Antonio Gramsci

Scritti politici II

a cura di Paolo Spriano
Editori Riuniti, 1973

Indice

1919

20-21 luglio

Operai e contadini

Cultura e propaganda socialista

Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti

Socialisti e anarchici

L’unità nazionale

Giorgio Sorel

Sindacati e Consigli

La Russia e l’Europa

I popolari

Il primo passo

Sindacalismo e Consigli

I rivoluzionari e le elezioni

I risultati che attendiamo

Le elezioni

Il problema del potere

Gli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919

Il rivoluzionario qualificato

La scuola di cultura

Il Partito e la rivoluzione

Studi «difficili»

1920

Primo: rinnovare il Partito

L’operaio di fabbrica

Partito di governo e classe di governo

La rivoluzione tedesca

Per un rinnovamento del Partito socialista

Superstizione e realtà

Un programma di governo

Il Consiglio di fabbrica

Sindacati e Consigli

Dove va il Partito socialista?

La Russia, potenza mondiale

Il programma dell’«Ordine Nuovo»

Il giudizio di Lenin

Il Partito comunista

Viltà e leggerezza

L’«Ordine Nuovo» a Mosca

La reazione

La disciplina internazionale

Coordinare volontà e azioni

Scissione o sfacelo?

1921

Il popolo delle scimmie

Bergsoniano!

Marinetti rivoluzionario?

Russia e Internazionale

Il Congresso di Livorno

Un monito

Il Congresso dei giovani

Controllo operaio

La parola d’ordine

Funzionarismo

Disciplina

I comunisti e le elezioni

Reazione?

Forze elementari

Uomini di carne e ossa

Socialista o comunista?

Socialisti e fascisti

Povero Partito comunista!

Sovversivismo reazionario

I capi e le masse

Bonomi

Gli «Arditi del popolo»

Tra le pieghe della bandiera bianca

Il carnefice e la vittima

Insurrezione di popolo

Colpo di Stato

L’ora del proletariato

Problemi morali e lotta di classe

Proseguire nella lotta

I due fascismi

Legalità

Al lavoro

La sconfitta della Fiat

Aprile e settembre 1920

I piú grandi responsabili

Scritti politici

II

20-21 luglio1

Lo sciopero generale del 20-21 sarà eminentemente rivoluzionario. Non perché esso riuscirà a rovesciare lo Stato capitalistico (abbiamo dimostrato che la conquista dello Stato da parte dei proletari avverrà solo quando gli operai e i contadini avranno creato un sistema di istituzioni statali capaci di sostituire le istituzioni dello Stato democratico-parlamentare), ma perché inizierà un periodo di profondi rivolgimenti nella struttura economica attuale. La crisi del dopoguerra si inizierà il 20-21. Finora i capitalisti, premuti dal governo, hanno concesso facilmente: hanno acconsentito a mantenere la produzione su un piano antieconomico per evitare la disoccupazione e la rivolta dei disperati. Non vorranno piú continuare, non potranno piú continuare. Lo sciopero diventerà la giustificazione di tutta una serie di misure di polizia industriale tendenti a ridare alla produzione la capacità di esprimere un profitto sicuro e abbondante. E naturalmente i giornali addosseranno ai socialisti rivoluzionari la responsabilità dei licenziamenti e delle serrate, e cercheranno di rompere la formidabile unità del proletariato.

È necessario quindi realizzare durante lo sciopero il massimo di disciplina e di compattezza. Lo sciopero deve terminare alla mezzanotte del 21. Gli operai comunisti devono essere l’elemento coesivo di questa disciplina e di questa compattezza; nessuno può dubitare che essi non siano rivoluzionari, che essi siano dei «pompieri». Gli operai comunisti sanno che un movimento insurrezionale, oggi, significherebbe solo un rafforzamento dell’istituto parlamentare, e una repressione feroce nelle città rivoluzionarie simile alle repressioni di Noske a Berlino, di Mannerheim in Finlandia, di Hoffman a Monaco di Baviera. Cosa possono opporre al Parlamento gli operai e i contadini comunisti? Nessuna istituzione comunista è ancora sorta capace di sostituire permanentemente e fortemente il potere del Parlamento. In questi giorni appunto gli operai comunisti devono intensificare la propaganda perché il sorgere di istituzioni comuniste sia promosso e nel piú breve tempo possibile avvenga un congresso nazionale di delegati d’officina e di villaggio comunisti in maggioranza. Allora si potrà parlare di rivoluzione comunista, con serietà e responsabilità. I comunisti vogliono appunto creare lo Stato dei competenti e dei responsabili: devono in ogni occasione mantenersi lucidi e freddi, non lasciarsi trasportare dall’esaltazione e dalla faciloneria. Purtroppo, con l’eroismo generoso e la passione non si creano gli Stati: occorre disciplina, perseveranza, coesione, e disprezzo per gli irresponsabili.

Operai e contadini2

Durante la guerra e per le necessità della guerra, lo Stato italiano ha assunto nelle sue funzioni la regolamentazione della produzione e della distribuzione dei beni materiali. Si è realizzata una forma di trust dell’industria e del commercio, una forma di concentrazione dei mezzi di produzione e di scambio e un eguagliamento delle condizioni di sfruttamento delle masse proletarie e semiproletarie che hanno determinato i loro effetti rivoluzionari. Non è possibile comprendere il carattere essenziale del periodo attuale, se non si tiene conto di questi fenomeni e delle conseguenze psicologiche da essi prodotte.

Nei paesi ancora capitalisticamente arretrati come la Russia, l’Italia, la Francia e la Spagna, esiste una netta separazione tra la città e la campagna, tra gli operai e i contadini. Nell’agricoltura sono sopravvissute forme economiche prettamente feudali, e una corrispondente psicologia. L’idea dello Stato moderno liberale-capitalistico è ancora ignorata; le istituzioni economiche e politiche non sono concepite come categorie storiche, che hanno avuto un principio, hanno subíto un processo di sviluppo, e possono dissolversi, dopo aver creato le condizioni per superiori forme di convivenza sociale: sono concepite invece come categorie naturali, perpetue, irriducibili. In realtà la grande proprietà terriera è rimasta fuori dalla libera concorrenza: e lo Stato moderno ne ha rispettato l’essenza feudale, escogitando formule giuridiche come quella del fedecommesso, che continuano di fatto le investiture e i privilegi del regime feudale. La mentalità del contadino è rimasta perciò quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i «signori» in determinate occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come membro di una collettività (la nazione per i proprietari e la classe per i proletari) e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale.

La psicologia dei contadini era, in tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci. Obbiettivamente quindi la psicologia del contadino si riduceva a una piccolissima somma di sentimenti primordiali dipendenti dalle condizioni sociali create dallo Stato democratico-parlamentare: il contadino era lasciato completamente in balía dei proprietari e dei loro sicofanti e dei funzionari pubblici corrotti, e la preoccupazione maggiore della sua vita era quella di difendersi corporalmente dalle insidie della natura elementare, dai soprusi e dalla barbarie crudele dei proprietari e dei funzionari pubblici. Il contadino è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo. Non comprendeva l’organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina; paziente e tenace nella fatica individuale di strappare alla natura scarsi e magri frutti, capace di sacrifici inauditi nella vita famigliare, era impaziente e violento selvaggiamente nella lotta di classe, incapace di porsi un fine generale d’azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica.

Quattro anni di trincea e di sfruttamento del sangue hanno radicalmente mutato la psicologia dei contadini. Questo mutamento si è verificato specialmente in Russia ed è una delle condizioni essenziali della rivoluzione. Ciò che non aveva determinato l’industrialismo col suo normale processo di sviluppo, è stato prodotto dalla guerra. La guerra ha costretto le nazioni piú arretrate capitalisticamente, e quindi meno dotate di mezzi meccanici, ad arruolare tutti gli uomini disponibili, per opporre masse profonde di carne viva agli strumenti bellici degli Imperi centrali. Per la Russia la guerra ha significato la presa di contatto di individui prima sparsi in un vastissimo territorio, ha significato una concentrazione umana durata ininterrottamente per anni e anni nel sacrificio, col pericolo sempre immediato della morte, sotto una disciplina uguale e ugualmente feroce: gli effetti psicologici del perdurare di condizioni simili di vita collettiva per tanto tempo sono stati immensi e ricchi di conseguenze imprevedute.

Gli istinti individuali egoistici si sono smussati, un’anima comune unitaria si è modellata, i sentimenti si sono conguagliati, si è formato un abito di disciplina sociale: i contadini hanno concepito lo Stato nella sua complessa grandiosità, nella sua smisurata potenza, nella sua complicata costruzione. Hanno concepito il mondo, non piú come una cosa indefinitamente grande come l’universo e angustamente piccola come il campanile del villaggio, ma nella sua concretezza di Stati e di popoli, di forze e di debolezze sociali, di eserciti e di macchine, di ricchezze e di povertà. Legami di solidarietà si sono annodati che altrimenti solo decine e decine d’anni di esperienza storica e di lotte intermittenti avrebbero suscitati; in quattro anni, nel fango e nel sangue delle trincee, un mondo spirituale è sorto avido di affermarsi in forme e istituti sociali permanenti e dinamici.

Cosí sono nati sul fronte russo i Consigli dei delegati militari, cosí i soldati contadini hanno potuto attivamente partecipare alla vita dei Soviet di Pietrogrado, di Mosca, e degli altri centri industriali russi, e hanno acquistato coscienza della unità della classe lavoratrice; cosí è avvenuto che, a mano a mano l’esercito russo si smobilizzava e i soldati tornavano alle loro sedi di lavoro, tutto il territorio dell’Impero, dalla Vistola al Pacifico, si andasse coprendo di una fitta rete di Consigli locali, organi elementari della ricostruzione statale del popolo russo. Su questa nuova psicologia si fonda la propaganda comunista irradiata dalle città industriali e si fondano le gerarchie sociali liberamente promosse e accettate attraverso le esperienze di vita collettiva rivoluzionaria.

Le condizioni storiche dell’Italia non erano e non sono molto differenti da quelle russe. Il problema della unificazione di classe degli operai e dei contadini si presenta negli stessi termini: essa avverrà nella pratica dello Stato socialista e si fonderà sulla nuova psicologia creata dalla vita comune in trincea.

L’agricoltura italiana deve radicalmente trasformare i suoi procedimenti per uscire dalla crisi determinata dalla guerra. La distruzione del bestiame impone l’introduzione delle macchine, impone un rapido passaggio alla cultura industriale accentrata con la disponibilità di istituzioni tecniche ricche di mezzi. Ma una tale trasformazione non può avvenire in regime di proprietà privata senza determinare un disastro: è necessario che essa avvenga in uno Stato socialista, nell’interesse dei contadini e degli operai, associati in unità comuniste di lavoro. L’introduzione delle macchine nel processo di produzione ha sempre suscitato profonde crisi di disoccupazione, superate solo lentamente per la elasticità del mercato di lavoro. Oggi le condizioni del lavoro sono turbate radicalmente: la disoccupazione agraria è già diventata problema irrisolvibile per l’effettiva impossibilità di emigrare: la trasformazione industriale della agricoltura può solo avvenire col consenso dei contadini poveri, attraverso una dittatura del proletariato che si incarni in Consigli di operai industriali e di contadini poveri.

Gli operai d’officina e i contadini poveri sono le due energie della rivoluzione proletaria. Per loro specialmente il comunismo rappresenta una necessità esistenziale: il suo avvento significa la vita e la libertà, il permanere della proprietà privata significa il pericolo immanente di essere stritolati, di tutto perdere fino alla vita fisica. Essi sono l’elemento irriducibile, la continuità dell’entusiasmo rivoluzionario, la ferrea volontà di non accettare compromessi, di proseguire implacabilmente fino alle realizzazioni integrali, senza demoralizzarsi per gli insuccessi parziali e transitori, senza farsi troppe illusioni per i facili successi.

Sono la spina dorsale della rivoluzione, i ferrei battaglioni dell’esercito proletario che avanza, rovesciando con l’impeto gli ostacoli o assediandoli con le sue maree umane che sgretolano, corrodono con opera paziente, con indefesso sacrifizio. Il comunismo è la loro civiltà, è il sistema di condizioni storiche nelle quali acquisteranno una personalità, una dignità, una cultura, per il quale diventeranno spirito creatore di progresso e di bellezza.

Ogni lavoro rivoluzionario ha probabilità di buona riuscita solo in quanto si fonda sulle necessità della loro vita e sulle esigenze della loro cultura. Ciò è indispensabile comprendano i leaders del movimento proletario e socialista. Ed è necessario comprendano come urga il problema di dare a questa forza incoercibile della rivoluzione la forma adeguata alla sua psicologia diffusa.

Nelle condizioni arretrate dell’economia capitalistica di prima della guerra non era stato possibile il sorgere e lo svilupparsi di vaste e profonde organizzazioni contadine, nelle quali i lavoratori dei campi si educassero a una concezione organica della lotta di classe e alla disciplina permanente necessaria per la ricostruzione dello Stato dopo la catastrofe capitalistica.

Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subíto collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Cosí organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell’impossibilità di svolgere una azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate fino alla barbarie piú crudele dalle sofferenze inaudite che si vanno profilando sempre piú spaventosamente.

La rivoluzione comunista è essenzialmente un problema di organizzazione e di disciplina. Date le condizioni reali obbiettive della società italiana, della rivoluzione saranno protagoniste le città industriali, con le loro masse compatte e omogenee di operai d’officina. Bisogna dunque rivolgere la massima attenzione alla vita nuova che la nuova forma della lotta di classe suscita nell’interno della fabbrica e nel processo di produzione industriale. Ma con le sole forze degli operai d’officina la rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista possa fondarsi e svilupparsi, attraverso le quali sia possibile allo Stato socialista promuovere l’introduzione delle macchine e determinare il grandioso processo di trasformazione dell’economia agraria. In Italia quest’opera è meno difficile di quanto si pensi: durante la guerra sono entrate nella fabbrica cittadina ingenti quantità di popolazione rurale: su essa la propaganda comunista ha rapidamente attecchito; essa deve servire di cemento tra la città e la campagna, deve essere utilizzata per svolgere nella campagna una fitta opera di propaganda che distrugga le diffidenze e i rancori, deve essere utilizzata perché, valendosi della sua profonda conoscenza della psicologia rurale e della fiducia che gode, inizi appunto l’attività necessaria per determinare il sorgere e lo svilupparsi delle istituzioni nuove che incorporino nel movimento comunista le vaste forze dei lavoratori dei campi.

Cultura e propaganda socialista3

Pubblichiamo, in altra parte della rassegna, la relazione «Cultura e propaganda socialista» presentata dal compagno Mario Montagnana al Congresso dei giovani socialisti piemontesi. Le tesi sostenute dal Montagnana e approvate dal Congresso, sono le tesi da noi proposte e sostenute: la discussione, che i congressisti ne hanno fatto, ci riguarda molto da vicino.

La relazione Montagnana è stata approvata all’unanimità (132 delegati investiti di 4.400 poteri). Vennero presentati tre ordini del giorno di solidarietà con la nostra rassegna; fu unanimemente approvato questo: «I giovani socialisti piemontesi, riuniti in congresso, plaudendo all’iniziativa dei compagni che hanno promosso la pubblicazione dell’Ordine Nuovo, s’impegnano affinché venga diffuso nella regione fra le masse operaie e contadine, per quella propaganda di ricostruzione che ritengono necessaria».

Le osservazioni mosse alla rassegna riguardano la «non popolarità elementare» degli articoli inseritivi. Il compagno Montagnana ha risposto che la propaganda spicciola da svolgersi oggi deve essere diversa da quella tradizionale. Oggi dobbiamo diffondere la persuasione che i problemi economici e morali scatenati dalla guerra possono risolversi solo nella Internazionale comunista, intesa come un sistema mondiale di dittature proletarie. Dobbiamo diffondere nozioni esatte sul concetto di dittatura proletaria, intesa come sistema nazionale di Consigli operai e contadini organizzato in potere statale e rivolto alla soppressione delle classi e della proprietà privata, generatrice dei conflitti e del disordine attuale. Dobbiamo educare i proletari alla gestione della fabbrica comunista e all’autogoverno. Ma questo compito che i socialisti si propongono non può essere svolto simultaneamente per tutti gli strati della classe lavoratrice: è necessario promuovere il formarsi di gerarchie di cultura, il formarsi di una aristocrazia dei comunisti d’avanguardia, dei giovani piú volenterosi e piú capaci di lavoro e di sacrificio. A essi appunto spetterà il compito di rendere popolari i concetti rivoluzionari, di svolgerli tra le masse locali adattandoli alle differenti psicologie, investendo del loro spirito i problemi particolari delle regioni, dei differenti ceti proletari e semiproletari. L’Ordine Nuovo si era proposto questo compito: promuovere la nascita di gruppi liberamente costituiti in seno al movimento socialista e proletario per lo studio e la propaganda dei problemi della rivoluzione comunista. In tre mesi di vita ha ottenuto ingenti risultati: la proposta Montagnana per la costituzione di commissioni di cultura in seno ai fasci giovanili è uno di questi risultati; il movimento iniziatosi nelle officine torinesi per la trasformazione delle vecchie commissioni interne in commissioni di delegati di reparto, che in questi giorni si è concretato nelle officine della Fiat-Centro (la prima officina italiana che avrà il nuovo istituto proletario) è un altro di questi risultati. Sistemare questa propaganda iniziata dagli amici dell’Ordine Nuovo è il compito attuale; già una riunione in proposito è stata tenuta, altre se ne terranno: informeremo i lettori delle deliberazioni che vi saranno prese.

Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti4

Compagni!

La nuova forma che la commissione interna ha assunto nella vostra officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e della provincia, dall’altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe operaia torinese si propone di realizzare.

Noi sappiamo che a determinare questo movimento il nostro giornale ha non poco contribuito. In esso la questione è stata esaminata da un punto di vista teorico e generale, non solo, ma sono stati raccolti ed esposti i risultati delle esperienze di altri paesi, per fornire gli elementi per lo studio delle applicazioni pratiche. Noi sappiamo però che l’opera nostra ha avuto un valore in quanto essa ha soddisfatto un bisogno, ha favorito il concretarsi di un’aspirazione che era latente nella coscienza delle masse lavoratrici. Per questo cosí rapidamente ci siamo intesi, per questo cosí sicuramente si è potuto passare dalla discussione alla realizzazione.

Il bisogno, l’aspirazione da cui trae la sua origine il movimento rinnovatore dell’organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è giunto, nel suo sviluppo, l’organismo sociale ed economico basato sull’appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione. Oggigiorno l’operaio dell’officina e il contadino delle campagne, il minatore inglese e il mugik russo, i lavoratori tutti del mondo intiero, intuiscono in modo piú o meno sicuro, sentono in modo piú o meno diretto quella verità che uomini di studio avevano previsto, e di cui vengono acquistando certezza sempre maggiore, quando osservano gli eventi di questo periodo della storia dell’umanità: siamo giunti al punto in cui la classe lavoratrice, se vuole non venir meno al compito di ricostruzione che è nei suoi fatti e nella sua volontà, deve incominciare a ordinarsi in modo positivo e adeguato al fine da raggiungere.

E se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora, dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri dell’organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti direttivi della società odierna. Come, nei primi tempi della lotta operaia, l’organizzazione per mestiere era quella che meglio si prestava agli scopi di difesa, alle necessità delle battaglie per il miglioramento economico e disciplinare immediato, cosí oggi, che incominciano a delinearsi e sempre maggior consistenza vengono prendendo nelle menti degli operai gli scopi ricostruttivi, è necessario sorga, accanto e in sostegno della prima, una organizzazione per fabbrica, vera scuola delle capacità ricostruttive dei lavoratori.

La massa operaia deve prepararsi effettivamente all’acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo piú saldo disciplinarsi, nell’officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che il verificarsi di una delle tesi del socialismo: quanto piú le forze produttrici umane, emancipandosi dalla schiavitú cui il capitalismo le vorrebbe per sempre condannare, prendono coscienza di sé, si liberano e liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo della loro utilizzazione: l’uomo lavorerà sempre meglio dello schiavo. A coloro poi che obbiettano che in questo modo si viene a collaborare coi nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo che invece questo è l’unico mezzo di far loro sentire concretamente che prossima è la fine del loro dominio, perché la classe operaia concepisce ormai la possibilità di fare da sé e di fare bene; anzi, essa acquista di giorno in giorno piú chiara la certezza di essere sola capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione. Perciò ogni azione che voi imprenderete, ogni battaglia che sarà data sotto la vostra guida sarà illuminata dalla luce del fine ultimo che è negli animi e nelle intenzioni di tutti voi.

Un grandissimo valore acquisteranno quindi anche gli atti apparentemente di poca importanza nei quali si esplicherà il mandato a voi conferito. Eletti da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli entrare nelle file dell’organizzazione, opera che del resto vi sarà facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi mostrerete loro con l’esempio che la forza dell’operaio è tutta nell’unione e nella solidarietà coi suoi compagni.

Cosí pure a voi spetterà l’invigilare affinché nei reparti vengano rispettate le regole di lavoro fissate dalle federazioni di mestiere e accettate nei concordati, poiché in questo campo anche una lieve deroga ai principi stabiliti può talora costituire una offesa grave ai diritti e alla personalità dell’operaio, di cui voi sarete rigidi e tenaci difensori e custodi. E siccome in mezzo agli operai e al lavoro voi stessi vivrete di continuo, potrete essere in grado di conoscere le modificazioni che via via sarà necessario portare ai regolamenti, modificazioni imposte e dal progresso tecnico della produzione e dalla progredita coscienza e capacità dei lavoratori stessi. In questo modo si verrà costituendo un costume di officina, germe primo della vera ed effettiva legislazione del lavoro, cioè delle leggi che i produttori elaboreranno e daranno a se stessi. Noi siamo certi che l’importanza di questo fatto non vi sfugge, che esso è evidente davanti alle menti di tutte le maestranze che con prontezza ed entusiasmo hanno compreso il valore e il significato dell’opera che voi vi proponete di fare: si inizia l’intervento attivo, nel campo tecnico e in quello disciplinare, delle forze stesse del lavoro.

Nel campo tecnico voi potrete da un lato compiere un utilissimo lavoro informativo, raccogliendo dati e materiali preziosi sia per le federazioni di mestiere che per gli enti centrali e direttivi delle nuove organizzazioni di officina. Voi curerete inoltre che gli operai del reparto acquistino una sempre maggiore capacità, e farete sparire i meschini sentimenti di gelosia professionale che ancora li fanno essere divisi e discordi; li allenerete cosí per il giorno in cui, dovendo lavorare non piú per il padrone ma per sé, sarà loro necessario essere uniti e solidali, per accrescere la forza del grande esercito proletario, di cui essi sono le cellule prime. Perché non potreste fare sorgere, nell’officina stessa, appositi reparti di istruzione, vere scuole professionali, ove ogni operaio, sollevandosi dalla fatica che abbrutisce, possa aprire la mente alla conoscenza dei processi di produzione, e migliorare se stesso?

Certamente, per fare tutto ciò sarà necessaria della disciplina, ma la disciplina che voi richiederete alla massa operaia sarà ben diversa da quella che il padrone imponeva e pretendeva, forte del diritto di proprietà che costituisce a lui una posizione di privilegio. Voi sarete forti di un altro diritto, quello del lavoro che dopo essere stato per secoli strumento nelle mani dei suoi sfruttatori oggi vuole redimersi, vuole dirigersi da se stesso. Il vostro potere, opposto a quello dei padroni e dei suoi ufficiali, rappresenterà, di fronte alle forze del passato, le libere forze dell’avvenire, che attendono la loro ora, e la preparano, sapendo che essa sarà l’ora della redenzione da ogni schiavitú.

E cosí gli organi centrali che sorgeranno per ogni gruppo di reparti, per ogni gruppo di fabbriche, per ogni città, per ogni regione, fino a un supremo Consiglio operaio nazionale, proseguiranno, allargheranno, intensificheranno l’opera di controllo, di preparazione e di ordinamento della classe intiera a scopi di conquista e di governo.

Il cammino non sarà né breve, né facile, lo sappiamo: molte difficoltà sorgeranno e vi saranno opposte, e per superarle occorrerà fare uso di grande abilità, occorrerà forse talora fare appello alla forza della classe organizzata, occorrerà sempre essere animati e spinti all’azione da una grande fede, ma quello che piú importa, o compagni, è che gli operai, sotto la guida vostra e di coloro che vi imiteranno, acquistino la viva certezza di camminare ormai, sicuri della meta, sulla grande via dell’avvenire.

Socialisti e anarchici5

Viene spesso rimproverato agli anarchici di dedicare la loro attività di propaganda piú alla lotta contro gli organismi politici e corporativi del proletariato, che non alla lotta contro la classe dominante. Obbiettivamente il fatto è inconfutabile. Il problema da studiare è però questo: gli anarchici possono fare diversamente? potrebbero svolgere una qualsiasi attività permanente e organica se non esistesse l’organizzazione socialista e proletaria?

Esiste una dottrina anarchica? Esiste solo un complesso di aforismi, di sentenze generali, di affermazioni perentorie, che gli anarchici chiamano la loro «dottrina»: e il metodo che gli anarchici seguono nello svolgere la loro azione consiste nell’accettare, ecletticamente ed empiricamente, tutte le critiche all’ordinamento attuale che reputano capaci di promuovere uno stato di disagio e di malessere psicologico e su di esse fondare le loro affermazioni, i loro aforismi, le loro sentenze. Gli anarchici non hanno una concezione organica del mondo e della storia: vedono gli effetti, i fenomeni vistosi, non le cause, non la continuità del processo storico che si rivela, solo come mero indizio, in questi effetti e in questi fenomeni. Perciò hanno bisogno di inserirsi in una forza reale — l’organizzazione politica e corporativa dei lavoratori — che aderisce plasticamente al processo storico: da ciò traggono l’illusione di essere — e di essere una forza diffusa e organica, e questa illusione è la loro ragion d’essere.

La «dottrina» anarchica vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, essa è basata sulla «natura» umana, la quale dovrebbe essere governata da leggi fisse e immutabili, quali sono appunto le cosiddette «leggi della natura». La natura umana è lo spirito; la legge costante che governa lo spirito nella sua piú alta manifestazione — il pensiero — determina una ricerca continua di libertà, una continua lotta contro i pregiudizi, contro le angustie, contro i limiti imposti dalla tradizione, dalla religione, dalla mancanza di spirito critico. La «dottrina» anarchica è un riflesso cristallizzato e immiserito in formule dogmatiche e incoerenti di una tendenza filosofica non ancora giunta a una maturità e a una sistemazione organica.

Nel momento della sua maturità, questa dottrina filosofica ha dimostrato che la filosofia e la storia coincidono: nel fenomeno di simbiosi anarchico-socialista possiamo constatare la verità obbiettiva di questa dimostrazione. Nel regime di concorrenza determinata dalla proprietà privata, le correnti sociali tendono a impersonare una manifestazione storica generale: i socialisti si richiamano alle manifestazioni profonde della vita sociale, alla struttura economica che condiziona tutte le forme della vita sociale: gli anarchici si richiamano alle leggi costanti dello spirito, alla libertà, al pensiero («anarchico è il pensiero ecc. ecc.»); — insieme dovrebbero tendere a realizzare obbiettivamente l’unità del pensiero e dell’azione, della storia e della filosofia.

Invece sono avversari, e lo sono in quanto gli anarchici sono avversari permanenti dei socialisti (— i socialisti sono avversari del capitalismo e combattono gli anarchici solo quando essi si rivelano inconsci strumenti della forza capitalistica —), sebbene si nutrano e vivano solo perché inseriti nel tessuto storico che i socialisti hanno organizzato pazientemente e tenacemente.

I socialisti, o comunisti critici, hanno invece una dottrina salda e organica e hanno un metodo, il metodo dialettico. Poiché hanno una dottrina, hanno una personalità ben distinta e un dominio proprio ben definito.

La legge essenziale dell’uomo è il ritmo della libertà, la storia del genere umano è un processo ininterrotto e indefinito di liberazione. Ma la libertà non è qualcosa di fisso, di immutabile nel tempo e nello spazio.

Individualmente la libertà è un rapporto di pensiero, condizionato dalla cultura dell’individuo: tanto piú uno è libero quanto piú è «ricco» di sapienza e di saggezza, quanto piú grande è il «patrimonio» suo di esperienze storiche e spirituali, quanto maggior ordine esiste nei suoi pensieri, quanto piú perfetta è la sua organizzazione interiore. Individualmente quindi il processo di sviluppo della libertà coincide col processo di sviluppo della cultura individuale, e in questo senso gli anarchici sono i meno liberi di tutti i proletari appunto perché non hanno una concezione organica del mondo e della storia, appunto perché non hanno una dottrina coerente ma solo una mole incomposta e contradditoria di massime, di sentenze e di assiomi. Essi sono schiavi del disordine loro spirituale, sono mancipii delle formule fisse: se la storia è sviluppo, è divenire, è dialettica continua, chi ha una «dottrina» basata sulla fissità non comprende la storia, è uno schiavo degli avvenimenti, non è un creatore, non è un uomo libero come invece è l’operaio socialista che vive una dottrina, che ha una concezione del mondo fondata sulla critica e sulla dialettica.

Nella convivenza umana, come rapporto tra individui, la libertà è un equilibrio di forze e si concreta in una organizzazione, in un ordine. In regime di proprietà privata la libertà politica (e in regime di proprietà privata la libertà può essere solo politica, perché rapporto tra individui, tra cittadini e non tra comunità di produttori, tra associazioni, come sarà in regime comunista) è condizionata dal possesso dei beni materiali, o dall’essere al servizio di chi possiede i beni materiali. Non si può dire quindi che il regime borghese non sia un regime di libertà; tutta la storia è un succedersi di regimi di libertà, ma di libertà individuale o politica, cioè libertà formale per tutti e libertà effettiva per i possessori dei mezzi di produzione e di scambio. Quando lo Stato era «possesso» individuale, era libero solo il tiranno e i suoi sicofanti; quando lo Stato divenne possesso dei proprietari capitalistici e terrieri, divennero liberi i proprietari capitalistici e terrieri. Quando lo Stato sarà «posseduto» dai lavoratori, i lavoratori diventeranno liberi.

La parola «Stato» fa inalberare gli anarchici. Perché essi vedono nello Stato solo l’«immutabile» principio d’autorità. I socialisti distinguono nello Stato due aspetti. Lo Stato è per i socialisti l’apparato del potere politico, ma è anche un apparato di produzione e di scambio.

Come principio industriale di organizzazione della economia di un paese, lo Stato deve essere conservato e sviluppato: tutti gli strumenti di produzione e di scambio che il capitalismo lascerà al proletariato devono essere conservati e sviluppati per conservare e dare incremento al benessere comune. Se l’accentramento è domandato dalle necessità della produzione industriale, esso deve essere mantenuto e sviluppato, fino a diventare mondiale; sarebbe pazzesco e criminoso distruggere uno strumento di produzione, sull’esistenza del quale si fonda il benessere e spesso l’elementare possibilità di vita della popolazione attuale del mondo, solo perché cinquanta anni fa un uomo, e sia pur grande quanto Bakunin, ha affermato che accentramento significa «morte dell’autonomia e della libertà». I socialisti sono «statali» quindi, solo in quanto il processo di sviluppo della produzione industriale ha creato apparati economici che coincidono con l’apparato del potere politico e ne formano l’intima struttura.

Come principio di potere politico, lo Stato si dissolverà tanto piú rapidamente quanto piú i lavoratori saranno compatti e disciplinati nell’ordinarsi socialmente, nel fondersi cioè in gruppi accomunati dal lavoro, coordinati e sistemati tra loro secondo i momenti della produzione: dal nucleo elementare del mestiere in un reparto, al reparto in una fabbrica, alla fabbrica in una città, in una regione, nelle unità sempre piú vaste fino al mondo intero. L’Internazionale è lo «Stato» dei lavoratori, cioè la base vera e propria del progresso nella storia specificatamente comunista e proletaria.

Lo Stato rimarrà apparato di potere politico fin quando esisteranno le classi, fin quando, cioè, i lavoratori armati non saranno riusciti — attraverso lo Stato politico (o Dittatura) attrezzato dai capitalisti come una bardatura dell’organismo economico — a dominare e possedere realmente l’apparato nazionale di produzione e a farne la condizione permanente della loro libertà.

Le parole «Stato», «legalità», «autoritarismo» ecc., con le quali gli anarchici si riempiono la bocca, hanno un determinato valore, fin quando sussistono i rapporti di proprietà individuale: hanno un valore politico. Ne acquistano un altro se concepiti come rapporti puramente industriali. Gli operai dell’industria conoscono questi rapporti per esperienza diretta, e perciò sono socialisti, hanno una psicologia dialettica; non sono anarchici, cioè cristallizzati in una formula.

L’unità nazionale6

La borghesia italiana è nata e si è sviluppata affermando e realizzando il principio dell’unità nazionale. Poiché l’unità nazionale ha rappresentato nella storia italiana, come nella storia degli altri paesi, la forma di una organizzazione tecnicamente piú perfetta dell’apparato mercantile di produzione e di scambio, la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana.

Oggi, per gli intimi, insanabili conflitti creati dalla guerra nella sua compagine, la borghesia tende a disgregare la nazione, a sabotare e a distruggere l’apparato economico cosí pazientemente costruito.

Gabriele D’Annunzio, servo smesso della massoneria anglo-francese, si ribella ai suoi vecchi burattinai, racimola una compagnia di ventura, occupa Fiume, se ne dichiara «padrone assoluto» e costituisce un governo provvisorio. Il gesto di D’Annunzio aveva inizialmente un mero valore letterario: D’Annunzio preparava e viveva gli argomenti di un futuro poema epico, di un futuro romanzo di psicologia sessuale e di una futura collezione di «Bollettini di guerra» del comandante Gabriele D’Annunzio.

Niente di straordinario e di mostruoso nell’avventura letteraria di Gabriele D’Annunzio: è possibile che in una classe, sana politicamente e spiritualmente perché coesa e organizzata economicamente, esistano dei singoli, pazzi politicamente perché dissestati, perché non inscritti in una realtà economica concreta.

Ma il colonnello D’Annunzio trova dei seguaci, ottiene che una parte della classe borghese assuma una forma imperniando la sua attività nel gesto di Fiume. Il governo di Fiume viene contrapposto al governo centrale, la disciplina armata al potere del governo di Fiume viene contrapposta alla disciplina legale del governo di Roma.

Il gesto letterario diventa un fenomeno sociale. Come in Russia i governi di Omsk, di Ekaterinodar, di Arcangelo ecc., in Italia il governo di Fiume viene assunto come la base di una riorganizzazione dello Stato, come l’energia sana, che rappresenta il «vero» popolo, la «vera» volontà, i «veri» interessi, la quale deve scacciare dalla capitale gli usurpatori. D’Annunzio sta a Nitti come Kornilov a Kerenski. Il gesto letterario ha scatenato in Italia la guerra civile.

La guerra civile è stata scatenata proprio dalla classe borghese che tanto la depreca, a parole. Perché guerra civile significa appunto urto dei due poteri che si disputano a mano armata il governo dello Stato, urto che si verifica, non in campo aperto tra due eserciti ben distinti, schierati regolarmente, ma nel seno stesso della società, come scontro di gruppi raccogliticci, come molteplicità caotica di conflitti armati in cui non è possibile, alla grande massa di cittadini, orizzontarsi, in cui la sicurezza individuale e dei beni sparisce e le succede il terrore, il disordine, l’«anarchia». In Italia, come in tutti gli altri paesi, come in Russia, come in Baviera, come in Ungheria, è la classe borghese che ha scatenato la guerra civile, che immerge la nazione nel disordine, nel terrore, nell’«anarchia». La rivoluzione comunista, la dittatura del proletariato sono state, in Russia, in Baviera, in Ungheria e saranno in Italia, il tentativo supremo delle energie sane del paese per arrestare la dissoluzione, per ripristinare la disciplina e l’ordine, per impedire che la società si inabissi nella barbarie bestiale inerente alla fame determinata dalla cessazione del lavoro utile durante il periodo del terrorismo borghese.

Poiché ciò è successo, poiché il gesto letterario ha dato inizio alla guerra civile, poiché l’avventura dannunziana ha rivelato e dato forma politica a uno stato di coscienza diffuso e profondo, se ne conclude che la borghesia è morta come classe, che il cemento economico che la rendeva coesa è stato corroso e distrutto dai trionfanti antagonismi di casta, di gruppo, di ceto, di regione; se ne conclude che lo Stato parlamentare non riesce piú a dare forma concreta alla realtà obbiettiva della vita economica e sociale dell’Italia.

E l’unità nazionale, che si riassumeva in questa forma, scricchiola sinistramente. Chi si meraviglierebbe leggendo domani la notizia che a Cagliari, a Sassari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, a Venezia, ad Ancona... un generale, un colonnello o anche un semplice tenente degli arditi è riuscito a far ammutinare dei reparti di truppa, ha dichiarato di aderire al governo di Fiume e ha decretato che i cittadini della sua giurisdizione non devono piú pagare le imposte al governo di Roma?

Oggi lo Stato centrale, il governo di Roma, rappresenta i debiti di guerra, rappresenta la servitú verso la finanza internazionale, rappresenta una passività di cento miliardi. Ecco il reagente che corrode l’unità nazionale e la compagine della classe borghese; ecco la causa sotterranea che illumina il fatto del come ogni atto di indisciplina «borghese», di indisciplina nell’àmbito della proprietà privata, di insurrezione «reazionaria» contro il governo centrale trovi aderenze, simpatie, giornali, quattrini. Se un tenente degli arditi fonda un governo a Cagliari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, ad Ancona, a Udine, contro il governo centrale, egli diventa il perno di tutte le diffidenze, di tutti gli egoismi dei ceti proprietari del luogo, egli trova simpatie, adesioni, quattrini, perché questi proprietari odiano lo Stato centrale, vorrebbero esonerarsi dal pagamento delle imposte che lo Stato centrale dovrà imporre per pagare le spese di guerra.

I governi locali, dissidenti sulla questione di Fiume, diventeranno l’organizzazione di questi antagonismi irriducibili; essi tenderanno a mantenersi, a creare Stati permanenti, come è avvenuto nell’ex Impero russo e nella monarchia austro-ungarica. I proprietari di Sardegna, di Sicilia, di Valdaosta, del Friuli, ecc. dimostreranno che i popoli sardo, siciliano, valdostano, friulano ecc. non sono italiani, che già da tempo aspiravano all’indipendenza, che l’opera di italianizzazione forzata che il governo di Roma ha condotto, con l’insegnamento obbligatorio della lingua italiana, è fallita, e manderanno memoriali a Wilson, a Clemenceau, a Lloyd George... e non pagheranno le imposte.

In tali condizioni è stata ridotta la nazione italiana dalla classe borghese, che in ogni sua attività tende solo ad accumulare profitto. L’Italia è psicologicamente nelle stesse condizioni di prima del ’59: ma non è piú la classe borghese che oggi ha interessi unitari in economia e in politica. Storicamente la classe borghese italiana è già morta, schiacciata da una passività di cento miliardi, disciolta dagli acidi corrosivi dei suoi interni dissidi, dei suoi inguaribili antagonismi. Oggi la classe «nazionale» è il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento della nazione, perché la unità dello Stato è la forma dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell’Internazionale comunista. Solo lo Stato proletario, la dittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione della unità nazionale, perché è l’unico potere reale che possa costringere i borghesi faziosi a non turbare l’ordine pubblico, imponendo loro di lavorare, se vogliono mangiare.

Giorgio Sorel7

Giorgio Sorel, nel Resto del Carlino del 5 ottobre afferma: «La legislazione bolscevica ci offre una traduzione pragmatica del comunismo; essa ha istituito dei Consigli di controllo delle fabbriche nominati dagli operai. Che questi, anziché domandare a Kautsky ed ai suoi emuli il disegno della città futura, compiano la loro educazione industriale conquistando piú estesi poteri nelle officine e svolgeranno opera di comunisti! L’esperienza che si compie nelle officine Fiat ha maggiore importanza di tutti gli scritti pubblicati sotto gli auspici della Neue Zeit (la rivista del marxismo dottrinario tedesco)». Il giudizio del Sorel concorda con quello che Lenin dà dell’importanza dei Consigli dei commissari di reparto, aggiungendo che i teorici della III Internazionale non hanno fatto altro che metter sulla carta ciò che già era acquisito alla coscienza delle masse. In fondo, dunque, noi troviamo in questi giudizi un riconoscimento della maturità del proletariato torinese che si è messo per questa via.

Sarà bene intendersi, però, circa il valore che noi diamo alle parole del Sorel. Non vi par già di sentire mormorare, o affermare decisamente che, per amor di successo, noi ci facciamo anche sindacalisti? Non abbiamo finora avuto occasione di parlare per disteso del Sorel e dell’opera sua. Certo è che in essa siamo ben lontani dall’accettare tutto. Non accettiamo la teoria sindacalista, cosí come vollero presentarla allievi e applicatori e come forse non era da principio nella mente del maestro, che pure parve poi consentire ad essa. Non abbiamo nessuna simpatia per quelle abitudini di sbrigliatezza e di rilucente vanità mentale, che si introdussero nel nostro paese col nome di sindacalismo teorico. Ma, mentre i discepoli o quelli che si vantavano per tali, si isterilivano in un giuoco di pirotecnica intellettuale, o, entrati nella pratica della politica e dell’organizzazione, annegavano infine, sotto pretesto di interventismo, nella melma democratica e bloccarda, il Sorel era temperamento troppo finemente critico per adattarsi a schematizzazioni arbitrarie e affrettate, ed era poi animato da un troppo sincero amore della causa del proletariato per perdere ogni contatto con la vita, ogni intelligenza della storia di esso. Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica erano e sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, e della sua fresca originalità. Nelle migliori cose sue egli pare riscuotere in sé un poco delle virtú dei due suoi maestri: l’aspra logica di Marx, e la commossa e plebea eloquenza di Proudhon. Ed egli non si è chiuso in nessuna formula, e oggi, conservando quanto vi era di vitale e di nuovo nella sua dottrina, cioè l’affermata esigenza che il moto proletario si esprima in forme proprie, dia vita a proprie istituzioni, oggi egli può seguire non solo con occhio pieno di intelligenza, ma con animo pieno di comprensione, il movimento realizzatore iniziato dagli operai e dai contadini russi, e può chiamare ancora «compagni» i socialisti d’Italia che vogliono seguire quell’esempio.

Noi sentiamo che Giorgio Sorel è veramente rimasto quello che l’aveva fatto Proudhon, cioè un amico disinteressato del proletariato. Perciò la sua parola non può lasciare indifferenti gli operai torinesi, quegli operai che hanno cosí ben compreso che le istituzioni proletarie debbono essere create «di lunga mano, se non si vuole che la prossima rivoluzione non sia altro che un colossale inganno».

Sindacati e Consigli8

L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell’una sarà la soluzione dell’altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell’àmbito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l’impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente lo contrapporranno allo Stato parlamentare.

Gli operai sentono che il complesso della «loro» organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti, cementandola col sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree inerenti alla struttura funzionale dell’apparato sindacale.

I leaders dell’organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e diffusa. Quanto piú chiaramente appare che la classe operaia non è composta in forme aderenti alla sua reale struttura storica, quanto piú risulta che la classe operaia non è inquadrata in una configurazione che incessantemente si adatti alle leggi che governano l’intimo processo di sviluppo storico reale della classe stessa; tanto piú questi leaders si ostinano nella cecità e si sforzano di comporre «giuridicamente» i dissidi e i conflitti. Spiriti eminentemente burocratici, essi credono che una condizione obbiettiva, radicata nella psicologia quale si sviluppa nelle esperienze vive dell’officina, possa essere superata con un discorso che muova gli affetti, e con un ordine del giorno votato all’unanimità in un’assemblea abbrutita dal frastuono e dalle lungaggini oratorie. Oggi essi si sforzano di porsi all’«altezza dei tempi» e, tanto per dimostrare che sono anche capaci di «meditare aspramente», rivogano le vecchie e logore ideologie sindacaliste, insistendo penosamente nello stabilire rapporti di identità tra il Soviet e il sindacato, insistendo penosamente nell’affermare che il sistema attuale di organizzazione sindacale costituisce già l’impalcatura della società comunista, costituisce il sistema di forze in cui deve incarnarsi la dittatura proletaria.

Il sindacato, nella forma in cui esiste attualmente nei paesi dell’Europa occidentale, è un tipo di organizzazione non solo diverso essenzialmente dal Soviet, ma diverso anche, e in modo notevole, dal sindacato quale sempre piú viene sviluppandosi nella Repubblica comunista russa.

I sindacati di mestiere, le Camere del lavoro, le federazioni industriali, la Confederazione generale del lavoro sono il tipo di organizzazione proletaria specifico del periodo di storia dominato dal capitale. In un certo senso si può sostenere che esso è parte integrante della società capitalistica, e ha una funzione che è inerente al regime di proprietà privata. In questo periodo, nel quale gli individui valgono in quanto sono proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono diventati mercanti dell’unica loro proprietà, la forza-lavoro e l’intelligenza professionale. Piú esposti ai rischi della concorrenza, gli operai hanno accumulato la loro proprietà in «ditte» sempre piú vaste e comprensive, hanno creato questo enorme apparato di concentrazione di carne da fatica, hanno imposto prezzi e orari e hanno disciplinato il mercato. Hanno assunto dal di fuori o hanno espresso dal loro seno un personale d’amministrazione di fiducia, esperto in questo genere di speculazione, in grado di dominare le condizioni del mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali, di iniziare operazioni economicamente utili. La natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli esperti tecnici in quistioni industriali d’indole generale, non può essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista.

La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion d’essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare.

Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nella organizzazione generale della società.

Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il piú ignorante e il piú arretrato degli operai, anche il piú vanitoso e il piú «civile» degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell’organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l’economia comunista rappresenta sull’economia capitalistica. Il Consiglio è il piú idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel piú trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.

L’esistenza di una organizzazione, nella quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima l’attività dei sindacati.

Il Consiglio di fabbrica si fonda anch’esso sul mestiere. In ogni reparto gli operai si distinguono in isquadre e ogni squadra è una unità di lavoro (di mestiere): il Consiglio è costituito appunto dai commissari che gli operai eleggono per mestiere (squadra) di reparto. Ma il sindacato si basa sull’indirizzo, il Consiglio si basa sull’unità organica e concreta del mestiere che si attua nel disciplinamento del processo industriale. La squadra (il mestiere) sente di essere distinta nel corpo omogeneo della classe, ma nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di ordine che rende possibile, con l’esatto e preciso suo funzionamento, lo sviluppo della produzione. Come interesse economico e politico il mestiere è parte indistinta e solidale perfettamente col corpo della classe; se ne distingue come interesse tecnico e come sviluppo del particolare strumento che adopera nel lavoro. Allo stesso modo tutte le industrie sono omogenee e solidali nel fine di realizzare una perfetta produzione, distribuzione e accumulazione sociale della ricchezza; ma ogni industria ha interessi distinti per quanto riguarda la organizzazione tecnica della sua specifica attività.

L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli operai migliori e piú consapevoli, attuano il momento supremo della lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le condizioni obbiettive in cui le classi non possono piú esistere né rinascere.

Questo fanno in Russia i sindacati di industria. Essi sono diventati gli organismi in cui tutte le singole imprese di una certa industria si amalgamano, si connettono, si articolano, formando una grande unità industriale. Le concorrenze sperperatrici vengono eliminate, i grandi servizi amministrativi, di rifornimento, di distribuzione e di accumulamento, vengono unificati in grandi centrali. I sistemi di lavoro, i segreti di fabbricazione, le nuove applicazioni diventano immediatamente comuni a tutta l’industria. La molteplicità di funzioni burocratiche e disciplinari inerente ai rapporti di proprietà privata e alla impresa individuale, viene ridotta alle pure necessità industriali. L’applicazione dei princípi sindacali all’industria tessile ha permesso in Russia una riduzione di burocrazia da 100.000 impiegati a 3.500.

La organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell’organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali.

I sindacati di mestiere e di industria sono le solide vertebre del gran corpo proletario. Essi elaborano le esperienze individuali e locali, e le accumulano, attuando quel conguagliamento nazionale delle condizioni di lavoro e di produzione sul quale concretamente si basa la uguaglianza comunista.

Ma perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione positivamente classista e comunista è necessario che gli operai rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla diffusione dei Consigli, all’unificazione organica della classe lavoratrice. Su questo fondamento omogeneo e solido fioriranno e si svilupperanno tutte le superiori strutture della dittatura e dell’economia comunista.

La Russia e l’Europa9

La storia sta già per sbarrare col catenaccio del fatto compiuto le porte della Conferenza e il trio politico Wilson-Lloyd George-Clemenceau è sul punto di sciogliersi. Però è anche assai probabile che non sia lontano il giorno del disinganno piú amaro per gli uomini che si sono presi l’assunto di mettere la camicia di forza all’Europa, nella speranza forse di guarirla dall’accesso di follia omicida, in cui l’ha gettata la passione nazionalistica che infuria da oltre un secolo, fiancheggiata, spalleggiata ed aizzata da prepotenti ed oculati interessi di predominio economico, nelle classi dirigenti della società europea, o se non nella speranza di guarirla, in quella almeno di metterla nella impossibilità di rinnovare a breve scadenza i suoi disperati atti di strage e di distruzione perpetrati con tanto tristo successo sotto i nostri occhi. È anzi quasi certo, ch’essi cominciano già fin d’ora a guardare con una certa diffidenza la loro opera appena compiuta, e debbono confessare a se medesimi nel segreto delle coscienze, d’aver lavorato invano.

Questo sembra essere appunto lo stato d’animo dei maggiori statisti, che hanno a Versailles gettato sulla carta i fondamenti della Europa novella, e in procinto di separarsi, dando uno sguardo all’edifizio a gran pena costrutto, presentono la precarietà dell’opera e disperano del suo avvenire. Né in verità si può dar loro torto, ché a dimostrazione perentoria dell’inanità dei loro sforzi ricostruttivi, sta soprattutto la situazione orientale. Là è la causa del maggior turbamento, là il punctum pruriens dell’intero organismo, di là nell’ora presente si drizza il piú enimmatico spettro sul sanguigno orizzonte della nostra civiltà. Pretendere di dar pace ed ordine all’Europa, finché non sia pacificato e ordinato l’immenso tratto di terre orientali che dal Baltico al Mar Nero, che dagli Urali alla Vistola e ai Carpazi, abbraccia piú che la metà dell’intero continente, è piú che una illusione, è una sfacciata menzogna. Se è vero, come dicesi, che Clemenceau abbia in un crocchio di intimi pronunciato queste parole: «la questione russa avvelena tutte le mie gioie e mi dà le maggiori preoccupazioni sull’avvenire della Francia», bisogna riconoscere che il vecchio giacobino ha tuttora un intuito finissimo della realtà politica, e non si fa molte illusioni sulla reale portata dei suoi successi diplomatici.

Ed ha ragione, e le sue mortali angoscie di patriota francese, mentre ci commuovono pochissimo, vengono a confermare una tesi, che in questo quarto d’ora storico deve essere massimamente cara a noi tutti socialisti, tesi che nella sua stessa espressione paradossale, contiene una gran somma di verità storica e che può enunciarsi cosí: da oltre due secoli il destino dell’Europa è legato alla situazione politica della Russia, per modo che i maggiori avvenimenti che interessano la nostra storia di popoli occidentali, sono quasi il contraccolpo dei fatti e degli atteggiamenti del grande colosso orientale.

Molto piú che dall’Inghilterra, la quale come suol dirsi comunemente, avendo il sea-power, avrebbe nelle sue mani le sorti del continente, queste invece dipendono dalla enorme massa di terre e di umanità, che lo preme dall’est, e i cui movimenti sian pur lenti, sian pur tardigradi, son quelli che in definitiva determinano i risultati piú imponenti e decisivi nella restante parte delle contrade europee.

Chi tien d’occhio la successione dei fatti verificatisi tra il XVII e il XX secolo nell’assetto generale del continente, vi scopre sempre piú o men chiara, ma comunque decisiva, l’azione russa. Da quando Pietro il Grande spostò l’asse politico del nord, facendo passare dalla Svezia dei Vasa alla Russia dei Romanoff il primato di quel Mediterraneo settentrionale, che è il Baltico, da quando nel bacino orientale del Mediterraneo classico, e nelle regioni adiacenti dei maggiori fiumi europei, alla possanza indiscussa dell’Islam si contrappose vittoriosa quella dei moscoviti — e i due grandi fatti coincidono press’a poco nel tempo — questa nuova linea di forza, che va dal Baltico al Mar Nero, questa ch’io chiamerei la linea dei mari interni, che sono poi i vitali polmoni del continente, è dominata dall’attività politica ed economica del nuovo corpo sociale della Russia moderna, e quindi tutta la costituzione politica ed economica europea non ha cessato d’allora di sentire l’influsso della nuova formidabile potenza, che agiva e premeva dall’oriente.

Prova ne sia che le maggiori e piú importanti guerre di successione e di equilibrio combattute in Europa negli ultimi secoli, sono state impegnate e decise sotto questa pressione, e il sistema nefasto delle alleanze, che ha scagliato troppo spesso i vari gruppi delle nazioni europee in cosí tragici e micidiali conflitti, è interamente dominato dal prevalente peso della potenza russa. Questo si è massimamente visto due volte nella recente storia d’Europa, nella guerra dei sette anni, che deve la sua soluzione all’atteggiamento definitivo della Russia di Pietro III e di Caterina II, e nella gran lotta franco-inglese dell’età rivoluzionaria ed imperiale, che si chiude in due tempi, sempre per effetto della carta russa, che giuoca il colpo finale della partita, nel 1807 a Tilsit a favore della Francia, e nel 1814-15 a Vienna in pro’ degli inglesi.

E a guardar bene anche la conflagrazione europea del 1914-18 è stata determinata nei suoi momenti fondamentali dalla situazione russa, sebbene scaturisse essenzialmente dalla rivalità economica della Gran Bretagna e della Germania, sulla quale s’era innestata l’inimicizia ereditaria franco-tedesca.

Senza l’alleanza russa l’Inghilterra non avrebbe mai affrontato la lotta, mentre poi solo il crollo russo determinò l’efficace e positivo intervento americano. E terminato il conflitto armato, la rivoluzione russa ha per cosí dire preso il posto della guerra, come fatto caratteristico e dominante dell’attuale situazione europea.

La parte decisiva, che la rivoluzione russa ha avuto sul corso degli ultimi avvenimenti militari e politici, co’ quali si è chiusa la guerra, è già stata messa in rilievo da varie parti. La vittoria definitiva dell’Intesa sugli Imperi centrali è dovuta alla Russia. Lo scoppio della rivoluzione in Germania e nell’Austria-Ungheria non è che il contraccolpo del piú vasto movimento del mondo slavo, messo in convulsione dalla guerra. La strategia diplomatica di Trotzki a Brest-Litowski si e dimostrata superiore a quella militare di Foch. Ludendorff ed Hoffmann hanno riconosciuto la demoralizzazione dell’esercito tedesco, frutto della propaganda bolscevica, come causa prima della disfatta e della caduta dell’Impero germanico.

Ma c’è di piú! Prima di Wilson la rivoluzione russa della fase Kerenski proclamò la revisione degli scopi di guerra compendiata nella formola: né contribuzioni né annessioni, mentre poi Trotzki gettando al vento della pubblicità i trattati segreti dello zarismo, condannava irrimediabilmente la diplomazia tradizionale, causa della tragedia attuale.

Cosicché per una parte la Russia rivoluzionaria contribuiva infinitamente piú che non la tanto celebrata talassocrazia britannica a far precipitare le sorti delle potenze militari del Centro, ma dall’altra la stessa Russia rivoluzionaria molto piú che la conclamata vittoria dell’Intesa è destinata ad influire sull’assestamento generale dell’Europa e sulle nuove direttive della sua vita internazionale. Il proletariato dei due mondi guarda oggi alla Russia, come ad un faro. Potrebbe anche essere un miraggio, come affermano non soltanto le interessate voci del coro borghese, che commenta, sul metro dei propri desideri e delle proprie paure, il gran dramma umano, che si svolge in quest’ora solenne della storia sul teatro di un continente vasto quanto la metà dell’Europa, ma anche pur troppo non poche Cassandre di parte nostra, che abbondano di saggezza, forse appunto perché difettano di fede. Ma la sollecitudine, che le borghesie dell’occidente mettono a diffamare il moto bolscevico e a soffocarne il focolaio, basterebbe se non altro a dimostrare ch’esse intuiscono chiaramente l’enormità del pericolo che le minaccia.

L’incendio acceso nella Russia è di cosí gran mole, e cosí intenso, e cosí durevole, che non può essere per nulla paragonabile con altri analoghi atti che si possono segnalare nella storia. Tumulto dei Ciompi, jacquerie del Medioevo francese, moti anabattisti di Germania, Comune parigina del ’71 sono innocenti fuochi fatui in suo confronto. Il proletariato dei due mondi ha istintivamente preso coscienza della assoluta novità e dell’importanza decisiva dell’esperimento russo. Il suo destino come classe ne dipende: de re sua agitur. Questo spiega la profonda commozione che pervade l’anima della folla lavoratrice dinanzi alla maggior tragedia sociale della storia.

Accadde qualche cosa di simile negli spiriti delle medie e colte classi europee di fronte agli avvenimenti della Francia rivoluzionaria che segnavano la riscossa del terzo stato contro gli ordini privilegiati e l’assolutismo monarchico.

Perfino nei paesi anglo-sassoni, perfino nella democrazia nord-americana, le masse operaie staccandosi dal corporativismo tradizionale, accennano a gettarsi nella mischia sociale, sventolando ben altre bandiere di lotta e di rivendicazione. Ciò che nel sistema politico antebellico fu per l’Europa borghese la Russia degli zar, sarà domani per l’Europa proletaria la Russia dei Soviet.

I popolari10

I popolari costituiscono un partito politico? (esiste il Partito popolare italiano?) Cosa vogliono i popolari? Quale programma d’azione concreta unitaria propongono essi alla volontà sociale delle masse italiane?

La costituzione del Partito popolare ha una grande importanza e un grande significato nella storia della nazione italiana. Con essa il processo di rinnovazione spirituale del popolo italiano, che rinnega e supera il cattolicismo, che evade dal dominio del mito religioso e si crea una cultura e fonda la sua azione storica su motivi umani, su forze reali immanenti e operanti nel seno stesso della società, assume una forma organica, si incarna diffusamente nelle grandi masse. La costituzione del Partito popolare equivale per importanza alla Riforma germanica, è l’esplosione inconscia irresistibile della Riforma italiana.

Il Partito popolare non è nato dal nulla, per un atto taumaturgico del dio degli eserciti. Accanto alle istituzioni religiose del cattolicismo erano venute nascendo, da qualche decina di anni, numerosissime istituzioni di carattere meramente terreno, proponentisi fini meramente materiali. Esiste in Italia una fitta rete di scuole fiorentissime, di mutue, di cooperative, di piccole banche di credito agrario, di corporazioni di mestiere, gestite da cattolici, controllate, direttamente e indirettamente, dalla gerarchia ecclesiastica. Il cattolicismo, espulso violentemente dalle pubbliche cose, privato di ogni influsso diretto nella gestione dello Stato, si rifugiò nelle campagne, si incarnò negli interessi locali e nella piccola attività sociale di quella parte della massa popolare italiana che continuava a vivere, materialmente e spiritualmente, in pieno regime feudale. Si verificò per il cattolicismo un fenomeno per molti aspetti simile a quello verificatosi per gli ebrei: esclusi a ogni diritto di proprietà immobiliare, gli ebrei divennero i piú grandi detentori di valori mobili della cristianità e riuscirono a taglieggiare, con la immensa loro potenza finanziaria, gli Stati confessionali dai quali erano oppressi politicamente e spiritualmente; privati del loro potere pubblico dai liberali, i cattolici oggi, dopo essersi incarnati in una molteplicità di interessi economici locali, si organizzano in un sistema di forze sociali e taglieggiano lo Stato aconfessionale che li aveva oppressi spiritualmente e li aveva espulsi dalla storia della civiltà.

Il cattolicismo riappare alla luce della storia, ma quanto modificato, quanto «riformato». Lo spirito si è fatto carne, e carne corruttibile come le forme umane, sottoposta alle stesse leggi storiche di sviluppo e di superamento che sono immanenti nelle istituzioni umane. Il cattolicismo, che si incarnava in una chiusa e rigidamente angusta gerarchia irraggiante dall’alto, dominatrice assoluta e incontrollata delle folle fedeli, diventa la folla stessa, diventa emanazione delle folle, si incarna in una gerarchia che domanda il consenso delle folle, che può essere revocata e distrutta dal capriccio delle folle, incarna la sua sorte nella buona e nella cattiva riuscita dell’azione politica ed economica di uomini che promettono beni terreni, che vogliono guidare alla felicità terrena e non solo, e non piú alla città di Dio.

Il cattolicismo entra cosí in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo, e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia dal socialismo.

I popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Essi creano l’associazionismo, creano la solidarietà dove il socialismo non potrebbe farlo, perché mancano le condizioni obbiettive dell’economia capitalista: creano almeno l’aspirazione all’associazionismo e alla solidarietà. Dànno una prima forma al vago smarrimento di una parte delle masse lavoratrici che sentono di essere ingranate in una grande macchina storica che non comprendono, che non riescono a concepire perché non ne hanno l’esempio, il modello nella grande officina moderna che ignorano. Questo smarrimento, questo panico sociale, che è caratteristico dell’attuale periodo, spinge anche gli individui piú arretrati storicamente a uscire dal loro isolamento, a cercare conforto, speranza, fiducia nella comunità, nel sentirsi vicini, nell’aderire fisicamente e spiritualmente ad altri corpi e altre anime interrorite. Come potrebbe, per quali vie potrebbe la concezione socialista del mondo dare una forma a questo tumulto, a questo brulichío di forze elementari? Il cattolicismo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. Assunta una forma, diventate una potenza reale, queste folle si saldano con le masse socialiste consapevoli, ne diventano la continuazione normale. Ciò che sarebbe stato impossibile per gli individui, diventa possibile per le vaste formazioni. Diventati società, acquistata coscienza della loro forza reale, questi individui comprenderanno la superiorità del motto socialista: «l’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso», e vorranno far da sé, e svolgeranno da se stessi le proprie forze e non vorranno piú intermediari, non vorranno piú pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini, nel senso moderno della parola, uomini che attingono nella propria coscienza i princípi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio.

Perciò non fa paura ai socialisti l’avanzata impetuosa dei popolari, non fa paura il nuovo partito che ai sessanta mila tesserati del Partito socialista contrappone i suoi seicento mila tesserati. I popolari stanno ai socialisti come Kerenski a Lenin; la XXV legislatura del Parlamento italiano vedrà la disfatta delle rapide formazioni politiche basate sulla impulsiva fame di potere dei contadini, come la vide la Costituzione della Repubblica democratica russa.

Il primo passo11

— Avete «valorizzato» i crumiri, avete dato lo stesso potere agli organizzati e ai disorganizzati...

— I commissari di reparto hanno iniziato nelle officine un’opera di «repulisti» che non sarà senza risultati decisivi nella creazione di un nuovo costume operaio, nella creazione di una piú stretta solidarietà tra i lavoratori; i commissari di reparto controllano tutta la massa d’officina; non è piú possibile nessun imboscamento per i miserabili che negano le quote di solidarietà negli scioperi, per i traditori della classe che seminano lo sconforto nella massa, che fanno propaganda antiproletaria, che, nei momenti di maggior tensione, cercano spezzare la compagine operaia. Oggi ci sono occhi per vedere, volontà per agire; e i commissari dànno fuoco alle code di paglia delle volpicelle piú astute e piú subdole. Per i disorganizzati... è probabile che tra breve non ci siano piú disorganizzati nelle officine torinesi; le domande di ammissione nella federazione affluiscono. I commissari hanno, tra l’altro, un interesse... personale a organizzare tutti gli operai della loro industria; essi vogliono dimostrare che l’istituto operaio che si incarna oggi nelle loro persone e nelle loro volontà non è tale da ottundere lo spirito di sacrificio delle masse, ma anzi è appunto il piú idoneo a suscitare fede ed entusiasmo tra i lavoratori. Mai le organizzazioni hanno avuto maggior numero di propagandisti instancabili ed efficaci. Le organizzazioni erano giunte a un punto morto del loro processo di sviluppo; erano pletoriche, nel senso che la massa degli organizzati era ridotta all’impossibilità assoluta di partecipare in un qualsiasi modo alla vita del suo sindacato, alla sua vita. Un giorno... si scoprirà che l’istituto del Consiglio di fabbrica era fatale nel processo di sviluppo del sindacato, poiché il processo di incremento quantitativo diventa, in una sua fase, processo qualitativo, determina mutamenti di forma. Allora si dirà che nell’Ordine Nuovo si era incarnato il dito divino, la volontà cieca del destino...

— Ma voi fate del piemontesimo, del regionalismo, siete campanilisti, non internazionalisti...

— L’Internazionale vive anche a Torino, anche nel Piemonte; per fare è necessario incominciare. In Russia il Consiglio di fabbrica ha iniziato la sua esistenza a Sestroretz, prima di diventare istituto della classe lavoratrice russa e diventare la base delle esperienze proletarie che hanno culminato nello Stato dei Soviet. In Italia l’esistenza del Consiglio ha incominciato a Torino, nell’industria metallurgica; è un particolare che nell’avvenire sarà ricordato dagli eruditi. Gli operai torinesi non ambiscono a nessun primato, a nessun brevetto, a nessuna medaglia commemorativa. Da buoni internazionalisti, ambiscono al lavoro concreto rivoluzionario; e nessuno potrà mai convincerli che, se è necessario ancora molto lavorare e molto sacrificarsi e molto chiarire e molto migliorare, non perciò si è fatto meno un passo in avanti; la prima rottura, il primo passo ha pure la sua importanza, e gli operai torinesi l’hanno fatto.

Sindacalismo e Consigli12

Siamo noi sindacalisti? Il movimento, iniziatosi a Torino, dei commissari di reparto, è nient’altro che l’ennesima incarnazione localistica della teoria sindacalista? È davvero esso il piccolo turbo che preannunzia le devastazioni del ciclone sindacalista marca indigena, di quel conglomerato di demagogia, di enfatico verbalismo pseudorivoluzionario, di spirito indisciplinato e irresponsabile, di maniaco esagitarsi di pochi individui dall’intelligenza limitata (poco cervello e molta gola) che sono finora riusciti, qualche volta, a saccheggiare la volontà delle masse, il quale rimarrà negli annali del movimento operaio italiano contrassegnato dalla etichetta: sindacalismo italiano?

La teoria sindacalista ha completamente fallito nell’esperienza concreta delle rivoluzioni proletarie. I sindacati hanno dimostrato la loro organica incapacità a incarnare la dittatura proletaria. Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo, la pratica «del pane e del burro». L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia. Eppure compito elementare del sindacato è quello di reclutare «tutta» la massa, è quello di assorbire nei suoi quadri tutti i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. Il mezzo non è dunque idoneo al fine, e poiché il mezzo non è che un momento del fine che si realizza, che si fa, si deve concludere che il sindacalismo non è mezzo alla rivoluzione, non è un momento della rivoluzione proletaria, non è la rivoluzione che si realizza, che si fa: il sindacalismo non è rivoluzionario che per la possibilità grammaticale di accoppiare le due espressioni.

Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai secondo lo strumento di lavoro o secondo la materia da trasformare, cioè il sindacalismo unisce gli operai a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico. Il servirsi di uno strumento di lavoro piuttosto che di un altro, il modificare una determinata materia piuttosto che un’altra, rivela capacità e attitudini disparate alla fatica e al guadagno; l’operaio si fissa in questa sua capacità e in questa sua attitudine e la concepisce non come un momento della produzione, ma come un puro mezzo di guadagno.

Il sindacato di mestiere o di industria, unendolo con i suoi compagni di quel mestiere o di quell’industria, con quelli che nel lavoro usano il suo stesso strumento o che trasformano la stessa materia che egli trasforma, contribuisce a rinsaldare questa psicologia, contribuisce ad allontanarlo sempre piú da un suo possibile concepirsi come produttore, e lo porta a considerarsi «merce» di un mercato nazionale e internazionale che stabilisce, col gioco della concorrenza, il proprio prezzo, il proprio valore.

L’operaio può concepire se stesso come produttore, solo se concepisce se stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell’oggetto fabbricato, solo se vive l’unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell’impiegato di amministrazione, dell’ingegnere, del direttore tecnico. L’operaio può concepire se stesso come produttore se, dopo essersi inserito psicologicamente nel particolare processo produttivo di una determinata officina (per es. a Torino, di una officina automobilistica) e dopo essersi pensato come un momento necessario e insopprimibile dell’attività di un complesso sociale che produce l’automobile, supera questa fase e vede tutta l’attività torinese dell’industria produttrice di automobili, e concepisce Torino come una unità di produzione che è caratterizzata dall’automobile e concepisce una grande parte dell’attività generale del lavoro torinese come esistente e sviluppantesi solo perché esiste e si sviluppa l’industria dell’automobile, e quindi concepisce i lavoratori di queste molteplici attività generali come anch’essi produttori della industria dell’automobile, perché creatori delle condizioni necessarie e sufficienti per la esistenza di questa industria. Muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre piú vaste unità, fino alla nazione, che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione, caratterizzato dalle sue esportazioni, dalla somma di ricchezza che scambia con una equivalente somma di ricchezza confluente da ogni parte del mondo, dai molteplici altri giganteschi apparati di produzione in cui si distingue il mondo. Allora l’operaio è produttore, perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo; allora egli sente la classe, e diventa comunista, perché la proprietà privata non è funzione della produttività, e diventa rivoluzionario perché concepisce il capitalista, il privato proprietario, come un punto morto, come un ingombro, che bisogna eliminare. Allora concepisce lo «Stato», concepisce una organizzazione complessa della società, una forma concreta della società, perché essa non è che la forma del gigantesco apparato di produzione che riflette, con tutti i rapporti e le relazioni e le funzioni nuove e superiori domandate dalla sua immane grandezza, la vita dell’officina, che rappresenta il complesso, armonizzato e gerarchizzato, delle condizioni necessarie perché la sua industria, perché la sua officina, perché la sua personalità di produttore viva e si sviluppi.

La pratica italiana del sindacalismo pseudorivoluzionario è negata dal movimento torinese dei commissari di reparto cosí come la pratica del sindacalismo riformista: è negata in doppio grado, poiché il sindacalismo riformista rappresenta il superamento del sindacalismo pseudorivoluzionario. Infatti, se il sindacato può solo dare agli operai «pane e burro», se il sindacato può solo, in regime borghese, assicurare uno stabile mercato dei salari e può eliminare alcune delle alee piú pericolose per l’integrità fisica e morale dell’operaio, è evidente che la pratica riformista meglio di quella pseudo-rivoluzionaria ha ottenuto questi risultati. Se a uno strumento si domanda piú di quanto può dare, se si fa credere che uno strumento possa dare di piú di quanto la sua natura consente, si commettono solo spropositi, si esplica un’azione puramente demagogica. I sindacalisti pseudo-rivoluzionari d’Italia sono condotti spesso a discutere se non convenga fare del sindacato (per esempio, del sindacato ferroviario) un cerchio chiuso, comprendente solo i «rivoluzionari», la minoranza audace che trascini le masse fredde e indifferenti; essi cioè sono condotti a rinnegare il principio elementare del sindacalismo, l’organizzazione di tutta la massa. Perché intimamente e inconsapevolmente intuiscono l’inanità della «loro» propaganda, l’incapacità del sindacato a dare una forma concretamente rivoluzionaria alla coscienza dell’operaio. Perché non si sono mai prospettati con chiarezza e precisione il problema della rivoluzione proletaria, perché, essi, i seguaci della teoria dei «produttori» non hanno mai avuto coscienza di produttori; essi sono dei demagoghi, non dei rivoluzionari, degli agitatori di... sangue messo in tumulto dal fuoco fatuo dei discorsi, non degli educatori, non dei formatori di coscienze.

Il movimento dei commissari sarebbe nato e si svilupperebbe solo per sostituire Borghi a Buozzi o a D’Aragona? Il movimento dei commissari è la negazione di ogni forma di individualismi e di personalismi. Esso è l’inizio di un grande processo storico, nel quale la massa lavoratrice acquista coscienza della sua inscindibile unità basata sulla produzione, basata sull’atto concreto del lavoro, e dà una forma organica a questa sua coscienza, costruendosi una gerarchia, esprimendo questa gerarchia dalla sua intimità piú profonda, perché essa sia se stessa come volontà consapevole di un preciso fine da raggiungere, di un grande processo storico che irresistibilmente, nonostante gli errori che individui possono commettere, nonostante le crisi che le condizioni nazionali e internazionali possono determinare, irresistibilmente culminerà nella dittatura proletaria, nell’Internazionale comunista.

La teoria sindacalista non ha mai espresso una simile concezione del produttore e del processo di sviluppo storico della società dei produttori; non ha mai indicato che all’organizzazione dei lavoratori si dovesse imprimere questa direzione e questo senso. Ha teorizzato una particolare forma dell’organizzazione, il sindacato di mestiere e di industria, e ha costruito, sí, su una realtà, ma su una realtà che aveva una forma impressa dal regime capitalistico di libera concorrenza della proprietà privata della forza-lavoro; ha costruito quindi solo una utopia, un gran castello di astrazioni.

La concezione del sistema dei Consigli, fondato sulla potenza della massa lavoratrice organizzata per sede di lavoro, per unità di produzione, trae le sue origini dalle esperienze storiche concrete del proletariato russo, è il risultato dello sforzo teorico dei compagni comunisti russi, non sindacalisti, ma socialisti rivoluzionari.

I rivoluzionari e le elezioni13

Cosa attendono dalle elezioni i rivoluzionari consapevoli, gli operai e contadini che giudicano il Parlamento dei deputati eletti a suffragio universale (dagli sfruttatori e dagli sfruttati) e secondo circoscrizioni territoriali, come la maschera della dittatura borghese? Non attendono certo la conquista della metà piú uno dei seggi e una legislatura che sia caratterizzata da una serqua di decreti e di leggi che tendono a smussare gli angoli e a rendere piú facile e piú comoda la convivenza delle due classi, quella degli sfruttatori e quella degli sfruttati. Attendono invece che lo sforzo elettorale del proletariato riesca a far entrare in Parlamento un buon nerbo di militanti del Partito socialista, e che esso sia abbastanza numeroso e agguerrito per rendere impossibile a ogni leader della borghesia di costituire un governo stabile e forte, per costringere quindi la borghesia a uscire dall’equivoco democratico, a uscire dalla legalità e determinare una sollevazione degli strati piú profondi e vasti della classe lavoratrice contro l’oligarchia degli sfruttatori.

I rivoluzionari consapevoli, gli operai e contadini che sono ormai persuasi che la rivoluzione comunista avverrà solo attraverso la dittatura proletaria incarnantesi in un sistema di Consigli operai e contadini, hanno lottato per mandare molti deputati socialisti nel Parlamento, perché hanno ragionato in questo modo:

La rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano. Se anche una minoranza rivoluzionaria riuscisse, con la violenza, a impadronirsi del potere, questa minoranza sarebbe il giorno dopo rovesciata dal colpo di ritorno delle forze mercenarie del capitalismo, perché la maggioranza non assorbita lascerebbe massacrare il fiore della potenza rivoluzionaria, lascerebbe straripare tutte le cattive passioni e le barbarie suscitate dalla corruzione e dall’oro capitalistico. È necessario dunque che l’avanguardia proletaria organizzi materialmente e spiritualmente questa maggioranza di ignavi e di torpidi, è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca piú a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare. Un fine di tal genere può solo essere perseguito oggi attraverso l’azione parlamentare, intesa come azione che tende a immobilizzare il Parlamento, a strappare la maschera democratica dalla faccia equivoca della dittatura borghese e farla vedere in tutto il suo orrore e la sua bruttezza ripugnante.

La rivoluzione comunista è una necessità in Italia piú per ragioni internazionali che per ragioni inerenti al processo di sviluppo dell’apparato di produzione nazionale. I riformisti e tutta la banda degli opportunisti hanno ragione quando dicono che in Italia non esistono le condizioni obbiettive della rivoluzione: essi hanno ragione in quanto pensano e parlano da nazionalisti, in quanto concepiscono l’Italia come un organismo indipendente dal resto del mondo, e concepiscono il capitalismo italiano come un fenomeno puramente italiano. Essi non concepiscono l’internazionalismo come realtà vivente e operante nella storia tanto del capitalismo quanto del proletariato.

Ma se invece si concepisce la realtà italiana come inserita in un sistema internazionale, come dipendente da questo sistema internazionale, allora il giudizio storico cambia e la conclusione pratica cui deve giungere ogni socialista consapevole, ogni operaio e contadino che senta la responsabilità della missione rivoluzionaria della sua classe, è questa: bisogna essere preparati, bisogna essere armati per la conquista del potere sociale. Il fatto che la rivoluzione è imposta dalle condizioni del sistema internazionale capitalistico rende piú complicato e difficile il compito dell’avanguardia rivoluzionaria italiana, ma queste complicazioni e queste difficoltà devono spingere a meglio essere agguerriti e preparati, non devono spingere all’illusione e allo scetticismo.

Appunto: la rivoluzione trova le grandi masse popolari italiane ancora informi, ancora polverizzate in un brulichío animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche. Appunto perciò i rivoluzionari consapevoli hanno accettato la lotta elettorale: per creare una unità e una forma primordiale in questa moltitudine, per legarla con un vincolo all’azione del Partito socialista, per dare un senso e un barlume di coscienza politica ai suoi istinti e alle sue passioni. Ma anche perciò la avanguardia rivoluzionaria non vuole che queste moltitudini siano illuse, che si faccia loro credere che sia possibile superare la crisi attuale con l’azione parlamentare, con l’azione riformistica. È necessario incrudire il distacco delle classi, è necessario che la borghesia dimostri la sua assoluta incapacità a soddisfare i bisogni delle moltitudini, è necessario che queste si persuadano sperimentalmente che sussiste un dilemma netto e crudo: o la morte per fame, la schiavitú di un tallone straniero sulla nuca che costringa l’operaio e il contadino a crepare sulla macchina e sulla zolla di terra, o uno sforzo eroico, uno sforzo sovrumano degli operai e contadini italiani per creare un ordine proletario, per sopprimere la classe proprietaria ed eliminare ogni ragione di sperpero, di improduttività, di indisciplina, di disordine.

Solo per questi motivi rivoluzionari l’avanguardia cosciente del proletariato italiano è scesa nella lizza elettorale, si è solidamente piantata nella fiera parlamentare. Non per un’illusione democratica, non per un intenerimento riformista: per creare le condizioni del trionfo del proletariato, per assicurare la buona riuscita dello sforzo rivoluzionario che è diretto a instaurare la dittatura proletaria incarnantesi nel sistema dei Consigli, fuori e contro il Parlamento.

I risultati che attendiamo14

L’Italia è entrata in guerra per la volontà pervicace di un pugno di facinorosi e di avventurieri. Ma costoro non sono stati che l’espressione vivente di una situazione storica generale. L’Italia era attanagliata dalla necessità capitalistica europea: la sua vita era una vita di riflesso, in economia e in politica. I partiti politici non nascevano da condizioni inerenti alla struttura dell’apparato di produzione industriale e agricola della nazione. I partiti politici nascevano piuttosto dalla necessità di sistemare la posizione dell’Italia nell’internazionale capitalista, e la loro azione era rivolta a costringere l’apparato nazionale di produzione nella forma imposta dagli imperialismi economici stranieri. Da queste condizioni morbose di vita economico-politica è stata determinata la fortuna del pugno di facinorosi e di avventurieri che precipitò l’Italia in guerra.

Durante la guerra si è verificata, nel corpo sociale della popolazione italiana, una serie di fenomeni di una gravità e una portata storica eccezionali. Le forze politiche organizzate, che dominavano e imprimevano una forma alla società italiana, hanno subíto un processo di disintegrazione totale, hanno perduto ogni contatto gerarchico con le masse. E le masse sono entrate in movimento. Premute, tiranneggiate, sfruttate, affamate dalla implacabile macchina dello Stato borghese, le masse hanno acquistato un senso e una direzione. L’individualismo animalesco, proprio delle popolazioni arretrate e senza cultura, è morto. Gli uomini si sono aggruppati, l’umanità italiana è diventata società, finalmente. Ma qual è il senso e la direzione delle masse? È un solo senso e una sola direzione, cosciente in tutto il corpo sociale, o è solo ancora una molteplicità di movimenti incomposti di chi cerca se stesso, di chi sente la propria inorganicità e cerca diventare un organismo unitario, una compattezza, una disciplina?

Ecco uno dei risultati che i socialisti attendono dalle elezioni, e non dei meno importanti. Ed ecco perché i socialisti consapevoli del processo di sviluppo della rivoluzione hanno voluto che il partito partecipasse attivamente alle elezioni. Una delle condizioni di trionfo della rivoluzione è l’organicità unitaria e accentrata della psicologia popolare, è quindi l’esistenza della società umana con una sua configurazione reale e precisa. Era necessario un avvenimento prerivoluzionario che facesse convergere simultaneamente l’attenzione delle folle sugli stessi problemi e sulle soluzioni che di questi problemi propongono le varie correnti politiche. Era necessario che la classe dirigente da una parte e le moltitudini dall’altra fossero costrette ad assumere una fisonomia, a uscire dall’indistinto generico e tumultuoso prodotto della guerra, a distinguersi, a differenziarsi in tendenze e in correnti unitarie.

Le elezioni daranno una prima risposta a queste attese. Da questo punto di vista esse hanno una importanza storica di prim’ordine, esse segnano una svolta decisiva nella vita del popolo italiano, perché riveleranno all’uomo politico il senso e la direzione delle masse e perché reagiranno sulle masse stesse, dando loro consapevolezza unitaria del loro essere e del movimento d’insieme.

La rivoluzione uscirà indubbiamente rinforzata dalle elezioni. Questo risultato è interdipendente col primo. Il Partito socialista si rivelerà l’unico partito storico panitaliano. La guerra ha livellato l’Italia; ha sottoposto tutta la popolazione italiana allo stesso sfruttamento iniquo e spietato. Il socialismo è invocato da tutte le masse italiane come il salvatore, come il liberatore. Si può affermare che la stragrande maggioranza dei deputati saranno stati eletti in quanto avranno detto di essere socialisti anche loro, anzi di essere i «veri» socialisti, i socialisti «migliori». Cattolici, riformisti, ex combattenti democratici, tutta la ventraia degli aspiranti a direttori politici e spirituali della nazione, hanno cercato di conformarsi a questa incoercibile aspirazione delle masse, hanno promesso, hanno millantato, hanno esagerato; tutti questi avventurieri, tutte queste mosche cocchiere del carrozzone capitalistico, hanno abusato delle condizioni arretrate di cultura delle masse italiane, dell’assenza di spirito critico, del facile entusiasmo che suscitano ancora l’enfasi e la fraseologia demagogica.

L’opera del Partito socialista italiano sarà nettamente tracciata dal risultato delle elezioni. Bisogna legare con vincoli piú stretti e piú forti le masse al partito. Bisogna diffondere sempre piú la convinzione rivoluzionaria che i proletari stessi possono e devono essere gli artefici della loro emancipazione. Bisogna distruggere implacabilmente i residui di cretinismo parlamentare, le illusioni riformistiche e opportunistiche. Bisogna dire incessantemente la verità, mettere le masse dinanzi al crudo ed atroce sogghigno della morte che le attende se non si organizzano, se non si uniscono materialmente e spiritualmente per esprimere dalla loro piú intima e originale ragione di essere nella storia, il lavoro, l’impalcatura organica dello Stato degli operai e contadini, nel quale stringersi e disciplinarsi ferreamente per eliminare lo sfruttamento capitalista, per ristorare l’ordine nella società dissoluta e imbarbarita dalla guerra imperialista.

Le elezioni15

I risultati della lotta elettorale non modificano solo radicalmente i rapporti di forza politica (demagogica) tra il Partito socialista, il partito degli operai e contadini, e i vari partiti delle casseforti; essi modificheranno indubbiamente anche i rapporti di forza tra le istituzioni in cui si incarna la lotta di classe, in cui si incarna oggi il processo di sviluppo della rivoluzione proletaria. Questo aspetto del problema politico nel momento attuale deve specialmente attrarre l’attenzione degli operai d’avanguardia, dei rivoluzionari piú consapevoli e responsabili. Il problema essenziale della rivoluzione è problema di rapporti di forza tra istituzioni: ma prima che tra istituzioni proletarie e istituzioni borghesi, è problema di forza tra le varie istituzioni stesse del proletariato.

Il costituirsi di un gruppo di centocinquanta deputati socialisti incomincia con lo spostare dai sindacati al Parlamento l’azione di resistenza delle masse operaie e contadine. I sindacati ne vengono svalutati come strumento della lotta di classe, e quindi perderanno una gran parte del loro prestigio e della loro forza d’attrazione. Se gli operai d’avanguardia non resisteranno a questo reagente dissolutore, uno degli strumenti tecnicamente piú importanti della rivoluzione comunista sarà spezzato. Potrà invece avvenire una sopravvalutazione degli uomini che oggi dirigono i sindacati, le federazioni, la Confederazione del lavoro, le cooperative, per la costituzione di Consigli nazionali, o parlamenti del lavoro, o commissioni tecniche ecc. ecc.

La massa elettorale ha votato i socialisti perché si aspetta che il gruppo parlamentare risolva i problemi piú urgenti e piú assillanti del dopoguerra. I leaders della Confederazione non verificheranno i poteri parlamentari, non domanderanno se alle elezioni hanno solo partecipato gli operai e i contadini organizzati, come fanno per i Consigli di fabbrica, i leaders sindacalisti sono per la democrazia borghese, non per la democrazia operaia; essi cercheranno in tutti i modi di rivolgere la forza parlamentare a favore dell’azione sindacale, anzi di sostituire l’una all’altra, e passare cosí di vittoria in vittoria.

Lo stesso passaggio di potere potrebbe avvenire dalla direzione del partito al gruppo parlamentare. La direzione rappresenta solo i tesserati del partito; il gruppo rappresenterà qualche milione di elettori, e automaticamente sarà portato, non solo nella sua parte riformista e centrista (che poi si rivelerà la maggioranza del gruppo stesso) ma anche in moltissimi elementi della parte rivoluzionaria, a sopravvalutare i problemi contingenti di risoluzione immediata. La volontà di conservare l’unione tra le tendenze e le istituzioni del movimento politico ed economico del proletariato, può condurre a compromessi deleteri per la compagine rivoluzionaria del proletariato.

Per la volontà popolare, il Partito socialista è diventato partito di governo. Le masse aspettano dal partito una azione positiva di realizzazione. Il processo rivoluzionario è giunto a una fase critica, decisiva. Il partito deve superare i conflitti che vanno profilandosi nel movimento socialista e proletario. Deve superarli organicamente, non con patti e promesse: essi sono nella realtà, risultano incoercibilmente dalle condizioni obbiettive e psicologiche delle masse popolari italiane, non possono essere composti, quindi, giuridicamente, sulla carta o sulle parole degli uomini di buona volontà.

Le masse popolari hanno votato i socialisti perché vogliono un governo di socialisti, perché vogliono che un governo socialista rivolga a loro vantaggio l’apparato amministrativo, giudiziario, militare e d’approvvigionamento dello Stato. Bisogna convincere queste masse che la risoluzione dei problemi tremendi del periodo attuale non è possibile fino a quando lo Stato è fondato sulla proprietà privata e sulla proprietà nazionale-burocratica, fino a quando la produzione industriale e agricola è fondata sulla iniziativa individuale, concorrentista, dei capitalisti e dei grandi proprietari terrieri. Bisogna convincerle che la soluzione radicale deve essere cercata dalle masse stesse, organizzate in modo idoneo per costituire un apparato di potere sociale, per costituire l’apparato dello Stato operaio e contadino, dello Stato dei produttori. Ma non deve essere una convinzione astratta, una convinzione inerte. Il partito deve indicare un lavoro positivo, un lavoro di ricostruzione: il partito deve dare l’impulso perché i Consigli operai e contadini diventino carne e ossa e non rimangano morte parole di una risoluzione di congresso.

Solo attuando energicamente la costituzione dei Consigli, il partito riuscirà a superare i conflitti che oggi si profilano minacciosi. Le masse verranno inquadrate organicamente, e si otterrà: 1) di rompere l’incanto parlamentaristico; 2) di liberare i compagni deputati da quel complesso di pressioni dirette e indirette che li imprigionerebbe e li costringerebbe, con la morte nell’anima, a prendere troppo sul serio la carica di cui li ha investiti la sovranità popolare. Il controllo sulle masse rimarrà invece al partito, che nei Consigli otterrà indubbiamente la maggioranza dei mandati per i suoi iscritti e per i suoi simpatizzanti. I sindacati potranno diventare finalmente organi tecnici per la riorganizzazione dell’apparato industriale e agricolo, e finiranno di essere un partito nel partito, di fare una loro politica nella politica del partito.

Il gruppo parlamentare, con l’imponenza della sua forza, deve lottare per ottenere: 1) che siano disarmati i sicari delle casseforti; 2) che siano fondate le condizioni sufficienti e necessarie in cui la classe dei produttori possa costruire l’apparato del suo potere sociale, possa costruire gli organismi di amministrazione del capitale nazionale, coi suoi metodi e per i suoi fini.

Il problema del potere16

La posizione storica attualmente raggiunta dalla classe italiana degli sfruttati si riassume in questi termini generali:

Ordine pubblico. Uno schieramento di circa tre milioni e mezzo di operai, contadini e impiegati, corrispondenti a circa quindici milioni della popolazione italiana, rappresentato in Parlamento da centocinquantacinque deputati socialisti. Nell’ordine politico la classe italiana dei produttori che non posseggono gli strumenti di lavoro e i mezzi di produzione e di scambio dell’apparato economico nazionale, è riuscita ad attuare una concentrazione di forze che pone un termine alla funzionalità del Parlamento come base del potere statale, come forma costituzionale del governo politico; la classe italiana degli sfruttati è riuscita quindi a infliggere un colpo tremendo all’apparato politico della supremazia capitalistica, che si fonda sulla circolazione dei partiti conservatori e democratici, sull’alternarsi, al governo, delle varie ditte politiche che verniciano di colori svariati il brigantaggio capitalistico, il dominio delle casseforti.

Ordine economico. Il movimento corporativo nelle sue varie tendenze:

il movimento degli operai industriali d’avanguardia perché salariati dell’industria moderna piú progredita, e degli operai agricoli delle zone a coltura intensiva, che si concentra nella Confederazione generale del lavoro;

il movimento degli operai industrialmente arretrati, quindi eternamente inquieti e indisciplinati, che all’azione concreta permanente rivoluzionaria sostituiscono la fraseologia rivoluzionaria, e si accampa sotto le tende nomadi dell’Unione sindacale italiana;

il Sindacato dei ferrovieri, massa amorfa di operai industriali di avanguardia, di impiegati piccolo-borghesi, di tecnici menefreghisti, e di una somma incerta e indistinta di stipendiati e salariati, attaccata alla retribuzione di Stato come solo può esserlo il piccolo borghese e il piccolo contadino italiano;

i sindacati cattolici di contadini; essi stanno ai lavoratori della terra confederati nello stesso rapporto degli operai dell’Unione sindacale agli operai confederati: masse di elementi proletari arretrati, che introducono nel sindacalismo principi estranei o contraddittori (la religione; la vaga e caotica aspirazione libertaria);

leghe di contadini e Camere del lavoro sparse qua e là in tutta l’Italia, ma specialmente nell’Italia meridionale e nelle isole; esse sono una caratteristica della mancanza di coesione dell’apparato economico e politico nazionale; sono nate per spinta individuale, e vivacchiano alla giornata, esaurendo la loro attività in movimenti caotici e senza indirizzo permanente concreto;

leghe proletarie dei mutilati e reduci di guerra, associazioni libere di reduci ed ex combattenti; rappresentano il primo, grandioso tentativo di organizzazione delle masse contadine;

il movimento corporativo, in queste sue varie tendenze e forme, ha concentrato una massa di almeno sei milioni di lavoratori italiani (corrispondenti a circa venticinque milioni della popolazione nazionale) e ha determinato la sparizione dal campo economico del «libero» lavoratore, ha determinato cioè la paralisi del mercato capitalistico del lavoro. La conquista delle otto ore e dei minimi di salario sono dipendenti da queste condizioni generali del mercato del lavoro. L’ordine capitalistico di produzione ne è stato profondamente turbato, la «libertà» di sfruttamento, la libertà di prelevare plusvalore dalla forza-lavoro (profitto o rendita al capitalista e al proprietario fondiario, imposte per lo Stato, tributo ai giornali e ai sicari delle casseforti) è stata limitata, è stata sottoposta in modo indiretto, sia pure, al controllo proletario; le basi economiche dell’organizzazione capitalistica, che culmina nell’associazione piú alta del capitalismo, lo Stato parlamentare-burocratico, è stata disgregata, per il sabotaggio della fonte prima della potenza capitalistica: la libertà di prelevare plusvalore.

Il trionfo elettorale del Partito socialista, l’invio in Parlamento di centocinquantacinque deputati socialisti che immobilizzano la funzionabilità del Parlamento come forma costituzionale del governo politico, è un semplice riflesso di questo fondamentale e primordiale fenomeno economico, per il quale è stata immobilizzata la funzionabilità del mercato della forza-lavoro come forma costituzionale del governo economico-capitalistico, del potere dei capitalisti sul processo di produzione e di scambio.

Gli operai e contadini d’avanguardia hanno intuito che una situazione di questo genere si era venuta formando in Italia durante la guerra e si è consolidata in questo primo periodo post-bellico. Hanno intuito che le conquiste raggiunte possono essere mantenute solo se si procede innanzi; se le otto ore diventano legge degli operai e contadini, diventano «costume» diffuso della società comunista; se i minimi di salario diventano una legge che riconosce agli operai e contadini il diritto di poter soddisfare, col frutto del lavoro, tutte le esigenze di un determinato tenore di vita civile e intellettuale, legge che emani dal potere degli operai e contadini, il quale potere, a sua volta, sia il riflesso politico di un rinnovato ordine del processo di produzione industriale e agricola; se il controllo delle masse coalizzate operaie e contadine sulla scaturigine del potere borghese (la formazione del plusvalore) esce dalla forma attuale, bruta e indistinta, della pressione di massa, della resistenza di massa, per diventare tecnica economica e politica, per incarnarsi in una gerarchia di istituti economici e politici che culminino nello Stato degli operai e contadini, nel governo degli operai e contadini, in un potere centrale degli operai e contadini; se la conquista della terra da parte dei contadini diventa, da semplice possesso dello strumento elementare di lavoro, conquista dei frutti che lo strumento può produrre, e cioè controllo delle forme in cui la merce prodotta circola, e controllo degli organismi economici che rappresentano le tappe di questa circolazione: le banche, le unioni bancarie, le centrali commerciali, la rete dei trasporti ferroviari, fluviali e marittimi. Se uno Stato operaio non assicura ai contadini l’immunità dagli assalti predaci del capitalismo e dell’alta finanza, la guerra sarà pagata attraverso una «grandiosa» rivoluzione agraria condotta dallo Stato borghese e dalle minori organizzazioni capitalistiche: la introduzione delle macchine nell’agricoltura, con l’espropriazione dei contadini e la loro riduzione al rango di operai agricoli salariati, senza esperienza sindacale e quindi piú duramente sfruttati ed espropriati della loro ricchezza di forza-lavoro che non siano gli operai dell’industria urbana. Progredire nella via della rivoluzione fino alla espropriazione degli espropriatori e alla fondazione di uno Stato comunista è interesse immediato dei due ordini piú numerosi della classe dei produttori italiani: significa per gli operai di città conservare le conquiste attuate finora e non vederle travolte in una bancarotta dell’apparato di produzione industriale e in uno scompaginarsi della società fino al disordine e al terrorismo in permanenza, senza sbocco prevedibile; oltre al significare la presa di possesso dell’apparecchio di produzione nazionale per rivolgerlo al fine del benessere e del miglioramento spirituale della classe lavoratrice: significa per i contadini conservare la terra conquistata, ampliare i propri fondi, liberare la terra dai gravami ipotecari e fiscali capitalistici e iniziare la rivoluzione industriale coi metodi e i sistemi comunistici, in stretta collaborazione con gli operai urbani.

Gli operai e contadini d’avanguardia hanno intuito queste necessità immanenti nella situazione economica attuale, nell’equilibrio catastrofico delle forze e degli organismi di produzione. E hanno fatto tutto ciò che potevano fare in una società democratica, in una società configurata politicamente; hanno indicato il Partito socialista, che rappresenta le idee e il programma da attuare, come loro naturale gerarchia politica e hanno indicato al partito la via del potere, la via del governo, che si basi costituzionalmente non sul Parlamento eletto a suffragio universale, dagli sfruttati e dagli sfruttatori, ma sul sistema dei Consigli di operai e contadini, che incarnino tanto il governo del potere industriale, quanto il governo del potere politico, che siano cioè strumenti dell’espulsione dei capitalisti dal processo di produzione e strumenti della soppressione della borghesia, come classe dominante da tutte le istituzioni di controllo e di centralizzazione economica della nazione.

Il problema concreto immediato del Partito socialista è quindi il problema del potere, è il problema dei modi e delle forme per cui sia possibile organizzare tutta la massa dei lavoratori italiani in una gerarchia che organicamente culmini nel partito, è il problema della costruzione di un apparecchio statale, che nel suo àmbito interno funzioni democraticamente, cioè garantisca a tutte le tendenze anticapitalistiche la libertà e la possibilità di diventare partiti di governo proletario, e verso l’esterno sia come una macchina implacabile che stritoli gli organismi del potere industriale e politico del capitalismo.

Esiste la grande massa del popolo lavoratore italiano. Oggi esso si distingue politicamente in due tendenze prevalenti: la massa dei socialisti marxisti e la massa dei socialisti cattolici — e in una molteplicità di tendenze secondarie: la sindacalista-anarchica, quella degli ex combattenti democratico-sociali, e i vari aggruppamenti localistici a tendenze rivoluzionarie. Questa massa rappresenta piú di venticinque milioni della popolazione italiana, cioè una base stabile e sicura dell’apparecchio proletario.

Esiste una serie di organismi sindacali e di associazioni semiproletarie, che rappresentano una distinzione di capacità tecnica e politica nella grande massa del popolo lavoratore.

Esiste il Partito socialista, e nel partito la tendenza comunista rivoluzionaria, che rappresenta la fase di maturità della consapevolezza storica attuale della massa proletaria.

Il problema concreto massimo del momento attuale, per i rivoluzionari, è questo:

1) fissare la grande massa del popolo lavoratore in una configurazione sociale che aderisca al processo di produzione industriale e agricolo (costituzione dei Consigli di fabbrica e di villaggio con diritto al voto a tutti i lavoratori);

2) ottenere che nei Consigli la maggioranza sia rappresentata dai compagni del partito, delle organizzazioni operaie e dai compagni simpatizzanti, ma senza escludere che essa, transitoriamente, nei primi momenti di incertezza e di immaturità possa cadere in mano ai popolari, ai sindacalisti anarchici, ai riformisti, in quanto siano lavoratori salariati e vengano eletti, nella loro sede di lavoro, e in quanto aderiscano allo Stato operaio.

Nelle gerarchie superiori urbane e distrettuali (per le campagne), la rappresentanza nel Consiglio urbano o di distretto dovrà essere data, oltre che ai centri di produzione, cioè oltre che alla massa lavoratrice come tale, anche alle sezioni del partito, ai circoli, ai sindacati, alle associazioni proletarie, alle cooperative. La maggioranza socialista sarebbe notevole in questi poteri locali e sarebbe schiacciante nelle grandi città industriali, cioè laddove lo Stato operaio sarà veramente dittatura proletaria (degli operai d’officina) e dovrà superare le difficoltà piú ardue, perché dovrà impadronirsi delle centrali capitalistiche, degli organismi capitalistici che vibrano i loro tentacoli su tutta la nazione.

Gli avvenimenti del 2-3 dicembre 191917

Piccola borghesia

Gli avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti (questa lotta si svolge organicamente, come lotta per i salari e per gli orari e come lavorío tenace e paziente per la creazione di un apparecchio di governo della produzione e delle masse di uomini che sostituisca l’attuale apparecchio di Stato borghese); fu tra proletari e piccoli e medi borghesi. La lotta è stata, in ultima analisi, per la difesa dello Stato liberale democratico, per la liberazione dello Stato liberale democratico dalle strettoie in cui lo tiene prigioniero una parte della classe borghese, la peggiore, la piú vile, la piú inutile, la piú parassitaria: la piccola e media borghesia, la borghesia «intellettuale» (detta «intellettuale» perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studi generali), la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne. Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, come una razzia condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta, indirettamente sia pure, era connessa all’altra lotta, alla superiore lotta di classi tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè, divenuta oggi la «serva padrona» che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale e trovarsi contro l’avversario specifico: la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio.

La guerra ha messo in valore la piccola e media borghesia. Nella guerra e per la guerra, l’apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si è militarizzato: la fabbrica è diventata una caserma, la città è diventata una caserma, la nazione è diventata una caserma. Tutte le attività di interesse generale sono state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla nazione italiana: e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e da insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte [quattordici righe censurate].

Le elezioni parlamentari hanno mostrato che le masse di uomini vogliono essere guidate e governate da socialisti, che le masse di uomini vogliono una costituzione sociale in cui chi non produce, chi non lavora, non mangia. Questi signori, che continuano a prelevare sul reddito della produzione nazionale e sul credito estero dello Stato una taglia di un miliardo al mese, che gridano sui tetti la loro passione nazionalista e si fanno mantenere dalla patria; [due righe censurate]

questi signori, interroriti per l’imminente pericolo, hanno organizzato subito il pogrom contro i deputati socialisti. E dalle officine, dai cantieri, dai laboratori, dagli arsenali di tutte le città italiane, subito, come a una parola d’ordine, appunto come succedeva in Russia e in Polonia quando i Cento Neri tentavano scatenare pogroms contro gli ebrei, per annegare in una palude di barbarie e di dissolutezza ogni piccolo anelito di libertà — subito gli operai irruppero nelle vie centrali della città e spazzarono via le locuste piccolo-borghesi, gli organizzatori di pogroms, i professionisti della poltroneria.

È stato questo un episodio, in fondo, di «liberalismo». Si era formato un modo di guadagno senza lavoro, senza responsabilità, senza alee; oggi questo modo di guadagno ha anch’esso le sue alee, le sue preoccupazioni, i suoi pericoli.

Ipotesi...

E se fosse riuscita?... L’ipotesi non è astratta. Nelle grandi città settentrionali, nei giorni dello sciopero, non sono mancati i momenti nei quali anche uomini calmi e temperati avevano la sensazione che da un istante all’altro sarebbero potuti avvenire fatti decisivi, che un incidente qualunque sarebbe stato sufficiente a dare agli eventi tutt’altro corso, ad arrovesciare i termini del rapporto di forza tra autorità e popolo, a far sboccare la sommossa nella rivoluzione. È questo il miglior indice del fatto che viviamo in periodo rivoluzionario: si sente che qualcosa di diverso e di nuovo potrebbe anche avvenire, si aspetta, si interroga l’ignoto, si conta anche un poco sul caso [tre righe censurate].

È vero, la rivolta è fatta per gran parte di elementi imponderabili e la rivolta deve anche contare sul caso, sul gruppo di ragazzacci che vanno al di là dell’intenzione di tutti, sul teppista che due giorni dopo bisognerà forse fucilare perché si sarà dato al saccheggio e alla strage.

L’elemento ordinatore è fornito dalla esistenza di gruppi di rivoluzionari nel senso vero della parola, cioè di nuclei di persone che non abbiano paura degli eventi, dell’imprevisto e dell’insperato, che abbiano una volontà e uno scopo preciso, che siano pronti, che siano capaci di far valere questa loro volontà. La sommossa rappresenta il dissolvimento di una forma dell’organismo sociale, la rivoluzione comincia quando, per l’impulso coraggioso dei coscienti e dei capaci, l’organismo sociale si avvia ad acquistare una forma nuova. Il momento, che è puramente negativo, della sommossa, avrà una durata tanto piú lunga quanto maggiore sarà la difficoltà che i gruppi di avanguardia dovranno superare per farsi avanti, per mettersi alla testa, per dare forma organica alle masse che il moto di rivolta ha reso fluide e informi.

In Russia questo periodo di transizione è durato, si può dire, otto lunghi mesi, i mesi che corrono tra la rivoluzione di marzo e quella di ottobre, tra la rivoluzione dei piccoli borghesi e quella degli operai e contadini, otto mesi che sono riempiti dagli sforzi dei piccoli borghesi intellettuali per mantenersi alla testa del movimento delle masse sempre piú scontente e sfiduciate dell’opera di questi capi malfidi, otto mesi nei quali i capitalisti e i proprietari di terre cercano con tutti i mezzi, dal sabotaggio della fabbrica alla controrivoluzione militare, di costringere di nuovo entro la vecchia forma di oppressione e di schiavitú la massa umana che il moto di rivolta ha portato alla luce e ha reso attrice della storia, sommovendo i piú profondi strati della società. E in questi mesi la grande maggioranza del popolo si educa a fare la rivoluzione, sente immediatamente, anche prima di averne la convinzione teorica, la necessità di formare gli organi del suo potere, si stacca dai capi democratici e si stringe intorno ai comunisti, costituisce un organismo di controllo e di autogoverno che viene eliminando automaticamente e spogliando di ogni autorità gli organi del vecchio potere, del potere dei padroni, dei generali, dei politicanti e dei traditori.

Nell’ottobre 1917 il comitato esecutivo del Congresso dei Soviet, mentre ancora era in piedi il governo di Kerenski, dava ordini che erano eseguiti da masse di operai e contadini ordinati e organizzati in modo ferreo, chiamava sulla piazza e dirigeva i movimenti di reggimenti intieri, di intiere maestranze d’officina inquadrate e armate, era a capo insomma di un apparecchio che agiva con la precisione e la regolarità implacabile di una macchina.

Sarebbe assurdo pretendere oggi, in Italia, di non muoversi prima di essere giunti a questo punto, ma bisogna cercare di giungervi attraverso all’esperienza di movimenti come quello del 2 e 3 dicembre e altri simili che indubbiamente succederanno a questo. Questi movimenti debbono servire a spezzare il legame apparentemente legalitario che ancora tiene unita la maggioranza della popolazione nella forma degli istituti borghesi, debbono rendere fluida la massa umana che ancora si adagia, per abitudine o per timore, nel vecchio schema sociale; debbono servire a imporre a tutti il problema di prepararsi a fare la rivoluzione.

Non abbiamo avuto e non avremo forse una rivoluzione di marzo che ci apra la via, iniziando il periodo degli sconvolgimenti, dell’incertezza, del contrasto aperto al di fuori dell’orbita legale tra le forze che vogliono dominare il mondo della economia e della politica. La azione parlamentare negativa può e deve sostituire negli effetti questo strappo iniziale. Perciò i movimenti di piazza sono una sua integrazione necessaria...

E intanto, bisogna porsi anche il problema cui accennavo prima, il problema del «poi», il problema che ci si sarebbe imposto ieri, se i fatti di Mantova fossero capitati a Milano o a Torino, dove esiste una massa di operai rivoluzionari che è disposta ad andare fino in fondo. È una ipotesi, ma, se siamo dei rivoluzionari, dobbiamo ben fare anche questa ipotesi, che un giorno o l’altro la rivoluzione possa riuscire...

Lotta di classe, guerra di contadini

Il caso ha voluto che le giornate di sciopero generale e di gravi tumulti in tutta l’Italia superiore o media coincidessero con lo scoppio spontaneo di una insurrezione di popolo in una zona tipica dell’Italia meridionale, nel territorio di Andria. L’attenzione che si è prestata alla insurrezione del proletariato delle città contro quella parte della casta piccolo-borghese che ha acquistato durante la guerra una fisionomia militaristica, e ora non vuol perderla, e contro la polizia, ha deviato gli sguardi da Andria, ha impedito che si desse l’esatto rilievo agli avvenimenti di laggiú, che essi fossero apprezzati nel loro giusto valore. Noi speriamo di poter fornire ai nostri lettori importanti dati di osservazione diretta delle cause e dello svolgimento dei fatti, e ci limitiamo per ora a notare come il caso, facendo coincidere le due sommosse, abbia fornito quasi un modello di ciò che dovrà essere la rivoluzione italiana.

Da una parte il proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli operai dell’industria e dell’agricoltura industrializzata, dall’altra i contadini poveri: ecco le due ali dell’esercito rivoluzionario. Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro; gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati a essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo e ordinatore a un tempo, quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d’ora l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l’interesse e la volontà delle masse stesse.

Nelle campagne dobbiamo contare soprattutto sull’azione e sull’appoggio dei contadini poveri, dei «senza terra». Essi saranno spinti a muoversi dal bisogno di risolvere il problema della vita, come ieri i contadini di Andria, dal bisogno di lottare per il pane, non solo, ma dallo stesso continuo bisogno, dal pericolo sempre incombente della morte per fame o per piombo, saranno obbligati a far pressione sulle altre parti della popolazione agricola, per costringerle a creare anche nelle campagne un organismo di controllo collettivo della produzione. Questo organismo di controllo, il Consiglio dei contadini, pur lasciando sussistere le forme intermedie di appropriazione privata del terreno (piccola proprietà), farà opera di coesione e di trasformazione psicologica e tecnica, sarà la base della vita comune nelle campagne, il centro attraverso il quale gli elementi rivoluzionari potranno far valere in modo continuo e concreto la loro volontà.

Oggi bisogna che anche i contadini sappiano quello che vi è da fare, che l’azione loro getti radici profonde e tenaci, aderendo, come quella degli operai, al processo produttivo della ricchezza. Come gli uni guardano alla fabbrica, gli altri debbono incominciare a guardare al campo come alla futura comunità di lavoro.

La sommossa di Andria ci dice che il problema è maturo: è il problema, in fondo, di tutto il Mezzogiorno italiano, il problema della effettiva conquista della terra da parte di chi la lavora. Il nostro Partito ha l’obbligo di porselo e di risolverlo. La conquista della terra si prepara oggi con le stesse armi con le quali gli operai preparano la conquista della fabbrica, cioè formando gli organismi che permettano alla massa che lavora di governarsi da sé, sul luogo del suo lavoro. Il movimento degli operai e quello dei contadini confluiscono naturalmente in una sola direzione, nella creazione degli organi del potere proletario.

La rivoluzione russa ha trovato appunto la sua forza e la sua salvezza nel fatto che in Russia operai e contadini, partendo da punti opposti, mossi da sentimenti diversi, si trovarono riuniti per uno scopo comune, in una lotta unica, perché entrambi si convinsero alla prova di non potersi liberare dall’oppressione dei padroni, se non dando alla propria organizzazione di conquista una forma che permettesse di eliminare direttamente lo sfruttatore dal campo della produzione. Questa forma fu il Consiglio, fu il Soviet. La lotta di classe e la guerra dei contadini unirono in tal modo le loro sorti in modo inscindibile ed ebbero un esito comune nella costituzione di un organismo direttivo di tutta la vita del paese.

Da noi il problema si pone negli stessi termini. L’operaio e il contadino debbono collaborare in modo concreto inquadrando le loro forze in uno stesso organismo. La sommossa li ha trovati uniti, forse per caso, la rivoluzione deve trovarli coscientemente uniti e concordi. Il controllo della fabbrica e la conquista delle terre debbono essere un problema unico. Settentrione e Mezzogiorno debbono compiere insieme lo stesso lavoro, preparare insieme la trasformazione della nazione in comunità produttiva. Deve apparire sempre piú chiaro che soltanto i lavoratori sono oggi in grado di risolvere e in modo «unitario» il problema del Mezzogiorno; il problema della unità che tre generazioni borghesi hanno lasciato insoluto, verrà risolto dagli operai e dai contadini collaboranti in una forma politica comune, nella forma politica nella quale essi riusciranno a organizzare e a rendere vittoriosa la loro dittatura.

Il rivoluzionario qualificato18

La lettera di Lenin al compagno Serrati e ai comunisti italiani ha riscosso un coro di approvazioni entusiastiche. Un malinconico scrittore della Stampa ha trovato immediatamente che Lenin è... un giolittiano; al Congresso della Camera del lavoro di Torino e provincia si è trionfalmente sventolata la lettera di Lenin per convincere i delegati che... non bisogna dare il voto ai disorganizzati nella elezione dei commissari di reparto. A noi la lettera di Lenin ha fatto ricordare una vecchia tesi di Lenin sul rivoluzionario «qualificato».

I rivoluzionari devono conoscere la «macchina» della rivoluzione, i rivoluzionari devono conoscere il processo di sviluppo della rivoluzione, i rivoluzionari devono essere uomini politici responsabili e non essere solamente degli agitatori. I comunisti italiani hanno finora brancolato nel buio. Le masse proletarie italiane, come tutte le masse proletarie del mondo, hanno compreso che la «macchina» della rivoluzione è il sistema dei Consigli, hanno compreso che il processo di sviluppo della rivoluzione è segnato dal sorgere dei Consigli, dal coordinarsi e dal sistemarsi dei Consigli: hanno compreso che il processo di sviluppo della rivoluzione è segnato dal fatto che le masse popolari riconoscono nel sistema dei Consigli l’organo di governo delle masse d’uomini e della produzione industriale e agricola e determinano con la loro indifferenza, con questo loro passaggio di psicologia politica, l’atrofia delle forme politiche attuali, la morte storica della democrazia borghese. Il Partito socialista ha aderito alla III Internazionale, ha aderito alla concezione della III Internazionale secondo la quale la lotta di classe, nel periodo attuale, deve incarnarsi nei Consigli e deve essere rivolta alla conquista del potere; ma il Partito socialista non ha neppur tentato di uscire dal dominio delle affermazioni verbali, non ha indicato agli operai e ai contadini la via concreta delle realizzazioni costituzionali. Per la III Internazionale, «fare» la rivoluzione significa «dare» il potere ai Soviet, significa lottare per conquistare la maggioranza comunista nei Soviet; per la III Internazionale essere rivoluzionari significa uscire dal dominio del corporativismo sindacale e del settarismo di partito e vedere il movimento nelle masse umane che cercano una forma, e lavorare affinché questa forma sia il sistema dei Consigli.

Finora ben poco si è fatto dai comunisti italiani in questo senso. I comunisti italiani sono «meno» III Internazionale degli indipendenti tedeschi che oggi finalmente hanno riconosciuto la lotta di classe rivoluzionaria poter solo essere combattuta nel seno dei Consigli operai e dover tendere all’instaurazione della dittatura proletaria, che hanno discusso sulla funzione dei sindacati e hanno riconosciuto non potersi dare ai sindacati una missione rivoluzionaria se non... dopo la rivoluzione.

I comunisti italiani hanno lavorato poco per diventare «rivoluzionari qualificati»; essi si muovono tra i giganteschi ingranaggi della storia come un campagnolo che visita una grande officina e si avventura, tra lo spavaldo e il «trepido», nel frastuono e nel movimento delle grandi macchine. La lettera di Lenin è la sanzione di una situazione di fatto poco lieta e poco rassicurante: barcolliamo tra la catastrofe e... la Costituente, cioè tra una catastrofe e un’altra catastrofe peggiore, poiché non può immaginarsi nell’Italia la resistenza necessaria per entrare in un periodo indefinito e buio di crisi e di disperazione.

La scuola di cultura19

Il primo corso della scuola di cultura e propaganda socialista ha avuto principio la settimana scorsa, con la prima lezione di teoria e la prima esercitazione pratica, e in modo che non ha mancato di riempirci di soddisfazione. Dal principio ci riteniamo autorizzati a nutrire le migliori speranze per l’esito. Perché negare che alcuni di noi dubitavano? Dubitavamo che, trovandoci appena una o due volte la settimana, stanchi ognuno del proprio lavoro, ci fosse impossibile trovare in tutti quella freschezza senza la quale le menti non possono comunicare, gli animi non possono aderire, e la scuola non può compiersi, come serie di atti educativi vissuti e sentiti in comune. Forse ci rendeva scettici l’esperienza delle scuole borghesi, la tediosa esperienza di allievi, l’esperienza dura di insegnanti: l’ambiente freddo, opaco ad ogni luce, resistente ad ogni sforzo di unificazione ideale, quei giovani uniti in quelle aule non dal desiderio di migliorarsi e di capire, ma dallo scopo, forse non detto eppure chiaro e unico in tutti, di farsi avanti, di conquistarsi un «titolo», di collocare là propria vanità e la propria pigrizia, di ingannar oggi se stessi e gli altri domani.

E abbiamo visto intorno a noi, affollati, stretti l’uno all’altro nei banchi scomodi e nello spazio angusto, questi allievi insoliti, per la maggior parte non piú giovani, fuori quindi dell’età in cui l’apprendere è cosa semplice e naturale, tutti poi affaticati da una giornata di officina o di ufficio, seguire con l’attenzione piú intensa il corso della lezione, sforzarsi di segnarlo sulla carta, far sentire in modo concreto che tra chi parla e chi ascolta si è stabilita una corrente vivace di intelligenza e di simpatia. Ciò non sarebbe possibile se in questi operai il desiderio di apprendere non sorgesse da una concezione del mondo che la vita stessa ha loro insegnato e ch’essi sentono il bisogno di chiarire, per possederla completamente, per poterla pienamente attuare. È una unità che preesiste e che l’insegnamento vuole rinsaldare, è una vivente unità che nelle scuole borghesi invano si cerca di creare.

La nostra scuola è viva perché voi, operai, portate in essa la miglior parte di voi, quella che la fatica della officina non può fiaccare: la volontà di rendervi migliori. Tutta la superiorità della vostra classe in questo torbido e tempestoso momento, noi la vediamo espressa in questo desiderio che anima una parte sempre piú grande di voi, desiderio di acquistar conoscenza, di diventare capaci, padroni del vostro pensiero e dell’azione vostra, artefici diretti della storia della vostra classe.

La nostra scuola continuerà, e porterà i frutti che le sarà possibile: essa è aperta a tutti gli eventi, un caso qualunque potrà allontanare e disperdere domani tutti noi che oggi ci raduniamo attorno ad essa e le comunichiamo e prendiamo da essa un poco del calore, della fede che ci è necessaria per vivere e per lottare; i conti li faremo poi, ma per ora segnamo questo, all’attivo, segnamo questa impressione di fiducia che ci viene dalle prime lezioni, dal primo contatto. Con lo spirito di queste prime lezioni vogliamo andare avanti.

Il Partito e la rivoluzione20

Il Partito socialista, con la sua rete di sezioni (che nei grandi centri industriali sono, alla loro volta, il perno di un compatto e potente sistema di circoli rionali), con le sue federazioni provinciali, saldamente unificate dalle correnti di idee e di attività irraggianti dalle sezioni urbane, coi suoi congressi annuali, che attuano la sovranità piú alta del Partito, esercitata dalla massa degli inscritti attraverso delegazioni ben definite e limitate di potere, congressi convocati sempre per discutere e risolvere problemi immediati e concreti, con la sua direzione, che emana direttamente dal congresso e ne costituisce il comitato permanente esecutivo e di controllo, il Partito socialista costituisce un apparecchio di democrazia proletaria che, nella fantasia politica, può facilmente essere visto come «esemplare».

Il Partito socialista è un modello di società «libertaria» disciplinata volontariamente, per un atto esplicito di coscienza; immaginare tutta la società umana come un colossale Partito socialista, con le sue domande di ammissione e le sue dimissioni, non può non solleticare il pregiudizio contrattualista di molti spiriti sovversivi, educatisi piú su G. G. Rousseau e sugli opuscoli anarchici, che sulle dottrine storiche ed economiche del marxismo. La Costituzione della Repubblica russa dei Soviet si fonda su princípi identici a quelli sui quali si fonda il Partito socialista; il governo della sovranità popolare russa funziona in forme suggestivamente identiche alle forme di governo del Partito socialista. Non è davvero strano che da questi motivi di analogie e di aspirazioni istintive sia nato il mito rivoluzionario, per il quale si concepisce l’instaurazione del potere proletario come una dittatura del sistema di sezioni del Partito socialista.

Questa concezione è per lo meno altrettanto utopistica di quella che riconosce nei sindacati e nelle Camere del lavoro le forme del processo di sviluppo rivoluzionario. La società comunista può esser solo concepita come una formazione «naturale» aderente allo strumento di produzione e di scambio; e la rivoluzione può essere concepita come l’atto di riconoscimento storico della «naturalezza» di questa formazione. Il processo rivoluzionario si identifica quindi solamente con uno spontaneo movimento delle masse lavoratrici, determinato dal cozzo delle contraddizioni inerenti alla convivenza umana in regime di proprietà capitalista. Prese nella tenaglia dei conflitti capitalisti, minacciate di una condanna senza appello alla perdita dei diritti civili e spirituali, le masse si distaccano dalle forme della democrazia borghese, escono dalla legalità della costituzione borghese. La società andrebbe in dissoluzione, ogni produzione di ricchezza utile cadrebbe, e gli uomini precipiterebbero in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di morte, senza una reazione della coscienza storica delle masse popolari che ritrovano un nuovo inquadramento, che attuano un nuovo ordine nel processo di produzione e di distribuzione della ricchezza. Gli organismi di lotta del proletariato sono gli «agenti» di questo colossale movimento di masse; il Partito socialista è indubbiamente il massimo «agente» di questo processo di sfacelo e di neoformazione, ma non è e non può essere concepito come la forma di questo processo, forma malleabile e plasmabile ad arbitrio dei dirigenti. La socialdemocrazia germanica (intesa nel suo complesso di movimento sindacale e politico) ha attuato il paradosso di costringere violentemente il processo della rivoluzione proletaria tedesca nelle forme della sua organizzazione e ha creduto di dominare la storia. Ha creato i suoi Consigli, d’autorità, con la maggioranza sicura dei suoi uomini; ha impastoiato la rivoluzione, l’ha addomesticata. Oggi ha perduto ogni contatto con la realtà storica, che non sia il contatto del pugno di Noske con la nuca dell’operaio, e il processo rivoluzionario segue un suo corso incontrollato, misterioso ancora, che affiorerà per ignote scaturigini di violenza e di dolore.

Il Partito socialista, con la sua azione intransigente nel dominio politico, provoca gli stessi risultati che i sindacati attuano nel campo economico: pone fine alla libera concorrenza. Il Partito socialista, col suo programma rivoluzionario, sottrae all’apparecchio di Stato borghese la sua base democratica del consenso dei governanti. Esso influenza sempre piú profonde masse popolari e le assicura che lo stato di disagio in cui si dibattono non è una frivolezza, non è un malessere senza uscita, ma corrisponde a una necessità obbiettiva, è il momento ineluttabile di un processo dialettico che deve sboccare in una lacerazione violenta, in una rigenerazione della società. Ecco che il Partito si viene cosí identificando con la coscienza storica delle masse popolari e ne governa il movimento spontaneo, irresistibile: questo governo è incorporeo, funziona attraverso milioni e milioni di legami spirituali, è una irradiazione di prestigio, che solo in momenti culminanti può diventare un governo effettivo: per un appello in piazza, per uno schieramento corporeo di forze militanti, disposte alla lotta per allontanare un pericolo, per dissolvere una nube di violenza reazionaria.

Ottenuto il risultato di paralizzare il funzionamento del governo legale delle masse popolari, si inizia per il Partito la fase di attività piú difficile e piú delicata: la fase di attività positiva. Le concezioni diffuse dal Partito operano autonomamente nelle coscienze individue e determinano configurazioni sociali nuove, aderenti a queste concezioni, determinano organismi che funzionano per intima legge, determinano embrionali apparecchi di potere, nei quali la massa attua il suo governo, nei quali la massa acquista coscienza della sua responsabilità storica e della sua precisa missione di creare le condizioni del comunismo rigeneratore. Il Partito, come formazione compatta e militante di una idea, influenza questo intimo lavorío di nuove strutture, questa operosità di milioni e milioni di infusori sociali che preparano i rossi banchi coralliferi che un giorno non lontano, affiorando, spezzeranno gl’impeti della burrasca oceanica, ricondurranno la pace nelle onde, fisseranno nuovamente un equilibrio nelle correnti e nei climi; ma questo influsso è organico, è nel circolare delle idee, è nel mantenersi intatto l’apparecchio di governo spirituale, è nel fatto che i milioni e milioni di lavoratori, fondando le nuove gerarchie, istituendo gli ordini nuovi, sanno che la coscienza storica che li muove ha una incarnazione vivente nel Partito socialista, è giustificata da una dottrina, la dottrina del Partito socialista, ha un baluardo potente, la forza politica del Partito socialista.

Il Partito rimane la superiore gerarchia di questo irresistibile movimento di masse, il Partito esercita la piú efficace delle dittature, quella che nasce dal prestigio, che è l’accettazione cosciente e spontanea di una autorità che si riconosce indispensabile per la buona riuscita dell’opera intrapresa. Guai se per una concezione settaria dell’ufficio del Partito nella rivoluzione si pretende materializzare questa gerarchia, si pretende fissare in forme meccaniche di potere immediato l’apparecchio di governo delle masse in movimento, si pretende costringere il processo rivoluzionario nelle forme del Partito; si riuscirà a deviare una parte degli uomini, si riuscirà a «dominare» la storia; ma il processo reale rivoluzionario sfuggirà al controllo e all’influsso del Partito, divenuto inconsapevolmente organismo di conservazione.

La propaganda del Partito socialista insiste oggi su queste tesi inconfutabili:

I rapporti tradizionali di appropriazione capitalistica del prodotto del lavoro umano sono stati radicalmente mutati. Prima della guerra, il lavoro italiano consentiva, senza gravi scosse repentine, la appropriazione, da parte dell’esigua minoranza capitalistica e da parte dello Stato, del 60 per cento della ricchezza prodotta dal lavoro, mentre le decine di milioni di popolazione lavoratrice dovevano accontentarsi, per soddisfare le esigenze della vita elementare e della superiore vita culturale, di uno scarso 40 per cento. Oggi, dopo la guerra, si verifica questo fenomeno: la società italiana produce solo la metà della ricchezza che consuma; lo Stato addebita al lavoro futuro somme colossali, cioè rende sempre piú schiavo della plutocrazia internazionale il lavoro italiano. Ai due prelevatori di taglie sulla produzione (i capitalisti e lo Stato) se ne è aggiunto un terzo, puramente parassitario: la piccola borghesia della casta militare-burocratica formatasi durante la guerra. Essa preleva appunto quella metà di ricchezza non prodotta che viene addebitata al lavoro futuro: la preleva direttamente come stipendi e pensioni, la preleva indirettamente perché la sua funzione parassitaria presuppone l’esistenza di tutto un apparato parassitario. Se la società italiana produce solo 15 miliardi di ricchezza mentre ne consuma 30, e questi 15 miliardi sono prodotti da otto ore di lavoro quotidiano delle decine di milioni di popolazione lavoratrice che riceve 6-7 miliardi di salario, il bilancio capitalistico può essere normalmente riassestato in un solo modo: costringendo le decine di milioni di popolazione lavoratrice, per la stessa massa di salario, a dare una, due, tre, quattro, cinque ore di lavoro in piú, di lavoro non pagato, di lavoro che vada a impinguare il capitale, perché riacquisti la sua funzione di accumulamento, che vada allo Stato perché paghi i suoi debiti, che consolidi la situazione economica della piccola borghesia pensionata e la premi dei servizi resi con le armi, allo Stato e al capitale, per costringere la popolazione lavoratrice a schiattare sulla macchina e sulla zolla di terra.

In questa situazione generale dei rapporti capitalistici, la lotta di classe non può essere rivolta ad altro scopo che alla conquista del potere di Stato da parte della classe operaia, per rivolgere questo immane potere contro i parassiti e costringerli a rientrare nell’ordine del lavoro e abolire d’un colpo la taglia mostruosa oggi prelevata. A questo scopo tutta la massa lavoratrice deve cooperare, tutta la massa lavoratrice deve assumere forma consapevole secondo l’ordine che essa assume nel processo di produzione e di scambio: cosí ogni operaio, ogni contadino è chiamato nel Consiglio, a collaborare allo sforzo di rigenerazione, è chiamato a costituire l’apparecchio del governo industriale e della dittatura: nel Consiglio si incarna la forma attuale della lotta di classe tendente al potere. E si profila cosí la rete di istituzioni in cui il processo rivoluzionario si svolge: il Consiglio, il sindacato, il Partito socialista. Il Consiglio, formazione storica della società, determinato dalla necessità di dominare l’apparato di produzione, formazione nata dalla conquistata coscienza di sé da parte dei produttori. Il sindacato e il Partito, associazioni volontarie, strumenti di propulsione del processo rivoluzionario, «agenti» e «gerenti» della rivoluzione; il sindacato che coordina le forze produttive e imprime all’apparato industriale la forma comunistica; il Partito socialista, modello vivente e dinamico di una convivenza sociale che fa aderire la disciplina alla libertà, e fa rendere allo spirito umano tutta l’energia e l’entusiasmo di cui è capace.

Studi «difficili»21

L’Humanité, organo ufficiale del Partito socialista francese, nel suo numero del 27 dicembre scorso, riporta nei suoi punti essenziali la mozione per la costituzione dei Consigli di fabbrica votata al Congresso camerale di Torino da 38 mila operai organizzati e la commenta in modo molto favorevole. In essa, e nel fatto che in tutta Italia ormai la quistione dei Consigli è posta e aspetta da parte delle masse una soluzione, l’Humanité vede un segno della maturità politica del proletariato italiano che, mentre l’istituto parlamentare viene progressivamente decomponendosi, inizia i primi esperimenti per la creazione degli organi attraverso i quali i lavoratori potranno assumere la direzione della società che la gestione borghese ha portato allo sfacelo, discute l’estensione delle loro attribuzioni, cerca di determinare con esattezza il loro compito e i rapporti loro con gli organismi esistenti.

Informando il pubblico francese sul movimento italiano, l’Humanité ha anche parole per noi lusinghiere di elogio. La nostra rivista e il tono elevato delle discussioni che in essa si fanno sono portati come esempio dell’alto grado di sviluppo intellettuale, della buona educazione politica e sociale dei lavoratori che la leggono e la sostengono. È certo che noi non rifuggiamo, come dice lo scrittore dell’Humanité, dall’entrare in particolari di carattere teorico, dal richiedere al nostro lettore uno sforzo sostenuto e prolungato di attenzione, e ciò facciamo con piena convinzione di agire onestamente e da buoni socialisti, se non proprio da giornalisti accorti e studiosi di popolarità e diffusione.

Sí, è vero, abbiamo pubblicato articoli «lunghi», studi «difficili», e continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravità degli argomenti, ciò è nella linea del nostro programma: non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai piú come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di piú inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi piú di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta «popolare», una sinfonia di Beethoven piú di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano cosí da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il piú grande passo in avanti sarà già fatto.

Primo: rinnovare il Partito22

Il Partito socialista è il partito degli operai e dei contadini poveri. Sorto nel campo della democrazia liberale (nel campo della concorrenza politica, che è una proiezione del processo di sviluppo del capitalismo) come una delle forze sociali che tendono a crearsi una base di governo e a conquistare il potere di Stato per rivolgerlo a beneficio dei loro, la sua missione consiste nell’organizzare gli operai e i contadini poveri in classe dominante, nello studiare e promuovere le condizioni favorevoli per l’avvento di una democrazia proletaria.

Il Partito socialista italiano è riuscito ad attuare la piú facile ed elementare parte del suo compito storico: è riuscito ad agitare le masse fin negli strati piú profondi, è riuscito ad accentrare l’attenzione del popolo lavoratore sul suo programma di rivoluzione e di Stato operaio, è riuscito a costruire un apparecchio di governo di tre milioni di cittadini che, se consolidato e materializzato in istituti permanenti rivoluzionari, sarebbe stato sufficiente per impadronirsi del potere di Stato. Il Partito socialista non è riuscito nella parte essenziale del suo compito storico: non è riuscito a dare una forma permanente e solida all’apparecchio che era riuscito a suscitare agitando le masse. Non è riuscito a progredire e perciò è caduto in una crisi di marasma e di letargia. Costruito per conquistare il potere, costruito come schieramento di forze militanti decise a dare battaglia, l’apparecchio di governo del Partito socialista va in pezzi, si disgrega; il Partito perde ogni giorno piú il contatto con le grandi masse in movimento; gli avvenimenti si svolgono e il Partito ne è assente; il paese è percorso da brividi di febbre, le forze dissolventi della democrazia borghese e del regime capitalista continuano a operare implacabili e spietate e il Partito non interviene, non illumina le grandi masse degli operai e contadini, non giustifica il suo fare e il suo non fare, non lancia parole d’ordine che calmino le impazienze, che impediscano le demoralizzazioni, che mantengano serrati i ranghi e forte la compagine delle armate operaie e contadine. Il Partito, che era diventato la piú grande energia storica della nazione italiana, è caduto in una crisi di infantilismo politico, è oggi la piú grande delle debolezze sociali della nazione italiana. Non fa meraviglia davvero che in tali propizie condizioni, i germi di dissoluzione della compagine rivoluzionaria: il nullismo opportunista e riformista e la fraseologia pseudorivoluzionaria anarchica (due aspetti della tendenza piccolo-borghese) pullulino e si sviluppino con rapidità impressionante.

Le condizioni internazionali e nazionali della rivoluzione proletaria si profilano sempre piú nette e precise e si consolidano. Ed ecco, proprio nel momento che potrebbe essere decisivo, lo strumento massimo della rivoluzione proletaria italiana, il Partito socialista, si decompone, aggredito e avviluppato insidiosamente dai politicanti parlamentari e dai funzionari confederali, da individui che rivendicano un potere rappresentativo che non ha base seria e concreta, che si fonda sull’equivoco, che si fonda sull’assenza di ogni continuità d’azione e sulla poltroneria mentale che è propria degli operai come di tutti gli altri italiani. E dalla parte comunista, dalla parte rivoluzionaria, dalla parte degli enti direttivi nominati dalla maggioranza rivoluzionaria, nessuna azione d’insieme per arginare questa decomposizione, per disinfettare il Partito per organizzarlo in compagine omogenea, per organizzarlo come sezione della III Internazionale, inserita fortemente nel sistema mondiale di forze rivoluzionarie che intendono seriamente attuare le tesi comuniste.

La resistenza del blocco imperialista, che era riuscito a soggiogare il mondo a poche casseforti, è spezzata, è disgregata dalle vittorie militari dello Stato operaio russo. Il sistema della rivoluzione proletaria internazionale, che si impernia sull’esistenza e sullo sviluppo come potenza mondiale dello Stato operaio russo, possiede oggi un esercito di due milioni di baionette, esercito pieno di entusiasmo guerriero perché vittorioso e perché consapevole di essere il protagonista della storia contemporanea. Le vittorie e le avanzate dell’esercito della III Internazionale scuotono le basi del sistema capitalista, accelerano il processo di decomposizione degli Stati borghesi, acuiscono i conflitti nel seno delle democrazie occidentali. Gli inglesi si preoccupano per l’India, la Turchia, la Persia, l’Afganistan, la Cina dove si moltiplicano i focolari di rivolta, e con una lieve pressione fanno sparire Clemenceau dalla scena politica. La caduta del pupazzo antibolscevico rivela immediatamente le incrinature del blocco reazionario francese, e inizia il disgregamento dello Stato politico: la tendenza comunista e intransigente si rafforza nel movimento operaio. La quistione russa pone di fronte l’opportunismo di Lloyd George e l’intransigenza controrivoluzionaria di Winston Churchill, ma il terreno della democrazia britannica, già magnifico campo di manovra per la demagogia radicale lloydgeorgiana, è completamente mutato: la struttura della classe operaia inglese continua a svilupparsi, lentamente, ma sicuramente, verso forme superiori: gli operai vogliono intervenire piú spesso e piú direttamente nella deliberazione dei programmi d’azione: i congressi delle Trade Unions si moltiplicano e i rivoluzionari sempre piú spesso e piú efficacemente vi fanno sentire la loro voce; l’ufficio permanente dei congressi sindacali si trasferisce dalle mani del gruppo parlamentare laburista nelle mani di un Comitato centrale operaio. In Germania il governo di Scheidemann si decompone, sente venirsi meno ogni consenso popolare, il terrore bianco imperversa brutalmente: gli operai comunisti e indipendenti hanno riacquistato una certa libertà di movimento e si diffonde la persuasione che solo la dittatura proletaria può salvare la nazione tedesca dallo sfacelo economico e dalla reazione militarista. Il sistema internazionale controrivoluzionario si dissolve, per l’acuirsi delle contraddizioni intime della democrazia borghese e dell’economia capitalistica e per le gigantesche spinte del proletariato russo. Lo Stato borghese italiano va in pezzi per gli scioperi colossali nei servizi pubblici, per il fallimento fraudolento e ridicolo della politica estera ed interna. Le condizioni sufficienti e necessarie per la rivoluzione proletaria si attuano e nel campo internazionale e nel campo nazionale. Ed ecco: il Partito socialista viene meno a se stesso e alla sua missione; partito di agitatori, di negatori, di intransigenti nelle quistioni di tattica generale, di apostoli delle teorie elementari, non riesce a organizzare e a inquadrare le grandi masse in movimento, non riesce a riempire i minuti e le giornate, non riesce a trovare un campo di azione che in ogni momento lo tenga a contatto con le grandi masse. Non riesce a organizzare la propria intima compagine, non ha una disciplina teorica e pratica che gli consenta di rimanere sempre aderente alla realtà proletaria nazionale e internazionale per dominarla, per controllare gli avvenimenti e non esserne travolto e stritolato. Partito degli operai e dei contadini rivoluzionari, lascia che l’esercito permanente della rivoluzione, i sindacati operai, rimanga sotto il controllo di opportunisti che ne incantano, a loro piacere, il congegno di manovra, che sistematicamente sabotano ogni azione rivoluzionaria, che sono un partito nel Partito, e il partito piú forte, perché padroni dei gangli motori del corpo operaio. Due scioperi, che potevano essere micidiali per lo Stato, si sono svolti e lasceranno lunghi strascichi di recriminazioni e di aggressioni polemiche da parte degli anarchici, senza che il Partito avesse una parola da dire, un metodo da affermare che non sia quello vieto e logoro della piú vieta e logora II Internazionale: il distinguo tra sciopero economico e sciopero politico. E cosí, mentre lo Stato subiva una crisi acutissima, mentre la borghesia armata e piena di odio avrebbe potuto iniziare un’offensiva contro la classe operaia, mentre si profilava il colpo di mano militarista, i centri rivoluzionari operai furono lasciati in balía di se stessi, senza parola d’ordine generale; la classe operaia si trovò rinchiusa e imprigionata in un sistema di compartimenti stagni, smarrita, disillusa, esposta a tutte le tentazioni anarcoidi.

Siamo noi scoraggiati e demoralizzati? No, ma è necessario dire la verità nuda e cruda, è necessario rivelare una situazione che può, che deve essere mutata. Il Partito socialista deve rinnovarsi, se non vuole essere travolto e stritolato dagli avvenimenti incalzanti; deve rinnovarsi, perché la sua disfatta significherebbe la disfatta della rivoluzione. Il Partito socialista deve essere sul serio una sezione della III Internazionale, e deve incominciare con attuarne le tesi nel suo seno, nel seno della compagine degli operai organizzati. Le masse organizzate devono diventare padrone dei loro organismi di lotta, devono «organizzarsi in classe dirigente» prima di tutto nei loro propri istituti, devono fondersi col Partito socialista. Gli operai comunisti, i rivoluzionari consapevoli delle tremende responsabilità del periodo attuale, devono essi rinnovare il Partito, dargli una figura precisa e una direzione precisa; devono impedire che gli opportunisti piccolo-borghesi lo riducano al livello dei tanti partiti del paese di Pulcinella.

L’operaio di fabbrica23

Ogni società vive e si sviluppa perché aderisce a una produzione storicamente determinata: dove non esiste produzione, dove non esiste lavoro organizzato (sia pure in modo elementare), non esiste società, non esiste vita storica. La società moderna ha vissuto e si è sviluppata fino alla fase attuale perché aderiva a un sistema di produzione: a quel sistema di produzione storicamente determinato dall’esistenza di due classi, la classe capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione e la classe lavoratrice, al servizio della prima, aggiogata alla prima dal vincolo del salario dal vincolo della minaccia incombente di morte per fame.

Nello stadio attuale la classe capitalista è rappresentata da un ceto... d’avanguardia, la plutocrazia; la linea di sviluppo storico della classe capitalista è un processo di corruzione, un processo di decomposizione. Le funzioni tradizionali della classe capitalista nel campo della produzione sono passate nelle mani di un medio ceto irresponsabile senza vincoli né di interesse né psicologici con la produzione stessa: burocrati del tipo «impiegati dello Stato» venali, avidi, corrotti, agenti di borsa, politicanti senza arte né parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona: possedere molte donne, avere molti quattrini da spendere nelle alcove delle prostitute d’alto rango, nei bal tabarin e nello sfarzo vistoso e grossolano, avere una particella del potere di tormentare e far soffrire altri uomini sottoposti.

La classe lavoratrice è andata invece sviluppandosi verso un tipo di umanità storicamente originale e nuovo: l’operaio di fabbrica, il proletario che ha perduto ogni residuo psicologico delle sue origini contadinesche o artigiane, il proletario che vive la vita della fabbrica, la vita della produzione intensa e metodica, disordinata e caotica, nei rapporti sociali esterni alla fabbrica, nei rapporti politici di distribuzione della ricchezza, ma nell’interno della fabbrica, ordinata, precisa, disciplinata, secondo il ritmo delle grandi macchine, secondo il ritmo di una raffinata ed esatta divisione del lavoro, la piú grande macchina della produzione industriale.

La classe proprietaria del capitale si è allontanata dal lavoro e dalla produzione, si è disgregata, ha perduto la coscienza della sua primitiva unità che era unità dialettica, unità nella lotta individualistica per la concorrenza del profitto: l’unità della classe capitalista si è identificata in una istituzione dello Stato, il governo; l’individuo ha rimesso le sue funzioni di lotta e di conquista nelle mani di una banda di avventurieri e politicanti mercenari, per ricadere nella bestialità primordiale e barbarica che nutre gli istinti piú abbietti della crapula.

La classe operaia si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente. La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale? Quanto piú il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto piú sente l’indispensabilità dei compagni, tanto piú sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto piú sente la necessità dell’ordine, del metodo, della precisione, tanto piú sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora; tanto piú sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema di rapporti che lega una fabbrica a un’altra, una città a un’altra, una nazione a un’altra nazione.

Per questa sua originale psicologia, per questa sua particolare concezione del mondo l’operaio di fabbrica, il proletario della grande industria urbana è il campione del comunismo, è la forza rivoluzionaria che incarna la missione di rigenerare la società degli uomini, è un fondatore di nuovi Stati. In questo senso (e non in quello balordissimamente contraffatto dagli scrittori della Stampa) abbiamo affermato che Torino è la fucina della rivoluzione comunista: perché la classe lavoratrice di Torino è in maggioranza di proletari, di operai di fabbrica, di rivoluzionari del tipo previsto da Carlo Marx, non di rivoluzionari piccolo-borghesi, quarantottardi, del tipo caro ai democratici e agli arruffoni dell’anarchismo. In questo senso anche abbiamo sostenuto che la Confederazione generale del lavoro è costituita di masse operaie piú «rivoluzionarie» delle masse organizzate nell’Unione sindacale: perché la Confederazione abbraccia gli operai delle industrie meglio specificate e organizzate, delle industrie «piú rivoluzionarie» e d’avanguardia, mentre l’Unione sindacale è un disorganismo che non riesce a uscire dallo stadio gelatinoso e indistinto, dallo stadio della concezione del mondo propria dei piccoli borghesi che non sono diventati capitalisti, propria degli artigiani o dei contadini che non sono diventati proletari.

Ogni società vive e si sviluppa perché esiste una produzione, perché si produce piú del consumo, anche se la distribuzione per il consumo e per il risparmio avvenga in modo iniquo: la società vive e si sviluppa nella nequizia, — essa muore, anche se è stato attuato il regno della giustizia, se non si produce. La società borghese muore perché non si produce, perché il lavoro dei produttori coi rapporti nuovi di distribuzione creati dalla guerra e dalla conseguitane fase plutoburocratica del capitalismo, non è sufficiente neppure al consumo oltre a non permettere piú nessun accumulamento. La ricchezza di materiale viene annientata progressivamente: aumenta invece il cumulo di titoli all’appropriazione della ricchezza materiale, la carta moneta: il sistema capitalista di distribuzione è diventato un saccheggio a mano armata perpetrato dai detentori del potere governativo. Il capitalista si è allontanato dal campo della produzione; il governo dell’industria è caduto in mano di inetti e di irresponsabili; la classe operaia è rimasta sola ad amare il lavoro, ad amare la macchina. La classe operaia domina oggi la produzione, è il padrone della società, perché può recidere, incrociando le braccia, gli ultimi nervi che la fanno vibrare ancora, perché solo uno sforzo eroico di produttività potrebbe infonderle nuova vita e nuova virtú di sviluppo. Gli apostoli salariati, gli staffieri del capitale, gli avidi Lazzari della dispensa borghese credono di potere, con le loro gonfiezze patriottiche o umanitarie da romanzo d’appendice, incitare questo eroismo produttivo del proletariato, come sono riusciti a incitarne l’eroismo guerriero. Il bel gioco riesce una volta sola: e non è possibile, in questo caso, farsi dare una mano dai carabinieri, per ben riuscire! Bisognerà adattarsi, con le buone o con un «pizzico» di guardie rosse: il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua «filosofia», non per procurare nuovi ozi o nuovi sperperi ai detentori di carta moneta: aumenterà la produzione quando l’arma del suo potere di Stato sfronderà l’albero della vita dei moltissimi rami secchi: questa potatura di per se stessa determinerà un aumento di produzione, cioè una migliore distribuzione e la possibilità di un risparmio.

Partito di governo e classe di governo24

Il Partito socialista è un partito di governo, è un partito che dovrà esercitare il potere politico. Il Partito socialista è l’espressione degli interessi della classe proletaria, della classe costituita dagli operai di fabbrica, che non hanno proprietà e che non diventeranno mai proprietari. Su questi interessi il Partito socialista basa la sua azione reale, sugli interessi di chi non ha proprietà e di chi è matematicamente sicuro che non potrà diventare mai proprietario. La classe lavoratrice non è solo di operai industriali; ma tutta la classe lavoratrice è destinata a diventare come il proletariato di fabbrica, a diventare una classe che non ha proprietà e che è matematicamente certa di non arrivare mai a possedere; perciò il Partito socialista si rivolge a tutta la classe lavoratrice, agli impiegati, ai contadini poveri, ai piccoli proprietari, e volgarizza la sua dottrina, la dottrina marxista, e dimostra come tutto il popolo dei lavoratori, manuali e intellettuali, sarà ridotto nelle condizioni della classe operaia, come tutte le illusioni democratiche sulla possibilità che ognuno diventi proprietario siano appunto illusioni, puerilità e sogni piccolo-borghesi.

Il Partito liberale, il partito degli industriali, il partito della concorrenza economica, è il partito tipico della società capitalista, è il partito di governo della classe capitalista: attraverso la concorrenza esso tende a industrializzare tutto il lavoro organizzato della società, esso tende a ridurre tutta la classe proprietaria al tipo del suo cliente economico, l’industriale capitalista.

Il Partito comunista, il partito dei proletari, il partito dell’economia socializzata e internazionalizzata, è il partito tipico della società proletaria, è il partito di governo della classe operaia: attraverso un Consiglio centrale di economia nazionale, che coordina e unifica le iniziative di produzione, esso tende a socializzare tutto il lavoro che i capitalisti hanno industrializzato e tende a industrializzare socialisticamente tutte le altre zone di lavoro non ancora assorbite dall’industrialismo capitalistico: esso tende a ridurre tutti gli uomini in società al tipo del proletario, ma del proletario emancipato e rigenerato, del proletario che non possiede privatamente la ricchezza, ma amministra la ricchezza comune e ne trae quel godimento e quella sicurezza di vita che gli spettano per il lavoro dato alla produzione.

Questa posizione storica impone dei doveri precisi al Partito socialista: esso è partito di governo in quanto rappresenta essenzialmente il proletariato, la classe degli operai industriali. La proprietà privata minaccia di strangolare il proletario, minaccia di farlo morire di fame e di freddo: la concorrenza economica che è caratteristica della proprietà capitalistica, dopo aver condotto alla sopraproduzione, ha condotto al monopolio nazionale, all’imperialismo, all’urto feroce tra gli Stati imperialisti, ad una distruzione smisurata della ricchezza, alla carestia, alla disoccupazione, alla morte per fame e per freddo. La classe dei senza proprietà, di coloro che non potranno mai diventare proprietari, ha un interesse vitale e permanentemente vitale alla socializzazione, all’avvento del comunismo. Dagli altri ceti della popolazione lavoratrice possono invece nascere sviluppi per un nuovo capitalismo: da quelle forme di produzione, che il capitalismo non ha ancora industrializzato, possono minacciosamente irrompere ampliamenti di proprietà e sfruttamenti dell’uomo sull’uomo. Spezzato lo Stato borghese, spezzato l’apparecchio di cui il capitalismo finanziario si serve per monopolizzare ai suoi interessi tutto il lavoro e tutta la produzione, l’artigiano può tentare di servirsi del governo socialista per sviluppare la sua bottega, assumere operai a salario, diventare un industriale; se il governo proletario non glielo permetterà, l’artigiano può diventare un ribelle, dichiararsi anarchico, individualista, o che so io, e formare la base politica per un partito di opposizione al governo proletario: il piccolo proprietario (o il contadino povero del regime agrario a latifondo, a cultura estensiva) può abusare del fatto che, transitoriamente, fin quando durano le condizioni annonarie create dalla guerra, un chilo di patate può valere piú di una ruota di automobile, un pane può valere piú di un metro cubo di muratura, per domandare in cambio del suo lavoro non industrializzato e perciò economicamente povero, un lavoro dieci volte superiore del proletario: e se il governo proletario non permette al contadino di sostituirsi al capitalista nello sfruttare l’operaio, ecco che il contadino può ribellarsi, e trovare tra gli agenti della borghesia il gruppo che si costituisce partito politico dei contadini contro i proletari. Da tutte queste zone di lavoro, che non possono non avere diritti politici nello Stato operaio, da queste zone di lavoro nelle quali l’industrialismo capitalistico non è ancora riuscito a creare le condizioni del lavoratore proletario, del lavoratore che non è proprietario ed è matematicamente certo di non diventare mai proprietario, possono nascere, dopo la rivoluzione, forze politiche antiproletarie, forze politiche che tendono a far rinascere la proprietà capitalistica e lo sfruttamento della classe operaia.

Il Partito socialista, in quanto rappresenta gli interessi economici della classe operaia minacciata di morte dalla proprietà privata del capitale, sarà dalla classe operaia mandato al governo rivoluzionario della nazione. Ma il Partito socialista sarà partito di governo solo in quanto riuscirà a far superare alla classe tutte queste difficoltà, solo in quanto riuscirà a ridurre tutti gli uomini in società al tipo fondamentale del proletario emancipato e rigenerato dalla schiavitú del salario, solo in quanto riuscirà a fondare la società comunista, cioè l’Internazionale delle nazioni senza Stato. Il Partito socialista diventerà partito di governo rivoluzionario solo quando porrà dei fini concreti alla rivoluzione, quando dirà: la rivoluzione proletaria risolverà in tali e tali modi questi e questi problemi della vita moderna che assillano e fanno disperare le masse umane. La rivoluzione come tale è oggi il programma massimo del Partito socialista: essa deve diventare il programma minimo: programma massimo deve essere quello che indica le forme e i modi con cui la classe operaia giunge, col suo ordinato e metodico lavoro proletario, a sopprimere ogni antagonismo e ogni conflitto che può emergere dalle condizioni in cui il capitalismo lascia la società, e a fondare la società comunista. Preparare la classe operaia, che ha interesse vitale a fondare il comunismo, a raggiungere il suo fine storico, significa appunto organizzare il proletariato in classe dominante: il proletariato deve farsi una psicologia simile a quella della classe borghese attuale, simile per l’arte del governare, per l’arte di saper condurre a buon termine una iniziativa, un’azione generale dello Stato operaio, non certo per l’arte dello sfruttare. Del resto, anche se volesse, il proletario non potrebbe farsi una psicologia di sfruttatore; il proletario non può diventare proprietario, a meno che non distrugga le officine e le macchine e diventi proprietario dei pezzi di ferro reso inutile, per morirci sopra il giorno dopo: appunto perché non può, date le condizioni tecniche della produzione industriale, diventare proprietario e sfruttare, il proletario è chiamato dalla storia a fondare il comunismo, a liberare tutti gli oppressi e gli sfruttati.

Il Partito socialista non diventerà effettivamente partito di governo rivoluzionario se il proletariato non arriva a concepire i suoi problemi immediatamente vitali come risolvibili solo da un suo governo di classe, che ha raggiunto il potere rivoluzionariamente.

La classe operaia sa che solo producendo essa domina la società e la conduce al comunismo: anche per la classe operaia problema fondamentale e permanente è quello della produzione e dell’aumento della produzione. Ma per la classe operaia il problema della produzione e dell’aumento della produzione si pone in questi termini: come ottenere che la classe operaia possa continuare a produrre e sia in grado fisicamente di aumentare la produzione. Come ottenere che la classe operaia non sia piú assillata dal problema dei viveri, che la classe operaia si rigeneri fisicamente e culturalmente e possa dedicarsi, con tutto il suo entusiasmo rivoluzionario, al lavoro industriale, alla produzione, alla ricerca e all’attuazione di nuovi modi di lavoro, di nuovi modi di produzione che siano tanti anelli saldati della catena storica che deve condurre al comunismo. I problemi immediati della classe operaia si riducono essenzialmente a uno: al problema dei viveri, al problema di instaurare un sistema di forze politiche in cui l’appropriazione dei viveri non sia piú lasciata libera, in balía della proprietà privata, ma dipenda dalle necessità del lavoro e della produzione. Il principio proletario: «Chi non lavora non mangia!» acquista ogni giorno piú significato storico concreto; appare come il principio non abbia in sé nulla di giacobino, nulla di mistico, non possa essere neppure lontanamente paragonato alla formula della rivoluzione borghese: «Eguaglianza, fraternità, libertà!». Il principio proletario è il riconoscimento esplicito di una necessità immediata, di una necessità organica della società umana che minaccia di scompaginarsi e di decomporsi insieme allo Stato borghese. Bisogna produrre, e per produrre bisogna che esista una classe operaia capace fisicamente e intellettualmente di esercitare uno sforzo eroico di lavoro: perciò è necessario che le disponibilità annonarie siano specialmente dedicate a sostenere la classe operaia, la classe dei produttori, ed è necessario che esista un potere in grado di imporre questa necessità, in grado di assicurare alla classe operaia le condizioni di nutrizione e di benessere che permettono uno sforzo di lavoro, un incremento della produzione. Se esiste solo una disponibilità media di 200 grammi di pane quotidiano per cittadino, è necessario esista un governo che ne assicuri 300 grammi agli operai e costringa i non produttori ad accontentarsi di 100 grammi o anche meno, o anche di nulla se non lavorano, se non producono: un governo di tal genere può essere solo un governo operaio, governo della classe operaia divenuta classe di governo, divenuta classe dominante.

Non può esistere governo operaio se la classe operaia non è in grado di diventare, nella sua totalità, il potere esecutivo dello Stato operaio. Le leggi dello Stato operaio devono essere poste in esecuzione dagli operai stessi: solo cosí lo Stato operaio non corre il rischio di cadere in mano di avventurieri e politicanti, non corre il rischio di diventare una contraffazione dello Stato borghese. Perciò la classe operaia deve addestrarsi, deve educarsi alla gestione sociale, deve acquistare la cultura e la psicologia di una classe dominante, deve acquistarle con i suoi mezzi e con i suoi sistemi, coi comizi, coi congressi, con le discussioni, con l’educazione reciproca. I Consigli di fabbrica sono stati una prima forma di queste esperienze storiche della classe operaia italiana che tende all’autogoverno nello Stato operaio. Un secondo passo, e dei piú importanti, sarà il primo congresso dei Consigli di fabbrica: ad esso saranno invitate tutte le fabbriche italiane: il congresso sarà di tutta la classe proletaria italiana, rappresentata dai suoi delegati eletti espressamente e non da funzionari sindacali. Il congresso dovrebbe impostare i problemi essenziali del proletariato italiano e dovrebbe tentarne la soluzione: problemi interni della classe come quello dell’unità proletaria, dei rapporti tra Consigli e sindacati, dell’adesione alla III Internazionale, dell’accettazione delle singole tesi della III Internazionale (dittatura proletaria, sindacati d’industria, ecc.), dei rapporti tra sindacalisti-anarchici e comunisti-socialisti; problemi della lotta delle classi: controllo operaio sull’industria, le otto ore, i salari, sistema Taylor, la disciplina del lavoro, ecc. Già fin d’ora i compagni dovrebbero discutere in assemblee di fabbrica questi problemi; tutta la massa operaia dovrebbe essere interessata a queste discussioni, dovrebbe dare un contributo di esperienza e di intelligenza alla soluzione di questi problemi. In tutte le assemblee di fabbrica dovrebbero essere discusse e poste ai voti mozioni diffuse e sorrette da argomentazioni su questi problemi e al congresso le relazioni dovrebbero essere il coordinamento delle discussioni fatte nelle assemblee di fabbrica, il coordinamento del lavoro intellettuale di ricerca della verità e della concretezza fatto da tutta la massa operaia. Allora sí, il congresso dei Consigli torinese sarebbe un grandioso avvenimento di somma importanza storica: gli operai venuti da tutta Italia avrebbero un documento luminoso di quanto può fare il Consiglio di fabbrica per condurre la classe operaia alla sua emancipazione, alla sua vittoria: la classe operaia torinese sarebbe, ancor piú di quanto non sia oggi, portata a esempio di entusiasmo rivoluzionario, di metodico e ordinato lavoro proletario per elevarsi, per educarsi, per fondare le condizioni di trionfo e di stabilità della società comunista.

La rivoluzione tedesca25

La «dittatura militare» ha dato l’assalto alla «democrazia» tedesca e ha cozzato non contro le organizzazioni dello Stato parlamentare, che non esistevano all’infuori della stessa dittatura militare, non contro le milizie fedeli del suffragio universale e della Costituente, che non esistevano all’infuori dei quadri della dittatura militare, ma contro la classe operaia che d’un colpo ha arrestato la vita economica della Germania, contro la classe operaia insorta con le armi in pugno per difendere la sua libertà e il suo avvenire storico.

La «democrazia» non ha resistito un solo momento, è scappata al primo strepito minaccioso dei reggimenti di Ludendorff in marcia; la democrazia tedesca era spietatamente forte solo con la classe operaia, si faceva rispettare solo con la classe operaia, trovava armi sicure e milizie fedeli solo quando la classe operaia rivendicava una libertà e un diritto proletario; la democrazia non era che uno strumento in mano della dittatura militare, uno strumento di guerra civile che viene smesso quando non serve piú, quando diventa ingombrante e minaccia di cadere in mano dell’avversario.

La sconfitta di Ludendorff non è dunque la semplice sconfitta della sola casta militare germanica: è una delle fasi piú importanti nel processo di sviluppo della rivoluzione tedesca, perché indica il prevalere della potenza proletaria sulla potenza dello Stato borghese, perché indica che in Germania l’equilibrio delle forze si è spostato a vantaggio della classe operaia. La rivoluzione tedesca riprende il suo ritmo di violenza, dopo la parentesi democratica: si è conchiusa una fase essenziale della rivoluzione proletaria, europea e mondiale, poiché il proletariato germanico rimane protagonista della storia mondiale, come ne era stata protagonista la borghesia germanica.

Questo anno di stasi democratica in Germania aveva fatto nascere molte illusioni e molte speranze. Si attendeva che in Germania maturasse la prova che la rivoluzione russa era solamente e puramente la rivoluzione russa e non già un momento della rivoluzione proletaria mondiale, si attendeva la dimostrazione che la dittatura della classe operaia era stata in Russia il prodotto di condizioni materiali proprie della Russia e di un’ideologia politica che poteva nascere solo in Russia, come reazione al dispotismo zarista. Alla Germania era stata assegnata la missione di europeizzare la rivoluzione russa, di europeizzare il sistema dei Consigli. La piccola borghesia occidentale ha facilmente occupato la nuova posizione di classe media tra il proletariato comunista e il capitalismo divenuto conservatore, reazionario, militarista; la nuova posizione che nel campo delle ideologie è caratterizzata dal socialriformismo. La piccola borghesia, collocatasi perfettamente in questa nuova posizione storica, ha subito creato una nuova teoria costituzionale, ha subito costruito un nuovo tipo di Stato. Si trattava di conciliare il potere borghese col potere proletario, il Parlamento eletto a suffragio universale col sistema dei Consigli: si pensò di riprodurre nei rapporti tra borghesia e proletariato lo stesso equilibrio che le rivoluzioni borghesi avevano determinato nei rapporti di classe tra la nobiltà terriera e la democrazia dei fabbricanti capitalisti: come l’Inghilterra era giunta a costruire lo Stato moderno borghese con le due Camere, dei Lords e dei Comuni, dando il modello per la costruzione degli Stati europei continentali, cosí la Germania avrebbe dovuto costruire lo Stato modernissimo, con due Camere: il parlamento politico e il parlamento economico, il parlamento dei proprietari e il sistema dei Consigli operai. La piccola borghesia era persuasa di dare la felicità a tutte le classi sociali: la classe operaia avrebbe avuto il suo dominio, avrebbe avuto campo di discutere, di chiacchierare, di preparare progetti di legge e di riforme «radicali»; la classe proprietaria avrebbe riacquistato la tranquillità e avrebbe visto rifiorire il profitto per una maggiore produttività determinata nella classe operaia dalla disciplina spontanea e dalla «gioia del lavoro» create dal Consiglio di azienda, dalla «compartecipazione» al potere industriale; e la intelligente piccola borghesia avrebbe anch’essa vendemmiato nel comune gaudio, poiché la creazione e la sistemazione dei nuovi organismi avrebbero moltiplicato i posti di fiducia, le cariche, le deputazioni, gli uffici, le commissioni speciali.

Un grande sforzo è stato compiuto dai teorici della Internazionale comunista per distruggere questa ideologia, per espellere dal campo del proletariato tedesco gli assertori di questa ideologia, per martellare nei cervelli del proletariato tedesco la persuasione che non può esistere convivenza pacifica tra il Parlamento e il sistema dei Soviet, tra la dittatura borghese e la dittatura proletaria. La prima rivoluzione aveva lasciato in Germania come conquista solida della classe operaia il Consiglio di fabbrica: la lotta tra i rivoluzionari e gli opportunisti piccolo-borghesi s’imperniò sulla quistione dei Consigli di fabbrica e si inasprí fino al conflitto a mano armata. La classe operaia non volle permettere che fosse stroncato dal Parlamento lo slancio vitale rivoluzionario del Consiglio di fabbrica, che fosse soffocato il germe del potere di controllo sulla produzione industriale da parte della classe operaia. L’autocrazia del capitalista nella fabbrica è il presupposto economico del militarismo e dell’imperialismo; se il privilegio della classe proprietaria sulla produzione viene limitato, viene controllato, tutto lo Stato borghese ne soffre, il potere della borghesia scade, il militarismo sente mancarsi il terreno sotto i piedi. Il militarismo tedesco ha reagito violentemente contro la minaccia, ha svuotato di ogni potere lo Stato parlamentare che permetteva discussioni e azioni cosí pericolose per l’ordine costituito, ha cercato di imporre esplicitamente la sua dittatura.

Cosí si è chiuso il periodo di stasi democratica in Germania: la guerra civile nuovamente divampa e il proletariato tedesco si trova in posizioni enormemente piú favorevoli che nel gennaio 1919. Le esperienze storiche che la piccola borghesia occidentale si attendeva dal «popolo» tedesco, le attende oggi il proletariato occidentale dal proletariato tedesco: la elaborazione e la costruzione del sistema dei Soviet come forma della dittatura proletaria, come strumento dell’aspra lotta che la classe operaia dovrà combattere per attuare la società comunista.

Per un rinnovamento del Partito socialista26

La seguente relazione fu presentata al Consiglio nazionale di Milano dai rappresentanti della Sezione socialista e della Federazione provinciale torinese e serví come base alla critica dell’opera e dell’indirizzo della direzione del Partito.

1) La fisionomia della lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la quistione della proprietà sui mezzi di produzione. L’imperversare delle crisi nazionali e internazionali che annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il capitale è stremato; l’ordine attuale di produzione e di distribuzione non riesce piú a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione, strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri.

2) Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d’ordine lanciata dalla Confederazione generale dell’industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova forte organizzazione della classe proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su larga scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l’autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle piú dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza.

3) La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che prevede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.

4) Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell’attuale periodo, e di non comprendere nulla della missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato rivoluzionario. Il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale comunista, non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come organizzazione politica della parte d’avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un’azione d’insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo. Il Partito socialista, essendo costituito da quella parte della classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare dall’oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito d’iniziativa cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di accentrare in sé l’attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo da diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il Partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l’unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all’insieme dei movimenti e infondere la persuasione nelle folle che un ordine è immanente nello spaventoso attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario.

5) Dopo il Congresso di Bologna gli organismi centrali del Partito avrebbero immediatamente dovuto iniziare e svolgere fino in fondo una energica azione per rendere omogenea e coesa la compagine rivoluzionaria del Partito, per dargli la fisionomia specifica e distinta di Partito comunista aderente alla III Internazionale. La polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata; né la direzione del Partito né l’Avanti! contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali. Nulla si fece da parte degli organi centrali del Partito per dare alle masse una educazione politica in senso comunista; per indurre le masse a eliminare i riformisti e gli opportunisti dalla direzione delle istituzioni sindacali e cooperative, per dare alle singole sezioni e ai gruppi di compagni piú attivi un indirizzo e una tattica unificati. Cosí è avvenuto che mentre la maggioranza rivoluzionaria del Partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l’autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali. La direzione ha permesso loro di concentrarsi e di votare risoluzioni contraddittorie con i principi e la tattica della III Internazionale e ostili all’indirizzo del Partito; la direzione ha lasciato assoluta autonomia a organismi subordinati di svolgere azioni e diffondere concezioni contrarie ai principi e alla tattica della III Internazionale: la direzione del Partito è stata assente sistematicamente dalla vita e dall’attività delle sezioni, degli organismi, dei singoli compagni. La confusione che esisteva nel Partito prima del Congresso di Bologna e che poteva spiegarsi col regime di guerra, non è sparita, ma si è anzi accresciuta in modo spaventoso; è naturale che in tali condizioni il Partito sia scaduto nella fiducia delle masse e che in molti luoghi le tendenze anarchiche abbiano tentato di prendere il sopravvento. Il Partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l’azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra: se il Partito non realizza l’unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche che appunto aspramente e incessantemente criticano l’accentramento e il funzionarismo dei partiti politici.

6) Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla luce della concezione della Internazionale comunista, non si cura di svolgere tutta un’azione educativa rivolta a rendere consapevole il popolo lavoratore italiano della verità che la rivoluzione proletaria è un fenomeno mondiale e che ogni singolo avvenimento deve essere considerato e giudicato in un quadro mondiale. La III Internazionale si è riunita già due volte nell’Europa occidentale, nel dicembre 1919 in una città tedesca, nel febbraio 1920 ad Amsterdam: il Partito italiano non era rappresentato in nessuna delle due riunioni: i militanti del Partito non sono stati neppure informati dagli organismi centrali delle discussioni avvenute e delle deliberazioni prese nelle due conferenze. Nel campo della III Internazionale fervono le polemiche sulla dottrina e sulla tattica della Internazionale comunista: esse (come in Germania) hanno condotto persino a scissioni interne. Il Partito italiano è completamente tagliato fuori da questo rigoglioso dibattito ideale in cui si temprano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l’unità spirituale e d’azione dei proletariati di tutti i paesi. L’organo centrale del Partito non ha corrispondenti propri né in Francia, né in Inghilterra, né in Germania e neppure in Isvizzera: strana condizione per il giornale del Partito socialista che in Italia rappresenta gli interessi del proletariato internazionale e strana condizione fatta alla classe operaia italiana che deve informarsi attraverso le notizie delle agenzie e dei giornali borghesi, monche e tendenziose. L’Avanti!, come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III Internazionale: nell’Avanti! dovrebbero trovare posto tutte le notizie, le polemiche, le trattazioni di problemi proletari che interessano la III Internazionale; nell’Avanti! dovrebbe essere condotta, con spirito unitario, una polemica incessante contro tutte le deviazioni e i compromessi opportunistici: invece l’Avanti! mette in valore manifestazioni del pensiero opportunista, come il recente discorso parlamentare dell’on. Treves, che era intessuto su una concezione dei rapporti internazionali piccolo-borghese e svolgeva una teoria controrivoluzionaria e disfattista delle energie proletarie. Questa assenza, negli organi centrali, di ogni preoccupazione di informare il proletariato sugli avvenimenti e sulle discussioni teoriche che si svolgono in seno alla III Internazionale si può osservare anche nell’attività della Libreria Editrice. La libreria continua a pubblicare opuscoli senza importanza o scritti per diffondere concezioni e opinioni proprie della II Internazionale, mentre trascura le pubblicazioni della III Internazionale. Scritti di compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, in Inghilterra, in Germania e sono ignorati in Italia: valga per tutti il volume di Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di senso comune.

7) Dall’analisi precedente risulta già quale sia l’opera di rinnovamento e di organizzazione che noi riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra. Ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentato in manifesti e circolari della direzione per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie. La direzione, mantenendosi sempre a contatto con le sezioni, deve diventare il centro motore della azione proletaria in tutte le sue esplicazioni. Le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la tattica del Partito, che organizzino la creazione dei Consigli di fabbrica per l’esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo organico i sindacati, le Camere del lavoro e la Confederazione generale del lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa delegherà per la formazione dei Soviet politici e per l’esercizio della dittatura proletaria. L’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo Comitato esecutivo centrale tutta l’azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet; nell’assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell’idea soviettista. Allo stesso modo deve essere rigettata la proposta del parlamentino socialista, che diventerebbe rapidamente uno strumento in mano della maggioranza riformista e opportunista del gruppo parlamentare per diffondere utopie democratiche e progetti controrivoluzionari.

8) La direzione deve immediatamente studiare, compilare e diffondere un programma di governo rivoluzionario del Partito socialista, nel quale siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali — economici, politici, religiosi, scolastici ecc. — che assillano i diversi strati della popolazione lavoratrice italiana. Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali e agricoli che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei municipi esercitato dalle organizzazioni operaie.

9) La sezione socialista torinese si propone, sulla base di queste considerazioni, di promuovere un’intesa coi gruppi di compagni che in tutte le sezioni vorranno costituirsi per discuterle e approvarle; intesa organizzata che prepari a breve scadenza un congresso dedicato a discutere i problemi di tattica e di organizzazione proletaria e nel frattempo controlli l’attività degli organismi esecutivi del Partito.

Superstizione e realtà27

«È passato il tempo, già da un pezzo, in cui la superstizione attribuiva le rivoluzioni alla perversità di un pugno di agitatori. Oggi tutti sanno che in fondo a ogni convulsione rivoluzionaria deve esistere un qualche bisogno sociale che le istituzioni invecchiate impediscono sia soddisfatto. È possibile che questo bisogno non si faccia ancora sentire abbastanza profondamente e abbastanza diffusamente per assicurare un successo immediato, ma ogni tentativo per soffocarlo violentemente riuscirà solo a farlo irrompere con maggior forza finché abbia spezzato i suoi ceppi. Se dunque noi siamo stati sconfitti è nostro dovere ricominciare da capo: l’intervallo di sosta, breve probabilmente, che ci è consentito tra la fine del primo e l’inizio del secondo atto, fortunatamente ci lascia tempo per un lavoro quanto mai utile: lo studio delle cause che determinarono, col loro confluire, la recente rivoluzione e la sua sconfitta; cause che non debbono essere ricercate negli sforzi, nella genialità, nelle colpe, negli errori o nei “tradimenti” di alcuni capi, ma nello stato generale della società e nella condizione di esistenza di ciascuna nazione sconvolta.»28

La superstizione attribuisce lo sciopero generale di Torino e del Piemonte, attribuisce un movimento durato dieci giorni di vita intensissima, che ha coinvolto mezzo milione di operai e contadini, che ha determinato rotture micidiali nell’apparecchio del potere di Stato borghese, che ha dimostrato la sua forza d’espansione nelle simpatie e nei consensi attivi suscitati in tutta la classe proletaria italiana, attribuisce un tale movimento alla boria regionale di un pugno di «irresponsabili», alla fallace illusione di un gruppetto di estremisti «scalmanati», alle tenebrose elucubrazioni «russe» di alcuni elementi intellettuali che complottano nell’anonimia del famigerato comitato di studio dei Consigli torinesi.

Dopo settant’anni da che Carlo Marx poteva presumere «passato già da un pezzo il tempo», la superstizione trova devoti non solo tra i minori scrittori del Corriere della Sera e del Giornale d’Italia, non solo nell’on. Edoardo Giretti ma anche nell’ufficio di direzione e di gerenza dell’organo della Confederazione generale del lavoro, che abbraccia due milioni di proletari italiani e presume attuare la prassi del marxismo in Italia.

La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la «superstizione», la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano. Tra le condizioni mediate di secondo grado che hanno determinato la sconfitta è quindi anche la mancanza di coesione rivoluzionaria dell’intero proletariato italiano che non riesce a esprimere dal suo seno, organicamente e disciplinatamente, una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario. Tra le condizioni mediate di primo grado che hanno determinato la sconfitta sono quindi da ritenersi lo stato generale della società italiana e le condizioni di esistenza di ogni regione e di ogni provincia che costituisce una cellula sindacale della Confederazione generale del lavoro. È certo insomma che la classe operaia torinese è stata sconfitta perché in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico e disciplinato movimento di insieme della classe operaia e contadina. Di questa immaturità, di questa insufficienza del popolo lavoratore italiano è indubbio documento la «superstizione» e la cortezza di mente dei capi responsabili del movimento organizzato del popolo lavoratore italiano.

Il 7 marzo si tiene a Milano un convegno nazionale degli industriali. Il comm. Silvestri, presidente della Confederazione generale dell’industria, pronunzia al convegno un discorso violentissimo contro le otto ore, contro gli aumenti di salario, contro il governo pusillanime che non ha difeso il capitale a Pont Canavese, a Torre Pellice, ad Asti (invasione dei cotonifici Mazzonis e della segheria di Asti), contro il governo pusillanime che non sa difendere il regime individualista borghese dagli assalti dei comunisti. L’onorevole Gino Olivetti, segretario confederale, riferisce al convegno sulla quistione dei Consigli di fabbrica e conclude proclamando che i Consigli operai torinesi devono essere schiacciati implacabilmente; la concezione capitalistica espressa dall’Olivetti viene applicata dagli industriali torinesi nell’offensiva contro i Consigli operai ed è riassunta nelle due massime che i manifesti dei capitalisti urlano vittoriosamente in tutte le vie della città, dopo la sconfitta proletaria: «Nelle ore di lavoro si lavora e non si discute. Nelle fabbriche non ci può essere che un’unica autorità».

Dopo il convegno di Milano gli industriali riescono ad avere dal governo assicurazioni precise: a Torino sta per succedere qualcosa di nuovo e di inaudito: il direttore del Giornale d’Italia ha fiutato, nei ministeri romani, odore di sangue e spicca un corrispondente speciale a Torino, che si precipita nelle redazioni dei giornali e nelle direzioni delle fabbriche a domandare: — Ma che succede dunque a Torino? Perché si ha tanta paura a Roma degli operai torinesi? Perché il mio direttore mi ha mandato a Torino a fare un’inchiesta sul movimento operaio e sui Consigli di fabbrica? — E subito ecco le notizie pervenire al comitato di studio: ieri sono giunte mille nuove guardie regie; oggi altre mille; forze militari ingenti si accampano nel tale e nel tal altro paese dei dintorni; piazzano batterie nei tali e tal altri punti della collina; in queste chiese, sui tetti di questi palazzi hanno appostato mitragliatrici; si lasciano costituire depositi di armi per le associazioni sussidiate dagli industriali; queste associazioni si sono messe direttamente a contatto con gli ufficiali aderenti che comandano reparti nella provincia. Intanto il corrispondente del Giornale d’Italia annunzia nelle sue lettere da Torino che gli industriali sono decisi a fiaccare la classe operaia, che gli industriali hanno giurato di sostenersi solidalmente nella lotta fino alla serrata generale, che gli industriali torinesi saranno strenuamente sostenuti da tutta la classe capitalistica italiana, che il cozzo tra operai e industriali avverrà a breve scadenza.

Tutto questo movimento della classe capitalistica e del potere di Stato per asserragliare Torino, per cogliere la classe operaia torinese in una fossa da lupi, non fu neppure percepito dai capi responsabili della classe operaia italiana organizzata. La vasta offensiva capitalistica fu minuziosamente preparata senza che lo «stato maggiore» della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali e al potere di Stato, una fonte di debolezza per i dirigenti locali della sezione metallurgica.

Gli industriali condussero l’azione con estrema abilità. Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio: non esiste il disfattismo nel loro seno, non esiste chi sabota l’azione generale, chi semina lo sconforto e il panico. Gli industriali, avviluppata la città in un perfetto sistema militare, trovarono un «naso di Cleopatra» che mutasse faccia alla storia: alle officine «Industrie metallurgiche», per una manomissione senza conseguenze dell’orologio, gli industriali domandarono l’ineleggibilità per un anno dei compagni della Commissione interna, domandarono cioè che sei compagni fossero per un anno privati dei diritti civili proletari. Il movimento si iniziò da questo punto e si aggravò a mano a mano che gli industriali spiegavano con accortezza e con metodo tutta la loro manovra; i delegati operai per le trattative erano dei giocattoli nelle mani degli industriali, e sapevano di esserlo, e gli industriali sapevano che gli operai sapevano. Gli operai erano persuasi che le trattative erano vane, ma dovevano continuare a trattare, perché un arresto, uno scoraggiamento, un moto impulsivo avrebbe provocato il cozzo sanguinoso che era voluto dagli industriali, dalla polizia, dalla casta militare, dai circoli reazionari: i delegati operai conoscevano perfettamente le condizioni generali di armamento in cui gli eventi si svolgevano, e dovettero per giorni e giorni macerare il loro cervello e il loro cuore per attendere, per superare il giorno, per vedere dove sarebbe giunta l’offensiva avversaria, perché gli avversari dovessero giungere fino al punto in cui fosse impossibile non toccare princípi che costringessero gli organismi centrali a pronunziarsi e a scendere in campo. Cosí si giunse allo sciopero generale, al grandioso schieramento delle forze proletarie piemontesi, cosí si giunse fino al punto in cui, per le dimostrazioni di solidarietà attiva date dai ferrovieri, dai marinari, dagli scaricatori del porto, dimostrazioni che misero in rilievo l’intima debolezza dell’apparecchio statale borghese, si poté anche credere alla possibilità di una insurrezione generale del proletariato italiano contro il potere di Stato, insurrezione che si pensava già destinata a fallire nel suo fine ultimo, la composizione di un governo rivoluzionario, perché tutto lo svolgersi del movimento aveva dimostrato che in Italia non esistono le energie rivoluzionarie organizzate capaci di centralizzare un movimento vasto e profondo, capaci di dare sostanza politica a un irresistibile e potente sommovimento della classe oppressa, capaci di creare uno Stato e di imprimergli un dinamismo rivoluzionario.

La classe operaia torinese è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perché l’iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere dello Stato borghese. Chi parla di «illusioni fallaci» sottintende necessariamente che la classe operaia deve sempre piegare il collo dinanzi ai capitalisti, sottintende necessariamente che la classe operaia deve persuadersi di essere solo una mandra di bestiame, un’accolta di bruti senza coscienza e senza volontà, che la classe operaia deve persuadersi di essere incapace di avere una propria concezione da contrapporre alla concezione borghese, di avere nozioni, sentimenti, aspirazioni, interessi contraddittori con le nozioni, i sentimenti, le aspirazioni, gli interessi della classe borghese.

La classe operaia torinese è stata sconfitta. Continuano ad esistere in Torino le grandi officine meccaniche, nelle quali la raffinata divisione del lavoro e il continuo perfezionamento degli automatismi spinge i capitalisti alle forme piú sordide e piú irritanti di oppressione dell’uomo sull’uomo. Da queste condizioni del lavoro gli operai erano spinti incessantemente a ricercare forme di organizzazione e metodi di lotta in cui ritrovare la loro potenza e la loro figura di classe rivoluzionaria che piú non trovavano nel sindacato professionale: le stesse condizioni determineranno gli stessi impulsi rivoluzionari anche dopo la sconfitta politica. Gli industriali continueranno nei tentativi di suscitare artificialmente la concorrenza tra gli operai, suddividendoli in categorie arbitrarie, e ogni categoria in altre categorie, quando il perfezionamento degli automatismi ha ucciso questa concorrenza; continueranno nei tentativi di inasprire i tecnici contro gli operai e gli operai contro i tecnici, quando i sistemi di lavoro tendono ad affratellare questi due fattori della produzione, e li spingono a unirsi politicamente; gli operai continueranno a sentire di non poter essere difesi dai sindacati professionali nella lotta contro la molteplicità e la imprevedibilità delle insidie che i capitalisti, favoriti dai nuovi modi di produzione, loro incessantemente tendono, e non saranno mai queti, non lavoreranno mai con tranquillità, sentiranno piú aspramente il loro stato di oppressione, saranno piú facili agli impulsi e agli scatti di collera.

Da queste nuove condizioni di lavoro, maturate durante la guerra, era stata determinata a Torino la formazione dei Consigli di fabbrica: le condizioni permangono, permane il bisogno nella coscienza degli operai, bisogno acuito e reso intelligente dall’educazione politica, e solo il Consiglio di fabbrica e il sistema dei Consigli potranno soddisfarlo.

La classe operaia, per lo sviluppo della civiltà industriale, per lo sviluppo dei mezzi di oppressione e di sfruttamento, è condotta ad attuare azioni, a porsi e a tentare fini, ad applicare metodi, che non vengono compresi dagli uomini freddi e senza entusiasmo che il meccanismo burocratico ha posto nelle cariche direttive delle sue organizzazioni di lotta. Cinquecentomila operai e contadini sono trascinati nella lotta: contro di loro sono accampate l’intera classe capitalistica e le forze del potere di Stato. L’intervento energico delle centrali del movimento operaio organizzato potrebbe equilibrare le forze e, se non determinare una vittoria, mantenere e consolidare le conquiste fatte dagli operai con un lavoro paziente e tenace di organizzazione, con centinaia e migliaia di piccole azioni nelle officine e nei reparti. Da chi dipende questo intervento? Da un organismo eletto dagli operai, continuamente controllato, i cui membri possono essere revocabili a ogni istante? No, da impiegati giunti a quel posto per vie burocratiche, per amicizie; da impiegati di corta mente che non vedono neppure ciò che gli industriali e lo Stato preparano, che non conoscono la vita della fabbrica e i bisogni degli operai, e sono «superstiziosi» come un pastore protestante e vanitosi come l’usciere di un ministero.

La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l’unità proletaria.

Lo sciopero generale ha dimostrato quanto sia espansivo il movimento «letterario» sorto nel campo industriale torinese. Nell’Ordine Nuovo dell’11 ottobre 1919 il malessere che serpeggiava sordamente in mezzo alle masse organizzate era cosí tratteggiato:

«Gli operai sentono che il complesso della loro organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti, cementandola con il sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle».

Il movimento per i Consigli dette una forma e un fine concreto al malessere che si compose nell’azione disciplinata e cosciente. Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, per impostare un piano organico di rinnovazione dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi e spinga i sindacati nel campo di lotta della III Internazionale comunista.

Un programma di governo29

Il programma di governo, esposto dall’on. Giolitti nella sua intervista alla Tribuna deve essere esaminato e giudicato da un doppio punto di vista. Qual è il valore intrinseco, la portata politica del programma di governo dell’on. Giolitti? È attuabile in sé e per sé? Costituisce, o può costituire un reale passo in avanti nella storia del popolo italiano, nello sviluppo delle istituzioni pubbliche della nazione italiana? Nel campo della democrazia parlamentare esistono forze politiche efficienti in tal misura da poter diventare la base di un tale programma? Nel campo della produzione gestita dai privati proprietari degli strumenti di lavoro esistono le forze economiche capaci di sostenere un tal programma, tali cioè da trovare nella esplicazione di un tal programma le condizioni esterne politiche necessarie e indispensabili per il loro miglior sviluppo?

L’on. Giolitti si propone di restaurare il potere dell’assemblea elettiva e di estenderlo, limitando il potere dell’esecutivo, limitando le prerogative della Corona. Il programma dell’on. Giolitti, in questo senso, implica che il Parlamento sia investito dei poteri di una Costituente o implica lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di una Assemblea costituente eletta dalla nazione in vista di una nuova, radicale riorganizzazione dell’apparecchio di Stato. In questa parte del suo programma l’on. Giolitti muove da presupposti superficialissimi; dalla constatazione che il Parlamento è screditato e che l’azione legislativa viene esercitata dal governo sotto forma di decreti legge. Ma questo discredito del Parlamento come deve essere considerato? Il discredito del Parlamento è causa o effetto della crisi generale in cui si dibatte il paese? Il Parlamento è la forma dello Stato borghese; la sostanza dello Stato borghese è costituita dai rapporti di forza delle classi, e questi rapporti sono determinati dall’efficienza e dall’importanza delle forze reali della produzione. Il Parlamento è screditato per il fatto che l’economia capitalistica è passata dall’epoca del liberalismo all’epoca del monopolio, e nessun uomo politico ha in Italia contribuito come l’on. Giolitti a facilitare questo passaggio. L’on. Giolitti è sempre stato in Italia l’esponente dell’alta banca, l’esponente della plutocrazia siderurgica, l’agente del protezionismo doganale. L’on. Giolitti passerà nella storia dello Stato borghese italiano come «ministro della mala vita» appunto perché la sua azione è sempre stata preponderante nel senso di soffocare, con la violenza della polizia, con la corruzione, con la pressione amministrativa, ogni potere legislativo dell’assemblea elettiva, nel senso di annientare ogni partecipazione del popolo italiano al governo della cosa politica. Il regime di monopolio non è stato creato dalla guerra: la guerra è stata il periodo di assestamento di questo regime, la guerra, nel campo internazionale come nel campo nazionale, è stata una fase organica, necessaria di questo regime, che non può essere abolito dagli stessi uomini politici che ne furono e ne rimangono gli agenti parlamentari, che non può esser abolito da nessuna forza politica borghese, ma può solo essere superato da un regime proletario, da uno Stato operaio.

Nell’esposizione dell’on. Giolitti vi è un accenno ai «lavoratori della terra». Potrebbe supporsi che per l’attuazione del suo programma l’on. Giolitti voglia appoggiarsi sulla classe dei contadini, che egli voglia diventare il leader del Partito popolare. Ma questa supposizione non ha consistenza politica. I grandi proprietari terrieri fanno parte integrale dell’apparecchio di governo economico che prende forma nell’alta banca; la rendita fondiaria è legata strettamente al profitto capitalistico, è anzi determinata dal profitto capitalistico: il paese va in sfacelo appunto per questo fenomeno. In Italia l’agricoltura, ancora in maggioranza estensiva, accentrandosi in un organismo unitario con la grande produzione industriale monopolizzata, non può che determinare un continuo aumento del prezzo della vita. L’agricoltura senza macchine, senza divisione del lavoro, senza impianti per l’irrigazione, equipara la sua rendita al profitto capitalistico, distillato dal lavoro dell’operaio che lavora nell’officina meccanica, che lavora nelle condizioni di piú alta produttività e di maggior rendimento. In questa coesistenza — nello stesso apparecchio di governo accentrato e monopolizzato — di due forme cosí distanti di produzione, è da ricercare l’origine della crisi italiana, l’origine dello scadimento degli istituti pubblici, l’origine della degradazione e della dissolutezza del costume. La forma assunta dall’apparecchio nazionale di produzione e di scambio non assicura la vita elementare delle grandi masse della popolazione, perché è rivolta unicamente ad assicurare alti profitti e grasse rendite ai capitalisti, ai proprietari terrieri, ai banchieri. Essa tende ad accentrarsi sempre piú, tende ad arricchire sempre piú la minoranza di filibustieri e di banditi che ne costituisce il capo, al prezzo della fame e della disperazione delle grandi masse popolari.

Bisogna decapitare questo apparecchio, bisogna eliminare questa minoranza dal campo della vita politica ed economica. Il programma dell’on. Giolitti pare tenda appunto a ciò. Ma il metodo dell’on. Giolitti corrisponde alla sapienza medica di un empirico che propina un tamarindo al sofferente di tifo. Nel campo della democrazia parlamentare non esistono le forze politiche, come nel campo della produzione capitalistica non esistono le forze economiche capaci di condurre a compimento un’azione di tal genere. La produzione assume la forma del monopolio accentrato nella banca non per caso, non per ragioni contingenti, non in conseguenza della guerra: è questa la sua tendenza organica, è la sua normalità. Decapitare l’apparecchio di sfruttamento della nazione è impossibile in regime di proprietà privata, in regime di suffragio universale, in regime di democrazia borghese: il programma di governo dell’on. Giolitti, nella migliore delle ipotesi, è una utopia piccolo-borghese; dato l’uomo e il suo passato, è il tentativo di sostituire a un’oligarchia un’altra oligarchia, a un gruppo un altro gruppo.

La crisi in cui si dibatte l’Italia può essere risolta solo dallo Stato operaio. Il proletariato industriale, base dello Stato operaio, supera l’accentramento plutocratico, non lo distrugge: la macchina amministrativa, creata dai capitalisti e dai banchieri per soggiogare e sfruttare le forze produttive del paese, viene espropriata e socializzata dallo Stato operaio, viene rivolta dallo Stato operaio alla liberazione delle forze produttive oggi compresse. La classe operaia è l’unica che abbia interesse a eguagliare realmente le condizioni di lavoro e di produzione dell’agricoltura alle condizioni di lavoro e di produzione industriale, perché la classe operaia si esaurisce e decade fisicamente per la mancanza di viveri; la classe operaia chiamerà la classe contadina a collaborare alla riorganizzazione dello Stato italiano, su basi nuove, originali, sulla fabbrica socializzata, sulla grande azienda agricola socializzata, sul campo non piú sottoposto alla banca e all’usura capitalistica. La Costituente proletaria dovrà decidere su questi problemi vitali, che vengono assunti nelle mani da forze politiche ed economiche reali; l’on. Giolitti vuole una caricatura di Costituente che studi il modo migliore di galvanizzare i cadaveri, che studi ed escogiti il modo migliore di perpetrare l’ultima truffa del ministro della mala vita ai danni della nazione italiana.

Il Consiglio di fabbrica30

La rivoluzione proletaria non è l’atto arbitrario di una organizzazione che si afferma rivoluzionaria o di un sistema di organizzazioni che si affermano rivoluzionarie. La rivoluzione proletaria è un lunghissimo processo storico che si verifica nel sorgere e nello svilupparsi di determinate forze produttive (che noi riassumiamo nell’espressione: «proletariato») in un determinato ambiente storico (che noi riassumiamo nelle espressioni: «modo di proprietà individuale, modo di produzione capitalistico, sistema di fabbrica, modo di organizzazione della società nello Stato democratico-parlamentare»). In una determinata fase di questo processo, le forze produttive nuove non possono piú svilupparsi e sistemarsi in modo autonomo negli schemi ufficiali in cui si svolge la convivenza umana; in questa determinata fase avviene l’atto rivoluzionario, che consiste in uno sforzo diretto a spezzare violentemente questi schemi, diretto a distruggere tutto l’apparecchio di potere economico e politico, in cui le forze produttive rivoluzionarie erano contenute oppressivamente, che consiste in uno sforzo diretto a infrangere la macchina dello Stato borghese e a costituire un tipo di Stato nei cui schemi le forze produttive liberate trovino la forma adeguata per il loro ulteriore sviluppo, per la loro ulteriore espansione, nella cui organizzazione esse trovino il presidio e le armi necessarie e sufficienti per sopprimere i loro avversari.

Il processo reale della rivoluzione proletaria non può essere identificato con lo sviluppo e l’azione delle organizzazioni rivoluzionarie di tipo volontario e contrattualista quali sono il partito politico e i sindacati professionali: organizzazioni nate nel campo della democrazia borghese, nate nel campo della libertà politica, come affermazioni e come sviluppo della libertà politica. Queste organizzazioni, in quanto incarnano una dottrina che interpreta il processo rivoluzionario e ne prevede (entro certi limiti di probabilità storica) lo sviluppo, in quanto sono riconosciute dalle grandi masse come un loro riflesso e un loro embrionale apparecchio di governo, sono attualmente e sempre piú diventeranno gli agenti diretti e responsabili dei successivi atti di liberazione che l’intiera classe lavoratrice tenterà nel corso del processo rivoluzionario. Ma tuttavia esse non incarnano questo processo, esse non superano lo Stato borghese, esse non abbracciano e non possono abbracciare tutto il molteplice pullulare di forze rivoluzionarie che il capitalismo scatena nel suo procedere implacabile di macchina da sfruttamento e da oppressione.

Nel periodo di predominio economico e politico della classe borghese lo svolgimento reale del processo rivoluzionario avviene sotterraneamente, nell’oscurità della fabbrica e nell’oscurità della coscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sue leggi: esso non è controllabile e documentabile, lo sarà in avvenire quando gli elementi che lo costituiscono (i sentimenti, le velleità, le abitudini, i germi di iniziativa e di costume) si saranno sviluppati e purificati con lo svilupparsi della società, con lo svilupparsi della situazione che la classe operaia viene ad occupare nel campo della produzione. Le organizzazioni rivoluzionarie (il partito politico e il sindacato professionale) sono nate nel campo della libertà politica, nel campo della democrazia borghese, come affermazione e sviluppo della libertà e della democrazia in generale, in un campo in cui sussistono i rapporti di cittadino a cittadino: il processo rivoluzionario si attua nel campo della produzione, nella fabbrica, dove i rapporti sono di oppressore a oppresso, di sfruttatore a sfruttato, dove non esiste libertà per l’operaio, dove non esiste democrazia; il processo rivoluzionario si attua dove l’operaio è nulla e vuol diventare tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di morte sull’operaio, sulla donna dell’operaio, sui figli dell’operaio.

Quando noi diciamo che il processo storico della rivoluzione operaia, che è immanente nella convivenza umana in regime capitalista, che ha le leggi in se stesso e si svolge necessariamente per il confluire di una molteplicità di azioni incontrollabili perché create da una situazione che non è voluta dall’operaio e non è prevedibile dall’operaio, quando noi diciamo che il processo storico della rivoluzione operaia è affiorato alla luce, è diventato controllabile e documentabile?

Noi diciamo questo quando tutta la classe operaia è diventata rivoluzionaria, non piú nel significato che essa rifiuta genericamente di collaborare agli istituti di governo della classe borghese, non piú nel senso che essa rappresenta una opposizione nel campo della democrazia, ma nel senso che tutta la classe operaia, quale si ritrova in una fabbrica, inizia un’azione che deve necessariamente sboccare nella fondazione di uno Stato operaio, che deve necessariamente condurre a configurare la società umana in una forma che è assolutamente originale, in una forma universale, che abbraccia tutta l’Internazionale operaia e quindi tutta l’umanità. E noi diciamo che il periodo attuale è rivoluzionario appunto perché constatiamo che la classe operaia, in tutte le nazioni, tende a creare, tende con tutte le sue energie — pur tra gli errori, i tentennamenti, gli impacci propri di una classe oppressa, che non ha esperienza storica, che deve tutto fare originalmente — a esprimere dal suo seno istituti di tipo nuovo nel campo operaio, istituti a base rappresentativa, costruiti entro una schema industriale; noi diciamo che il periodo attuale è rivoluzionario perché la classe operaia tende con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà a fondare il suo Stato. Ecco perché noi diciamo che la nascita dei Consigli operai di fabbrica rappresenta un grandioso evento storico, rappresenta l’inizio di una nuova èra nella storia del genere umano: per essa il processo rivoluzionario è affiorato alla luce, entra nella fase in cui può essere controllato e documentato.

Nella fase liberale del processo storico della classe borghese e della società dominata dalla classe borghese, la cellula elementare dello Stato era il proprietario che nella fabbrica soggioga al suo profitto la classe operaia. Nella fase liberale il proprietario era anche imprenditore, era anche industriale: il potere industriale, la fonte del potere industriale era nella fabbrica, e l’operaio non riusciva a liberare la sua coscienza dalla persuasione della necessità del proprietario, la cui persona si identificava con la persona dell’industriale, con la persona del gestore responsabile della produzione e quindi anche del suo salario, del suo pane, del suo abito, del suo tetto.

Nella fase imperialista del processo storico della classe borghese, il potere industriale di ogni fabbrica si stacca dalla fabbrica e si accentra in un trust, in un monopolio, in una banca, nella burocrazia statale. Il potere industriale diventa irresponsabile e quindi piú autocratico, piú spietato, piú arbitrario: ma l’operaio, liberato dalla soggezione del «capo», liberato dallo spirito servile di gerarchia, spinto anche dalle nuove condizioni generali in cui la società si trova dipendentemente dalla nuova fase storica, l’operaio attua inapprezzabili conquiste di autonomia e di iniziativa.

Nella fabbrica la classe operaia diventa un determinato «strumento di produzione» in una determinata costituzione organica; ogni operaio entra «casualmente» a far parte di questo corpo costituito casualmente per ciò che riguarda la sua volontà, ma non casualmente per ciò che riguarda la sua destinazione di lavoro, poiché egli rappresenta una necessità determinata del processo di lavoro e di produzione e solo per ciò viene assunto, solo per ciò può guadagnarsi il pane: egli è un ingranaggio della macchina-divisione del lavoro, della classe operaia determinatasi in uno strumento di produzione. Se l’operaio acquista coscienza chiara di questa sua «necessità determinata» e la pone a base di un apparecchio rappresentativo a tipo statale (cioè non volontario, contrattualista, per via di tessera, ma assoluto, organico, aderente ad una realtà che è necessario riconoscere se si vuole avere assicurati il pane, il vestito, il tetto, la produzione industriale): se l’operaio, se la classe operaia fa questo, essa fa una cosa grandiosa, essa inizia una storia nuova, essa inizia l’èra degli Stati operai che dovranno confluire alla formazione della società comunista, del mondo organizzato sulla base e sul tipo della grande officina meccanica, della Internazionale comunista nella quale ogni popolo, ogni parte di umanità acquista figura in quanto esercita una determinata produzione preminente e non piú in quanto è organizzata in forma di Stato e ha determinate frontiere.

In quanto costruisce questo apparecchio rappresentativo, in realtà la classe operaia compie l’espropriazione della prima macchina, del piú importante strumento di produzione: la classe operaia stessa, che si è ritrovata, che ha acquistato coscienza della sua unità organica e che unitariamente si contrappone al capitalismo. La classe operaia afferma cosí che il potere industriale, che la fonte del potere industriale deve ritornare alla fabbrica, pone nuovamente la fabbrica, dal punto di vista operaio, come forma in cui la classe operaia si costituisce in corpo organico determinato, come cellula di un nuovo Stato, lo Stato operaio, come base di un nuovo sistema rappresentativo, il sistema dei Consigli. Lo Stato operaio, poiché nasce secondo una configurazione produttiva, crea già le condizioni del suo sviluppo, del suo dissolversi come Stato, del suo incorporarsi organico in un sistema mondiale, l’Internazionale comunista.

Come oggi, nel Consiglio di una grande officina meccanica, ogni squadra di lavorazione (di mestiere) si amalgama, dal punto di vista proletario, con le altre squadre di un reparto, ogni momento della produzione industriale si fonde, dal punto di vista proletario, con gli altri momenti e pone in rilievo il processo produttivo, cosí nel mondo, il carbone inglese si fonde col petrolio russo, il grano siberiano con lo zolfo di Sicilia, il riso del Vercellese col legname della Stiria... in un organismo unico, sottoposto a una amministrazione internazionale che governa la ricchezza del globo in nome dell’intera umanità. In questo senso il Consiglio operaio di fabbrica è la prima cellula di un processo storico che deve culminare nell’Internazionale comunista, non piú come organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, ma come riorganizzazione dell’economia mondiale e come riorganizzazione di tutta la convivenza umana, nazionale e mondiale. Ogni azione attuale rivoluzionaria ha valore, è reale storicamente, in quanto aderisce a questo processo, in quanto è concepita ed è un atto di liberazione di questo processo dalle soprastrutture borghesi che lo costringono e lo inceppano.

I rapporti che devono intercorrere tra il partito politico e il Consiglio di fabbrica, tra il sindacato e il Consiglio di fabbrica risultano già implicitamente da questa esposizione: il partito e il sindacato non devono porsi come tutori o come superstrutture già costituite di questa nuova istituzione, in cui prende forma storica controllabile il processo storico della rivoluzione, essi devono porsi come agenti consapevoli della sua liberazione dalle forze di compressione che si riassumono nello Stato borghese, devono proporsi di organizzare le condizioni esterne generali (politiche) in cui il processo [della] rivoluzione abbia la sua massima celerità, in cui le forze produttive liberate trovino la massima espansione.

Sindacati e Consigli31

Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell’indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione.

Obbiettivamente il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato: questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando sono tecnici) dell’organizzazione, specialisti (quando sono specialisti) nell’arte di concentrare e di guidare le forze operaie in modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso alla classe operaia.

Lo sviluppo dell’organizzazione sindacale è caratterizzato da questi due fatti: 1) il sindacato abbraccia una sempre maggior quantità di effettivi operai, cioè incorpora nella disciplina della sua forma una sempre maggior quantità di effettivi operai; 2) il sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè si stacca dalle masse che ha irreggimentato, si pone fuori dal gioco dei capricci, delle velleità, delle volubilità che sono proprie delle grandi masse tumultuose. Cosí il sindacato diventa capace a contrarre patti, ad assumersi impegni: cosí esso costringe l’imprenditore ad accettare una legalità nei suoi rapporti con l’operaio, legalità che è condizionata dalla fiducia che l’imprenditore ha nella solvibilità del sindacato, dalla fiducia che l’imprenditore ha nella capacità del sindacato di ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi contratti.

L’avvento di una legalità industriale è stata una grande conquista della classe operaia, ma essa non è l’ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma essa non è piú che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia. Se i funzionari dell’organizzazione sindacale considerano la legalità industriale come un compromesso necessario ma non perpetuamente, se essi rivolgono tutti i mezzi di cui il sindacato può disporre per migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia, se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato iniziare un’offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo alla sua legge, allora il sindacato è uno strumento rivoluzionario, allora la disciplina sindacale, pur quando è rivolta a far rispettare dagli operai la legalità industriale, è disciplina rivoluzionaria.

I rapporti che devono intercorrere tra sindacato e Consiglio di fabbrica debbono essere considerati da questo punto di vista: dal giudizio che si dà sulla natura e il valore della legalità industriale.

Il Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la classe operaia la fonte del potere industriale. Il sindacato è un elemento della legalità, e deve proporsi di farla rispettare dai suoi organizzati. Il sindacato è responsabile verso gli industriali, ma è responsabile verso gli industriali in quanto è responsabile verso i suoi organizzati: esso garantisce la continuità del lavoro e del salario, e cioè del pane e del tetto, all’operaio e alla famiglia dell’operaio. Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato, per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata. I rapporti tra le due istituzioni devono tendere a creare una situazione in cui non avvenga che un impulso capriccioso del Consiglio determini un passo indietro della classe operaia, determini una sconfitta della classe operaia, una situazione cioè in cui il Consiglio accetti e faccia propria la disciplina del sindacato, e a creare una situazione in cui il carattere rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul sindacato, sia un reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale.

Il Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale: il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il sindacato, come ufficio responsabile in solido della legalità, tende a universalizzare e perpetuare la legalità. I rapporti tra sindacato e Consiglio devono creare le condizioni in cui l’uscita dalla legalità, l’offensiva della classe operaia, avvenga nel momento piú opportuno per la classe operaia, avvenga quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene indispensabile per vincere durevolmente.

I rapporti tra sindacato e Consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del Consiglio sono organizzati nel sindacato. Ogni tentativo di legare con rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può condurre che all’annientamento di entrambi.

Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la società comunista. Poiché il Consiglio nasce dipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un cozzo tra le due istituzioni. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa sua attività. Alla vita del sindacato partecipa un numero ristrettissimo di organizzati; la forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche una debolezza che non può essere messa alla prova senza gravissimi pericoli.

Se d’altronde il sindacato poggiasse direttamente sui Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire in ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l’azione risolutiva della guerra di classe. Il sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia.

Se gli organizzati stabiliscono nel sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della rivoluzione operaia e non come una servitú verso il capitale, questa disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio, diverrà la forma naturale dell’azione svolta dal Consiglio. Se l’ufficio del sindacato diventa un organismo di preparazione rivoluzionaria, e tale appare alle masse per l’azione che riesce a svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che sviluppa, allora il suo carattere concentrato e assoluto sarà visto dalle masse come una maggiore forza rivoluzionaria, come una condizione in piú (e delle piú importanti) per il successo della lotta impegnata a fondo.

Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa operaia: egli non universalizza l’atto di ribellione dell’operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell’atto che può essere in sé e per sé triviale. Cosí è avvenuto che la storiella dell’«impermeabile del facchino» abbia avuto la stessa diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo stesso modo della storiella sulla «socializzazione delle donne in Russia». In queste condizioni la disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale; in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può essere giudicato che reazionario.

I comunisti, in quanto vogliono che l’atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile, cosciente e responsabile, vogliono che la scelta, per quanto può essere scelta, del momento di scatenare l’offensiva operaia rimanga alla parte piú cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito socialista e che piú attivamente partecipa alla vita dell’organizzazione. Per ciò i comunisti non possono volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica.

I comunisti, costituendosi in gruppi organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le concezioni, le tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la disciplina sindacale e determinarne i fini, devono influenzare le deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia. I comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia, rapporti di compenetrazione e di naturale interdipendenza che vivifichino la disciplina e l’organizzazione con lo spirito rivoluzionario.

Dove va il Partito socialista?32

L’azione diretta delle masse non può essere che eminentemente distruttiva. Se le masse raccolgono una parola d’ordine che le indirizza all’esercizio del controllo sull’attività pubblica e privata della classe capitalistica, la loro azione non può che giungere fino alla distruzione completa di tutta la macchina statale. Il proletariato ha raccolto la parola d’ordine: bisogna controllare i traffici perché non partano armi e munizioni destinate ai nemici della rivoluzione russa, perché non partano merci destinate all’Ungheria dei magnati terrieri, perché non avvengano movimenti di truppe destinate a riaccendere la guerra nei Balcani e in tutta Europa; era ineluttabile che si arrivasse fino ai fatti di Ancona, fino all’insurrezione armata.

L’azione diretta delle masse operaie è rivoluzionaria appunto perché eminentemente distruttiva. Poiché la classe operaia non ha nessun potere sul governo industriale, è naturale riveli l’acquistata potenza economica tentando distruggere la disciplina industriale e tutta la disciplina industriale; poiché la classe operaia occupa nell’esercito la stessa posizione che occupa nella fabbrica, poiché tanto nella fabbrica come nell’esercito la classe operaia deve subire una disciplina e una legge che non ha contribuito a stabilire, è naturale che essa tenda a distruggere la disciplina dell’esercito, e a distruggerla completamente; poiché tutto l’apparecchio dello Stato borghese è completamente estraneo ed ostile alle masse proletarie, è naturale che ogni azione rivolta a controllare direttamente l’attività governativa giunga fino alla distruzione completa dell’apparecchio di Stato borghese, fino all’insurrezione armata.

I comunisti sono ben persuasi che cosí debba avvenire, che non possa avvenire altrimenti di cosí; perciò i comunisti non hanno paura dell’azione diretta delle masse e delle distruzioni che ineluttabilmente essa porta con sé. Si ha paura dell’imprevedibile e dell’imprevisto, non di ciò che si attende come una necessità e che si cerca di promuovere: che si cerca di promuovere per essere in grado di dominare la realtà che si prevede sia per scaturirne, per ottenere che la distruzione contenga già coscientemente gli elementi e la volontà di ricostruzione, per ottenere che la violenza non sia sterile scatenamento di furori ciechi, ma sia potenza economica e politica che libera se stessa e pone le condizioni del suo sviluppo.

La parola d’ordine per il controllo dell’attività governativa ha portato agli scioperi ferroviari, agli scioperi generali scaturiti dagli scioperi ferroviari, ha portato all’insurrezione di Ancona. Poiché la Confederazione generale del lavoro (idest il facente funzione di segretario) ha sul controllo operaio una concezione da giardiniere inglese, poiché la Confederazione generale del lavoro vuole un controllo operaio ben educato, che rispetti la libertà, l’ordine e la democrazia, la Confederazione ha subito diramato questa circolare: «Per l’Ungheria e per la Russia dobbiamo far quel che si può (!?!) e non quello che si desidererebbe. Ci sembra che lo spiombamento di tutti i carri sia, oltre che difficile praticamente, tale da portare conseguenze (!) e complicazioni (!?!). La vostra azione perciò deve essere limitata al possibile, a tutto il possibile evitando complicazioni». L’economia precede la politica; poiché i riformisti e gli opportunisti hanno in mano tutto il congegno del movimento sindacale italiano, i riformisti e gli opportunisti hanno in mano la potenza del Partito socialista, impongono al Partito l’indirizzo e la tattica: l’azione del Partito si è afflosciata, i movimenti di massa hanno servito al gruppo parlamentare per mietere trionfi su trionfi, hanno servito ai deputati riformisti per consolidare la loro posizione e per rendere piú agevole, e quindi piú carica di allori, una salita al potere governativo. Cosí avviene, per l’incapacità politica dei componenti la direzione, che il Partito socialista italiano perda ogni giorno piú della sua forza e del suo potere organizzativo sulle masse, cosí è avvenuto che il Congresso anarchico di Bologna abbia avuta tanta importanza per le masse proletarie, cosí avverrà, se i gruppi comunisti non reagiscono energicamente, che il Partito finirà col perdere ogni controllo sulle masse, e queste, non avendo nessuna guida, saranno, dallo svolgersi degli avvenimenti, cacciate in una situazione peggiore di quella delle masse proletarie di Austria e di Germania.

Noi dell’Ordine Nuovo e i socialisti torinesi in genere siamo stati presentati al proletariato italiano, dopo il movimento dell’aprile, come una razzamaglia di frenetici, di scalmanati e di indisciplinati. Poiché i dirigenti degli uffici centrali non si occupano di quanto succede tra gli industriali e di quanto succede tra gli operai, poiché essi vedono la storia come svolgentesi per opera di astrazioni ideologiche (le classi in genere, il partito in genere, l’umanità in genere) e non per opera degli uomini reali che si chiamano Pietro, Paolo, Giovanni e sono quello che sono realmente, e non per opera delle comunità urbane e rurali determinate nello spazio e nel tempo, che mutano (e rapidamente mutano nel periodo attuale) col mutare di luoghi e col volgere dei mesi e anche delle settimane, cosí questi dirigenti non prevedono nulla, e sono portati a scorgere una coda di diavolo in ogni evento, e sono portati a scaricarsi della loro responsabilità storica sulle spalle dei moltiplicatisi gruppi di indisciplinati e di anarcoidi. Intanto la sezione socialista torinese ha avuto il merito di impostare un’azione per togliere ai riformisti il controllo del movimento sindacale, prevedendo (facile previsione) che nei momenti supremi i capi sindacalisti avrebbero sabotato la volontà del Partito e delle masse: questa azione non ha avuto i risultati che avrebbe dovuto avere per l’intervento proprio... della direzione del Partito. La sezione torinese, accusata di indisciplina dopo il movimento dell’aprile, aveva prima del movimento preparato la sua relazione al Consiglio nazionale nella quale biasimava aspramente la direzione per non aver dedicato nessuna cura all’organizzazione rivoluzionaria e allo stabilirsi di una disciplina fortemente accentrata e responsabile. Purtroppo la relazione della sezione torinese è ancora oggi di attualità; gli ultimi avvenimenti sono la ripetizione aggravata degli avvenimenti torinesi dell’aprile. È diventato di attualità piú di quanto avessimo potuto credere, anche questo paragrafo: «Il partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l’azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra; se il Partito non realizza l’unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche, che appunto aspramente e incessantemente criticano l’accentramento e il funzionarismo dei partiti politici».

Manca al Partito l’organizzazione e la propaganda per l’organizzazione rivoluzionaria, che aderisca alla configurazione delle masse proletarie nelle fabbriche, nelle caserme, negli uffici e sia in grado di inquadrare le masse ad ogni sussulto rivoluzionario. Il Partito, in quanto non cerca di fondersi vitalmente con le masse proletarie, continua a conservare, nelle sue assemblee che si riuniscono saltuariamente e non possono controllare con efficacia l’azione dei capi sindacalisti, la figura di un partito meramente parlamentare, che ha paura dell’azione diretta perché piena di imprevisti, che è costretto ogni giorno piú a far passi indietro e a permettere la rinascita del piú bolso e piatto riformismo e della piú scempia propaganda collaborazionista.

Uno sforzo immane deve essere compiuto dai gruppi comunisti del Partito socialista, che è quello che è, in ultima analisi, perché l’Italia è nel suo complesso un paese economicamente arretrato. La parola d’ordine: «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» deve essere la parola d’ordine di ogni comunista consapevole degli sforzi e dei sacrifizi che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia.

La Russia, potenza mondiale33

Lo Stato operaio, secondo l’energica definizione di Lenin, è uno Stato borghese senza la borghesia. Lo Stato operaio deve risolvere, all’interno come all’estero, gli stessi problemi di uno Stato borghese e non può risolverli con sistemi e con mezzi tecnici sostanzialmente molto diversi da quelli adoperati da uno Stato borghese. Lo Stato operaio russo ha risolto all’interno i fondamentali problemi della sua esistenza e del suo sviluppo: che li abbia risolti appare, in modo vistoso, dall’efficienza, e dalla combattività del suo esercito. L’esercito è l’espressione «fisiologicamente» piú tipica della reale forza di un organismo sociale: non può concepirsi Stato senza esercito, non può concepirsi esercito disciplinato, valoroso, ricco di iniziativa bellica, se non come funzione di uno Stato saldamente fondato, sorretto dalla volontà permanente e dal permanente spirito di disciplina e di sacrifizio della popolazione. La classe operaia è in Russia una piccola minoranza della popolazione, ma essa era ed è la sola classe sociale storicamente preparata ad assumere e a mantenere il potere, la sola classe capace, attraverso il suo partito politico, il Partito comunista, di costruire uno Stato. La classe operaia russa era ed è storicamente forte e matura, non in quanto i suoi componenti corrispondono numericamente alla maggioranza della popolazione, ma in quanto, attraverso il suo partito politico, essa si dimostra capace di costruire uno Stato, in quanto cioè la classe operaia riesce a convincere la maggioranza della popolazione, costituita dagli informi strati delle classi medie, delle classi intellettuali, delle classi contadinesche, che i suoi interessi immediati e futuri coincidono con gli interessi della maggioranza stessa; su questo convincimento, divenuto coscienza diffusa della società, si fonda appunto lo Stato, si fonda il consenso nazionale alle iniziative e alle azioni del potere operaio, si fonda la disciplina e lo spirito di gerarchia. Gerarchia? Sí, gerarchia; il potere operaio è la fondazione di una nuova gerarchia delle classi sociali; gli intellettuali, i contadini, tutte le classi medie, riconoscono nella classe operaia la fonte del potere di Stato, riconoscono la classe operaia come classe dirigente; interrogate nei suffragi, per gli istituti rappresentativi, scelgono i deputati nel partito della classe operaia, nel Partito comunista queste classi dànno le masse di fanteria e di cavalleria all’esercito rosso che difende lo Stato dalle aggressioni esterne, dànno le masse di manovali all’esercito del lavoro che combatte contro il freddo e la fame, dànno i tecnici per l’industria e l’agricoltura, dànno i tecnici dell’arte militare, tutte queste classi contribuiscono a dare vita alle diverse funzioni dell’apparecchio statale della nazione russa, che è in mano alla classe operaia e non piú in mano ai capitalisti. Ecco il fondamentale problema storico che ha risolto la classe operaia russa, ecco perché la classe operaia russa ha dimostrato di essere storicamente matura, di essere la depositaria dei destini del popolo russo: la classe operaia russa ha organizzato la società russa, in tutti i suoi diversi strati, e l’ha organizzata in modo che gli sforzi comuni, i sacrifizi comuni, le volontà comuni fossero rivolti a un fine unico, all’attuazione del programma operaio, divenuto idea e missione dello Stato.

Solo Stato operaio nel mondo, circondato da una muta feroce di implacabili nemici, la Russia dei Soviet doveva risolvere un secondo problema esistenziale: fissare la sua posizione nel sistema mondiale delle potenze. Lo Stato operaio russo ha risolto oggi questo problema e lo ha risolto, con i mezzi e i sistemi con cui lo avrebbe risolto uno Stato borghese: con la forza militare, vincendo una guerra. Non poteva fare altrimenti, nessun altro Stato operaio avrebbe potuto e potrà fare altrimenti. L’esercito rosso ha disfatto la Polonia; le potenze capitaliste non hanno potuto aiutare la Polonia, hanno dovuto lasciare che la disfatta polacca avvenisse, hanno dovuto subire l’umiliazione, hanno dovuto convenire di essere incapaci a far marciare i loro eserciti, hanno dovuto riconoscere di non avere un esercito, di non avere il consenso delle masse umane governate, di essere solo vuote e inanimate organizzazioni burocratiche, senza autorità, senza prestigio. La Russia dei Soviet è diventata cosí potenza mondiale, è diventata la piú grande delle potenze mondiali, tale da equilibrare con il suo peso e la sua statura storica tutto il sistema capitalistico mondiale. La Russia, con la sua vittoria militare, per la virtú del suo esercito, si è posta a capo, sulla scala mondiale, del sistema di potenze reali che lottano contro il capitalismo egemonico: essa incarna la ribellione delle classi operaie contro i loro sfruttatori ed è sostenuta dalle classi operaie esplicitamente; essa incarna la sofferenza e la fame delle nazioni vinte nella guerra mondiale, incarna la vendetta delle nazioni vincitrici militarmente, ma disfatte economicamente, incarna l’insurrezione delle colonie dissanguate dalle metropoli, incarna tutto l’informe conglomerato di ribellioni contro lo sfruttamento egemonico del capitalismo; essa riproduce su scala mondiale la stessa gerarchia di valori sociali che ha attuato all’interno del suo Stato, essa realizza su scala mondiale un momento della dittatura proletaria su tutte le classi medie della società umana per lo schiacciamento della classe capitalista, antagonista del proletariato!

La guerra mondiale, vinta dall’Intesa, avrebbe dovuto, con la pace di Versailles e con la Lega delle Nazioni, instaurare un regime di monopolio sul globo; al sistema di equilibrio e di concorrenza fra gli Stati doveva succedere una incontrastata egemonia. La Russia dei Soviet, acquistando la posizione di grande potenza, ha infranto il sistema egemonico, ha riportato il principio della lotta tra gli Stati, ha impostato su una scala mondiale, in una forma assolutamente impreveduta per il pensiero socialista, la lotta della Internazionale operaia contro il capitalismo.

Il programma dell’«Ordine Nuovo»34

I

Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso, in tre, o quattro, o cinque (e di quelle nostre discussioni e deliberazioni devono ancora esistere, perché furono compilati e trascritti in bella copia, i verbali, sissignori, proprio i verbali... per la storia!), di iniziare la pubblicazione di questa rassegna Ordine Nuovo, nessuno di noi (forse nessuno...) pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo nella storia. Nessuno di noi (forse nessuno: qualcuno fantasticava di 6.000 abbonati in qualche mese) accarezzava illusioni rosee sulla buona riuscita dell’impresa. Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell’ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè! L’unica parola nuova, che fosse stata pronunziata in quelle riunioni fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: «Bisogna studiare l’organizzazione della fabbrica come strumento di produzione: dobbiamo consacrare tutta la nostra attenzione ai sistemi capitalistici di produzione e di organizzazione e dobbiamo lavorare per far convergere l’attenzione della classe operaia e del Partito su questo oggetto». Fu detto, da un altro che si preoccupava dell’organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della psicologia della classe operaia: «Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino?». Quell’altro, che era stato impressionato da questa domanda rivoltagli a bruciapelo da un compagno polacco: «Perché non si è mai tenuto in Italia un congresso delle Commissioni interne?», rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande: «Sí, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la Commissione interna; studiamo questa istituzione operaia, facciamo un’inchiesta, studiamo pure la fabbrica capitalista, ma non come organizzazione della produzione materiale, ché dovremmo avere una cultura specializzata che non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalista come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell’autogoverno operaio». Quella parola era nuova; essa fu respinta proprio dal compagno Tasca.

Cosa voleva il compagno Tasca? Egli voleva che non si iniziasse nessuna propaganda direttamente tra le masse operaie, egli voleva un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati, egli voleva che si promovesse un convegno con questi segretari, e si costruisse un piano per una azione ufficiale; il gruppo dell’Ordine Nuovo sarebbe stato cosí ridotto al livello di una cricca irresponsabile di presuntuosi e di mosche cocchiere. Quale fu dunque il programma reale dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Il programma fu l’assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti. Quale fu l’idea dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato. Cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura», e, dico, cosa intendeva concretamente, non astrattamente? Ecco cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura»: intendeva «ricordare», non intendeva «pensare», e intendeva «ricordare» cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio; intendeva far conoscere alla classe operaia italiana, «ricordare» per la buona classe operaia italiana, che è cosí arretrata, che è cosí rozza e incolta, ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensamenti sull’organizzazione del lavoro, e che tali pensamenti hanno dato luogo a esperienze reali; «ricordare» che Eugenio Fournière ha compilato un accurato componimento scolastico per scodellare caldo caldo (o freddo freddo) uno schema di Stato socialista; «ricordare», con lo spirito di Michelet (o del buon Luigi Molinari), la Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i comunisti russi, sulle tracce di Marx, ricongiungono il Soviet, il sistema dei Soviet, alla Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i rilievi di Marx sul carattere «industriale» della Comune erano serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare l’idea del Soviet, per tracciare la linea d’azione del loro Partito, divenuto partito di governo. Cosa fu l’Ordine Nuovo nei primi numeri? Fu un’antologia, nient’altro che un’antologia; fu una rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l’Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l’azione. Questo fu l’Ordine Nuovo quale fu varato in seguito alle riunioni che tenemmo nell’aprile 1919, riunioni debitamente verbalizzate, riunioni nelle quali il compagno Tasca respinse, come non conformista alle buone tradizioni della morigerata e pacifica famigliola socialista italiana, la proposta di consacrare le nostre energie a «scoprire» una tradizione soviettista nella classe operaia italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano; reale perché coincidente con uno spirito universale dell’Internazionale operaia, perché prodotto di una situazione storica reale, perché risultato di una elaborazione della classe operaia stessa.

Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle Commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna; qualche sera prima di scrivere l’articolo avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell’articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica; l’articolo, per il consenso di Terracini, con la collaborazione di Togliatti, fu pubblicato e successe quanto era stato da noi previsto: fummo, io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle Commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della Commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della «libertà» proletaria. L’Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, «il giornale dei Consigli di fabbrica»; gli operai amarono l’Ordine Nuovo (questo possiamo affermarlo con intima soddisfazione), e perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell’Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: «Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?» Perché gli articoli dell’Ordine Nuovonon erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli dell’Ordine Nuovo erano quasi un «prendere atto» di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo ed ecco come si «formò» l’idea dell’Ordine Nuovo. Il compagno Tasca non collaborò per nulla a questa formazione, a questa elaborazione; l’Ordine Nuovo sviluppò la propria idea all’infuori della sua volontà e del suo «contributo» alla rivoluzione. In ciò io trovo la spiegazione del suo atteggiamento odierno e del «tono» della sua polemica; egli non ha lavorato faticosamente per raggiungere la «sua concezione» e non mi meraviglia che essa sia nata sconciamente, perché non amata, e non mi meraviglia che egli con tanta rozzezza abbia trattato l’argomento e con tanta sconsideratezza e assenza di disciplina interiore sia entrato nell’azione, per ridarle quel carattere ufficiale che aveva sostenuto e verbalizzato un anno prima.

II

Nella puntata precedente ho cercato di determinare l’origine della posizione mentale del compagno Tasca verso il programma dell’Ordine Nuovo, programma che si era venuto organizzando, conseguentemente alla esperienza reale da noi fatta delle necessità spirituali e pratiche della classe operaia, intorno al problema centrale dei Consigli di fabbrica. Poiché il compagno Tasca non ha partecipato a questa esperienza, poiché egli era anzi ostile a che essa si facesse, il problema dei Consigli di fabbrica gli è sfuggito nei suoi termini storici reali e nello sviluppo organico, che pur attraverso qualche esitazione e qualche comprensibile sbaglio, esso era venuto assumendo nella trattazione svolta da me, da Togliatti e dagli altri compagni che vollero aiutarci: per il Tasca il problema dei Consigli di fabbrica fu semplicemente un problema nel senso aritmetico della parola, fu il problema del come organizzare immediatamente tutta la classe degli operai e contadini italiani. In una delle sue puntate polemiche il Tasca scrive di considerare in uno stesso piano il Partito comunista, il sindacato e il Consiglio di fabbrica; in un altro punto dimostra di non aver capito il significato dell’attributo «volontario» che l’Ordine Nuovo dà alle organizzazioni di Partito e di sindacato a differenza del Consiglio di fabbrica, che viene assunto come una forma di associazione «storica», del tipo che oggi può essere paragonato solo con quello dello Stato borghese. Secondo la concezione svolta nell’Ordine Nuovo, concezione che, per essere tale, era organizzata intorno a un’idea, all’idea di libertà (e concretamente, nel piano della creazione storica attuale, intorno all’ipotesi di una azione autonoma rivoluzionaria della classe operaia), il Consiglio di fabbrica è un istituto di carattere «pubblico», mentre il Partito e il sindacato sono associazioni di carattere «privato». Nel Consiglio di fabbrica l’operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a far parte dello Stato democratico parlamentare. Nel Partito e nel sindacato l’operaio entra a far parte «volontariamente», firmando un impegno scritto, firmando un «contratto», che egli può stracciare in ogni momento: il Partito e il sindacato, per questo loro carattere di «volontarietà», per questo loro carattere «contrattualista», non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio, istituto rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente, e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell’apparecchio di produzione e di scambio creato dalcapitalismo ai fini del profitto. Lo sviluppo delle forme superiori dell’organizzazione dei Consigli non era perciò dall’Ordine Nuovo indicato con la terminologia politica propria delle società divise in classi, ma con accenni all’organizzazione industriale. Il sistema dei Consigli non può, secondo la concezione svolta dall’Ordine Nuovo, esser espresso con la parola «federazione» o di simile significato, ma può essere rappresentato solo trasportando a tutto un centro industriale il complesso di rapporti industriali che in una fabbrica lega una squadra di lavorazione a un’altra squadra, un reparto a un altro reparto. L’esempio di Torino era per noi plastico, e perciò in un articolo Torino fu assunta come fucina storica della rivoluzione comunista italiana. In una fabbrica, gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso) è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dell’oggetto fabbricato. Tutti gli operai di una fabbrica di automobili, siano essi metallurgici, siano muratori, elettricisti, falegnami ecc., assumono il carattere e la funzione di produttori in quanto sono ugualmente necessari e indispensabili alla fabbricazione dell’automobile, in quanto, ordinati industrialmente, costituiscono un organismo storicamente necessario e assolutamente inscindibile. Torino si è storicamente sviluppata, come città, in questo modo: per il trasporto della capitale a Firenze e a Roma, e per il fatto che lo Stato italiano si è costituito inizialmente come dilatazione dello Stato piemontese, Torino è stata privata della classe piccolo-borghese, i cui elementi dettero il personale al nuovo apparecchio italiano. Ma il trasporto della capitale e questo depauperamento súbito di un elemento caratteristico delle città moderne, non determinarono un decadimento della città; essa anzi riprese a svilupparsi e il nuovo sviluppo avvenne organicamente a mano a mano che si sviluppava l’industria meccanica, il sistema di fabbriche della Fiat. Torino aveva dato al nuovo Stato la sua classe di intellettuali piccolo-borghesi; lo sviluppo dell’economia capitalistica, rovinando la piccola industria e l’artigianato della nazione italiana, fece affluire a Torino una massa proletaria compatta, che dette alla città la sua figura attuale, forse una delle piú originali di tutta Europa. La città assunse e mantiene una configurazione accentrata e organizzata naturalmente intorno a una industria che «governa» tutto il movimento urbano e ne regola gli sbocchi: Torino è la città dell’automobile, allo stesso modo che il Vercellese è l’organismo economico caratterizzato dal riso, il Caucaso dalpetrolio, la Galles del Sud dal carbone ecc. Come in una fabbrica gli operai assumono una figura, ordinandosi per la produzione di un determinato oggetto che unisce e organizza lavoratori del metallo e del legno, muratori, elettricisti ecc., cosí nella città la classe proletaria assume una figura dall’industria prevalente, che ordina e governa per la sua esistenza tutto il complesso urbano. Cosí, su scala nazionale, un popolo assume figura dalla sua esportazione, dal contributo reale che dà alla vita economica del mondo.

Il compagno Tasca, lettore molto disattento dell’Ordine Nuovo, non ha afferrato nulla di questo svolgimento teorico, che del resto non era che una traduzione per la realtà storica italiana, delle concezioni svolte dal compagno Lenin in alcuni scritti pubblicati dallo stesso Ordine Nuovo, e delle concezioni del teorico americano dell’associazione sindacalista rivoluzionaria degli IWW, il marxista Daniel De Leon. Il compagno Tasca infatti, a un certo punto, interpreta in un senso meramente «commerciale» e contabile la rappresentazione dei complessi economici di produzione espressa con le parole «riso», «legno», «zolfo», ecc.; in un altro punto si domanda quale rapporto mai debba intercorrere tra i Consigli; in un terzo punto trova nella concezione proudhoniana dell’officina che distrugge il governo l’origine dell’idea svolta nell’Ordine Nuovo, quantunque nello stesso numero del 5 giugno, in cui erano stampati l’articolo Il Consiglio di fabbrica e il commento al Congresso camerale, fosse riprodotto anche un estratto dello scritto sulla Comune parigina, dove Marx esplicitamente accenna al carattere industriale della società comunista dei produttori. In questa opera del Marx, il De Leon e Lenin hanno trovato i motivi fondamentali delle loro concezioni; su questi elementi erano stati preparati ed elaborati gli articoli dell’Ordine Nuovo che, ancora una volta e precisamente per il numero dal quale ebbe origine la polemica, il compagno Tasca dimostrò di leggere molto superficialmente e senza nessuna intelligenza della sostanza ideale e storica.

Non voglio ripetere, per i lettori di questa polemica, tutti gli argomenti già svolti per sviluppare l’idea della libertà operaia che si attua inizialmente nel Consiglio di fabbrica. Ho voluto solo accennare ad alcuni motivi fondamentali per dimostrare come sia sfuggito al compagno Tasca l’intimo processo di sviluppo del programma dell’Ordine Nuovo. In una appendice che seguirà a questi due brevi articoli, analizzerò alcuni punti dell’esposizione fatta da Tasca, in quanto mi pare opportuno chiarirli e dimostrare la loro inconsistenza. Un punto bisogna però subito chiarire, laddove il Tasca parlando del capitale finanziario scrive che il capitale «spicca il volo», si stacca dalla produzione e si libra... Tutto questo pasticcio dello spiccare il volo e del librarsi della... carta moneta non ha nessun richiamo con lo svolgimento della teoria dei Consigli di fabbrica; noi abbiamo rilevato che la persona del capitalista si è staccata dal mondo della produzione, non il capitale, sia pure esso finanziario; abbiamo rilevato che la fabbrica non è piú governata dalla persona del proprietario, ma dalla banca attraverso una burocrazia industriale che tende a disinteressarsi della produzione allo stesso modo che il funzionario statale si disinteressa dell’amministrazione pubblica. Questo spunto ci serví per un’analisi storica dei nuovi rapporti gerarchici che sono venuti stabilendosi nella fabbrica, e per fissare l’avvento di una delle piú importanti condizioni storiche dell’autonomia industriale della classe operaia, la cui organizzazione di fabbrica tende a incorporarsi il potere di iniziativa sulla produzione. L’affare del «volo» e del «libramento» è una fantasia alquanto infelice del compagno Tasca, che, mentre si riferisce a una sua recensione del libro di Arturo Labriola sul Capitalismo pubblicata dal Corriere Universitario, per dimostrare di essersi «occupato» della quistione del capitale finanziario (da notare che il Labriola sostiene appunto una tesi opposta a quella dello Hilferding, che divenne poi la tesi dei bolscevichi), nei fatti dimostra di non averne compreso assolutamente nulla e di aver costruito un castelluccio su vaghe reminiscenze e su vuote parole.

La polemica ha servito a dimostrare che gli appunti mossi da me alla relazione Tasca erano fondatissimi: il Tasca aveva una superficiale infarinatura sul problema dei Consigli, e aveva solo una smania invincibile di tirar fuori una «sua» concezione, di iniziare una «sua» azione, di aprire una nuova èra nel movimento sindacale.

Il commento al Congresso camerale e al fatto dell’intervento del compagno Tasca per determinare il voto di una mozione con carattere esecutivo, era stato dettato dalla volontà di mantenere integralmente il programma della rassegna. I Consigli di fabbrica hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le rappresentanze operaie siano emanazione diretta delle masse e siano legate alla massa da un mandato imperativo: l’intervento a un congresso operaio del compagno Tasca, come relatore, senza mandato di nessuno, su un problema che interessa tutta la massa operaia, e la cui soluzione imperativa avrebbe dovuto legare la massa, era talmente in contrasto con l’indirizzo ideale dell’Ordine Nuovo, che il commento, nella sua forma aspra, era perfettamente giustificato ed era assolutamente doveroso.

Il giudizio di Lenin35

Nella sua lettera, pubblicata in un’altra parte del giornale, il compagno D. R. accenna alla tesi in cui il compagno Lenin esprime la sua solidarietà col movimento torinese e con l’Ordine Nuovo. Ecco le parole del compagno Lenin:

«Per ciò che riguarda il Partito socialista italiano, il II Congresso della III Internazionale trova fondamentalmente giuste la critica di questo partito e le proposte pratiche, che sono state pubblicate, come indirizzo della sezione torinese al Consiglio del Partito socialista italiano, nel giornale l’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920 e che corrispondono integralmente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale. Per queste ragioni il II Congresso della III Internazionale prega il Partito socialista italiano di convocare al piú presto un congresso straordinario per esaminare queste proposte e tutte le decisioni dei due congressi dell’Internazionale comunista, particolarmente in merito al gruppo parlamentare e agli elementi non comunisti del Partito».

La relazione che la sezione socialista di Torino aveva preparato per il Consiglio nazionale dell’aprile che era convocato a Torino e fu all’ultimo momento trasferito a Milano, non è conosciuta che dai lettori dell’Ordine Nuovo e dai pochi lettori dell’opuscolo Per un rinnovamento del Partito socialista italiano: essa non fu presa in nessuna considerazione dagli organismi centrali e responsabili del Partito. Letta a Mosca dai compagni del comitato esecutivo della III Internazionale, essa venne invece assunta come base del giudizio sul Partito socialista italiano e additata come oggetto di utile discussione per un congresso straordinario. La relazione era stata scritta nei primi giorni dello sciopero dei metallurgici torinesi, quando ancora lo sciopero generale non si prospettava ad alcuno nemmeno come una possibilità: era un riflesso dello stato d’animo di preoccupazione e di sgomento che in quei giorni tormentava la commissione esecutiva della sezione, che tutto aveva tentato, ma inutilmente, per far convergere l’attenzione del Partito sugli avvenimenti in corso di sviluppo, e sperava dal Consiglio nazionale una maggior comprensione e una piú viva intuizione della necessità del movimento proletario italiano; essa è purtroppo d’attualità oggi ancora. Gli avvenimenti allora si svolsero secondo la volontà dei capitalisti e la classe operaia torinese fu sconfitta; a nulla valsero gli sforzi compiuti dalla sezione torinese per ottenere che il Partito si ponesse a capo del movimento, la sezione fu accusata di indisciplina, di leggerezza, di... anarchismo. Ogni discussione fu sistematicamente evitata; discutere la relazione al Consiglio, scritta e a conoscenza del Partito prima che lo sciopero dei metallurgici diventasse sciopero generale piemontese, quando cioè un intervento energico degli organismi centrali era ancora possibile e poteva essere decisivo, avrebbe significato rivedere i giudizi e le accuse, avrebbe significato fare una «brutta figura» dinanzi alle masse.

Cose passate... Avvenimenti che paiono oggi lontanissimi. Corre voce che alcuni dei piú accaniti contro i «torinesi» abbiano completamente mutato parere. E tuttavia, per il ricordo delle giornate di passione vissute nell’aprile scorso, fa piacere a noi, come farà indubbiamente piacere a tutti i compagni della sezione e alla massa operaia, essere informati che il giudizio del Comitato esecutivo della III Internazionale è molto diverso da quello, che pareva inappellabile, dei maggiori esponenti italiani del Partito; essere informati che proprio il giudizio dei «quattro scalmanati» torinesi ha avuto il suffragio dell’autorità piú alta del movimento operaio internazionale.

Il Partito comunista36

I

Dopo il Sorel è divenuto luogo comune riferirsi alle primitive comunità cristiane per giudicare il movimento proletario moderno. Occorre subito dire che il Sorel non è in modo alcuno responsabile della grettezza e della rozzezza spirituale dei suoi ammiratori italiani, come Carlo Marx non è responsabile delle assurde pretese ideologiche dei «marxisti». Sorel è, nel campo della ricerca storica, un «inventore», egli non può essere imitato, egli non pone al servizio dei suoi aspiranti discepoli un metodo che possa sempre e da tutti applicarsi meccanicamente con risultati di scoperte intelligenti. Per il Sorel, come per la dottrina marxista, il cristianesimo rappresenta una rivoluzione nella pienezza del suo sviluppo, una rivoluzione cioè che è giunta fino alle sue estreme conseguenze, fino alla creazione di un nuovo ed originale sistema di rapporti morali, giuridici, filosofici, artistici, assumere questi risultati come schemi ideologici di ogni rivoluzione, ecco il rozzo e inintelligente tradimento della intuizione storica soreliana, la quale può dare solo origine a una serie di ricerche storiche sui «germi» di una civiltà proletaria che devono esistere, se è vero (come è vero per il Sorel) che la rivoluzione proletaria è immanente nel seno della società industriale moderna, e se è vero che anche da essa risulterà una regola di vita originale e un sistema di rapporti assolutamente nuovi, caratteristici della classe rivoluzionaria. Che significato può dunque avere l’affermazione che, a differenza dei primi cristiani, gli operai non sono casti, non sono temperanti, non sono originali nel loro metodo di vita? A parte la generalizzazione dilettantesca, per cui gli «operai metallurgici torinesi» ti diventano un’accozzaglia di bruti, che ogni giorno mangiano un pollo arrosto, che ogni notte si ubbriacano nei postriboli, che non amano la famiglia, che ricercano nel cinematografo e nell’imitazione scimmiesca delle abitudini borghesi la soddisfazione dei loro ideali di bellezza e di vita morale — a parte questa generalizzazione dilettantesca e puerile, l’affermazione non può affatto diventare presupposto di un giudizio storico: essa equivarrebbe, nell’ordine dell’intelligenza storica, a quest’altra: poiché i cristiani moderni mangiano polli, vanno a donne, si ubbriacano, dicono falso testimonio, sono adulteri ecc. ecc., perciò è una leggenda che siano esistiti gli asceti, i martiri, i santi. Ogni fenomeno storico, insomma, deve essere studiato per i suoi caratteri peculiari, nel quadro della attualità reale, come sviluppo della libertà che si manifesta in finalità, in istituti, in forme che non possono essere assolutamente confuse e paragonate (altro che metaforicamente) con la finalità, gli istituti, le forme dei fenomeni storici passati. Ogni rivoluzione, la quale, come la cristiana e come la comunista, si attua e può solo attuarsi con un sommovimento delle piú profonde e vaste masse popolari, non può che spezzare e distruggere tutto il sistema esistente di organizzazione sociale; chi può immaginare e prevedere le conseguenze immediate che provocherà l’apparizione nel campo della distruzione e della creazione storica delle sterminate moltitudini che oggi non hanno volontà e potere? Esse, perché non hanno mai «voluto e potuto», pretenderanno vedere materializzati in ogni atto pubblico e privato la volontà e il potere conquistato; esse troveranno misteriosamente ostile tutto l’esistente e vorranno distruggerlo dalle fondamenta; ma appunto per questa immensità della rivoluzione, per questo suo carattere di imprevedibilità e di sconfinata libertà, chi può arrischiare anche una sola ipotesi definitiva sui sentimenti, sulle passioni, sulle iniziative, sulle virtú che si foggeranno in una tale fucina incandescente? Ciò che oggi esiste, ciò che oggi noi vediamo, all’infuori della nostra volontà e della nostra forza di carattere, quali mutamenti potrà subire? Ogni giorno di una tale intensa vita non sarà una rivoluzione? Ogni mutamento nelle coscienze individuali, in quanto ottenuto simultaneamente per tutta l’ampiezza della massa popolare, non avrà risultati creativi inimmaginabili?

Niente può essere preveduto, nell’ordine della vita morale e dei sentimenti, partendo dalle constatazioni attuali. Un solo sentimento, divenuto ormai costante, tale da caratterizzare la classe operaia, è dato oggi verificare: quello della solidarietà. Ma la intensità e la forza di questo sentimento possono essere solo valutate come sostegno della volontà di resistere e di sacrificarsi per un periodo di tempo che anche la scarsa capacità popolare di previsione storica riesce, con una certa approssimazione, a commisurare; esse non possono essere valutate, e quindi assunte come sostegno della volontà storica per il periodo della creazione rivoluzionaria e della fondazione della società nuova, quando sarà impossibile fissare ogni limite temporale nella resistenza e nel sacrifizio, poiché il nemico da combattere e da vincere non sarà piú fuori del proletariato, non sarà piú una potenza fisica esterna limitata e controllabile, ma sarà nel proletariato stesso, nella sua ignoranza, nella sua pigrizia, nella sua massiccia impenetrabilità alle rapide intuizioni, quando la dialettica della lotta delle classi si sarà interiorizzata e in ogni coscienza l’uomo nuovo dovrà, in ogni atto, combattere il «borghese» agli agguati. Perciò il sindacato operaio, organismo che realizza e disciplina la solidarietà proletaria, non può essere motivo e base di previsioni per l’avvenire della civiltà; esso non contiene elementi di sviluppo per la libertà; esso è destinato a subire mutamenti radicali in conseguenza dello sviluppo generale: è determinato, non determinante.

Il movimento proletario, nella sua fase attuale, tende ad attuare una rivoluzione nell’organizzazione delle cose materiali e delle forze fisiche; i suoi tratti caratteristici non possono essere i sentimenti e le passioni diffuse nella massa e che sorreggono la volontà della massa; i tratti caratteristici della rivoluzione proletaria possono essere ricercati solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare.

Il Partito comunista è, nell’attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo; nei limiti in cui il Partito esiste già, su scala internazionale, può tentarsi un paragone e stabilirsi un ordine di giudizi tra i militanti per la Città di Dio e i militanti per la Città dell’Uomo; il comunista non è certo inferiore al cristiano delle catacombe. Anzi! Il fine ineffabile che il cristianesimo poneva ai suoi campioni è, per il suo mistero suggestivo, una giustificazione piena dell’eroismo, della sete di martirio, della santità; non è necessario entrino in gioco le grandi forze umane del carattere e della volontà per suscitare lo spirito di sacrifizio di chi crede al premio celeste e alla eterna beatitudine. L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, piú grande dello schiavo e dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera. Allo stesso modo Rosa Luxemburg e Carlo Liebknecht son piú grandi dei piú grandi santi di Cristo. Appunto perché il fine della loro milizia è concreto, umano, limitato, perciò i lottatori della classe operaia sono piú grandi dei lottatori di Dio: le forze morali che sostengono la loro volontà sono tanto piú smisurate quanto piú è definito il fine proposto alla volontà. Quale forza di espansione potranno mai acquistare i sentimenti dell’operaio, che, piegato sulla macchina, ripete per otto ore al giorno il gesto professionale, monotono come lo sgranamento del chiuso circolo di una coroncina di preghiera, quando egli sarà «dominatore», quando sarà la misura dei valori sociali? Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo? Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale e la propria libertà di costruire nell’ordine delle idee, lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista, nella volontà di lotta e di creazione rivoluzionaria che si esprime nel Partito comunista.

L’operaio nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo determinato e la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L’operaio tende a portare questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si acconcia facilmente, da per tutto, all’ufficio di esecutore materiale, di «massa» guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l’immediato, perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo. Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. Lo schiavo o l’artigiano del mondo classico «conosceva se stesso», attuava la sua liberazione entrando a far parte di una comunità cristiana, dove concretamente sentiva di essere l’eguale, di essere il fratello, perché figlio di uno stesso padre; cosí l’operaio, entrando a far parte del Partito comunista, dove collabora a «scoprire» e a «inventare» modi di vita originali, dove collabora «volontariamente» alla attività del mondo, dove pensa, prevede, ha una responsabilità, dove è organizzatore oltre che organizzato, dove sente di costituire un’avanguardia che corre avanti trascinando con sé tutta la massa popolare.

Il Partito comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma particolare della rivoluzione proletaria. Nessuna rivoluzione del passato ha conosciuto i partiti; essi sono nati dopo la rivoluzione borghese e si sono decomposti nel terreno della democrazia parlamentare. Anche in questo campo si è verificata l’idea marxista che il capitalismo crea forze che poi non riesce a dominare. I partiti democratici servivano a indicare uomini politici di valore e a farli trionfare nella concorrenza politica; oggi gli uomini di governo sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni industriali; i partiti si sono decomposti in una molteplicità di cricche personali. Il Partito comunista, sorgendo dalle ceneri dei partiti socialisti, ripudia le sue origini democratiche e parlamentari e rivela i suoi caratteri essenziali che sono originali nella storia: la rivoluzione russa è rivoluzione compiuta dagli uomini organizzati nel Partito comunista, che nel partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende a divenire coscienza universale e fine per tutti gli uomini.

II

I partiti politici sono di riflesso e la nomenclatura delle classi sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le loro condizioni di esistenza e di sviluppo, acquistano una maggiore e piú chiara consapevolezza di sé e dei propri vitali interessi. Nell’attuale periodo storico e in conseguenza della guerra imperialista che ha profondamente mutato la struttura dell’apparecchio nazionale e internazionale di produzione e di scambio, è divenuta caratteristica la rapidità con cui si svolge il processo di dissociazione dei partiti politici tradizionali, nati sul terreno della democrazia parlamentare, e del sorgere di nuove organizzazioni politiche: questo processo generale ubbidisce a una intima logica implacabile, sostanziata dalle sfaldature delle vecchie classi e dei vecchi ceti e dai vertiginosi trapassi da una condizione ad un’altra di interi strati della popolazione in tutto il territorio dello Stato, e spesso in tutto il territorio del dominio capitalistico.

Anche le classi sociali storicamente piú pigre e tarde nel differenziarsi, come la classe dei contadini, non sfuggono all’azione energica dei reagenti che dissolvono il corpo sociale; sembra anzi che queste classi, quanto piú sono state pigre e tarde nel passato, tanto piú oggi vogliano celermente giungere alle conseguenze dialetticamente estreme della lotta delle classi, alla guerra civile e alla manomissione dei rapporti economici. Abbiamo visto, in Italia, nello spazio di due anni, sorgere come dal nulla un potente partito della classe contadinesca, il Partito popolare, che nel suo nascere presumeva rappresentare gli interessi economici e le aspirazioni politiche di tutti gli strati sociali della campagna, dal barone latifondista al medio proprietario terriero, dal piccolo proprietario al fittavolo, dal mezzadro al contadino povero. Abbiamo visto il Partito popolare conquistare quasi cento seggi in Parlamento con liste di blocco, nelle quali avevano l’assoluta prevalenza i rappresentanti del barone latifondista, del grande proprietario dei boschi, del grosso e medio proprietario di fondi, esigua minoranza della popolazione contadina. Abbiamo visto iniziarsi subito e rapidamente diventare spasmodiche nel Partito popolare le lotte interne di tendenza, riflesso della differenziazione che si attuava nella primitiva massa elettorale; le grandi masse dei piccoli proprietari e dei contadini poveri non vollero piú essere la passiva massa di manovra per l’attuazione degli interessi dei medi e grandi proprietari; sotto la loro energica pressione il Partito popolare si divise in un’ala destra, in un centro e in una sinistra, e abbiamo visto quindi, sotto la pressione dei contadini poveri, l’estrema sinistra popolare atteggiarsi a rivoluzionaria, entrare in concorrenza con il Partito socialista, divenuto anch’esso rappresentante di vastissime masse contadine; vediamo già la decomposizione del Partito popolare, la cui frazione parlamentare e il cui Comitato centrale non rappresentano piú gli interessi e la acquistata coscienza di sé delle masse elettorali e delle forze organizzate nei sindacati bianchi, rappresentate invece dagli estremisti, i quali non vogliono perderne il controllo, non possono illuderle con una azione legale in Parlamento e sono quindi portati a ricorrere alla lotta violenta e ad auspicare nuovi istituti politici di governo. Lo stesso processo di rapida organizzazione e rapidissima dissociazione si è verificato nell’altra corrente politica che volle rappresentare gli interessi dei contadini, l’associazione degli ex combattenti: esso è il riflesso della formidabile crisi interna che travaglia le campagne italiane e si manifesta nei giganteschi scioperi dell’Italia settentrionale e centrale, nell’invasione e spartizione dei latifondi pugliesi, negli assalti a castelli feudali e nell’apparizione nelle città di Sicilia di centinaia e migliaia di contadini armati.

Questo profondo sommovimento delle classi contadine scuote fin dalle fondamenta l’impalcatura dello Stato parlamentare democratico. Il capitalismo, come forza politica, viene ridotto alle associazioni sindacali dei proprietari di fabbriche; esso non ha piú un partito politico la cui ideologia abbracci anche gli strati piccolo-borghesi della città e della campagna, e permetta quindi il permanere di uno Stato legale a larghe basi. Il capitalismo si vede ridotto ad avere una rappresentanza politica solo nei grandi giornali (400 mila copie di tiratura, mille elettori) e nel Senato, immune, come formazione, dalle azioni e reazioni delle grandi masse popolari, ma senza autorità e prestigio nel paese; perciò la forza politica del capitalismo tende a identificarsi sempre piú con l’alta gerarchia militare, con la guardia regia, con gli avventurieri molteplici, pullulanti dopo l’armistizio e aspiranti, ognuno contro gli altri, a diventare il Kornilov e il Bonaparte italiano, e perciò la forza politica del capitalismo non può oggi attuarsi che in un colpo di Stato militare e nel tentativo di imporre una ferrea dittatura nazionalista che spinga le abbrutite masse italiane a restaurare l’economia col saccheggio a mano armata dei paesi vicini.

Esaurita e logorata la borghesia come classe dirigente, coll’esaurirsi del capitalismo come modo di produzione e di scambio, non esistendo nella classe contadina una forza politica omogenea capace di creare uno Stato, la classe operaia è ineluttabilmente chiamata dalla storia ad assumersi la responsabilità di classe dirigente. Solo il proletariato è capace di creare uno Stato forte e temuto, perché ha un programma di ricostruzione economica, il comunismo, che trova le sue necessarie premesse e condizioni nella fase di sviluppo raggiunta dal capitalismo con la guerra imperialista 1914-18; solo il proletariato può, creando un nuovo organo del diritto pubblico, il sistema dei Soviet, dare una forma dinamica alla fluida e incandescente massa sociale e restaurare un ordine nel generale sconvolgimento delle forze produttive. È naturale e storicamente giustificato che appunto in un periodo come questo si ponga il problema della formazione del Partito comunista, espressione dell’avanguardia proletaria che ha esatta coscienza della sua missione storica, che fonderà i nuovi ordinamenti, che sarà l’iniziatore e il protagonista del nuovo e originale periodo storico.

Anche il tradizionale partito politico della classe operaia italiana, il Partito socialista, non è sfuggito al processo di decomposizione di tutte le forme associative, processo che è caratteristico del periodo che attraversiamo. L’aver creduto di poter salvare la vecchia compagine del Partito dalla sua intima dissoluzione è stato il colossale errore storico degli uomini che dallo scoppio della guerra mondiale ad oggi hanno controllato gli organi di governo della nostra associazione. In verità il Partito socialista italiano, per le sue tradizioni, per le origini storiche delle varie correnti che lo costituirono, per il patto d’alleanza, tacito o esplicito, con la Confederazione generale del lavoro (patto che nei congressi, nei Consigli e in tutte le riunioni deliberative serve a dare un potere e un influsso ingiustificato ai funzionari sindacali), per l’autonomia illimitata concessa al gruppo parlamentare (che dà, anche ai deputati nei congressi, nei Consigli e nelle deliberazioni di piú alta importanza un potere e un influsso simile a quello dei funzionari sindacali e altrettanto ingiustificato), il Partito socialista italiano non differisce per nulla dal Labour Party inglese ed è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti; si muove e non può non muoversi pigramente e tardamente; è esposto continuamente a diventare il facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi senza serietà e capacità politica; per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, logorati e sabotati dalle serve-padrone, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono e «educano» il Partito della classe operaia e non è il Partito che guida ed educa le masse.

Il Partito socialista si dice assertore delle dottrine marxiste; il Partito dovrebbe quindi avere, in queste dottrine, una bussola per orientarsi nel groviglio degli avvenimenti, dovrebbe possedere quella capacità di previsione storica che caratterizza i seguaci intelligenti della dialettica marxista, dovrebbe avere un piano generale di azione basato su questa previsione storica, ed essere in grado di lanciare alla classe operaia in lotta parole d’ordine chiare e precise; invece il Partito socialista, il partito assertore del marxismo in Italia, è, come il Partito popolare, come il partito delle classi piú arretrate della popolazione italiana, esposto a tutte le pressioni delle masse e si muove e si differenzia quando già le masse si sono spostate e differenziate. In verità questo Partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse; questo povero Partito socialista, che si proclama capo della classe operaia, altro non è che gl’impedimenta dell’esercito proletario.

Se questo strano procedere del Partito socialista, se questa bizzarra condizione del partito politico della classe operaia non hanno finora provocato una catastrofe, gli è che in mezzo alla classe operaia, nelle sezioni urbane del Partito, nei sindacati, nelle fabbriche, nei villaggi, esistono gruppi energici di comunisti consapevoli del loro ufficio storico, energici e accorti nell’azione, capaci di guidare e di educare le masse locali del proletariato; gli è che esiste potenzialmente, nel seno del Partito socialista, un Partito comunista, al quale non manca che l’organizzazione esplicita, la centralizzazione e una sua disciplina per svilupparsi rapidamente, conquistare e rinnovare la compagine del partito della classe operaia, dare un nuovo indirizzo alla Confederazione generale del lavoro e al movimento cooperativo.

Il problema immediato di questo periodo, che succede alla lotta degli operai metallurgici e precede il congresso in cui il Partito deve assumere un atteggiamento serio e preciso di fronte all’Internazionale comunista, è appunto quello di organizzare e centralizzare queste forze comuniste già esistenti e operanti. Il Partito socialista, di giorno in giorno, con una rapidità fulminea, si decompone e va in isfacelo; le tendenze, in un brevissimo giro di tempo, hanno già acquistato una nuova configurazione; messi di fronte alle responsabilità dell’azione storica e agli impegni assunti nell’aderire all’Internazionale comunista, gli uomini e i gruppi si sono scompigliati, si sono spostati; l’equivoco centrista e opportunista ha guadagnato una parte della direzione del Partito, ha gettato il turbamento e la confusione nelle sezioni. Dovere dei comunisti, in questo generale venir meno delle coscienze, delle fedi, della volontà, in questo imperversare di bassezze, di viltà, di disfattismi è quello di stringersi fortemente in gruppi, di affiatarsi, di tenersi pronti alle parole d’ordine che verranno lanciate. I comunisti sinceri e disinteressati, sulla base delle tesi approvate dal II Congresso della III Internazionale, sulla base della leale disciplina alla suprema autorità del movimento operaio mondiale, devono svolgere il lavoro necessario perché, nel piú breve tempo possibile, sia costituita la frazione comunista del Partito socialista italiano, che, per il buon nome del proletariato italiano, deve, nel Congresso di Firenze, diventare, di nome e di fatto, Partito comunista italiano, sezione della III Internazionale comunista; perché la frazione comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia, con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per l’azione, per la propaganda che la pongano in condizione di funzionare e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito.

I comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia, e il loro spirito d’iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola) del Partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il Partito comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le condizioni per l’avvento della società comunista.

Viltà e leggerezza37

La delegazione confederale, recatasi in Russia per informare le masse operaie sui problemi che lo sviluppo storico della società capitalistica pone ineluttabilmente al proletariato e sulle soluzioni economiche e politiche che uno Stato operaio, in circostanze ben determinate, può dare, ha comunicato la sua relazione... al Resto del Carlino. Cosí questa relazione, scritta con la frigidità ostentata di chi vuole nascondere dietro il tenue velo dell’obiettività l’intima soddisfazione non potuta esprimere con un trionfante: «L’avevo detto io!», è stata data in pasto alla reazione nazionale e internazionale prima che una discussione tra le varie correnti rappresentate nella missione potesse fissare, per le masse proletarie italiane, un qualche punto di riferimento critico, un qualche criterio metodologico per risalire dal fatto brutale alla comprensione storica, dal numero al pensiero.

La relazione D’Aragona, Bianchi, Colombino, non rivela alcuna novità sulla situazione reale della Russia: poiché erano note anche prima l’angustia mentale e l’incapacità a comprendere la storia dei tre, la relazione non rivela nulla neppure in questo campo. L’insistenza con cui il fenomeno della prostituzione viene assunto come indice della situazione russa è l’unica originalità della relazione; chi conosce i costumi diffusi nel ceto degli organizzatori può trarre da questo motivo psicologico una guida per orientarsi nel quadro che gli viene descritto. Appare evidente che i nostri funzionari sindacali sono andati in Russia con le stesse disposizioni spirituali con cui erano soliti recarsi ai convegni, ai congressi, ai sopraluoghi, alle inaugurazioni di bandiere e di circoli: volevano specialmente divertirsi e prima loro preoccupazione fu quella di informarsi sui postriboli e sui restaurants dove ci si trova meglio. In Russia non indagarono sull’energia creatrice della classe operaia nel campo economico e nel campo politico, non si curarono di approfondire la storia del popolo russo e di comprendere il «miracolo» della rivoluzione russa; si fermarono all’«energia sessuale», si preoccuparono e si spaventarono della constatazione che in Russia si va poco a donne. C’è da arrossire nell’essere costretti a scrivere cose di questo genere: questi signori, che si piccano di indipendenza nazionale, e vogliono ribellarsi alla «autorità dittatoria di Mosca», dànno un tale documento di bassezza intellettuale e di miseria spirituale, che invero un rivoluzionario italiano è portato ad augurarsi un piú diretto ed energico esercizio di questa autorità. Dove non è possibile aspettarsi niente di vitale e di intelligente dai capi indigeni ufficiali, non c’è altro che rifugiarsi nella speranza che i capi vengano dal di fuori, che sia riconosciuto illimitatamente e ci si affidi ciecamente all’autorità piú alta della classe operaia mondiale.

Sulla situazione economica della Russia D’Aragona, Bianchi e Colombino non dicono piú di quanto sia contenuto nel rapporto Rykov (pubblicato in Italia e noto a moltissimi operai) e di quanto scriva quotidianamente l’Ekonomiceskaia Gisn, organo del Consiglio supremo di economia popolare. Ciò che di piú essi dicono e ciò che circola in tutto il loro rapporto è la persuasione che la rivoluzione operaia russa sia stata un errore, sia stata addirittura un esperimento in corpore vilifatto da un pugno d’avventurieri incapaci e impreparati.

Tutta la viltà e tutta la bassa leggerezza del carattere italiano si sono coagulate in questa relazione. Si sente ribrezzo nell’emettere un giudizio su questi uomini che, ben pasciuti, ben vestiti, frequentatori di postriboli e di gargottes, giocatori di scopone, si pongono come superiori e come disdegnosi osservatori imparziali della classe operaia russa che da tre anni si svena per la rivoluzione, che soffre stoicamente il freddo e la fame per la sua indipendenza; dopo l’Ebreo di Verona del gesuita padre Antonio Bresciani non si è avuto in Italia un episodio piú clamoroso di maramaldismo e di incomprensione piú assoluta della storia contemporanea.

D’Aragona, Bianchi, Colombino hanno fatto spendere inutilmente migliaia e migliaia di lire al proletariato italiano: ecco la conclusione di questa avventura russa. I rilievi... obbiettivi contenuti nella relazione, la classe operaia italiana li conosceva già dal Matin e dal Corriere della Sera. Come spedizione di esperti e di intelligenti, che avrebbero dovuto proporsi di comprendere la rivoluzione russa come sviluppo storico generale e avrebbero dovuto identificare i sentimenti e le volontà reali che sono a sostegno del sistema dei Soviet, la missione confederale è fallita, mancava la condizione elementare, l’intelligenza e la capacità tecnica; è un errore tutto italiano la confusione della praticaccia burocratica con la capacità tecnica in economia e in politica.

Il proletariato italiano vorrebbe sapere: Come mai, se la situazione russa è cosí desolante come l’hanno constatata i lucidi e freddi occhi del D’Aragona, del Bianchi, del Colombino, la classe operaia, che ha rovesciato lo zar e Kerenski, non rovescia anche Lenin? Quale elemento soggettivo, quale spirito, quale convinzione, quale necessità storica sostiene il governo dei Soviet? Perché i contadini si lasciano governare dagli operai? Perché essi permettono che un operaio conti politicamente come cinque contadini? Quale è stata l’influenza del blocco nel determinare la caduta di Pietrogrado come città industriale? È vero che Pietrogrado dipendeva dall’estero per i suoi approvvigionamenti e che tale caduta era inevitabile? È vero che l’industria russa produceva prima della guerra solo il 15 per cento della merce assorbita dal mercato russo e che il blocco, quindi, ha privato, in senso assoluto, la Russia dell’85 per cento del suo fabbisogno? La necessità di creare un esercito rosso e di mobilizzare gli operai industriali per respingere le aggressioni dei controrivoluzionari non poteva non disarticolare le maestranze d’officina; questo fatto ha contribuito a far calare ancora il 15 per cento della produzione effettiva dell’industria russa? Quali fenomeni d’interferenza economica ha determinato nel mercato russo l’assenza dell’importazione, che soddisfaceva all’85 per cento dei bisogni industriali? Quali sforzi sono stati compiuti dalla classe operaia russa e dal governo dei Soviet per ovviare a questi fenomeni che erano indipendenti dallo sviluppo rivoluzionario e dipendevano dalla situazione creata dall’imperialismo dell’Intesa e dal tradimento o dall’incapacità dei capi delle organizzazioni proletarie e socialiste dell’Europa centrale e occidentale, compresa l’Italia? È vero che il sistema industriale russo, che riusciva a produrre solo il 15 per cento del fabbisogno nazionale, si fondava in buona parte sul protezionismo statale ed era quindi artificioso, destinato a cadere? Il fenomeno della nascita della piccola industria sul luogo di produzione delle materie prime non rappresenta in tal caso l’inizio di uno sviluppo nuovo e vitale dell’industria russa, che, verificandosi sotto il controllo dello Stato operaio, può rapidamente concentrarsi e sostituire il normale sviluppo del capitalismo e dello strumento di lavoro, allo stesso modo che l’essersi, nell’America del Nord, lo sviluppo storico verificato sotto il controllo e la direzione degli inglesi, giunti a un alto livello di civiltà politica e industriale, ha risparmiato le fasi intermedie di sviluppo dal pellirossa fino al medio industriale?

In tutte queste domande che il proletariato italiano, avido di notizie esatte e intelligenti sulla rivoluzione russa, è in diritto di rivolgere ai suoi funzionari in missione, è contenuta implicitamente una critica della relazione D’Aragona, Bianchi, Colombino. Ma essi sono andati in Russia per raccogliere materiali ai discorsi sulle donne e sulle capacità sessuali che si svolgono nei caffè e negli alberghi, tra una partita e l’altra di scopone. In fondo questa relazione, oltre all’essere un documento di viltà e di leggerezza, oltre all’essere un documento per lo studio della capacità degli italiani a comprendere la storia (da padre Bresciani a Ludovico D’Aragona), è anche un documento dell’insufficienza della democrazia sindacale a esprimere le competenze; come nella democrazia borghese, anche nella democrazia sindacale si domandano ingegneri e si ottengono ballerini...

L’«Ordine Nuovo» a Mosca38

Nel Soviet del 3 ottobre il compagno Bordiga riferisce il modo in cui si svolse la discussione tra i delegati italiani e la rispettiva commissione del Congresso di Mosca, sulla famosa tesi 17 della relazione di Lenin sui Compiti del II Congresso dell’Internazionale comunista. Dopo aver riportato il testo della tesi, da noi pubblicato nelle «Cronache» del n. 13 (21 agosto), il compagno Bordiga riferisce:

«Nessuno dei delegati italiani accettò questa formulazione. Serrati e Graziadei osservarono nel Consiglio nazionale la sezione di Torino essersi schierata contro la direzione del Partito sulla questione dello sciopero piemontese, e il valorizzarla equivaleva a sanzionare, oltre alle sue accuse, il suo atteggiamento “contrario alla disciplina”». Bombacci osservò che era anche pericoloso valorizzare le tendenze sindacalisteggianti dell’Ordine Nuovo e la sua interpretazione del movimento dei Consigli di fabbrica. Polano sostenne che essendo la Commissione esecutiva della sezione torinese formata in gran parte da astensionisti, si veniva ad approvare l’opera della nostra frazione, sconfessata sulla questione parlamentare. Bordiga rilevò anch’egli la possibilità dell’equivoco circa la sanzione a tutto l’indirizzo dell’Ordine Nuovo, che oltre ad essere contrario alle direttive del Congresso sulla questione sindacale e della costituzione dei Soviet, era stato fautore della unità del Partito fino a poco prima del Convegno di Milano.

Lenin e Bukharin dichiararono formalmente che non avevano inteso esprimere un giudizio sull’indirizzo dell’Ordine Nuovo, su cui non erano abbastanza documentati, ma solo indicare la citazione precisa di un documento al quale soltanto si riferiva la loro approvazione.

Venne quindi solo modificata in tal senso la forma grammaticale: «proposizioni indirizzate dalla sezione ecc. ed apparse nel numero... ecc.». Inoltre su proposta di Bordiga venne aggiunto in fine del secondo periodo: «e del lavoro da svolgere nei sindacati».

È interessante che i compagni e i lettori conoscano questi giudizi sulla sezione torinese e sull’Ordine Nuovo. Che la sezione torinese abbia, nello sciopero di aprile, infranta (ahimè) la disciplina, è stato sussurrato, ma non è stato mai provato e sarebbe difficile assai provare. Le tendenze sindacalisteggiani dell’Ordine Nuovo sono anche esse un mito: abbiamo semplicemente il torto di credere che la rivoluzione comunista possano attuarla solo le masse, e non possa attuarla né un segretario di partito né un presidente di repubblica a colpi di decreto; pare questa fosse anche l’opinione di Carlo Marx e di Rosa Luxemburg e sia l’opinione di Lenin, i quali tutti per Treves e Turati sono dei sindacalisti anarchici. È vero invece che l’Ordine Nuovo, quando era ancora una «palestra», pubblicò un editoriale (del compagno Tasca) favorevole all’unità. Le tesi che pubblichiamo in questo numero sui sindacati, sui Consigli di fabbrica e sulla formazione dei Soviet possono dare ai lettori modo di giudicare se l’indirizzo dell’Ordine Nuovo sia stato contrario alle direttive del Congresso: le tesi di Radek sono davvero nuove per i nostri lettori? sono davvero contrarie a quanto sostenne in proposito l’Ordine Nuovo? anche recentemente, nella polemica col Tasca, non si trattò di impedire che i Consigli venissero subordinati ai sindacati opportunisti? La verità è che i socialisti italiani non vollero prendere sul serio il movimento dei Consigli di fabbrica e perciò si ebbero una lezione dal Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista.

La reazione39

Il Giornale d’Italia, il Messaggero, l’Idea Nazionale, il Corriere della Sera domandano francamente la reazione, invocano un uomo, che riconduca l’ordine e la disciplina in mezzo al popolo italiano, avvelenato dalla propaganda dei comunisti e degli anarchici. Il Corriere della Sera è riuscito persino a identificare il centro di questa propaganda: il comando delle forze sovvertitrici e sobillatrici è nelle mani — indovinate di chi? — «di quei dell’Ordine Nuovo e dell’Avanti! di Torino e dell’Umanità Nova di Milano, cioè di Malatesta». La Stampa è d’accordo col Corriere nell’identificazione degli untori; ma la Stampa non invoca la reazione, essa si limita ad annunziarla come inevitabile, come un malanno che capiterà addosso al popolo italiano per colpa dei suddetti sobillatori. Questa levata di scudi dei giornali della «democrazia borghese» contro i comunisti torinesi si è verificata dopo i conflitti dei giorni scorsi: è da notare che proprio a Torino non sono avvenuti conflitti, proprio a Torino dove esiste la centrale della delinquenza rivoluzionaria e quindi avrebbero dovuto aversi i massimi episodi di «teppismo, di anarchia, di cannibalismo rivoluzionario». È da notarsi che gli stessi giornali che oggi indicano il movimento comunista torinese come la causa di tutti i mali che affliggono l’Italia e come la determinante della futura reazione, hanno registrato a suo tempo con un sospiro di sollievo, che proprio il rappresentante della classe operaia torinese al Consiglio nazionale della Confederazione generale del lavoro ha smorzato gli ardori rivoluzionari dell’assemblea e dei capi sindacali riformisti, determinando la maggioranza dei voti all’ordine del giorno D’Aragona.

In questa levata di scudi, in questa furia demagogica nell’accusare il movimento torinese è da identificarsi quindi un tentativo della reazione che vuole colpire Torino non come nido di delinquenza, ma come sede di un preciso pensiero politico che minaccia di conquistare la maggioranza del Partito socialista italiano, che minaccia di trasformare il Partito, da organo di conservazione dell’agonia capitalistica, in organismo di lotta e di ricostruzione rivoluzionaria. Approfittando delle polemiche interne di Partito, si cerca evidentemente di riprodurre, in questo scorcio dell’anno, la stessa situazione dell’agosto 1917 o dell’aprile 1920: messa a terra Torino proletaria, distrutto il nido di vespe piemontesi, si spera che il Partito sia fiaccato e che l’avvento al potere dei riformisti sia possibile col consenso delle masse operaie affamate e abbrutite dal terrore bianco.

È certo che la reazione italiana si rafforza e cercherà di imporsi violentemente a breve scadenza. La reazione che è sempre esistita, che obbedisce a leggi proprie di sviluppo, che culminerà nel piú atroce terrorismo che abbia visto la storia. Non per caso gli occhi di tutti si rivolgono oggi a Fiume e alla Dalmazia, a D’Annunzio, a Millo, a Caviglia. La reazione è lo sviluppo del fallimento della guerra imperialista, è lo sviluppo delle disastrose condizioni economiche in cui il capitalismo ha ridotto il popolo italiano, è lo sviluppo delle illusioni nazionaliste e delle delusioni opportuniste di uno Stato che non riesce ad assicurare il pane, il tetto, il vestito alla popolazione. La reazione è il tentativo di uscire dalla situazione attuale con una nuova guerra, è il tentativo di colmare, col saccheggio delle nazioni vicine, il deficit del bilancio interno, è la naturale, fisiologica espressione del regime di proprietà privata e nazionale che vuole ad ogni costo salvarsi dall’abisso.

La reazione è sempre esistita in Italia; essa non minaccia di sorgere ora per colpa dei comunisti. La reazione è il venir meno dello Stato legale: non da oggi lo Stato legale è venuto meno, e non è precisamente venuto meno per colpa dei comunisti. Era un comunista D’Annunzio, che ammutinava soldati e generali contro il governo «legittimo»? Era un comunista Millo, che rifiuta ubbidienza ai suoi superiori «legittimi»? Erano comunisti gli incendiari dell’Avanti! di Milano e di Roma? Era comunista Cadorna quando nel 1917 preparava la dittatura militare? Sono comunisti i fornitori militari e gli speculatori che hanno rastrellato la ricchezza nazionale e l’hanno esportata all’estero? Questo quadro è il quadro della reazione italiana, che nessun governo ha cercato neppure di soffocare, che ogni governo anzi ha sollecitato, ha promosso, ha aiutato piú o meno apertamente; ogni impresa della reazione è rimasta impunita, ogni eccesso della delinquenza reazionaria è stato legalizzato, perché non è stato sanzionato dalla giustizia punitiva. È un delitto incendiare un giornale socialista? No, poiché i colpevoli di simile delitto, conosciuti, confessi, non sono stati arrestati, hanno anzi potuto organizzare altre imprese del genere. È un delitto uccidere un rappresentante della classe operaia? No, perché gli assassini, i complici degli assassini, i mandanti, gli esaltatori degli assassini, noti, confessi, autoelogiatori, non sono stati puniti, non sono stati neppure molestati. Da due anni, dal giorno dell’armistizio, il popolo italiano vive in pieno terrorismo, in piena reazione; non esiste piú sicurezza personale per la classe operaia, non esiste piú nessuna garanzia civile di tranquillità e di pace. Nell’attuale periodo, il terrorismo vuol passare dal campo privato al campo pubblico; non si accontenta piú dell’impunità concessagli dallo Stato, vuole diventare lo Stato. Ecco cosa significa oggi la parola «avvento» della reazione: significa che la reazione è divenuta cosí forte, che non ritiene piú utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale; significa che vuole, per i suoi fini, servirsi di tutti i mezzi dello Stato; significa che l’Italia si avvicina a una nuova guerra imperialista, rivolta al saccheggio a mano armata di qualche ricco popolo finitimo.

La reazione è immanente nelle condizioni economiche del paese. E la reazione non ha per fine di ristabilire l’ordine all’interno, ha per fine di preparare la guerra all’esterno. L’ordine all’interno non significa nulla nelle condizioni attuali: esso è un’utopia. Anche se il proletariato lavorasse sedici ore al giorno il governo borghese non potrebbe sanare il deficit del bilancio statale, non potrebbe riorganizzare la produzione nazionale. Il governo non è stato capace a impedire l’esodo dei capitali all’estero; il governo non può fare risuscitare i cinquecentomila morti della guerra, e non può farli lavorare; il governo non può ridare la validità fisica e l’efficienza produttiva ai cinquecentomila invalidi della guerra; non può ridare il sostegno economico alle centinaia di migliaia di famiglie che l’hanno perduto e devono vivere della carità, e sono costrette a consumare senza produrre, e sono ridotte al parassitismo obbligatorio. Il governo non può ricondurre in Italia la corrente dei forestieri, che prima della guerra lasciava mezzo miliardo in oro nel nostro paese. Il governo non può riorganizzare le correnti emigratorie, che prima della guerra alleggerivano il territorio di 250 mila disperati all’anno, e rappresentavano per il bilancio italiano una rimessa di 700 milioni in oro. Il governo non può sanare la crisi dell’industria siderurgica, che si mangia ogni anno centinaia e centinaia di milioni in oro, che corrompe l’organizzazione del credito, che impedisce ai contadini di avere strumenti agricoli a buon mercato, che impedisce quindi una ripresa nella produzione degli alimenti. L’Italia è stata ridotta tutta una piaga dalla guerra, e il sangue scorre a ruscelli dal corpo tagliuzzato. Ecco l’origine della reazione: la paura folle della morte per esaurimento, mescolata al desiderio sfrenato di buttarsi addosso a un organismo nazionale ancora in qualche efficienza per divorarselo, per cercare di salvarsi con una trasfusione di sangue. Ed ecco l’origine del comunismo, che è conseguenza della reazione, che è l’atteggiamento della classe operaia verso la reazione. Solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione; solo la classe operaia può sperare di avere all’estero, per l’organizzazione internazionale, quel sostegno che impedisca al paese di piombare ancor piú giú, nell’estrema barbarie; solo la classe operaia, che non ha privilegi di sorta, può dare alla maggioranza della popolazione italiana la sicurezza che lo Stato proletario non rinsalderà privilegi e farà di tutto per far uscire il paese dal caos. La reazione è furiosa anche per ciò: perché deve riconoscere che la classe operaia è la sola forza viva del paese, perché deve riconoscere in se stessa niente altro che gli ultimi spasimi rabbiosi di un organismo esaurito.

La disciplina internazionale40

La III Internazionale comunista, a differenza della II Internazionale, vuole siano attuate, tra i partiti che entrano nella sua organizzazione, il massimo di disciplina e il massimo di centralizzazione: è questa una necessità storica assoluta, e dovrebbe essere compresa, date le condizioni del nostro paese, specialmente dai rivoluzionari italiani. Nessuno Stato operaio, piú dello Stato operaio italiano, avrà bisogno della solidarietà del proletariato mondiale: è per noi condizione esistenziale l’instaurazione di una ferrea disciplina e di una centralizzazione del movimento rivoluzionario internazionale; noi dobbiamo volere che l’Internazionale comunista sia un potente apparecchio di lotta, in grado di domandare e di ottenere da ogni partito aderente tutta la disciplina e tutto lo spirito di sacrifizio che può essere domandato e ottenuto. Naturalmente noi abbiamo diritto di domandare solo ciò che dimostriamo di voler noi concedere volentieri, e di voler concedere perché riteniamo sia assolutamente necessario da un punto di vista generale, in quanto la nostra posizione storica la vediamo e la spieghiamo in un quadro internazionale, in quanto la nostra azione e la nostra volontà aderisce al processo storico che conduce tutte le classi operaie del mondo alla riorganizzazione dell’economia mondiale su basi comuniste e su scala mondiale.

L’Italia è già bloccata prima della rivoluzione. Il blocco dell’Italia è dipendente non tanto da volontà reazionaria quanto dal fatto che l’Italia non ha una grande proprietà nazionale. L’Italia è bloccata perché non ha mezzi, da un punto di vista nazionale, per pagare le importazioni necessarie alla vita delle sue industrie e alla vita dei suoi abitanti; l’Italia non ha riserve auree nelle banche, non ha miniere, non ha grandi boschi, non ha nessuna materia prima nel suo suolo e sottosuolo; l’Italia è come un limone spremuto, essa è stata ridotta, dal regime di sfruttamento intensivo del capitalismo, nelle stesse condizioni (o quasi) in cui la Palestina è stata ridotta dall’affiorare dei bitumi e dei miasmi. Quando un borghese o un riformista afferma: «Se in Italia scoppia la rivoluzione operaia, l’Italia sarà bloccata e morirà di fame», il borghese o il riformista ragiona come un mulo bendato; infatti l’Italia è già bloccata; il blocco è incominciato, come per la Russia, dal giorno in cui è scoppiata la guerra; il blocco si è andato intensificando a mano a mano che veniva esaurito il credito, a mano a mano che si venivano esaurendo le ricchezze commerciali e consumabili esistenti nel territorio nazionale. Questa condizione di blocco effettivo, di blocco implacabile, tanto piú tremendo quanto piú esso dipende da cause economiche generali, dalla povertà assoluta del paese, è stata aggravata dalla tattica riformista di scatenare movimenti rivoluzionari senza una conclusione rivoluzionaria; si calcola che il movimento metallurgico abbia determinato un esodo di trenta miliardi di capitale commerciabile; per paura del blocco, il movimento è stato arrestato; questa paura «neomaltusiana» ha aggravato il blocco effettivo in ragione di trenta miliardi di nuova povertà italiana.

I riformisti e i borghesi, che accusano i rivoluzionari di vedere la Russia come modello storico, cadono cosí in uno stupido parallelismo tra l’Italia e la Russia a proposito del blocco. La verità è che l’Italia si trova in condizioni diverse, e in condizioni enormemente peggiori della Russia, se queste condizioni vengono valutate dal punto di vista della proprietà privata e nazionale. La Russia possiede oro e platino (le banche russe, come è noto, possedevano le piú ingenti masse auree del mondo); la Russia possiede qualche scorta di grano e di pelli, possiede molto legname e molto minerale. La Russia potrebbe commerciare questa ricchezza; è realmente il blocco che le impedisce di commerciare la sua ricchezza, perché il capitalismo mondiale sostiene che la ricchezza esistente in Russia è proprietà dei borghesi e non degli operai e non vuole permettere agli operai russi di compiere atti di commercio internazionale. Se la Russia dei Soviet non fosse costretta a difendersi dalle aggressioni della reazione internazionale, il popolo russo potrebbe rivolgere tutta la sua energia creatrice a riprodurre la ricchezza distrutta dalla guerra, a produrre nuovi strumenti e nuova organizzazione economica; esso può far ciò, perché la Russia è ricca come suolo e come sottosuolo, perché la Russia ha una popolazione scarsissima su uno sterminato territorio.

L’Italia è povera «nazionalmente»; l’operaio italiano può salvarsi, il popolo italiano può salvarsi solo in quanto si realizzi l’Internazionale comunista, cioè solo in quanto venga abolita, oltre che la proprietà privata, anche la proprietà nazionale, solo in quanto sia attuata una organizzazione internazionale delle economie nazionali, che ponga il produttore italiano su un piede di eguaglianza col produttore inglese, americano, russo, indiano ecc. La borghesia imperialista ha attuato qualche cosa di simile durante la guerra, per i suoi fini; ottenuta la vittoria, l’organizzazione economica che dava pane, riso, ferro, carbone al popolo italiano perché resistesse fino alla vittoria, è caduta, ogni popolo è rientrato nei quadri della proprietà e della possibilità nazionali: l’aiuto dato, una volta raggiunto il fine, è diventato un debito, è diventato una pietra al collo. Si tratta di ricostruire questa organizzazione, per un fine, non transitorio, non episodico, ma che rappresenta una necessità permanente, che si identifica col processo di sviluppo storico della civiltà mondiale. Questo fine può essere attuato dall’Internazionale comunista, se essa riesce a ottenere da ogni proletariato il rendimento storico che esso è capace di dare: il proletariato italiano, per la sua ricchezza demografica, per la sua ricchezza di energia rivoluzionaria, può essere la determinante della rivoluzione mondiale, può essere la forza vulcanica in grado di far saltare gli ultimi baluardi della reazione mondiale. Ma per compiere questa sua missione, irta di difficoltà, piena di sacrifizi e di dolori senza fine, il proletariato italiano deve sottoporsi a una disciplina di ferro, nazionalmente e internazionalmente. Solo a tale condizione si salverà il popolo italiano dall’abisso, dove l’hanno cacciato i suoi dirigenti borghesi, ciechi, ignoranti, vanitosi, che ancora continuano a ragionare come se la guerra mondiale non avesse lasciato tracce altro che nell’ordine del sentimento e della politica.

Coordinare volontà e azioni41

Anche dopo la costituzione della frazione comunista, che ha la missione storica, quando sarà chiamata partito, di organizzare le energie rivoluzionarie capaci di condurre alla vittoria la classe operaia italiana e di fondare lo Stato operaio, non è finito il còmpito specifico della nostra rassegna e dei gruppi di compagni che ne seguono l’attività con attenzione e simpatia. Crediamo anzi che proprio da oggi incominci la parte piú difficile e piú importante dell’opera che noi dobbiamo svolgere.

Non dobbiamo farci illusioni. Le condizioni di confusione, di rozzezza spirituale, di incapacità politica, di assenza di ogni preparazione amministrativa in cui si trova il movimento operaio italiano, non possono essere mutate per il semplice fatto che si costituisce un partito politico. Se noi ci presentiamo il problema dello Stato operaio nei suoi termini immediati, crudamente materiali: — È necessario in tutte le funzioni vitali e dinamiche della vita nazionale organizzata nello Stato, al personale borghese sostituire un personale comunista; se noi ci proponiamo la quistione: — Ha la classe operaia italiana, tra gli uomini suoi di fiducia, tra gli uomini che le dànno assoluta garanzia di lealtà e di disinteresse, la possibilità di trovar modo di costituire un’organizzazione militare che guidi alla vittoria la milizia rossa, un’organizzazione economica che riesca, nelle atroci condizioni in cui la guerra imperialista ha piombato il nostro paese, a far vivere la popolazione, un’organizzazione industriale che faccia funzionare le fabbriche, un’organizzazione giudiziaria che dia giustizia e non soprusi, un’organizzazione burocratica che amministri e non provochi marasma e non si renda odiosa con i favoritismi e con l’indifferenza per gli interessi popolari? Se noi ci poniamo questi problemi, noi vediamo quanto il nostro còmpito sia difficile e aspro. Certo noi non ci scoraggiamo: la classe operaia è giovane, la classe operaia non può avere tutta una rete di quadri già predisposti per far vivere uno Stato: il dilettantismo e gli errori saranno inevitabili nella via delle attuazioni rivoluzionarie: inizialmente noi abbiamo specialmente bisogno di uomini energici, leali, disinteressati, che siano legati fino alla morte alla causa della rivoluzione comunista, che mai perdano la fiducia nella bontà del fine che vogliono raggiungere, che abbiano spirito d’iniziativa e sappiano improvvisare tutte le opere necessarie per rendere invincibile la potenza operaia.

Ma se non ci scoraggiamo, ma se abbiamo fede e volontà, ma se la nostra coscienza è incrollabile nella persuasione irrevocabile che la classe operaia debba avere il governo dello Stato e debba riorganizzare la società per evitare l’abisso e la barbarie, dobbiamo pure preoccuparci dei problemi concreti, nei loro termini reali e immediati. Dobbiamo intensificare l’opera nostra di educazione economica e politica dei migliori elementi della classe operaia, di preparazione teorica, di elevazione spirituale, di rinsaldamento del senso delle responsabilità, di formazione dei quadri per la gestioni dei beni materiali e spirituali del nostro popolo. La costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l’opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall’assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all’espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà.

Ecco perché l’azione di cultura della nostra rassegna deve continuare e intensificarsi. I nostri amici devono, fino al Congresso di Firenze, lavorare per il trionfo della frazione comunista, collaborando con gli altri gruppi comunisti che nelle sezioni tendono allo stesso fine, ma essi non devono dimenticare che il programma del nostro movimento non si preoccupa delle maggioranze se non in quanto esse creano le condizioni per organizzare, per educare, per diffondere convinzioni, per coordinare volontà e azioni.

Scissione o sfacelo?42

I socialcomunisti unitari non vogliono la scissione del Partito, perché non vogliono rovinare la rivoluzione proletaria italiana. Riconosciamo subito che i socialcomunisti unitari rappresentano e incarnano tutte le piú «gloriose» tradizioni del grande e glorioso Partito socialista italiano (che diventerà Partito socialcomunista unitario italiano): gloriosa ignoranza, gloriosa e spregiudicata assenza di ogni scrupolo nella polemica e di ogni senso di responsabilità nella politica nazionale, gloriosa bassa demagogia, gloriosa vanità, gloriosissima ciarlataneria, ecco il corpo di tradizioni gloriose e italianissime che si incarnano e sono rappresentate dai socialcomunisti unitari.

Il II Congresso dell’Internazionale comunista ha posto al Partito socialista italiano il problema di organizzarsi sulla base dell’accettazione dei deliberati approvati dalla sua assemblea. Si trattava di scindersi dai riformisti, di scindersi cioè da una parte minima del proprio corpo, da una parte che non ha alcuna funzione vitale nell’organismo, che è lontana dalle masse proletarie, che può dire di rappresentare le masse solo quando esse sono state demoralizzate dagli errori, dalle incertezze, dall’assenteismo dei capi rivoluzionari. I socialcomunisti unitari non hanno voluto accettare le deliberazioni del II Congresso per non scindere il Partito dai riformisti e affermano di non voler scindere il Partito dai riformisti per non scindere la massa; essi hanno piombato le masse, e del Partito e delle fabbriche, nel caos piú cupo; hanno posto in dubbio la correttezza del Congresso internazionale, hanno ripudiato l’adesione del Partito al Congresso (Serrati è ritornato in Italia da Mosca come Orlando un giorno tornò da Versailles, per protestare, per scindere le responsabilità, per salvar l’onore e la gloria degli italiani), hanno screditato (o hanno cercato screditare) la piú alta autorità dell’Internazionale operaia, hanno fatto dilagare, in un ambiente propizio come il nostro, una marea putrida di pettegolezzi, di insinuazioni, di vigliaccherie, di scetticismi. Cosa hanno ottenuto? Hanno scisso il Partito in tre, quattro, cinque tendenze; hanno, nelle grandi città, scisso le masse operaie, che erano compatte contro il riformismo e i riformisti, hanno seminato a piene mani i germi dello sfacelo e della decomposizione nelle file del Partito. Cos’è dunque l’unitarismo? Quale malefizio occulto reca questa parola, che determina discordia e scissione maggiore e piú vasta affermando di voler evitare una limitata e ben precisata scissione? Ciò che è, doveva accadere. Se l’unitarismo ha provocato l’attuale sfacelo, la verità è da ricercare nel fatto che lo sfacelo esisteva già: l’unitarismo non ha altra colpa che di avere violentemente strappato una chiusura di cloaca rigurgitante. La verità è che il Partito socialista non era un’«urbe», era un’«orda»: non era un organismo, era un agglomerato di individui che avevano il tanto di coscienza classista necessaria per organizzarsi in un sindacato professionale, ma non avevano in gran parte la capacità e la preparazione politica necessarie per organizzarsi in un partito rivoluzionario quale è domandato dall’attuale periodo storico. La vanità italiana faceva sempre affermare che da noi esisteva un Partito socialista tutto particolare, che non poteva e non doveva subire le stesse crisi degli altri partiti socialisti: cosí è avvenuto che in Italia la crisi sia stata artificialmente ritardata e scoppi proprio nel momento in cui sarebbe stato meglio evitarla e scoppi ancor piú violenta e devastatrice proprio per la volontà e la cocciutaggine di coloro che sempre la negarono e che ancora oggi la negano verbalmente (noi siamo unitari, che diamine!).

Sarebbe ridicolo piagnucolare sull’avvenuto e sull’irrimediabile. I comunisti sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto è in isfacelo, bisogna rifare tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna già da oggi considerare e amare la frazione comunista come un partito vero e proprio, come la solida impalcatura del Partito comunista italiano, che fa proseliti, li organizza solidamente, li educa, ne fa cellule attive dell’organismo nuovo che si sviluppa e si svilupperà fino a divenire tutta la classe operaia, fino a divenire l’anima e la volontà di tutto il popolo lavoratore.

La crisi che oggi attraversiamo è forse la maggiore crisi rivoluzionaria del popolo italiano. Per comprendere questa verità i compagni devono fare questa ipotesi: cosa sarebbe successo se il Partito socialista avesse subíto questa crisi in piena rivoluzione, avendo su di sé tutta la responsabilità di uno Stato? Cosa sarebbe successo se il governo di uno Stato rivoluzionario si fosse trovato in mano a uomini che lottano per le tendenze, e che nella passione di questa lotta mettono in dubbio tutto il piú sacro patrimonio di un operaio: la fiducia nell’Internazionale e nella capacità e lealtà degli uomini che ne ricoprono le cariche piú alte? Sarebbe successo ciò che è successo in Ungheria: sbandamento delle masse, rilassamento della energia rivoluzionaria, vittoria fulminea della controrivoluzione.

Gli unitari, per mania ciarlatanesca di unità, hanno oggi solo sfasciato un partito: domani, essi avrebbero determinato la caduta della rivoluzione.

Per quanto essi abbiano danneggiato la classe operaia e rafforzata la reazione, il maleficio non è decisivo: gli uomini di buona volontà hanno ancora un campo sterminato da ricoltivare e far rendere fruttuosamente.

Il popolo delle scimmie43

Il fascismo è stato l’ultima «rappresentazione» offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell’avventura fiumana è l’ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l’episodio piú importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana.

Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell’ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel «cretinismo parlamentare». Questo fenomeno, che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente «avvento della sinistra al potere», diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell’istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull’amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di controllo e di opposizione agli arbítri del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno. La settimana rossa del giugno 1914, contro gli eccidi, è il primo, grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbítri del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova piú una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia.

La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del lavoro per galvanizzare il morticino - controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di «radiose giornate di maggio», con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc. ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza.

Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente raggiunto questo fine, si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l’idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di «vero rivoluzionarismo», di «sindacalismo nazionale». La azione diretta delle masse nei giorni 2-3 dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all’attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni piú ricchi e piú sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito ed esaurito dalla guerra.

L’avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell’organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente «il fascismo», non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura. Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l’unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il «popolo delle scimmie» è caratterizzato appunto dall’incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale, per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici «rivoluzionari» e disgregare la piú potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del «popolo delle scimmie», della piccola borghesia.

Sviluppandosi, il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce piú a nascondere la sua vera natura. Conduce una campagna feroce contro l’on. Nitti presidente del Consiglio, campagna che giunge fino all’aperto invito ad assassinare il primo ministro; lascia tranquillo l’on. Giolitti e gli permette di portare «felicemente» a termine la liquidazione dell’avventura fiumana; l’atteggiamento del fascismo verso Giolitti ha subito segnato la fortuna di D’Annunzio e ha posto in rilievo il vero fine storico dell’organizzazione della piccola borghesia italiana. Quanto piú forti sono diventati i «fasci», quanto meglio inquadrati sono i loro effettivi, quanto piú audaci e aggressivi essi si dimostrano contro le Camere del lavoro e i comuni socialisti, tanto piú caratteristicamente espressivo è stato il loro atteggiamento verso il D’Annunzio invocante l’insurrezione e le barricate. Le pompose dichiarazioni di «vero rivoluzionarismo» si sono concretate in un petardo inoffensivo fatto esplodere sotto un androne della Stampa!

La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del «fascismo», si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre piú larga scala, la violenza privata all’«autorità» della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre piú larghi strati della popolazione.

Bergsoniano!44

Decisamente, la filosofia nelle file del Partito socialista italiano, e nella mente dei suoi teorici e dei suoi leaders, è destinata a non aver mai fortuna. C’è stato una volta un periodo di esaltazione, un periodo in cui la fede politica e la fede sociale sembrava dovessero di necessità accordarsi con una determinata fede scientifica. Erano i giorni avventurati in cui dell’una e dell’altra fede erano sacerdoti Cesare Lombroso ed i suoi ripetitori, in cui Enrico Ferri era un grande filosofo e grande capo rivoluzionario. Ahimè! il socialismo italiano, che per le grandi masse era allora spontaneo moto di riscossa e di risveglio, movimento di liberazione, iniziato in forme incomposte, senza troppo chiara coscienza di sé, tumultuoso, ma pieno di calore e pieno di ogni possibilità di sviluppo, e pieno soprattutto di fecondo spirito di iniziativa e di tenace volontà di azione, il socialismo italiano, nella mente dei suoi teorici, nella mente dei capi e degli ispiratori, aveva la triste sorte di essere avvicinato al piú arido, secco, sterile, sconsolatamente sterile, pensiero del secolo XIX, al positivismo. La vendetta la fecero le masse stesse. Dopo aver letto o sentito esaltare i libri dei Lombroso e dei Ferri e dei Sergi e altra simile roba positivamente scientifica, esse che avevano pur bisogno di credere per operare, si vendicarono della scienza facendone una fede. E dei saggi della positività scientifica fecero altrettanti santoni. Quelli che erano scienziati veri se la ebbero a male e tacquero; gli altri si rivelarono per ciò che erano, cioè ciarlatani venditori di una merce e fabbricanti di celebrità. Ma al socialismo italiano restò quel marchio, di essere quasi nato insieme e di aver per tanto tempo fatto vita e cammino comune con il positivismo.

Poco male, se non si corresse il rischio di vedere ad ogni poco scambiato il marchio con la sostanza di ciò che gli sta sotto, il rischio che corre ogni movimento politico che abbia voluto o voglia farsi passare per autorizzato o giustificato o valorizzato da uno speciale indirizzo di pensiero filosofico. Di questo rischio ha sofferto quanto noi il sindacalismo francese, costretto a sentire e subire gli influssi e le conseguenze delle critiche fatte alla corrente di pensiero da cui esso amò dirsi iniziato: al bergsonismo. Il paragone è molto grossolano, sia perché Bergson è una montagna e i nostri positivisti erano dei ranocchi in una palude, e sia pure perché nessun socialista italiano mai ha avuto la precisione, l’originalità, e insieme la facoltà di penetrazione e di adattamento di un Sorel. Ma dove è caduto un colosso, figuriamoci i nani! Per trovare la via giusta bisogna risalire a Carlo Marx e a Federico Engels, che da un pensiero filosofico hanno tratto una precisa dottrina di interpretazione storica e politica. Ma essi erano passati per l’idealismo e, prima ancora, erano gente che i filosofi li aveva letti, e capiti, e fatti suoi.

Oggi bisogna che discutiate con della gente che li conosce molto ma molto di lontano. E allora vi capita il curiosissimo caso di vedere il nome di una scuola filosofica diventare qualcosa di simile a un epiteto ingiurioso. Non sapete piú che cosa rispondere al vostro contraddittore? Ditegli che è un volontarista o un pragmatista, o — fatevi il segno della croce — un bergsoniano. Il sistema è di effetto sicuro.

[Oh! Saper essere come l’operaio che sente una sua precisa direttiva di azione e di pensiero, ed è filosofo senza saperlo, come il borghese gentiluomo era prosatore!]

Marinetti rivoluzionario?45

È avvenuto questo fatto inaudito, enorme, colossale, la cui divulgazione minaccia di annientare del tutto il prestigio e il credito dell’Internazionale comunista: a Mosca, durante il II Congresso, il compagno Lunaciarsky ha detto, in un suo discorso ai delegati italiani (discorso, si badi, pronunciato in italiano, anzi in un italiano correttissimo, cosa per cui ogni sospetto di dubbia interpretazione deve essere a priori scartato) che in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti. I filistei del movimento operaio sono oltremodo scandalizzati; è certo ormai che alle ingiurie di: «bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti», si aggiungerà l’ingiuria piú sanguinosa di «futuristi! Marinettiani»! Poiché una tale sorte ci attende, vediamo di elevarci fino all’autocoscienza di questa nuova nostra posizione intellettuale.

Molti gruppi di operai hanno visto simpaticamente (prima della guerra europea) il futurismo. Molto spesso è avvenuto (prima della guerra) che dei gruppi di operai difendessero i futuristi dalle aggressioni di cricche di «letterati» e di «artisti» di carriera. Fissato questo punto, fatta questa constatazione storica, viene spontanea la domanda: «In quest’atteggiamento degli operai era l’intuizione (eccoci all’intuizione: bergsoniani, bergsoniani!) di una necessità non soddisfatta nel campo proletario?». Dobbiamo rispondere: «Sí. La classe operaia rivoluzionaria aveva e ha la coscienza di dover fondare un nuovo Stato, di dover elaborare col suo tenace e paziente lavoro una nuova struttura economica, di dover fondare una nuova civiltà». È relativamente facile delineare, già fin d’oggi, la configurazione del nuovo Stato e della nuova struttura economica. Si è persuasi che in questo campo, assolutamente pratico, per un certo periodo di tempo non si potrà far altro che esercitare un potere ferreo sull’organizzazione esistente, sull’organizzazione costruita dalla borghesia: da questa persuasione nasce lo stimolo alla lotta per la conquista del potere e nasce la formula con cui Lenin ha caratterizzato lo Stato operaio: «Lo Stato operaio non può essere, per un certo tempo, altro che uno Stato borghese senza la borghesia».

Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventú fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di piú di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi; questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi.

Russia e Internazionale46

La Russia dei Soviet si è conquistata, ed ogni giorno piú si conquista le simpatie della classe operaia del mondo intero. Il fatto è naturale. La rivoluzione proletaria russa divide il mondo intero in due campi: da una parte coloro che sono per essa, che sono per il suo sviluppo e per la sua vittoria nel mondo intero; dall’altra coloro che le sono contrari e che vogliono che essa sia soffocata nel sangue del popolo rivoluzionario russo, vedendo in ciò lo schiacciamento della rivoluzione mondiale universale. Da una parte si trovano la classe operaia e le classi semiproletarie, cioè dei piccoli contadini, di tutti i paesi, dall’altra parte stanno i capitalisti, i banchieri, i grandi proprietari fondiari, gli speculatori di tutto il mondo.

Le simpatie che la Russia soviettista ha guadagnato presso il proletariato internazionale sono cosí grandi che gli stessi governi capitalistici che organizzano il blocco economico contro di essa non osano piú lottare apertamente contro il suo governo e sono costretti a riconoscerlo ed a stringere con esso legami commerciali.

Ma un fatto è specialmente importante e deve essere posto bene in luce: nessun partito operaio, nessuna organizzazione di operai, nemmeno quelli che si pongono sul terreno dell’opportunismo e del riformismo, non osano piú dirsi apertamente contrari alla Russia dei Soviet, anche se di fatto nei loro paesi questi partiti sostengono il potere della borghesia.

Perché i partiti e le organizzazioni riformiste ed opportuniste sono costretti in questo modo a nascondere la loro opposizione reale e di principio contro la Russia dei Soviet, sotto la maschera di una ipocrita amicizia? Perché se cosí non facessero in breve tempo essi perderebbero il sostegno delle masse operaie. È dunque un motivo utilitario quello che li spinge a dichiararsi per la Russia. Allo stesso modo si comportano i centristi e i semiriformisti i quali, benché si dicano contrari all’internazionale comunista, ai suoi principi, alla sua tattica ed alla sua organizzazione centralizzata, ciò nonostante si presentano alla classe operaia come difensori della rivoluzione proletaria russa. Se cosí non facessero essi sarebbero perduti, e le masse se ne staccherebbero. Essi seguono un’ipocrita politica di amicizia e di simpatia per la Russia per poter continuare l’opera loro confusionistica, per impedire la rivoluzione del proletariato.

Ciò è vero per tutti i paesi, e soprattutto per l’Italia. Non parliamo dei riformisti, perché gli operai coscienti sanno ormai come giudicare la loro politica, sanno che essi sono dei nemici della rivoluzione proletaria russa, benché essi pure non osino francamente condannarla.

Parliamo invece dei centristi e dei semiriformisti, di coloro che nascondono il loro tradimento sotto la maschera della conservazione dell’unità del Partito e che si sono dati il nome di comunisti-unitari. Essi dichiarano ad alta voce di essere difensori accaniti della Russia dei Soviet e sostenitori decisi dell’Internazionale comunista, dopo che ad esse hanno dichiarato guerra aperta! Perché il compagno Serrati ed i suoi sostenitori dimostrano con tanto chiasso la loro solidarietà alla Russia? Perché la Russia, la sua rivoluzione, i suoi principi ed i suoi metodi di lotta godono di un’immensa popolarità fra le masse proletarie italiane. Perché il proletariato italiano ammira ed acclama la Russia dei Soviet, perché esso è completamente solidale con la Russia dei Soviet, perché è deciso a sostenere fino in fondo con tutti i mezzi la Russia dei Soviet. Perciò il compagno Serrati ed i comunisti-unitari si adattano alle circostanze per non perdere la loro influenza sul proletariato.

Ma non solo verso la Russia e la sua rivoluzione essi dimostrano amicizia e simpatia, ma anche verso l’Internazionale comunista. Nella coscienza del proletariato italiano la rivoluzione russa è infatti legata in modo inscindibile e solidale con l’Internazionale comunista. Il proletariato italiano, guidato dalla sua coscienza e dal suo istinto proletario, non separa la rivoluzione russa dalla Internazionale comunista, ma le unisce cosí come esse sono unite nella vita reale. Il compagno Serrati ed i suoi sostenitori sono quindi costretti anche in ciò ad adattarsi allo stato d’animo del proletariato per non perdere il loro ascendente. Essi non hanno il coraggio di dire francamente ed apertamente che poiché sono contrari alle 21 condizioni, alle tesi sulla questione coloniale e nazionale, alle tesi sulla questione agraria ed allo stesso principio centralizzatore dell’Internazionale comunista, essi sono contro l’Internazionale stessa.

Nella sostanza, tanto i riformisti e gli opportunisti che hanno il coraggio di dirlo apertamente, quanto i centristi ed i semicentristi che non osano apertamente dirsi contrari all’Internazionale comunista, ma ne respingono le risoluzioni sostanziali e lavorano contro di essa, tanto gli uni che gli altri sono di fatto nemici della Russia dei Soviet e della rivoluzione proletaria russa, perché chi si dichiara in modo nascosto o palese contrario all’organizzazione internazionale comunista dei lavoratori è anche un nemico della Russia e della sua rivoluzione.

Che cosa è difatti l’Internazionale comunista? Essa è la realizzazione internazionale dei principi e dei metodi della rivoluzione russa.

La rivoluzione proletaria russa è la prima grande rivoluzione proletaria che si è chiusa vittoriosamente con la conquista del potere da parte del proletariato nel piú grande paese capitalista del mondo, e con l’instaurazione avvenuta per la prima volta nella storia della dittatura proletaria. Questa esperienza storica della classe rivoluzionaria russa è di una immensa importanza per tutto il proletariato internazionale e per la sua lotta di emancipazione. D’altra parte la rivoluzione russa non è soltanto il prodotto di condizioni particolari e speciali di quel paese, ma un prodotto della guerra imperialista mondiale. Oggi, dopo la guerra, in tutti i paesi capitalistici, la crisi economica, la disoccupazione, il rincaro dei viveri, il deprezzamento della moneta sono fenomeni comuni che rendono le condizioni di ogni paese simili a quelle della Russia prima del 1917. Ma non solo lo scoppio, bensí anche lo sviluppo della rivoluzione russa è collegato e dipende dalla crisi economica e politica mondiale, crisi la quale viene facendosi sempre piú larga e piú profonda. Le condizioni della rivoluzione mondiale maturano rapidamente e soltanto la vittoria della rivoluzione universale può assicurare la vittoria definitiva della rivoluzione russa.

Orbene, l’Internazionale comunista non fa altro che organizzare il proletariato internazionale traendo profitto dalla preziosa e colossale esperienza della rivoluzione russa per la preparazione della rivoluzione universale.

Schiacciamento della rivoluzione russa vuol quindi dire schiacciamento della rivoluzione mondiale. I governi capitalistici lo sanno e perciò combattono a fondo la Russia dei Soviet. Ciò però incomincia a capire sempre di piú anche il proletariato internazionale, dalla coscienza del quale scompare ormai ogni dubbio che il favore per la rivoluzione russa è una stessa cosa con l’adesione all’Internazionale comunista.

Coloro dunque che lottano apertamente o in modo mascherato contro l’Internazionale comunista, lottano di fatto contro la Russia dei Soviet: sono suoi nemici, e sono nemici tanto piú pericolosi in quanto essi militano nelle file stesse della classe operaia. È loro la colpa se la borghesia riesce ancora a mantenere una parte degli operai sotto la sua influenza.

Il dovere supremo dei comunisti italiani è quello di smascherare e di combattere questa pericolosa politica dei centristi. — Giú la maschera! — gridiamo noi agli ipocriti amici della Russia e dell’Internazionale — voi lavorate e voi lottate contro l’Internazionale, voi siete dunque nemici della prima grande rivoluzione proletaria. Il proletariato italiano, quando comprenderà questa verità non potrà che condannarvi.

Il Congresso di Livorno47

Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici piú importanti della vita italiana contemporanea. A Livorno sarà finalmente accertato se la classe operaia italiana ha la capacità di esprimere dalle sue file un partito autonomo di classe, sarà finalmente accertato se le esperienze di quattro anni di guerra imperialista e di due anni di agonia delle forze produttive mondiali hanno valso a rendere consapevole la classe operaia italiana della sua missione storica.

La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l’espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l’Italia centrale e meridionale al Settentrione. La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un’altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari. Il capitalismo esercita cosí il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui piú larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari. È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano. Ciò può avvenire solo spezzando la macchina attuale dello Stato borghese, che è costruita su una sovrapposizione gerarchica del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive della nazione; questo rivolgimento non può avvenire che per lo sforzo rivoluzionario della classe operaia direttamente soggiogata al capitalismo, non può avvenire che a Milano, a Torino, a Bologna, nelle grandi città da cui partono i milioni di fili che costituiscono il sistema di dominio del capitalismo industriale e bancario su tutte le forze produttive del paese. In Italia, per la configurazione particolare della sua struttura economica e politica, non solo è vero che la classe operaia, emancipandosi, emanciperà tutte le altre classi oppresse e sfruttate, ma è anche vero che queste altre classi non riusciranno mai a emanciparsi se non alleandosi strettamente alla classe operaia e mantenendo permanente questa alleanza, anche attraverso le piú dure sofferenze e le piú crudeli prove. Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionali) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore. I riformisti portano come «esemplare» il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia. La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l’emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato degli operai e contadini, per costruire un nuovo apparecchio di produzione industriale che serva ai bisogni dell’agricoltura, che serva a industrializzare l’arretrata agricoltura italiana e a elevare quindi il livello del benessere nazionale a profitto delle classi lavoratrici.

La rivoluzione operaia italiana e la partecipazione del popolo lavoratore italiano alla vita del mondo non può verificarsi altro che nei quadri della rivoluzione mondiale. Esiste già un germe di governo mondiale operaio: è il Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista uscito dal II Congresso. L’avanguardia della classe operaia italiana, la frazione comunista del Partito socialista, affermerà a Livorno necessaria e imprescindibile la disciplina e la fedeltà al primo governo mondiale della classe operaia: anzi di questo punto farà il punto centrale della discussione al congresso. La classe operaia italiana accetta il massimo di disciplina, perché vuole che tutte le altre classi operaie nazionali accettino e osservino il massimo di disciplina.

La classe operaia italiana sa di non potersi emancipare e di non poter emancipare tutte le altre classi oppresse e sfruttate dal capitalismo nazionale, se non esiste un sistema di forze rivoluzionarie mondiali cospiranti allo stesso fine. La classe operaia italiana è disposta ad aiutare le altre classi operaie nei loro sforzi di liberazione, ma vuole avere anche una certa garanzia che le altre classi l’aiuteranno nei suoi sforzi. Questa garanzia può essere data solo dalla esistenza di un potere internazionale fortemente centralizzato, che goda la fiducia piena e sincera di tutti gli associati, che sia in grado di mettere in movimento i suoi effettivi con la stessa rapidità e con la stessa precisione con cui riesce, per suo conto e nell’interesse della borghesia, il potere mondiale del capitalismo.

Appare evidente cosí che le questioni che tormentano oggi il Partito socialista e che saranno definite al Congresso di Livorno non sono mere questioni interne di partito, non sono conflitti personali tra singoli individui. A Livorno si discuterà il destino del popolo lavoratore italiano, a Livorno si inizierà un nuovo periodo nella storia della nazione italiana.

Un monito48

È caso od è fortuna quella che vuole che il Congresso del Partito socialista italiano si raduni a Livorno nel giorno anniversario del sacrificio di Carlo Liebknecht? Noi non crediamo né alle date fatali né alle fatidiche coincidenze della storia, e non crediamo nemmeno che lo spirito dei morti abbia potere di ritornare tra i vivi e di ispirarli. Ma se quelli di cui si commemora la fine sono i «nostri» morti, sono coloro che caddero con le armi levate nel fervore della lotta, e con lo spirito teso, nelle alternative disperate del combattimento, a resistere, ad attendere, a sperare, — di questi morti anche noi sentiamo la vitalità eterna, sentiamo noi pure la permanenza dello spirito loro, animatore, tra di noi; — per questi morti anche noi, quasi, ci sentiamo di ripetere le parole della fiduciosa superstizione cristiana: essi sono vivi ancora, e giudicano, e attendono. In realtà, siamo noi stessi che giudichiamo e attendiamo, ma vogliamo pensare l’azione e il giudizio nostro, in questi momenti supremi, come ispirati, quasi dettati da un insegnamento sorgente dalla vita di chi tanto piú intensamente di noi ha operato per l’affermazione e la vittoria dei principi nostri.

Sotto gli auspici del nome di Carlo Liebknecht ben si apre perciò il Congresso di Livorno. Chi evocherà, con il nome, i fatti e gli insegnamenti, non potrà trarre da essi che un monito, conforme con la nostra attesa, con la nostra fiducia, con i nostri propositi.

Con la morte di Carlo Liebknecht, nel gennaio 1919, finiva nel sacrificio cruento la prima grande affermazione dei comunisti dell’Europa centrale e occidentale. L’insurrezione armata del proletariato tedesco che egli diresse con l’autorità della sua persona, enorme di fronte alle mezze figure dei traditori e degli esitanti, e con una precisione di pensiero e di propositi pari all’ardire e alla tenacia infrangibile della volontà, quella insurrezione fu in realtà il primo, il solo tentativo grande, serio e fornito di probabilità di successo, di inserire e comprendere lo sviluppo della crisi europea postbellica nello stesso quadro della rivoluzione proletaria russa. L’insurrezione dei comunisti tedeschi parve per un istante realizzare la saldatura tra la rivoluzione russa vittoriosa e gli sforzi delle minoranze rivoluzionarie dei paesi dell’Europa centrale e occidentale. Se la saldatura si fosse compiuta, invece di esaurirsi in una serie di tentativi sporadici e nel grande, epico, ma doloroso sforzo di un popolo isolato, la rivoluzione europea avrebbe avuto il suo sbocco naturale in una rivolta di tutto il proletariato contro tutti i governi dell’Intesa. Perciò nei giorni tragici del gennaio 1919 il cuore del mondo intiero pulsò intorno a Berlino, e il destino del mondo intiero parve sospeso all’esito degli scontri rabbiosi nei quali il fiore dei proletari di Germania versava il suo sangue. Il nome stesso di Liebknecht apparve allora a tutti in modo concreto, in modo evidente, ciò che era apparso negli anni della guerra alla fantasia di Henri Barbusse, una sintesi vivente, un simbolo: la sintesi ed il simbolo della rivolta proletaria contro le infamie, contro gli orrori, contro la schiavitú della guerra e della pace capitalistica.

Ma oggi che a distanza di due anni ricordiamo quei fatti, noi possiamo aggiungere qualcosa a quella rappresentazione simbolica, possiamo aggiungere l’esperienza di un periodo rivoluzionario apertosi con le piú grandi speranze e con la piú grande audacia, e non ancora concluso, benché il ritorno degli eventi fatto piú lento e meno febbrile sembri accennare a una depressione degli spiriti e della volontà di rivolta. Oggi lo sviluppo dei fatti ci si presenta anch’esso piú chiaro, insieme col logico incatenarsi delle cause e degli effetti, e il sacrificio di Liebknecht ci appare in tutta la pienezza del valore ch’esso ha avuto, non solo nella storia della rivoluzione europea, ma nella stessa intima storia della formazione nelle file del proletariato di una precisa coscienza e di una valida capacità di azione. Perciò, prima di ogni altra cosa, nel ricordare la morte atroce, noi ricordiamo che gli strumenti di essa furono apprestati, prima che dalla classe borghese, dai traditori usciti dalle file del partito del proletariato. Commemoriamo il martire e l’eroe, l’uomo nella cui vita per un istante si sono riassunte le sorti di tutta la classe ribelle, e non possiamo non ricordare, come parte essenziale di un insegnamento che non si cancella, che la sua sorte fu segnata da coloro che erano venuti meno alla fede, che erano passati nelle file avversarie o rimasti tra le file dei combattenti per seminarvi dubbio, incertezza, scetticismo. L’insurrezione berlinese del gennaio 1919 fallí perché trovò contro di sé, organizzate dai socialdemocratici, le forze della reazione; dopo di essa, il proletariato tedesco fino a ieri è stato impedito di risorgere valido e potente dagli stessi che un giorno erano parsi guide dell’azione e poi si rivelarono traditori nascosti sotto le spoglie o del teorico, o del funzionario, o del parlamentare. Soltanto attualmente dopo un lungo periodo d’elaborazione interiore, dopo un periodo faticoso di liberazione e di rinnovamento, la classe operaia tedesca sta ritrovando la sua via. E la ritrova sulle direttive segnate da Carlo Liebknecht.

Ma noi abbiamo detto che nel suo nome e nell’azione sua vedevamo un esempio per tutti i popoli. Piú che un esempio, è una prova. Carlo Liebknecht ci ha provato nel modo piú valido, col sacrificio, quale è la via e quali sono gli ostacoli.

Chi evocherà il suo nome al Congresso di Livorno saprà esprimere completo il monito che esso contiene?

Sotto gli auspici del suo nome noi vogliamo porre — e ci pare realmente ora, che la coincidenza sia fatidica — l’origine del Partito comunista italiano.

Il Congresso dei giovani49

A pochi giorni di distanza dal Congresso di Livorno, si apre oggi in Firenze il Congresso dei giovani socialisti italiani. Non vi è grande attesa attorno ad esso. Lo sforzo di attenzione e di polemica compiuto dai compagni per tener dietro al dibattito delle tendenze che ha culminato a Livorno sembra avere esaurito la capacità loro di dare rilievo ai fatti che pure sono degni di essere considerati del maggior valore. Le dichiarazioni esplicite fatte ai due Congressi di Livorno dal segretario della Federazione giovanile italiana hanno forse contribuito a diminuire l’interesse che altrimenti dovrebbe essere grandissimo. Che cosa diranno, degli avvenimenti del Partito, i giovani? Che cosa pensano essi delle sorti del movimento proletario italiano? Con quali occhi, con quale animo considerano essi gli eventi attuali, e, quello che piú conta, con quali propositi considerano l’avvenire essi, che l’avvenire del Partito portano in sé, che rappresentano, che sono la continuità di esso e di tutto il movimento proletario e sovversivo?

Confessiamolo: gli «adulti» non solo si disinteressano, non solo trascurano, ma in parte anche volutamente tengono in minor conto il movimento dei giovani. Nelle assemblee essi sono sempre un poco i tollerati, e nelle ultime discussioni che si son fatte in preparazione del congresso e che in alcuni luoghi sono state lunghe, vivaci, talora tempestose, non è mancato chi insultasse l’ardore e l’impetuosità giovanile, quasi considerandola come una claque. Inutile lamentarsi: l’organizzazione dei giovani fu sempre o quasi sempre tenuta un poco in disparte e non se ne può far colpa a nessuno, se non al Partito nel suo complesso, al Partito nel quale non è stata mai presente in modo chiaro la coscienza di ciò che dovesse rappresentare nel suo seno questa organizzazione.

Difetto di visione organica, dunque, difetto che si spiega coi caratteri stessi che ha avuto il movimento giovanile nei diversi periodi della storia del socialismo italiano. Nei primi tempi i giovani venivano al Partito, a frotte, spinti da un impulso ideale, da uno slancio dell’animo disgustato della visione di un presente triste ed iniquo, avido di libertà e di battaglie. Venivano allora a noi, i giovani, senza distinzione, da tutte le classi. Erano studenti, professionisti, borghesi, gente cui lo studio aveva aperto la mente alla comprensione delle dottrine e procurato a dovizia la capacità di assimilarle e di esporle. Li animava un fervore idealistico, desiderio ardente di azione e di sacrificio; quasi sembrava che in essi dessero gli ultimi bagliori le virtú che la borghesia italiana aveva dato prova di possedere durante gli anni delle lotte del Risorgimento, quando non ancora l’eroismo era stato soffocato dalla corruzione dello Stato italiano. Quei giovani venendo al socialismo non potevano fare a meno di diventare subito delle guide, dei capi. E un vero vivaio di queste energie destinate ad imporsi e a conquistarsi i primi posti di combattimento erano allora i fasci giovanili. Ma una vera e propria organizzazione di giovani, che avesse esclusivo carattere proletario e fosse fatta per soddisfare i bisogni dei giovani proletari ed accontentare le esigenze loro nell’affacciarsi per la prima volta alla vita della loro classe, questa mancava, questa anzi si può dire che non sia esistita ancora mai.

Eppure oggi il movimento dei giovani, passati gli impeti generosi dei primi volontari, ha esclusivo carattere di classe. Sono operai e contadini, non sono piú transfughi dalle file della borghesia. Sono operai e contadini nei quali non vi è e non può esservi grande capacità di prestamente comprendere i princípi della dottrina, ma esiste invece profonda l’intuizione dei bisogni della classe da cui essi sono usciti. Essi sentono un bisogno istintivo di chiarificazione e di precisione, un bisogno di conoscere e di sapere, ma in pari tempo sentono che non hanno tempo da perdere nelle accademie e nelle discussioni vane, perché le necessità dell’azione li spingono e queste essi le sentono in modo piú vivace di tutti. Ed ecco allora presentarsi in tutta la sua ampiezza il problema dei giovani, il problema di fare sí che questa energia non vada perduta, non si sciupi in tentativi vani, ma sia guidata in modo che essa dia il massimo di rendimento per tutto quanto il Partito. È un problema di educazione, ma di educazione intesa nel significato piú ampio della parola, educazione dei giovani alla disciplina dell’azione e del pensiero, ma educazione pure di tutto l’organismo del Partito, cioè infusione in esso di nuovo sangue, di nuova energia, di nuovo desiderio e di nuova capacità di conoscere e di fare.

Nel Partito socialista, la coscienza di questo problema, dei suoi termini e della sua soluzione si era a poco a poco perduta. L’organizzazione dei giovani era incerta di sé, oscillava tra il fine educativo e il fine di preparazione materiale, non aveva trovato in se stessa un equilibrio, soprattutto non aveva trovato un equilibrio che le permettesse di ingranare l’opera sua in modo armonico con quella dell’organizzazione degli «adulti». Alcuni la consideravano una cosa inutile, molti un doppione. I giovani stessi erano incerti, sperduti: da una parte sdegnavano di essere considerati sempre soltanto come materia atta per farle sorbire i discorsi di questo o quel padreterno, e dall’altra sentivano che il sacrifizio di sé che loro si chiedeva nei momenti supremi, doveva pure avere come corrispettivo l’attribuzione di un peso e di un’importanza maggiori.

Il Partito comunista dovrà evitare gli errori del passato, dovrà cercare di conquistarsi e di mantenere chiara la percezione in tutti i suoi aderenti del valore dell’opera educativa cui attende l’organizzazione giovanile, opera educativa che si compie nell’interesse e per conto del Partito tutto intiero. Non possiamo, non potremo vivere senza metterci continuamente a contatto con questa fresca realtà nuova che è la vita dei giovani, speranza e promessa di avvenire.

Dobbiamo sentire che i problemi che ad essi si presentano sono pure gli essenziali problemi di tutta la nostra organizzazione, sono in fondo anzi un problema solo: il problema di far sí che la nuova generazione degli operai e dei contadini cresca valida e pronta alle battaglie che l’attendono.

Ben venga dunque, dopo Livorno, il Congresso giovanile di Firenze. Se esso ci dirà che i giovani sono con noi, esso ci avrà dato l’assicurazione maggiore di vitalità e di forza che noi potessimo sperare.

Controllo operaio50

Prima di esaminare nel suo congegno e nelle sue possibilità il disegno di legge presentato alla Camera dei deputati dall’onorevole Giolitti occorre fissare il punto di vista da cui si pongono i comunisti nella discussione del problema.

Per i comunisti impostare il problema del controllo significa impostare il problema massimo dell’attuale periodo storico, significa impostare il problema del potere operaio sui mezzi di produzione e quindi il problema della conquista dello Stato. Da questo punto di vista la presentazione di un disegno di legge, la sua approvazione, e la sua esecuzione nell’ambito dello Stato borghese sono avvenimenti di secondaria importanza: il potere operaio ha e solo può avere la ragione del suo essere e del suo imporsi nell’interno della classe operaia, nella capacità politica della classe operaia, nella potenza reale che la classe operaia possiede come fattore indispensabile e insopprimibile della produzione e come organizzazione di forza politica e militare. Ogni legge che, a questo proposito, emani dal potere borghese, ha un solo significato e un solo valore, questo: significa che realmente, e non solo verbalmente, il terreno della lotta delle classi è mutato, in quanto la borghesia è costretta a fare sul nuovo terreno delle concessioni e a creare nuovi istituti giuridici, ha il valore dimostrativo reale di una debolezza organica della classe dominante.

Ammettere che il potere d’iniziativa nell’industria possa soffrire delle limitazioni, ammettere che l’autocrazia industriale possa diventare «democrazia» sia pure formale, significa ammettere che la borghesia è ormai effettivamente scaduta dalla sua posizione storica di classe dirigente, significa ammettere che la borghesia effettivamente è incapace di garantire alle masse popolari le condizioni di esistenza e di sviluppo. Per alleggerirsi di una parte almeno delle sue responsabilità, per crearsi un alibi, la borghesia si lascia «controllare», finge di lasciarsi mettere sotto tutela. Sarebbe certo molto utile, ai fini della conservazione borghese, che un mallevadore come il proletariato si assumesse dinanzi alle grandi masse popolari il compito di testimoniare che dell’attuale rovina economica non bisogna incolpare nessuno, ma che dovere universale sia quello di soffrire pazientemente, di lavorare tenacemente, attendendo che le attuali fratture siano rinsaldate e che un nuovo edifizio sia costruito sulle attuali rovine.

Il campo del controllo risulta quindi il campo su cui borghesia e proletariato lottano per contendersi la posizione di classe dirigente delle grandi masse popolari. Il campo del controllo risulta quindi essere il fondamento su cui la classe operaia, essendosi conquistati la fiducia e il consenso delle grandi masse popolari, costruisce il suo Stato, organizza le istituzioni del suo governo, chiamando a farne parte tutte le classi oppresse e sfruttate, e inizia il lavoro positivo di organizzazione del nuovo sistema economico e sociale. Attraverso la lotta per il controllo — lotta che non si svolge nel Parlamento ma che è lotta rivoluzionaria di masse e attività di propaganda e di organizzazione del partito storico della classe operaia, il Partito comunista, la classe operaia, deve acquistare, spiritualmente e come organizzazione, coscienza della sua autonomia e della sua personalità storica. Ecco perché la prima fase della lotta si presenterà come lotta per una determinata forma di organizzazione. Questa forma di organizzazione non può essere che il Consiglio di fabbrica e l’organizzazione, accentrata nazionalmente, del Consiglio di fabbrica. Questa lotta deve avere come risultato la costituzione di un Consiglio nazionale della classe operaia che sia eletto, in tutti i suoi gradi, dal Consiglio di fabbrica al Consiglio urbano, al Consiglio nazionale, con sistemi e secondo una procedura fissati dalla classe operaia stessa, non dal Parlamento nazionale, non dal potere borghese. Questa lotta deve essere condotta nel senso di dimostrare alle grandi masse della popolazione che tutti i problemi esistenziali dell’attuale periodo storico, i problemi del pane, del tetto, della luce, del vestito, possono essere risolti solo quando tutto il potere economico, e quindi tutto il potere politico, sarà passato nelle mani della classe operaia, deve cioè essere condotta nel senso di organizzare intorno alla classe operaia tutte le forze popolari in rivolta contro il regime capitalista, per ottenere che la classe operaia effettivamente diventi classe dirigente e guidi tutte le forze produttive a emanciparsi attraverso l’attuazione del programma comunista. Questa lotta deve servire a porre la classe operaia in grado di scegliere nel proprio seno gli elementi piú capaci ed energici per farne i suoi nuovi capi industriali, i suoi nuovi guidatori nel lavoro di ricostruzione economica.

Da questo punto di vista il disegno di legge presentato dall’onorevole Giolitti alla Camera dei deputati rappresenta solo un mezzo di agitazione e di propaganda. Cosí esso deve essere esaminato dai comunisti, per i quali, nonché essere un punto di arrivo, esso non è neppure un punto di partenza e di appoggio.

La parola d’ordine51

Il Partito comunista ha lanciato la sua parola d’ordine. È la parola d’ordine della saggezza rivoluzionaria. Da questo momento il Partito comunista si pone realmente a capo della classe operaia italiana perché dà un indirizzo alla classe operaia, perché dimostra di avere la capacità politica e la forza morale necessarie per meritare la fiducia delle masse. Il Partito si pone sul terreno della schiettezza e della verità. Il Partito sa di rappresentare in questo momento, oltre che gli interessi del proletariato italiano, gli interessi del proletariato internazionale, le sorti della rivoluzione mondiale. Gli operai devono ricordare in questo momento qual è il quadro della situazione internazionale. L’Intesa prepara un’offensiva primaverile contro la Russia dei Soviet: la base militare per l’offensiva è la penisola balcanica. L’Italia è il ponte tra l’Intesa reazionaria e la penisola balcanica: la posizione di potenza del proletariato italiano è il massimo ostacolo alla preparazione dell’offensiva e al suo sviluppo. Se il proletariato italiano non mantiene questa posizione, se il proletariato italiano non ha la massima fiducia nell’organismo politico di classe che è legato all’Internazionale, che è l’occhio vigile e pronto dell’Internazionale in Italia, non sono in giuoco solo le fortune del proletariato italiano, sono in giuoco anche le fortune della Russia dei Soviet e della rivoluzione mondiale. Non è perciò questa l’ora della demagogia e delle parole rimbombanti: è l’ora delle fredde responsabilità in chi dirige, è l’ora della illimitata fiducia delle masse nell’organismo qualificato, per la sua posizione nazionale e internazionale, a dirigere le masse nella tremenda situazione creatasi in Italia. Ogni operaio che abbia consapevolezza dei suoi doveri di classe, ogni maestranza di fabbrica, ogni organizzazione sindacale, deve in questo momento dare ai suoi fiduciari e ai suoi delegati questo ordine preciso e netto: disciplina di ferro ai deliberati del Partito comunista, voto di fiducia all’Internazionale comunista che ha guidato alla vittoria e alla libertà il proletariato russo e dirige con polso fermo e occhio sicuro la rivoluzione mondiale.

Funzionarismo52

Il Congresso confederale di Livorno è terminato. Nessuna parola nuova, nessun indirizzo è venuto fuori da questo congresso. Invano le grandi masse popolari italiane hanno atteso di essere orientate, invano hanno atteso una parola d’ordine che le illuminasse, che riuscisse a calmare il loro spasimo e a dare una forma alla loro passione. Il congresso non ha impostato e non ha risolto neppure uno dei problemi vitali per il proletariato nell’attuale periodo storico: né il problema dell’emigrazione, né il problema della disoccupazione, né il problema dei rapporti tra operai e contadini, né il problema delle istituzioni che meglio possono contenere lo sviluppo della lotta di classe, né il problema della difesa materiale degli edifici di classe e della integrità personale dei militanti operai. L’unica preoccupazione della maggioranza del congresso è stata quella di salvaguardare e garantire la posizione e il potere politico degli attuali dirigenti sindacali, di salvaguardare e garantire la posizione e il potere (potere impotente) del Partito socialista.

La nostra lotta contro il funzionarismo sindacale non poteva essere giustificata meglio. In molte regioni d’Italia le folle dei lavoratori erano scese in campo per difendere il loro elementare diritto alla vita, alla libertà di muoversi nelle strade, alla libertà di associarsi, di riunirsi, di avere propri locali di riunione. Il campo della lotta rapidamente divenne tragico: fiamme d’incendio, cannonate, fuoco di mitragliatrici, decine e decine di morti. La maggioranza del congresso non si commosse per questi avvenimenti; la tragedia delle folle popolari che disperatamente si difendevano da nemici implacabili e crudeli non fu capace a rendere seri, a infondere il senso delle proprie responsabilità storiche in questa maggioranza formata di uomini dal cuore inaridito e dal cervello disseccato. Questi uomini non vivono piú per la lotta delle classi, non sentono piú le stesse passioni, gli stessi desideri, le stesse speranze delle masse: tra loro e le masse si è scavato un incolmabile abisso, l’unico contatto tra loro e le masse è il registro dei conti o lo schedario dei soci. Questi uomini non vedono piú il nemico nella borghesia, lo vedono nei comunisti; hanno paura della concorrenza, sono da capi divenuti banchieri d’uomini in regime di monopolio, e il minimo accenno di una concorrenza li rende folli di terrore e di disperazione.

Il Congresso confederale di Livorno è stato per noi un’esperienza formidabile; il nostro pessimismo è stato superato da questa esperienza. Noi dell’Ordine Nuovo abbiamo sempre visto nel problema sindacale, nel problema dell’organizzazione delle grandi masse, nel problema della scelta del personale dirigente di questa organizzazione, il problema centrale del movimento rivoluzionario moderno; mai però, come oggi, abbiamo sentito tutta la gravità e l’estensione del problema, mai, come oggi, abbiamo sentito tutta la cancrena che rode il movimento. Al congresso gli articoli dell’Ordine Nuovo sono stati letti, postillati, commentati, hanno riempito l’aula di clamori e di tumulti: eppure quegli articoli non dicevano neppure la decima parte del giudizio pessimistico nostro sulla insufficienza degli uomini e delle istituzioni. Eppure questo giudizio si è ancora aggravato dopo il congresso. Sí, perché mentre gli operai si battevano nelle vie e nelle piazze, mentre le fiamme d’incendio riempivano di terrore le popolazioni e le inducevano disperate all’esasperazione individuale e alle piú spaventose rappresaglie, noi non avremmo concepito neppure che i sedicenti delegati di queste masse popolari si perdessero nelle bassure piú paludose e miasmatiche della lotta personale; le folle si svenavano nelle vie e nelle piazze, entravano in iscena i cannoni e le mitragliatrici, e questi dirigenti, questi capi, questi futuri amministratori della società impazzivano e schiumavano per un articolo di giornale, per un trafiletto, per un titolo. E vorrebbero convincerci, costoro, che abbiamo fatto male, che abbiamo commesso un delitto staccandoci da loro; e vorrebbero convincerci che noi siamo i leggeri, che noi siamo gli irresponsabili, che noi siamo i «miracolisti», che noi non siamo capaci a comprendere e a pesare le difficoltà delle situazioni storiche e dei movimenti rivoluzionari. E vorrebbero che noi ci persuadessimo che in loro si realizza la saggezza, la competenza, la tecnica, il buonsenso, la capacità politica e amministrativa accumulata dal proletariato nella sua lotta e nelle sue esperienze storiche di classe. Andiamo, via... Il Congresso confederale riabilita il Parlamento, riabilita le assemblee peggiori delle classi che nel passato si sono rivelate piú corrotte e putrefatte.

È aumentato il nostro pessimismo, non è diminuita la nostra volontà. I funzionari non rappresentano le masse. Gli Stati assoluti erano appunto gli Stati dei funzionari gli Stati della burocrazia: essi non rappresentavano le popolazioni e furono sostituiti dagli Stati parlamentari. La Confederazione rappresenta, nello sviluppo storico del proletariato, ciò che lo Stato assoluto ha rappresentato nello sviluppo storico delle classi borghesi; sarà sostituita dall’organizzazione dei Consigli, che sono i parlamenti operai, che hanno la funzione di corrodere i sedimenti burocratici e di trasformare i vecchi rapporti organizzativi. È aumentato il nostro pessimismo, ma è sempre viva e attuale la nostra divisa: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

Disciplina53

Al Congresso confederale di Livorno il Partito socialista ha raccolto la maggioranza dei suffragi degli operai italiani organizzati. La Confederazione generale del lavoro deve oggi essere considerata come un organismo socialista, che riceve l’impulso ed è legata alla disciplina del Partito; di tutto il bene che fa la direzione confederale una gran parte di merito deve essere attribuita al Partito socialista, ma al Partito socialista deve essere attribuita anche, reciprocamente, una gran parte di responsabilità per l’inazione e gli errori della direzione confederale.

Dal Congresso di Livorno ad oggi, la crisi industriale è andata acuendosi. La minaccia di una serrata generale si profila sempre piú nitidamente all’orizzonte proletario. Quale parola d’ordine la Confederazione e il Partito socialista intendono lanciare agli operai e ai contadini? Quale azione intendono svolgere? Come devono comportarsi le Camere del lavoro e le singole leghe dinanzi alla crisi? Cosa devono dire i dirigenti locali alle masse dei disoccupati, che hanno fame, che non possono piú ricorrere al credito, che non possono piú aspettare?

La maggioranza socialista ha insistito a Livorno sulla necessità della disciplina sindacale. Benissimo. Ma a che parola d’ordine bisogna essere disciplinati nel movimento sindacale? Questo è il punto sul quale si domandano schiarimenti e precisioni. Su questo punto i compagni comunisti devono insistere quotidianamente, nelle Camere del lavoro, nelle singole leghe, nelle fabbriche. È necessario porre i dirigenti di fronte a tutte le loro responsabilità, è necessario costringere i dirigenti ad assumersi queste responsabilità dinanzi alle masse.

La Confederazione generale del lavoro è lo Stato degli operai in regime borghese. In questo Stato il governo è in mano ai socialisti: sul governo socialista gravano le responsabilità del pane, del tetto, del vestito, di cui gli operai e le famiglie degli operai hanno bisogno per la loro esistenza elementare. Cosa fa questo governo per assicurare l’esistenza elementare dei suoi sudditi? Questo governo vuole evitare la guerra (la guerra civile) e pare si preoccupi solo di evitare la guerra. È un metodo. I comunisti non credono che sia il metodo migliore; i comunisti credono che la guerra sia inevitabile, e predicano che tutte le energie del proletariato e dei contadini poveri debbano essere mobilizzate per resistere all’urto e uscire vittoriose dalla lotta. Ma come svolgono il loro metodo i socialisti che sono alla direzione confederale in nome e per conto del Partito socialista? Essi lo affermano, ma non lo svolgono. Essi si limitano a non assumersi responsabilità, si limitano a fare orecchie da mercante ai lamenti delle masse che soffrono crudelmente e non sono piú in grado di resistere alla pressione della fame. È necessario adunque che i dirigenti siano costretti a pronunziarsi, siano costretti ad assumere tutta la responsabilità di un governo legittimo, che è al potere perché ha raccolto la grande maggioranza dei suffragi sindacali.

I comunisti non daranno piú tregua al Partito socialista che ha dichiarato di essersi strettamente disciplinato e centralizzato ed è quindi corresponsabile in solido di ciò che fanno e di ciò che non fanno tutti i suoi iscritti. Il problema della disoccupazione è un problema nazionale, può essere affrontato solo nazionalmente, con un’azione coordinata d’insieme. La Confederazione è la Centrale del movimento operaio italiano; essa deve apertamente e chiaramente dire ciò che consiglia di fare o di non fare. È giusto che il movimento sindacale sia strettamente disciplinato. Ma disciplina sottintende programma d’azione, sottintende una concezione generale del momento che si attraversa, sottintende una previsione dello svolgersi dei fatti. Qual è il programma d’azione, qual è la concezione generale, quali sono le previsioni degli uomini che la maggioranza degli operai italiani organizzati ha investito del potere supremo, ha investito della responsabilità di sovraintendere ai piú vitali interessi delle grandi masse popolari?

I comunisti e le elezioni54

Il Partito comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia rivoluzionaria.

La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della democrazia borghese, nei quadri del regime costituzionale e parlamentare. Legata alle sorti della grande industria moderna, con le sue grandi officine e le sue città immense, formicolanti di moltitudini diverse e caotiche, la classe operaia solo lentamente e attraverso le piú crudeli esperienze e le piú amare delusioni ha preso coscienza della propria unità e dei propri destini di classe.

Ecco perché, nelle varie fasi del suo sviluppo, la classe operaia ha appoggiato i partiti politici piú diversi. Ha incominciato con l’appoggiare i partiti liberali: si è unita cioè con la borghesia cittadina e ha lottato per annientare i residui del feudalismo economico nelle campagne; la borghesia industriale è riuscita cosí a spezzare il monopolio dei viveri, a introdurre anche nelle campagne un po’ di liberalismo economico, a far ribassare il costo della vita, ma tutta questa azione si rivelò disastrosa per la classe operaia che vide abbassarsi la media dei suoi salari. La classe operaia appoggiò in un secondo periodo i partiti democratici piccolo-borghesi e lottò per allargare i quadri dello Stato borghese, per introdurre nuove istituzioni, per sviluppare le istituzioni esistenti. Fu ingannata una seconda volta; tutto il nuovo personale dirigente che si era formato in questa lotta passò con armi e bagagli nel campo della borghesia, rinnovò la vecchia classe dominante, dette i nuovi ministri e i nuovi grandi funzionari allo Stato parlamentare burocratico. Lo Stato non fu neppure trasformato; esso continuò a vivere nei limiti fissati dallo Statuto albertino, nessuna libertà effettiva fu conquistata per il popolo; la Corona continuò a rimanere l’unico potere reale della società italiana, poiché, attraverso il governo, continuò ad aver sottoposti ai suoi voleri la magistratura, il Parlamento, la forza armata del paese.

Con la creazione del Partito comunista, la classe operaia rompe tutte le tradizioni e afferma la sua maturità politica. La classe operaia non vuole piú collaborare con le altre classi per lo sviluppo o la trasformazione dello Stato parlamentare burocratico: essa vuole lavorare positivamente per il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe dirigente e afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nei quadri dello Stato parlamentare burocratico.

Con la creazione del Partito comunista, la classe operaia si presenta alla lotta politica come iniziatrice, come guida, non piú come massa di manovra guidata e diretta dallo stato maggiore di un’altra classe sociale. La classe operaia vuole governare il paese, afferma di essere l’unica classe capace, coi suoi mezzi e coi suoi istituti nazionali e internazionali, di risolvere i problemi posti all’ordine del giorno dalla situazione storica generale. Quali sono le forze reali della classe operaia? Quanti sono in Italia i proletari che hanno acquistato esatta coscienza della missione storica propria della loro classe? Quale seguito ha il Partito comunista nella società italiana? Nella confusione, nel caos attuale esistono già le grandi linee della nuova configurazione storica? In questo continuo disintegrarsi e reintegrarsi, decomporsi e ricomporsi delle forze sociali, delle classi e degli strati della popolazione italiana si è già costituito un nocciolo primordiale, compatto e solido, fedele permanentemente alle idee e ai programmi dell’Internazionale comunista e della rivoluzione mondiale, intorno al quale possa avvenire la nuova e definitiva organizzazione politica, di governo, della classe operaia?

Ecco le domande che troveranno una risposta nelle elezioni. Per avere una risposta positiva, concreta, storicamente controllabile e documentabile, il Partito comunista si presenta alle elezioni. Il Partito comunista, nello schieramento delle forze sociali che verrà determinato dai programmi elettorali, vuole identificare le sue schiere, vuole contare i suoi effettivi. È questa una fase necessaria del processo storico che deve condurre alla dittatura del proletariato, alla fondazione dello Stato operaio. Le elezioni sono, per i comunisti, una delle tante forme di organizzazione politica proprie della società moderna. Il Partito è la superiore forma organizzativa; il sindacato e il Consiglio di fabbrica sono forme organizzative intermedie, in cui si inquadrano i proletari piú coscienti per la lotta quotidiana contro il capitale, in cui l’inquadramento avviene su una piattaforma di carattere sindacale. Nelle elezioni le masse si pronunziano per il fine supremo politico, per la forma dello Stato, per l’affermazione della classe operaia come classe dirigente. Il Partito comunista è essenzialmente il partito del proletariato rivoluzionario, cioè degli operai addetti all’industria urbana, ma esso non può giungere alla meta senza l’appoggio e il consenso di altri ceti, dei contadini poveri e del proletariato intellettuale. Ecco l’affermazione di principio: qual è oggi la forza espansiva del proletariato rivoluzionario? quanti sono gli elementi delle altre classi lavoratrici che riconoscono nel proletariato la futura classe dirigente e fin da oggi, nonostante la situazione caotica, nonostante le delusioni patite, nonostante il terrorismo che la reazione esercita, intendono appoggiarlo nel suo sforzo di organizzazione e di inquadramento? Il Partito comunista non si fa illusioni sui risultati, tanto piú che esso ha già dimostrato di voler abbandonare i sistemi demagogici da fiera con cui il Partito socialista «faceva gente» nel passato. Ma quanto piú la popolazione italiana è piombata nel caos e nel disorientamento, quanto piú hanno lavorato e continuano a lavorare le forze dissolventi del passato schieramento di forze rivoluzionarie, tanto piú appare evidente la necessità di provocare un nuovo schieramento di fedeli e leali militi della rivoluzione mondiale e del comunismo. Il valore dinamico ed espansivo di esso apparirà tanto maggiore quanto piú la situazione è torbida e scarsi sono i mezzi del nuovo partito che si presenta nel campo della politica generale italiana.

Reazione?55

In un commento al manifesto elettorale del Partito socialista, pubblicato dalla Critica sociale l’on. Filippo Turati afferma incidentalmente che nessuna delle passate reazioni ebbe il carattere di questa che oggi infuria sulle classi lavoratrici. L’on. Turati intende però solo, con la parola «carattere», porre una differenza quantitativa, non una differenza qualitativa tra il passato e il presente: egli spera nella XXVII legislatura, egli è persuaso che la crisi attuale sia ancora risolvibile nell’ambito parlamentare, egli è persuaso che a queste elezioni succederanno, a breve scadenza, altre elezioni e allora tutto si ricomponga, nel migliore dei modi possibile. Per l’on. Turati, insomma, la borghesia continuerà ad essere la classe dominante per molte decine di anni ancora, e il regime parlamentare continuerà ad essere il migliore, il piú perfetto, dei regimi popolari, il sistema brevettato per dare la felicità agli italiani: al proletariato non resta altro da fare che aspettare, con calma, con fiducia, passivamente; al Partito socialista non resta altro da fare che diventare una branca proletaria della Croce Rossa.

La questione se il periodo attuale sia da considerarsi «reazionario» diventa cosí il punto centrale della polemica tra rivoluzionari e riformisti, tra comunisti e socialisti. Dalle soluzioni diverse che si dànno al problema dipende tutto l’indirizzo da imprimere al movimento proletario, dipendono tutte le questioni di tattica e di organizzazione dei partiti rivoluzionari (è il Partito socialista un partito rivoluzionario? hanno ancora la maggioranza nel Partito socialista i comunisti unitari che pretendevano di voler restare nel terreno delle tesi dell’Internazionale comunista?).

I comunisti negano che il periodo attuale sia da ritenersi «reazionario»: essi sostengono invece che il complesso degli avvenimenti in corso è la documentazione piú vistosa e abbondante della definitiva decomposizione del regime borghese. Questa tesi si fonda sulla esperienza politica piú comune, sulle dottrine stesse degli uomini di Stato della borghesia.

La reazione è caratterizzata da una forma di organizzazione statale eguale all’organizzazione statale rivoluzionaria: dalla concentrazione dei poteri in un solo organismo politico. Non solo nei periodi di reazione lo Stato conserva la sua funzionalità governativa, ma anzi il periodo reazionario è appunto il periodo di piú acuta e spasmodica funzionalità governativa, di militarizzazione degli organi tutti dello Stato, di estremo accentramento, di inflessibile disciplina delle gerarchie inferiori alle superiori, o addirittura all’uno, che viene preposto dittatorialmente all’intera struttura organizzativa della società. La differenza tra reazione e rivoluzione è solo questa: la reazione concentra i poteri dello Stato per restaurare l’autorità borghese, per rinsaldare la compagine indebolita della struttura gerarchica della società capitalista; la rivoluzione usa lo stesso strumento per affermare l’autorità proletaria, per costruire una nuova struttura sociale non gerarchica ma egualitaria: differenza fondamentale, evidentemente, e che spiega come la borghesia accetti della reazione anche le misure coercitive che transitoriamente limitano le sue libertà, allo stesso modo che il proletariato accetta della rivoluzione i pesi e le coercizioni che comprende essere necessario sopportare transitoriamente per attuare i fini permanenti della sua emancipazione.

In Italia non esiste oggi una concentrazione dei poteri nelle mani del governo e dell’on. Giolitti. In Italia si verifica la dissoluzione dell’intera struttura del regime. Il governo non funziona, il Parlamento non funziona perché lo Stato è in completa decomposizione, perché la magistratura, la gerarchia militare, la polizia, la burocrazia non ubbidiscono piú al loro centro naturale, al governo politico, ma sono controllate arbitrariamente, caoticamente da gruppi privati incapaci di organizzarsi come nuova classe dominante e di esprimere dal seno di questa organizzazione un governo proprio regolare.

La crisi generale italiana è crisi delle classi medie, è crisi del principio di autorità nei comandi sociali subalterni, che appunto costituiscono il massimo della struttura borghese dello Stato. Come potrebbe il Parlamento sanare una simile crisi? Da quale fonte potrebbe ricavare la forza necessaria per imporsi, per ripristinare lo spirito gerarchico? Non certo dal capitalismo, che appunto è la ragion d’essere della crisi in quanto non riesce piú a dominare le forze produttive, in quanto ha dimostrato di essere ormai incapace ad assicurare alla società i mezzi di sussistenza e di sviluppo. Solo il proletariato può dare la forza necessaria per ripristinare un ordine elementare, una pubblica sicurezza, una giustizia, una milizia disciplinata al governo: ma è da ritenersi che il proletariato non darà la sua forza al Parlamento, e se anche volesse, non potrebbe restaurare il regime parlamentare.

Il Parlamento è una sovrastruttura dello Stato; bisogna invece costruire una nuova struttura, bisogna creare una nuova organizzazione militare, giudiziaria, burocratica, di polizia, con mezzi proletari, con personale proletario, con un metodo nuovo di reclutamento, basato sulla eleggibilità e non sulla carriera e sull’organico; bisogna fondare un nuovo Stato, che sia rivoluzionario nel senso che rivolga tutti i poteri conquistati dal popolo in armi alla riorganizzazione delle forze produttive sperperate dal capitalismo.

I riformisti, sostenendo la tesi che il periodo attuale sia «reazione», oltre al dare un’altra dimostrazione della loro assoluta cecità politica dovuta al cretinismo parlamentare, dimostrano di voler consumare un altro tradimento ai danni della classe operaia. Di questo tradimento c’è già l’annunzio nell’articolo dell’on. Turati:

La Camera che uscirà da questa truppa non sarà la Camera italiana. Essa è morta prima che nata. Quali mai riforme attenderemmo da essa? Il solo dovere di quelli fra noi che sfuggissero alla minaccia e alla strage e giungessero a Montecitorio, sarebbe di coalizzarsi fra se stessi e col diavolo per rovesciare il ministero che si macchiò del delitto inespiabile e di troncare al piú presto la vita a un’assemblea emersa dal terrore e dal sangue. Sarà anche l’opera piú saviamente conservatrice che si possa compiere da essi: perché forse varrà a stornare dal paese le vendette feroci, che immancabilmente maturano oggi nelle campagne infestate.

Forze elementari56

In una intervista col corrispondente del Temps l’on. Giolitti ha solennemente dichiarato di volere ad ogni costo che l’ordine sia ristabilito. Sono stati convocati dal governo il generale dei carabinieri, il comandante delle regie guardie, il capo di stato maggiore e tutti i comandanti di corpo d’armata: si è discusso, si provvederà. Con quali mezzi? Entro quali limiti? È possibile che il governo, anche volendo, possa provvedere? Alle circolari e alle convocazioni del governo si accompagnano gli ordini, i richiami, le scomuniche delle autorità fasciste, anch’esse seriamente preoccupate della piega che assumono gli avvenimenti e degli immancabili colpi di ritorno: ma anche queste autorità, quantunque molto «rispettate e temute», non pare riescano a ottenere molta ubbidienza dai ranghi e dalle file dei loro gregari. Come non esiste uno Stato politico, come non esiste piú coesione morale e disciplinare negli organismi e tra gli individui che costituiscono la macchina statale, cosí non esiste una coesione e una disciplina neppure nell’«organizzazione» fascista, nello Stato ufficioso che dispone a suo buon piacere oggi della vita e dei beni della nazione italiana. È divenuto ormai evidente che il fascismo non può essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe, come movimento di forze politiche consapevoli di un fine reale: esso ha dilagato, ha rotto ogni possibile quadro organizzativo, è superiore alle volontà e ai propositi di ogni Comitato centrale o regionale, è divenuto uno scatenamento di forze elementari irrefrenabili nel sistema borghese di governo economico e politico: il fascismo è il nome della profonda decomposizione della società italiana, che non poteva non accompagnarsi alla profonda decomposizione dello Stato e oggi può essere spiegato solo con riferimento al basso livello di civiltà che la nazione italiana aveva potuto raggiungere in questi sessanta anni di amministrazione unitaria.

Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto cosí un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato. Per comprendere tutto il significato di queste affermazioni basta ricordare: che l’Italia aveva il primato per gli omicidi e per gli eccidi; che l’Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove le generazioni giovani sono meno rispettate e protette; che in alcune regioni italiane sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l’uva; che in alcune regioni i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali.

La lotta di classe ha sempre assunto in Italia un carattere asprissimo per questa immaturità «umana» di alcuni strati della popolazione. La crudeltà e l’assenza di simpatia sono due caratteri peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimentalismo fanciullesco alla ferocia piú brutale e sanguinaria, dall’ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui. Su questo terreno semibarbarico, che lo Stato ancora gracile e incerto nelle sue articolazioni piú vitali a stento riusciva lentamente a dissodare, pullulano oggi, dopo la decomposizione dello Stato, tutti i miasmi. C’è molto di vero nell’affermazione dei giornali fascisti che non tutti quelli che si chiamano fascisti e operano in nome dei fasci appartengono all’organizzazione: ma che dire di una organizzazione il cui simbolo può venire usato per coprire azioni della natura di quelle che quotidianamente insozzano l’Italia? L’affermazione d’altronde dà agli avvenimenti un carattere ben piú grave e decisivo di quello che vorrebbero dargli gli scrittori dei giornali borghesi. Chi potrà infrenarli, se lo Stato è incapace e le organizzazioni private sono impotenti?

Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbítri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato «restaurato» come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l’unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dai rapporti di produzione.

Uomini di carne e ossa57

Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini di carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e di resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano stati ridotti e non erano piú sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati nella nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese. Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle piú dure necessità dell’esistenza, che ha la responsabilità dell’esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare piú di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere piú oltre o di reagire.

Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese. Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. È stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell’Ordine Nuovo abbiamo incessantemente mosso alle Centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtú di sacrifizio del proletariato; si tratta di uomini, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che si stancano, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne. Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti.

E già nell’aprile 1920, quando si scatenò la prima offensiva contro il proletariato torinese, nei primi giorni della serrata metallurgica occasionata dall’affare delle lancette, noi dell’Ordine Nuovo stendevamo per la sezione socialista torinese la relazione che doveva essere presentata al Consiglio nazionale del Partito socialista e notavamo:

«Gli industriali e i proprietari terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d’ordine lanciata dalla Confederazione generale dell’industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova forte organizzazione della classe proprietaria, che tende, attraverso la serrata applicata su larga scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l’autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle piú dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza.

«La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile; si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese».

Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione piú reale, a una pratica piú congrua e piú adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell’inettitudine della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l’urto dell’avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c’è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi. Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.

Socialista o comunista?58

È la domanda fondamentale, quella davanti alla quale resteranno perplessi, domenica, nell’andare alle urne, tutti gli operai. Che cosa vuol dire per un operaio, per un contadino, per un impiegato, per un proletario o per un lavoratore di qualsiasi categoria compiere questo atto nuovo, dare il proprio voto al Partito comunista? Ma anzitutto è questo un atto nuovo, e col dare il voto al Partito comunista in che cosa e perché il proletario compie un atto diverso da quello che compiva quando il suo voto era dato a partiti di classe che non si davano questo nome?

Bisogna dire una cosa, che la coscienza di classe, da quando ha incominciato a formarsi nelle grandi masse lavoratrici, ha sempre avuto originariamente, come suo contenuto, il desiderio d’una liberazione completa dai vincoli di schiavitú economica e civile che nella società capitalistica tengono avvinti coloro che vivono del loro lavoro. Anche quando fanno uno sciopero per un miglioramento dell’orario, del salario o delle condizioni di lavoro, i proletari non possono a meno, nell’animo loro, di sentire che ogni lotta è illuminata da uno scopo finale, da un fine ultimo, che non si potrà raggiungere mai con nessuna delle lotte particolari le quali si combattono e si debbono combattere perché costituiscono la vita stessa della classe come organismo di lotta e di preparazione morale e materiale, ma non esauriscono né il suo compito né l’attività dei suoi membri. Il significato dell’adesione e del voto dato al Partito comunista bisogna cercarlo riflettendo a questi fini ultimi della lotta di classe.

Il Partito comunista chiede agli operai e ai contadini, chiede ai proletari di ogni categoria di riflettere, nel dare il voto, ai destini supremi della classe loro, di pensare, prima di deporre nell’urna la scheda, quale credono possa essere nel momento presente l’avvenire riserbato a loro ed ai loro compagni, quale credono quindi che sia il preciso loro dovere.

Credono i proletari che l’azione loro si possa esaurire nella lotta di ogni giorno, per la difesa dei salari e dell’orario?

Se credono questo non vadano a votare, oppure ci vadano solo per mandare in Parlamento della gente che contratti col governo quando non si può contrattare con gli industriali, della gente che si serva della sua autorità parlamentare per far mettere ai contratti sindacali una firma di garanzia dai governanti dello Stato borghese.

Credono i proletari che nel momento attuale sia loro possibile continuare nella via seguita nei primi decenni della lotta di classe, di raccogliere lentamente, grano a grano, energie per costruire istituti di difesa del proletariato, per mettere assieme organismi di addestramento delle capacità amministrative e tecniche dei lavoratori: cooperative, banche, uffici di collocamento e cosí via? Se credono che questo basti mandino deputati in Parlamento solo per difendere questi istituti, per creare ad essi, nell’orbita dello Stato borghese, una possibilità di esistenza.

Credono i proletari che la conquista di sempre maggior numero di posti negli organismi dello Stato borghese costituisca un accrescimento effettivo delle forze e delle capacità della classe lavoratrice, una conquista reale, concreta di potere da parte di essa? Credono che la vittoria dei proletari possa essere concepita come risultante da una conquista da parte dei proletari di una maggioranza di posti nel Parlamento borghese o dal maggior numero possibile di amministrazioni locali?

Se essi credono questo mandino deputati in Parlamento per avere da un aumento del loro numero la rivoluzione e la liberazione.

Credono i proletari che gli organismi della classe borghese possano servire come organi di governo anche per la classe proletaria, che essi possano servire a dare libertà e giustizia ai lavoratori, mentre sino ad oggi sono serviti solo a dare loro schiavitú e tormenti?

Se credono questo invitino i socialisti a parlare chiaro, a dichiarare il fondo del loro pensiero, a dire che in Parlamento ci vanno per preparare la collaborazione coi borghesi ed il governo... proletario in Stato borghese; invitino espressamente i socialisti a collaborare e votino per il Partito socialista.

Ma pensino i proletari quali sono le condizioni del momento presente. Pensino che la guerra ha aperto la piú grande crisi che la storia ricordi, crisi che non è di un governo o di uno Stato, ma di un regime e di un mondo, del regime e del mondo dei padroni.

Osservino i proletari come da quando questa crisi si è aperta e quanto piú essa diviene acuta, tanto piú si rivela che la tattica seguita negli anni della pace e della tranquillità non serve piú a nulla nel momento attuale.

Tutto ciò che una volta poteva sembrare un passo fatto in avanti, ogni azione che un tempo serviva a garantire un po’ di libertà, a dare un po’ di giustizia ai lavoratori, oggi non serve che a rendere piú acuta la crisi, a far infierire i nemici, a suscitare reazioni piú forti, a rendere piú dura la vita e piú aspra la battaglia.

Ogni aumento di salari aumenta di dieci volte il costo della vita, ogni tentativo di conquistare un po’ di libertà suscita le ire bestiali e le ritorsioni feroci dei padroni. L’aumento del numero di deputati, l’accrescimento del potere delle organizzazioni e la conquista di duemila comuni hanno indotto i borghesi ad armarsi, a perseguitare con le armi gli operai ed i contadini, ad incendiare le loro case, a distruggere le loro istituzioni, a ridurre intere regioni a un regime che è peggiore di quello della schiavitú, perché non vi è piú legge, non v’è piú diritto all’infuori della legge del pugno e del bastone e del diritto della rivoltella spianata sul viso dei lavoratori e contro il petto delle loro donne dei loro bambini.

Che vuol dire ciò? A che cosa tende la borghesia con questo esercizio di violenza? A dimostrare ai proletari che sino a che essa ha nelle mani il potere non ci si deve fare illusione che sia possibile conquistare gradualmente giustizia e libertà.

Bisogna che il potere stesso passi ai lavoratori, ma essi non potranno mai averlo fino a che si illudono di poterlo conquistare ed esercitare attraverso gli organi dello Stato borghese.

L’azione sindacale di difesa, la costituzione di organi, di esperimenti socialisti in regime borghese, la conquista di sempre nuovi posti negli organismi coi quali i borghesi governano la società, tutto ciò oggi non basta, non serve piú. Altro occorre se non si vuole essere sopraffatti e perdere tutto. Occorre che dominatori di tutta la società diventino gli operai, i contadini, i lavoratori di ogni categoria, che essi abbiano il potere e lo esercitino attraverso istituti nuovi, i quali diano alla società una nuova forma e una ferrea disciplina di ordine e di lavoro per tutti. Occorre che ogni altra lotta sia subordinata a quella per la conquista del potere, per la creazione del nuovo Stato, dello Stato degli operai e dei contadini.

Questa è la tattica seguita dai lavoratori russi, che permette loro oggi di guardare con sicurezza l’avvenire, mentre in tutti gli altri paesi i lavoratori lo guardano con apprensione, con paura, con ansia.

È questa la tattica che il Partito comunista propone agli operai e ai contadini d’Italia, il programma sul quale esso li chiama ad affermarsi.

Essere comunisti, votare per il Partito comunista, vuol dire affermarsi convinti della verità di questo programma, dichiararsi pronti a lottare per la sua realizzazione, mandare in Parlamento uomini i quali non si propongano altro che di affermare questi princípi, dare forza all’organismo che guida la parte migliore della classe operaia ad attuarla in tutto il mondo.

Socialisti e fascisti59

La posizione politica del fascismo è determinata da queste circostanze elementari:

1) I fascisti, nei sei mesi della loro attività militante, si sono caricati di un pesantissimo bagaglio di atti delittuosi che rimarranno impuniti solo finché l’organizzazione fascista sarà forte e temuta.

2) I fascisti hanno potuto svolgere la loro attività solo perché decine di migliaia di funzionari dello Stato, specialmente dei corpi di pubblica sicurezza (questure, guardie regie, carabinieri) e della magistratura, sono diventati i loro complici morali e materiali. Questi funzionari sanno che la loro impunità e la loro carriera sono strettamente legate alle fortune dell’organizzazione fascista, e perciò hanno tutto l’interesse a sostenere il fascismo in qualsiasi tentativo voglia fare per consolidare la sua posizione politica.

3) I fascisti posseggono, disseminati in tutto il territorio nazionale, depositi di armi e munizioni in quantità tale da essere almeno sufficienti per costituire un’armata di mezzo milione di uomini.

4) I fascisti hanno organizzato un sistema gerarchico di tipo militare che trova il suo naturale ed organico coronamento nello stato maggiore.

Rientra nella comune logica dei fatti elementari che i fascisti non vogliano andare in galera e che vogliano invece usare la loro forza, tutta la forza di cui dispongono, per rimanere impuniti e per raggiungere il fine massimo di ogni movimento: il possesso del governo politico.

Cosa intendono fare i socialisti e i capi confederali per impedire che sul popolo italiano venga a gravare la tirannia dello stato maggiore, dei latifondisti e dei banchieri? Hanno stabilito un piano? Hanno un programma? Non pare. I socialisti e i capi confederali potrebbero aver stabilito un piano «clandestino»? Questo sarebbe inefficace, perché solo un’insurrezione delle grandi masse può spezzare un colpo di forza reazionario, e le insurrezioni delle grandi masse, se hanno bisogno di una preparazione clandestina, hanno anche bisogno di una propaganda legale, aperta, che dia un indirizzo, che orienti gli spiriti, che prepari le coscienze.

I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di Stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all’offensiva. I socialisti, abituati a rimasticare stupidamente alcune formulette pseudomarxiste, negano la rivoluzione «volontarista», «miracolista», ecc. ecc. Ma se l’insurrezione del proletariato venisse imposta dalla volontà dei reazionari, che non possono avere scrupoli «marxisti», come dovrebbe comportarsi il Partito socialista? Lascerebbe, senza resistenza, la vittoria alla reazione? E se la resistenza fosse vittoriosa, se i proletari insorti e armati sconfiggessero la reazione, che parola d’ordine darebbe il Partito socialista: di consegnare le armi o di continuare nella lotta fino in fondo? Noi crediamo che queste domande, in questo momento, siano tutt’altro che accademiche e astratte. Può darsi, è vero, che i fascisti, che sono italiani, che hanno tutte le indecisioni e le debolezze di carattere della piccola borghesia italiana, imitino la tattica seguita dai socialisti nell’occupazione delle fabbriche: si traggano indietro e abbandonino alla giustizia punitiva di un governo ricostruttore della legalità quei dei loro che hanno commesso dei delitti e i loro complici. Può darsi; è però cattiva tattica affidarsi agli errori degli avversari, immaginare i propri avversari incapaci e inetti. Chi ha la forza, se ne serve. Chi sente il pericolo di andare in galera, si arrampica sugli specchi per conservare la libertà. Il colpo di Stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti, dei banchieri, è lo spettro minaccioso che dall’inizio incombe su questa legislatura. Il Partito comunista ha il suo indirizzo: lanciare la parola d’ordine dell’insurrezione, condurre il popolo in armi fino alla libertà, garantita dallo Stato operaio. Qual è la parola d’ordine del Partito socialista? Come possono le masse ancora fidarsi di questo partito, che esaurisce la sua attività politica nel gemito e si propone solo di far tenere dai suoi deputati dei «bellissimi» discorsi in Parlamento?

Povero Partito comunista!60

I «grandi uomini» dell’Avanti! non trascurano nessuna occasione per esternare i sensi del loro sviscerato amore per il giovane, gracile, inesperto, ingenuo Partito comunista d’Italia. Come procede male questo povero Partito comunista! Come sono piccoli gli uomini che lo dirigono! Ah! se alla testa del Partito comunista, invece di Bordiga e Fortichiari, ci fossero Giovanni Bacci e Gian La Terra: certo a quest’ora il Partito comunista, per la grande idea che esso esprime, avrebbe fatto almeno dieci rivoluzioni, avrebbe duecento deputati alla Camera, avrebbe quattromila Consigli municipali, diecimila cooperative, ventimila mutue, una dozzina di banche, e chissà mai quali altre cose avrebbe! Peccato, peccato, peccato!

Invece! Il povero Partito comunista non pensa ad altro che a dissolversi, a scindersi, a disgregarsi. Sono quattro gatti (immaginate un po’ che hanno ottenuto appena 298.341 voti alle elezioni e hanno mandato alla Camera appena appena 15 deputati!) e si graffiano tra loro. Spaventati dai graffi, pieni di terrore per la pupilla degli occhi loro, a Milano parecchi consiglieri municipali comunisti sono rientrati nel Barnum; a Genova l’ingegnere Costantini, seccato e disgustato dai metodi di lotta «puri», rientra anch’egli nel Barnum; a Torino poi, nella Mecca del «purismo», la dissoluzione è giunta al suo piú alto grado, e i terribili Marat, i furiosi Marat, i piccoli Marat, non potendosi avvoltolare nel sangue dei socialdemocratici, non potendo giocare alle bocce con la testa ghigliottinata dei mandarini sindacali, irosamente si avvoltolano — sapete in che cosa? — orrore! nel proprio fango!

Povero, povero, povero Partito comunista d’Italia! Non ti accorgi della cattiva strada che hai infilato? Non senti la voce del Cristo che ad ogni pietra miliare ti domanda accoratamente: Quo vadis? Non t’accorgi che i tuoi capi, i piccoli uomini, gli arrivisti, gli ambiziosi, i disgregatori, che sono alla testa dell’organizzazione sono mossi da cieca gelosia uno dell’altro e ad altro non pensano che reciprocamente espellersi? Non t’accorgi che tra poco di te non rimarrà che una meschina, miserrima, setta senza anima, senza vita?

Povero, povero, povero Partito comunista d’Italia! Povero partito senza anima, senza vita, senza deputati, senza Consigli comunali, senza cooperative, senza mutue, senza banche!

Felice partito di Barnum!

I «grandi uomini» dell’Avanti!, che non sono inesperti, né ingenui e che sanno fondar banche, non commetteranno mai i «madornali spropositi» quotidianamente commessi dai piccoli uomini del comunismo italiano. Per non commettere questi spropositi essi hanno rinnegato l’Internazionale comunista, nella quale erano entrati a bandiere spiegate. Nemici delle scissioni, hanno preferito scindersi da 58.000 comunisti piuttosto che da 14.000 riformisti!

A Livorno i grandi uomini dell’Avanti! avevano ottenuto 98.000 voti: il Partito socialista, coi 14.000 riformisti, avrebbe dovuto avere 112.000 inscritti. Quando si accorsero di essere ridotti a ben pochi, spalancarono le porte delle sezioni, ma non riuscirono a mettere insieme che 80.000 tessere. I 14.000 riformisti erano rimasti tutti, i nuovi venuti erano quasi tutti riformisti; dove erano andati a finire i 98.000 comunisti unitari, divisi in serratiani, velliani, cazzamalliani, gianlaterrestri, baratoniani? Si trovarono ridotti della metà e quale metà! E allora il Partito si impinguò: i Pietro Nenni, i Francesco Repaci, i Gerolamo Lazzeri, i Guido Pazzi, i Mario Guarnieri, gli Enrico Ferri, i Corso Bovio, gli Arnaldo Lucci diedero nuovo decoro al vecchio e glorioso Partito, divennero corrispondenti speciali da Parigi, deputati, fondatori di banche. Certo non bramano scissioni i grandi uomini dell’Avanti! Certo non sono ciecamente gelosi l’uno dell’altro; per non essere morsi dalla gelosia essi curano minuziosamente l’attrezzatura delle... compagnie. Essi seguono gli stessi criteri di Ruggero Ruggeri, di Ermete Zacconi, di Luigi Carini: un solo divo e molte comparse; si mobilitano tutte le zucche galleggianti, i Bacci, i Gian La Terra, i Baratono e si fanno le corone per i grandi uomini, e si aggiungono nuovi fegatelli e nuovi allori alla immacolata bandiera che non piegò mai lembo. Cosí si prendono molti voti alle elezioni, si hanno i voti aggiunti nelle liste del Partito popolare, si mandano molti deputati al Parlamento. Intanto le masse operaie, colpite dalla disoccupazione, muoiono di fame; le masse contadine, dominate dal fascismo, impazziscono per il terrore bianco; il popolo italiano diventa un’orda di straccioni, di affamati, di pazzi, di selvaggi. O felice, felice, felice Partito socialista italiano, Partito del proletariato italiano, Partito della rivoluzione italiana, vecchio e glorioso, che non conosci espulsioni, che non conosci disciplina, Barnum dove ogni italiano liberamente può fare i suoi giochi!

Morale della favola

Intanto abbiamo pazientemente aspettato che i grandi uomini dell’Avanti! si decidessero a uscire dal loro riserbo a proposito dell’«uomo piú disinteressato di questo mondo» e dell’altro, l’«uomo ineccepibile». Quanto dolore, quanto sforzo per uscire dal riserbo! Ma quanta pazienza da parte nostra, nell’attendere e nell’insistere ostinatamente! E quanta curiosità in tutti, comunisti e socialisti, di conoscere i particolari dell’avventura di un capitano dei carabinieri, in servizio attivo presso la direzione generale di polizia, che riesce a entrare presentato da un «uomo ineccepibile» nelle file del Partito socialista, che viene sospettato dai compagni di una sezione e allora, per l’intromissione di qualcuno, viene sottratto a ogni controllo locale, che finalmente viene scoperto e però non viene diffidato, non viene smascherato, quantunque sia ancora in grado di nuocere e di rovinare dei compagni! Perché i grandi uomini dell’Avanti! non escono dal riserbo e non appagano curiosità cosí legittime? C’è uno o piú morti nella stiva di Barnum? La felicità del Partito socialista sarebbe molto piú piccola di quanto appare a noi, poveri, piccoli, gelosi, arrivisti, ambiziosi, disgregatori, uomini del povero, povero, povero Partito comunista d’Italia? I grandi uomini sarebbero molto piccoli e miserabili? La curiosità è molta: benedetto riserbo!

PS — La felicità del partito di Barnum sarebbe meno grande di quanto sembra, se si presta fede alla Giustizia di Reggio Emilia. Ecco ciò che si legge nella Giustizia del 12 giugno:

La Direzione del Partito ha voluto ingraziarsi gli estremisti e i loro dittatori di Mosca, offrendo — per ora — la testa dei socialisti reggiani. Non potendo colpirli per le loro idee, perché ciò obbligherebbe moralmente tutti i compagni della stessa corrente, da Turati a D’Aragona, a fare con essi causa comune, li ha colpiti in nome della disciplina. Quella disciplina che non parve ai direttori del Partito lesa dal fatto che figurasse tra i candidati del nostro collegio il sindacalista Faggi che non è neppure ora e — credo — non fu mai iscritto al Partito. E che fu portato — si può, aggiungere — non tanto per protestare contro il suo arresto ingiustificatissimo, quanto perché si calcolò — e lo si disse — che il suo nome poteva portare molti voti alla lista!

Tutto è possibile in questi tempi borgiani. Solo restiamo di sasso, come diceva quel tale, nel dover constatare con quanta disinvoltura, uomini che hanno la responsabilità di dirigere un partito, si affatichino (?) a demolirlo.

Ci sarebbe da perdere la testa... se non l’avessimo ben piantata sulle spalle.

Ahiloro! Ahiloro! Ahiloro!

Sovversivismo reazionario61

Al gioco non troppo significativo delle combinazioni tra i vari gruppi parlamentari, argomento prediletto della cabalistica dei corrispondenti romani, è seguito ieri alla Camera il debutto di colui che ama presentarsi ed essere presentato come il capo della reazione italiana: Mussolini. E Mussolini debuttando ha creduto bene ricordare, quasi a titolo di merito, le sue origini sovversive. È una posa o è il desiderio di conciliarsi con ciò maggiormente i favori del nuovo padrone? L’uno e l’altro motivo senza dubbio concorrono, ed è pur vero che il passato sovversivismo del nuovissimo reazionario è un elemento il quale contribuisce non poco a tratteggiarne la figura. Bisogna però parlarne con spregiudicatezza e sfrondare un poco anche questo mito mussoliniano, caro al capo della vecchia ala rivoluzionaria del Partito socialista. È merito della maggiore maturità di coscienza portata dalle concrete esperienze rivoluzionarie di questi ultimi anni, se, ripensando agli atteggiamenti e ai fatti di quel tempo non possiamo a meno di vederli ridotti a proporzioni tanto diverse da quelle che ci apparivano allora? Nel parlare alla Camera, Mussolini ha usato forse una sola parola esatta, quando a proposito del suo modo di concepire i conflitti politici e di agire, ha parlato di blanquismo. La confessione ci permette di metterci dal punto di vista piú opportuno per cogliere e rendere con esattezza quanto istintivamente percepiamo oggi di illogico, di goffo, di grottesco, nella figura di Mussolini. Il blanquismo è la teoria sociale del colpo di mano ma, a pensarci bene, il sovversivismo mussoliniano non aveva preso di esso che la parte materiale. Anche la tattica della III Internazionale si è detto che ha dei punti di contatto col blanquismo, ma la teoria della rivolta proletaria quale viene diffusa da Mosca e quale è stata attuata dai bolscevichi forma una cosa sola con quella marxista della dittatura del proletariato. Del blanquismo Mussolini aveva ritenuto solo l’esteriorità, o meglio, egli stesso lo aveva fatto diventare qualcosa di esteriore, lo aveva ridotto alla materialità della minoranza dominatrice e dell’uso delle armi nell’attacco violento. L’inquadramento dell’azione della minoranza nel movimento di massa, e il processo che fa della rivolta il mezzo per una trasformazione dei rapporti sociali, tutto ciò era scomparso. La settimana rossa romagnola, il tipico movimento mussoliniano, era quindi definita nel modo piú esatto da coloro che la chiamavano una rivoluzione senza programma.

Ma non basta; si può sostenere che per il capo dei fascisti le cose, da allora ad oggi, non sono cambiate. La sua posizione è, in fondo, ancora quella di una volta. Anche oggi egli non è altro che un teorico, se cosí si può dire, e un inscenatore di colpi di mano. Il blanquismo, nella sua materialità, può essere oggi sovversivo, domani reazionario. Sempre però esso è rivoluzionario e ricostruttore solo in apparenza, condannato a mancare di continuità e di sviluppo, dannato a non saper saldare insieme l’uno e l’altro colpo di mano nella linea di un processo storico. Oggi i borghesi, mezzo impauriti e mezzo stupefatti, guardano a quest’uomo che si è messo ai loro servizi come ad una specie di nuovo mostro, rivoluzionatore di situazioni reali e creatore di storia. Nulla di piú falso. L’incapacità di saldare insieme gli anelli di una costruzione storica è tanto grande nel blanquismo di questo epilettico quanto lo è nel sovversivismo malthusiano dei D’Aragona e dei Serrati. Sono tutti di una sola famiglia. Rappresentano, tanto l’uno quanto gli altri, una stessa impotenza. Se nella reazione italiana appare oggi una consistenza e una continuità, essa proviene da altri elementi, da altri fattori, di carattere non solo nazionale ma comune a tutti i paesi e di natura ben diversa da quello che vorrebbe far credere questo esasperato esaltatore di se stesso. La lotta contro le rivendicazioni e la resistenza contro la riscossa operaia partono da basi ben piú concrete, ma è senza dubbio significativo, per la serietà della vita politica italiana, che al culmine di una costruzione che è tenuta assieme da un poderoso sistema di forze reali si trovi questo uomo che si diletta a fare i giochi di forza e a masturbarsi colle parole.

I politici della borghesia, che giudicano dalla impotenza loro e dalla loro paura, parlano di un sovversivismo reazionario. Per noi e per tutti coloro che qualcosa comprendono del gioco di forze che fa la politica, non si tratta che di una mosca cocchiera.

I capi e le masse62

Il trattato di pace che sta per essere stipulato tra parlamentari socialisti e fascisti avrà una notevole importanza nella vita politica italiana. Esso segnerà il fallimento del fascismo come movimento politico e ridurrà ai suoi termini obbiettivi e reali il collaborazionismo socialista, cioè segnerà il principio del fallimento politico del Partito socialista.

Il trattato avrà un puro significato parlamentare: sarà valido per i capi, non avrà nessun valore per le masse. L’on. Mussolini, che aspira al ruolo di abilissimo e accortissimo deputato, apparirà nella sua veste reale: una mosca cocchiera, un apprendista negromante che ha imparato la formula per evocare il diavolo, ma ignora quella che può ricacciarlo nell’inferno. I fascisti saranno, dalla tribuna parlamentare e dal Popolo d’Italia, sermoneggiati o sconfessati come «falsi fascisti»; gli operai che opporranno una resistenza alle violenze reazionarie saranno massacrati come «delinquenti comunisti»; e il trattato avrà vigore in quanto permetterà ad Armando Bussi di essere cordiale con Benito Mussolini e a Tito Zaniboni di stringere la mano a Farinacci o a De Vecchi.

La pace fra fascisti e socialisti è il risultato di uno stato di coscienza, in cui interferiscono i due fallimenti politici. La tattica fascista, in quanto corrispondeva a un piano politico preordinato, si proponeva di far rientrare nella legalità costituzionale i capi socialisti e di indurli alla collaborazione. L’on. Giolitti favorí il movimento fascista per incanalarlo a questo fine preciso. Le masse furono massacrate impunemente, le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative furono incendiate e saccheggiate impunemente per indurre i capi socialisti alla riflessione. Fu applicato su grande scala un metodo pedagogico in uso un tempo nella famiglia reale inglese: il principino era sempre accompagnato da un ragazzo di bassa casta, il quale si prendeva le busse per lui; la pietà per le sofferenze e per il pianto di questo infelice doveva indurre a migliori propositi il principino in preda ai capricci, alle bizze, alla svogliatezza. Per indurre i capi sindacali e i deputati socialisti a smetterla con l’«intransigenza» e a collaborare col governo e coi capitalisti, l’on. Giolitti permise al fascismo di martirizzare intere regioni, di interrorire milioni e milioni di cittadini, di organizzare 400.000 armati per la guerriglia civile. Piano machiavellico, quello dell’on. Giolitti. Ma la realtà è piena di contraddizioni: troppo spesso accanto alla faccia cinicamente pensosa del Machiavello stride la beceresca sghignazzata di Stenterello. La tattica fascista e la pedagogia politica giolittiana hanno avuto questo risultato: l’organizzazione sindacale italiana si è sgretolata, le masse non ubbidiscono piú ai capi dai quali sono state abbandonate vilmente nel momento del pericolo e della strage.

Quale fine avrebbe ormai una collaborazione dei socialisti col governo? I socialisti, i capi sindacali, possono giovare al capitalismo solo quando le loro parole d’ordine sono raccolte dalle masse organizzate nei sindacati. I capi sindacali, individualmente, sono stimati zero. La loro ignoranza è nota universalmente; la loro incapacità amministrativa è proverbiale. Altro è stipulare dei concordati industriali, altro è governare un paese. I capi sindacali sono apprezzati solo in quanto si suppone godano la fiducia delle grandi masse lavoratrici, solo in quanto possono evitare scioperi e possono convincere gli operai ad accettare con rassegnazione lo sfruttamento e l’oppressione del capitalismo «per salvare la nazione dalla rovina». Oggi i socialisti, i capi sindacali hanno perduto ogni controllo sulla classe operaia; se anche volessero, non potrebbero far nulla. È stato questo il risultato della tattica fascista e della pedagogia politica dell’on. Giovanni Giolitti: sostituire Labriola con Bruno Buozzi significherebbe oggi solo sostituire una mosca cocchiera con un’altra mosca cocchiera.

È naturale quindi che i fascisti si riconcilino coi socialisti: la debolezza intrinseca degli uni e degli altri sarà meno appariscente. Gli uni e gli altri non hanno piú una funzione da svolgere nel paese: sono quindi divenuti giustamente partiti di governo e di «realizzazione». Giovanni Giolitti è il loro uomo rappresentativo: e vedremo, se i numi permetteranno, perché le masse non avranno ancora trovato un orientamento e un inquadramento rivoluzionario, vedremo Giovanni Giolitti capeggiare un governo di mosche cocchiere socialiste, fasciste e popolari.

Bonomi63

Il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. Ministro della guerra, non solo egli ha permesso agli ufficiali di partecipare attivamente alle fazioni politiche, ma questa partecipazione ha minuziosamente organizzato. Egli ha proceduto alla smobilitazione degli ufficiali non secondo un piano tecnico, ma secondo un piano politico reazionario per cui gli ufficiali smobilitati dovevano metodicamente diventare i quadri della guardia bianca. I depositi di armi e di munizioni furono messi a disposizione del fascismo; i comandi d’armata e di divisione ebbero la parola d’ordine di studiare le posizioni strategiche della guerra civile e di compilare minuziosi piani d’attacco. Ufficiali superiori furono incaricati di girare l’Italia, di riferire, di suggerire. L’onorevole Bonomi è il vero rappresentante di questa fase sanguinosa della storia borghese. Come Noske, come Millerand e Briand egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e ne sanno corrompere gli uomini.

L’avvento di Bonomi al potere, dopo l’ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà legale. Essere comunisti, lottare per l’avvento al potere della classe operaia non sarà un delitto solo secondo il giudizio di un Lanfranconi o di un Farinacci, sarà un delitto «legale», sarà sistematicamente perseguito in nome della legge, non piú solo in nome del locale Fascio di combattimento. Si svolgerà in Italia lo stesso processo che si è svolto negli altri paesi capitalistici. Contro l’avanzata della classe operaia, avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti, ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l’avanguardia della reazione antiproletaria poiché meglio conoscono le debolezze della classe operaia e perché hanno delle vendette personali da compiere.

I comunisti non si sono fatti mai delle illusioni in proposito. Sanno di dover combattere una lotta mortale, senza quartiere. Bonomi è il primo anello della catena di delitti che la socialdemocrazia si accinge a commettere in Italia. L’organizzatore del fascismo militarizzato ha la missione di concentrare in un solo movimento tutte le correnti antiproletarie e anticomuniste che pullulano nel nostro paese per un disperato tentativo di arginare la sempre piú minacciosa insurrezione delle masse contro il capitalismo distruttore; ma neanche in Italia i massacri e gli attentati contro la libertà riusciranno a risolvere la crisi economica e a risollevare l’edifizio sociale rovinato dalla guerra imperialista.

Gli «Arditi del popolo»64

Le dichiarazioni fatte ai giornali dall’on. Mingrino a proposito della sua adesione agli Arditi del popolo servono magnificamente per mettere in rilievo il comunicato del Partito comunista sullo stesso argomento. Le dichiarazioni del Mingrino corrispondono alla vieta e logora psicologia del Partito socialista, che altre volte abbiamo battezzata neomalthusiana. Secondo questa concezione, il movimento per gli Arditi del popolo fatalmente riporterebbe a una ripetizione dei fatti del settembre 1920, quando il proletariato metallurgico fu condotto nel campo dell’illegalità, fu messo in condizioni di non poter resistere senza armarsi, senza manomettere i privilegi piú sacri del capitalismo e poi, d’un tratto, tutto finí, perché l’occupazione delle fabbriche si proponeva solo dei fini... sindacali.

L’on. Mingrino aderisce agli Arditi del popolo. Dà all’istituzione il suo nome, la sua qualità di deputato socialista, il prestigio della sua figura, diventata simpatica al proletariato rivoluzionario per l’atteggiamento tenuto durante l’aggressione fascista contro il compagno Misiano. Ma qual è la missione degli Arditi del popolo, secondo l’on. Mingrino? Essa dovrebbe limitarsi a determinare un equilibrio alla violenza fascista, dovrebbe essere di pura resistenza, dovrebbe, insomma, avere dei fini puramente... sindacali.

L’on. Mingrino crede dunque, ancora, che il fascismo sia una manifestazione superficiale di psicosi postbellica? Non si è ancora persuaso che il fascismo è organicamente legato all’attuale crisi del regime capitalista e che sparirà solo con la soppressione del regime? Non si è ancora convinto che bisogna dare alle ideologie patriottiche, nazionaliste, ricostruttrici, di Mussolini e C. un valore puramente marginale e bisogna invece vedere il fascismo nella sua realtà obbiettiva, fuori di ogni schema prestabilito, fuori di ogni piano politico astratto, come uno spontaneo pullulare di energie reazionarie che si aggregano, si disgregano, si riassociano, seguendo i capi ufficiali solo quando le loro parole d’ordine corrispondono all’intima natura del movimento, che è quello che è, nonostante i discorsi di Mussolini, i comunicati di Pasella, gli alalà di tutti gli idealisti di questo mondo?

Iniziare un movimento di riscossa popolare, aderire a un movimento di riscossa popolare ponendo preventivamente un limite alla sua espansione, è il piú grave errore di tattica che si possa commettere in questo momento. Non bisogna creare illusioni nelle masse popolari, che soffrono crudelmente e che dalle loro stesse condizioni di sofferenza sono portate a illudersi, a credere di alleviare il loro dolore mutando il fianco. Non bisogna far credere che basti un piccolo sforzo per salvarsi dai pericoli che oggi incombono su tutto il popolo lavoratore. Bisogna far comprendere, bisogna insistere per far comprendere che oggi il proletariato non si trova contro solo un’associazione privata, ma si trova contro tutto l’apparecchio statale, con la sua polizia, con i suoi tribunali, coi suoi giornali che manipolano l’opinione pubblica secondo il buon piacere del governo e dei capitalisti. Bisogna far comprendere ciò che non fu fatto comprendere nel settembre 1920: quando il popolo lavoratore esce dalla legalità e non trova la virtú di sacrifizio e la capacità politica necessarie per condurre fino in fondo la sua azione, viene punito con la fucilazione in massa, con la fame, col freddo, con l’inedia che uccide lentamente giorno per giorno.

Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l’organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo.

I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile. Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l’alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d’un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l’opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po’ piú di tranquillità e di benessere. E si sono salvati quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente.

Ma se cosí pensano i comunisti, per i dati obbiettivi della situazione, per i rapporti di forza con l’avversario, per le possibilità di dominare il marasma e il caos creati dalla guerra imperialista, per tutti gli elementi che non possono essere inventariati e sui quali non sempre si può fare un esatto calcolo di probabilità, essi però vogliono almeno che i fini politici siano chiari e concreti, essi non vogliono che si ripeta oggi ciò che è avvenuto nel settembre 1920, non vogliono almeno per ciò che può essere previsto, che può essere valutato, che può essere predisposto dall’attività politica organizzata in partito. Gli operai hanno modo di esprimere il loro parere; gli operai socialisti, che sono rivoluzionari, che hanno dall’esperienza di questi ultimi mesi tratto qualche insegnamento, hanno modo di far pressione sul Partito socialista, di costringerlo a uscire dall’equivoco e dall’ambiguità, di fargli assumere una posizione netta e precisa in questo problema che è il problema della stessa incolumità fisica dell’operaio e contadino. L’on. Mingrino è deputato socialista; se è uomo sincero, come noi crediamo, prenda egli l’iniziativa di fare uscire dal torpore e dall’indecisione le masse che seguono ancora il suo partito, ma non ponga dei limiti alla loro espansione se non vuole avere la responsabilità di aver procurato al popolo italiano una nuova disfatta e un nuovo fascismo moltiplicato per tutte le vendette che la reazione implacabilmente esercita sui titubanti e sugli indecisi, dopo aver massacrato le avanguardie d’assalto.

Tra le pieghe della bandiera bianca65

Dunque tra socialisti e fascisti c’è stato un tentativo per la pacificazione nazionale. Il fatto, che ha la sua grande portata storica e politica, è stato determinato da una pura e semplice preoccupazione di carattere parlamentare sia del gruppo fascista che di quello socialista.

L’azione della piazza anche questa volta contrasta con quella del Parlamento, e se noi ci indugiamo a dimostrare la fatuità dell’iniziativa non lo facciamo perché godiamo della guerriglia quotidiana che si è scatenata in Italia, ma perché ci piace strappare i veli a tutte le ipocrisie nascoste nelle manovre politiche dei due gruppi in conflitto.

Giovanni Giolitti quando riassunse il potere si dette arie di demagogo. Il paese era in fermento, la classe lavoratrice premeva dappresso la borghesia, e questa, inorridita del delitto che aveva scatenato con la guerra, cedeva su tutta la linea agli assalti proletari.

Mentre sull’orizzonte politico si andava addensando minacciosa la tempesta, i capi del movimento operaio rimanevano perplessi di fronte alla necessità di un evento rivoluzionario. Del resto ciò era la conseguenza di un’attività politica sempre svolta con obbiettivi legalitari rifuggenti non solo da ogni azione di piazza, ma dalla benché minima preparazione difensiva contro una violenza armata della reazione borghese.

Il vecchio labbrone si rese conto e dello stato d’animo della classe lavoratrice e della perplessità dei dirigenti e tentò, con audacia, di porre masse e dirigenti di fronte ad un atto rivoluzionario. La vertenza dei metallurgici culminò con la presa di possesso delle fabbriche. Giolitti volle lasciar compiere l’atto rivoluzionario, fece armare il proletariato, annullò l’autorità dello Stato, fece proclamare ai quattro venti la fine della proprietà privata, mettendo a dura prova i nervi della borghesia avara e bigotta. Cosí facendo ammoniva la borghesia sul pericolo di una rivoluzione ed esperimentava, sul terreno pratico, la capacità rivoluzionaria delle organizzazioni operaie. La lotta finí nel modo ignominioso che ormai tutti conosciamo, lasciando dietro di sé la beffa del «controllo» su cui e capi d’organizzazioni operaie e capi di governo chiosano nei momenti di maggiore attività politica. Ma Giolitti volle ancora vieppiú divertirsi e seguendo tutto un piano di demagogia, che abilmente doveva servirgli a nascondere le sue intenzioni, si dette l’aria, con dei progetti di legge sui sopraprofitti di guerra, di colpire tutti i ladri che avevano speculato sulla piú grande sventura nazionale: la guerra. Con questo «frondismo» l’uomo di Dronero s’accompagnava con lo spirito pubblico, eliminava le diffidenze e stringeva in pugno tutti coloro che ebbero a condannarlo «traditore» durante le radiose giornate di maggio.

Contemporaneamente teneva al guinzaglio i «capi» del movimento operaio dei quali aveva potuto esperimentare l’assoluta incapacità rivoluzionaria. Cosí rassicurato, Giolitti mise mano al suo programma e preparò la reazione. Egli, come sempre, non volle compromettere lo Stato in una reazione che si presentava difficile e preparò il terreno perché questa avvenisse per opera della stessa borghesia. Assecondando l’istinto rivoluzionario delle masse volle inasprire la borghesia che infatti non tardò, al momento opportuno, e cioè quando tutto il rivoluzionarismo socialista si rivelò una buffonata colossale, a sferrare la reazione con bande armate dal cosiddetto fascismo. Giolitti immunizzò il fascismo: lo fece incoraggiare dalla sua stampa, l’elevò a fattore nazionale di prim’ordine. Il fascismo alleato alla politica trionfò facilmente sull’organizzazione operaia, affatto preparata a difendersi nel terreno della violenza. L’azione fascista fu di martellamento ad ordine sparso per poter applicare la teoria dell’economia delle forze sí che apparve ovunque formidabile, per la snellezza dei movimenti, radunandosi, convergendo ove piú necessaria appariva l’azione rapida e terroristica.

Il fascismo cosí è riuscito a terrorizzare intere popolazioni sovversive ed a tenere soggetto il paese alla sua politica di violenze. Il suo trionfo è diventato ora la sua morte. Malgrado tutto, a bilancio di sei mesi di reazioni, si hanno evidenti segni di riscossa proletaria. La seminagione d’odio fatta dal fascismo, con i suoi delitti, ha approfondito il solco dell’odio di classe; le zone tormentate dal martello fascista dànno i fuorusciti senza casa e le famiglie disperse; i lavoratori assoggettatidalla violenza fascista anziché lavorare nel campo e nelle officine con volere ed amore, meditano la vendetta; ovunque spira aria di congiura sí che la vita sociale sembra artificiale, mentre alte nubi minacciose di prossima tempesta s’addensano sull’orizzonte. E questa volta la tempesta saprà dove colpire perché non a nulla serve l’esperienza dolorosa di questi ultimi tempi.

Si tenta ora d’alzare, al di sopra della mischia, la bandiera bianca della pace. Chi s’adopera ad inalberarla sono proprio due forze contrarie: i fascisti ed i socialisti. Il governo si ripromette di ritrarne i maggiori vantaggi possibili.

I fascisti giustificano questo loro spirito pacifista per essere riusciti a disarmare di ogni velleità rivoluzionaria e bolscevica il movimento socialista. Ma oltre a questa, altra ragione piú importante ha sospinto i fascisti verso la realtà. E cioè se i capi del movimento socialista ripiegarono dalla linea del programma rivoluzionario, le masse sono rimaste sempre sdegnose e racchiuse in un terribile silenzio. Questo atteggiamento delle masse, pieno d’incognite, è di disagio all’azione fascista che non ha fatto altro che affrettare, precipitare la crisi del regime in un vasto mare di odio, eccellente esplosivo per le anime dei lavoratori che da decenni sopportano umiliazioni e sfruttamenti. Incontro a queste preoccupazioni fasciste vanno i «capi» del socialismo sfoggiando umanitarismo e proponendo il rogo per i documenti infamanti la reazione fascista. Si vuol fare obliare il passato! Vana fatica, ed affatto nobilissima, perché egli è con queste lagrime da femminucce che si prolunga l’agonia al proletariato. L’umanitarismo socialista nasconde la impotenza di questo partito a fronteggiare sul terreno «classista» un movimento reazionario della borghesia. Come per il fascismo è manifesta la finalità delle sue lotte: riportare consorterie provinciali e comunali al potere, ridare al capitalismo agrario e industriale libertà di movimento per lo sfruttamento dei lavoratori, cosí per i socialisti è urgente dimostrare alle masse che il benessere viene dall’azione legale, visto che a nulla è valso predicare la rassegnazione e che anzi ove questa è stata accettata l’odio cova piú forte che altrove, sotto l’apparente tranquillità della superficie.

Sul terreno quindi della violenza i socialisti sono rimasti sconfitti; i fascisti s’accorgono di essere impotenti in quanto producono al regime piú male che non una rivoluzione bolscevica. E per questo uomini parlamentari di una parte e dell’altra, organizzatori e funzionari tentano ricacciare nell’Averno il diavolo che fu evocato a salvezza della patria.

La situazione è difficile e lo spasimo dell’ora è dato dalle folte schiere di disoccupati e dal cinico e sempre crescente chiudersi di stabilimenti. S’innalza una bandiera bianca di pace in mezzo a tanti delitti e a tanti dolori? Chi ha voluto artatamente gettare il paese in questa via senza uscita? Non fu forse volontà di oppressione della borghesia, e non fu forse avidità di ricchezza di tutti i ladri dell’erario durante la guerra?

Ed allora abbasso la bandiera bianca, e resti sfida eterna, suggello di odio purificatore e liberatore, la bandiera rossa della fede e della speranza rivoluzionaria delle masse.

I comunisti non patteggiano, lottano, si battono, subiscono sconfitte e dolori, ma non chiedono pace a coloro che il mondo del lavoro tengono soggetto con la violenza di classe.

Il trattato di pace lo firmino pure i «capi» nelle tranquille e fresche aule di Montecitorio, i lavoratori se ne stanno al sole, al vento, alla tempesta a lottare per vincere definitivamente su tutte le ingiustizie.

Il carnefice e la vittima66

Il governo e la stampa borghese cercano un diversivo per mascherare il fallimento delle trattative di pace tra i parlamentari fascisti e i parlamentari riformisti. Il diversivo è già trovato: il Partito comunista. Il Partito comunista non vuole la pacificazione, il Partito comunista è la causa di tutte le disgrazie e di tutte le sofferenze che si abbattono sul popolo italiano, il Partito comunista è un’associazione di briganti, di assassini, di delinquenti comuni, il Partito comunista è l’origine sola del fascismo. Siccome il Partito comunista non vuole la pacificazione, cosí il governo di Bonomi non può fare a meno di continuare a lasciar fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti farà piacere. Le centinaia e migliaia di depositi di armi e munizioni che i fascisti spesso pubblicamente hanno accumulato non verranno sequestrati. Le mitragliatrici, i cannoni, i lanciafiamme, i moschetti saranno lasciati ai fascisti. I fascisti potranno ancora sfilare nelle città, incolonnati, col moschetto in ispalla, con l’elmetto in testa, coi tascapane pieni di bombe. Lo Stato non interverrà, non applicherà le leggi, non aprirà le prigioni, non disturberà i giudici. Lo Stato non è, per ciò che riguarda i fascisti, un’amministrazione delle leggi, un’organizzazione repressiva e punitiva; lo Stato non esiste per i fascisti, lo Stato riconosce nei fascisti una autorità indipendente e tratta con loro, da pari a pari, e riconosce loro il diritto, se non avverrà la pacificazione, di continuare impunemente a incendiare, ad assassinare, a invadere città e villaggi, a decretare esili e scioglimenti di pubbliche amministrazioni. C’è dell’ironia in questa azione pacificatrice del governo italiano. Chi sarà dunque il custode e il garante del «trattato di pace»? Chi si fiderà della parola di un governo che in tal modo, clamorosamente, confessa o di essere impotente o di essere in malafede? Come farà rispettare la «carta» che dovrebbe essere giurata dai sovversivi e dai fascisti, questo governo che non fa rispettare la carta fondamentale dello Stato giurata dal re al popolo italiano?

I comunisti non parteciperanno certamente a questo «mercato di sciocchi», non compiranno certamente questo delitto contro il popolo italiano. Non può esserci pace tra il carnefice e la sua vittima, non può esserci pace tra il popolo e i suoi massacratori. Il Partito comunista si assume tutte le responsabilità di questo suo atteggiamento. Sa di diventare il bersaglio della coalizione reazionaria, ma è sicuro che anche se «pacifista» diverrebbe egualmente il bersaglio della reazione coalizzata. La classe operaia italiana ha già visto quanto valgano le parole del governo italiano, dopo lo sgombero delle fabbriche occupate. Non dovevano esserci rappresaglie: a migliaia gli operai sono stati cacciati in galera, e i tribunali sudano sette camicie per imbastire un colossale complotto; a centinaia di migliaia gli operai sono stati buttati sulla strada a crepare di fame con le loro famiglie. A Torino anche gli operai socialisti hanno già avuto la scottatura per la loro fiducia nella parola dei reazionari: hanno lasciato che in un primo tempo fossero licenziati dalle officine i comunisti, i piú audaci lottatori della rivoluzione, hanno firmato un patto; oggi è venuta la loro volta, oggi essi vengono licenziati. Chi fa rispettare ai reazionari i patti, le promesse, i giuramenti? Ma non dimostrano essi, già prima della pacificazione, tutta la loro malafede? Non è coi comunisti, non è col Partito comunista come piccolo nucleo di individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del capitale; essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità, sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa, taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga gli attuali rapporti di classe. A Ferrara non si era neppure ancora formata una sezione comunista, eppure a Ferrara il fascismo è stato specialmente feroce. In tutte le zone agricole, nel Polesine, nel Reggiano, nelle Puglie, dove il fascismo ha instaurato il regime coloniale, il Partito comunista, essenzialmente operaio e urbano, aveva scarsissime forze. Dove il Partito comunista era specialmente forte, come a Torino, il fascismo ha tardato fino al mese di aprile ad entrare in campo. La sua aggressività ha coinciso con la crisi industriale, con la serrata della Fiat, ed è apparsa luminosamente come una coordinata tattica della lotta capitalistica contro l’organizzazione sindacale. Il fascismo non è una particolare associazione, come non è una particolare organizzazione il comunismo: il fascismo è un movimento sociale, è l’espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista. In questa lotta l’iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al fascismo appartiene l’iniziativa della guerra civile: la classe lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace tra la vittima e il carnefice. Chi oggi vuole trascinare il proletariato alla pacificazione, è già anch’egli un carnefice: per la pietà che ispirano oggi i dieci uccisi, costoro preparano per domani la strage di mille. Non è neppure pietà cotesta, è ipocrisia vile; il Partito comunista non vuole essere né ipocrita né vile, appunto perché sente davvero la pietà umana per il destino atroce del popolo lavoratore.

Insurrezione di popolo67

Nei 365 giorni dell’anno 1920, 2.500 italiani (uomini, donne, bambini e vecchi) hanno trovato la morte nelle vie e nelle piazze, sotto il piombo della pubblica sicurezza e del fascismo. Nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921 circa 1.500 italiani sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista, circa 40.000 liberi cittadini della democratica Italia sono stati bastonati, storpiati, feriti; circa 20.000 altri liberissimi cittadini della democraticissima Italia sono stati esiliati con bandi regolari, o costretti a fuggire con le minacce dalle loro sedi di lavoro e vagolano per il territorio nazionale, senza difesa, senza impiego, senza famiglia; circa 300 amministrazioni comunali elette col suffragio universale sono state costrette a dimettersi; una ventina di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari sono stati distrutti; centinaia e centinaia di Camere del lavoro, di Case del popolo, di cooperative, di sezioni comuniste e socialiste sono state saccheggiate ed incendiate; 15 milioni di popolazione italiana dell’Emilia, del Polesine, delle Romagne, della Toscana, dell’Umbria, del Veneto, della Lombardia sono stati tenuti permanentemente sotto il dominio di bande armate, che hanno incendiato, hanno saccheggiato, hanno bastonato impunemente, hanno violato i domicili, hanno insultato le donne e i vecchi, hanno ridotto alla fame e alla disperazione centinaia di famiglie, hanno calpestato tutti i sentimenti popolari, dalla religione alla famiglia, hanno fatto impazzire per il terrore e morire dei bambini e dei vecchi. Tutto questo è stato permesso dalle autorità ufficiali, è stato o taciuto o esaltato dai giornali; una pazzia collettiva parve avere invaso la classe dirigente, il Parlamento, i governi. Tutta questa gente pensava che la vita nazionale potesse normalizzarsi secondo il ritmo fascista; che nessuna reazione, né psicologica, né fisica, dovesse fermentare nella popolazione in tal modo tormentata, avvilita, schiacciata.

Oggi la situazione muta. Non si tratta piú di individui o di gruppi che si rivoltano, che cercano di difendersi e di vendicare i loro morti; sono intere popolazioni che insorgono, senza distinzioni di partiti politici popolari; il prete fa suonare la campana a stormo, mentre la donna prepara l’olio bollente e gli uomini si armano di tutto ciò che possa colpire, formano squadre di difesa, e d’un tratto, sentendo ribollire tutto l’odio accumulato, tutte le umiliazioni patite, diventano furiosi e dànno la caccia al fascista come a un invasore straniero che si è messo al bando dell’umanità con le sue nefandezze e la sua ferocia. E lo Stato finalmente si muove; oggi che la popolazione insorge, lo Stato si muove; oggi che la furia popolare vuol far giustizia dei dolori sofferti, lo Stato si muove. Con prudenza, con cautela, perché non si tratta già di colpire la povera gente, si tratta di colpire i figli dei borghesi, gente che va al saccheggio gridando «viva l’Italia, viva il re», adorna del tricolore; gente scelta, insomma, per bene, legata con vincoli di parentela ai deputati, alla gerarchia militare, alla magistratura.

E infatti. Tredici fascisti vengono uccisi dalla forza pubblica, 13 componenti di una banda armata di 600 persone, diretta contro una città: lutti, pianti, desolazione. Duemilacinquecento italiani sono stati uccisi nel 1920; 1.500 italiani sono stati uccisi nei primi sei mesi del 1921; ma erano di bassa casta, ma erano del bestiame popolare che è troppo numeroso, che è troppo ingombrante per le disponibilità in viveri, che è esuberante per la possibilità produttiva dell’apparecchio capitalistico industriale e agricolo; perciò nessuna protesta per la loro uccisione, nessun lutto, non lacrime, non desolazione per la loro fine violenta. I 13 valgono piú dei 4.000; la morte di 13 fa dimenticare la morte dei 4.000, fa dimenticare i dolori, le sofferenze dei milioni e milioni di popolazione sottoposta al regime dell’invasione fascista.

Tutto ciò è naturale. Sarebbe sciocco attendersi diversi stati d’animo, sarebbe assurdo sperare in un’azione permanente da parte dello Stato e dei giornali contro il terrore fascista. Domandare alla classe dirigente di schiacciare il fascismo, sarebbe come domandarle il suicidio. Le armi che per cinque minuti sono state spianate contro i fascisti, non tarderanno a spianarsi contro il popolo insorto; l’insurrezione popolare servirà allo Stato borghese per identificare le armi in possesso dei lavoratori e per cercare di rastrellarle. Le piú assurde leggende saranno create contro il popolo barbaro, inumano, formato di cannibali; per 13 morti borghesi si permetterà un’ecatombe di 1.000 lavoratori.

Se il popolo non sta in guardia, permanentemente, se esso si lascia disarmare, se esso si lascia illudere dalle promesse di chi mai ha mantenuto una promessa [...]. Questa che attraversiamo è veramente l’ora della collera popolare; guai a quei partiti politici che non sapranno prendere una decisione, che dall’esperienza storica degli altri paesi non sapranno trarre un indirizzo alla propria azione.

Il Partito comunista è al suo posto: esso sta diventando il partito piú popolare d’Italia, per il valore dei suoi inscritti che si pongono a capo delle popolazioni insorte e le guidano alla liberazione e alla pace. Le popolazioni vanno convincendosi che il Partito comunista è oggi l’unico partito che voglia l’ordine e la tranquillità e che possa assicurare questi due beni inestimabili alla società degli uomini. Le popolazioni vanno facendo la loro esperienza diffusa e profonda sul valore della democrazia parlamentare e della legislazione borghese, incapaci a dare pane, pace, sicurezza delle persone e del domicilio alle masse, e insorgono e si unificano nelle città e nei villaggi. I giornali borghesi, in quanto vedono comunisti dappertutto, hanno un’intuizione precisa della realtà italiana: in Italia ogni insurrezione di popolo si orienta rapidamente verso il Partito comunista, in Italia la rivoluzione comunista sarà il movimento piú popolare e piú profondo che mai si sia verificato nella storia del nostro paese.

Colpo di Stato68

Gli Stenterelli della Confederazione generale del lavoro sono permanentemente in vena di allegria. Intere regioni sono messe a ferro e a fuoco dalla guardia bianca, l’attività sindacale è completamente spezzata, non sussiste piú nessuna garanzia costituzionale per gli individui e per le associazioni, gli operai e i contadini vengono fucilati impunemente da bande armate mercenarie che si spostano liberamente da provincia a provincia e da regione a regione, ma gli Stenterelli della Confederazione non perdono perciò né l’appetito né il buon umore.

Esiste in Italia la possibilità di un colpo di Stato? Quale deve essere l’atteggiamento della Confederazione, dell’organismo massimo del proletariato italiano, nei riguardi di questa possibilità? Gli Stenterelli confederali ridono del fatto che solo si faccia l’ipotesi del colpo di Stato. Ma non viviamo oggi in Italia in piena atmosfera di colpo di Stato? Cosa significa, cosa rappresenta la situazione di intere province e di intere regioni in cui è il fascismo che governa e non piú l’autorità ufficiale? Non è stata forse restaurata la pena di morte, non è stato ripristinato l’uso del bastone, e queste forme di punizione non sono forse amministrate da organismi extralegali?

Questo è l’ambiente del colpo di Stato, non è ancora il colpo di Stato nella sua piena efficienza. Esiste ancora il Parlamento, il governo è ancora scelto e controllato dal Parlamento; nessuna legge eccezionale ha ancora abolito formalmente le garanzie statutarie. Ma è possibile immaginare che l’attuale condizione di cose possa durare ancora per molto tempo? Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese. Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi e che spezzerà le resistenze opposte dalla tradizione del funzionamento statale con un colpo di forza diretto contro gli organismi centrali di governo. Avremo allora il «colpo di Stato», secondo lo schema che le ideologie democratiche sullo Stato parlamentare hanno costruito: si verificheranno delle resistenze da parte del popolo, dei tentativi di insurrezione locale, delle resistenze da parte della burocrazia, che a ragione temerà di essere sacrificata per soddisfare le esigenze economiche di una turba di disoccupati in cerca di impiego e di stipendi. La parte piú reazionaria e spregiudicata della classe dirigente imporrà la sua dittatura sanguinosa, scioglierà le organizzazioni operaie, consegnerà tutti i poteri nelle mani della casta militare. Esiste o non esiste questo pericolo? E come deve comportarsi la Confederazione nei suoi riguardi?

Abbiamo, in una manchette, ricordato che la Confederazione generale del lavoro di Germania dedicò tre mesi di lavoro organizzativo per essere in grado di spezzare il colpo di Stato Kapp-Lüttwitz. Gli Stenterelli della Confederazione italiana prendono la palla al balzo per concludere che dunque bisogna collaborare con «quelle forze non rigidamente rivoluzionarie e classiste che sono contrarie al colpo di Stato». In Germania le masse proletarie spezzarono, con lo sciopero generale insurrezionale, il tentativo di Kapp-Lüttwitz; oggi si ricomincia, oggi il pericolo del colpo di Stato è accresciuto. I «collaboratori» non rigidamente rivoluzionari che per nulla avevano contribuito alla resistenza, si opposero alla continuazione del movimento insurrezionale, si opposero al proseguimento della lotta per l’instaurazione della Repubblica dei Soviet tedeschi. Cosí le forze reazionarie non furono represse, poterono ritirarsi in buon ordine, sparpagliarsi secondo un piano prestabilito e riprendere il lavoro di armamento, di reclutamento, di organizzazione che oggi dà a Kapp e Lüttwitz una maggiore probabilità di buona riuscita.

L’esperienza tedesca dovrebbe insegnare qualcosa alle organizzazioni operaie degli altri paesi: essa non insegna nulla agli Stenterelli italiani. Questi beceri della politica si illudono ancora di potere, con delle contrattazioni vergognose, evitare le bastonate e le pallottole alle loro persone. Neppure l’esempio ungherese è stato sufficiente per indurli a stabilire una linea d’azione che sia aderente alla realtà degli avvenimenti. Ciò che oggi succede in Italia non li scuote minimamente: continuano a cullarsi nella piú beata e beota indifferenza.

Incendi, assassini, bastonature, fucilazioni in massa, scioglimenti di organizzazioni, occupazione delle sedi operaie, impossibilità di riunione, formazione di una massa, che ogni giorno diviene piú numerosa, di profughi, di esiliati, di affamati; creazione di stati d’animo che dalla disperazione minacciano di passare alla pazzia e al furore collettivo: tutto ciò non li preoccupa, non li scuote, non li induce ad acquistare un maggior senso delle responsabilità. Essi scherzano, essi ridono, essi si divertono a far dello spirito sul Partito comunista, che non ha la forza necessaria per proclamare la... rivoluzione.

L’esperienza ungherese ha lasciato un insegnamento: i reazionari, per battere i comunisti, accarezzano in un primo tempo i socialisti, scendono a patti con loro, fanno degli accordi di pacificazione; una volta battuti i comunisti, gli accordi e i patti vengono stracciati e anche i socialisti assaporano la corda e la pallottola. L’allegria che permanentemente caratterizza gli Stenterelli confederali, appare, secondo la logica degli avvenimenti, l’anticipazione della smorfia granguignolesca di questa povera élite dirigente del proletariato italiano, che per le sue indecisioni, per la sua inettitudine, per la sua incapacità a comprendere le situazioni politiche minaccia d’essere travolta in un caos di barbarie senza precedenti nella storia del nostro paese.

L’ora del proletariato69

La borghesia prende coraggio. La borghesia è oggi come colei che si sente al sicuro, dopo aver superato un grave pericolo. E per dimenticare quasi il pericolo che ha corso si mette a tirare colpi ciechi contro il nemico che crede di aver vinto e disfatto. Il nemico deve scomparire. Nessuna pietà, nessuna attenuazione. La borghesia ha troppo tremato in tutto il mondo. Essa perciò vuole la disfatta, l’annientamento completo del suo nemico. Piú nessuna traccia ne deve restare nel mondo. Nemmeno il ricordo; nemmeno la piú pallida ombra deve sopravvivere. La borghesia odia mortalmente il comunismo. La borghesia mondiale è d’accordo tutta quanta sul farla finita con esso per sempre. Chiuse le officine, fermato il lavoro nei campi e nelle miniere, si è dappertutto accresciuto il numero dei disoccupati. I lavoratori affamati e dispersi nelle vie e nelle piazze hanno perduto il loro centro naturale di lotta. D’altra parte la borghesia, servendosi della fame come strumento di lotta contro i lavoratori, ha potuto organizzare la sua difesa con guardie bianche, gettando ovunque il terrore, seminando stragi e determinando la rovina di tutto l’apparato di produzione mondiale. La classe operaia, depressa dalla fame, avvilita dalla disoccupazione, si è trovata cosí a lottare contro i suoi sfruttatori in condizioni impari, sí da doversi assoggettare alle loro leggi o soccombere. Ma non è solo questo che la borghesia si proponeva. Affievolire lo spirito rivoluzionario delle masse operaie, costringendole per fame a patti iniqui, doveva essere solo un mezzo per disfarsi dell’organizzazione comunista. Isolare i comunisti, per farne uno sterminio, è il proposito reale perseguito dalla borghesia e dagli Stati capitalistici di tutto il mondo. La fame era perciò un ottimo mezzo per distruggere la rete di Consigli e di organi rivoluzionari che i comunisti avevano costruito in ogni paese per la lotta suprema contro lo sfruttamento del capitalismo. Ma se ciò avveniva e poteva avvenire in tutti i paesi e Stati capitalistici, non era sufficiente per allontanare il pericolo rivoluzionario, finché la Russia dei Soviet rimaneva in piedi, simbolo vittorioso della rivoluzione proletaria. Che giovava incarcerare migliaia e migliaia di operai comunisti, farne assassinare altrettanti, se un grande Stato proletario resisteva ai colpi della reazione mondiale e riusciva a tenere sempre in alto il vessillo della ribellione contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo?

La Russia dei Soviet, la gloriosa Repubblica dei Consigli operai e contadini, resistendo senza mai indebolirsi ai feroci attacchi della Santa Alleanza borghese, affermava il principio della rivoluzione vittoriosa. Ecco perché era necessario alla borghesia anzitutto smantellare questa fortezza della rivoluzione mondiale, per potere aspirare di nuovo ai sonni tranquilli. Tutte le armi, tutti i mezzi sono stati adoperati per combattere la Repubblica dei Consigli. Ma su questo fronte la borghesia mondiale, quantunque aiutata dalla complicità dei socialriformisti, ha dovuto riconoscere la sua impotenza a schiacciare la rivoluzione proletaria. La Russia dei Soviet ha trionfato di tutti i briganti e di tutte le manovre controrivoluzionarie.

La borghesia è stata a volta a volta compiacente e spietata: compiacente nei momenti in cui la Repubblica dei Consigli si affermava la piú forte e minacciava di estendersi; spietata quando le sue sorti sembravano piú incerte. Politica di viltà e di opportunismo, com’è tutta la politica delle borghesie. Di questo una prova migliore ci viene offerta oggi.

La Russia dei Soviet attraversa un’ora critica, frutto insieme delle conseguenze dell’infame blocco e di una terribile carestia che si è abbattuta su alcune delle sue piú fertili regioni. La Russia ha oggi grande bisogno di viveri e di medicine. Gravi malattie accompagnano la triste sciagura della carestia. La Russia si appella a tutti gli operai ed operaie del mondo, perché essi vadano in suo aiuto, inviando viveri e medicine. Ora di questa circostanza tentano approfittare tutti i nemici della repubblica operaia, per schiantarla definitivamente. Gli Stati ed i governi assassini, che hanno contribuito con il blocco ad aggravare le condizioni economiche della Russia proletaria, sono lieti che anche la carestia sia venuta in loro aiuto e meditano come devono servirsene contro la Repubblica dei Soviet.

L’aiuto che i fratelli russi chiedono agli operai di tutto il mondo non potrà essere fornito senza vincere prima gravi difficoltà. Le borghesie di tutti i paesi non permetteranno l’invio di viveri alla Russia affamata che ad un patto, e cioè che questo serva a schiacciare il governo degli operai e contadini. Tutti gli ostacoli saranno sollevati contro la Russia, perché essa perisca. L’umanitarismo e la filantropia dei governi borghesi non sono che maschere, sotto le quali si nasconde la vera loro essenza. I lavoratori attraversano oggi ovunque momenti critici. Anch’essi sono alle prese con la fame e la miseria. Ma essi daranno. I lavoratori conoscono che cosa è sacrifizio. Poveri, essi sapranno dividere il loro pane coi fratelli russi.

Ma non basta organizzare la solidarietà degli operai con la Russia. Raccogliere viveri e denari è il meno che si possa fare per la Russia. Occorre poi assicurare che i viveri possano giungere ai paesi affamati. Perché questo sia possibile, occorre impedire che contro la Russia dei Soviet si preparino e si organizzino nuove spedizioni. La Russia ha bisogno di dedicarsi con tranquillità a risanare i mali del suo flagello. Questa sicurezza può e dev’essere garantita ad essa solo dal proletariato rivoluzionario di tutto il mondo.

Nessuna nuova aggressione alla Russia operaia; nessun ostacolo all’aiuto che i lavoratori di tutti i paesi si preparano a dare ai loro fratelli russi con spirito di abnegazione e sacrifizio. Il proletariato rivoluzionario di tutto il mondo ha il compito d’impedire che i nemici della Repubblica dei Soviet facciano morire migliaia di bambini e di operai, per la loro avversione al comunismo. Il proletariato rivoluzionario nulla deve risparmiare per adempiere questo compito. Sia esso vigile e pronto in questa ora di grave cimento per la prima repubblica operaia e per il superiore interesse della rivoluzione mondiale.

Problemi morali e lotta di classe70

Il trattato di pace fra fascisti e socialisti porta la firma anche della Confederazione generale del lavoro. Questo atto del massimo organismo sindacale è perfettamente giustificabile colla tattica che i labour leaders italiani seguono da anni, verso la realizzazione del loro ideale politico: uno Stato «democratico» basato sul principio della rappresentanza parlamentare di classe e di categoria e sull’accentramento di tutte le attività economiche nella burocrazia statale-sindacale. Pietre miliari di questo percorso, la partecipazione alla mobilitazione industriale del periodo di guerra, l’adesione alla commissionissima, le proposte di Costituente all’indomani della guerra, i progetti per il Parlamento del lavoro e la trasformazione del Senato colla rappresentanza professionale, la svalutazione delle Camere del lavoro e l’accentramento laburista nella segreteria confederale, la trasformazione dei sindacati sul principio delle gilde, il controllo statale-sindacale nell’industria, la permanenza nell’Internazionale di Amsterdam e conseguente collaborazione coll’Ufficio internazionale del lavoro della Lega delle Nazioni, ecc. Il patto di pace stipulato coll’intervento ufficioso dello Stato, mentre è una rinuncia forse anche dolorosa per i pochi massimalisti del Partito socialista, è una conquista per i laburisti che dirigono la Confederazione e tirano i fili dei burattini del teatro di Barnum.

Il Partito socialista italiano, che non ha mai saputo correggersi dal peccato d’origine democratico, parlamentare, piccolo-borghese, è sempre stato poco temuto dalle nostre classi dirigenti.

Colla guerra e la rivoluzione russa, la lotta di classe ha assunto ovunque in Europa il carattere asprissimo dello sforzo per l’abbattimento del potere borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria.

La grave situazione operò quello che gli uomini di buona volontà avrebbero voluto evitare. Il bongarçonnisme divenne sempre piú impotente di fronte alla fatalità della storia.

Ne risultò la scissione nel socialismo mondiale. Data da allora in Italia l’inasprirsi dei dissidi che hanno provocato i piú accesi dibattiti sui rapporti fra i sindacati dominati dai laburisti ed il Partito socialista, ed hanno portato all’uscita da questo dei comunisti.

La scissione segnò la fine politica del «massimalismo» e l’asservimento del PSI agli uomini della Confederazione. La maschera rivoluzionaria fu conservata con intenti di pura demagogia.

Il fatto è previsto nello sviluppo della lotta di classe, che tende a polarizzarsi nel laburismo collaborazionista e nel Partito comunista, classista, rivoluzionario.

Il dissidio fra rivoluzionari e riformisti sui compiti dei sindacati era in fondo dissidio fra la burocrazia sindacale — che accentrava in sé tutte le funzioni politiche dell’organizzazione operaia — e le masse organizzate. Con questo si spiega come il fascismo — mentre i suoi capi parlamentari affermavano il rispetto delle organizzazioni operaie, per far piacere ai capi parlamentari del socialismo, coi quali oggi solennemente si sono pacificati, quasi fossero stati mai in guerra — si sia sviluppato essenzialmente con carattere antisindacale. I fortilizi del sindacalismo riformista sotto la raffica della reazione bianca sono caduti uno dopo l’altro. Le Camere del lavoro sono state incendiate a decine, le organizzazioni sciolte o impossibilitate a funzionare, i dirigenti esiliati od arrestati e talvolta uccisi anche, le conquiste maggiori calpestate, ma la tattica dei laburisti non è cambiata.

Essi hanno continuato a guardare allo Stato come al solo capace di ristabilire coll’autorità della legge la normalità dell’azione sindacale, e piú, come alla sola realtà sociale.

Cosí oggi i capi riformisti della Confederazione generale del lavoro non hanno neppure dovuto fare un esame sommario di coscienza prima di sottoscrivere il trattato di pace coi fascisti.

La presenza dei rappresentanti dello Stato è anzi stata da essi voluta, e dai massimalisti, come sempre, docilmente accettata. I laburisti della Confederazione generale del lavoro hanno firmato il trattato di pace colla coscienza di compiere in tal modo un atto di collaborazione, anticlassista, controrivoluzionario, di contribuire a restaurare l’autorità della legge e dello Stato, di avvicinare il giorno della loro andata al «potere» colla liquidazione degli ultimi residui di massimalismo intransigente che ancora ingombra la via.

L’Avanti! commentando il «patto» di Roma ha dichiarato trattarsi di una semplice tregua, consigliata da ragioni tattiche, avente nessun altro valore che quello di un atto di guerra, poiché «non vi può essere cessazione della lotta di classe» ma soltanto mutamenti di forma a seconda delle varie contingenze. Ma l’Avanti! è l’organo del massimalismo, cioè la scena del teatro di Barnum, mentre per farsi un concetto esatto degli avvenimenti è assai piú utile conoscere il pensiero del burattinaio.

Gino Baldesi in Battaglie sindacali, organo della Confederazione generale del lavoro, commentando il trattato, dice proprio l’opposto di quanto è affermato nell’Avanti!:

«Non è la pace conclusa fra due eserciti in guerra. Il “patto” di Roma, è un patto “morale”, che tende a spazzar via dalla vita civile tutto quanto vi si era infiltrato e che avvelenava l’esistenza».

I dirigenti confederali non si preoccupano neppure, come l’Avanti!, di sapere se il trattato sarà eseguito o no:

«Che i gregari, gli associati, i seguaci di chi li rappresentò firmando, obbediscano o no è cosa di secondaria importanza. Anzi: se dovessimo credere agli ordini del giorno approvati dai fascisti delle regioni maggiormente doloranti, dovremmo essere assaliti da un senso di tristezza per il timore che la buona volontà dei dirigenti abbia da andare a cozzare contro la decisa volontà contraria dei gregari».

I laburisti hanno sempre una soluzione: lo Stato. Se il trattato non sarà eseguito, lo faranno eseguire loro, magari andando direttamente al governo se sarà necessario: «Le leggi ci sono ed hanno a pesar per tutti. Chi non tenesse fede ha da pagare alla legge che lo colpisce».

Cosí, mentre l’Avanti! considera il trattato un atto di classe, Stenterello, che la sa lunga, non gli dà alcun valore pratico che quello di condanna alla violenza e di valorizzazione della legge, dello Stato, del «sano» principio della collaborazione.

Baldesi pensa ai «problemi morali». Il fascismo è per Stenterello un problema morale. G. M. Serrati gli regali qualche suo opuscolo di propaganda elementare a due centesimi la copia, perché possa impararvi che nella lotta delle classi il solo problema «morale» è la vittoria della classe.

Proseguire nella lotta71

Contro l’ondata reazionaria che tenta sommergere le conquiste ottenute dalla classe operaia in questi ultimi anni di lotta occorre innalzare una potente diga. Questa diga è l’unità di tutte le forze operaie, cementate da una volontà sola di resistere all’assalto padronale. La crisi che la guerra ha lasciato come sua eredità in tutto il mondo non può essere addotta a giustificazione dell’atteggiamento padronale. La guerra è stata quella che è stata, ma tutto fuorché il frutto delle colpe delle classi lavoratrici. Il regime che ha prodotto la guerra è lo stesso che ora crea la disoccupazione e la miseria in tutto il mondo. Tutti i delitti, tutte le pene, tutte le privazioni inaudite che questo regime basato sulla proprietà privata porta con sé devono solo pesare sul popolo lavoratore? La classe ricca, la classe padronale deve potere affamare sempre la classe operaia e contadina, perché i suoi profitti siano salvi, perché la sua proprietà non subisca mutilazioni, limiti, menomazioni di qualunque sorta? Tutto questo è spietato, ma nessun grido di dolore, di umanità potrà impedirlo. La legge della proprietà è piú forte d’ogni stentato sentimento di filantropia. L’affamamento dei poveri, di coloro che producono le ricchezze altrui, non è delitto nella società che riconosce come sacro ed inviolabile il principio della proprietà privata: che i padroni chiudano le fabbriche, riducano i salari agli operai, questo non è fuori della legge che regola la società capitalistica. Ma gli operai, i contadini devono anch’essi ragionare mettendosi da un simile punto di vista? O non hanno essi il dovere di fare un ragionamento opposto; di dire cioè che la crisi deve essere superata sacrificando chi l’ha prodotta, chi ne è la causa permanente? Certo gli operai e i contadini non possono e non debbono fare un ragionamento diverso. È vero che il mondo della produzione attraversa uno squilibrio indicibile: è vero che le industrie sono dissestate, che i padroni corrono molto rischio ad impiegare ora i loro capitali; ma, ripetiamo, che vuol dire ciò, se non la bancarotta, il fallimento dell’attuale sistema di produzione? Gli operai e i contadini vogliono rendersi conto della crisi e risolverla, ma non per rimettere in piedi il capitalismo, che li affama e li opprime col suo apparecchio di sfruttamento. Gli operai e i contadini devono ora lottare per la loro liberazione. La crisi che li ha gettati nelle braccia della fame non è delle solite che si verificano periodicamente nel mondo della produzione capitalistica. L’estensione della crisi è tale che da essa non si esce che in un modo: o con lo schiacciamento generale della classe operaia o con la morte completa del capitalismo. Con questo però di differenza: che solo la classe operaia è capace di ristabilire l’equilibrio nel mondo della produzione che la guerra ha mandato in isfacelo. La classe operaia non ha perciò che una via: lottare fino alla vittoria, se vuol salvare se stessa e l’umanità intera dalla rovina dell’apparecchio generale della produzione. Prima condizione di questa vittoria, naturalmente, è resistere contro l’assalto padronale alle condizioni di vita raggiunte dalla classe operaia. La proposta che i comunisti hanno fatto ai massimi organismi sindacali d’Italia per una battaglia su un fronte esteso contro la reazione padronale, sorretta e incoraggiata dall’appoggio dei governi, ha appunto il significato di voler richiamare l’attenzione delle masse su questo loro primo dovere.

I dirigenti della Confederazione e della Unione sindacale hanno finora risposto al Comitato sindacale comunista, i primi mostrando di ignorarlo ed i secondi dicendosi scettici del valore e della possibilità del fronte unico contro la classe padronale. Non è ciò che conta. I dirigenti dell’uno e dell’altro organismo hanno obbedito, rispondendo a sentimenti propri, che crediamo non possono essere e non saranno condivisi dalle masse che soffrono le conseguenze terribili della crisi. I dirigenti riformisti della Confederazione possono ben dire che il padronato è oggi il piú forte, ma questo ragionamento essi l’hanno sempre fatto, e gli operai d’altra parte non sono mai stati piú forti dei padroni. Seguendo il ragionamento dei riformisti, la classe operaia dovrebbe farsi affamare senza neanche muovere un dito. L’abito mentale opportunista e l’amore alla quiete dei signori riformisti che dirigono la Confederazione conducono per forza a fare simili ragionamenti tutte le volte che nella lotta occorre impegnare qualche cosa. Gli operai e contadini sanno però per esperienza che essi tutto quello che hanno acquistato lo hanno pagato a prezzo di sangue. Gli operai e contadini sui quali le conseguenze della crisi si vorrebbero fare tutte pesare non possono ragionare come i mandarini della Confederazione. Essi hanno perciò il dovere di porsi risolutamente sul terreno dell’azione e di domandare che le proposte dei comunisti non siano messe da parte con una semplice dichiarazione di diplomazia sindacale. Sta agli operai ottenere che gli organi nazionali siano convocati al piú presto per discutere le proposte comuniste e vigilare perché le decisioni non contraddicano alle loro speranze. E questo si può fare solo con una valida e diretta organizzazione. Nelle officine dove ancora si lavora, si organizzino gruppi di operai permanenti, i quali spieghino in tutti i suoi dettagli la portata dell’agitazione che i comunisti propongono in difesa delle loro condizioni di esistenza. I gruppi di officina si organizzino inoltre per industria e si mettano presto a contatto con gli altri gruppi simili. Tutti insieme creino un collegamento generale col Comitato sindacale comunista locale. Dove esiste la disoccupazione, si creino dei Consigli di disoccupati per rioni, quartieri, case, ecc. Questi Consigli di disoccupati hanno l’obbligo di dedicare la piú grande attività, perché uno stretto collegamento sia creato tra essi ed i gruppi d’officina. Ciò come azione generale di propaganda e di preparazione per ottenere con la pressione diretta degli organismi locali che si esprimano sulle proposte comuniste, che oppongano se non altro un loro piano di azione in difesa delle minacciate condizioni della classe operaia. In modo piú concreto occorre organizzare numerosi comizi di operai di fabbrica e di disoccupati, separatamente ed uniti insieme; far votare precisi ordini del giorno, che devono poi essere portati in seno alle organizzazioni sindacali e fatti approvare e imposti agli organi direttivi.

Tutta questa azione è necessario svolgere con fede, tenacia, entusiasmo. Le masse operaie devono scuotersi dallo stato di avvilimento in cui sono state gettate dalla propaganda addormentatrice dei riformisti, agenti diretti od indiretti della classe padronale. Le masse operaie devono opporre una tenace resistenza all’assalto che il capitalismo ha sferrato contro le sue posizioni; se vuole mantenerle e difendere il suo avvenire. Ma chi piú di tutto deve agire in questo momento, senza mai stancarsi, è l’operaio comunista, chiunque milita nel Partito comunista. È ad essi che viene affidato il compito dell’organizzazione, perché nessun elemento sia trascurato nella lotta sui due fronti che si sta delineando in Italia. Su l’uno e su l’altro la vittoria dev’essere degli operai e del comunismo.

I due fascismi72

La crisi del fascismo, sulle cui origini e cause tanto si sta scrivendo in questi giorni, è facilmente spiegabile con un serio esame dello sviluppo stesso del movimento fascista.

I Fasci di combattimento nacquero, all’indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra il Partito socialista e le associazioni interventiste nel periodo della guerra, i Fasci ottennero l’appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo colla necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei Fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la stessa caratteristica loro di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato.

Il fascismo conservò sempre questo vizio d’origine. Il fervore dell’offensiva armata impedí fino ad oggi l’aggravarsi del dissidio fra i nuclei urbani, piccolo-borghesi, prevalentemente parlamentari e collaborazionisti, e quelli rurali, formati da proprietari terrieri grandi e medi e dagli stessi coloni, interessati alla lotta contro i contadini poveri e le loro organizzazioni, recisamente antisindacali, reazionari, piú fiduciosi nell’azione armata diretta che nell’autorità dello Stato e nell’efficacia del parlamentarismo.

Nelle zone agricole (Emilia, Toscana, Veneto, Umbria), il fascismo ebbe il maggior sviluppo, raggiungendo, coll’appoggio finanziario dei capitalisti e la protezione delle autorità civili e militari dello Stato, un potere senza condizioni. Se da una parte l’offensiva spietata contro gli organismi di classe del proletariato è servita ai capitalisti, che nel volgere di un anno poterono vedere tutto l’apparecchio di lotta dei sindacati socialisti infrangersi e perdere ogni efficacia, è innegabile però che la violenza, degenerando, ha finito per creare al fascismo un’opinione diffusa di ostilità nei ceti medi e popolari.

Gli episodi di Sarzana, Treviso, Viterbo, Roccastrada scossero profondamente i nuclei fascisti urbani, personificati in Mussolini, che cominciarono a vedere un pericolo nella tattica esclusivamente negativa dei Fasci delle zone agricole. D’altra parte questa tattica aveva già dato ottimi frutti trascinando il Partito socialista su un terreno transigente e favorevole alla collaborazione nel paese ed in Parlamento.

Il dissidio latente comincia da questo momento a manifestarsi in tutta la sua profondità. Mentre i nuclei urbani, collaborazionisti, vedono ormai raggiunto l’obiettivo, propostosi, dell’abbandono dell’intransigenza classista da parte del Partito socialista, e si affrettano a verbalizzare la vittoria col patto di pacificazione, i capitalisti agrari non possono rinunziare alla sola tattica che assicura loro il «libero» sfruttamento delle classi contadine, senza seccature di scioperi e di organizzazioni. Tutta la polemica che commuove il campo fascista, fra favorevoli e contrari alla pacificazione, si riduce a questo dissidio, le cui origini non si debbono ricercare che nelle origini stesse del movimento fascista.

Le pretese dei socialisti italiani, di aver cioè essi provocata la scissione nel movimento fascista colla loro abile politica di compromesso, sono nient’altro che una riprova del loro demagogismo. In realtà la crisi fascista non è di oggi, ma di sempre. Cessate le ragioni contingenti che mantenevano compatte le schiere antiproletarie, era fatale che i dissidi si manifestassero con maggior evidenza. La crisi è quindi niente altro che il chiarirsi di una situazione di fatto preesistente.

Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata dal Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti ed industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso una collaborazione coi socialisti e coi popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici agrari proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria. Per questa parte, la piú importante nei confronti della classe operaia, non avrà alcun valore il «patto di tregua» che i socialisti vantano come una vittoria. La «crisi» segnerà soltanto l’uscita dal movimento dei Fasci di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di «partito» il fascismo.

Ma il fascismo, quello vero, che i contadini e gli operai emiliani, veneti, toscani conoscono per la dolorosa esperienza degli ultimi due anni di terrore bianco, continuerà, anche magari cambiando il nome.

Compito degli operai e dei contadini rivoluzionari è di approfittare del periodo di relativa sosta, determinata dai dissidi interni delle bande fasciste, per infondere alle masse oppresse ed inermi una chiara coscienza della reale situazione della lotta di classe e dei mezzi adatti a vincere la baldanzosa reazione capitalistica.

Legalità73

Fin dove la legalità afferma i suoi limiti? Quando questi non sono piú rispettati? È certo difficile fissare qualunque limite, dato il carattere assai elastico che assume il concetto della legalità. Per ogni governo tutto ciò che si manifesta nel campo dell’azione contro di esso sorpassa i limiti della legalità. Epperò si può dire che la legalità è determinata dagli interessi della classe che detiene in ogni società il potere. Nella società capitalistica la legalità è rappresentata dagl’interessi della classe borghese. Quando un’azione tende a colpire in qualunque modo la proprietà privata ed i profitti che ne derivano, quell’azione diventa subito illegale. Questo avviene nella sostanza. Nella forma la legalità si presenta alquanto diversa. Avendo la borghesia, conquistando il potere, concesso eguale diritto di voto al padrone ed al suo salariato, apparentemente la legalità è venuta assumendo l’aspetto di un insieme di norme liberamente riconosciute da tutte le parti di un aggregato sociale. Ci è stato ora chi ha scambiato la sostanza con la forma e dato quindi vita alla ideologia liberale-democratica. Lo Stato borghese è lo Stato liberale per eccellenza. Ognuno può in esso esprimere liberamente il suo pensiero attraverso il voto. Ecco alla lunga a che si riduce la legalità formale nello Stato borghese: all’esercizio del voto. La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degl’ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell’umanità. Non s’era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l’una interna, la sostanziale; l’altra esterna, la formale.

Scambiando queste due facce, gli ideologi della democrazia liberale hanno ingannato per un certo periodo di anni le grandi masse popolari, facendo credere ad esse che il suffragio le avrebbe portate alla liberazione da tutte le catene che le legavano. In questa illusione disgraziatamente non sono caduti soltanto i miopi assertori della democrazia liberale. Molta gente che si reputava e si reputa marxista ha creduto che l’emancipazione della classe proletaria si dovesse compiere attraverso l’esercizio sovrano della conquista del suffragio. Qualche imprudente si è persino servito del nome di Engels per giustificare questa sua credenza. Ma la realtà ha distrutto tutte queste illusioni. La realtà ha mostrato nel modo piú evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gl’interessi della classe dominante, vale a dire, nella società capitalistica, con gl’interessi della classe padronale. In realtà specialmente la esperienza che di ciò si è fatta in questi ultimi tempi contiene molti ed importanti insegnamenti.

La classe operaia giovandosi del suo diritto di voto aveva conquistato per sé un grande numero di comuni e province. Le sue organizzazioni avevano raggiunto un potente sviluppo numerico ed erano riuscite ad imporre patti vantaggiosi per gli operai. Ma il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale ed obbedito solo alla sua vera legge, alla legge del suo interesse e della sua conservazione. I comuni sono stati strappati ad uno ad uno con la violenza alla classe operaia; le organizzazioni sono state sciolte con l’uso della forza armata; la classe operaia e contadina è stata scacciata dalle sue posizioni, dalle quali minacciava troppo l’esistenza della proprietà privata. È sorto cosí il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo della illegalità la sola cosa legale. Niente organizzazione, se non quella fascista; niente diritto di voto, se non per darlo ai rappresentanti agrari ed industriali. Questa la legalità che la borghesia riconosce, quando essa è costretta a ripudiare l’altra formale. L’esperienza di questi ultimi tempi non è dunque priva di insegnamenti per coloro che hanno prima onestamente creduto nella efficacia delle garanzie legali concesse dello Statuto liberale borghese.

Esiste un punto nella storia, in cui la borghesia è costretta a ripudiare ciò che essa stessa ha creato. Questo punto si è verificato in Italia. Non tener conto dell’esperienza che ne deriva o è ingenuità somma, meritevole delle piú severe sanzioni, o è malafede, la quale va spietatamente punita. Tale ci sembra in effetto il caso di quegli organizzatori socialisti che mostrano oggi di meravigliarsi, perché, ad esempio, il ministro on. Beneduce non riesce a far rispettare i contratti di lavoro. Per gente la quale tiene a dirsi ancora sul terreno della lotta di classe tutto ciò è enorme. È forse lecito ad un organizzatore, il quale pretenda di non aver rinnegati i principi di lotta di classe, chiedere ad un ministro di quali facoltà può disporre per impedire le violazioni da parte dei padroni dei concordati di lavoro? Simili domande non possono che ingenerare dubbi ed incertezze nella classe operaia. È naturale che il ministro del lavoro non abbia alcuna facoltà all’infuori di essere lo strumento in mano ad agrari ed industriali. Fino a quando gli organizzatori socialisti non sapranno fare di meglio che rivolgersi al ministro del lavoro, perché richiami i padroni al rispetto dei concordati, la classe operaia continuerà a subire tutte le violazioni, senza nemmeno potere organizzare una propria difesa.

Gli industriali si dimettono dalle commissioni arbitrali. È anche questa una conseguenza logica della situazione. Gli industriali vogliono oggi riprendere tutto quanto il loro potere. Gli industriali non vogliono piú riconoscere limitazioni di sorta alla propria volontà. Essi hanno accettato i comitati arbitrali quando lo slancio rivoluzionario delle masse minacciava la loro esistenza. Ora che la situazione sembra favorevole ad ogni calcolo reazionario, i padroni non possono nemmeno badare a conservare qualche scrupolo. Apertamente, essi si sono messi per la via della ripresa integrale e dispotica del potere sulle masse operaie. Gli organizzatori socialisti che cosa sanno escogitare di fronte a queste tendenze della classe padronale? Tutto quello che gli organizzatori socialisti sanno fare è denunciare all’opinione pubblica l’inadempienza padronale e l’impotenza del ministro del lavoro. Ma intanto la classe operaia risente tutte le conseguenze dell’atteggiamento padronale e dell’incertezza dei suoi dirigenti. Mentre essi rivolgono domande al ministero del lavoro, cresce la fame; la miseria si moltiplica; la reazione si rafforza. Quegli organizzatori socialisti che durante la guerra andavano a stringere le mani insanguinate dei generali nei comitati di mobilitazione, sono gli stessi che oggi chiedono l’aiuto e l’intervento dei ministri del lavoro. Ieri essi si rendevano complici degli assassini che avevano scatenato la guerra infrenando lo slancio rivoluzionario delle masse con le decisioni dei comitati arbitrali; oggi lasciano la classe operaia indifesa, mentre dappertutto i padroni non rispettano piú i concordati e li violano a loro piacere.

Solo la proposta del Comitato sindacale comunista è in grado di organizzare una difesa operaia contro l’assalto capitalistico; solo unendo tutte le forze operaie in un esercito compatto si può pensare ad una seria opposizione ai capitalisti, che, obbedendo ad una parola d’ordine, tendono a ridurre in schiavitú tutta la classe operaia. Ma per i signori organizzatori socialisti, persino domandare il rispetto dei concordati è oggi troppo rivoluzionario.

Al lavoro74

Le manifestazioni di questi ultimi giorni per l’anniversario dell’occupazione delle fabbriche, per la solidarietà proletaria alla Russia dei Soviet e per la gioventú comunista hanno dimostrato come la classe operaia italiana vada risvegliandosi dal suo torpore. Il lavoro tenace e paziente svolto dal Partito comunista nei mesi scorsi ha dato i suoi frutti. Bisogna ora intensificare questo lavoro, bisogna con maggior lena e con spirito piú sistematico condurre fino in fondo questa energica campagna rivoluzionaria di risveglio delle coscienze e di riorganizzazione della compagine proletaria.

Tutto l’apparecchio del Partito e della gioventú comunista deve impegnarsi per condurre la campagna al suo risultato. I mandarini confederali non vogliono riconoscere l’esistenza del Comitato sindacale comunista. Esso deve acquistare la massima efficienza, deve diventare il centro organizzativo degli operai italiani, deve diventare il vero centro dirigente della Confederazione generale del lavoro. Se il Partito e la gioventú comunista mobilizzano gli 80.000 loro aderenti per questa grande opera di rischiaramento e di organizzazione, non tarderemo a vedere dei grandi mutamenti nell’attuale situazione sindacale. Bisogna che anche nei centri piú piccoli nascano dei comitati sindacali comunisti, che essi sistematicamente svolgano la propaganda, che neppure una fabbrica sia trascurata. Nelle fabbriche bisogna che i gruppi comunisti costringano le Commissioni interne a pronunciarsi sulla proposta del Comitato sindacale comunista centrale; dove le Commissioni interne sono costituite da opportunisti o da indifferenti, bisogna rivolgersi direttamente alle maestranze, provocare le dimissioni della Commissione interna e far nuove elezioni sulla base delle proposte comuniste. Non bisogna scoraggiarsi per qualsiasi insuccesso: se le maestranze non rispondono al primo appello, bisogna intensificare la propaganda e l’agitazione. In molte fabbriche italiane gli operai comunisti sono stati licenziati e sono disoccupati. Questi compagni devono operare dall’esterno, formare dei comitati esterni alla fabbrica dove lavoravano, avvicinare individualmente gli operai socialisti o senza partito che essi conoscono come onesti e leali, convincerli a costituire dei gruppi di difesa sindacale. Naturalmente questo minuto e molteplice lavoro di fabbrica, di gruppi, di individui deve poi centralizzarsi e sistemarsi nei comitati comunisti delle singole leghe e nei comitati delle Camere del lavoro, in modo che sia possibile preparare e organizzare le assemblee delle leghe, con gli oratori preventivamente scelti, con le mozioni già scritte, e bisogna informare i giornali del partito dei risultati ottenuti, denunziando gli intrighi dei funzionari riformisti, esponendo obiettivamente lo stato d’animo delle masse lavoratrici che si scuotono dalla loro apatia e vogliono rientrare nel terreno della lotta.

Al Congresso confederale di Livorno la tendenza comunista raccolse circa mezzo milione di voti. Oggi la Confederazione ha di parecchio visto diminuire i suoi effettivi: bisogna ricondurre all’organizzazione gli operai che se ne allontanarono disgustati, bisogna convincere questi operai a ridare la loro attività per la lotta impegnata dal Comitato sindacale comunista. Se i compagni del Partito e i giovani si impegnano con tutta la loro energia e la loro volontà, il Comitato sindacale comunista non tarderà a sconfiggere il mandarinismo confederale, e a spezzare quindi uno dei piú forti pilastri della controrivoluzione europea.

La sconfitta della Fiat75

La Fiat ha perduto la sua battaglia. Nella grande gara automobilistica di Brescia, la grande casa torinese, nonostante l’audacia di un suo corridore, ha dovuto vergognosamente cedere di fronte alla superiorità delle macchine francesi. Questo fatto dipende forse da una momentanea defaillance della capacità tecnica dei costruttori della Fiat o da una rimediabile disorganizzazione dell’industria, o da un inizio di decadenza senza rimedio?

Le sorti della Fiat hanno tale una importanza nella vita torinese che riteniamo opportuno parlarne un poco ai nostri lettori.

Fondata nel 1900, la Fiat cominciò ora lentamente, ora con colpi d’audacia favoriti dalla fortuna, la sua ascesa. Occupava originariamente una cinquantina d’operai, ma i suoi impianti a poco a poco si estesero e, nel 1914, prima che la catastrofe mondiale della guerra venisse a sconvolgere tutte le industrie, 4.000 operai lavoravano negli stabilimenti della Fiat, che aveva ormai conquistato un posto di primissimo ordine nel campo delle industrie automobilistiche mondiali. Il nome della Fiat era conosciutissimo in tutto il mondo; le sue macchine che avevano raggiunto un’invidiabile perfezione tecnica, erano molto ricercate dovunque e consentivano alla Fiat di vivere quasi esclusivamente sulle esportazioni.

Il merito dei dirigenti e dei tecnici per questo promettentissimo sviluppo era indiscutibile. Il comm. Agnelli e l’ing. Fornaca avevano saputo provvedere ottimamente ad organizzare la loro industria ed a metterla in grado di affrontare con successo l’accanita concorrenza delle migliori case straniere. Oltre al resto, erano riusciti a guadagnarsi, con una politica liberale, la piú viva simpatia della maestranza. Non esitiamo a dire che se la Fiat avesse continuato a procedere sulla stessa strada si troverebbe ora in ben altre condizioni di fronte alla crisi industriale che imperversa.

I capi della Fiat e primo tra di essi il comm. Agnelli, erano allora veramente «capitani dell’industria», esperti, sagaci, arditi e prudenti nello stesso tempo. In che cosa li ha trasformati la guerra?

In cavalieri d’industria. Essi hanno abbandonato — forse contro la loro volontà che non ha potuto resistere agli eventi — la tradizione degli anni passati per cercare la fortuna nel campo della speculazione piú temeraria, nei giuochi di banca piú pericolosi. L’intensa, affannosa attività di guerra, durante la quale la Fiat aveva dovuto subire trasformazioni ed ampliamenti impressionanti, ha certamente richiesto ai capi della grande impresa industriale sforzi enormi, imponente spreco di energie.

Si aggiunga che innumerevoli industrie sorsero durante il conflitto mondiale, che aggruppamenti potentissimi di finanzieri si formarono nell’intento di conquistare industrie, banche, mercati. S’iniziarono per conseguenza lotte furibonde a colpi di milioni. Si cominciò a cercare nella speculazione, l’arma che permettesse di resistere agli avversari, si tentò con artifizi di borsa di far fallire i piani minacciosi dei concorrenti. Un episodio clamoroso di questa lotta formidabile è quello a tutti noto dei fratelli Perrone che tentarono con un colpo d’audacia d’impadronirsi della Banca commerciale. La Fiat non è rimasta estranea a queste competizioni. L’attività del comm. Agnelli, in altri tempi rivolta a migliorare il funzionamento dell’azienda industriale, è rimasta quasi completamente assorbita dalle manovre dei gruppi di banchieri, che si assaltavano a vicenda, dalla necessità di parare i colpi minacciosi dei nemici. L’uomo, il grande capitano d’industria, si è infiacchito rapidamente. I suoi nervi scossi violentemente dalla continua tensione gli hanno tolta la lucidità di mente, la freddezza necessaria per chi sta a capo di una grande azienda. Mentre la concorrenza industriale si trasformava in una rovinosa competizione di gruppi bancari, il capitano d’industria si trasformava fatalmente in speculatore, in cavaliere d’industria.

A questo punto è incominciata la decadenza della Fiat. Agnelli, il liberale Agnelli, scosso da tante fatiche, con un colpo di testa rinunciava alla simpatia degli operai adottando una politica reazionaria verso le maestranze. Per sbarazzarsi dei comunisti il comm. Agnelli non ha piú tenuto conto né dell’organizzazione tecnica degli stabilimenti né delle esigenze molteplici dell’industria. Molti fra i migliori operai furono licenziati per scuotere le basi dell’organizzazione operaia d’officina.

In molti reparti vennero a mancare gli elementi tecnicamente piú capaci, i piú esperti produttori. I non licenziati, profondamente colpiti nelle loro idealità dalla reazione furente, sotto la minaccia del licenziamento, costretti a lavorare in un’atmosfera di reciproca diffidenza, furono messi in condizioni pessime per la continuità e per la bontà della produzione.

Quando Agnelli e Fornaca rassegnarono le dimissioni dal consiglio d’amministrazione della Fiat, essi giustificarono questo loro atto con l’indisciplina delle masse operaie. Essi sostennero che l’officina doveva essere estranea alla politica, che gli operai in officina non dovevano occuparsi che del loro lavoro e non pensare ad altro. Riversarono sugli operai la colpa dello stato in cui l’industria veniva a trovarsi e non pensarono allora che una politica liberale verso le maestranze non avrebbe potuto danneggiare la produzione e che la responsabilità della crisi non poteva certo essere addossata agli operai, i quali si dibattevano affannosamente per trovare una via d’uscita alla preoccupante situazione che creava ad ogni aumento di salari un aumento del costo della vita. I capitalisti, impegnati nei giochi di borsa, non potevano rinunciare neppure ad una parte dei loro profitti per trarre da questa condizione gli operai. Cercarono perciò di rimediare con la reazione. S’illusero che allontanando migliaia e migliaia di operai dalle officine, ristabilendo l’autorità assoluta del padrone, stringendo i freni, rendendo inflessibile la disciplina, le industrie potessero riprendere il loro andamento normale. Errore grave. Trascurata la riorganizzazione del dopoguerra, eliminati elementi insostituibili, generata la sfiducia e il malcontento nell’animo degli operai, la produzione si fece piú scadente. Oltre la crisi un altro grave pericolo minaccia la Fiat: la decadenza. La prima prova clamorosa?

La vergognosa sconfitta di Brescia.

Aprile e settembre 192076

L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ha servito a rimettere in circolazione uno stantio pettegolezzo contro i comunisti torinesi che dovrebbero ritenersi come i maggiori responsabili della mancata estensione del movimento. L’on. Buozzi ha fatto accenno a questa responsabilità nel suo recente discorso alle Commissioni interne metallurgiche milanesi; un altro accenno è contenuto in una corrispondenza torinese a Umanità Nova. La voce aveva passato i confini e Jacques Mesnil l’aveva raccolta in un articolo sul movimento socialista italiano pubblicato nella Revue communiste di Carlo Rappoport.

Mettiamo una volta per sempre le cose a posto. Quando, nel settembre 1920, i funzionari confederali si trovarono innanzi al grandioso sommovimento rivoluzionario provocato dall’iniziativa del Comitato centrale della FIOM, essi affannosamente corsero ai ripari, affannosamente cercarono di scaricare su qualcuno la responsabilità della loro cieca imprevidenza, della loro impreparazione, della loro inettitudine. Avevano lanciato centinaia di migliaia di operai nel campo dell’illegalità, nel terreno dell’insurrezione armata e avevano dimenticato una cosa semplicissima: procurare armi agli operai, mettere la classe operaia in grado di impegnare una lotta sanguinosa. A Milano, dove risiedeva lo stato maggiore del movimento, non si erano neppure curati di fare un inventario e una raccolta delle armi e delle munizioni esistenti nelle fabbriche: a Lecco, sette giorni dopo l’occupazione, la polizia poteva ancora sequestrare 60.000 petardi lasciati nei magazzeni di uno stabilimento, 60.000 petardi che avrebbero permesso un discreto armamento delle maestranze milanesi. D’un colpo, i funzionari sindacali divennero favorevoli all’offensiva operaia; essi anzi avrebbero voluto che l’offensiva partisse da Torino, che Torino si ponesse all’avanguardia del movimento insurrezionale. Il settembre 1920 era troppo vicino all’aprile 1920. Nell’aprile 1920 il proletariato torinese, trascinato in una disperata lotta dagli industriali, per un preciso impegno preso dal convegno della Confederazione dell’industria italiana tenutosi a Milano il 7 marzo precedente, era stato piantato in asso dalla Confederazione generale del lavoro. I torinesi, nell’aprile, erano stati isolati dal resto d’Italia, erano stati mostrati a dito al resto d’Italia come una banda di anarcoidi, di scalmanati, di indisciplinati, di pazzi. Nell’aprile si era giunti fino a fare delle insinuazioni sull’origine dei «fondi» a disposizione dei torinesi per il nolo di un’automobile. Come era possibile non ritenere in malafede coloro che nel settembre volevano dai torinesi la spinta iniziale del movimento insurrezionale, se questi «coloro» erano gli stessi che in ogni modo, con tutte le male arti avevano nell’aprile diffamato i torinesi? Come era possibile che i torinesi non pensassero che l’offerta fosse un’abile trappola per ottenere che il movimento rivoluzionario torinese fosse definitivamente schiacciato dalla polizia che aveva a Torino concentrato un imponente apparato di truppa?

Questa era la situazione di fatto. I comunisti torinesi sostennero la necessità dell’estensione del movimento e votarono l’ordine del giorno Schiavello-Bucco; rifiutarono, e ne avevano tutte le ragioni, di assumersi la responsabilità dell’iniziativa. A Torino si poteva, nel quadro generale di una lotta nazionale, sostenere l’urto delle forze governative e molte probabilità di vittoria esistevano; non si poteva però assumersi la responsabilità di una lotta armata senza avere la certezza che anche nel resto d’Italia si sarebbe lottato ugualmente, senza avere la certezza che la Confederazione, secondo il suo solito, non avrebbe lasciato addensare a Torino, come nell’aprile, tutte le forze militari del potere di Stato. I comunisti torinesi, anche in quella occasione, operarono con saggezza, dimostrarono di saper ragionare freddamente, di essere immuni dallo spirito di avventura che veniva loro attribuito dalle grandi barbe dell’opportunismo e del riformismo. Essi avevano fatto il loro dovere, avevano provveduto e provveduto nei limiti delle loro forze e delle loro disponibilità locali. Rifiutarono di farsi prendere in trappola dai politicanti del mandarinismo confederale, che avevano lanciato le masse operaie nel campo della lotta armata e si erano dimenticati di procurare le armi, che a Lecco si erano stupidamente fatti sequestrare 60.000 petardi e poi, affannati, convulsi, pazzi di terrore, domandavano «quattro mitragliatrici per armare Milano».

I piú grandi responsabili77

Se, nel settembre 1920, i comunisti torinesi fossero stati anarchici invece di essere comunisti, il movimento per l’occupazione delle fabbriche avrebbe avuto sbocchi molto diversi da quelli che effettivamente ha avuto: questo è il succo di una corrispondenza torinese a Umanità Nova, in cui si riaffermano le nostre grandi responsabilità per la mancata rivoluzione. Che peccato! I comunisti torinesi, nel settembre 1920, erano infatti comunisti e non anarchici; fin da quel tempo ritenevano che «rivoluzione proletaria» significhi e possa significare solamente creazione di un governo rivoluzionario; fin da quel tempo ritenevano che un governo rivoluzionario possa crearsi solo in quanto esiste un partito rivoluzionario, organizzato nazionalmente, che sia capace di condurre un’azione di massa fino a questo obiettivo storicamente concreto. I comunisti torinesi appartenevano al Partito socialista italiano, erano inscritti alla sezione torinese; al Partito e alla sezione appartenevano anche i riformisti dirigenti la Confederazione generale del lavoro. Il movimento era stato scatenato dai riformisti. I comunisti torinesi, come appare dall’Ordine Nuovo settimanale del 15 agosto 1920, erano contrari all’azione impostata dalla FIOM, per il modo con cui era stata impostata, per il fatto che non era stata preceduta da una preparazione, per il fatto che non aveva un fine concreto. Date queste condizioni di fatto, il movimento poteva sboccare in una rivoluzione solo a patto che i riformisti continuassero a dirigerlo. Se i riformisti una volta iniziata l’azione, una volta che l’azione aveva preso l’importanza e il carattere che aveva preso, l’avessero condotta fino alle sue conseguenze logiche, certo la grande maggioranza del proletariato e anche larghi strati della piccola borghesia e dei contadini avrebbero seguito la loro parola d’ordine. Se invece i comunisti torinesi, di loro iniziativa, avessero iniziato l’insurrezione, Torino sarebbe stata isolata, Torino proletaria sarebbe stata implacabilmente schiacciata dalle forze armate del potere di Stato. Nel settembre 1920 Torino non avrebbe avuto neppure la solidarietà della regione piemontese, come l’aveva avuta nell’aprile precedente. La campagna scellerata che i funzionari sindacali e gli opportunisti serratiani fecero contro i comunisti torinesi dopo lo sciopero d’aprile aveva avuto effetto specialmente nel Piemonte: i torinesi non potevano neppure accostare i compagni della regione; non si credeva una parola di quanto affermavano, si domandava sempre loro se avevano un mandato esplicito della direzione del Partito; tutta l’organizzazione creata da Torino per la regione si era completamente sfasciata. Il corrispondente torinese di Umanità Nova che conosce forse gli sforzi di organizzazione fatti in quel periodo, non conosce certamente molte altre cose. I comunisti cercarono di porre il proletariato torinese nelle condizioni migliori dal punto di vista di una probabile insurrezione; sapevano però che altrove niente si faceva, che nessuna parola d’ordine circolava; sapevano che i dirigenti sindacali, responsabili del movimento, non avevano nessuna intenzione bellicosa.

Per un periodo di tempo brevissimo, di tre o quattro giorni, i dirigenti sindacali furono favorevolissimi all’insurrezione, sollecitarono pazzescamente l’insurrezione. Perché? Pareva che Giolitti, premuto dagli industriali, che minacciarono apertamente di rovesciare il governo con un pronunciamento militarista, volesse passare dalla «omeopatia» alla «chirurgia»; ci furono evidentemente delle minacce da parte di Giolitti. I dirigenti persero la testa: volevano il «fattaccio», volevano una strage locale che permettesse di concludere nazionalmente la vertenza secondo le tradizioni riformistiche. Abbiamo fatto bene o male a rifiutarci a questo gioco infame, che doveva essere azzardato col sangue del proletariato torinese? Davvero che a forza di ripetere, dall’aprile in poi, che i comunisti torinesi erano degli scalmanati, degli irresponsabili, dei localisti, degli avventurieri, i riformisti avevano finito col crederci e col credere che noi ci saremmo prestati al loro gioco. Non sono state giornate facili quelle del settembre 1920; in quei giorni abbiamo acquistato, forse tardi, la precisa e recisa convinzione della necessità della scissione. Come era possibile che stessero insieme, in uno stesso partito, uomini che diffidavano gli uni degli altri, che si accorgevano della necessità, proprio nel momento dell’azione, di guardarsi alle spalle dai propri consoci? Questa era la situazione, e noi non eravamo anarchici ma comunisti, cioè convinti della necessità di un partito nazionale perché la rivoluzione proletaria abbia un minimo di probabilità di buona riuscita. Ma se anche fossimo stati anarchici, avremmo fatto diversamente? C’è un punto di riferimento per rispondere a questa domanda: nel settembre 1920 esistevano bene in Italia gli anarchici, esisteva un movimento anarchico nazionale. Cosa hanno fatto gli anarchici? Nulla. Se noi fossimo stati anarchici, non avremmo neppure fatto ciò che è stato fatto a Torino nel settembre 1920, e cioè una preparazione notevole, certamente, dato che era dovuta a sforzi puramente locali, senza aiuti, senza consigli, senza una integrazione nazionale.

Se gli anarchici riflettono bene ai fatti del settembre 1920 non possono che giungere a una conclusione: la necessità del partito politico, fortemente organizzato e centralizzato. Appunto perché il Partito socialista, per la sua incapacità, per la sua subordinazione ai funzionari sindacali, è il responsabile della mancata rivoluzione, appunto perciò deve esistere un partito che la sua organizzazione nazionale ponga a servizio della rivoluzione proletaria, che prepari con la discussione e con la disciplina ferrea gli uomini capaci, che sappiano prevedere, che non conoscano esitazioni e tentennamenti.

1 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 19 luglio 1919, sotto la rubrica «La settimana politica».

2 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 2 agosto 1919.

3 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 16 agosto 1919, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

4 Firmato L’Ordine Nuovo, L’Ordine Nuovo, 13 settembre 1919.

5 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20-27 settembre 1919.

6 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 ottobre 1919.

7 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 11 ottobre 1919, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

8 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 11 ottobre 1919.

9 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 1° novembre 1919.

10 Non firmato, L’ordine Nuovo, 1° novembre 1919, sotto la rubrica «La settimana politica».

11 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 8 novembre 1919, sotto la rubrica «Le cronache dell’Ordine Nuovo».

12 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 8 novembre 1919.

13 Non firmato, L’ordine Nuovo, 15 novembre 1919, sotto la rubrica «La settimana politica».

14 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 17 novembre 1919.

15 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 22 novembre 1919, sotto la rubrica «La settimana politica».

16 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 29 novembre 1919.

17 Non firmato, in collaborazione con P. Togliatti, L’Ordine Nuovo, 6-13 dicembre 1919.

18 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20 dicembre 1919.

19 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20 dicembre 1919, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

20 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 27 dicembre 1919.

21 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 27 dicembre 1919, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

22 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 24-31 gennaio 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

23 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 21 febbraio 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

24 Note non firmate, L’Ordine Nuovo, 28 febbraio - 6 marzo 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

25 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20 marzo 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

26 L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920.

27 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1920.

28 Karl Marx, Révolution et contrerévolution en Allemagne, Paris, 1900, pp. 2-3.

29 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 30 maggio 1920.

30 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 5 giugno 1920.

31 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 12 giugno 1920.

32 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 10 luglio 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

33 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 14 agosto 1920.

34 Firmato Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 14 agosto e 28 agosto 1920.

35 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 21 agosto 1920, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

36 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 settembre e 9 ottobre 1920.

37 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 8 ottobre 1920.

38 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 9 ottobre 1920, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

39 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 17 ottobre 1920.

40 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 16-23 ottobre 1920, sotto la rubrica «La settimana politica».

41 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 dicembre 1920, sotto la rubrica «Cronache dell’Ordine Nuovo».

42 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 11-18 dicembre 1920.

43 Non firmato, L’Ordine Nuovo (quotidiano), 2 gennaio 1921.

44 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 2 gennaio 1921.

45 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 5 gennaio 1921.

46 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 9 gennaio 1921.

47 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 13 gennaio 1921.

48 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 15 gennaio 1921.

49 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 29 gennaio 1921.

50 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 10 febbraio 1921.

51 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 2 marzo 1921.

52 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 marzo 1921.

53 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 19 marzo 1921.

54 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 12 aprile 1921.

55 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 23 aprile 1921.

56 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921.

57 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 8 maggio 1921.

58 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 13 maggio 1921, edizione straordinaria.

59 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 11 giugno 1921.

60 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 15 giugno 1921, sotto la rubrica «Cronache di Barnum».

61 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 22 giugno 1921.

62 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 3 luglio 1921.

63 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 5 luglio 1921.

64 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 15 luglio 1921.

65 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 13 luglio 1921.

66 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 17 luglio 1921.

67 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 23 luglio 1921.

68 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 27 luglio 1921.

69 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 6 agosto 1921.

70 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 7 agosto 1921.

71 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 24 agosto 1921.

72 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 25 agosto 1921.

73 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 28 agosto 1921.

74 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 6 settembre 1921.

75 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 6 settembre 1921, sotto la rubrica «Cronache torinesi».

76 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 7 settembre 1921, sotto la rubrica «Cronache torinesi».

77 Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20 settembre 1921.