteva in realtà, nessun danno effettivo emerge dalla nuova situazione. Un vantaggio reale invece si rende evidente: il Partito popolare subisce una fortissima oscillazione a sinistra e diventa sempre piu laico; esso finirà con lo staccarsi dalla sua destra, costituita di grandi e medi proprietari terrieri, cioè entrerà decisamente nel campo della lotta di classe, con un formidabile indebolimento del governo borghese.

Lo stesso fenomeno si profila nel campo fascista. La piccola borghesia urbana, rafforzata politicamente da tutti i transfughi del Partito socialista, aveva cercato dopo l'armistizio di mettere a frutto la capacità di organizzazione e di azione militare acquistata durante la guerra. La guerra italiana è stata diretta, in assenza di uno stato maggiore efficiente, dalla ufficialità subalterna, cioè dalla piccola borghesia. Le delusioni patite in guerra avevano destato fortissimi sentimenti di ribellione antigovernativa in questa classe, la quale, perduta dopo l'armistizio l'unità militare dei suoi quadri, si sparpagliò nei vari partiti di massa, portandovi fermenti di ribellione, ma anche incertezza, oscillazioni, demagogia. Caduta la forza del Partito socialista dopo l'occupazione delle fabbriche, con rapidità fulminea questa classe, sotto la spinta dello stesso stato maggiore che l'aveva sfruttata in guerra, ricostruí i suoi quadri militarmente, si organizzò nazionalmente. Maturazione rapidissima, crisi costituzionale rapidissima. La piccola borghesia urbana, giocattolo in mano allo stato maggiore e alle forze piú retrograde del governo, si alleò agli agrari e spezzò, per conto degli agrari, l'organizzazione dei contadini. Il patto di Roma tra fascisti e socialisti segna il punto d'arresto di questa politica ciecamente e politicamente disastrosa per la piccola borghesia urbana, la quale comprese che vendeva la sua «primogenitura» per un piatto di lenticchie. Se il fascismo continuava nelle spedizioni punitive tipo Treviso, Sarzana, Roccastrada, la popolazione sarebbe insorta in massa e, nell'ipotesi di una sconfitta popolare, non certo i piccoli borghesi avrebbero preso in mano il potere, ma lo stato maggiore e i latifondisti. Il fascismo si avvicina nuovamente al socialismo, la piccola borghesia cerca di rompere i legami con la grande proprietà terriera, cerca di avere un programma politico che finisce col rassomigliare stranamente a quello di Turati e D'Aragona.

È questa la situazione attuale della massa popolare italiana: una grande confusione, successa alla unità artificiale creata dalla guerra e personificata dal Partito socialista, una grande confusione che trova i punti di polarizzazione dialettica nel Partito comunista, organizzazione indipendente del proletariato industriale; nel Partito popolare, organizzazione dei contadini, nel fascismo, organizzazione della piccola borghesia. Il Partito socialista, che ha dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche rappresentato la confusione demagogica di queste tre classi del popolo lavoratore, è oggi il massimo esponente e la vittima piú cospicua del processo di disarticolazione (per un nuovo, definitivo assetto) che le masse popolari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia.

Un Partito di masse2

Il Partito socialista si presenta al Congresso di Milano con 80.000 inscritti. Un piccolo ragionamento sulle cifre può essere utile, piú di qualsiasi ragionamento teorico, per avere una esatta comprensione della natura e dell'attuale funzione del Partito socialista italiano.

Dopo il Congresso di Livorno il Partito socialista rimase costituito da 98.000 comunisti unitari e da 14.000 riformisti, cioè da 112.000 inscritti. Dopo Livorno sono entrati nel Partito almeno 15.000 nuovi soci; se oggi gli inscritti sono 80.000 ciò significa che dei 112.000 votanti a Livorno 47.000 sono andati via; i 65.000 rimasti coi 15.000 nuovi entrati costituiscono appunto gli attuali effettivi di 80.000.

Al Congresso di Livorno i comunisti unitari erano 98.000; l'attuale frazione massimalista unitaria, continuatrice di quella comunista unitaria, avrà al Congresso di Milano dai 45.000 ai 50.000 voti; è chiaro che i 47.000 fuorusciti dal Partito socialista dopo Livorno sono nella quasi totalità comunisti unitari.

La qualità degli attuali 80.000 inscritti può essere compresa da questo piccolo ragionamento. Il Partito socialista amministra attualmente circa 2.000 comuni, e 10.000 tra leghe, Camere del lavoro, cooperative, mutue. Se si tiene conto delle minoranze comunali, e dei Consigli provinciali, è lecito calcolare a una media di 16 consiglieri per i 2.000 comuni amministrati in maggioranza; risulta cioè che un partito di 80.000 inscritti conta ben 32.000 consiglieri comunali. Per le 10.000 organizzazioni economiche non è esagerato calcolare (anche tenendo conto delle cariche multiple) tre funzionari inscritti al Partito socialista per una; abbiamo cosí un partito di 80.000 inscritti, il quale oltre a 32.000 consiglieri comunali, annovera ben 30.000 funzionari di leghe, di cooperative, di mutue: ha cioè, su 80.000 inscritti, ben 62.000 soci strettamente legati a una posizione economica o politica, ha cioè solamente 18.000 soci disinteressati.

Questa composizione spiega sufficientemente come avvenga che il Partito socialista, pur non rappresentando piú le aspirazioni e i sentimenti delle grandi masse lavoratrici, continui apparentemente a essere un partito di masse. La storia è piena di fenomeni simili.

Il regno dei Borboni, a Napoli, era «negazione di Dio» fin dal 1848; eppure continuò a sussistere fino al 1860 perché aveva un corpo di funzionari che era tra i migliori di tutta Italia; dal 1848 al 1860 lo Stato borbonico fu una pura e semplice organizzazione di funzionari, senza consenso in nessuna classe della popolazione, senza vita interiore, senza un fine storico che ne giustificasse l'esistenza.

L'impero degli zar aveva dimostrato nel 1905 di essere morto e putrefatto storicamente; aveva contro di sé il proletariato industriale, i contadini, la piccola borghesia intellettuale, i commercianti, la enorme maggioranza della popolazione. Dal 1905 al 1917 l'impero degli zar visse solamente perché aveva una burocrazia formidabile, visse solamente come organizzazione di funzionari statali, senza contenuto etico, senza una missione di progresso civile che ne giustificasse l'esistenza.

Lo Stato d'Austria-Ungheria è il terzo esempio, e forse il piú educativo, che offre la storia. Era diviso in razze nemiche tra loro, come oggi son nemiche tra loro le diverse tendenze del Partito socialista, eppure continuava a sussistere, cementato unitariamente da una sola categoria di cittadini, la casta dei funzionari.

Nella politica internazionale lo Stato dei Borboni, l'impero degli zar, l'impero degli Asburgo rappresentavano tuttavia tutta la popolazione e pretendevano di esprimerne la volontà e i sentimenti. Cosí oggi il Partito socialista, organizzazione di 62.000 funzionari della classe lavoratrice, pretende di rappresentare la massa lavoratrice, pretende di esprimerne la volontà e i sentimenti.

Questa composizione del Partito socialista giustifica il nostro scetticismo sui risultati del Congresso di Milano. Solo tra i 18.000 soci disinteressati è possibile abbia influsso una discussione politica; gli altri 62.000 ragionano solo dal punto di vista del loro impiego e della loro carica. Una scissione a destra metterebbe in pericolo le maggioranze dei Consigli comunali, una scissione fra funzionari sindacali, di cooperative, di mutue metterebbe in pericolo la situazione di ciascuno; i 62.000 sono pertanto unitari fino in fondo, fino alle estreme vergogne. Crediamo perciò destinato al fallimento completo il tentativo di Maffi, Lazzari, Riboldi per un riavvicinamento all'Internazionale comunista; i tre possono influire solo su 18.000 degli 80.000 inscritti al Partito socialista; nella migliore delle ipotesi essi potranno staccare da questo partito 10.000 soci, e la nuova scissione non avrà nessuna importanza politica.

La verità è che il Partito socialista è ormai morto e putrefatto: un partito operaio che su 80.000 soci ha 62.000 funzionari è solo un'escrescenza morbosa del proletariato, cosí come lo Stato parlamentare-burocratico è un'escrescenza morbosa della collettività nazionale. Il fenomeno è però ricco di insegnamenti per i militanti comunisti: se è vero che il Partito socialista, pur essendo morto come coscienza politica del proletariato, continua a sussistere come apparecchio organizzativo delle grandi masse, ciò indica l'importanza estrema che nelle civiltà moderne hanno i «funzionari». Per il Partito comunista il problema di diventare partito delle grandi masse e quindi partito di governo rivoluzionario, non consiste solamente nel risolvere la quistione di interpretare fedelmente le aspirazioni popolari, significa anche risolvere la quistione di sostituire i funzionari controrivoluzionari con funzionari comunisti, significa quindi creare un corpo di funzionari comunisti, che però, a differenza di quelli socialisti, siano strettamente disciplinati e subordinati ai congressi e al Comitato centrale del Partito. Di questa verità, poco simpatica apparentemente, devono convincersi specialmente i nostri giovani; la realtà è quella che è, una cosa ribelle, e deve essere dominata coi mezzi adeguati, anche se paiono poco rivoluzionari e poco simpatici.

Bisogna parlar chiaro3

Dopo aver letto il nuovissimo manifesto lanciato al proletariato d'Italia e «gli sfruttati tutti» dal Partito socialista e dalla Confederazione generale del lavoro ogni operaio è naturalmente costretto a domandarsi e a domandare: «Quali fini comuni possono proporsi oggi la classe operaia e tutti gli altri sfruttati? Con quale tattica e nei quadri di quale nuovo tipo di organizzazione possono essere raggiunti questi fini? Insomma, cosa dobbiamo fare? Il Partito socialista crede sia maturo il tempo per organizzare i Consigli dei delegati operai, contadini e soldati?».

Queste domande sono perfettamente giustificate. Il manifesto dei socialisti infatti non si riferisce solamente alla lotta sindacale per gli orari e i salari; esso invita «tutti gli sfruttati» a una lotta unitaria contro la speculazione, cioè contro il sistema capitalistico in generale, nelle sue forme immediatamente concrete di protezionismo doganale, di rincaro dei viveri, di disoccupazione. La lotta sindacale appare nel manifesto solo come motivo particolare di un quadro piú ampio e comprensivo. Gli operai e i contadini organizzati nelle Camere del lavoro e nelle Federazioni appaiono nel manifesto solo come l'avanguardia dell'esercito che si vuole mobilitare. Perché? A qual fine? Con quale indirizzo? Non essendoci in vista né elezioni parlamentari... né elezioni municipali, lo scopo di questa mobilitazione dovrebbe essere solo rivoluzionario, dovrebbe essere: come programma minimo, l'organizzazione di un sistema di Consigli per il controllo sulla produzione e sugli scambi, di Consigli eletti da tutti i lavoratori, manuali e intellettuali, organizzati e disorganizzati, comunisti, socialisti, sindacalisti, anarchici, popolari; come programma massimo, l'organizzazione di Consigli di deputati operai, contadini e soldati che si propongano di lottare per sostituire nel potere statale, il Parlamento e i Municipi. Cosa vogliono dunque i socialisti? Il manifesto deve essere precisato, deve essere postillato, deve essere chiarito. Le masse operaie non devono piú essere adoperate per esercizi sportivi di dubbia origine e di ancor piú dubbio carattere.

La realtà è troppo tragica perché si possa scherzare colle parole a doppio senso. I comunisti non daranno un momento di tregua ai capi del socialconfederalismo: nelle assemblee, nei comizi, in tutte le riunioni li metteranno con le spalle al muro. D'accordo che alla lotta sia necessario chiamare non solo gli operai e i contadini organizzati, ma le piú grandi masse della popolazione sfruttata, i comunisti insisteranno infaticabilmente nel domandare parole d'ordine precise, fini reali, metodi concreti di organizzazione e di controllo delle grandi masse sui capi responsabili. Gli operai e i contadini, entrando in lotta, arrischiano tutta la loro vita e la vita dei loro famigliari; se i capitalisti, alle prime avvisaglie di controffensiva proletaria, attuano la serrata generale, cosa faranno i socialisti? Se una nuova azione fascista in grande stile viene sferrata contro i lavoratori, cosa faranno i socialisti? Se lo stato maggiore minaccia un pronunciamento, cosa faranno i socialisti?

È giunta l'ora di assumersi tutta la responsabilità delle parole che si lanciano in mezzo al popolo. I socialisti hanno finora attuato la politica del dottor Grillo: come il dottor Grillo distribuiva ricette a destra e a mancina, augurando ai suoi clienti: «Che Dio ve la mandi buona!», cosí i capi socialisti lanciano manifesti demagogici, senza preoccuparsi delle loro conseguenze reali e dei loro risultati pratici. Non si lotta senza un programma preciso e senza una tattica adeguata al programma proposto come fine della lotta. Non si invitano alla lotta le grandi masse popolari senza un piano preciso per il loro inquadramento permanente, per la massima utilizzazione delle energie che vengono in tal modo scatenate. Signori del Partito socialista e della Confederazione generale del lavoro, dovete parlar chiaro; a nessun costo i comunisti vi permetteranno di trascinare il proletariato in una avventura che ripeta l'avventura dell'occupazione delle fabbriche. La posta è troppo grave, la posta è la vita stessa degli operai: se le canaglie massimaliste credono di potersi rifare una verginità rivoluzionaria speculando demagogicamente sull'ultimo quarto d'ora di potere di cui ancora sentono di poter disporre, troveranno chi saprà affrontarli e saprà, senza paure di impopolarità, strappar loro la maschera dalla faccia.

Le masse e i capi4

La lotta che il Partito comunista ha impegnato per realizzare il fronte unico sindacale contro l'offensiva capitalistica ha avuto il merito di creare il fronte unico di tutti i mandarini sindacali: contro la dittatura del Partito comunista e dell'Esecutivo di Mosca, Armando Borghi si trova d'accordo con Ludovico D'Aragona, Errico Malatesta si trova d'accordo con Giacinto Menotti Serrati, Sbrana e Castrucci si trovano d'accordo con Guarnieri e Colombino. La cosa non fa alcuna meraviglia a noi comunisti. I compagni operai che hanno seguito nell'Ordine Nuovo settimanale la campagna svolta per il movimento dei Consigli di fabbrica ricordano senza dubbio come sia stato da noi previsto anche per l'Italia questo fenomeno che si era già verificato negli altri paesi e poteva quindi già allora essere assunto come universale, come una delle manifestazioni piú caratteristiche dell'attuale periodo storico.

L'organizzazione sindacale, avesse un'etichetta riformista, anarchica o sindacalista, aveva dato luogo al sorgere di tutta una gerarchia di piccoli e grandi capi, le cui note caratteristiche erano specialmente la vanità, la mania di esercitare un potere incontrollato, l'incompetenza, la sfrenata demagogia. La parte piú ridicola e assurda era rappresentata in tutta questa commedia dagli anarchici, i quali tanto piú erano autoritari quanto piú strillavano contro l'autoritarismo, tanto piú sacrificavano la reale volontà delle grandi masse e la fioritura spontanea delle loro tendenze libertarie quanto piú ululavano di volere libertà, autonomia, spontaneità di iniziativa. Specialmente in Italia il movimento sindacale cadde in basso e divenne gazzarra da fiera: ognuno voleva creare il suo «movimento», la sua «organizzazione», la «sua vera unione» dei lavoratori. Borghi rappresentò una ditta brevettata, De Ambris un'altra ditta brevettata, D'Aragona una terza ditta brevettata, Sbrana e Castrucci una quarta ditta brevettata, il capitano Giulietti una quinta ditta brevettata. Tutta questa gente, come è naturale, si manifestava contraria all'ingerenza dei partiti politici nel movimento sindacale, affermava che il sindacato basta a se stesso, che il sindacato è il «vero» nucleo della società futura, che nel sindacato si trovano gli elementi strutturali dell'ordine nuovo economico e politico proletario.

Nell'Ordine Nuovo settimanale noi abbiamo, spregiudicatamente, con metodo libertario, cioè senza lasciarci deviare da preconcetti ideologici (quindi con metodo marxista, dato che Marx è il piú grande libertario apparso nella storia del genere umano) esaminato quale sia la reale natura e la reale struttura del sindacato. Abbiamo cominciato col dimostrare come sia assurdo e puerile sostenere che il sindacato possieda in sé la virtú di superare il capitalismo: il sindacato èobiettivamente nient'altro che una società commerciale, di tipo prettamente capitalistico, la quale tende a realizzare, nell'interesse del proletario, un prezzo massimo per la merce-lavoro e a realizzare il monopolio di questa merce nel campo nazionale e internazionale. Il sindacato si differenzia dal mercantilismo capitalista solo soggettivamente, in quanto, essendo formato e non potendo essere formato che da lavoratori, tende a creare la coscienza nei lavoratori che nell'ambito del sindacalismo è impossibile raggiungere l'autonomia industriale dei produttori, ma che perciò è necessario impadronirsi dello Stato (cioè privare la borghesia del potere di Stato) e servirsi del potere statale per riorganizzare tutto l'apparecchio di produzione e di scambio. Abbiamo poi dimostrato che il sindacato non può essere e non può diventare la cellula della futura società dei produttori. Il sindacato, infatti, si manifesta in due forme: nell'assemblea dei soci e nella burocrazia dirigente. L'assemblea dei soci mai è chiamata a discutere e a deliberare sui problemi della produzione e degli scambi, sui problemi tecnici industriali. Essa è normalmente convocata per discutere e decidere sui rapporti tra imprenditori e manodopera, su problemi cioè che sono propri della società capitalistica e che verranno fondamentalmente trasformati dalla rivoluzione proletaria. La scelta dei funzionari sindacali neppur essa avviene sul terreno della tecnica industriale: un sindacato metallurgico non domanda al candidato funzionario se sia competente nell'industria metallurgica, se sia in grado di amministrare l'industria metallurgica di una città o di una regione e dell'intera nazione; gli domanda semplicemente se sia in grado di sostenere le ragioni degli operai in una controversia, se sia in grado di compilare un memoriale, se sia in grado di tenere un comizio. I sindacalisti francesi della Vie ouvrière hanno, prima della guerra, cercato di creare delle competenze industriali tra i funzionari sindacali: essi hanno promosso tutta una serie di ricerche e di pubblicazioni sull'organizzazione tecnica della produzione (per esempio: come avviene che il cuoio di un bue cinese diventi la scarpa di una cocotte parigina? quale viaggio compie questo cuoio? come sono organizzati i trasporti di questa merce? quante sono le spese del trasporto? come avviene la fabbricazione del «gusto» internazionale per ciò che riguarda gli oggetti di cuoio? ecc.); ma questo tentativo è caduto nel vuoto. Il movimento sindacale, espandendosi, ha creato un corpo di funzionari che è completamente avulso dalle singole industrie e obbedisce a leggi puramente commerciali: un funzionario dei metallurgici passa indifferentemente ai muratori, ai calzolai, ai falegnami; egli non è tenuto a conoscere le condizioni reali tecniche dell'industria, ma solo la legislazione privata che regola i rapporti tra imprenditori e manodopera.

Si può affermare, senza paura di essere smentiti da alcuna dimostrazione sperimentale, che la teoria sindacalista si è ormai rivelata come un ingegnoso castello in aria, costruito da uomini politici i quali odiavano la politica solo perché essa, prima della guerra, significava solo azione parlamentare e compromesso riformistico.

Il movimento sindacale è nient'altro che un movimento politico, i capi sindacali sono nient'altro che leaders politici, i quali giungono alla posizione occupata per aggregazione invece che per elezione democratica. Per molti aspetti i capi sindacali rappresentano un tipo sociale simile al banchiere: un banchiere esperto, che ha un buon colpo d'occhio negli affari, che sa prevedere con una certa esattezza il corso delle borse e dei contratti, accredita il suo istituto, attira i risparmiatori e gli scontisti: un capo sindacale che sa prevedere i risultati possibili nel cozzo delle forze sociali in lotta, attira le masse alla sua organizzazione, diventa un banchiere d'uomini. Da questo punto di vista D'Aragona, in quanto era spalleggiato dal Partito socialista, che si affermava massimalista, fu miglior banchiere di Armando Borghi, emerito confusionario, uomo senza carattere e senza indirizzo politico, merciaiolo da fiera piú che banchiere moderno.

Che la Confederazione del lavoro sia un movimento politico essenzialmente, lo si può vedere dal fatto che la sua massima espansione coincide con la massima espansione del Partito socialista. I capi credono però di potersi infischiare della politica dei partiti, cioè di poter fare una politica personale senza la noia dei controlli e degli obblighi disciplinari. Ed ecco la ragione di questa sommossa tumultuosa dei capi sindacali contro la dittatura del Partito comunista e del famigerato Esecutivo di Mosca. Le masse comprendono istintivamente di essere impotenti a controllare i capi, a imporre ai capi il rispetto alle decisioni delle assemblee e dei congressi: perciò le masse vogliono il controllo di un partito sul movimento sindacale, vogliono che i capi sindacali appartengano a un partito bene organizzato, che abbia un indirizzo preciso, che sia in grado di far rispettare la sua disciplina, che mantenga gli impegni liberamente contratti. La dittatura del Partito comunista non spaventa le masse, perché le masse comprendono che questa terribile dittatura è la massima garanzia della loro libertà, è la massima garanzia contro i tradimenti e gli imbrogli. Il fronte unico che i mandarini sindacali di tutte le scuole sovversive costituiscono contro il Partito comunista dimostra una cosa sola: che il nostro Partito è finalmente diventato il partito delle grandi masse, che esso rappresenta davvero gli interessi permanenti della classe operaia e contadina. Al fronte unico di tutti i ceti borghesi contro il proletariato rivoluzionario corrisponde il fronte unico di tutti i mandarini sindacali contro i comunisti. Giolitti, per debellare gli operai ha fatto la pace con Mussolini e ha dato le armi ai fascisti; Armando Borghi, per non perdere la sua posizione di gran senusso del sindacalismo rivoluzionario, farà l'accordo con D'Aragona, bonzo massimo del riformismo parlamentare.

Quale insegnamento per la classe operaia, che non gli uomini deve seguire, ma i partiti organizzati che ai singoli uomini sappiano imporre disciplina, serietà, rispetto per gli impegni contratti volontariamente!

Il sostegno dello Stato5

Nel bel tempo antico, quando i ricordi del Risorgimento erano ancora vivaci e la conquista della Costituzione rappresentava ancora un valore per la grande massa della popolazione italiana, si svolse una interessante polemica tra i liberali e i repubblicani sulla natura e sulla importanza del giuramento di fedeltà al re che i deputati devono prestare in Parlamento. I liberali cosí ragionavano: se i deputati rifiutano di prestare questo giuramento, se i deputati ottengono che l'istituzione del giuramento sia abolita, lo Stato stesso viene a mancare del suo principale sostegno. La Costituzione è un patto reciproco di fedeltà tra popolo e sovrano: se il popolo, attraverso le persone dei suoi rappresentanti, si sottrae all'obbligo di fedeltà, se il popolo domanda, con l'abolizione del giuramento, libertà di operare contro la Costituzione, anche il sovrano viene, di diritto, ad essere sciolto dai suoi vincoli, anche al sovrano viene riconosciuta la libertà di organizzazione e di attuare il colpo di Stato contro la Costituzione.

Il governo rappresenta il sovrano nel Parlamento nazionale, il governo è anzi responsabile per il sovrano dinanzi al Parlamento nazionale e dinanzi al popolo. Se il governo lascia impunemente violare la Costituzione, se il governo permette la formazione nel paese di bande armate, se il governo permette che associazioni private costituiscano depositi di armi e munizioni, se il governo permette che decine di migliaia di privati cittadini, armati, inquadrati militarmente, con casco e moschetto, dopo avere, indisturbati, percorso il paese, invadano la capitale e sfoggino apertamente la loro «potenza», cosa significa ciò se non questo: avere il governo, responsabile per il sovrano, violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione? Cosa significa ciò se non che si sta preparando, da parte degli organismi statali che si raggruppano nel potere esecutivo, un colpo di Stato? Cosa significa ciò se non che in Italia viviamo già nell'ambiente da cui automaticamente deve sbocciare il colpo di Stato?

Il patto tra popolo e sovrano è dunque ormai denunziato, per volontà del potere statale che rappresenta il secondo. Automaticamente tutti i giuramenti di fedeltà sono denunziati. Cosa lega ormai gli impiegati al governo? Cosa lega ormai gli ufficiali all'autorità suprema? La popolazione deve, per la logica stessa degli avvenimenti, dividersi in due parti: favorevoli e contrari al colpo di Stato reazionario, o meglio favorevoli al colpo di Stato reazionario e favorevoli a un'insurrezione popolare capace di spezzare il colpo di Stato reazionario. La stessa Costituzione contempla l'eventualità: essa riconosce al popolo il diritto di insorgere in armi contro ogni tentativo dei poteri statali di infrangere la Costituzione stessa. Perché infatti un patto, che non può non essere bilaterale, dovrebbe rimanere valido per una parte se l'altra parte lo infrange? Perché un impiegato o un ufficiale dovrebbe mantenersi fedele a una legge che piú non esiste? Perché dovrebbe conservare i segreti di Stato e non comunicarli ai partiti rivoluzionari, se conservare questi segreti significa favorire il colpo di Stato, cioè l'abolizione anche formale delle leggi e delle libertà statutarie, mentre comunicare questi segreti ai partiti rivoluzionari significa contribuire a salvare la libertà popolare, significa certamente mantenersi fedele allo spirito del giuramento prestato?

Lo Stato borghese vive in grandissima parte sul lavoro e sull'abnegazione di migliaia di funzionari civili e militari che compiono, spesso con vera passione, il loro dovere, che hanno vivo il senso dell'onore, che hanno preso sul serio il giuramento prestato all'atto di iniziare il loro servizio. Se non esistesse questo nucleo fondamentale di persone sincere, lealmente devote al loro ufficio, lo Stato borghese crollerebbe in un istante, come un castello di carta. Sono costoro il vero, l'unico sostegno dello Stato, non certo gli altri, i concussori, i prevaricatori, i poltroni, i parassiti dello Stato. Ora: a chi giova il colpo di Stato? Esso può giovare solo appunto a questi altri, ai concussori, ai prevaricatori, ai poltroni, ai parassiti: spesso, anzi quasi sempre, il colpo di Stato non è altro che lo strumento della feccia statale per mantenere le posizioni occupate e divenute micidiali per la società; questa gente non ha scrupoli, si infischia dei giuramenti e dell'onore, essa odia tutti i lavoratori, e primi fra tutti, quelli che lavorano nei suoi stessi uffici e sono il vivente rimprovero della sua disonestà e del suo parassitismo.

Oggi la situazione storica è questa: una sola grande classe sociale è in grado di opporsi validamente ai tentativi liberticidi della reazione scatenata, la classe degli operai, il proletariato. Questa classe compie oggi la stessa funzione liberatrice che nel Risorgimento è stata propria dei liberali. Questa classe ha un suo partito, il Partito comunista, col quale devono collaborare tutti gli elementi disinteressati e sinceri dello Stato italiano, che vogliono mantenere fede al loro ufficio di custodi delle libertà popolari contro tutti gli assalti delle forze oscure del passato che non vuol morire.

Gestione capitalistica e gestione operaia6

La Perseveranza e alcuni altri giornali notoriamente legati agli interessi dell'affarismo bancario-industriale italiano, hanno cercato di rispondere ai rilievi da noi fatti sulle cause che hanno determinato le due clamorose sconfitte subite dalla Fiat al circuito di Brescia. Gli scrittori di questi giornali probabilmente non hanno mai visto un'officina moderna; certamente essi ignorano cosa sia lo spirito industriale; indubbiamente essi sono in malafede, e hanno il partito preso (e pagato) di insorgere in difesa dei proprietari per qualsiasi contesa e di trovare che tutte le responsabilità dei mali che affliggono la produzione italiana ricada sulla classe operaia, sul bolscevismo, sui Consigli di fabbrica. Le parole sono parole, le affermazioni sono affermazioni; diano un'occhiata alle cifre, questi egregi signori, preghino gli industriali di pubblicare i dati di produzione che si riferiscono a questi periodi, caratteristici della attività industriale dei metallurgici torinesi: 1) dallo sciopero dell'aprile 1920 alla occupazione delle fabbriche; 2) occupazione delle fabbriche; 3) dall'occupazione delle fabbriche alla serrata dell'aprile 1921; 4) dalla riapertura, col licenziamento dei Consigli di fabbrica e dei gruppi comunisti, al circuito di Brescia.

Nel periodo di occupazione e di gestione operaia diretta, quantunque la maggioranza dei tecnici e degli amministrativi avesse disertato il lavoro, e una notevole parte della maestranza operaia fosse stata destinata a sostituire i disertori e a svolgere funzioni di sorveglianza e di difesa militare, tuttavia il livello della produzione fu piú elevato del periodo precedente, caratterizzato dalla reazione capitalistica dopo lo sciopero dell'aprile 1920.

Nel periodo successivo all'occupazione — in cui il controllo operaio e il potere dei Consigli di fabbrica raggiunsero il massimo di efficienza — la produzione della Fiat fu tale, per quantità e per qualità, da superare di gran lunga la produzione del periodo bellico: da 48 vetture quotidiane si balzò alle 70 vetture quotidiane. I signori industriali giocarono una carta suprema su queste nuove condizioni create alla produzione dal potere dei Consigli di fabbrica: essi proposero alle maestranze un progetto di cottimo collettivo. Poiché esistevano i Consigli di fabbrica, i quali esercitavano un controllo reale e immediato su tutte le iniziative capitalistiche, e poiché, se controllato, il cottimo collettivo rappresenta un grande passo in avanti nel regime industriale, le maestranze accettarono, con alcune modificazioni, il progetto. Ma gli industriali, una volta introdotto il cottimo collettivo, passarono all'offensiva contro i Consigli e contro i gruppi comunisti. La serrata fu proclamata, gli operai rivoluzionari furono licenziati, i reparti furono disorganizzati, la reazione piú spietata fu introdotta come sistema. Le conseguenze furono disastrose: il collaudo incominciò a respingere fino al 50 per cento della produzione di molti reparti; il livello della produzione cadde fino a 15 vetture al giorno. Politicamente, gli industriali hanno raggiunto i loro fini: le Commissioni interne, formate di socialisti, non dànno piú noia alcuna ai dirigenti; gli operai sono disciplinatissimi; nessuno parla; nessuno si muove dal suo posto; non si fanno comizi; non circolano giornali sovversivi; non si discute. Ma la produzione è caduta da 70 vetture a 15 vetture, e la qualità è scaduta nella misura dimostrata dal circuito di Brescia.

Possono smentire questi dati gli allegri scrittori della Perseveranza e degli altri giornali «che si preoccupano delle sorti dell'industria nazionale»? Una cosa appare evidente dalle esperienze industriali di questi anni passati: 1) la classe dominante non possiede piú un ceto di imprenditori capace di governare la produzione industriale; la guerra, se ha esaurito, con le sue privazioni e coi suoi orari lunghissimi di lavoro, la classe operaia, ha però esaurito in una misura superiore gli imprenditori, che si sono pervertiti con la speculazione bancaria e hanno perduto la capacità di organizzare e di amministrare le grandi masse d'officina; 2) la classe operaia, quantunque non abbia l'esperienza e la «maturità» politica e tecnica della classe dominante, tuttavia riesce meglio della classe borghese a gestire la produzione. Capitalismo significa oggi disorganizzazione, rovina, disordini in permanenza. Non esiste per le forze produttive altra via di scampo che nell'organizzazione autonoma della classe operaia sia nel dominio dell'industria che nel dominio dello Stato.

Il Partito comunista e le agitazioni operaie in corso7

Un fremito di lotta percorre le file del proletariato italiano. La massima depressione dell'attività del proletariato è decisamente sorpassata e la lotta di classe va riprendendo il ritmo imponente che aveva prima degli avvenimenti della fine del 1920. L'offensiva capitalistica, il cui inizio si può ravvisare negli episodi del 21 novembre 1920 — un anno addietro — a Bologna, si è andata, nelle sue molteplici forme, scatenando solo dopo che sul morale delle masse aveva avuto il suo malefico influsso la disastrosa politica del Partito socialista e della Confederazione del lavoro, e pur profittando soprattutto degli errori e delle colpe dei dirigenti proletari, non appare essere stata tanto perniciosa quanto questi, se al massimo suo infierire la classe operaia risponde risollevandosi alla combattività di una volta.

Tra il periodo di lotte operaie che la tattica equivoca dei socialisti ha allora sciupato, e quello attuale, vi sono differenze profonde di situazioni e di rapporti di forze. Allora sembrava lasciata agli organismi proletari l'iniziativa dei movimenti e la scelta del programma di conquista, e l'avversario, padronato e Stato, sembrava disorientato e pressoché passivo. Oggi invece è la borghesia con una serie di armi ben temprate che muove contro il proletariato e lo assale sul terreno politico colla reazione e col fascismo, e sul terreno economico colle serrate e le denunzie dei patti di lavoro allora conquistati.

Secondo i socialisti di destra fu una colpa proporsi in quel periodo favorevole obiettivi rivoluzionari troppo grandiosi e irreali e non assicurarsi piú limitate conquiste, nelle quali tuttavia il proletariato si sarebbe saldamente rafforzato. Ma essi non alludono a conquiste economiche, poiché queste in realtà si verificarono su vasta scala, ed evidentemente parlano di un programma politico la cui realizzazione, sul terreno politico, venne impedita dalla conclamata aspirazione alla conquista di tutto il potere alla classe operaia.

Ma costoro non dicono né mostrano quale forma di regime, se non l'integrale possesso della forza statale da parte dei lavoratori, avrebbe garantito il proletariato dal contrattacco borghese. È facile convincersi come, se l'offensiva borghese è derivata dalla reazione al peso che aveva assunto la volontà degli organismi proletari nell'andamento della vita sociale, e dalla coscienza che in corrispondenza a questa influenza apparente non vi era una solida organizzazione di lotta, maggiormente essa si sarebbe scatenata nel caso che le masse avessero appoggiata la loro influenza sociale, non sulla loro organizzazione, ma su ulteriori concessioni ottenute con mezzi pacifici da ipotetici alleati scelti tra la sinistra borghese, sul terreno delle combinazioni parlamentari, o di qualche simulacro di crisi di regime; ora l'unico mezzo, in realtà, di impedire il ritorno offensivo borghese era il disarmo dell'apparato borghese di governo e della borghesia stessa, e la diretta gestione dei poteri e della forza armata da parte del proletariato: ossia la dittatura rivoluzionaria di questo.

Nella situazione odierna, in cui la borghesia tende ad una propria dittatura economica e politica, che lasci immutate le forme del suo regime, ma demolisca i fortilizi della organizzazione operaia e respinga il proletariato alle condizioni di anteguerra e piú indietro ancora, gli esponenti della socialdemocrazia, a cui non può nemmeno reggere il comodo alibi cui rispondevamo or ora, non osano piú formulare alcun programma. Essi sostengono, o piuttosto effettuano, il ripiegamento senza lotta, per non essere costretti ad ammettere la necessità dell'armamento non solo ideale ma anche materiale del proletariato per la lotta di classe, da cui consegue necessariamente il programma del consolidamento di quest'apparato di lotta in un apparato di potere rivoluzionario.

I comunisti invece, coerenti alle accuse che nel «felice» periodo degli anni 1919 e 1920 facevano alla politica dei socialisti di destra, incapace di utilizzare ogni tappa percorsa lottando dal proletariato per la organizzazione delle sue facoltà rivoluzionarie, al di fuori e contro lo Stato borghese, come unica garanzia della difesa di quelle conquiste e della loro integrazione fino alla emancipazione proletaria, i comunisti oggi sostengono che il proletariato deve accettare dalla situazione gli eloquenti insegnamenti di lotta che ne derivano, e deve affrontare i singoli conflitti colle forze avversarie con una visione generale dei suoi compiti che prepari il movimento unico di tutta la classe lavoratrice sul piano rivoluzionario.

Se il considerare come isolate le singole azioni e il vantare la tattica di occupare successivamente e con poco spreco di energia le singole posizioni prendibili, poteva avere un senso nel periodo della avanzata, oggi quel metodo equivale evidentemente all'esporsi a certa disfatta.

I comunisti hanno tracciato il piano di azione proletaria nell'incanalamento di tutte le lotte in un'unica azione del fronte unico dei lavoratori, che abbia come posta tutto il presidio delle conquiste operaie che la offensiva borghese viene ad insidiare. Questo piano si viene tracciando negli stessi avvenimenti, che in modo quasi automatico conducono i lavoratori ad allargare la base dei conflitti, fondendoli con quelli a cui son provocate altre categorie e riunendo rivendicazioni politiche ed economiche.

Mentre questa sintesi degli sforzi è programmaticamente completa nella parola d'ordine del Partito comunista, che deve servire come guida all'azione proletaria, nella realtà ci sono coefficienti che si oppongono alla sua realizzazione, principalissimo tra questi l'atteggiamento dei capi di destra. L'azione verso il fronte unico proletario appare cosí come una doppia lotta: contro la borghesia su fronti determinati dai suoi attacchi e contro i socialdemocratici che impediscono alla organizzazione proletaria di rispondere coll'allargamento del fronte alla tattica borghese, che è di battere successivamente e separatamente le forze operaie.

Il Partito comunista intende in tutta la sua complessità questa situazione, e le difficoltà che si frappongono alla realizzazione della piattaforma di azione unica che esso ha proposta, che culminerebbe nello sciopero generale nazionale, mettendo la lotta su di una via decisamente rivoluzionaria, non lo distolgono dal seguire e dal sostenere tutte le fasi della lotta difensiva proletaria che, sebbene impastoiata dalla dittatura socialdemocratica sulle organizzazioni, volge per successive azioni alla estensione del fronte.

Perciò i comunisti hanno un preciso compito, anche se non si è accettata dai loro avversari la forma di azione che essi ritengono e che è la sola che presenti le vere probabilità di una vittoria proletaria. Essi non si fanno della mancata realizzazione fin dal principio, e da parte di tutte le masse, della loro tattica, una ragione di passività o un alibi per le loro responsabilità; essi sono avantitutto per la lotta, la lotta su due fronti, contro l'aperto avversario borghese e contro il disfattismo interno degli opportunisti.

Quindi il Partito comunista è in prima linea negli esperimenti di azione allargata che oggi si svolgono e che indubbiamente preludono a piú vaste battaglie. È certo che se questi tentativi delle masse falliscono, sarà per effetto dell'influenza dei socialdemocratici che rallentano la diffusione del movimento, e che questi cercheranno di sfruttare le eventuali sconfitte proletarie come conseguenza del metodo dell'estensione dell'azione, mentre sarebbero solo conseguenza di quello della troppo tarda estensione. Ma ciò non toglie che compiendo grandi sforzi non si possa ottenere che anche per questa via, resa meno diretta dalla forza dei disfattisti, si possa costruire l'agguerrimento del proletariato alle lotte supreme rivoluzionarie. Quindi noi siamo, dopo avere bene stabilite tutte le responsabilità, nel pieno della lotta negli scioperi generali della Liguria e della Venezia Giulia; noi domandiamo l'estensione del movimento dei ferrovieri contro l'applicazione dell'art. 56.

Bisogna lottare contro questa situazione per trarre da ogni suo episodio un risultato di esperienze e di allenamenti rivoluzionari, con lo sguardo sempre volto all'obiettivo: azione generale unica di tutti i lavoratori.

Il livello della combattività proletaria andrà crescendo attraverso questi episodi nella misura in cui il Partito comunista sarà giunto a fronteggiare il disfattismo dei gialli. I quali attendono, non meno forse dei borghesi autentici, il rovescio che ripiombi il proletariato nella morta gora della passività e dello sbigottimento.

Ma, dai piú viscidi ai piú cinici nemici del movimento proletario, sembra sentano tutti soffiare ben altro vento: quello della grande tempesta rivoluzionaria.

Un governo qualsiasi8

Nell'armamentario fraseologico del Partito socialista, la formula del governo migliore è stata definitivamente sostituita dalla nuova formula del governo qualsiasi: il Partito socialista confessa apertamente di aver rinunziato ad ogni conquista nel campo legale; afferma di non essere neppure piú un partito di graduali riforme e di conquiste morali; esso si accontenta di ottenere da parte del governo le garanzie elementari per la sicurezza e la incolumità personale delle masse contadine.

Per misurare tutta la portata dell'indietreggiamento fatto dai socialisti, basta ricordare la posizione polemica assunta dai capi sindacali del movimento contadino nel Congresso di Livorno. L'on. Nino Mazzoni, nel Congresso provinciale di Reggio Emilia della frazione di concentramento, aveva sostenuto che la tesi comunista della conquista violenta dello Stato era destituita di ogni fondamento di ragionevolezza e di senso comune, poiché lo Stato erano effettivamente i contadini. Per l'on. Mazzoni il problema non era già quello di conquistare lo Stato con la forza armata della classe lavoratrice, ma semplicemente quello di organizzare le parziali conquiste dello Stato, già avvenute per virtú taumaturgica dei capi sindacali e municipali, di organizzare in Parlamento lo Stato di fatto. Al Congresso di Livorno l'on. Mazzoni ribadí e ampliò questa sua tesi: per l'on. Mazzoni in Italia, a differenza degli altri paesi, e specialmente della Russia, l'avanguardia socialista era costituita non dal proletariato urbano, ma dalle masse lavoratrici rurali. La tesi comunista della rivoluzione, concepita come essenzialmente proletaria e urbana, e la tesi comunista come rivoluzione proletaria che liberi i contadini dai residui della oppressione e dello sfruttamento feudale, dettero modo all'on. Mazzoni di bombardare l'edifizio granitico della maggioranza massimalista-unitaria con un giro di arguzie volgari e di spiritosaggini banali.

Ad un anno di distanza ogni operaio o contadino, anche mediocremente intelligente, è stato posto in grado dagli avvenimenti di giudicare quali delle due correnti socialiste, quella comunista o quella riformista, avesse saputo prevedere lo sviluppo della storia e avesse saputo indicare la tattica migliore per salvare la classe lavoratrice dalla rovina economica e dalla schiavitú politica. La classe contadina, nonostante il possesso di migliaia di municipi, di decine di migliaia di cooperative e di leghe, è stata completamente messa a terra. Anzi, proprio là dove, in provincia di Rovigo, le organizzazioni contadine erano riuscite a conquistare la quasi totalità delle amministrazioni locali, ivi la reazione è piombata piú feroce e ha trovato meno resistenza. La classe contadina italiana è stata ricacciata in una situazione di schiavitú peggiore di questa feudale: non ha piú libertà di riunione, non ha piú libertà di stampa, non ha piú libertà di associazione, non ha piú libertà di andare e venire, non piú neanche la libertà di vivere. Nelle città, quantunque la disfatta clamorosa dei contadini abbia avuto ripercussioni spesso micidiali demoralizzando e avvilendo larghi strati del proletariato, si vive ancora, si resiste, si lotta; nelle città si succedono incessantemente disperati tentativi per organizzare un'armata di lavoratori e renderla capace di scendere in campo contro la guardia bianca.

Ogni operaio e contadino è oggi persuaso che solo dalle città può uscire il grido di riscossa del popolo lavoratore italiano, che l'emancipazione delle masse oppresse e sfruttate può essere assicurata solo da uno Stato operaio che, avendo organizzato un potente esercito rosso e una implacabile rete di istituzioni poliziesche o giudiziarie con elementi operai, sistematicamente riconquisti i territori invasi e schiacciati dal fascismo e li sbarazzi dai depositi di armi e dai complotti reazionari. Il Partito socialista invece, completamente demoralizzato e corrotto dalla disfatta subita nelle province agricole, rincula ogni giorno piú. I capi socialisti riconoscono che il popolo italiano è stato ricondotto nella situazione esistente sotto il regime feudale; ma, a differenza dei partiti liberali che allora rappresentavano le forze oppresse, i capi socialisti rinunziano alla preparazione della insurrezione armata, rinunziano alla violenza, si affidano ad un governo qualsiasi, cioè al noschismo che in un primo tempo può anche reprimere il fascismo agrario, ma non può certamente reprimere il fascismo agrario senza reprimere simultaneamente le forze rivoluzionarie urbane; senza cioè creare le condizioni migliori per una rinascita a breve scadenza di un fascismo agrario anche piú spietato ed atroce di quello attuale.

La masse proletarie e contadine hanno però appreso dalla esperienza storica piú di quanto abbiano appreso i capi socialisti: ecco perché esse si riuniscono sempre piú numerose e fiduciose intorno al Partito comunista che continua le tradizioni dei giacobini della Rivoluzione francese contro i girondini. Sí, i comunisti sono giacobini, ma per l'interesse del proletariato e delle masse rurali tradite oggi dai socialisti come piú di un secolo fa gli interessi della classe rivoluzionaria erano traditi dai girondini.

Il Papa e la Chiesa scismatica9

L'unione della Chiesa romana con la Chiesa greco-scismatica, od ortodossa, come volgarmente si dice anche in Occidente, è un'antica aspirazione del papato. La Chiesa scismatica comprende l'oriente mediterraneo, la Grecia, i Balcani, la Russia. Tutta la politica di Benedetto XV di fronte alla Russia dei Soviet si riconnette all'antico sogno dell'unità religiosa cattolico-scismatica. È bene dunque dirne due parole in questa vacanza del trono pontificio.

La Chiesa scismatica è molto meno lontana dalla Chiesa romana di quanto non siano i protestanti delle varie sètte. Essa si staccò dal grembo della cattolicità verso il Mille, per ragioni lambiccate di teologia, e per ragioni anche piú importanti di mentalità e di temperamento.

Non mancarono di tanto in tanto tentativi seri di unità e di conciliazione. Anche modernamente, Leone XIII fece degli sforzi notevoli per la fusione delle due Chiese. Né mancarono negli ultimi decenni episodi di vescovi delle due Chiese, che palesemente si permisero gesti di collaborazione e amicizia reciproca.

Benedetto XV prese un atteggiamento anche piú risoluto verso la conciliazione delle due Chiese.

Egli, tra l'altro, fondò in Roma l'Istituto orientale romano e volle assumere la presidenza, affidandone le funzioni di segretario ad un suo fido, conoscitore dell'Oriente e delle questioni ecclesiastiche orientali, il cardinale Marini. Su tale istituto, il Popolo romano scrive:

Questo Istituto, nel proposito del Papa, doveva accentrare tutte le relazioni del papato con i cattolici ed anche i non cattolici dell'Oriente. Con i quali, dunque, il pontefice, in qualità di presidente veniva a creare contatti ininterrotti, completamente all'infuori della burocrazia di Curia, malevole e spesso boicottatrice.

Non è di oggi il dissidio fra la burocrazia romana della cattolicità e le Chiese d'Oriente. Gelose della propria autonomia, queste non son mai riuscite, non potevan e non possono riuscire gradite ai prelati di Curia, il cui sogno è la strapotenza di dominio, l'accentramento assoluto, nelle proprie mani, di tutti gli interessi spirituali e temporali dell'orbe cattolico. È disgraziatamente la deformazione intima di tutte le burocrazie onnipotenti e centralistiche, da cui non si salva neppure — se pur non n'è inquinata piú d'ogni altro organismo sociale — la Chiesa cattolica.

Non è veramente da dire che la Propaganda fide abbia lasciato svolgersi senza contrasti e inciampi il piano di Benedetto. Verte ancor oggi un dissidio non trascurabile circa il controllo che la detta congregazione vorrebbe esercitare sul Collegio dei Maroniti, che i cattolici libanesi mantengono in Roma. Ma le congiure e le arti dei prelati di Curia trovarono sempre un argine invalicabile nella ferma volontà del pontefice. Il quale, prima di chiudere gli occhi, ha avuto la gioia di vedere il suo Istituto in pieno sviluppo, centro di studi importantissimo, aperto, senza distinzione, — e questo torna ad onore della sua serenità spirituale — ai cattolici, come agli ortodossi, come a tutti i cristiani orientali. I programmi dell'Istituto, da questo punto di vista, non hanno potuto non destare lo scandalo dei Merry del Val, dei De Lai, dei Billot e dei gesuiti.

Evidentemente Benedetto XV, riunendo in Roma i cattolici di tutte le Chiese orientali e fin gli ortodossi o cristiani in genere, per istruirsi sul vero contenuto della dottrina cattolica, tornava al grande sogno dell'unione delle Chiese d'Oriente, e tendeva a rafforzare di fronte ad esse il prestigio e l'influenza di Roma. A questo sogno egli sacrificò con una generosità, che ogni sacerdote d'Oriente vi descrive con profonda commozione, non solo le ambizioni dei prelati recalcitranti, ma le sue principali risorse finanziarie.

Anche l'atteggiamento di Benedetto XV verso la Russia mirava palesemente a tradurre in fatti l'antico sogno, che raddoppierebbe il numero dei cattolici.

Il passaggio dell'ortodossismo greco-scismatico al cattolicesimo romano, non dovrebbe significare un salto dai riti greco-scismatici al rituale latino. La Chiesa cattolica possiede già un rito greco, che usa ufficialmente la lingua greca, ha un organismo esteriore consono alle tradizioni peculiari dei patriarcati bizantini e orientali, permette il matrimonio dei preti. Anche lo spirito politico-religioso del rito greco (cattolico) è informato a un indirizzo di massimo adattamento alle tradizioni e al temperamento orientale.

Ciò dipende da un criterio politico e anche da un criterio di rispetto alle tradizioni. Mentre in Occidente la patristica antica greca è messa in seconda luce da quella latina, e i vangeli ufficiali sono latini, in Oriente al contrario non è possibile prescindere dal fatto che la storia antica della religione è soprattutto greca, come greci sono originariamente tutti i vangeli, greci per la maggior parte i Padri. Il carattere greco-orientale è essenzialmente pedante e sofistico in filosofia e in religione. Mentre le tradizioni della Chiesa occidentale sono soprattutto pratiche, quelle della Chiesa orientale sono fin dai piú antichi tempi teologiche, disputatrici, sottilizzanti. I fondamenti filosofici e teologici del cattolicesimo furono elaborati quasi esclusivamente nella Chiesa orientale, prima che avvenisse la scissione in due confessioni distinte. Attualmente, poi, la Chiesa greco-scismatica è minata da una corruzione forse anche piú profonda di quella che esiste nella Chiesa romana.

In ogni modo, la Chiesa romana ha nel suo spirito conciliativo e nel rito greco-cattolico, una base per la vagheggiata unione.

Rimangono fondamentalmente due fatti che costituiscono difficoltà serie.

Primo. La processione dello Spirito Santo dal solo Padre, come credono gli scismatici, mentre i cattolici affermano, nel Credo, che esso procede tanto dal Padre quanto dal Figlio. Probabilmente, su queste sottigliezze sarebbe possibile un accordo.

Secondo. Il riconoscimento della preminenza del vescovo di Roma. Qui la questione è intricatissima e spinosissima. La Chiesa greca antica (cattolica) ebbe sempre troppa autonomia e importanza, di fronte alla Chiesa occidentale, perché la sua erede scismatica possa accettare senz'altro il papato di Roma. In nessun caso la Chiesa scismatica accederebbe a dei preliminari di accordo, se non a patto di mettere in discussione almeno tutto ciò che il papato lentamente andò acquistando, di predominio e di attribuzioni, dal giorno dello scisma fino ad oggi. E fu questo del papato un processo, sempre piú monarchico, veramente gigantesco, che si tradusse in articoli di fede e culminò nel concilio tenuto sotto Pio IX nel 1869, dove — in mezzo a violente opposizioni di vescovi — venne stabilita l'infallibilità del Papa.

Bisogna poi aggiungere che la parte piú intransigente della Chiesa scismatica non solo nega che il vescovo di Roma sia, egli a preferenza del patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro, ma nega addirittura che Cristo abbia conferito a Pietro una reale preminenza sugli altri apostoli, con le famose parole: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo domum meam»; e con l'altro passaggio: «Pasce oves meas».

Monsignor Geremia Bonomelli, nel suo Viaggio in Oriente, traeva conclusioni piuttosto pessimistiche sulla possibilità di un accordo prossimo con l'elemento greco-orientale-scismatico. Probabilmente, se una probabilità, sia pure lontanissima, di unione, dovrà mai affacciarsi, sarà in Russia e nei paesi slavi che il Papa cercherà di far breccia.

La sostanza della crisi10

La caduta di Bonomi, si dice, è stata provocata da una manovra di corridoio non troppo chiara, o nella quale di ben chiaro non v'è che l'ambizione di un gruppo di politicanti. E sta bene. Tutto il Parlamento è, di fronte al paese, un corridoio oscuro e senza via di uscita, nel quale anche i fatti e i contrasti piú profondi sono costretti ad assumere quella forma, poiché la gente che vi abita non ne concepisce un'altra. Ma non sempre sotto a questa forma manca una sostanza degna di piú seria considerazione. Esiste essa nel caso attuale?

Che attraverso gli avvenimenti politici degli ultimi mesi stesse compiendosi in Italia una serie di trasformazioni di carattere sostanziale, è cosa sulla quale abbiamo piú volte avuto occasione di insistere. Base di questa trasformazione, il tentativo di far aderire allo Stato italiano strati profondi delle masse lavoratrici delle città e delle campagne e liberare in questo modo lo Stato dalla crisi che lo travaglia; strumenti di questa azione, i due partiti «socialdemocratici» tipici: quello popolare e quello socialista. Tra il Partito popolare e quello socialista si è perciò attuata una curiosa divisione del lavoro. In alcuni luoghi e sopra alcuni terreni combattendosi, in altri collaborando, in altri ancora dividendosi opportunamente le parti e le zone di influenza, popolari e socialisti hanno compiuto e stanno compiendo un'opera comune: quella di preparare le basi del futuro Stato socialdemocratico italiano. La demagogia e l'opportunismo menzognero e ipocrita sono i mezzi con i quali si cerca tanto dagli uni che dagli altri di raggiungere lo scopo. La cosa è tanto vera che in alcune zone, specialmente agricole e di piccole regioni, vi sono strati inferiori di popolazione lavoratrice che non fanno piú distinzione tra i due partiti. La collaborazione è già in atto; e il fatto che essa si realizza prima dal basso che negli organi direttivi superiori, è indice della corrispondenza di essa con una situazione nuova che si viene creando e di cui bisogna tener conto.

Ma se questa è una realtà, l'altra realtà con cui si devono fare i conti è la formazione tradizionale dello Stato italiano, risultante dalla prevalenza di una classe dirigente che ha interessi opposti a quelli delle masse e vuole esercitare su di esse un dominio con la violenza e con l'inganno. I popolari si sono posti da un pezzo il problema di accordarsi con questa classe dirigente e lo hanno anche risolto, senza tuttavia perdere il loro carattere di partito aderente e rappresentante di vaste masse organizzate. Con l'azione che hanno compiuta, sia in Parlamento che nel paese, essi hanno quindi già dato l'esempio di ciò che sarà la socialdemocrazia italiana, del modo cioè come il nuovo regime riassumerà in sé i piú loschi lineamenti delle tradizionali camorre nostrane coi tratti nuovi dello Stato socialdemocratico, spregiudicato, demagogo, ipocrita, corruttore e corrotto. Bonomi, da questo punto di vista, è stato un precursore vero.

Per raggiungere completamente lo scopo, è però necessario attraversare dei periodi di assestamento. Uno di essi è stato rappresentato dalla crisi di violenza del fascismo. Oggi, anche nel Partito fascista, vi sono i sintomi evidenti della tabe socialdemocratica. L'atteggiamento tenuto di fronte agli affari bancari, valga per tutti. La violenza organizzata al di fuori dei quadri legali dello Stato è del resto caratteristica di tutti i regimi in apparenza «democratici» formatisi nel dopoguerra.

Un'altra fase del periodo di assestamento è rappresentata dalle crisi parlamentari. In Parlamento si deve compiere la saldatura tra gli elementi direttivi delle vecchie e quelli delle nuove camorre. Si richiede perciò che alcuni uomini siano eliminati, altri portati avanti, che si riconoscano certi diritti acquisiti e che si freni l'ardore prematuro dei nuovi venuti. È tutto un lavoro dal quale deve uscire la nuova casta dei dirigenti.

S'intende che questo modo di considerare la questione conduce a negare ogni valore alle distinzioni parlamentari ufficiali, per cui vi potrà essere un governo di destra o un governo di sinistra, o un governo intermedio di «transizione». E se tutto questo è terminologia vuota, ancora meno valgono i programmi e non troppo neanche gli uomini. Le basi sulle quali tutti, su per giú, erano d'accordo, non sono difficili da trovare. Quello che piú importa però non sono tanto esse, quanto il processo generale attraverso il quale lo Stato italiano, senza mutare la sua natura fondamentale, tende a spostare le proprie basi nella speranza di rafforzarsi e di poter godere di un nuovo periodo di vita tranquilla.

Un elemento nuovo sarebbe dato, si dice, dall'atteggiamento dei socialisti. Ma non è vero. Essi rientrano nella linea di questo processo generale, e quanto abbiamo detto sopra sulla analogia tra l'azione dei popolari e quella dei socialisti ci esime dal dare ora maggiori spiegazioni. L'unica differenza sta nella mancanza di partecipazione al governo che costringe i socialisti ad essere anche piú ipocriti e menzogneri degli altri, ad avere non due sole, ma tre o quattro maschere con le quali celare il loro volto vero. I socialisti non chiedono ormai altro che di portare il loro contributo all'opera comune di ricostruzione e di rafforzamento dello Stato. In qualunque modo essi parlino, sia che usino la sfacciataggine dello Stenterello, sia che rifriggano le scemenze di Turati, sia che inalberino il gagliardetto dell'intransigenza o squittiscano come il pappagallo dell'Avanti!, ognuna delle loro parole e ognuno dei loro atteggiamenti è a vantaggio della borghesia e dello Stato, perché serve ad impedire che le masse vedano chiaro nel corso dei fatti che si stanno svolgendo, che le masse si accorgano delle catene che si accingono a ribadire intorno ai loro polsi i nuovi predicatori di libertà, di riforme e di conquiste positive.

Questo è dunque per noi il punto centrale della situazione attuale. Bisogna rendere chiaro alle masse di operai e contadini d'Italia che ogni appoggio da essi dato ai demagoghi dei partiti socialdemocratici — socialista e popolare — è un contributo alla ricostruzione dell'organismo che da decenni li priva della libertà, del benessere, e li costringe alla schiavitú, alle sofferenze e alla morte. La lotta contro la socialdemocrazia, la lotta contro il Partito socialista traditore, si identifica con la lotta per la liberazione del proletariato d'Italia da ogni schiavitú.

Giolitti e i popolari11

La politica tradizionale dell'on. Giolitti, che è stata la politica dello Stato italiano in questo primo ventennio del secolo ventesimo, è consistita, oltre che nel tentativo, non realizzatosi mai nel terreno parlamentare, di incorporare il movimento operaio nel meccanismo governativo, nel tentativo di accaparrare i voti dei contadini cattolici per la fortuna politica del cosiddetto Partito liberale democratico, cioè per il partito degli industriali e dei commercianti. La gerarchia ecclesiastica era stata, fino all'avvento del giolittismo, lo strumento di cui si servivano gli agrari per dominare politicamente, oltre che economicamente, la classe dei contadini: per i buoni uffici della gerarchia ecclesiastica, gli agrari riuscivano ad avere in Parlamento un partito, il liberale conservatore, guidato dal Sonnino e difeso dal Giornale d'Italia, che poteva permettersi il lusso, di tanto in tanto, di costituire un governo e di mantenerlo per cento giorni. L'on. Giolitti, per imporre definitivamente il monopolio governativo dei maggiori interessi industriali e bancari, coltivò amorosamente nel campo cattolico la nascita e lo sviluppo della stessa rete di cooperative e di piccole banche di risparmio che aveva amorosamente coltivato nel campo socialista: ottenne i risultati che aveva sperato. Il patto Gentiloni segnò il passaggio della gerarchia ecclesiastica dai servizi del Partito conservatore, cioè di Sonnino e degli agrari, al servizio del Partito democratico, cioè dei banchieri e degli industriali e di Giolitti.

La formazione del Partito popolare, cioè l'organizzazione della classe dei contadini in classe indipendente, e il suo sviluppo, avvenuto nel senso che il Partito popolare si è liberato quasi completamente dell'ala destra, costituita di latifondisti e di vecchi aristocratici, ha mutato il terreno di manovra politica del «grande» statista di Dronero. Nel Parlamento tanto gli agrari che gli industriali e i banchieri sono ridotti ad avere partiti numericamente ristrettissimi: essi si sono coalizzati e hanno trovato il loro leader proprio nell'onorevole Giolitti. L'on. Giolitti, tradizionalmente uomo di sinistra, oggi è diventato l'uomo dell'estrema destra; il Giornale d'Italia, l'organo tradizionale degli agrari, il sostenitore dei fasci toscani ed emiliani, è diventato oggi il fautore piú accanito dell'on. Giolitti, dell'uomo che per vent'anni aveva piú aspramente combattuto, dell'uomo di cui nel 1917 domandava esplicitamente la traduzione dinanzi ai tribunali militari. Con la gagliofferia brutale che li distingue, gli agrari, imbaldanziti dall'esistenza dell'organizzazione militare fascista, riacquistata nell'economia nazionale la supremazia per il tracollo dell'industria e della banca, apertamente dichiarano di voler ritornare alla situazione politica esistente nel nostro paese prima del patto Gentiloni. Durante il conclave il Giornale d'Italia minacciò apertamente lo scatenamento di una bufera anticlericale se al governo della Chiesa non veniva eletto un «intransigente», cioè se il Vaticano non ritornava alla politica di Pio X, contraria alla formazione in Italia dei partiti parlamentari cattolici e favorevole alla politica degli aristocratici e dei conservatori. Il conclave elesse invece un pontefice ancora piú conciliatorista e popolareggiante di Benedetto XV e il Partito popolare si vendicò delle minacce gaglioffe del Giornale d'Italia ponendo il suo veto a un governo di Giolitti. Se al di sotto della coreografia parlamentare si ricercano le forze politiche realmente agenti nel paese, la disfatta dell'on. Giolitti è indubbiamente la manifestazione di una crisi di regime in Italia. La classe dei contadini è l'unica classe piccolo-borghese che abbia conservato una funzione produttiva nella società moderna: perciò essa può unificarsi politicamente e introdurre un elemento nuovo nel Parlamento, mutando radicalmente i termini tradizionali dell'equilibrio democratico, cioè provocando una crisi di regime che potrebbe anche approfondirsi. Non esiste, invero, nessuna contraddizione essenziale tra cattolicesimo e repubblica: in Croazia, Radich, capo del Partito dei contadini, è repubblicano e circonda la sua predicazione di tutto un alone di coreografia religiosa che profondamente colpisce la fantasia degli strati campagnoli...

Insegnamenti12

Le conclusioni che si possono trarre dall'andamento di questa manifestazione di Primo Maggio sono confortanti.

La manifestazione è riescita come intervento di masse, come estensione di solidarietà operaia. Ha dimostrato come il proletariato italiano malgrado la reazione è sempre rosso. Ed è anche riescita come prova di spirito di combattività che si risveglia nelle file dei lavoratori.

I fascisti si sono preoccupati di dimostrare col loro contegno e colle loro stesse dichiarazioni che si trattava di una manifestazione antifascista. E tale è stato il significato della astensione dal lavoro e dell'intervento alle dimostrazioni di grandissime masse, da un capo all'altro d'Italia, e senza escludere le zone piú percosse dal fascismo. Se i cortei non si sono fatti si deve alla imposizione del governo: se si fossero potuti tenere, oggi conteremmo un maggior numero di morti operai, ma anche un maggior numero di morti fascisti.

Tuttavia, accanto alla confortante constatazione della vastità ed imponenza della manifestazione, e dell'elevato morale della massa, dobbiamo porre quella che l'organizzazione ha lasciato in generale a desiderare.

La cosa non è senza ragioni: la tattica della unità di fronte adottata in questo Primo Maggio da tutti gli organismi proletari, esperimento della Alleanza del lavoro italiana, ha recato insieme questo benefizio e questo svantaggio, che vanno dai comunisti attentamente considerati. Ci limitiamo qui ad accennare brevemente alla cosa, in presenza del comunicato diramato dal Comitato dell'Alleanza del lavoro dopo il Primo Maggio.

Con la tattica della unità di fronte si sono potute radunare ai comizi di Primo Maggio grandi moltitudini operaie anche dove era ben chiaro nella coscienza fin dell'ultimo intervenuto che non si trattava della solita e tradizionale coreografia, ma di una giornata di lotta. Ma questa dimostrazione della avversione del proletariato alla reazione e al fascismo, dello spirito di classe che tuttora anima le grandi moltitudini di lavoratori, non è abbastanza per poter aver ragione del fascismo e della reazione. Il fascismo non sarà soffocato da unanimità platoniche: le rivoltelle e i pugni non saranno resi impotenti col gettarvi sopra una materassa. Il fascismo non ha il numero, ma ha la organizzazione, unitaria e centralizzata, ed è in ciò la sua forza, integrata nella centralizzazione del potere ufficiale borghese.

L'Alleanza del lavoro che oggi ha permesso di raggruppare masse imponenti deve divenire capace di inquadrarle con disciplina unitaria. Qui è il compito dei comunisti, nel conseguire questo risultato, verso il quale non si è fatto che il primo passo. Quando sarà possibile che le grandi adunate possano contare sul concorso proletario, e nello stesso tempo su una razionale preparazione delle nostre forze, allora il proletariato potrà dominare il suo nemico. In questo Primo Maggio si è potuto notare che i comizi e i movimenti concordati dalle organizzazioni alleate mancavano un po' di preparazione organizzativa anche al modesto effetto della loro protezione dagli attacchi avversari, e questo dipendeva dal fatto che non era ben chiaro chi avesse organizzato i comizi e disposto il piano del loro svolgimento sotto tutti gli aspetti. I comitati locali dell'Alleanza non sono che di recente formazione, e non hanno chiara consistenza organizzativa, e sufficienti poteri.

Tuttavia è già un gran vantaggio quello di aver potuto avere radunate comuni delle masse, perché ciò eleva il morale proletario e consente ai comunisti di portare a tutto il proletariato la loro franca parola. Tutto un ulteriore sviluppo dell'interessante esperimento italiano della tattica del fronte unico condurrà ad integrare con questo vantaggio innegabile l'altro della effettiva ed intima unità di organizzazione.

L'argomento si presta ad importantissime considerazioni: vogliamo ora solo notare che il terreno sindacale su cui l'Alleanza è costituita, permette ai comunisti di premere perché essa divenga sempre piú stretta organizzativamente, giungendosi cosí alla unità sindacale proletaria che sempre noi abbiamo auspicata, e che il programma del Partito comunista solo può e dovrà riempire di contenuto rivoluzionario.

Per ora vi è da reagire contro il carattere pigro ed incerto che ha fino ad oggi la dirigenza della Alleanza del lavoro. I comunisti hanno già formulate in modo preciso e concreto le loro proposte per lo sviluppo, per il ravvivamento, per il potenziamento dell'Alleanza, che potrebbe, se la campagna non venisse spinta energicamente innanzi, parallelamente alle eloquenti esperienze della azione proletaria, degenerare in una burocratica ed ingombrante diplomazia di capi esitanti ed opportunisti. Quanto le proposte comuniste siano urgenti lo dimostra il contegno passivo della Alleanza dinanzi alle gravissime provocazioni che hanno subíto il Primo Maggio le folle operaie e, nonostante gli inviti all'azione giunti da tante parti, lo dimostra la sua insensibilità alla pressione che viene oggi dal proletariato italiano disposto a procedere rapidamente sulla via della controffensiva. E lo dimostra, eloquentissimo documento, il comunicato diramato dal Comitato nazionale, che con le sue frasi piatte e banali declina la suggestione sorgente dalle masse anelanti alla lotta: comunicato al quale non vogliamo scrivere altro commento, sicuri che, come la quistione è ormai irrevocabilmente posta innanzi alle masse, cosí queste non mancheranno di commentare e giudicare esse, per trarre da quest'altra delusione nuovo motivo a proseguire sulla aspra ma sicura via della loro riscossa.

Una lettera a Trotskij sul futurismo13

Ecco le risposte alle domande sul movimento futurista italiano che lei mi ha rivolto.

Dopo la guerra, il movimento futurista in Italia ha perduto interamente i suoi tratti caratteristici. Marinetti si dedica molto poco al movimento. Si è sposato e preferisce dedicare le sue energie alla moglie. Al movimento futurista partecipano attualmente monarchici, comunisti, repubblicani e fascisti. A Milano poco tempo fa è stato fondato un settimanale politico, Il principe, che rappresenta o cerca di rappresentare le stesse teorie che Machiavelli predicava per l'Italia del Cinquecento, cioè la lotta tra i partiti locali che conducano la nazione verso il caos, dovrebbe essere accantonata per opera di un monarca assoluto, un nuovo Cesare Borgia, che si ponga alla testa di tutti i partiti che si combattono. Il foglio è diretto da due futuristi: Bruno Corra ed Enrico Settimelli. Benché Marinetti, nel 1920, durante una manifestazione patriottica a Roma sia stato arrestato per un energico discorso contro il re, ora collabora a questo settimanale.

I piú importanti esponenti del futurismo d'anteguerra sono diventati fascisti, a eccezione di Giovanni Papini, che è divenuto cattolico e ha scritto una Storia di Cristo. Durante la guerra i futuristi sono stati i piú tenaci fautori della «guerra sino in fondo» e dell'imperialismo. Solo un futurista: Aldo Palazzeschi, era contro la guerra. Egli ha rotto con il movimento e, benché fosse uno degli scrittori piú interessanti, finí col tacere come letterato. Marinetti, che sempre aveva elogiato in lungo e in largo la guerra, ha pubblicato un manifesto in cui dimostrava che la guerra era il solo mezzo igienico per il mondo. Ha preso parte alla guerra come capitano di un battaglione di carri armati e il suo ultimo libro, L'alcova di acciaio, costituisce un inno entusiasta ai carri armati in guerra. Marinetti ha composto un opuscolo In disparte dal comunismo, in cui sviluppa le sue dottrine politiche, se si possono in genere definire come dottrine le fantasie di quest'uomo, che a volte è spiritoso e sempre è notevole. Prima della mia partenza dall'Italia la sezione di Torino del Proletkult aveva chiesto a Marinetti, in occasione dell'apertura di una mostra di quadri di lavoratori membri dell'organizzazione, di illustrarne il significato. Marinetti ha accettato volentieri l'invito, ha visitato la mostra insieme con i lavoratori e ha espresso quindi la sua soddisfazione per essersi convinto che i lavoratori avevano per le questioni del futurismo molta piú sensibilità che non i borghesi. Prima della guerra i futuristi erano molto popolari tra i lavoratori. La rivista Lacerba, che aveva una tiratura di ventimila esemplari, era diffusa per i quattro quinti tra i lavoratori. Durante le molte manifestazioni dell'arte futurista nei teatri delle grandi città italiane capitò che i lavoratori difendessero i futuristi contro i giovani semi-aristocratici o borghesi, che si picchiavano con i futuristi.

Il gruppo futurista di Marinetti non esiste piú. La vecchia rivista di Marinetti Poesia è ora diretta da un certo Mario Dessi, un uomo senza la minima capacità intellettuale e organizzativa. Nel Sud, specie in Sicilia, compaiono molti fogli futuristi, in cui Marinetti scrive degli articoli: ma questi foglietti vengono pubblicati da studenti che scambiano per futurismo l'ignoranza della grammatica italiana. Il gruppo piú forte tra i futuristi sono i pittori. A Roma c'è una mostra stabile di pittura futurista, che è stata organizzata da un fotografo fallito, un certo Anton Giulio Bragaglia, un agente per il cinema e per gli artisti. Dei pittori futuristi, il piú noto è Giacomo Balla. D'Annunzio non ha mai preso ufficialmente posizione sul futurismo. Bisogna accennare che al suo sorgere il futurismo assunse un espresso carattere antidannunziano. Uno dei primi libri di Marinetti si intitola Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste. Benché durante la guerra i programmi politici di Marinetti e di D'Annunzio concordassero su molti punti, i futuristi restano antidannunziani. Non si sono quasi interessati al movimento fiumano, benché piú tardi abbiano preso parte alle dimostrazioni.

Si può dire che dopo la conclusione della pace il movimento futurista ha perduto interamente il suo carattere e si è dissolto in correnti diverse, che si sono formate in conseguenza della guerra. I giovani intellettuali erano in genere assai reazionari. I lavoratori, che vedevano nel futurismo gli elementi di una lotta contro la vecchia cultura accademica italiana, ossificata, estranea al popolo, devono oggi lottare le armi alla mano per la loro libertà e hanno scarso interesse per le vecchie dispute. Nelle grandi città industriali il programma del Proletkult, che tende al risveglio dello spirito creativo dei lavoratori nella letteratura e nell'arte, assorbe l'energia di coloro che hanno ancora tempo e voglia di occuparsi di simili questioni.

Il nostro indirizzo sindacale14

Nel Sindacato Rosso del 15 settembre il compagno Nicola Vecchi ripropone una sua vecchia tesi: — Bisogna costituire un organismo nazionale sindacale di classe, autonomo e indipendente da tutti i partiti e transitoriamente indipendente da tutte le Internazionali.

Quale deve essere il nostro atteggiamento verso una tale proposta? Quale deve essere la direttiva di propaganda dei comunisti per arginare in mezzo alla massa possibili correnti di opinione in accordo con la tesi del compagno Vecchi? Quale è, concretamente, nell'attuale situazione, il nostro indirizzo sindacale: in quale modo, cioè, intendiamo noi mantenerci a contatto con le grandi masse proletarie, per interpretarne i bisogni, per raccoglierne e concretarne la volontà, per aiutare il processo di sviluppo del proletariato verso la sua emancipazione, che continua nonostante tutte le repressioni e tutta la violenza dell'obbrobriosa tirannia fascista?

Noi siamo, in linea di principio, contro la creazione di nuovi sindacati. In tutti i paesi capitalistici il movimento sindacale si è sviluppato in un senso determinato, dando luogo alla nascita e al progressivo sviluppo di una determinata grande organizzazione, che si è incarnata con la storia, con la tradizione, con le abitudini, coi modi di pensare della grande maggioranza delle masse proletarie. Ogni tentativo fatto per organizzare a parte gli elementi sindacali rivoluzionari è fallito in sé ed ha servito solo a rafforzare le posizioni egemoniche dei riformisti nella grande organizzazione. Che costrutto han ricavato in Italia i sindacalisti dalla creazione dell'Unione sindacale? Essi non sono riusciti ad influenzare che parzialmente e solo episodicamente la massa degli operai industriali, cioè della classe piú rivoluzionaria della popolazione lavoratrice. Hanno, durante il periodo dall'uccisione di Umberto I alla guerra libica, conquistato la direzione di grandi masse agrarie della pianura padana e delle Puglie, ottenendo questo solo risultato: — queste masse, appena allora entrate nel campo della lotta di classe (in quel periodo si verificò appunto una trasformazione della cultura agraria che aumentò di circa il 50 per cento la massa dei braccianti), si allontanarono ideologicamente dal proletariato d'officina e, sindacaliste anarchiche fino alla guerra libica, cioè nel periodo in cui il proletariato si radicalizzava, divennero riformiste successivamente, costituendo dopo l'armistizio e fino all'occupazione delle fabbriche, la passiva massa di manovra che i dirigenti riformisti gettavano, in ogni occasione decisiva, fra i piedi dell'avanguardia rivoluzionaria.

L'esempio americano è ancora piú caratteristico e significativo dell'esempio italiano. Nessuna organizzazione è giunta al livello di abbiezione e di servilismo controrivoluzionario dell'organizzazione di Gompers. Ma voleva dire questo che gli operai americani fossero abbietti e servi della borghesia? No, certamente! eppure essi rimanevano attaccati all'organizzazione tradizionale. Gli IWW (sindacalisti rivoluzionari) fallirono nel loro tentativo di conquistare dall'esterno le masse controllate da Gompers, si staccarono da esse, si fecero massacrare dalle guardie bianche. Invece il movimento guidata dal compagno Forster, nell'interno della Federazione americana del lavoro, con parole d'ordine che interpretavano la situazione reale del movimento e i sentimenti piú profondi degli operai americani, conquista un sindacato dopo l'altro e mostra chiaramente quanto debole e incerto sia il potere della burocrazia gompersiana.

Noi siamo dunque in linea di principio contro la creazione di nuovi sindacati. Gli elementi rivoluzionari rappresentano la classe nel suo complesso, sono il momento piú altamente sviluppato della sua coscienza a patto che rimangano con la massa, che ne dividano gli errori, le illusioni, i disinganni. Se un provvedimento dei dittatori riformisti costringesse i rivoluzionari ad uscire dalla Confederazione generale del lavoro e ad organizzarsi a parte (ciò che naturalmente non può escludersi), la nuova organizzazione dovrebbe presentarsi ed essere veramente diretta all'unico scopo di ottenere la reintegrazione, di ottenere nuovamente l'unità tra la classe e la sua avanguardia piú cosciente.

La Confederazione generale del lavoro nel suo complesso rappresenta ancora la classe operaia italiana. Ma qual è l'attuale sistema di rapporti tra la classe operaia e la Confederazione? Rispondere esattamente a questa domanda vuol dire, secondo me, trovare la base concreta del nostro lavoro sindacale, e quindi stabilire la nostra funzione e i nostri rapporti con le grandi masse.

La Confederazione generale del lavoro è ridotta, come organizzazione sindacale, ai suoi minimi termini, a un decimo, forse della sua potenzialità numerica del 1920. Ma la frazione riformista che dirige la Confederazione ha mantenuto quasi intatti i suoi quadri organizzativi, ha mantenuto sul posto di lavoro i suoi militanti piú attivi, piú intelligenti, piú capaci e che, diciamo francamente la verità, sanno lavorare meglio, con maggior tenacia e perseveranza dei nostri compagni.

Una gran parte, la quasi totalità degli elementi rivoluzionari che nei passati anni avevano acquistato capacità organizzative e direttive e abitudini al lavoro sistematico sono invece stati massacrati o sono emigrati o si sono dispersi.

La classe operaia è come un grande esercito che sia stato privato di colpo di tutti i suoi ufficiali subalterni; in un tale esercito sarebbe impossibile mantenere la disciplina, la compagine, la spirito di lotta, l'unicità di indirizzo colla sola esistenza di uno stato maggiore. Ogni organizzazione è un complesso articolato che funziona solo se esiste un congruo rapporto numerico tra la massa e i dirigenti. Noi non abbiamo quadri, non abbiamo collegamenti, non abbiamo servizi per abbracciare con la nostra influenza la grande massa, per potenziarla, per farla ridiventare uno strumento efficace di lotta rivoluzionaria. I riformisti sono enormemente in migliori condizioni di noi su questo punto e sfruttano abilmente la loro situazione.

La fabbrica continua a sussistere ed essa organizza naturalmente gli operai, li raggruppa, li mette a contatto tra loro. Il processo di produzione ha mantenuto il suo livello degli anni 1919-1920, caratterizzato da una funzione sempre piú ingombrante del capitalismo e quindi da una sempre piú decisiva importanza dell'operaio. L'aumento dei prezzi di costo determinato dalla necessità di mantenere mobilizzati in permanenza 500.000 aguzzini fascisti non è certo una prova brillante che il capitalismo abbia riacquistato la sua giovinezza industriale. L'operaio è dunque naturalmente forte nella fabbrica, è concentrato, è organizzato nella fabbrica. Esso è invece isolato, disperso, debole fuori della fabbrica.

Nel periodo prima della guerra imperialistica era il rapporto inverso che si verificava. L'operaio era isolato nella fabbrica ed era coalizzato fuori: dall'esterno premeva per ottenere una migliore legislazione d'officina, per diminuire l'orario di lavoro, per conquistare la libertà industriale.

La fabbrica operaia è oggi rappresentata dalla Commissione interna. Viene subito spontaneamente la domanda: — Perché i capitalisti e i fascisti, che hanno voluto la distruzione dei sindacati, non distruggono anche le Commissioni interne? Perché, mentre il sindacato ha perduto organizzativamente terreno sotto l'incalzare della reazione, la Commissione interna ha invece allargato la sua sfera organizzativa? È un fatto che in quasi tutte le fabbriche italiane si è ottenuto ciò: — che ci sia una sola CI, — che tutti gli operai, e non solo gli organizzati, votino nelle elezioni della CI. Tutta la classe operaia è dunque oggi organizzata nelle CI che hanno cosí definitivamente perduto il loro carattere strettamente corporativo.

È questa, obiettivamente, una grande conquista di amplissima significazione: — essa serve ad indicare che nonostante tutto, nel dolore e sotto l'oppressione del tallone ferrato dei mercenari fascisti, la classe operaia, sia pure molecolarmente, si sviluppa verso l'unità, verso una maggiore omogeneità organizzativa.

Perché i capitalisti e i fascisti hanno permesso e continuano a permettere che una tale situazione si sia formata e permanga?

Per il capitalismo e per il fascismo è necessario che la classe operaia sia privata della sua funzione storica di guida delle altre classi oppresse della popolazione (contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle isole — piccoli borghesi urbani e rurali), è necessario cioè che sia distrutta l'organizzazione esterna alla fabbrica e concentrata territorialmente (sindacati e partiti) che esercita un influsso rivoluzionario su tutti gli oppressi e toglie al governo la base democratica del potere. Ma i capitalisti, per ragioni industriali, non possono volere che ogni forma di organizzazione sia distrutta: nella fabbrica è possibile la disciplina e il buon andamento della produzione solo se esiste almeno un minimo di costituzionalità, un minimo di consenso da parte dei lavoratori.

I fascisti piú intelligenti, come Mussolini, sono persuasi, essi per i primi, della non espansività della loro ideologia «superiore alle classi» oltre la stessa cerchia di quello strato piccolo-borghese che, non avendo nessuna funzione nella produzione, non ha coscienza degli antagonismi sociali. Mussolini è persuaso che la classe operaia non perderà mai la sua coscienza rivoluzionaria e ritiene necessario permettere un minimo di organizzazione. Tenere, col terrore, le organizzazioni sindacali entro limiti ristrettissimi, significa dare il potere della Confederazione in mano ai riformisti: conviene che la Confederazione esista come embrione e che si innesti in un sistema sparpagliato di CI, in modo che i riformisti controllino tutta la classe operaia, siano i rappresentanti di tutta la classe operaia.

È questa la situazione italiana, è questo il sistema di rapporti che oggi esiste da noi tra la classe proletaria e le organizzazioni. Le indicazioni sono chiare per la nostra tattica:

1) Lavorare nella fabbrica per costruire gruppi rivoluzionari che controllino le CI e le spingano ad allargare sempre piú la loro sfera d'azione;

2) lavorare per creare collegamenti tra le fabbriche, per imprimere alla attuale situazione un movimento che segua la direzione naturale di sviluppo delle organizzazioni di fabbrica: — dalla CI al Consiglio di fabbrica.

Solo cosí noi ci terremo nel terreno della realtà, a stretto contatto con le grandi masse. Solo cosí, nel lavoro operoso, nel crogiolo piú ardente della vita operaia, riusciremo a ricreare i nostri quadri organizzativi, a far scaturire dalla grande massa gli elementi capaci, coscienti, pieni di ardore rivoluzionario perché consapevoli del proprio valore e della insopprimibile loro importanza nel mondo della produzione.

Il problema di Milano15

Bisogna porre con grande precisione e con grande franchezza agli operai di Milano il problema... di Milano. Perché a Milano, grande città industriale, con un proletariato che è il piú numeroso tra i centri industriali, che da solo rappresenta piú di un decimo degli operai di fabbrica di tutta Italia, perché a Milano non è sorta una grande organizzazione rivoluzionaria, mentre il movimento è sempre stato rivoluzionario? Perché a Milano non ci sono stati mai piú di tremila organizzati nel Partito socialista? Perché a Milano, anche quando il movimento era al suo massimo di altezza, comandavano effettivamente i riformisti? Perché a Milano tutte le associazioni operaie, sindacali, cooperative, mutue, sono sempre state nelle mani dei riformisti o semiriformisti, anche quando le masse erano spinte nelle strade dal piú entusiastico slancio rivoluzionario?

Bisogna porre nettamente e francamente il problema alle masse, e chiamarle a risolverlo coi loro propri mezzi, con la loro volontà, con i loro sacrifici. Il problema è vitale, è il piú importante problema della rivoluzione italiana. È possibile pensare a una rivoluzione italiana se la schiacciante maggioranza del proletariato milanese non è prima stata nettamente conquistata a una concezione precisa e tagliente di ciò che sarà la dittatura proletaria, dei sacrifici e degli sforzi inauditi che essa domanderà alle masse lavoratrici? A Milano sono i maggiori centri vitali del capitalismo italiano: il capitalismo italiano può essere solo decapitato a Milano.

Per la rivoluzione italiana esiste già un problema pieno di incognite, quello di Roma, della capitale politica e amministrativa, dove non esiste un proletariato industriale numeroso che possa avere il sopravvento sulla numerosa borghesia: i fascisti hanno mostrato una delle soluzioni che il problema di Roma può avere. Ma essa sarebbe utopistica per la rivoluzione proletaria senza una netta vittoria a Milano, se a Milano non si crea una situazione tale per cui decine e decine di migliaia di operai devoti, entusiasti e che abbiano delle idee molto chiare e dei fini molto precisi possano essere armati e solidamente inquadrati. Il problema di Milano non è quindi una questione locale: esso è un problema nazionale e in un certo senso anche internazionale. Gli operai di Milano devono persuadersi di ciò e dalla comprensione dei doveri formidabili che incombono su di loro devono trarre tutta l'energia e tutto l'entusiasmo che sono necessari per condurre a termine il compito necessario.

Non sarebbe difficile rintracciare le cause remote e vicine per cui a Milano si è creata l'attuale situazione, nella quale, è inutile nasconderlo, sono i riformisti ad avere l'effettivo controllo delle masse. Poche grandi fabbriche, numero infinito di piccolissime officine, grande quantità di piccoli borghesi addetti al commercio, grande numero di impiegati, tradizione democratica fortissima nei vecchi operai ecc. ecc. Ma a noi basta ricordare lo slancio rivoluzionario dimostrato sempre dalle masse operaie milanesi per giungere a queste conclusioni:

1) La situazione attuale si è creata per gli errori del Partito socialista negli anni dopo la guerra.

2) È possibile, con un lavoro assiduo, paziente, di ogni giorno, di ogni ora con la piú devota abnegazione dei migliori operai, mutare la situazione.

Il Partito socialista non si è preoccupato dell'importanza enorme che Milano avrebbe avuto nella rivoluzione e non ha mai cercato di creare una grande organizzazione politica. Negli anni 1919-1920 per essere all'altezza dei suoi compiti di centro organizzativo dell'economia nazionale, Milano avrebbe dovuto avere una sezione socialista di almeno 30-40.000 soci: cosa possibilissima in una città che conta circa 300.000 lavoratori quando la grande maggioranza segue il Partito che dice di volere la rivoluzione. Invece a Milano sembrava che gli operai venissero appositamente tenuti lontani dall'organizzazione di Partito. I circoli rionali non avevano che una molto scarsa importanza e d'altronde accoglievano solo gli iscritti al Partito. Nella sezione gli elementi operai non avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La tribuna era sempre occupata dai grandi assi della demagogia riformista e massimalista, che parlavano ore e ore sui grandi problemi della politica internazionale o... comunale, non una discussione seria sui problemi piú intimamente operai, come i Consigli di fabbrica, le cellule d'officina, il controllo operaio, nella trattazione dei quali anche il piú semplice operaio avrebbe avuto una competenza e dei punti di vista da prospettare. Chi lavorava erano i riformisti: lo scheletro intiero dell'organizzazione operaia milanese era costituito dai riformisti. Sapientemente scaglionati in tutti i punti strategici piú importanti, sapendo lavorare silenziosamente e metodicamente, sapendo piegarsi e scomparire quando il turbine rivoluzionario diventava piú violento, i riformisti saldarono fortissime catene entro le quali oggi la classe operaia milanese circola senza neppure accorgersene. Era tipico di Milano e estremamente significativo dell'assenza di una organizzazione rivoluzionaria, il fatto che quando il movimento di piazza raggiungeva il suo massimo, quando da tutti gli angoli della città brulicava la massa fin nei suoi elementi piú miseri e piú apolitici, gli anarchici prendevano il sopravvento nella direzione; quando il movimento era medio e le grosse parole bastavano, allora i massimalisti erano i leoni; quando invece c'era stagnazione e solo le forze piú attive organizzate erano viventi, allora la direzione era dei riformisti. Il regime fascista ha ridotto ai minimi termini il movimento di classe e i riformisti trionfano su tutta la linea.

Cosa significa tutto ciò? Che noi, che gli operai rivoluzionari, lavoriamo molto male. Solo per la nostra incapacità, solo per il nostro torpore, i riformisti sono forti e pare rappresentino le masse. Bisogna quindi imparare a lavorare, bisogna prospettarsi il problema in ogni fabbrica, in ogni casa, in ogni rione, del come lavorare per conquistarsi la simpatia delle grandi masse, della parte piú povera della classe operaia che è anche la piú numerosa e che darà le piú folti e fedeli schiere di soldati alla rivoluzione.

E bisogna discutere e far discutere. Le nostre colonne hanno anche e specialmente questo scopo.

«Capo»16

Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo». Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivoluzionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi; che si dica, cioè, di volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta una preparazione teorica «rivoluzionaria».

Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col Partito della classe operaia, dei rapporti che esistono tra questo Partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il Partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni piú profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo Partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il Partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso? Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria, subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità.

Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione piú sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso alla intuizione geniale dell'uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli.

Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha piú, malauguratamente, l'esempio vivente piú caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin.

Il compagno Lenin è stato l'iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l'esponente e l'ultimo piú individualizzato momento, di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intiero. Era egli divenuto per caso il capo del Partito bolscevico? Per caso il Partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trent'anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente piú strane e piú assurde. Essa è avvenuta nel campo internazionale, al contatto delle piú avanzate civiltà capitalistiche dell'Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la II Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale, rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l'orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a disposizione dei milioni d'oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul treno degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa. Il Partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, della intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l'uno senza l'altro, il proletariato classe dominante senza che il Partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato centrale del Partito sia l'ispiratore della politica del governo; senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: — una repubblica con a capo Lenin senza il Partito comunista sarebbe anche il nostro ideale — aveva un grande significato storico. Era la prova che il proletariato esercitava non solo piú un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto diventare e non avrebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il Partito comunista fosse il partito del governo: la sua coscienza di classe gli impediva ancora di riconoscere oltre alla sua sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase.

Un'altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano? Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampate nei giornali, ogni giorno, diecine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribú locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera piú indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventú delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino, e fa stupire. Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Piú di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all'appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall'eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del Partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del Partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanof.

Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia.

La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè, al governo e alla storia.

Benito Mussolini ha conquistato il governo, e lo mantiene con la repressione piú violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com'era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica; nel roteare degli occhi entro l'orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...

Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo.

Contro il pessimismo17

Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario della Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, piú che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell'immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo cosí a chiarire la nostra situazione, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti piú qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il piú grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l'avvenire.

Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del Partito socialista, se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera? Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi, partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista, avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e canali da noi predisposto, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso? È questo il nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare ci sia una linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a scavare meritoriamente.

L'Internazionale comunista è stata fondata il 5 marzo 1919, ma la sua formazione ideologica e organica si è verificata solo al secondo Congresso, nel luglio-agosto 1920, con l'approvazione dello Statuto e delle 21 condizioni. Dal secondo Congresso comincia in Italia la campagna per il risanamento del Partito socialista, comincia su scala nazionale, perché essa era stata già iniziata nel marzo precedente dalla sezione di Torino con la mozione da presentare all'imminente Conferenza nazionale del Partito che appunto a Torino doveva tenersi, ma non aveva trovato ripercussioni notevoli (alla Conferenza di Firenze della frazione astensionista, tenuta nel luglio 1920, prima del secondo Congresso, fu respinta la proposta fatta da un rappresentante dell'Ordine Nuovo di allargare la base della frazione, facendola diventare comunista, senza la pregiudiziale astensionista che praticamente aveva perduto gran parte della sua ragione di essere). Il Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno furono riallacciati al secondo Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni «formali» del secondo Congresso. Fu questo un errore e oggi possiamo valutarne tutta la estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del secondo Congresso erano l'interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al secondo Congresso, che erano una parte e delle piú importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal secondo Congresso: noi, però, ci limitammo a battere sulle quistioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione, non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare nella nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato. Fummo — bisogna dirlo — travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella piú beata e idiota delle illusioni.

Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità, che si poneva crudamente, nella forma piú esasperata, nel dilemma di vita o morte. Dovemmo organizzarci in partito nel fuoco della guerra civile, cementando le nostre sezioni col sangue dei piú devoti militanti; dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della piú atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscí tuttavia: il Partito fu costituito e fortemente costituito: esso è una falange di acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le forze avversarie, ma sufficiente per diventare l'armatura di una piú vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto.

Ecco il problema attuale che si pone, inesorabilmente: costituire un grande esercito per le prossime battaglie, costituirlo inquadrandolo nelle forze che da Livorno a oggi hanno dimostrato di saper resistere senza esitazioni e senza indietreggiamenti, all'attacco violentemente sferrato dal fascismo. Lo sviluppo dell'Internazionale comunista dopo il secondo Congresso ci offre il terreno adatto a ciò, interpreta, ancora una volta, — con le deliberazioni del terzo e del quarto Congresso, deliberazioni integrate da quelle degli Esecutivi allargati del febbraio e giugno 1922 e del giugno 1923, — la situazione, e i bisogni della situazione italiana. La verità è che noi, come Partito, abbiamo già fatto alcuni passi in avanti in questa direzione: non ci rimane che prendere atto di essi e arditamente continuare. Che significato hanno infatti gli avvenimenti svoltisi in seno al Partito socialista, con la scissione dai riformisti in un primo tempo, con l'esclusione del gruppo di redattori di Pagine Rosse in un secondo tempo e col tentativo di escludere tutta la frazione terzinternazionalista in un terzo e ultimo tempo? Hanno questo preciso significato: — che mentre il nostro Partito era costretto, come sezione italiana, a limitare la sua attività alla lotta fisica di difesa contro il fascismo e alla conservazione della sua struttura primordiale, esso, come partito internazionale, operava, continuava ad operare per aprire nuove vie verso il futuro, per allargare la sua cerchia di influenza politica, per far uscire dalla neutralità una parte della massa che prima stava a guardare indifferente o titubante. L'azione dell'Internazionale fu, per qualche tempo, la sola che abbia permesso al nostro Partito di avere un contatto efficace con le larghe masse, che abbia conservato un fermento di discussione e un principio di movimento in strati cospicui della classe operaia che a noi era impossibile, nella situazione data, altrimenti raggiungere. È stato indubbiamente un grande successo l'aver strappato dalla ganga del Partito socialista dei blocchi, aver ottenuto, quando la situazione pareva peggiore, che dall'amorfa gelatina socialista si costituissero nuclei i quali affermavano di aver fede nonostante tutto nella rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti se non con le parole che pare brucino piú dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22. È stata questa una sconfitta del fascismo e della reazione: è stata, se vogliamo esser sinceri, l'unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana.

Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro Partito, anche dei piú responsabili e qualificati. Esso rappresenta, in questo momento, il piú grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista. Si approssimano grandi lotte, forse piú sanguinose e pesanti di quelle degli anni scorsi: è necessaria perciò la massima energia nei nostri dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione della massa del Partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza nella decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: — Ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo definitivo. Bisogna dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione. Certo bisognerà ancora lottare fortemente: certo il compito del nucleo fondamentale del nostro Partito costituitosi a Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa). Ma non ci troveremo piú in una situazione pre-Livorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo piú quelli del 1920 e non lo vorremmo mai piú ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata e non sarà piú la cosa piú semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi di stufa, dopo averle intronato le orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere massimaliste. Perché esiste il nostro Partito, che è pur qualcosa, che ha dimostrato di essere qualcosa, e nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte migliore, piú sana, piú onesta del proletariato italiano.

Il Mezzogiorno e il fascismo18

Fatto saliente della lotta politica attuale italiana è il tentativo di soluzione che il Partito nazional fascista ha voluto dare dei rapporti tra Stato-governo e il Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno è diventato la riserva dell'opposizione costituzionale. Il Mezzogiorno ha manifestato ancora una volta la sua distinzione «territoriale» dal resto dello Stato, la sua volontà di non lasciarsi assorbire impunemente in un sistema unitario esasperato — che significherebbe solo accrescimento delle antiche oppressioni e dei vecchi sfruttamenti — trincerandosi dietro una serie di posizioni costituzionali parlamentaristiche, di democrazia formale, che hanno pur il loro valore e il loro significato se il Partito nazional fascista ha ritenuto opportuno, solo per decapitare il movimento dei suoi santoni Orlando, De Nicola, di dover fare le concessioni che ha fatto. Mussolini, insomma, non ha fatto altro che applicare la tattica giolittiana, in una situazione nuova, estremamente piú difficile e complicata di tutte le situazioni passate, con una popolazione che almeno parzialmente si è svegliata e ha cominciato a partecipare alla vita pubblica, in un periodo nel quale la diminuita emigrazione pone con maggiore violenza i problemi di classe che tendono a diventare problemi «territoriali» perché il capitalismo si presenta come straniero alla regione e come straniero si presenta il governo che del capitalismo amministra gli interessi.

Molti compagni si domandano spesso con meraviglia il perché dell'atteggiamento di opposizione al fascismo dei due grandi giornali dell'Italia settentrionale, il Corriere della Sera e La Stampa. Non ha forse creato il fascismo la situazione che questi giornali volevano? Non hanno questi due giornali contribuito potentemente alla fortuna del fascismo negli anni 1920-21? Perché oggi lavorano in senso inverso, lavorano a togliere al fascismo la sua base popolare, a minargli il terreno sotto i piedi, mettendo lo scompiglio e orientando le masse piccolo-borghesi verso gli «ideali di libertà»?

Evidentemente il Corriere della Sera e La Stampa, non sono due «puri» giornali, che tendono solo a mantenere ed allargare la cerchia dei loro abbonati e lettori insistendo su motivi cari alla mentalità della massa: se cosí fosse, a quest'ora i due giornali conoscerebbero già il ferro e la benzina delle squadre fasciste e l'«occupazione» da parte di redattori ligi ai nuovi padroni. Il Corriere e La Stampa non sono stati occupati, non si sono lasciati occupare perché non sono stati occupati e non si sono lasciati occupare questi tre ordini di «istituzioni» nazionali: — lo stato maggiore, le banche (ossia La Banca, la Banca commerciale, che esercita un incontrastato monopolio), la Confederazione generale dell'industria.

La Stampa e il Corriere sono tradizionalmente i due rappresentanti di queste «istituzioni», i due partiti di queste istituzioni nazionali. La Stampa, piú «sinistra», pone oggi apertamente la quistione di un governo radicale-socialista come possibile successore del fascismo, non sarebbe neppure aliena da un esperimento «MacDonald» in Italia — la Stampa vede il pericolo meridionale e cerca di risolverlo determinando l'entrata dell'aristocrazia operaia nel sistema di egemonia governativa settentrionale-piemontese, cerca cioè di ottenere che le forze rivoluzionarie del Mezzogiorno siano decapitate nazionalmente, che diventi impossibile un'alleanza tra le masse contadine del Sud che non potranno da sole rovesciare mai il capitalismo e la classe operaia del Nord, compromessa e disonorata in una alleanza con gli sfruttatori. Il Corriere ha una concezione piú «unitaria», piú «italiana» per cosí dire — piú commerciale e meno industriale — della situazione. IlCorriere ha appoggiato Salandra e Nitti, i due primi presidenti meridionali (i presidenti siciliani rappresentavano la Sicilia e non il Mezzogiorno perché la quistione siciliana è notoriamente distinta dalla quistione del Mezzogiorno) — era favorevole all'Intesa e non alla Germania come la Stampa, è libero scambista permanentemente e non solo nei periodi elettorali-giolittiani come la Stampa, non si spaventava come la Stampa durante la guerra, che l'apparecchio statale passasse dalle mani della burocrazia massonica giolittiana nelle mani dei «pugliesi» di Salandra: — il Corriere è piú attaccato al conservatorismo, farebbe anche alleanza coi riformisti, ma solo dopo il passaggio di costoro sotto molte forche caudine; ilCorriere vuole un governo «Amendola», cioè che la piccola borghesia meridionale e non l'aristocrazia operaia del Nord entri ufficialmente a far parte del sistema di forze realmente dominanti: vuole in Italia una democrazia rurale, che abbia in Cadorna il suo capo militare e non in Badoglio come vorrebbe la Stampa, che abbia a capo politico un Poincaré italiano, non un Briand italiano. Il Corriere non si spaventa come la Stampa, che si abbia nuovamente un periodo come il decennio '90-900, un periodo in cui le insurrezioni dei contadini meridionali si saldino automaticamente alle insurrezioni operaie delle città industriali, in cui ai «fasci siciliani» corrisponda un «'98 milanese»: il Corriere ha fiducia nelle «forze naturali» e nei cannoni di Bava-Beccaris. La Stampa crede che Turati-D'Aragona-Modigliani siano armi assai piú sicure dei cannoni per domare le rivolte dei contadini e per fare occupare le fabbriche occupate.

Alle concezioni precise e organiche del Corriere e della Stampa, il fascismo contrappone discorsi e misure puramente meccaniche e ridicolmente coreografiche.

Il fascismo è responsabile della distruzione del sistema di protezionismo operaio conosciuto col nome di «corporativismo reggiano», di «evangelismo prampoliniano», ecc. ecc. Il fascismo ha tolto ai «democratici» l'arma piú forte per far deviare sugli operai l'odio delle masse contadine che deve riversarsi sui capitalisti. Il «succhionismo rosso» non esiste piú: ma le condizioni del Mezzogiorno non sono migliorate per ciò. Al «succhionismo rosso» è successo il «succhionismo tricolore»: come evitare che il contadino meridionale veda nel fascismo la sintesi concentrata di tutti i suoi oppressori e i suoi sfruttatori? Rovesciato il castello di carta del riformismo emiliano-romagnolo, bisognò sciogliere la guardia regia, cui non si potevano piú dare a bere gli alcoolici antioperai. Gli industriali qualcosa fecero per aiutare Mussolini: la Confederazione generale dell'industria, nella sua conferenza del giugno 1923, cosí parlò per bocca del presidente on. Benni: «Cosí pure certamente andrà presto a termine un'altra azione lunga e complessa che noi abbiamo iniziato per il Mezzogiorno d'Italia. Vogliamo portare il nostro contributo, con un'azione pratica, al risorgere dell'Italia meridionale ed insulare, dove già si manifestano promettenti i primi indizi di un salutare risveglio economico. È un'opera non semplice: ma è necessario che la classe industriale ci si dedichi, perché è interesse di tutti che la compagine della nazione si amalgami ancor piú sulla base degli interessi economici». Gli industriali aiutano Mussolini con le belle parole; ma alle belle parole seguirono poco dopo dei fatti piú espressivi delle parole: — la conquista delle società cotoniere del Salernitano e il trasferimento delle macchine, camuffate da ferro vecchio, nella zona tessile lombarda.

La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che transitoriamente, episodicamente, con la corruzione o col ferro e col fuoco. Il fascismo ha esasperato la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi posto con chiarezza il problema, in tutta la sua estensione e con tutte le sue possibili conseguenze politiche, ha intralciato l'azione della classe operaia e ha contribuito, in larga parte, al fallimento della rivoluzione degli anni 1919-20.

Oggi il problema è ancor piú complicato e difficile che non fosse in quegli anni, ma esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni rivoluzione che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e decisamente. Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che esiste, le masse contadine meridionali hanno assunto una importanza enorme nel campo rivoluzionario. O il proletariato, attraverso il suo Partito politico, riesce in questo periodo a crearsi un sistema di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola borghesia amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente industriale del Nord. La parola d'ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridionali con la quistione in generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico organicamente sottomesso al regime capitalistico: la quistione meridionale è anche quistione territoriale ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un programma di governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle masse.

Il programma de «L'Ordine Nuovo»19

Incominciamo con una constatazione materiale: — i primi due numeri già usciti dell'Ordine Nuovo hanno avuto un diffusione (una diffusione effettiva) che è stata superiore alla piú alta diffusione raggiunta negli anni 1919-1920. Parecchie conseguenze potrebbero tirarsi da questa constatazione. Ne accenniamo due sole: 1) che una rassegna del tipo dell'Ordine Nuovo rappresenta una necessità fortemente sentita dalla massa rivoluzionaria italiana nella situazione attuale; 2) che è possibile assicurare all'Ordine Nuovo le condizioni di una vita finanziariamente autonoma dal bilancio generale del nostro Partito; occorre solo perciò organizzare il consenso che si è verificato spontaneamente, organizzarlo perché esso abbia il modo di continuare a manifestarsi anche se la reazione, come è probabile, voglia intervenire per soffocarlo, per impedire ogni collegamento tra l'Ordine Nuovo e i suoi lettori o addirittura per non permettere che la rassegna a un certo punto sia piú stampata in Italia.

La diffusione raggiunta dai primi due numeri non può che dipendere dalla posizione che l'Ordine Nuovo aveva assunto nei primi anni della sua pubblicazione e che consisteva essenzialmente in ciò: 1) nell'aver saputo tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell'Internazionale comunista. Negli anni 1919-20 ciò ha voluto dire la parola d'ordine dei Consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione, cioè l'organizzazione di massa di tutti i produttori per l'espropriazione degli espropriatori, per la sostituzione del proletariato alla borghesia nel governo dell'industria e quindi, necessariamente, dello Stato. 2) Nell'aver sostenuto in seno al Partito socialista, che allora voleva dire la maggioranza del proletariato, il programma integrale dell'Internazionale comunista e non solo una qualche sua parte. Perciò, al secondo Congresso mondiale, il compagno Lenin disse che il gruppo dell'Ordine Nuovo era la sola tendenza del Partito socialista che rappresentasse fedelmente l'Internazionale in Italia; perciò anche le tesi compilate dalla redazione dell'Ordine Nuovo e presentate al Consiglio nazionale di Milano dell'aprile 1920 dalla sezione di Torino, furono dal secondo Congresso indicate esplicitamente come base della riorganizzazione rivoluzionaria in Italia.

Il nostro programma attuale deve riprodurre nella situazione oggi esistente in Italia, la posizione assunta negli anni 1919-20. Esso deve rispecchiare la situazione obbiettiva odierna, con le possibilità che si offrono al proletariato per una azione autonoma, di classe indipendente; deve continuare, nei termini politici attuali, la tradizione di interprete fedele e integrale del programma dell'Internazionale comunista. Il problema urgente, la parola d'ordine necessaria oggi è quella del governo operaio e contadino: si tratta di popolarizzarla, di adeguarla alle condizioni concrete italiane, di dimostrare come essa scaturisca da ogni episodio della nostra vita nazionale, come essa riassuma e contenga in sé tutte le rivendicazioni della molteplicità di partiti e di tendenze in cui il fascismo ha disgregato la volontà politica della classe operaia ma specialmente delle masse contadine. Ciò naturalmente non significa che noi si debba trascurare le quistioni piú propriamente operaie e industriali, tutt'altro. L'esperienza, anche in Italia, ha dimostrato quale importanza; nel periodo attuale, abbiano assunto le organizzazioni di fabbrica; dalla cellula di Partito fino alla Commissione interna, alla rappresentanza di tutta la massa. Crediamo, per esempio, che oggi non esista neppure un riformista che voglia sostenere che nelle elezioni di fabbrica hanno diritto al voto solo gli organizzati; chiunque ricordi le lotte che fu necessario condurre intorno a questo punto, ha un elemento per misurare il progresso che l'esperienza ha costretto anche i riformisti a fare. Tutti i problemi dell'organizzazione di fabbrica saranno dunque da noi rimessi in discussione, perché solo attraverso una potente organizzazione del proletariato, raggiunta con tutti i sistemi possibili in regime di reazione, la campagna per il governo operaio e contadino può non trasformarsi in una ripetizione dell'...occupazione delle fabbriche.

Nell'articolo Contro il pessimismo pubblicato nel numero scorso abbiamo accennato alla linea che il nostro Partito deve tenere nei suoi rapporti coll'Internazionale comunista. Quell'articolo, non fu l'espressione di un solo individuo, ma il risultato di tutto un lavoro di affiatamento e di scambio di opinioni tra i vecchi redattori e amici dell'Ordine Nuovo; prima di essere un inizio fu dunque la risultante del pensiero di un gruppo di compagni, ai quali non si può negare certamente di conoscere per esperienza diretta e per lunga consuetudine di lavoro attivo i bisogni del nostro movimento. L'articolo ha suscitato qualche reazione che non ci ha meravigliato, perché è ineluttabile che tre anni di terrorismo e quindi di assenza di grandi discussioni abbiano creato, anche fra ottimi compagni, un certo spirito settario di frazione. Questa constatazione potrebbe dar luogo a tutta una serie di conseguenze: la piú importante ci pare quella della necessità di tutto un lavoro per far raggiungere alle masse del nostro Partito un livello politico uguale a quello raggiunto dai piú grandi partiti dell'Internazionale. Noi siamo oggi, relativamente, per le condizioni create dal terrore bianco, un piccolo partito, ma dobbiamo considerare la nostra attuale organizzazione, date le condizioni in cui vive e si sviluppa, come l'elemento destinato a inquadrare un grande partito di massa. Da questo punto di vista dobbiamo vedere tutti i nostri problemi e giudicare anche i singoli compagni. Si paragona spesso il periodo fascista al periodo della guerra. Ebbene: una delle debolezze del Partito socialista fu quella di non aver curato durante la guerra il nucleo di 20-25.000 socialisti rimasti fedeli, di non averlo considerato come l'elemento organizzatore della grande massa che sarebbe affluita dopo l'armistizio. Cosí avvenne che nel 1919-20 questo nucleo fu sommerso dal fiotto dei nuovi elementi e fu sommersa insieme la pratica organizzativa, l'esperienza acquistata dalla classe operaia negli anni piú neri e duri. Noi saremmo dei criminali se cadessimo nello stesso errore. Ognuno dei membri attuali del Partito, per la selezione che è avvenuta, per la forza di sacrifizio che è stata dimostrata, ci deve essere personalmente caro, deve essere dal Centro responsabile aiutato a migliorarsi, a trarre dalle esperienze attraversate tutti gli insegnamenti e tutte le indicazioni che comportano. In questo senso l'Ordine Nuovo si propone di compiere una speciale funzione nel quadro generale dell'attività di Partito.

Occorre dunque organizzare il consenso che si è già manifestato. È questo il compito specialmente dei vecchi amici e abbonati dell'Ordine Nuovo. Abbiamo detto che occorrerà raccogliere in sei mesi 50.000 lire, somma necessaria per garantire la vita indipendente della rassegna. A questo scopo è necessario si determini un movimento di 500 compagni ognuno dei quali si proponga seriamente di raccogliere 100 lire in sei mesi nella cerchia dei suoi amici e conoscenti. Noi terremo una lista esatta di questi elementi che vogliono collaborare alla nostra attività: essi saranno come i nostri fiduciari. La raccolta delle sottoscrizioni può essere composta cosí: 1) sottoscrizioni spicciole, di pochi soldi o di molte lire; 2) abbonamenti sostenitori; 3) quote per sostenere le spese iniziali di un corso per corrispondenza di organizzatori e propagandisti del Partito: queste quote non potranno essere inferiori alle 10 lire e daranno diritto ad avere un numero di lezioni che sarà determinato dalle spese complessive di stampa e di porto.

Crediamo di potere, attraverso questo meccanismo, ricreare un apparecchio che sostituisca quello esistente nel 1919-20 in regime di libertà e attraverso cui l'Ordine Nuovo si manteneva strettamente a contatto con le masse nelle fabbriche e nei circoli operai. Il corso per corrispondenza deve diventare la prima fase di un movimento per la creazione di piccole scuole di Partito, atte a creare degli organizzatori e dei propagandisti bolscevichi, non massimalisti, che abbiano cioè cervello, oltre polmoni e gola. Perciò ci terremo sempre in corrispondenza epistolare coi migliori compagni, per comunicare loro le esperienze che in questo campo sono state fatte in Russia e negli altri paesi, per indirizzarli, per consigliare i libri da leggere e i metodi da applicare. Crediamo che in questo senso molto debbano lavorare specialmente i compagni emigrati: dovunque esiste all'estero un gruppo di 10 compagni deve sorgere una scuola di Partito: gli elementi piú anziani e piú pratici devono essere gli istruttori di queste scuole, far partecipi i piú giovani della loro esperienza, contribuire a elevare il livello politico della massa. Certo non è con questi mezzi pedagogici che può essere risolto il grande problema storico della emancipazione spirituale della classe operaia: ma non è la risoluzione utopistica di questo problema che noi ci proponiamo. Il nostro compito si limita al Partito, costituito di elementi che già, per il solo fatto di aver aderito al Partito, hanno dimostrato di aver raggiunto un notevole grado di emancipazione spirituale: il nostro compito è quello di migliorare i nostri quadri, di renderli idonei ad affrontare le prossime lotte. Praticamente queste si presenteranno anche in questi termini: la classe operaia, resa prudente dalla reazione sanguinosa, per un certo tempo diffiderà nel suo complesso degli elementi rivoluzionari, vorrà vederli al lavoro pratico, vorrà saggiarne la serietà e la competenza. Dobbiamo metterci in grado di battere anche su questo terreno i riformisti, che indubbiamente sono il partito che ha oggi i quadri migliori e piú numerosi. Se non cercheremo di ottenere ciò, non faremo mai molti passi in avanti. I vecchi amici dell'Ordine Nuovo, specialmente quelli che hanno lavorato a Torino negli anni 1919-20, comprendono bene tutta l'importanza di questo problema, perché ricordano come a Torino si sia riusciti a eliminare i riformisti dalle posizioni organizzative solo a mano a mano che dal movimento dei Consigli di fabbrica si formavano dei compagni operai capaci di lavoro pratico e non solamente di gridare: Viva la Rivoluzione! Ricordano anche come nel 1921 non sia stato possibile togliere agli opportunisti alcune posizioni importanti come Alessandria, Biella, Vercelli, perché noi non avevamo elementi organizzativi all'altezza dei compiti; le nostre maggioranze in questi centri si sono disperse per la nostra debolezza organizzativa. Viceversa: in qualche centro, per esempio a Venezia, bastò un solo elemento capace, per farci conquistare la maggioranza dopo un solerte lavoro di propaganda e di organizzazione delle cellule di fabbrica e di sindacato. L'esperienza di tutti i paesi dimostrò questa verità; che le situazioni piú favorevoli possono capovolgersi per la debolezza dei quadri del partito rivoluzionario: le parole d'ordine servono solo per far entrare in movimento e dare l'indirizzo generale alle grandi masse; guai però se il partito responsabile non ha pensato alla organizzazione pratica di esse, a creare una struttura che le disciplini e le renda permanentemente potenti: l'occupazione delle fabbriche ci ha insegnato molte cose in questo senso.

Per aiutare le scuole di Partito nel loro lavoro ci proponiamo di pubblicare tutta una serie di opuscoli e qualche libro. Tra gli opuscoli indichiamo: 1° delle trattazioni elementari del marxismo; 2° una esposizione della parola d'ordine del governo operaio e contadino applicata all'Italia; 3° un manualetto del propagandista, che contenga i dati piú essenziali sulla vita economica e politica italiana, sui partiti politici italiani, ecc., i materiali indispensabili cioè per la propaganda spicciola fatta alla lettura in comune dei giornali borghesi. Vorremmo fare una edizione italiana del Manifesto dei Comunisti con le note del compagno D. Riasanof: nel loro complesso queste note sono una trattazione completa in forma popolare delle nostre dottrine. Vorremmo anche stampare una antologia del materialismo storico, cioè una raccolta dei brani piú significativi di Marx ed Engels che diano un quadro d'insieme delle opere di questi due nostri grandi maestri.

I risultati finora ottenuti autorizzano a sperare che si potrà continuare con sicurezza e con successo. Al lavoro dunque: i nostri migliori compagni devono persuadersi che si tratta anche di una affermazione politica, di una manifestazione della vitalità e della capacità di sviluppo del nostro movimento, di una dimostrazione, quindi, antifascista e rivoluzionaria.

Problemi di oggi e di domani20

Da un vecchio abbonato e amico dell'Ordine Nuovo abbiamo ricevuto questa lettera:

Mi pare che il nostro disaccordo sia specialmente di ordine cronologico: accetto una gran parte di ciò che lei mi scrive, ma come soluzioni di problemi che si presenteranno dopo la caduta del fascismo; è utilissimo studiarli e prepararsi ad affrontarli; ma i problemi di oggi sono assai diversi. Parliamo di questo. Confermo la mia opinione che la classe operaia è completamente assente alla vita politica; e non posso che concludere che il Partito comunista, oggi, non può far niente o quasi niente di positivo. La situazione somiglia, in modo impressionante, — a quella del 1916-17 ed anche il mio stato d'animo, che lei mi dice comune agli altri amici che le scrivono. Le mie opinioni politiche sono immutate, peggio, mi ci sono irrigidito; proprio, come mi ero irrigidito, fino al 1917, nel socialismo pacifista del 1914-15, da cui mi tolse la scoperta, fatta dopo Caporetto e la Rivoluzione russa, di novembre, che i fucili erano precisamente in mano degli operai-soldati. Disgraziatamente l'analogia non arriva fino a questo punto; ma come allora, pur rendendoci conto, ragionando, che la guerra doveva pur finire un giorno, tutti si «sentiva» che non sarebbe mai finita e non si vedeva come avrebbe potuto venire la pace — cosí è oggi per il fascismo. Mi ci vuole poco sforzo per accogliere la sua opinione che questo stato di cose non può durare e che gravi avvenimenti sono imminenti; è perfettamente logico, ma non lo si «sente», né si «vede». Non ci sarà la possibilità di un'azione politica operaia fino a che i problemi concreti che si presentano ad ogni operaio dovranno essere risolti individualmente e privatamente, come è oggi: c'è da salvare il posto, la paga, la casa e la famiglia: il sindacato e il Partito non possono dare alcun aiuto, anzi tutt'altro; si ottiene un po' di pace solo facendosi piú piccoli possibile, polverizzandosi; e aumenta un po' la paga, lavorando molto e cercando dei lavori straordinari, facendo concorrenza agli altri operai, ecc.: la vera negazione del Partito e del sindacato. La crisi economica si è ormai attenuata tanto che se ci fosse un minimo di libertà sindacale e di ordine pubblico, sarebbe possibile la ripresa delle organizzazioni, degli scioperi, ecc. (come per es. in Inghilterra). La questione urgente, pregiudiziale a qualsiasi altra, è quella della «libertà» edell'«ordine»: dopo verranno le altre, ma per ora non possono neppure interessare gli operai. Ora, un alleggerimento della pressione fascista non credo possa essere ottenuto dal Partito comunista: è il momento delle opposizioni democratiche e mi par necessario lasciarle fare e magari aiutarle. È necessario prima di tutto, una «rivoluzione borghese», che permetterà poi lo svolgersi di una politica operaia. In sostanza mi sembra che, come durante la guerra, non ci sia altro da fare se non aspettare che passi. Vorrei sapere la sua opinione a questo proposito. Non mi sembra che la mia sia inconciliabile coll'essere comunista, sia pure indisciplinatamente: la funzione che attribuisco alle «sinistre» si svolgerà, credo, molto rapidamente, e non converrebbe certo al PC di compromettersi con esse, anche perché non porterebbe alcun contributo ad una campagna di tal genere. Ma mi pare che sia anche un errore il mettersi apertamente contro di esse e insistere troppo (come fa per es. l'Unità) nella derisione della «libertà» borghese: bella o brutta, è la cosa di cui piú fortemente sentono oggi il bisogno gli operai ed è il presupposto di ogni conquista ulteriore. Proprio come durante la guerra il neutralismo non era certo una politica socialista: ma è certo stata la migliore politica, fra quelle possibili, per il Partito socialista, perché era la piú sentita dalle masse. Il PC non può, per la contraddizione, far la campagna per la libertà e contro la dittatura in genere: ma commette un grave errore quando dà l'impressione di sabotare un'alleanza delle opposizioni, come ha fatto con la precipitosa dichiarazione di partecipazione alla lotta elettorale, quando gli altri partiti fingevano di minacciare l'astensione. La sua funzione è, per ora, quella della mosca cocchiera, perché, dopo, sarà necessario per un partito di massa essersi distinto nella lotta contro il fascismo: ancora, come durante la guerra. E intanto sarà bene che, approfittando di quella esperienza, si prepari un programma concreto per dopo: allora certo sarà in primo piano la quistione meridionale e quella dell'unità. Ma non oggi: la battaglia dei fascisti per avere nella lista Orlando e C. non credo abbia il significato da lei attribuitole: può essere spiegata piú semplicemente come un ovvio espediente elettorale, necessario per evitar un fiasco: questa spiegazione è anche piú degna del prefetto di Napoli e di Mussolini. Lei dice esattamente che il fascismo sta disgregando l'unità dello Stato e la quistione è attuale e urgente; ma non credo sia del genere che lei dice, mi sembra piú che una questione sociale, un problema di polizia. Il fatto sta che il fascismo paga i suoi aderenti, piú che con denaro, con briciole di autorità dello Stato, col permesso di far prepotenze, per passatempo e per interesse privato: il rimedio si troverà in una polizia efficiente e indipendente dai ras, non importa poi se centralizzata o locale. Insomma si torna alla questione dell'ordine pubblico, non a quella territoriale.

Ho visto con commozione vera il primo numero dell'Ordine Nuovo. Io spero che, come già nel '19, saprà trovare la parola d'ordine che oggi manca e che occorre. Spero anche saprà fare il processo al passato: ma non per determinare le colpe e i meriti degli individui e dei partiti, non per ripetere «io l'avevo detto»; soprattutto non il processo agli avversari, ma a se stessi e ai propri compagni, che è piú utile, ed è il solo che renda utile l'esperienza; ci vuol certo molto coraggio per farsi una auto-autopsia, ma il vecchio Ordine Nuovo forse l'avrà. - S.

Elementi liquidatori

Sono contenuti in questa lettera tutti gli elementi necessari e sufficienti per liquidare una organizzazione rivoluzionaria come è e deve essere il nostro Partito. Eppure tale non è l'intenzione dell'amico S., il quale, quantunque non iscritto, quantunque viva ai margini del nostro movimento e della nostra propaganda, ha fede nel nostro Partito e lo ritiene il solo capace di risolvere permanentemente i problemi posti e la situazione creata dal fascismo. È puramente personale la posizione che nella lettera viene assunta? Non crediamo. Essa non può non essere la posizione di una larga cerchia di intellettuali che negli anni 1919-20 simpatizzavano con la rivoluzione proletaria e che in seguito non hanno voluto prostituirsi al fascismo trionfante, essa è anche, incoscientemente, la posizione di una parte dello stesso proletariato, anche di compagni del Partito, che non hanno saputo resistere allo stillicidio quotidiano degli avvenimenti reazionari, nello stato di isolamento e di dispersione loro creato dal terrore fascista: ciò appare da tutta una serie di fatti ed è confessato apertamente dalla corrispondenza privata. L'amico S. non si pone dal punto di vista di un partito organizzato: gli sfuggono perciò le sue conseguenze e le molte contraddizioni in cui cade e giunge quindi fino all'assurdo, mettendo cosí in chiaro egli stesso la debolezza e la falsità dei suoi ragionamenti.

S. crede che l'avvenire sarà del nostro Partito. Ma come potrebbe continuare ad esistere, come potrebbe svilupparsi il Partito comunista — come cioè potrebbe trovarsi in grado, dopo la caduta del fascismo, di dominare e guidare gli avvenimenti, se oggi si annientasse nell'atteggiamento di assoluta passività prospettato dallo stesso S.? La predestinazione non esiste per gli individui e tanto meno per i partiti: esiste solo l'attività concreta, il lavoro ininterrotto, la continua adesione alla realtà storica in isviluppo, che dànno agli individui e ai partiti una posizione di preminenza, un ufficio di guida e di avanguardia. Il nostro Partito è una frazione organizzata del proletariato e della massa contadina, delle classi che oggi sono oppresse e schiacciate dal fascismo; se il nostro Partito non trovasse anche per oggi soluzioni autonome, proprie, dei problemi generali, italiani, le classi che sono la sua base naturale si sposterebbero nel loro complesso verso le correnti politiche che di tali problemi diano una qualsiasi soluzione che non sia quella fascista. Se ciò avvenisse, il fatto avrebbe un immenso significato storico, vorrebbe dire che l'attuale non è un periodo rivoluzionario socialista, ma che viviamo ancora in un'epoca di sviluppo borghese capitalistico, che non solo mancano le condizioni soggettive, di organizzazione, di preparazione politica, ma anche quelle oggettive, materiali per l'avvento del proletariato al potere. Allora veramente si porrebbe anche a noi il problema di assumere non una posizione autonoma rivoluzionaria, ma di semplice frazione radicale delle opposizioni costituzionali, chiamate dalla storia ad essere le realizzatrici della «rivoluzione borghese», di una tappa cioè, imprescindibile e inevitabile del processo che sboccherà nel socialismo. La situazione italiana autorizza forse a credere ciò? Lo stesso S. non lo crede, perché scrive che il compito delle opposizioni costituzionali sarà cronologicamente brevissimo, senza immediati sviluppi, altro che per una rivoluzione proletaria. S. si riferisce al periodo della guerra, pone come esemplare l'atteggiamento del Partito socialista durante la guerra. Quanto assurdo sia tale riferimento e come esso dia torto al suo autore, appare subito, anche dopo una piccola e affrettata analisi. Il neutralismo socialista fu una tattica essenzialmente opportunista, dettata dal tradizionale bisogno di tenere in equilibrio le tre tendenze di cui il Partito si componeva, che indicheremo coi tre nomi di Turati, Lazzari, Bordiga, niente altro: essa non fu una linea politica stabilita dopo un esame delle circostanze e dei rapporti di forza esistenti in Italia nel 1914-15, essa risultò dalla concezione dell'«unità del Partito sopra tutto, anche sopra la rivoluzione» che è propria ancora del massimalismo. Che l'amico S. abbia, solo dopo la rivoluzione di novembre e la rotta di Caporetto, fatta la scoperta che le armi erano nelle mani degli operai-soldati, dimostra solo come questa tattica opportunistica avesse lasciato all'oscuro le masse socialiste sulle discussioni che erano già avvenute a questo proposito nel campo internazionale. La sinistra di Zimmerwald aveva fin dal 1915 fatta questa «scoperta», che aveva determinato la tattica del Partito bolscevico russo: perciò alla rotta degli eserciti russi, dopo le offensive imposte al governo di Kerensky dall'Intesa, seguí la rivoluzione proletaria, la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile; alla rotta di Caporetto seguí solo una mozione in cui ci si limitava a riaffermare l'opposizione parlamentare al governo e il rigetto dei crediti militari.

L'atteggiamento tenuto durante la guerra dal Partito socialista italiano illumina anche gli avvenimenti posteriori fino al Congresso di Livorno, fino al Congresso socialista di Roma e alla formazione del Partito unitario. È la stessa tattica, in fondo, che si riveste di nuovi aspetti, per la nuova situazione: la stessa tattica di passività, di «neutralismo», dell'unità per l'unità, del partito per il partito, della fede nella predestinazione del Partito socialista a essere il Partito dei lavoratori italiani. Quali risultati questo atteggiamento abbia oggi, quando esistono il Partito unitario a destra e il Partito comunista a sinistra, è chiaro anche per l'amico S.; crisi interne in permanenza, scissioni dopo scissioni, che non risolvono mai la situazione, perché la tendenza comunista rinasce continuamente e la destra, favorevole alla fusione con gli unitari, continuamente si rafforza.

Residui di vecchie ideologie

L'amico S. non è ancora riuscito a distruggere in sé tutti gli avanzi ideologici della sua formazione intellettuale democratico-liberale, cioè normativa e kantiana, non marxista, e dialettica. Che significato hanno le sue affermazioni che la classe operaia è «assente», che la situazione è contraria al sindacato e al Partito, che la violenza fascista è un problema di «ordine», cioè di «polizia» e non un problema «sociale»?

La situazione italiana è certamente complicata e contraddittoria, ma non tanto che non si possano già cogliere in essa delle marcate linee unitarie di sviluppo. Il proletariato, cioè la classe rivoluzionaria per eccellenza, è la minoranza del popolo lavoratore oppresso e sfruttato dal capitalismo ed è accentrato prevalentemente in una sola zona, quella settentrionale. Negli anni 1919-20 la forza politica del proletariato consisteva nel trovarsi automaticamente alla testa di tutto il popolo lavoratore, nel centralizzare obbiettivamente nella sua azione diretta e immediata contro il capitalismo tutte le rivolte degli altri strati popolari, amorfi e senza indirizzo. La sua debolezza si dimostrò nel non aver organizzato questi rapporti rivoluzionari, nel non essersi neppure posto il problema della necessità di organizzare questi rapporti in un sistema politico concreto, in un programma di governo. La repressione fascista seguendo la linea del minimo sforzo, è incominciata da questi altri strati sociali ed è culminata contro il proletariato. Oggi la repressione sistematica e legale si mantiene contro il proletariato, si è invece allentata alla periferia, contro gli strati che nel 1920 gli erano solo oggettivamente alleati, e che si riorganizzano, rientrano parzialmente nella lotta, assumendo il carattere smorzato di opposizione costituzionale, cioè il loro piú spiccato carattere piccolo-borghese. Cosa significa dunque che la classe operaia è «assente»? La «presenza» della classe operaia, cosí come l'amico S. l'intende, significherebbe la rivoluzione, perché significherebbe di nuovo, come nel '19-'20, che a capo del popolo lavoratore stanno non i piccoli borghesi democratici, ma la classe piú rivoluzionaria della nazione. Ma il fascismo è appunto la negazione di tale stato di cose, il fascismo è nato e si è sviluppato appunto per distruggere un tale stato di cose e per impedire che risorga. Come si pone dunque il problema oggi? A noi pare che si ponga in questi termini: — La classe operaia è e rimarrà ancora «assente» nella misura in cui il Partito comunista permetterà alle opposizioni costituzionali di monopolizzare il risveglio alla lotta degli strati sociali che storicamente sono gli alleati del proletariato. Il sorgere e il rafforzarsi delle opposizioni costituzionali infonde nuova forza nel proletariato, che di nuovo affluisce nel Partito e nei sindacati. Se il Partito comunista interviene attivamente nel processo di formazione delle opposizioni, lavora per determinare nella base sociale delle opposizioni una differenziazione di classi, ottenendo che le masse contadine si orientino verso un programma di governo operaio e contadino, ecco che il proletariato non è piú «assente» come prima, ecco una linea di lavoro politico in cui si risolvono i problemi di oggi e quelli di domani, in cui si prepara e si organizza il domani e non solo lo si aspetta dal destino.

Questa linea di lavoro politico è dunque contraria tanto alle opposizioni costituzionali quanto al fascismo, anche se l'opposizione costituzionale sostenga un programma di libertà e di ordine che sarebbe preferibile a quello di violenza e di arbitrio del fascismo. La verità è che l'opposizione costituzionale non attuerà mai il suo programma che è un puro strumento di agitazione contro il fascismo: non lo attuerà perché esso vorrebbe dire a breve scadenza che una tale «catastrofe» si verifichi e non lo attuerà perché tutto lo sviluppo della situazione è controllato in Italia dalla forza armata della Milizia nazionale. Lo sviluppo dell'opposizione e i caratteri che essa assume sono tuttavia fenomeni molto importanti, sono i documenti della impotenza del fascismo a risolvere i problemi vitali della nazione, sono un richiamo quotidiano alla realtà obbiettiva che nessuna raffica di male parole può annientare. Per noi rappresentano l'ambiente in cui dobbiamo muoverci e lavorare, se vogliamo rimanere aderenti alla realtà storica e non diventare una sètta di contemplativi, in cui dobbiamo ricercare la concretezza delle nostre parole d'ordine e dei nostri programmi immediati di azione e di agitazione.

Tre punti riassuntivi

Possiamo riassumere cosí i punti della nostra concezione dei bisogni e dei compiti attuali del movimento proletario in contrapposizione a quella dell'amico S.:

1) Dare al nostro Partito una coscienza piú viva dei problemi concreti che la situazione creata dal fascismo ha posto alla classe operaia, in modo che l'organizzazione non sia fine a se stessa ma diventi uno strumento per l'agitazione delle parole d'ordine rivoluzionarie in mezzo alle piú larghe masse;

2) lavorare per l'unità politica del proletariato sotto la bandiera dell'Internazionale comunista, affrettando il processo di scomposizioni e ricomposizioni iniziate al Congresso di Livorno;

3) stabilire concretamente il significato italiano della parola del governo operaio e contadino, dare a questa parola una sostanza politica nazionale, ciò che non può avvenire se non si esaminano i problemi piú vitali e urgenti delle masse contadine, in prima linea quindi i problemi specifici che si riassumono nell'espressione generale di «quistione meridionale».

Gli intellettuali come l'amico S., che non si sono lasciati travolgere dal fascismo, che in un modo o nell'altro non hanno voluto rinnegare il loro atteggiamento degli anni '19-'20, possono nuovamente trovare nell'Ordine Nuovo un centro di discussione e di raccoglimento.

La crisi della piccola borghesia21

La crisi politica determinata dall'assassinio dell'on. Matteotti è tuttora in pieno sviluppo e non si può ancora dire quali saranno i suoi sbocchi conclusivi.

Essa presenta aspetti diversi e molteplici. Rileviamo innanzi tutto la lotta che si è riaccesa intorno al governo fra forze avverse del mondo plutocratico e finanziario per la conquista da parte degli uni e la conservazione da parte degli altri di un'influenza predominante nel governo dello Stato. Alla oligarchia finanziaria facente capo alla Banca commerciale si contrappongono quelle forze che un tempo si raccoglievano intorno alla fallita Banca di sconto ed oggi tendono a ricostituire un proprio organismo finanziario che dovrebbe scalzare la predominante influenza della prima. La loro parola d'ordine è «costituzione di un governo di ricostruzione nazionale», con la eliminazione della zavorra (si intendono i patrocinatori dell'attuale politica finanziaria). Si tratta in sostanza di un gruppo di pescicani non meno nefasti degli altri, che sotto la maschera dell'indignazione per l'assassinio di Matteotti ed in nome della «giustizia», muovono all'arrembaggio delle casse dello Stato. Il momento è buono e naturalmente cercano di non lasciarlo sfuggire.

Dal punto di vista della classe operaia il fatto piú importante è però un altro, e precisamente la ripercussione fortissima che gli avvenimenti di questi giorni hanno avuto nei ceti medi e piccolo-borghesi: la crisi della piccola borghesia precipita.

Se si tien conto delle origini e della natura sociale del fascismo si comprenderà l'importanza enorme di questo elemento che viene a sgretolare le basi della dominazione fascista. Questo improvviso e radicale spostamento dell'opinione pubblica, polarizzatasi intorno ai partiti della cosiddetta «opposizione costituzionale», pone questi partiti in prima fila nella lotta politica: essi devono rendersi conto, come alcuni strati della stessa classe operaia, delle necessità e delle condizioni che tale lotta impone.

Nel campo operaio non è mancata la immediata ripercussione di questo spostamento di forze: il proletariato ha oggi la sensazione di non essere piú isolato nella lotta contro il fascismo e ciò, oltre all'immutato spirito antifascista che lo anima, determina nell'animo suo la convinzione che la dittatura fascista potrà essere abbattuta, ed entro un periodo di tempo assai piú breve di quanto non si sia pensato per il passato. Il fatto che la rivolta morale della popolazione tutta contro il fascismo nella classe operaia si è manifestata con, sia pure parziali scioperi, come forma energica della lotta; l'aver sentito il bisogno e l'aver ritenuto possibile sotto certe condizioni lo sciopero generale nazionale contro il fascismo, dimostra che la situazione va mutando con una rapidità del tutto imprevista. Chi ha dei dubbi in proposito vada fra gli operai e sentirà come sono accolti i malinconici comunicati della Confederazione generale del lavoro imploranti la calma, nei quali si definiscono «elementi irresponsabili» ed «agenti provocatori» quanti fanno propaganda per l'azione: questo linguaggio eravamo abituati un tempo a leggerlo nei comunicati polizieschi...

Dall'atteggiamento e dalla condotta dei vari partiti schierati oggi sul fronte della lotta antifascista si può subito fare una prima constatazione: l'impotenza dell'opposizione costituzionale.

Questi partiti, nel passato, con l'opposizione al fascismo tendevano evidentemente ad attirare a sé la piccola borghesia ed in parte quegli strati della borghesia che, vivendo ai margini della plutocrazia dominante, risentono in parte le conseguenze del suo predominio assoluto e schiacciante nella vita economica e finanziaria del paese. Essi tendono verso sistemi meno dittatoriali di governo. Questi partiti oggi possono dire di aver raggiunto lo scopo, che costituisce per loro la premessa per condurre a fondo la lotta contro il fascismo. La loro azione, però, che nella situazione attuale dovrebbe avere un valore decisivo, si mostra incerta, equivoca ed insufficiente. Essa riflette in sostanza l'impotenza della piccola borghesia ad affrontare da sola la lotta contro il fascismo, impotenza determinata da un complesso di ragioni, dalle quali deriva altresí l'atteggiamento caratteristico di questi ceti eternamente oscillanti fra il capitalismo ed il proletariato.

Essi coltivano l'illusione di risolvere la lotta contro il fascismo sul terreno parlamentare, dimenticando che la natura fondamentale del governo fascista è quella di una dittatura armata, nonostante tutti i ciondoli costituzionali che cerca di appiccicare alla Milizia nazionale. Questa d'altronde non ha eliminato l'azione dello squadrismo e dell'illegalismo: il fascismo nella sua vera essenza è costituito dalle forze armate operanti direttamente per conto della plutocrazia capitalistica e degli agrari. Abbattere il fascismo significa in definitiva, schiacciare definitivamente queste forze e ciò non si può ottenere che sul terreno dell'azione diretta. Qualsiasi soluzione parlamentare sarà impotente. Qualunque sia il carattere del governo che da tale soluzione potesse derivare, si tratti del rimpasto del governo di Mussolini o dell'avvento di un governo cosiddetto democratico (ciò che d'altronde è assai difficile) nessuna garanzia potrà avere la classe operaia che i suoi interessi ed i suoi diritti piú elementari saranno tutelati, anche nei limiti consentiti da uno Stato borghese e capitalista, fino a quando quelle forze non saranno eliminate.

Per ottenere ciò, occorre lottare contro di esse sul terreno su cui è possibile vincere sul serio e cioè sul terreno dell'azione diretta. Sarebbe un'ingenuità affidare questo compito allo Stato borghese, sia pure liberale e democratico, il quale non esiterebbe a ricorrere al loro aiuto nel caso non si sentisse abbastanza forte per difendere il privilegio della borghesia e mantener soggetto il proletariato.

Da tutto ciò deriva la conclusione che una reale opposizione al fascismo può essere condotta solo dalla classe operaia. I fatti dimostrano quanto fosse rispondente a realtà la posizione da noi assunta in occasione delle elezioni generali, opponendo all'opposizione costituzionale l'«opposizione operaia» come la sola base reale ed efficace per abbattere il fascismo. Il fatto che forze non operaie confluiscano sul fronte della lotta antifascista, non cambia la nostra affermazione secondo la quale la classe operaia è la sola classe che possa e debba essere la guida direttiva in questa lotta.

La classe operaia deve trovare però la sua unità nella quale essa ritroverà tutta la forza necessaria per affrontare la lotta. Da ciò la proposta del Partito comunista a tutti gli organismi proletari per uno sciopero generale, contro il fascismo; da ciò il nostro atteggiamento, di fronte agli impotenti piagnistei socialdemocratici.

Sí, l'ora della coerenza22

Torna di nuovo l'accusa di settarismo nelle gazzette della socialdemocrazia, rivolta all'atteggiamento dei comunisti nei riguardi dell'assassinio di Giacomo Matteotti.

Questa accusa di settarismo non è però nuova ai comunisti. La socialdemocrazia di tutti i paesi, per sottrarsi ai suoi impegni contratti con le masse lavoratrici, non ha trovato mai migliore espediente, nella sua lotta contro il proletariato rivoluzionario, che quello di mostrare come fatui «acchiappa nuvole» i socialisti marxisti rivoluzionari, cioè i comunisti, che credono al Marx della I Internazionale dei lavoratori e non a quello che in nome della socialdemocratica repubblica tedesca tratta gli affari degli eredi di Stinnes. Ma quali acchiappanuvole fossero i comunisti e continuino oggi ad esserlo lo hanno dimostrato e lo dimostrano i comunisti russi, che da sette anni dirigono il primo Stato proletario, il piú vasto del mondo per territorio e popolazione.

Che cosa hanno dimostrato di saper fare invece i «pratici» della socialdemocrazia arrivati al potere? In sette mesi di governo il presidente della II Internazionale, il signor MacDonald, non ha gestito piú o meno bene che gli affari dell'odiatissimo capitalismo borghese. E questo lo dice quel terribile... comunista che è l'ex premier inglese, Lloyd George. In Germania, il socialdemocratico Ebert non ha saputo in diversi anni di potere che gettare la rena su tutti i trattati e i provvedimenti che stabiliscono l'affamamento degli operai tedeschi, condannati oggi a dieci ore di lavoro ed a salari insufficienti rispetto all'alto costo della vita.

È tutto quanto hanno fatto i socialdemocratici su scala internazionale per meritare il titolo di strateghi della lotta operaia contro il capitalismo. E non ricordiamo neppure oggi che ricorre il decimo anniversario della guerra le responsabilità della socialdemocrazia nel prolungamento dell'ultima guerra, nella preparazione dell'altra che si avvicina, ad onta, anzi a motivo dello stesso proclamato socialpacifismo internazionale.

Settari? Acchiappanuvole? L'organo della socialdemocrazia italiana non ci sgomenta per questo. Noi sappiamo quello che vogliamo ed è appunto questa nostra chiarezza che sconcerta e turba le nebulose costruzioni politiche del socialriformismo. Il quale, sapendo però di non essere creduto dagli operai, ricorre alla calunnia e all'insinuazione. Esso ci dice: «Cosa vogliono mai i comunisti dalle opposizioni se ne sono fuori, se tutto attendono dalla classe operaia, dall'assalto finale, eccetera? Perché screditare le opposizioni con proposte e domande, che le opposizioni conoscono, ma che non potranno ricevere una soluzione se non quando le opposizioni avranno vinto?». E da questo si conclude che i comunisti, per coerenza, dovrebbero fare il piacere di non chiedere nulla alle opposizioni. Conosciamo per esperienza il valore di queste argomentazioni.

Anzitutto un chiarimento sul significato della proposizione che i comunisti attendono tutto dalla classe operaia. Certo è cosí. Solo la classe operaia possiede la forza e la capacità di guidare la lotta contro il fascismo. Questo non esclude che la classe operaia debba utilizzare tutte le incrinature che si manifestano nel muro avversario e che nella lotta contro la dittatura armata del capitalismo possa e debba trovare degli alleati. Gli operai russi, nel fare la rivoluzione e nel difenderla dagli assalti capitalistici, si sono alleati ai contadini e di questa alleanza hanno fatto la base del potere soviettista.

La politica estera della classe operaia russa, organizzata in classe dominante, verso gli Stati capitalistici nemici è tutta rivolta a sfruttarne gli antagonismi e le diverse contraddizioni interne a favore della rivoluzione mondiale.

Il nostro «classismo... di marca fascista», come pretende la Giustizia, si basa sull'esperienza di un grande Stato proletario diretto per la prima volta nella storia dalla classe operaia, com'è l'esempio della Russia soviettista, dove tutti sanno gl'immensi privilegi di cui gode il capitalismo. Ammettere dunque che la classe operaia deve utilizzare tutte le incrinature che si appalesano nella muraglia avversaria e non rifiutare alcun alleato per rovesciarla vuol dire anzitutto riconoscere due fatti: che bisogna rovesciare questa muraglia e che per rovesciarla è necessario la direzione della lotta l'abbia la classe operaia.

Ora, cosa fanno i nostri accusatori? Accettano la prima parte, ma ne dimenticano la seconda. Si ammette cioè la necessità del metodo, ma questo è impiegato non a dare alla classe operaia la sua libertà, ma a mettere le forze della classe operaia al servizio del suo stesso avversario. Brevemente: si deve lottare contro il fascismo. L'unità di fronte contro il fascismo deve crearsi nelle classi sfruttate e deve raggiungersi sotto la direzione della classe operaia. Solo le classi sfruttate hanno interesse a lottare realmente contro il fascismo, perché sono quelle che ne sopportano il peso. Si vuol forse discreditare con questo l'opera delle opposizioni? Facciamo opera utile al fascismo discreditando le opposizioni? Neppure di queste accuse, che sono quanto mai insulse noi possiamo gran che preoccuparci. Se qualcuno ha lavorato e lavora per il fascismo non è certo da cercarsi fra i comunisti. Un po' di onestà, ammesso che di onestà si possa parlare con i nostri avversari e con gli avversari della classe operaia, sarebbe bastata a consigliare maggiore prudenza nell'impiego di certe frasi.

Chi ha dato i suoi ministri al governo di Mussolini? I popolari questo lo sanno e lo sanno pure gli amici di Amendola e di Di Cesarò. Chi ha illuso le masse, facendo credere alla possibilità che Mussolini «normalizzasse» il fascismo? Cosí presto si sono dimenticati gli scrittori di Giustizia, che rimproverano ai comunisti di non essere coerenti, i discorsi di D'Aragona alla Camera e le velleità ministeriali dei vari Baldesi, in fregola di feluche nel ministero di Mussolini?

I comunisti sono i soli che possono parlare sulla salma di Matteotti senz'aver bisogno di arrossire. Essi non hanno mai stretto alcun «patto di pacificazione» con i fascisti, come socialriformisti e massimalisti devono ricordare. Diciamo questa giacché si ama farci apparire dagli scrittori di Giustizia ancora una volta come coloro che si possono confondere con i colleghi di Dumini e compagni. Noi non abbiamo bisogno di rievocare Spartaco Lavagnini, Berruti, Pietro Ferrero e altre diecine di nostri assassinati, non abbiamo bisogno di ricordare gli anni di carcere distribuiti ai comunisti militanti, né di ricordare il regime eccezionale cui tutti i comunisti sono sottoposti dal fascismo per giustificare la nostra indignazione di fronte alla stupida insinuazione avanzata dai cattivi pastori del socialriformismo che noi si favorisca, coscienti o no, il fascismo. La storia di questi anni parla chiaro. Noi non abbiamo bisogno di rettificare nulla per essere coerenti coi bisogni di lotta della classe operaia. Combattiamo le opposizioni?

Non sappiamo se cosí devesi definire il fatto che noi chiediamo da esse che se vogliono lottare veramente contro il fascismo devono mostrare di non avere in diffidenza anzitutto la classe operaia, da cui indirettamente deriva la loro forza e prestigio. Noi chiediamo che la classe operaia abbia nel campo la direzione della lotta, perché essa sola ha la capacità della vittoria. E ciò si può ottenere unicamente mediante la lotta di tutti i giorni. La vittoria finale è il risultato dei nostri sforzi per conseguirla.

Non ha senso dire: «Noi vi daremo questo quando avremo vinto». Bisogna anzitutto lottare per quello che si vuole. La nostra richiesta di libertà ai prigionieri politici, di libertà alle organizzazioni operaie, di aiuto ai contadini poveri non sono che la piattaforma dell'azione che si deve condurre contro il fascismo. Sono semplici obbiettivi per l'azione, per ridare alle classi lavoratrici forza e fiducia nella propria capacità di lotta. Se questo vuol dire discreditare le opposizioni, noi abbiamo ragione di pensare che esse amano il silenzio per non essere obbligate alla lotta contro il fascismo.

Il destino di Matteotti23

Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae la sua origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irriducibili contrasti; esiste una crisi che la guerra ha accelerata, approfondita, resa insuperabile. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno «Stato» nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce piú a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivisti di alcune ristrette categorie privilegiate: — vi sono dall'altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono piú vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi.

Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi.

Ma il modo di uscirne è uno solo. È che le centinaia di migliaia di lavoratori, che la grande maggioranza della popolazione lavoratrice italiana sia guidata a superare il contrasto spezzando i quadri dell'ordine politico ed economico attuale e sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose, nel quale gli interessi e le volontà di chi lavora e produce trovino soddisfazione ed espressione complete. Il risveglio degli operai e dei contadini d'Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine.

Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l'età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana. Ricordare come la guida sia, praticamente, venuta meno, e il movimento si sia esaurito in se stesso, lasciando aperta la via al trionfo sfacciato dei suoi piú fieri nemici, è superfluo, forse, ricordare oggi, se non per mettere in luce la contraddizione interna, insanabile che viziava dalle fondamenta la concezione politica e storica di questi primi capi della riscossa degli operai e dei contadini d'Italia, che condannava l'azione loro a un insuccesso tragico, pauroso. Il risvegliare alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai è cosa vana, se non si conclude con la indicazione dei mezzi e delle vie per cui le forze risvegliate delle masse lavoratrici potranno giungere a una concreta e completa affermazione di sé. A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere. L'azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti. Iniziava una serie di conquiste e non pensava alla difesa di esse. Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini, e non le dava la organizzazione di combattimento senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare. Poneva le premesse di una rivoluzione, di uno Stato nuovo. Scatenava la ribellione e non sapeva guidarla alla vittoria. Partiva da un desiderio generoso di redenzione totale e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria.

Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l'ultima espressione, la piú evidente, la piú tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto. Ma se l'impeto di riscossa e gli sforzi tenaci durati nel passato hanno potuto essere vani, se ha potuto crollare paurosamente, in tre anni, l'edificio pezzo a pezzo cosí faticosamente costruito, non deve, non può rimanere vano questo sacrificio supremo, in cui tutto lo insegnamento di un passato di dolori e di errori si riassume.

Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d'Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano a frotte, per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, — ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d'Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza piú avere una via aperta davanti a sé.

I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti.

Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitú non può rinunciare a combattere per la sua redenzione. La crisi della società italiana che da questo risveglio è stata acuita fino alla esasperazione non si supera col terrore; essa non si concluderà se non con l'avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate, con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato. Ma per questo occorre che una organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria una organizzazione nella quale prenda carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Una organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani. Una organizzazione in cui il proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquista immediata e parziale, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre piú alte e a quella che tutte le deve garantire, la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai.

Queste cose hanno inteso gli operai riformisti che nel ricordare il loro Capo caduto hanno chiesto di entrare nel nostro Partito.

Il sacrificio di Matteotti — essi dicono ai loro compagni — si celebra lavorando alla creazione del solo strumento per cui l'idea da cui Egli era mosso, l'idea della redenzione completa dei lavoratori, possa ricevere attuazione e realtà: il partito di classe degli operai, il partito della rivoluzione proletaria.

Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del Partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaia cesserà di essere «pellegrina del nulla», cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio, per voler risolvere il contraddittorio problema di creare un mondo nuovo senza mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime, solo per essi la classe operaia diventerà libera e padrona dei propri destini.

La crisi italiana24

La crisi radicale del regime capitalistico, iniziatasi in Italia cosí come in tutto il mondo con la guerra, non è stata risanata dal fascismo. Il fascismo, con il suo metodo repressivo di governo, aveva reso molto difficile e, anzi quasi totalmente impedito le manifestazioni politiche della crisi generale capitalistica; non ha però segnato un arresto di questa e tanto meno una ripresa e uno sviluppo dell'economia nazionale. Si dice generalmente e anche noi comunisti siamo soliti affermare che l'attuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell'economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce piú e non potrà piú riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo «fascista». Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l'incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitalistica nei suoi confronti.

Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo-borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e quindi la lotta non solo contro i partiti operai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti politici non fascisti, contro tutte le associazioni non direttamente controllate dal fascismo ufficiale. Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze piú radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo della industria e dato il carattere regionale dell'industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe «territorialmente» nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c'era altra soluzione che quella fascista dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana.

Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenuto proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire. L'applicazione della violenza fascista per costringere i risparmiatori ad investire i loro capitali in una determinata direzione non ha dato molti frutti per i piccoli industriali: quando ha avuto successo, non ha che rimbalzato gli effetti della crisi da un ceto all'altro, allargando il malcontento e la diffidenza già grandi nei risparmiatori per il monopolio esistente nel campo bancario, aggravato dalla tattica dei colpi di mano cui i grandi imprenditori devono ricorrere nell'angustia generale per assicurarsi credito.

Nelle campagne il processo della crisi è piú strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi il bilancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli proprietari è stato gravato di un passivo di circa 7.000 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell'Italia settentrionale e centrale. Nel Mezzogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l'assenza dell'emigrazione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminuzione della superficie coltivata e quindi del raccolto. Il raccolto del grano è stato l'anno scorso di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato su scala nazionale superiore alla media, ma è stato inferiore alla media nel Mezzogiorno. Quest'anno il raccolto è stato inferiore alla media in tutta Italia, è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrate, le quali impediscono alle crisi di rivelarsi subito in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitalismo; tuttavia già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popolare, determinato dal disagio economico.

La crisi generale del sistema capitalistico non è stata dunque arrestata dal regime fascista. In regime fascista le possibilità di esistenza del popolo italiano sono diminuite. Si è verificata una restrizione dell'apparato produttivo proprio nello stesso tempo in cui aumentava la pressione demografica per le difficoltà dell'emigrazione transoceanica. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro, dal carovita: ciò ha determinato una emigrazione di operai qualificati, cioè un impoverimento delle forze produttive umane che erano una delle piú grandi ricchezze nazionali. Le classi medie che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l'espressione della crisi capitalistica in questo periodo.

Questi elementi, rapidamente accennati, servono solo per ricordare tutta la portata della situazione attuale che non ha in se stessa nessuna virtú di risanamento economico. La crisi economica italiana può solo essere risolta dal proletariato. Solo inserendosi in una rivoluzione europea e mondiale il popolo italiano può riacquistare la capacità di far valere le sue forze produttive umane e ridare sviluppo all'apparato nazionale di produzione. Il fascismo ha solo ritardato la rivoluzione proletaria, non l'ha resa impossibile: esso ha contribuito anzi ad allargare ed approfondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l'esperimento fascista sarà veramente popolare.

La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua prima manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale italiana, cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato. Le elezioni del 6 aprile, avendo mostrato quanto fosse solo apparente la stabilità del regime, rincuorarono le masse, determinarono un certo movimento nel loro seno, segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti e che ancora oggi caratterizza la situazione. Le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista operava potentemente a disciogliere tutti gli organismi dello Stato controllati e dominati dal fascismo, si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui la inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario. L'ondata di sdegno suscitata dal delitto sorprese il Partito fascista che rabbrividí di panico e si perdette: i tre documenti scritti in quell'attimo angoscioso dall'on. Finzi, dal Filippelli, da Cesarino Rossi e fatti conoscere alle opposizioni, dimostrano come le stesse cime del Partito avessero perduto ogni sicurezza e accumulassero errori su errori: da quel momento il regime fascista è entrato in agonia; esso è sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici, ma è sorretto cosí come la corda sostiene l'impiccato.

Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane piú che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi.

L'ondata popolare antifascista provocata dal delitto Matteotti trovò una forma politica nella secessione dall'aula parlamentare dei partiti di opposizione. L'assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese: la crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale, acquistò cosí uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato, un governo antifascista contro il governo fascista. Il Partito fascista fu impotente a frenare la situazione: la crisi lo aveva investito in pieno, devastando le fila della sua organizzazione; il primo tentativo di mobilitazione della Milizia nazionale fallí in pieno, solo il 20 per cento avendo risposto all'appello; a Roma solo 800 militi si presentarono alle caserme. La mobilitazione diede risultati rilevanti solo in poche province agrarie, come Grosseto e Perugia, permettendo cosí di far calare a Roma qualche legione decisa ad affrontare una lotta sanguinosa.

Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento popolare antifascista; esse rappresentano politicamente l'ondata di democrazia che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le opposizioni si era orientata all'inizio anche l'opinione della grande maggioranza del proletariato. Era dovere di noi comunisti cercare di impedire che un tale stato di cose si consolidasse permanentemente. Perciò il nostro gruppo parlamentare entrò a far parte del Comitato delle opposizioni accettando e mettendo in rilievo il carattere precipuo che la crisi politica assumeva di esistenza di due poteri, di due Parlamenti. Se avessero voluto compiere il loro dovere, cosí come era indicato dalla masse in movimento, le opposizioni avrebbero dovuto dare una forma politica definita allo stato di cose obbiettivamente esistente, ma esse si rifiutarono. Sarebbe stato necessario lanciare un appello al proletariato, che solo è in grado di sostanziare un regime democratico, sarebbe stato necessario approfondire il movimento spontaneo di scioperi che andava delineandosi. Le opposizioni ebbero paura di essere travolte da una possibile insurrezione operaia: non vollero perciò uscire dal terreno puramente parlamentare nelle questioni politiche e dal terreno del processo per l'assassinio dell'on. Matteotti nella campagna per tenere desta l'agitazione nel paese. I comunisti, che non potevano accettare una diffidenza di principio contro l'azione proletaria, che non potevano accettare la forma di blocco di partiti data al Comitato delle opposizioni, furono messi alla porta.

La nostra partecipazione in un primo tempo al Comitato e la nostra uscita in un secondo tempo hanno avuto come conseguenza:

1) Ci hanno permesso di superare la fase piú acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici; rimanendo isolato il nostro Partito sarebbe stato travolto dall'ondata democratica;

2) abbiamo spezzato il monopolio dell'opinione pubblica che le opposizioni minacciavano di instaurare: una parte sempre maggiore della classe lavoratrice va convincendosi che il blocco delle opposizioni rappresenta un semi-fascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefizi che il terrore e l'illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni, con l'abbassamento del livello di vita del popolo italiano.

La situazione obbiettiva, dopo due mesi, non è mutata. Esistono ancora di fatto due governi nel paese, che lottano l'un contro l'altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese. L'esito della lotta dipenderà dai riflessi che la crisi generale eserciterà nel seno del Partito nazional fascista, dall'atteggiamento definitivo dei partiti che costituiscono il blocco delle opposizioni, dall'azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro Partito.

In che cosa consiste la crisi del fascismo? Per comprenderla si dice che occorra prima definire l'essenza del fascismo, ma la verità è che non esiste una essenza del fascismo nel fascismo stesso. L'essenza del fascismo era data negli anni '22 e '23 da un determinato sistema dei rapporti di forza esistenti nella società italiana: oggi questo sistema è profondamente mutato e l'«essenza» è svaporata alquanto. Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell'essere riuscito a costituire una organizzazione di massa della piccola borghesia. È la prima volta nella storia che ciò si verifica. L'originalità del fascismo consiste nell'aver trovato la forma adeguata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia unitaria: questa forma di organizzazione è l'esercito in campo. La Milizia è quindi tutto il perno del Partito nazional fascista: non si può sciogliere la Milizia senza sciogliere anche tutto il Partito. Non esiste un Partito fascista che faccia diventare qualità la quantità, che sia un apparato di selezione politica d'una classe o di un ceto: esiste solo un aggregato meccanico indifferenziato e indifferenziabile dal punto di vista delle capacità intellettuali e politiche, che vive solo perché ha acquistato nella guerra civile un fortissimo spirito di corpo, rozzamente identificato con l'ideologia nazionale. Fuori del terreno della organizzazione militare, il fascismo non ha dato e non può dare niente, e anche su questo terreno ciò che esso può dare è molto relativo.

Cosí congegnato dalle circostanze, il fascismo non è in grado di conseguire nessuna delle sue premesse ideologiche. Il fascismo dice oggi di voler conquistare lo Stato; nello stesso tempo dice di voler diventare un fenomeno prevalentemente rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme, è difficile comprendere. Per conquistare lo Stato occorre essere in grado di sostituire la classe dominante nelle funzioni che hanno una importanza essenziale per il governo della società. In Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che Parlamento nell'organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nella organizzazione dell'economia nazionale e internazionale.

La formula «conquista dello Stato» è vuota di senso in bocca ai fascisti o ha un solo significato: escogitazione di un meccanismo elettorale che dia la maggioranza parlamentare ai fascisti sempre e ad ogni costo. La verità è che tutta l'ideologia fascista è un trastullo per i Balilla. Essa è una improvvisazione dilettantesca, che nel passato, con la situazione favorevole, poteva illudere i gregari, ma oggi è destinata a cadere nel ridicolo presso i fascisti stessi. Residuo attivo del fascismo è solo lo spirito militare di corpo, cementato dal pericolo di uno scatenamento di vendetta popolare: la crisi politica della piccola borghesia, il passaggio della stragrande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni, il fallimento delle misure generali annunziate dai capi fascisti possono ridurre notevolmente l'efficienza militare del fascismo, non possono annullarla.

Il sistema delle forze democratiche antifasciste trae la sua forza maggiore dall'esistenza del Comitato parlamentare delle opposizioni, che è riuscito a imporre una certa disciplina a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popolare. Che massimalisti e popolari ubbidiscano a una stessa disciplina e lavorino su uno stesso piano programmatico, ecco il tratto piú caratteristico della situazione. Questo fatto rende lento e faticoso il processo di sviluppo degli avvenimenti, e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettativa, di lente manovre avvolgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al Comitato e con l'accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante tra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà possibile se non molto piú tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un'insurrezione delle masse disilluse e del fascismo e dell'antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce da una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell'ottobre 1922, che diventerebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti dal blocco e di una loro alleanza con noi.

Lo sforzo maggiore dei partiti intermedi (riformisti e costituzionali) aiutati dai popolari di sinistra, è stato rivolto finora a questo scopo: mantenere nella stessa compagine i due estremi. Lo spirito servile dei massimalisti si è adattato alla parte dello sciocco nella commedia: i massimalisti hanno accettato di valere nelle opposizioni quanto il Partito dei contadini o i gruppi di Rivoluzione Liberale.

Le forze piú grandi sono portate alle opposizioni dai popolari e dai riformisti che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L'influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l'adesione di larghi strati dell'esercito, del combattentismo, della corte. La divisione del lavoro di agitazione avviene tra i vari partiti a seconda della loro tradizione e del loro compito sociale. I costituzionali, poiché la tattica del blocco tende a isolare il fascismo, hanno la direzione politica del movimento. I popolari conducono la campagna morale sulla base del processo e delle sue concatenazioni col regime fascista, con la corruzione e la criminalità fiorite intorno al regime. I riformisti riassumono questi due atteggiamenti e si fanno piccini piccini per far dimenticare il loro passato demagogico, per far credere di essersi redenti e di essere tutt'una cosa con l'on. Amendola e col senatore Albertini.

L'atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni ha registrato dei successi notevoli: è un successo indubbiamente aver provocato la crisi del «fiancheggiamento», aver cioè obbligato i liberali a differenziarsi attivamente dal fascismo e a porgli delle condizioni. Ciò ha avuto già e piú avrà in seguito ripercussioni nel seno del fascismo stesso, e ha creato un dualismo tra il Partito fascista e l'organizzazione centrale del combattentismo. Ma esso ha spostato ancora a destra il punto di equilibrio del blocco delle opposizioni, cioè ha accentuato il carattere conservatore dell'antifascismo: i massimalisti non se ne sono accorti, i massimalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Albertini, ma anche di Salandra e di Cadorna.

Come si risolverà questo dualismo di poteri? Ci sarà un compromesso tra il fascismo e le opposizioni? E se il compromesso non sarà possibile, avremo una lotta armata?

Il compromesso non è da escludere assolutamente; esso è però molto improbabile. La crisi che attraversa il paese non è un fenomeno superficiale, sanabile con piccole misure e piccoli espedienti: essa è la crisi storica della società capitalista italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della popolazione. Tutti i rapporti sono esasperati: grandissime masse di popolazione attendono ben altro che un piccolo compromesso. Se questo si verificasse, esso significherebbe il suicidio dei maggiori partiti democratici; all'ordine del giorno della vita nazionale si porrebbe immediatamente l'insurrezione armata coi fini piú radicali. Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati. La cronaca quotidiana registra perciò solo un susseguirsi di episodi politici che denotano il disgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma inesorabile dal sistema fascista di tutte le forze periferiche.

Avverrà dunque un urto armato? Una lotta in grande stile sarà evitata sia dalle opposizioni che dal fascismo. Avverrà il fenomeno inverso che nell'ottobre 1922: allora la marcia su Roma fu la parata coreografica d'un processo molecolare per cui le forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali, Vaticano, massoneria, corte, ecc.) erano passate dalla parte del fascismo. Se il fascismo volesse resistere, esso sarebbe distrutto in una lunga guerra civile alla quale non potrebbero non prendere parte il proletariato e i contadini. Opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo s'impegni. Il fascismo tenderà invece a conservare una base di organizzazione armata da far rientrare in campo appena si profili una nuova ondata rivoluzionaria, ciò che è ben lungi dal dispiacere agli Amendola e agli Albertini e anche ai Turati e ai Treves.

Il dramma si svolgerà a data fissa, con ogni probabilità esso è predisposto per il giorno in cui si dovrebbe riaprire la Camera dei deputati. Alla coreografia militaresca dell'ottobre '22, sarà sostituita una piú sonora coreografia democratica. Se le opposizioni non rientrano nel Parlamento e i fascisti, come vanno dicendo, convocano la maggioranza come Costituente fascista, avremo una riunione delle opposizioni e una parvenza di lotta tra le due assemblee.

È possibile però che la soluzione si abbia nella stessa aula parlamentare, dove le opposizioni rientreranno nel caso molto probabile di una scissione della maggioranza, per cui il governo di Mussolini sia messo nettamente in minoranza. Avremo in questo caso la formazione di un governo provvisorio di generali, senatori ed ex presidenti del Consiglio, lo scioglimento della Camera e lo stato d'assedio.

Il terreno su cui la crisi si svolgerà continuerà ad essere il processo per l'assassinio Matteotti. Avremo ancora delle fasi acutamente drammatiche in proposito, quando saranno resi pubblici i tre documenti di Finzi, di Filippelli, di Rossi e le piú alte personalità del regime saranno travolte dalla passione popolare. Tutte le forze reali dello Stato, e specialmente le forze armate, intorno alle quali già si comincia a discutere, dovranno schierarsi definitivamente da una parte o dall'altra, imponendo la soluzione già delineata e concertata.

Quale deve essere l'atteggiamento politico e la tattica del nostro Partito nella situazione attuale? La situazione è «democratica» perché le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto. Qualunque possa essere perciò lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro Partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propaganda, di organizzazione. Ciò naturalmente non esclude che lotte cruente possano verificarsi, e che il nostro Partito non debba subito prepararsi e essere pronto ad affrontarle, tutt'altro: ma anche queste lotte devono essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza. Se esistono nel nostro Partito gruppi e tendenze che vogliano per fanatismo forzare la situazione, occorrerà lottare contro di essi in nome dell'intiero Partito, degli interessi vitali e permanenti della rivoluzione proletaria italiana. La crisi Matteotti ci ha offerto molti insegnamenti a questo proposito. Ci ha insegnato che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vogliono fare il passo piú lungo della gamba. Questa prudenza si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chiama «blocco delle opposizioni». Essa è destinata a scomparire, certamente e anche in un periodo di tempo non lungo: ma intanto esiste e può essere superata solo se noi volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l'insieme della classe lavoratrice. Cosí dobbiamo lottare contro ogni tendenza di destra, che volesse un compromesso con le opposizioni, che tentasse di intralciare gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il lavoro di preparazione per la fase successiva.

Il primo compito del nostro Partito consiste nell'attrezzarsi in modo da diventare idoneo alla sua missione storica. In ogni fabbrica, in ogni villaggio deve esistere una cellula comunista, che rappresenti il Partito e l'Internazionale, che sappia lavorare politicamente, che abbia dell'iniziativa. Bisogna perciò lottare contro una certa passività che esiste ancora nelle nostre file, contro la tendenza a tenere angusti i ranghi del Partito. Dobbiamo invece diventare un grande partito, dobbiamo cercare di attirare nelle nostre organizzazioni il piú gran numero possibile di operai e contadini rivoluzionari, per educarli alla lotta, per formare degli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente. Lo Stato operaio e contadino può essere costruito solo se la rivoluzione disporrà di molti elementi qualificati politicamente: la lotta per la rivoluzione può essere condotta vittoriosamente solo se le grandi masse sono in tutte le loro formazioni locali, inquadrate e guidate da compagni onesti e capaci. Altrimenti si torna davvero, come gridano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell'impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della sconfitta delle classi lavoratrici. Neanche noi comunisti vogliamo tornare agli anni 1919-20.

Un grande lavoro deve essere compiuto dal Partito nel campo sindacale. Senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare. I riformisti possono volere dei piccoli sindacati, possono tentare di formare solo delle corporazioni di operai qualificati. Noi comunisti vogliamo il contrario dei riformisti e dobbiamo lottare per riorganizzare le grandi masse. Certo bisogna porsi il problema concretamente e non solo come forma. Le masse hanno abbandonato il sindacato, perché la Confederazione generale del lavoro, che pure ha una grande efficienza politica (essa è nient'altro che il Partito unitario) non si interessa degli interessi vitali delle masse. Noi non possiamo proporci di creare un nuovo organismo che abbia lo scopo di supplire la latitanza della Confederazione; possiamo però e dobbiamo proporci il problema di sviluppare, attraverso le cellule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il Partito comunista rappresenta la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro Partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane. Le nostre cellule devono spingere le Commissioni interne a incorporare nel loro funzionamento tutte le attività proletarie. Occorre pertanto suscitare un largo movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a una organizzazione di Comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore. Questa azione reale nella fabbrica e nel villaggio rivalorizzerà il sindacato, ridonandogli un contenuto e una efficienza, se parallelamente si verificherà il ritorno all'organizzazione di tutti gli elementi d'avanguardia per la lotta contro i dirigenti attuali riformisti e massimalisti. Chi si tiene lontano dai sindacati è oggi un alleato dei riformisti, non un militante rivoluzionario: egli potrà fare della fraseologia anarcoide, non sposterà di una linea le ferree condizioni in cui la lotta reale si svolge.

La misura in cui il Partito nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli inscritti, riuscirà a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico sarà la misura dei nostri progressi nel cammino della rivoluzione, consentirà il passaggio a una fase successiva di sviluppo. Tutto il Partito, in tutti i suoi organismi, ma specialmente con la sua stampa, deve lavorare unitariamente per ottenere il massimo rendimento del lavoro di ognuno. Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati. Per ottenere ciò occorre riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione lavoratrice veda l'espressione della sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nella storia.

La caduta del fascismo25

Primo vi è un problema politico contingente, e cioè, come si rovescia il ministero presieduto da Benito Mussolini. Le opposizioni borghesi, le quali hanno posto questo problema nel modo piú ristretto possibile, credendo cosí di aver un compito piú facile da assolvere, si stanno dibattendo dal mese di giugno in un vicolo cieco. Pensare infatti di ridurre la crisi del ministero Mussolini ad una qualsiasi crisi ministeriale è cosa assurda. Anzitutto vi è la Milizia che obbedisce solo a Mussolini e lo pone assolutamente al di fuori del terreno di una manovra politica normale. Per superare l'ostacolo della Milizia si è lottato per parecchi mesi, ma sopra un terreno inadeguato. Si è lavorato l'esercito, si è scoperto il re. Ma alla fine ci si è trovati al punto di prima. Mussolini non se ne va. Anche dato che con la Milizia si possano fare i conti a buon mercato, non appena la questione della eliminazione di Mussolini dal governo viene posta in modo concreto, un problema non solo piú grave ma di carattere ancora piú decisivo si presenta: chi farà il processo Matteotti? Un governo di Mussolini non può lasciar fare il processo Matteotti. I motivi sono noti. Ma Mussolini non se ne può nemmeno andare e non se ne andrà fino a che non è sicuro che il processo non verrà fatto, né da lui né da nessuno. Anche qui, i motivi tutti li sanno. Non fare il processo (e non fare il processo vuol dire liberare, presto o tardi e forse piú presto che tardi, gli attuali arrestati) vuol però dire andare incontro a una insurrezione dell'opinione pubblica, vuol dire porre il governo alla mercé di qualsiasi ricattatore e spacciatore di documenti riservati e mantenersi ritti sul filo di una spada. Non fare il processo vuol dire lasciare una piaga sempre aperta, con la possibilità di una «opposizione morale» ben piú importante ed efficace, in determinate occasioni, di qualsiasi opposizione politica. Ora, che la borghesia, in «ogni» sua frazione, sia disposta a non parlar piú né del delitto né del processo, pur di ridare saldezza al suo regime, è cosa da non mettere in dubbio. Si dice che il tema sia anzi già stato sviluppato, — in riunioni delle opposizioni. Ma altrettanto vero è che la campagna sul delitto e per il processo non può essere lasciata in retaggio a gruppi antiborghesi, ad esempio, a un partito proletario. Metter le cose in tacere, non significherebbe infatti ottenere che 39 milioni di italiani se ne dimentichino. Nessuna novità, dunque, per vie normali. La politica del fascismo e della borghesia reazionaria si è inceppata, — il giorno in cui l'opinione pubblica è unanimemente insorta per il delitto Matteotti, e Mussolini è stato travolto da questa insurrezione fino a compiere alcune mosse che dovevano avere ed avranno conseguenze incalcolabili, — in un ostacolo irremovibile. Per qualcosa di simile e di molto meno grave, ai tempi del processo Dreyfus, la società e lo Stato francese furono portati fino sul limite di una rivoluzione. Era però in gioco, si dice, qualcosa di piú profondo di una questione morale, era in gioco un problema di rotazione di classi e categorie sociali al governo. Ma anche in Italia, e con le dovute aggravanti, è cosí.

E veniamo quindi al secondo aspetto del problema, al problema sostanziale, non del ministero Mussolini, o della Milizia, o del processo, e dei simili, ma del regime di cui la borghesia ha dovuto servirsi per spezzare le forze del movimento proletario. Questo secondo aspetto è, per noi tutti, l'essenziale, ma è collegato col primo inscindibilmente. Anzi, tutti i dilemmi e le incertezze e difficoltà che rendono impossibile la previsione di una soluzione di carattere limitato, come hanno in mente le opposizioni e tutti i borghesi, sono un sintomo di contrasti sostanziali profondissimi. Alla base di tutto vi è il problema stesso del fascismo, movimento che la borghesia riteneva dovesse essere semplice «strumento» di reazione nelle sue mani ed invece, una volta evocato e scatenato, è peggio del diavolo, e non si lascia piú dominare, ma va avanti per conto suo. L'uccisione di Matteotti, dal punto di vista della difesa del regime, fu profondissimo errore. L'«affare» del processo, che nessuno riesce a liquidare in modo pulito, è tale una ferita nel fianco del regime quale nessun movimento rivoluzionario, nel giugno 1924, era in grado di aprire. Esso è del resto non altro che la espressione e la conseguenza diretta della tendenza del fascismo a non porsi piú come semplice «strumento» della borghesia, ma a procedere nella serie delle sopraffazioni, delle violenze, dei delitti, secondo una sua ragione interna, che degli interessi della conservazione del regime attuale finisce per non tenere piú conto.

Ed è quest'ultimo punto quello che noi dobbiamo esaminare e giudicare piú attentamente, per avere un filo direttivo nella risoluzione del problema che stiamo discutendo. La tendenza del fascismo che abbiamo cercato di caratterizzare spezza l'alternativa normale di periodi di reazione e periodi di «democrazia» in modo che a tutta prima può sembrare favorevole alla conservazione di una linea reazionaria, e ad una piú rigida difesa del regime capitalistico, ma in realtà può risolversi nel contrario. Vi sono infatti elementi i quali influiscono sulla situazione in modo recisamente contrario ad ogni piano di conservazione del regime borghese e dell'ordine capitalistico. Vi è la crisi economica, vi è il disagio delle grandi masse, vi è la esasperazione provocata dalla compressione fascista e poliziesca. Vi è una situazione tale per cui, mentre i centri politici della borghesia non riescono a concludere le loro manovre di salvataggio, si rende sempre piú possibile l'intervento in campo delle forze della classe lavoratrice, e il dilemma fascismo-democrazia tende a convertirsi nell'altro: fascismo-insurrezione proletaria.

La cosa può essere tradotta anche in termini molto concreti. Nel giugno, immediatamente dopo il delitto Matteotti, il colpo subíto dal regime fu cosí forte che un intervento immediato di una forza rivoluzionaria ne avrebbe posto in pericolo le sorti. L'intervento non fu possibile perché nella maggioranza le masse erano o incapaci di muoversi oppure orientate verso soluzioni intermedie, sotto la influenza dei democratici e dei socialdemocratici. Sei mesi di incertezza e di crisi senza vie di uscita hanno accelerato inesorabilmente il processo di distacco delle masse dai gruppi borghesi e di adesione al partito e alle tesi rivoluzionarie. La liquidazione completa della posizione delle opposizioni la quale appare ogni giorno piú certa, darà a questo processo una spinta definitiva: allora, anche di fronte alle masse, il problema della caduta del fascismo si presenterà nei suoi termini veri.

La funzione del riformismo in Italia26

Per molto tempo al riformismo in Italia è stato possibile celarsi sotto la bandiera del socialismo, per una mancanza di chiarezza delle sue concezioni nel movimento operaio. È recente infatti la formazione di un Partito riformista, ma non è recente il riformismo in Italia. Se Filippo Turati, capo di questa corrente, ha potuto essere scambiato per molto tempo come socialista, ciò è avvenuto a causa della lentezza con cui si sono sviluppati i partiti in Italia. Studiosi ed osservatori inglesi si stupivano infatti fin da prima della guerra di vedere la borghesia italiana avere Turati in considerazione di socialista. Ma l'errore non è stato commesso soltanto dalla classe borghese: lo stesso errore è stato fino a qualche anno fa accreditato anche presso la classi lavoratrici. Che cosa sia il socialismo di Turati e del suo partito oggi è chiaro, a tutti; esso è un liberalismo democratico, che, come negli altri paesi capitalisti, tiene la funzione di «sinistra borghese». Prima di arrivare a chiarire cosí la funzione del riformismo in Italia, molte lezioni sono state necessarie alla classe operaia, compresa quella del fascismo, la piú terribile e la piú vicina storicamente. È solo con gli avvenimenti del dopo guerra e con l'esperienza del proletariato internazionale che la classe operaia giunge anche in Italia all'elaborazione di una sana dottrina politica marxista, in modo da distinguere le due funzioni di socialismo e riformismo.

Prima della guerra il partito politico della classe operaia era rimasto uno solo: il Partito socialista. Per molti anni in questo Partito si erano svolti dibattiti sul socialismo rivoluzionario e sulle riforme, sulla collaborazione e sull'intransigenza. Ma da questi dibattiti non si era mai giunti alla elaborazione di una tattica e di un programma socialista in modo da smascherare la tendenza riformista per quella che è realmente, una tendenza cioè borghese infiltratasi nel movimento operaio. Intransigente e riformista [dovevano] stare insieme nello stesso partito, il che implicava necessariamente una piattaforma comune d'azione. Questa piattaforma noi la troviamo specialmente nella base elettorale che il Partito socialista s'era data in Italia. Malgrado tutti i richiami alla lotta di classe e alle affermazioni verbali di rivoluzionarismo il Partito socialista italiano era rimasto sostanzialmente un partito democratico, a somiglianza di tutti gli altri partiti che si erano sviluppati nei limiti della II Internazionale. Questo carattere del Partito socialista è risultato in primo luogo nella tattica di fronte alla guerra. La formula di «neutralismo» che per la borghesia italiana appariva disfattista e sovversiva al lume della critica socialista è stata giudicata e condannata come una formula equivoca e opportunista. E lo era tanto infatti, che persino i social-patrioti Turati e Treves potevano accettare la stessa formula e apparire agli occhi delle masse come degli anti-guerrafondai, benché tali non fossero da ritenersi menomamente.

La guerra cessò e se ne iniziò il periodo delle conseguenze. La crisi rivoluzionaria del dopoguerra sorprende il Partito socialista impreparato ad affrontare tutti i problemi della rivoluzione proletaria. Mancano idee chiare sulla funzione del Partito, sui compiti della classe operaia nella conquista del potere e nella creazione dello Stato proletario. Il periodo del dopoguerra segna appunto il periodo di preparazione piú intensa della classe operaia rivoluzionaria. La esperienza del proletariato russo viene studiata, assimilata, fatta propria dal proletariato italiano. Attraverso una lunga serie di agitazioni e di movimenti la classe operaia si forgia la sua coscienza rivoluzionaria. La fabbrica diventa il centro di formazione di questa nuova coscienza. I problemi del controllo operaio, della produzione socialista, dello Stato operaio, della funzione del Partito proletario, dei rapporti tra il Partito e la rivoluzione sono quelli di cui si occupa in questo periodo la classe operaia. La tradizione democratica del Partito socialista è spezzata; la vecchia tradizionale piattaforma elettorale è infranta; una nuova educazione proletaria si forma; si determinano nuovi orientamenti nel seno della classe operaia. Da tutto questo interno travaglio della classe operaia sorge nel 1921 il Partito comunista, sezione d'Italia dell'Internazionale comunista. Ma il riformismo non abbandona ancora la sua maschera; esso continua ancora a celarsi sotto il nome di socialismo, il quale, da questo momento, diventa equivalente di opportunismo cioè di anti-socialismo. Quale la tattica seguita sin qui dai riformisti?

Di fronte al profondo risveglio determinato in mezzo ai lavoratori italiani dalla Russia rivoluzionaria, i riformisti non hanno seguito la tattica di una opposizione netta ed aperta, che li avrebbe gettati in un isolamento completo. Al contrario essi hanno preferito agire con l'ipocrisia nota a tutti i social-traditori, per mascherare i loro piani controrivoluzionari. E hanno accettato di recarsi in Russia, come D'Aragona e altri, a rappresentare il proletariato rivoluzionario italiano; e hanno mostrato di accettare il concetto della dittatura proletaria, pur deformandolo come nella mozione di Reggio Emilia; e non hanno ripudiato nemmeno il concetto della violenza, come lo stesso Turati si sforzò di provare nei suoi discorsi di Bologna e di Livorno. Questo atteggiamento dei riformisti è stato poi definito cosí da D'Aragona: «I riformisti sono rimasti nel Partito socialista per sabotare la rivoluzione».

Appunto per sabotare la rivoluzione, cioè per salvare la borghesia dall'avanzata della classe operaia, i riformisti hanno di tradimento in tradimento condotto i lavoratori italiani alla sconfitta, creando cosí le condizioni favorevoli allo sviluppo e al successo del fascismo. Prima della guerra, i riformisti hanno esercitato nel Partito socialista la funzione di controrivoluzionari, facendo accettare alle masse che seguivano questo Partito, benché minoranza, la loro ideologia social-pacifista. Nel dopoguerra, rimanendo nel Partito socialista, i riformisti, che conservavano nelle loro mani le maggiori organizzazioni operaie, hanno potuto, attraverso deviazioni d'ogni sorta, continuare la loro opera controrivoluzionaria, col sistematico sabotaggio di tutti i movimenti che potevano sboccare nella lotta del proletariato per la conquista del potere. Esempio tipico: l'occupazione delle fabbriche.

La funzione e la natura controrivoluzionaria dei riformisti si sono però chiaramente rivelate in quest'ultimo periodo, dopo la formazione d'una salda avanguardia rivoluzionaria in Italia e gli sviluppi politici determinati dal fascismo. Ogni maschera è caduta. I riformisti hanno dovuto apparire nella loro vera luce, malgrado osino richiamarsi ancora assai blandamente ai princípi della lotta di classe. La loro funzione di servi del capitalismo e di agenti borghesi nel movimento operaio è risultata con grande evidenza dagli ultimi fatti e specialmente dai provvedimenti presi dai capi confederali, con la recente espulsione di tre organizzatori comunisti. Qual è l'esatto significato di questa mossa dei capi confederali? Essa non può essere spiegata, se non ponendola in rapporto alle trattative in corso fra popolari, giolittiani e riformisti. Staccati dall'avanguardia rivoluzionaria della classe operaia, i socialisti non potevano che finire nelle braccia della borghesia. Questo processo che si è verificato da tempo negli altri paesi capitalisti, va rapidamente compiendosi anche in Italia. I riformisti, dopo aver sabotato il movimento rivoluzionario, non si sono acquistati abbastanza titoli di gloria agli occhi della classe borghese, per meritarne la fiducia. Essi devono mostrare ora che non solo sono disposti a sabotare il movimento operaio rivoluzionario, ma anche a combatterlo; devono cioè rassicurare la borghesia che la loro tattica e il loro programma di governo non sono diversi dalla tattica e dal programma dei laburisti inglesi e dei socialdemocratici tedeschi. Come i laburisti inglesi, essi — i riformisti italiani — sarebbero, all'occasione, buoni monarchici e buoni amministratori dei banchieri italiani, come i socialdemocratici tedeschi (repubblicani loro malgrado; lo ha confessato il presidente Ebert) essi saprebbero, in caso di bisogno, far funzionare le mitragliatrici contro i comunisti, né piú né meno che sull'esempio di Amburgo. L'espulsione dei primi comunisti dalla Confederazione non deve intendersi dunque se non come un'azione dimostrativa diretta a rassicurare le frazioni borghesi, in questi giorni di trattative fra popolari, giolittiani e riformisti. La mossa dei capi confederali completa la mossa dei popolari ispirata del resto dall'on. Turati. Bisogna creare un nuovo blocco anticomunista, dopo l'esperimento fascista. E i riformisti hanno voluto crearsi un nuovo titolo di merito per entrare a farvi parte. La funzione del Partito socialista unitario è cosí storicamente decisa: essa è la medesima del partito di Noske. A chi l'onore di rappresentare per l'Italia la parte del social-traditore tedesco?

La scuola di Partito27

Mentre si inizia il primo corso di una scuola di Partito, non possiamo a meno di pensare ai numerosi tentativi che in questo campo sono stati fatti, in seno al movimento operaio italiano, e alla singolare sorte che essi hanno avuto. Lasciamo da parte i tentativi compiuti in una direzione che non è la nostra, nella direzione delle «Università» proletarie senza colore di partito, accademie oratorie prive di ogni interno principio di coesione unitaria nei suoi migliori, veicolo spesso della influenza sulla classe operaia di sforzo e di ideologie antiproletarie. Essi hanno avuto il destino che loro conveniva, di succedersi e intrecciarsi senza lasciare nessuna traccia profonda. Ma nemmeno sui tentativi fatti nel campo nostro e sulle nostre direttive si può dire molto di diverso. Essi ebbero anzitutto sempre carattere sporadico, e inoltre non portarono mai a risultati soddisfacenti. Ricordiamo ad esempio nel 1919-1920. La scuola allora iniziata a Torino tra un grande fervore di entusiasmo e in condizioni assai favorevoli non durò nemmeno tutto il tempo necessario a svolgere il programma tracciato all'inizio. Essa ebbe, nonostante ciò, una ripercussione assai favorevole nel movimento nostro, non però quello che se ne attendevano i promotori e gli allievi. Degli altri tentativi, nessuno a quanto noi conosciamo, ebbe il successo e la ripercussione di quello. Non si uscí mai dal gruppo limitato, dal piccolo circolo, dallo sforzo di pochi isolati. Non si riuscí a combattere e superare l'aridità e l'infecondità dei ristretti movimenti «culturali» borghesi.

Motivo fondamentale di questi insuccessi l'assenza di un legame tra le «scuole» progettate o iniziate e un movimento di carattere oggettivo. L'unico caso in cui questo legame esiste, è quello della scuola dell'Ordine Nuovo di cui sopra abbiamo parlato. In questo caso però, il movimento di carattere oggettivo, — il movimento torinese di fabbrica e di partito, — è di tal mole che soverchia e quasi annulla di fronte a sé il tentativo di creare una scuola nella quale siano affinate le capacità tecniche dei militanti. Una scuola adeguata alla importanza di quel movimento avrebbe richiesto, non l'attività di pochi, ma lo sforzo sistematico e ordinato di un partito intiero.

Considerata a questo modo la cattiva sorte toccata fino ad ora ai tentativi di creare delle scuole per i militanti del proletariato, — considerata cioè in relazione con la sua causa fondamentale, — essa appare non tanto come un male, ma come segno di inattaccabilità del movimento operaio da parte di quello che sarebbe, per esso, effettivamente un male. Male sarebbe se il movimento operaio diventasse campo di preda o strumento di esperienza per la sufficienza di male accorti pedagoghi, se esso perdesse i suoi caratteri di appassionata milizia per assumere quelli di studio oggettivo e di «cultura» disinteressata. Né uno «studio oggettivo», né una «cultura disinteressata» possono aver luogo nelle nostre file, nulla quindi che assomigli a ciò che viene considerato come oggetto normale di insegnamento secondo la concezione umanistica, borghese, della scuola.

Siamo una organizzazione di lotte, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto.

Fino a qual punto questa coscienza oggi esiste nel nostro Partito, è diffusa nelle sue file, è penetrata nei compagni che ricoprono funzioni di direzione e nei semplici militanti che devono portare quotidianamente a contatto con le masse le parole del Partito, rendere efficaci i suoi ordini, realizzare le sue direttive? Non ancora, crediamo noi, nella misura necessaria a renderci adatti a compiere in pieno il nostro lavoro di guida del proletariato. Non ancora in misura adeguata al nostro sviluppo numerico, alle nostre risorse organizzative, alle possibilità politiche che la situazione ci offre. La scuola di Partito deve proporsi di colmare il vuoto che esiste tra quello che dovrebbe essere e quello che è. Essa è quindi strettamente collegata con un movimento di forze, che noi abbiamo diritto di considerare come le migliori che la classe operaia italiana ha espresso dal suo seno. È l'avanguardia del proletariato, la quale forma e istruisce i suoi quadri, che aggiunge un'arma — la sua coscienza teorica e la dottrina rivoluzionaria, — a quelle con le quali essa si appresta ad affrontare i suoi nemici o le sue battaglie. Senza quest'arma il Partito non esiste, e senza Partito nessuna vittoria è possibile.

Necessità di una preparazione ideologica di massa28

Da quasi cinque anni il movimento operaio rivoluzionario italiano è piombato in una situazione di illegalità o di semilegalità. La libertà di stampa, il diritto di riunione, di associazione, di propaganda sono praticamente soppressi. La formazione dei quadri dirigenti del proletariato non può quindi piú avvenire per le vie e coi metodi che erano tradizionali in Italia fino al 1921. Gli elementi operai piú attivi sono perseguitati, sono controllati in ogni loro movimento, in ogni loro lettura; le biblioteche operaie sono state incendiate o altrimenti disperse; le grandi organizzazioni e le grandi azioni di massa non esistono piú o non possono attuarsi. I militanti non partecipano affatto o partecipano solo in misura limitatissima alle discussioni e al contrasto delle idee; la vita isolata o la riunione saltuaria di piccoli gruppi riservati, l'abitudine che può venire formandosi a una vita politica che in altri tempi pareva d'eccezione, suscitano sentimenti, stati d'animo, punti di vista che sono spesso errati e talvolta persino morbosi.

I nuovi membri che il Partito acquista in una tale situazione, evidentemente uomini sinceri e di vigorosa fede rivoluzionaria, non possono venire educati ai nostri metodi dall'attività ampia, dalle larghe discussioni, dal controllo reciproco che sono propri dei periodi di democrazia e di legalità. Si prospetta cosí un pericolo molto grave: la massa del Partito, abituandosi, nell'illegalità, a non pensare ad altro che agli espedienti necessari per sfuggire alle sorprese del nemico, abituandosi a vedere possibili e organizzabili immediatamente solo azioni di piccoli gruppi, vedendo come i dominatori apparentemente abbiano vinto e conservino il potere con l'opera di minoranze armate e inquadrate militarmente, si allontana insensibilmente dalla concezione marxista dell'attività rivoluzionaria del proletariato, e mentre pare si radicalizzi, per il fatto che si sentono spesso enunziare propositi estremisti e frasi sanguinolente, in realtà diventa incapace a vincere il nemico. La storia della classe operaia, specialmente nell'epoca che attraversiamo, mostra come questo pericolo non sia immaginario. La ripresa dei partiti rivoluzionari, dopo un periodo di illegalità, è spesso caratterizzata da un irrefrenabile impulso all'azione per l'azione, dall'assenza di ogni considerazione dei rapporti reali delle forze sociali, dello stato d'animo delle grandi masse operaie e contadine, delle condizioni dell'armamento, ecc. È avvenuto cosí troppo spesso che il Partito rivoluzionario si sia fatto massacrare dalla reazione non ancora disgregata, e le cui riserve non erano state giustamente apprezzate, tra l'indifferenza e la passività delle grandi masse le quali, dopo ogni periodo reazionario, diventano molto prudenti e sono facilmente colte da panico ogni qualvolta si minaccia un ritorno alla situazione da cui sono allora allora uscite.

È difficile, in linea generale, che tali errori non si verifichino; è perciò doveroso che il Partito se ne preoccupi e svolga una determinata attività che specialmente tenda a migliorare la sua organizzazione, ad elevare il livello intellettuale dei membri che si trovano nelle sue file nel periodo del terrore bianco e che sono destinati a diventare il nucleo centrale e piú resistente ad ogni prova e ad ogni sacrificio del Partito che guiderà la rivoluzione ed amministrerà lo Stato proletario.

Il problema appare cosí piú largo e piú complesso. La ripresa del movimento rivoluzionario e specialmente la sua vittoria, riversano nel Partito una grande massa di nuovi elementi. Essi non possono essere respinti, specialmente se di origine proletaria, poiché appunto la loro adesione è uno dei segni piú sintomatici della rivoluzione che sta compiendosi; ma il problema si pone di impedire che il nucleo centrale del Partito sia sommerso e disgregato dalla nuova impetuosa ondata. Tutti ricordiamo ciò che è avvenuto in Italia, dopo la guerra, nel Partito socialista. Il nucleo centrale, costituito dai compagni rimasti fedeli alla causa durante il cataclisma, si restrinse fino a ridursi al numero di 16.000 circa. Al Congresso di Livorno erano rappresentati 220.000 soci, cioè esistevano nel Partito 200.000 aderenti del dopoguerra, senza preparazione politica, digiuni o quasi di ogni nozione della dottrina marxista, facile preda dei piccoli borghesi declamatori e fanfaroni che costituirono negli anni 1919-20 il fenomeno del massimalismo. Non è senza significato che l'attuale capo del Partito socialista e direttore dell'Avanti! sia proprio Pietro Nenni, entrato nel Partito socialista dopo Livorno, ma che riassume e sintetizza in sé tutte le debolezze ideologiche e i caratteri distintivi del massimalismo del dopoguerra. Sarebbe veramente delittuoso che nel Partito comunista si verificasse per rispetto al periodo fascista ciò che si è verificato nel Partito socialista per rispetto al periodo della guerra: ma ciò sarebbe inevitabile, se il nostro Partito non avesse una direttiva anche in questo campo, se esso non provvedesse a tempo a rinforzare ideologicamente e politicamente i suoi attuali quadri e i suoi attuali membri, per renderli capaci di contenere e inquadrare masse ancora piú larghe senza che l'organizzazione subisca troppe scosse e senza che la figura del Partito ne venga mutata.

Abbiamo posto il problema nei suoi termini pratici piú immediati. Ma esso ha una base che è superiore ad ogni contingenza immediata.

Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; di lotta per l'eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica di equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi e svilupparsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un'azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina), e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo.

La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l'una né l'altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica.

Nella sua prima fase sindacale, la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletario si trova nel regime borghese, ma non è di per se stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all'abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. I riformisti si differenziano dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come classe, almeno i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la «democrazia in generale», cioè per la democrazia borghese, in altre parole lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura lotta di resistenza sindacale.

Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l'accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le quistioni piú vitali dell'organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L'elemento «spontaneità» non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente. È necessario l'elemento coscienza, l'elemento «ideologico», cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l'operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l'esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc.

I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell'umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del Partito. Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l'apparato di produzione e di scambio e il potere statale. Ma il Partito può e deve nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà, ma ne sarà trascinato. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo.

L'attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all'infuori di Antonio Labriola) è stato studiato piú dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Abbiamo visto perciò nel Partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le tendenze piú disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del Partito le concezioni piú contraddittorie. Mai le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista e occorresse difenderla da ogni contraffazione. Questa tradizione non è stata, per lo meno, interrotta in modo sistematico e con una attività notevole continuata.

Si dice tuttavia che il marxismo ha avuto molta fortuna in Italia e in un certo senso ciò è vero. Ma è vero anche che una tale fortuna non ha giovato al proletariato, non ha servito a creare nuovi mezzi di lotta, non è stato un fenomeno rivoluzionario. Il marxismo, cioè alcune affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla borghesia italiana per dimostrare che per le necessità del suo sviluppo era necessario fare a meno della democrazia, era necessario calpestare le leggi, era necessario ridere della libertà e della giustizia: cioè è stato chiamato marxismo, dai filosofi della borghesia italiana, la constatazione che Marx ha fatto dei sistemi che la borghesia adopera, senza bisogno di ricorrere a giustificazioni... marxiste, nella sua lotta contro i lavoratori. E i riformisti, per correggere questa interpretazione fraudolenta, sono essi diventati democratici, si sono essi fatti i turiferari di tutti i santi sconsacrati del capitalismo. I teorici della borghesia italiana hanno avuto l'abilità di creare il concetto della «nazione proletaria», cioè di sostenere che l'Italia tutta era una «proletaria» e che la concezione di Marx doveva applicarsi alla lotta dell'Italia contro gli altri Stati capitalistici, non alla lotta del proletariato italiano contro il capitalismo italiano; i «marxisti» del Partito socialista hanno lasciato passare senza lotta queste aberrazioni, che furono accettate da uno, Enrico Ferri, che passava per un grande teorico del socialismo. Questa fu la fortuna del marxismo in Italia: che esso serví da prezzemolo a tutte le indigeste salse che i piú imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini...

Per lottare contro la confusione che si è andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo almeno nei suoi termini piú generali.

Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a questa parola. È un Partito centralizzato nazionalmente e internazionalmente. Nel campo internazionale, il nostro Partito è una semplice sezione di un partito piú grande, di un partito mondiale. Quali ripercussioni può avere ed ha già avuto questo tipo di organizzazione, che pure è una ferrea necessità della rivoluzione? L'Italia stessa ci dà una risposta a questa domanda. Per reazione all'andazzo solito del Partito socialista, in cui si discuteva molto e si risolveva poco, la cui unità, per l'urto continuo delle frazioni, delle tendenze e spesso delle cricche personali si frantumava in una infinità di frammenti sconnessi, nel nostro Partito si era finito col non discutere piú nulla. La centralizzazione, l'unità di indirizzo e di concezione era diventata una stagnazione intellettuale. A ciò contribuí la necessità della lotta incessante contro il fascismo, che proprio alla fondazione del nostro Partito era già passato alla sua fase attiva ed offensiva, ma contribuí anche la concezione errata del Partito, cosí come è esposta nelle «Tesi sulla tattica» presentate al Congresso di Roma. La centralizzazione e l'unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il Partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il Partito perderebbe i suoi caratteri distintivi politici e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese): perderebbe cioè la sua forza d'attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse, occorre che ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi situazione, anche dello stato di assedio rinforzato, anche quando i comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la periferia, tutti i membri del Partito, ognuno nel suo ambiente siano stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria.

L'intervento alla Camera sulla massoneria29

Presidente:

Ha facoltà di parlare l'onorevole Gramsci.

Gramsci:

Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come Partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il Partito fascista ha presentato questa legge rivolta prevalentemente contro la massoneria.

Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla «psicosi di guerra», quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata.

Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere — cosa allora inconcepibile per i fascisti stessi — se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad infrenare, con le armi, la sua avanzata sanguinosa.

Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler «conquistare lo Stato». Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria?

Poiché noi pensiamo che questa fase della «conquista fascista» sia una delle piú importanti attraversate dallo Stato italiano, e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, cosí crediamo necessaria una analisi, anche se affrettata, della quistione.

Che cosa è la massoneria? Voi avete fatto molte parole sul significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo.

La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l'Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l'entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila.

È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un'infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità, essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi piú estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario.

Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna ricordare all'onorevole Martire come accanto ai gesuiti che vestono l'abito talare, esistono i gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale montura che indichi il loro ordine religioso.

Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in tutta una serie di articoli pubblicati da Civiltà Cattolica, quale fosse il programma politico del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie classi semifeudali tendenzialmente borboniche nel Meridione, o tendenzialmente austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della Civiltà Cattolica e cioè il Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato unitario, attraverso l'astensione parlamentare, l'infrenamento dello Stato liberale per tutte quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo punto, la creazione di un'armata di riserva rurale da porre contro l'avanzata del proletariato, poiché fin dal '71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario.

L'onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della massoneria, l'unità spirituale della nazione italiana.

Poiché la massoneria in Italia ha rappresentato l'ideologia e l'organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico per cui le classi piú arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso cinquant'anni fa; ed è oggi invece il fenomeno piú grande di regressione...

[Interruzioni.]

La borghesia industriale non è stata capace di infrenare il movimento operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d'ordine del fascismo, dopo l'occupazione delle fabbriche, è stata perciò questa: «I rurali controlleranno la borghesia urbana che non sa essere forte contro gli operai».

Se non m'inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano...

Mussolini, presidente del Consiglio dei ministri:

Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio al fascismo rurale del 1921-22.

Gramsci:

Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la piú grande debolezza del capitalismo, abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del dopoguerra, sia nel dominio dell'attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura. L'elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria dei conservatori in Inghilterra con la liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento fascista italiano; le vecchie forze sociali, originariamente anticapitalistiche, coordinatesi al capitalismo, ma non assorbite completamente da esso, hanno preso il sopravvento nell'organizzazione degli Stati portando nell'attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo sviluppo della rivoluzione proletaria.

Esaminata su questo terreno, l'attuale legge contro le associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana? Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime capitalistico o sarà solo un nuovo, perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare Tizio, Caio, e Sempronio?... Il problema, pertanto, è questo: la situazione del capitalismo in Italia è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia? che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l'impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d'opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l'impossibilità per la borghesia di creare un'aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo, la quistione meridionale, cioè la quistione dei contadini, legata strettamente al problema dell'emigrazione che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere... [Interruzioni.]

Mussolini:

Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.

Gramsci:

Il significato dell'emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l'alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare...

Rossoni:

Quindi la nazione si deve espandere nell'interesse del proletariato.

Gramsci:

Noi abbiamo una nostra concezione dell'imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l'«imperialismo» italiano è consistito solo in questo: che l'operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l'Italia è stata solo un mezzo dell'espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni piú puerili di una pretesa superiorità demografica dell'Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l'Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l'Italia di prima della guerra dal punto di vista demografico si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l'emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici.

Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia. È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto piú rapidamente quanto piú il sistema capitalistico mondiale non funziona piú per assorbire l'emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.

I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi?

Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-industriale la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce, difatti, una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri... [Interruzioni del deputato Greco.] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia.

Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente della politica nazionale; 800.000 lettori sono anch'essi un partito.

Voci:

Meno...

Mussolini:

La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!

Gramsci:

Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione.

Farinacci:

Neanche l'Unità!

Gramsci:

Il Corriere della Sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando a Nitti, ad Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, altrettanto pericolosa che l'attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un'alleanza tra gli industriali del nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale, sul terreno del libero scambio. L'una e l'altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una piú larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le «conquiste» del Risorgimento.

Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere, cosí, conquistare lo Stato. In realtà, il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.

Mussolini:

Di una classe ad un'altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni.]

Gramsci:

È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere...

Mussolini:

Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all'opposizione: i Motta, i Conti...

Farinacci:

E sussidiano i giornali sovversivi!

Mussolini:

L'alta banca non è fascista, voi lo sapete! [Commenti.]

Gramsci:

La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria, con i massoni il fascismo arriverà facilmente a un compromesso.

Mussolini:

I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c'è bisogno di accomodamenti.

Gramsci:

Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti: in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si proponeva...

Farinacci:

E ci chiamate sciocchi?

Gramsci:

Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana...

Mussolini:

Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.

Gramsci:

Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l'assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell'incendio delle logge; e infine impiega oggi l'azione legislativa per cui determinate personalità dell'alta banca e dell'alta burocrazia finiranno per l'accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto; ma, con la massoneria, il governo fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.

Mussolini:

Prima gli si rompe le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti.]

Gramsci:

Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre...

Mussolini:

Facciamo quello che fate in Russia...

Gramsci:

In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi...

Mussolini:

Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! [Si ride.]

Gramsci:

In realtà l'apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista come un'organizzazione segreta.

Mussolini:

Non è vero!

Gramsci:

Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.

Mussolini:

Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli!

Gramsci:

È una forma di persecuzione sistematica, che anticipa e giustificherà l'applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli.

Una voce:

Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione.

Gramsci:

Sono meridionale!

Mussolini:

A proposito di violenze elettorali, io le ricordo un articolo di Bordiga che le giustifica a pieno!

Greco Paolo:

Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell'articolo.

Gramsci:

Non le violenze fasciste, le nostre. [Rumori, interruzioni.] Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire. [Interruzioni.] Noi dobbiamo dire alla popolazione lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. [Rumori, interruzioni.] Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza. [Interruzioni, rumori.]

Farinacci:

Ma allora perché non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di Bombacci! La manderanno via dal Partito!

Gramsci:

La borghesia italiana quando ha fatto l'unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, cosí ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato all'avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo dei programmi e dei non programmi... [Interruzioni, commenti.]

Presidente:

Non interrompete!

Gramsci:

Questa legge non verrà affatto ad infrenare il movimento che voi stessi preparate nel paese. Poiché la massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge. Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e piú cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento di quei fini che sono insiti nella sua esistenza, e nella forza generale della società, senza che un'avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini. Ma non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso della reazione! Questa è una legge che serve per l'Italia, che dovrà essere applicata in Italia, dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo luogo la questione dei contadini italiani, a risolvere la questione dell'Italia meridionale. Non per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti il risanamento del Mezzogiorno.

Una voce:

Parli della massoneria.

Gramsci:

Volete che io parli della massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna neppure alla massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l'urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda! Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale.

Mussolini:

Voi non fate pagare le tasse in Russia!...

Una voce:

Rubano in Russia, non pagano le tasse!

Gramsci:

Non è questa la quistione, egregio collega che dovrebbe conoscere almeno le relazioni parlamentari che su tali quistioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che, ogni anno, lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere...

Mussolini:

Non è vero.

Gramsci:

...somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali, per dare una base al capitalismo dell'Italia settentrionale. [Interruzioni, commenti.] Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano, si formerà necessariamente, nonostante tutte le leggi repressive, nonostante la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l'unione degli operai e dei contadini contro il comune nemico. Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi non avete superato questa contraddizione che era già radicale, voi l'avete anzi fatta sentire piú duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le organizzazioni gli effetti piú micidiali della vostra attività stessa. [Interruzioni.] Questa è la quistione piú importante nella discussione di questa legge: voi potete «conquistare lo Stato», potete modificare i codici, voi potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin'oggi piú diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi. [Interruzioni.] È molto difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di Zankof. In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti dall'estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del Partito comunista e delle forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti.

Mussolini:

Il Partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il Partito fascista italiano!

Gramsci:

Ma rappresenta la classe operaia.

Mussolini:

Non la rappresenta!

Farinacci:

La tradisce, non la rappresenta.

Gramsci:

Il vostro è un consenso ottenuto col bastone.

Farinacci:

Parla di Miglioli!

Gramsci:

Precisamente. Il fenomeno Miglioli ha una grande importanza appunto nel senso di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche, si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglioli se il fenomeno Miglioli non avesse questa grande importanza, dell'indicare un nuovo orientamento delle forme rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi lavoratrici. Concludendo: la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la merce reazionaria antiproletaria! Non è la massoneria che v'importa! La massoneria diventerà un'ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali comprenderanno ciò molto bene dall'applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo sviluppo della società italiana. [Interruzioni.]

Presidente:

Ma non interrompano! Lascino parlare! Lei, però, onorevole Gramsci, non ha parlato della legge!

Rossoni:

La legge non è contro le organizzazioni!

Gramsci:

Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. Gli operai e i cittadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi [Interruzioni, rumori.] Perché esso solo rappresenta oggi la situazione del nostro paese... [Interruzioni.]

Presidente:

Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!

Gramsci:

Bisogna ripeterle, invece; bisogna che lo sentiate fino alla nausea. [Interruzioni, rumori.] Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo. [Commenti.]

«La Rivoluzione liberale» e il fronte unico operaio30

Dell'antifascismo borghese la posizione degli scrittori di Rivoluzione liberale è stata e rimane per ora, senza dubbio, la piú avanzata. Attorno alla rivista torinese di Gobetti, sul cui orientamento politico ha esercitato una influenza decisiva il movimento dei Consigli di fabbrica e lo studio da vicino dell'avanguardia del proletariato rivoluzionario torinese, si è raccolta una schiera di intellettuali che nell'osservazione dei fatti storici e degli antagonismi delle classi sociali si sono, sotto un certo aspetto, impadroniti del metodo di indagine marxista, ma svuotandolo del contenuto rivoluzionario e dello spirito proletario. Cosí si spiega come Rivoluzione liberale, spesso, si trovi ad occupare posizioni piú avanzate degli stessi partiti socialisti, i quali, di fronte al fascismo, tendono a riportare indietro il movimento operaio, togliendogli ogni carattere autonomo e ogni fisionomia classista, per fare di esso soltanto un movimento liberale piccolo-borghese.

Rivoluzione liberale (n. 21, maggio 1925) fa un bilancio della condotta dell'Aventino. Poiché «nella impostazione aventiniana», essa dichiara di avere le sue «responsabilità», è naturale che difenda queste responsabilità, pur criticando in parte la tattica «illusionista» dei partiti aventiniani. Ma quel che importa nel «bilancio» di Rivoluzione liberale è la conseguenza alla quale essa giunge, pur prendendo come punto di partenza delle premesse che appaiono ingiustificate se non sono meglio precisate. Tale è — per esempio — quella in cui Rivoluzione liberale afferma di sapere che «Mussolini è il piú forte» e «che la maggioranza degli italiani è con lui». Questo è esatto solo nel senso che i fascisti dànno a queste affermazioni: «sono italiani cioè soltanto i fascisti; i fascisti sono con Mussolini, dunque Mussolini ha con sé la maggioranza degli italiani». Altrimenti, dovremmo chiedere a Rivoluzione liberale una definizione della «maggioranza». Comunque sia, non è qui il punto principale del «bilancio» di Rivoluzione liberale, il quale mira a stabilire la nuova condotta dell'élite di giovani che capiscono la situazione formatasi attorno all'Aventino. Secondo la rivista liberale torinese, «sono scomparse per sempre le situazioni centriste». «L'Aventino ha anche contato» scrive R.L. «sulle classi medie. Ma queste per la loro natura equivoca sono sempre col vincitore... Quei partiti aventiniani che si annunciavano come rappresentanti delle classi medie, come futuri partiti di governo, i partiti di democrazia e in parte i popolari e gli unitari, perderanno terreno nel prossimo futuro». Stabilito inoltre che la nuova Camera, quando ci sarà, non potrà essere che una Camera piú fida al duce, Rivoluzione liberale giunge a questa conclusione:

Dev'esser oramai acquisito che la sola riserva solida di ogni nuova politica futura è il «movimento operaio». Se intorno all'Aventino si è venuta formando una élite di giovani che capiscono la situazione, essi hanno il dovere di smetterla con le inconcludenti polemiche contro i comunisti che minacciano di diventare un inutile diversivo, di non occuparsi di teoria delle classi medie, di non escogitare astuzie di colpi di mano, «ma di lavorare con lealtà per il fronte unico operaio, anche se questo lavoro, per le attuali condizioni di depressione delle masse, non è per dare frutti immediati».

Per quanto molto confuso, questo accenno al fronte unico operaio è certo notevole, in quanto vien fatto da una rivista liberale che rispecchia il punto di vista di una élite di giovani intellettuali. A parte l'affermazione, anche erronea, che nelle attuali condizioni di depressione delle masse (proprio dopo lo sciopero metallurgico, la manifestazione del 1° Maggio, i risultati della Fiat R.L. parla di depressione delle masse!) il lavoro per il fronte unico operaio non sia per dare frutti immediati, è notevole che si comprenda anche dagli intellettuali antifascisti che la soluzione della crisi è da cercarsi nella classe operaia, mediante il «fronte unico proletario». Ma quando si è giunti a questo punto, l'analisi resterebbe incompiuta se non si accettasse la sola maniera del fronte unico operaio, che consiste nella creazione dei «Comitati operai e contadini».

Altrimenti la critica di Rivoluzione liberale alla condotta dell'Aventino, resta una pura manifestazione letteraria.

La volontà delle masse31

A proposito delle crisi di frazioni manifestatesi nel nostro Partito, l'Avanti! ha pubblicato una serie di articoli che possono dare lo spunto per ribadire alcuni princípi fondamentali del comunismo internazionale. È molto probabile che le storture ideologiche dell'Avanti! non siano proprie solo degli scrittori dell'Avanti! e degli sparuti drappelli che costituiscono il Partito massimalista. Il nostro Partito è formato di elementi staccatisi dal Partito socialista al Congresso di Livorno e, nella sua maggioranza attuale, di elementi venuti a noi per la campagna di reclutamento fatta dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti; ripetere certe verità, distruggere certi pregiudizi che erano stati radicati nella coscienza da decine e decine di anni di tradizione socialdemocratica, può essere perciò compito necessario e urgentemente necessario.

Nell'articolo La volontà delle masse (l'Avanti! del 13 giugno) è contenuta la quintessenza dell'opportunismo massimalista italiano e dell'opportunismo socialdemocratico in generale.

Esiste una volontà delle masse lavoratrici prese nel loro complesso e può il Partito comunista porsi sul terreno di «ubbidire alla volontà delle masse in generale?». No. Esistono nel complesso delle masse lavoratrici parecchie e distinte volontà: esiste una volontà comunista, una volontà massimalista, una volontà riformista, una volontà democratica liberale. Esiste anche una volontà fascista, in un certo senso ed entro certi limiti. Fino a quando sussiste il regime borghese, col monopolio della stampa in mano al capitalismo e quindi con la possibilità per il governo e per i partiti borghesi di impostare le questioni politiche a seconda dei loro interessi, presentati come interessi generali, fino a quando sarà soppressa e limitata la libertà di associazione e di riunione della classe operaia o potranno essere diffuse impunemente le menzogne piú impudenti contro il comunismo, è inevitabile che le classi lavoratrici rimangano disgregate, cioè che abbiano parecchie volontà.

Il Partito comunista «rappresenta» gli interessi dell'intiera massa lavoratrice, ma «attua» la volontà solo di una determinata parte della massa, della parte piú avanzata, di quella parte (proletariato) che vuole rovesciare il regime esistente coi mezzi rivoluzionari per fondare il comunismo.

Cosa significa la formula dell'Avanti!: «bisogna seguire la volontà della massa» in generale? Significa cercare di giustificare il proprio opportunismo, nascondendosi dietro la constatazione, che esistono ancora strati arretrati di popolazione lavoratrice sotto l'influenza della borghesia, che «vogliono» la collaborazione con la borghesia. Ma questi strati esisteranno sempre fino a quando il regime borghese sarà il regime dominante; se il Partito «proletario» ubbidisse a «questa volontà», in realtà ubbidirebbe alla volontà della borghesia, cioè sarebbe un partito borghese, non un partito proletario. Il Partito proletario non può «accodarsi» alla massa, deve precedere la massa, pur tenendo conto oggettivamente dell'esistenza di questi strati arretrati.

Il Partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina, la dottrina del socialismo, e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo, pur tenendosi sul terreno reale di ciò che esiste, ma che esistemovendosi e sviluppandosi. Il nostro Partito attua la volontà di quella parte piú avanzata della massa che lotta per il socialismo e sa di non potere avere alleata la borghesia in questa lotta che è appunto lotta contro la borghesia. Questa «volontà», in quanto coincide con lo sviluppo generale della società borghese e con le esigenze vitali di tutta la massa lavoratrice, è progressiva, si diffonde, conquista sempre nuovi strati di lavoratori, disgrega gli altri partiti operai — operai per la loro composizione sociale, non per il loro indirizzo politico.

Naturalmente l'Avanti! nega ogni giorno che questo fatto avvenga, stampa ogni giorno che il Partito comunista è abbandonato dalle masse, ricorre nientemeno che alla testimonianza di Hoeglund per dire che il nostro Partito è una cosa insignificante, ecc. Ma, non meno naturalmente, l'Avanti! non riesce mai a spiegare come avvenga che, abbandonato dalle masse, il nostro Partito sia il partito relativamente piú forte della Confederazione generale del lavoro, non riesce a spiegare come a Torino, a Trieste, a Bari, a Taranto e in una serie di altre città noi siamo il partito piú forte anche in modo assoluto, non riesce a spiegare come mai gli operai di Torino, che il nostro Partito avrebbe condotto al macello ed alla catastrofe, colgano ogni occasione per affermarsi fedeli alle nostre direttive. La questione se noi rappresentiamo la volontà delle masse piú avanzate e se questa volontà attraverso la lotta si diffonda e diventi la volontà della maggioranza dei lavoratori, si decide e può decidersi solo praticamente; gli avvenimenti di questo ultimo periodo hanno dimostrato ch'essa si decide favorevolmente al nostro Partito, nonostante gli esorcismi dell'Avanti! e di tutta la stampa dell'Aventino.

Da cinque anni il Partito massimalista è fuori di ogni organizzazione internazionale; questo fatto non è rimasto e non poteva rimanere senza risultati. Il carattere internazionalistico è essenziale di un partito operaio; non può venire meno senza portare ineluttabilmente a una completa degenerazione ideologica e pratica nei dirigenti e nelle file del Partito. Per l'Avanti! infatti è chiaro che il Comitato centrale di un partito deve rappresentare solo la massa del Partito nazionale, deve anzi «ubbidire alla volontà» di questa massa. Per noi tutto ciò è mostruosamente falso. Il CC del nostro Partito, non solo rappresenta e guida la massa del Partito italiano, ma rappresenta anche il programma e la tattica del Partito quali sono venuti definendosi attraverso cinque congressi dell'Internazionale. Del resto: come e perché si è costituito il nostro Partito? Esso si è staccato dal Partito socialista proprio sulla questione del riconoscimento della autorità dell'Internazionale: al Congresso di Livorno noi volevamo l'applicazione dei 21 punti, la lotta contro il riformismo, una politica agraria diversa da quella tradizionale, un nuovo indirizzo sindacale, nuovi metodi organizzativi, ecc. ecc. La massa ha aderito all'Internazionale e quindi ha costituito un partito in quanto ha accettato un programma ben determinato. Il partito si è sviluppato, in quanto era ed è una sezione dell'Internazionale. È certo che un tale processo non si è verificato meccanicamente, secondo uno schema matematico per cui uno è sempre uguale a uno; si è trattato di un processo politico, al quale gli uomini hanno partecipato con tutte le loro passioni e sentimenti individuali, con tutte le virtú e i difetti che sono propri di questo basso mondo. Ma è certo che se molti elementi sono venuti alla Internazionale e al Partito anche perché avevano aderito al programma comune singole persone piú o meno conosciute come Bombacci, Misiano, Repossi, Bordiga, Gramsci, Gennari, Marabini, ecc. ecc., essi sono venuti essenzialmente per il programma comune e non per le differenziazioni di individui e di gruppi. Ed ecco il dovere del CC di illuminare sempre piú le masse del Partito sulla portata reale del programma comune, sul suo valore, sul suo significato. Ed ecco perché nel nostro Partito la discussione verte e deve vertere normalmente su questioni concrete, non sui primi princípi; sull'applicazione pratica dell'indirizzo generale, non sull'indirizzo stesso.

Secondo i criteri dell'Avanti!, ogni partito dovrebbe ogni giorno ripetere le discussioni fondamentali: — siamo fascisti o no? siamo riformisti, massimalisti, liberali, popolari, democratici o no? Il porre cosí la questione da parte dell'Avanti! è caratteristico e sintomatico della situazione interna del Partito massimalista. Poiché questo Partito non appartiene ad una organizzazione internazionale, ma si basa solo su elementi della vita nazionale, e poiché la sua direzione non ha direttive, — i soci del Partito che si trovano a dover stare a gomito con i diversi Di Cesarò, Amendola, Anile, Giolitti, Salandra, Orlando, hanno finito col perdere ogni coscienza della loro individualità politica e sono costretti ogni giorno a porsi questa domanda: siamo ancora massimalisti o siamo fascisti come Di Cesarò e Salandra, o siamo popolari come Anile e De Gasperi, o siamo democratici come Amendola?

Nel nostro Partito non si verifica niente di tutto ciò. La maggioranza del Partito cosí com'era al momento dell'assassinio di Giacomo Matteotti, cioè la maggioranza della vecchia guardia, si era organizzata politicamente al Congresso di Livorno intorno al programma della Internazionale, per la lotta contro tutti i partiti borghesi compresi i partiti operai che fanno la politica della borghesia. L'altra massa di soci, numericamente superiore alla vecchia guardia, è entrata nel Partito dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti sulla base del programma generale dell'Internazionale cosí come era applicato ed è applicato dal nostro Comitato centrale: — lotta su due fronti, contro il fascismo e contro le opposizioni aventiniane (due fronti per modo di dire, perché si tratta dello stesso fronte borghese), per l'azione autonoma del proletariato rivoluzionario, per organizzare la lotta dei poveri contro i ricchi intorno al proletariato rivoluzionario che solo può schiacciare la reazione instaurando un nuovo Stato, instaurando la sua dittatura.

Le discussioni che avvengono nell'interno del nostro Partito non possono riguardare le basi fondamentali su cui la organizzazione comunista è nata e si è sviluppata. Tuttavia può avvenire che si formi una corrente che pretenda di fare un'opera di revisione anche in questo campo. Certo, può avvenire. Viviamo in un mondo dove si verificano i fatti piú curiosi e strani. Specialmente quando la situazione diviene obbiettivamente difficile, si verifica che singoli individui e anche interi gruppi perdano la testa e credano, e credano anche in buona fede, di aver trovato lo specifico buono per l'occasione e credano di poter risolvere la questione costituendo un tribunale che giudichi le colpe di alcuni individui, al fatidico grido di «dagli all'untore»! Ciò si è già verificato alla fine del '20 e agli inizi del '21; l'ondata rivoluzionaria del dopoguerra, dopo avere raggiunto il suo culmine nella marcia nell'esercito rosso verso Varsavia e nell'occupazione delle fabbriche in Italia, fu spezzata dalla reazione. Una serie di Partiti socialisti che erano entrati a «bandiere spiegate» nell'Internazionale comunista quando la situazione era favorevole, ammainarono la bandiera quando la situazione divenne oscura. Naturalmente giustificarono il loro ripiegamento dal fronte rivoluzionario con le prepotenze del knut moscovita, con l'autoritarismo di Zinovief, con l'incomprensione dei russi nelle faccende europee, ecc. ecc. Dal 1921 ad oggi la rivoluzione non si è ancora verificata, quantunque su scala mondiale essa abbia fatto passi giganteschi, come dimostrano, per esempio, gli attuali avvenimenti della Cina. Altri elementi rivoluzionari si sono venuti demoralizzando per questo rallentato ritmo della rivoluzione e si sente nuovamente la vecchia musica delle responsabilità personali di Zinovief, con questo di mutato: nel 1920-1921 Zinovief voleva fare la rivoluzione ad ogni costo senza badare alle «situazioni speciali» dei vari paesi; nel 1925 Zinovief non permette all'Europa di fare la rivoluzione. La «volontà delle masse» non era in gioco nel 1920 e non lo è nel 1925. L'avanguardia proletaria rimase con l'Internazionale comunista nel 1920 e continuerà a rimanere con l'Internazionale nel 1925, nonostante che nel 1925 l'Avanti! possa registrare come ribellantisi al «knut moscovita» alcuni dei capi che nel 1921 questo knut maneggiavano contro l'Avanti!.

Sono queste cose che possono capitare e che capitano. Ciò che non deve avere per conseguenza che il CC le lasci dilagare e non lotti invece energicamente per eliminarle.

La situazione interna del nostro Partito

ed i compiti del prossimo congresso32

Nella sua ultima riunione, l'Esecutivo allargato della IC, non aveva da risolvere nessuna quistione di principio o di tattica sorta fra l'insieme del Partito italiano e l'Internazionale. Un tal fatto si verificava per la prima volta nella successione delle riunioni dell'IC. Perciò i compagni piú autorevoli dell'Esecutivo dell'IC avrebbero preferito che non si parlasse neppure di una Commissione italiana: dato che non esisteva una crisi generale del Partito italiano, non esisteva neppure una «quistione italiana». In realtà occorre subito dire che il nostro Partito, pur avendo già prima del V Congresso, ma specialmente dopo, modificato i suoi atteggiamenti tattici per accostarsi alla linea leninista dell'IC non ha tuttavia subíto nessuna crisi nelle file dei suoi soci e di fronte alle masse: tutt'altro. Avendo saputo porre i suoi nuovi atteggiamenti tattici in relazione alla situazione generale del paese creatasi dopo le elezioni del 6 aprile e specialmente dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, il Partito è riuscito ad ingrandirsi come organizzazione e a estendere in modo notevolissimo la sua influenza tra le masse operaie e contadine. Il nostro Partito è uno dei pochi, se non forse il solo partito dell'Internazionale, che può affermare un successo simile in una situazione cosí difficile come quella che si è venuta creando in tutti i paesi, specialmente europei, in rapporto alla relativa stabilizzazione del capitalismo ed al relativo rafforzarsi dei governi borghesi e della socialdemocrazia che del sistema borghese è diventata una parte sempre piú essenziale. Occorre dire, almeno tra parentesi, che è appunto per il costituirsi di una tale situazione ed in rapporto alle conseguenze che essa ha avuto non solo in mezzo alle grandi masse lavoratrici, ma anche nel seno dei Partiti comunisti, che si deve affrontare il problema della bolscevizzazione.

La fase attuale dei partiti dell'Internazionale

Le crisi attraversate da tutti i partiti dell'IC dal 1921 ad oggi, cioè dall'inizio del periodo caratterizzato da un rallentamento del ritmo rivoluzionario, hanno mostrato come la composizione generale dei partiti non fosse molto solida ideologicamente. I partiti stessi oscillavano con spostamenti spesso fortissimi dalla destra all'estrema sinistra con ripercussioni gravissime su tutta l'organizzazione e con crisi generali nei collegamenti tra i partiti e le masse. La fase attuale attraversata dai partiti dell'Internazionale è caratterizzata invece dal fatto che ognuno di essi si è andato formando attraverso l'esperienze politiche di questi ultimi anni, e si è consolidato un nucleo fondamentale il quale determina una stabilizzazione leninistica della composizione ideologica dei partiti e assicura che essi non saranno piú attraversati da crisi e da oscillazioni troppo profonde e troppo larghe. Ponendo cosí il problema generale della bolscevizzazione sia nel dominio della organizzazione che in quello della formazione ideologica, l'Esecutivo allargato ha affermato che le nostre forze internazionali sono giunte al punto risolutivo della crisi. In questo senso, l'Esecutivo allargato è un punto di arrivo, e la constatazione dei grandissimi progressi compiuti nel consolidamento delle basi organizzative e ideologiche dei partiti, è un punto di partenza in quanto tali progressi devono essere coordinati, sistematizzati, devono cioè diventare coscienza diffusa e operante di tutta la massa.

Per alcuni aspetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro Partito. In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il Partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia, la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo. Nell'Europa occidentale invece si venne sempre piú costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale e organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre piú accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre piú intensificandosi la influenza della borghesia sul proletariato. Per la stessa ragione nei partiti politici l'attività si spostò sempre piú verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione dell'Internazionale comunista ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri Partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente dei sindacati. Si è venuta cosí a determinare una situazione generale che appunto pone anche i Partiti comunisti dell'Europa occidentale nelle stesse condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra. Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario nella organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione generale del lavoro. La massa vuole lottare e vuole organizzarsi ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro. I riformisti si oppongono alla organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D'Aragona nel recente congresso confederale in cui affermò che non piú di un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tiene conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini e che in Italia ci sono almeno 15 milioni di lavoratori organizzabili, appare che la Confederazione vuole, per programma, organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento dei lavoratori italiani mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il 100 per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche — per ragioni di politica generale, cioè perché il Partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese, che la Confederazione, nel suo complesso, abbia una influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo l'organizzazione dei contadini, che i partiti democratici coi quali intende collaborare mantengano la loro base sociale. Essa allora manovra nel campo specialmente delle Commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati. Essa cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori di quelli della tendenza riformista, presentassero liste di candidati per le Commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nella organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine, votassero per disciplina le liste della minoranza riformista. Se questo programma organizzativo riformista fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all'assorbimento del nostro Partito da parte del Partito riformista e nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare.

Il compito delle «cellule»

D'altronde come possiamo lottare contro l'applicazione e la realizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via di uscita che l'organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra. Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. È evidente allora che le nostre cellule devono lavorare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al Partito le masse, spingendole a rafforzare le Commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono Commissioni interne e dove esse non assolvono i loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali, ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico. È certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto piú difficile di quella in cui si trovarono i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista, ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché piú difficile la situazione, piú forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del Partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa occidentale. Opporsi alla organizzazione del Partito per cellula significa ancora essere legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia.

Il mancato intervento di Bordiga a Mosca

Su tutti questi argomenti non esiste oggi alcun dissenso tra l'insieme del nostro Partito e l'Internazionale e perciò essi non potevano avere nessun riflesso sui lavori della Commissione italiana la quale si occupò solamente del problema della bolscevizzazione dal punto di vista ideologico e politico con speciale riguardo alla situazione creata nel nostro Partito. Il compagno Bordiga era stato insistentemente invitato a partecipare ai lavori dell'Esecutivo allargato. Sarebbe stato questo suo preciso dovere, in quanto egli aveva accettato al V Congresso di far parte dell'Esecutivo dell'IC. Tanto piú doveroso era per il compagno Bordiga partecipare ai lavori in quanto egli, in un suo articolo (la cui pubblicazione tuttavia era stata da lui stesso subordinata alla approvazione dell'Esecutivo dell'Internazionale) aveva assunto nella questione Trotski un atteggiamento radicalmente contrario non solo a quello dell'Esecutivo dell'Internazionale, ma contrario anche a quello praticamente assunto dallo stesso compagno Trotski. È assurdo e deplorevole da ogni punto di vista che il compagno Bordiga non abbia voluto partecipare personalmente alla discussione della quistione Trotski, non abbia voluto prendere visione direttamente di tutto il materiale al riguardo, non abbia voluto porre le sue opinioni e le sue informazioni al paragone di un dibattito internazionale. Non è certamente con questi atteggiamenti che si può dimostrare di avere le qualità e le doti necessarie per impostare una lotta che dovrebbe praticamente avere come risultato un cambiamento non solo di indirizzo ma anche di persone nella direzione dell'Internazionale comunista.

I cinque punti di Lenin

per un buon Partito bolscevico

La Commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente con il compagno Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il Partito deve seguire per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro Partito la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del nostro Partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del Partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione rivoluzionaria e cioè:

1) ogni comunista deve essere marxista (noi oggi diremo: ogni comunista deve essere marxista-leninista);

2) ogni comunista deve essere in prima linea, nelle lotte proletarie;

3) ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un rivoluzionario, ma anche un politico realista;

4) ogni comunista deve sentire di essere sempre subordinato alla volontà del suo Partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo Partito — cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola può avere;

5) ogni comunista deve essere internazionalista;

se esaminiamo la situazione generale del nostro Partito alla stregua di questi cinque punti, osserviamo che, se si può affermare per il nostro Partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro.

Manca nel nostro Partito una profonda conoscenza della dottrina del marxismo e quindi anche del leninismo. Sappiamo che ciò è legato alle tradizioni del movimento socialista italiano, nel seno del quale mancò ogni discussione teorica che interessasse profondamente le masse e contribuisse alla loro formazione ideologica. È anche vero però che il nostro Partito non contribuí fino ad oggi a distruggere questo stato di cose e che anzi il compagno Bordiga, confondendo la tendenza riformista a sostituire una generica attività culturale all'azione politica rivoluzionaria delle masse con l'attività interna del Partito diretta ad elevare il livello di tutti i suoi membri fino alla completa consapevolezza dei fini immediati e lontani dal movimento rivoluzionario, contribuí a mantenerlo.

Il fenomeno dell'«estremismo»

Il nostro Partito ha abbastanza sviluppato il senso della disciplina, cioè ogni socio riconosce la sua subordinazione al complesso del Partito, ma non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rapporti con l'IC, cioè per ciò che riguarda la coscienza di appartenere a un Partito mondiale. In questo senso solamente bisogna dire che lo spirito internazionalista non è molto praticato, non certo nel senso generale della solidarietà internazionale. Era questa una situazione esistente nel Partito socialista e che si riflette a nostro danno al Congresso di Livorno. Continuò a sussistere in parte sotto altre forme per la tendenza suscitata dal compagno Bordiga a ritenere speciale titolo di nobiltà il dirsi seguaci di una cosiddetta «sinistra italiana». In questo campo il compagno Bordiga ha ricreato una situazione simile a quella creata dal compagno Serrati dopo il II Congresso e che portò alla esclusione dei massimalisti dalla IC. Egli cioè crea una specie di patriottismo di partito che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione mondiale. Ma la debolezza massima del nostro Partito è quella caratterizzata dal compagno Lenin nel punto terzo: l'amore per le pose rivoluzionarie e per le superficiali frasi scarlatte è il tratto piú rilevante non del Bordiga stesso, ma degli elementi che dicono di seguirlo. Naturalmente il fenomeno dell'estremismo bordighiano non è campato in aria. Esso ha una duplice giustificazione. Da una parte è legato alla situazione generale della lotta di classe nel nostro paese, e cioè al fatto che la classe operaia è la minoranza della popolazione lavoratrice e che essa è agglomerata prevalentemente in una sola zona del paese. In una tale situazione, il Partito della classe operaia può essere corrotto dalle infiltrazioni delle classi piccolo-borghesi, che pur avendo interessi contrari come massa agli interessi del capitalismo, non vogliono però condurre la lotta fino alle sue estreme conseguenze. Dall'altro ha contribuito a consolidare l'ideologia di Bordiga la situazione in cui venne a trovarsi il Partito socialista fino a Livorno e che Lenin caratterizzò cosí nel suo libro L'estremismo come malattia infantile del comunismo: «In un partito dove c'è un Turati e c'è un Serrati che non lotta contro Turati, è naturale che ci sia un Bordiga». Non è però naturale che il compagno Bordiga si sia cristallizzato nella sua ideologia anche quando Turati non era piú nel Partito, non vi era lo stesso Serrati e Bordiga in persona conduceva la lotta contro l'uno e contro l'altro. Evidentemente, l'elemento della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo Partito potessero rimanere immuni da infiltrazioni di ideologie piccolo-borghesi senza l'applicazione di una tattica politica estremamente settaria, che rendeva impossibile l'applicazione e la realizzazione dei due princípi politici che caratterizzano il bolscevismo: l'alleanza tra operai e contadini e l'egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario anticapitalista. La linea da adottare per combattere queste debolezze del nostro Partito, è quella della lotta per la bolscevizzazione. La campagna da farsi deve essere prevalentemente ideologica. Essa però deve diventare politica per ciò che riguarda la estrema sinistra, cioè la tendenza rappresentata dal compagno Bordiga che dal frazionismo latente passerà necessariamente all'aperto frazionismo e nel congresso cercherà di mutare l'indirizzo politico della Internazionale.

La quistione delle tendenze

Esistono nel nostro Partito altre tendenze? Qual è il loro carattere e quale pericolo possono rappresentare? Se esaminiamo da questo punto di vista la situazione interna del nostro Partito, dobbiamo riconoscere che esso non solo non ha raggiunto il grado di maturità politica rivoluzionaria che riassumiamo nella parola «bolscevizzazione», ma che non ha raggiunto neanche la completa unificazione delle varie parti che confluirono alla sua composizione. A ciò ha contribuito l'assenza di ogni largo dibattito che purtroppo ha caratterizzato il Partito fin dalla sua fondazione. Se teniamo conto degli elementi che al Congresso di Livorno si schierarono per l'Internazionale comunista possiamo constatare che delle tre correnti che costituirono il PC: 1) gli astensionisti della frazione Bordiga; 2) gli elementi raggruppatisi intorno all'Ordine Nuovo ed all'Avanti! di Torino; 3) gli elementi di massa che seguivano il gruppo che chiameremo Gennari-Marabini, cioè i seguaci delle figure piú caratteristiche dello strato dirigente del Partito socialista venute con noi — solamente due, cioè quella astensionista e quella Ordine Nuovo - Avanti! torinese, avevano prima del Congresso di Livorno svolto un certo lavoro politico autonomo, avevano nel loro seno dibattuto i problemi essenziali dell'Internazionale comunista e avevano quindi acquistato una certa capacità di esperienza politica comunista. Ma queste correnti, se riuscirono ad avere il sopravvento nella direzione del nuovo Partito comunista, non ne costituivano la maggioranza di base. Inoltre, di queste due correnti una sola, astensionista, fin dal 1919 cioè da due anni avanti Livorno, aveva avuto una organizzazione nazionale, aveva formato tra i suoi aderenti una certa esperienza organizzativa di partito, ma nel periodo preparatorio si era esclusivamente occupata di quistioni interne di partito, della specifica lotta delle frazioni senza aver nel suo complesso attraversato esperienze politiche di massa altro che nella quistione puramente parlamentare.

La corrente costituitasi intorno all'Ordine Nuovo ed all'Avanti! piemontese, non aveva suscitato né una frazione nazionale, neppure una vera e propria frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: cioè se diede ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizione di inferiorità nell'organizzazione generale del Partito. Se si eccettua il Piemonte, la grande maggioranza del nostro Partito venne a costituirsi dagli elementi rimasti a Livorno con l'IC, perché con l'IC erano rimasti tutta una serie di compagni del vecchio strato dirigente del Partito socialista, come Gennari-Marabini, Bombacci, Misiano, Salvadori, Graziadei, ecc.: su questa massa, che per le concezioni non si differenziava in nulla dai massimalisti, si innestarono i gruppi astensionisti locali dandole la forma dell'organizzazione del nuovo PC. Se non si tenesse conto di questa reale formazione del nostro Partito, non si comprenderebbero né le crisi che esso ha attraversato e neanche la situazione attuale. Per le necessità di lotta senza quartiere che s'imposero al nostro Partito fin dalla sua origine, la quale coincise con lo sferrarsi piú furioso della reazione fascista e per cui si può dire che ogni nostra organizzazione fu battezzata dal sangue dei nostri migliori compagni, — l'esperienza dell'Internazionale comunista, cioè non solo del Partito russo ma anche degli altri Partiti fratelli, non giunsero fino a noi e non furono assimilate dalla massa del Partito altro che saltuariamente ed episodicamente. In realtà il nostro Partito si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a sviluppare la sua ideologia arruffata e caotica sulla sola base delle nostre immediate esperienze nazionali; si creò in Italia una nuova forma di massimalismo. Questa situazione generale è stata aggravata l'anno scorso all'ingresso nelle nostre file della frazione terzainternazionalista. Le debolezze che ci erano caratteristiche esistevano in una forma ancor piú grave e pericolosa in questa frazione la quale da due anni e mezzo viveva in forma autonoma nel seno del Partito massimalista, creando cosí vincoli interni fra i suoi aderenti che dovevano prolungarsi anche dopo la fusione. Inoltre anche la frazione terzainternazionalista, per due anni e mezzo, fu assorbita completamente dalla lotta interna con la direzione del Partito massimalista, lotta che fu prevalentemente di carattere personale e settario e solo episodicamente trattò le quistioni fondamentali sia politiche che organizzative.

La bolscevizzazione

È evidente dunque che la bolscevizzazione del Partito nel campo ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo nell'esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell'atteggiamento personale del compagno Bordiga. Essa deve investire la situazione generale del Partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello tecnico e politico di tutti i nostri compagni. È certo, per esempio, che esiste anche una quistione Graziadei, cioè che noi dobbiamo basarci sulle sue recenti pubblicazioni per migliorare l'educazione marxista dei nostri compagni combattendo le deviazioni cosiddette scientifiche in esse sostenute. Nessuno però può pensare che il compagno Graziadei rappresenti un pericolo politico, cioè che sulla base delle sue concezioni revisionistiche del marxismo possa nascere una vasta corrente e quindi una frazione che metta in pericolo l'unità organizzativa del Partito. D'altronde non bisogna neppure dimenticare che il revisionismo di Graziadei porta ad un appoggio alle correnti di destra che, sia pure allo stato latente, esistono nel nostro Partito. L'entrata in esso della frazione terzinternazionalista, cioè di un elemento politico che non ha perduto molti dei suoi caratteri e che come si è già detto, meccanicamente tende a prolungare oltre la sua esistenza di frazione nel seno del Partito massimalista i vincoli creatisi nel Partito precedente, può indubbiamente dare a questa potenziale corrente di destra una certa base organizzativa, ponendo dei problemi che non devono assolutamente essere trascurati. Tuttavia non è possibile che nascano forti divergenze su questa sorta di apprezzamenti; le quistioni alle quali abbiamo accennato e che nascono dalla composizione originaria del nostro Partito, pongono prevalentemente dei problemi ideologici fortemente legati a due necessità: 1) alla necessità che la vecchia guardia del Partito assorba la massa dei nuovi iscritti venuti al Partito dopo il fatto Matteotti e che hanno triplicato gli effettivi del Partito; 2) alla necessità di creare dei quadri organizzativi di Partito che siano in grado non solo di risolvere i problemi quotidiani della vita del Partito, sia come organizzazione propria, sia nei suoi collegamenti con i sindacati e con le altre organizzazioni di massa; ma che siano anche in grado di risolvere i piú complessi problemi legati alla preparazione della conquista del potere ed all'esercizio del potere conquistato.

Il pericolo di destra

Si può dire che potenzialmente esista nel nostro Partito un pericolo di destra. Esso è legato alla situazione generale del paese. Le opposizioni costituzionali, quantunque storicamente siano scadute dalla loro funzione fin da quando hanno rigettato la nostra proposta di creare l'Antiparlamento continuano tuttavia a sussistere politicamente accanto ad un fascismo consolidato. Poiché le perdite subite dalla opposizione, se hanno rafforzato il nostro Partito, non l'hanno però rafforzato nella stessa misura in cui si è consolidato il fascismo, che ha nelle mani tutto l'apparato statale, è evidente che nel nostro Partito, di fronte ad una tendenza di estrema sinistra, che crede giunto ad ogni istante il momento di passare all'attacco frontale del regime che non può disgregarsi per le manovre dell'opposizione, potrà nascere, se non esiste già, una tendenza di destra, i cui elementi demoralizzati dall'apparente strapotere del Partito dominante, disperando che il proletariato possa rapidamente rovesciare il regime nel suo complesso, incominceranno a pensare che sia per essere migliore tattica quella che porti, se non addirittura ad un blocco borghese-proletario per l'eliminazione costituzionale del fascismo, per lo meno ad una tattica di passività reale, di non-intervento attivo del nostro Partito, la quale permetta alla borghesia di servirsi del proletariato come di una massa di manovra elettorale contro il fascismo. Di tutte queste possibilità e probabilità, il Partito deve tener conto affinché la sua giusta linea rivoluzionaria non subisca deviazioni.

Il Partito, se deve considerare il pericolo di destra come una possibilità da combattersi con la propaganda ideologica e con mezzi disciplinari ordinari ogni volta che ciò si dimostra necessario, deve invece considerare il pericolo di estrema sinistra come una realtà immediata, come un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del Partito, come un pericolo che deve essere combattuto non solo con la propaganda ma anche con l'azione politica, perché immediatamente porta alla disgregazione dell'unità anche formale della nostra organizzazione, perché tende a creare un partito nel Partito, una disciplina contro la disciplina del Partito. Vuol dire questo che noi si voglia giungere ad una rottura con il compagno Bordiga e con quelli che si dicono suoi amici? Vuol dire che noi vogliamo modificare la base fondamentale del Partito quale si era costituita al Congresso di Livorno ed era stata conservata al Congresso di Roma? Certamente e assolutamente, no. Ma la base fondamentale del Partito non era un fatto puramente meccanico: essa si era costituita sulla accettazione incondizionata dei princípi e della disciplina dell'IC. Non siamo noi che abbiamo posto in discussione questi princípi e questa disciplina; non sarebbe quindi da ricercare in noi la volontà di modificare la base fondamentale del Partito. Occorre inoltre dire che per il 90 per cento se non piú dei suoi membri, il Partito ignora le questioni che sono sorte tra la nostra organizzazione e l'Internazionale comunista. Se, specialmente dopo il Congresso di Roma, il Partito nel suo complesso fosse stato messo in grado di conoscere la situazione dei nostri rapporti internazionali, esso probabilmente non sarebbe ora nelle condizioni di confusione in cui si trova. In ogni caso teniamo ad affermare con molta energia, perché sia sventato il triste gioco di alcuni elementi irresponsabili che pare trovino la loro felicità politica nell'inasprire le piaghe della nostra organizzazione, che noi riteniamo possibile venire ad un accordo con il compagno Bordiga e pensiamo che tale sia anche l'opinione del compagno Bordiga stesso.

L'impostazione della discussione

È secondo questo indirizzo generale che noi riteniamo debba essere impostata la discussione per il nostro congresso. Nel periodo che abbiamo attraversato dalle ultime elezioni parlamentari, il Partito ha condotto un'azione politica reale che è stata condivisa dalla grande maggioranza dei nostri compagni. Sulla base di questa azione, il Partito ha triplicato il numero dei suoi soci, ha sviluppato in modo notevole la sua influenza nel proletariato tanto che si può dire essere il nostro Partito il piú forte tra i partiti che hanno una base nella Confederazione generale del lavoro.

Si è riusciti in questo periodo a porre concretamente il problema fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell'alleanza tra operai e contadini. Il nostro Partito, in una parola, è diventato un fattore essenziale della situazione italiana. Su questo terreno dell'azione politica reale si è creata una certa omogeneità tra i nostri compagni. Questo elemento deve continuare a svilupparsi nella discussione del Congresso e deve essere una delle determinanti essenziali della bolscevizzazione. Ciò significa che il congresso non deve essere concepito solo come un momento della nostra politica generale, del processo attraverso il quale noi ci leghiamo alle masse e suscitiamo nuove forze per la rivoluzione. Il nucleo principale dell'attività del congresso deve essere perciò visto nelle discussioni che si faranno per stabilire quale fase della vita italiana ed internazionale noi attraversiamo, cioè quali sono i rapporti attuali delle forze sociali italiane, quali sono le forze motrici della situazione, quale fase della lotta delle classi è l'attuale. Da questo esame nascono due problemi fondamentali: 1) come noi possiamo sviluppare il nostro Partito in modo che esso diventi una unità capace di condurre il proletariato alla lotta, capace di vincere e di vincere permanentemente. È questo il problema della bolscevizzazione; 2) quale azione reale politica il nostro Partito debba continuare a svolgere per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal proletariato (rivoluzionario) nella situazione data per rovesciare il regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello Stato operaio rivoluzionario in un secondo tempo. Cioè, noi dobbiamo esaminare quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quali loro soluzioni favorisce e determina l'alleanza rivoluzionaria del proletariato con i contadini e realizza l'egemonia del proletariato. Il congresso dovrà almeno preparare lo schema generale del nostro programma di governo. È questa una fase essenziale della nostra vita di Partito.

Perfezionare lo strumento necessario per la rivoluzione proletaria in Italia: ecco il compito maggiore del nostro congresso; ecco il lavoro al quale invitiamo tutti i compagni di buona volontà che antepongono gli interessi unitari della loro classe alle meschine e sterili lotte di frazioni.

L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale33

Nel suo articolo sulla natura del Partito comunista il compagno Bordiga scrive: «Al secondo Congresso, in cui vennero stabilite da Lenin le basi dell'Internazionale, pur essendo già in possesso dell'esperienza delle cellule in Russia, non si accennò nemmeno a tale criterio organizzativo, oggi presentato come indispensabile e fondamentale, in nessuno di quei classici documenti: statuto dell'Internazionale; 21 condizioni di ammissione in essa, tesi sul compito del partito, tesi sui compiti dell'Internazionale. Si tratta di una "scoperta" fatta molto dopo, e ci sarà agio di vedere come si collochi nel processo di sviluppo dell'Internazionale».

L'affermazione del compagno Bordiga non è esatta. Nelle tesi sui compiti fondamentali dell'Internazionale comunista, e precisamente nel II capitolo «In che cosa debba consistere la preparazione immediata e generale della dittatura del proletariato», Lenin aveva scritto: «La dittatura del proletariato è la realizzazione piú completa della direzione di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati — che sono stati soggiogati, calpestati, oppressi, terrorizzati, dispersi, ingannati dalla classe capitalistica — per parte dell'unica classe che per una tale missione dirigente sia stata preparata da tutta la storia del capitalismo. Perciò bisogna iniziare dappertutto ed immediatamente la preparazione della dittatura del proletariato, procedendo nel modo seguente: — In tutte le organizzazioni, federazioni, associazioni senza eccezione, in primo luogo in quelle proletarie poi in quelle non proletarie della massa lavoratrice e sfruttata (politiche, sindacali, militari, cooperative, culturali, sportive, ecc.), si debbono creare gruppi o cellule di comunisti, in prima linea apertamente, ma anche clandestine; le quali ultime sono obbligatorie ogni qualvolta ci si debba aspettare dalla borghesia lo scioglimento, l'arresto o l'esilio dei loro soci. Queste cellule strettamente collegate fra di loro e collegate alla Direzione centrale, debbono scambiarsi le loro esperienze, fare il lavoro di agitazione, propaganda ed organizzazione, adattarsi assolutamente a tutti i campi della vita pubblica, a tutti gli aspetti e gruppi della massa lavoratrice; e con questo molteplice lavoro debbono educare sistematicamente se stessi, il Partito, la classe, le masse».

Nelle 21 condizioni di ammissione, al paragrafo 9, si dice: «Qualunque Partito desideri appartenere all'Internazionale comunista deve sistematicamente e tenacemente spiegare un'attività comunista entro i sindacati, nei Consigli operai, nei Consigli d'azienda, nelle cooperative di consumo e in tutte l'organizzazioni operaie. Entro queste organizzazioni è necessario organizzare cellule comuniste, che, con un lavoro persistente e tenace, guadagnino alla causa del comunismo i sindacati, ecc.

«Queste cellule sono obbligate, nel loro lavoro quotidiano, a smascherare dappertutto il tradimento dei socialpatriotti e le oscillazioni dei centristi. Le cellule comuniste devono essere completamente subordinate al Partito.»

Nelle Tesi sui compiti del Partito comunista nella Rivoluzione proletaria al paragrafo 18 si dice: «Base di tutta l'attività organizzatrice del Partito comunista deve essere dappertutto la creazione di una cellula comunista; e ciò, anche se talora sia molto piccolo il numero dei proletari e semi proletari. In ogni Soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa di consumo, in ogni azienda, in ogni Consiglio di inquilini, dovunque si trovino foss'anche tre soli uomini, che si adoperano per il comunismo, si deve immediatamente fondare una cellula comunista. Solo la compattezza dei comunisti dà all'avanguardia della classe operaia la possibilità di condurre dietro a sé l'intera classe operaia. Tutte le cellule del Partito comunista, che lavorano nelle organizzazioni non aventi partito, sono assolutamente subordinate alla organizzazione del Partito e ciò tanto se in quel momento il Partito lavora legalmente quanto illegalmente. Le cellule comuniste di ogni specie debbono essere subordinate l'una all'altra sulla base del piú rigoroso regolamento gerarchico, secondo un sistema il piú possibile preciso».

Il secondo Congresso pose il problema dell'organizzazione dei Partiti comunisti per cellule. L'impostazione non fu chiara per i partiti europei. Si confuse l'organizzazione delle cellule, base del Partito, con l'organizzazione delle frazioni comuniste nei sindacati, nelle cooperative, ecc.; in realtà, le due forme organizzative non si distinguono bene tra loro nelle enunciazioni riportate, quantunque la distinzione sia fatta chiaramente nella parte riassuntiva delle tesi sui compiti del partito. Al punto IV del riassunto si dice: «Dovunque esista foss'anco una dozzina di proletari o semi proletari, il PC deve avere una cellula organizzata». Al punto V: «In ogni istituzione non di partito, deve esserci una cellula del Partito comunista rigorosamente sottoposta al Partito». È evidente che in questi due punti si vuole fare la distinzione tra la cellula, base organizzativa del Partito e la frazione, organismo di lavoro e di lotta del Partito nelle associazioni di massa.

Che sia cosí risulta: — Dalle tesi scritte da Lenin nel 1915 per l'ala sinistra di Zimmerwald, cioè per il nucleo rivoluzionario che fonderà nel 1919 l'Internazionale comunista. E risulta dal discorso tenuto da Lenin al III Congresso sul comma speciale dedicato all'organizzazione ed alla struttura dei Partiti comunisti. Lenin si pone la questione: — Perché solo il Partito comunista russo è organizzato per cellule? Perché non sono state messe in esecuzione le disposizioni del II Congresso che indicavano nel sistema delle cellule il sistema proprio dei Partiti comunisti? E Lenin risponde a queste domande affermando che la responsabilità di ciò è dei compagni russi e sua propria, in quanto nelle tesi del II Congresso si è parlato un linguaggio troppo russo e poco «europeo», cioè si è fatto riferimento all'esperienze russe senza renderle attuali, senza spiegarle, supponendo che esse fossero conosciute e comprese. Le tesi del III Congresso sulla struttura del Partito comunista, scritte o direttamente da Lenin o sottoposte al suo controllo, sono dunque non una «scoperta», come dice il compagno Bordiga, ma la traduzione in linguaggio comprensibile agli «europei», delle enunciazioni rapide e per accenni contenute nelle tesi del II Congresso.

Ma perché il compagno Bordiga vuole fare questa distinzione nella storia dell'Internazionale tra il II Congresso ed i successivi tre congressi? Nell'articolo sulla «questione Trotzki» il compagno Bordiga sostiene che la storia dell'Internazionale si divide in due parti: fino alla morte di Lenin, dopo la morte di Lenin. Nell'articolo sulla natura del Partito invece la seconda fase incomincia già dal III Congresso, cioè da un periodo in cui Lenin era vivo ed era nel massimo della sua efficienza intellettuale e politica. Dal corso della discussione apparirà chiaro questo punto che è fondamentale per la discussione del Partito: apparirà che per il compagno Bordiga il movimento rivoluzionario italiano si trova nuovamente in una fase simile a quella che intercorse tra il II Congresso e Livorno, in una fase cioè in cui si debbono organizzare frazioni perché ci possiamo trovare (anzi ci troviamo) dinanzi a un problema di scissione. Come spiegare altrimenti gli accenni che il compagno Bordiga ha fatto, nei punti della sinistra e nell'articolo sulla natura del Partito, al gruppo dell'Ordine Nuovo, accenni malevoli, pieni di astio e di rancore, non rivolti a cancellare le differenziazioni ma invece ad inasprirle e a farle apparire incolmabili? Il compagno Bordiga, tra l'altro, ha però dimenticato una «piccola» cosa: che anche ponendo il II Congresso come pietra di paragone per comprendere la situazione attuale del nostro Partito, non è certo il gruppo dell'Ordine Nuovo che può venire diminuito nella funzione che ha sempre svolto per la preparazione del movimento comunista italiano. Al II Congresso il compagno Lenin dichiarò di far sue le tesi presentate dal gruppo dell'Ordine Nuovo al Consiglio nazionale del Partito socialista dell'aprile del 1920 e volle che nelle deliberazioni del congresso risultasse: 1) che le tesi dell'Ordine Nuovo corrispondevano a tutti i princípi fondamentali della III Internazionale; 2) che al congresso del Partito socialista dovevano essere prese in esame le tesi dell'Ordine Nuovo. Nessun «estremista» vorrà negare che tra il giudizio del compagno Lenin e il giudizio del compagno Bordiga, il giudizio del compagno Lenin sia ritenuto da noi piú importante e dettato da uno spirito marxista un po' piú approfondito e sicuro di quello del compagno Bordiga.

L'organizzazione base del Partito34

Nel mio precedente articolo sulle cellule al quale si riferisce il compagno Mangano, ho voluto non dimostrare, ma solamente ricordare una cosa molto semplice, che dovrebbe essere sempre presente alla memoria di ogni compagno che voglia partecipare con serietà alla discussione del congresso, che abbia l'intenzione cioè di giovare alla educazione del Partito e non quella di confondere le idee. Ho voluto ricordare che il tipo di organizzazione per cellule è strettamente legato alla dottrina del leninismo, e che, nel campo internazionale, il compagno Lenin indicò questo tipo di organizzazione fin dall'epoca della sinistra zimmerwaldiana.

Una delle caratteristiche piú spiccate del leninismo è la sua formidabile coerenza e consequenzialità: il leninismo è un sistema unitario di pensiero e di azione pratica, in cui tutto si tiene e si dimostra reciprocamente; dalla concezione generale del mondo fino ai piú minuti problemi di organizzazione. Il nucleo fondamentale del leninismo nell'azione pratica è la dittatura del proletariato, ed alla questione della preparazione e della organizzazione della dittatura proletaria sono collegati tutti i princípi di tattica e di organizzazione del leninismo. Se fosse stato vero ciò che il compagno Bordiga ha affermato, che cioè l'organizzazione delle cellule come base del Partito sia stata una «scoperta» del III Congresso — sarebbe dimostrata una gravissima incoerenza del leninismo e dell'Internazionale, e sarebbe veramente necessario domandarsi se nel III Congresso non si sia verificata una deviazione verso destra, verso la socialdemocrazia, cioè uno spostamento dal terreno dell'azione rivoluzionaria verso un terreno di semplice attività organizzativa estranea alla preparazione della dittatura proletaria.

Questo infatti è l'assunto polemico dei compagni estremisti: — «dimostrare» che l'organizzazione del Partito sulla base delle cellule, non è parte essenziale del leninismo con l'affermazione che la organizzazione per cellule è una «scoperta» posteriore al II Congresso — per giungere a dimostrare che l'indirizzo della Internazionale è stato mutato dal III Congresso in quanto sono stati assegnati ai Partiti comunisti, dal III Congresso in poi, compiti essenzialmente organizzativi e non d'azione. Cosí si spiegherebbe, secondo gli estremisti, come diversi partiti, quando si è presentato un momento propizio per l'azione, abbiano fallito al loro compito storico (realizzare l'insurrezione armata e la conquista del potere): essi erano stati distratti da compiti secondari di organizzazione interna o di organizzazione delle grandi masse (questione delle cellule, tattica del fronte unico e del governo operaio, lotta per la unità proletaria, ecc. ecc.).

Nel mio precedente articolo, al quale il compagno Mangano si riferisce, ho «dimostrato» come uno degli elementi su cui dovrebbe basarsi l'assunto polemico degli estremisti sia insussistente: non sarà difficile dimostrare come siano altrettanto inconsistenti gli altri.

La quistione delle cellule è certamente anche un problema tecnico di organizzazione generale del Partito, ma prima di tutto, essa è una quistione politica. La quistione delle cellule è la quistione della direzione delle masse, cioè della preparazione della dittatura proletaria, è la migliore soluzione tecnica organizzativa della quistione fondamentale della nostra epoca.

Gli argomenti pro e contro le cellule portati finora in discussione (se sia piú sicura la strada o la fabbrica, se agli intellettuali come classe sia piú facile, con le cellule o con l'assemblea territoriale, far deviare il proletariato od inquinare la sua ideologia) sono argomenti secondari, osservazioni di dettaglio, che influiscono in modo subordinato nell'accoglimento della forma organizzativa per cellule invece che della forma per assemblee territoriali.

L'argomento fondamentale è quello della direzione delle masse, che da me stesso è stato cosí esposto dinanzi al nostro Comitato centrale (cfr. l'Unità del 3 luglio) senza che gli estremisti abbiano neppure cercato di ribattere una sillaba:

«Per alcuni rispetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro Partito. In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il Partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia; la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali, come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo. Nell'Europa occidentale invece si venne sempre piú costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale ed organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre piú accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre piú intensificandosi la influenza della borghesia sul proletariato. Per la stessa ragione, nei partiti politici la attività si spostò sempre piú verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione della Internazionale comunista, ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri Partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente dei sindacati. Si è venuta cosí a determinare una situazione generale che appunto pone anche i Partiti comunisti dell'Europa occidentale nelle stesse condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra. Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario nella organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione generale del lavoro. La massa vuole lottare e vuole organizzarsi ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro. I riformisti si oppongono alla organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D'Aragona nel recente congresso confederale in cui affermò che non piú d'un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tien conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini e che in Italia ci sono almeno 15 milioni di lavoratori organizzabili, appare che la Confederazione vuole per programma organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento dei lavoratori italiani mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il 100 per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche — per ragioni di politica generale, cioè perché il Partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese, che la Confederazione, nel suo complesso, abbia una influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo la organizzazione dei contadini, che i partiti democratici coi quali intende collaborare mantengano la loro base sociale. Essa allora manovra nel campo specialmente delle Commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati.

«Essa cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori di quelli della tendenza riformista, presentino liste di candidati per le Commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nella organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine, votino per disciplina le liste della minoranza riformista. Se questo programma organizzativo riformista fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all'assorbimento del nostro Partito da parte del Partito riformista e nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare.

«D'altronde come possiamo noi lottare contro l'applicazione e la realizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via d'uscita che la organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra. Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. È evidente allora che le nostre cellule devono lavorare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al Partito le masse, spingendole a rafforzare le Commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono Commissioni interne o dove esse non assolvono i loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico. È certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto piú difficile di quella in cui si trovarono i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché piú difficile la situazione, piú forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del Partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa occidentale. Opporsi alla organizzazione del Partito per cellula, significa solo essere ancora legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia».

Posta cosí la questione come dev'essere posta, gli argomenti che subordinatamente possono essere portati contro l'organizzazione per cellula perdono una gran parte del loro significato. Nessuna forma organizzativa può essere assolutamente perfetta: l'importante è fissare quale tipo di organizzazione corrisponde meglio alle condizioni e alle necessità della lotta proletaria, non di andare alla ricerca della forma perfettissima.

Il compagno Mangano trova che l'aver ricordato il discorso del compagno Lenin al III Congresso sulla «potente ignoranza» dei Partiti comunisti «europei» sulla struttura dei loro stessi Partiti sia stata una... trovata. La questione è molto piú complessa di quanto il comp. Mangano non sospetti e non possa sospettare, dato la sua ferma volontà di mantenersi nella stessa «potente ignoranza» e di disprezzare come «centrista» e «opportunista» ogni insegnamento della esperienza proletaria degli altri paesi e della stessa Italia.

Io ricordo un «piccolo» episodio del 1920. Nel giugno 1920 si riuní a Genova la Conferenza nazionale della FIOM per fissare il piano di battaglia della agitazione metallurgica che nel settembre successivo portò all'occupazione delle fabbriche. Noi miserabili «ordinovisti», «centristi» «opportunisti», ecc. ecc., che abbiamo avuto sempre la miserabile abitudine di occuparci del reale svolgimento degli avvenimenti operai, informati che nella Confederazione di Genova era stato delineato il piano di lotta dell'occupazione delle fabbriche, ponemmo alla direzione del Partito socialista attraverso il compagno Terracini, la quistione dell'intervento del Partito nell'agitazione metallurgica e proponemmo di creare le cellule come base organizzativa del Partito stesso nelle fabbriche. La proposta fu respinta dopo un discorso dell'allora estremista Baratono il quale trovò che la creazione delle cellule avrebbe significato la denunzia del patto di alleanza in quando il Partito con le cellule avrebbe soppiantato i sindacati (cioè i riformisti) nella direzione delle masse. Battuti dinanzi alla direzione, uno degli «ordino visti» e precisamente il sottoscritto, si recò, per incarico della sezione socialista torinese, alla Conferenza nazionale della frazione astensionista che si tenne a Firenze nel luglio, per proporre la formazione di una frazione comunista sulla base dei princípi generali organizzativi e politici dell'Internazionale comunista (cellule, Consiglio di fabbrica). Anche qui la proposta fu respinta, perché si riteneva che per dirigere la massa fossero inutili le «pure forme organizzative», mentre erano sufficienti le affermazioni di astensionismo parlamentare. Cosí la classe operaia arrivò all'occupazione delle fabbriche senza direzione politica rivoluzionaria, e i riformisti poterono cosí dirigere le masse verso la rinunzia alla lotta.

L'episodio italiano, come l'esperienza «europea» dopo il secondo Congresso, dimostra come fosse difficile ai vecchi Partiti socialisti comprendere concretamente cosa sia la dittatura del proletariato, come non basti affermarsi per la dittatura e credere di lavorare per essa, per essere tali e lavorare in tal senso.

Secondo il compagno Mangano, l'aver tardato a comprendere dovrebbe aver per conseguenza non di affrettarsi a recuperare il tempo perduto, ma di rinunziare a comprendere e ad operare.

Opportunismo e fronte unico35

Sentiamo spesso ripetere da massimalisti e anche da riformisti alle nostre proposte di fronte unico: «Noi aderiremmo purché i comunisti rinunciassero a volerci liquidare», «il fronte unico è una manovra per liquidarci», ecc. Simili dichiarazioni non sono che manifestazioni di infingardaggine mentale e d'autolesionismo politico.

Su che cosa si basano le proposte di fronte unico avanzate dal PC? La classe operaia è divisa, perché sopra una parte di essa operano in misura piú o meno vasta le tendenze pacifiste piccolo-borghesi, democratiche, riformiste: lo stesso massimalismo non è altro che riformismo pratico. La costituzione dell'avanguardia rivoluzionaria in Partito è la garanzia della salvaguardia di una parte della classe dalle illusioni socialdemocratiche e dalla corruzione politica del capitale, ed è il centro di schieramento e di unificazione progressiva di tutta la classe.

Come potrà la classe operaia nel suo complesso e gli strati di essa diversamente orientati dal punto di vista politico ritrovare in una giusta via la sua unità di lotta? Attraverso le lotte parziali e il fronte unico. Il Partito comunista, frazione della classe operaia, si rivolge alle altre frazioni e propone un'azione comune in vista del raggiungimento di obiettivi, raggiungimento desiderabile dalle piú grandi masse e possibile nel momento dato.

Il Partito comunista non pretende di «imporre» il suo punto di vista alla classe operaia; esso, semplicemente, lo «propone» e chiama le altre frazioni operaie, che si richiamano alla lotta di classe, a pronunciarsi sopra di esso e a discuterlo in comune. Una volta stabilito il programma di azione, il Partito comunista impegna la propria disciplina all'azione e nello stesso tempo rivendica la propria libertà di prospettare alla classe operaia in lotta i mezzi che a suo avviso sono necessari per far fronte alle necessità derivanti dallo sviluppo stesso dell'azione. È evidente che tale libertà corrisponde essa stessa alla disciplina morale dell'azione, al rafforzamento di tutta la classe, al raggiungimento degli obiettivi e alla preparazione delle nuove lotte che la situazione obiettiva e l'interesse del proletariato richiedono.

È ridicolo che dei partiti i quali assicurano di avere la storia con loro e di essere indistruttibili, abbiano timore di essere liquidati perché cosí «vogliono» i comunisti. Un metodo di lotta e per conseguenza il partito che se ne fa banditore non sono liquidati o valorizzati perché cosí vogliono delle persone o dei gruppi, ma sono rispettivamente valorizzati o liquidati al vaglio della realtà, di fronte alle esigenze imposte dall'azione.

Ripetiamo che la piattaforma del fronte unico è «proposta» dal PC e che il programma effettivo non può essere che discusso, definito e accettato in comune. Per conseguenza, il PC offrendosi per primo di passare al vaglio della realtà, dimostra alla luce del sole di non essere né di voler essere una sètta, ma di porsi non a parole, ma a fatti, sul terreno degli interessi dei lavoratori.

Quelli che dimostrano di essere una sètta e di preferire il proprio sterile «patriottismo di partito» agli interessi della classe intiera, sono precisamente coloro che respingono le proposte del PC. In un vero partito di classe «l'interesse di partito» non può in nessun caso entrare in conflitto con gli interessi di classe; quando tale antitesi esiste, vuol dire che quel partito ha cessato di essere partito di classe.

I socialdemocratici di ogni tinta non possono ormai piú salvarsi di fronte alle masse col sostenere che le nostre proposte sono state da essi respinte perché irrealizzabili: le proposte di lista unica al tempo delle elezioni politiche, dello sciopero generale e dell'azione antifascista di classe al tempo del delitto Matteotti, le proposte dell'Antiparlamento e dell'assemblea repubblicana, non sono state realizzate solo per deliberata mala volontà di coloro ai quali erano dirette. L'esperienza successiva ha dimostrato alle masse che esse erano tempestive, giuste e realizzabili, e che solo il PC ha visto giusto nella situazione e si è comportato da vero partito della classe operaia.

I massimalisti hanno sabotato e liquidato l'intesa delle «sinistre sindacali» per passare all'intesa di destra con i riformisti e per paura del fascismo. Ora l'esperienza dimostra a tutti gli operai i quali hanno onesto sentimento classista che se l'intesa delle «sinistre sindacali» fosse continuata, essa si sarebbe certamente sviluppata in estensione e in prestigio col risultato che oggi la Confederazione non sarebbe piú in mano ai riformisti o per lo meno la situazione confederale sarebbe ben diversa dalla presente, in quanto la classe operaia avrebbe combattuto importanti battaglie e la reazione ben difficilmente avrebbe potuto avere via libera.

Ma, senza alcun dubbio, la realtà liquida l'opportunismo di ogni colore. I massimalisti sono, soprattutto, in una condizione ben dura di fronte alle masse: o liquidare la propria inerzia classista e la propria attività socialdemocratica antisoviettista e filocapitalista e passare dalle parole antiriformiste ai fatti, ossia alla lotta effettiva, coerente e organizzata in alleanza con la corrente sindacale comunista contro la disastrosa e fallimentare dirigenza riformista nei sindacati, oppure liquidare completamente le ultime vestigia di rivoluzionarismo e di classismo, passare completamente dall'altra parte del fosso e raggiungere organicamente la socialdemocrazia. Noi crediamo che le masse operaie massimaliste non seguiranno troppo a lungo la politica dei loro capi.

Il significato e i risultati del III Congresso

del Partito comunista d'Italia36

Cinque anni di vita del Partito

Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro Partito, riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei lettori un esame e una informazione generale dei risultati del Congresso stesso.

Ci affrettiamo dunque ad annunciare che prossimamente sarà pubblicato sul nostro giornale il resoconto materiale del Congresso e saranno successivamente riunite in un volume le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo.

I risultati numerici dei voti al Congresso furono i seguenti:

— Assenti e non consultati: 18,9%;

— Dei presenti al Congresso: Voti per il CC 90,8%; per l'estrema sinistra 9,2%.

Il nostro Partito è nato nel gennaio 1921, cioè nel momento piú critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. La scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione, la organizzazione materiale del nuovo Partito trovava le condizioni piú difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbí le energie creatrici del Partito, in modo quasi completo. I problemi politici che si ponevano, per la decomposizione, da una parte, del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall'altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del Partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del Partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall'altra. Era naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell'interno del nostro Partito sentimenti e stati d'animo di carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente alla esistenza e allo sviluppo del Partito, non era visto nel senso di una attività per la quale il Partito dovesse tendere a conquistare le piú larghe masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza stessa del Partito.

La scissione di Livorno

Il fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e noi commettemmo, in altro senso sia pure, lo stesso errore che era stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato delle scissioni, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: «Separatevi da Turati, e poi fate l'alleanza con lui». Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adottata alla scissione, avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci, non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l'opportunismo tipico italiano del movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare un'alleanza contro la reazione. Per gli elementi dirigenti del nostro Partito, ogni azione della Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento. Si disse che, accettando una tale impostazione della lotta politica, si veniva ad ammettere che il nostro Partito era solamente una nebulosa indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro Partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della formazione storica del Partito del proletariato italiano. Questa opinione era rafforzata dalle non lontane esperienze della rivoluzione soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono alla disfatta.

La portata dell'esperienza ungherese

In realtà la impostazione data a questo problema dal nostro Partito era falsa e andò sempre piú manifestandosi come tale alle larghe masse del Partito. Proprio la esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che la linea seguita dalla Internazionale nella formazione del Partito comunista, non era quella che noi le attribuivamo. È noto infatti che il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni? Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e dalla Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale l'elemento comunista, cioè la parte piú avanzata e cosciente del proletariato, si pone, sia nella organizzazione di Partito della classe operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa di tutto ciò che di onesto e di attivo si è formato ed esiste nella classe. In Ungheria è stato un errore distruggere la organizzazione indipendente comunista nel momento della presa del potere per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito nella piú vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non poteva non riprendere predominio. Anche per l'Ungheria il compagno Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio Partito come una alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione si sarebbe arrivati piú tardi, quando il processo di predominio del raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala piú larga nel campo della organizzazione sindacale e dell'apparato statale, e ciò con la separazione organica e politica degli operai rivoluzionari dei capi opportunisti.

Per l'Italia il problema si poneva in termini ancora piú semplici che in Ungheria, perché, non solo il proletariato non aveva conquistato il potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del Partito, un grande movimento di ritirata. Porre in Italia la quistione della formazione del Partito, cosí com'era stato indicato dal compagno Lenin nella sua formula espressa a Serrati, significava — nell'arretramento del proletariato che si iniziava allora — dare la possibilità al nostro Partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato che avrebbero voluto resistere, ma che sotto la direzione massimalista erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella passività. Ciò significa che la tattica suggerita da Lenin e dalla Internazionale era l'unica capace di rafforzare e sviluppare i risultati della scissione di Livorno, e di fare veramente del nostro Partito, fin d'allora, non solo in astratto, e come affermazione storica, ma in forma effettiva, il Partito dirigente della classe operaia. Per questa falsa impostazione del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli e con la frazione di masse immediatamente piú vicine al Partito, ma non abbiamo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre posizioni il proletariato nel suo complesso, il quale tuttavia era ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato dai tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta alla avanzata avversaria.

Il Partito negli anni 1921-22

Un altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della situazione e dato che le forze del Partito erano assorbite dalla lotta immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di discussione alla base e quindi elemento dello sviluppo della capacità ideologica e politica del Partito.

Avvenne cosí che il I Congresso del Partito, quello tenuto a Livorno nel Teatro San Marco, subito dopo la scissione, si pose solo dei compiti di carattere organizzativo immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento generale del Partito. Il II Congresso avrebbe potuto e forse dovuto esaminare e impostare le suddette questioni, ma a ciò si opposero i seguenti elementi:

1) il fatto che, non solo la massa, ma anche una grande parte degli elementi piú responsabili e piú vicini alla direzione del Partito ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed essenziali, fra la linea seguita dal nostro Partito e quella sostenuta dalla Internazionale;

2) l'essere il Partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente organizzative. Era quindi naturale che sorgesse nel Partito uno stato di animo contrario a priori ad approfondire ogni quistione che potesse prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente costituitosi a Livorno;

3) il fatto che l'opposizione rivelatasi al Congresso di Roma e che diceva di essere la sola rappresentante delle direttive della Internazionale era, nella situazione data, un'espressione dello stato d'animo di stanchezza e di passività che esisteva in alcune zone del Partito.

La crisi subíta sia dalla classe dominante che dal proletariato nel periodo precedente l'avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il nostro Partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva avuto la possibilità di risolvere. In che cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia, fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il PS, di accettare o non accettare questa soluzione per liquidarlo politicamente sotto il cumulo della responsabilità di un mancato accordo antifascista. In questo stesso modo di porre la questione da parte dei democratici era implicita la preventiva capitolazione dinanzi al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nel periodo della crisi Matteotti. Tuttavia, tale impostazione se ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel PS, essendosi in base ad essa prodotta la scissione dei massimalisti dai riformisti, aggravava però la situazione del proletariato. Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè significare la cattura della maggioranza della classe operaia organizzata nell'ingranaggio dello Stato borghese anticipando la legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l'esperimento diretto fascista. D'altronde la scissione, come apparve piú chiaramente in seguito, solo meccanicamente aveva portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti, i quali, se affermavano di volere aderire alla IC e quindi di riconoscere l'errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante riserve e reticenze mentali da neutralizzare il risveglio rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse, portandole cosí a nuove disillusioni e a una ricaduta di passività, di cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma.

Il nuovo corso del Partito

Questa nuova situazione si rifletté al IV Congresso della IC dove si arrivò alla formazione del Comitato di fusione dopo incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata nella maggioranza dei delegati del nostro Partito che lo spostamento dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia nell'interno del nostro Partito un processo di differenziazione nel gruppo dirigente di Livorno, processo che prosegue incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire proprio di tutto il Partito, quando si avvertono e si sviluppano gli elementi della crisi del fascismo iniziatasi col Congresso di Torino del Partito popolare.

Appare sempre piú evidente che occorre far uscire il Partito dalle posizioni mantenute nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si sviluppi parallelamente alla crisi che subisce la classe dominante. La pregiudiziale che aveva avuto una cosí larga importanza nel passato, per la quale occorreva prima di tutto mantenere la unità organizzativa del Partito, veniva a cadere per il fatto che, nella situazione di conflitto tra il nostro Partito e l'Internazionale, si costituiva nelle nostre file uno stato di frazionismo latente che trovava la sua espressione in gruppi nettamente di destra, spesso con carattere liquidazionista. Tardare ancora a porre in tutta la loro ampiezza le quistioni fondamentali di tattica, sulle quali fino allora si era esitato ad aprire la discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del Partito, senza uscita.

Avvennero cosí nuovi raggruppamenti che andarono sempre piú sviluppandosi, fino alla vigilia del nostro III Congresso, quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla base del Partito (che non era stata mai apertamente interpellata) ma anche la grande maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema sinistra, per porsi completamente sul terreno dell'Internazionale e del leninismo.

L'importanza del III Congresso

Da ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi l'importanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere tutta un'epoca della vita del nostro Partito, ponendo termine alle crisi interne e determinando uno schieramento stabile di forze tale da permettere uno sviluppo normale della sua capacità di direzione politica delle masse da parte del Partito e quindi della sua capacità d'azione.

Ha il Congresso effettivamente risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del Congresso hanno dimostrato come, nonostante le difficoltà della situazione, il nostro Partito sia riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo, raggiungendo un livello di omogeneità, di compattezza e di stabilizzazione notevole e certamente superiore a quello di molte altre sezioni dell'Internazionale. L'intervento nelle discussioni di Congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni dove piú è difficile l'attività del Partito, ha dimostrato come gli elementi fondamentali del dibattito fra l'Internazionale e il CC da una parte e l'opposizione dall'altra, siano stati non solo meccanicamente assorbiti dal Partito, ma, avendo determinato una convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare in misura impreveduta anche dagli stessi compagni piú ottimisti, il tono della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capacità di direzione e di iniziativa politica.

Questo ci pare il significato piú rilevante del Congresso. È risultato che il nostro Partito non solo può dirsi di massa per l'influenza che esso esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente, che nel passato gli mancavano e che sono la base della sua capacità di direzione collettiva.

D'altronde, tutto lo svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare ideologicamente e praticamente il Congresso nelle regioni e nelle province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità ogni movimento dei nostri compagni, e il fatto che si sia riusciti per sette giorni a tenere riuniti oltre sessanta compagni per il Congresso del Partito, e quasi altrettanti per il Congresso giovanile, sono di per se stessi una prova dello sviluppo piú sopra accennato. È evidente per tutti che tutto questo movimento di compagni e di organizzazioni non è solamente un puro fatto organizzativo, ma costituisce di per sé un'altissima manifestazione di valore politico.

Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della preparazione congressuale dalle due alle tremila riunioni di base che hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali ed interprovinciali, ove furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al Congresso.

Valore politico e risultati acquisiti

Ogni operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall'epoca della occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha intensificato l'opera generale di controllo su ogni attività di massa e ha realizzato un'organizzazione di polizia che è grandemente superiore alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite.

Poiché la maggiore debolezza dell'organizzazione operaia tradizionale si manifestava essenzialmente nello squilibrio permanente, e che diventava catastrofico nei momenti culminanti dell'attività di massa, tra la potenzialità dei quadri organizzativi di Partito e la spinta spontanea dal basso, è evidente che il nostro Partito è riuscito, nonostante le condizioni estremamente sfavorevoli dell'attuale periodo, a superare in misura notevole questa debolezza e a predisporre forze organizzative coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli errori e le insufficienze che si verificavano nel passato. È questo un altro dei significati piú importanti del nostro Congresso; la classe operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per l'organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il programma proletario. E da questo punto di vista occorre analizzare tutta la attività del movimento fascista dal 1921 fino alle ultime leggi fascistissime; essa è stata sistematicamente rivolta a distruggere i quadri che il movimento proletario e rivoluzionario aveva faticosamente elaborato in quasi cinquant'anni di storia. In questo modo il fascismo riusciva nella praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una subordinazione inerte all'apparato statale, oppure, nei momenti di crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta in altre classi meno esposte alla repressione.

Il nostro Partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe, cioè per riconquistare la sua indipendenza ed autonomia politica. Il Congresso ha dimostrato come il nostro Partito sia riuscito brillantemente a risolvere questo compito essenziale.

Due erano gli obiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal Congresso:

1) Dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano verificati cosí come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare il Partito, sia nel terreno dei princípi e della pratica di organizzazione che nel terreno piú strettamente politico.

2) Il Congresso era chiamato a stabilire la linea politica del Partito per il prossimo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in tutti i campi di attività delle masse.

I problemi che si ponevano per raggiungere concreti obiettivi non sono naturalmente indipendenti l'uno dall'altro, ma sono coordinati nel quadro della concezione generale del leninismo. La discussione del Congresso perciò, anche quando si svolgeva intorno agli aspetti tecnici di ogni singola questione pratica, poneva la questione generale dell'accettazione o meno del leninismo. Il Congresso doveva quindi servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro Partito era diventato un Partito bolscevico.

Gli obiettivi fondamentali

Partendo da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della classe operaia nel nostro paese, il Congresso dette una soluzione a tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi cosí:

1) Rapporti fra il Comitato centrale del Partito e la massa del Partito. a) In questo gruppo di problemi entra la discussione generale sulla natura del Partito, sulla necessità che esso sia un partito di classe, non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi membri esprime le aspirazioni del proletariato, ma per cosí dire, fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggioranza dei suoi componenti è formata da proletari e in esso si riflettono e si riassumono solamente i bisogni e la ideologia di una sola classe: il proletariato. b) La subordinazione completa di tutte le energie del Partito in tal modo socialmente unificato alla direzione del CC.

La lealtà di tutti gli elementi del Partito verso il CC deve diventare non solo un fatto puramente organizzativo e disciplinato, ma un vero principio di etica rivoluzionaria. Occorre infondere nelle masse del Partito una convinzione cosí radicata di questa necessità che le iniziative frazionistiche e ogni tentativo in generale di disgregare la compagine del Partito debbano trovare alla base una reazione spontanea e immediata che lo soffochi sul nascere. L'autorità del CC, tra un congresso e l'altro, non deve mai essere posta in discussione e il Partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo a tale condizione il Partito sarà in grado di vincere i nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il Partito, riesca a condurre senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del Partito non ha la capacità e l'energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che possono incrinare la sua compattezza?

I due punti precedenti sarebbero di impossibile realizzazione se nel Partito, alla omogeneità sociale e alla compattezza monolitica dell'organizzazione non si aggiungesse la coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica.

Concretamente, la linea che il Partito deve seguire può essere espressa in questa formula: il nucleo dell'organizzazione di Partito consiste in un forte CC, strettamente collegato con la base proletaria del Partito stesso, sul terreno dell'ideologia e della tattica del marxismo-leninismo.

Su questa serie di problemi l'enorme maggioranza del Congresso si è nettamente pronunciata in senso favorevole alle tesi del CC ed ha respinto non solo senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della intransigenza teorica e della inflessibilità pratica, le concezioni dell'opposizione che potrebbero mantenere il Partito in uno stato di deliquescenza e di amorfismo politico e sociale.

2) Rapporti del Partito con la classe proletaria (cioè con la classe di cui il Partito è diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova società). In questo gruppo di problemi rientra l'apprezzamento della funzione del proletariato nella società italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da capitalista in socialista e quindi della possibilità per il proletariato di diventare classe indipendente e dominante.

Il Congresso ha perciò discusso:

a) la quistione sindacale, che per noi è essenzialmente quistione della organizzazione delle piú larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati, e come terreno di educazione politica rivoluzionaria;

b) la quistione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte piú avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso.

3) Rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini. Anche su tutta quest'altra serie di problemi la enorme maggioranza del Congresso respinse le concezioni errate dell'opposizione e si schierò in favore delle soluzioni date dal CC.

Come si sono schierate le forze del Congresso

Accennammo già all'atteggiamento che la stragrande maggioranza del Congresso ha assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel periodo attuale. È opportuno però analizzare piú dettagliatamente l'atteggiamento assunto dall'opposizione e accennare, sia pure brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al Congresso come atteggiamenti individuali, ma che potrebbero nell'avvenire coincidere con determinati momenti transitori nello sviluppo della situazione italiana, e che perciò devono essere fin da ora denunziati e combattuti. Abbiamo già accennato nei primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro Partito negli anni dal 1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale la crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la costituzione di un CC che nel suo complesso si poneva completamente sul terreno del leninismo e della tattica dell'IC, che si scomponeva in tre parti di cui una, che aveva la maggioranza piú uno nel Comitato stesso, rappresentava gli elementi di sinistra che si erano staccati dal vecchio gruppo di Livorno, dopo il IV Congresso; un'altra che rappresentava l'opposizione costituitasi al Congresso contro le tesi di Roma, e la terza che rappresentava gli elementi terzini, entrati nel Partito dopo la fusione. Nonostante le sue intrinseche debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli elementi di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il CC riuscí ad impostare e a risolvere energicamente il problema della bolscevizzazione del Partito e il suo accordo completo con le direttive dell'IC.

Atteggiamenti dell'estrema sinistra

Certamente vi furono delle resistenze e l'episodio culminante di esse, che tutti i compagni ricordano, fu la costituzione del Comitato d'intesa, cioè il tentativo di costituire una frazione organizzata che si contrapponesse al CC nella direzione del Partito. In realtà la costituzione del Comitato d'intesa fu il sintomo piú rilevante della disgregazione dell'estrema sinistra, la quale, poiché sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del Partito, cercò di galvanizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche forze che ancora le rimanevano. È notevole il fatto che, dopo la sconfitta ideologica e politica subíta dall'estrema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di essa piú resistente sia andato assumendo posizioni sempre piú settarie e di ostilità verso il Partito dal quale si sentiva ogni giorno piú lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi sul terreno della piú strenua opposizione su determinati punti concreti della ideologia e della politica del Partito e dell'Internazionale, ma cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in modo da presentarsi in blocco quasi come un partito nel Partito. È facile immaginare che, partendo da una tale posizione, si dovesse arrivare, durante lo svolgimento del Congresso, ad atteggiamenti teorici e pratici, nei quali la drammaticità che era un riflesso della situazione generale in cui il Partito deve muoversi, difficilmente era distinguibile da un certo istrionismo che appariva di maniera a chi realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe operaia.

In quest'ordine di avvenimenti dev'essere posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall'opposizione, subito alla apertura del Congresso, con la quale la validità deliberativa di esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precostituire un alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un possibile misconoscimento della autorità della nuova dirigenza del Partito. Alla massa dei congressisti, che conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse costata la preparazione del Congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e propria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi (il regolamento del Congresso proibiva, per ragioni comprensibili, ogni manifestazione clamorosa di consenso o di biasimo) furono rivolti allo oratore che stigmatizzava l'atteggiamento assunto dall'opposizione e sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo Comitato da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore contro qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l'autorità del Congresso e l'efficienza delle sue deliberazioni.

Affioramento di deviazioni di destra

Allo stesso ordine di avvenimenti e in modo aggravato per la forma manierata e teatrale, appartiene anche l'atteggiamento assunto dall'opposizione, prima della fine del Congresso, quando si stavano per trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del Congresso stesso. Ma gli stessi elementi dell'opposizione poterono avere la netta dimostrazione di quello che è lo stato d'animo diffuso nelle file del Partito; il Partito non intende permettere che si giochi piú a lungo al frazionismo e all'indisciplina; il Partito vuole realizzare il massimo di direzione collettiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque sia il suo valore personale, di contrapporsi al Partito.

Nelle sedute plenarie del Congresso l'opposizione di estrema sinistra è stata la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L'atteggiamento di opposizione sulla questione sindacale assunto da due membri del CC, per il suo carattere d'improvvisazione d'impulsività è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale di isterismo politico che di opposizione in senso sistematico. Durante i lavori della Commissione politica invece ci fu una manifestazione che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe essere presentata al Partito in una situazione determinata, e che perciò doveva essere, come fu, respinta senza esitazioni, dato specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro della vecchia Centrale. Questi elementi ideologici sono:

1) l'affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del Parlamento borghese;

2) l'affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come l'ala sinistra della borghesia, ma come l'ala destra del proletariato;

3) che nella valutazione dello Stato borghese occorre distinguere la funzione di pressione di una classe sull'altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a certe esigenze generali della società.

Il primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del III Congresso; il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato. Tutti e tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione della crisi della società borghese all'infuori della rivoluzione.

La linea politica fissata dal Partito

Poiché cosí si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè come una piú rigida opposizione dei residui dell'«estremismo» contro le posizioni teoriche e pratiche della maggioranza del Partito, accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal Congresso.

Questione ideologica

Su tale quistione il Congresso affermò la necessità che sia sviluppato dal Partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la conoscenza della nostra dottrina marxsta nelle file del Partito e sviluppi le capacità del piú largo strato dirigente. Su questo punto l'opposizione cercò di fare un'abile diversione: riesumò alcuni vecchi articoli o brani di articoli di compagni della maggioranza del Partito per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta dalle opere di Marx e di Engels, e sostenevano invece la interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa argomentazione della opposizione apparve come ispirata a pura demagogia congressuale. In ogni caso, poiché la quistione non è di individui singoli, ma di massa, la linea stabilita dal Congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazione per elevare il livello della cultura generale marxista del Partito, riduce la polemica dell'opposizione a una pura esercitazione erudita di ricerca di elementi piú o meno interessanti sullo sviluppo intellettuale di singoli compagni.

Tattica del Partito

Il Congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro gli attacchi dell'opposizione la tattica seguita dal Partito nell'ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi Matteotti. Occorre dire che l'opposizione non ha cercato di contrapporre all'analisi che della situazione italiana è stata fatta dalla Centrale nelle tesi per il Congresso né un'altra analisi che portasse a stabilire una linea tattica diversa, né delle correzioni parziali che giustificassero una posizione di principio. È stato caratteristico anzi della falsa posizione dell'estrema sinistra il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di forza e delle condizioni generali esistenti nella società italiana. Risultò cosí chiaramente come il metodo proprio dell'estrema sinistra e che l'estrema sinistra dice essere dialettico, non è il metodo della dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia pre-marxista e persino pre-hegeliana.

Alla analisi oggettiva delle forze in lotta e della direzione che esse assumono contradditoriamente in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società, la opposizione sostituiva la affermazione di essere in possesso di uno speciale e misterioso «fiuto» secondo il quale il Partito dovrebbe essere diretto. Strana aberrazione che autorizzava il Congresso a giudicare estremamente pericoloso e deleterio per il Partito un tale metodo che porterebbe solo a una politica di improvvisazioni e di avventure.

Che d'altronde la opposizione non abbia mai posseduto un proprio metodo capace di sviluppare le forze del Partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa essere contrapposto al metodo marxista e leninista, è dimostrato dall'attività svolta dal Partito negli anni 1921-1922, quando era politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori. A questo proposito furono dal Congresso analizzati due momenti della situazione italiana e cioè l'atteggiamento assunto dalla direzione del Partito nel febbraio 1921, quando fu sferrata l'offensiva frontale dal fascismo in Toscana e in Puglia e l'atteggiamento della stessa direzione verso il movimento degli Arditi del popolo. Dall'analisi di questi due momenti risultò come il metodo affermato dalla opposizione porti alla passività e alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli avvenimenti oramai svoltisi senza l'intervento del Partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e propagandistico.

La questione sindacale

Nel campo sindacale il difficile compito del Partito consiste nel trovare un giusto accordo fra queste due linee di attività pratica:

1) difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che tradizionalmente hanno partecipato all'organizzazione sindacale stessa. È questo un compito di eccezionale importanza, perché il Partito rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situazioni oggettive, tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi della storia passata nella massa proletaria. Per il nostro Partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l'organizzazione che storicamente esprime in modo piú organico queste accumulazioni di esperienze e di capacità e rappresenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa.

2) Tenendo conto del fatto che l'attuale dispersione delle grandi masse lavoratrici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di carattere non strettamente sindacale, il Partito deve proporsi di favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene trasportato dal terreno corporativo nel terreno industriale di fabbrica e i legami dell'organizzazione di massa diventano elettivi e rappresentativi, oltre che d'adesione individuale per via di tessera sindacale.

È chiaro, d'altronde, che questa tattica del Partito corrisponde allo sviluppo normale dell'organizzazione di massa proletaria, quale si era verificata durante e dopo la guerra, cioè nel periodo in cui il proletariato ha incominciato a porsi il problema di una lotta a fondo contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica, cioè dalle Commissioni interne. È noto anche che, specialmente durante la guerra, quando le Centrali sindacali aderirono ai Comitati di mobilitazione industriale e determinarono quindi una situazione di «pace industriale» per alcuni aspetti analoga a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia, Russia, Inghilterra e anche gli Stati Uniti) ritrovarono le vie della resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive operaie di fabbrica.

La tattica sindacale del Partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l'esperienza organizzativa delle grandi masse, premendo sulle possibilità di piú immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono create al movimento sindacale dal regime borghese da una parte e dal riformismo confederale dall'altra.

Questa linea è stata approvata integralmente dalla stragrande maggioranza del Congresso. Intorno ad essa tuttavia avvennero le discussioni piú appassionate e l'opposizione fu rappresentata, oltre che dalla estrema sinistra, anche da due membri della Centrale, cosí come abbiamo già accennato. Un oratore sostenne che il sindacato è storicamente superato, perché unica azione di massa del Partito deve essere quella che si svolge nelle fabbriche. Questa tesi, legata alle piú assurde posizioni dell'infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta dal Congresso.

Per un altro oratore invece l'unica attività del Partito in questo campo deve essere l'attività organizzativa sindacale tradizionale: questa tesi è legata strettamente a una concezione di destra cioè alla volontà di non urtare troppo gravemente con la burocrazia sindacale riformista che si oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa.

L'opposizione dell'estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali: la prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica, sostenuta dal CC e dalla maggioranza del Congresso, è legata alla concezione dell'Ordine Nuovo settimanale che, secondo l'estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista; l'altra è legata alla questione di principio in cui la estrema sinistra si contrappone nettamente al leninismo: il leninismo sostiene che il Partito guida la classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno dei compiti essenziali del Partito lo sviluppo dell'organizzazione di massa; per l'estrema sinistra invece questo problema non esiste e si dànno al Partito tali funzioni che possono portare da una parte alle peggiori catastrofi e dall'altra ai piú pericolosi avventurismi.

Il Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica sindacale comunista, pur ritenendo necessario insistere con particolare energia sulla necessità di una maggiore e piú attiva partecipazione dei comunisti al lavoro nell'organizzazione sindacale tradizionale.

La questione agraria

Il Partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico dell'organizzazione e dell'azione politica reale. È evidente che ciò era piú facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti piú avanzato che altrove, in conseguenza della situazione politica attuale. D'altronde, una tale questione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro Partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono nell'espressione: questione agraria.

La grande maggioranza del Congresso ha approvato l'impostazione che il Partito ha dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro secondo la linea generale già parzialmente applicata.

In che cosa consiste praticamente questa attività? Il Partito deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali della Associazione di difesa dei contadini: ma, entro questi quadri organizzativi piú larghi, occorre distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete.

Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi dell'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla questione nazionale. Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume sotto il titolo di «Partito dei contadini» e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo raggruppamento di carattere confessionale e di carattere piú strettamente economico, vale l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari piú efficienti in Italia. I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i piú considerevoli e quelli che domandano la maggiore attenzione del Partito, e cioè:

1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e settentrionale, i quali sono, piú o meno, direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dell'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano;

2) la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole.

Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il Congresso ha deciso che il Partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e che sono strettamente legate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel Centro e nel Nord d'Italia. Il Congresso ha affermato che l'atteggiamento assunto dal Partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico-religioso italiano, non deve in nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del Partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggiore rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l'autorità dell'organizzazione ufficiale religiosa.

La quistione dei contadini meridionali è stata esaminata dal Congresso con particolare attenzione. Il Congresso ha riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e deve portare alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Italia del Nord, l'elemento sociale piú rivoluzionario della società italiana.

Quale è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del Sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo; nel quadro della società nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all'Italia del Nord; che funziona come un'immensa città. Una tale situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una questione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale questione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali.

Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi.

In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che avevano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Cosí si sono avuti movimenti degli ex combattenti, e vari partiti cosiddetti di «rinnovamento» che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo della occupazione delle terre, piú spesso cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costituzione della «Unione nazionale».

Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno resa piú acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarli definitivamente all'influenza borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro Partito. Ma perché questo lavoro di organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro Partito si avvicini strettamente al contadino meridionale, che il nostro Partito distrugga nell'operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai piú grandiosi sviluppi dell'economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora piú pericoloso per cui egli vede nel Nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe.

Per ottenere questi risultati occorre che il nostro Partito svolga un'intensa opera di propaganda anche nell'interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei termini della questione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente da noi, renderà possibile alla borghesia sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel Sud per fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi della controrivoluzione.

Su tutta questa serie di problemi, la opposizione di estrema sinistra non riuscí a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistano in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della questione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del Congresso.

Altri problemi trattati

Per quanto riguarda la questione dell'organizzazione concreta del Partito nell'attuale periodo, il Congresso senza discussione ratificò le deliberazioni della recente Conferenza di organizzazione, già pubblicate nell'Unità.

Il Congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si proponeva, i quali riguardavano specialmente la organizzazione interna del Partito e il risanamento della crisi, non poté trattare ampiamente alcune questioni che pure sono essenziali per un partito proletario rivoluzionario. Cosí solo nelle tesi fu esaminata la situazione internazionale in rapporto alla linea politica dell'IC. Nella discussione del Congresso tale argomento fu solo sfiorato e dei problemi internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento della crisi interna del Partito. Il Congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori del recente Congresso del Partito russo e sul significato delle discussioni in esso svoltesi.

Cosí il Congresso non si occupò del problema dell'organizzazione nel campo femminile, né dell'organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il nostro movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale. Anche la questione della redazione del programma del Partito che era stata posta all'ordine del giorno non fu trattata dal Congresso. Pensiamo sia necessario rimediare a queste manchevolezze con Conferenze di Partito, appositamente convocate a tale scopo.

Conclusione

Nonostante queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa di lavoro svolto dal Congresso sia stata veramente imponente. Il Congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica nell'attuale situazione.

Una condizione è specialmente necessaria perché le risoluzioni del Congresso, non solo siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre che il Partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di disgregazione, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel suo seno. Tutti i compagni del Partito sono chiamati a realizzare una tale condizione. Nessuno può mettere in dubbio che ciò sarà fatto con la piú grande delusione di tutti i nemici della classe operaia.

Il compagno G.M. Serrati e le generazioni del socialismo italiano37

La personalità politica del compagno Giacinto Menotti Serrati aveva assunto significato ed importanza nazionali negli ultimi dieci anni; ed è appunto nel quadro di questi dieci anni, caratterizzati dalla guerra mondiale e dal fascismo, che occorre esaminarla per apprezzarla giustamente.

Sono note le debolezze fondamentali del movimento rivoluzionario italiano tradizionale. La maggiore debolezza, quella per lo meno che è stata determinante nei momenti decisivi, ci pare possa essere identificata nel fatto che sempre è mancato in Italia un gruppo forte ed omogeneo di dirigenti rivoluzionari che avesse uno stretto contatto col nucleo proletario fondamentale del Partito socialista. In una tale situazione era impossibile qualsiasi accumulazione di esperienze politiche rivoluzionarie, era impossibile ogni direzione collettiva, era impossibile ogni deduzione rapida che permettesse di trarre tutte le conseguenze dalle congiunture favorevoli alla iniziativa rivoluzionaria. È evidente altresí che in una tale situazione, in cui l'organizzazione effettiva era in rapporto inverso col volume del Partito, l'ufficio del capo individuale fosse enorme e la responsabilità che veniva a gravare sulla persona, che a volta a volta si trovava alla testa del Partito, fosse schiacciante. Questa situazione spiega come sia avvenuto che la tendenza rivoluzionaria del movimento socialista italiano, a differenza di ciò che avvenne nei riguardi della tendenza riformista, abbia visto susseguirsi alla sua dirigenza una vera cinematografia di uomini, mentre i riformisti stavano fortemente raggruppati intorno a Filippo Turati.

Non solo; ma questa situazione spiega anche il fatto tristissimo che tutti, o quasi, i dirigenti della frazione rivoluzionaria, dopo un istante di grande splendore abbiano degenerato, abbiano rinnegato le loro precedenti posizioni o siano addirittura passati dall'altra parte della barricata. È questa certamente una delle ragioni della persistenza di una certa fortuna del riformismo fra le masse lavoratrici italiane: perché in esso la tradizione della tendenza è strettamente legata alla stessa persona, allo stesso gruppo di persone, è riuscito cioè a identificarsi permanentemente in un'organizzazione omogenea, composta sempre dalle stesse individualità.

Per esprimersi con un termine politico approssimativo, può dirsi che nel movimento socialista rivoluzionario italiano sia sempre esistita una situazione di bonapartismo in cui era possibile, a degli uomini piú o meno convinti, di conquistare il posto della piú alta dirigenza, con dei colpi di mano improvvisi, attraverso effimeri personali successi ottenuti in un congresso o nel corso di un'agitazione operaia. Non esisteva altra forma di selezione, appunto perché non esistevano aggruppamenti stabili strettamente collegati col proletariato urbano, cioè con la frazione piú rivoluzionaria della massa lavoratrice.

Giacinto Menotti Serrati spezzò questa tradizione, nel senso che con lui arrivava alla suprema carica del Partito un uomo le cui doti principali furono indubbiamente la forza del carattere e l'abnegazione; non poté spezzarla compiutamente perché non riuscí e neanche si propose di riuscire, a foggiare una nuova struttura che lo rendesse piú capace di azione e di iniziativa. Il fine che si proponeva Serrati nello svolgere la sua opera di direttore dell'Avanti! cioè di guida politica e ideologica delle classi lavoratrici italiane, fu quello di attraversare il periodo della guerra mantenendo il Partito unito sul terreno della negazione della guerra.

Questi due elementi, unità del Partito e negazione della guerra, per stare insieme domandavano una limitazione dell'attività rivoluzionaria del Partito stesso. Il programma del Partito non poteva essere che quello della intransigenza formale, della non collaborazione; esso non poteva spingersi alla formula di Lenin: «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», senza immediatamente porre il problema della scissione, il problema della creazione di un nuovo partito per lottare prima di tutto contro i compagni di ieri, contro gli amici e i fratelli di ieri. Ora, il tratto essenziale della personalità di Serrati, come uomo di partito, era dato invece dal sentimento dell'unità, dallo sforzo incessante di conservare questa unità che rappresentava decine e decine di anni di sacrifizi e di lotta, che significava persecuzioni insieme sopportate, anni di galera insieme scontati.

Si può dire da questo punto di vista che il compagno Serrati è stato il piú alto e nobile rappresentante delle vecchie generazioni del socialismo rivoluzionario italiano tradizionale; ch'egli ha espresso quanto di piú generoso e di piú disinteressato queste generazioni potevano esprimere.

Se non si tiene conto di ciò, non si può capire tutto il dramma che è stato vissuto nel dopoguerra da questa generazione e tutta l'importanza e l'altissimo valore storico che ha avuto l'adesione del compagno Serrati al Partito comunista.

È nel periodo della guerra che le masse popolari italiane hanno conosciuto e amato Serrati. Egli riscattava con la sua volontà rettilinea la funzione del capo rivoluzionario, che era stata degradata da uomini come Enrico Ferri, Arturo Labriola, Benito Mussolini, espressioni massime di quel bonapartismo di partito al quale abbiamo accennato. La popolarità di Serrati non si formò nelle facili arene dei grandiosi comizi dei tempi normali, quando era facile con le smaglianti orazioni, o con la bassa demagogia, sommuovere il sangue delle folle e farsi coreograficamente portare in trionfo, quando le grandi fame si costituivano in quindici giorni per diventare infamie nei quindici giorni successivi. Essa si formò lentamente, a mano a mano che fin nei piú profondi strati della vita popolare, nella trincea del Carso o nel villaggio siciliano, nonostante l'Avanti! fosse ridotto a pochissime decine di migliaia di copie, arrivava la notizia che un giornale diretto da un uomo che si chiamava Serrati non piegava né alle blandizie, né alle minacce della classe dominante e che esso testardamente e intrepidamente rispondeva «No» in nome dei lavoratori a chiunque volesse in un modo o nell'altro conquistare alla guerra la coscienza delle grandi folle.

È certo che Serrati fu allora amato come mai nessun capo di partito è stato amato nel nostro paese.

Nel dopoguerra, tutte le debolezze che erano insite nella vecchia struttura del movimento socialista italiano si rivelarono violentemente.

Innanzi ai problemi che allora si ponevano, il programma di conservare la unità del Partito fino alla rivoluzione cosí come era stata conservata attraverso l'incendio della guerra mondiale diventava una illusione funesta.

Il compagno Serrati credette che ciò fosse possibile e forse si sforzò di crederlo, di persuadersene perché egli era legato da milioni e milioni di fili al passato, alla tradizione, perché gli sembrava impossibile che non potesse ottenersi nel momento di sviluppo delle forze rivoluzionarie ciò che era stato ottenuto durante la guerra, quando tutto pareva sfasciarsi nel movimento operaio di tutto il mondo e non solamente in Italia.

Noi, forse, delle generazioni giovani, non abbiamo dato tutta la importanza dovuta al dramma che allora fu vissuto. Perciò abbiamo incrudelito, forse oltre misura, nell'aggressione a ciò che ci pareva inutile sentimentalismo e sterile amore per le vecchie formule e i vecchi simboli. Ma, in verità, la nostra generazione, appunto perché troppo giovane, appunto perché non aveva lottato per formare ciò che pure era una struttura organizzativa del Partito, e una tradizione, appunto perché non si era potuta appassionare per l'opera dei primi pionieri, appunto per tutto questo poteva percepire piú distintamente la insufficienza della vecchia generazione a svolgere i compiti resi necessari dall'approssimarsi della bufera reazionaria. Noi delle giovani generazioni rappresentavamo, in realtà, la nuova situazione nella quale anche la classe nemica, pur di conservare il potere e di schiacciare il proletariato, avrebbe distrutto le vecchie forme dello Stato create dalla giovane borghesia del Risorgimento: erano quelli, e sono rimasti, tempi di ferro e di fuoco, in cui solo rischia di avere ragione chi fa le ipotesi piú pessimistiche.

La grandezza del compagno Serrati e la prova, d'altronde non necessaria, di quanto la sua passione unitaria fosse profondamente sincera e dolorosa, è data dal fatto che egli, per rientrare nelle file dell'Internazionale comunista, determinò una nuova scissione e fu espulso dal Partito che pareva essere la sua creatura. La realtà fu che, con la venuta di Serrati nel nostro Partito, si chiudeva un intiero periodo della storia del movimento operaio in Italia. Le vecchie generazioni del socialismo rivoluzionario italiano, dopo aver esitato a lungo e dolorosamente, si decidevano. Per esse era chiaro oramai che le vecchie organizzazioni tradizionali erano diventate mera forma senza contenuto, che la tradizione non era là dove un'etichetta sembrava indicarlo, ma viveva solo nell'organizzazione del Partito comunista. Questo fu il significato della venuta del compagno Serrati nel nostro Partito. Essa rivelava e sanzionava un processo molecolare che si era svolto oscuramente nella massa dei lavoratori italiani dopo la scissione di Livorno, negli anni neri del 1921 e 1922, e per il quale tutto ciò che di sincero, di onesto, e di intrepido esisteva nel proletariato rivoluzionario si era incorporato nel nostro Partito, spostando radicalmente le posizioni dei partiti che si richiamano alla classe operaia.

Il compagno Serrati è morto nelle prime file del Partito comunista d'Italia, nelle prime file dell'Internazionale comunista. Ci pare che anche nella sua morte cosí tragica ci sia un simbolo e una testimonianza.

Essa ha rivelato in forma drammatica come l'atroce invisibile lotta che i militanti rivoluzionari debbono condurre quotidianamente per mantenere, nonostante tutto, integre le posizioni della classe operaia di fronte alla classe dominante, comporti il sacrifizio della propria vita.

Essa nello stesso tempo in cui porta le masse a onorare e salutare il compagno caduto per la causa comune, deve portare le masse a stringersi sempre piú attorno al Partito che del caduto conserverà la memoria e continuerà l'opera.

Un esame della situazione italiana38

L'esame che stiamo per fare si propone: a) di verificare la linea generale stabilita dal III Congresso del nostro Partito; b) accertare i mutamenti che si sono verificati nella situazione del paese per determinare i punti sui quali l'azione immediata del Partito deve essere intensificata, dato che il nostro esame ci porti a concludere che la prospettiva generale non è mutata radicalmente. Della situazione analizzeremo i tre elementi fondamentali:

1) L'elemento positivo rivoluzionario, la posizione, cioè, attualmente occupata dal nostro Partito, e i progressi realizzati dalla tattica del fronte unico.

L'esame di questo elemento della situazione deve servirci per accertare quale grado di autonomia e di indipendenza politica sia stata raggiunta dal proletariato italiano, e in quale misura la classe rivoluzionaria, guidata dal nostro Partito, si sia acquistata la fiducia di altre classi della popolazione lavoratrice; i contadini e la piccola borghesia urbana;

2) l'elemento politico rappresentato dal capitalismo che organizza il blocco governativo borghese-agrario-fascista.

L'esame di questo elemento si riferirà alla situazione economica generale del paese, ai rapporti nuovi che vanno formandosi tra il capitalismo dirigente e gli elementi di massa del blocco governativo, costituiti essenzialmente da determinati strati delle classi medie urbane; rapporti che per il passato si riflettevano nel campo parlamentare e che oggi — dato il monopolio fascista — si riflettono in seno al Partito dominante mediante lotte interne;

3) l'elemento politico rappresentato dalla tendenza a costituire un blocco democratico di sinistra avente il suo perno nel Partito repubblicano, in quanto la «pregiudiziale repubblicana» costituisce il terreno ideologico e pratico della nuova coalizione.

Il tratto piú caratteristico del III Congresso del nostro Partito consiste nel fatto che esso non si è limitato a porre genericamente il problema della necessità di realizzare la direzione del PC in seno alla classe operaia, e della classe operaia in seno alla popolazione lavoratrice italiana. Ma ha cercato di indicare praticamente gli elementi politici attraverso i quali questa direzione avrebbe potuto realizzarsi: ha cercato, cioè, d'individuare quei partiti e quelle associazioni attraverso le quali si esplica la influenza borghese o piccolo-borghese sulle classi lavoratrici e che sono passibili di un capovolgimento di valori classisti. E questa — secondo noi — è una delle maggiori conquiste che il nostro movimento abbia realizzato sul terreno del metodo di lavoro, terreno sul quale si verifica la capacità di direzione dell'avanguardia rivoluzionaria.

Positivamente, si può affermare che il nostro Partito è riuscito a conquistare una posizione netta di iniziativa politica in mezzo alle masse lavoratrici. In quest'ultimo scorcio di tempo tutti gli organi giornalistici dei partiti che controllano le masse popolari italiane sono stati riempiti da polemiche contro l'azione del nostro Partito. Tutti questi partiti sono sulla difensiva contro la nostra azione e in realtà essi sono indirettamente guidati da noi poiché almeno il sessanta per cento della loro attività è dedicata a respingere le nostre offensive o è determinata nel senso di dare alle loro masse una soddisfazione che le tolga dalla nostra influenza.

È evidente che nelle condizioni di oppressione e di controllo rappresentate dalla politica fascista i risultati della nostra tattica non possono essere misurabili statisticamente sulla scala delle grandi masse. Tuttavia è innegabile che quando determinati elementi di partiti democratici e socialdemocratici si spostano sia pure molecolarmente verso il terreno tattico preconizzato dai comunisti, questo spostamento non può essere casuale e di significato puramente individuale. Praticamente la questione può essere rappresentata cosí: — in ogni partito, ma specialmente nei partiti democratici e socialdemocratici nei quali l'apparato organizzativo è molto rilassato, esistono tre strati. Lo strato superiore molto ristretto, che di solito è costituito da parlamentari, e da intellettuali strettamente legati spesso alla classe dominante. Lo strato inferiore costituito di operai e contadini, di piccoli borghesi urbani, come massa di partito e come massa di popolazione influenzata dal partito. Uno strato intermedio che, nella situazione attuale, ha una importanza ancora superiore all'importanza che aveva nel periodo normale in quanto rappresenta spesso il solo strato attivo e politicamente vivace di questi partiti. È questo strato intermedio che mantiene il legame tra il superiore gruppo dirigente e le masse del partito e della popolazione influenzate dal partito. È sulla compattezza di questo strato medio che i gruppi dirigenti contano per una futura ripresa dei diversi partiti e per una ricostruzione di essi su una larga base. Ora è appunto su una notevole parte di questi strati medi dei diversi partiti a carattere popolare che si esercita la influenza del movimento per il fronte unico. È in questo strato medio che si verifica un fenomeno molecolare di disgregazione delle vecchie ideologie e dei vecchi programmi politici e si vedono gli inizi di una nuova formazione politica sul terreno del fronte unico. Vecchi operai riformisti o massimalisti che esercitano una larga influenza in certe fabbriche o in certi quartieri urbani, elementi contadini che nei villaggi o nei borghi di provincia rappresentano le personalità piú avanzate del mondo rurale, ai quali i contadini del villaggio o del borgo ricorrono sistematicamente per aver consigli e direttive pratiche; piccoli intellettuali di città che come esponenti del movimento cattolico di sinistra irraggiano nella provincia una influenza che non può e non deve essere misurata dalla loro modestia; ma deve essere misurata dal fatto che in provincia appaiono come una tendenza di quel partito che i contadini erano abituati a seguire. Ecco gli elementi sui quali il nostro Partito esercita una attrazione sempre crescente, i cui esponenti politici sono un indice sicuro di movimenti alla base spesso piú radicali ancora di quanto non appaia dagli spostamenti personali.

Un'attenzione particolare deve essere data alla funzione che nell'attività per il fronte unico è svolta dalla nostra gioventú. Occorre perciò tener presente che all'azione della gioventú deve essere consentita una maggiore elasticità che non sia consentita al Partito. È evidente che il Partito non può addivenire a fusioni con altri gruppi politici o ad accettazioni di nuovi membri sulla base del fronte unico che tende a creare l'unità d'azione della classe operaia e l'alleanza tra operai e contadini e non può essere la base di formazione del Partito. Per i giovani invece la questione si pone diversamente. Per la loro stessa natura i giovani rappresentano lo stadio elementare di formazione del Partito. Per entrare nella «gioventú» non si può domandare di essere già comunisti nel senso completo della parola ma solo di avere una volontà di lotta e di diventare comunisti. Perciò questo punto deve servire come riferimento generale per fissare meglio la tattica propria dei giovani. Un elemento del quale occorre tener molto conto perché ha un valore storico non indifferente è questo: se ha importanza il fatto che un massimalista, un riformista, un repubblicano, un popolare, un sardista, un democratico meridionale aderiscono al programma del fronte unico proletario e dell'alleanza fra i contadini e operai, molta maggior importanza ha il fatto che a tale programma aderisca un membro dell'Azione cattolica come tale. Infatti i partiti d'opposizione sia pure in forme inadeguate e vischiose tendono a creare e mantenere un distacco tra le masse popolari e il fascismo. L'Azione cattolica, invece, rappresenta oggi una parte integrante del fascismo, tende attraverso l'ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata in certo senso, nell'intenzione di una tendenza fortissima del Partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso Partito fascista nella funzione di partito di massa e di organismo di controllo politico sulla popolazione. Ogni nostro successo sia pure limitato nel campo dell'Azione cattolica significa per tanto che noi riusciamo a impedire lo svolgimento della politica fascista in un campo che sembrava precluso a qualsiasi iniziativa proletaria.

Concludendo su questo punto possiamo affermare che la linea politica del III Congresso è stata verificata come giusta e il bilancio della nostra azione per il fronte unico è largamente attivo.

La crisi economica generale è l'elemento fondamentale della crisi politica. Occorre esaminare gli elementi di questa crisi perché tra di essi alcuni sono inerenti alla situazione generale italiana e funzioneranno negativamente anche nel periodo di dittatura proletaria. Questi elementi principali possono essere cosí fissati: dei tre elementi che tradizionalmente costituiscono l'attivo della bilancia italiana, due, le rimesse degli emigrati e l'industria del forestiero sono crollati. Il terzo elemento, l'esportazione, subisce una crisi. Se ai due fattori negativi — rimesse degli emigrati e industria del forestiero — e al terzo fattore parzialmente negativo — esportazione — si aggiunge la necessità di forti importazioni granarie per il fallimento del raccolto, è evidente che le prospettive per i prossimi mesi si presentano come catastrofiche. È necessario tener conto di questi quattro elementi per comprendere l'impotenza del governo e della classe dirigente. Certo, se il governo niente o quasi niente può fare per aumentare le rimesse degli emigrati (tener conto dell'iniziativa prospettata dal signor Giuseppe Zuccoli, presunto successore di Volpi al dicastero delle Finanze) e per fare prosperare l'industria del forestiero, qualche cosa invece si può fare per aumentare l'esportazione. È possibile in questo senso una grande politica che se pure non rimargina la ferita per lo meno tenda a cicatrizzarla. Qualcuno pensa alla possibilità di una certa politica di lavoro basata sull'inflazionismo. Naturalmente non è da escludere in senso assoluto questa possibilità, ma: 1) se anche si verificasse i suoi risultati nel campo economico sarebbero relativamente minimi; 2) i suoi risultati sarebbero invece catastrofici nel campo politico. Occorre infatti tener presenti questi elementi:

1) L'esportazione rappresenta nella bilancia italiana solamente una parte dell'attività, al massimo i due terzi; 2) per pareggiare la bilancia non solo occorrerebbe condurre l'attuale base produttiva al suo massimo rendimento, ma occorrerebbe allargare la stessa base produttiva comprando all'estero nuovi macchinari, ciò che peggiorerebbe ancora la bilancia; 3) le materie prime per l'industria italiana sono importate dall'estero e devono essere pagate con moneta non svalutata. Un aumento della produzione su larga scala porterebbe alla necessità di avere una enorme massa di capitale circolante per l'acquisto delle materie prime; 4) occorre tener presente che il fascismo come fenomeno generale ha, in Italia, portato al minimo i salari e gli stipendi della classe lavoratrice. L'inflazione è comprensibile in un paese ad alti salari, come surrogato del fascismo, per abbassare il livello di vita delle classi lavoratrici e quindi ridare elasticità alla borghesia italiana. Non è comprensibile in Italia dove il tenore di vita della classe operaia sta rasentando già la fame.

Come può, dunque, risolvere la crisi la classe dominante? La politica economica del governo fascista è stata sin qui caratterizzata dalla mancanza di una linea decisa e precisa. Il governo fascista segue la politica del giorno per giorno. Tuttavia gli ultimi suoi provvedimenti per la «battaglia economica» sono essenzialmente diretti contro le masse lavoratrici. Dal sistema di compressione delle classi lavoratrici, culminata con la legislazione sindacale, si è passati all'aumento delle ore di lavoro, il quale determina la disoccupazione quindi la riduzione dei salari per l'accrescimento della mano d'opera sul mercato del lavoro. I salari subiscono una nuova diminuzione che è provocata indirettamente dalla fissazione del costo della vita non già sul costo reale di essa, ma sui numeri indici forniti dagli spacci governativi. Tutto ciò non può non provocare una maggiore radicalizzazione delle masse e il loro spostamento verso le forme di lotta sempre piú recise.

Tra gli elementi della crisi economica vi è la nuova organizzazione delle società per azioni coi voti privilegiati, che è uno degli elementi di rottura fra piccola borghesia e capitalismo, e il fatto del dislivello verificatosi in quest'ultimo tempo fra la massa del capitale delle società anonime che si va concentrando in poche mani e la massa del risparmio nazionale. Questo dislivello dimostra come le fonti del risparmio vadano essiccandosi, perché i redditi attuali non sono piú sufficienti ai bisogni.

Come tutto ciò si riflette nel blocco della classe dominante?

Se noi osserviamo da vicino il PNF vedremo che questo è dilaniato da lotte intestine che, per quanto superiori gerarchie facciano del tutto per eliminarle, si manifestano in forme sempre piú acute. Vedremo anche che nell'orbita fascista due tendenze principali si manifestano che in sé raggruppano ed esprimono interessi di classe che sono in contrasto gli uni con gli altri e che minano la solidità della compagine fascista.

Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il Partito fascista come organismo politico e incorporarne nell'apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d'accordo con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l'Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia e il Vaticano e dall'altra gli elementi piú moderati dell'ex Aventino. È certo che mentre il fascismo nella sua ala nazionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso l'Azione cattolica, dall'altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo Di Cesarò e del gruppo Amendola.

L'altra tendenza è ufficialmente impersonata in Farinacci. Essa obbiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo: 1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze di interesse specialmente doganali. È certo che l'attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario dello Stato-capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese; 2) la seconda contraddizione è di gran lunga la piú importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo.

Un elemento che occorre tener presente è il fatto dell'asservimento completo in cui l'Italia è stata messa dal governo fascista verso l'America. Nella liquidazione del debito di guerra sia verso l'America che verso l'Inghilterra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commerciabilità delle obbligazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni momento al ricatto politico dei governi americano ed inglese che possono in ogni momento gettare sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani. Il debito Morgan, d'altra parte, è stato contratto in condizioni ancora peggiori. Sui 100 milioni di dollari del prestito il governo italiano ha a sua disposizione solo 33 milioni. Degli altri 67 milioni il governo italiano può disporre solo coll'alto consenso personale di Morgan, ciò che significa che il vero capo del governo italiano è Morgan. Questi elementi possono servire per dare alla piccola borghesia nella difesa dei suoi interessi attraverso il Partito fascista come tale una intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e contro l'attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell'indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati. A questo proposito un compito nel nostro Partito deve essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d'ordine degli Stati Uniti soviettisti d'Europa come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste.

In generale, si può dire che la tendenza Farinacci nel Partito fascista manca di unità, di organizzazione, di princípi generali. Essa è piú uno stato d'animo diffuso che una tendenza vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costitutivi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese-agrario-fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo.

È evidente che avviene nel campo della democrazia un certo raggruppamento con carattere piú radicale che nel passato. L'ideologia repubblicana si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei partiti democratici e, in questo caso anche in buona parte degli strati superiori.

Vecchi capi ex aventiniani hanno rifiutato l'invito a riprendere i contatti con la casa reale. Si dice che lo stesso Amendola nell'ultimo periodo della sua vita fosse diventato completamente repubblicano e facesse in questo senso propaganda personale. I popolari sarebbero diventati anche essi tendenzialmente repubblicani, ecc. È certo che si fa un grande lavoro per determinare sul terreno repubblicano un raggruppamento neo-democratico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista, instaurare un regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista. A questo risveglio democratico-repubblicano hanno contribuito gli ultimi avvenimenti europei come l'avventura Pilsudski in Polonia, ed i sussulti preagonici del Cartello francese. Il nostro Partito deve porsi il problema generale delle prospettive della politica nazionale. Gli elementi possono essere cosí stabiliti: Se pur è vero che politicamente il fascismo può aver come successore la dittatura del proletariato, poiché nessun partito e coalizione intermedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente sulla scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti — non è però certo e neanche probabile che il passaggio dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato. Bisogna tener conto del fatto che le forze armate esistenti, data la loro composizione, non sono conquistabili immediatamente e che esse saranno l'elemento determinante della situazione. Si possono fare delle ipotesi alle quali attribuire volta a volta maggiore carattere di probabilità. È possibile che dal governo attuale si passi a un governo di coalizione al quale uomini come Giolitti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi diano una maggiore elasticità immediata. Gli ultimi avvenimenti parlamentari francesi dimostrano di quale elasticità sia capace la politica borghese per allontanare la crisi rivoluzionaria, spostare gli avversari, logorarli, disgregarli. Una crisi economica improvvisa e fulminea non improbabile in una situazione come quella italiana potrebbe portare al potere la coalizione democratico-repubblicana, dato che essa si presenterebbe agli ufficiali dell'esercito e a una parte della stessa Milizia e ai funzionari dello Stato in genere (elemento di cui bisogna tener conto in situazioni come quella italiana) come capace di infrenare la rivoluzione. Queste ipotesi hanno per noi solo un valore generale di prospettiva. Esse ci servono per fissare questi punti:

1) noi dobbiamo sin da oggi restringere al minimo la influenza e la organizzazione dei partiti che possono costituire la coalizione di sinistra per rendere sempre piú probabile una caduta rivoluzionaria del fascismo, in quanto gli elementi energici ed attivi della popolazione siano sul nostro terreno nel momento della crisi; 2) in ogni caso noi dobbiamo tendere a rendere piú breve che sia possibile l'intermezzo democratico avendo fin da oggi disposto a nostro favore il maggior numero di condizioni favorevoli.

È da questi elementi che dobbiamo trarre l'indicazione per la nostra attività pratica immediata. Intensificare l'attività generale del fronte unico e l'organizzazione di sempre nuovi Comitati di agitazione per centralizzarli almeno su scala regionale e provinciale. Nei Comitati le nostre frazioni devono cercare prima di tutto di ottenere il massimo di rappresentanze delle diverse correnti politiche di sinistra evitando sistematicamente ogni settarismo di partito. Le questioni devono essere dalle nostre frazioni impostate oggettivamente come espressione degli interessi della classe operaia e dei contadini.

Preparare ideologicamente le masse contro i pericoli di nuove guerre imperialiste.

Tattica verso il Partito massimalista tendente ad impedire, in linea subordinata, la sua entrata nell'orbita della concentrazione repubblicana e, in linea di massima, a strappargli la influenza sulle masse lavoratrici.

Necessità verso il Partito sardo di azione, in vista di un suo prossimo Congresso per l'Italia meridionale e per le isole. Creazione di gruppi di lavoro regionali nel resto d'Italia.

L'URSS verso il comunismo39

I giornali borghesi hanno nella settimana scorsa dedicato frequenti articoli alla situazione russa. Delle affermazioni fatte sulla Stampa, la Tribuna, il Mondo, ha esposto le conclusioni sul Mondo stesso l'on. Baldesi affermando essere ormai provato che il comunismo è fallito in Russia e che si marcia a grandi passi verso il ristabilimento del capitalismo. L'on. Baldesi è innanzi tutto, da buon socialdemocratico, assai spiacente che i bolscevichi abbiano fatto una rivoluzione socialista nell'ottobre 1917, poiché, secondo lui, meglio sarebbe stato, dopo il rovesciamento dello zarismo, un regime democratico e borghese, uno di quei regimi che deliziano i proletari di ogni altra nazione; e ne è tanto spiacente che, malgrado sembri favorevole alla riforma agraria, dimentica che solo la rivoluzione proletaria, diede la terra ai contadini. Dimentica cioè che i vari governi succedutisi in Russia dal febbraio all'ottobre 1917 erano governi imperialisti e borghesi, i quali non avrebbero mai attuato quella riforma agraria della quale i democratici ed i riformisti sono cosí entusiasti a parole.

Solo l'alleanza degli operai e dei contadini, solo la rivoluzione bolscevica ha realizzato quell'enorme rovesciamento delle basi della economia russa. Nessun regime democratico, neanche del dopoguerra, ha attuato qualcosa di simile; nell'Occidente europeo non vi si è nemmeno potuto pensare. Gli incerti tentativi di Rumenia e di Polonia stanno miseramente fallendo. Nell'esame delle attuali condizioni economiche russe, l'on. Baldesi, come tutti i suoi amici, non tengono innanzi tutto conto delle condizioni dell'anteguerra. In un libro di Harvey Fischer su I debiti interalleati edito nel 1924 dal Trust dei banchieri di New York, abbiamo trovato una statistica concernente la popolazione, l'imposta e il reddito nazionale dei diversi paesi nell'anteguerra. Il reddito per ogni abitante era di 351 dollari per quelli degli Stati Uniti, di 226 dollari per quelli dell'Inghilterra, di 182 dollari per quelli della Francia, e solo di 43 dollari per quelli della Russia. Per reddito nazionale la Russia era al di sotto anche della Grecia, della Turchia, della Bulgaria, della Serbia. Si sono poi seguite la guerra, la rivoluzione e, poi, la guerra civile.

Non la rivoluzione che si è svolta in pochi giorni a Mosca e a Leningrado, come in tutto il paese, ma l'intervento delle grandi potenze europee, di quei regimi liberali e democratici che sono cari al Mondo e all'on. Baldesi, a favore degli eserciti bianchi ha devastato la Russia, l'ha ridotta un immenso territorio cosparso di rovine fumanti. Per colpa degli eserciti bianchi, — cioè borghesi, liberali, democratici — della Francia e dell'Inghilterra, i contadini non hanno piú coltivato la terra, le ferrovie sono state distrutte, le fabbriche abbandonate, le città saccheggiate; e se, malgrado tutto, il regime soviettista ha vinto, ciò significa di per se stesso che esso aveva il consenso della immensa maggioranza del popolo russo. Nessun altro regime in nessun altro paese d'Europa avrebbe potuto vincere la prova attraverso la quale è passato il regime soviettista. Basta riflettere quindi alla situazione in cui fu iniziata la rivoluzione per comprendere che se i lavoratori russi... non si sono trovati al paese della cuccagna, è ridicolo e balordo imputarne il comunismo. Devono invece essere considerati quasi miracolosi i risultati ottenuti fino ad oggi: l'avere cioè ormai rialzato la produzione industriale ed agricola al livello di ante-guerra, e l'avere migliorate le condizioni dei lavoratori. Poiché la crisi di cui sopra, e l'attuale, in Russia, è soprattutto determinata dal fatto che i contadini, non piú oppressi dagli affitti e dalle imposte, e padroni del loro lavoro, mangiano una quantità di cereali superiore a quella di ante-guerra, e possono insieme acquistare maggiori prodotti industriali per il proprio consumo.

Nell'ante-guerra gli agrari russi esportavano una enorme quantità di cereali, mantenendo nella fame permanente i milioni di contadini produttori. Oggi questi hanno elevato il proprio tenore di vita, tanto che le industrie nazionali, le quali hanno raggiunto la produzione di ante-guerra, non sono piú capaci di soddisfare le loro richieste. Ma l'argomento fondamentale dei nostri contradditori è la Nep e il suo sviluppo. Essi non tengono però conto del fatto che se nella ripresa economica russa si è sviluppato il capitale privato, importanza anche maggiore ha assunto il capitale collettivo. Tutta la grande industria collettivizzata, tutte le officine, cioè le siderurgiche, le metallurgiche, le tessili, ecc., sono proprietà dello Stato e gestite da questo; esse occupano il 95 per cento degli operai, ma ciò non ha importanza per gli avversari. Essi constatano che vi sono nei villaggi russi migliaia di botteghe, di fabbriche e di maniscalchi, che sorgono anche le officine (queste non possono avere piú di 15 operai se sono fornite di motore meccanico, e 50 se sprovviste), e affermano finalmente che il capitalismo trionfa nell'industria russa. Essi fingono di ignorare che il commercio estero è monopolizzato dallo Stato attraverso le banche che sono tutti organi collettivi. Essi vogliono ignorare che tutto lo sforzo dello Stato è rivolto verso lo sviluppo degli elementi socialisti della produzione, e che gli elementi capitalisti di cui si è riconosciuta l'utilità e l'impossibilità di sopprimerli radicalmente, e di un solo colpo, sono rigorosamente controllati.

Rimane l'agricoltura. Abbiamo già detto che solo la rivoluzione bolscevica ha avuto la forza di dare la terra ai contadini. In nessun regime borghese, anche se l'on. Baldesi ne fosse ministro, le masse rurali avranno mai la possibilità di avere la terra. Però è fatale, secondo la borghesia, e il socialriformista Baldesi è dello stesso parere, che si formino la media e la grande proprietà, che vi sia un processo di concentramento della ricchezza, di modo che la conclusione del processo sarebbe irremediabilmente il... latifondo. Dopo di che tra un paio di secoli si avrà un'altra rivoluzione contadina; e cosí avanti.

Noi neghiamo che questo processo sia fatale quando ad esso si oppongano la forza dello Stato e la forza della economia industriale e finanziaria collettivizzata. Un altro processo sta avvenendo in Russia ed è lo sviluppo delle piccole proprietà e la loro associazione. È attraverso la cooperazione per la produzione, per la rivendita dei prodotti, per il credito, per gli acquisti, la buona produzione ecc., che i contadini russi eviteranno la ricostituzione del capitalismo agrario e costituiranno invece una economia in cui le forme associate avranno sempre maggior importanza.

Fu già osservato da Bukharin che i rapporti fra contadini e operai in regime soviettista possono paragonarsi a quelli industriali ed agrari nei primordi nel secolo XIX. La lotta borghese fra i due ceti, malgrado appartenessero ambedue alla classe borghese, fu lunga poiché gli agrari non accettavano la crescente supremazia del capitale industriale e finanziario. La lotta cessò quando i due ceti si avvicinarono per la industrializzazione dell'agricoltura di modo che le divergenze divennero assai meno gravi. Cosí in Russia, dove l'industria e la finanza collettiva dominano già l'intera vita economica, la saldatura fra operai e contadini per l'economia industriale e l'economia rurale avverrà con la industrializzazione della terra.

Nessun comunista ha mai promesso ai lavoratori di realizzare il regno di Bengodi in 24 ore; nessun comunista ha mai pensato di realizzare il regime comunista in sei mesi. I passaggi dal regime schiavista al feudale, dal regime feudale al regime capitalistico, sono costati all'umanità sforzi enormi per lunghissimi periodi. Anche oggi nei regimi capitalistici piú fiorenti vi sono residui dell'economia feudale. Non vi è alcuna ragione per pretendere che il comunismo si realizzi invece per un colpo di bacchetta magica.

La differenza profonda fra la Russia e gli altri paesi i cui regimi sono cosí cari ai vari Baldesi della democrazia e del riformismo, è questa: che in Russia tutta la forza e tutto lo sforzo dello Stato sono rivolti alla realizzazione del comunismo, mentre negli altri paesi tutta la forza e tutto lo sforzo dello Stato sono rivolti a sostenere il capitalismo, a impedire il comunismo; e ciò anche nei paesi dove i riformisti sono al potere: in quel bel Belgio ad esempio, dove l'on. Vanderwelde è schiavo della burocrazia e... servo della democrazia, facendo pagare le spese della crisi economica alla piccola borghesia e ai lavoratori, come un qualsiasi Poincaré e peggio.

Sono queste verità elementari che comprendiamo riescano ostiche ai borghesi. Se potessimo invece credere ancora in buona fede i socialdemocratici nostrani e stranieri, non ci sarebbe comprensibile la gioia che essi provano nel descrivere il preteso fallimento del comunismo in Russia, il fallimento cioè dell'unica rivoluzione in cui si sono messe alla prova le teorie marxiste e le capacità proletarie. Ma che vi è piú di socialista in costoro? Essi sanno bene che se nuove crisi determineranno una nuova società proletaria, non ad essi è riservato l'onore e la fatica di realizzare l'ideale dei lavoratori. Essi per vivacchiare non hanno altra possibilità ormai che di garantire alle borghesie la propria capacità nel difenderne il dominio, se mai si sentisse bisogno dei loro servigi.

È perfettamente naturale perciò che sul Mondo, sul giornale cioè di quei democratici che hanno la responsabilità della sconfitta della crisi post-matteottiana, che hanno preferito la sconfitta al pericolo d'una ripresa rivoluzionaria proletaria, il fallimento del comunismo sia proclamato dall'on. Baldesi; da quel Baldesi che nel giorno della marcia su Roma compiva il suo dovere di deputato socialista e di dirigente della Confederazione generale del lavoro raccontando a tutti gli uscieri di Montecitorio che se l'on. Mussolini avesse veramente voluto, lui era ben disposto al personale sacrificio di accettare un portafoglio ministeriale, e che quindi è ben degno rappresentante del partito che ogni sforzo compie per liberarsi dalla catena del martirio matteottiano impostale dal destino beffardo.

In che direzione si sviluppa l'Unione soviettista?40

L'oro straniero, egregi signori del Mondo, è un argomento usato ed abusato da tutti i governi e da tutti i nazionalisti contro i movimenti liberali e democratici senza per questo rinunziare essi stessi ad usufruire di qualsiasi aiuto quando poteva essere utile, e senza neppure riuscire ad infamare od a stroncare gli accusati. È un argomento, perciò, che sta male in bocca ai democratici. Al Mondo, per esempio, sanno benissimo quale e quanta influenza di oltr'Alpe agí nell'interventismo italiano: ma in nessun caso noi giudicheremo colpa che i partiti democratici, le massonerie dei vari paesi, si appoggino e si aiutino. Ci pare però strano, diciamo cosí, che si rimproveri simile fatto ai comunisti.

L'Unità non scrisse che in Russia vi è una tendenza al comunismo: l'Unità scrisse che gli elementi socialisti in politica ed economia sono preponderanti sugli elementi capitalistici, che lo sviluppo dei primi è costantemente maggiore, e che quindi non si può parlare di ritorno al capitalismo nello Stato soviettista, ma si deve parlare di un processo verso la realizzazione completa di una società comunista; i nostri argomenti furono questi:

1) La grande industria (siderurgica, metallurgica, tessile, mineraria, petrolifera, elettrica, ecc.) è completamente collettivizzata poiché essa domina completamente il mercato interno. Non ha importanza il fatto che vi siano numerosissime piccole aziende o botteghe di artigiani per sopperire ai minuti bisogni locali, poiché queste dipendono dalla grande industria fornitrice di materie prime e semi lavorate, di attrezzi e di macchine.

2) Il capitale finanziario è collettivo. Le banche sono organi collettivi ed esse controllano anche il capitale privato il quale è molto minore di quello collettivo. Tutta la vita finanziaria, e quindi anche quella economica, è diretta o controllata da questi enti della collettività.

3) Il commercio con l'estero è monopolio di Stato, il che significa anche un altro controllo degli organi collettivi sulla economia privata rurale.

4) Il commercio all'ingrosso all'interno è per la maggior parte funzione di organi collettivi (cooperative, ecc.). Appartiene alla economia privata quasi tutto il commercio al dettaglio nelle campagne, ma esso dipende, per i crediti come per le merci, dagli organi collettivi che esercitano il commercio all'ingrosso.

Il Mondo a questi argomenti, a questi fatti, non rispose parola. Disse semplicemente che il monopolio del commercio estero era un fatto comune durante la guerra, quando gli Stati controllavano tutto il commercio, la produzione e il consumo. L'affermazione non è esatta e soprattutto non ha niente a vedere con la nostra questione.

Il cavallo di battaglia per tutti i nostri avversari è però la questione agraria. Ripetiamo che i governi rivoluzionari succedutisi dal febbraio 1917 non avrebbero attuato la riforma agraria, semplicemente perché... essi effettivamente non la fecero; anzi, neppure la tentarono, anzi, vi si dichiararono contrari e si opposero con la forza ai primi movimenti dei contadini reprimendone severamente gl'inizi. I bolscevichi vinsero appunto perché seppero dettare le parole d'ordine corrispondenti all'intima, inesorabile aspirazione delle masse russe: pace e terra. La borghesia russa non poteva permettere la rivoluzione agraria, poiché l'espropriazione senza indennità dei latifondisti avrebbe non solo spezzato i superstiti vincoli feudali ma avrebbe colpito a morte il capitalismo industriale e finanziario. Infatti, perché la terra ai contadini e non le officine agli operai? Solo quindi la rivoluzione operaia, la rivoluzione bolscevica, poteva dare la terra ai contadini. Il Mondo si affanna inutilmente a distinguere fra Oriente e Occidente, a difendere persino quei miserabili trucchi che furono le riforme agrarie di Polonia e di Romania. E veramente la borghesia liberale e democratica ha dimostrato di che cosa è capace. Distribuí ai contadini qualche pezzo di terra garantendo naturalmente laute indennità ai proprietari. Adesso si sta tranquillamente riprendendo le terre, perché i contadini non possono pagare le imposte e le quote di indennizzo da cui sono oppressi. In quei paesi si ritorna veramente verso il latifondo anche nelle regioni dove, dopo la guerra, esso era stato spezzato. Ma in Russia la situazione è diversa: lo Stato ha proclamato proprietà collettiva la terra e ne ha poi concesso l'uso ai produttori, obbedendo alla irresistibile volontà dei contadini. Si dice che si tratta solamente di formule; l'affermazione dei grandi princípi non è invece mai priva di effetto anche se la loro realizzazione non è mai completa. Potremmo chiedere ai liberali e ai democratici del Mondo in quale paese i princípi liberali e democratici si sono mai completamente realizzati. Ma non si può negare che essi abbiano informato di sé questi due ultimi secoli.

È inevitabile che nella massa dei contadini si manifestino differenze, sorgano contadini agiati e contadini medi; ma il fatto stesso che i primi saranno sempre una piccola minoranza, pone i loro interessi in contrasto con quelli della massa dei contadini poveri e dei salariati. La loro influenza politica non potrà perciò essere pericolosa, poiché l'alleanza fra i contadini poveri ed operai sarà rafforzata dalle cose stesse. D'altra parte, lo Stato agisce ed agirà nel senso di impedire la formazione di grandi aziende private; il nuovo assoggettamento cioè delle masse lavoratrici. A queste viene dimostrato giornalmente dai fatti che la via della salvezza è nella loro unione non nelle lotte intestine. Tutta la legislazione, tutti gli affari dello Stato borghese, sono rivolti ad assicurare lo sviluppo del capitale privato cioè lo sfruttamento e l'oppressione delle classi povere. Completamente opposta è la politica dello Stato soviettista.

Neanche di questo fatto il Mondo tiene conto. Esso si ricorda invece delle leggi marxiste della concentrazione del capitale, ma si dimentica che Marx si riferiva a regimi capitalisti, a Stati capitalistici. Non pensava certo Marx che la concentrazione del capitale privato dovesse essere una legge fatale nella Comune parigina, ad esempio, se fosse soppravissuta.

Potremmo ricordare tutti gli altri elementi che nel regime russo lavorano o contribuiranno alla realizzazione del comunismo: il nuovo spirito messianico che anima le masse, lo sviluppo enorme della cultura, la lotta contro l'analfabetismo che ha fatto piú progressi in pochi anni rivoluzionari che in centinaia di anni zaristi, la partecipazione delle masse alla vita pubblica, la persistente propaganda socialistica che raggiunge gli strati piú arretrati della popolazione, il sentimento orgoglioso di essersi liberati da una schiavitú obbrobriosa e di marciare verso un avvenire migliore.

In conclusione, quali saranno le basi della società soviettista? Le materie e gli strumenti di produzione ai produttori, le miniere, le fabbriche, i trasporti, le banche appartengono alla collettività, da cui infatti sono gestiti perché non è possibile il loro spezzettamento fra i singoli. La terra è coltivata dai contadini in economia famigliare poiché non c'è ancora stata nella campagna la trasformazione industriale che sola può mutare la mentalità e la psicologia individualistica del rurale: ma in ogni campo il dominio e lo sfruttamento capitalistico è abolito. I contadini russi saranno cosí sciocchi da lasciare rifiorire la grande proprietà? Al Mondo lo si crede. Noi lo neghiamo, riferendoci alla influenza sempre maggiore delle economie collettive, industriale e finanziaria, e pensando che questo indurrà e faciliterà il passaggio delle piccole aziende private alle grandi aziende collettive. L'industrializzazione della produzione agricola è inevitabile, ma è nell'interesse stesso delle classi contadine che essa avvenga nelle forme collettive, anziché nella direzione capitalistica.

Infine, notevolissimo è ancora lo slancio con cui da ogni parte del mondo si guarda a Mosca. Che cosa possono dire ormai le democrazie ai popoli oppressi, alle classi soggette? I popoli coloniali non hanno ormai provato a proprie spese l'ipocrisia delle formule democratiche, libertà, autodecisione dei popoli? Le classi soggette non hanno forse appreso che in regime borghese non può esservi per loro libertà e benessere? Essi guardano a Mosca, alla rivoluzione che ha dato la libertà alle classi lavoratrici, che ha dato gli strumenti della produzione ai produttori, che ha posto le basi di una società in cui lo sfruttamento capitalistico sarà soppresso. Contro la rivoluzione russa, le borghesie liberali e democratiche adoperarono dapprima la forza. I governi delle democrazie di Francia e di Inghilterra, di cui il Mondo è entusiasta, in nome degli immortali princípi, libertà, ecc.; armarono e sovvenzionarono tutti i controrivoluzionari. Tutti gli avventurieri che si prestarono nel ridurre la loro patria in rovina furono sconfitti. Si ricorse allora alla politica del «ferro spinato». L'accerchiamento fu rotto. Siamo adesso in una fase di lotta relativamente piú facile. Siamo alle campagne di stampa non per persuadere i popoli degli errori bolscevichi — ché ormai questi argomenti non attaccano piú — ma per persuadere del fallimento comunista. È questa la parola d'ordine a cui obbediscono tutti: fascisti e socialdemocratici, conservatori e liberali. Anche essa sarà inutile. Come agli inizi del secolo XIX tutte le speranze dei popoli si rivolgevano alla Rivoluzione francese, e invano infuriavano la reazione e la Santa Alleanza, cosí oggi si guarda, dall'Asia come dall'Europa, alla Rivoluzione russa.

Può darsi che queste campagne di stampa non siano che la preparazione di nuovi attacchi armati. C'è invero un duello a morte tra la Russia e la società capitalistica: ma noi non dubitiamo della vittoria che — signori del Mondo — realizzerà per i popoli la democrazia e la libertà che invano si cercano nei vostri amatissimi regimi di Francia e di Inghilterra.

Post Scriptum. L'on. Gino Baldesi dove è andato a finire? Perché ha lasciato la polemica ai democratici? Riconosce dunque che fra questi borghesi e i socialriformisti non vi è piú nessuna differenza?

La Tribuna si è impermalita perché non abbiamo risposto ai suoi articoli. Non era necessario. Fascisti e riformisti adoperano gli stessi argomenti contro la rivoluzione soviettista. In quanto alla delegazione italiana in Russia, se la Tribuna è sicura che vi vedrà solo la rovina ecc., persuada gli amici del governo a non tentare di impedirla con i soliti mezzi polizieschi e a dare i passaporti; vuol dire che i delegati torneranno per iscriversi nelle Corporazioni!

I contadini e la dittatura del proletariato41

(Noterelle per il «Mondo»)

Abbiamo dunque un nuovo articolo del Mondo intitolato, secondo i sistemi cari al vecchio barzinismo e al nuovo calzinismo, «Si cerca il comunismo». Naturalmente il comunismo è dal Mondo ricercato nella Russia, operaia e contadina. Se volessimo imitare il sistema dialettico caro al Mondo, potremmo scrivere tutta una serie di articoli intitolata: «Si cerca la democrazia» e dimostrare che la democrazia non è mai esistita. E infatti, se la democrazia significasse, come non può non significare, governo delle masse popolari, esprimentesi attraverso il Parlamento eletto a suffragio universale, in quale paese è mai esistito il governo che risponda a tali prerogative? Nella stessa Inghilterra, patria e culla del regime parlamentare e della democrazia al governo, accanto al Parlamento esiste la Camera dei Lords ed esiste la monarchia. I poteri della democrazia sono in realtà nulli. Essa non esiste. Prima della guerra, cioè quando i socialdemocratici e tutti gli «amici del popolo» non potevano ancora accusare il bolscevismo di aver provocato la borghesia e di averla indotta, poverina!, ad uscire dalla legalità e a ricorrere a mezzi dittatoriali, è stato possibile a Lord Carson armare e mobilitare un esercito contro la legge parlamentare sulla libertà irlandese.

E in Francia esiste forse la democrazia? Accanto al Parlamento esiste in Francia il Senato eletto non a suffragio universale, ma per elezione di due gradi di elettori che a loro volta solo parzialmente sono espressione del suffragio universale, ed esiste l'istituzione del presidente della repubblica. La diversa durata dei poteri dei tre diversi istituti fondamentali della Repubblica francese dovrebbe servire, secondo le dichiarazioni ufficiose, a temperare i possibili eccessi del Parlamento eletto a suffragio universale; in realtà, è l'organizzazione attraverso la quale la classe dominante si prepara ad organizzare la guerra civile nelle migliori condizioni di agitazione e propaganda.

In Germania non esiste accanto al Parlamento alcuna istituzione di carattere aristocratico ed oligarchico; tuttavia abbiamo potuto recentemente vedere quale ufficio formidabile di freno esercita sulla cosí detta volontà nazionale il fatto che il presidente della repubblica abbia una base elettorale diversa nel tempo da quella che forma l'assemblea nazionale. I voti ottenuti dal referendum per l'espropriazione senza indennità degli ex principi, sono stati superiori a quelli ottenuti dal maresciallo Hindenburg per la sua nomina a presidente della repubblica. Tuttavia Hindenburg non si dimise: ma dopo avere nel periodo del referendum fatto la minaccia ricattatoria di una grave crisi politica, dopo il referendum continuò a fare pressioni perché la volontà delle masse popolari fosse resa nulla.

Certo noi non ci proponiamo di convincere gli scrittori del Mondo. Li conosciamo, come ne conosciamo i diversi padroni, dai fratelli Perrone e Max Bondí, al conte Materazzo, al comm. Pecoraino e alla Banca commerciale, per incarico dei quali essi scrivono gli articoli piú contradditori, ma sempre rivolti ad ingannare le masse lavoratrici. È solo per queste masse che noi scriviamo e chiediamo: «È giusto domandare al nuovo regime operaio sorto in Russia nel 1917 durante la guerra mondiale, dopo il disastro economico sociale piú grande che la storia abbia conosciuto, il 100 per cento di applicazione del programma massimo del partito che in Russia è al potere, quando si rappresenta e si sostiene un regime che in qualche secolo di esistenza non è riuscito a realizzare nessuna delle sue promesse programmatiche ed è fallito vergognosamente, capitolando innanzi alle correnti piú reazionarie per confondersi subito con esse?».

Il nostro giornale deve pubblicare tutta una serie di documenti che risponderanno esaurientemente alle questioni poste dagli scrittori del Mondo, questioni che sono essenziali per il movimento operaio internazionale, anche se il Mondo le pone nel modo piú barocco e inintelligente che si possa immaginare. Una questione che è implicita in tutta una serie di articoli e nella prosa del Mondo deve essere subito affrontata: che cosa infatti si propone il Mondo cercando di dimostrare che in Russia non esiste neanche un elemento di vita socialista, e sistematicamente tacendo il carattere operaio delle istituzioni russe dello Stato fino alle cooperative, alla banca, alla direzione delle fabbriche? Il Mondo si propone solamente di mantenere nelle larghe masse popolari la illusione che sia possibile, senza una rivoluzione e senza la conquista integrale del potere dello Stato da parte della classe operaia e dei contadini, per lo meno di ottenere ciò che oggi esiste in Russia. Tutte le argomentazioni del Mondo, da quella che riguarda il giudizio storico da dare sul fascismo italiano, fino a questa, in verità ben misera, critica di principio della struttura economica e sociale russa, tendono a questo unico fine. Per noi comunisti il regime fascista è la espressione del periodo piú avanzato dello sviluppo della società capitalistica; esso appunto serve a dimostrare come tutte le conquiste e tutte le istituzioni che le classi lavoratrici riescono a realizzare nel periodo di sviluppo relativamente pacifico del regime capitalistico, sono destinate all'annientamento se in un momento determinato la classe operaia non si impadronisce del potere dello Stato con mezzi rivoluzionari. Si capisce allora che gli scrittori del Mondoabbiano interesse a sostenere essere il fascismo un regime pre-democratico, essere il fascismo legato ad una fase incipiente ed ancora arretrata del capitalismo.

Si capisce allora come gli scrittori del Mondo, presentando al pubblico del loro giornale, pubblico, purtroppo, costituito in buona parte di operai e di contadini, un modello di società russa, in cui gli elementi borghesi e piccolo-borghesi starebbero permeando le strutture dello Stato operaio per esserne infallibilmente i trionfatori e restaurare il vecchio regime, vogliano rappresentare in una forma rimodernata il vecchio schema utopistico della democrazia e del riformismo, secondo il quale gli elementi socialisti come i sindacati, le cooperative, i Consigli comunali socialisti, ecc. ecc. che esistono in regime capitalistico, potrebbero permeare la struttura di questi regimi fino a modificarli completamente, portando al trionfo incruento del socialismo.

Ma appunto il fascismo ha distrutto implacabilmente questi schemi, distruggendo tutti gli elementi, socialisti in quanto legati alla classe operaia, che nel periodo di sviluppo della classe capitalistica erano andati fondendosi. Esistono oggi in Russia elementi socialisti che sono preponderanti, ed elementi di economia piccolo-borghese che teoricamente possono svilupparsi cosí come teoricamente potevano svilupparsi gli elementi socialisti che esistevano in Italia prima del fascismo. Ma in Italia il proletariato non ha conquistato il potere di Stato; la vecchia organizzazione capitalistica pose termine in un certo momento alle concessioni che aveva fatte alle cooperative, ai sindacati, ai Consigli comunali socialisti, cioè alla classe operaia. In Russia la classe operaia al potere, la classe operaia che controlla e dirige le parti essenziali dell'economia nazionale, le leve di comando di tutta la struttura economica della società russa, ha fatto e fa delle concessioni non alla vecchia società dei capitalisti e dei latifondisti, che è stata rovesciata con le armi in pugno ed è priva di ogni proprietà e di ogni diritto politico, ma fa delle concessioni alle masse contadine dalle quali teoricamente potrebbe nascere il nuovo capitalismo.

C'è però una piccola questione che i signori del Mondo pare vogliono trascurare, e cioè questa: che il capitalismo sorgendo e sviluppandosi crea proletari in numero enormemente superiore a quello rappresentato dai capitalisti stessi. Pertanto la questione che agli scrittori del Mondo sembra trascurabile, e cioè quella di sapere quale classe ha il potere statale nelle mani, diventa questione essenziale. La classe operaia che in Russia ha lo Stato nelle mani, ha interesse oggi, se vuol costituire un mercato interno capace di assorbire la produzione industriale, di promuovere e favorire lo sviluppo dell'agricoltura. Siccome l'agricoltura in Russia è ancora arretrata e la conduzione agricola non può non essere individuale, lo sviluppo economico delle classi agricole russe porta necessariamente ad un certo arricchimento di uno strato superiore della campagna. Ogni operaio capisce che, se si fa una politica per ottenere che cento contadini da mille lire di reddito l'anno passino ad un reddito di duemila lire, diventando capaci di comperare dalla industria socializzata piú oggetti di quanto potessero comperare con le mille lire primitive, non si può impedire che su questi cento contadini alcuni non solo passino dalle mille alle duemila lire, ma possano, per determinate congiunture estremamente favorevoli, giungere alle cinque o seimila lire: mentre all'altro polo cinque o sei contadini non solo non riescono a passare da mille a duemila lire di reddito, ma per congiunture estremamente sfavorevoli (morte di bestiame, uragani, ecc.) vedono ridurre a zero il loro reddito di mille lire.

Ciò che è essenziale per la politica della classe operaia in Russia è che la massa centrale dei contadini, attraverso dei provvedimenti legislativi, realizzi i risultati che lo Stato operaio si propone, cioè diventi la base per la formazione di un risparmio nazionale che serva ad alimentare l'apparato generale di produzione in mano della classe operaia, permettendo a questo apparato non solo di mantenersi ma di svilupparsi. Esiste questo 4 o 5 per cento tuttavia, che si sviluppa oltre i limiti previsti dalla legislazione dello Stato operaio; in un paese come la Russia, ove le masse contadine rappresentano una popolazione di cento milioni di abitanti, questo 4 o 5 per cento assume anche socialmente una forza, che può apparire imponente, di 4 o 5 milioni di abitanti. Ma se la classe operaia, che in Russia oggi assomma come popolazione almeno a 20 milioni di abitanti, si mantiene legata alla grande massa dei contadini che assomma a decine e decine di milioni, la cifra rappresentata dai nemici del socialismo viene ridotta alle sue giuste proporzioni nel quadro d'insieme, ed è assicurato il trionfo relativamente pacifico delle forze socialiste sulle forze capitalistiche. Diciamo relativamente pacifico, in quanto esistono infatti in Russia le prigioni in mano agli operai, i tribunali in mano agli operai, la polizia in mano agli operai, l'esercito in mano agli operai... cioè in Russia esiste la dittatura del proletariato, elemento socialista che noi abbiamo il torto di giudicare un tantino piú importante di quanto non lo giudichino gli amici dei fratelli Perrone, di Max Bondí, del conte Materazzo e del comm. Pecoraino.

Russia, Italia e altri paesi42

Si racconta che nell'isola di Martinica una curiosa gara esiste fra le creole e le meticcie. Le creole hanno i piedi piccolissimi e vengono fabbricate per loro delle scarpette molte graziose e gentili. Le meticcie hanno i piedi molto grossi e noccheruti e non potrebbero calzare le scarpette delle creole. Esse pertanto si recano al caffè e alla passeggiata portando elegantemente le scarpette nelle mani.

Lo scrittore de Mondo rassomiglia stranamente alle meticcie dell'isola della Martinica. Il materialismo storico, il socialismo, il riformismo non sono scarpe per i suoi piedi. Perché dunque se le attacca ai lobi delle pronunciate orecchie democratiche? Le scarpe di cui egli si adorna sono d'altronde molto rozze e parecchio sdrucite. L'argomento capitale che lo scrittore del Mondo ripete, lo conosciamo già: se in Russia non esiste il comunismo integrale, ma esiste un governo comunista che gradualmente applica la politica economica che deve trasformare il regime da capitalistico in socialistico, perché tale politica economica gradualista non potrebbe essere applicata da un governo di coalizzazione borghese-socialista? Perché deve essere ritenuta utile l'opera riformista dei comunisti che possiedono il potere in Russia, e non potrebbe ritenersi altrettanto utile l'opera che avrebbe potuto svolgere l'ala destra del socialismo italiano se avesse, quando poteva, assunto il potere o vi avesse partecipato?

Se il materialismo storico non fosse per lo scrittore del Mondo un paio di scarpe da portare nelle mani invece che nei piedi, egli avrebbe potuto da se stesso rispondere a questo argomento. In Russia, prima della rivoluzione proletaria, c'era un governo socialista. Esso ha lasciato preparare il colpo di Stato di Kornilof e sarebbe stato rovesciato senza l'armamento parziale degli operai e l'intervento nella lotta dei bolscevichi. Esso aveva convocato per il settembre 1917 l'Assemblea costituente che avrebbe dovuto distribuire la terra ai contadini, ma sotto la pressione dei proprietari rimandava all'infinito la convocazione e faceva mitragliare i contadini nelle campagne. Esso non riusciva a dominare i capitalisti che chiudevano sistematicamente le fabbriche per determinare la disoccupazione e costringere gli operai alla «disciplina» con la «mano ossuta della fame». Perciò il governo «socialista» fu sbalzato via per la insurrezione degli elementi piú attivi della popolazione, per gli operai industriali e i contadini-soldati.

In Germania è esistito nel 1919 un governo puramente socialista; il Partito socialista aveva tanta forza nel paese che fu nominato presidente della repubblica un socialista, Ebert. I socialisti hanno cosí ben fatto il loro dovere che neanche una delle conquiste operaie della rivoluzione di novembre è stata mantenuta. La Commissione per la socializzazione, con a capo il venerando Kautsky, è stata spazzata via dai borghesi. Hindenburg è divenuto presidente della repubblica.

L'esperienza inglese è ancora piú istruttiva. Già nel 1914, come fu altra volta ricordato, il Parlamento inglese fu messo in iscacco da un semplice «particolare»: Lord Carson armò nell'Ulster 100.000 soldati per opporsi all'applicazione della legge sulla libertà irlandese. L'esercito regolare, costituito da professionisti mercenari, rifiutò di marciare contro Carson che ebbe partita vinta. Tuttavia lo stesso Parlamento durante la guerra scelse come ministro Lord Carson, colpevole di colpo di Stato e di alto tradimento. L'andata al potere di MacDonald e dei laburisti è piú recente, e il suo pietoso fallimento dinanzi all'offensiva dei conservatori è nella memoria di tutti. Come è nella memoria di tutti il recente cartello delle sinistre in Francia che fa blocco con Poincaré, contro il quale aveva impostata la sua campagna elettorale e la sua piattaforma politica.

E in Italia? Perché i socialisti di destra non sono andati al potere? Perché non hanno fatto una coalizione con la cosiddetta democrazia? E perché la stessa democrazia non è rimasta al potere con Giolitti, Bonomi, Facta? Per l'Italia è stata trovata la formula «psicosi». Nel 1919-1920 si dice che c'era la «psicosi» massimalista; nel 1921-22 si parlò di «psicosi» fascista. Recentemente però è venuto fuori il signor Franco Clerici che ha scritto che nel 1924 c'era la «psicosi» democratica dell'Aventino, ciò che non ha fatto piacere agli scrittori del Mondo. In questo modo tutta l'Italia nei suoi tre fattori fondamentali: proletariato, capitalismo, piccola e media borghesia, è divenuta un manicomio: tutta la politica italiana è «psicosi». Noi non crediamo alle interpretazioni a base di «psicosi». In Italia c'era un equilibrio instabile tra le forze sociali in lotta. Il proletariato era troppo forte nel 1919-20 per assoggettarsi piú oltre all'oppressione capitalistica. Ma le sue forze organizzate erano incerte, titubanti, deboli interiormente, perché il Partito socialista non era che un amalgama di almeno tre partiti; è mancato in Italia nel 1919-20 un partito rivoluzionario bene organizzato e deciso alla lotta. Da questa posizione di equilibrio instabile è nata la forza del fascismo italiano, che si è organizzato ed ha preso il potere con metodi e sistemi che, se avevano una loro peculiarità italiana ed erano legati a tutta la tradizione italiana e alla immediata situazione del nostro paese, pur tuttavia avevano e hanno una certa rassomiglianza coi metodi e i sistemi descritti da Carlo Marx nel Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cioè con la tattica generale della borghesia in pericolo, in tutti i paesi.

Perché i socialisti di destra non andarono al potere? Aspettavano forse il nostro consenso? Certo non potevano averlo e non l'avranno mai, perché noi siamo persuasi che essi hanno solo la capacità di capitolare dinanzi alla reazione, perché sempre, e in tutti i paesi, essi hanno capitolato davanti alla reazione. Noi siamo persuasi che sia condizione preliminare per iniziare la trasformazione della economia da capitalista in socialista il possesso del governo, la rottura completa degli attuali rapporti politici, lo schiacciamento fisico della reazione e della classe dominante. Il processo di trasformazione sarà piú o meno rapido a seconda dello sviluppo delle forze economiche; esso può essere iniziato però in tutti i paesi dell'Europa e dell'America e in una serie di paesi degli altri continenti; ma può essere iniziato dopo la conquista del potere, in regime di dittatura del proletariato.

Per il Mondo, una cooperativa, un sindacato, un monopolio industriale sono uguali sempre e dappertutto. Per noi una cooperativa in regime fascista è molto diversa da una cooperativa del 1919-20, e questa era molto diversa da una cooperativa russa attuale. Seguendo il ragionamento del Mondo, un governo è sempre un governo, cioè il governo fascista è uguale al governo di qualsiasi altro paese e tempo. Forse lo scrittore del Mondo prepara le intenzioni per lastricare una nuova strada sotto la guida non piú di Dante Ferraris o del comm. Pecoraino, ma di un nuovo illuminato mecenate della democrazia.

Nota. Per usare il linguaggio dei giornaletti di provincia di tutti i partiti, noi non scriveremo che lo scrittore del Mondo fugge, scappa, si dilegua abbaiando, latrando, guaiolando, ovverosia emettendo altri corporali rumori. Scriveremo solo che lo scrittore del Mondo, disgustato della nostra trivialità inaudita e inqualificabile, sta per richiudersi in un dignitoso riserbo secondo il costume democratico. Non pertanto noi continueremo a tirargli le pronunciate orecchie.

Ancora delle capacità organiche della classe operaia43

Sono trascorsi sei anni dal settembre 1920. In questo frattempo molte cose sono cambiate in mezzo alle masse operaie che nel settembre 1920 occuparono le fabbriche dell'industrie metallurgiche. Una parte notevole degli operai piú attivi e combattivi, che in quegli anni di lotte eroiche rappresentavano l'avanguardia della classe lavoratrice, sono fuori d'Italia; segnati con triplice croce nelle liste nere, dopo mesi e mesi di disoccupazione, dopo avere tentato in ogni modo (mutando mestiere, isolandosi nelle piccole officine, ecc. ecc.) di rimanere in patria per continuare il lavoro rivoluzionario, per ricostruire ogni giorno i legami che ogni giorno la reazione distruggeva, dopo sacrifici e sofferenze inaudite, essi furono costretti ad emigrare. Sei anni sono lunghi; una nuova generazione è già entrata nelle fabbriche, di operai che nel 1920 erano ancora adolescenti o fanciulli e tutt'al piú partecipavano alla vita pubblica giocando nelle strade alla guerra tra esercito rosso ed esercito polacco e rifiutando di fare il polacco anche per gioco. Tuttavia l'occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata dalle masse e non solo dalle masse operaie, ma anche dalle masse contadine. Essa è stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana, la quale, come classe, ha dimostrato di essere matura, di essere capace di iniziativa, di possedere una inestimabile ricchezza di energie creative e organizzative; se il movimento è fallito, la responsabilità non può essere addossata alla classe operaia come tale, ma al Partito socialista che venne meno ai suoi doveri, che era incapace e inetto, che era alla coda della classe operaia e non alla sua testa.

L'occupazione delle fabbriche è ancora all'ordine del giorno nelle conversazioni e nelle discussioni che avvengono alla base tra gli elementi d'avanguardia e gli elementi piú arretrati e passivi o tra quelli e i nemici di classe. Recentemente, in una riunione di contadini e artigiani di villaggio dell'Italia meridionale, simpatizzanti col nostro Partito, dopo un breve rapporto sulla situazione attuale, furono dai presenti posti due ordini di quistioni:

1. Che cosa succede in Russia? Come sono organizzati in Russia i municipi? Come si riesce a mettere d'accordo gli operai e i contadini, dato che i primi vogliono comprare i viveri a basso prezzo e i secondi vogliono venderli convenientemente? Gli ufficiali dell'Armata Rossa e gli impiegati dello Stato dei Soviet sono come gli ufficiali e gli impiegati del nostro paese? Sono di un'altra classe o sono operai e contadini?

2. Spiegateci perché noi operai (parlava un artigiano, fabbro-ferraio) abbiamo abbandonato le fabbriche che avevamo occupate nel settembre 1920. I signori ci dicono sempre: «Le avevate sí o no occupate le fabbriche? Perché dunque le avete abbandonate? Certamente perché senza il "capitale" non si può far nulla. Avete mandato via i capitalisti e cosí è venuto a mancare il "capitale" e voi avete fatto fallimento». Spiegateci dunque la quistione perché cosí sapremo rispondere; noi sappiamo che i signori hanno torto, ma non sappiamo dire le nostre ragioni e dobbiamo spesso chiudere la bocca.

L'irradiazione rivoluzionaria dell'occupazione delle fabbriche è stata enorme, tanto in Italia che all'estero. Perché? Perché le masse lavoratrici videro in essa la riprova della rivoluzione russa in un paese occidentale, in un paese industrialmente piú progredito della Russia, con una classe operaia meglio organizzata, tecnicamente piú istruita, industrialmente piú omogenea e coesa di quanto fosse il proletariato russo nell'ottobre 1917. Siamo noi capaci di gestire la produzione per conto nostro, secondo i nostri interessi, secondo un nostro piano?, si domandavano gli operai. Siamo noi in grado di riorganizzare la produzione in modo da condurre la società intiera su un nuovo binario che porti all'abolizione delle classi e all'eguaglianza economica? La prova fu positiva, nei limiti in cui essa ebbe luogo e si sviluppò, nei limiti in cui l'esperienza poté realizzarsi, nell'àmbito dei problemi posti e risolti.

L'esperienza fu limitata, in generale, ai rapporti interni di fabbrica. I contatti tra fabbrica e fabbrica furono minimi dal punto di vista industriale; si verificarono solo per le quistioni di difesa militare e anche in questo senso furono piuttosto empirici ed elementari.

Gli aspetti positivi dell'occupazione delle fabbriche possono essere riassunti brevemente in questi punti:

1. Capacità di autogoverno della massa operaia. Nell'attività normale di massa, la classe operaia appare generalmente come elemento passivo di manovra. Nelle agitazioni, negli scioperi, ecc., si domandano alla massa le qualità seguenti: solidarietà, disciplina dell'organizzazione, fiducia nei dirigenti, spirito di resistenza e di sacrifizio. Ma la massa è statica; è come un immenso corpo con una piccolissima testa.

L'occupazione delle fabbriche domandò una molteplicità inaudita di elementi attivi, dirigenti. Ogni fabbrica dovette costruirsi un governo, che era rivestito insieme della autorità politica e di quella industriale. Solo una parte dei tecnici e degli impiegati rimasero al loro posto; la maggioranza disertò le officine. Gli operai dovettero scegliere nelle loro file tecnici e impiegati, capireparto, capisquadra, contabili, ecc. ecc. Questo compito fu assolto brillantemente. I vecchi dirigenti, rientrati nelle loro funzioni, non ebbero nessuna difficoltà amministrativa da superare; le normali funzioni di un'azienda erano mantenute alla giornata, nonostante che il personale tecnico e amministrativo fosse estremamente ridotto e costituito di «rozzi e ignoranti» operai.

2. Capacità della massa operaia di mantenere e superare il livello di produzione del regime capitalistico. È avvenuto questo: nonostante che le maestranze fossero ridotte, perché sia pure un'infima percentuale disertò il lavoro, perché una certa percentuale lavorava per produrre oggetti non precisamente di uso corrente, sebbene molto utili al proletariato — nonostante la diserzione della maggioranza dei tecnici e degli impiegati che furono dovuti sostituire con operai — nonostante tutto ciò, la produzione mantenne il livello primitivo e spesso lo superò. Nella Fiat si produssero piú automobili che prima dell'occupazione; e le macchine «operaie», esposte quotidianamente al pubblico dalla Fiat proletaria, non furono una delle ultime ragioni delle innegabili simpatie che l'occupazione godeva fra le grandi masse della città di Torino, compresi gli intellettuali e anche gli esercenti (i quali accettavano come moneta ottima i buoni operai).

3. Capacità illimitata di iniziativa e di creazione delle masse lavoratrici. Per esaurire questo punto occorrerebbe un intero volume. La iniziativa si sviluppò in tutti i sensi. Nel campo industriale, per la necessità di risolvere quistioni tecniche, di organizzazione e di produzione industriale. Nel campo militare, per rivolgere a strumento di difesa ogni minima possibilità. Nel campo artistico, per la capacità dimostrata nei giorni di domenica di trovare modo di trattenere le masse con rappresentazioni teatrali e di altro genere, in cui tutto era inventato dagli operai: dalla messa in scena alla produzione. Bisogna aver visto dei vecchi operai, che parevano stroncati da decenni e decenni di oppressione e di sfruttamento, raddrizzarsi anche fisicamente nel periodo dell'occupazione, sviluppare attività fantastiche, suggerendo, aiutando, sempre attivi notte e giorno; bisogna aver visto questi e altri spettacoli per convincersi quanto siano illimitate le forze latenti delle masse e come esse si rivelino e si sviluppino impetuosamente, appena la convinzione si radica di essere arbitri ed egemoni dei propri destini.

Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche, si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni, perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati, che invece capitolarono vergognosamente, protestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista.

Nota prima — La Tribuna trova che il nostro metodo di leggere è soggettivo. Sulle quistioni di metodo lo scrittore della Tribuna dà la mano allo scrittore del Mondo il quale ha trovato modo, nonostante la vicinanza intellettuale di Adriano Tilgher, di tirare in ballo Einstein e il relativismo. Col metodo «oggettivo» della Tribuna gli uomini sarebbero ancora irrigiditi alla nozione che la terra è ferma e il sole le gira intorno. Crediamo che lo scrittore della Tribuna scambi il «soggettivismo» con la comune «intelligenza».

Nota seconda — Nella discussione sulla capacità organica della classe operaia, è intervenuto uno scrittore di Regime Fascista, per dimostrare semplicemente che non conosce neanche la nomenclatura politica della Russia dei Soviet. Ci dicono che lo scrittore di Regime Fascista sia un certo padre Pantaleo, che ha buttato la tonaca alle ortiche. È rimarchevole il numero e la qualità di preti spretati o frati sfratati, che nutrono la campagna antioperaia e antibolscevica nel nostro paese, sotto il labaro della religione e del cattolicesimo, essi che sono per lo meno scomunicati: Romolo Murri, colonna politica del Resto del Carlino, don Preziosi della Vita Italiana e del Mezzogiorno, Aurelio Palmieri, ex gesuita che fa da prezzemolo in tutti gli intingoli antisoviettisti e questo padre Pantaleo del Regime Fascista.

Noi e la concentrazione repubblicana44

Nell'articolo che abbiamo, ieri, abbondantemente riportato, la Voce Repubblicana vorrebbe convincerci a sostituire i suoi schemi fossilizzati alla nostra analisi della situazione italiana e alle nostre prospettive. Lo schema della Voce è questo: la «concentrazione repubblicana» dovrebbe essere vista dai comunisti come un elemento favorevole al proprio gioco (sic) perché potenzialmente capace di rompere l'equilibrio attuale e dare un ritmo celere e pieno di possibilità alla lotta politica. Insomma, noi dovremmo pensare cosí: prima della rivoluzione di ottobre, c'è stata la rivoluzione di febbraio; prima di Lenin c'è stato Kerenskij. Orsú! Comunisti consapevoli, mettiamoci a ricercare il Kerenskij italiano. Chi sarà? Chi non sarà? Trovato: sarà Arturo Labriola, il teorizzatore della «concentrazione repubblicana».

Ebbene: tutto questo modo di ragionare della Voce ci sembra enormemente puerile. Noi comunisti non abbiamo nessun «gioco» da fare; noi comunisti non vogliamo «giocare» con la storia; vogliamo fare molto sul serio e non abbiamo nessuno schema prefissato da applicare, nemmeno lo schema russo. Noi abbiamo dei princípi, una dottrina, dei fini concreti da realizzare. È solo in rapporto ai nostri princípi, alla nostra dottrina e ai fini da raggiungere che stabiliamo la nostra linea politica reale. Il nostro «Machiavelli» sono le opere di Marx e Lenin; e non la redazione della Voce Repubblicana e l'on. Arturo Labriola che, d'altronde, arieggiano messer Nicolò Machiavelli solo nel senso dei noti versi:

Dietro l'avello di Machiavello

giace lo scheletro di Stenterello

Per noi, l'impostazione dei nostri rapporti con la concentrazione repubblicana è sufficientemente chiara. Nella società italiana, che ha raggiunto il massimo di sviluppo capitalistico che storicamente poteva raggiungere date le condizioni di luogo e di tempo, una sola classe è rivoluzionaria in senso compiuto e permanente: il proletariato industriale. Ma per lo sviluppo particolare, per le particolari condizioni nazionali dello sviluppo del capitalismo, la società italiana ha conservato molti vecchiumi del passato, una serie di istituzioni e di rapporti politici che pesano sulla situazione e ne annebbiano il profilo fondamentale. Anche in altri paesi nei quali le forze capitaliste sono molto piú sviluppate che in Italia, permangono istituzioni e rapporti politici antiquati. In Inghilterra c'è la monarchia nonostante che l'85 per cento della popolazione sia industriale; in Inghilterra, la Chiesa è una istituzione potentissima anche se formalmente non è centralizzata come il Vaticano. In Inghilterra, la Camera alta esercita una funzione di prim'ordine specialmente quando il Partito conservatore non ha la maggioranza nella Camera dei deputati. Diremo noi perciò che l'Inghilterra è un paese arretrato, pre-capitalistico, semi-feudale? E ancora: in Inghilterra non c'è un Partito repubblicano nonostante ci sia la monarchia, ciò che significa che il Partito repubblicano non esiste e si sviluppa necessariamente in quanto c'è la monarchia, in quanto esiste una classe e dei notevoli gruppi sociali che nel terreno repubblicano trovano il terreno piú adatto per la difesa della propria posizione e dei propri interessi di classe o di gruppi.

Tuttavia noi riconosciamo che nella situazione italiana il peso specifico dei su ricordati «vecchiumi» è maggiore che in altri paesi; perciò appunto nella situazione generale mondiale esiste una particolare situazione italiana, una situazione cioè in cui esistono determinati caratteri peculiari; esiste il governo fascista e non il governo di Baldwin o quello di Poincaré, per esprimerci come il signor de La Palisse. La quistione allora è questa: quale apprezzamento dobbiamo dare del peso specifico dei «vecchiumi» peculiari all'Italia? Essi esistono, debbono essere superati. In ciò siamo d'accordo. Ma rappresentano essi il contenuto per l'opera storica di tutta un'epoca, di tutta una generazione e di piú di una generazione; sono essi il maggior comma dell'ordine del giorno che la storia implacabilmente ci impone di esaurire? O non sono invece solo dei dettagli, degli aspetti secondari del nostro duro lavoro storico? Questo è il problema che si pone. Per noi il contenuto dell'opera storica che si impone alle attuali generazioni è la realizzazione del socialismo. Nella via laboriosa e difficile verso questa realizzazione, troviamo dei cadaveri da interrare, dei vecchiumi da spazzar via; dobbiamo farlo, e lo faremo perché è necessario; ma un cadavere specialmente abbiamo il preciso compito di interrare: quello del capitalismo; una via dobbiamo aprire: quella che conduce al socialismo; questo è il nostro specifico dovere, non altro; nel percorrere quella via adempiremo ai compiti secondari e di dettaglio.

La concentrazione repubblicana esprime nella situazione italiana questi caratteri secondari e di dettaglio: noi riconosciamo l'esistenza e il peso relativo delle quistioni che da essa sono poste; perciò ci occupiamo della concentrazione, discutiamo con i suoi esponenti, abbiamo cercato, e cercheremo ancora con molta probabilità di avere dei rapporti di alleanze. Ma se prendiamo in considerazione i lati storicamente positivi di questa corrente politica, non possiamo e non dobbiamo nasconderci, e nascondere al proletariato i lati negativi di essa. Due classi sono oggi di fronte: proletariato e borghesia; dalla lotta fondamentale di queste due classi è determinata l'attuale situazione. Ma nessuna di queste due classi è isolata: ognuna di esse ha degli alleati reali e potenziali; la borghesia ha il sopravvento perché è aiutata dai suoi alleati, perché dispone di un sistema di forze da lei controllate e dirette; il proletariato lotta anche per strappare questi alleati alla borghesia e per farsene le proprie forze ausiliarie. La concentrazione repubblicana è l'espressione politica di questa oscillazione delle forze medie, di questo latente squilibrio delle forze che decideranno sulle sorti del duello storico fra le due classi fondamentali. Se queste forze si sposteranno come masse, se avverrà la frana sociale degli strati intermedi verso la concentrazione repubblicana, la borghesia come «classe» si sposterà immediatamente sullo stesso terreno, diventerà repubblicana in 24 ore perché non vorrà rimanere isolata, perché capirà che solo con un tal movimento potrà conservare le sue posizioni essenziali. La Voce è di una ingenuità commovente quando si richiama all'atteggiamento dei gruppi di sinistra della borghesia antifascista (popolari e democrazie legalitarie); oggi in Germania il presidente della repubblica si chiama Hindenburg e il capo di governo si chiama dott. Marx, del Centro cattolico: è molto probabile che ancora nell'ottobre 1918 né l'uno né l'altro pensasse di poter essere il capo dello Stato e il capo del governo di una repubblica germanica.

Perché (e qui è il punto), quando potrebbe avvenire la frana sociale degli strati medi? Potrebbe avvenire solo nel caso di una minacciosa ripresa delle energie rivoluzionarie del proletariato, solo se il capitalismo si dimostrasse inetto a soddisfare piú oltre le necessità essenziali della vita nazionale. Ma noi crediamo che appunto in quel momento è necessario che il proletariato sia unito politicamente e ideologicamente come classe perché sia in grado di risolvere i suoi problemi essenziali, coordinandoli, ben inteso, alla soluzione delle altre quistioni nazionali legate a classi e gruppi sociali che lotteranno ai suoi fianchi.

Ecco: noi lavoriamo perché il proletariato sia la classe dirigente della rinnovata società italiana. La concentrazione repubblicana lavora per subordinare il proletariato ad altre forme sociali, che praticamente non possono essere che il capitalismo, poiché solo una di queste due classi può governare il paese. Su questo terreno nessun machiavellismo di vecchio e di nuovo conio riuscirà a turbare la chiarezza dei rapporti che il fascismo ha posto brutalmente. Una sola concentrazione repubblicana ha oggi in Italia una prospettiva di successo «permanente» e storicamente salda: quella che abbia il proletariato come perno fondamentale. Il nostro Partito ha visto il problema in tutta la sua ampiezza fin dal giugno 1925, e non è un caso se gli attuali «concentrazionisti» hanno solamente segnato il passo.

Lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico

Cari compagni,

i comunisti italiani e tutti i lavoratori coscienti del nostro paese hanno sempre seguito con la massima attenzione le vostre discussioni. Alla vigilia di ogni congresso e di ogni conferenza del PCR noi eravamo sicuri che, nonostante l'asprezza delle polemiche, l'unità del Partito russo non era in pericolo; eravamo sicuri anzi che, avendo raggiunto una maggiore omogeneità ideologica e organizzativa attraverso tali discussioni, il Partito sarebbe stato meglio preparato ed attrezzato per superare le difficoltà molteplici che sono legate all'esercizio del potere di uno Stato operaio. Oggi, alla vigilia della vostra XV Conferenza, non abbiamo piú la sicurezza del passato; ci sentiamo irresistibilmente angosciati; ci sembra che l'attuale atteggiamento del blocco di opposizioni e l'acutezza delle polemiche del PC dell'URSS esigano l'intervento dei partiti fratelli. È da questo convincimento preciso che noi siamo mossi nel rivolgervi questa lettera. Può darsi che l'isolamento in cui il nostro Partito è costretto a vivere ci abbia indotto a esagerare i pericoli che si riferiscono alla situazione interna del Partito comunista dell'URSS; in ogni caso non sono certo esagerati i nostri giudizi sulle ripercussioni internazionali di questa situazione e noi vogliamo come internazionalisti compiere il nostro dovere.

La situazione interna del nostro Partito fratello dell'URSS ci sembra diversa e molto piú grave che nelle precedenti discussioni perché oggi vediamo verificarsi e approfondirsi una scissione nel gruppo centrale leninista che è sempre stato il nucleo dirigente del Partito e della Internazionale. Una scissione di questo genere, indipendentemente dai risultati numerici delle votazioni di congresso, può avere le piú gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i princípi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali.

Uno dei preziosi insegnamenti di Lenin è stato quello che noi dobbiamo molto studiare i giudizi dei nostri nemici di classe. Ebbene, cari compagni, è certo che i giornali e gli uomini di Stato piú forti della borghesia internazionale puntano su questo carattere organico del conflitto esistente nel nucleo fondamentale del Partito comunista dell'URSS, puntano sulla scissione del nostro Partito fratello e sono convinti che essa debba portare alla disgregazione e alla lenta agonia della dittatura proletaria, che essa debba determinare la catastrofe della Rivoluzione che non riuscirono a determinare le invasioni e le insurrezioni delle guardie bianche. La stessa fredda circospezione con cui oggi la stampa borghese cerca di analizzare gli avvenimenti russi, il fatto che essa cerca di evitare, per quanto le è consentito, la demagogia violenta che le era piú propria nel passato, sono sintomi che devono far riflettere i compagni russi e farli piú consapevoli della loro responsabilità. Per un'altra ragione ancora la borghesia internazionale punta sulla possibile scissione o su un aggravarsi della crisi interna del Partito comunista dell'URSS. Lo Stato operaio esiste in Russia ormai da nove anni. È certo che solo una piccola minoranza non solo delle classi lavoratrici, ma degli stessi Partiti comunisti degli altri paesi è in grado di ricostituire nel suo completo tutto lo sviluppo della Rivoluzione e di trovare anche nei dettagli di cui si compone la vita quotidiana dello Stato dei Soviet la continuità del filo rosso che porta fino alla prospettiva generale della costruzione del socialismo. E ciò non solo nei paesi dove la libertà di riunione non esiste piú e la libertà di stampa è completamente soppressa o è sottoposta a limitazioni inaudite, come in Italia (dove i tribunali hanno sequestrato e proibito la stampa dei libri di Trotzkij, Lenin, Stalin, Zinoviev e ultimamente anche del Manifesto dei comunisti) ma anche nei paesi dove ancora i nostri Partiti hanno la libertà di fornire ai loro membri e alle masse in generale, una sufficiente documentazione. In questi paesi, le grandi masse non possono comprendere le discussioni che avvengono nel Partito comunista dell'URSS, specialmente se esse sono cosí violente come l'attuale e investono non un aspetto di dettaglio, ma tutto il complesso della linea politica del Partito. Non solo le masse lavoratrici in generale, ma le stesse masse dei nostri Partiti vedono e vogliono vedere nella Repubblica dei Soviet e nel Partito che vi è al governo una sola unità di combattimento che lavora nella prospettiva generale del socialismo. Solo in quanto le masse occidentali europee vedono la Russia e il Partito russo da questo punto di vista, esse accettano volentieri e come un fatto storicamente necessario che il Partito comunista dell'URSS sia il partito dirigente dell'Internazionale, solo perciò oggi la Repubblica dei Soviet ed il Partito comunista dell'URSS sono un formidabile elemento di organizzazione e di propulsione rivoluzionaria.

I partiti borghesi e socialdemocratici, per la stessa ragione, sfruttano le polemiche interne e i conflitti esistenti nel Partito comunista dell'URSS; essi vogliono lottare contro questa influenza della Rivoluzione russa, contro l'unità rivoluzionaria che intorno al Partito comunista dell'URSS si sta costituendo in tutto il mondo. Cari compagni, è estremamente significativo che in un paese come l'Italia, dove l'organizzazione statale e di partito del fascismo riesce a soffocare ogni notevole manifestazione di vita autonoma delle grandi masse operaie e contadine, è significativo che i giornali fascisti, specialmente quelli delle provincie, siano pieni di articoli, tecnicamente ben costruiti per la propaganda, con un minimo di demagogia e di atteggiamenti ingiuriosi, nei quali si cerca di dimostrare, con uno sforzo evidente di obiettività, che oramai, per le stesse manifestazioni dei leaders piú noti del blocco della opposizione del Partito comunista dell'URSS lo Stato dei Soviet va sicuramente diventando un puro Stato capitalistico e che pertanto nel duello mondiale tra fascismo e bolscevismo, il fascismo avrà il sopravvento. Questa campagna, se dimostra quanto siano ancora smisurate le simpatie che la Repubblica dei Soviet gode in mezzo alle grandi masse del popolo italiano che, in alcune regioni, da sei anni, non riceve che una scarsa letteratura illegale di Partito, dimostra altresì come il fascismo, che conosce molto bene la reale situazione interna italiana, e ha imparato a trattare con le masse, cerchi di utilizzare l'atteggiamento politico del blocco delle opposizioni per spezzare definitivamente la ferma avversione dei lavoratori al governo di Mussolini e per determinare almeno uno stato d'animo in cui il fascismo appaia almeno come una ineluttabile necessità storica, nonostante la crudeltà e i mali che l'accompagnano.

Noi crediamo che nel quadro dell'Internazionale, il nostro Partito sia quello che piú risente le ripercussioni della grave situazione esistente nel Partito comunista dell'URSS. E non solo per le ragioni su esposte che, per cosí dire, sono esterne, toccano le condizioni generali dello sviluppo rivoluzionario nel nostro paese. Voi sapete che i partiti tutti dell'Internazionale hanno ereditato e dalla vecchia socialdemocrazia e dalle diverse tradizioni nazionali esistenti nei diversi paesi (anarchismo, sindacalismo, ecc. ecc.) una massa di pregiudizi e di motivi ideologici che rappresentano il focolare di tutte le deviazioni di destra e di sinistra. In questi ultimi anni, ma specialmente dopo il V Congresso mondiale, i nostri Partiti andavano raggiungendo, attraverso una dolorosa esperienza, attraverso crisi dolorose e estenuanti, una sicura stabilizzazione leninista, stavano diventando dei veri Partiti bolscevichi. Nuovi quadri proletari venivano formandosi dal basso, dalle officine; gli elementi intellettuali erano sottoposti a una rigorosa selezione e a un collaudo rigido e spietato in base al lavoro pratico, sul terreno della azione. Questa rielaborazione avveniva sotto la guida del Partito comunista dell'URSS nel suo complesso unitario e di tutti i grandi capi del Partito dell'URSS. Ebbene: l'acutezza della crisi attuale e la minaccia di scissione aperta o latente che essa contiene, arresta questo processo di sviluppo e di rielaborazione dei nostri Partiti, cristallizza le deviazioni di destra e di sinistra, allontana ancora una volta il successo dell'unità organica del Partito mondiale dei lavoratori. È su questo elemento in ispecial modo che noi crediamo nostro dovere di internazionalisti di richiamare l'attenzione dei compagni piú responsabili del Partito comunista dell'URSS. Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo la opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell'URSS aveva conquistato per lo impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale.

L'Ufficio politico del PCI ha studiato con la maggiore diligenza e attenzione che le erano consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito comunista dell'URSS. Le quistioni che oggi si pongono a voi, possono porsi domani al nostro Partito. Anche nel nostro paese le masse rurali sono la maggioranza della popolazione lavoratrice. Inoltre tutti i problemi inerenti all'egemonia del proletariato si presenteranno da noi certamente in una forma piú complessa ed acuta che nella stessa Russia, perché la densità della popolazione rurale in Italia è enormemente piú grande, perché i nostri contadini hanno una ricchissima tradizione organizzativa e sono sempre riusciti a far sentire molto sensibilmente il loro peso specifico di massa nella vita politica nazionale, perché da noi l'apparato organizzativo ecclesiastico ha duemila anni di tradizione e si è specializzato nella propaganda e nell'organizzazione dei contadini in un modo che non ha eguali negli altri paesi. Se è vero che l'industria è piú sviluppata da noi e il proletariato ha una base materiale notevole, è anche vero che quest'industria non ha materie prime nel paese ed è quindi piú esposta alla crisi; il proletariato perciò potrà svolgere la sua funzione dirigente solo se è molto ricco di spirito di sacrificio e si è liberato completamente da ogni residuo di corporativismo riformista o sindacalista. Da questo punto di vista realistico e che noi crediamo leninista, l'Ufficio politico del PCI ha studiato le vostre discussioni. Noi, fin'ora abbiamo espresso un'opinione di Partito solo sulla quistione strettamente disciplinare delle frazioni, volendoci attenere all'invito da voi rivolto dopo il vostro XIV Congresso di non trasportare la discussione russa nelle sezioni dell'Internazionale. Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito comunista dell'URSS e che in tal senso certamente si pronunzierà la maggioranza del Partito italiano, se diverrà necessario porre tutta la questione. Non vogliamo e riteniamo inutile fare dell'agitazione, della propaganda con voi e coi compagni del blocco delle opposizioni. Non stenderemo perciò un registro di tutte le quistioni particolari col nostro apprezzamento al fianco. Ripetiamo che ci impressiona il fatto che lo atteggiamento delle opposizioni investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e dell'azione politica del nostro Partito dell'Unione. È il principio e la pratica dell'egemonia del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri dello Stato operaio e della Rivoluzione. Compagni, non si è mai visto nella storia che una classe dominante, nel suo complesso, stesse in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta. Questa contraddizione inaudita la storia l'ha riserbata in sorte al proletariato; in questa contraddizione risiedono i maggiori pericoli per la dittatura del proletariato, specialmente nei paesi dove il capitalismo non aveva assunto un grande sviluppo e non era riuscito a unificare le forze produttive. È da questa contraddizione, che, d'altronde, si presenta già sotto alcuni suoi aspetti nei paesi capitalistici dove il proletariato ha raggiunto obiettivamente una funzione sociale elevata, che nascono il riformismo e il sindacalismo, che nasce lo spirito corporativo e le stratificazioni dell'aristocrazia operaia. Eppure il proletariato non può diventare classe dominante se non supera col sacrificio degli interessi corporativi questa contraddizione, non può mantenere la sua egemonia e la sua dittatura se anche divenuto dominante non sacrifica questi interessi immediati per gli interessi generali e permanenti della classe. Certo è facile fare della demagogia su questo terreno, è facile insistere sui lati negativi della contraddizione: «Sei tu il dominatore, o operaio mal vestito e mal nutrito, oppure è dominatore il nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra?». Cosí i riformisti dopo uno sciopero rivoluzionario che ha aumentato la coesione e la disciplina della massa, ma con la sua lunga durata ha impoverito ancor piú i singoli operai dicono: «A che pro aver lottato? Voi siete rovinati e impoveriti». È facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata posta nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina della egemonia del proletariato, che storicamente si trova in una determinata posizione e non in un'altra.

È questo per noi l'elemento essenziale delle vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.

Solo una ferma unità e una ferma disciplina nel Partito che governa lo Stato operaio può assicurare l'egemonia proletaria in regime di Nep, cioè nel pieno sviluppo della contraddizione cui abbiamo accennato. Ma l'unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato o assediato che pensa all'evasione o alla sortita di sorpresa.

Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia pure di fratelli minori. I compagni Zinoviev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive. L'unità del nostro Partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare i maggiori sacrifici. I danni di un errore compiuto dal Partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali.

Con saluti comunisti

[L'UP del PCI]

Lettera a Togliatti

26 ottobre 1926

Carissimo Ercoli,

ho ricevuto la tua lettera del 18. Rispondo a titolo personale, quantunque sia persuaso di esprimere l'opinione anche degli altri compagni.

La tua lettera mi pare troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare. Noi siamo partiti dal punto di vista, che mi pare esatto, che nei nostri paesi non esistono solo i partiti, intesi come organizzazione tecnica, ma esistono anche le grandi masse lavoratrici, politicamente stratificate in modo contradditorio, ma nel loro complesso tendenti all'unità. Uno degli elementi piú energici di questo processo unitario è l'esistenza dell'URSS legata all'attività reale del PC dell'URSS e alla persuasione diffusa che nell'URSS si cammina nella via del socialismo. In quanto i nostri Partiti rappresentano tutto il complesso attivo dell'URSS essi hanno una determinata influenza su tutti gli strati politici della grande massa, ne rappresentano la tendenza unitaria, si muovono su un terreno storico fondamentalmente favorevole, nonostante le superstrutture contradditorie.

Ma non bisogna credere che questo elemento che fa del PC dell'URSS l'organizzatore di masse piú potente che sia mai apparso nella storia, sia ormai acquisito in forma stabile e decisiva: tutt'altro. Esso è sempre instabile. Cosí non bisogna dimenticare che la rivoluzione russa ha già nove anni di esistenza e che la sua attuale attività è un insieme di azioni parziali e di atti di governo che solo una coscienza teorica e politica molto sviluppata può cogliere come insieme e nel suo movimento d'insieme verso il socialismo. Non solo per le grandi masse lavoratrici, ma anche per una notevole parte degli iscritti ai partiti occidentali, che si differenziano dalle masse solo per questo passo, radicale ma iniziale verso una coscienza sviluppata che è l'ingresso nel partito, il movimento d'insieme della rivoluzione russa è rappresentato concretamente dal fatto che il Partito russo si muove unitariamente, che insieme operano e si muovono gli uomini rappresentativi che le nostre masse conoscono e sono state abituate a conoscere. La quistione dell'unità, non solo del Partito russo ma anche del nucleo leninista, è pertanto una questione della massima importanza nel campo internazionale; è, dal punto di vista di massa, la questione piú importante in questo periodo storico di intensificato processo contradditorio verso l'unità.

È possibile e probabile che l'unità non possa essere conservata almeno nella forma che essa ha avuto nel passato. È anche certo che tuttavia non crollerà il mondo e che occorre far di tutto per preparare i compagni e le masse alla nuova situazione. Ciò non toglie che sia nostro dovere assoluto richiamare alla coscienza politica dei compagni russi e richiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stanno per determinare. Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità.

Che l'adempimento di un tale dovere da parte nostra possa, in via subordinata, giovare anche all'opposizione, deve preoccuparci fino ad un certo punto; infatti è nostro scopo contribuire al mantenimento e alla creazione di un piano unitario nel quale le diverse tendenze e le diverse personalità possano riavvicinarsi e fondersi anche ideologicamente. Ma io non credo che nella nostra lettera, la quale evidentemente deve essere letta nel suo insieme e non già a brani staccati e avulsi, ci sia un qualsiasi pericolo di indebolire la posizione della maggioranza del Comitato centrale. In ogni caso, appunto in vista di ciò e della possibilità di una tale apparenza, in una lettera aggiunta ti avevo autorizzato a modificare la forma: potevi benissimo posporre le due parti e mettere subito nell'inizio la nostra affermazione di «responsabilità» dell'opposizione. Questo tuo modo di ragionare perciò mi ha fatto una impressione penosissima.

E voglio dirti che in noi non c'è ombra alcuna di allarmismo, ma solo ponderata e fredda riflessione. Siamo sicuri che in nessun caso crollerà il mondo: ma sarebbe stolto muoversi solo se sta per crollare il mondo, mi pare. Nessuna frase fatta perciò ci smuoverà dalla persuasione di essere nella linea giusta, nella linea leninista per il modo di considerate le quistioni russe. La linea leninista consiste nel lottare per la unità del partito, e non solo per la unità esteriore, ma per quella un po' piú intima che consiste nel non esserci nel partito due linee politiche completamente divergenti in tutte le quistioni. Non solo nei nostri paesi, per ciò che riguarda la direzione ideologica e politica dell'Internazionale, ma anche in Russia, per ciò che riguarda l'egemonia del proletariato e cioè il contenuto sociale dello Stato, l'unità del partito è condizione esistenziale.

Tu fai una confusione tra gli aspetti internazionali della quistione russa che sono un riflesso del fatto storico del legame delle masse lavoratrici col primo Stato socialista — e i problemi di organizzazione internazionale nel terreno sindacale e politico. I due ordini di fatti sono coordinati strettamente, ma tuttavia distinti. Le difficoltà che si incontrano e si sono andate costituendo nel campo piú ristretto organizzativo, sono dipendenti dalle fluttuazioni che si verificano nel piú largo campo dell'ideologia diffusa di massa, cioè dal restringersi dell'influenza e del prestigio del Partito russo in alcune zone popolari. Per metodo noi abbiamo voluto parlare solo degli aspetti piú generali: abbiamo voluto evitare di cadere nell'imparaticcio scolastico che purtroppo affiora in alcuni documenti di altri partiti e toglie serietà al loro intervento.

Cosí non è vero, come tu dici, che noi siamo troppo ottimisti sulla bolscevizzazione reale dei partiti occidentali. Tutt'altro. Il processo di bolscevizzazione è talmente lento e difficile che ogni anche piú piccolo inciampo lo arresta e lo ritarda. La discussione russa e l'ideologia delle opposizioni gioca in questo arresto e ritardo un uffizio tanto piú grande, in quanto le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico. La nostra osservazione era tutta rivolta contro le opposizioni. È vero che le crisi dei partiti e anche del Partito russo sono legate alla situazione obiettiva, ma cosa significa ciò? Forse che per ciò dobbiamo cessare di lottare, dobbiamo cessare di sforzarci per modificare favorevolmente gli elementi soggettivi? Il bolscevismo consiste precisamente anche nel mantenere la testa a posto e nell'essere ideologicamente e politicamente fermi anche nelle situazioni difficili. La tua osservazione è dunque inerte e priva di valore, cosí come quella contenuta al punto 5, poiché noi abbiamo parlato delle grandi masse e non già dell'avanguardia proletaria. Subordinatamente, però, la difficoltà esiste anche per questo, la quale non è campata per aria ma unita alla massa: ed esiste tanto piú, in quanto il riformismo con le sue tendenze al corporativismo di classe, cioè alla non comprensione del ruolo dirigente dell'avanguardia, ruolo da conservarsi anche a costo di sacrifizi, è molto piú radicato nell'occidente di quanto fosse in Russia. Tu dimentichi poi facilmente le condizioni tecniche in cui si svolge il lavoro in molti partiti, che non permettono la diffusione delle quistioni teoriche piú elevate altro che in piccole cerchie di operai. Tutto il tuo ragionamento è viziato di «burocratismo»: oggi, dopo nove anni dall'ottobre 1917, non è piú il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo. L'autorità del partito è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle grandi masse con metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria, cioè solo dal fatto politico che il Partito russo nel suo complesso è persuaso e lotta unitariamente.

Mi dispiace sinceramente che la nostra lettera non sia stata capita da te, in primo luogo, e che tu, sulla traccia del mio biglietto personale, non abbia in ogni caso cercato di capir meglio: la nostra lettera era tutta una riquisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò piú efficace e piú seria. Ti prego di allegare agli atti, oltre il testo italiano della lettera e il mio biglietto personale, anche la presente.

Saluti cordiali.

Antonio

Alcuni temi della quistione meridionale45

Lo spunto per queste note è stato dato dalla pubblicazione, avvenuta nel Quarto Stato del 18 settembre, di un articolo sul problema meridionale, firmato Ulenspiegel che la redazione della rivista ha fatto precedere da un esordio alquanto buffo. Ulenspiegel dà notizia, nel suo articolo, del recente libro di Guido Dorso (La Rivoluzione meridionale, Torino, edit. Piero Gobetti, 1925) e accenna al giudizio che il Dorso ha dato intorno all'atteggiamento del nostro Partito sulla quistione del Mezzogiorno; nel suo esordio, la redazione del Quarto Stato, che si proclama costituita di «giovani che conoscono perfettamente nelle sue linee generali (sic) il problema meridionale», protesta collettivamente per il fatto che si possano riconoscere dei «meriti» al Partito comunista. E fin qui niente di male; i giovani del tipo Quarto Stato hanno, in ogni tempo e luogo, fatto sopportare alla carta ben altre opinioni e proteste senza che la carta si ribellasse. Ma poi questi «giovani» aggiungono testualmente: «Non abbiamo dimenticato che la formula magica dei comunisti torinesi era: dividere il latifondo tra i proletari rurali. Quella formula è agli antipodi con ogni sana realistica visione del problema meridionale». E qui occorre mettere le cose a posto, poiché di «magico» esiste solo l'improntitudine e il superficiale dilettantismo dei «giovani» scrittori del Quarto Stato.

La «formula magica» è inventata di sana pianta. E devono avere ben poca stima dei loro intellettualissimi lettori i «giovani» del Quarto Stato se osano con tanta loquace sicumera simili capovolgimenti della verità. Ecco, infatti, un brano dell'Ordine Nuovo (numero del 3 gennaio 1920) nel quale è riassunto il punto di vista dei comunisti torinesi:

«La borghesia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitú capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all'industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha interesse acché il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acché l'Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull'industria, il proletariato rivolgerà l'industria alla produzione di macchine agricole per i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che piú oltre l'industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Spezzando l'autocrazia nella fabbrica, spezzando l'apparato oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà la enorme potenza dell'organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno».

Ciò è stato scritto nel gennaio 1920. Sono passati sette anni e noi siamo piú anziani di sette anni anche politicamente; qualche concetto potrebbe essere oggi espresso meglio, potrebbe e dovrebbe essere meglio distinto il periodo immediatamente successivo alla conquista dello Stato, caratterizzato dal semplice controllo operaio sull'industria, dai periodi successivi. Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la «formula magica» della divisione del latifondo, ma quello della alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato: non solo, ma proprio i comunisti torinesi (che pure sostenevano, come subordinata all'azione solidale delle due classi, la divisione delle terre) mettevano in guardia contro le illusioni «miracolistiche» sulla spartizione meccanica dei latifondi. Nello stesso articolo del 3 gennaio 1920 è scritto: «Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se arriva al raccolto senza prima essersi impiccato al piú forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico della terra incolta) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall'invasione?». E tuttavia noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla «magica» della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato industriale. Gli scrittori del Quarto Stato hanno inventato di sana pianta la «formula magica» attribuita ai comunisti torinesi, dimostrando cosí la loro poca serietà di pubblicisti e il loro poco scrupolo di intellettuali da farmacia di villaggio; e anche questi sono elementi politici che pesano e portano conseguenze.

Nel campo proletario, i comunisti torinesi hanno avuto un «merito» incontrastabile: di avere imposto la quistione meridionale all'attenzione dell'avanguardia operaia, prospettandola come uno dei problemi essenziali della politica nazionale del proletariato rivoluzionario. In questo senso essi hanno contribuito praticamente a far uscire la quistione meridionale dalla sua fase indistinta, intellettualistica, cosí detta «concretista», per farla entrare in una fase nuova. L'operaio rivoluzionario di Torino e di Milano diventava il protagonista della quistione meridionale e non piú i Giustino Fortunato, i Gaetano Salvemini, gli Eugenio Azimonti, gli Arturo Labriola, per non citare che il nome dei santoni cari ai «giovani» del Quarto Stato.

I comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell'«egemonia del proletariato», cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine. Ma la quistione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la «quistione contadina e agraria in generale»; in Italia la quistione contadina ha, per la determinata tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari, la quistione meridionale e la quistione vaticana. Conquistare la maggioranza delle masse contadine significa dunque, per il proletariato italiano, far proprie queste due quistioni dal punto di vista sociale, comprendere le esigenze di classe che esse rappresentano, incorporare queste esigenze nel suo programma rivoluzionario di transizione, porre queste esigenze tra le sue rivendicazioni di lotta.

Il primo problema da risolvere, per i comunisti torinesi, era quello di modificare l'indirizzo politico e l'ideologia generale del proletariato stesso come elemento nazionale che vive nel complesso della vita statale e subisce inconsapevolmente l'influenza della scuola, del giornale, della tradizione borghese. È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce piú rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura «meridionalista» della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la «scienza» era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato.

I comunisti torinesi reagirono energicamente contro questa ideologia, proprio a Torino, dove i racconti e le descrizioni dei veterani della guerra contro il «brigantaggio» nel Mezzogiorno e nelle isole avevano maggiormente influenzato la tradizione e lo spirito popolare. Reagirono energicamente, in forme pratiche, riuscendo ad ottenere risultati concreti di grandissima portata storica, riuscendo ad ottenere, proprio a Torino, embrioni di quella che sarà la soluzione del problema meridionale.

D'altronde, già prima della guerra, si era verificato a Torino un episodio che conteneva in potenza tutta l'azione e la propaganda svolte nel dopoguerra dai comunisti. Quando, nel 1914, per la morte di Pilade Gay, rimase vacante il IV collegio della città e fu posta la quistione del nuovo candidato, un gruppo della sezione socialista, del quale facevano parte i futuri redattori dell'Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare come candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l'esponente piú avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno. Egli era fuori del Partito socialista, anzi conduceva contro il Partito socialista una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni e le sue accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio non solo contro i Turati, i Treves, i D'Aragona ma contro il proletariato industriale nel suo complesso. (Molte delle pallottole che le guardie regie scaricarono nel '19, '20, '21, '22 contro gli operai erano fuse nello stesso piombo che serví a stampare gli articoli del Salvemini). Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un'affermazione sul nome del Salvemini, nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore recatosi a Firenze per avere il consenso alla candidatura. «Gli operai di Torino vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli operai di Torino sanno che, nelle elezioni generali del 1913, i contadini di Molfetta e di Bitonto erano, nella loro stragrande maggioranza, favorevoli al Salvemini; la pressione amministrativa del governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia ha impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito, né di programma, né di disciplina al gruppo parlamentare; una volta eletto, il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi, non agli operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro princípi e non saranno per nulla impegnati dall'attività politica del Salvemini.»

Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di «perfidia» comunista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si impegnò di venire a Torino a sostenere il Partito socialista nella lotta elettorale. Tenne infatti due comizi grandiosi alla Camera del lavoro e in piazza Statuto, tra l'entusiasmo della massa che vedeva ed applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in forme ancora piú odiose e bestiali che il proletariato settentrionale.

L'indirizzo, potenzialmente contenuto in questo episodio che non ebbe sviluppi maggiori solo per la volontà del Salvemini, fu ripreso e applicato dai comunisti nel periodo del dopoguerra. Vogliamo ricordare i fatti piú salienti e sintomatici.

Nel 1919 si formò l'associazione della «Giovane Sardegna», esordio e premessa di quel che sarà piú tardi il Partito sardo d'azione. La «Giovane Sardegna» si proponeva di unire tutti i sardi dell'isola e del continente in un blocco regionale capace di esercitare una utile pressione sul governo per ottenere che fossero mantenute le promesse fatte durante la guerra ai soldati; l'organizzatore della «Giovane Sardegna» nel continente era un tale prof. Pietro Nurra, socialista, che molto probabilmente oggi fa parte del gruppo di «giovani» che nel Quarto Stato scopre ogni settimana qualche nuovo orizzonte da esplorare. Vi aderivano con l'entusiasmo che crea ogni nuova probabilità di pescar croci, commende e medaglini, avvocati, professori, funzionari. L'assemblea costituente, convocata a Torino per i sardi abitanti nel Piemonte, riuscí imponente per il numero degli intervenuti. Era in maggioranza povera gente, popolani senza qualifica distinguibile, manovali d'officina, piccoli pensionati, ex carabinieri, ex guardie carcerarie, ex soldati di finanza che esercitavano piccoli negozi svariatissimi; tutti erano entusiasmati all'idea di ritrovarsi tra compaesani, di sentire discorsi sulla loro terra alla quale continuavano ad essere legati da innumerevoli fili di parentele, di amicizie, di ricordi, di sofferenze, di speranze: la speranza di ritornare al loro paese, ma ad un paese piú prospero e ricco, che offrisse le condizioni di vivere, sia pure modestamente.

I comunisti sardi, in numero preciso di otto, si recarono alla riunione, presentarono alla presidenza una loro mozione, domandarono di fare una controrelazione. Dopo il discorso infiammato e retorico del relatore ufficiale, adorno di tutte le veneri e gli amorini dell'oratoria regionalistica, dopo che gli intervenuti avevano pianto ai ricordi dei dolori passati e del sangue versato in guerra dai reggimenti sardi, e si erano entusiasmati fino al delirio alla idea del blocco compatto di tutti i figli generosi della Sardegna, era molto difficile «piazzare» la controrelazione; le previsioni piú ottimistiche erano, se non il linciaggio, per lo meno una passeggiata fino in questura dopo essere stati salvati dalle conseguenza del «nobile sdegno della folla». La controrelazione, se suscitò una enorme stupefazione, fu però ascoltata con attenzione, e una volta rotto l'incanto, rapidamente, se pur metodicamente, si giunse alla conclusione rivoluzionaria. Il dilemma: siete voi, poveri diavoli di sardi, per un blocco coi signori di Sardegna che vi hanno rovinato e sono i sorveglianti locali dello sfruttamento capitalistico o siete per un blocco con gli operai rivoluzionari del continente che vogliono abbattere tutti gli sfruttamenti ed emancipare tutti gli oppressi? — questo dilemma fu fatto penetrare nei cervelli dei presenti. Il voto per divisione fu un formidabile successo: da una parte un gruppetto di signore sgargianti, di funzionari in tuba, di professionisti lividi dalla rabbia e dalla paura con una quarantina di poliziotti per contorno di consenso e dall'altra tutta la moltitudine dei poveri diavoli e delle donnette vestite da festa intorno alla piccolissima cellula comunista. Un'ora dopo, alla Camera del lavoro, era costituito il Circolo educativo socialista sardo con 256 inscritti; la costituzione della «Giovane Sardegna» fu rinviata sine die e non ebbe mai luogo.

Fu questa la base politica dell'azione condotta fra i soldati della brigata Sassari, brigata a composizione quasi totalmente regionale. La brigata Sassari aveva partecipato alla repressione del moto insurrezionale di Torino dell'agosto 1917; si era sicuri che essa non avrebbe mai fraternizzato con gli operai, per i ricordi di odio che ogni repressione lascia nella folla anche contro gli strumenti materiali della repressione e nei reggimenti per il ricordo dei soldati caduti sotto i colpi degli insorti. La brigata fu accolta da una folla di signori e signore che offrivano ai soldati fiori, sigari, frutta. Lo stato d'animo dei soldati è caratterizzato da questo racconto di un operaio conciapelli di Sassari, addetto ai primi sondaggi di propaganda: «Mi sono avvicinato a un bivacco di piazza X (i soldati sardi nei primi giorni bivaccarono nelle piazze come in una città conquistata) e ho parlato con un giovane contadino che mi aveva accolto cordialmente perché di Sassari come lui. "Cosa siete venuti a fare a Torino?" "Siamo venuti per sparare contro i signori che fanno sciopero." "Ma non sono i signori quelli che fanno sciopero, sono gli operai e sono poveri." "Qui sono tutti signori; hanno tutti il colletto e la cravatta; guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li conosco e so come sono vestiti; a Sassari, sí, ci sono molti poveri; tutti 'gli zappatori' siamo poveri e guadagnamo 1,50 al giorno." "Ma anche io sono operaio e sono povero." "Tu sei povero perché sei sardo." "Ma se io faccio sciopero con gli altri, sparerai contro di me?" Il soldato rifletté un poco, poi mettendomi una mano sulla spalla: "Senti, quando fai sciopero con gli altri, resta a casa!"».

Era questo lo spirito della stragrande maggioranza della brigata, che contava solo un piccolo numero di operai minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo pochi mesi, alla vigilia dello sciopero generale del 20-21 luglio, la brigata fu allontanata da Torino, i soldati anziani furono congedati e la formazione divisa in tre: un terzo fu mandato ad Aosta, un terzo a Trieste, un terzo a Roma. La brigata fu fatta partire di notte, all'improvviso; nessuna folla elegante li applaudiva alla stazione; i loro canti, se erano anche essi guerrieri, non avevano piú lo stesso contenuto di quelli cantati all'arrivo.

Questi avvenimenti sono rimasti senza conseguenze? No, essi hanno avuto risultati che ancora oggi sussistono e continuano ad operare nella profondità della massa popolare. Essi hanno illuminato per un momento cervelli che non avevano mai pensato in quella direzione e che sono rimasti impressionati, modificati radicalmente. I nostri archivi sono andati dispersi; molte carte sono state da noi stessi distrutte per non provocare arresti e persecuzioni. Ma noi ricordiamo decine e centinaia di lettere giunte dalla Sardegna alla redazione torinese dello Avanti!; lettere spesso collettive, spesso firmate da tutti gli ex combattenti della Sassari di un determinato paese. Per vie incontrollate e incontrollabili, l'atteggiamento politico da noi sostenuto si diffondeva; la formazione del Partito sardo d'azione ne fu fortemente influenzata alla base e sarebbe possibile ricordare a questo proposito episodi ricchi di contenuto e di significato.

L'ultima ripercussione controllata di questa azione la si ebbe nel 1922, quando, con gli stessi propositi che per la brigata Sassari, furono inviati a Torino 300 carabinieri della legione di Cagliari. Ricevemmo, alla redazione dell'Ordine Nuovo, una dichiarazione di principio, firmata da una grandissima parte di questi carabinieri; essa echeggiava di tutta la nostra impostazione del problema meridionale, essa era la prova decisiva della giustezza del nostro indirizzo.

Il proletariato doveva fare suo questo indirizzo per dargli efficienza politica: ciò è sottinteso. Nessuna azione di massa è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi da applicare. Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o incrostazione sindacalista. Cosa significa ciò? Che non solo devono essere superate le distinzioni che esistono tra professione e professione, ma che occorre, per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città, superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi che possono sussistere e sussistono nella classe operaia come tale anche quando nel suo seno sono spariti i particolarismi di professione. Il metallurgico, il falegname, lo edile, ecc. devono non solo pensare come proletari e non piú come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese, dànno allo Stato la possibilità di resistere all'impeto proletario e di fiaccarlo.

Ebbene: ciò che si è verificato nel terreno della quistione meridionale dimostra che il proletariato ha compreso questi suoi doveri. Due fatti sono da ricordare: uno verificatosi a Torino, l'altro a Reggio Emilia, cioè nella cittadella del riformismo, del corporativismo di classe, del protezionismo operaio portato ad esempio dai «meridionalisti» nella loro propaganda tra i contadini del Sud.

Dopo l'occupazione delle fabbriche, la direzione della Fiat fece la proposta agli operai di assumere la gestione dell'azienda in forma di cooperativa. Come è naturale, i riformisti erano favorevoli. Si profilava una crisi industriale. Lo spettro della disoccupazione angosciava le famiglie operaie. Se la Fiat diventava cooperativa, una certa sicurezza dell'impiego avrebbe potuto essere acquistata dalla maestranza e specialmente dagli operai politicamente piú attivi, che erano persuasi di essere destinati al licenziamento.

La sezione socialista guidata dai comunisti intervenne energicamente nella quistione. Fu detto agli operai: una grande azienda cooperativa come la Fiat può essere assunta dagli operai, solo se gli operai sono decisi a entrare nel sistema di forze politiche borghesi che oggi governa l'Italia. La proposta della direzione della Fiat rientra nel piano politico giolittiano. In che consiste questo piano? La borghesia, già prima della guerra, non poteva piú governare tranquillamente. La insurrezione dei contadini siciliani del 1894 e l'insurrezione di Milano del 1898 furono lo experimentum crucis della borghesia italiana. Dopo il decennio sanguinoso '90-900, la borghesia dovette rinunziare a una dittatura troppo esclusivista, troppo violenta, troppo diretta: insorgevano contro di lei simultaneamente se anche non coordinatamente i contadini meridionali e gli operai settentrionali. Nel nuovo secolo la classe dominante inaugurò una nuova politica, di alleanze di classe, di blocchi politici di classe, cioè di democrazia borghese. Doveva scegliere: o una democrazia rurale, cioè una alleanza coi contadini meridionali, una politica di libertà doganale, di suffragio universale, di decentramento amministrativo, di bassi prezzi nei prodotti industriali, o un blocco industriale capitalistico-operaio, senza suffragio universale, per il protezionismo doganale, per il mantenimento dell'accentramento statale (espressione del dominio borghese sui contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle isole), per una politica riformistica dei salari e delle libertà sindacali. Scelse, non a caso, questa seconda soluzione; Giolitti impersonò il dominio borghese, il Partito socialista divenne lo strumento della politica giolittiana. Se osservate bene, nel decennio '900-910 si verificano le crisi piú radicali nel movimento socialista e operaio: la massa reagisce spontaneamente contro la politica dei capi riformisti. Nasce il sindacalismo, che è l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini e in primo luogo coi contadini meridionali. Proprio cosí: anzi, in un certo senso, il sindacalismo è un debole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro intellettuali piú avanzati, di dirigere il proletariato. Da chi è costituito il nucleo dirigente del sindacalismo italiano, quale è la essenza ideologica del sindacalismo italiano? Il nucleo dirigente del sindacalismo è costituito di meridionali quasi esclusivamente: Labriola, Leone, Longobardi, Orano. L'essenza ideologica del sindacalismo è un nuovo liberalismo piú energico, piú aggressivo, piú pugnace di quello tradizionale. Se osservate bene, due sono i motivi fondamentali intorno ai quali avvengono le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei dirigenti sindacalisti nel campo borghese: l'emigrazione e il libero scambio, due motivi strettamente legati al meridionalismo. Il fatto della emigrazione fa nascere la concezione della «nazione proletaria» di Enrico Corradini; la guerra libica appare a tutto uno strato di intellettuali come l'inizio dell'offensiva della «grande proletaria» contro il mondo capitalistico e plutocratico. Tutto un gruppo di sindacalisti passa al nazionalismo, anzi il Partito nazionalista viene costituito originariamente da intellettuali ex sindacalisti (Monicelli, Forges-Davanzati, Maraviglia). Il libro di Labriola Storia di 10 anni (i dieci anni dal '900 al '910) è l'espressione piú tipica e caratteristica di questo neoliberalismo antigiolittiano e meridionalista.

In questi dieci anni il capitalismo si rafforza e si sviluppa, e riversa una parte della sua attività nell'agricoltura della valle Padana. Il tratto piú caratteristico di questi 10 anni sono gli scioperi di massa degli operai agricoli della valle Padana. Un profondo rivolgimento avviene tra i contadini settentrionali; si verifica una profonda differenziazione di classe (il numero dei braccianti aumenta del 50 per cento, secondo i dati del censimento del 1911) e ad essa corrisponde una rielaborazione delle correnti politiche e degli atteggiamenti spirituali. La democrazia sociale e il mussolinismo sono i due prodotti piú salienti dell'epoca: la Romagna è il crogiuolo regionale di queste due nuove attività; il bracciante pare essere diventato il protagonista sociale della lotta politica. La democrazia sociale, nei suoi organismi di sinistra (l'Azione, di Cesena), e anche il mussolinismo cadono rapidamente sotto il controllo dei «meridionalisti». L'Azione di Cesena è una edizione regionale dell'Unità di Gaetano Salvemini. L'Avanti! diretto dal Mussolini, lentamente, ma sicuramente, si viene trasformando in una palestra per gli scrittori sindacalisti e meridionalisti. I Fancello, i Lanzillo, i Panunzio, i Ciccotti ne diventano assidui collaboratori: lo stesso Salvemini non nasconde le sue simpatie per Mussolini, che diventa anche un beniamino della Voce di Prezzolini. Tutti ricordano che in realtà, quando Mussolini esce dall'Avanti! e dal Partito socialista, egli è circondato da questa coorte di sindacalisti e di meridionalisti.

La ripercussione piú notevole di questo periodo nel campo rivoluzionario è la Settimana rossa del giugno 1914: la Romagna e le Marche sono l'epicentro della Settimana rossa. Nel campo della politica borghese la ripercussione piú notevole è il patto Gentiloni. Poiché il Partito socialista, per effetto dei movimenti agrari della valle Padana, era ritornato, dopo il 1910, alla tattica intransigente, il blocco industriale, sostenuto e rappresentato da Giolitti, perde la sua efficienza; Giolitti muta spalla al suo fucile; alla alleanza tra borghesi e operai sostituisce l'alleanza tra borghesi e cattolici, che rappresentano le masse contadine dell'Italia settentrionale e centrale. Per questa alleanza il Partito conservatore di Sonnino viene completamente distrutto, conservando una sua piccolissima cellula solo nell'Italia meridionale, intorno ad Antonio Salandra. La guerra e il dopoguerra hanno visto svolgersi una serie di processi molecolari nella classe borghese della piú alta importanza. Salandra e Nitti furono i primi due capi di governo meridionali (per non parlare dei siciliani, naturalmente, come Crispi, che fu il piú energico rappresentante della dittatura borghese del secolo XIX) e cercarono di attuare il piano borghese industriale-agrario meridionale, nel terreno conservatore il Salandra, nel terreno democratico il Nitti (tutt'e due questi capi di governo furono aiutati solidamente dal Corriere della Sera, cioè dall'industria tessile lombarda). Già durante la guerra, il Salandra cercò di spostare a favore del Mezzogiorno le forze tecniche dell'organizzazione statale, cercò di sostituire al personale giolittiano dello Stato, un nuovo personale che incarnasse il nuovo corso politico della borghesia. Voi ricordate la campagna condotta dalla Stampa specialmente nel 1917-18 per una stretta collaborazione tra giolittiani e socialisti per impedire la «pugliesizzazione» dello Stato: quella campagna fu condotta nella Stampa da Francesco Ciccotti, cioè era di fatto una espressione dell'accordo esistente tra Giolitti e i riformisti. La quistione non era da poco e i giolittiani, nel loro accanimento difensivo, giunsero fino a oltrepassare i limiti consentiti a un partito della grande borghesia, giunsero fino a quelle manifestazioni di antipatriottismo e di disfattismo che sono nella memoria di tutti. Oggi Giolitti è nuovamente al potere, nuovamente la grande borghesia si affida a lui, per il panico che la invade innanzi all'impetuoso movimento delle masse popolari. Giolitti vuole addomesticare gli operai di Torino. Li ha battuti due volte: nello sciopero dell'aprile scorso e nell'occupazione delle fabbriche, tutt'e due le volte con l'aiuto della Confederazione generale del lavoro, cioè del riformismo corporativo. Ritiene ora di poterli inquadrare nel sistema borghese statale. Infatti, che avverrà se le maestranze Fiat accettano le proposte della direzione? Le attuali azioni industriali diventeranno obbligazioni; cioè la cooperativa dovrà pagare ai portatori di obbligazioni un dividendo fisso, qualunque sia il giro degli affari. L'azienda Fiat sarà taglieggiata in tutti i modi dagli istituti di credito, che rimangono in mano ai borghesi, i quali hanno l'interesse a ridurre gli operai alla loro discrezione. Le maestranze necessariamente dovranno legarsi allo Stato, il quale «verrà in aiuto agli operai» attraverso l'opera dei deputati operai, attraverso la subordinazione del partito politico operaio alla politica governativa. Ecco il piano di Giolitti nella sua piena applicazione. Il proletariato torinese non esisterà piú come classe indipendente, ma solo come un'appendice dello Stato borghese. Il corporativismo di classe avrà trionfato, ma il proletariato avrà perduto la sua posizione e il suo ufficio di dirigente e di guida; esso apparirà alle masse degli operai piú poveri come un privilegiato, apparirà ai contadini come uno sfruttatore alla stessa stregua dei borghesi, perché la borghesia, come ha sempre fatto, presenterà alle masse contadine i nuclei operai privilegiati come l'unica causa dei loro mali e della loro miseria.

Le maestranze Fiat accettarono quasi all'unanimità il nostro punto di vista e le proposte della direzione furono respinte. Ma questo esperimento non poteva essere sufficiente. Il proletariato torinese, con tutta una serie di azioni, aveva dimostrato di avere raggiunto un altissimo grado di maturità e capacità politica. I tecnici e gli impiegati d'officina, nel 1919, poterono migliorare le condizioni solo perché appoggiati dagli operai. Per stroncare la agitazione dei tecnici, gli industriali proposero agli operai di nominare essi stessi, elettivamente, nuovi capisquadra e capireparto: gli operai respinsero la proposta, quantunque avessero parecchie ragioni di conflitto coi tecnici che erano sempre stati uno strumento padronale di repressione e di persecuzione. Allora i giornali fecero una furiosa campagna per isolare i tecnici, mettendo in vista i loro altissimi salari, che raggiungevano fino le 7.000 lire al mese. Gli operai qualificati aiutarono l'agitazione dei manovali, che solo cosí riuscirono a imporsi: nell'interno delle fabbriche furono spazzati via tutti i privilegi e gli sfruttamenti delle categorie piú qualificate ai danni delle meno qualificate. Attraverso queste azioni l'avanguardia proletaria si guadagnò la sua posizione sociale di avanguardia; è stata questa la base dello sviluppo del Partito comunista a Torino. Ma fuori di Torino? Ebbene, noi volemmo di proposito portare la quistione fuori di Torino e precisamente a Reggio Emilia, dove esisteva la maggiore concentrazione di riformismo e di corporativismo di classe.

Reggio Emilia era sempre stato il bersaglio dei «meridionalisti». Una frase di Camillo Prampolini: «L'Italia si divide in nordici e sudici» era come l'espressione piú caratteristica dell'odio violento che tra i meridionali si spargeva contro gli operai del Nord. A Reggio Emilia si presentò una questione simile a quella della Fiat: una grande officina doveva passare nelle mani degli operai come azienda cooperativa. I riformisti reggiani erano entusiasti dell'avvenimento e lo strombazzavano nei loro giornali e nelle loro riunioni. Un comunista torinese si recò a Reggio, prese la parola nel comizio di fabbrica, espose tutto il complesso della quistione tra Nord e Sud e si ottenne il «miracolo»: gli operai, a grandissima maggioranza, respinsero la tesi riformista e corporativa. Fu dimostrato che i riformisti non rappresentavano lo spirito degli operai reggiani; ne rappresentavano solo la passività e altri lati negativi. Erano riusciti a instaurare un monopolio politico, data la notevole concentrazione nelle loro file di organizzatori e propagandisti d'un certo valore professionale, e quindi, a impedire lo sviluppo e l'organizzazione di una corrente rivoluzionaria; ma era bastata la presenza di un rivoluzionario capace per metterli in iscacco e rivelare che gli operai reggiani sono dei valorosi combattenti e non dei porci allevati con la biada governativa.

Nell'aprile 1921, 5.000 operai rivoluzionari furono licenziati dalla Fiat, i Consigli di fabbrica furono aboliti, i salari reali furono abbassati. A Reggio Emilia avvenne probabilmente qualcosa di simile. Gli operai cioè furono battuti. Ma il sacrifizio che essi avevano fatto è restato inutile? Non lo crediamo: siamo anzi sicuri che esso non è stato inutile. È certo difficile registrare tutta una fila di grandi avvenimenti di massa che provino l'efficacia immediata e fulminea di queste azioni. D'altronde, per ciò che riguarda i contadini, queste registrazioni sono sempre difficili e quasi impossibili; sono ancora piú difficili per ciò che riguarda la massa contadina del Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro. (Si capisce che occorre fare delle eccezioni: le Puglie, la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale.) La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri, e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due piú grandi figure della reazione italiana.

Gli intellettuali meridionali sono uno strato sociale dei piú interessanti e dei piú importanti nella vita nazionale italiana. Basta pensare che piú di 3/5 della burocrazia statale è costituita di meridionali per convincersene. Ora, per comprendere la particolare psicologia degli intellettuali meridionali, occorre tenere presenti alcuni dati di fatto:

1. In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo sviluppo del capitalismo. Il vecchio tipo dell'intellettuale era l'elemento organizzativo di una società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per organizzare il commercio, la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuale. La industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale; l'organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in senso capitalistico, fino ad assorbire la maggior parte dell'attività nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e disciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l'agricoltura esercita un ruolo ancora notevole o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario tra il contadino e l'amministrazione in generale. Nell'Italia meridionale predomina questo tipo, con tutte le sue caratteristiche: democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale.

2. L'intellettuale meridionale esce prevalentemente da un ceto che nel Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese rurale, cioè il piccolo e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si vergognerebbe di fare l'agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in affitto o a mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere convenientemente, di che mandar all'università o in seminario i figlioli, di che far la dote alle figlie che devono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello Stato. Da questo ceto gli intellettuali ricevono un'aspra avversione per il contadino lavoratore, considerato come macchina da lavoro che deve esser smunta fino all'osso e che può essere sostituita facilmente data la superpopolazione lavoratrice: ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine.

3. Poiché al gruppo sociale degli intellettuali appartiene il clero, occorre notare le diversità di caratteristiche tra il clero meridionale nel suo complesso e il clero settentrionale. Il prete settentrionale comunemente è il figlio di un artigiano o di un contadino; ha sentimenti democratici, è piú legato alla massa dei contadini; moralmente è piú corretto del prete meridionale, il quale spesso convive quasi apertamente con una donna, e perciò esercita un ufficio spirituale piú completo socialmente, cioè è un dirigente di tutta l'attività di una famiglia. Nel Settentrione la separazione della Chiesa dallo Stato e la espropriazione dei beni ecclesiastici è stata piú radicale che nel Mezzogiorno, dove le parrocchie e i conventi o hanno conservato o hanno ricostituito notevoli proprietà immobiliari e mobiliari. Nel Mezzogiorno il prete si presenta al contadino: 1) come un amministratore di terre col quale il contadino entra in conflitto per la quistione degli affitti; 2) come un usuraio che domanda elevatissimi tassi di interesse e fa giocare l'elemento religioso per riscuotere sicuramente o l'affitto o l'usura; 3) come un uomo sottoposto alle passioni comuni (donne e danaro) e che pertanto spiritualmente non dà affidamento di discrezione e di imparzialità. La confessione esercita perciò uno scarsissimo ufficio dirigente e il contadino meridionale, se spesso è superstizioso in senso pagano, non è clericale. Tutto questo complesso spiega il perché nel Mezzogiorno il Partito popolare (eccettuata qualche zona della Sicilia) non abbia una posizione notevole, non abbia posseduto nessuna rete di istituzioni e di organizzazioni di massa. L'atteggiamento del contadino verso il clero è riassunto nel detto popolare: «Il prete è prete sull'altare; fuori è un uomo come tutti gli altri».

Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell'intellettuale. I movimenti dei contadini, in quanto si riassumono non in organizzazioni di massa autonome e indipendenti sia pure formalmente (cioè capaci di selezionare quadri contadini di origine contadina e di registrare e accumulare le differenziazioni e i progressi che nel movimento si realizzano) finiscono col sistemarsi sempre nelle ordinarie articolazioni dell'apparato statale — comuni, province, Camera dei deputati — attraverso composizioni e scomposizioni dei partiti locali, il cui personale è costituito di intellettuali, ma che sono controllati dai grandi proprietari e dai loro uomini di fiducia, come Salandra, Orlando, Di Cesarò. La guerra parve introdurre un elemento nuovo in questo tipo di organizzazione col movimento degli ex combattenti, nel quale i contadini-soldati e gli intellettuali-ufficiali formavano un blocco piú unito tra di loro e in una certa misura antagonistico coi grandi proprietari. Non durò a lungo e l'ultimo residuo di esso è l'Unione nazionale concepita da Amendola, che ha una larva di esistenza per il suo antifascismo; tuttavia, data la nessuna tradizione di organizzazione esplicita degli intellettualidemocratici nel Mezzogiorno, anche questo aggruppamento deve essere rilevato e tenuto da conto, perché può diventare, da tenuissimo filo d'acqua, un limaccioso e gonfio torrente in mutate condizioni di politica generale. La sola regione dove il movimento degli ex combattenti assunse un profilo piú preciso e riuscí a crearsi una struttura sociale piú solida è la Sardegna. E si capisce: appunto perché in Sardegna la classe dei grandi proprietari terrieri è tenuissima, non svolge nessuna funzione e non ha le antichissime tradizioni culturali, intellettuali e governative del Mezzogiorno continentale. La spinta dal basso, esercitata dalle masse dei contadini e dei pastori non trova un contrappeso soffocante nel superiore strato sociale dei grandi proprietari: gli intellettuali dirigenti subiscono in pieno la spinta e fanno dei passi in avanti piú notevoli che l'Unione nazionale. La situazione siciliana ha caratteri differenziali molto profondi sia dalla Sardegna che dal Mezzogiorno. I grandi proprietari vi sono molto piú coesi e decisi che nel Mezzogiorno continentale; vi esiste inoltre una certa industria e un commercio molto sviluppato (la Sicilia è la piú ricca regione di tutto il Mezzogiorno e una delle piú ricche d'Italia); le classi superiori sentono moltissimo la loro importanza nella vita nazionale e la fanno pesare. La Sicilia e il Piemonte sono le due regioni che hanno dato maggior numero di dirigenti politici allo Stato italiano, sono le due regioni che hanno esercitato un ufficio preminente dal '70 in poi. Le masse popolari siciliane sono piú avanzate che nel Mezzogiorno, ma il loro progresso ha assunto una forma tipicamente siciliana; esiste un socialismo di massa siciliano che ha tutta una tradizione e uno sviluppo peculiare; nella Camera del 1922 esso contava circa 20 deputati su 52 che ne erano eletti nell'isola.

Abbiamo detto che il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell'intellettuale. Questo tipo di organizzazione è il tipo piú diffuso in tutto il Mezzogiorno continentale e in Sicilia. Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi. Se qualche idea e qualche programma è stato affermato, essi hanno avuto la loro origine fuori del Mezzogiorno, nei gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario meridionale. Il Sonnino e il Franchetti furono dei pochi borghesi intelligenti che si posero il problema meridionale come problema nazionale e tracciarono un piano di governo per la sua soluzione. Quale fu il punto di vista di Sonnino e Franchetti? La necessità di creare nell'Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse, come allora si diceva, da «opinione pubblica» e limitasse i crudeli arbítri dei proprietari da una parte e moderasse l'insurrezionismo dei contadini poveri dall'altra. Sonnino e Franchetti erano rimasti spaventatissimi della popolarità che avevano nel Mezzogiorno le idee del bakunismo della I Internazionale. Questo spavento fece loro prendere degli abbagli spesso grotteschi. In una loro pubblicazione, per esempio, si accenna al fatto che una osteria o una trattoria popolare di un paese della Calabria (citiamo a memoria) è intitolata agli «scioperanti», per dimostrare quanto diffuse e radicali fossero le idee internazionalistiche. Il fatto, se vero (come deve essere vero, data la probità intellettuale degli autori), si spiega piú semplicemente, ricordando come nel Mezzogiorno siano numerose le colonie di albanesi e come la parola Skipetàri abbia subíto nei dialetti le deformazioni piú strane e curiose (cosí in alcuni documenti della repubblica veneta si parla di formazioni militari di «S'ciopetà»). Ora nel Mezzogiorno non tanto erano diffuse le teorie del Bakunin, quanto la situazione stessa era tale da aver probabilmente suggerito al Bakunin le sue teorie: certamente i contadini poveri meridionali pensavano allo «sfascio» molto prima che il cervello di Bakunin avesse escogitato la teoria della «pan distruzione».

Il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe mai neanche l'inizio di una attuazione. E non poteva averlo. Il nodo di rapporti tra Settentrione e Mezzogiorno nell'organizzazione dell'economia nazionale e dello Stato, è tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica (ciò che significa poi la nascita di una borghesia capitalistica diffusa) è resa quasi impossibile. Ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto. Quando l'emigrazione assunse nel secolo XX le forme gigantesche che assunse, e le prime rimesse cominciarono ad affluire dall'America, gli economisti liberali gridarono trionfalmente: Il sogno di Sonnino si avvera. Una silenziosa rivoluzione si verifica nel Mezzogiorno, che lentamente ma sicuramente muterà tutta la struttura economica e sociale del paese. Ma lo Stato intervenne e la rivoluzione silenziosa fu soffocata nel nascere. Il governo offrí dei buoni del tesoro a interesse certo e gli emigranti e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie del Nord. Francesco Nitti che, nel piano democratico e formalmente fuori del blocco agrario meridionale, poteva sembrare un fattivo realizzatore del programma di Sonnino, fu invece il miglior agente del capitalismo settentrionale per rastrellare le ultime risorse del risparmio meridionale. I miliardi inghiottiti dalla Banca di sconto erano quasi tutti dovuti al Mezzogiorno: i 400.000 creditori della BIS erano in grandissima maggioranza risparmiatori meridionali.

Al disopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono Giustino Fortunato e Benedetto Croce, i quali, perciò, possono essere giudicati come i reazionari piú operosi della penisola.

Abbiamo detto che l'Italia meridionale è una grande disgregazione sociale. Questa formula oltre che ai contadini si può riferire anche agli intellettuali. È notevole il fatto che, nel Mezzogiorno, accanto alla grandissima proprietà siano esistite ed esistano grandi accumulazioni culturali e di intelligenza in singoli individui o in ristretti gruppi di grandi intellettuali, mentre non esiste una organizzazione della cultura media. Esiste nel Mezzogiorno la casa editrice Laterza e la rivista La Critica, esistono accademie e imprese culturali di grandissima erudizione; non esistono piccole e medie riviste, non esistono case editrici intorno a cui si raggruppino formazioni medie di intellettuali meridionali. I meridionali che hanno cercato di uscire dal blocco agrario e di impostare la quistione meridionale in forma radicale hanno trovato ospitalità e si sono raggruppati intorno a riviste stampate fuori del Mezzogiorno. Si può dire anzi che tutte le iniziative culturali dovute agli intellettuali medi che hanno avuto luogo nel XX secolo nell'Italia centrale e settentrionale furono caratterizzate dal meridionalismo, perché fortemente influenzate da intellettuali meridionali: tutte le riviste del gruppo di intellettuali fiorentini, Voce,Unità; le riviste dei democratici cristiani, come l'Azione di Cesena; le riviste dei giovani liberali emiliani e milanesi di G. Borelli, come la Patria di Bologna o l'Azione di Milano; infine la Rivoluzione liberale di Gobetti. Orbene: supremi moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative sono stati Giustino Fortunato e Benedetto Croce. In una cerchia piú ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei piú onesti rappresentanti della gioventú colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell'azione. I cosiddetti neoprotestanti o calvinisti non hanno capito che in Italia, non potendoci essere una Riforma religiosa di massa, per le condizioni moderne della civiltà, si è verificata la sola Riforma storicamente possibile con la filosofia di Benedetto Croce: è stato mutato l'indirizzo e il metodo del pensiero, è stata costruita una nuova concezione del mondo che ha superato il cattolicismo e ogni altra religione mitologica. In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una altissima funzione «nazionale»; ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario.

L'Ordine Nuovo e i comunisti torinesi, se in un certo senso possono essere collegati alle formazioni intellettuali cui abbiamo accennato e se pertanto hanno anch'essi subíto l'influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce, rappresentano però nello stesso tempo una rottura completa con quella tradizione e l'inizio di un nuovo svolgimento, che ha già dato dei frutti e che ancora ne darà. Essi, come è stato già detto, hanno posto il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale. Avendo servito da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di sinistra, sono riusciti a modificare, se non completamente, certo notevolmente l'indirizzo mentale di essi. È questo l'elemento principale della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva piú a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica piú rilevante era la lealtà intellettuale e l'assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi e ingiusti. Quale conseguenza ebbero in Gobetti questi contatti col mondo proletario? Essi furono l'origine e l'impulso per una concezione che non vogliamo discutere e approfondire, una concezione che in gran parte si riattacca al sindacalismo e al modo di pensare dei sindacalisti intellettuali: i princípi del liberalismo vengono in essa proiettati dall'ordine dei fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi, concepite quasi come individualità collettive. Questa concezione di solito porta negli intellettuali che la condividono alla pura contemplazione e registrazione dei meriti e dei demeriti, a una posizione odiosa e melensa di arbitri tra le contese, di assegnatori dei premi e delle punizioni. Praticamente il Gobetti sfuggí a questo destino. Egli si rivelò un organizzatore della cultura di straordinario valore ed ebbe in questo ultimo periodo una funzione che non deve essere né trascurata né sottovalutata dagli operai. Egli scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di intellettuali piú onesti e sinceri che nel 1919-20-21 sentirono che il proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla borghesia. Alcuni in buona fede e onestamente, altri in cattivissima fede e disonestamente andarono ripetendo che il Gobetti era nient'altro che un comunista camuffato, un agente, se non del Partito comunista, per lo meno del gruppo comunista dell'Ordine Nuovo. Non occorre neanche smentire tali insulse dicerie. La figura del Gobetti e il movimento da lui rappresentato furono spontanee produzioni del nuovo clima storico italiano: in ciò è il loro significato e la loro importanza. Ci è stato qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver combattuto contro la corrente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza di lotta anzi sembrò la prova del collegamento organico, di carattere machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti. Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movimento che non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò significa non comprendere la quistione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono nella lotta delle classi. Gobetti praticamente ci serviva di collegamento: 1. Con gli intellettuali nati sul terreno della tecnica capitalistica che avevano assunto una posizione di sinistra, favorevole alla dittatura del proletariato, nel 1919-20. 2. Con una serie di intellettuali meridionali che, per collegamenti piú complessi, ponevano la quistione meridionale su un terreno diverso da quello tradizionale, introducendovi il proletariato del Nord: di questi intellettuali Guido Dorso è la figura piú completa e interessante. Perché avremmo dovuto lottare contro il movimento di Rivoluzione liberale? Forse perché esso non era costituito di comunisti puri che avessero accettato dall'A alla Z il nostro programma e la nostra dottrina? Questo non poteva essere domandato perché sarebbe stato politicamente e storicamente un paradosso. Gli intellettuali si sviluppano lentamente, molto piú lentamente di qualsiasi altro gruppo sociale, per la stessa loro natura e funzione storica. Essi rappresentano tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzarne tutta la storia: ciò sia detto specialmente del vecchio tipo di intellettuale, dell'intellettuale nato sul terreno contadino. Pensare possibile che esso possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente nel terreno di una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettuali come massa, è forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente, nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare. Ora a noi interessano gli intellettuali come massa, e non solo come individui. È certo importante e utile per il proletariato che uno o piú intellettuali, individualmente, aderiscano al suo programma e alla sua dottrina, si confondano nel proletariato, ne diventino e se ne sentano parte integrante. Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può formarsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente e solo dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata: che si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L'alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione: tanto piú l'esige l'alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo Partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre piú notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura piú o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. Per la soluzione di questo compito il proletariato è stato aiutato da Piero Gobetti e noi pensiamo che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua guida, l'opera intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto perciò degna di tutti i sacrifizi (anche della vita, come è stato nel caso del Gobetti) da parte di quegli intellettuali (e sono molti, piú di quanto si creda) settentrionali e meridionali che hanno compreso essere essenzialmente nazionali e portatrici dell'avvenire due sole forze sociali: il proletariato e i contadini...

Appendice

La situazione italiana e i compiti del PCI46

1. La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie l'avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può considerare, nel momento presente, come il compito fondamentale della Internazionale comunista. Questo compito deve essere posto in relazione con lo sviluppo storico del movimento operaio internazionale, e in particolare con la lotta svoltasi nell'interno di esso tra il marxismo e le correnti che costituivano una deviazione dai princípi e dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria.

In Italia, il compito di creare un partito bolscevico assume tutto il rilievo che è necessario soltanto se si tengono presenti le vicende del movimento operaio dai suoi inizi e le deficienze fondamentali che in esso si sono rivelate.

2. La nascita del movimento operaio ebbe luogo in ogni paese in forme diverse. Di comune vi fu in ogni luogo la spontanea ribellione del proletariato contro il capitalismo. Questa ribellione assunse però in ogni nazione una forma specifica, la quale era riflesso e conseguenza delle particolari caratteristiche nazionali degli elementi che, provenendo dalla piccola borghesia e dai contadini, avevano contribuito a formare la grande massa del proletariato industriale.

Il marxismo costituí l'elemento cosciente, scientifico, superiore al particolarismo delle varie tendenze di carattere e origine nazionale e condusse contro di esse una lotta nel campo teorico e nel campo della organizzazione. Tutto il processo formativo della I Internazionale ebbe come cardine questa lotta, la quale si conchiuse con la espulsione del bakuninismo dalla Internazionale. Quando la I Internazionale cessò di esistere, il marxismo aveva oramai trionfato nel movimento operaio. La II Internazionale si formò infatti di partiti i quali si richiamavano tutti al marxismo e lo prendevano come fondamento della loro tattica in tutte le questioni essenziali.

Dopo la vittoria del marxismo, le tendenze di carattere nazionale delle quali esso aveva trionfato cercarono di manifestarsi per altra via, risorgendo nel seno stesso del marxismo come forme di revisionismo. Questo processo fu favorito dallo sviluppo della fase imperialistica del capitalismo. Sono strettamente connessi con questo fenomeno i seguenti tre fatti: il venir meno nelle file del movimento operaio della critica dello Stato, parte essenziale della dottrina marxista, alla quale si sostituiscono le utopie democratiche; il formarsi di un'aristocrazia operaia; un nuovo spostamento di masse dalla piccola borghesia e dai contadini al proletariato, e quindi una nuova diffusione tra il proletariato di correnti ideologiche di carattere nazionale, contrastanti col marxismo. Il processo di degenerazione della II Internazionale assunse cosí la forma di una lotta contro il marxismo che si svolgeva nell'interno del marxismo stesso. Esso culminò nello sfacelo provocato dalla guerra.

Il solo partito che si salvò dalla degenerazione è il Partito bolscevico, il quale riuscí a mantenersi alla testa del movimento operaio del proprio paese, espulse dal proprio seno le tendenze antimarxiste ed elaborò, attraverso le esperienze di tre rivoluzioni, il leninismo, che è il marxismo dell'epoca del capitalismo monopolista, delle guerre imperialiste e della rivoluzione proletaria. Viene cosí storicamente determinata le posizione del partito bolscevico nella fondazione e a capo della III Internazionale, e sono posti i termini del problema della formazione di partiti bolscevichi in ogni paese: esso è il problema di richiamare l'avanguardia del proletariato alla dottrina e alla pratica del marxismo rivoluzionario, superando e liquidando completamente ogni corrente antimarxista.

3. In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituí mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima di uno sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare immediatamente al socialismo. La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un forte proletariato, ed ebbero come conseguenza che anche la scissione degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina di anni (1892, Congresso di Genova).

Nel Partito socialista italiano come uscí dal Congresso di Genova due erano le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali che non rappresentavano piú della tendenza a una riforma democratica dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire alla istaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.). Dall'altra un gruppo piú direttamente collegato con il movimento proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata, dopo il '900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica, fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevamo a dargli la fisionomia di un partito marxista del proletariato.

Gli elementi intellettuali si staccarono anzi sempre piú dalla classe operaia, né ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista che prese forma nel sindacalismo. Come reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del proletariato. Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un partito della classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di classe.

Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già prima della guerra, a differenziare un gruppo di «estrema sinistra» il quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento operaio una influenza reale.

In questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti a una situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea il problema della «scelta della classe» e della forma organizzativa ad essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla conquista del potere.

La accumulazione sistematica di una esperienza che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio.

Analisi della struttura sociale italiana

4. Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista. Nei paesi capitalistici la sola classe che può attuare una trasformazione sociale reale e profonda è la classe operaia. Soltanto la classe operaia è capace di tradurre in atto i rivolgimenti di carattere economico e politico che sono necessari perché le energie del nostro paese abbiano libertà e possibilità di sviluppo complete. Il modo come essa attuerà questa sua funzione rivoluzionaria è in relazione con il grado di sviluppo del capitalismo in Italia e con la struttura sociale che ad esso corrisponde.

5. L'industrialismo, che è la parte essenziale del capitalismo, è in Italia assai debole. Le sue possibilità di sviluppo sono limitate e per la situazione geografica e per la mancanza di materie prime. Esso non riesce quindi ad assorbire la maggioranza della popolazione italiana (4 milioni di operai industriali stanno di fronte a 3 milioni e mezzo di operai agricoli e a 4 milioni di contadini). Si oppone all'industrialismo una agricoltura la quale si presenta naturalmente come base della economia del paese. Le variatissime condizioni del suolo, e le conseguenti differenze di colture e sistemi di conduzione, provocano però una forte differenziazione dei ceti rurali, con una prevalenza degli strati poveri, piú vicini alle condizioni del proletariato e piú facili a subire la sua influenza e ad accettarne la guida. Tra le classi industriali ed agrarie si pone una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e che ha una importanza assai grande. Essa consta in prevalenza di artigiani, professionisti e impiegati dello Stato.

6. La debolezza intrinseca del capitalismo costringe la classe industriale ad adottare degli espedienti per garantirsi il controllo sopra tutta la economia del paese. Questi espedienti si riducono in sostanza a un sistema di compromessi economici tra una parte degli industriali e una parte delle classi agricole, e precisamente i grandi proprietari di terre. Non ha quindi luogo la tradizionale lotta economica tra industriali ed agrari, né ha luogo la rotazione di gruppi dirigenti che essa determina in altri paesi. Gli industriali non hanno d'altra parte bisogno di sostenere, contro gli agrari, una politica economica la quale assicuri il continuo afflusso di mano d'opera dalle campagne alle fabbriche, perché questo afflusso è garantito dalla esuberanza di popolazione agricola povera che è caratteristica dell'Italia. L'accordo industriale-agrario si basa sopra una solidarietà di interessi tra alcuni gruppi privilegiati, ai danni degli interessi generali della produzione e della maggioranza di chi lavora. Esso determina una accumulazione di ricchezza nelle mani dei grandi industriali, che è conseguenza di una spoliazione sistematica di intiere categorie della popolazione e di intiere regioni del paese. I risultati di questa politica economica sono infatti il deficit del bilancio economico, l'arresto dello sviluppo economico di intiere regioni (Mezzogiorno, Isole), l'impedimento al sorgere e allo svilupparsi di una economia maggiormente adatta alla struttura del paese e alle sue risorse, la miseria crescente della popolazione lavoratrice, l'esistenza di una continua corrente di emigrazione e il conseguente impoverimento demografico.

7. Come non controlla naturalmente tutta la economia cosí la classe industriale non riesce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di uno Stato nazionale non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento). Per il rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il compromesso con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata, particolarmente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una eterogeneità e una debolezza di tutta la struttura sociale e dello Stato che ne è la espressione.

7 bis. Un riflesso della debolezza della struttura sociale si ha, in modo tipico, prima della guerra, nell'esercito. Una cerchia ristretta di ufficiali, sforniti del prestigio di capi (vecchie classi dirigenti agrarie, nuove classi industriali), ha sotto di sé una casta di ufficiali subalterni burocratizzata (piccola borghesia), la quale è incapace di servire come collegamento con la massa dei soldati indisciplinata e abbandonata a se stessa. Nella guerra tutto l'esercito è costretto a riorganizzarsi dal basso, dopo una eliminazione dei gradi superiori e una trasformazione di struttura organizzativa che corrisponde all'avvento di una nuova categoria di ufficiali subalterni. Questo fenomeno precorre l'analogo rivolgimento che il fascismo compirà nei confronti con lo Stato su scala piú vasta.

8. I rapporti tra industria e agricoltura, che sono essenziali per la vita economica di un paese e per la determinazione delle sovrastrutture politiche, hanno in Italia una base territoriale. Nel Settentrione sono accentrate in alcuni grandi centri la produzione e la popolazione agricola. In conseguenza di ciò, tutti i contrasti inerenti alla struttura sociale del paese contengono in sé un elemento che tocca la unità dello Stato e la mette in pericolo. La soluzione del problema viene cercata dai gruppi dirigenti borghesi e agrari attraverso un compromesso. Nessuno di questi gruppi possiede naturalmente un carattere unitario e una funzione unitaria. Il compromesso col quale l'unità viene salvata è d'altra parte tale da rendere piú grave la situazione. Esso dà alle popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso di esse la funzione delle metropoli capitalistiche, i grandi proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora. Lo sfruttamento economico e la oppressione politica si uniscono quindi per fare della popolazione lavoratrice del Mezzogiorno una forza continuamente mobilitata contro lo Stato.

9. Il proletariato ha in Italia una importanza superiore a quella che ha in altri paesi europei anche il capitalismo piú progredito, paragonabile solo a quella che aveva nella Russia prima della rivoluzione. Ciò è in relazione anzitutto con il fatto che per la scarsezza di materie prime la industria si basa a preferenza sulla mano d'opera (maestranze specializzate), indi con la eterogeneità e con i contrasti di interessi che indeboliscono le classi dirigenti. Di fronte a questa eterogeneità il proletariato si presenta come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società. Il suo programma di classe è il solo programma «unitario», cioè il solo la cui attuazione non porta ad approfondire i contrasti tra i diversi elementi della economia e della società e non porta a spezzare la unità dello Stato. Accanto al proletariato industriale inoltre esiste una grande massa di proletari agricoli, accentrata soprattutto nella Valle del Po, facilmente influenzata dagli operai della industria e quindi agevolmente mobilitabile nella lotta contro il capitalismo e lo Stato.

Si ha in Italia una conferma della tesi che le piú favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei paesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al piú alto grado del loro sviluppo, ma si possono invece aver là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati.

La politica della borghesia italiana

10. Lo scopo che le classi dirigenti italiane si proposero di raggiungere dalle origini dello Stato unitario in poi, fu quello di tenere soggette le grandi masse della popolazione lavoratrice, e impedire loro di diventare, organizzandosi intorno al proletariato industriale e agricolo, una forza rivoluzionaria capace di attuare un completo rivolgimento sociale e politico e dare vita a uno Stato proletario. La debolezza intrinseca del capitalismo le costrinse però a porre come base dell'ordinamento economico e dello Stato borghese una unità ottenuta per via di compromessi tra gruppi non omogenei. In una vasta prospettiva storica questo sistema si dimostra non adeguato allo scopo cui tende. Ogni forma di compromesso fra i diversi gruppi dirigenti la società italiana si risolve infatti in un ostacolo posto allo sviluppo dell'una o dell'altra parte della economia del paese. Cosí vengono determinati nuovi contrasti e nuove reazioni della maggioranza della popolazione, si rende necessario accentuare la pressione sopra le masse e si produce una spinta sempre piú decisiva alla mobilitazione di esse per la rivolta contro lo Stato.

11. Il primo periodo di vita dello Stato italiano (1870-90) è quello della maggiore sua debolezza. Le due parti di cui si compone la classe dirigente, gli intellettuali borghesi da una parte e i capitalisti dall'altra, sono uniti nel proposito di mantenere l'unità, ma divisi circa la forma da dare allo Stato unitario. Manca tra di esse una omogeneità positiva. I problemi che lo Stato si propone sono limitati; essi riguardano piuttosto la forma che la sostanza del dominio politico della borghesia; sovrasta a tutti il problema del pareggio, che è un problema di pura conservazione. La coscienza della necessità di allargare la base delle classi che dirigono lo Stato si ha soltanto con gli inizi del «trasformismo».

La maggiore debolezza dello Stato è data in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costituito dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. Il programma del Vaticano consta di due parti: esso vuole lottare contro lo Stato borghese unitario e «liberale» e in pari tempo si propone di costituire, con i contadini, un esercito di riserva contro l'avanzata del proletariato socialista, che sarà provocata dallo sviluppo della industria. Lo Stato reagisce al sabotaggio che il Vaticano compie ai suoi danni e si ha tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericali.

12. Nel periodo che corre dal 1890 al 1900 la borghesia si pone risolutamente il problema di organizzare la propria dittatura e lo risolve con una serie di provvedimenti di carattere politico ed economico da cui è determinata la successiva storia italiana.

Anzitutto si risolve il dissidio tra la borghesia intellettuale e gli industriali: l'avvento del potere di Crispi ne è il segno. La borghesia cosí rafforzata risolve la questione dei suoi rapporti con l'estero (Triplice alleanza) acquistando una sicurezza che le permette dei tentativi di piazzarsi nel campo della concorrenza internazionale per la conquista di mercati coloniali. All'interno la dittatura borghese si istaura politicamente con una restrizione del diritto di voto che riduce il corpo elettorale a poco piú di un milione di elettori su 30 milioni di abitanti. Nel campo economico l'introduzione del protezionismo industriale-agrario corrisponde al proposito del capitalismo di acquistare il controllo di tutta la ricchezza nazionale. Viene a mezzo di esso saldata una alleanza tra gli industriali e gli agrari. Questa alleanza strappa al Vaticano una parte delle forze che esso aveva raccolto attorno a sé, soprattutto tra i proprietari di terre del Mezzogiorno, e le fa entrare nel quadro dello Stato borghese. Il Vaticano stesso avverte del resto la necessità di dare maggiore rilievo alla parte del suo programma reazionario che riguarda la resistenza al movimento operaio e prende posizione contro il socialismo con la enciclica Rerum Novarum. Al pericolo che il Vaticano continua però a rappresentare per lo Stato le classi dirigenti reagiscono dandosi una organizzazione unitaria con un programma anticlericale, nella massoneria.

I primi progressi reali del movimento operaio si hanno infatti in questo periodo. L'instaurazione della dittatura industriale-agraria pone nei suoi termini reali il problema della rivoluzione determinando i fattori storici di essa. Sorge nel Nord un proletariato industriale e agricolo, mentre nel Sud la popolazione agricola, sottoposta a un sistema di sfruttamento «coloniale», deve essere tenuta soggetta con una compressione politica sempre piú forte. I termini della «questione meridionale» vengono posti, in questo periodo, in modo netto. E spontaneamente, senza l'intervento di un fattore cosciente e senza nemmeno che il Partito socialista tragga da questo fatto una indicazione per la sua strategia di partito della classe operaia, si verifica in questo periodo per la prima volta il confluire dei tentativi insurrezionali del proletariato settentrionale, con una rivolta di contadini meridionali (fasci siciliani).

13. Spezzati i primi tentativi del proletariato e dei contadini di insorgere contro lo Stato, la borghesia italiana consolidata può adottare, per ostacolare i progressi del movimento operaio, i metodi esteriori della democrazia e quelli della corruzione politica verso la parte piú avanzata della popolazione lavoratrice (aristocrazia operaia) per renderla complice della dittatura reazionaria che essa continua ad esercitare, e impedirle di diventare il centro della insurrezione popolare contro lo Stato (giolittismo). Si ha però, tra il 1900 ed il 1910, una fase di concentrazione industriale ed agraria. Il proletariato agricolo cresce del 50 per cento a danno delle categorie degli obbligati, mezzadri e fittavoli. Di qui una ondata di movimenti agricoli, e un nuovo orientamento dei contadini che costringe lo stesso Vaticano a reagire con la fondazione dell'«Azione cattolica» e con un movimento «sociale» che giunge, nelle sue forme estreme, fino ad assumere le parvenze di una riforma religiosa (modernismo). A questa reazione del Vaticano per non lasciarsi sfuggire le masse corrisponde l'accordo dei cattolici con le classi dirigenti per dare allo Stato una base piú sicura (abolizione del non expedit, patto Gentiloni). Anche verso la fine di questo terzo periodo (1914) i diversi movimenti parziali del proletariato e dei contadini culminano in un nuovo inconscio tentativo di saldatura delle diverse forze di massa antistatali in una insurrezione contro lo Stato reazionario. Da questo tentativo viene già posto con sufficiente rilievo il problema che apparirà in tutta la sua ampiezza nel dopoguerra: cioè il problema della necessità che il proletariato organizzi, nel suo seno, un partito di classe che gli dia la capacità di porsi a capo della insurrezione e di guidarla.

14. Il massimo di concentrazione economica nel campo industriale si ha nel dopoguerra. Il proletariato raggiunge il piú alto grado di organizzazione e ad esso corrisponde il massimo di disgregazione delle classi dirigenti e dello Stato. Tutte le contraddizioni insite nell'organismo sociale italiano affiorano con la massima crudezza per il risveglio delle masse anche piú arretrate alla vita politica provocato dalla guerra e dalle sue conseguenze immediate. E, come sempre, l'avanzata degli operai dell'industria e dell'agricoltura si accompagna a una agitazione profonda delle masse dei contadini, sia del Mezzogiorno che delle altre regioni. I grandi scioperi e la occupazione delle fabbriche si svolgono contemporaneamente alla occupazione delle terre. La resistenza delle forze reazionarie si esercita ancora secondo la direzione tradizionale. Il Vaticano consente che accanto all'«Azione cattolica» si formi un vero e proprio partito, il quale si propone di inserire le masse contadine entro il quadro dello Stato borghese apparentemente accontentando le loro aspirazioni di redenzione economica e di democrazia politica. Le classi dirigenti a loro volta attuano in grande stile il piano di corruzione e disgregazione interna del movimento operaio, facendo apparire ai capi opportunisti la possibilità che una aristocrazia operaia collabori al governo in un tentativo di soluzione «riformista» del problema dello Stato (governo di sinistra). Ma in un paese povero e disunito come l'Italia, l'affacciarsi di una soluzione «riformista» del problema dello Stato provoca inevitabilmente la disgregazione della compagine statale e sociale, la quale non resiste all'urto dei numerosi gruppi in cui le stesse classi dirigenti e le classi intermedie si polverizzano. Ogni gruppo ha esigenze di protezione economica e di autonomia politica sue proprie, e, nell'assenza di un omogeneo nucleo di classe che sappia imporre, con la sua dittatura, una disciplina di lavoro e di produzione a tutto il paese, sbaragliando ed eliminando gli sfruttatori capitalisti ed agrari, il governo viene reso impossibile e la crisi del potere è continuamente aperta.

La sconfitta del proletariato rivoluzionario è dovuta, in questo periodo decisivo, alle deficienze politiche, organizzative, tattiche e strategiche del partito dei lavoratori. In conseguenza di queste deficienze il proletariato non riesce a mettersi a capo dell'insurrezione della grande maggioranza della popolazione e a farla sboccare nella creazione di uno Stato operaio; esso stesso subisce invece l'influenza di altre classi sociali che ne paralizzano l'azione. La vittoria del fascismo nel 1922 deve essere considerata quindi non come una vittoria riportata sulla rivoluzione, ma come la conseguenza della sconfitta toccata alle forze rivoluzionarie per loro intrinseco difetto.

Il fascismo e la sua politica

15. Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia. Esso è perciò favorito nelle sue origini, nella sua organizzazione e nel suo cammino da tutti indistintamente i vecchi gruppi dirigenti, a preferenza però dagli agrari i quali sentono piú minacciosa la pressione delle plebi rurali. Socialmente però il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni (fenomeni di capitalismo agrario nell'Emilia, origine di una categoria di intermediari di campagna, «borse della terra», nuove ripartizioni di terreni). Questo fatto e il fatto di aver trovato una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni militari in cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla guerriglia contro i lavoratori, permettono al fascismo di concepire ed attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi ceti dirigenti. Assurdo parlare di rivoluzione. Le nuove categorie che si raccolgono attorno al fascismo traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità di «capitalismo nascente». Ciò spiega come sia possibile la lotta contro gli uomini politici del passato e come esse possano giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini. Nella sostanza il fascismo modifica il programma di conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte piú decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari.

16. Il metodo fascista di difesa dell'ordine, della proprietà e dello Stato è, ancora piú del sistema tradizionale dei compromessi e della politica di sinistra, disgregatore della compagine sociale e delle sue sovrastrutture politiche. Le reazioni che esso provoca devono essere esaminate in relazione alla sua applicazione sia nel campo economico che nel campo politico.

Nel campo politico, anzitutto, l'unità organica della borghesia nel fascismo non si realizza immediatamente dopo la conquista del potere. Al di fuori del fascismo rimangono i centri di una opposizione borghese al regime. Da una parte non viene assorbito il gruppo che tiene fede alla soluzione giolittiana del problema dello Stato. Questo gruppo si collega a una sezione della borghesia industriale e, con un programma di riformismo «laburista», esercita influenza sopra strati di operai e piccoli borghesi. Dall'altra parte il programma di fondare lo Stato sopra una democrazia rurale del Mezzogiorno e sopra la parte «sana» della industria settentrionale (Corriere della sera, liberismo, Nitti) tende a diventare programma di una organizzazione politica di opposizione al fascismo con basi di massa nel Mezzogiorno (Unione nazionale).

Il fascismo è costretto a lottare contro questi gruppi superstiti molto vivacemente e a lottare con vivacità anche maggiore contro la massoneria, che esso considera giustamente come centro di organizzazione di tutte le tradizionali forze di sostegno dello Stato. Questa lotta, che è, volere o no, l'indizio di una spezzatura nel blocco delle forze conservatrici e antiproletarie, può in determinate circostanze favorire lo sviluppo e l'affermazione del proletariato come terzo e decisivo fattore di una situazione politica.

Nel campo economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del paese. Ciò non può fare a meno di provocare un malcontento nella piccola borghesia la quale, con l'avvento del fascismo, credeva giunta l'era del suo dominio.

Tutta una serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova concentrazione industriale (abolizione della imposta di successione, politica finanziaria e fiscale, inasprimento del protezionismo), e ad esse corrispondono altre misure a favore degli agrari e contro i piccoli e medi coltivatori (imposte, dazio sul grano, «battaglia del grano»). L'accumulazione che queste misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi lavoratrici e medie a favore della plutocrazia. Il disegno di favorire la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate, un piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza. Nello stesso piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle due grandi banche meridionali. Queste due banche adempiono oggi la funzione di assorbire i risparmi del Mezzogiorno e le rimesse degli emigranti (600 milioni), cioè la funzione che nel passato adempivano lo Stato con la emissione di buoni del tesoro e la Banca di sconto nell'interesse di una parte dell'industria pesante del Nord. Le banche meridionali sono state controllate fino ad ora dalle stesse classi dirigenti del Mezzogiorno, le quali hanno trovato in questo controllo una base reale del loro dominio politico. La soppressione delle banche meridionali come banche di emissione farà passare questa funzione alla grande industria del Nord che controlla, attraverso la Banca commerciale, la Banca d'Italia e verrà in questo modo accentuato lo sfruttamento economico «coloniale» e l'impoverimento del Mezzogiorno, nonché accelerato il lento processo di distacco dallo Stato anche della piccola borghesia meridionale.

La politica economica del fascismo si completa con i provvedimenti intesi a rialzare il corso della moneta, a risanare il bilancio dello Stato, a pagare i debiti di guerra e a favorire l'intervento del capitale inglese-americano in Italia. In tutti questi campi il fascismo attua il programma della plutocrazia (Nitti) e di una minoranza industriale-agraria ai danni della grande maggioranza della popolazione le cui condizioni di vita sono progressivamente peggiorate.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all'«imperialismo». Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il dominio del mondo.

17. Si determinano, in conseguenza della politica del fascismo, profonde reazioni delle masse. Il fenomeno piú grave è il distacco sempre piú deciso delle popolazioni agrarie del Mezzogiorno e delle Isole dal sistema di forze che reggono lo Stato. La vecchia classe dirigente locale (Orlando, Di Cesarò, De Nicola, ecc.) non esercita piú in modo sistematico la sua funzione di anello di congiunzione con lo Stato. La piccola borghesia tende quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all'estremo; questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari.

Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d'Italia acquistano una funzione rivoluzionaria, (benché in modo piú lento. Il Vaticano — la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo — non controlla piú le popolazioni rurali in modo completo attraverso i preti, l'«Azione cattolica» e il Partito Popolare. Vi è una parte dei contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle autorità ecclesiastiche, ed ora, sotto la pressione economica e politica del fascismo, accentua il proprio orientamento di classe e incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell'«Azione cattolica», fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressione di quel periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal 1870 come imminente alla società italiana.

Quanto al proletariato, l'attività disgregatrice delle sue forze trova un limite nella resistenza attiva della avanguardia rivoluzionaria e in una resistenza passiva della grande massa, la quale rimane fondamentalmente classista e accenna a rimettersi in movimento non appena si rallenta la pressione fisica del fascismo e si fanno piú forti gli stimoli dell'interesse di classe. Il tentativo di portare nel suo seno la scissione con i sindacati fascisti, si può considerare fallito. I sindacati fascisti, mutando il loro programma, diventano ora strumenti diretti di compressione reazionaria al servizio dello Stato.

18. Ai pericolosi spostamenti e ai nuovi reclutamenti di forze che sono provocati dalla sua politica il fascismo reagisce facendo gravare su tutta la società il peso di una forza militare e un sistema di compressione il quale tiene la popolazione inchiodata al fatto meccanico della produzione senza possibilità di avere una vita propria, di manifestare una propria volontà e di organizzarsi per la difese dei propri interessi.

La cosiddetta legislazione fascista non ha altro scopo che quello di consolidare e rendere permanente questo sistema. La nuova legge elettorale politica, le modificazioni dell'ordinamento amministrativo con la introduzione del podestà per i comuni di campagna, ecc., vorrebbero segnare la fine della partecipazione delle masse alla vita politica e amministrativa del paese. Il controllo sulle associazioni impedisce ogni forma permanente «legale» di organizzazione delle masse. La nuova politica sindacale toglie alla Confederazione del lavoro e ai sindacati di classe la possibilità di concludere dei concordati per escluderli dal contatto con le masse che si erano organizzate attorno ad essi. La stampa proletaria viene soppressa. Il partito di classe del proletariato ridotto alla vita pienamente illegale. Le violenze fisiche e le persecuzioni di polizia sono adoperate sistematicamente, soprattutto nelle campagne, per incutere il terrore e mantenere una situazione da stato d'assedio.

Il risultato di questa complessa attività di reazione e di compressione è lo squilibrio tra il rapporto reale delle forze sociali è il rapporto delle forze organizzate, per cui a un apparente ritorno alla normalità e alla stabilità corrisponde una acutizzazione di contrasti pronti a prorompere ad ogni istante per nuove vie.

18 bis. La crisi seguita al delitto Matteotti ha fornito un esempio della possibilità che l'apparente stabilità del regime fascista sia turbata dalle basi per il prorompere improvviso di contrasti economici e politici approfonditisi senza che fossero avvertiti. Essa ha in pari tempo fornito la prova della incapacità della piccola borghesia a guidare ad un esito, nell'attuale periodo storico, la lotta contro la reazione industriale-agraria.

Forze motrici e prospettive della rivoluzione

19. Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta oramai dalla nostra analisi sono, in ordine alla loro importanza, le seguenti:

1) la classe operaia e il proletario agricolo;

2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altre parti d'Italia.

Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a esercitare di fatto un'azione di guida degli altri fattori e in prima linea a concretare politicamente la sua alleanza con i contadini.

Si può affermare in linea generale, e basandosi del resto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in un periodo rivoluzionario «immediato» quando il proletariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di combattività.

Quanto ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir loro, all'infuori di una alleanza col proletariato, una importanza risolutiva. L'alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano. Per i contadini delle altre parti d'Italia il processo di orientamento verso l'alleanza col proletariato è piú lento e dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo indicano del resto che il problema di rompere l'alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in altri paesi dell'Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali.

20. Gli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione, oltre che dati dalla pressione fascista, sono in relazione con la varietà dei gruppi in cui la borghesia si divide. Ognuno di questi gruppi si sforza di esercitare una influenza sopra una sezione della popolazione lavoratrice per impedire che si estenda la influenza del proletariato, o sul proletariato stesso per fargli perdere la sua figura e autonomia di classe rivoluzionaria. Si costituisce in questo modo una catena di forze reazionarie, la quale partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e in parte anche negli operai (partito riformista), e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività e far loro seguire la politica di altre classi (partito massimalista). Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori. Ognuno dei gruppi che abbiamo indicati tiene legata a sé una parte della popolazione lavoratrice italiana. La modificazione di questo stato di cose è soltanto concepibile come conseguenza di una sistematica e ininterrotta azione politica della avanguardia proletaria organizzata nel Partito comunista.

Una particolare attenzione deve essere data ai gruppi e partiti i quali hanno una base di massa, o cercano di formarsela come partiti democratici o come partiti regionali, nella popolazione agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti d'azione sardo, molisano, irpino, ecc.). Questi partiti non esercitano una influenza diretta sul proletariato, ma sono un ostacolo alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini. Orientando le classi agricole del Mezzogiorno verso una democrazia rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano l'unità del processo di liberazione della popolazione lavoratrice italiana, impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo sfruttamento economico e politico della borghesia e degli agrari, e preparano la trasformazione di essi in guardia bianca della reazione. Il successo politico della classe operaia è anche in questo campo in relazione con l'azione politica del partito del proletariato.

21. La possibilità di un abbattimento del regime fascista per una azione di gruppi antifascisti sedicenti democratici esisterebbe solo se questi gruppi riuscissero, neutralizzando l'azione del proletariato, a controllare un movimento di masse fino a poterne frenare gli sviluppi. La funzione della opposizione borghese democratica è invece quella di collaborare col fascismo nell'impedire la riorganizzazione della classe operaia e la realizzazione del suo programma di classe. In questo senso un compromesso tra fascismo e opposizione borghese è in atto e ispirerà la politica di ogni formazione di «centro» che sorga dai rottami dell'Aventino. La opposizione potrà tornare ad essere protagonista dell'azione di difesa del regime capitalista solo quando la stessa compressione fascista piú non riuscirà a impedire lo scatenamento dei conflitti di classe, e il pericolo di una insurrezione di proletari e della sua saldatura con una guerra di contadini apparirà grave e imminente. La possibilità di ricorso della borghesia e del fascismo stesso al sistema della reazione celata dalla apparenza di un «governo di sinistra» deve quindi essere continuamente presente nelle nostre prospettive (divisione di funzioni tra fascismo e democrazia, Tesi del V Congresso mondiale).

22. Da questa analisi dei fattori della rivoluzione e delle sue prospettive si deducono i compiti del Partito comunista. Ad essa devono essere collegati i criteri della sua attività organizzativa e quelli della sua azione politica. Da essa discendono le linee direttive e fondamentali del suo programma.

Compiti fondamentali del Partito comunista

23. Dopo aver resistito vittoriosamente alla ondata reazionaria che voleva sommergerlo (1923), dopo aver contribuito con la propria azione a segnare un primo punto di arresto nel processo di dispersione delle forze lavoratrici (elezioni del 1924), dopo aver approfittato della crisi Matteotti per riorganizzare una avanguardia proletaria che si è opposta con notevole successo al tentativo di istaurare un predominio piccolo-borghese nella vita politica (Aventino) e aver poste le basi di una reale politica contadina del proletariato italiano, il partito si trova oggi nella fase della preparazione politica della rivoluzione.

Il suo compito fondamentale può essere indicato da questi tre punti:

1) organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione;

2) organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello Stato operaio;

3) porre al proletariato e ai suoi alleati il problema della insurrezione contro lo Stato borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una serie di lotte parziali.

La costruzione del Partito comunista come partito «bolscevico»

24. La organizzazione della avanguardia proletaria in Partito comunista è la parte essenziale della nostra attività organizzativa. Gli operai italiani hanno appreso dalla loro esperienza (1919-20) che ove manchi la guida di un Partito comunista costruito come partito della classe operaia e come partito della rivoluzione, non è possibile un esito vittorioso della lotta per l'abbattimento del regime capitalistico. La costruzione di un Partito comunista che sia di fatto il partito della classe operaia e il partito della rivoluzione, — che sia cioè, un partito «bolscevico», — è in connessione diretta con i seguenti punti fondamentali:

1) la ideologia del partito;

2) la forma della organizzazione, e la sua compattezza;

3) la capacità di funzionare a contatto con la massa;

4) la capacità strategica e tattica.

Ognuno di questi punti è collegato strettamente con gli altri e non potrebbe, a rigore di logica, essere separato. Ognuno di essi infatti indica e comprende una serie di problemi le cui soluzioni interferiscono e si sovrappongono. L'esame separato di essi sarà utile soltanto quando si tenga presente che nessuno può venire risolto senza che tutti siano impostati e condotti di pari passo ad una soluzione.

La ideologia del partito

25. Unità ideologica completa è necessaria al Partito comunista per poter adempiere in ogni momento la sua funzione di guida della classe operaia. L'unità ideologica è elemento della forza del partito e della sua capacità politica, essa è indispensabile per farlo diventare un partito bolscevico. Base della unità ideologica è la dottrina del marxismo e del leninismo, inteso quest'ultimo come la dottrina marxista adeguata ai problemi del periodo dell'imperialismo e dell'inizio della rivoluzione proletaria (Tesi sulla bolscevizzazione dell'Esecutivo allargato dell'aprile 1925, nn. IV e VI).

Il Partito comunista d'Italia ha formato la sua ideologia nella lotta contro la socialdemocrazia (riformisti) e contro il centrismo politico rappresentato dal Partito massimalista. Esso non trova però nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi. Manca inoltre nelle sue file una profonda e diffusa conoscenza delle teorie del marxismo e del leninismo. Sono quindi possibili le deviazioni.

L'innalzamento del livello ideologico del partito deve essere ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). È da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero dei singoli che lo compongono.

26. Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è presente nel Partito comunista d'Italia.

Nel campo teorico esso è rappresentato dai tentativi di revisione del marxismo fatti dal compagno Graziadei sotto la veste di una precisazione «scientifica» di alcuni dei concetti fondamentali della dottrina di Marx. I tentativi di Graziadei non possono certo portare alla creazione di una corrente e quindi di una frazione che metta in pericolo la unità ideologica e la compattezza del partito. È però implicito in essi un appoggio a correnti e deviazioni politiche di destra. Ad ogni modo essi indicano la necessità che il partito compia un profondo studio del marxismo e acquisti una coscienza teorica piú alta e piú sicura.

Il pericolo che si crei una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, a una passività della avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento attivo del Partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito comunista deve essere «l'ala sinistra» di una opposizione di tutte le forze che cospirano all'abbattimento del regime fascista. Esso è la espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice.

Lo stesso pessimismo e le stesse deviazioni conducono a interpretare in modo errato la natura e la funzione storica dei partiti socialdemocratici nel momento attuale, a dimenticare che la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata davanti alle masse.

Il pericolo di destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari ogni qualvolta la necessità lo richieda.

27. Legato con le origini del partito e con la situazione generale del paese è parimenti il pericolo di deviazione di sinistra dalla ideologia marxista e leninista. Esso è rappresentato dalla tendenza estremista che fa capo al compagno Bordiga. Questa tendenza si formò nella particolare situazione di disgregazione e incapacità programmatica, organizzativa, strategica e tattica in cui si trovò il Partito socialista italiano dalla fine della guerra al Congresso di Livorno: la sua origine e la sua fortuna sono inoltre in relazione col fatto che, essendo la classe operaia una minoranza nella popolazione lavoratrice italiana, è continuo il pericolo che il suo partito sia corrotto da infiltrazioni di altre classi, e in particolare della piccola borghesia. A questa condizione della classe operaia e alla situazione del Partito socialista italiano la tendenza di estrema sinistra reagí con una particolare ideologia, cioè con una concezione della natura del partito, della sua funzione e della sua tattica che è in contrasto con quella del marxismo e del leninismo:

a) dall'estrema sinistra il partito viene definito, trascurando o sottovalutando il suo contenuto sociale, come un «organo» della classe operaia, che si costituisce per sintesi di elementi eterogenei. Il partito deve invece essere definito mettendo in rilievo anzitutto il fatto che esso è una «parte» della classe operaia. L'errore nella definizione del partito porta a impostare in modo errato i problemi organizzativi e i problemi di tattica;

b) per la estrema sinistra la funzione del partito non è quella di guidare in ogni momento la classe sforzandosi di restare in contatto con essa attraverso qualsiasi mutamento di situazione oggettiva, ma di elaborare dei quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle situazioni l'avrà portata al partito, facendole accettare le posizioni programmatiche e di principio da esso fissate;

c) per quanto riguarda la tattica, l'estrema sinistra sostiene che essa non deve venire determinata in relazione con le situazioni oggettive e con la posizione delle masse in modo che essa aderisca sempre alla realtà e fornisca un continuo contatto con gli strati piú vasti della popolazione lavoratrice, ma deve essere determinata in base a preoccupazioni formalistiche. È propria dell'estremismo la concezione che le deviazioni dai princípi della politica comunista non vengono evitate con la costruzione di partiti «bolscevichi» i quali siano capaci di compiere, senza deviare, ogni azione politica che è richiesta per la mobilitazione delle masse e per la vittoria rivoluzionaria, ma possono essere evitate soltanto col porre alla tattica limiti rigidi e formali di carattere esteriore (nel campo organizzativo: «adesione individuale», cioè rifiuto delle «fusioni», le quali possono invece essere sempre, in condizioni determinate, efficacissimo mezzo di estensione della influenza del partito; nel campo politico: travisamento dei termini del problema della conquista della maggioranza, fronte unico sindacale e non politico, nessuna diversità nel modo di lottare contro la democrazia a seconda del grado di adesione delle masse a formazioni democratiche controrivoluzionarie e della imminenza e gravità di un pericolo reazionario, rifiuto della parola d'ordine del governo operaio e contadino). All'esame delle situazioni dei movimenti di massa si ricorre quindi solo per il controllo della linea dedotta in base a preoccupazioni formalistiche e settarie: viene perciò sempre a mancare, nella determinazione della politica del partito, l'elemento particolare; la unità e completezza di visione che è propria del nostro metodo di indagine politica (dialettica) è spezzata; l'attività del partito e le sue parole d'ordine perdono efficacia e valore rimanendo attività e parole di semplice propaganda.

È inevitabile, come conseguenza di queste posizioni, la passività politica del partito. Di essa l'«astensionismo» fu nel passato un aspetto. Ciò permette di avvicinare l'estremismo di sinistra al massimalismo e alle deviazioni di destra. Esso è inoltre, come le tendenze di destra, espressione di uno scetticismo sulla possibilità che la massa operaia organizzi dal suo seno un partito di classe il quale sia capace di guidare la grande massa sforzandosi di tenerla in ogni momento collegata a sé.

La lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone d'influenza.

L'estremismo di sinistra fu la ideologia ufficiale del partito italiano nel primo periodo della sua esistenza. Esso è sostenuto da compagni che furono tra i fondatori del partito e dettero un grandissimo contributo alla sua costruzione dopo Livorno. Vi sono quindi motivi per spiegare come questa concezione sia stata a lungo radicata nella maggioranza dei compagni anche senza che fosse da essi valutata criticamente in modo completo, ma piuttosto come conseguenza di uno stato d'animo diffuso. È evidente perciò che il pericolo di estrema sinistra deve essere considerato come una realtà immediata, come un ostacolo non solo alla unificazione ed elevazione ideologica, ma allo sviluppo politico del partito e alla efficacia della sua azione. Esso deve essere combattuto come tale, non solo con la propaganda, ma con una azione politica ed eventualmente con misure organizzative.

28. Elemento della ideologia del partito è il grado di spirito internazionalista che è penetrato nelle sue file. Esso è assai forte tra di noi come spirito di solidarietà internazionale, ma non altrettanto come coscienza di appartenere ad un partito mondiale. Contribuisce a questa debolezza la tendenza a presentare la concezione di estrema sinistra come una concezione nazionale («originalità» e valore «storico» delle posizioni della «sinistra italiana») la quale si oppone alla concezione marxista e leninista della Internazionale comunista e cerca di sostituirsi ad essa. Di qui l'origine di una specie di «patriottismo di partito», che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione mondiale secondo i princípi che sono propri di questa organizzazione (rifiuti di cariche, lotta di frazione internazionale, ecc.). Questa debolezza di spirito internazionalista offre il terreno ad una ripercussione nel partito della campagna che la borghesia conduce contro la Internazionale comunista qualificandola come organo dello Stato russo. Alcune delle tesi di estrema sinistra a questo proposito si collegano a tesi abituali dei partiti controrivoluzionari. Esse devono venir combattute con estremo vigore, con una propaganda che dimostri come storicamente spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista e quale è la posizione dello Stato operaio russo — prima ed unica reale conquista della classe operaia nella lotta per il potere — nei confronti del movimento operaio internazionale (Tesi sulla situazione internazionale).

La base dell'organizzazione del partito

29. Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici. La soluzione di essi deve rendere possibile al partito di attuare il suo compito fondamentale, di far acquistare al proletariato una completa indipendenza politica, di dargli una fisionomia, una personalità, una coscienza rivoluzionaria precisa, di impedire ogni infiltrazione e influenza disgregatrice di classi ed elementi, i quali pur avendo interessi contrari al capitalismo non vogliono condurre la lotta contro di esso fino alle sue conseguenze ultime.

In prima linea è un problema politico: quello della base della organizzazione. La organizzazione del partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del luogo di lavoro (cellule). Questo principio è essenziale per la creazione di un partito «bolscevico». Esso dipende dal fatto che il partito deve essere attrezzato per dirigere il movimento di massa della classe operaia, la quale viene naturalmente unificata dallo sviluppo del capitalismo secondo il processo della produzione.

Ponendo la base organizzativa nel luogo della produzione il partito compie un atto di scelta della classe sulla quale esso si basa. Esso proclama di essere un partito di classe e il partito di una sola classe, la classe operaia.

Tutte le obiezioni al principio che pone la organizzazione del partito sulla base della produzione partono da concezioni che sono legate a classi estranee al proletariato, anche se sono presentate da compagni e gruppi che si dicono di «estrema sinistra». Esse si basano sopra una considerazione pessimista delle capacità rivoluzionarie dell'operaio e dell'operaio comunista, e sono espressione dello spirito antiproletario del piccolo borghese intellettuale, il quale crede di essere il sale della terra e vede nell'operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione.

Si riproducono nel partito italiano a proposito delle cellule la discussione e il contrasto che portarono in Russia alla scissione tra bolscevichi e menscevichi a proposito del medesimo problema della scelta della classe, del carattere di classe del partito e del modo di adesione al partito di elementi non proletari. Questo fatto ha del resto, in relazione con la situazione italiana, una importanza notevole. È la stessa struttura sociale e sono le condizioni e le tradizioni della lotta politica quelle che rendono in Italia assai piú serio che altrove il pericolo di edificare il partito in base a una «sintesi» di elementi eterogenei, cioè di aprire in essi la via alla influenza paralizzatrice di altre classi. Si tratta di un pericolo che sarà inoltre reso sempre piú grave dalla stessa politica del fascismo, che spingerà sul terreno rivoluzionario intieri strati della piccola borghesia.

È certo che il Partito comunista non può essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un'altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo. Cosí pure il Partito comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame politico tra il proletariato e le classi rurali. Ma è da respingere energicamente, come controrivoluzionaria, ogni concezione che faccia del partito una «sintesi» di elementi eterogenei, invece di sostenere senza concessioni di sorta che esso è una parte del proletariato, che il proletariato deve dargli la impronta della organizzazione che gli è propria e che al proletariato deve essere garantita nel partito stesso una funzione direttiva.

30. Non hanno consistenza le obiezioni pratiche alla organizzazione sulla base della produzione (cellule), secondo le quali questa struttura organizzativa non permetterebbe di superare la concorrenza tra diverse categorie di operai e darebbe il partito in balia al funzionarismo.

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di «aristocrazia operaia».

La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice. Il partito deve dedicare una cura particolare alla educazione di questi compagni che formano il tessuto connettivo della organizzazione e sono lo strumento del collegamento con le masse. Da qualsiasi punto di vista venga considerata, la trasformazione della struttura sulla base della produzione rimane compito fondamentale del partito nel momento presente e mezzo per la soluzione dei piú importanti suoi problemi. Si deve insistere in essa e intensificare tutto il lavoro ideologico e pratico che ad essa è relativo.

Compattezza della organizzazione del partito. Frazionismo

31. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. Questo non vuol dire che il partito debba essere retto dall'alto con sistemi autocratici. Tanto il Comitato centrale quanto gli organi inferiori di direzione sono formati in base a una elezione e in base a una scelta di elementi capaci compiuta attraverso la prova del lavoro e la esperienza del movimento. Questo secondo elemento garantisce che i criteri per la formazione dei gruppi dirigenti locali e del gruppo dirigente centrale non siano meccanici, esteriori e «parlamentari», ma corrispondano a un processo reale di formazione di una avanguardia proletaria omogenea e collegata con la massa.

Il principio della elezione degli organi dirigenti — democrazia interna — non è assoluto, ma relativo alle condizioni della lotta politica. Anche quando esso subisca limitazioni, gli organi centrali e periferici devono sempre considerare il loro potere non come sovrapposto, ma come sgorgante dalla volontà del partito, e sforzarsi di accentuare il loro carattere proletario e di moltiplicare i loro legami con la massa dei compagni e con la classe operaia. Quest'ultima necessità è particolarmente sentita in Italia, dove la reazione costrinse e costringe tuttora ad una forte limitazione della democrazia interna.

La democrazia interna è pure relativa al grado di capacità politica posseduta dagli organi periferici e dai singoli compagni che lavorano alla periferia. L'azione che il centro esercita per accrescere questa capacità rende possibile una estensione dei sistemi «democratici» e una riduzione sempre piú grande del sistema della «cooptazione» e degli interventi dall'alto per regolare le questioni organizzative locali.

32. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici i quali comprendono una grande varietà di gruppi e nei quali la lotta di frazioni è la forma normale di elaborazione delle direttive politiche e di selezione dei gruppi dirigenti. I partiti e la Internazionale comunista sono sorti in seguito ad una lotta di frazioni svoltasi nel seno della II Internazionale. Costituendosi come partiti e come organizzazione mondiale del proletariato essi hanno eletto a norma della loro vita interna e del loro sviluppo non piú la lotta di frazioni, ma la collaborazione organica di tutte le tendenze attraverso la partecipazione agli organi dirigenti.

La esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo la via alla influenza di altre classi. Questo non vuol dire che nel partito non possano sorgere tendenze e che le tendenze talora non cerchino di organizzarsi in frazioni, ma vuol dire che contro quest'ultima eventualità si deve lottare energicamente per ridurre i contrasti di tendenze, le elaborazioni di pensiero e la selezione dei dirigenti alla forma che è propria dei partiti comunisti, cioè a un processo di svolgimento reale e unitario (dialettico) e non a una controversia e a lotte di carattere «parlamentare».

33. La esperienza del movimento operaio, fallito in seguito alla impotenza del PSI, per la lotta delle frazioni e per il fatto che ogni frazione faceva, indipendentemente dal partito, la sua politica, paralizzando l'azione delle altre frazioni e quella del partito intiero, questa esperienza offre un buon terreno per creare e mantenere la compattezza e la centralizzazione che devono esser propri di un partito bolscevico.

Tra i diversi gruppi da cui il Partito comunista d'Italia ha tratto origine sussiste qualche differenziazione, che deve scomparire con un approfondimento della comune ideologia marxista e leninista. Solo tra i seguaci della ideologia antimarxista di estrema sinistra si sono mantenute a lungo una omogeneità e una solidarietà di carattere frazionistico. Dal frazionismo larvato si è anzi fatto il tentativo di passare alla lotta aperta di frazione, con la costituzione del cosiddetto «Comitato d'intesa». La profondità con cui il partito reagí a questo insano tentativo di scindere le sue forze dà affidamento sicuro che cadrà nel vuoto, in questo campo, ogni tentativo per farci ritornare alle consuetudini della socialdemocrazia.

Il pericolo di un frazionismo esiste in una certa misura anche per la fusione con i terzinternazionalisti del Partito socialista. I terzinternazionalisti non hanno una loro ideologia in comune, ma sussistono tra loro dei legami di carattere essenzialmente corporativo, creatisi nei due anni di vita come frazione in seno al PSI: questi legami sono andati sempre piú allentandosi e non sarà difficile eliminarli totalmente.

La lotta contro il frazionismo deve essere anzitutto propaganda di giusti princípi organizzativi, ma essa non avrà successo sino a che il partito italiano non potrà nuovamente considerare la discussione dei problemi attuali suoi e della Internazionale come fatto normale, e orientare le sue tendenze in relazione a questi problemi.

Il funzionamento della organizzazione del partito

34. Un partito bolscevico deve essere organizzato in modo da poter funzionare, in qualsiasi condizione, a contatto con la massa. Questo principio assume la piú grande importanza tra di noi, per la compressione che il fascismo esercita allo scopo di impedire che i rapporti di forze reali si traducano in rapporti di forze organizzate. Soltanto con la massima concentrazione e intensità della attività del partito si può riuscire a neutralizzare almeno in parte questo fattore negativo e ad ottenere che esso non intralci profondamente il processo della rivoluzione. Devono essere perciò presi in considerazione:

a) il numero degli iscritti e la loro capacità politica; essi devono essere tanti da permettere una continua estensione della nostra influenza. È da combattere la tendenza a tenere artificialmente ristretti i quadri: essa porta alla passività, alla atrofia. Ogni iscritto però deve essere un elemento politicamente attivo, capace di diffondere la influenza del partito, e tradurre quotidianamente in atto le direttive di esso, guidando una parte della massa lavoratrice;

b) la utilizzazione di tutti i compagni in un lavoro pratico;

c) il coordinamento unitario delle diverse specie di attività a mezzo di comitati nei quali si articola tutto il partito come organo di lavoro tra le masse;

d) il funzionamento collegiale degli organi centrali del partito, considerato come condizione per la costituzione di un gruppo dirigente «bolscevico» omogeneo e compatto;

e) la capacità dei compagni di lavorare tra le masse, di essere continuamente presenti tra di esse, di essere in prima fila in tutte le lotte, di sapere in ogni occasione assumere e tenere la posizione che è propria dell'avanguardia del proletariato. Si insiste su questo punto perché la necessità del lavoro sotterraneo e la errata ideologia di «estrema sinistra» hanno prodotto una limitazione della capacità di lavoro tra le masse e con le masse;

f) la capacità degli organismi periferici e dei singoli compagni di affrontare situazioni imprevedute e di prendere atteggiamenti esatti anche prima che giungano disposizioni dagli organismi superiori. È da combattere la forma di passività, residuo essa pure delle false concezioni organizzative dell'estremismo, che consiste nel sapere solo «attendere gli ordini dall'alto». Il partito deve avere alla base una sua «iniziativa», cioè gli organi di base devono saper reagire immediatamente ad ogni situazione imprevista e improvvisa.

g) la capacità di compiere un lavoro «sotterraneo» (illegale) e di difendere il partito dalla reazione di ogni sorta senza perdere il contatto con le masse, ma facendo servire come difesa il contatto stesso con i piú vasti strati della classe lavoratrice. Nella situazione attuale una difesa del partito e del suo apparato che sia ottenuta riducendosi ad esplicare una attività di semplice «organizzazione interna» è da considerare come un abbandono della causa della rivoluzione.

Ognuno di questi punti è da considerare con attenzione perché indica insieme un difetto del partito e un progresso che gli si deve far compiere. Essi hanno tanto maggiore importanza in quanto è da prevedere che i colpi della reazione indeboliranno ancora l'apparato di collegamento tra il centro e la periferia, per quanto grandi siano gli sforzi per mantenerlo intatto.

Strategia e tattica del partito

35. La capacità strategica e tattica del partito è la capacità di organizzare e unificare attorno all'avanguardia proletaria e alla classe operaia tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidarle di fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la strategia e con la sua tattica il partito «dirige la classe operaia» nei grandi movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L'una direzione è legata all'altra ed è condizionata dall'altra.

36. Il principio che il partito dirige la classe operaia non deve essere interpretato in modo meccanico. Non bisogna credere che il partito possa dirigere la classe operaia per una imposizione autoritaria esterna; questo non è vero né per il periodo che precede né per il periodo che segue la conquista del potere. L'errore di una interpretazione meccanica di questo principio deve essere combattuto nel partito italiano come una possibile conseguenza delle deviazioni ideologiche di estrema sinistra; queste deviazioni portano infatti a una arbitraria sopravvalutazione formale del partito per ciò che riguarda la funzione di guida della classe. Noi affermiamo che la capacità di dirigere la classe è in relazione non al fatto che il partito si «proclami» l'organo rivoluzionario di essa, ma al fatto che esso «effettivamente» riesca, come una parte della classe operaia, a collegarsi con tutte le sezioni della classe stessa e a imprimere alla massa un movimento nella direzione desiderata e favorita dalle condizioni oggettive. Solo come conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che esse lo riconoscano come il «loro» partito (conquista della maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni «patriottismo» di partito.

37. Il partito dirige la classe penetrando in tutte le organizzazioni in cui la massa lavoratrice si raccoglie e compiendo in esse e attraverso di esse una sistematica mobilitazione di energie secondo il programma della lotta di classe e un'azione di conquista della maggioranza alle direttive comuniste.

Le organizzazioni in cui il partito lavora e che tendono per loro natura a incorporare tutta la massa operaia non possono mai sostituire il Partito comunista, che è la organizzazione politica dei rivoluzionari, cioè dell'avanguardia del proletariato. Cosí è escluso un rapporto di subordinazione, e di «eguaglianza» tra le organizzazioni di massa e il partito (patto sindacale di Stoccarda, patto di alleanza tra il Partito socialista italiano e la Confederazione generale del lavoro). Il rapporto tra sindacati e partito è uno speciale rapporto di direzione che si realizza mediante la attività che i comunisti esplicano in seno ai sindacati. I comunisti si organizzano in frazione nei sindacati e in tutte le formazioni di massa e partecipano in prima fila alla vita di queste formazioni e alle lotte che esse conducono, sostenendovi il programma e le parole d'ordine del loro partito.

Ogni tendenza a estraniarsi dalla vita delle organizzazioni, qualunque esse siano, in cui è possibile prendere contatto con le masse lavoratrici, è da combattere come pericolosa deviazione, indizio di pessimismo e sorgente di passività.

38. Organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici sono nei paesi capitalistici i sindacati. L'azione nei sindacati è da considerare come essenziale per il raggiungimento dei fini del partito. Il partito che rinuncia alla lotta per esercitare la sua influenza nei sindacati e per conquistarne la direzione, rinuncia di fatto alla conquista della massa operaia e alla lotta rivoluzionaria per il potere.

In Italia l'azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità piú grande e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. La compressione fascista e specialmente la nuova politica sindacale del fascismo creano però una condizione di cose del tutto particolare. La Confederazione del lavoro e i sindacati di classe si vedono tolta la possibilità di svolgere, nelle forme tradizionali, una attività di organizzazione e di difesa economica. Essi tendono a ridursi a semplici uffici di propaganda. In parti tempo però la classe operaia, sotto l'impulso della situazione oggettiva, è spinta a riordinare le proprie forze secondo nuove forme di organizzazione. Il partito deve quindi riuscire a compiere una azione di difesa del sindacato di classe e di rivendicazioni della sua libertà, e in pari tempo deve secondare e stimolare la tendenza alla creazione di organismi rappresentativi di massa i quali aderiscano al sistema della produzione. Paralizzata l'attività del sindacato di classe, la difesa dell'interesse immediato dei lavoratori tende a compiersi attraverso uno spezzettamento della resistenza e della lotta per officine, per categorie, per reparti di lavoro, ecc. Il Partito comunista deve saper seguire tutte queste lotte ed esercitare una vera e propria direzione di esse, impedendo che in esse vada smarrito il carattere unitario e rivoluzionario dei contrasti di classe, sfruttandole anzi per favorire la mobilitazione di tutto il proletariato e la organizzazione di esso sopra un fronte di combattimento (Tesi sindacali).

39. Il partito dirige e unifica la classe operaia partecipando a tutte le lotte di carattere parziale, e formulando e agitando un programma di rivendicazioni di immediato interesse per la classe lavoratrice. Le azioni parziali e limitate sono da esso considerate come momenti necessari per giungere alla mobilitazione progressiva e alla unificazione di tutte le forze della classe lavoratrice.

Il partito combatte la concezione secondo la quale ci si dovrebbe astenere dall'appoggiare o dal prendere parte ad azioni parziali perché i problemi interessanti la classe lavoratrice sono risolubili solo con l'abbattimento del regime capitalista e con una azione generale di tutte le forze anticapitalistiche. Esso è consapevole della impossibilità che le condizioni dei lavoratori siano migliorare in modo serio e durevole, nel periodo dell'imperialismo e prima che il regime capitalista sia stato abbattuto. L'agitazione di un programma di rivendicazioni immediate e l'appoggio alle lotte parziali è però il solo modo col quale si possa giungere alle grandi masse e mobilitarle contro il capitale. D'altra parte ogni agitazione o vittoria di categorie operaie nel campo delle rivendicazioni immediate rende piú acuta la crisi del capitalismo, e ne accelera anche soggettivamente la caduta in quanto sposta l'instabile equilibrio economico sul quale esso oggi basa il suo potere.

Il Partito comunista lega ogni rivendicazione immediata a un obbiettivo rivoluzionario, si serve di ogni lotta parziale per insegnare alle masse la necessità dell'azione generale, della insurrezione contro il dominio reazionario del capitale, e cerca di ottenere che ogni lotta di carattere limitato sia preparata e diretta cosí da poter condurre alla mobilitazione e unificazione delle forze proletarie, e non alla loro dispersione. Esso sostiene queste sue concezioni nell'interno delle organizzazioni di massa cui spetta la direzione dei movimenti parziali, o nei confronti dei partiti politici che ne prendono la iniziativa, oppure le fa valere prendendo esso la iniziativa di proporre le azioni parziali, sia in seno a organizzazioni di massa, sia ad altri partiti (tattica di fronte unico). In ogni caso si serve della esperienza del movimento e dell'esito delle sue proposte per accrescere la sua influenza, dimostrando con i fatti che il suo programma di azione è il solo rispondente agli interessi delle masse e alla situazione oggettiva, e per portare sopra una posizione piú avanzata una sezione arretrata della classe lavoratrice.

La iniziativa diretta del Partito comunista per una azione parziale, può aver luogo quando esso controlla attraverso organismi di massa una parte notevole della classe lavoratrice, o quando sia sicuro che una sua parola d'ordine diretta sia seguita egualmente da una parte notevole della classe lavoratrice. Il partito non prenderà però questa iniziativa se non quando, in relazione con la situazione oggettiva, essa porti a uno spostamento a suo favore dei rapporti di forza, e rappresenti un passo in avanti nella unificazione e mobilitazione della classe sul terreno rivoluzionario.

È escluso che una azione violenta di individui o di gruppi possa servire a strappare dalla passività le masse operaie quando il partito non sia collegato profondamente con esse. In particolare la attività dei gruppi armati, anche come reazione alla violenza fisica dei fascisti, ha valore solo in quanto si collega con una reazione delle masse o riesce a suscitarla e prepararla acquistando nel campo della mobilitazione di forze materiali lo stesso valore che hanno gli scioperi e le agitazioni economiche particolari per la mobilitazione generale delle energie dei lavoratori in difesa dei loro interessi di classe.

39 bis. È un errore il ritenere che le rivendicazioni immediate e le azioni parziali possano avere solamente carattere economico. Poiché, con l'approfondirsi della crisi del capitalismo, le classi dirigenti capitalistiche e agrarie sono costrette, per mantenere il loro potere, a limitare e sopprimere le libertà di organizzazione e politiche del proletariato, la rivendicazione di queste libertà offre un ottimo terreno per agitazioni e lotte parziali, le quali possono giungere alla mobilitazione di vasti strati della popolazione lavoratrice. Tutta la legislazione con la quale i fascisti sopprimono, in Italia, anche le piú elementari libertà della classe operaia, deve quindi fornire al Partito comunista motivi per l'agitazione e mobilitazione delle masse. Sarà compito del Partito comunista collegare ognuna delle parole d'ordine che esso lancerà in questo campo con le direttive generali della sua azione: in particolare con la pratica dimostrazione della impossibilità che il regime instaurato dal fascismo subisca radicali limitazioni e trasformazioni in senso «liberale» e «democratico» senza che sia scatenata contro il fascismo una lotta di masse, la quale dovrà inesorabilmente sboccare nella guerra civile. Questa convinzione deve diffondersi nelle masse nella misura in cui noi riusciremo, collegando le rivendicazioni parziali di carattere politico con quelle di carattere economico, a trasformare i movimenti «rivoluzionari democratici» in movimenti rivoluzionari operai e socialisti.

Particolarmente questo dovrà essere ottenuto per quanto riguarda l'agitazione contro la monarchia. La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista; essa è la forma statale del fascismo italiano. La mobilitazione antimonarchica delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare alcuni dei gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino. Essa deve però sempre essere condotta insieme con l'agitazione e con la lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell'agitazione antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre presentato dal Partito comunista in connessione continua con il problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base di una sua azione politica le parole d'ordine: «Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini; controllo operaio sull'industria; terra ai contadini».

40. Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta è la parte «positiva» della tattica del fronte unico ed è in Italia, nelle circostanze attuali, compito fondamentale del partito.

I comunisti devono considerare la unità della classe lavoratrice come un risultato concreto, reale, da ottenere, per impedire al capitalismo l'attuazione del suo piano di disgregare in modo permanente il proletariato e di rendere impossibile ogni lotta rivoluzionaria. Essi devono saper lavorare in tutti i modi per raggiungere questo scopo e soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori di luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell'unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione.

Il «fronte unico» di lotta antifascista e anticapitalista che i comunisti si sforzano di creare deve tendere a essere un fronte unito organizzato, cioè a fondarsi sopra organismi attorno ai quali tutta la massa trovi una forma e si raccolga. Tali sono gli organismi rappresentativi che le masse stesse oggi hanno la tendenza a costituire, a partire dalle officine, e in occasione di ogni agitazione, dopo che le possibilità di funzionamento normale dei sindacati hanno incominciato a essere limitate. I comunisti devono rendersi conto di questa tendenza delle masse e saperla stimolare, sviluppando gli elementi positivi che essa contiene e combattendo le deviazioni particolaristiche cui essa può dare luogo. La cosa deve essere considerata senza feticismi per una determinata forma di organizzazione, tenendo presente che lo scopo nostro fondamentale è di ottenere una mobilitazione e una unità organica sempre piú vasta di forze. Per raggiungere questo scopo occorre sapersi adattare a tutti i terreni che ci sono offerti dalla realtà, sfruttare tutti i motivi di agitazione, insistere sopra l'una o sopra l'altra forma di organizzazione a seconda della necessità e a seconda delle possibilità di sviluppo di ognuna di esse (Tesi sindacali: capitoli relativi alle commissioni interne, ai comitati di agitazione, alle conferenze di fabbriche).

41. La parola d'ordine dei comitati operai e contadini deve essere considerata come formula riassuntiva di tutta l'azione del partito in quanto essa si propone di creare un fronte unico organizzato della classe lavoratrice. I comitati operai e contadini sono organi di unità della classe lavoratrice mobilitata sia per una lotta di carattere immediato che per azioni politiche di piú largo sviluppo. La parola d'ordine della creazione di comitati operai e contadini è quindi una parola d'ordine di attuazione immediata per tutti quei casi in cui il partito riesce con la sua attività a mobilitare una sezione della classe lavoratrice abbastanza estesa (piú di una sola fabbrica, piú di una sola categoria in una località), ma essa è in pari tempo una soluzione politica e una parola di agitazione adeguata a tutto un periodo della vita e della azione del partito. Essa rende evidente e concreta la necessità che i lavoratori organizzino le loro forze e le contrappongano di fatto a quelle di tutti i gruppi di origine e natura borghese, al fine di poter diventare elemento determinante e preponderante della situazione politica.

42. La tattica del fronte unico come azione politica (manovra) destinata a smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari aventi una base di massa, è strettamente collegata col problema della direzione delle masse da parte del Partito comunista e col problema della conquista della maggioranza. Nella forma in cui è stata definita dai congressi mondiali essa è applicabile in tutti i casi in cui, per l'adesione delle masse ai gruppi che noi combattiamo, la lotta frontale contro di essi non sia sufficiente a darci i risultati rapidi e profondi. Il successo di questa tattica è legato alla misura in cui essa è preceduta o si accompagna ad una effettiva opera di unificazione e di mobilitazione di masse ottenuta dal partito con una azione dal basso.

In Italia la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall'aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice. Le particolari condizioni italiane assicurano la vitalità di formazioni politiche intermedie, basate sopra l'equivoco e favorite dalla passività di una parte della massa (massimalisti, repubblicani, unitari). Una formazione di questo genere sarà il gruppo di centro che assai probabilmente sorgerà dallo sfacelo dell'Aventino. Non è possibile lottare a pieno contro il pericolo che queste formazioni rappresentano se non con la tattica del fronte unico. Ma non bisogna contare di poter aver successi se non in relazione al lavoro che contemporaneamente si sarà fatto per strappare le masse alla passività.

42 bis. Il problema del Partito massimalista deve essere considerato alla stregua del problema di tutte le altre formazioni intermedie che il Partito comunista combatte come ostacolo alla preparazione rivoluzionaria del proletariato e verso le quali adotta, a seconda delle circostanze, la tattica del fronte unico. È certo che in alcune zone il problema della conquista della maggioranza è per noi legato specificamente al problema di distruggere la influenza del PSI e del suo giornale. I capi del Partito socialista d'altra parte vengono sempre piú apertamente classificandosi tra le forze controrivoluzionarie e di conservazione dell'ordine capitalistico (campagna per l'intervento del capitale americano; solidarietà di fatto con i dirigenti sindacali riformisti). Nulla permette di escludere del tutto la possibilità di un loro accostamento ai riformisti e di una successiva fusione con essi. Il Partito comunista deve tenere presente questa possibilità e proporsi fin d'ora di ottenere che, quando essa si realizzasse, le masse che sono ancora controllate dai massimalisti ma conservano uno spirito classista, si stacchino da essi decisamente e si leghino nel modo piú stretto con le masse che la avanguardia comunista tiene attorno a sé. I buoni risultati dati dalla fusione con la frazione terzinternazionalista decisa dal V Congresso hanno insegnato al partito italiano come in condizioni determinate si ottengano, con una azione politica avveduta, risultati che non si potrebbero ottenere con la normale attività di propaganda e organizzazione.

43. Mentre agita il suo programma di rivendicazioni classiste immediate e concentra la sua attività nell'ottenere la mobilitazione e unificazione delle forze operaie e lavoratrici, il partito può presentare, allo scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie. Questa presentazione e agitazione di soluzioni intermedie — lontane tanto dalle parole d'ordine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere — permette di raccogliere al seguito del partito forze piú vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: «antiparlamento»). Queste soluzioni intermedie non si possono prevedere tutte, perché devono in ogni caso aderire alla realtà. Esse devono però essere tali da poter costituire un ponte di passaggio verso le parole d'ordine del partito, e deve apparire sempre evidente alle masse che una loro eventuale realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo rivoluzionario e in un inizio di lotte piú profonde.

La presentazione e agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei piú forti sostegni dell'ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede. Questi partiti, posti cosí alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle masse e perdono la loro influenza su di esse.

44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del «governo operaio e contadino». Essa indica anche alle masse piú arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell'avanguardia proletaria piú evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente. Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d'ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell'interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.

Lione, gennaio 1926.

Indice dei nomi

Agnelli Giovanni, I

Albertini Luigi, III

Alembert Jean-Baptiste le Rond d', I

Alessandri Cesare (Gian La Terra), II

Ambrosoli Luigi, I

Amendola Giovanni, III

Angell Norman, I

Anile Antonino, III

Artois Carlo di Borbone d', I

Asburgo, famiglia, III

Augusto Giulio Cesare Ottaviano, III

Azimonti Eugenio, III

Babeuf François-Noël, I

Bacci Giovanni, II

Badoglio Pietro, III

Bakunin Michail Aleksandrovič, II, III

Balabanof Angelica (Anželika Isaakovna Balabanova), III

Baldesi Gino, II, III

Baldwin Stanley, III

Balla Giacomo, III

Ballario P., I

Baratono Adelchi, II, III

Barbato Nicola, III

Barbusse Henri, II

Barnum Phineas Taylor, I

Bauer Bruno, I

Bauer Edgar, I

Bava-Beccaris Fiorenzo, III

Beethoven Ludwig van, II

Bellonci Goffredo, I

Benedetto XV, III

Beneduce Alberto, II

Benni Antonio Stefano, III

Berenini Agostino, I

Bergson Henri, II

Berruti Carlo, III

Bevione Giuseppe, I

Bianchi Giuseppe, II

Billot Louis, III

Bissolati Leonida, III

Blanc Jean-Joseph-Charles-Louis, II

Bolívar Simon, III

Bombacci Nicola, II, III

Bondí Max, III

Bonomelli Geremia, III

Bonomi Ivanoe, II, III

Borboni, famiglia, III

Bordiga Amadeo, I, II, III

Borelli Giovanni, III

Borghi Armando, II, III

Borgia Cesare, III

Botto Bartolomeo, I

Bourget Paul, I

Bovio Corso, II

Bragaglia Anton Giulio, III

Bresciani Antonio, II

Briand Aristide, II, III

Bruno Giordano, I

Bucco Ercole, II

Bucharin Nikolaj Ivanovič, II, III

Buozzi Bruno, II

Bussi Armando, II

Cadorna Luigi, II, III

Čajkovskij Nikolaj Vasilevič, I

Carducci Giosuè, I

Carini Luigi, II

Carlyle Thomas, I

Carson Edward Henry, III

Casati Gabrio, I

Castellini Gualtiero, I

Castrucci Augusto, III

Caterina II di Russia, II

Cavallotti Felice, II

Cavel Edith Luisa, I

Caviglia Enrico, II

Černov Viktor Michajlovič, I

Cesare Caio Giulio, I

Churchill Winston Leonard Spencer, II

Ciccotti Scozzese Francesco, III

Clemenceau Georges, I, II

Clerici Franco, III

Cobden Richard, I

Colombino Emilio, II, III

Comte Auguste, I

Conti Ettore, III

Corra Bruno, III

Corradini Enrico, I, III

Costantini, II

Credaro Luigi, I

Crispi Francesco, III

Crispolti Filippo, I

Croce Benedetto, I, III

Cromwell Oliver, III

D. R., II

Daneo Edoardo, I

D'Annunzio Gabriele, I, II, III

D'Aragona Ludovico, II, III

D'Azeglio Massimo Taparelli, I

De Ambris Alceste, III

De Gasperi Alcide, III

De Lai, III

De Leon Daniel, II

De Nicola Enrico, III

De Sanctis Francesco, I

Dessi Mario, III

De Vecchi Cesare Maria, II

De Viti de Marco Antonio, I

Di Cesarò Giovanni Antonio Colonna, III

Diderot Denis, I

Dorso Guido, III

Dreyfus Alfred, III

Dumini Amerigo, III

Ebert Friedrich, III

Einaudi Luigi, I

Einstein Albert, III

Emanuele Filiberto di Savoia, I

Empedocle, vedi Palmiro Togliatti.

Engels Friedrich, I, II, III

Facta Luigi, III

Faggi Angelo, II

Falchi Mario, I

Fancello Francesco, III

Farinacci Roberto, II, III

Faucher Julius, I

Federico II di Prussia, I

Federzoni Luigi, III

Ferrari, vedi Aldo Soncelli.

Ferraris Dante, III

Ferrata Giansiro, III

Ferrero Guglielmo, III

Ferrero Pietro, III

Ferri Enrico, II, III

Fichte Johann Gottlieb, I

Filippelli Filippo, III

Finzi Aldo, III

Fiore Tommaso (Ulenspiegel), III

Fischer Harvey, III

Foch Ferdinand, II

Fogazzaro Antonio, I

For Ever, vedi Corrado Quaglino.

Forges - Davanzati Roberto, III

Fornaca Guido, II

Forster William, III

Fortichiari Bruno, II

Fortunato Giustino, III

Fournière Joseph - Eugène, II

Franchetti Leopoldo, III

Garibaldi Giuseppe, I, III

Gay Pilade, III

Gennari Egidio, III

Gentiloni Vincenzo Ottorino, I, III

Ghidetti Vittorio, III

Gian La Terra, vedi Cesare Alessandri.

Gioberti Vincenzo, I

Giolitti Giovanni, I, II, III

Giretti Edoardo, II

Giuliano Balbino, I

Giulietti Giuseppe, III

Gobetti Piero, I, III

Gompers Samuel, III

Gorkij Maksim (Aleksej Maksimovič Peškov), I

Gracco Caio Sempronio, I

Graziadei Antonio, II, III

Greco Paolo, III

Greulich Hermann, I

Guarnieri Mario, I, II, III

Halévy Daniel, I

Hebbel Friedrich, I

Hegel Georg Wilhelm Friedrich I

Heine Heinrich, I

Hervé Gustave, I

Hilferding Rudolf, II

Hindenburg Paul von Beneckendorff und von, III

Hoffmann Johannes, II

Höglund Zygmund, III

Kamenev (Rosenfeld) Lev Borisovič, III

Kant Immanuel, I

Kaplan Fanja, I

Kapp Wolfgang, II

Kautsky Karl, I, II, III

Kerenskij Aleksandr Fedorovič, I, II, III

Kipling Rudyard, II

Kornilov Lavr Georgevič, I, II, III

Labriola Antonio, III

Labriola Arturo, II, III

Lanfranconi Luigi, II

Lanzillo Agostino, III

Lao-tse, I

La Palisse Jacques de Chabannes de, III

Lassalle Ferdinand, I

Lavagnini Spartaco, III

Lazzari Costantino, III

Lazzeri Gerolamo, II

Leibniz Gottfried Wilhelm, I

Lenin (Uljanov) Vladimir Ilič, I, II, III

Leone XIII, III

Leone Enrico, I, III

Leonetti Alfonso, I

Leopardi Giacomo, II

Liebknecht Karl, II

Lloyd George David, I, II, III

Lombroso Cesare, II

Longobardi Ernesto Cesare, III

Loria Achille, III

Lucci Arnaldo, II

Ludendorff Erich, II

Luigi XVI di Francia, I

Lunačarskij Anatolij Vasilevič, I, II

Lussu Emilio, I

Lüttwitz Walther von, II

Luxemburg Rosa, II

MacDonald James Ramsay, III

Machiavelli Niccolò, II, III

Macina Gervasio Luisa, I

Maffi Fabrizio, I, III

Malatesta Errico, II, III

Mangano Romeo, III

Mannerheim Carl Gustav Emil, II

Marabini Anselmo, III

Marat Jean-Paul, II

Maraviglia Maurizio, III

Marco Aurelio, I

Marinetti Filippo Tommaso, II, III

Marini Niccolò, III

Martire Egilberto, III

Martov Lev (Julij Osipovič Tsederbaum), I

Marx Carl, I, II, III

Marx Wilhelm, III

Matarazzo Francesco, III

Matteotti Giacomo, I, III

Mazzini Giuseppe, I

Mazzoni Nino, III

Medici Lorenzo de', I

Merli Stefano, III

Merry del Val Rafael, III

Mesnil Jacques, II

Michelet Jules, II

Miglioli Guido, I, III

Miliukov Pavel Nikolaevič, I

Millerand Alexandre, II

Millo di Casalgiate Enrico, II

Mingrino Giuseppe, II

Misiano Francesco, II, III

Missiroli Mario, I

Modigliani Vittorio Emanuele, I, III

Molinari Luigi, II

Mondolfo Rodolfo, I

Monicelli Tommaso, III

Montagnana Mario, II

Morgan John Pierpont jr., III

Motta Giacinto, III

Murri Augusto, I

Murri Romolo, III

Mussolini Benito, I, II, III

Napoleone I, I

Nenni Pietro, II, III

Niceforo Alfredo, III

Nicola II di Russia, I

Nitti Francesco Saverio, II, III

Nofri Quirino, II

Noske Gustav, II, III

Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg), I

Nurra Pietro, III

Olivetti Gino, II

Orano Paolo, III

Orlando Vittorio Emanuele, I, II, III

Orsi Delfino, I

Palazzeschi Aldo, III

Palmieri Aurelio, III

Pantaleo Paolo, III

Panunzio Sergio, III

Papini Giovanni, I, III

Pasella Umberto, II

Pastore Ottavio, I, III

Pazzi Guido, II

Pecoraino, III

Pellegrino, I

Perrone Pio e Mario, II, III

Petri Carlo (Carlo Mosso), I

Piazza, I

Pietro I di Russia, II

Pietro III di Russia, II

Pilsudski Józef, III

Pio IX, III

Pio X, III

Pio XI, III

Podrecca Guido, I

Poincaré Raymond, III

Polano Luigi, II

Ponti Ettore, I

Pozzani Fernando, II

Prampolini Camillo, III

Preziosi Giovanni, III

Prezzolini Giuseppe, I, III

Proudhon Pierre-Joseph, II

Puccinelli Vittorio, I

Quaglino Corrado (For Ever ), I

R. F., I

Radek (Sobelsohn ) Karl Berngardovič, II

Radič Stjepan, III

Ragionieri Ernesto, I

Rappoport Charles, II

Repaci Francesco, II

Repossi Luigi, III

Riboldi Ezio, III

Ricci Umberto, I

Rjazanov (Goldendanch) David Borisovič, III

Rocco Alfredo, III

Rolland Romain, I

Romanov, famiglia, II

Romolo, III

Romolo Augustolo, III

Rosselli Carlo, I

Rossi Cesarino, III

Rossoni Edmondo, III

Rousseau Jean-Jacques, I, II

Ruggeri Ruggero, II

Ruta, I

Rykov Aleksej Ivanovič, II

Sacchi Ettore, I

Salandra Antonio, III

Salvatori Luigi, III

Salvemini Gaetano, I, III

Savoia, famiglia, I

Sbrana Leone, III

Scalarini Giuseppe, III

Scheidemann Philipp, II

Schiavello Ernesto, II

Schopenhauer Arthur, I

Sciaplin (Čaplin), I

Scoccimarro Mauro, I

Seassaro Cesare (Caesar), I

Sergi Giuseppe, II, III

Serrati Giacinto Menotti, I, II, III

Settimelli Enrico, III

Silvestri Giovanni, II

Sincero, I

Socrate, I

Solone, I

Sonnino Sidney, III

Sorel Georges, II

Spencer Herbert, I

Sraffa Piero, I, III

Stalin (Džugašvili) Iosif Vissarionovič, I

Stinnes Hugo, III

Sturzo Luigi, I, III

Szeliga (Franz Zychlin von Zychlinski), I

Taine Hippolyte, I

Tasca Angelo, I, II

Taylor Frederick Winslow, I, II

Terracini Umberto, I, II, III

Tilgher Adriano, III

Togliatti Palmiro (Empedocle), I, II, III

Tonetti Giovanni, I

Treitschke Heinrich von, I

Tresso Pietro, I

Treves Claudio (Very Well), I, II, III

Trombetti Gustavo, I

Trotskij (Bronštejn) Lev Davidovič, I, II, III

Tsereteli Iraklij Georgevič, I

Turati Filippo, I, II, III

Umberto I di Savoia, II, III

Vandervelde Emile, III

Vasa, famiglia, II

Vecchi Nicola, III

Vella Arturo, III

Very Well, vedi Claudio Treves.

Vico Giambattista, I

Volpi di Misurata Giuseppe, III

Voltaire, François-Marie Arouet de, I

Whitman Walt, I

Wilson Thomas Woodrow, I, II

Wizner Aron, II

Zacconi Ermete, II

Zaniboni Tito, II

Zankov Aleksander, III

Zini Zino, I

Zinovjev Grigorij Evseevič, I, III

Zuccoli Giuseppe, III

1 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 25 settembre 1921.

2 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 5 ottobre 1921.

3 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 29 ottobre 1921.

4 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 30 ottobre 1921.

5 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 13 novembre 1921.

6 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 22 novembre 1921.

7 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 22 novembre 1921.

8 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 1° dicembre 1921.

9 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 27 gennaio 1922.

10 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 5 febbraio 1922.

11 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 22 febbraio 1922.

12 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 5 maggio 1922.

13 Pubblicata in Lev Trotskij, Literatura i revoljutsija, Mosca, 1923.

14 Firmato Antonio Gramsci, in Lo Stato operaio (settimanale del PCI) a. I, n. 8, Milano, 18 ottobre 1923.

15 Non firmato, L'Unità, Milano, 21 febbraio 1924.

16 Firmato Antonio Gramsci, L'Ordine Nuovo, III serie, quindicinale, a. I, n. 1, 1° marzo 1924.

17 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924.

18 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924.

19 Firmato Antonio Gramsci, L'Ordine Nuovo, 1°-15 aprile 1924.

20 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 1°-15 aprile 1924.

21 Non firmato, L'Unità, 2 luglio 1924.

22 Non firmato, L'Unità, 22 agosto 1924.

23 Firmato, Antonio Gramsci, Lo Stato Operaio, 28 agosto 1924.

24 Firmato, Antonio Gramsci, L'Ordine Nuovo, 1° settembre 1924.

25 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 15 novembre 1924, sotto la rubrica «Cronache politiche».

26 Non firmato, L'Unità, 5 febbraio 1925. L'attribuzione a Gramsci non è certa.

27 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 1° aprile 1925, sotto la rubrica «Editoriale».

28 Scritto nel maggio del 1925, pubblicato in Lo Stato operaio del marzo-aprile 1931.

29 È il testo del discorso pronunciato il 16 maggio 1925, pubblicato su L'Unità del 28 maggio.

30 Non firmato, L'Unità, 28 maggio 1925.

31 Firmato, Antonio Gramsci, L'Unità, 24 giugno 1925.

32 L'Unità, 3 luglio 1925.

33 Firmato, Antonio Gramsci, L'Unità, 29 luglio 1925.

34 Firmato, Antonio Gramsci, L'Unità, 15 agosto 1925.

35 Non firmato, L'Unità, 29 ottobre 1925.

36 L'Unità, 24 febbraio 1926.

37 Firmato Antonio Gramsci, L'Unità, 14 maggio 1926, in morte di Giacinto Menotti Serrati.

38 Stato Operaio, marzo 1928 (relazione tenuta da Gramsci l'11 agosto 1926 al Comitato direttivo del PCI).

39 Non firmato, L'Unità, 7 settembre 1926.

40 Non firmato, L'Unità, 10 settembre 1926.

41 Non firmato, L'Unità, 17 settembre 1926.

42 Non firmato, L'Unità, 26 settembre 1926.

43 Non firmato, L'Unità, 1° ottobre 1926.

44 Non firmato, L'Unità, 13 ottobre 1926.

45 Manoscritto, incompiuto all'atto dell'arresto di G. (8 novembre 1926).

46 Tesi approvate dal III Congresso del Partito comunista italiano tenutosi clandestinamente nel gennaio del 1926 a Lione. Il documento fu redatto da Gramsci con la collaborazione principale di Togliatti e del gruppo dirigente presente al congresso.