Antonio Gramsci

Scritti politici I

a cura di Paolo Spriano
Editori Riuniti, 1973

Indice

 

1910-1914

Oppressi ed oppressori

Neutralità attiva ed operante

 

1916

Il Sillabo ed Hegel

La commemorazione di Miss Cavell

Socialismo e cultura

Voci d'oltretomba

Vecchiezze

Lotta di classe e guerra

La storia

I giornali e gli operai

Uomini o macchine?

L'Università popolare

Preoccupazioni

 

1917

Profanazioni

Tre principi, tre ordini

Indifferenti

Disciplina e libertà

Margini

Carattere

Note sulla rivoluzione russa

L'uomo piú libero

I massimalisti russi

L'orologiaio

Carattere

Analogie e metafore

Demagogia

Ghirigori

La rivoluzione contro il «Capitale»

Letture

Intransigenza-tolleranza. Intolleranza-transigenza

Per un'associazione di cultura

 

1918

La critica critica

La Lega delle Nazioni

Diamantino

Costituente e Soviet

L'organizzazione economica e il socialismo

Wilson e i massimalisti russi

Individualismo e collettivismo

Un anno di storia

La tua eredità

Il nostro Marx

Astrattismo e intransigenza

L'intransigenza di classe e la storia italiana

Cultura e lotta di classe

I giorni

Fiorisce l'illusione

La politica del «se»

Utopia

L'opera di Lenin

Dopo il Congresso

Il Patto d'alleanza

Il dovere di essere forti

I cattolici italiani

Il giornale-merce

 

1919

Il paese di Pulcinella

Un Soviet locale

Stato e sovranità

Leninismo e marxismo di Rodolfo Mondolfo

L'Internazionale comunista

 

Oppressi ed oppressori1

È davvero meravigliosa la lotta che l'umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. È questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta dagli storici di tutto il mondo. L'uomo, che ad un certo tempo si sente forte, con la coscienza della propria responsabilità e del proprio valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di controllare le sue azioni e il suo pensiero. Perché pare che sia un crudele destino per gli umani, questo istinto che li domina di volersi divorare l'un l'altro, invece di convergere le forze unite per lottare contro la natura e renderla sempre piú utile ai bisogni degli uomini. Invece, un popolo quando si sente forte e agguerrito, subito pensa a aggredire i suoi vicini, per cacciarli ed opprimerli. Perché è chiaro che ogni vincitore vuol distruggere il vinto. Ma l'uomo che per natura è ipocrito e finto, non dice già «io voglio conquistare per distruggere», ma, «io voglio conquistare per incivilire». E tutti gli altri, che lo invidiano, ma aspettano la loro volta per fare lo stesso, fingono di crederci e lodano.

Cosí abbiamo avuto che la civiltà ha tardato di piú ad espandersi e a progredire; abbiamo avuto che razze di uomini, nobili e intelligenti, sono state distrutte o sono in via di spegnersi. L'acquavite e l'oppio che i maestri di civiltà distribuivano loro abbondantemente, hanno compiuto la loro opera deleteria.

Poi un giorno si sparge la voce: uno studente ha ammazzato il governatore inglese delle Indie, oppure: gli italiani sono stati battuti a Dogali, oppure: i boxershanno sterminato i missionari europei; e allora la vecchia Europa inorridita impreca contro i barbari, contro gli incivili, e una nuova crociata viene bandita contro quei popoli infelici.

E badate: i popoli europei hanno avuto i loro oppressori e hanno combattuto lotte sanguinose per liberarsene, ed ora innalzano statue e ricordi marmorei ai loro liberatori, ai loro eroi, e innalzano a religione nazionale il culto dei morti per la patria. Ma non andate a dire agli italiani, che gli austriaci erano venuti per portarci la civiltà: anche le colonne marmoree protesterebbero. Noi, sí, siamo andati per portare la civiltà ed infatti ora quei popoli ci sono affezionati e ringraziano il cielo della loro fortuna. Ma si sa; sic vos non vobis. La verità invece consiste in una brama insaziabile che tutti hanno di smungere i loro simili, di strappare loro quel po' che hanno potuto risparmiare con privazioni. Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà: gli inglesi hanno bombardato non so quante città della Cina perché i cinesi non volevano sapere del loro oppio. Altro che civiltà! E russi e giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e della Manciuria. Si delapidano le sostanze dei soggetti, si toglie loro ogni personalità; non basta però ai moderni civilissimi: i romani si accontentavano di legare i vinti al loro carro trionfale, ma poi riducevano a provincia la terra conquistata: ora invece si vorrebbe che tutti gli abitanti delle colonie sparissero per lasciar largo ai nuovi venuti.

Se poi una voce di onesto uomo si leva a rimproverare queste prepotenze, questi abusi, che la morale sociale e la civiltà sanamente intesa dovrebbero impedire, gli si ride in faccia; perché è un ingenuo, e non sa tutti i machiavellici cavilli che reggono la vita politica. Noi italiani adoriamo Garibaldi; fin da piccoli ci hanno insegnato ad ammirarlo, il Carducci ci ha entusiasmato con la sua leggenda garibaldina: se si domandasse ai fanciulli italiani chi vorrebbero essere, la gran maggioranza certo sceglierebbe di essere il biondo eroe. Mi ricordo che a una dimostrazione per una commemorazione dell'indipendenza, un compagno mi disse: ma perché tutti gridano: «viva Garibaldi! e nessuno: viva il re?» ed io non seppi darne una spiegazione. Insomma, in Italia dai rossi ai verdi, ai gialli idolatrano Garibaldi, ma nessuno veramente ne sa apprezzare le alte idealità; e quando i marinai italiani sono mandati a Creta per abbassare la bandiera greca innalzata dagli insorti e rimettere la bandiera turca, nessuno levò un grido di protesta. Già: la colpa era dei candioti che volevano turbare l'equilibrio europeo. E nessuno degli italiani che in quello stesso giorno forse acclamavano l'eroe liberatore della Sicilia, pensò che Garibaldi se fosse stato vivo, avrebbe sostenuto anche l'urto di tutte le potenze europee, pur di fare acquistare la libertà a un popolo. E poi si protesta se qualcuno viene a dirci che siamo un popolo di rètori!

E chi sa per quanto tempo ancora durerà questo contrasto. Il Carducci si domandava: «Quando il lavoro sarà lieto? Quando sicuro sarà l'amore?». Ma ancora si aspetta una risposta, e chi sa chi saprà darla. Molti dicono che ormai l'uomo tutto ciò che doveva conquistare nella libertà, e nella civiltà, l'abbia già fatto, e che ormai non gli resta che godere il frutto delle sue lotte. Invece, io credo che ben altro da fare ci sia ancora: gli uomini non sono che verniciati di civiltà; ma se appena sono scalfiti, subito appare la pellaccia del lupo. Gli istinti sono ammansati, ma non distrutti, e il diritto del piú forte è il solo riconosciuto. La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe ad un'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate. L'umanità ha bisogno d'un altro lavacro di sangue per cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora d'aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso!

Neutralità attiva ed operante2

Pur nella straordinaria confusione che la presente crisi europea ha creato nelle coscienze e nei partiti, tutti sono d'accordo su di un punto: il presente momento storico è di una indicibile gravità, le sue conseguenze possono essere gravissime, e perché tanto sangue si è versato e tante energie sono andate distrutte, facciamo in modo che il maggior numero possibile di questioni che il passato ha lasciato insolute venga risolto, e l'umanità possa ripigliare la sua strada senza che ancora tanto grigiume di tristezze e di ingiustizie le intralci la via, senza che il suo avvenire possa essere a breve scadenza attraversato da un'altra di queste catastrofi che richieda di nuovo un altro, come questo, formidabile dispendio di vita e di attività.

E noi, socialisti italiani, ci proponiamo il problema : «Quale dev'essere la funzione del Partito socialista italiano (si badi, e non del proletariato o delsocialismo in genere) nel presente momento della vita italiana?».

Perché il Partito socialista a cui noi diamo la nostra attività è anche italiano, cioè è quella sezione dell'Internazionale socialista che si è assunto il compito di conquistare all'Internazionale la nazione italiana. Questo suo compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica, una sua responsabilità. È uno Stato in potenza, che va maturando, antagonista dello Stato borghese, che cerca, nella lotta diuturna con quest'ultimo e nello sviluppo della sua dialettica interiore, di crearsi gli organi per superarlo ed assorbirlo. E nello svolgimento di questa sua funzione è autonomo, non dipendendo dall'Internazionale se non per il fine supremo da raggiungere e per il carattere che questa lotta deve sempre presentare di lotta di classe.

Del modo con cui questa lotta deve affermarsi nelle varie contingenze e del momento in cui deve culminare nella rivoluzione è solo giudice competente il PSI che ne vive e solo ne conosce il vario atteggiarsi.

Solo così possiamo legittimare il riso e il disprezzo con cui da noi furono accolti gli improperi di G. Hervé e i tentativi d'approccio dei socialisti tedeschi, l'uno e gli altri parlanti a nome dell'Internazionale di cui si riputavano interpreti autorizzati, quando il PSI bandí la formula della «neutralità assoluta».

Perché, si badi, non è sul concetto di neutralità che si discute (neutralità, beninteso, del proletariato), ma sul modo di questa neutralità.

La formula della «neutralità assoluta» fu utilissima nel primo momento della crisi, quando gli avvenimenti ci colsero all'improvviso relativamente impreparati alla loro grandiosità, perché solo l'affermazione dogmaticamente intransigente, tagliente, poteva farci opporre un baluardo compatto, inespugnabile al primo dilagare delle passioni, degli interessi particolari. Ora che dalla iniziale situazione caotica sono precipitati gli elementi di confusione e ciascuno deve assumere le proprie responsabilità, essa ha solo valore per i riformisti, che dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe.

Ma i rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione) non devono accontentarsi della formula provvisoria «neutralità assoluta», ma devono trasformarla nell'altra «neutralità attiva e operante». Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità, obbligandola a portare fino all'assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere, a subire l'esame della preparazione con cui ha cercato di arrivare al fine che diceva esserle proprio, la obbliga (nel caso nostro, in Italia) a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione, di cui si proclamava unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili.

Solo cosí sarà ristabilito il dualismo delle classi, il Partito socialista si libererà da tutte le incrostazioni borghesi che la paura della guerra gli ha appiccicato addosso (mai come in questi ultimi due mesi il socialismo ha avuto tanti simpatizzanti piú o meno interessati) e, avendo fatto toccar con mano al paese (che in Italia non è tutto né proletario né borghese, dato il poco interesse che la gran massa del popolo ha sempre dimostrato per la lotta politica, e quindi è tanto piú facilmente conquistabile da chi sappia dimostrare energie e visione netta dei propri destini) come quelli che si dicevano i suoi mandatari si sono mostrati incapaci di una qualsiasi azione, [potrà] preparare il proletariato a sostituirla, prepararlo ad operare quel massimo strappo che segna il traboccare della civiltà da una forma imperfetta in un'altra piú perfetta.

Piú cauto perciò, mi pare, avrebbe dovuto essere a. t.3 che sul cosiddetto caso Mussolini ha scritto nel passato numero del Grido. Avrebbe egli dovuto distinguere tra ciò che, nelle dichiarazioni del direttore dell'Avanti! era dovuto a Mussolini uomo, romagnolo (anche di ciò si è parlato), e ciò che era di Mussolini socialistaitaliano, prendere insomma ciò che di vitale poteva esserci nel suo atteggiamento e su quello rivolgere la propria critica, annientandolo, ovvero trovandoci il piano di conciliazione tra il formalismo dottrinario della rimanente Direzione del partito e il concretismo realistico del direttore dell'Avanti!

Ma errato mi pare il nucleo centrale dell'articolo di a. t. Quando Mussolini dice, alla borghesia italiana: «Andate dove i vostri destini vi chiamano», cioè: «Se voi ritenete che sia vostro dovere far la guerra all'Austria, il proletariato non saboterà la vostra azione», non rinnega affatto il suo atteggiamento di fronte alla guerra libica che ha avuto come risultato quello che a. t. chiama «il mito negativo della guerra». In quanto si parla di «vostri destini» si lascia intendere quei destini che per la funzione storica della borghesia culminano nella guerra, e questa mantiene quindi piú intensa ancora, dopo l'acquistatane coscienza del proletariato, il suo carattere di antitesi irriducibile coi destini del proletariato.

Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un'unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato, avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato (a fare la [...]4 una disciplina ideale, e permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire, ritiene piú forti. E il sabotare una macchina (che ad un vero sabotaggio si riduce la neutralità assoluta, sabotaggio accettato del resto entusiasticamente dalla classe dirigente) non vuol certo dire che quella macchina non sia perfetta e non sia utile a qualche cosa.

Né la posizione mussoliniana esclude (che anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico, e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche, se, almeno, io ho interpretato bene le sue un po' disorganiche dichiarazioni, e le ho sviluppate secondo quella stessa linea che egli avrebbe fatto.

Io non so immaginare un proletariato che sia come un meccanismo al quale nel mese di luglio sia stata data la corda con la chiavetta della neutralità assoluta, e che non possa essere nel mese di ottobre fermato senza che abbia a spezzarsi.

Si tratta di uomini, invece, che hanno dimostrato, specialmente in questi ultimi anni, di possedere un'agilità di intelletto e una freschezza di sensibilità quale la massa borghese amorfa e menefreghista è ben lontana dal solamente fiutare. Di una massa che ha mostrato di sapere molto bene assimilare e rivivere i nuovi valori che il rinato Partito socialista ha messo in circolazione. O che forse ci spaventiamo del lavoro che bisognerebbe fare per fargli assumere questo nuovo compito, che forse potrebbe essere per lui il principio della fine del suo stato di pupillo della borghesia?

In tutti i casi la comoda posizione della neutralità assoluta non ci faccia dimenticare la gravità del momento, e non faccia che noi ci abbandoniamo neppure per un istante ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti.

Il Sillabo ed Hegel5

Anche in questo nuovo volumetto6 Mario Missiroli ricade nelle stesse deficienze e negli stessi errori che erano stati rimproverati ad un suo precedente lavoro, La monarchia socialista: concezione semplicista, esposizione troppo sommaria e che avrebbe bisogno di essere particolareggiata e documentata per avere una qualche efficacia persuasiva. Veramente l'autore mette le mani avanti scrivendo in un'avvertenza preliminare: «Non dimentichi il lettore che io prescindo da tutto ciò che non sia la pura logica delle idee», ma con ciò non rende minore la sua sufficienza. Di questa logica delle idee egli si serve per spiegare fatti storici, per giustificarli o condannarli implicitamente, per tracciare programmi politici, e tutto ciò non si può fare senza sentire la necessità, e in un certo senso il dovere morale, di documentare le proprie elucubrazioni. Trattare come problema di cultura, astrattamente, una questione che ha profonde radici nella storia e nelle coscienze individuali, è dilettantismo, è bizantinismo, e non basta la vivacità dell'ingegno, che può rendere piacevole anche la chiacchiera piú vacua, a giustificare questa letteratura in cui si sono specializzati precisamente il Missiroli e Goffredo Bellonci.

Il Missiroli riduce la storia che si sta svolgendo sotto ai nostri occhi ad un solo problema: quello religioso, e sostiene questa tesi: nel mondo latino esiste una terribile scissione nelle coscienze individuali; la creazione dello Stato laico sorto in opposizione all'autorità ecclesiastica ha gettato l'Europa meridionale in una crisi dalla quale non può salvarla che una forma sociale piú perfetta: la teocrazia, intesa come perfetta unità del pensiero e della coscienza nella vita. Questa unità esiste nel mondo germanico. La nazione germanica è sorta da una crisi religiosa, la Riforma protestante, e si è consolidata e rafforzata attraverso un lavorío del pensiero filosofico che l'ha portata alla creazione dello Stato moderno, in cui il cittadino è anche il credente, poiché l'idealismo filosofico, abolendo ogni dualismo e ponendo nella coscienza individuale il fattore della conoscenza e dell'attività creatrice della storia, lo ha reso indipendente da ogni autorità, da ogni Sillabo. Cosa è avvenuto invece in Italia? Il Risorgimento italiano è stato un movimento politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa; il liberalismo cavouriano, separando lo Stato dalla Chiesa, e rendendolo antagonistico a questa come depositaria del divino, in realtà non commise che un grande errore, poiché non fece che spogliare lo Stato del suo valore assoluto. Un simile errore commise la democrazia francese, poiché accettò in parte i postulati dell'idealismo germanico, abolendo violentemente il diritto divino e il legittimismo, ma non riuscí a spogliarsi completamente del vecchio dualismo cattolico, e creò un Sillabo massonico: la giustizia assoluta superiore alle contingenze storiche e alle forze umane perverse, non creazione, insomma, volta a volta della volontà, ma a sé stante su un trono come l'Iddio dei cattolici. Ecco perché, secondo il Missiroli, il papa in realtà in questa guerra parteggia per l'Intesa; perché in essa trova concezioni simili alle sue, che hanno una stessa sorgente (semitica, direbbero i nazionalisti) nella vecchia tradizione cristiana; il papa può trovarsi d'accordo coi massoni, ma non coi tedeschi. Nei massoni c'è la possibilità di assorbimento, perché essi non hanno sostituito nulla, se non dei nomi vani, al cattolicismo; nei tedeschi c'è invece la saldezza granitica, inattaccabile, della coscienza dell'identità del divino e dell'umano, dell'idea e dell'atto, dello spirito e della storia. Hegel ha ucciso ogni possibilità di Sillabo, ciò che non ha fatto Rousseau, e dall'idealismo germanico sono germinate e hanno sciamato tutte le concezioni anarchiste, che hanno creato il caos nella limpida tradizione cattolica della latinità.

Sarebbe troppo lungo e non adatto al carattere del Grido, il discutere e rilevare tutti gli errori in cui vaneggia la facile dialettica del Missiroli. Importa rilevare solo questo fatto: l'unica conclusione a cui si può arrivare dalle premesse dello scrittore è che il cattolicismo è matematicamente destinato a scomparire. Se è vero, e per tale l'accetta il Missiroli, lo sviluppo storico affermato da Hegel, per il quale dal cattolicismo si passa al luteranesimo, da questo al libero esame della scuola di Tubinga, e quindi alla filosofia pura che riesce finalmente ad occupare tutto il posto che le spetta nella coscienza umana, scacciandone il buon vecchio dio, che rientra nel regno delle larve, perché questo processo dovrà limitarsi alla sola Germania? Il turbamento che esisterebbe nelle coscienze latine, non potrebbe essere uno stadio intermedio tra il trascendentalismo cattolico e massonico e l'immanentismo idealistico? Se una cosa questa guerra ha ammazzato davvero, è la vecchia concezione della giustizia assoluta, che si impone da sé e non ha bisogno di cannoni o di baionette per sostenersi. Anche se la Germania sarà vinta, non lo sarà prima di aver imposto agli avversari la sua concezione dello Stato, della giustizia, della forza, o quella che piú le si avvicini per mantenere l'equilibrio.

Chi escirà sconfitto effettivamente dalla guerra sarà il cattolicismo e il Sillabo, come lo intende il Missiroli.

Questo astrarsi dalla storia, questo voler conservare il proprio pensiero al disopra dei fatti, delle correnti sociali che si agitano e rinnovano continuamente la società, al Missiroli sembrano una prova di forza, di austerità morale ammirevole e di superiorità intellettuale. E invece sono l'intima debolezza del Papato. Mentre tutto si rinnova e rinasce, il Papato taglia uno ad uno i legami che potrebbero ancora farne una forza attiva nella storia. Il Missiroli vede due sole religioni: il trascendentalismo cattolico e l'immanentismo idealistico derivato dalla Riforma, in verità, ogni uomo ha una sua religione, ha una sua fede che riempie la sua vita e la rende degna di essere vissuta.

Non invano Hegel è vissuto ed ha scritto. Come non si nega e non si supera il cattolicismo ignorandolo, cosí non si supera e non si nega l'idealismo ignorandolo, o trattandolo come una semplice questione di cultura.

Le questioni di cultura non sono semplici giuochi di idee da risolversi astrattamente dalla realtà. L'ufficio di postillatore delle encicliche papali, in questo momento di incoscienza e di politicantismo religioso, può dare delle superbe soddisfazioni intellettuali per il senso che ne viene del proprio isolamento, della propria compenetrazione in un problema che gli altri non sentono e neppure intraveggono, ma non cava un ragno dal buco. Si risolve in un elegante dilettantismo filosofico che non è meno peggio e piú serio dell'ignoranza e dell'incomprensione. Il Missiroli è stato punito nel suo stesso peccato: il suo volumetto è diventato per alcuni una riprova dell'attività cattolica e del Papato che ritorna in voga; mentre se in voga ritorna qualcuno è il solo Mario Missiroli, il vero papa del suo cattolicismo, il maestro infallibile di un credo che non potrà aver mai dei credenti perché ormai diventato extrastorico, giuoco di pazienza di un acuto sí, ma non perciò meno inconcludente amplificatore di aforismi e affermazioni che la storia ha superato. Nella lotta fra il Sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto, perché Hegel è la vita del pensiero che non conosce limiti e pone se stesso come qualcosa di transeunte, di superabile, di sempre rinnovantesi come e secondo la storia, e il Sillabo è la barriera, è la morte della vita interiore, è un problema di cultura e non un fatto storico.

La commemorazione di Miss Cavell7

Un foltissimo pubblico assisteva ieri mattina, nel vasto salone dell'Ambrosio, alla commemorazione che dell'eroica Miss Cavell fece Luigi di San Giusto.

Commemorazione sobria nel contenuto, quantunque un po' troppo prolissa nella forma esteriore, letterariamente convenzionale e banale. Ci pare però che all'oratrice sia sfuggito il punto centrale del dramma spirituale dell'infermiera inglese, dramma suo intimo, tanto piú interessante dell'esteriore dramma inscenato dalla sbrigativa e rigidamente feroce giustizia militare tedesca. Di questa donna che dopo aver apertamente, francamente confessata e aggravata la sua colpa, dirittamente giustificandola col suo patriottismo, sul punto di essere condotta al supplizio, dichiara al suo confessore: «Ora che mi trovo sola dinanzi a Dio e all'eternità, mi accorgo che nella vita il patriottismo non è tutto». Per la di San Giusto questo particolare diviene un puro e semplice fatto di cronaca, senza importanza e perciò non meritevole di sviluppo. Per noi è, in tutto questo orrendo episodio della fredda logica militaresca, punto culminante e suggestivo in sommo grado. Ma non bisogna domandare agli uomini e alle donne di letteratura, specialmente, piú di quanto essi possono vedere e possono dare.

Riandavamo, ascoltando l'oratrice, ad altre giornate tragiche indimenticabili. Fiori vermigli di sangue erano sbocciati sui selciati rettilinei della nostra città, fatta d'ordine, di tradizione militare, squadrata negli isolati delle sue case monotone, come un reggimento dell'esercito dei suoi vecchi duchi sabaudi. In una città lontana delle Marche tre sconosciuti eran caduti in un giorno beffardamente consacrato alla libertà statutaria, e serpeggiava per tutta l'Italia una ventata di ribellione a dimostrare che il proletariato aveva ben acquistato una coscienza nazionale se per obbedire ad un sentimento e ad una disciplina di solidarietà nazionale scendeva per le strade a farsi massacrare. Cosí noi commemoravamo i nostri morti. Non vane parole. Non richiami singhiozzanti a sfumate entità umanitarie, ad abbracciamenti generali per vendicare una vita sacrilegamente violentata, ma l'inquadramento delle nostre forze nei ferrei ranghi della solidarietà di classe, ma maree nereggianti di rudi uomini che calavano nei boulevards cittadini a sfilare innanzi alle saracinesche abbassate dei pallidi piccoli uomini della vigilia, rodentisi di rabbia compressa e di paura. Cosí commemoravamo i nostri morti, col sangue dei nostri migliori, e colla promessa di un domani migliore.

Perciò non possiamo non sentir strazio per il piccolo Belgio schiantato, per Miss Cavell caduta sotto il piombo d'un ufficiale prussiano nel compimento del suo dovere di carità. Ma è strazio austero il nostro, che non fluisce in componimenti a rime obbligate, né si inquadra nelle vaneggianti ambagi di un discorso d'occasione. Ci sentiamo presi come nel volante di una macchina che il nostro braccio non può fermare e rinchiudiamo dentro di noi il dolore che c'invetrisce le pupille. Forze naturali irresistibili sono traboccate da argini di carta straccia e vediamo galleggiare cadaveri sulle livide acque, cadaveri di bimbi e di donne strappati dai focolari e dalla culla; e la loro morte ci pare anche piú tragica, perché inutile, perché non rispondente ad una logica dell'azione, ad una necessità della propria conservazione, ma solo ad una concezione meccanica del regolamento della disciplina. Però non ci cospargiamo i capelli di cenere, né ci battiamo le anche in atteggiamento di prefiche, pagate ad una tanto, per il grado della loro commozione. Siamo maschi nei nostri dolori come lo siamo nelle nostre vendette. E perciò non possiamo prendervi sul serio, o eterni ipocriti, venditori di parole e di fumo umanitario.

Riflettiamo leggendo il proclama che il duca d'Artois lanciò proprio da questa nostra Torino invocante una solidarietà di classe tra i coronati e i nobili dell'Europa per la vendetta del ghigliottinamento di Luigi XVI, che ora i bellicissimi legittimisti francesi vogliono beatificare avendo fallito a Valmy il tentativo di riscossa; rimaniamo rigidi dinanzi al vostro nuovo proclama che non ha ossatura ed è un mercato di parole. Non crediamo alla taumaturgia della bacchetta democratica e della giustizia assoluta. Rimaniamo rigidi nella coscienza del nostro accoramento e della impotenza dell'azione da parte vostra. Ma ricordiamo... Perché noi i nostri morti li vendichiamo col nostro sacrificio, col sangue del piú audace e coll'obolo del piú umile, e non facciamo vane ciance di giustizia e di diritto. E saremo noi che vendicheremo Miss Cavell, quando toglieremo la facoltà agli uni di violentare come agli altri d'ingannare i belgi e i serbi e i montenegrini, vasi d'argilla fra i massicci vasi di rame degli eserciti nazionali, e toglieremo anche la facoltà di massacrare gl'inermi contadini di Rocca Gorga e i dimostranti di Ancona con gli agenti della giustizia di classe.

E in un giorno che ci proponiamo di non lunghissima attesa noi, proletariato internazionale, tedesco e belga, serbo e bulgaro, francese e italiano, inglese e russo, quando il giuoco delle forze storiche antagonistiche avrà ripreso il suo ritmo normale, faremo a nostro modo la commemorazione di Miss Cavell e dei sei milioni di nostri compagni che hanno insanguinato i campi della lotta infeconda. E non sarà il nostro un mercato di parole...

Socialismo e cultura8

Ci è capitato sott'occhi, qualche tempo fa, un articolo nel quale Enrico Leone, con quella forma involuta e nebulosa che troppo spesso gli è propria, ripeteva alcuni luoghi comuni sulla cultura e l'intellettualismo in rapporto al proletariato, opponendogli la pratica, il fatto storico per i quali la classe sta preparandosi con le sue stesse mani l'avvenire. Non crediamo inutile ritornare sull'argomento, trattato altre volte sul Grido e che ebbe specialmente nell'Avanguardia dei giovani una trattazione piú rigidamente dottrinale nella polemica tra il Bordiga di Napoli e il nostro Tasca.

Ricordiamo due brani: uno di un romantico tedesco, il Novalis (vissuto dal 1772 al 1801) che dice: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l'io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri».

L'altro, che riassumiamo, di G. B. Vico. Il Vico (nel 1° Corollario intorno al parlare per caratteri poetici delle prime nazioni nella Scienza nuova) dà una interpretazione politica del famoso detto di Solone, che poi Socrate fece suo quanto alla filosofia: «Conosci te stesso», sostenendo che Solone volle con quel detto ammonire i plebei, che credevano se stessi d'origine bestiale e i nobili di divina origine, a riflettere su se stessi per riconoscersi d'ugual natura umana co' nobili, e per conseguenza a pretendere di essere con quelli uguagliati in civil diritto. E pone poi in questa coscienza dell'uguaglianza umana tra plebei e nobili, la base e la ragione storica del sorgere delle repubbliche democratiche nell'antichità.

Non abbiamo cosí a vanvera accostato i due frammenti. In essi ci pare siano adombrati, se non diffusamente espressi e definiti, i limiti e i principi sui quali deve fondarsi una giusta comprensione del concetto di cultura anche in rapporto al socialismo.

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, cosí bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, piú deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l'avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di piú di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.

La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. L'ultimo esempio, il piú vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell'illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu completamente quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo aver letto la Grande enciclopedia di D'Alembert e Diderot, non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l'Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia.

In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Piú tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei piú piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune.

Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell'io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.

Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l'uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere.

Voci d'oltretomba9

Noi che siamo stati e siamo internazionalisti di fatto, lo risaremo domani anche di diritto, perché non è possibile che i socialisti tedeschi e tanto meno quelli francesi, inglesi e russi, che hanno accettato in casa loro il fatto della guerra, vogliano condannare noi.

Cosí Guido Podrecca nella sua conferenza al salone Ghersi, tutta striata di quella leggerezza e di quel facilonismo ciarlatanesco che fu una delle cause maggiori del suo tramonto dalla vita politica e della sua morte, ahimè quanto precoce. Perché Guido Podrecca dimentica che anche prima della guerra egli era stato seppellito con tutti gli onori, che la tiratura del suo foglietto anticlericale era spaventosamente discesa, e che ormai in Italia a prenderlo sul serio non erano rimasti che i sagrestani e i parroci di campagna, che dall'alto del pulpito tuonavano contro l'anticristo al cospetto delle folle esterrefatte. Il proletariato ormai educato alla esperienza viva e palpitante della lotta di classe, ne aveva abbastanza di questo falso profeta che con tutta la superficialità fatua di una cultura da spazzaturaio, continuava nel vecchio anticlericalismo smidollato e di maniera, mostrando nel prete l'eterno nemico, l'unico nemico, falsando incoscientemente la storia e intorpidando il limpido corso delle lotte sociali. Chi aveva superato tutti i Bevioni, tutti i Castellini e i Piazza del giornalismo giolittiano nello sparar grosso sulla fertilità, sulla feracità della terra promessa libica, non aveva piú diritto di appartenere alla famiglia del proletariato italiano, e la sua espulsione, breve e recisa, non suscitò rimpianti né echi di dolore. Il ramo secco cadeva dall'albero vigoroso per esaurimento delle linfe vitali e il fuoco fatuo vaneggiante nelle sue barzellette di cattiva lega sul marito dell'amica, veniva riassorbito dalla grassa terra dei camposanti. Era passato il tempo che il socialismo, pur di trovar presa nelle masse disorganizzate, si trastullava con tutti gli scolaticci degli scandali da sacco nero, e bussava e picchiava disperatamente a tutti gli usci e si disperdeva nei blocchi demomassonici pur di potersi affermare, pur di far scivolare nel tumulto piazzaiolo la propaganda di un principio suo, tutto suo. Oramai il processo di individuazione era compiuto, e incominciava quello di isolamento, di opposizione a tutti i cugini di primo, secondo, terzo grado che s'aggrappavano alla trionfalmente robusta nuova personalità. E Podrecca e soci furono tagliati fuori, e passarono alla preistoria, al caos, al regno dell'indistinto. La loro voce arriva ormai fiacca e scialba alle nostre orecchie, come una voce di oltretomba. Il giudizio è inappellabile, onorevoli vittime dell'intransigenza e del domenicanismo socialista. Continuate pure a frugare nelle cloache con la fiocina del ciccaiolo, per la pesca di scandaletti di sacrestia, a blaterare contro la Kultur tedesca, contro Kant, contro tutti quelli che sono troppo in alto perché le unghiette vostre di bambini imbizziti possano scalfire. Continuate ad attaccarvi al rogo di Giordano Bruno per farne sprizzare qualche favilla di popolarità. Appunto Giordano Bruno ha insegnato che si deve essere implacabili contro gli spropositanti, e che quando si vuole ottenere uno scopo e si vuole far trionfare una verità, bisogna isolarsi ed essere intransigenti e domenicani.

Vecchiezze10

Ci accusano di essere vecchi. Si pigliano persino beffe di noi perché non manteniamo tutte le promesse, perché promettiamo piú di quanto possiamo mantenere. In certi momenti, immersi come siamo in questa vita tumultuosa che ci circonda, sensibili come siamo ai rimproveri, alle facce irosamente beffarde dei nostri avversari, sentiamo anche noi come una diminuzione di noi stessi, ci sembra davvero di essere decrepiti, di non riuscire a far sgorgare dalle nostre labbra la parola definitiva, la parola che dia forza ai nostri organi, che infonda vigore alle membra rattrappite e le renda elastiche, atte alla lotta e alla conquista feconda.

Ma una breve riflessione scaccia questo pessimismo. Ci sentiamo vecchi perché il destino perverso ci ha fatti nascere in età vecchia. È l'aria che respiriamo, sono gli istituti che ci reggono, sono gli uomini coi quali siamo in lotta, che sono vecchi. A ogni colpo vigoroso che meniamo su questo verminaio, una tanfata di vecchiume ci ottura le nari; ogni qual volta rimestiamo questa materia in decomposizione è tanto lo schifo che ci investe, che ineluttabilmente ce ne sentiamo noi stessi intaccati. Come il Lao-tse della leggenda cinese, siamo dei vecchi fanciulli, della gente che nasce ad ottant'anni. Un cumulo di tradizioni grava su di noi, e dobbiamo inarcare maggiormente le reni per reggerlo; leggi centenarie legano la nostra attività attuale, e lo sforzo per superarle deve sintetizzare tutti gli sforzi delle generazioni passate, che non si curarono di combattere per noi, di aprirci una strada meno irta di triboli, di ostacoli che uno per uno sono niente e nel complesso sono formidabili. Ci voleva la guerra per scaraventarci sulle gambe questo materasso molliccio di pregiudizi, per fare dei tanti fili sottili di seta una rete inestricabile.

Ma non è parola di sconforto, la nostra. Bisogna anzi avere ben chiaro dinanzi ai lucidi occhi l'ostacolo complesso per meglio sfondarlo con il colpo di mazza. La visione della vita sociale, quale ci si offre ormai integrale, rinnova la fiducia e il proposito che nel passato solo pochi potevano avere. Gli stessi nostri compagni di lotta ci hanno chiamati mistici della rivoluzione; e lo eravamo nel passato, perché la nostra era solo intuizione della realtà, non rappresentazione plastica, viva, di ciò che si doveva abbattere. Dove tutti non vedevano che singoli «fatti», che singole «posizioni» da conquistare con la pazienza per arrivare finalmente alla cima, noi vedevamo un muro compatto su cui rovesciare con un atto energico, volontario, la massa delle nostre forze.

O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico. La falange irresistibile, non la lotta da talpe delle trincee fetide. Siamo dei giovani vecchi. Vecchi per il cumulo enorme di esperienze che in poco tempo abbiamo raggruzzolato, giovani per il vigore dei muscoli, per il desiderio irresistibile di vittoria che ci investe. La nostra generazione di vecchi giovani è quella che dovrà realizzare il socialismo. I nostri avversari si sono svuotati nell'enorme sforzo sostenuto per difendere ognuno il suo campicello. Ebbene, su questo tronco veramente decrepito meniamo il colpo finale della nostra mazza e l'ora nostra sarà giunta, scoccata per la nostra volontà irresistibile, si, ma riflessiva.

Lotta di classe e guerra11

La dottrina di Carlo Marx ha dimostrato anche ultimamente la sua fecondità e la sua eterna giovinezza offrendo un contenuto logico al programma dei piú strenui avversari del Partito socialista, ai nazionalisti. Corradini saccheggia Marx, dopo averlo vituperato. Trasporta dalla classe alla nazione i principi, le constatazioni, le critiche dello studioso di Treviri; parla di nazioni proletarie in lotta con nazioni capitalistiche, di nazioni giovani che debbono sostituire, per lo sviluppo della storia mondiale, le nazioni decrepite. E trova che questa lotta si esplica nella guerra, si afferma nella conquista dei mercati, nel subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del suo sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l'eletta, la degna.

Perciò Corradini non avversa, a parole, la lotta di classe. «Sopprimere la lotta di classe, egli dice, val quanto sopprimere la guerra. Non è possibile. Entrambe sono vitali, l'una all'interno delle nazioni, l'altra fuori. Servono a muovere e rifornire di materiale umano fresco, classi, nazioni, il mondo.» Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale. Per cui dal punto di vista della logica formale i ragionamenti corradiniani non fanno grinza, ma perdono ogni valore quando vogliono diventare norma di vita, coscienza di un dovere. La storia non ha esempi di uno uguale a uno; questa uguaglianza è formula matematica, non constatazione di rapporto fra due realtà affermatesi nel passato o attuali. Tizio è uguale solo a se stesso, e volta a volta, anche; non Tizio bambino uguale a Tizio uomo adulto. E cosí la classe non è uguale alla nazione e quindi non può averne le stesse leggi. Tanto vero che dopo affermato il principio, lo stesso Corradini pone tali limitazioni che finisce, senza avvedersene, col fare rovinare tutta la sua costruzione. Egli afferma che bisogna insegnare al proletariato il massimo rispetto per la produzione.

E per produzione egli intende il capitalismo nazionale, cioè quel complesso di attività economiche, buone e cattive, naturali e fittizie, che in parte servono ad aumentare la ricchezza investita in macchine ed in aziende [una parola censurata] i socialisti vogliono socializzare lo sfruttamento, e in gran parte vivono ai danni del benessere generale e quindi specialmente di quello del proletariato. E rispettare questo pare sia alquanto difficile ai proletari, i quali non fanno la lotta di classe solamente per aumentare i salari, come crede il Corradini, ammiratore naturalmente dei riformisti nazionali, ma specialmente per sostituire la propria classe che lavora a quella dei capitalisti che la fa lavorare. E ciò per quei principi fondamentali dello spirito umano, per cui ogni uomo vuole che la sua attività sia autonoma e non subordinata alla volontà e agli interessi di estranei. E come la borghesia francese, esaltata dal Corradini, lottò per la sua autonomia economica e raggiunse contemporaneamente anche la realizzazione dell'autonomia nazionale, che prima non esisteva, cosí ora il proletariato internazionale lotta per una cosa che ancora non esiste, perché si lotta sempre per raggiungere qualche cosa che non si possiede ancora.

E, questa nazione proletaria che è l'unificazione di tutti i proletari del mondo, supera la nazione di quanto Carlo Marx, che la sua logica nutriva di realtà storica, è superiore ad Enrico Corradini, che si diverte a riempire la botte senza fondo della logica formale con i torniti periodi della lingua italiana, e di quanto la lotta di classe, morale perché universale, supera la guerra, immorale perché particolaristica, e fatta non per volontà dei combattenti, ma per un principio che questi non possono condividere.

La storia12

Date pure alla vita tutta la vostra attività, tutta la vostra fede, tutto l'abbandono sincero e disinteressato delle vostre migliori energie. Immergetevi pure, creature vive, sul vivo e palpitante divenire umano, fino a sentirvi tutt'uno con esso, fino a riceverlo tutto in voi stessi, e a sentire la vostra personalità atomo di un corpo, vibrante particella di un tutto, corda sonora che riceve e riecheggia tutte le sinfonie della storia che voi sentite cosí di contribuire a creare. Nonostante questo abbandono completo alla realtà ambiente, nonostante questo collegare il vostro individuo al gioco complicato delle cause ed effetti universali, sentite all'improvviso il senso di qualcosa che vi manca, sentite dei bisogni vaghi, e difficilmente determinabili, quei bisogni che Schopenhauer chiamava metafisici.

Siete nel mondo, ma non sapete perché. Operate, ma non sapete perché. Sentite dei vuoti, e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata. Proprio come uno che guardando il cielo e risalendo di piano in piano nello spazio che la scienza ha misurato, sente sempre maggiori difficoltà al suo fantastico vagabondare nell'infinito, e arriva al vuoto e non può concepire questo vuoto assoluto, e allora inconsciamente lo popola di creature divine, di entità soprannaturali che coordinano il movimento vertiginoso e pur logico dell'universo. Il sentimento religioso è tutto materiato di queste aspirazioni vaghe, di questi istintivi ed interiori ragionamenti senza sbocco. E a tutti ne rimane nel sangue qualche traccia, qualche fremito, anche a chi piú fortemente è riuscito a dominare queste manifestazioni inferiori, perché istintive, perché impulsive, del proprio io.

Ma è la vita stessa che le vince, è l'attività storica che le cancella. Prodotti della tradizione, depositi istintivi di millenarie epoche di terrore e di ignoranza della realtà circostante, si cerca di rintracciare la loro origine. Spiegarle vuol dire superarle. Farne oggetto di storia vuol dire riconoscere la loro vacuità. E allora si ritorna alla vita attiva, si sente piú plasticamente la realtà della storia. Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una rivelazione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solamente alla nostra incompletezza conoscitiva, all'ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci piú umili, piú modesti, non già buttarci in braccia alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l'energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l'esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d'animo superati. E cosí è che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicismo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensí vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non padrone, illuminatore e non aduggiatore.

I giornali e gli operai13

Sono i giorni della réclame per gli abbonamenti. I direttori e gli amministratori dei giornali borghesi rassettano la loro vetrina, passano una mano di vernice sulla loro insegna e richiamano l'attenzione del passante (cioè del lettore) sulla loro merce. La merce è quel foglio a quattro o sei pagine che va ogni mattina od ogni sera a iniettare nello spirito del lettore le maniere di sentire e di giudicare i fatti dell'attualità politica, che convengono ai produttori e venditori di carta stampata. Vogliamo tentare di discorrere, con gli operai specialmente, dell'importanza e della gravità di quell'atto apparentemente così innocente, che consiste nel scegliere il giornale cui si vuole abbonarsi? È una scelta piena di insidie e di pericoli che dovrebbe essere fatta con coscienza, con criterio e dopo matura riflessione. Anzitutto l'operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso. Eppure egli sa che il tal giornale è codino, che il tal altro è palancaio, che il terzo, il quarto, il quinto, sono legati a gruppi politici che hanno interessi diametralmente opposti ai suoi. Tutti i giorni poi, capita a questo stesso operaio di poter constatare personalmente che i giornali borghesi raccontano i fatti anche piú semplici in modo da favorire la classe borghese e la politica borghese a danno della politica e della classe proletaria. Scoppia uno sciopero? Per il giornale borghese gli operai hanno sempre torto. Avviene una dimostrazione? I dimostranti, sol perché siano operai, sono sempre dei turbolenti, dei faziosi, dei teppisti...

Il governo emana una legge? È sempre buona, utile e giusta, anche se è... viceversa. Si svolge una lotta elettorale, politica od amministrativa? I candidati e i programmi migliori sono sempre quelli dei partiti borghesi.

E non parliamo di tutti i fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell'ignoranza il pubblico dei lavoratori.

Malgrado ciò, l'acquiescenza colpevole dell'operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l'operaio all'esatta valutazione della realtà.

Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone, è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia.

Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista.

Non date aiuti di danaro alla stampa borghese che è vostra avversaria: ecco quale deve essere il nostro grido di guerra in questo momento che è caratterizzato dalla campagna per gli abbonamenti fatta da tutti i giornali borghesi.

Boicottateli, boicottateli, boicottateli!

Uomini o macchine?14

La breve discussione svoltasi nell'ultima seduta consiliare fra i nostri compagni e qualche rappresentante della maggioranza a proposito dei programmi per l'insegnamento professionale, merita di essere commentata, anche se brevemente e compendiosamente. L'osservazione del compagno Zini («La corrente umanistica e quella professionale si urtano ancora nel campo dell'insegnamento popolare: occorre riuscire a fonderle, ma non bisogna dimenticare che prima dell'operaio vi è ancora l'uomo, al quale non bisogna precludere la possibilità di spaziare nei piú ampi orizzonti dello spirito, per asservirlo subito alla macchina») e le proteste del consigliere Sincero contro la filosofia (la filosofia trova specialmente degli avversari quando afferma delle verità che colpiscono gli interessi particolari) non sono dei semplici episodi polemici occasionali: sono scontri necessari tra chi rappresenta dei principi fondamentalmente diversi.

1. Il nostro Partito non si è ancora affermato su un programma scolastico e concreto che si differenzi da quelli soliti. Ci siamo finora accontentati di affermare il principio generale della necessità della cultura sia elementare, che professionale, che superiore, e questo principio abbiamo svolto, abbiamo propagandato con vigore ed energia. Possiamo affermare che la diminuzione dell'analfabetismo in Italia non è tanto dovuta alla legge sull'istruzione obbligatoria quanto alla vita spirituale, al sentimento di certi determinati bisogni della vita interiore, che la propaganda socialista ha saputo suscitare negli strati proletari del popolo italiano. Ma non siamo andati piú in là. La scuola in Italia è rimasta un organismo schiettamente borghese, nel peggior senso della parola. La scuola media e superiore, che è di Stato, e cioè è pagata con le entrate generali, e quindi anche con le tasse dirette pagate dal proletariato, non può essere frequentata che dai giovani figli della borghesia, che godono dell'indipendenza economica necessaria per la tranquillità degli studi. Un proletario, anche se intelligente, anche se in possesso di tutti i numeri necessari per diventare un uomo di cultura, è costretto a sciupare le sue qualità in attività diversa, o a diventare un refrattario, un autodidatta, cioè (fatte le dovute eccezioni) un mezzo uomo, un uomo che non può dare tutto ciò che avrebbe potuto, se si fosse completato ed irrobustito nella disciplina della scuola. La cultura è un privilegio. La scuola è un privilegio. E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali dinanzi alla cultura. Lo Stato non deve pagare coi denari di tutti la scuola anche per i mediocri e deficienti, figli dei benestanti, mentre ne esclude gli intelligenti e capaci, figlioli dei proletari. La scuola media e superiore deve essere fatta solo per quelli che sanno dimostrare di esserne degni. Se è interesse generale che essa esista, e sia magari sorretta e regolata dallo Stato, è anche interesse generale che ad essa possano accedere tutti gli intelligenti, qualunque sia la loro potenzialità economica. Il sacrifizio della collettività è giustificato solo quando esso va a beneficio di chi se lo merita. Il sacrifizio della collettività perciò deve servire specialmente a dare ai valenti quella indipendenza economica, che è necessaria per poter tranquillamente dedicare il proprio tempo allo studio e poter studiare seriamente.

2. Il proletariato, che è escluso dalle scuole di cultura media e superiore per le attuali condizioni della società che determinano una certa specializzazione degli uomini, innaturale, perché non basata sulle diverse capacità, e quindi distruttrice ed inquinatrice della produzione, deve riversarsi nelle scuole collaterali: tecniche e professionali. Quelle tecniche, istituite con criteri democratici dal ministro Casati, hanno subíto per le necessità antidemocratiche del bilancio statale, una trasformazione che le ha in gran parte snaturate. Sono ormai in gran parte diventate superfetazioni delle scuole classiche, e uno sfogatoio innocente della impiegomania piccolo-borghese. Le tasse di iscrizione in continua ascensione, e le possibilità determinate che dànno per la vita pratica, hanno fatto anche di esse un privilegio, e del resto il proletariato ne è escluso, nella sua grandissima parte, automaticamente, per la vita incerta ed aleatoria che è costretto a condurre il salariato; vita che non è certo la piú propizia per seguire con frutto un corso di studio.

3. Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i piú recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l'avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Anche i figli dei proletari devono avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare la propria individualità nel modo migliore, e perciò nel modo piú produttivo per loro e per la collettività. La scuola professionale non deve diventare una incubatrice di piccoli mostri aridamente15 istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall'occhio infallibile e dalla mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi scaturire, dal fanciullo, l'uomo. Purché essa sia cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale. Il consigliere Sincero, che è un industriale, è troppo gretto borghese quando protesta contro la filosofia.

Certo, per gli industriali grettamente borghesi, può essere piú utile avere degli operai-macchine invece che degli operai-uomini. Ma i sacrifizi cui tutta la collettività si assoggetta volontariamente per migliorarsi e per far scaturire dal suo seno i migliori e i piú perfetti uomini che la innalzino ancor piú, devono riversarsi beneficamente su tutta la collettività e non solo su una categoria o una classe.

È un problema di diritto e di forza. E il proletariato deve stare all'erta, per non subire un'altra sopraffazione dopo le tante che già subisce.

L'Università popolare16

Abbiamo qui davanti il programma dell'Università popolare per il primo periodo 1916-17. Cinque corsi: tre dedicati alle scienze naturali, uno di letteratura italiana, uno di filosofia. Sei conferenze su argomenti vari: due sole di esse dànno, per il titolo, una tal quale assicurazione di serietà. Ci domandiamo, qualche volta, il perché a Torino non sia stato possibile il solidificarsi di un organismo per la divulgazione della cultura, il perché l'Università popolare sia rimasta quella misera cosa che è, e non sia riuscita ad imporsi all'attenzione, al rispetto, all'amore del pubblico, il perché essa non sia riuscita a formarsi un pubblico. La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco, producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone possa nel modo piú efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste. E trascurano tutto il resto. Non pensano che l'università è la foce naturale di tutto un lavorio precedente: non pensano che lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né piú né meno che dogmi, che verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, cosí come essi la guidano, si riduce ad un insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile. Ciò non si fa neppure nelle università pubbliche. Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito, che in ogni singolo bisogna che si riproduca quello stato di ansia che ha attraversato lo studioso prima di raggiungerla. E pertanto gli insegnanti che sono maestri, dànno nell'insegnamento una grande importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi, gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza, è molto piú educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza. Forma lo studioso, dà al suo spirito la elasticità del dubbio metodico che fa del dilettante l'uomo serio, che purifica la curiosità, volgarmente intesa, e la fa diventare stimolo sano e fecondo di sempre maggiore e perfetta conoscenza. Chi scrive queste note parla un po' anche per esperienza personale. Del suo garzonato universitario ricorda con piú intensità quei corsi, nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorío di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli apriorismi divini,o filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione atmosferica e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale, e come, per esempio, i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel passato gli studi di letteratura. E cosí per le altre materie. Era questa la parte piú vitale dello studio: questo spirito ricreativo, che faceva assimilare i dati enciclopedici, che li fondeva in una fiamma ardente di nuova vita individuale.

L'insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione. Esso ha il fascino di tutte le cose vitali. Esso deve specialmente affermare la sua efficacia nelle Università popolari, gli uditori delle quali mancano precisamente di quella formazione intellettuale che è necessaria per poter inquadrare in un tutto organizzato i singoli dati della ricerca. Per essi, specialmente, ciò che è piú efficace ed interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano, che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità, conquista la verità. Come dall'errore si arrivi alla certezza scientifica. È il cammino che tutti devono percorrere. Mostrare come è stato percorso dagli altri è l'insegnamento piú fecondo di risultati. È, tra l'altro, una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all'universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari.

Ma le Università popolari, come quella di Torino, amano meglio far tenere dei corsi inutili e ingombranti su «L'anima italiana nell'arte letteraria delle ultime generazioni», o delle lezioni su «La conflagrazione europea giudicata dal Vico», nei quali si bada piú alla lustra che all'efficacia, e la personcina pretenziosa del conferenziere soverchia l'opera modesta del maestro, che pure sa di parlare a degli incolti.

Preoccupazioni17

La posta mi trasmette una circolare della mia parrocchia. Non conosco né il curato né la parrocchia, ma ciò non impedisce che essi esistano, e che io sia una pecorella del loro gregge, e che essi pensino alla mia salute spirituale, e che magari consacrino qualche minuto del prezioso loro tempo per invocare dall'angelo annunziatore il miracolo del rammollimento delle durezze del mio cuore.

Pertanto la circolare mi dispone alla soavità, alla tenerezza. Domanda un contributo per l'elevazione di un tempio votivo a Maria Annunziata, vorrebbe riunire tutta l'Italia ai piedi di Maria SS. per implorare vittoria e pace, protezione ai combattenti, eterno riposo ai caduti. È accompagnata da alcune copie di una pubblicazione periodica, «Votiamoci a Maria!»; ricorda che la SS. Annunziata ha protetto in mille battaglie i magnanimi principi di Casa Savoia, ricorda che la immagine della dea brilla sul petto del nostro eroico sovrano nel collare benedetto, e ricorda perciò che essa è la speciale protettrice degli eserciti e dei soldati d'Italia. Ma questi ricordi non hanno neanche essi la virtú di indispormi, di strappare almeno un piccolo urlo alla mia coscienza di giacobino. La mia coscienza è immersa in un vago crepuscolo mitologico, la mia coscienza è tormentata da altre preoccupazioni. L'attività degli altri non mi irrita, anche se antipodica alla volontà mia e dei compagni in idea. Mi preoccupa il fatto che questa attività ha per fine di lasciare su qualche metro quadrato della superficie del globo una traccia architettonica che consuma pietra e calcina, ingegno e braccia per un edificio, cui non so prevedere un ufficio per domani, quando l'attività attuale sarà definitivamente divenuta mito, quando l'edifizio avrà perduto per tutti del suo carattere ieratico e non sarà piú che sasso e calcina organizzati in edifizio. È una preoccupazione viva e attuale, questa. Si vorrebbe che tutto ciò che si produce in solido, in trasformazione geologica della superficie del mondo, avesse dei caratteri di perpetuità, e pertanto, avesse delle possibilità di adattamento a nuove funzioni.

L'uomo passa: una generazione è sostituita dall'altra. La storia degli uomini è una matrice feconda di coscienze sempre nuove, quantunque nutrite di vecchio, di tradizione. Ma la materia bruta non possiede in sé questa elasticità di rinnovamento. Sono gli uomini che gliela dànno, quando hanno la coscienza di questo loro infuturarsi, di questo rivivere del loro sforzo attuale in una forza di domani. E quando trasformano la stratificazione geologica del mondo, quando tolgono granito al monte o calce alla cava per ordinarli in muri e soffitti, cercano di fare tutto con criteri di continuità, per non ferire inutilmente il decrepito mondo, per non ingombrare inutilmente il nuovo mondo che si dibatte per nascere. La circolare del mio curato mi preoccupa molto in questo vago crepuscolo mitologico nel quale l'animo è immerso. Ma non riesco a vincere i sentimenti soavi e teneri.

È la stessa soavità e tenerezza che si prova al cospetto di tutte le creature imperfette. Si pensa alla fatale loro infecondità, all'oblio che le sommergerà completamente in un tempo non lontano. Il mito pagano ha lasciato dei monumenti di bellezza che continuano a vivere per questo loro carattere di perennità, che fanno rivivere qualcuno dei sentimenti ancestrali. Il mito cristiano, almeno nella nostra città, non lascerà che degli ingombri, preda del futuro piccone. C'è da preoccuparsene davvero. Confessiamo che esso se fa pena per la sua impotenza e sterilità, finisce anche per essere seccante.

Profanazioni18

Il pane di guerra - fatto con mani pure - è pane di comunione - dove è la Patria intera - transustanziata viva - come il corpo del Redentore - nell'offerta eucaristica - Anno di vittoria MCMXVII.

È l'iscrizione dettata da G. d'Annunzio per la medaglia ai panettieri che meglio preparano il pane di guerra. Per i cattolici l'iscrizione è una bestemmia, una profanazione. Nelle chiese di Torino sono stati già celebrati dei tridui di riparazione; l'opinione pubblica cattolica ha protestato in tutte le forme; il d'Annunzio è stato perfino chiamato Rapagnetta, massimo insulto per l'esteta che ama le parole armoniose. Profanazione, sciocchezza. Profanazione per il cattolico, sciocchezza per il razionalista. Il razionalista non rinnega il misticismo. Lo comprende, lo spiega e, quindi, lo svuota del suo significato, del suo valore di propaganda. Il razionalista non disprezza il misticismo. Nega che abbia un'efficacia morale, un'efficacia costruttiva duratura e solida. Il misticismo è intuizione appassionata di una realtà fantastica, è fenomeno individuale, che nei singoli individui può determinare realizzazioni perfette di vita morale. Ma è individuale, non può assurgere a massima, a programma d'azione. È intuizione, non raziocinio. È incomunicabile nella sua vita profonda, e pertanto non può essere, diventando programma di vita, che stucchevole opera di scimmia, bigotteria volgare, sciocco e inconcludente verbalismo. D'Annunzio per i cattolici ha profanato, per essi ha fatto cosa scempia. Ha schematizzato il mistico atto della transustanziazione del Cristo nell'azzimo pane eucaristico, e lo schema ha applicato ad altre realtà: la patria oggi, come ieri e domani la donna, come sempre la parola. E la scempiaggine non è solo dannunziana: è dei cattolici, è dei monarchici, è dei repubblicani, è di tutti quelli che della mistica hanno fatto una massima d'azione e di propaganda [quindici righe censurate]. E per qualcuno può ben essere così. I santi esistono ed esisteranno; i mistici che bruciano in una fiamma di passione superumana tutte le scorie della loro terrena esistenza e assurgono a puro spirito, esistono ed esisteranno. Ma essi vivono questo misticismo e se ne consumano; non possono comunicarlo. Fare della loro vita una massima è scempio. Massima d'azione può essere la volontà, la ricerca, lo studio, la coerenza, la disciplina, non l'inconoscibile, l'oscurità, il lampo rivelatore, l'intuizione che sgorga dalle profondità dell'essere, senza seguire alcuna legge, senza presentare caratteri di uniformità. Chi ha per massima di vita il misticismo è una scimmia, non un uomo, è un retore, non un maestro, sia egli d'Annunzio, o il predicatore della chiesa cattolica, o il giornalista del trust clericale. È un imbroglione, incosciente qualche volta, quasi sempre cosciente del fine che vuol raggiungere. Profanatore d'Annunzio? Scempi imbroglioni d'Annunzio e i suoi fustigatori che si ricordano di Rapagnetta, ma ammirano quei famosi scocciatori che sono Paolo Bourget o Antonio Fogazzaro.

Tre principi, tre ordini19

L'ordine e il disordine sono le due parole che piú frequentemente ricorrono nelle polemiche di carattere politico. Partiti dell'ordine, uomini dell'ordine, ordine pubblico... Tre parole avvicinate ad un cardine unico: l'ordine, sul quale le parole si fissano e girano con maggiore o minore aderenza a seconda della concreta forma storica che gli uomini, i partiti e lo Stato assumono nella molteplice possibile loro incarnazione. La parola ordine ha un potere taumaturgico; la conservazione degli istituti politici è affidata in gran parte a questo potere. L'ordine presente si presenta come qualcosa di armonicamente coordinato, di stabilmente coordinato; e la moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell'incertezza di ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare. Il senso comune, il balordissimo senso comune predica al solito che è meglio un uovo oggi che una gallina domani. E il senso comune è un terribile negriero degli spiriti. Tanto piú quando per aver la gallina bisogna rompere il guscio dell'uovo. Si forma nella fantasia l'immagine di qualcosa di lacerato violentemente; non si vede l'ordine nuovo possibile, meglio organizzato del vecchio, piú vitale del vecchio, perché al dualismo contrappone l'unità, all'immobilità statica dell'inerzia la dinamica della vita semoventesi. Si vede solo la lacerazione violenta, e l'animo pavido arretra nella paura di tutto perdere, di aver dinanzi a sé il caos, il disordine ineluttabile. Le profezie utopistiche erano costituite appunto in vista di questa paura. Si voleva, con l'utopia, prospettare un assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato, e togliesse l'impressione del salto nel buio. Ma le costruzioni sociali utopistiche sono crollate tutte, perché essendo appunto cosí lisciate e assettatuzze, bastava dimostrarne infondato un particolare, per farle crollare nella loro totalità. Non avevano base queste costruzioni, perché troppo analitiche, perché fondate su un'infinità di fatti, e non su un unico principio morale. Ora i fatti concreti dipendono da tante cause, che finiscono per non aver piú causa, e per essere imprevedibili. E l'uomo ha bisogno, per operare, di poter almeno in parte prevedere. Non si concepisce volontà che non sia concreta, che cioè non abbia uno scopo. Non si concepisce volontà collettiva che non abbia uno scopo universale concreto. Ma questo non può essere un fatto, singolo, o una serie di fatti singoli. Può essere solo un'idea, o un principio morale. Il difetto organico delle utopie è tutto qui. Credere che la previsione possa essere previsione di fatti, mentre essa può solo esserlo di princípi, o di massime giuridiche. Le massime giuridiche (il diritto, il giure è la morale attuata) sono creazione degli uomini come volontà. Se volete dare a queste volontà una certa direzione, ponete loro come scopo ciò che solo può esserlo: altrimenti, dopo un primo entusiasmo, le vedrete abbiosciarsi e dileguare.

Gli ordini attuali sono stati suscitati per la volontà di attuare totalmente un principio giuridico. I rivoluzionari dell'89 non prevedevano l'ordine capitalistico. Volevano attuare i diritti dell'uomo, volevano che fossero riconosciuti ai componenti la collettività determinati diritti. Questi, dopo la lacerazione iniziale del vecchio guscio, andarono affermandosi, andarono concretandosi e, divenuti forze operose sui fatti, li plasmarono, li caratterizzarono e ne sbocciò là civiltà borghese, l'unica che potesse sbocciarne, perché la borghesia era l'unica energia sociale fattiva e realmente operante nella storia. Gli utopisti furono sconfitti anche allora, perché nessuna delle loro particolari previsioni si realizzò. Ma si realizzò il principio, e da questo fiorirono gli ordinamenti attuali, l'ordine attuale.

Era un principio universale quello affermatosi nella storia attraverso la rivoluzione borghese? Certamente sí. Eppure si è soliti dire che se J. J. Rousseau potesse vedere quale foce hanno avuto le sue predicazioni, probabilmente le rinnegherebbe. In questa affermazione paradossale è contenuta una critica implicita del liberalismo. Ma essa è paradossale, cioè afferma in modo ingiusto una cosa giusta. Universale non vuol dire assoluto. Nella storia niente vi è di assoluto e di rigido. Le affermazioni del liberalismo sono delle idee-limiti che, riconosciute razionalmente necessarie, sono diventate idee-forze, si sono realizzate nello Stato borghese, hanno servito a suscitare a questo Stato un'antitesi nel proletariato, e si sono logorate. Universali per la borghesia, non lo sono abbastanza per il proletariato. Per la borghesia erano idee-limiti, per il proletariato sono idee-minimi. E infatti il programma liberale integrale è diventato il programma minimo del Partito socialista. Il programma cioè che ci serve a vivere giorno per giorno, in attesa che si giudichi giunto l'istante piú utile.

Come idea-limite il programma liberale crea lo Stato etico, uno Stato cioè che idealmente sta al disopra delle competizioni di classe, del vario intrecciarsi ed urtarsi degli aggruppamenti che ne sono la realtà economica e tradizionale. È un'aspirazione politica questo Stato, piú che una realtà politica; esiste solo come modello utopistico, ma è appunto questo suo essere un miraggio che lo irrobustisce e ne fa una forza di conservazione. Nella speranza che finalmente esso si realizzi nella sua compiuta perfezione, molti trovano la forza di non rinnegarlo, e non cercare quindi di sostituirlo.

Vediamo due di questi modelli che sono tipici, che sono la pietra di paragone per i dissertatori di teorie politiche. Lo Stato inglese e lo Stato germanico. Ambedue divenuti grande potenza, ambedue riusciti ad affermarsi, con direttive diverse, come saldi organismi politici ed economici, ambedue aventi una sagoma ben definita, che li pone di fronte ora, e che sempre li ha resi inconfondibili.

L'idea che ha servito come motrice delle forze interne, parallele, per l'Inghilterra si può riassumere nella parola: liberismo, per la Germania nelle parole: autorità con la ragione.

Liberismo è la formula che comprende tutta una storia di lotte, di movimenti rivoluzionari per la conquista di singole libertà. È la forma mentis venutasi creando attraverso questi movimenti. È la convinzione venutasi formando nel sempre maggior numero di cittadini che vennero attraverso queste lotte a partecipare all'attività pubblica, che nella libera manifestazione dei propri convincimenti, nel libero esplicarsi delle forze produttive e legislative del paese era il segreto della felicità. Della felicità, naturalmente, intesa nel senso che di tutto ciò che succede di male, non possa andare la colpa a singoli, e di tutto ciò che non riesce debba ricercarsi la ragione solo nel fatto che gli iniziatori non possedevano ancora la forza per affermare vittoriosamente il loro programma.

Per l'Inghilterra il liberismo ha trovato, per citare un esempio, prima della guerra, il suo propugnatore teorico-pratico in Lloyd George, che, ministro di Stato, in un comizio pubblico, e sapendo che le sue parole acquistavano significato di programma di governo, dice press'a poco agli operai: «Noi non siamo socialisti, cioè non addiveniamo subito alla socializzazione della produzione. Ma non abbiamo pregiudiziali teoriche contro il socialismo. A ognuno il suo compito. Se la società attuale è ancora capitalistica, ciò vuol dire che il capitalismo è ancora una forza storicamente non esaurita. Voi socialisti dite che il socialismo è maturo. Provatelo. Provate di essere la maggioranza, provate di essere non solo potenzialmente, ma anche in atto, la forza capace di reggere le sorti del paese. E noi vi lasceremo il posto pacificamente». Parole che a noi, abituati a vedere nel governo qualcosa di sfingico, astratto completamente dal paese e da ogni polemica viva su idee e fatti, sembrano strabilianti. Ma che non lo sono, e non sono neppure retorica vuota, se si pensa che è da piú di 200 anni che in Inghilterra si combattono delle lotte politiche nella piazza, e che il diritto alla libera affermazione di tutte le energie è un diritto conquistato, e non un diritto naturale, che si presume tale in sé e per sé. E basta ricordare che il governo radicale inglese tolse alla Camera dei Lordi ogni diritto di voto, per poter far diventare realtà l'autonomia irlandese, e che Lloyd George si proponeva prima della guerra di far votare un progetto di legge agraria, per la quale, posto come assioma che chi possiede mezzi di produzione, e non li fa adeguatamente fruttare, decade dai suoi diritti assoluti, molte delle proprietà private dei terrieri venivano loro tolte e vendute a chi avrebbe potuto coltivarle. Questa forma di socialismo di Stato borghese, cioè socialismo non socialista, faceva sí che anche il proletariato non vedesse molto di cattivo occhio lo Stato come governo, e persuaso, a torto o a ragione, di essere tutelato, conducesse la lotta di classe con discrezione e senza quell'esasperazione morale che caratterizza il movimento operaio.

La concezione dello Stato germanico è agli antipodi di quella inglese, ma produce gli stessi effetti. Lo Stato tedesco è protezionista per forma mentis. Fichte ha dato il codice dello Stato chiuso. Cioè dello Stato retto dalla ragione. Dello Stato che non deve essere lasciato in balía delle forze libere spontanee degli uomini, ma deve in ogni cosa, in ogni atto imprimere il suggello di una volontà, di un programma stabilito, preordinato dalla ragione. E perciò in Germania il Parlamento non ha quei poteri che ha altrove. È semplicemente consultivo, da mantenere solo perché razionalmente non si può ammettere l'infallibilità dei poteri esecutivi, e anche dal Parlamento, dalla discussione può scoccare la verità. Ma la maggioranza non ha diritto riconosciuto alla verità. Arbitro rimane il Ministero (l'Imperatore), che giudica e sceglie, e non è sostituito che per volontà imperiale. Ma le classi hanno la convinzione, non retorica, non supina, ma formatasi attraverso decenni di esperienze di retta amministrazione, di osservata giustizia distributiva, che i loro diritti alla vita sono tutelati e che la loro attività deve consistere nel cercare di diventar maggioranza, per i socialisti, e di conservarsi maggioranza e dimostrare continuamente la loro necessità storica, per i conservatori. Un esempio: la votazione, approvata anche dai socialisti, del miliardo per maggiori spese militari, avvenuta nel 1913. La maggioranza dei socialisti votò a favore perché il miliardo fu prelevato non dalla generalità dei contribuenti, ma con una espropriazione (almeno apparente) dei grossi reddituari. Sembrò un esperimento di socialismo di Stato, sembrò che fosse giusto principio in sé far pagare ai capitalisti le spese militari, e si votarono dei denari che andavano a beneficio esclusivo della borghesia e del partito militare prussiano.

Questi due tipi di ordine costituito sono il modello base dei partiti d'ordine d'Italia. I liberali e i nazionalisti dicono (o dicevano) rispettivamente di volere che in Italia si creasse qualcosa di simile allo Stato inglese e allo Stato germanico. La polemica contro il socialismo è tutta tessuta sull'aspirazione di questo Stato etico potenziale in Italia. Ma in Italia è mancato completamente quel periodo di svolgimento che ha reso possibile l'attuale Germania e Inghilterra. Pertanto se portate alle ultime conseguenze i ragionamenti dei liberali e dei nazionalisti italiani, ottenete come risultato nel presente questa formula: il sacrifizio da parte del proletariato. Sacrifizio dei propri bisogni, sacrifizio della propria personalità, della propria combattività per dare tempo al tempo, per permettere che la ricchezza si moltiplichi, per permettere che la amministrazione si purifichi [tre righe censurate]. I nazionalisti e i liberali non arrivano fino a sostenere che in Italia esista un ordine qualsiasi. Sostengono che quest'ordine dovrà esistere, purché i socialisti non intralcino la fatale sua instaurazione.

Questo stato di fatto delle cose italiane è per noi fonte di maggiore energia e di maggiore combattività. Se si pensa quanto sia difficile convincere a muoversi un uomo che non abbia delle ragioni immediate per farlo, si comprende quanto sia piú difficile convincere una moltitudine negli Stati dove non esiste, come in Italia, da parte del governo, il partito preso di soffocarne le aspirazioni, di taglieggiarne in tutti i modi la pazienza e la produttività. Nei paesi dove non succedono i conflitti di piazza, dove non si vedono calpestate le leggi fondamentali dello Stato, né si vede l'arbitrio essere il dominatore, la lotta di classe perde della sua asprezza, lo spirito rivoluzionario perde di slancio e si abbioscia. La cosiddetta legge del minimo sforzo, che è la legge dei poltroni, e vuol dire spesso non far niente, diventa popolare. In quei paesi la rivoluzione è meno probabile. Dove esiste un ordine, è piú difficile che ci si decida a sostituirlo con un ordine nuovo [una riga censurata].

I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l'ordine in sé. La massima giuridica che essi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana concessa a tutti i cittadini. Con il concretarsi di questa massima cadono tutti i privilegi costituiti. Essa porta al massimo della libertà col minimo della costrizione. Vuole che regola della vita e delle attribuzioni sia la capacità e la produttività, all'infuori di ogni schema tradizionale. Che la ricchezza non sia strumento di schiavitú, ma essendo di tutti impersonalmente, dia a tutti i mezzi per tutto il benessere possibile. Che la scuola educhi gli intelligenti da chiunque nati, e non rappresenti il premio [quattro righe censurate]. Da questa massima dipendono organicamente tutti gli altri princípi del programma massimo socialista. Esso, ripetiamo, non è utopia. È universale concreto, può essere attuato dalla volontà. È principio d'ordine, dell'ordine socialistico. Di quell'ordine che crediamo in Italia si attuerà prima che in tutti gli altri paesi [quattro righe censurate].

Indifferenti20

Odio gli indifferenti: Credo come Federico Hebbel che «vivere vuol dire essere partigiani». Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi piú splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura piú salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all' indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non, sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I piú di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano cosí la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi piú urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò, che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Disciplina e libertà21

Associarsi a un movimento vuoi dire assumersi una parte della responsabilità degli avvenimenti che si preparano, diventare di questi avvenimenti stessi gli artefici diretti. Un giovane che si iscrive al movimento giovanile socialista compie un atto di indipendenza e di liberazione. Disciplinarsi è rendersi indipendenti e liberi. L'acqua è acqua pura e libera quando scorre fra le due rive di un ruscello o di un fiume, non quando è sparsa caoticamente sul suolo, o rarefatta si libra nell'atmosfera. Chi non segue una disciplina politica è appunto materia allo stato gassoso, o materia bruttata da elementi estranei: pertanto inutile e dannosa. La disciplina politica fa precipitare queste lordure, e dà allo spirito il suo metallo migliore, alla vita uno scopo, senza del quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta. Ogni giovane proletario che sente quanto sia pesante il fardello della sua schiavitú di classe, deve compiere l'atto iniziale della sua liberazione, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista piú vicino a casa sua.

Margini22

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Lo sforzo fatto per conquistare una verità, fa apparire un po' come propria la verità stessa, anche se alla sua nuova enunciazione non si è aggiunto nulla di veramente proprio, non s'è data neppure una lieve colorazione personale. Ecco perché spesso si plagiano gli altri inconsciamente e si rimane disillusi per la freddezza con cui vengono accolte affermazioni che riputavamo capaci di scuotere, di entusiasmare. Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l'uovo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopritore dell'uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità già conosciuta al cincischiarmi l'intelligenza per fabbricare paradossi brillanti, spiritosi giuochi di parole, acrobatismi verbali, che fanno sorridere ma non fanno pensare.

La giardiniera plebea è sempre la minestra piú nutriente e piú appetitosa appunto perché preparata con le civaie piú usuali. Mi piace vederla ingoiare a larghe cucchiaiate dagli uomini gagliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forza della loro volontà e dei loro muscoli l'avvenire. La piú trita verità non è mai stata ripetuta quanto basti perché essa diventi massima e stimolo all'azione in tutti gli uomini.

2

Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l'accorgerti che ha un po', o molto di ragione. Ho seguíto per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano cosí sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire.

3

Le diserzioni dal socialismo di molti cosiddetti intellettuali (a proposito, intellettuale vuol sempre dire intelligente?) sono diventate per gli sciocchi la miglior prova della povertà morale della nostra idea. Il fatto è che fenomeni simili sono avvenuti e avvengono per il positivismo, per il nazionalismo, per il futurismo, e per tutti gli altri ismi. Ci sono i crisaioli, le animucce sempre in cerca di un punto fermo, che si buttano sulla prima idea che si presenti con l'apparenza di poter diventare un ideale e se ne nutrono fino a quando dura lo sforzo per impossessarsene. Quando si è arrivati alla fine dello sforzo e ci si accorge (ma questo è effetto della poca profondità spirituale, del poco ingegno, in fondo) che essa non basta a tutto, che ci sono problemi la cui soluzione (se pur esiste) è fuori di quella ideologia (ma forse è ad essa coordinata in un piano superiore), ci si butta su qualche altra cosa che sia una verità, che rappresenti ancora un incognito e quindi presenti probabilità di soddisfazioni nuove. Gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragione dei propri fallimenti spirituali; non vogliono convincersi che la causa ne è sempre e solo la loro animuccia, la loro mancanza di carattere e di intelligenza. Ci sono i dilettanti della fede, cosí come i dilettanti del sapere.

Ciò nella migliore delle ipotesi. Per molti la crisi di coscienza non è che una cambiale scaduta o il desiderio di aprire un conto corrente.

4

Si dice che in Italia ci sia il peggior socialismo d'Europa. E sia pure: l'Italia avrebbe il socialismo che si merita.

5

Il progresso non consiste per lo piú che nella partecipazione di un sempre maggior numero di individui a un bene. L'egoismo è il collettivismo degli appetiti e dei bisogni di un singolo: il collettivismo è l'egoismo di tutti i proletari del mondo. I proletari non sono certo altruisti nel significato che a questa parola dànno gli umanitari frolli. Ma l'egoismo del proletariato è nobilitato dalla coscienza che il proletariato ha di non poterlo totalmente appagare senza che lo abbiano appagato nello stesso tempo tutti gli altri individui della sua classe. E perciò l'egoismo proletario crea immediatamente la solidarietà di classe.

6

È stato detto: il socialismo è morto nel momento stesso in cui è stato dimostrato che la società futura che i socialisti dicevano di star creando era solo un mito buono per le folle. Anch'io credo che il mito si sia dissolto nel nulla. Ma la sua dissoluzione era necessaria. Il mito si era venuto formando quando era ancor viva la superstizione scientifica, quando si aveva una fede cieca in tutto ciò che era accompagnato dall'attributo scientifico. Il raggiungimento di questa società modello era un postulato del positivismo filosofico, della filosofia scientifica. Ma questa concezione non era scientifica, era solo meccanica, aridamente meccanica. Ne è rimasto il ricordo scolorito nel riformismo teorico (però anche la Critica sociale non si chiama piú: Rivista del socialismo scientifico) di Claudio Treves, un balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall'uomo e dalla volontà, incomprensibili e assurde: una forma di misticismo arido e senza scatti di passione dolorante. Era questa una visione libresca, cartacea della vita; si vede l'unità, l'effetto, non si vede il molteplice, l'uomo di cui l'unità è la sintesi. La vita è per costoro come una valanga che si osserva da lontano, nella sua irresistibile caduta. Posso io fermarla?, si domanda l'homunculus: no, dunque essa non segue una volontà. Perché la valanga umana obbedisce ad una logica che caso per caso può non essere la mia individuale, ed io individuo non ho la forza di fermarla o di farla deviare, mi convinco che essa non ha una logica interiore, ma ubbidisce a delle leggi naturali infrangibili.

È avvenuta la débâcle della scienza, o per meglio dire, la scienza si è limitata ad assolvere il solo compito che le era concesso; si è perduta la cieca fiducia nelle sue deduzioni ed è quindi tramontato il mito che essa aveva contribuito potentemente a suscitare. Ma il proletariato si è rinnovato; nessuna delusione vale ad essiccare la sua convinzione, come nessuna brinata distrugge il virgulto ricolmo di succhi vitali. Ha riflettuto sulle proprie forze, e su quanta forza è necessaria per il raggiungimento dei suoi fini. Si è maggiormente nobilitato nella coscienza delle sempre maggiori difficoltà che ora vede, e nel proposito dei sempre maggiori sacrifici che sente di dover fare. È avvenuto un processo di interiorizzamento: si è trasportato dall'esterno all'interno il fattore della storia: a un periodo di espansione ne succede sempre uno di intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita:la volontà tenace dell'uomo.

Il socialismo non è morto, perché non sono morti per esso gli uomini di buona volontà.

7

Si è irriso, e si irride ancora al valore numero, che sarebbe solo un valore democratico, non rivoluzionario: la scheda, non la barricata. Ma il numero, la massa, ha servito a creare un nuovo mito: il mito dell'universalità, il mito della marea che sale irresistibile e fragorosa e raderà al suolo la città borghese sorretta sui puntelli del privilegio. Il numero, la massa (tanti in Germania, in Francia, in America, in Italia... che ogni anno crescono, crescono...) ha saldato la convinzione che ogni singolo ha di partecipare a qualcosa di grandioso che sta maturando e di cui ogni nazione, ogni partito, ogni sezione, ogni gruppo, ogni individuo è una molecola che riceve e restituisce rinvigorito il succo vitale che circolando arricchisce tutto il complesso del corpo socialista mondiale. I milioni d'infusori che nuotano nell'Oceano Pacifico costruiscono sterminati banchi coralliferi sotto il livello dell'acqua: un terremoto fa affiorare i banchi e un nuovo continente si forma. I milioni di socialisti dispersi nella vastità del mondo lavorano anch'essi alla costruzione di un continente nuovo; e il terremoto [due righe censurate].

8

È piú facile convincere chi non ha mai partecipato alla vita politica di chi ha già appartenuto a un partito già sagomato e ricco di tradizioni. È immensa la forza che la tradizione esercita sugli animi. Un clericale, un liberale che, diventano socialisti, sono altrettante macchine a sorpresa che possono da un momento all'altro esplodere con effetti letali per la nostra compagine. Le anime vergini degli uomini di campagna, quando si convincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tutto il possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un relativista. Ha esperimentato in se stesso una volta quanto sia facile sbagliarsi nello scegliere la propria via. Pertanto gliene rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha il coraggio necessario per l'azione.

Preferisco che al movimento si accosti un contadino piú che un professore d'università. Solo che il contadino dovrebbe cercare di farsi tanta esperienza e tanta larghezza di mente quanta ne può avere un professore d'università, per non rendere sterile la sua azione e il possibile suo sacrifizio.

9

Accelerare l'avvenire. Questo è il bisogno piú sentito nella massa socialista. Ma cos'è l'avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente concreto? L'avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell'oggi come già avente modificato l'ambiente sociale. Per tanto accelerare l'avvenire significa due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di uomini quanto si presume sia necessaria per far diventare fruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia possibile l'equazione: 1 = 1.000.000. E questo sarebbe un progresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farne sprizzare miriadi di scintille. Ciò è necessario [una riga censurata]. Aspettare di essere diventati la metà piú uno è il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri.

Carattere23

Non rimproveriamo agli avversari del socialismo di essere avversari del socialismo. Avendo una coscienza esatta della nostra personalità, del compito che ci siamo proposti, del metodo, attraverso il quale cerchiamo di raggiungere i nostri fini, comprendiamo perfettamente che possano e anzi debbano esistere i nostri avversari.

Ci maravigliamo che i nostri avversari non comprendano che possiamo e dobbiamo esistere noi. Ci maravigliamo che i nostri avversari non comprendano che noi possiamo e dobbiamo avere una personalità, dei compiti, dei fini, dei metodi, che non sono i loro. Ci maravigliamo, ma non andiamo in collera. Questa incomprensione dei nostri avversari è una prova della loro deficienza. Essi non comprendono il nostro carattere, perché essi stessi non hanno carattere. Essi non comprendono che noi facciamo sul serio, che noi seria[mente c preoccupiamo di perseguire i no]stri fini, di sviluppare la nostra potenza, di esplicare i nostri metodi, solo perché essi non sono seri, perché non hanno fini; non hanno metodi, sono impotenti.

La loro mentalità si è formata attraverso il trasformismo. La loro vita è la vita del giorno per giorno. Non sanno vedere piú in là del fatto attuale. Anche se giovani singolarmente, sono vecchi come collettività. E i vecchi non hanno uno scopo importante nella vita. Pensano solo a superare volta per volta gli ostacoli, le insidie al loro organismo indebolito. Biologicamente il vecchio non ha carattere, perché è di là dalla parabola. Egli consuma le energie accumulate in giovinezza, e non può immaginare piú, non può piú comprendere che ci sia chi si preoccupi invece di moltiplicare le cellule e i tessuti del suo organismo, chi si preoccupi che il suo scheletro osseo sia saldo, non subisca delle deviazioni, ma si rinsaldi omogeneo, tale da essere quello di un uomo biologicamente perfetto e non un ammasso di materia cartilaginosa, che si affloscia e si deforma a seconda degli urti delle forze esteriori.

La mentalità dei nostri avversari è trasformistica. Il primo nucleo dei partiti attuali di conservazione si è costituito con gli uomini che nel periodo tra il 1860 e il 1880 si sono convertiti dalle idee estreme di allora (mazzinianismo, radicalismo antimonarchico, ecc.) alle idee d'ordine. Si sono convertiti per sentimentalismo o per spirito di adattamento. Il sentimentalismo è diventato cosí il principio politico costruttivo della vita pubblica italiana. Il sentimentalismo che distrugge il carattere, che impedisce la formazione del carattere. Che alla vita logica sostituisce la confusione, al distinto, l'indistinto e il caotico. Che nega ogni programma concreto, perché è disposto a modificarsi a seconda delle contingenze che il caso crea. Che è disposto a costringere le sue idee elementari, i suoi principi istintivi nelle strettoie che gli avvenimenti preparano e impongono. Questa accomodabilità diventa un abito, determina un modo speciale di pensare. Le polemiche scatenatesi contro il socialismo per l'atteggiamento che i socialisti italiani hanno assunto nei confronti della guerra, ne sono una conseguenza.

I nostri avversari non si preoccupano di giudicare l'atteggiamento dei socialisti alla stregua dei principi e dei metodi che i socialisti hanno sempre professato e seguito. Far ciò vorrebbe dire giudicare veramente, e fare cosa concreta. Essi non tentano neppure questo giudizio, ne sono incapaci. Dinanzi a degli uomini di carattere, perdono la bussola, brancolano nel buio, si disperdono in tutti i vicoli ciechi del pettegolezzo, della maldicenza, della diffamazione. Non comprendono un contegno rettilineo, rigidamente coerente. Sono ipnotizzati dai fatti, dalla attualità. Non comprendono l'uomo di carattere, che i fatti e l'attualità pesa e giudica non tanto in sé e per sé quanto per la concatenazione che hanno col passato e con l'avvenire. Che i fatti giudica quindi specialmente per i loro effetti, per la loro eternità. Sono dei mistici del fatto. E il mistico non può giudicare, può solamente benedire o odiare.

Ma è questa la forza dei socialisti italiani. Aver conservato un carattere. Essere riusciti à vincere i sentimentalismi, essere riusciti a strozzare i palpiti del cuore, come stimoli all'azione, come stimolo alle manifestazioni di vita collettiva. I socialisti italiani hanno realizzato, in questo periodo della storia, l'umanità piú perfetta per i fini della storia. L'umanità che non cade nelle facili trappole dell'illusione. La umanità che ha rinnegato come inutili e nocive le forme inferiori della vita spirituale: l'impulso del buon cuore e il sentimentalismo. Le ha rinnegate coscientemente. Perché ha saputo assimilare gli insegnamenti dei suoi maestri piú grandi, e gli insegnamenti che scaturivano spontaneamente dalla realtà borghese morsa dai reagenti della critica socialista. I socialisti italiani sono rimasti incrollabili entro i ranghi determinati dalla esistenza delle classi sociali. Non si sono turbati, come collettività, per gli spettacoli dolorosi che si presentavano ai loro occhi. Non sono svenuti, come collettività, quando è stato loro scagliato fra i piedi il cadavere ancora palpitante di un bambino assassinato. La commozione che ogni singolo ha provato, la stretta al cuore, le simpatie che ogni singolo ha potuto provare, non hanno scalfito la granitica compattezza della classe. Se ogni singolo ha un cuore, la classe, come tale, non ha cuore nel senso che alla parola è solito dare l'umanitarismo infrollito. La classe ha una volontà, la classe ha un carattere. Di questa volontà, di questo carattere è plasmata tutta la sua vita, senza alcun residuo. Come classe non può avere solidarietà che di classe, altra forma di lotta che quella di classe, altra nazione che la classe, cioè l'Internazionale. Il suo cuore non è che la coscienza del suo essere classe, la coscienza dei suoi fini, la coscienza del suo avvenire. Dell'avvenire che è solamente suo, per il quale non domanda solidarietà e collaborazione a nessuno, per il quale non vuole che palpiti il cuore di nessuno, ma palpiti solo, nella sua immensa potenzialità dinamica e creatrice, la sua volontà tenace, implacabile contro tutto e tutti che a lei siano estranei.

I nostri avversari non comprendono questo. In Italia non si conosce il carattere. Ed è questa l'unica cosa in cui i socialisti possano giovare, e abbiano giovato all'italianità. Hanno dato all'Italia ciò che finora le è sempre mancato. Un esempio vivo e drammaticamente palpitante di carattere adamantino e fieramente superbo di se stesso.

Note sulla rivoluzione russa24

Perché la rivoluzione russa è rivoluzione proletaria?

A leggere i giornali, a leggere il complesso delle notizie che la censura ha permesso di pubblicare, ciò non si capisce troppo. Sappiamo che la rivoluzione è stata fatta dai proletari (operai e soldati), sappiamo che esiste un comitato di delegati operai che controlla l'opera degli enti amministrativi che necessariamente si sono dovuti mantenere per il disbrigo degli affari ordinari. Ma basta che una rivoluzione sia stata fatta dai proletari perché essa sia rivoluzione proletaria? Anche la guerra è fatta dai proletari, eppure essa non è, solo perciò, un fatto proletario. È necessario perché ciò sia che intervengano altri fattori, i quali sono fattori spirituali. È necessario che il fatto rivoluzionario si dimostri, oltre che fenomeno di potenza, anche fenomeno di costume, si dimostri fatto morale. I giornali borghesi hanno insistito sul fenomeno di potenza, ci hanno detto come sia avvenuto che la potenza dell'autocrazia sia stata sostituita da un'altra potenza non ancora ben definita e che essi sperano sia la potenza borghese. E hanno subito istituito il parallelo: rivoluzione russa, rivoluzione francese, e hanno trovato che i fatti si rassomigliano. Ma è solo la superficie dei fatti che si rassomiglia, cosí come un atto di violenza rassomiglia a un altro atto di violenza, e una distruzione rassomiglia a un'altra distruzione.

Eppure noi siamo persuasi che la rivoluzione russa è, oltre che un fatto, un atto proletario, e che essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista. Le poche notizie veramente concrete, veramente sostanziali, non permettono una dimostrazione esauriente. Tuttavia alcuni elementi ci sono che ci permettono di arrivare a questa conclusione.

La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. La rivoluzione ha dovuto abbattere l'autocrazia, non ha dovuto conquistare la maggioranza con la violenza. Il giacobinismo è fenomeno puramente borghese: esso caratterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici. Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l'ordine vecchio, impone l'ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario.

La rivoluzione russa ha distrutto l'autoritarismo, e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne. All'autoritarismo ha sostituito la libertà, alla Costituzione ha sostituito la libera voce della coscienza universale. Perché i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno cioè sostituito alla dittatura di un solo, la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il suo programma? Perché essi perseguono un ideale che non può essere solo di pochi, perché essi sono sicuri che quando tutto il proletariato russo sarà da loro interrogato, la risposta non può essere dubbia: essa è nelle coscienze di tutti, e si trasformerà in decisione irrevocabile non appena potrà esprimersi in un ambiente di libertà spirituale assoluta, senza che il suffragio sia pervertito dall'intervento della polizia e dalla minaccia della forca o dell'esilio. Il proletariato industriale è già preparato al trapasso anche culturalmente: il proletariato agricolo, che conosce le forme tradizionali del comunismo comunale, è anche esso preparato al passaggio a una nuova forma di società. I rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi (la duma, gli zemstva) non facciano essi del giacobinismo per rendere equivoco il responso del suffragio universale, e volgere il fatto violento ai loro interessi.'

I giornali borghesi non hanno dato alcuna altra importanza a questo altro fatto. I rivoluzionari russi hanno aperto le carceri non solo ai condannati politici, ma anche ai condannati per reati comuni. In un reclusorio i condannati per reati comuni, all'annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro. Questa notizia ha importanza, ai fini della rivoluzione socialista, quanto e piú di quella della cacciata dello zar e dei granduchi. Lo zar sarebbe stato cacciato anche dai borghesi. Ma per i borghesi questi condannati sarebbero stati sempre i nemici del loro ordine, i subdoli insidiatori della loro ricchezza, della loro tranquillità. La loro liberazione ha per noi questo significato: in Russia è un nuovo costume che la rivoluzione ha creato. Essa ha non solo sostituito potenza a potenza, ha sostituito costume a costume, ha creato una nuova atmosfera morale, ha instaurato la libertà dello spirito, oltre che la libertà corporale. I rivoluzionari non hanno avuto paura di rimettere in circolazione uomini che la giustizia borghese ha bollato col marchio infame di pregiudicati, che la scienza borghese ha catalogato nei vari tipi di criminali delinquenti. Solo in un'atmosfera di passione sociale può avvenire un tal fatto, quando il costume è cambiato, quando la mentalità predominante è cambiata. La libertà fa gli uomini liberi, allarga l'orizzonte morale, del peggiore malfattore in regime autoritario fa un martire del dovere, un eroe dell'onestà. Dicono in un giornale che in una prigione questi malfattori hanno rifiutato la libertà e si sono eletti i guardiani. Perché non hanno fatto mai ciò prima? Perché la loro prigione era cintata di muraglioni e le finestre erano difese da inferriate? Quelli che andarono a liberarli dovevano avere una faccia ben diversa dai giudici dei tribunali e dagli aguzzini del carcere, parole ben diverse dalle solite dovettero sentire questi malfattori comuni, se una tale trasformazione si fece nelle loro coscienze, se essi divennero d'un tratto cosí liberi da essere in grado di poter preferire la segregazione alla libertà, da imporsi essi, volontariamente, una espiazione. Dovettero sentire che il mondo era cambiato, che anche essi, i rifiuti della società, erano diventati qualcosa, che anche essi, i segregati, avevano una volontà di scelta.

È questo il fenomeno piú grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L'uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l'uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l'uomo che dice: l'immensità del cielo fuori di me, l'imperativo della mia coscienza dentro di me. È la liberazione degli spiriti, è l'instaurazione di una nuova coscienza morale che queste piccole notizie ci rivelano. È l'avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta: la luce viene dall'oriente e irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli.

L'uomo piú libero25

Leggo la tirata d'occasione dei giornali; spruzzatine di polvere di riso sui motivi piú abusati della polemica quotidiana. Il Momento, dopo un pesante anfanare tra il sí e il no, se ne rimette a Massimo d'Azeglio: gli uomini credono di mutare essi il mondo, e invece è Iddio che lo muta. La Gazzetta di Delfino Orsi rivoga i suoi sottilissimi argomenti da bottegaio: non tende l'uomo alla felicità? Ebbene: i neutri stanno male, soffrono piú degli italiani, il che significa che la guerra ha pure apportato una qualche felicità. Incontro un professore. È contro la guerra; non è giolittiano, non è precisamente ciò che si dice un germanofilo. La guerra ha fatto chiudere l'Istituto germanico di Roma: nell'Istituto era raccolta la piú completa collezione di materiale archeologico classico: il professore non può piú attendere alla messe di titoli per la brillante carriera, e perciò è contro la guerra. Mi dibatto fra queste tre forme di schiavitú spirituale: la mia umanità ne soffre, ne è offesa, sente una diminuzione di sé, della propria libertà. Soffrirebbe meno, se fosse sicura di aver subito un sopruso eroico, di essere stata vittima di una violenza volontaria. Si trova presa tra la flaccidità melensa dell'egoismo angusto, che si ripiega su se stesso gemendo sconsolatamente, e l'impotenza a creare ogni pensiero storico della suburra democratica e dell'anchilosi mentale cattolica. Tra la fatalità trascendente che determina la storia e spinge gli uomini, inerti batuffoli imbottiti di illusione, verso la morte, e la fatalità immanente nel regime autoritario, che scatena delle forze demoniache, incontrollabili, indisciplinabili, ormai fuori del regno della volontà, operante brutalmente su tutti, neutri e intervenuti, forti e deboli, innocenti e colpevoli; tra queste due fatalità il mio essere piú profondo, che lotta angosciosamente per sublimarsi in una libertà spirituale perfetta, per raggiungere l'adesione piú completa tra l'atto e il fatto, tra la volontà e il successo, vorrebbe divincolarsi in un canto lirico all'uomo piú libero, alla creatura meglio materiata di sostanza eterna che il nostro pensiero, il nostro operare faticoso in un mondo ottuso e inerte, viene preparando. All'uomo che ha ucciso tutte le fatalità, tutte le forze demoniache incontrollabili, e che perciò ha incominciato oggi col rinnegare la fatalità del mondo borghese, e si sforza oggi, con tutte le armi dialettiche, col sorriso, col ghigno, col sillogismo catafratto di farla rinnegare a un numero sempre maggiore di uomini. Che si sforza, con un lavorio corrodente di critica implacabile, di arrivare, attraverso la purificazione drammaticamente raggiunta col dolore, alla impassibilità stoica della coscienza universale, per giudicare gli avvenimenti con la pupilla ben aperta, col cervello slargato, contenente nel ritmo del suo pensiero gli echi della musica universale, dell'accordo polifonico, delle aspirazioni degli uomini piú liberi di tutto il mondo. E poiché le parole, monete tarlate di un mondo tarlato dalla retorica dei servi padr-oni, sono sorde a riempirsi dell'empito della coscienza dell'uomo libero, il mio essere piú profondo si alimenta della sua stessa passione, momentaneamente circoscritta a troppo pochi individui, schivando di servirsi, in un mondo di larve vaneggianti in una prigione di nebbia, delle stesse parole che questa prigione servono a infittire e a rendere piú pestilenzialmente nauseabonda.

I massimalisti russi26

I massimalisti russi sono la stessa rivoluzione russa.

Kerensky, Zeretelli, Cernof sono l'oggi della rivoluzione, sono i realizzatori di un primo equilibrio sociale, la risultante di forze in cui i moderati hanno ancora molta importanza. I massimalisti sono la continuità della rivoluzione, sono il ritmo della rivoluzione: perciò sono la rivoluzione stessa.

Essi incarnano l'idea-limite del socialismo: vogliono tutto il socialismo. E hanno questo compito: impedire che si addivenga a un compromesso definitivo tra il passato millenario e l'idea, essere il vivente simbolo della meta ultima cui si deve tendere; impedire che il problema immediato dell'oggi da risolvere si dilati fino a occupare tutta la coscienza, e diventi unica preoccupazione, diventi frenesia spasmodica che erige cancelli insormontabili a ulteriori possibilità di realizzazione.

È questo il pericolo massimo di tutte le rivoluzioni: il formarsi della convinzione che un determinato momento della nuova vita sia definitivo, e che bisogni fermarsi per guardare indietro, per assodare il fatto, per gioire finalmente del proprio successo. Per riposare. Una crisi rivoluzionaria logora rapidamente gli uomini. Stanca rapidamente. E si comprende un tale stato d'animo. La Russia ha avuto però questa fortuna: che ha ignorato il giacobinismo. È stata possibile perciò la propaganda fulminea di tutte le idee, si sono formati attraverso questa propaganda numerosi gruppi politici, ognuno dei quali è piú audace, e non vuole fermarsi, ognuno dei quali crede che il momento definitivo che bisogna raggiungere sia piú in là, sia ancora lontano. I massimalisti, gli estremisti sono l'ultimo anello logico di questo divenire rivoluzionario. Perciò si continua nella lotta, si va avanti; tutti vanno avanti perché c'è almeno un gruppo che vuole sempre andare avanti, e lavora nella massa, e suscita sempre nuove energie proletarie, e organizza nuove forze sociali che minacciano gli stanchi, che li controllano, e si addimostrano capaci di sostituirli, di eliminarli se non si rinnovano, se non si rinfrancano per andare innanzi. Cosí la rivoluzione non si ferma, non chiude il suo ciclo. Divora i suoi uomini, sostituisce un gruppo con un altro piú audace e per questa instabilità, per questa sua mai raggiunta perfezione è veramente e solamente rivoluzione.

I massimalisti sono in Russia i nemici dei poltroni. Essi sono il pungolo per i pigri: hanno rovesciato finora tutti i tentativi di arginamento del torrente rivoluzionario, hanno impedito il formarsi delle paludi stagnanti, delle morte gore. Perciò sono odiati dalle borghesie occidentali, perciò i giornali d'Italia, di Francia e d'Inghilterra li diffamano, cercano di screditarli, di soffocarli sotto un cumulo enorme di calunnie. Le borghesie occidentali speravano che allo sforzo enorme di pensiero e di azione che è costato il venire alla luce della nuova vita succedesse una crisi di pigrizia mentale, un ripiegamento dell'attività dinamica dei rivoluzionari che fosse il principio di un assestamento definitivo del nuovo stato di cose.

Ma in Russia non ci sono giacobini. Il gruppo dei socialisti moderati, che ha avuto il potere in sue mani, non ha distrutto, non ha cercato di soffocare nel sangue gli avanguardisti. Lenin nella rivoluzione socialista non ha avuto il destino di Babeuf. Ha potuto il suo pensiero convertirlo in forza operante nella storia. Ha suscitato energie che piú non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste esperienze basta che si attuino nel pensiero perché siano superate e si possa procedere oltre. È necessario invece spoltrire le coscienze, conquistare le coscienze. E Lenin coi suoi compagni ne hanno spoltrite di coscienze, ne hanno conquistate. La loro persuasione non è rimasta solo audacia di pensiero: si è incarnata in individui, in molti individui; è diventata fruttuosa di opere. Ha creato quel certo gruppo che era necessario per opporsi ai compromessi definitivi, a tutto ciò che potesse diventare definitivo. E la rivoluzione continua. Tutta la vita è diventata veramente rivoluzionaria; è un'attività sempre attuale, è un continuo scambio, una continua escavazione nel blocco amorfo del popolo. Nuove energie sono suscitate, nuove idee-forze propagate. Gli uomini sono finalmente cosí gli artefici del loro destino, tutti gli uomini. È impossibile che si formino minoranze dispotiche. Il controllo è sempre vivo ed alacre. Ormai c'è un fermento che scompone e ricompone gli aggregati sociali senza posa e impedisce le cristallizzazioni e impedisce che la vita si adagi nel successo momentaneo.

Lenin, i suoi compagni piú in vista possono essere travolti nello scatenarsi delle bufere che essi stessi hanno suscitato. Non spariscono tutti i loro seguaci. Sono ormai troppo numerosi. E l'incendio rivoluzionario si propaga, brucia cuori e cervelli nuovi, ne fa fiaccole ardenti di luce nuova, di nuove fiamme, divoratrici di pigrizie e di stanchezze. La rivoluzione procede, fino alla completa sua realizzazione. È ancora lontano il tempo in cui sarà possibile un relativo riposo. E la vita è sempre rivoluzione.

L'orologiaio27

Si parla spesso di un prima e di un poi. Si aspetta una data fissa. Noi crediamo che non esista alcuna data fissa, e crediamo di essere specificamente noi, solo perché il nostro pensiero coglie sempre nella vita un modo di essere perennemente aderente al nostro pensiero stesso. Tra la solita vita sociale quotidiana e la vita di eccezione delle rivoluzioni non c'è differenza qualitativa, ma differenza quantitativa. Un piú o un meno di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati programmi, di certe determinate idee; in tempi normali c'è un equilibrio di forze la cui instabilità ha oscillazioni minime; quanto piú queste oscillazioni diventano irregolari e capricciose, tanto piú si dice che i tempi sono calamitosi; quando l'equilibrio tende irresistibilmente a spostarsi, si ammette che si è entrati in un momento di vita nuova. Ma la novità è quantitativa, non qualitativa.

È avvenuta una escavazione piú profonda nella ganga sociale. Ora la ganga si sta metallizzando tutta, e il metallo nuovo ha tutto un timbro, il nostro timbro. Ma questo fenomeno c'è sempre stato, perché noi non siamo diversi da ieri, perché noi continuiamo il nostro ieri. Ci ritroviamo in questo fenomeno; gli altri se ne spaventano. Esso è la nostra realtà, è la nostra concezione, è il nostro capolavoro storico, perché finalmente i due termini, concezione e realtà, aderiscono estesamente, non frammentariamente. La vita del pensiero si sta sostituendo all'inerzia mentale, all'indifferenza: è la prima delle sostituzioni rivoluzionarie. Una nuova abitudine si forma: quella di non temere il fatto nuovo: prima perché peggio di cosí non può andare, in seguito perché ci si convince che andrà meglio.

È incominciato il processo ideale del regime, è incominciata la sua dichiarazione di fallimento; esso ha perduto la fiducia istintiva e pecorile degli indifferenti, perché ha chiuso troppi sportelli. Ha socchiuso ora un altro sportello: quello della vita, la bocca del forno, la porta del magazzino granario. Lo chiuderà del tutto? La domanda angosciosa si propaga nelle lunghe file di donne che fanno coda alle cinque del mattino dinanzi alle panetterie. Raggiunge tutti, anche i piú umili strati della passività sociale; bussa e scuote i pilastri stessi della vita. E la ganga si metallizza; tutti vivono, tutti si nutrono: le sorgenti della vita si disseccano, e la passività si organizza in pensiero per difendersi.

Hanno per tre anni goduto la fiducia di una piccola parte attiva della società: hanno disciplinato esteriormente la immensa passività sociale, gli indifferenti: l'altra parte attiva, che non soffre esteriorità, non ha concesso la sua fiducia, la sua collaborazione. Ora anche l'immensa passività si organizza in pensiero, si disciplina, non secondo schemi esteriori, ma secondo le necessità della sua vita propria, del suo pensiero nascente. Non c'è bisogno dell'accordo dell'armonia prestabilita. Se, come Leibniz, paragoniamo i numeri di questa umanità nascente agli orologi di una bottega da orologiaio, osserviamo lo stesso atto: l'armonia prestabilita, il segnare tutti la stessa ora, il pensare tutti la stessa cosa, l'essere tutti assillati da uno stesso turbamento, non risulta da un accordo, da uno scambio di volontà. Il disagio è l'orologiaio che fa scattare insieme tutte le molle, che imprime un movimento sincrono a tutte le lancette. Il disagio è l'orologiaio che ha creato un'unità sociale nuova, con stimoli nuovi, non esteriori, ma interiori. Un'unità sociale piú estesa di quella che ieri esisteva determinata dalla stessa causa. Ieri il disagio era il rapporto di insoddisfacimento tra un dato pensiero politico ed economico, tra un bisogno e una delusione, oggi è lo stesso rapporto, colto da una moltitudine, da una quasi totalità. Ed è la continuazione del nostro ieri, è per noi una continuità, perché la vita è sempre una rivoluzione, una sostituzione di valori, di persone, di categorie, di classi. Gli uomini però dànno il nome di rivoluzione alla grande rivoluzione, a quella cui partecipa il massimo numero di individui, che sposta un numero maggiore di rapporti, che distrugge tutto un equilibrio per sostituirlo con un altro intero, organico. Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo, ma vogliamo che l'orologiaio delle rivoluzioni non sia un fatto meccanico come il disagio, ma sia l'audacia del pensiero che crea miti sociali sempre piú alti e luminosi.

Carattere28

Non è tempo di sermoni. La censura non ce li permetterebbe e, del resto, abborriamo i sermoni. Abbiamo piena fiducia nel proletariato torinese e nella sua maturità. Lasciamo ai patrioti il piacevole compito di imbottire i cervelli [sedici righe censurate].

Il proletariato torinese è ora azzannato ferocemente dai suoi avversari implacabili. Ma ha avuto anche testimonianze di ammirazione indimenticabili.

Non potevano mancare gli sfoghi dei primi. Le mezze coscienze odiano i forti, non solo per avversione di idee, ma anche per il solo fatto che sono forti, e mettono in maggior rilievo l'altrui incapacità.

Del resto, non bisogna turbarsi per l'odio, come non bisogna esaltarsi per l'ammirazione. L'odio e l'ammirazione non producono. La vita solo produce: la vita che è azione disciplinata, che è fermo proposito, che è volontà sicura e indomabile, che è servizio oscuro dell'individuo per la collettività.

La vita di ogni giorno è ricominciata. All'eroismo succede il trito susseguirsi delle piccole cose quotidiane. È nella forza, nella tenacia con cui entro se stessi e nei rapporti con gli altri si vincono gli scoramenti, si ricrea l'organizzazione, si ritessono i fili innumerevoli che uniscono insieme gli individui di una classe. Osiamo dire che questo eroismo è piú produttivo dell'altro. Ha bisogno per essere attuato della continuità indefessa. Tutti gli italiani sono capaci dell'eroismo occasionale, teatrale, che può essere produttivo, ma può anche sembrare inutile spreco di energia. Il proletariato ha mostrato di essere superiore. È capace dell'uno e dell'altro. È un organismo sociale, è una complessità di vita, che non dà solo sprazzi accecanti, ma sa anche diffondere attorno a sé la luce continua, dell'operosità minuta, incessante, che tempra alla lotta, che forma l'implacabile potenza del carattere, che mai smentisce se stessa, che dopo una caduta non rilassa i suoi tendini, ma si risolleva, piú numeroso di prima, meglio preparato di prima, perché piú esperto e piú agguerrito.

Analogie e metafore29

L'on. Claudio Treves, si compiace di «sottili analogie» (Critica sociale, 1-17 settembre). Talmente se ne compiace che ad esse, e alle loro affini, le metafore, sacrifica il pensiero, la ricerca affannosa della verità, la comprensione stessa del particolar mondo in cui egli si illude di vivere e di operare.

Attraverso le analogie e le metafore, la vita, la vita degli uomini, che è sangue e dolore, che è sofferenza e lotta, diventa qualcosa di astratto, di semplicistico, di materialmente insensibile come i pezzi di una scacchiera, cui si dànno preventivamente nome e valore e poi si fanno muovere e saltellare con una mossa della mano, preventivamente sicuri del successo o dell'insuccesso; l'astrattismo arriva fino al punto, che la potenza della volontà, negata come fattore attivo di storia, messa in burletta come «aspettazione fiduciosa del miracolo», viene poi reintegrata in tutto il suo valore come negatività. La volontà è solo fattiva quando nega, è illusione idealistica quando afferma: la volontà è attiva quando «difende», è pietosa illusione di cretini quando prende un'iniziativa. Per la «sottile» dialettica dell'on. Treves, concettualmente non esiste che la difensiva: l'offensiva è vaneggiamento di menti inferme.

La verità è che l'on. Treves, «stratego» della lotta di classe, ha rivendicato gli «imbottitori di crani» che ci deliziano nei giornali borghesi. Ha esagerato il loro metodo. Ha ridotto in ischemi, in pezzi da scacchiera, ciò che è assolutamente irriducibile. La «sottile analogia strategica tra la guerra e la lotta di classe» l'ha indotto a dare corpo a quei vani fantasmi metaforici che sono l'«esercito proletario» coi suoi battaglioni, con le sue fortezze, coi suoi campi trincerati. Ha immaginato tutta una gerarchia di ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati del partito, delle organizzazioni, delle officine. Li ha visti muoversi, ben inquadrati nei ranghi all'assalto del nemico, «nell'illusione che la vittoria è una meta attiva, la quale, per non essere vincolata a circostanze reali, obiettive, si raggiunge con qualsiasi mezzo e basta agire perché nell'azione ogni sforzo sia valido, ogni volizione sia sacra al trionfo».

La verità è che la «sottile analogia» dell'on. Treves, per essere tanto sottile, finisce coll'essere assenza assoluta di intelligenza.

Il proletariato non è un esercito, non ha ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati. La sua vita collettiva non può essere neppure lontanamente paragonata alla vita collettiva di un esercito in armi, se non per incidenze, per metafore. Il proletariato ha una vita collettiva che non può entrare in nessuno schema astratto. È un organismo in continua trasformazione che ha una volontà, ma questa non è la volontà libresca contro cui l'on. Treves tira freccioline di carta stampata. I socialisti non sono gli ufficiali dell'esercito proletario, sono una parte del proletariato stesso, ne sono la coscienza forse, ma come la coscienza non può esser scissa da un individuo, cosí i socialisti non possono essere posti in dualismo col proletariato. Sono uno, sempre uno, e non comandano, ma vivono col proletariato, come il sangue circola e si muove nelle vene di un corpo e non può essere fatto vivere e muover entro tubi di gomma avvoltolati attorno a un cadavere. Vivono nel proletariato, e la loro forza è nella forza del proletariato, e la loro potenza è in questo aderire perfetto.

L'on. Treves dichiara che un determinato atto di vita è un «errore». Ma errore e verità sono atti di pensiero: la vita è, semplicemente; il successo e l'insuccesso non ne sono predicati necessari. Dimostrare di esistere, assicurarsi di esistere, sentire battere il proprio cuore e pulsare le vene è già un successo, è il piú grande successo della vita.

L'esistenza, la dimostrazione della esistenza è il problema massimo del proletariato italiano in questo momento. E questo proletariato non è lo stesso di tre anni fa. È piú esteso numericamente, ha attraversato piú intense esperienze spirituali. Non ha avuto il tempo di organizzarsi, ancora; non può organizzarsi. Le elaborazioni, gli assorbimenti di cultura socialista possibili in tempi normali, non sono piú possibili ora normalmente. Il Partito socialista, il socialismo italiano è piú ricco ora di succhi che non lo fosse tre anni fa. Ma non conosce tutte le sue forze, e si agita, o tende a diventare organismo piú ampio e trabocca qua e là, incompostamente secondo il buon senso filisteo, fruttuosamente secondo una spregiudicata concezione della vita.

Noi ci sentiamo solidali con questo nuovo immenso pullulare di forze giovani e non ne rinneghiamo quelli che i filistei chiamano errori, e gioiamo del senso della vita gagliarda che ne promana. E pertanto compatiamo la vecchia mentalità astratta che tutta in ghingheri sciorina le «vecchie prediche» e si pavoneggia sui trampoli delle sottili analogie e delle metafore viete. Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intelligente e simpatia piena d'amore.

Demagogia30

Demagogico e demagogia sono le due parole piú in voga presso le persone ben pensanti e i pietisti in pantofole per dare il colpo di grazia all'attività dei «caporioni», dei «sobillatori» socialisti. Demagogia, per lo squisito senso linguistico di Tartufo, ha solo questo preciso significato: attività, propaganda socialista in quanto volta a scuotere i dormienti, a organizzare gli indifferenti, a dare stimoli di ricerca, di libertà a quanti finora si sono tenuti in disparte dalla vita e dalle lotte sociali.

La demagogia non è insomma, un modo di fare la propaganda, ma è tutta una certa propaganda, la propaganda socialista. Demagogia non è il giudizio morale che si può dare della leggerezza, della superficialità, dell'avventatezza con cui si cerca di formare una qualsiasi convinzione, ma è un fatto storico, il movimento ideale che è la faccia piú appariscente dell'azione educativa del Partito socialista. Tartufo cosí modifica il vocabolario, determina una certa fortuna alle parole. Ha riabilitato la parola teppista, sta nobilitando la parola demagogia. Tra qualche tempo, quando il movimento socialista avrà tanta forza da imprimere anche alla lingua il suo sigillo di bontà e di libero corso, teppista prenderà definitivamente il significato di galantuomo, e viceversa, e demagogia, vorrà dire metodo di politica e di propaganda serio, fondato sulla realtà dei fatti, e non sulle apparenze piú vistose, e perciò piú fallaci.

Aspettando quel giorno noi continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati.

Ci hanno chiamati demagoghi perché ci piace chiamare «pescicani» i fornitori militari. E ci hanno fatto osservare che alcuni di questi pescicani pagano duemila lire la loro inserzione nel nostro giornale. Siamo «demagoghi» perché non ci lasciamo guidare nelle nostre valutazioni dal criterio dell'utile; evviva dunque la demagogia. Siamo demagoghi perché non siamo imbecilli, perché non vogliamo confondere l'inconfondibile. Perché non ci vergogniamo che il nostro giornale prenda duemila lire per un contratto di pubblicità liberamente accettato, perché in libera concorrenza con gli altri datori di pubblicità, mentre siamo persuasi che debbono vergognarsi dei loro guadagni, che possono essere chiamati «pescicani» quelli che abusano della loro indispensabilità, della mancanza di concorrenza per svaligiare l'erario pubblico, per imporre i prezzi che permettano gli arricchimenti subitanei e il ritiro in pensione dei fortunati che hanno approfittato del momento buono. Perché non muoviamo dalle apparenze fallaci, perché non giudichiamo dal criterio dell'utile immediato, siamo demagoghi, e gli altri sono persone serie, maestri di bel vivere. Con questi capovolgimenti di senso comune si dimostra la nostra disonestà, la nostra demagogia. E si contribuisce niente altro che a una trasformazione dei significati delle parole del vocabolario italiano.

Ghirigori31

Una volta, due volte, tre volte... Scrivi e raschiano, scrivi e raschiano... Intingi la penna, la mano rimane a mezz'aria, titubante. Il cervello è impastoiato, non trasmette alla mano, alle dita, l'impulso a muoversi. La mano cala sulla carta e la punta d'acciaio passeggia sul biancore descrivendo complicatissimi ghirigori, labirinti senza uscita. Si cerca affannosamente l'uscita. Il pensiero si assottiglia nell'angustia, bussa alle pareti per cercar di vedere se esse si spalanchino in una sortita possibile. Si incomincia. Si cancella. Si ricomincia. L'espressione fluisce, il lavorio di conglutinamento delle frasi, dei periodi, riposa, allenta lo sforzo iniziale. Si è persuasi d'aver trovato l'equilibrio necessario tra i bisogni della propria sincerità e le aggressioni irrazionali della censura. Si aspetta trepidanti. Sicuro, trepidanti, perché amiamo tutto ciò che ci ha domandato uno sforzo per nascere, per estrinsecarsi. Sentiamo le stesse impressioni di una volta, dinanzi agli esaminatori, con questa differenza: che negli esaminatori eravamo persuasi di aver a che fare con individui assolutamente superiori, che avevano veramente la capacità di giudicare dei nostri sforzi, dei nostri meriti. Adesso sentiamo invece l'incapacità assoluta, l'impreparazione assoluta, in chi, armato di matita, come allora, giudica e manda. Ma un'uguaglianza c'è, tra gli uni e gli altri: sentiamo che un'uguaglianza c'è. Ci troviamo ora, come allora, dinanzi a italiani, a vecchi italiani (anche se giovanissimi nel tempo) che non dànno nessuna importanza agli altri, al lavoro, allo sforzo degli altri, alla personalità morale degli altri. Che, detentori per un momento di un potere (anche se piccolo potere), vogliono lasciare una traccia di esso, una traccia quanto è possibile maggiore. Il vecchio italiano non è abituato alla libertà: e non già alla libertà con L maiuscolo, astrazione ideologica, ma la piccola, concreta libertà, che si esprime nel rispetto degli altri, del lavoro, degli sforzi, della personalità e dei bisogni morali degli altri: che abbassa le piccole, esasperanti, inutili irritazioni: che impone, a chi ha il potere (sia pure un piccolo potere), di evitare anche l'apparenza di un'ingiustizia, di un sopruso. Che ha fiducia nelle energie buone degli uomini, e non passa l'erpice su un campo di grano per distruggere quattro papaveri e mezza dozzina di teneri steli di loglio. Che crede anzi naturale che cosí sia, che al grano si mescoli loglio e papavero, perché una vita collettiva è sana solo quando c'è lotta, attrito, urto di sentimenti e passioni, e solo nella lotta si rivelano i forti, gli indispensabili, gli uomini di fede e d'azione che chiudono la bocca alla critica agendo fortemente. Ma il vecchio italiano non comprende un potere senza repressioni: se in Italia ci fosse la pena di morte, e nessuno cadesse sotto questa sanzione, il carnefice per non stare con le mani in mano diventerebbe mandatario di assassinii e di stupri, per poter lavorare i suoi complici. Cosí come in molti paesi dell'Italia meridionale le guardie campestri danneggiano esse stesse la proprietà privata per far sentire la propria indispensabilità. Cosí come il censore, per far sentire quanto faticoso ed improbo sia il suo ufficio, cancella, cancella, cancella tutto tutto tutto, grano e papaveri, lavoro e noia, bene e male. E la penna continua a tracciare ghirigori, aspettando perché sente che questa barbarie (la confusione nei criteri, l'arbitrio, il sopruso è barbarie) si esaurirà nella propria rabbia.

La rivoluzione contro il «Capitale»32

La rivoluzione dei bolscevichi si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo. I massimalisti che erano stati fino a due mesi fa il fermento necessario perché gli avvenimenti non stagnassero, perché la corsa verso il futuro non si fermasse, dando luogo ad una forma definitiva di assestamento — che sarebbe stato un assestamento borghese, — si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste in cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppo grandi urti, partendo dalle grandi conquiste realizzate ormai.

La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie piú che di fatti. (Perciò, in fondo, poco ci importa sapere piú di quanto sappiamo.) Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, piú che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono cosí ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato.

Eppure c'è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace.

Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuta la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di miserie indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare che ha suscitata. Una volontà di tal fatta normalmente ha bisogno per formarsi di un lungo processo di infiltrazioni capillari; di una larga serie di esperienze di classe. Gli uomini sono pigri, hanno bisogno di organizzarsi, prima esteriormente, in corporazioni, in leghe, poi intimamente, nel pensiero, nelle volontà [...]33 di una incessante continuità e molteplicità di stimoli esteriori. Ecco perché, normalmente, i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà, la irretiscono e la rendono evidente e distinta. Normalmente, è attraverso la lotta di classe sempre piú intensificata, che le due classi del mondo capitalistico creano la storia. Il proletariato sente la sua miseria attuale, è continuamente in istato di disagio e preme sulla borghesia per migliorare le proprie condizioni. Lotta, obbliga la borghesia a migliorare la tecnica della produzione, a rendere piú utile la produzione perché sia possibile il soddisfacimento dei suoi bisogni piú urgenti. È una corsa affannosa verso il meglio, che accelera il ritmo della produzione, che dà continuo incremento alla somma dei beni che serviranno alla collettività. E in questa corsa molti cadono, e rendono piú urgente il desiderio dei rimasti, e la massa è sempre in sussulto, e da caos-popolo diventa sempre piú ordine nel pensiero, diventa sempre piú cosciente della propria potenza, della propria capacità ad assumersi la responsabilità sociale, a diventare l'arbitro dei propri destini.

Ciò normalmente. Quando i fatti si ripetono con un certo ritmo. Quando la storia si sviluppa per momenti sempre piú complessi e ricchi di significato e di valore, ma pure simili. Ma in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all'unisono molto rapidamente. La carestia era imminente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d'un colpo diecine di milioni di uomini. Le volontà si sono messe all'unisono, meccanicamente prima, attivamente, spiritualmente dopo la prima rivoluzione.

La predicazione socialista ha messo il popolo russo a contatto con le esperienze degli altri proletariati. La predicazione socialista fa vivere drammaticamente in un istante la storia del proletariato, le sue lotte contro il capitalismo, la lunga serie degli sforzi che deve fare per emanciparsi idealmente dai vincoli del servilismo che lo rendevano abietto, per diventare coscienza nuova, testimonio attuale di un mondo da venire. La predicazione socialista ha creato la volontà sociale del popolo russo. Perché dovrebbe egli aspettare che la storia dell'Inghilterra si rinnovi in Russia, che in Russia si formi una borghesia, che la lotta di classe sia suscitata, perché nasca la coscienza di classe e avvenga finalmente la catastrofe del mondo capitalistico? Il popolo russo è passato attraverso queste esperienze col pensiero, e sia pure col pensiero di una minoranza. Ha superato queste esperienze. Se ne serve per affermarsi ora, come si servirà delle esperienze capitalistiche occidentali per mettersi in breve tempo all'altezza di produzione del mondo occidentale. L'America del Nord è capitalisticamente piú progredita dell'Inghilterra, perché nell'America del Nord gli anglosassoni hanno incominciato di un colpo dallo stadio cui l'Inghilterra era arrivata dopo lunga evoluzione. Il proletariato russo, educato socialisticamente, incomincerà la sua storia dallo stadio massimo di produzione cui è arrivata l'Inghilterra d'oggi, perché dovendo incominciare, incomincerà dal già perfetto altrove, e da questo perfetto riceverà l'impulso a raggiungere quella maturità economica che secondo Marx è condizione necessaria del collettivismo. I rivoluzionari creeranno essi stessi le condizioni necessarie per la realizzazione completa e piena del loro ideale. Le creeranno in meno tempo di quanto avrebbe fatto il capitalismo. Le critiche che i socialisti hanno fatto al sistema borghese, per mettere in evidenza le imperfezioni, le dispersioni di ricchezza, serviranno ai rivoluzionari per far meglio, per evitare quelle dispersioni, per non cadere in quelle deficienze. Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia piú di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri anni i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe. Anche da un punto di vista assoluto, umano, il socialismo immediato ha in Russia la sua giustificazione. La sofferenza che terrà dietro alla pace potrà essere solo sopportata in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile.

Si ha l'impressione che i massimalisti siano stati in questo momento la espressione spontanea, biologicamente necessaria, perché la umanità russa non cada nello sfacelo piú orribile, perché l'umanità russa, assorbendosi nel lavoro gigantesco, autonomo, della propria rigenerazione, possa sentir meno gli stimoli del lupo affamato e la Russia non diventi un carnaio enorme di belve che si sbranano a vicenda.

Letture34

Ho qui sul tavolino alcune pubblicazioni recentissime. Altre ne vedo annunziate. Ho ricevuto due o tre circolari che annunziano l'uscita di periodici che dovranno trattare i problemi che si riferiscono alla complessa azione che deve svolgere il proletariato per il raggiungimento dei suoi fini immediati o ultimi. Discorro con compagni, con amici, con affini. Sento in tutti un qualcosa di diverso. Dei bisogni nuovi sono sorti, e stimolano il pensiero. La realtà ambiente è vista ora sotto punti di vista nuovi. Tutti sono irrequieti, è in tutti un tumulto di intenzioni ancora incerte e vaghe che si esprimono genericamente, che non riescono a solidificarsi.

Perché nasconderlo? Partecipo anch'io di questa irrequietezza, di questa incertezza. Certo di infrenare gli stimoli, di non lasciarmi sommergere da ondate di impressioni nuove che bussano alla soglia della coscienza e vogliono essere accolte, e vogliono essere esaminate.

Tre anni di guerra hanno ben portato delle modificazioni nel mondo. Ma forse questa è la maggiore di tutte le modificazioni : tre anni di guerra hanno reso sensibile il mondo. Noi sentiamo il mondo; prima lo pensavamo, solamente. Sentivamo il nostro piccolo mondo, eravamo compartecipi dei dolori, delle speranze, delle volontà, degli interessi del piccolo mondo nel quale eravamo immersi piú direttamente. Ci saldavamo alla collettività piú vasta solo con uno sforzo di pensiero, con uno sforzo enorme di astrazione. Ora la saldatura è diventata piú intima. Vediamo distintamente ciò che prima era incerto e vago. Vediamo uomini, moltitudini di uomini dove ieri non vedevamo che Stati o singoli uomini rappresentativi.

L'universalità del pensiero si è concretata, tende almeno a concretarsi. Qualcosa crolla necessariamente, in noi e negli altri. Si è formata una temperie morale nuova: tutto è mobile, instabile, fluido. Ma le necessità del momento urgono, e perciò il fluido tende a stagnare, ciò che non è altro che avventura spirituale vuole diventare definitivo. Lo stimolo al pensiero si pone come pensiero bello e perfetto. Ciò che è solo velleità si pone come volontà chiara e concreta. E nasce il caos, la confusione delle lingue, e si incrociano le proposte piú pazzesche con le piú luminose verità.

Scontiamo cosí la nostra leggerezza di ieri, la nostra superficialità di ieri. Disabituati al pensiero, contenti della vita del giorno per giorno, ci troviamo oggi disarmati di contro alla bufera. Avevamo meccanizzato la vita, avevamo meccanizzato noi stessi. Ci accontentavamo di poco: la conquista di una piccola verità ci riempiva di tanta gioia come se avessimo conquistato tutta la verità. Rifuggivamo dagli sforzi, ci sembrava inutile porre delle ipotesi lontane e risolverle, sia pure provvisoriamente. Eravamo dei mistici inconsapevolmente. O davamo troppa importanza alla realtà del momento, ai fatti, o non ne davamo loro alcuna. O eravamo astratti perché di un fatto, della realtà facevamo tutta la nostra vita, ipnotizzandoci, o lo eravamo perché mancavamo completamente di senso storico, e non vedevamo che l'avvenire sprofonda le sue radici nel presente e nel passato, e gli uomini, i giudizi degli uomini possono fare dei salti, devono fare dei salti, ma non la materia, la realtà economica e morale.

Tanto piú grande è il dovere attuale di porre un ordine in noi. Il mondo si è avvicinato a noi, meccanicamente, per impulsi e forze che erano a noi estranee. Inconsapevolmente molti vedono in noi la salvezza. Eravamo gli unici che preparavamo un avvenire diverso, migliore del presente. Tutti i disillusi, ma specialmente tutta l'enorme moltitudine che tre anni di guerra hanno portato alla luce della storia, hanno obbligato a interessarsi della vita collettiva, aspettano da noi la salvezza, l'ordine nuovo. Una crisi spirituale enorme è stata suscitata. Bisogni inauditi sono sorti in chi fino a ieri non aveva sentito altro bisogno che quello di vivere e di nutrirsi. E ciò proprio nel momento storico — come del resto necessariamente doveva avvenire — in cui è avvenuta la maggiore distruzione di beni che la storia registri, di quei beni che soli possono appagare la maggior parte di quei bisogni.

Le pubblicazioni nuove, le nuove riviste, non mi dànno, non riescono a darmi alcuna delle soddisfazioni che io cerco. Ciò, del resto, non è una ragione di sconforto. Le soddisfazioni le devo ricercare in me stesso, nell'intimo della mia coscienza, dove solo possono comporsi tutti i dissidi, tutti i turbamenti suscitati dagli stimoli esterni. Questi libri non sono altro per me che stimoli, che occasioni per pensare, per scavare in me stesso, per ritrovare in me stesso le ragioni profonde del mio essere, della mia partecipazione alla vita del mondo. Queste letture mi convincono ancora una volta che un grande lavoro deve essere ancora fatto da noi socialisti: lavoro di interiorizzazione, lavoro di intensificazione della vita morale.

Si minaccia tutta una campagna serrata per la revisione delle formule, dei programmi finora adottati. Non questo revisionismo è necessario. Gli errori che si sono potuti commettere, il male che non si è potuto evitare non sono dovuti a formule o a programmi. L'errore, il male era in noi, era nel nostro dilettantismo, nella leggerezza della nostra vita, era nel costume politico generale, dei cui pervertimenti anche noi partecipavamo inconsapevolmente. Le formule, i programmi erano esteriori, erano inanimati per troppi; non li vivevamo con intensità, con fervore, non vibravano in ogni atto della nostra vita, in ogni momento del nostro pensiero. Cambiare le formule non significa nulla. Occorre che cambiamo noi stessi, che cambi il metodo della nostra azione. Siamo avvelenati da un'educazione riformistica che ha distrutto il pensiero, che ha impaludato il pensiero, il giudizio contingente, occasionale, il pensiero eterno, che si rinnova continuamente pur mantenendosi immutato. Siamo rivoluzionari nell'azione, mentre siamo riformisti nel pensiero: operiamo bene e ragioniamo male. Progrediamo per intuizioni, piú che per ragionamenti; e ciò porta a una instabilità continua, a una continua insoddisfazione: siamo dei temperamenti piú che dei caratteri. Non sappiamo mai ciò che i nostri compagni potranno fare domani; siamo disabituati al pensare concreto, e perciò non sappiamo fissare ciò che domani si debba fare, e se lo sappiamo per noi, non lo sappiamo per gli altri, che ci sono compagni di lotta, che dovranno coordinare i loro sforzi ai nostri sforzi.

Nella complessa vita del movimento proletario manca un organo, sentiamo che manca un organo. Dovrebbe esserci, accanto al giornale, alle organizzazioni economiche, al partito politico, un organo di controllo disinteressato, che fosse il lievito perenne di vita nuova, di ricerca nuova, che favorisse, approfondisse e coordinasse le discussioni, all'infuori di ogni contingenza politica ed economica.

Nel corso di queste relazioni di letture fatte, questi bisogni che io sento, che molti altri sentono con me, andranno concretandosi, e con l'aiuto dei compagni di buona volontà sarà prospettata una soluzione e indicata una via da seguire.

Intransigenza-tolleranza. Intolleranza-transigenza

Intransigenza è il non permettere che si adoperino — per il raggiungimento di un fine — mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine.

L'intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l'unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l'intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia stato pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi.

Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio. Non basta: bisogna che della razionalità del fine siano persuasi tutti i singoli componenti l'organismo, perché nessuno possa rifiutare l'osservanza della disciplina, perché quelli che vogliono far osservare la disciplina possano domandare questa osservanza come compimento di un obbligo liberamente contratto, anzi di un obbligo a fissare il quale lo stesso recalcitrante ha contribuito.

Da queste prime osservazioni risulta come l'intransigenza nella azione abbia per suo presupposto naturale e necessario la tolleranza nella discussione che precede la deliberazione.

Le deliberazioni stabilite collettivamente devono essere secondo ragione. La ragione può essere interpretata da una collettività? Certamente l'unico fa piú in fretta a deliberare (a trovar la ragione, la verità) che non una collettività. Perché l'unico può essere scelto tra i piú capaci, tra i meglio preparati a interpretare la ragione, mentre la collettività è composta di elementi diversi, preparati in diverso grado a comprendere la verità, a sviluppare la logica di un fine, a fissare i diversi momenti attraverso i quali bisogna passare per il conseguimento del fine stesso. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che l'unico può diventare o essere visto come tiranno, e la disciplina da esso imposta può disgregarsi perché la collettività si rifiuta, o non riesce a comprendere l'utilità dell'azione, mentre la disciplina fissata dalla collettività stessa ai suoi componenti, anche se tarda ad essere applicata, difficilmente fallisce nella sua effettuazione.

I componenti la collettività devono pertanto mettersi d'accordo tra loro, discutere tra loro. Deve, attraverso la discussione, avvenire una fusione delle anime e delle volontà. I singoli elementi di verità, che ciascheduno può portare, devono sintetizzarsi nella complessa verità ed essere l'espressione integrale della ragione. Perché ciò avvenga, perché la discussione sia esauriente e sincera, è necessaria la massima tolleranza. Tutti devono essere convinti che quella è la verità, e che pertanto bisogna assolutamente attuarla. Al momento dell'azione tutti devono essere concordi e solidali, perché nel fluire della discussione si è venuto formando un tacito accordo, e tutti sono diventati responsabili dell'insuccesso. Si può essere intransigenti nell'azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i piú preparati hanno aiutato i meno preparati ad accogliere la verità, e le esperienze singole sono state messe in comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata creata [diciotto righe censurate].

Naturalmente questa tolleranza — metodo delle discussioni fra uomini che fondamentalmente sono d'accordo, e devono trovare le coerenze tra i principi comuni e l'azione che dovranno svolgere in comune  — non ha che vedere con la tolleranza, intesa volgarmente. Nessuna tolleranza per l'errore, per lo sproposito. Quando si è convinti che uno è in errore — ed egli sfugge alla discussione, si rifiuta di discutere e di provare, sostenendo che tutti hanno il diritto di pensare come vogliono — non si può essere tolleranti. Libertà di pensiero non significa libertà di errare e spropositare. Noi siamo solo contro l'intolleranza che è un portato dell'autoritarismo o dell'idolatria, perché impedisce gli accordi durevoli, perché impedisce che si fissino delle regole d'azione obbligatorie moralmente perché al fissarle hanno partecipato liberamente tutti. Perché questa forma di intolleranza porta necessariamente alla transigenza, all'incertezza, alla dissoluzione degli organismi sociali [sei righe censurate].

Perciò abbiamo fatto questi ravvicinamenti: intransigenza-tolleranza, intolleranza-transigenza.

Per un'associazione di cultura35

Personalmente e anche per conto di molti altri, approvo la proposta del compagno Pellegrino per l'istituzione di un'Associazione di cultura fra i compagni torinesi e non torinesi qui residenti.

Credo che, nonostante il momento poco favorevole, essa possa effettuarsi benissimo. Sono molti i compagni che per immaturità di convinzioni, e per insofferenza dell'opera minuta che è necessario svolgere, si sono allontanati dalle organizzazioni per lasciarsi trascinare ai divertimenti. Nell'Associazione troverebbero un soddisfacimento ai loro istintivi bisogni, troverebbero un posto di riposo e di istruzione che di nuovo li affezionerebbe al movimento politico, all'ideale nostro.

E da questa iniziativa, alla quale i compagni tutti vorranno dare il loro appoggio, potrebbe avere anche una soluzione il problema dei compagni inscritti alle sezioni lontane, mai risolto appunto per la difficoltà di trovare un campo di comune interesse nel quale svolgere un'attività.

Bartolomeo Botto

L'Avanti! torinese ha accolto con simpatia la proposta Pellegrino e le adesioni che essa ha suscitato. Il Botto in questa sua lettera ha degli accenni di grande interesse, che crediamo opportuno sviluppare e presentare ordinati all'attenzione dei compagni.

A Torino manca una qualsiasi organizzazione di cultura popolare. Dell'Università popolare è meglio non parlare: essa non è mai stata viva, non ha mai avuto una funzione che rispondesse ad un bisogno. È d'origine borghese, e risponde ad un criterio vago e confuso di umanitarismo spirituale: ha la stessa efficacia degli istituti di beneficenza, che credono con un piatto di minestra soddisfare ai bisogni fisiologici dei disgraziati che non possono sfamarsi e muovono a pietà il tenero cuore di lor signori.

L'associazione di cultura quale i socialisti dovrebbero promuovere, deve avere scopi di classe e limiti di classe. Deve essere un istituto proletario, con caratteri finalistici. Il proletariato, a un certo momento del suo sviluppo e della sua storia, si accorge che la complessità della sua vita manca di un organo necessario e se lo crea, con le sue forze, con la sua buona volontà, per i suoi fini.

A Torino il proletariato ha raggiunto un punto di sviluppo che è dei piú alti, se non il piú alto d'Italia. La sezione socialista, nell'attività politica, ha raggiunto una individualità ben distinta di classe; le organizzazioni economiche sono forti; nella cooperazione si è riusciti a creare una istituzione potente come l'Alleanza cooperativa. A Torino pertanto si capisce che sia nato e sia piú sentito il bisogno di integrare l'attività politica ed economica con un organo di attività culturale. Il bisogno di integrazione nascerà e si imporrà anche nelle altre parti di Italia. E il movimento proletario ne acquisterà in compattezza e in energia di conquista.

Una delle piú gravi lacune dell'attività nostra è questa: noi aspettiamo l'attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione. Costretti dall'urgenza, diamo dei problemi soluzioni affrettate, nel senso che non tutti quelli che al movimento partecipano si sono impadroniti dei termini esatti delle questioni e pertanto, se seguono la direttiva fissata, lo fanno per spirito di disciplina e per la fiducia che nutrono nei dirigenti, piú che per un'intima convinzione, per una razionale spontaneità. Cosí avviene che, a ogni ora storica importante, si verificano gli sbandamenti, gli ammorbidimenti, le beghe interne, le questioni personali. Cosí si spiegano anche i fenomeni di idolatria, che sono un controsenso nel nostro movimento, e fanno rientrare dalla finestra l'autoritarismo cacciato dalla porta.

Non esiste la convinzione ferma diffusa. Non esiste quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza del deliberare in qualsiasi momento, che determina gli accordi immediati, accordi effettivi, profondi, che rafforzano l'azione.

L'associazione di cultura dovrebbe curare questa preparazione, dovrebbe creare queste convinzioni. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell'attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario.

Inoltre, esistono dei problemi, filosofici, religiosi, morali, che l'azione politica ed economica presuppone, senza che gli organismi economici e politici possano in sede propria discuterli e propagandarne le soluzioni proprie. Essi hanno una grande importanza. Sono essi che determinano le cosí dette crisi spirituali, e ci mettono tra i piedi, ogni tanto, i cosí detti «casi». Il socialismo è una visione integrale della vita: ha una filosofia, una mistica, una morale. L'associazione sarebbe la sede propria della discussione di questi problemi, della loro chiarificazione, della loro propagazione.

Sarebbe risolta in gran parte anche la questione degli «intellettuali». Gli intellettuali rappresentano un peso morto nel nostro movimento, perché in esso non hanno un compito specifico, adeguato alla loro capacità. Lo troverebbero, sarebbe messo alla prova il loro intellettualismo, la loro capacità di intelligenza.

Realizzando questo istituto di cultura, i socialisti darebbero un fiero colpo alla mentalità dogmatica ed intollerante creata nel popolo italiano dalla educazione cattolica e gesuitica. Manca nel popolo italiano lo spirito di solidarietà disinteressata, l'amore per la libera discussione, il desiderio di ricercare la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l'intelligenza. I socialisti ne darebbero un esempio attivo e fattivo, contribuirebbero potentemente a suscitare un nuovo costume, piú libero e spregiudicato dall'attuale, piú disposto all'accettazione dei loro princípi e dei loro fini. In Inghilterra e in Germania esistevano ed esistono delle potentissime organizzazioni di cultura proletaria e socialista. Nell'Inghilterra è specialmente nota la Società dei Fabiani che aderiva all'Internazionale. Ha come suo compito la discussione profonda e diffusa dei problemi economici e morali che la vita impone o imporrà all'attenzione del proletariato, ed è riuscita a porre al servizio di questa opera di civiltà e di liberazione degli spiriti una gran parte del mondo intellettuale e universitario inglese.

A Torino, dato l'ambiente e la maturità del proletariato, potrebbe e dovrebbe sorgere il primo nucleo di un'organizzazione di cultura prettamente socialista e di classe, che diventerebbe, col partito e la Confederazione del lavoro, il terzo organo del movimento di rivendicazione della classe lavoratrice italiana.

La critica critica36

Claudio Treves scrive un articolo nella Critica sociale per passare agli archivi una lettera di Leone Martoff e per constatare la «spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana».

La «nuova generazione» ha accomodato la dottrina di Marx in modo che il determinismo è sostituito dal volontarismo, la forza trasformatrice dello strumento del lavoro dalla violenza eroica o isterica degli individui o dei gruppi, il soggettivismo piú frenetico lusinga ed applaude le peggiori enfasi dei demagoghi.

Certo grande è l'incultura della «nuova generazione». Ma probabilmente essa non è maggiore di quella della «vecchia guardia», e piú probabilmente ancora essa non coincide affatto con ciò che il Treves vuole intendere. La «nuova generazione» ha letto, per esempio, oltre che il Manifesto dei comunisti, anche il trattatello di Marx ed Engels sulla Critica critica e le è parso che i Bauer non siano ancora guariti dai loro vagellamenti pseudofilosofici ed arruffatori di concetti e di realtà. Ha letto e studiato anche i libri che in Europa sono stati scritti dopo la fioritura del positivismo, ed ha scoperto (ohibò, quanto piccola scoperta) che la sterilizzazione operata dai socialisti positivisti delle dottrine di Marx non è stata precisamente una grande conquista di cultura, e non è stata neppure (necessariamente) accompagnata da grandi conquiste di realtà.

Come è avvenuto che la Critica sociale sia divenuta la Critica critica? Per il fenomeno stesso per cui Marx sbeffeggiava i signori Bruno Bauer, Faucher e Szeliga, scrittori della Allgemeine Literaturzeitung: perché il Treves «al posto dell'uomo individuale realmente esistente» pone il «determinismo» o la «forza trasformatrice», cosí come Bruno Bauer poneva «l'autocoscienza». Perché il Treves, nella sua alta cultura, ha ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all'infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione.

La dottrina di Marx divenne cosí la dottrina dell'inerzia del proletariato. Non che il volontarismo (usiamo pure questa parola, che significa poco, per necessità pratiche del linguaggio) venisse rinnegato di fatto. Esso fu ridotto alla piccola schermaglia riformista: divenne una cosa volgare, divenne la volontà del compromesso ministeriale, la volontà di piccole conquiste, dell'uovo oggi meglio che la gallina domani, anche se, come dice il Ruta, l'uovo è un uovo di pidocchio.

L'opera di proselitismo fu abbandonata (cosa possono contare gli «uomini individuali»?). L'azione storica del proletariato non poté, con tutta la sua efficacia, inserirsi nel processo di sviluppo dell'economia capitalistica. Anche dal punto di vista riformistico, la Critica critica operò deleteriamente. Per la solita concezione dell'«uovo di pidocchio» furono trascurati i grandi problemi nazionali, che interessano tutto il proletariato italiano. Non bisogna dimenticare che nel 1913, quando il Partito socialista si presentò alle elezioni a suffragio universale con programma nettamente liberista, la Critica critica pubblicò due articoli protezionistici scritti da Treves e da Turati.

Se non esistessero le annate dell'Unità di Gaetano Salvemini, Treves potrebbe forse parlare di «incultura della nuova generazione socialista». Ma Salvemini e Mondolfo hanno troppo spesso documentato (e citiamo uomini della stessa tendenza del Treves) di che cosa fosse materiata la cultura della Critica critica, perché anche i giovanissimi possano troppo preoccuparsi del rimprovero di Very Well.

La «nuova generazione» si rifiuta pertanto di prendere sul serio, non la vecchia, ma la generazione definitivamente assestatasi nelle colonne della Critica critica.

La nuova generazione pare voglia ritornare alla genuina dottrina di Marx, per la quale l'uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell'atto storico. Credono, pertanto, che i canoni del materialismo storico valgano solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro. Credono non già che la guerra abbia distrutto il materialismo storico, ma solo che la guerra abbia modificato le condizioni dell'ambiente storico normale, per cui la volontà sociale, collettiva degli uomini abbia acquistato una importanza che normalmente non aveva. Queste nuove condizioni sono anch'esse fatti economici, hanno dato ai sistemi di produzione un carattere che prima non avevano: l'educazione del proletariato si è ad essi adeguata necessariamente, ed ha in Russia portato alla dittatura [diciotto righe censurate].

La volontà, in fondo in fondo, esiste anche per Treves, ma è difensiva, non offensiva, è acquattata, non palese. Non esiste solo la cultura che avrebbe potuto far ricordare al Treves che Gio. Battista Vico ha detto prima di Marx che anche la credenza nella divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia diventando stimolo dell'azione consapevole, e che pertanto anche la credenza nel «determinismo» potrebbe avere avuto la stessa efficacia, in Russia per Lenin, e altrove per altri.

La Lega delle Nazioni37

Nel beato paese di Utopia ha avuto in tutti i tempi diritto di cittadinanza e di libera circolazione il «bel sogno» (come si suol dire) degli Stati Uniti d'Europa e del Mondo. Il «bel sogno» ha fatto ridere i saggi; i critici, i filosofi realisti ne hanno dimostrato l'incongruenza, la fallacia storica. Ed a ragione. Il «bel sogno» si presenta ora: ha cambiato nome, si chiama la Lega delle Nazioni. Un capo di Stato e di uno Stato modernissimo, un uomo, che ha dimostrato, nella semplicità del suo linguaggio, di essere piú realista di tutti gli spacciatori di cabale diplomatiche, se ne fa banditore: Wilson. Alcuni ministri della moderna Inghilterra, paese anch'esso poco fertile in acchiappanuvole, accolgono con simpatia e divulgano la formula wilsoniana. Che non si tratti piú del «bel sogno» ma che davvero un nucleo di realtà sia nascosto in questa formula rimessa a nuovo? Vediamo, perché ne vale la pena.

La vecchia concezione, che possiamo chiamare latina, la concezione vittorhughiana, umanitaria, massonica era ed è ancora un'astrazione arbitraria, antistorica, teneramente costruita con cemento di lacrime e con blocchi di sospiri. La sostiene in Italia il senatore Ponti e il... compagno Modigliani, è una ernestoteodoromonetoria, che non sprofonda le sue radici in nessun ceto di classe, vivo economicamente e socialmente. In Francia è bandita dalla Lega per i diritti dell'uomo, dai socialisti di tutte le frazioni, e da quell'accozzaglia di retori sfiaccolati e di uomini d'affari che costituiscono il partito radico-socialista.

Anche in Francia non è una corrente economico-sociale che la fa propria; rimane pura ideologia, fiorita nei fertili campi della politica e della chiacchiera giornalistica: è il fantasma della Francia giacobina che in berretto frigio e carmagnola agita la fiaccola della fratellanza, dell'eguaglianza, della libertà, l'eroina della liberazione dei popoli, la sanzionatrice di tutte le piú squisite e nebulose conquiste verbali dello spirito umano.

Ma nel mondo anglosassone l'ideologia si presenta sotto altre vesti e con ben altre garanzie di serietà e di concretezza. Nel mondo anglosassone Lega delle Nazioni significa questo: necessità del capitalismo moderno, forma politica attuale di convivenza internazionale che sia meglio adeguata alle necessità della produzione e degli scambi.

Woodrow Wilson è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti per rappresentarvi gli interessi politici di un ceto capitalista che è la quintessenza del capitalismo: i produttori non protetti, e che non possono essere protetti; gli industriali che esportano, che hanno bisogno di nuovi mercati, che possono essere danneggiati nel loro vigoroso e spontaneo sviluppo dai protezionismi degli altri paesi. La loro ideologia politica è la democrazia liberale e liberista, che nelle penultime elezioni ha sconfitto la democrazia radicale, affaristica, trustaiola, protezionista.

Per questa borghesia Lega delle Nazioni vuol dire dissolvimento delle reliquie politiche del feudalismo. L'economia borghese ha in un primo momento dissolto le piccole nazionalità, i piccoli aggruppamenti feudali: ha liberato i mercati interni da tutte le pastoie mercantili che inceppavano i traffici, che impedivano alla produzione di trasformarsi e di espandersi. L'economia borghese ha cosí suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all'interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrato gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d'ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo. Le lotte di tariffe non la sollecitano: le sa, per esperienza pratica, dannose ad ambe le parti belligeranti. Crea l'ideologia pacifista di Norman Angell, ma si addimostra capace di far la guerra e di perdurarvi tenacemente non meno dei piú agguerriti Stati militareschi.

In questo scorcio della vita del mondo lancia l'ideologia della Lega delle Nazioni. Essa rappresenta per la borghesia liberista anglosassone la garanzia politica dell'attività economica di domani e dell'ulteriore sviluppo capitalistico. È il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessità degli scambi internazionali. Rappresenta, per i singoli Stati, quella garanzia di sicurezza e di libertà che corrisponde nel seno di ogni Stato all'habeas corpus per la libertà e la sicurezza individuale dei singoli cittadini.- È il grande Stato borghese supernazionale che ha dissolto le barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche internazionali.

Questa ideologia politica è funzione degli scambi; lo strumento di produzione che l'ha prodotta sono gli scambi internazionali, che hanno anch'essi valore produttivo, perché, liberi da impacci doganali, permettono il massimo sfruttamento delle risorse naturali e della capacità lavorativa del proletariato. Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un conguagliamento della politica con l'economia, una saldatura delle classi borghesi nazionali in ciò che le affratella al disopra delle differenziazioni politiche: l'interesse economico. Ecco perché l'ideologia si è affermata vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali, ed ha in essi salde basi, e rappresenta qualcosa di piú che il «bel sogno» vittorhughiano. Ed ecco perché non trova sostenitori che possano realizzarla in Italia e Francia: perché la Francia e l'Italia sono protezionistiche, e non è una classe che detiene il potere, ma sono piccoli gruppi politici, rappresentanti di affarismo piú che di vigorosa e potente economia borghese.

Diamantino38

Oggi vi voglio raccontare la storia di Diamantino, come io stesso la udii, molti anni or sono, intercalata in una lunga e noiosa conferenza pacifista del professor Mario Falchi. Diamantino era un piccolo cavallo nato in una miniera carbonifera di un bacino inglese. Sua madre — povera cavalla! — dopo aver trascorso i primi e piú begli anni della sua vita sulla superficie della terra, soleggiata e allietata dal sorriso dei fiori, tra i quali, garrulo e lascivetto scherza lo zeffiro — era stata adibita al traino dei vagoncini di minerale, a qualche centinaio di metri sotto terra. Diamantino fu generato cosí, tra la fuliggine, nel nerore dell'aspra fatica, e non vide mai, l'infelice, i fiorellini dei prati e non annitrí mai, nell'esuberanza dei succhi giovanili, ai zeffiretti profumati di primavera. E non volle neppur mai prestar fede alle bellissime descrizioni che la mamma sua gli andava, di volta in volta, facendo delle bellezze, della luminosità, dei freschi e grassi pascoli che allietano il genere equino sulla superficie sublunare del mondo. Diamantino, credette sempre di essere bellamente preso in giro dalla rispettabile sua genitrice, e morí fra la fuliggine e la polvere di carbone, convinto che le stelle, il sole, la luna fossero fantasmi nati nel cervello un po' tocco della stanca e affaticata trainatrice di vagoncini.

Ebbene, sí, noi siamo tanti Diamantini, ma non «noi uomini» per rispetto alla pace perpetua, come voleva nella sua conferenza il professor Mario Falchi; ma «noi italiani» per rispetto a una ben piú umile e modesta forma di convivenza civile: la libertà individuale, la sicurezza personale, che dovrebbe essere assicurata a tutti i cittadini dal regime individualista borghese.

Ci agitano dinnanzi agli occhi lo spettacolo pauroso dello sfacelo sociale in Russia, dei liberi cittadini russi in balía a tutte le aggressioni, non sicuri dei loro averi, vaganti nelle boscaglie, ricoperti i corpi scheletriti di cenciame, strappantisi vicendevolmente le radici per potersi sfamare. E vi contrappongono la nostra libertà, la nostra sicurezza.

Ma noi siamo come Diamantino. La nostra sicurezza, la nostra libertà, non l'abbiamo mai viste. Ci parlano di un mondo che non abbiamo mai visto, dove non abbiamo mai vissuto [quarantadue righe censurate].

Abbiamo sentito dire che questa libertà, questa sicurezza sono in altri paesi garantite ai cittadini: ne abbiamo notizia dai libri e dai giornali, persone di assoluta fiducia ce l'hanno affermato, alcuni di noi lo hanno potuto constatare durante i loro pellegrinaggi forzati all'estero. Ma nel nostro paese? Per il nostro paese noi rimaniamo nello stato d'animo di Diamantino: ci pare sentire descrivere un paese incantato, di sogno, abitato da chissà quali miracolose creature della fantasia. La libertà, la sicurezza? Non riusciamo, sperimentalmente, a rappresentarcele: sono il mito, la favola, l'Eden cui tendiamo quando, in una delle poche notti dell'anno, dopo non aver avuto nella giornata e nella sera alcuna seccatura, dormiamo tranquilli e il magico sogno ci fa vivere in mondi ultraterreni.

Costituente e Soviet39

Lo scioglimento della Costituente, subito dopo la sua prima assemblea, non è solo un episodio di violenza giacobina, come piace raffigurarlo ai giornalisti che non hanno ancora compreso nulla di quanto sta succedendo in Russia.

La Costituente era il mito vago e confuso del periodo prerivoluzionario. Mito intellettualistico, continuazione nel futuro delle tendenze sociali che si potevano cogliere nella parte piú appariscente e superficiale delle confuse forze rivoluzionarie di prima della rivoluzione.

Queste forze si sono chiarite e definite in gran parte, e sempre meglio vanno chiarendosi e definendosi. Esse stanno elaborando spontaneamente, liberamente, secondo la loro natura intrinseca, le forme rappresentative attraverso le quali la sovranità del proletariato dovrà esercitarsi. Queste forme rappresentative non sono riconosciute nella Costituente, in un parlamento cioè di tipo occidentale, eletto secondo i sistemi delle democrazie occidentali. Il proletariato russo ci ha offerto un primo modello di rappresentanza diretta dei produttori: i Soviet. Ora la sovranità è ritornata ai Soviet. Definitivamente? La mancanza assoluta di informazioni su ciò che si pensa e si sostiene in proposito negli ambienti proletari russi, non permette alcuna risposta.

Conosciamo solo l'esteriorità degli avvenimenti, non ne conosciamo l'intimo spirito che li avviva. Vediamo nello scioglimento della Costituente solo l'apparenza violenta, il colpo di forza. Giacobinismo? Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese, di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all'infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità [tre righe e tre quarti censurate].

L'organizzazione economica e il socialismo40

Pubblichiamo questo scritto di un giovane compagno, perché egli ci assicura esservi riflesso il pensiero di una importante frazione del movimento socialista torinese. Rinunziamo preventivamente a ogni ricerca di storia delle idee, e di storia di espressione delle idee. Lo esaminiamo in sé e per sé, appunto come manifestazione di convincimenti che possono essere collettivi, e possono determinare speciali atteggiamenti.

D'accordo in linea generale con moltissime delle affermazioni del compagno R. F., crediamo erronei alcuni giudizi e alcune conseguenze di essi. La scissione tra politica ed economia, tra organismo e ambiente sociale, sostenuta dalla critica sindacalista, per noi non è altro che una astrazione teorica della necessità empirica, tutta pratica, di scindere provvisoriamente l'unità attiva sociale per meglio studiarla, per meglio comprenderla. Nell'analizzare un fenomeno si è costretti, per necessità di studio, a ridurre questo fenomeno ai suoi cosí detti elementi, che invero non sono altro, ognuno, che il fenomeno stesso visto in un momento piuttosto che in un altro, con la preoccupazione di un fine particolare invece che di un altro. Ma la società, come l'uomo, è sempre e solo una unità storica e ideale che si sviluppa negandosi e superandosi continuamente. Politica ed economia, ambiente e organismo sociale sono tutt'uno, sempre, ed è uno dei piú gran meriti del marxismo avere affermato questa unità dialettica. È avvenuto che i sindacalisti e i riformisti, per uno stesso errore di pensiero, si sono specializzati in una diversa branca del linguaggio empirico socialista. Gli uni hanno arbitrariamente avulso dall'unità dell'attività sociale il termine economia, gli altri il termine politica. Gli uni si cristallizzano nell'organizzazione professionale, e per la stortura iniziale del loro pensiero fanno della cattiva politica e della pessima economia, gli altri si cristallizzano nell'esteriorità parlamentare, legiferatrice, e per la stessa ragione fanno della cattiva politica e della pessima economia. Da queste deviazioni nasce la fortuna e la necessità del socialismo rivoluzionario, che riconduce l'attività sociale alla sua unità, e si sforza di fare politica ed economia senza aggettivi, cioè aiuta lo svilupparsi e il prendere coscienza di sé delle energie proletarie e capitaliste spontanee, libere, necessarie storicamente, perché dal loro antagonismo si affermino sintesi provvisorie sempre piú compiute e perfette, che dovranno culminare nell'atto e nel fatto ultimo che tutte le contenga, senza residui di privilegi e di sfruttamenti. L'attività storica contrastante non sfocerà né in uno Stato professionale, come quello vagheggiato dai sindacalisti, né in uno Stato che abbia monopolizzato la produzione e la distribuzione, come è vagheggiato dai riformisti. Ma in un'organizzazione della libertà di tutti e per tutti, che non avrà nessun carattere stabile e definito, ma sarà una ricerca continua di forme nuove, di rapporti nuovi, che sempre si adeguino ai bisogni degli uomini e dei gruppi, perché tutte le iniziative siano rispettate, purché utili, tutte le libertà siano tutelate, purché non di privilegio. Queste considerazioni trovano un esperimento vivo e palpitante nella rivoluzione russa, la quale finora è stata specialmente uno sforzo titanico perché nessuna delle concezioni statiche del socialismo si affermasse definitivamente, chiudendo la rivoluzione e fatalmente riconducendola a un regime borghese, che, se liberale e liberista, darebbe maggiori garanzie di storicità di un regime professionale, o di un regime accentratore e statolatra.

Non è quindi esatta l'affermazione che l'attività politica socialista sia tale solo perché proviene da uomini che si dicono socialisti. Allo stesso modo si potrebbe dire di qualsiasi altra attività, che essa è quella che si dice sia solo perché lo stesso aggettivo si attribuiscono gli uomini che la esplicano.

Faremmo molto meglio se la cattiva politica la chiamassimo col suo vero nome di camorra, e non ci lasciassimo incantare dai camorristi fino al punto di rinunziare a un'attività che è integrante necessaria del nostro movimento. Del resto il Kautsky acutamente ha osservato che la fobia politica e parlamentare è una debolezza piccolo-borghese, di gente pigra, che non vuol compiere lo sforzo necessario per controllare i propri rappresentanti, per essere tutt'uno con essi, o far sí che essi siano tutt'uno con sé.

Wilson e i massimalisti russi41

Esiste nella storia una logica superiore ai fatti contingenti, superiore alla volontà dei singoli individui, all'attività dei particolari gruppi, al contributo di operosità delle singole nazioni. Ciò non significa che queste volontà, queste attività, questi contributi siano sforzi inani, fallaci tentativi di illusi che credono sottrarsi e magari imporsi alla fatalità degli avvenimenti.

L'efficacia creatrice delle volontà e delle iniziative umane è condizionata nello spazio è nel tempo. Ciò che appare non è spesso che l'immagine vana della vita. Le nostre passioni, i nostri desideri ci spingono a interpretare i singoli avvenimenti in un modo piuttosto che in un altro. E queste interpretazioni stesse diventano a loro volta determinanti di storia, suscitatrici di operosità attiva, anche se in piccola zona e per piccoli fatti. Intanto nel colossale urto di tante operosità contrastanti, che si elidono o si integrano, la vita prosegue, implacabile, secondo una linea che risulta da queste elisioni e integrazioni. Solo dopo possiamo giudicare, e questo dopo è piú o meno futuro, quanto piú estese e grandi sono le forze che cozzano, quanto piú profondi sono gli strati d'umanità che all'attività sociale partecipano.

Ci sono nella storia sconfitte che piú tardi sono apparse vittorie luminosissime, presunti morti che hanno fatto riparlare di sé fragorosamente, cadaveri dalle cui ceneri è risorta la vita piú intensa e produttrice di valori.

Gli uomini singoli, i singoli gruppi possono essere sconfitti, possono morire, può di loro perire anche il ricordo. Ma non muore l'attività loro buona, non muore il loro pensiero in quanto interpreta una aspirazione razionale della coscienza umana. Si diffonde anzi, diventa energia di moltitudini, si trasforma in costume, e vince, e si afferma vittorioso.

Spesso chi sembrava aver compresso e vinto, diventa l'erede dell'avversario, lo sostituisce inconsapevolmente nel suo compito. Il Medioevo cristiano si è venuto sempre meglio rivelando come l'integratore e il continuatore della civiltà romana di cui era apparso invece, ai letterati, l'esecrabile becchino.

Una grande affermazione di civiltà non si compie in un anno, o in sei mesi. Perciò i suoi fautori devono rinunziare all'azione? La storia ha bisogno di martiri e di sconfitti, come di trionfatori: si nutre del sangue degli eroi e del sacrifizio anonimo delle moltitudini. Chi può giudicare volta a volta una sconfitta e una vittoria, un sacrifizio e una corbelleria? Ma di leggeri e imbecilli è abitato il mondo piú che di intelligenti e di uomini seri. E l'oggi, il bisogno dell'oggi, costringe all'ingiustizia, alla avventatezza, al sogghigno beffardo. È inutile ogni rimprovero. Solo dopo il fatto compiuto riconosciamo il merito. Molti borghesi imprecano ancora al giacobinismo francese della Grande Rivoluzione, e non sono ancora convinti che senza quella violenza, senza quelle mostruose ingiustizie, senza aver versato il sangue anche innocente, essi ancora sarebbero servi, e le loro mogli sarebbero state le sgualdrine dei signori feudali prima di essere loro mogli.

Armonie nuove si formano, sintesi di vita piú elevata e umana. Le opinioni si trasformano sotto il pungolo delle necessità impellenti, si avvicinano a un'idea già disprezzata, perché non compresa, perché non ambientata politicamente. Conversioni si verificano senza documenti logici del trapasso.

Sono prima pochi individui, che vibrano sotto l'impressione di correnti ideali che la grande massa non accoglie. I pochi si moltiplicano, disseminati nel grande spazio del mondo civile: impressionano gruppi e partiti. Avvengono oscillazioni d'opinione, finché tutto uno strato sociale, una classe, un ceto diffuso si eleva alla comprensione, fa propria un'idea. Si rivelano rapporti nuovi tra le ideologie e l'economia. Ceti produttivi che erano stati sacrificati, compressi, a benefizio dei ceti spadroneggianti, si rafforzano, diventano essi la piattaforma di un'orientazione politica nuova, si sviluppano, assorbono le attività e dànno consistenza a realtà nuove.

Nel sommovimento ideale provocato dalla guerra due forze nuove si sono rivelate: il presidente Wilson, i massimalisti russi. Essi rappresentano l'estremo anello logico delle ideologie borghesi e proletarie.

Il presidente Wilson riscuote in questi giorni le testimonianze di maggior simpatia. Egli è l'uomo del fatto compiuto. L'opera sua è stata di correzione, di integrazione di valori borghesi. Egli è un capo di Stato, dirige un organismo sociale preesistente alla guerra, che nella guerra si è rafforzato, si è meglio disciplinato.

Eppure il riconoscimento della sua utilità ha tardato tre anni ad affermarsi. I suoi programmi sono stati derisi, egli è stato vituperato, è stato chiamato ipocrita, vacuo. Ora incomincia la revisione dei giudizi. Un bel libro di Daniele Halévy, che raccoglie i documenti del suo pensiero e della sua attività politica, dà occasione ad articoli elogiativi. Le qualità ieri negative ora diventano prova di solidità. Giovanni Papini (e la sua testimonianza ha valore, perché il Papini coi suoi capricci, colle sue disuguaglianze, col suo ingegno bizzarro, che produce acutissime e precorritrici verità cosí come banali infarciture di parole, è vicino al borghese medio italiano, è anticipatore dell'opinione media borghese italiana) due anni fa avrebbe chiamato Wilson uno «svizzero elettivo», un «castrato», un noioso predicatore, cosí come chiamò Romain Rolland, tanto vicino spiritualmente al presidente americano. Ora Papini esalta in Wilson proprio il puritanesimo, l'essere professore, l'essere un predicatore di princípi e massime morali, e lo avvicina ai piú grandi uomini di Stato della storia: al magnifico Lorenzo de' Medici, a Marco Aurelio, a Federico il Grande, a Giulio Cesare, uomini di pensiero e d'azione, ideologi e realizzatori.

Il riconoscimento dell'utilità storica dei massimalisti russi, meglio, del massimalismo russo, non poteva certo venire ora, subito; probabilmente non verrà neppure durante il decorso della guerra e subito dopo l'avvento della pace. Eppure noi sentiamo che esso è immancabile, che al massimalismo russo la storia riserva un posto di prim'ordine, superiore a quello dei giacobini francesi di quanto il socialismo è superiore alle ideologie borghesi.

Il massimalismo è la Russia martire, è il sacrifizio di una nazione a un'idea, perché essa non muoia e salvi l'umanità del mondo. Il martirio della Russia ha chiarito già molte menti, ha elevato il livello politico delle nazioni, ha fatto trionfare già alcuni di quei principi coi quali gli Stati dovranno fare i conti nel conchiudere la pace. L'avvenire delle nazioni e dei popoli dovrà ai massimalisti russi le maggiori garanzie di pace che certamente saranno assicurate. I massimalisti russi hanno trovato una nazione esaurita, disorganizzata, in completo sfacelo. Hanno per sei mesi arginato questo sfacelo, hanno fatto rendere all'umanità russa ciò che solamente poteva rendere: una luce ideale abbagliante, che ha rinvigorito molti spiriti, che ha fatto ritrovare la coscienza a moltitudini sperdute nella cecità della frenesia guerriera. Il programma di Wilson, la pace delle nazioni, si avvererà solo per il sacrifizio della Russia, per il martirio della Russia. Tra le ideologie medie della borghesia italiana, francese, inglese, tedesca, e il massimalismo russo era un abisso; la distanza è stata accorciata avvicinandosi all'estremo anello logico borghese, al programma del presidente Wilson. Il presidente americano sarà il trionfatore della pace; ma per il suo trionfo è stato necessario il martirio della Russia: Wilson lo ha sentito, e ha reso omaggio a quelli che pure sono anche i suoi avversari [undici righe censurate].

Individualismo e collettivismo42

La classe borghese si è redenta dalla schiavitú feudale affermando i diritti dell'individuo alla libertà e all'iniziativa. La classe proletaria lotta per la sua redenzione, affermando i diritti della collettività, del lavoro collettivo, contrapponendo alla libertà individuale, all'iniziativa individuale, l'organizzazione delle iniziative, l'organizzazione delle libertà.

Logicamente il principio dell'organizzazione è superiore a quello della libertà pura e semplice. Esso è la maturità in confronto della fanciullezza; ma storicamente la maturità ha bisogno della fanciullezza per svilupparsi, e il collettivismo presuppone necessariamente il periodo individualistico, durante il quale gli individui acquistano le capacità necessarie per produrre indipendentemente da ogni pressione del mondo esteriore, imparando a proprie spese come niente di piú reale e di piú concreto esiste del dovere della laboriosità, e come il desiderio della sopraffazione, la concorrenza brutale e sfrenata debba, per il bene di tutti, essere sostituita dall'organizzazione, dal metodo, che assegna a tutti un compito specifico da svolgere e a tutti assicura la libertà e i mezzi di sussistenza.

La classe borghese, succedendo alla classe feudale nella dittatura della produzione, ha introdotto una modificazione nel regime della proprietà privata. Questa era inalienabile, si trasmetteva solo in linea diretta, di padre in figlio, era vincolata da legami antieconomici che precludevano la via ai rapidi incrementi, rendendo perciò necessario lo sfruttamento iniquo dell'enorme maggioranza, con l'esclusione assoluta di ogni concorrenza nella mano d'opera, ottenuta con la servitú della gleba e con le corporazioni artigiane.

La borghesia dissolvette il privilegio feudale di casta, rese commerciabili gli strumenti di produzione, terre, macchine e mano d'opera. Assicurò a sé la proprietà degli strumenti naturali e meccanici, e la libertà di produrre, e assicurò alla mano d'opera la libertà della concorrenza, della quale quella avrebbe potuto servirsi per migliorare le proprie condizioni,

La proprietà, resa commerciabile, incominciò a circolare, passando dai meno capaci ai piú capaci. La tecnica si sviluppò sotto il pungolo della concorrenza; la società definí le sue basi nell'individualismo, che ebbe il suo maggior assertore filosofico in Herbert Spencer, e i suoi assertori economici nei liberisti della scuola inglese.

La libertà di concorrenza venne sempre piú intensificandosi per i continui perfezionamenti della tecnica industriale ed agricola. La classe borghese si frantumò in ceti e gruppi, che entrarono in lotta per il predominio politico; essi rappresentano stadi piú o meno sviluppati della produzione; alcuni, sicuri dell'esito della concorrenza, vogliono le libertà per eliminare gli avversari: altri, deboli e incerti del domani, vogliono la conservazione di leggi restrittive delle libertà politiche ed economiche, vogliono essere protetti, vogliono un minimo di sicurezza per non soccombere, per non essere eliminati dal campo delle competizioni.

Il capitalismo si è cosí sviluppato, piú o meno intenso a seconda delle nazioni, delle condizioni naturali e storiche dei vari paesi. Dove è piú antico ed ha raggiunto il massimo di produzione, ha conseguito sul piano politico: la riduzione al minimo delle funzioni dello Stato, un'ampia libertà di riunione, di stampa, di propaganda, la sicurezza dei cittadini di fronte ai poteri, la diffusione degli ideali di pace e di fraternità internazionale. Non bisogna credere che questi principi si siano affermati per ragioni sentimentali. Essi sono la necessaria garanzia dell'attività individuale in regime di libera concorrenza. L'individuo ha bisogno nei suoi affari della rapidità amministrativa e giudiziaria, quindi è necessario che lo Stato rinunzi a una gran parte dei suoi attributi a benefizio delle autonomie locali che rendono spedita la macchina burocratica e facilitano i controlli. L'individuo ha bisogno di poter contare sulla sua attività futura per i contratti e la locazione d'opera; deve esistere naturalmente la piú ampia libertà, la maggiore sicurezza contro le privazioni arbitrarie e illimitate della libertà personale; il codice penale si semplifica, diminuisce l'importanza dei delitti e delle pene. La concorrenza dei ceti, conservando la possibilità del ritorno al potere di quelli arretrati e parassitari, domanda che sia garantita la maggiore libertà di stampa, di riunione, di propaganda, attraverso la quale si può educare l'opinione pubblica e respingere ogni assalto del passato.

La libertà economica si dimostrò subito dottrina di classe: gli strumenti di produzione, pur circolando, rimasero proprietà di una minoranza sociale; il capitalismo fu anch'esso un privilegio di pochi, che tendono a diventar sempre piú pochi, accentrando la ricchezza per sottrarsi cosí alla concorrenza col monopolio. La maggioranza dei diseredati cerca allora nell'associazione il mezzo di resistenza e di difesa dei propri interessi. Le libertà, concepite solo per l'individuo capitalista, devono estendersi a tutti. La concorrenza si amplia: oltre che di individui e di ceti borghesi, è anche di classi. Le associazioni proletarie educano gli individui a trovare nella solidarietà il maggiore sviluppo del proprio io, delle proprie attitudini alla produzione. L'organizzazione, per il proletariato, nel campo della sua classe, si sostituisce già necessariamente all'individualismo, assorbendo di questo ciò che di eterno e di razionale vi è contenuto: il senso della propria responsabilità, lo spirito di iniziativa, il rispetto degli altri, la convinzione che la libertà per tutti è sola garanzia delle libertà singole, che l'osservanza dei contratti è condizione indispensabile di convivenza civile, che gli sgambetti, le truffe, gli illusionismi finiscono col danneggiare anche chi se ne è servito. Ma l'associazione ha lo scopo precipuo di educare al disinteresse: l'onestà, il lavoro, l'iniziativa vi diventano fine a se stessi, procurano solo soddisfazione intellettuale, gioia morale negli individui, non privilegi materiali. La ricchezza che ognuno può produrre in misura superiore ai bisogni della vita immediata è della collettività, è patrimonio sociale: non è piú necessaria la commerciabilità degli strumenti di lavoro per suscitare le capacità e le iniziative, perché il lavoro è divenuto dovere morale, l'attività è gioia, non battaglia cruenta.

L'individualismo borghese produce cosí necessariamente la tendenza al collettivismo nel proletariato. All'individuo-capitalista si contrappone l'individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività. La maggioranza degli individui si organizza, sviluppa le leggi sue proprie di convivenza nuova, crea le competenze, abitua alla responsabilità, al disinteresse, all'iniziativa senza fini immediati di lucro personale. Si diffondono cosí le condizioni ideali e morali per l'avvento del collettivismo, per l'organizzazione della società; si afferma quella atmosfera morale per la quale il nuovo regime non sia il trionfo dei poltroni e degli irresponsabili, ma sicuro progresso storico, realizzazione di una vita superiore a tutte quelle passate.

Un anno di storia43

Un anno è trascorso, dal giorno in cui il popolo russo costringeva lo zar Nicola II ad abdicare e a prendere la via dell'esilio. La commemorazione dell'anniversario è poco lieta. Dolore, rovina, apparenza di sfacelo, controffensiva borghese con le baionette e le mitragliatrici tedesche.

È finita la rivoluzione russa? È fallito, in Russia, il proletariato, nel più grande dei tentativi di riscossa che esso abbia mai tentato nella storia? Le apparenze sono sconfortanti: i generali tedeschi sono arrivati ad Odessa: i giapponesi si dice stiano per intervenire; 50 milioni di cittadini sono stati staccati dalla rivoluzione, e con essi le terre piú fertili, gli sbocchi al mare, le strade della civiltà e della vita economica. La rivoluzione, nata dal dolore e dalla disperazione, continua nel dolore e nelle sofferenze, stretta in un anello di potenze nemiche, immersa in un mondo economico refrattario alle sue idealità, ai suoi fini.

Nel marzo 1917 il telegrafo ci annunziò che un mondo era crollato in Russia: mondo effimero ormai, inanimata parvenza di un potere che era sorto, si era rafforzato, si era trascinato con la violenza sanguinosa, con la compressione degli spiriti, con la tortura delle carni dilaniate.

Aveva questo potere suscitato una grande macchina statale: 170 milioni di creature umane erano state costrette a dimenticare la loro umanità, la loro spiritualità per servire. A che? All'idea dell'Impero russo, del grande Stato russo che doveva arrivare ai mari caldi e aperti per assicurare all'attività economica sbocchi sicuri da ogni taglia di concorrenti, da ogni sorpresa di guerra. L'Impero russo era una mostruosa necessità del mondo moderno: per vivere, per svilupparsi, per assicurarsi le vie dell'attività, 10 razze, 170 milioni di uomini dovevano sottostare a una disciplina statale feroce, dovevano rinunziare all'umanità ed essere puro strumento del potere. Sono secoli di martirio e di crocifissione; e il martirio diventa piú acuto quanto piú la civiltà si afferma e raffina le coscienze. Il bisogno di indipendenza, di autonomia si fa sentire piú pungente, ma la ragione di Stato deve soffocarlo, deve sterminare migliaia, centinaia di migliaia di individui per conservare l'unità, per tenere legati in un fascio questi 170 milioni che solo col numero resistono alla concorrenza capitalistica, bilanciano le forze avverse della concorrenza mondiale. Gli individui perdono ogni autonomia, ogni libertà, perché lo Stato possa essere autonomo e libero tra gli altri Stati. Avviene cosí che gli individui attingano nella loro coscienza culmini di spiritualità quali in nessun altro paese sono raggiunti. La letteratura russa è il documento doloroso di una coscienza interiore che non ha eguali: mai una tale ricerca si è verificata di valori umani, una tale escavazione interiore, una tale presa di possesso di personalità. La letteratura russa è documento unico nella storia, perché senza uguali era il dolore, l'umiliazione cui gli uomini erano in Russia sottoposti. I corpi si piegano sotto le gravezze della catena sociale, e le anime, cui è tolta la vista del mondo esteriore, si rivolgono su se stesse, e un canto si leva sublime e sovrumano, canto di dolore raccolto, di disperazione, di purificazione, del quale solo nei profeti del popolo d'Israele si può trovare una pallida somiglianza.

Nel marzo 1917 la macchina mostruosa crolla, imputridita, disfatta nella sua impotenza congenita. Gli uomini si drizzano, si guardano negli occhi. Tutti i valori umani hanno il sopravvento. L'esteriorità non ha piú valore; troppo male ha fatto, troppi dolori ha prodotto, troppo sangue ha versato. Incomincia la storia, la vera storia. Ognuno vuole essere padrone del proprio destino, si vuole che la società sia plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa. L'organizzazione della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve rispettare tutte le autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova storia della società umana, incominciano le esperienze nuove della storia dello spirito umano. Esse vengono a coincidere con le espressioni che l'ideale socialista aveva dato ai bisogni elementari degli uomini. I socialisti come ceto politico salgono al potere senza troppi sforzi: le parole della loro fede coincidono con le aspirazioni confuse e vaghe del popolo russo. Essi devono realizzare l'organizzazione nuova, devono dettare le nuove leggi, stabilire i nuovi ordinamenti.

Il passato continua a sussistere; viene disgregato. Si ha la parvenza dello sfacelo, del disordine, della confusione. Sembra che si ritorni alla società barbarica, cioè alla non società. Il passato continua a sussistere oltre il territorio della libertà, e preme e vuole prendere una rivincita. L'ordine nuovo tarda a realizzarsi. Tarda? O uomini scettici e perversi, non tarda, no, perché non si rifà una società in un fiat, perché il male del passato non è un edilizio di cartapesta cui si dà fuoco in un attimo. Doloroso sforzo è la vita, lotta tenace contro le abitudini, contro l'animalità e l'istinto grezzo che latra continuamente. Non si crea una società umana in sei mesi, quando tre anni di guerra hanno esaurito un paese, l'hanno privato dei mezzi meccanici per la vita civile. Non si riorganizzano milioni e milioni di uomini in libertà, cosí, semplicemente, quando tutto è avverso, e non sussiste che lo spirito indomabile. La storia della rivoluzione russa non si è chiusa e non si chiuderà con l'anniversario del suo iniziarsi. Come un canto esiste nella fantasia del poeta prima che sulla carta stampata, l'avvento dell'organizzazione sociale esiste nelle coscienze e nelle volontà. Sono gli uomini cambiati: questo importa. Si vuole l'esteriorità, la carta stampata. Si stride per ogni insuccesso, per ogni rovescio apparente. Si domanda ai russi ciò che gli storici non domandano alle rivoluzioni passate: la creazione fulminea di un ordine nuovo. Si suppongono propositi che non sono mai esistiti, speranze che non sono mai state sognate. E questi propositi, queste speranze sono confrontate con la realtà attuale per concludere al fallimento, allo sfacelo. Con la realtà che si dice sortita da un anno di nuova storia, ma che è sortita da secoli di bestiale soppressione dell'uomo dalla storia. Si domanda l'impossibile, che non si è mai domandato agli uomini del passato. Quante volte la Rivoluzione francese ha visto occupata la capitale dai nemici? E l'occupazione veniva dopo che Napoleone aveva organizzato autoritariamente le forze rivoluzionarie e aveva condotto gli eserciti francesi di vittoria in vittoria. E la Francia era ben piccola cosa in confronto della Russia sterminata. No, le forze meccaniche non prevalgono mai nella storia: sono gli uomini, sono le coscienze, è lo spirito che plasma l'esteriore apparenza, e finisce sempre col trionfare. Un anno di storia si è chiuso, ma la storia continua [sei righe censurate].

La tua eredità44

La società contemporanea: una fiera rumorosa, di uomini in delirio; nel centro della fiera una giostra che rotea turbinosamente, fulmineamente. Ognuno dei presenti vuol saltare in groppa a un lucente e ben bardato cavallino, a una sirena dai languidi occhi; vuole adagiarsi nei morbidi cuscini di una carrozzella. È un precipitarsi disordinato e caotico della folla in tumulto, è un osceno acrobatismo di arti scimmiesche. Diecimila cadono riversi, dopo essersi fiaccate le membra, uno per diecimila passa, si aderge su questi corpi innumeri, spicca il salto giusto, e trasvola nel turbine infernale.

Tu vuoi partecipare alla gara. Hai probabilità, anche tu, di fortuna. Arrivare significa diventar ricco, essere signore della vita, conquistare la propria libertà.

Ecco: la libertà. Fermiamoci. La ricchezza non è un fine, certamente; se diventa fine si chiama avidità (avarizia). È mezzo per un fine: la libertà. Un soldo che possiedi, è un soldo di libertà a tua disposizione, è un soldo di libera scelta. La proprietà è la garanzia che questa libertà sarà continua. La proprietà di una parte di ricchezza (strumento di lavoro) è possibilità di ampliare ancora il dominio della personale libertà. Il diritto di eredità è la garanzia che la tua personale libertà sarà anche della tua prole, dei tuoi cari. Poiché il tuo fine non è un circoscritto fatto materiale, poiché tu non sei un avido di benessere meccanico, ma di libertà, consegue che il tuo fine non è individuale: è un'immortalità. Senti che i tuoi figli ti continueranno, come tu continui i tuoi padri, e vuoi garantita la libertà del tuo spirito immortale. Questa immortalità è ammessa dai laici, dai filosofi: essa appunto è dai filosofi chiamata Spirito, e viene fatta coincidere con la Storia, perché tutto umano, perché non ha nulla da spartire con lo spirito (anima) trascendente, ultraterreno, delle religioni. È pura attività: tu sei attivo, lavori, partecipi dell'immortalità del lavoro, ma vuoi vedere esteriormente questa perennità del tuo io: la cerchi nei tuoi discendenti, nelle garanzie di libertà che loro assicuri.

Tutti gli uomini hanno questa aspirazione, tutti gli uomini vogliono diventare proprietari di libertà, di libertà garantita, di libertà trasmissibile. Se essa è il sommo bene, è naturale si cerchi di farne partecipi i propri cari, è naturale si accetti il sacrifizio per creare questa libertà, anche sicuri di non goderla per se stessi, solo per assicurarla ai propri cari. La preoccupazione diventa in taluni casi cosí pungente da spingere al delitto, alla perversione, al suicidio. Madri si prostituiscono per racimolare un peculio di libertà ai figli; padri si uccidono con l'apparenza della disgrazia perché i figli godano subito l'assicurazione della libertà.

La libertà è solo un privilegio: ecco perché si manifestano queste perversioni. La società è una fiera: la fortuna è una giostra. La maggioranza deve necessariamente fallire nella gara atroce. È dunque essa non spirito, non partecipa essa della immortalità della storia? Esiste la immortalità senza l'esteriore continuità? Certo no. Esistendo, trasforma il mondo, suscita quindi forme esteriori.

Ebbene, anche tu, che non sei ricco, che non sei capitalista, che non garantisci alla tua immortalità nessuna esteriore continuazione di libertà, erediti e lasci un retaggio. Non saresti uomo, altrimenti, non saresti spirito, non saresti Storia. Bisogna che di questa verità tu abbia consapevolezza, che questa consapevolezza tu approfondisca in te e diffonda negli altri. Essa è la tua forza, è la chiave del tuo destino e del destino dei tuoi cari.

La proprietà è il rapporto giuridico esistente tra un cittadino e un bene. Essa è dunque un valore sociale, puramente contingente; è garantita da tutti, che la garantiscono solo in quanto sperano, ognuno singolarmente, di giungere a goderla. I pochi sono liberi, nel possesso dei beni, e trasmettono questa libertà ad altri pochi, perché i molti sperano, hanno la velleità di essere liberi, non ne hanno la volontà. La volontà è adeguazione dei mezzi al fine, quindi è specialmente ricerca di mezzi congrui.

Il privilegio della libertà sussiste perché la società è una fiera, perché è un disordine perenne. La speranza che tu hai di saltare immediatamente in groppa a un cavallino della giostra, ti fa elemento del disordine, della perenne fiera: tu sei una rotellina della macchina infernale che fa roteare la giostra: se, nella gara, fallisci, tu sei causa del tuo fallire, se ti fiacchi le ossa, tu sei un suicida.

Da elemento di disordine devi diventare elemento d'ordine. All'essere immediatamente (vaga speranza, probabilità minima), devi preferire la certezza, anche se non immediata, la certezza per i tuoi figli. Il fine rimane immutato, i mezzi per raggiungerlo sono i soli mezzi congrui a tua disposizione: l'associazione, l'organizzazione.

Se la proprietà è solo un valore sociale, il solo fatto che esiste un organismo-forza proponentesi di renderla bene comune, garanzia di libertà per tutti, la trasforma, la rende aleatoria in quanto privilegio, cioè la diminuisce ora in pro della collettività, ne fa compartecipe già ora la collettività.

Questa diminuzione, questa compartecipazione potenziale è una eredità che tu trasmetti. Certo è piú evidente, piú palpabile l'eredità dei capitalisti; ma se rifletti anche la tua non è trascurabile cosa.

Anche tu hai un retaggio: i tuoi ascendenti, che hanno fatto la rivoluzione contro il feudalesimo, ti hanno lasciato in eredità il diritto alla vita (tu non puoi essere ucciso arbitrariamente: ti par piccola cosa?), la libertà individuale (per incarcerarti devi essere giudicato colpevole d'un crimine), il diritto di muoverti per lavorare in una terra piuttosto che in un'altra, a tua scelta, secondo la tua utilità. Godi una eredità piú recente: la libertà di scioperare, la libertà di associarti con altri per discutere i tuoi interessi immediati e per proporti, in comunione con altri, il fine maggiore della tua vita: la libertà per te, o almeno per i tuoi discendenti.

Ti paiono piccole eredità queste? Esse hanno notevolmente diminuito il privilegio dei pochi. Perché non ti proponi di ampliare e diminuire ancora, conseguentemente, il privilegio? Queste eredità sono il frutto del lavoro di molti, non del solo padre tuo, del solo tuo nonno o bisnonno. Sono frutto, inconsapevole, perciò piccolo. Diventa tu consapevole, diffondi la tua consapevolezza: quale eredità superiore a quelle del passato non trasmetterai tu all'avvenire? Quale piú concreta sicurezza di libertà per i tuoi figli, per l'immortalità del tuo spirito? Invece di una proprietà individuale, preoccupati di lasciare maggiore possibilità per l'avvento della proprietà collettiva, della libertà per tutti, perché tutti uguali dinanzi al lavoro, allo strumento di lavoro.

Questa tua eredità ha anch'essa una forma esteriore: l'associazione. Quanto piú forte è l'associazione, tanto piú vicina è l'ora di riscuotere allo sportello della Storia. Chi riscuoterà? Tu stesso, forse, per la tua quota. Lavora come se il fine fosse immediato, ma non trascurare perciò di suscitare mezzi piú potenti, nel caso non fosse immediato: sacrificati, perché tu pensi ai tuoi figli, ai tuoi cari.

Rafforza le associazioni che hanno questo fine: liberare la collettività, dando a lei la proprietà della ricchezza. L'associazione economica ti garantisce la riscossione quotidiana dei benefizi che frutta l'eredità lasciatati dai tuoi padri nullatenenti: rafforzala con la tua adesione, aumenterai cosí l'eredità dei tuoi figli.

L'associazione politica, il Partito socialista, è l'organo di educazione, di elevazione; per esso tu sentirai la collettività, ti spoglierai dei tuoi egoismi personali, imparerai a lavorare disinteressatamente per l'avvenire che è di tutti, quindi anche tuo e dei tuoi. Per esso metterai il tuo sacrifizio e il tuo lavoro con quello degli altri, moltiplicandone il valore per il valore del comune sacrifizio.

L'Associazione di cultura ti renderà piú degno del tuo compito sociale, ti educherà a pensar bene, migliorerà il tuo spirito: per essa parteciperai al patrimonio di pensiero, di esperienze spirituali, di intelligenza, di bellezza del passato e del presente.

Diffondi questa piccola verità: nella società attuale, che è fiera, che è giostra, tutti singolarmente possono diventar ricchi (liberi), ma, necessariamente, solo pochi lo diventano; la ricerca della proprietà, dell'eredità individuale ha unoriuscito per diecimila falliti. I diecimila non falliranno invece nella ricerca dell'eredità sociale; che si associno, che da elemento di disordine diventino elemento d'ordine, e avranno avvicinato di diecimila probabilità il raggiungimento del fine stesso.

Intanto tu fa il tuo dovere: dà la tua parte di attività, di spiritualità al comune patrimonio sociale attuale: lavora perché sia trasmesso, migliorato e ampliato, ai tuoi discendenti: cura la tua eredità, cura l'eredità che sola sei certo di poter lasciare.

Il nostro Marx45

Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? Buaggine, tu sola sei immortale. La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d'inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio. Unico imperativo categorico, unica norma: «Proletari di tutto il mondo unitevi». Il dovere dell'organizzazione, la propaganda del dovere di organizzarsi e associarsi, dovrebbe dunque essere discriminante tra marxisti e non marxisti. Troppo poco e troppo: chi non sarebbe marxista?

Eppure cosí è: tutti sono marxisti, un po', inconsapevolmente. Marx è stato grande, la sua azione è stata feconda, non perché abbia inventato dal nulla, non perché abbia estratto dalla sua fantasia una visione originale della storia, ma, perché il frammentario, l'incompiuto l'immaturo è in lui diventato maturità, sistema, consapevolezza. La consapevolezza sua personale può diventare di tutti, è già diventata di molti: per questo fatto egli non è solo uno studioso, è un uomo d'azione; è grande e fecondo nell'azione come nel pensiero, i suoi libri hanno trasformato il mondo, cosí come hanno trasformato il pensiero.

Marx significa ingresso dell'intelligenza nella storia dell'umanità, regno della consapevolezza.

La sua opera cade proprio nello stesso periodo in cui si svolge la grande battaglia tra Tomaso Carlyle ed Erberto Spencer sulla funzione dell'uomo nella storia.

Carlyle: l'eroe, la grande individualità, mistica sintesi di una comunione spirituale, che conduce i destini dell'umanità verso un approdo sconosciuto, evanescente nel chimerico paese della perfezione e della santità.

Spencer: la natura, l'evoluzione, astrazione meccanica e inanimata. L'uomo: atomo di un organismo naturale, che obbedisce a una legge astratta come tale, ma che diventa concreta, storicamente, negli individui: l'utile immediato.

Marx si pianta nella storia con la solida quadratura di un gigante: non è un mistico né un metafisico positivista; è uno storico, è un interprete dei documenti del passato, di tutti i documenti, non solo di una parte di essi.

Era questo il difetto intrinseco delle storie, delle ricerche sugli avvenimenti umani: esaminare e tener conto solo di una parte dei documenti. E questa parte veniva scelta non dalla volontà storica, ma dal pregiudizio partigiano, tale anche se inconsapevole e in buona fede. Le ricerche avevano come fine non la verità, l'esattezza, la ricreazione integrale della vita del passato, ma il rilievo di una particolare attività, il mettere in valore una tesi aprioristica. La storia era solo dominio delle idee. L'uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso solamente arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Se storia fu scritta, nel senso reale della parola, si dovette ad intuizione geniale di singoli individui, non ad attività scientifica sistematica e consapevole.

Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, dell'attività cosciente degli individui singoli od associati. Ma le idee, lo spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono piú fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell'economia, nell'attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. La storia come avvenimento è pura attività pratica (economica e morale). Un'idea si realizza non in quanto logicamente coerente alla verità pura, all'umanità pura (che esiste solo come programma, come fine etico generale degli uomini), ma in quanto trova nella realtà economica la sua giustificazione, lo strumento per affermarsi. Per conoscere con esattezza quali sono i fini storici di un paese, di una società, di un aggruppamento importa prima di tutto conoscere quali sono i sistemi e i rapporti di produzione e di scambio di quel paese, di quella società. Senza questa conoscenza si potranno compilare monografie parziali, dissertazioni utili per la storia della cultura, si coglieranno riflessi secondari, conseguenze lontane, non si farà però storia, l'attività pratica non sarà enucleata in tutta la sua solida compattezza.

Gli idoli crollano dal loro altare, le divinità vedono dileguarsi le nubi d'incenso odoroso. L'uomo acquista coscienza della realtà obiettiva, si impadronisce del segreto che fa giocare il succedersi reale degli avvenimenti. L'uomo conosce se stesso, sa quanto può valere la sua individuale volontà, e come essa possa essere resa potente in quanto, ubbidendo, disciplinandosi alla necessità, finisce col dominare la necessità stessa, identificandola col proprio fine. Chi conosce se stesso? Non l'uomo in genere, ma quello che subisce il giogo della necessità. La ricerca della sostanza storica, il fissarla nel sistema e nei rapporti di produzione e di scambio, fa scoprire come la società degli uomini sia scissa in due classi. La classe che detiene lo strumento di produzione conosce già necessariamente se stessa, ha la coscienza, sia pur confusa e frammentaria, della sua potenza e della sua missione. Ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, senza preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dei cadaveri dei campi di battaglia.

La sistemazione della reale causalità storica acquista valore di rivelazione per l'altra classe, diventa principio d'ordine per lo sterminato gregge senza pastore. Il gregge acquista consapevolezza di sé, del compito che attualmente deve svolgere perché l'altra classe si affermi, acquista coscienza che i suoi fini individuali rimarranno puro arbitrio, pura parola, velleità vuota ed enfatica finché non avrà gli strumenti, finché velleità non sarà diventata volontà.

Volontarismo? La parola non significa nulla, o viene usata nel significato di arbitrio. Volontà, marxisticamente, significa consapevolezza del fine, che a sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi per esprimerla nell'azione. Significa pertanto in primo luogo distinzione, individuazione della classe, vita politica indipendente da quella dell'altra classe, organizzazione compatta e disciplinata ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi prati della cordiale fratellanza, inteneriti dalle verdi erbette e dalle morbide dichiarazioni di stima e d'amore.

Ma è inutile l'avverbio «marxisticamente», e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente... aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani.

Carlo Marx è per noi maestro di vita spirituale e morale, non pastore armato di vincastro. È lo stimolatore delle pigrizie mentali, è il risvegliatore delle energie buone che dormicchiano e devono destarsi per la buona battaglia. È un esempio di lavoro intenso e tenace per raggiungere la chiara onestà delle idee, la solida cultura necessaria per non parlare a vuoto, di astrattezze. È blocco monolitico di umanità sapiente e pensante, che non si guarda la lingua per parlare, non si mette la mano sul cuore per sentire, ma costruisce sillogismi ferrati che avvolgono la realtà nella sua essenza, e la dominano, che penetrano nei cervelli, fanno crollare le sedimentazioni di pregiudizio e di idea fissa, irrobustiscono il carattere morale.

Carlo Marx non è per noi il fantolino che vagisce in culla o l'uomo barbuto che spaventa i sacrestani. Non è nessuno degli episodi aneddotici della sua biografia, nessun gesto brillante o grossolano della sua esteriore animalità umana. È un vasto e sereno cervello pensante, è un momento individuale della ricerca affannosa secolare che l'umanità compie per acquistare coscienza del suo essere e del suo divenire, per cogliere il ritmo misterioso della storia e far dileguare il mistero, per essere piú forte nel pensare e operare. È una parte necessaria ed integrante del nostro spirito, che non sarebbe quello che è se egli non avesse vissuto, non avesse pensato, non avesse fatto scoccare scintille di luce dall'urto delle sue passioni e delle sue idee, delle sue miserie e dei suoi ideali.

Glorificando Carlo Marx nel centenario della sua nascita, il proletariato internazionale glorifica se stesso, la sua forza cosciente, il dinamismo della sua aggressività conquistatrice che va scalzando il dominio del privilegio, e si prepara alla lotta finale che coronerà tutti gli sforzi e tutti i sacrifizi.

Astrattismo e intransigenza46

La Stampa dell'8 maggio ha pubblicato un articolo di un «simpatizzante», sul dissidio socialista manifestatosi nella polemica tra la direzione dell'Avanti!, che scrive per tutta la frazione intransigente rivoluzionaria e alcuni membri del gruppo parlamentare che scrivono non si sa bene per chi. Il «simpatizzante» simpatizza specialmente per il gruppo, ma non riesce a dare di questa simpatia una dimostrazione che convinca intimamente cosí come può convincere qualcuno per l'apparenza formale di una ferrea logicità. Ciò che cercheremo di dimostrare.

Il dissidio esistente nel partito avrebbe le sue scaturigini nello stesso Carlo Marx, la cui personalità si rivelerebbe sotto due aspetti: quella del mistico-rivoluzionario e quella del concreto-storico. Gli intransigenti sarebbero dei mistici-astrattisti, i collaborazionisti sarebbero dei concretisti, degli storicisti, dei realisti (domandiamo perdono per la filastrocca degli isti). Il misticismo si sarebbe accordato col concretismo nella negazione della guerra, dando luogo alla compattezza occasionale del partito, ma il granito ha questa intima screpolatura, e la lucertola del dissidio fa ogni tanto capolino dalla fessura.

Il «simpatizzante» è egli stesso un'astrattista coi fiocchi, cioè non è un temperamento politico.

La sua astrazione prediletta sono i «fatti». Ma esistono i fatti senza gli uomini, e i determinati fatti senza i determinati uomini, che hanno una determinata cultura, che si propongono un determinato fine? Il concretismo diviene astrattismo quando, allucinato dall'empirismo, dimentica che i fatti, in quanto attualità e non storia del passato, in quanto spinta per lo sviluppo ulteriore della loro essenza effettiva, sono sovrattutto conoscenza, giudizio, valutamento, e queste belle cose sono possibili solo se gli uomini, gli aggruppamenti si propongono un fine generale nella loro azione. La traiettoria dei fatti è la risultante obiettiva delle attività svolte dalle energie sociali costituite: lo Stato e il Partito socialista. Uno si propone un fine quantitativo (fissabile nello spazio e nel tempo) e opera attraverso i suoi organi, dall'esercito alla magistratura, ai quotidiani. L'altro si propone anch'esso un fine quantitativo, ma non come immediato, e ottiene immediatamente dei parziali successi qualitativi: trasforma il costume, chiarifica idee, fa conoscere le energie reali operanti, suscitando, organizzando energie ancora passive, da cui scaturirà l'ordine nuovo attraverso il quale il fine ultimo sarà realizzato.

Concretismo assoluto, perché non si illude che la legge abbia valore senza il controllo intelligente dei rappresentanti, che l'idea sia storia senza la forza organizzata. Le idee, i principi, l'intransigenza ideale divengono cosí concretezze storiche, anche se immediatamente non fanno abdicare un monarca o vincere una battaglia.

Le due facce di Carlo Marx (storicismo e misticismo) che diventano i due termini del dissidio socialista, sono un'amplificazione retorica. Lo storicismo concreto di Marx è pura serietà di studioso, che ricerca i documenti del passato. Questi documenti sono definitivi, e lo studio ha il fine della verità, della ricreazione della storia, non della sua creazione. La concretezza in questo caso significa solo assenza di tutte le passioni, di tutte le energie, che non siano quelle necessarie per la ricerca, per la ricostruzione del passato, nel suo assestamento in una determinata forma d'equilibrio. Non sarebbe concreto Marx neppure in questo caso, se il concretismo fosse quale l'immagina il «simpatizzante». La storia, anche del passato, deve servirsi di schemi pratici, di idee generali, deve astrarre dai singoli individui, concretezza massima, e studiare l'attività tendenziale delle forze sociali costituite, consciamente o inconsciamente. Il «simpatizzante», invece, se fosse coerente con tutto il suo concretismo, dovrebbe ridurre la storia a un atomismo individuale; egli è un empirico, non un politico storicista, e la sua dimostrazione ha apparente robustezza, ma è viziata da un intimo astrattismo polverizzatore e scettico.

Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale, in quanto rivoluzionario. La verità è che le ideologie sono risibili quando sono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare confusioni, ad illudere e asservire energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è estraneo a queste energie. Marx irride i democratici spappolati, che non conoscono la forza, credono la parola sia carne, credono che alle forze organizzate basti opporre la parola, che ai fucili e ai cannoni basti opporre il petardo del vaniloquio. Ma come rivoluzionario, cioè uomo attuale di azione, non può prescindere dalle ideologie e dagli schemi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione; solo che le salda con la forza dell'organizzazione, del partito politico, della associazione economica.

Il «simpatizzante» riconosce che il dogma, lo schema pratico della classe, avendo generato l'intransigenza, ha rinvigorito il partito (cioè la classe potenziale, in formazione, che si integra giorno per giorno). Non pensa che il dogma ha cosí dimostrato di essere una concretezza, ed ha esaurito il solo suo compito. L'uomo politico che non sia un empirico, opera per l'avvenire come se la classe fosse già attualmente in piena efficienza di quadri. Ottiene lo scopo immediato di rinvigorirsi e di trasformare il costume, di migliorare l'ambiente generale. La critica dovrebbe dimostrare, per essere concreta, come questi schemi pratici siano arbitrari, come l'astrazione, che è una necessità della pratica, sia gratuita, cioè non diventerà mai organizzazione, date le premesse storiche attuali. Ma la dimostrazione è impossibile perché lo schema della classe, diventato azione col metodo dell'intransigenza, ha determinato un rinvigorimento, documento di concretezza nel presente e piú nell'avvenire.

Il «simpatizzante» è anch'egli un mistico inconsapevole, dato che misticismo significhi non adesione alla vita, all'azione. Crede ai fini concreti fissati e raggiungibili a priori. Immagina l'avvenire come un qualcosa di solido, della solidità del passato. Non è un dialettico, sebbene si serva di questa parola, e non immagina il futuro come puro giuoco di forze potenziali che nel presente hanno solo un presupposto; il futuro non è che il riflesso che la nostra fantasia logica proietta del presente per avere un indirizzo certo e non empirico, di tutti e non di pochi, delle organizzazioni non di individui rappresentativi e incontrollati. Esistono i fini concreti, ma essi si attuano parzialmente ogni giorno, nell'esteriorità e nelle coscienze. Il problema è da porsi in questi termini: di questi fini concreti solo una parte si attua quotidianamente; questa parte non è fissabile a priori perché la storia non è un calcolo matematico: questa parte è il risultato dialettico delle attività sociali in continua concorrenza di fini massimi. Solo se questi fini massimi sono perseguiti col metodo dell'intransigenza, la dialettica è storia e non arbitrio puerile, è risultato solido, e non sbaglio, che bisogni disfare e correggere.

Nasce il dovere dell'intransigenza, pura da ogni empirismo arbitrario. Questo dovere è di tutte le energie sociali; è la ragione di vita e di sviluppo del Partito socialista. La storia è dialettica della lotta di classe, che ha protagonista e antagonista lo Stato e il Partito socialista con le organizzazioni economiche che il partito controlla. Ma di questo snodarsi di avvenimenti sono anche fattori i partiti politici borghesi in continua concorrenza fra di loro per la conquista dello Stato (concorrenza che non permette il metodo intransigente) e la passività, l'inerzia delle moltitudini. L'intransigenza conquista al partito questa inerzia, e la conquista è effettiva perché fatta con l'organizzazione, attraverso il fine generale, il programma massimo. La collaborazione è morte dello spirito, perché è assenza di distinzione, di plasticità politica. Il «simpatizzante» dovrebbe dimostrare che il fine massimo dei socialisti è arbitrario, che la classe, oltreché astrazione, è astrazione arbitraria, che non aderisce ai fatti, neppure negativamente. Dimostrare che esistono i fatti in sé, fuori del giudizio degli uomini, come qualcosa di fatale e non di necessario dialetticamente. Dimostrare che la vita è confusione e non chiarezza, che le idee generali sono astrattismi e non concrete realtà quanto il cannone e le manette. Cosí solo potrà dimostrare che l'intransigenza è passività e reazione e non, come noi crediamo, metodo necessario e sufficiente perché la realtà effettiva si organizzi e si riveli, perché la storia dialetticamente necessaria si affermi, sia pure questa storia la reazione degli altri e non il «democraticismo», ideologico e vacuo di Giovanni Giolitti che in concreto ha sempre voluto dire: protezione doganale, accentramento statale con la tirannia burocratica, corruzione del Parlamento, favori al clero e alle caste privilegiate, schioppettate sulle strade contro gli scioperanti, mazzieri elettorali. Ha voluto dire anche qualche pizzico di legislazione sociale, ma per gli intransigenti le leggi sono inutili se non corrisponde loro il costume, e queste leggine sono sbagli, in senso classista, perché non essendoci il costume diffuso, sono diventate privilegi di categorie.

L'intransigenza di classe e la storia italiana47

La Stampa pubblica ancora due articoli sul «dissidio socialista». La Stampa insiste sul carattere puramente «culturale» e informativo di queste sue pubblicazioni.

O disinteresse mirabile, o francescana buona volontà di informare ed educare la nazione italiana!

Ma non insistiamo. Preoccupiamoci della solida sostanza dei fatti, delle conseguenze reali che possono avere per la vita politica e per la storia italiana gli atteggiamenti dei gruppi interessati alla polemica tra gli intransigenti e i relativisti del nostro partito.

Praticamente, La Stampa è venuta in ausilio al gruppo parlamentare. L'offensiva contro gli intransigenti è condotta in modo abile, con la sorniona destrezza che è caratteristica dei giolittiani. Gli articoli della Stampa sono scritti da un «simpatizzante», condizione utile per addormentare il senso critico nei lettori proletari del giornale. Sono scritti da un uomo d'ingegno, esperto nel linguaggio critico marxista, un uomo di cultura superiore, scaltrito nella sottile arte del distinguere, del graduare i concetti secondo la piú recente filosofia idealista. Il «simpatizzante» è diventato, per naturale logica delle cose e dei valori, il teorico dei collaborazionisti. Dai tre articoli finora pubblicati, sciamano a profusione i motivi polemici, i nessi di pensiero, gli schemi logici che saranno utilizzati in articoli, ma specialmente nella conversazione privata, a sostegno della tesi relativista.

Crediamo perciò necessario sottoporre a una critica minuziosa tutto il complesso della dimostrazione. Dovremo esser lunghi, purtroppo, ma i lettori di buona volontà che ci seguiranno fino alla fine, si convinceranno che ne valeva la pena, si convinceranno che la polemica tra la direzione dell'Avanti! e i collaborazionisti supera l'angusto dominio di una scaramuccia sulla tattica parlamentare, sulla disciplina di partito, ed è il preludio di una formidabile battaglia in cui sono impegnati [una riga censurata] una ventina d'anni della prossima storia italiana.

Il nucleo centrale della disputa è questo, secondo le parole che La Stampa pone in bocca ai relativisti:

I partiti interventisti vanno mano a mano impadronendosi di tutti i poteri, di tutti i meccanismi dello Stato, presidiandoli e controllandoli direttamente e indirettamente. Essi, inoltre, si valgono di questo controllo sui poteri dello Stato, di questa progressiva «annessione» della potenza statale ai loro partiti — sino al punto di identificare la organizzazione stessa dello Stato con la loro organizzazione di partito — per indebolire, disarticolare, ridurre all'impotenza lo strumento politico della classe lavoratrice, che è il Partito socialista.

Cosí ragionano i collaborazionisti, e La Stampa plaude. Perché del fenomeno «annessionistico» prime e sole vittime sono Giolitti e il suo partito, perché il fenomeno «annessionistico» è l'inizio per l'Italia di una nuova forma di governo, che presuppone uno Stato di classe, dinanzi al quale tutti i partiti borghesi sono uguali, in uguali condizioni di partenza. È l'inizio di un'èra democratica, nata non per la buona volontà di uno o dell'altro partito, ma per l'inesorabile logica degli avvenimenti. Il privilegio governativo giolittiano è intaccato: un altro partito è riuscito a stare al potere piú di quanto era presumibile, e sta cercando di insediarvisi stabilmente. La logica della storia, in simili casi, ha portato a questo risultato ottimo (la storia dei partiti in Inghilterra insegni): sotto i colpi della concorrenza spietata di due partiti ugualmente forti, che temono il predominio l'uno dell'altro, lo Stato s'alleggerisce del suo fardello di funzioni ingombranti, l'amministrazione si discentra, la burocrazia attenua la sua tirannide, i poteri si rendono indipendenti. Lo Stato perde la sua impalcatura feudale, dispotica, militaresca e si costituisce in modo che sia impossibile la dittatura di un capopartito, ma ci sia sempre la possibilità dell'alternarsi, del succedersi al potere di chi rappresenta l'essenziale delle forze politiche ed economiche del paese, che pertanto vedrà dare impulso alle sue energie naturali e spontanee sorte dall'attività economica, e non dilatare morbosamente i ceti parassitari, che dalla politica muovono per l'attività economica, che nel superprivilegio trovano l'unica loro ragione di esistenza.

Classe, Stato, partiti

Cosa rappresenta lo Stato per i socialisti? Lo Stato è l'organizzazione economico-politica della classe borghese. Lo Stato è la classe borghese nella sua concreta forza attuale.

La classe borghese non è una unità fuori dello Stato. Per il principio e l'azione della libera concorrenza sorgono e si costituiscono continuamente nuovi gruppi di produttori capitalisti che integrano incessantemente la capacità economica del regime. Ogni gruppo vorrebbe uscire dalla dilacerante lotta della concorrenza imponendo il monopolio. Lo Stato compone giuridicamente i dissidi interni di classe, gli attriti d'interessi contrastanti, unifica i ceti e dà l'immagine plastica dell'intera classe. Il governo, il potere, è il punto in cui si afferma la concorrenza dei ceti. Il governo è il premio del partito, del ceto borghese piú forte, che per questa forza conquista il diritto di regolare il potere dello Stato, di rivolgerlo a determinati fini, di plasmarlo prevalentemente a seconda dei suoi programmi economici e politici.

Assolutamente diversa è la posizione che occupano di fronte allo Stato i partiti borghesi e il Partito socialista.

I partiti borghesi o sono esponenti di categorie di produttori, o sono sciame di mosche cocchiere che non intaccano neppure superficialmente la compagine dello Stato, ma ronzano parole e succhiano il miele dei favoritismi.

Il Partito socialista non è organizzazione di ceto, ma di classe: è morfologicamente diverso da ogni altro partito. Può riconoscere solo nello Stato, complesso della classe borghese, il suo simile antagonistico. Non può entrare in concorrenza per la conquista dello Stato, né direttamente, né indirettamente, senza suicidarsi, senza snaturarsi, e diventare puro ceto politico, estraniato dalla attività storica del proletariato, e diventare sciame di mosche cocchiere in caccia della scodella di biancomangiare in cui rimanere invischiato e perire ingloriosamente.

Il Partito socialista non conquista lo Stato, lo sostituisce; sostituisce il regime, abolisce il governo dei partiti, alla libera concorrenza sostituisce l'organizzazione della produzione e degli scambi.

L'Italia ha uno Stato di classe?

Nelle discussioni e nelle polemiche troppo spesso le parole si sovrappongono alla realtà storica. Riferendoci all'Italia noi usiamo le parole: capitalisti, proletari, Stati, partiti, come se esse significassero entità sociali che hanno raggiunto la pienezza della loro maturità storica, o una maturità già notevole cosí come nei paesi economicamente progrediti. Ma in Italia il capitalismo è ai suoi primi inizi, e la legge esteriore non si adegua per nulla alla realtà. La legge è una incrostazione moderna su un edifizio antiquato, non è il prodotto di una evoluzione economica, è un prodotto del mimetismo politico internazionale, di una evoluzione intellettuale del giure, non dello strumento di lavoro.

Lo notava Giuseppe Prezzolini recentemente a proposito della polemica sulla «democrazia». Sotto una parvenza, puramente superficiale, di ordinamento democratico, lo Stato italiano ha conservato la sostanza e l'impalcatura di uno Stato dispotico (lo stesso dicasi della Francia).

Esiste un regime burocratico centralista, fondato sul sistema tirannico napoleonico, adatto ad opprimere e livellare ogni energia ed ogni movimento spontaneo.

La politica estera è arcisegreta; non solo non ne sono pubbliche le discussioni, ma nemmeno i patti sono conosciuti dagli interessati.

L'esercito era (fino alla guerra che ha fatto scoppiare necessariamente lo schema antiquato) di carriera, non la nazione armata.

C'è una religione di Stato, stipendiata, aiutata dallo Stato, e non la separazione laica e l'uguaglianza di tutti i culti.

Le scuole o mancano, o i maestri, scelti in un ristretto numero di bisognosi, data l'esiguità delle retribuzioni, sono impari allo scopo dell'educazione nazionale.

Il suffragio è rimasto ristretto fino alle ultime elezioni, ed anche oggi è ben lungi dal dare la capacità alla nazione di esprimere il suo volere.

Sussistono istituti feudali ancora vigorosi come il latifondo, inalienabile di fatto se non di diritto, gli usi civici, il fondo culti, che ha trasformato la dipendenza feudale dei beni di fronte alla Chiesa in un reddito sicuro e fuori da ogni alea.

La libera concorrenza, principio essenziale della borghesia capitalistica, non è ancora giunta a sfiorare le piú importanti attività della vita nazionale. Cosí avviene che le forme politiche siano semplici soprastrutture arbitrarie, senza efficacia, infeconde di risultati.

I poteri sono ancora confusi e interdipendenti, mancano i grandi partiti organizzati delle borghesie agraria e industriale [otto righe e un quarto censurate].

Non esiste quindi lo Stato di classe, in cui culmina l'efficacia del principio della libera concorrenza, coll'alternarsi al potere dei grandi partiti comprensivi di vasti interessi di categorie produttrici. È esistita la dittatura di un uomo, esponente degli interessi ristretti politici della regione piemontese, che, per tenere unita l'Italia, ha imposto all'Italia un sistema di dominazione coloniale accentrata e dispotica. Il sistema si sgretola, nuove forze borghesi sono sorte e si sono rafforzate, esse vogliono il riconoscimento per i loro interessi di potersi affermare e sviluppare. L'interventismo è la contingenza, il pacifismo è la contingenza, la guerra passerà; ciò che pericola per l'avvenire è lo Stato dispotico giolittiano, è il cumulo di interessi parassitari incrostatisi a questo vecchio Stato, è la vecchia borghesia infrollita che sente il suo superprivilegio minacciato da questo fermentare di giovinezza borghese che vuole il suo posto al governo, che vuole inserirsi nel giuoco della libera concorrenza politica, e la quale indubbiamente, dato che l'evoluzione non sia troncata da un fatto nuovo, svecchierà lo Stato, butterà via tutto il ciarpame tradizionale, perché lo Stato democratico non è un portato del buon cuore o della buona educazione, è una necessità di vita della grande produzione, degli scambi intensi, dell'addensarsi della popolazione nelle città moderne capitalistiche.

Il sottinteso48

Questi sono i termini della situazione storica. L'aggruppamento giolittiano, in venti anni di dittatura incontrollata, ha illuso con largizioni formali di libertà, ma ha consolidato, di fatto, lo Stato dispotico caro alla memoria di Emanuele Filiberto. L'arma del suo dominio, della sua dittatura, è caduta in mano all'aggruppamento avversario (non chiamiamo partito né l'uno né l'altro perché ambedue mancano di sagoma politica ed economica) e questo l'ha tenuta piú a lungo di quanto si credesse, e se ne serve, e la plasma per sé, e la rivolge contro gli antichi padroni. Se la lotta rimane di ceti, di aggruppamenti borghesi, dal cozzo furioso delle due parti nascerà lo Stato nuovo, liberale, si inizierà l'èra dei governi di partito, si costituiranno i grandi partiti, i piccoli dissidi spariranno, assorbiti dagli interessi superiori.

I giolittiani vogliono evitare il cozzo, non vogliono dare battaglia su grandi programmi istituzionali, che possono arroventare la temperie politica della nazione; il dio dei borghesi sa se la nazione ha bisogno di nuove arroventature e quali contraccolpi può avere nel proletariato un urto cosí formidabile. I giolittiani vogliono evitare il cozzo e risolvere nell'ambito parlamentare il problema che li assilla. Continuano cosí nella loro tradizione di rimpicciolire ogni grande problema, di estraniare il paese dalla vita politica, di evitare ogni controllo dell'opinione pubblica. I giolittiani sono in minoranza. Ed ecco i deputati socialisti in caccia di farfalle, ecco le sirene a cantare le nostalgiche ariette della libertà, del controllo parlamentare e della necessità di collaborare per muoversi, per agire, per uscire dall'inerzia.

Ed ecco La Stampa venire a rincalzo con gli articoli del «simpatizzante», il quale mette a servizio della cattiva causa la fresca cultura che manca purtroppo ai rappresentanti del proletariato nel Parlamento, e imprestar loro un «realismo», un hegelismo marxista che non hanno mai saputo cosa fosse. Ecco che gli intransigenti sono presentati come mistici sognatori, vacui astrattisti, e addirittura come stupidi, perché la loro concezione non sarebbe basata che sulla ipotesi semplicistica e gratuita che «i lavoratori torneranno dalle trincee, dopo la pace, con la deliberata volontà e la capacità politica di attuare il socialismo». L'intransigenza è presentata come inerzia mentale e politica; si accenna alleposizioni migliori che il proletariato potrebbe conquistare. E un sottinteso domina, sovrano, ammaliatore, affascinante per il fatto stesso che è inespresso, ma pare che i periodi secchi e nervosi ne diventino turgidi di misteriosi significati: è la risoluzione della guerra, il problema della pace che si vuole insinuare possa essere risolto da un pateracchio parlamentare. È il motivo dominante, questo che è taciuto. Si spera per esso, specialmente per esso, di creare nel proletariato uno stato d'animo di disagio intellettuale, un ottundimento del senso critico di classe che porti a una pressione sugli organi direttivi del partito e faccia ottenere, se non addirittura un consenso entusiastico e neppure freddo alla alleanza, per lo meno uno scioglimento provvisorio del gruppo parlamentare dall'obbligo della disciplina. Ciò che importa è l'azione parlamentare, il voto che faccia andare al potere i giolittiani. L'intervento diretto del proletariato viene esorcizzato: l'esempio della Russia e della miserevole fine della borghesia antizarista, travolta dall'ondata sopravveniente della furia popolare, spaventa queste anime pavide di democratici trogloditi, di parassiti, usi solo a rodere in segreto le casse dello Stato e a distribuire leggine e favori cosí come i frati distribuiscono brodo di lasagne alla pezzentaglia tignosa.

Realismo ed empirismo

La concezione che La Stampa impresta ai relativisti è puerile, in fondo, anche teoricamente. La collaborazione non può essere giustificata né con ragioni contingenti, né con teorizzazioni logiche. È un errore storico, ed è un errore logico.

Il realismo collaborazionista è puro empirismo. Sta all'intransigenza come un flebotomo sta ad Augusto Murri.

La storia — secondo La Stampa — mostra come il contrasto tra due tesi sociali — cioè l'antitesi di classe — siasi sempre risolto in una sintesi, dalla quale è alienata sempre una parte di ciò che fu e nella quale entra sempre piú ciò che sarà finché l'utopia, attraverso graduali trasformazioni, diventa realtà e accoglie nella sua forma una nuova corrispondente costituzione sociale.

La storia mostra ciò, è vero, ma non mostra che la «sintesi», «ciò che sarà», sia stato già fissato anteriormente per contratto. Anticipare la sintesi storica è arbitrio puerile, ipotecare il futuro con un contratto di classi è empirismo, non è senso vivo della storia. Con parole piú facili abbiamo fatto nel Grido scorso lo stesso ragionamento:

Dei fini massimi (utopia) una parte si attua quotidianamente (ciò che sarà); questa parte non è fissabile a priori perché la storia non è calcolo matematico; questa parte è il risultato dialettico delle attività sociali in continua concorrenza di fini massimi. Solo se questi fini massimi sono perseguiti col metodo dell'intransigenza, la dialettica è storia e non arbitrio puerile, è risultato solido, e non sbaglio, che bisogni disfare e correggere.

Per dirla piú facilmente ancora: l'intransigente e il relativista dicono ambedue: per far scoccare la scintilla bisogna battere l'acciarino contro la selce. Ma mentre l'intransigente sta per battere, il relativista dice: sta' buono, la scintilla l'ho io in tasca. Accende un fiammifero e aggiunge: ecco la scintilla che nascerebbe dall'urto ormai reso inutile. E accende il sigaro. Ma chi può prendere per senso hegeliano della storia, per pensiero marxistico un tale miserevole giuoco di bussolotti?

La funzione del proletariato

Come il Partito socialista, organizzazione della classe proletaria, non può entrare in concorrenza per la conquista del governo senza perdere il suo valore intrinseco e diventare uno sciame di mosche cocchiere, cosí non può collaborare con un ceto borghese organizzato parlamentare, senza far del male, determinando pseudo-fatti che dovranno essere disfatti e corretti. Il marasma politico che la collaborazione di classe determina è dovuto al dilatarsi spasmodico di un partito borghese, che oltre al detenere lo Stato, si serve anche della classe antagonista allo Stato, diventando un ircocervo, un mostro storico senza volontà e fini determinati, preoccupato solo del possesso dello Stato, al quale si incrosta come la ruggine. L'attività dello Stato si riduce a puro giure, alle composizioni formali dei dissidi, non intacca mai la sostanza; lo Stato diventa un carro zingaresco, che si regge a furia di tasselli e chiavi, ed è mastodontico su quattro piccole rotelline.

Il Partito socialista, se vuole rimanere e sempre piú diventare l'organo esecutivo del proletariato, deve osservare e far rispettare da tutti il metodo della piú feroce intransigenza. I partiti borghesi, se vogliono andare al governo, per la sola loro forza intrinseca, dovranno evolversi, mettersi a contatto col paese, porre fine ai loro dissidi particolaristici, acquistare una sagoma politica ed economica che li distingua. Se non vorranno, siccome nessun partito da solo è capace di reggersi, sorgerà una crisi perenne e pericolosa, in cui il proletariato, saldo e compatto, accelererà la sua ascesa e la sua evoluzione.

L'intransigenza non è inerzia, perché obbliga gli altri a muoversi ed operare. Essa è basata non su stupidaggini, come abilmente insinua La Stampa: è una politica di principi, è la politica del proletariato consapevole della sua missione rivoluzionaria di acceleratore della evoluzione capitalistica della società, di reagente che chiarifica il caos della produzione e della politica borghese, che costringe gli Stati moderni a continuare nella naturale loro missione di disgregatori degli istituti feudali che emergono ancora, dopo il naufragio delle vecchie società, impacciando la storia.

L'intransigenza è il solo modo di essere della lotta di classe. È il solo documento che la storia si sviluppa e crea valori solidi, sostanziali, non «sintesi privilegiate», sintesi arbitrarie, confezionate di comune accordo tra la tesi e l'antitesi che hanno fatto comunella insieme, come l'acqua e il fuoco di buona memoria.

Legge suprema della società capitalistica è la libera concorrenza tra tutte le energie sociali. I commercianti si contendono i mercati, i ceti borghesi si contendono il governo, le due classi si contendono lo Stato. I commercianti tendono a crearsi il monopolio attraverso la legge protettiva. I ceti borghesi vogliono, ognuno per sé, monopolizzare il governo, asservendo alla propria fortuna le energie incatenate della classe che è fuori della concorrenza governativa. Gli intransigenti sono liberisti. Non vogliono baroni né per gli zuccheri e il ferro, né per il governo. La legge della libertà deve integralmente operare; essa è intrinseca dell'attività borghese, è l'acido reattivo che ne scompone continuamente i quadri, obbligandoli a migliorarsi e perfezionarsi. Le grandi borghesie anglosassoni hanno acquistato l'attuale capacità produttiva attraverso questo giuoco implacabile della libera concorrenza. Lo Stato inglese si è evoluto, è stato svuotato dei suoi valori nocivi per il cozzo libero delle forze sociali borghesi che hanno finito per costituire i grandi partiti storici liberale e conservatore. Il proletariato ha guadagnato indirettamente da questo cozzo il pane a buon mercato, le libertà sostanziali, garantite dalla legge e dal costume di associazione, di sciopero, una sicurezza individuale che in Italia è un mito chimerico.

La lotta di classe non è un arbitrio puerile, un atto volontaristico: è necessità intima del regime. Turbarne il limpido corso, arbitrariamente, per sintesi prestabilite da fumatori impenitenti, è sbaglio puerile, è perdita secca nella storia. I partiti non giolittiani al potere, all'infuori del fatto guerra, che è contingenza, e che ormai supera la capacità politica delle classi dirigenti delle piccole nazioni, compiono inconsapevolmente opera di disgregazione dello Stato feudale, militaresco, dispotico, che Giovanni Giolitti ha perpetuato per farsene strumento di dittatura. I giolittiani sentono sfuggirsi il monopolio. Si muovano, per dio, lottino, chiamino il paese a giudicare. No, essi vogliono far muovere il proletariato, vogliono, meglio ancora, far votare i deputati socialisti.

L'intransigenza è inerzia, nevvero? Ma il movimento non è solo atto fisico, è anche intellettuale, anzi prima che fisico è sempre intellettuale, eccettuato che per le marionette. Togliete al proletariato la sua coscienza di classe: marionette, quanto movimento!

Cultura e lotta di classe49

La Giustizia di Camillo Prampolini, offre ai suoi lettori una rassegna delle opinioni espresse dai settimanali socialisti sulla polemica tra la direzione dell'Avanti! ed il gruppo parlamentare. L'ultimo capitolo della rassegna è spiritosamente intitolato Gli interpreti del proletariato e spiega:

La Difesa di Firenze e Il Grido di Torino, i due esponenti piú rigidi e culturali della dottrina intransigente, svolgono larghe considerazioni teoriche che ci è impossibile riassumere e che ad ogni modo sarebbe poco utile riprodurre, perché — quantunque quei due giornali affermino di essere genuini interpreti del proletariato e di avere con sé la grande massa — i nostri lettori non sarebbero abbastanza colti per capire il loro linguaggio.

E l'implacabile Giustizia, perché non si dica che «faccia della maligna ironia», riporta quindi due passi staccati di un articolo del Grido, per concludere: «Piú proletariamente chiari di cosí non si potrebbe essere».

Il compagno Prampolini ci offre lo spunto per trattare una questione di non piccolo momento nei riguardi della propaganda socialista.

Ammettiamo che l'articolo del Grido fosse il non plus ultra della difficoltà e della oscurità proletaria. Avremmo potuto scriverlo in altra maniera? Esso era di risposta a un articolo della Stampa, e nell'articolo della Stampa si faceva uso di un preciso linguaggio filosofico, che non era una superfluità né una posa, poiché ogni indirizzo di pensiero ha un suo particolare linguaggio e un suo particolare vocabolario. Nella risposta dovevamo rimanere nel dominio di pensiero dell'avversario, dimostrare che anche, anzi proprio per quell'indirizzo di pensiero (che è il nostro, che è l'indirizzo di pensiero del socialismo non acciabattone né fanciullescamente puerile), la tesi collaborazionistica era un errore. Per essere facili avremmo dovuto snaturare, impoverire un dibattito che versava su concetti di massima importanza, sulla sostanza piú intima e piú preziosa del nostro spirito. Far questo non è essere facili: significa frodare, tal quale il vinattiere che vende acqua tinta per barolo o lambrusco. Un concetto che sia difficile di per sé non può essere reso facile nell'espressione senza che si muti in una sguaiataggine. E d'altronde fingere che la sguaiataggine sia sempre quel concetto è da bassi demagoghi, da imbroglioni della logica e della propaganda.

Perché dunque Camillo Prampolini fa della facile ironia sugli «interpreti» del proletariato che non si fanno comprendere dai proletari? Perché il Prampolini, con tutto il suo buon senso e la sua praticoneria, è un astrattista. Il proletariato è uno schema pratico, nella realtà esistono i proletari singoli, piú o meno colti, piú o meno preparati dalla lotta di classe alla comprensione dei piú squisiti concetti socialisti. I settimanali socialisti s'adattano al livello medio dei ceti regionali ai quali si rivolgono; il tono degli scritti e della propaganda deve però sempre essere un tantino superiore a questa media perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale, perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall'indistinto generico delle rimasticature da opuscoletti, e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore della storia e del mondo in cui vive e lotta.

Torino è città moderna. L'attività capitalistica vi pulsa col fragore immane di officine ciclopiche che addensano in poche migliaia di metri quadrati diecine e diecine di migliaia di proletari. Torino ha piú di mezzo milione di abitanti; la umanità vi è divisa in due classi con caratteri di distinzione quali non esistono altrove in Italia. Non abbiamo democratici, non abbiamo riformistucci fra i piedi. Abbiamo una borghesia capitalistica audace, spregiudicata, abbiamo organizzazioni poderose, abbiamo un movimento socialista complesso, vario, ricco di impulsi e di bisogni intellettuali.

Crede il compagno Prampolini che a Torino i socialisti debbano fare la propaganda imboccando la zampogna pastorale, parlando idillicamente di bontà, di giustizia, di fraternità arcadica? Qui la lotta di classe vive in tutta la sua rude grandiosità, non è una finzione retorica, non è una estensione dei concetti scientifici e antiveggenti a fenomeni sociali ancora in germe e in maturazione.

Certo anche a Torino la classe proletaria si integra continuamente di nuovi individui, non elaborati spiritualmente, non capaci di comprendere tutta la portata dello sfruttamento cui sottostanno. Bisognerebbe per loro incominciare sempre dai primi princípi, dalla propaganda elementare. Ma, e gli altri? E i proletari già intellettualmente progrediti, già adusati al linguaggio della critica socialista? Chi bisogna sacrificare, a chi ci si deve rivolgere? Il proletariato è meno complicato di quanto può sembrare. Si è formata una gerarchia spirituale e culturale spontaneamente, e l'educazione scambievole opera là dove non può arrivare l'attività degli scrittori e dei propagandisti. Nei circoli, nei fasci, nelle conversazioni dinanzi all'officina si sminuzza, si propaga, resa duttile e plastica a tutti i cervelli, a tutte le culture, la parola della critica socialista. In un ambiente complesso e vario come è quello di una grande città industriale, si suscitano spontaneamente gli organi di trasmissione capillare delle opinioni che la volontà dei dirigenti non riuscirebbe mai a costituire e creare.

E noi si dovrebbe rimanere sempre alle georgiche, al socialismo agreste e idillico? Si dovrebbe sempre, con monotona insistenza, ripetere l'abecedario, dato che c'è sempre qualcuno che l'abecedario non conosce?

Ricordiamo appunto un vecchio professore di università, che da quarant'anni avrebbe dovuto svolgere un corso di filosofia teorica sull'«Essere evolutivo finale». Ogni anno incominciava una «scorsa» sui precursori del sistema, e parlava di Lao-tse, il vecchio-fanciullo, l'uomo nato a ottant'anni, della filosofia cinese. E ogni anno ricominciava a parlare di Lao-tse, perché nuovi studenti erano sopraggiunti, ed anche essi dovevano erudirsi su Lao-tse per bocca del professore. E cosí l'«Essere evolutivo finale» divenne una leggenda, una evanescente chimera, e l'unica realtà vivente, per gli studenti di tante generazioni, fu Lao-tse, il vecchio-fanciullo, il fantolino nato ad ottant'anni.

Cosí come succede per la lotta di classe nella vecchia Giustizia di Camillo Prampolini; anch'essa è una chimera evanescente, e ogni settimana è del vecchio-fanciullo che vi si scrive, che non matura mai, che non evolve mai, che non diventa mai l'«Essere evolutivo finale» che pure si aspetterebbe dover finalmente sbocciare dopo tanta lenta evoluzione, dopo tanta perseverante opera di educazione evangelica.

I giorni50

Incomincia a diventare popolare l'istituzione anglosassone dei «giorni». Si legge nei giornali della celebrazione in trincea del «giorno delle madri», della celebrazione, in Inghilterra o negli Stati Uniti, del «giorno dell'Italia», del «giorno dell'alleanza», del «giorno dell'Impero».

L'istituzione è simpatica. È schiettamente democratica, cioè capitalistica. Poiché i cittadini è meglio pensino il meno possibile durante gli affari e il lavoro, si è applicato il metodo Taylor al pensiero e ai ricordi. Per ogni movimento dello spirito, cosí come del corpo, il suo momento. Si stabilisce un calendario spirituale-politico-sociale. Invece di celebrare il martirio di S. Lorenzo, o le virtú di S. Zita, o i miracoli della madonna di Caravaggio, per un giorno intero si pensa alle madri lontane, oppure si riflette all'utilità politica di un'alleanza con l'Italia, o si gioisce per la grandezza dell'Impero di S. M. Britannica.

L'istituzione è simpatica. Del resto i lavoratori di tutto il mondo sono stati i primi a riconoscerla tale e da qualche decina d'anni hanno fatto entrare nella tradizione il «giorno del lavoro», il Primo Maggio. Perché non dovrebbero anche i borghesi accogliere altri giorni, o adottare l'istituzione agli e usi locali»? Sarebbe una prova di maturità economica e politica (ma forse appunto per questo non metterà radici tanto presto). Pensate infatti. Il regime economico scioglie tutti i vincoli che uniscono gli individui gli uni agli altri. Il lavoro d'officina, l'ufficio, il viaggiare per affari, il servizio militare, determinano un continuo spostarsi degli individui, rarefanno i contatti intellettuali, rendono nervose e saltellanti le conversazioni, gli scambi d'opinione. La società viene disgregata dall'azione dell'economia capitalistica, nei suoi organi morali e politici piú efficaci: la famiglia, il comune, la regione. Gli individui reagiscono a quest'azione dissolvente e stabiliscono le date fisse: in una domenica tra tutti gli individui di una nazione si disserta sull'amore familiare, su un problema istituzionale, su una questione di politica internazionale. Risuscita, a data fissa, la comunione spirituale, la società che il regime ha dissolto; risuscita ampliata, con orizzonti piú vasti, ricca di valori nuovi. In queste creazioni della civiltà capitalistica c'è indubbiamente una grandezza che impone rispetto: rispetto che vorremmo fosse sentito per il «giorno del lavoro» che celebrato in tutto il mondo dà già una misura per il paragone di grandezze tra l'Impero borghese e l'Internazionale socialista.

L'istituzione non si radicherà subito fra la borghesia italiana, ma perché non potrebbe diffondersi per opera del proletariato? Quale efficacia non avrebbe per la propaganda il giorno della Rivoluzione russa, il giorno del proletariato inglese, tedesco, francese, americano, ecc., il giorno dei contadini, il giorno delle donne, ecc.?

Sapere che nello stesso momento tante folle pensano allo stesso argomento, si comunicano riflessioni e giudizi sul medesimo problema, amplia la visione della vita, accresce l'intensità e l'efficacia del pensiero. Il proletariato anticipa i momenti storici attraverso i quali la società borghese deve passare. La sofferenza acuisce la fantasia e provoca la visione drammatica del mondo futuro nelle sue manifestazioni di solidarietà e comunione, degli spiriti e del pensiero, e qualcuna di queste manifestazioni può incominciare a riprodursi già ora, pur nell'ambiente avverso. Sono esse come le palafitte della città nuova che il proletariato getta fin d'ora nella melma viscida della palude presente.

Fiorisce l'illusione51

L'intransigenza non è solo un metodo esteriore che i partiti politici applicano nella lotta politica. Essa è in dipendenza di una visione realistica della storia e della vita politica, corrisponde a una determinata cultura, a un determinato indirizzo mentale e morale.

Attraverso il serrato giuoco della lotta di classe, come attraverso lo svolgersi delle relazioni internazionali tra Stato e Stato, o delle relazioni, nel seno di una nazione, dei vari gruppi che formano una classe, lo spirito si educa a riconoscere che solo la forza (sia meccanica che morale) è l'arbitra suprema dei contrasti. Divenuto consapevole di questa verità originaria, lo spirito critico la accetta come necessità ineluttabile, fa di essa la base di ogni suo ragionamento, e scaccia, come inferiori, come privi di ogni fecondo risultato, tutti gli elementi che non rientrino in quella verità, che non servano a darle efficienza umana, a farla diventare motivo di storia, perché incarnatasi negli individui che vivono e lottano.

I socialisti (e parliamo di quelli che del socialismo hanno fatto tutt'uno con la loro vita interiore, di quelli nei quali l'idea socialista ha fecondato tutte le attività, quelle intellettuali, quelle morali e quelle estetiche) si propongono sul serio il fine di instaurare la civiltà comunista. A questo fine subordinano tutte le azioni loro, per questo fine si educano, per questo fine intrecciano relazioni col mondo in cui sono immersi. I loro affetti, i loro sentimenti, gli echi inconsci dell'istinto, vengono subordinati continuamente da loro a questo fine. Si preoccupano di trovar sempre e di mettere in chiarezza uno stretto legame tra ogni atto che compiono e questo fine, una dipendenza necessaria tra ogni atto e questa loro indomabile volontà. Non vogliono essere imbroglioni in politica come non vogliono esserlo nella vita privata, non vogliono essere dilettanti nella fede socialista come non vogliono esserlo negli studi, nell'arte, nel mestiere che professano.

Per questi socialisti l'intransigenza è tutt'uno con la serietà morale ed il galantomismo.

Vogliono essere forti per vincere: vogliono che il partito al quale aderiscono, la classe alla quale appartengono siano forti per vincere. La classe, come fatto economico, si afforza all'infuori delle volontà individuali: essa nasce da una fonte naturale, che è il regime borghese, che è il sistema di produzione a salario, basato sulla libera concorrenza. Ma la forza della classe, in quanto fatto economico, in quanto effetto di una causa obiettiva, non è un valore politico. Perché tale diventi bisogna che questa forza si organizzi, si disciplini in vista di un fine politico da raggiungere. Il Partito socialista rappresenta l'organo di conquista di questo fine, l'elaboratore delle forme e dei modi attraverso i quali la classe conquisterà la vittoria. Perché il partito sia, tale, perché esso operi veramente e trasformi e organizzi le forze sociali, è necessario che sia tutt'uno con la classe economica, che attinga solo alle energie e alla potenza della classe economica. Perché esso ampli la sfera della sua azione, diventi elemento d'ordine del caos ancora esistente — poiché l'evoluzione economica non è ancora arrivata al suo culmine, e l'umanità non è nettamente e coscientemente divisa in due classi — è necessario che il partito tenga distinta la sua individualità finalistica, che sempre, anche nelle questioni in apparenza trascurabili, metta in rilievo la sua personalità inconfondibile. Solo cosí organizzerà intorno a sé le forze classiste che disordinatamente il regime ha prodotto e continua a produrre senza posa.

L'intransigenza è perciò anche una necessità democratica. La chiarezza sola, la sola azione rettilinea può essere seguita e giudicata dalla grande massa che costituisce la classe già organizzata o ancora in tumultuosa formazione.

Cosí pensano i socialisti che hanno una visione netta e reale dello svolgersi della storia, i socialisti che sono veramente tali in quanto mirano sempre al fine massimo da raggiungere, che hanno viva fede, che hanno chiara volontà. Essi non si preoccupano del successo vistoso momentaneo: non sono demagoghi, non cercano di suscitare illusioni fallaci, non cercano di pescare nel torbido dei sentimentalismi e dei dolori piú cocenti per distogliere l'attenzione dal fine massimo per il quale solo si deve combattere, al quale sono e non possono essere che subordinate tutte le conquiste immediate.

L'illusione cerca di fiorire: l'utopia parlamentare (utopia in quanto all'azione parlamentare si pone un fine sproporzionato alle forze e alla capacità) traccia il cerchio magico dell'incanto allucinante. Ogni uomo al suo posto, ogni energia alla sua funzione. Non lasciamoci travolgere dall'illusione e dalla demagogia, non fingiamo di credere che una piccola forza possa ottenere un grande successo. Non perdiamo il contatto, per questa illusione, con la forza grande della classe, che sola può ottenere quel grande successo. Essa cerchiamo di meglio organizzare spiritualmente, di meglio educare al fine nostro, senza presunzioni grottesche, ma anche senza abdicazioni pavide; e senza illudere e illuderci, onestamente, ci avvicineremo al nostro fine e coglieremo i frutti immediati della nostra tenacia, gli unici frutti che possono esserci consentiti finché non saremo i piú forti, i quali anche perderemo, deflettendo dalla nostra linea d'azione, poiché sola conquista reale è quella che dipende dalla forza, che può essere difesa e conservata con la forza.

La politica del «se»52

La politica del «se» ha molti seguaci in Italia; si può dire anzi che la maggioranza dei cittadini italiani che fanno professione di fede politica, che discutono i problemi della vita pubblica, nazionali o internazionali, non hanno altro criterio direttivo che il «se»; e se ne trovano bene, perché il «se» esime dal pensare e dallo studiare.

La politica del «se» consiste nel non tener conto alcuno delle forze sociali organizzate, nel non dare importanza alcuna alle responsabilità legittime, liberamente accettate nell'assumere un potere, nel trascurare la ricerca della funzione, dei modi in cui si svolge l'attività economica e delle conseguenze necessariamente determinate da questi speciali modi nei rapporti culturali e di convivenza sociale. La politica del «se» non è pertanto che dominio della pigrizia mentale nei semplici cittadini che fingono di controllare i poteri responsabili e le energie libere operanti nella vita del paese, ed è dominio dell'irresponsabilità nei cittadini troppo leggermente sobbarcatisi alla responsabilità del potere; per essa infatti si trascurano le forze permanentemente attive nello svolgersi degli eventi umani e che continuano ad operare nonostante tutti i bei discorsi, e si ferma invece l'attenzione sul transeunte, sull'occasionale o su una energia libera che nella realtà ha importanza limitata. E si procede per ipotesi: «se» Tizio non avesse detto, «se» Caio avesse fatto, «se» il gruppo X avesse sostenuto questa verità sacrosanta... e cosí via.

La politica del «se» è una prova dell'incapacità a comprendere la storia e pertanto anche una prova della incapacità a fare la storia.

Un ex ministro pubblica un opuscolo che ha la pretesa di essere un contributo alla storia scientifica di un periodo oscuro e doloroso della vita nazionale italiana, e ha la pretesa di essere uno stimolo pedagogico per l'attualità. Nell'opuscolo non si accenna neppure all'attività svolta dal governo del tempo per disciplinare le energie della nazione, per rivolgere utilmente ed efficacemente i mezzi dello Stato al raggiungimento di un certo bene o all'allontanamento di un certo male: il governo sembra non esistesse in quel tempo, sembra che in quel tempo lo Stato non fosse quella suprema organizzazione di tutta la vita pubblica che esso invece è, ed è con gravi responsabilità per gli uomini che lo dirigono. Avviene cosí che in questo opuscolo la causa degli avvenimenti è tutta riposta nella buona o perversa volontà di individui irresponsabili; piccoli episodi, di valore puramente aneddotico, vengono dilatati artificiosamente e si ha l'impressione che il paese non fosse allora un organismo disciplinato dai poteri, ma fosse un aggregato meccanico di tribú barbariche, sempre in piazza a danzare intorno a un feticcio e le quali si precipitavano da un lato o dall'altro disordinatamente e incoerentemente, a seconda che la volontà misteriosa del feticcio veniva interpretata da un pazzo malvagio, da un pazzo melanconico o da un pazzo miracolosamente ragionante.

E fu giusta l'acuta riflessione di un cittadino che dopo aver letto l'opuscolo e aver constatato queste deficienze concluse: l'ex ministro non tiene conto del governo, dello Stato, dei poteri responsabili nel descrivere la storia del passato, perché il governo di cui ha fatto parte fu assente dalla vita pubblica; l'ex ministro non concepisce l'importanza sovrana dello Stato nello svolgersi degli eventi passati perché lo Stato, quando egli fu al potere, non aveva alcuna importanza per l'inettitudine dei responsabili.

Il messianismo giacobino

Questa incapacità a comprendere la storia e quindi a farla attualmente attraverso la lotta politica, è in dipendenza con un indirizzo di cultura e una tradizione politica nati in Francia nel secolo XVIII, e che hanno avuto la prima e piú significativa espressione nel giacobinismo della rivoluzione borghese dell'89.

Il giacobinismo è una visione messianica della storia; esso parla sempre per astrazioni, il male, il bene, l'oppressione, la libertà, la luce, le tenebre che esistono assolutamente, genericamente e non in forme concrete e storiche come sono gli istituti economici e politici nei quali la società si disciplina attraverso o contro i quali si sviluppa: lo Stato cioè, variamente organizzato a seconda dei rapporti di sommessione o di indipendenza che intercedono tra i poteri responsabili (il sovrano e il governo, il parlamento e la magistratura), lo Stato che è costituito in modo da permettere facilmente un ulteriore sviluppo della società verso forme superiori di libertà e responsabilità sociale, o è un aggregato parassitario di individui e gruppi che ne rivolgono a proprio beneficio le energie, e con lo Stato le organizzazioni libere sorte come affermazione di interessi legittimi delle classi e dei ceti economici e politici.

Il giacobinismo astrae da queste forme concrete della società umana che operano permanentemente sullo svolgersi degli eventi, e pone la storia come un contratto, come la rivelazione di una verità assoluta che si realizza perché un certo numero di cittadini di buona volontà si sono messi d'accordo, hanno giurato di portare a realtà il pensiero. Cosí concepita la storia è una lunga serie di disillusioni, di rimbrotti, di richiami, di «se». Se gli avvenimenti non si svolgono secondo lo schema prestabilito, si grida al tradimento, alla defezione, si suppone che perverse volontà ne abbiano attraversato il «naturale» decorso. E il giacobinismo trae dal suo spirito messianico, dalla sua fede nella verità rivelata, la pretesa politica di sopprimere violentemente ogni opposizione, ogni volontà che rifiuti di aderire al contratto sociale. E si cade nelle contraddizioni, cosí comuni nei regimi democratici, tra le professioni di fede inneggianti alla libertà piú sconfinata e la pratica di tirannia e di intolleranza brutale.

Il giacobinismo politico, se può essere innocuo fintantoché rimane pura forma mentale, è dannoso allo sviluppo della storia e delle forme concrete che disciplinano la società, quando riesce a imporsi politicamente e a diventare il datore della cultura. Esso disabitua i cervelli dallo studio serio, dalla seria ricerca delle fonti permanentemente vive delle ingiustizie, dei mali, delle oppressioni, dissolve le associazioni sorte per operare secondo una nozione esatta della realtà e produrre quindi conseguenze utili, teglie il senso della responsabilità sociale, rende vana ogni critica, perché la critica rivolge la sua ricerca non al concreto ma ai fantasmi fluttuanti della contingenza piú svaporata.

Contro questo indirizzo di cultura, contro la concezione della storia che si esaurisce nei «se», ha reagito vigorosamente la critica marxista; ma si è ben lungi dall'aver raggiunto una cultura critica diffusa che efficacemente si opponga a questo deleterio imperversare dei cani urlanti alla luna.

Il messianismo culturale

Il messianismo giacobino è completato dal messianismo culturale, che in Italia è rappresentato da Gaetano Salvemini ed ha fatto nascere dei movimenti ideali, quali in passato quello della Voce e attualmente quello dell'Unità, rassegna di discussione dei problemi della vita italiana diretta dal Salvemini e dall'on. De Viti de Marco.

Il messianismo culturale ha sviluppato della tradizione rivoluzionaria francese la corrente liberale. Anch'esso attende al culto della verità, ma il culto professa non al modo dei cattolici, ma al modo dei protestanti; con grande tolleranza, con infinita fede nell'efficacia della discussione e della propaganda, con molta tenacia e coraggio alimentato dalla persuasione che la maggioranza degli uomini è formata di individui fondamentalmente onesti e retti che sono preda e vittime dell'ignoranza, o di una confusa nozione dei loro reali interessi e dei fini che piú utilmente si dovrebbero perseguire.

Questo indirizzo, cosí simpatico, cosí attraente per un infinito numero di ragioni, rientra anch'esso nella corrente politica del «se». Il messianismo culturale astrae anch'esso dalle concrete forme della vita economica e politica, pone anch'esso un assoluto fuori del tempo e dello spazio, è fenomeno di indisciplina e di disorganizzazione sociale, finisce col diventare un'utopia, col creare dei dilettanti e dei leggeri irresponsabili.

L'Unità infatti studia i problemi della vita pubblica nazionale e internazionale con accuratezza, con scrupolo scientifico; è una mirabile esperienza di scuola libera per i cittadini che vogliono avere informazioni controllate, che vogliono avere la sicurezza di non essere truffati dagli scrittori cui si rivolgono per avere suggerimenti, stimoli a coordinare il pensiero pratico, indirizzi per giudicare rettamente gli avvenimenti. Ma a chi si rivolge l'Unità? A quali energie sociali organizzate coordina la sua attività di cultura? A tutti genericamente e a nessuno praticamente. La sua operosità si inizia con un «se» formidabile, che dissolve ogni efficacia reale dell'operosità stessa: se... tutti facessero come noi, se... tutti si impadronissero degli esatti termini di un problema cosí rapidamente come noi facciamo, e contemporaneamente a noi. La realtà invece è che un paese, e specialmente l'Italia per le particolari condizioni intellettuali del suo popolo, è diversamente preparato nei singoli individui, e solo dopo uno sforzo assiduo, paziente, di diecine d'anni, una determinata idea riesce a diffondersi efficacemente negli organismi liberamente costituiti, che liberamente accettano un indirizzo e liberamente operano in comunione.

Salvemini crede al «contratto sociale», crede alla possibilità degli accordi fulminei di un certo numero di persone, disperse in un grande territorio, e poiché questi accordi fulminei non si verificano o tardano a verificarsi, egli presuppone la coda del diavolo, l'influsso malefico di volontà perverse, che finisce con l'identificare coi «dirigenti», i cui nomi egli solo conosce e che demagogicamente vengono segnati all'esecrazione universale.

Una «verità» travisata

L'Unità ha sermoneggiato Il Grido e il Partito socialista in genere per una frase apparsa in queste colonne: «l'atteggiamento del Partito socialista ha indubbiamente giovato a quel poco di fortuna che hanno avuto le soluzioni democratiche che il gruppo dell'Unità propugna per i problemi nazionali».

L'Unità ci accusa di volere usurpare i suoi meriti, con molto spirito ricorda il «venerabile compagno Greulich», parla di sagrestani e cardinali del socialismo, ricorda le nostre responsabilità per Caporetto, le quali se sono «in proporzioni assai minori che i socialisti credono (!)» non pertanto risulterebbero terribili se la frase del Grido volesse dire che i socialisti «lavorando a provocare quelle sventure hanno lavorato a rendere necessari certi provvedimenti». Strano modo di concepire le responsabilità, se esse diminuiscono e si ampliano per virtú di una frase staccata.

Il Salvemini è, anche in questo particolare caso, vittima del suo messianismo culturale.

Perché egli confonde la fortuna che la soluzione di un problema può avere idealmente e la fortuna che la stessa soluzione avrà politicamente.

La soluzione salveminiana del problema adriatico è tutt'altro che accettata. Si è solamente ottenuto il permesso di discuterla e diffonderla, si è ottenuto solo ciò che dovrebbe essere condizione permanente della vita politica in un paese liberale. Perché essa venga tradotta in realtà, diventi fatto politico, è necessario che sia fatta propria da una energia sociale organizzata. Esiste in Italia una forza politica capace di far ciò? Capace di assumere la responsabilità del potere, se ciò fosse necessario, per attuare questa soluzione?

Risolverlo nella sua integrità democratica significa imprimere un determinato indirizzo alla vita nazionale, perché esso dipende da una concezione vasta secondo la quale anche altri problemi devono essere risolti coordinatamente.

Forze organizzate di tal genere in Italia non esistono all'infuori del Partito socialista e dello Stato. Il Partito socialista risolverebbe il problema socialisticamente, coordinandolo alle soluzioni degli altri problemi, secondo la sua «giustizia» [una riga censurata].

Rimane lo Stato, il governo, che spontaneamente non farà propria la soluzione salveminiana, ma può adottarla empiricamente per imposizione esteriore. E questa imposizione, indirettamente, solo il Partito socialista può esercitarla, finché esso rappresenta una opposizione minacciosa. Tra il programma di Zimmerwald [una riga censurata] e le soluzioni imperialistiche, c'è la probabilità che il governo, per comporre l'insanabile dissidio, adotti la soluzione democratica. L'esistenza di questa probabilità spiega la poca fortuna che Salvemini ha avuto, ed essa è condizionata dall'atteggiamento intransigente del Partito socialista. Ciò significa la frase del Grido, e il significato balzava da tutto il contesto.

Salvemini vi ha trovato un motivo per sermoneggiare, per ripetere i suoi luoghi comuni sui cardinali e i sagrestani, sul pervertimento morale e intellettuale dei socialisti che avrebbero «dissociata sistematicamente in tutta la loro propaganda l'idea della pace dall'idea di giustizia».

Perché Salvemini dissocia l'idea di giustizia dall'idea di garanzia (e unica garanzia per i socialisti è la dittatura del proletariato internazionale), dissocia l'idea di cultura politica da quella di organizzazione economica e politica, dissocia l'idea di azione e di efficacia dell'azione dal fatto delle condizioni generali di cultura e di forza. Gli rimane la passione messianica che lo fa rientrare tra i politici del «se», che lo rende inconsapevolmente elemento di indisciplina e di disordine.

Utopia53

Le Costituzioni politiche sono necessariamente dipendenti dalla struttura economica, dalle forme di produzione e di scambio. Con la semplice enunciazione di questa formula molti credono di aver risolto ogni problema politico e storico, credono di essere in grado di impartire lezioni a destra e a mancina, di poter senz'altro giudicare gli avvenimenti e concludere per esempio: Lenin è un utopista, gli infelici proletari russi vivono in piena illusione utopistica, un terribile risveglio li attende implacabile.

La verità è che non esistono due Costituzioni politiche uguali fra di loro, cosí come non esistono due uguali strutture economiche. La verità è che la formula non è affatto la secca espressione di una legge naturale che subito salti agli occhi. Tra la premessa (struttura economica) e la conseguenza (Costituzione politica) i rapporti sono tutt'altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata solo dai fatti economici. Lo snodarsi della causazione è complesso e imbrogliato, e a districarlo non giova che lo studio approfondito e diffuso di tutte le attività spirituali e pratiche, e questo studio è possibile solo dopo che gli avvenimenti si sono assestati in una continuità, cioè molto, ma molto tempo dopo l'accadimento dei fatti. Lo studioso può affermare con sicurezza che una certa Costituzione politica non si affermerà vittoriosa (non durerà permanentemente), se non aderisce indissolubilmente e intrinsecamente a una determinata struttura economica, ma la sua affermazione non ha altro valore che di indizio generico; mentre i fatti si svolgono come potrebbe egli infatti sapere in che preciso modo questa dipendenza si stabilirà? Le incognite sono piú numerose dei dati accertati e controllabili, e ognuna di queste incognite può rovesciare una induzione avventata. La storia non è un calcolo matematico: non esiste in essa un sistema metrico decimale, una numerazione progressiva di quantità uguali che permetta le quattro operazioni, le equazioni e le estrazioni di radici: la quantità (struttura economica) vi diventa qualità poiché diventa strumento di azione in mano agli uomini, agli uomini che non valgono solo per il peso, la statura, la energia meccanica che possono sviluppare dai muscoli e dai nervi, ma valgono specialmente in quanto sono spirito, in quanto soffrono, comprendono, gioiscono, vogliono o negano. In una rivoluzione proletaria la incognita «umanità» è piú oscura che in qualunque altro avvenimento: la spiritualità diffusa del proletariato russo, come degli altri proletariati in genere, non è stata mai studiata, e forse era impossibile studiarla. Il successo o l'insuccesso della rivoluzione potrà darci un documento attendibile della sua capacità a creare la storia: per ora non è dato che aspettare.

Chi non aspetta, ma vuol subito fissare un giudizio definitivo, si propone altri scopi: scopi politici attuali, da raggiungere tra gli uomini ai quali si rivolge la sua propaganda. L'affermare che Lenin è un utopista non è un fatto di cultura, non è un giudizio storico: è un atto politico attuale. L'affermare, cosí seccamente, che le Costituzioni politiche, ecc., ecc., non è un fatto dottrinario, è il tentativo di suscitare una certa mentalità, perché l'azione si diriga in un modo piuttosto che in un altro.

Nessun atto rimane senza risultati nella vita, e il credere in una piuttosto che in un'altra teoria ha i suoi particolari riflessi sull'azione: anche l'errore lascia tracce di sé, in quanto divulgato e accettato può ritardare (non certo impedire) il raggiungimento di un fine.

È questa una prova che non la struttura economica determina direttamente l'azione politica, ma l'interpretazione che si dà di essa e delle cosí dette leggi che ne governano lo svolgimento. Queste leggi non hanno niente di comune con le leggi naturali, sebbene anche queste non siano obiettivi dati di fatto, ma solo costruzioni del nostro pensiero, schemi utili praticamente per comodità di studio e di insegnamento.

Gli avvenimenti non dipendono dall'arbitrio di un singolo, e neppure da quello di un gruppo anche numeroso: dipendono dalle volontà di molti, le quali si rivelano dal fare o non fare certi atti e dagli atteggiamenti spirituali corrispondenti, e dipendono dalla consapevolezza che una minoranza ha di queste volontà, e dal saperli piú o meno rivolgere a un fine comune dopo averle inquadrate nei poteri dello Stato.

Perché gli individui, nella loro maggioranza, compiono solo determinati atti? Perché essi non hanno altro fine sociale che la conservazione della propria integrità fisiologica e morale: cosí è che si adattano alle circostanze, ripetono meccanicamente alcuni gesti i quali, per la esperienza propria o per l'educazione ricevuta (risultato delle esperienze altrui), si sono dimostrati idonei a raggiungere il fine voluto: poter vivere. Questa rassomiglianza di atti della maggioranza produce una somiglianza di effetti, dà all'attività economica una certa struttura: nasce il concetto di legge. Solo il perseguire un fine maggiore corrode questo adattamento all'ambiente: se il fine umano non è più il puro vivere, ma il vivere qualificato, si compiono degli sforzi maggiori, e a seconda della diffusione del fine umano superiore si riesce a trasformare l'ambiente, si instaurano nuove gerarchie, diverse da quelle esistenti per regolare i rapporti tra i singoli e lo Stato, tendenti a sostituirsi permanentemente a queste per la realizzazione diffusa del fine umano superiore.

Chi pone queste pseudo-leggi come qualcosa di assoluto, di estraneo alle volontà singole, e non come un adattamento psicologico all'ambiente, dovuto alla debolezza dei singoli (al non essere organizzati e quindi all'incertezza del futuro), non può immaginare che la psicologia possa mutare, che la debolezza possa diventare forza. Eppure cosí avviene, e la legge, la pseudo-legge si frange. Gli individui escono dalla loro solitudine e si associano. Ma come avviene questo processo associativo? Anche esso non si riesce a concepirlo che alla stregua della legge assoluta, della normalità, e quando — per il tardo ingegno o per il pregiudizio — la legge non salta agli occhi subito, si giudica e si manda: utopia, utopisti.

Lenin è dunque un utopista, il proletariato russo, dal giorno della rivoluzione bolscevica ad oggi, vive in piena utopia e un terribile risveglio lo attende implacabile.

Se alla storia russa si applicano gli schemi astratti, generici, costruiti per poter seguire i momenti dello sviluppo normale dell'attività economica e politica del mondo occidentale, l'illazione non può essere altra che questa. Ma ogni fenomeno storico è «individuo»; lo sviluppo è governato dal ritmo della libertà; la ricerca non deve essere di necessità generica, ma di particolare necessità. Il processo di causazione deve essere studiato instrinsecamente agli avvenimenti russi, non da un punto di vista generico e astratto.

Negli avvenimenti di Russia esiste indubbiamente il rapporto di necessità, ed è un rapporto di necessità capitalistica: la guerra è stata la condizione economica, il sistema di vita pratica che ha determinato lo Stato nuovo, che ha sostanziato di necessità la dittatura del proletariato: la guerra che la Russia arretrata ha dovuto combattere nelle stesse forme degli Stati capitalistici piú progrediti.

Nella Russia patriarcale non potevano avvenire quegli addensamenti di individui che avvengono in un paese industrializzato, e che sono la condizione perché i proletari si conoscano tra loro, si organizzino e acquistino consapevolezza della propria potenza di classe da rivolgere a un fine umano universale. Un paese ad agricoltura estensiva isola gli individui, rende impossibile la consapevolezza uguale e diffusa, rende impossibili le unità sociali proletarie, la coscienza concreta di classe che dà la misura della propria forza e la volontà di instaurare un regime legittimato permanentemente da quella forza.

La guerra è la massima concentrazione dell'attività economica nelle mani di pochi (i dirigenti dello Stato); e le corrisponde la massima concentrazione di individui nelle caserme e nelle trincee. La Russia in guerra era davvero il paese di utopia: con uomini da invasione barbarica lo Stato ha creduto di poter fare una guerra di tecnica, di organizzazione, di resistenza spirituale, quale poteva dare solo un'umanità rinsaldata cerebralmente e fisicamente dall'officina e dalla macchina. La guerra era l'utopia, e la Russia zarista patriarcale si è sfasciata sotto l'altissima tensione dello sforzo impostosi e impostole dal nemico agguerrito. Ma le condizioni suscitate artificialmente, per l'immane potenza dello Stato dispotico, hanno prodotto le conseguenze necessarie: le grandi masse degli individui socialmente solitari, accostate, addensate in piccolo spazio geografico, hanno sviluppato sentimenti nuovi, hanno sviluppato una solidarietà umana inaudita. Quanto piú si sentivano deboli prima, nell'isolamento, e si piegavano al dispotismo, tanto piú grande fu la rivelazione della forza collettiva esistente, tanto piú prepotente e tenace il desiderio di conservarla, e di costruire su di essa la società nuova.

La disciplina dispotica si liquefece: un periodo di caos subentrò. Gli individui cercavano di organizzarsi, ma come? e come conservare l'unità umana creatasi nella sofferenza?

Il filisteo si fa avanti e risponde: la borghesia doveva ricondurre l'ordine nel caos, perché cosí sempre è successo, perché all'economia patriarcale e feudale succede sempre l'economia borghese e la Costituzione politica borghese. Il filisteo non vede salvezza fuori degli schemi prestabiliti, non concepisce la storia che come un organismo naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo. Se tu semini una ghianda, sei sicuro che non può nascere altro che un germoglio di quercia, che lentamente cresce, e solo dopo un certo numero d'anni darà i frutti. Ma la storia non è un querceto, e gli uomini non sono ghiande.

Dov'era in Russia la borghesia capace di adempiere questo compito? E se il suo dominio è una legge naturale, come mai la legge non ha funzionato?

Questa borghesia non si è rivelata: pochi borghesi hanno cercato di imporsi e furono travolti. Dovevano vincere, dovevano imporsi anche se pochi, incapaci e deboli? Ma di quale santo crisma erano stati dunque unti gli infelici per dover trionfare anche perdendo? Il materialismo storico è dunque solo una reincarnazione del legittimismo, del diritto divino?

Chi trova Lenin utopista, chi afferma che il tentativo della dittatura proletaria in Russia è un tentativo utopistico, non può esser socialista consapevole, non costruí la sua cultura studiando la dottrina del materialismo storico: è un cattolico, è impaludato nel Sillabo. Egli è il solo e autentico utopista.

L'utopia consiste infatti nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti. L'utopia è il filisteismo, quale lo sbeffeggia Enrico Heine: i riformisti sono i filistei e gli utopisti del socialismo, come i protezionisti e i nazionalisti sono i filistei e gli utopisti della borghesia capitalistica. Enrico von Treitschke è l'esponente massimo del filisteismo tedesco (gli statolatri tedeschi ne sono i figli spirituali), come Augusto Comte e Ippolito Taine rappresentano il filisteismo francese, e Vincenzo Gioberti quello italiano. Sono quelli che predicano le missioni storiche nazionali, o credono alle vocazioni individuali, sono tutti quelli che ipotecano il futuro e credono imprigionarlo nei loro schemi prestabiliti, che non concepiscono la divina libertà, e gemono continuamente sul passato perché gli avvenimenti si sono svolti male.

Non concepiscono la storia come sviluppo libero — di energie libere, che nascono e si integrano liberamente — diverso dall'evoluzione naturale, come l'uomo e le associazioni umane sono diversi dalle molecole e dagli aggregati di molecole. Non hanno imparato che la libertà è la forza immanente della storia, che fa scoppiare ogni schema prestabilito. I filistei del socialismo hanno ridotto la dottrina socialista a uno strofinaccio del pensiero, l'hanno insozzata e s'infuriano buffamente contro chi, a loro parere, non la rispetta.

In Russia la libera affermazione delle energie individuali e associate ha schiantato gli ostacoli delle parole e dei piani prestabiliti. La borghesia ha cercato di imporre il suo dominio ed ha fallito. Il proletariato ha assunto la direzione della vita politica ed economica e realizza il suo ordine. Il suo ordine, non il socialismo, perché il socialismo non s'esprime con un fiat magico: il socialismo è un divenire, uno sviluppo di momenti sociali sempre piú ricchi di valori collettivi. Il proletariato realizza il suo ordine, costituendo istituti politici che garantiscano la libertà di questo sviluppo, che assicurino la permanenza del suo potere.

La dittatura è l'istituto fondamentale che garantisce la libertà, che impedisce i colpi di mano delle minoranze faziose. È garanzia di libertà perché non è un metodo da perpetuare, ma permette di creare e solidificare gli organismi permanenti in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione.

Dopo la rivoluzione la Russia non era ancora libera, perché non esistevano le garanzie della libertà, perché la libertà non era stata ancora organizzata.

Il problema era di suscitare una gerarchia, ma che fosse aperta, che non potesse cristallizzarsi in ordine di casta e di classe.

Dalla massa, dal numero si doveva arrivare all'uno, in modo che esistesse una unità sociale, che l'autorità fosse solo autorità spirituale.

I nuclei vivi di questa gerarchia sono i Soviet e i partiti popolari. I Soviet sono l'organizzazione primordiale da integrare e sviluppare e i bolscevichi diventano il partito del governo perché sostengono che i poteri dello Stato devono dipendere ed essere controllati dai Soviet.

Il caos russo si rapprende intorno a questi elementi d'ordine: incomincia l'ordine nuovo. Una gerarchia si costituisce: dalla massa disorganizzata e sofferente si passa agli operai e contadini organizzati, ai Soviet, al partito bolscevico e all'uno: Lenin. È la gradazione gerarchica del prestigio e della fiducia, che si è formata spontaneamente, che si mantiene per libera elezione.

Dov'è l'utopia in questa spontaneità? Utopia è l'autorità, non la spontaneità, ed è utopia in quanto diventa carrierismo, diventa casta, e presume essere eterna: la libertà non è utopia perché aspirazione primordiale, perché tutta la storia degli uomini è lotta e lavoro per suscitare istituti sociali che garantiscano il massimo di libertà.

Formatasi questa gerarchia essa sviluppa la sua logica. I Soviet e il partito bolscevico non sono organismi chiusi: si integrano continuamente. Ecco il dominio della libertà, ecco le garanzie della libertà. Non sono caste, sono organismi in continuo sviluppo. Rappresentano la progressione della consapevolezza, rappresentano l'organizzabilità della società russa.

Tutti i lavoratori possono far parte dei Soviet, tutti i lavoratori possono influire nel modificarli e renderli meglio espressivi delle loro volontà e dei loro desideri. La vita politica russa è indirizzata in modo che tende a coincidere con la vita morale, con lo spirito universale della umanità russa. Avviene uno scambio continuo tra queste tappe gerarchiche: un individuo grezzo si affina nella discussione per la elezione del suo rappresentante al Soviet, egli stesso può essere il rappresentante; egli controlla questi organismi perché li ha sempre sotto gli occhi, vicini nel territorio. Acquista il senso della responsabilità sociale, diventa cittadino operante nel decidere dei destini del suo paese. E il potere, la consapevolezza si estende, per il tramite di questa gerarchia, dall'uno ai molti, e la società è quale mai ne apparve nella storia.

Questo è lo slancio vitale della nuova storia russa. Cosa vi è in esso di utopistico? Dove è il piano prestabilito che si vuole attuare anche contro le condizioni dell'economia e della politica? La rivoluzione russa è dominio della libertà: l'organizzazione si fonda per spontaneità, non per arbitrio di un «eroe» che s'impone con la violenza. È un'elevazione umana continua e sistematica, che segue una gerarchia, che si crea volta a volta gli organi necessari della nuova vita sociale.

Ma allora non è il socialismo?... No, non è il socialismo, nel senso balordissimo che alla parola dànno i filistei costruttori di progetti mastodontici; è la società umana che si sviluppa sotto il controllo del proletariato. Quando questo sarà organizzato nella sua maggioranza, la vita sociale sarà piú ricca di contenuto socialista di quanto non sia ora, e il processo di socializzazione andrà sempre piú intensificandosi e perfezionandosi. Perché il socialismo non si instaura a data fissa, ma è un continuo divenire, uno sviluppo infinito in regime di libertà organizzata e controllata dalla maggioranza dei cittadini, o dal proletariato.

L'opera di Lenin54

La stampa borghese di tutti i paesi e specialmente quella francese (la speciale distinzione dipende da ragioni intuitive) non ha nascosto la sua immensa gioia per l'attentato contro Lenin. I sinistri beccamorti dell'antisocialismo hanno sconciamente tripudiato sul presunto cadavere sanguinoso (o destino crudele, quanti pii desideri, quanti soavi ideali tu hai infranto), hanno esaltato la gloriosa omicida, hanno rinverdito la tattica, squisitamente borghese, del terrorismo e del delitto politico.

I beccamorti sono stati defraudati: Lenin vive e noi auguriamo, per il bene e la fortuna del proletariato, che egli riacquisti presto il vigore fisico e riprenda il suo posto di milite del socialismo internazionale.

Il baccanale giornalistico avrà avuto anch'esso la sua efficacia storica: i proletari ne hanno colto la significazione sociale. Lenin è l'uomo piú odiato nel mondo, cosí come un giorno lo fu Carlo Marx [dodici righe censurate].

Lenin ha consacrato tutta la sua vita alla causa del proletariato: il contributo che egli ha dato allo sviluppo dell'organizzazione e alla diffusione delle idee socialiste in Russia è immenso. Uomo di pensiero e di azione trova la sua forza nel carattere morale; la popolarità che gode tra le masse operaie è spontaneo omaggio alla sua rigida intransigenza verso il regime capitalista: egli non si è mai lasciato abbacinare dalle apparenze superficiali della società moderna, che altri hanno scambiato con la realtà, precipitando quindi di errore in errore.

Lenin, applicando il metodo foggiato da Marx, trova che la realtà è il profondo e incolmabile abisso che il capitalismo ha scavato fra il proletariato e la borghesia, ed il sempre crescente antagonismo delle due classi. Nello spiegare i fenomeni sociali e politici e nel fissare al partito la via da seguire in tutti i momenti della sua vita, non perdette mai di vista la molla piú potente di tutta l'attività economica e politica: la lotta di classe. Egli appartiene alla schiera dei piú fervidi e piú convinti assertori dell'internazionalismo del movimento operaio. Ogni azione proletaria deve essere subordinata o coordinata all'internazionalismo, deve poter avere carattere internazionalista. Qualunque iniziativa, in qualunque momento, sia pure transitoriamente, viene in conflitto con questo ideale supremo, deve essere combattuta inesorabilmente: perché ogni deviamento, per piccolo che sia, dalla strada che conduce direttamente al trionfo del socialismo internazionale è contrario agli interessi del proletariato, interessi lontani o immediati, e serve solo a inacerbire la lotta e a prolungare la dominazione della classe borghese.

Egli, il «fanatico», l'«utopista», sostanzia il suo pensiero e la sua azione, e quella del partito, unicamente su questa profonda e incoercibile realtà della vita moderna, non sui fenomeni superficialmente vistosi, che conducono sempre i socialisti, che se ne lasciano abbacinare, verso illusioni ed errori che mettono a repentaglio la compagine del movimento.

Perciò Lenin ha sempre visto trionfare le sue tesi, mentre quelli che gli rimproveravano il suo «utopismo» ed esaltavano il proprio «realismo», venivano miseramente travolti dai grandi avvenimenti storici.

Subito dopo lo scoppio della rivoluzione e prima di partire per la Russia, Lenin aveva inviato ai compagni il monito: «Diffidate di Kerenski», gli avvenimenti che si sono poi svolti gli hanno dato piena ragione. Nell'entusiasmo della prima ora per la caduta dello zarismo, la maggioranza della classe operaia e molti dei suoi condottieri si erano lasciati convincere dalla fraseologia di questo uomo, il quale, colla sua mentalità piccolo-borghese, per la mancanza di qualsiasi programma e di ogni visione socialista della società, poteva condurre la rivoluzione allo sfacelo e trascinare il proletariato russo su una via pericolosa per l'avvenire del nostro movimento [tre righe censurate].

Arrivato in Russia, Lenin si mise subito a svolgere la sua azione essenzialmente socialista, e che potrebbe sintetizzarsi nel motto di Lassalle: «Dire ciò che è»: una critica stringente e implacabile dell'imperialismo dei cadetti (partito costituzionale-democratico, il piú grande partito liberale della Russia), della fraseologia di Kerenski e del collaborazionismo dei menscevichi.

Basandosi sullo studio critico approfondito delle condizioni economiche e politiche della Russia, dei caratteri della borghesia russa e della missione storica del proletariato russo, Lenin fin dal 1905 era venuto alla conclusione che per l'alto grado di coscienza di classe del proletariato, e dato lo sviluppo della lotta di classe, ogni lotta politica si sarebbe trasformata in Russia necessariamente in lotta sociale contro l'ordinamento borghese. Questa posizione speciale in cui si trovava la società russa era dimostrata anche dalla incapacità della classe capitalista a condurre una seria lotta contro lo zarismo per sostituirgli il suo dominio politico. Dopo la rivoluzione del 1905, in cui sperimentalmente si dimostrò la enorme forza del proletariato, la borghesia ebbe paura di ogni movimento politico al quale il proletariato avrebbe partecipato, e per necessità storica di conservazione divenne sostanzialmente controrivoluzionaria. L'espressione fedele di questo stato d'animo fu dato dallo stesso Miliucoff in uno dei suoi discorsi alla Duma: il Miliucoff affermò che preferiva la sconfitta militare alla rivoluzione.

La caduta dell'autocrazia non mutò per nulla i sentimenti e le direttive della borghesia russa, anzi la sua sostanza reazionaria andò aumentando a mano a mano che la forza e la coscienza del proletariato si concretava. La tesi storica di Lenin si avverò: il proletariato divenne il gigantesco protagonista della storia, ma era un gigante ingenuo, entusiasta, pieno di fede in sé e negli altri. La lotta di classe, esercitata in un ambiente di dispotismo feudale, gli aveva dato la coscienza della sua unità sociale, della sua potenza storica, ma non l'aveva educato al metodo freddo e realistico, non gli aveva formato una volontà concreta. La borghesia si rimpicciolí furbescamente, nascose i suoi caratteri essenziali con frasi altisonanti: per la sua opera illusionistica si serví del Kerenski, l'uomo piú popolare fra le masse al principio della rivoluzione; i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari (non marxisti, eredi del partito terroristico, intellettuali piccolo-borghesi) la aiutarono inconsciamente, con il loro collaborazionismo, a nascondere le sue intenzioni reazionarie e imperialiste.

Contro questo inganno si levò vigorosamente il partito bolscevico con a capo Lenin, implacabilmente smascherando le vere intenzioni della borghesia russa, combattendo la tattica nefasta dei menscevichi che consegnava il proletariato mani e piedi legati alla borghesia. I bolscevichi rivendicavano ai Soviet tutti i poteri, perché ciò solo poteva costituire una garanzia contro le mene reazionarie delle classi abbienti.

All'inizio gli stessi Soviet, sotto l'influsso dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, si opponevano a questa soluzione e preferivano dividere il potere con i diversi elementi della borghesia liberale; anche la massa, eccettuata una minoranza piú avanzata, lasciava fare, non vedendo chiaro nella realtà delle cose, mistificata da Kerenski e dai menscevichi al governo [diciassette righe censurate].

Gli eventi si sviluppavano in modo da dare completa ragione alla critica serrata e stringente di Lenin e dei bolscevichi, che avevano sostenuto non avere la borghesia né il desiderio né la capacità di dare una soluzione democratica agli obiettivi della rivoluzione, ma che essa, aiutata inconsciamente dai socialisti collaborazionisti, avrebbe condotto il paese alla dittatura militare, strumento politico necessario per il conseguimento dei fini imperialistici e reazionari. Le masse operaie e contadine, attraverso la propaganda dei bolscevichi, cominciarono a rendersi conto di quanto avveniva, acquistarono una capacità e una sensibilità politica sempre maggiore: la loro esasperazione proruppe la prima volta nel luglio con la sollevazione di Pietrogrado facilmente repressa dal Kerenski. Questa sollevazione, quantunque giustificata dalla funesta politica di Kerenski, non aveva però l'adesione dei bolscevichi e di Lenin, perché i Soviet rimanevano ancora contrari ad assumere tutto il potere nelle loro mani e per conseguenza ogni sollevazione virtualmente si dirigeva contro i Soviet, che, bene o male, rappresentavano la classe.

Bisognava quindi continuare ancora la propaganda classista e persuadere gli operai a mandare nei Soviet delegati convinti della necessità che i Soviet assumessero tutto il potere del paese. Appare anche da ciò evidente il carattere essenzialmente democratico dell'azione bolscevica, rivolta a dare capacità e coscienza politica alle masse, perché la dittatura del proletariato si instaurasse in modo organico e risultasse forma matura di regime sociale economico-politico.

Ad affrettare lo svolgersi degli avvenimenti contribuí, oltre che l'atteggiamento sempre piú provocante della borghesia, il tentativo militare, fatto da Korniloff, di marciare su Pietrogrado per impossessarsi del potere, e poi Kerenski con i suoi gesti napoleonici, con la formazione di un gabinetto composto di noti reazionari, col suo preparlamento non eletto col suffragio universale, e finalmente col divieto del Congresso panrusso dei Soviet, vero colpo di Stato contro il popolo, inizio del tradimento borghese verso la rivoluzione.

Le tesi di Lenin e dei bolscevichi, sostenute, ribadite, propagate con lavoro perseverante e tenace fin dall'inizio della rivoluzione, avevano nella realtà una riprova assoluta: il proletariato, tutto il proletariato delle città e delle campagne si schierò risolutamente attorno ai bolscevichi, rovesciò la dittatura personale di Kerenski consegnando il potere al Congresso dei Soviet di tutta la Russia.

Come era naturale, il Congresso panrusso dei Soviet, che si era convocato nonostante il divieto di Kerenski, affidò, fra l'entusiasmo generale, la carica di presidente del Consiglio dei commissari del popolo a Lenin che aveva dimostrato tanta abnegazione per la causa del proletariato e tanta chiaroveggenza nel giudicare i fatti e nel tracciare il programma d'azione della classe operaia [trentacinque righe censurate].

La stampa borghese di tutti i paesi ha sempre rappresentato Lenin come un «dittatore» che si è imposto con la violenza ad un popolo sterminato e lo opprime ferocemente. I borghesi non riescono a concepire la società che inquadrata nei loro schemi dottrinari: la dittatura per loro è Napoleone, o sia pure Clemenceau, è il dispotismo accentratore di tutto il potere politico nelle mani di uno solo, ed esercitato attraverso una gerarchia di servi armati di schioppo o emarginatori di pratiche burocratiche. Perciò la borghesia ha tripudiato alla notizia dell'attentato contro il nostro compagno, e ne ha decretato la morte: sparito il «dittatore» insostituibile, tutto il regime nuovo, secondo la loro concezione, dovrebbe miseramente crollare [sessantatre righe censurate].

Egli è stato aggredito mentre usciva da una officina, dove aveva tenuto una conferenza agli operai: il «feroce dittatore» continua dunque la sua missione di propagandista, è sempre a contatto coi proletari, ai quali porta la parola della fede socialista, l'incitamento all'opera tenace di resistenza rivoluzionaria, per costruire, per migliorare, per progredire attraverso il lavoro, il disinteresse, il sacrifizio. Fu colpito dal revolver di una donna, di una socialista-rivoluzionaria, di una vecchia militante del sovversivismo terroristico. Nell'episodio è tutto il dramma della rivoluzione russa. Lenin è il freddo studioso della realtà storica, che tende organicamente a costruire una società nuova su basi solide e permanenti, secondo i dettami della concezione marxista: è il rivoluzionario che costruisce senza farsi illusioni frenetiche, ubbidendo alla ragione e alla saggezza. Dora Kaplan era una umanitaria, una utopista, una figlia spirituale del giacobinismo francese, che non riesce a comprendere la funzione storica dell'organizzazione e della lotta di classe, che crede socialismo significhi immediata pace fra gli uomini, paradiso idillico di gaudio e di amore. Che non comprende quanto complessa sia la società e come difficile il compito dei rivoluzionari appena divenuti gestori della responsabilità sociale. Ella era certo in buona fede, e credeva poter far raggiungere all'umanità russa la felicità liberandola dal «mostro». Non certo in buona fede sono i suoi glorificatori borghesi, i beccamorti schifosi della stampa capitalistica. Essi hanno esaltato il socialista-rivoluzionario Ciaicovski che ad Arcangelo aveva accettato di porsi a capo del movimento antibolscevico e aveva rovesciato il potere dei Soviet: ora, che egli ha compiuto la sua missione antisocialista ed è stato mandato in esilio dai borghesi russi capeggiati dal colonnello Sciaplin, irridono al vecchio pazzo, al sognatore.

La giustizia rivoluzionaria ha punito Dora Kaplan: il vecchio Ciaicovski sconta in un'isola di ghiaccio il suo delitto d'essersi fatto strumento della borghesia, e sono i borghesi che lo hanno punito e si ridono di lui.

Dopo il Congresso55

Il Congresso di Roma ha riaffermato, in seno all'organizzazione politica dei lavoratori, il trionfo della frazione intransigente rivoluzionaria, ha riaffermato, in seno al Partito socialista italiano, il trionfo del socialismo.

Altro sono le parole, altra è l'azione effettiva che si riesce ad esercitare nella storia. Le parole possono essere pronunziate da chiunque: la bandiera può essere assunta da ogni avventuriero che si proponga di costruirsi una fortuna personale abusando della credulità popolare e della vigliaccheria delle classi dirigenti. Nell'azione si determinano i fini reali, si concretano le volontà; la truffa politica non è piú possibile, i contrabbandieri vengono smascherati. Il Congresso di Roma, il primo Congresso del Partito socialista italiano rinnovato, è stato azione piú che parole, perché ha fissato una ferrea disciplina d'azione, perché ha voluto dare all'azione carattere di continuità e di perspicua distinzione. Non piú politiche personali, ma organizzazione dell'attività politica, non piú libertà d'iniziativa, ma controllo della libertà. La maggioranza del partito ha cosí dimostrato di aver raggiunto una piú alta coscienza sociale e politica, una altezza storica davvero eccezionale; i socialisti hanno dimostrato di essere nel seno della nazione italiana la forza sociale piú sensibile ai richiami della ragione e della storia, di essere un'aristocrazia che merita di assumere la gestione della responsabilità sociale. La misura del progresso storico è data infatti dall'affermarsi sempre piú accentuato del principio organizzativo, in contrapposizione all'arbitrio, al capriccio, al vago istinto dell'originalità vuota di contenuto concreto; dal formarsi di salde gerarchie democratiche, liberamente costituite in vista di un fine concreto, irraggiungibile se ad esso non si tende con tutte le energie raccolte in fascio.

Il Partito socialista italiano si è costituito all'inizio per il confluire caotico di individui usciti dalle piú diverse scaturigini sociali: ha tardato a diventare interprete della volontà classista del proletariato. È stato palestra di individualità bizzarre, di spiriti irrequieti; bell'assenza delle libertà politiche ed economiche che pungolano gli individui all'azione e rinnovano continuamente i ceti dirigenti, il Partito socialista è stato il fornitore di individui nuovi alla borghesia pigra e sonnolenta. I giornalisti piú quotati, gli uomini politici piú capaci e attivi della classe borghese, sono disertori del movimento socialista; il partito è stato la passerella delle fortune politiche italiane, è stato il crivello piú efficace dell'individualismo giacobino.

Questa incapacità del partito a funzionare classisticamente era in correlazione al basso livello sociale della nazione italiana. La produzione era ancora infantile, gli scambi erano fiacchi; il regime era, come è ancora, non parlamentare, ma dispotico, non capitalistico cioè, ma piccolo-borghese. E anche il socialismo italiano era piccolo-borghese, procacciante, opportunista, tramite di privilegi statali a poche categorie proletarie.

La riscossa classista è incominciata a Reggio Emilia, è continuata ad Ancona, si è dimostrata ormai rinsaldata nelle coscienze a Roma. I riformisti, gli eredi della mentalità piccolo-borghese preistorica, sono stati posti in minoranza, dopo che furono espulsi dalla compagine socialista i piú compromessi, i piú indisciplinati. Ma l'opera di rigenerazione non è ultimata: il Congresso ha tracciato i quadri; bisogna ancora continuare il lavoro di elaborazione individuale delle coscienze, bisogna educare dei militi che spontaneamente compiano gli atti congrui alle direttive classiste, che controllino tutti gli istituti dell'organizzazione proletaria perché questa diventi macchina potente di lotta, vibrante in ogni sua articolazione sotto l'impulso di un'unica volontà.

Il partito anticipa idealmente i momenti del processo storico della società, e si prepara per essere capace di dominarli quando si avvereranno: è esso stesso coefficiente attivo della storia italiana. La sua opera rivoluzionaria la esplica in ogni istante della sua vita. L'intransigenza ha valore rivoluzionario in quanto costringe i borghesi ad assumersi tutta la responsabilità dei loro atti ed è l'ingranatura necessaria per l'Internazionale proletaria: per essa si opera all'interno sulla compagine borghese minando i ceti abbarbicatisi al potere e divenuti parassiti della produzione, e si opera internazionalmente, poiché solo chi è libero da compromessi con lo Stato nazionale può onestamente entrare a far parte attiva e disciplinata di un organismo internazionale. L'autonomia e l'indipendenza degli associati è la prima condizione necessaria della vitalità e della storicità di una associazione: sbaragliati i massoni per la doppia disciplina cui rimanevano legati, bisognò sbaragliare i collaborazionisti e gli opportunisti. Ma la battaglia è appena iniziata: bisogna distruggere lo spirito collaborazionista e riformista; bisogna con esattezza e precisione segnare cosa noi intendiamo per lo Stato, e come nell'atteggiamento che il partito va sempre meglio assumendo, nulla ci sia che contrasti con la dottrina marxista. Bisogna fissare e far penetrare diffusamente nelle coscienze che lo Stato socialista, e cioè l'organizzazione della collettività dopo l'abolizione della proprietà privata, non continua lo Stato borghese, non è una evoluzione dello Stato capitalistico costituito dai tre poteri, esecutivo, parlamentare e giudiziario, ma continua ed è uno sviluppo sistematico delle organizzazioni professionali e degli enti locali, che il proletariato ha saputo già suscitare spontaneamente in regime individualistico. L'azione immediata che pertanto il proletariato deve svolgere non può tendere assolutamente alla dilatazione dei poteri e dell'intervenzionismo statale, ma deve tendere al discentramento dello Stato borghese, all'ampliamento delle autonomie locali e sindacali fuori della legge regolamentatrice. L'ordinamento che lo Stato capitalista ha assunto in Inghilterra è molto piú vicino al regime dei Soviet di quanto non vogliano ammettere i nostri borghesi che, parlano di «utopia leninista»; e nel riconoscimento è l'affermazione della vitalità perenne della dottrina marxista e della storicità della rivoluzione massimalista che rappresenta nel divenire storico un momento necessario.

Il trionfo della nostra frazione al Congresso non deve illuderci e indurci a rallentare la nostra opera di cultura e di educazione; esso anzi ci crea responsabilità maggiori. Il mondo capitalista è in sussulto; lo spostamento avvenuto dei risparmi innumeri nelle mani di pochi capitalisti dà audacia alla borghesia, ma determina in essa una lotta intestina; si profila, per un tempo non lontano, un cozzo formidabile di interessi tra industriali e agricoltori, tra Nord e Sud, sulla quistione delle tariffe doganali. Lo Stato borghese, o piccolo-borghese, minaccia per un momento di rimanere scoperto [dieci righe censurate].

Il Patto d'alleanza56

Il dissidio tra la Confederazione generale del lavoro e il Partito socialista italiano si è composto «giuridicamente» in un Patto d'alleanza, nel quale sono fissate le competenze reciproche e vengono stabiliti i rapporti e le norme secondo i quali i due organismi del movimento socialista e proletario svolgeranno la loro attività evitando i cozzi e gli attriti.

La composizione ci allieta per la buona volontà che rivela negli uomini. Ma non ci lasciamo illudere che si sia ormai entrati in un'èra di perfetto accordo e di idillio. Il dissidio, piú che negli uomini, era nelle cose. Gli uomini possono facilmente, quando siano sinceri e aspirino al lavoro fecondo, mettere d'accordo le loro volontà buone; la composizione «giuridica» è sufficiente a ciò. Ma le cose sono meno duttili e malleabili, il plasmarle a un fine programmatico è operazione molto difficile e complicata. E per cose intendiamo (escludendo ogni intenzione di offendere o diminuire il valore e la coscienza di chicchessia) le organizzazioni, gli uomini che ne fanno parte, il complesso movimento di resistenza, che in Italia è quello che è — senza che buona volontà di singoli possa trasformarlo immediatamente — in dipendenza del grado di sviluppo economico e culturale che la società italiana ha raggiunto.

Le organizzazioni italiane di resistenza sono ben lungi dal rappresentare quelle forze democratiche e capaci di controllo reciproco che sono il presupposto di un'azione di classe politica ed economica, sistematica e ordinata quale il Partito socialista vorrebbe si esplicasse per rappresentare esso stesso veramente un'energia rivoluzionaria che trasformi la storia. Le organizzazioni italiane sono deboli e sconnesse, non solo esteriormente, ma specialmente dal punto di vista della cultura individuale, della preparazione e della coscienza individuale delle responsabilità e dei doveri democratici. Alla vita interna delle Leghe e delle Camere del lavoro partecipa una esigua minoranza degli inscritti; la maggioranza è regolarmente assente, ciò che però non toglie la possibilità, insita nei suoi diritti sociali, che essa intervenga nei momenti decisivi della vita dell'organizzazione, portando nei suffragi la leggerezza e l'avventatezza proprie di chi, non avendo dato nulla all'attività minuta dell'organizzazione, non comprendendo la portata e le conseguenze possibili di una decisione, non ha il senso della responsabilità dei suoi atti.

Questa è, purtroppo, la realtà, ed essa crea delle condizioni specifiche di vita. I dirigenti acquistano un'autorità ed un'importanza che non dovrebbero avere secondo lo spirito ugualitario ed essenzialmente democratico delle organizzazioni. I dirigenti deliberano essi, molto, troppo spesso, invece che essere, puramente e solamente, organi esecutivi e amministrativi; e, si badi, questo fatto noi escludiamo dipenda da volontà dispotica ed autocratica, riconosciamo essere una necessità, ma non perciò [lo] denunziamo meno e cerchiamo convincere che bisogna distrugger[lo]. La volontà perversa o buona dei singoli ci importa poco; ci importa l'insieme delle condizioni per le quali una volontà perversa può trionfare e una volontà buona può essere sopraffatta, snervata, corrotta.

Poiché cosí stanno le cose, il Patto d'alleanza stretto tra la Confederazione del lavoro e il partito, se ci rallegra come indizio di buona volontà individuale, non ci tranquillizza affatto e non ci induce all'inerzia. Le condizioni suddescritte continuano ad esistere, ad operare; gli enti direttivi della resistenza possono essere condotti da esse (ed escludiamo nelle persone ogni tortuosa cavillazione) a un ostruzionismo nei confronti del Patto, a sofisticazioni e obiezioni tali che in momenti decisivi, quando urge deliberare per uno spontaneo accordo determinato da somiglianza di volontà, il Patto si dissolva automaticamente e rimanga, residuo doloroso, uno strascico di polemiche velenose, deleterie per il movimento operaio. Pertanto i compagni che desiderano che la Confederazione del lavoro diventi organismo vigoroso e schietto di classe, cooperante col partito in solidarietà non solo «giuridica» e dipendente dall'arbitrio individuale, ma che sia necessaria per il suo intimo organamento e per la concorde volontà dei proletari associati, devono proseguire e intensificare il lavoro nell'interno delle Leghe, delle Federazioni, delle Camere del lavoro, perché esse si democratizzino, si solidifichino per una maggiore attività degli inscritti; nei riguardi dei quali anche è necessario intensificare la propaganda individuale (la piú efficace) perché acquistino una coscienza e una educazione socialista adeguate al compito che devono svolgere, alla responsabilità sociale che devono assumersi.

Il dovere di essere forti57

La pace incomincia a portare già i suoi frutti. Abrogato il decreto Sacchi, i rapporti fra gli individui e lo Stato ricominciano ad essere regolati dalle leggi ordinarie condizionate dallo Statuto. La lotta politica ricomincia a svolgersi in un ambiente di relativa libertà, condizione indispensabile perché i cittadini possano conoscere la verità, possano riunirsi, possano discutere i problemi e i programmi economici e politici, possano associarsi dopo aver identificato la loro volontà e la loro coscienza con una volontà e una coscienza sociale organizzata in partito.

Un lavoro immenso si impone agli operai e ai contadini che nel Partito socialista e nella Confederazione del lavoro riconoscono gli organismi necessari e sufficienti per lo svolgimento disciplinato e consapevole della lotta di classe.

È necessario che nel piú breve volgere di tempo il Partito socialista e la Confederazione raggiungano la massima potenza consentita dal grado di sviluppo economico cui è giunta l'Italia durante i quattro anni di guerra. Il nostro dovere piú urgente è quello di essere forti, di raggruppare intorno ai nuclei esistenti di organizzazione politica ed economica tutti i cittadini che sono con noi, che accettano i nostri programmi, che votano per i nostri candidati nelle elezioni, che scendono in piazza per una nostra parola d'ordine. Questi cittadini sono molto numerosi, raggiungono indubbiamente la cifra di qualche milione: il partito non ha, in questo momento, piú di 30.000 aderenti. Numeri irrisori, numeri che sono l'indice di una nostra pigrizia, di una nostra insufficienza nel diffondere e far penetrare nei cervelli i postulati della dottrina socialista. Numeri che sono il documento piú clamoroso della nostra debolezza in confronto dello Stato borghese che vogliamo sovvertire e sostituire con la dittatura del proletariato.

È inutile ricercare ora quali siano le ragioni di questa nostra debolezza. Noi sappiamo che la causa maggiore di essa sono state nel passato le condizioni arretrate dell'economia nazionale; in un paese dove predominava ancora l'agricoltura patriarcale, l'artigianato e la piccola fabbrica, non poteva formarsi ed affermarsi, coi caratteri permanenti di un processo storico normale, una democrazia sociale folta e consapevolmente disciplinata. C'era in Italia un ambiente di ribellione istintiva, dovuto alle condizioni arretrate dello Stato dispotico oppressore delle iniziative individuali, dovuto alla pesantezza della vita economica che costringeva gli individui a emigrare per sostentarsi; non c'era l'ambiente della lotta di classe definita e consapevole tra capitalismo e proletariato. Il Partito socialista ebbe momenti di enorme prestigio politico sulle masse, ma non riuscí (e non poteva riuscire) a suscitare organismi che permanentemente raccogliessero le grandi masse; le ribellioni delle folle erano fenomeni di individualismo piuttosto che di classe proletaria, erano rivolte contro lo Stato che dissangua la nazione con il fisco eccessivo, e non contro lo Stato riconosciuto espressione giuridica della classe proprietaria che impone il suo privilegio con la violenza.

Quattro anni di guerra hanno rapidamente mutato l'ambiente economico e spirituale. Maestranze colossali sono state improvvisate, e la violenza connaturata nei rapporti tra salariati e imprenditori apparve in modo vistoso e riconoscibile anche dalle intelligenze piú crepuscolari. E apparve non meno spettacolosamente come di questa violenza sia strumento lo Stato borghese, in tutti i suoi poteri e i suoi ordini: dal governo che si continua nei comitati di mobilitazione, nella questura, nei carabinieri, negli ufficiali di sorveglianza, all'ordine giudiziario che si presta alle violazioni statutarie promosse dai ministri democratici, al Parlamento elettivo che con la sua ignavia supina permette si faccia strazio delle libertà piú elementari.

L'incremento industriale è stato reso miracoloso con una tale saturazione di violenza di classe. Ma la borghesia non ha potuto evitare di offrire agli sfruttati una terribile lezione pratica di socialismo rivoluzionario. Una coscienza nuova, di classe, è sorta; e non solo nell'officina, ma anche nella trincea, che offre tante condizioni di vita simili a quelle dell'officina. Questa coscienza è elementare; la consapevolezza dottrinaria non l'ha ancora formata. È materia grezza non ancora modellata. L'artefice deve essere la nostra dottrina.

Il movimento proletario deve assorbire questa massa; deve disciplinarla, deve aiutarla a diventare consapevole dei propri bisogni materiali e spirituali, deve educare i singoli individui che la compongono a solidarizzare permanentemente e organicamente tra di loro, deve diffondere nelle coscienze individuali la persuasione netta, precisa, razionalmente acquistata, che solo nell'organizzazione politica ed economica è la via della salute individuale e sociale, che la disciplina e la solidarietà nei limiti del Partito socialista e della Confederazione sono doveri imprescindibili, sono i doveri di chi si afferma fautore della democrazia sociale.

Oggi il Partito socialista dovrebbe almeno contare 250.000 soci, la Confederazione del lavoro dovrebbe avere almeno due milioni di aderenti; l'Avanti! dovrebbe diffondersi a centinaia di migliaia di copie e avere milioni di lettori. Il dovere è diventato oggi potere; l'ambiente spirituale non è piú refrattario alla disciplina e all'azione paziente e perseverante. Sta a noi di trasformare il potere in realtà, di diventare il partito piú potente della nazione, non solo in senso relativo, ma in senso assoluto, diventare l'Antistato preparato a sostituire la borghesia in tutte le sue funzioni sociali di classe dirigente. Gli operai e i contadini, che già lottano associati, devono intensificare la propaganda individuale; le sezioni e i gruppi attivi di compagni devono promuovere un'azione di propaganda sistematica e indefessa (conferenze pubbliche, contraddittori, riunioni) perché tutti i salariati aderiscano alle organizzazioni di resistenza, perché tutti i socialisti si inscrivano nel partito.

I cattolici italiani58

I giornali cosí detti liberali dedicano molto spazio ai «retroscena» e ai pettegolezzi di sacrestia o di caffè intorno ai nuovi atteggiamenti che stanno assumendo i cattolici italiani e all'intenzione, che va maturando e concretandosi, di costituire un grande partito nazionale cattolico, che attivamente si inserisca nella vita dello Stato con un programma proprio distinto, e lotti per diventare il partito di governo, la corrente sociale che imprime allo Stato la forma peculiare alla sua particolare ideologia e ai suoi -particolari interessi nazionali e internazionali.

Il costituirsi di un tale partito segna il culminare di un processo di sviluppo ideologico e pratico della società italiana che è essenziale nella storia politica ed economica del nostro paese: il problema centrale della vita politica, riguardante la forma e la funzione dello Stato capitalista, si avvia ad una soluzione rapida, ed aspre lotte si profilano per l'avvenire prossimo tra i vari ceti borghesi. Perciò i giornali cosí detti liberali, che aborrono ogni lotta in quanto possibile inizio di vasti rivolgimenti sociali, cercano svalutare preventivamente l'efficienza della nuova organizzazione che sta costituendosi, annegando le notizie e le discussioni in una palude di pettegolezzi e di chiacchiere ciarlatanesche. Ma non certo le vacue esercitazioni letterarie dei giornalisti chiacchieroni arresteranno l'inesorabile processo di dissoluzione della vecchia società italiana e lo sferrarsi delle lotte in seno alla classe dirigente e il proletariato rimbocca già le maniche per apprestarsi al suo compito di seppellitore.

L'idea dello Stato liberale o parlamentare, proprio della economia liberista del capitalismo, non si è diffusa in Italia con lo stesso ritmo e la stessa intensità che nelle altre nazioni. Il suo processo di sviluppo storico si è urtato irriducibilmente con la quistione religiosa, o meglio col complesso di problemi economici e politici inerenti ai formidabili interessi costituitisi in tanti secoli di teocrazia. La vita dello Stato italiano ne è stata raggrinzita, e il partito liberale al governo si è ipnotizzato in un problema politico unico, quello delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, tra la dinastia e il papato. I fini essenziali dello Stato laico furono trascurati o impostati empiricamente, e l'Italia nei sessant'anni del suo essere Stato non ebbe una vita politica economica, finanziaria, interna ed estera, degna di un organismo statale moderno: naturalmente non ebbe neppure una politica religiosa, poiché l'attività di uno Stato o è unitaria e audacemente tesa ai suoi fini piú essenziali, o è solo rappezzatura e basso compromesso di consorterie.

Allo sviluppo dello Stato nuovo italiano mancò la collaborazione dello spirito religioso, della gerarchia ecclesiastica, la sola che potesse accostarsi alle innumeri coscienze individuali del popolo arretrato ed opaco, percorso da stimoli irrazionali e capricciosi, assente da ogni lotta ideale ed economica avente caratteri organici di necessità permanente. Gli uomini di Stato furono assillati dalla preoccupazione di escogitare un compromesso con il cattolicismo, di subordinare allo Stato liberale le energie cattoliche appartate e ottenerne la collaborazione al rinnovamento della mentalità italiana e alla sua unificazione, di suscitare o rinsaldare la disciplina nazionale attraverso il mito religioso.

Non era possibile conciliare due forze come lo Stato laico e il cattolicismo assolutamente irriducibili. Perché il cattolicismo si subordinasse allo Stato laico, sarebbe stato necessario un atto di umiliazione dell'autorità pontificia, una rinunzia alla vita da parte della gerarchia ecclesiastica: solo con la forza e con l'audacia lo Stato avrebbe realizzato la sua volontà, con la dissoluzione degli istituti giuridici ed economici che potenziano socialmente il cattolicismo. Il partito liberale non ebbe l'audacia e la forza che sarebbero state necessarie: la tattica dittatoriale della Destra non dette i risultati sperati, e lo Stato italiano minacciò spesso di scompaginarsi per le reazioni violente popolari alla sua politica. Il partito liberale divenne opportunista, mandò in soffitta le sue ideologie e i suoi programmi concreti, si frantumò in tante cricche quanti sono i centri mercantili italiani, divenne vespaio di congreghe elettorali e di agenzie per il collocamento e la felice carriera di tutti gli sfaccendati e di tutti i parassiti. Cosí snaturato e corrotto, senza unità e gerarchia nazionale, il liberalismo fini col subordinarsi al cattolicismo, le cui energie sociali sono invece fortemente organizzate e accentrate e posseggono, nella gerarchia ecclesiastica, una ossatura millenaria, salda e preparata a ogni forma di lotta politica e di conquista delle coscienze e delle forze sociali: lo Stato italiano divenne l'esecutore del programma clericale, e nel patto Gentiloni culmina un'azione subdola e tenace per ridurre lo Stato a una vera e propria teocrazia, per sottoporre l'amministrazione pubblica al controllo indiretto della gerarchia ecclesiastica.

Ma se nel piano politico, in cui operano pochi individui rappresentativi, il cattolicismo come gerarchia autoritaria trionfa clamorosamente dello Stato laico e dell'ideologia liberale, nell'intimità sociale i fatti si svolgono molto differenti. Il fattore economico reagisce potentemente sulla compagine della società italiana; il capitalismo inizia la dissoluzione dei rapporti tradizionali inerenti all'istituto familiare e al mito religioso. Il principio d'autorità viene scosso dalle fondamenta: la plebe agricola diventa proletariato e aspira, sia pur confusamente e vagamente, alla sua indipendenza dal mito religioso: la gerarchia ecclesiastica, nei suoi ordini inferiori, si vede costretta a prendere posizione nella lotta di classe delineantesi con sempre maggiore intensità e distinzione.

Nel seno del cattolicismo sorgono le tendenze modernistiche e democratiche come tentativo di comporre, nell'ambito religioso, i conflitti emergenti nella società moderna. La gerarchia ecclesiastica resiste e dissolve d'autorità la democrazia cristiana, ma il suo prestigio e la sua forza si piegano dinanzi alle incoercibili necessità locali degli interessi intrecciatisi al mito religioso: essa disperde i piccoli campioni della Riforma, ma la sostanza del fenomeno che dipende dallo sviluppo della produzione capitalistica, anche se attenuata e irrigidita nella sua spontaneità storica, permane tuttavia e opera fatalmente. I cattolici esplicano un'azione sociale sempre piú vasta e profonda: organizzano masse proletarie, fondano cooperative, mutue, banche, giornali, si tuffano nella vita pratica, intrecciano necessariamente la loro attività all'attività dello Stato laico e uniscono col far dipendere dalla fortuna di esso le fortune dei loro interessi particolari. Gli interessi e gli uomini trascinano con sé le ideologie: lo Stato assorbe il mito religioso, tende a farsene uno strumento di governo, atto a respingere gli assalti delle forze nuove, assolutamente laiche, organizzate dal socialismo.

La guerra ha accelerato questo processo d'intima dissoluzione del mito religioso e delle dottrine legittimiste proprie della gerarchia ecclesiastica romana: la guerra ha accelerato vertiginosamente il processo di sviluppo storico dello Stato laico e liberale sorto appunto come antitesi del legittimismo romano pontificio. L'ideologia cattolica è percorsa da correnti nuove riformistiche che trovano espressione anche nei più eminenti assertori delle dottrine politiche romane: il marchese Filippo Crispolti pizzica il colascione per inneggiare al presidente Wilson; un manifesto delle organizzazioni cattoliche afferma che la vittoria dell'Intesa è vittoria del cristianesimo (senza aggettivi) contro il luteranesimo autoritario e qualifica di «negazione di Dio» la cattolicissima Austria, perché illiberale, perché lo Stato non vi era costruito sul consenso dei governati. Ora, il cristianesimo del presidente Wilson — in quanto può aver dato forma ed ispirato programmi politici e fini generali, di moralità pubblica nazionale ed internazionale, proposti ai popoli — è puro calvinismo. Il papa e le dottrine cattoliche non hanno (e non potevano avere) contribuito per nulla alla ideazione del programma wilsoniano: il papa si è rivolto sempre ai sovrani, non ai popoli, all'autorità, legittima sempre per lui, non alle moltitudini silenziose; mai il pontefice romano avrebbe lanciato ai popoli l'incitamento alla ribellione contro i poteri costituiti degli Stati dinastici e militaristi, che esprimevano la forma di società propria delle dottrine politiche cattoliche. Per una predicazione simile a quella del presidente Wilson il papa è stato privato del potere temporale e i sudditi si sono ribellati alla sua autorità teocratica: l'ideologia wilsoniana della Società delle Nazioni è l'ideologia propria del capitalismo moderno, che vuole liberare l'individuo da ogni ceppo autoritario collettivo dipendente da strutture economiche precapitalistiche, per instaurare la cosmopoli borghese in funzione di una piú sfrenata gara all'arricchimento individuale, possibile solo con la caduta dei monopoli nazionali dei mercati del mondo: l'ideologia wilsoniana è anticattolica, è antigerarchica, è la rivoluzione capitalistica demoniaca che il papa ha sempre esorcizzato, senza riuscire a difendere contro di essa il patrimonio tradizionale economico e politico del cattolicismo feudale.

Il cattolicismo, come dottrina e come gerarchia, esce disfatto dalla vittoria dell'Intesa, specialmente in Italia, dove esso ha la sua sede. Trionfano, in mezzo alla borghesia e al popolino disorganizzato, le tendenze liberali del calvinismo: l'idea dello Stato laico si è affermata come coscienza politica operante. Lo Stato italiano non ha piú bisogno dell'ausilio dell'energia cattolica per infrenare le forze sociali immature alla storia. Lo Stato è libero dalle preoccupazioni d'ordine internazionale provocate dalla questione romana, può svilupparsi secondo la sua essenza laica e anticattolica, può svilupparsi e, attraverso una rivoluzione proletaria, trasformarsi da parlamentare in un sistema di Soviet.

I cattolici si aggrappano alla realtà che sfugge al loro controllo. Il mito religioso, come coscienza diffusa che informa dei suoi valori tutte le attività e gli organismi della vita individuale e collettiva, si dissolve, in Italia come già altrove, e diventa partito politico definito. Si laicizza, rinunzia alla sua universalità, per diventare volontà pratica di un particolare ceto borghese, che si propone, conquistando il governo dello Stato, oltre che la conservazione dei privilegi generali della classe, la conservazione dei privilegi particolari dei suoi aderenti:

Il costituirsi dei cattolici in partito politico è il fatto piú grande della storia italiana dopo il Risorgimento. I quadri della classe borghese si scompaginano: il dominio dello Stato verrà aspramente conteso, e non è da escludere che il partito cattolico, per la sua potente organizzazione nazionale accentrata in poche mani abili, riesca vittorioso nella concorrenza dei ceti liberali e conservatori laici della borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senza unità nazionale, rumoroso vespaio di basse congreghe e consorterie.

Per l'intima necessità della sua struttura, per gl'inconciliabili conflitti degl'interessi individuali e di gruppo, la classe borghese sta per entrare in un momento di crisi costituzionale che proietterà i suoi effetti nell'organizzazione dello Stato, proprio mentre il proletariato agricolo e urbano trova, nell'idea dei Soviet, il perno della sua energia rivoluzionaria, l'idea compaginatrice dell'ordine nuovo internazionale.

Il giornale-merce59

Il giornale borghese è il giornale-merce, quale lo determina la concorrenza commerciale tra i proprietari di aziende giornalistiche. È una pizzicheria, dove una schiera di solerti impiegati affetta, impacca, accumula: formaggi, mortadelle, gelatine, molta patata e poco latte, molto cavallo e poco manzo, molta colla e poco brodo Non importa: importa solo che ci sia una bella vetrina, molte lampadine accecanti, molti nastri e sbrendoli varicolori. Gli uomini passano e si fermano, abbarbagliati, stupiti: che lusso, che buone cose appetitose, che ricchezza, e tutto per una vilissima moneta. E gli uomini entrano e comprano e se ne vanno soddisfatti del lusso, dei colori, del garbo signorile dei nastri, e degli sbrendoli multicolori: e l'illusione fa inghiottire i cattivi cibi senza nausea, senza vomiti, sebbene il corpo si denutrisca e il cervello si atrofizzi e le idee non facciano piú ressa per esprimersi, ma solo lentamente si avanzino a una a una, come vecchiette grinzose appoggiate al bastone che ogni cinque passi si soffermano per frugarsi le tasche ed estrarre la tabacchiera ed annusare lungamente la presina: senza quel tabacco imbalsamante non potrebbero vivere.

Ebbene, no; il nostro giornale Avanti! non può essere un giornale-merce, non può essere una pizzicheria imbottita di tutte le cianciafruscole, adorna di tutti gli specchietti che attirino le allodole; il Partito socialista non è una fiera dove Barnum batte la grancassa per attirare gli ingenui. L'Avanti! è un giornale unico, senza concorrenti, è il «prodotto» necessario che si acquista perché necessario, perché insostituibile, perché corrisponde a un bisogno intimo, irresistibile come il bisogno del pane per uno stomaco sano. Chi compra l'Avanti! non sceglie, non può scegliere: si sceglie tra due cose simili, diverse solo per gradi di perfezione, tra due cavalli, tra due case, tra due bastoni, tra due giornali borghesi.

Ma chi è socialista, chi vuole (vuole, intendiamoci, e non già desidera vagamente o sospira o geme o smania, ma vuole concretamente) che il socialismo informi dei suoi valori morali la società degli uomini, chi vuole la società organizzata in modo che ogni uomo abbia un compito utile ed esso sia il piú acconcio alle sue attitudini, in modo che ogni uomo dia il massimo del suo rendimento e la sua attività sia coordinata all'attività universale in una armonia che elimini ogni sofferenza inutile, ogni dispersione di energia e di spiritualità; chi, già oggi, immerso nella società del traffico mercantile, nella società in cui si fa fortuna sacrificando gli altri, pugnalando la propria madre, prostituendo la propria sorella, tesaurizzando la fame e il sangue degli uomini; chi è socialista ed ha ucciso in se stesso, nei rapporti con i compagni di fede, la frenesia individualistica, la brama di arraffare, arraffare per sé dando del suo il meno possibile — costui non può scegliere tra l'Avanti! e un altro giornale, non può confondere l'Avanti! con un giornale-merce. Egli sa di essere una parte dell'Avanti!, parte viva, parte attiva; sa che l'Avanti! non è un'azienda capitalistica, i cui azionisti arrischiano il denaro altrui per ricavarne utile proprio con l'inganno e l'illusione della merce appariscente e bene strombazzata, ma rappresenta, già oggi, in piena società mercantile, il principio antimercantile, il principio comunistico, che impone la sincerità, la verità, l'utilità essenziale anche quando paia immediatamente dannosa. Comprare l'Avanti! significa pertanto essersi resi indipendenti dalle leggi mercantili del capitalismo, vivere già oggi il comunismo e avvicinare quindi la società comunista.

Il paese di Pulcinella60

Quotidianamente i giornali ufficiosi di questo o quello dei pascià irresponsabili e incontrollati che costituiscono il ministero Orlando pubblicano un bollettino sanitario sulla censura. Appena avantieri il Popolo Romano annunciava:

Apprendiamo col piú vivo piacere da fonte sicura che dal ministero dell'Interno sono state impartite disposizioni perché l'ufficio di censura si attenga scrupolosamente agli ultimi decreti luogotenenziali evitando esagerate interpretazioni e conseguenti reclami.

Le nuove disposizioni impartite non faranno mutare minimamente le cose: continueranno a soggiacere al regime di arbitrio che da quattro anni ha ridotto i «figli di Roma» al rango di una tribú di cannibali della Papuasia.

I dottrinari del diritto costituzionale discutono sulla formula che definisca lo Stato italiano. È lo Stato italiano parlamentare, costituzionale, assoluto? O contempera brillantemente in una sintesi, riflesso delle qualità eminentemente pragmatiche del popolo nostro, tutto ciò che di buono è risultato dalle esperienze democratiche degli altri popoli? Lo Stato italiano, attraverso l'esame della guerra, ha finalmente rivelato la sua intima essenza: esso è lo Stato di Pulcinella, è il dominio dell'arbitrio, del capriccio, dell'irresponsabilità, del disordine immanente, generatore di sempre piú asfissiante disordine. Negli Stati assoluti esiste un solo autocrate, depositario della sovranità e del potere: nel paese di Pulcinella gli autocrati si moltiplicano per generazione spontanea: la tribú dei segretari e sottosegretari di Stato è un semenzaio di poteri autocratici, ognuno dei quali opera per conto proprio, fa, disfa, accavalla e distrugge, distrugge la ricchezza nazionale; sono autocrati i prefetti, i sottoprefetti, i questori che unificano la farragine di disposizioni, circolari, decreti nel proprio buon piacere; i censori che, scelti col criterio della beneficenza, per assicurare una decorosa vecchiaia ai falliti del giornalismo e della burocrazia, mangiano la foglia... sonniniana-conservatrice e tagliano e deturpano l'Avanti! preoccupandosi solo di perpetuare il loro canonicato e i lauti appannaggi correlativi: i generali, i delegati, i questurini. Ognuno di questi «servitori» del potere esecutivo ha trasformato la sfera della sua azione in una satrapia indipendente dalle leggi generali, in uno Stato nello Stato, dove l'abuso e il sopruso sono la quotidiana attività, che travolge e dissolve le tradizioni, la sicurezza, gli interessi cosiddetti legittimi, le gerarchie sentimentali e autoritarie, i rapporti sociali.

Attraversiamo la fase critica del processo dissolutivo dello Stato capitalista, costretto dagli avvenimenti a strafare quando è incapace al semplice fare, che interviene nella sfera d'azione delle private iniziative e determina solo confusione, turbamento, arresti di sviluppo, che proclama a gran voce libertà e ordine, e trema per ogni parola eterodossa, per ogni affermazione teorica di principio. Lo Stato italiano è lo Stato di Pulcinella, dove nessuno comanda perché un'infinità di irresponsabili comandano, dove nessuno crea, perché gli incompetenti riddano attorno agli stipendi e alle sinecure, dove il domani è buio perché non esiste un'attività generale organizzata che segua rettilineamente una via conosciuta. È il paese del disordine permanente, della censura permanente, dello stato d'assedio permanente, anche se decreti e disposizioni particolari annunziano, confermano, ripetono, avvertono, assicurano. Esiste piú uno Stato? Esistono piú leggi generali? Esiste piú una gerarchia d'autorità che effettivamente riesca a ottenere obbedienza dai subalterni? Pulcinella trema; egli ha sentito rumore e il terrore bianco gli ha fermato il cuore, gli ha spezzato i tendini, gli ha atrofizzato il cervello.

Un Soviet locale61

La Fiat è diventata una colonia nord-americana, dove i probi pionieri wilsoniani, con tenacia e perseveranza, lavorano per creare il primo nucleo sociale italiano della Società delle Nazioni. Il capitalista Agnelli è convinto assertore della pace perpetua. Convinto e volenteroso. Una grande idea ha conquistato la sua coscienza. Può un uomo d'azione, un realizzatore, un creatore, un demiurgo della statura di Giovanni Agnelli, lasciare che le grandi idee ammuffiscano nelle soffitte della coscienza? La coscienza di Giovanni Agnelli è un granitico blocco senza interessi e screpolature: fede vi significa azione, concetto universale vi significa atto storico concreto. L'Agnelli è un uomo moderno, è un militante dell'ideologia democratica; vuole la libertà dei popoli, il riconoscimento delle nazionalità battezzate e cresimate con l'autodecisione plebiscitaria e la costituente. Vuole concretamente e, pertanto, da fedele milite dell'ideale, suscita, nella sfera d'azione della sua volontà individuale, le condizioni necessarie e sufficienti perché il vero diventi fatto, perché l'ideale si attui in istituto storico efficiente. Ed ecco come la Fiat è diventata nucleo sociale organico della Società delle libere nazioni.

Perché le nazioni siano libere, è necessario che gli individui siano «disciplinati» alla libertà nazionale. Gli individui che, per dovere professionale e per ragion pratica di sussistenza, frequentano la Fiat, possono avere interessi contrari e idealità contrastanti con la Lega delle libere nazioni. È necessario quindi sottoporli a rigoroso controllo e disinfezione, e prevenire ogni loro azione che intralci l'inveramento dell'idea. La Fiat, nucleo originario della veniente Società delle Nazioni, si trasforma in uno Stato sovrano, che ha il suo monarca, il suo ministero esecutivo e gli organi di ordinaria amministrazione statale volgarmente conosciuti col nome di polizia. Ecco dunque la giustificazione storica e razionale delle «colombe» che tutelano l'ordine interno della Fiat («colombe», intuizione gentile linguistica, in cui si contempera la realtà e l'ideale, la pace nell'ordine, la libertà ben intesa e l'autorità; aver scelto la colomba come distintivo della polizia interna nella Fiat, è documento della genialità moderna e wilsoniana del cav. Agnelli). Le «colombe» si sono rapidamente identificate con la dialettica finalistica della Società che sono destinate ad annunciare ed a far nascere; esse capiscono che il metodo migliore di governo è prevenire e non reprimere. Pertanto presuppongono che ogni cittadino del nuovo felice Stato della Fiat sia un ladro, e controllano, controllano, perquisiscono, frugano. Ma non bisogna offendersi; il regime delle libere nazioni ha le sue inevitabili esigenze, cui bisogna sottostare per il felice progresso dell'umanità.

Come bisogna sottostare al controllo politico? Potrebbe realizzarsi l'ordine nuovo wilsoniano, se fosse concessa libertà di propaganda e d'azione agli sconsigliati mestatori che pretendono insolentemente di pensarla in modo diverso da Wilson e da Agnelli? La Società delle Nazioni vuole instaurare la pace perpetua, all'interno e all'estero. La lotta di classe, turbando i rapporti di produzione e di scambio, genera malessere interno e genera necessità di guerre esterne. Il capitalista, per soddisfare le domande delle maestranze, dovrebbe far pressione sullo Stato centrale per indurlo a conquistare nuovi mercati di esportazione; e allora, la pace perpetua, me la saluta lei? È necessario quindi il controllo politico che impedisca la concentrazione degli operai intorno a un'idea, all'idea socialista, che suscita bisogni insolenti e stimola insolenti domande e, insolenza insolentissima, suggerisce i mezzi adeguati e fruttuosi per costringere i capitalisti a soddisfare le insolenti domande. Ecco dunque la giustificazione razionale e storica della creazione, nel felice Stato sovrano della Fiat, di un corpo di sorveglianti politici che «prevenga» gli operai dal fare propaganda per l'Avanti! e per l'idea dei Soviet proletari.

Cosí la Fiat diventa nucleo originario ed organico della Società delle Nazioni, si badi, non degli Stati. Lo Stato accentrato politicamente nel parlamento è forma politica piccolo-borghese. Lo Stato capitalista è la Società delle Nazioni, Stato di classe squisitamente cosmopolita com'è il capitalismo. Gli organi efficienti e storici della Società delle Nazioni sono gli aggruppamenti industriali, o Soviet dei capitalisti. In Italia è nato il primo Soviet dei capitalisti, la Fiat di Giovanni Agnelli, piccolo Stato locale con polizia propria, con un organo giudiziario preventivo proprio, con una legge «generale» propria, che dovrà instaurare la Società delle Nazioni, ossia la esplicita dittatura del capitalismo che abolisce la lotta di classe col terrore bianco, per evitare che sorgano i Soviet dei proletari che aboliscano loro le classi col terrore rosso. La dialettica storica continua a svilupparsi, unificando i contrari. Siamo giunti al Soviet. Lo sviluppo ulteriore dirà quale forza storica aggettiverà permanentemente il sostantivo: capitalista o proletario?

Stato è sovranità62

Nel suo articolo Perché sono uomo d'ordine il prof. Balbino Giuliano ha posto una quistione di sincerità e di galantomismo politico a coloro che ancora «credono» nel socialismo, nella lotta di classe, nel determinismo economico, e altrettali materialistiche metafisicherie. Il prof. Balbino Giuliano ha «creduto» anch'egli, un tempo, a «tutte queste cose»; oggi non ci «crede» piú. La sua fede e la sua fedeltà le ha dedicate a idee e concetti piú alti e piú vivi; egli è ritornato a Mazzini e si è convinto che la quistione sociale è essenzialmente quistione morale, quistione di cultura, d'educazione spirituale in genere; ha detronizzato il Manifesto dei comunisti e ha rimesso sull'altare I doveri dell'uomo.

Ma Balbino Giuliano è essenzialmente un maestro; pertanto vuole che la sua esperienza individuale non vada perduta. Ed ecco che la esperienza individuale di B. G. diventa «universale concreto», teoreticamente, e genera una norma d'azione pratica: o giovani, che per pigrizia mentale o per sofistica avvocatesca, «credete» ancora nel socialismo, ricredetevi, la vostra energia di pensiero dedicatela alla purificazione interiore e allo studio dei problemi concreti!

Credo che Balbino Giuliano abbia «creduto» nel socialismo, non credo che B. G. «sia stato» socialista. La storia spirituale (o la cronaca spirituale) di B. G. come di Gaetano Salvemini, come di tutti gli intellettuali che hanno «creduto» nel socialismo, è anch'essa un momento della storia della società moderna capitalistica: è la dolorosa storia della piccola borghesia, di questa classe media che in Inghilterra e in Francia è arrivata al potere dello Stato, ma che in Italia e in Russia non ha potuto svolgere alcun compito preciso ed è stata rivoluzionaria fino a quando la classe lavoratrice, debole e scompaginata, teorizzava la dialettica della sua specifica funzione sociale ed era per gli intellettuali dato esteriore per costruire miti ideologici; e si è convertita all'«ordine», appena la classe lavoratrice, compostasi in unità sociale, divenuta una potenza, ha incominciato ad attuare, coi metodi e coi procedimenti propri, il proprio divenire specifico, rompendo ogni schema prestabilito intellettualisticamente dalle mosche cocchiere della piccola borghesia.

Il socialismo è stato per B. G. atto di fede in una legge naturale che trascende lo spirito. Il suo socialismo non è stato quindi un atto di vita, ma un puro riflesso di sentimento, una mistica, non una pratica. Egli non ha neppure oggi superato criticamente questo momento del suo spirito; è avvenuto in lui un semplice spostamento, una sostituzione di contenuto empirico, ma l'immaturità non è divenuta maturità nonostante l'uso e l'abuso della fraseologia idealistica.

Il determinismo economico, prima che essere fondamento scientifico dell'azione politica ed economica della classe lavoratrice, è autocoscienza storica della classe lavoratrice, è norma d'azione, è dovere morale. La dottrina della lotta di classe sarà meno viva e meno alta della dottrina mazziniana, ma è questa una valutazione astratta, puramente intellettuale: storicamente, concretamente, la dottrina della lotta di classe è superiore al mazzinianismo di quanto la critica è superiore al sentimento, di quanto la volontà critica è superiore all'arbitrio puerile, di quanto la necessità divenuta consapevolezza è superiore alla vacua fraseologia umanitaria, che si illude basti proporre un fine sublime perché esso sia morale e sia sublime.

Balbino Giuliano è un astrattista, non un realista, è un cattolico, non un idealista.

Egli consiglia ai giovani lo studio dei «problemi concreti», e sostiene la quistione sociale essere quistione morale, quistione di educazione spirituale.

Ma i suoi «problemi concreti» sono semplicemente problemi di politica empirica; la concretezza non è altro che limitazione empirica nel tempo e nello spazio, puro tecnicismo materialistico, che nell'arte ci riporterebbe ai generi letterari e alla estetica del contenuto.

Concretezza è organicità, e l'organicità dei problemi sociali si ritrova nella politica, che è l'atto creativo dello spirito pratico. Il «sapere» e il «volere» individuali devono sostanziarsi in «potere», se hanno un fine concreto, se sono «galantomismo» e «lealtà».

Il problema concreto non si risolve che nello Stato, e pertanto non si è «concreti» senza una concezione generale dell'essenza e dei limiti dello Stato. E poiché lo Stato è una sovranità organizzata in potere, non si è concreti senza una concezione generale del concetto di sovranità, senza un'adeguazione della propria energia individuale all'atto universale che opera attraverso la sovranità e si esprime in tutto il complesso meccanismo dell'amministrazione statale.

Il Giuliano non è un idealista; è un positivista all'inglese, con una incipriatura di fraseologia idealistica. La quistione sociale è vista, da buon puritano, come quistione morale, di purificazione interiore, da raggiungere attraverso la cultura e l'educazione individuale. La quistione sociale non è piú un problema storico, un momento necessario dello sviluppo progressivo della società umana, da superare storicamente, sostanziando di potenza materiale e spirituale la classe lavoratrice che porrà a base della sovranità e dello Stato l'atto produttivo di beni nel quale tutti gli uomini raggiungeranno una nobiltà spirituale, sostituendo quest'atto all'empiria del «maggior numero» democratico che si organizza attraverso la violenza e l'inganno demagogico, ma ridiventa il problema del male come lo concepiscono i cattolici, e lo concepiscono gli epigoni dell'illuminismo enciclopedista annidatisi nelle università popolari. Per un idealista, cosí posto, il problema è una vacuità fraseologica ed è irrisolvibile «politicamente»; è un travestimento buffo dello spirito cristiano; è una cattiva azione, è una scaturigine di pervertimento sociale e di scetticismo individuale, è l'arresto della vita storica per un ascetismo che ha i suoi cenobi nelle biblioteche e il suo rito nelle giostre oratorie e nelle polemiche rivistaiole.

Se il Giuliano avesse non «creduto» nel socialismo, ma fosse stato socialista, se la immaturità della percezione intellettuale fosse divenuta maturità nell'atto creativo di consapevolezza teoretica e di norma pratica, altri problemi concreti avrebbe proposto alla meditazione e alla soluzione-azione.

Perché anche la dottrina del materialismo storico ha i suoi problemi concreti educativi e spirituali. Perché gli intellettuali del socialismo hanno dei doveri immediati, quando traducono in pratica la meditazione filosofica. A questi doveri il Giuliano non ha obbedito, e la sua mancata adesione al dovere giustifica col fallimento delle dottrine.

La dottrina del materialismo storico è l'organizzazione critica del sapere sulle necessità storiche che sostanziano il processo di sviluppo della società umana, non è l'accertamento di una legge naturale, che si svolge «assolutamente» trascendendo lo spirito umano. È autocoscienza stimolo all'azione, non scienza naturale che esaurisca i suoi fini nell'apprendimento del vero. Se la «necessità» storica trascende l'arbitrio dell'individuo posto come pura ragione, come cellula empirica della società, è immanente in ogni individuo, momento concreto dello spirito universale che attua l'essenziale legge del suo sviluppo: è quindi «prassi», superamento continuo, adeguazione continua dell'individuo empirico alla universalità spirituale.

Il Giuliano non è stato «fedele» allo spirito universale, egli che aveva, da socialista, il compito educativo di adeguare gli operai e i contadini alle necessità storiche universali quali si concretano e si definiscono nella funzione storica della classe lavoratrice. I problemi concreti sarebbero stati allora per lui, l'educare gli spiriti immaturi della classe lavoratrice all'esercizio concreto della sovranità del lavoro, alla fondazione del nuovo Stato che ordini la sua attività sull'atto produttivo, sul dinamismo del lavoro, sostituendo lo Stato capitalista, condizionato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, adorante il vitello d'oro, mostruoso Moloch che sacrifica la vita per spostare individualmente e nazionalmente la proprietà privata.

Il problema concreto, oggi, dopo che la guerra, distruggendo e isterilendo le fonti della ricchezza, ha fatto diventare frenetici gli uomini prospettando il pericolo che mezza umanità sia condannata a morire di esaurimento, per l'impossibilità fisiologica che il regime individualistico di libera concorrenza restauri le macerie e dia nuove possibilità di vita — il problema concreto, oggi, in piena catastrofe sociale, quando tutto è stato dissolto e ogni gerarchia autoritaria è scardinata irrimediabilmente — è quello di aiutare la classe lavoratrice ad assumere il potere politico, è quello di studiare e ricercare i mezzi adeguati perché la traslazione del potere dello Stato avvenga con effusione minima di sangue, perché lo Stato nuovo comunista si attui diffusamente dopo un breve periodo di terrore rivoluzionario.

Ma questa concretezza sfugge agli illuministi dell'astratta ragione ragionante. Essi, i profondi studiosi dei problemi concreti, reputano il bolscevismo (nel numero scorso, Energie Nove ha pubblicato un articolo di P. Ballario sul bolscevismo. Un ufficiale italiano ritornato da Mosca pochi mesi fa, racconta che il Soviet di Mosca in ogni assemblea, si fa tradurre i giudizi e le impressioni latine e anglosassoni sul bolscevismo e sui Soviet. L'ufficiale italiano era umiliato dalla gioconda ilarità di quei delegati operai per le scempiaggini che la cronaca europea scrive sulla loro attività politica ed economica; era umiliato ed avvilito, perché la guerra, apportatrice in Russia di un ordine, che coincide con la coscienza e la volontà della totale società russa, e si sviluppa di un secolo ogni anno perché condizionato dalla sola volontà buona degli uomini, non avesse nei nostri paesi contribuito che a moltiplicare la già vasta tribú degli scemi, che confondono la vita e il pensiero con l'arte di fare sberleffi) un fenomeno «russo», hanno ucciso l'uomo per il concetto, hanno ucciso lo Stato per il «problema» e «l'ordine», nel processo di immiserimento della coscienza storica, può finire, identificandosi in un delegato di pubblica sicurezza.

Leninismo e marxismo di Rodolfo Mondolfo63

Si racconta che un professore tedesco di scuole medie, riuscito stranamente a innamorarsi, cosí combinasse insieme la pedagogia e la tenerezza: — Mi ami tu, tesoretto mio? — Si. — No, nella risposta deve essere ripetuta la domanda in questo modo: Si, ti amo, topolino mio!

Rodolfo Mondolfo è quel professore; il suo amore per la rivoluzione è amore grammaticale. Egli interroga e si indispone per le risposte. Domanda: Marx? Gli si risponde: Lenin. Ciò non è scientifico, poveri noi, non può soddisfare il senso filologico dell'erudito e dell'archeologo. E con una serietà cattedratica che intenerisce, il Mondolfo boccia, boccia, boccia: zero in grammatica, zero in scienza comparata, zero nella prova pratica di magistero.

La serietà professorale sappiamo essere solo una parvenza di serietà: è pedanteria, è filisteismo, spesso è incomprensione assoluta. Il Mondolfo fa un processo d'intenzioni, e attribuisce ai comunisti russi intenzioni che, o non hanno mai avuto, o non hanno alcun valore storico reale. L'essenziale fatto della rivoluzione russa è l'instaurazione di un tipo nuovo di Stato: lo Stato dei Consigli. Ad esso deve rivolgersi la critica storica. Tutto il resto è contingenza, condizionata dalla vita politica internazionale che per la rivoluzione russa significa: blocco economico, guerra su fronti di migliaia di chilometri contro gli invasori, guerra interna contro i sabotatori. Inezie, per il Mondolfo, che non ne tiene conto alcuno. Egli vuole precisione grammaticale da uno Stato che tutto il suo potere e i suoi mezzi è costretto a impiegare per sussistere, per saldare la sua esistenza alla rivoluzione internazionale.

Il Mondolfo rivolge tutto il suo acume per spremere un senso antimarxista da una novellina di Massimo Gorki, Lampadine. La novellina è stata pubblicata dalle Isvestia, di Pietrogrado (il Mondolfo forse ignora questo particolare), dal giornale ufficiale della Comune del Nord, cioè. Perché è suggestiva, perché rende con sufficiente chiarezza il processo di sviluppo del comunismo russo. Il Mondolfo, che non tiene conto del fatto essenziale della rivoluzione russa, lo Stato dei Soviet, non ha compreso la novellina. Intanto il suo testo non è esatto: è stato tradotto dal tedesco, mentre il Mercure de France ne ha pubblicato una diretta traduzione dal russo. Nel Mercure, i mugik del contado di Omsk effettuano un atto reale di lotta di classe: non è un villaggio che espropria un altro villaggio, ma le requisizioni avvengono nel Belo, cioè nel centro campagnolo dove abita la borghesia, i ricconi (come il mugik siberiano chiama la borghesia); nel «castello» come si esprimerebbe un contadino meridionale d'Italia. E la novellina descrive come avvengano i contatti tra l'industria moderna e l'agricoltura patriarcale, come cioè i bolscevichi riescano a suscitare, nell'interesse degli uni e degli altri, l'unità tra i contadini e gli operai. E descrive come avvenga, in regime comunista, l'accumulamento del capitale (necessario per il progresso economico) che, essendo amministrato dal Soviet, dal potere dello Stato, e non da privati individui, dimostra una possibilità di sviluppo sociale nella rivoluzione russa, che sfugge completamente al Mondolfo, come al grammatico sfugge sempre l'anima della poesia.

Il Mondolfo ha rimproverato ai tedeschi la schiavitú dello spirito. Ahimè, quanti papi infallibili tiranneggiano la coscienza degli uomini liberi e inaridiscono in loro ogni sorgente di umanità.

L'internazionale comunista64

L'Internazionale comunista è nata e si sviluppa dalle rivoluzioni proletarie e con le rivoluzioni proletarie. Già tre grandi Stati proletari: le Repubbliche soviettiste di Russia, di Ucraina e di Ungheria ne formano la base reale storica.

In una lettera a Sorge del 12 settembre 1874, Federico Engels scrisse a proposito della I Internazionale in via di sfacelo: «L'Internazionale ha dominato dieci anni di storia europea e può con fierezza guardare l'opera sua. Ma essa è sopravvissuta nella sua forma antiquata. Credo che la prossima Internazionale sarà, dopo che gli scritti di Marx avranno operato per qualche anno, direttamente comunista e instaurerà i nostri princípi».

La II Internazionale non realizzò la fede dell'Engels; dopo la guerra, invece, e dopo le esperienze positive della Russia, si sono disegnati nettamente i contorni dell'Internazionale rivoluzionaria, dell'Internazionale di realizzazione comunista.

La nuova Internazionale ha per base l'accettazione di queste tesi fondamentali, che sono elaborate secondo il programma della Lega Spartaco di Germania e del Partito comunista (bolscevico) di Russia:

1) L'epoca attuale è l'epoca della decomposizione e del fallimento dell'intero sistema mondiale capitalista, ciò che significherà il fallimento della civiltà europea se il capitalismo non verrà soppresso con tutti i suoi antagonismi irrimediabili.

2) Il compito del proletariato nell'ora attuale consiste nella conquista dei poteri dello Stato. Questa conquista significa: soppressione dell'apparato governativo della borghesia e organizzazione di un apparato governativo proletario.

3) Questo nuovo governo proletario è la dittatura del proletariato industriale e dei contadini poveri, che deve essere lo strumento della soppressione sistematica delle classi sfruttatrici e della loro espropriazione. Il tipo di Stato proletario non è la falsa democrazia borghese, forma ipocrita della dominazione oligarchica finanziaria, ma la democrazia proletaria che realizzerà la libertà delle masse lavoratrici; non il parlamentarismo, ma l'autogoverno delle masse attraverso i propri organi elettivi; non la burocrazia di carriera, ma organi amministrativi creati dalle masse stesse, con la partecipazione reale delle masse all'amministrazione del paese e all'opera socialista di costruzione. La forma concreta dello Stato proletario è il potere dei Consigli o di organizzazioni consimili.

4) La dittatura del proletariato è la leva dell'espropriazione immediata del capitale e della soppressione del diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione, che devono essere trasformati in proprietà della nazione intera. La socializzazione della grande industria e dei suoi centri organizzatori, le banche; la confisca delle terre dei proprietari fondiari e la socializzazione della produzione agricola capitalista (comprendendo per socializzazione la soppressione della proprietà privata, il passaggio della proprietà allo Stato proletario e lo stabilimento dell'amministrazione socialista a mezzo della classe operaia); il monopolio del grande commercio; la socializzazione dei grandi palazzi nelle città e dei castelli nelle campagne; l'introduzione dell'amministrazione operaia e l'accentramento delle funzioni economiche nelle mani degli organi della dittatura proletaria, ecco il còmpito del governo proletario.

5) Al fine di assicurare la difesa della rivoluzione socialista contro i nemici interni ed esterni, e il soccorso ad altre frazioni nazionali del proletariato in lotta, è necessario di disarmare completamente la borghesia e i suoi agenti, e di armare tutto il proletariato, senza eccezione.

6) La situazione mondiale nell'ora presente esige il massimo contatto fra le differenti frazioni del proletariato rivoluzionario, come pure il blocco completo dei paesi nei quali la rivoluzione socialista è gia vittoriosa.

7) Il metodo principale di lotta è l'azione delle masse del proletariato fino al conflitto aperto contro i poteri dello Stato capitalista.

Tutto il movimento proletario e socialista mondiale si orienta decisamente verso l'Internazionale comunista. Gli operai e i contadini sentono tutti, anche se confusamente e vagamente, che le Repubbliche soviettiste di Russia, Ucraina e Ungheria sono le cellule di una nuova società che realizza tutte le aspirazioni e le speranze degli oppressi del mondo. L'idea della difesa delle rivoluzioni proletarie dagli assalti del capitalismo mondiale deve servire a stimolare i fermenti rivoluzionari delle masse: su questo piano è necessario concertare un'azione energica e simultanea dei partiti socialisti di Inghilterra, di Francia e di Italia che imponga l'arresto di ogni offensiva contro la repubblica dei Soviet. La vittoria del capitalismo occidentale sul proletariato russo significherebbe l'Europa gettata per un ventennio in braccio alla piú feroce e spietata reazione. Nessun sacrificio può essere grande se si riuscirà a impedire che ciò avvenga, se si riuscirà a rafforzare l'Internazionale comunista, che sola darà al mondo la pace nel lavoro e nella giustizia.

Einaudi o dell'utopia liberale65

Nella Nuova Rivista Storica Umberto Ricci ha proposto che fossero raccolti in volume gli innumerevoli articoli coi quali il prof. Luigi Einaudi ha, durante un ventennio, erudito il popolo italiano, dalle colonne della Stampa e del Corriere della Sera, sui problemi della nostra vita economica nazionale. Ci associamo alla proposta del Ricci e la integriamo: la direzione del Partito faccia compilare un'epitome del volume e la diffonda; sarà un efficace contributo alla propaganda comunista, un documento di prim'ordine dell'utopia liberale.

Einaudi rimarrà nella storia economica come uno degli scrittori che piú hanno lavorato a edificare sulla sabbia. Serio come un bambino che s'interessa al gioco, ha tessuto un'infinita tela di Penelope che la crudele realtà gli ha quotidianamente disfatto. Costante ed imperterrito ha sempre continuato a distendere i suoi articoli sobri, saggi, pazienti per spiegare, per rischiarare, per incitare la classe dirigente italiana, i capitalisti italiani, industriali ed agrari, a seguire i loro veri interessi. Miracolo strano e stupefacente: i capitalisti non vollero mai saperne dei veri interessi, continuarono per la loro scorciatoia melmosa e spinosa, invece di saldamente [tenersi sulla strada] maestra della libertà commerciale totalmente applicata. E gli scritti dell'Einaudi ne diventano un eterno rimpianto, un gemito sommesso che strazia le viscere: ah! se avessero fatto questo, ah! se il Parlamento..., ah! se gli industriali!... Ah! se gli operai..., ah, se i contadini..., ha! se la scuola..., ah! se i giornali..., ah! se i giovani!... Da vent'anni è la stessa elegia che risuona dall'Alpi al Lilibeo; e gli uomini non hanno cambiato, e la vita economica non ha spostato il suo asse che impercettibilmente, e la corruzione, l'imbroglio, l'illusione demagogica, il ricatto, la truffa parlamentare, l'anchilosi burocratica sono rimaste le supreme idee conduttrici dell'attività economica nazionale.

Einaudi è antimarxista implacabile; non riconosce al Marx merito alcuno; recentemente gli ha negato persino, in polemica con Benedetto Croce, il merito affatto esteriore di aver dato impulso alle ricerche economiche nello studio della storia. Per Einaudi, Marx non è uno scienziato, non è uno studioso che proceda sistematicamente dal riconoscimento della realtà effettuale economica; è un giocoliere della fantasia, un acrobata del dilettantismo. Le sue tesi sono arbitrarie, le sue dimostrazioni sono sofistiche, la sua documentazione è parziale.

Eppure, il reale sviluppo della storia dà ragione a Marx; le tesi marxiane si attuano rigidamente, mentre la scienza di Einaudi va in pezzi e il mondo liberale si disfà, in Inghilterra con maggior schiamazzo che altrove. La verità è che la scienza economica liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore sperimentale non è che una superficiale illusione. Studia i «fatti» e trascura gli «uomini»; i processi storici sono visti come regolati da leggi perpetuamente simili, immanenti alla realtà dell'economia che è concepita avulsa dal processo storico generale della civiltà. La produzione e lo scambio delle merci vi diventano fine a se stessi; si svolgono in un meccanismo di cifre rigide e autonome, che può venir «turbato» dagli uomini, ma non ne è determinato e vivificato. Questa scienza è, insomma, uno schema, un piano prestabilito, una via della provvidenza, una utopia astratta e matematica, che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai riscontro alcuno nella realtà storica. I suoi addetti hanno tutta la mentalità dei sacerdoti: sono queruli e scontenti sempre, perché le forze del male impediscono che la città di Dio venga da loro costruita in questo basso mondo.

Accusano Marx di astrattismo perché le sue teorie del plusvalore evadono dal dominio del rigore scientifico. Rigore scientifico significa formulario della dottrina scientifica. Marx stabilisce un paragone tra l'economia capitalistica e il comunismo: un paragone, che è arbitrario, perché il comunismo è un'ipotesi vana senza soggetto. Ma tutta l'economia liberale non è un paragone tra la realtà antiscientifica e uno schema dottrinario? Dove esiste la perfetta società liberale? Quando si è realizzata nella storia del genere umano? E se non si è realizzata, non significa che è irrealizzabile, che riveste i caratteri rivelatori dell'utopia? Ma essa verrà, dicono i sacerdoti. Lavoriamo, siamo pazienti, non turbiamoci: le forze del male saranno sgominate, la verità rifulgerà agli uomini illusi e pervertiti. Intanto la guerra ha distrutto tutte le conquiste dell'ideologia liberale. La libertà, economica e politica, è scomparsa nella vita interna degli Stati e nei rapporti internazionali. Lo Stato è apparso nella sua funzione essenziale di distributore di ricchezza ai privati capitalisti; la concorrenza politica per il potere è soppressa con l'abolizione dei parlamenti. La burocrazia si è estesa, diventando piú greve e impacciante. Il militarismo, improduttivo secondo l'economia liberale, è diventato il mezzo piú potente di accumulare e conservare il profitto, col saccheggio delle economie estere e il terrore bianco all'interno. Il monopolio si è rafforzato in tutte le attività, assoggettando tutto il mondo agli interessi egoistici di pochi capitalisti anglosassoni.

Gli schemi del liberalismo sono disfatti: le tesi marxiane si attuano. Il comunismo è umanismo integrale: studia, nella storia, tanto le forze economiche che le forze spirituali, le studia nelle interferenze reciproche, nella dialettica che si sprigiona dai cozzi inevitabili tra la classe capitalista, essenzialmente economica, e la classe proletaria, essenzialmente spirituale, tra la conservazione e la rivoluzione. La demagogia, l'illusione, la menzogna, la corruzione della società capitalistica non sono accidenti secondari della sua struttura, sono inerenti al disordine, allo scatenamento di brutali passioni, alla feroce concorrenza in cui e per cui la società capitalistica vive. Non possono essere abolite, senza abolire la struttura che la genera. Le prediche, gli stimoli, le moralità, i ragionamenti, la scienza, i «se...» sono inutili e ridicoli. La proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto d'interesse generale, rende cieche e torbide le coscienze. Il lucro singolo finisce sempre col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale; per guadagnare centomila lire si affama una città; per guadagnare un miliardo si distruggono venti milioni di vite umane e duemila miliardi di ricchezza. La vita degli uomini, le conquiste della civiltà, il presente, l'avvenire sono in continuo pericolo. Queste alee, questo correr sempre l'avventura, potrà soddisfare i dilettanti della vita e chi può mettersi in salvo coi suoi; ma la grande massa ne diventa schiava, e si organizza per liberarsi, per conquistare il potere di rendere sicura la vita e la civiltà, di vedere l'avvenire, di lavorare e produrre per il benessere e la felicità e non per l'avventura e la perversione. Ecco perché lo sviluppo del capitalismo, culminato nella distruzione della guerra, ha determinato il costituirsi delle immense organizzazioni proletarie, unite da uno stesso pensiero, da una stessa fede, da una stessa volontà; il comunismo, istaurato attraverso lo Stato dei Consigli operai e contadini, che è l'umanismo integrale, come lo concepì Carlo Marx, che trionfa di tutti gli schemi astratti e giacobini dell'utopia liberale.

La taglia della storia66

Cosa domanda ancora la storia al proletariato russo per legittimare e rendere permanenti le sue conquiste? Quale altra taglia di sangue e di sacrifizio pretende ancora questa sovrana assoluta del destino degli uomini?

Le difficoltà e le obbiezioni che la rivoluzione proletaria deve superare si sono rivelate immensamente superiori a quelle di ogni altra rivoluzione del passato. Queste tendevano solo a correggere la forma della proprietà privata e nazionale dei mezzi di produzione e di scambio; toccavano una parte limitata degli aggregati umani. La rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non una sola parte di essi. Obbliga tutti gli uomini a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo unicellulare (di individui-cittadini) la trasforma in organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa. Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica. Perciò la rivoluzione proletaria e sociale: perciò deve superare difficoltà e obbiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon riuscimento taglie mostruose come quelle che il popolo russo è costretto a pagare.

La rivoluzione russa ha trionfato finora di tutte le obbiezioni della storia. Ha rivelato al popolo russo una aristocrazia di statisti che nessun'altra nazione possiede; sono un paio di migliaia di uomini che tutta la vita hanno dedicato allo studio (sperimentale) delle scienze politiche ed economiche, che durante decine d'anni d'esilio hanno analizzato e sviscerato tutti i problemi della rivoluzione, che nella lotta, nel duello impari contro la potenza dello zarismo, si sono temprati un carattere d'acciaio, che, vivendo a contatto di tutte le forme della civiltà capitalista d'Europa, d'Asia, d'America, immergendosi nelle correnti mondiali dei traffici e della storia, hanno acquistato una coscienza di responsabilità esatta e precisa, fredda e tagliente come la spada dei conquistatori d'imperi.

I comunisti russi sono un ceto dirigente di primo ordine. Lenin si è rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il piú grande statista dell'Europa contemporanea; l'uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l'uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono essere rivolte a benefizio della rivoluzione; che tiene in iscacco e batte i piú raffinati e volpini statisti della routine borghese.

Ma altro è la dottrina comunista, il partito politico che la propugna, la classe operaia che la incarna consapevolmente, e altro è l'immenso popolo russo, disfatto, disorganizzato, gettato in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione da una guerra lunga e disastrosa. La grandezza politica, il capolavoro storico dei bolscevichi in ciò appunto consiste: nell'aver risollevato il gigante caduto, nell'aver ridato (o dato per la prima volta) una forma concreta e dinamica a questo sfacelo, a questo caos; nell'aver saputo saldare la dottrina comunista con la coscienza collettiva del popolo russo, nell'aver gettato le solide fondamenta sulle quali la società comunista ha iniziato il suo processo di sviluppo storico, nell'avere, in una parola, tradotto storicamente nella realtà sperimentale la formula marxista della dittatura del proletariato. La rivoluzione è tale e non una vuota gonfiezza della retorica demagogica, quando si incarna in un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato del potere. Non esiste società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine di ogni diritto e di ogni dovere, che è garanzia di permanenza e di successo di ogni attività sociale. La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita e s'incarna in uno Stato tipicamente proletario, custode del diritto proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della vita e della potenza proletaria.

I bolscevichi hanno dato forma statale alle esperienze storiche e sociali del proletariato russo, che sono le esperienze della classe operaia e contadina internazionale; hanno sistemato in organismo complesso e agilmente articolato la sua vita piú intima, la sua tradizione e la sua storia spirituale e sociale piú profonda e amata. Hanno rotto col passato, ma hanno continuato il passato; hanno spezzato una tradizione, ma hanno sviluppato e arricchito una tradizione: hanno rotto col passato della storia dominato dalla classe possidente, hanno continuato, sviluppato, arricchito la tradizione vitale della classe proletaria, operaia e contadina. In ciò sono stati rivoluzionari, perciò hanno instaurato l'ordine e la disciplina nuovi. La rottura è irrevocabile, perché tocca l'essenziale della storia, è senza possibilità di ritorni indietro, ché altrimenti un immane disastro piomberebbe sulla società russa. Ed ecco iniziarsi un formidabile duello con tutte le necessità della storia, dalle piú elementari alle piú complesse, che occorreva incorporare nel nuovo Stato proletario, dominare, infrenare nelle funzioni del nuovo Stato proletario.

Bisognava conquistare al nuovo Stato la maggioranza leale del popolo russo. Bisognava rivelare al popolo russo che il nuovo Stato era il suo Stato, la sua vita, il suo spirito, la sua tradizione, il suo patrimonio più prezioso. Lo Stato dei Soviet aveva un ceto dirigente, il Partito comunista bolscevico; aveva l'appoggio di una minoranza sociale rappresentante la consapevolezza di classe, degli interessi vitali e permanenti di tutta la classe, gli operai dell'industria. Esso è divenuto lo Stato di tutto il popolo russo e ciò hanno ottenuto la tenace perseveranza del Partito comunista, la fede e la lealtà entusiastiche degli operai, l'assidua e incessante opera di propaganda, di rischiaramento, di educazione degli uomini eccezionali del comunismo russo, condotti dalla volontà chiara e rettilinea del maestro di tutti, Nicola Lenin. Il Soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici) permanenti e vitali della grande massa del popolo russo, che incarna e soddisfa le aspirazioni e le speranze di tutti gli oppressi del mondo.

La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di miseria, di barbarie, di anarchia; l'organizzazione dei servizi sociali era sfatta; la compagine umana stessa si era ridotta a un'orda nomade di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di una immensa decomposizione. Il nuovo Stato raccoglie dalle macerie i frantumi logori della società e li ricompone, li rinsalda: ricrea una fede, una disciplina, un'anima, una volontà di lavoro e di progresso. Compito che potrebbe essere gloria di un'intera generazione.

Non basta. La storia non è contenta di questa prova. Nemici formidabili si drizzano implacabilmente contro il nuovo Stato. Si batte moneta falsa per corrompere il contadino, si stuzzica il suo stomaco affamato. La Russia viene tagliata da ogni sbocco al mare, da ogni traffico, da ogni solidarietà: viene privata dell'Ucraina, del bacino del Donetz, della Siberia, di ogni mercato di materie prime e di viveri. Su un fronte di diecimila chilometri bande di armati minacciano l'invasione: sollevazioni, tradimenti, vandalismi, atti di terrorismo e di sabotaggio vengono pagati. Le vittorie piú clamorose si tramutano, per il tradimento, in rovesci subitanei.

Non importa. Il potere dei Soviet resiste: dal caos della disfatta crea un esercito potente che diviene la spina dorsale dello Stato proletario.

Premuto da forze antagonistiche immani trova in sé il vigore intellettuale e la plasticità storica per adattarsi alle necessità della contingenza, senza snaturarsi, senza compromettere il felice processo di sviluppo verso il comunismo.

Lo Stato dei Soviet dimostra cosí di essere un momento fatale ed irrevocabile del processo fatale della civiltà umana, di essere il primo nucleo di una società nuova.

Poiché gli altri Stati non possono convivere con la Russia proletaria e sono impotenti a distruggerla, poiché i mezzi enormi di cui il capitale dispone — il monopolio delle informazioni, la possibilità della calunnia, la corruzione, il blocco terrestre e marittimo, il boicottaggio, il sabotaggio, la slealtà spudorata (Prinkipo), la violazione del diritto delle genti (guerra senza dichiarazione), la pressione militare con mezzi tecnici superiori — sono impotenti contro la fede di un popolo, è necessario storicamente che gli altri Stati spariscano o si trasformino omogeneamente alla Russia.

Lo scisma del genere umano non può durare a lungo. L'umanità tende all'unificazione interiore ed esteriore, tende a organarsi in un sistema di convivenza pacifica che permetta la ricostruzione del mondo. La forma del regime deve farsi capace di soddisfare i bisogni della umanità. La Russia, dopo una guerra disastrosa, col blocco, senza aiuti, sola con le proprie forze, ha vissuto per due anni; gli Stati capitalisti, con l'aiuto di tutto il mondo, esasperando lo sfruttamento coloniale per la vita propria, continuano a decadere, aggiungono rovine a rovine, distruzione a distruzione.

La storia è dunque in Russia, la vita è dunque in Russia, solo nel regime dei Consigli trovano la loro adeguata soluzione i problemi di vita o di morte che incombono sul mondo. La Rivoluzione russa ha pagato la sua taglia alla storia, taglia di morte, di miseria, di fame, di sacrifizio, di volontà indomata. Oggi il duello arriva al suo culmine: il popolo russo si è levato tutto in piedi, gigante terribile nella sua magrezza ascetica, dominando la folla di pigmei che furiosamente l'aggrediscono.

Si è armato tutto per la sua Valmy. Non può essere vinto; ha pagato la sua taglia. Deve essere difeso contro le orde di mercenari briachi, di avventurieri, di banditi che vogliono addentargli il cuore rosso e vivo. Gli alleati suoi naturali, i suoi compagni di tutto il mondo, devono fargli sentire un urlo guerriero che renda il suo urto irresistibile e gli apra le vie per rientrare nella vita del mondo.

Walt Whitman67

Abbiamo voluto commemorare, nel numero scorso, il primo centenario della nascita di Walt Whitman (31 maggio 1819) nel modo piú degno: traducendo e stampando uno dei piú bei canti del grandissimo poeta americano A un rivoluzionario vinto d'Europa.

L'ufficio torinese revisione stampa ha imbiancato inesorabilmente la poesia: ci ha imposto persino di sopprimere la nota bibliografica nella quale offendevamo le leggi statutarie e i decreti della patria scrivendo che la poesia era stata pubblicata la prima volta nel 1856 col titolo Inno di libertà per l'Asia, l'Europa, l'Africa e l'America e ripubblicata poi, con aggiunte e correzioni, negli anni 1867 e 1871, col titolo A un rivoluzionario vinto d'Europa.

I delegati di pubblica sicurezza, gli avvocati e i giornalisti smessi che esercitano l'ufficio di censura per delegazione dello Stato democratico-parlamentare-burocratico-poliziesco, non sono tenuti a sapere che Walt Whitman non è mai stato un agitatore, un uomo d'azione, un «sobillatore», per il quale la poesia fosse un mezzo di propaganda rivoluzionaria; essi hanno offeso la poesia, hanno sconciamente ingiuriato la bellezza e la grazia. Come scimmie ubbriache si sono sfogate oscenamente sulla bellezza, sulla pura creazione della fantasia artistica. Non riusciamo a vincere l'ira che ci gonfia il petto nel ricordare questa miserabile azione dei censori, per scriverne ora. Tanto piú l'ira ci vince, in quanto pensiamo al pregiudizio, diffuso tra i cosiddetti intellettuali, che il movimento operaio e il comunismo siano nemici della bellezza e dell'arte. Invece, amico dell'arte, favorevole alla creazione e alla contemplazione disinteressata della bellezza sarebbe il regime attuale, di mercanti avidi di ricchezza e di sfruttamento che esplicano la loro attività essenziale nel distruggere barbaramente la vita e la bellezza, il regime dei trafficanti che apprezzano il genio quando si è convertito in valore monetario, che hanno elevato la falsificazione dei capolavori a industria nazionale, che hanno soggiogato la poesia alle loro leggi dell'offerta e della domanda e mentre artificialmente «lanciano» avventurieri della letteratura, lasciano morire d'inedia e di disperazione artisti di prim'ordine «che i posteri rivendicheranno poiché i valori reali si impongono o prima o dopo» (consolazione estetico-liberale che assolve i droghieri, i salsamentari e i delegati di pubblica sicurezza, esponenti del regime, dai delitti che si commettono contro i viventi creatori della bellezza).

No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna comprendere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell'arte, alla creazione dell'arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitú del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell'uomo, che la rende degna di essere vissuta. Lo sforzo che i comunisti russi hanno fatto per moltiplicare le scuole e i teatri di prosa e di musica, per rendere accessibili alle folle le gallerie; il fatto che i villaggi e le fabbriche che si distinguono nella produzione vengono premiati con l'assegnazione di godimenti culturali ed estetici, dimostrano come il proletariato arrivato al potere tende a instaurare il regno della bellezza e della grazia, tende a elevare la dignità e la libertà dei creatori di bellezza.

In Russia i due commissari del popolo dell'Istruzione pubblica finora assunti in carica sono stati un finissimo esteta, Lunaciarski, e un grandissimo poeta, Massimo Gorki. In Italia alla Minerva si succedono massoni e trafficanti come Credaro e Daneo e Berenini e si lascia ai delegati di pubblica sicurezza il potere di imbiancare i canti di Walt Whitman.

Democrazia operaia68

Un problema si impone oggi assillante a ogni socialista che senta vivo il senso della responsabilità storica che incombe sulla classe lavoratrice e sul Partito che della missione di questa classe rappresenta la consapevolezza critica e operante.

Come dominare le immense forze sociali che la guerra ha scatenato? Come disciplinarle e dar loro una forma politica che contenga in sé la virtú di svilupparsi normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l'ossatura dello Stato socialista nel quale si incarnerà la dittatura del proletariato? Come saldare il presente all'avvenire, soddisfacendo le urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e «anticipare» l'avvenire?

Questo scritto vuole essere uno stimolo a pensare e ad operare; vuole essere un invito ai migliori e piú consapevoli operai perché riflettano e, ognuno nella sfera della propria competenza e della propria azione, collaborino alla soluzione del problema, facendo convergere sui termini di esso l'attenzione dei compagni e delle associazioni. Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l'azione concreta di costruzione.

Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente e attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale.

Il movimento operaio è oggi diretto dal Partito socialista e dalla Confederazione del lavoro; ma l'esercizio del potere sociale del Partito e della Confederazione si attua, per la grande massa lavoratrice, indirettamente, per forza di prestigio e di entusiasmo, per pressione autoritaria, per inerzia persino. La sfera di prestigio del Partito si amplia quotidianamente, attinge strati popolari finora inesplorati, suscita consenso e desiderio di lavorare proficuamente per l'avvento del comunismo in gruppi e individui finora assenti dalla lotta politica. È necessario dare una forma e una disciplina permanente a queste energie disordinate e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle, fare della classe proletaria e semiproletaria una società organizzata che si educhi, che si faccia una esperienza, che acquisti una consapevolezza responsabile dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello Stato.

Il Partito socialista e i sindacati professionali non possono assorbire tutta la classe lavoratrice, che attraverso un lavorío di anni e di diecine di anni. Essi non si identificheranno immediatamente con lo Stato proletario; nelle Repubbliche comuniste infatti essi continuano a sussistere indipendentemente dallo Stato, come istituti di propulsione (il Partito) o di controllo e di realizzazione parziale (i sindacati). Il Partito deve continuare a essere l'organo di educazione comunista, il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla mèta le forze organizzate e disciplinate della classe operaia e contadina. Appunto per svolgere rigidamente questo suo ufficio, il Partito non può spalancare le porte alla invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio della responsabilità e della disciplina.

Ma la vita sociale della classe lavoratrice è ricca di istituti, si articola in molteplici attività. Questi istituti e queste attività bisogna appunto sviluppare, organizzare complessivamente, collegare in un sistema vasto e agilmente articolato che assorba e disciplini l'intera classe lavoratrice.

L'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti, le comunità contadine, sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare.

Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate e arricchite, dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione.

Già fin d'oggi gli operai dovrebbero procedere alla elezione di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e piú consapevoli compagni, sulla parola d'ordine: «Tutto il potere dell'officina ai comitati d'officina», coordinata all'altra: «Tutto il potere dello Stato ai Consigli operai e contadini».

Un vasto campo di propaganda concreta rivoluzionaria si aprirebbe per i comunisti organizzati nel Partito e nei circoli rionali. I circoli, d'accordo con le sezioni urbane, dovrebbero fare un censimento delle forze operaie della zona; e diventare la sede del Consiglio rionale dei delegati dell'officina, il ganglio che annoda e accentra tutte le energie proletarie del rione. I sistemi elettorali potrebbero variare a seconda della vastità delle officine; si dovrebbe cercare però di far eleggere un delegato ogni quindici operai divisi per categoria (come si fa nelle officine inglesi), arrivando, per elezioni graduali, a un comitato di delegati di fabbrica che comprenda rappresentanti di tutto il complesso del lavoro (operai, impiegati, tecnici). Nel comitato rionale dovrebbe tendersi a incorporare delegati anche delle altre categorie, di lavoratori abitanti nel rione: camerieri, vetturini, tranvieri, ferrovieri, spazzini, impiegati privati, commessi, ecc.

Il comitato rionale dovrebbe essere emanazione di tutta la classe lavoratrice abitante nel rione, emanazione legittima e autorevole, capace di far rispettare una disciplina, investita del potere, spontaneamente delegato, ed ordinare la cessazione immediata e integrale di ogni lavoro in tutto il rione.

I comitati rionali si ingrandirebbero in commissariati urbani, controllati e disciplinati dal Partito socialista e dalle federazioni di mestiere.

Un tale sistema di democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di contadini) darebbe una forma e una disciplina permanente alle masse, sarebbe una magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe le masse fino all'ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e ridotto in schiavitú.

Ogni fabbrica costruirebbe uno o piú reggimenti di questo esercito, coi suoi caporali, coi suoi servizi di collegamento, con la sua ufficialità, col suo stato maggiore, poteri delegati per libera elezione, non imposti autoritariamente. Attraverso i comizi, tenuti nell'interno dell'officina, con l'opera incessante di propaganda e di persuasione sviluppata dagli elementi piú consapevoli, si otterrebbe una trasformazione radicale della psicologia operaia, si renderebbe la massa meglio preparata e capace all'esercizio del potere, si diffonderebbe una coscienza dei doveri e dei diritti del compagno e del lavoratore, concreta ed efficiente perché generata spontaneamente dall'esperienza viva e storica.

Abbiamo già detto: questi rapidi appunti si propongono solo di stimolare al pensiero ed all'azione. Ogni aspetto del problema meriterebbe una vasta e profonda trattazione, delucidazioni, integrazioni sussidiarie e coordinate. Ma la soluzione concreta e integrale dei problemi di vita socialista può essere data solo dalla pratica comunista: la discussione in comune, che modifica simpaticamente le coscienze unificandole e colmandole di entusiasmo operoso. Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria. La formula «dittatura del proletariato» deve finire di essere solo una formula, un'occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve anche volere i mezzi. La dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente organizzato. Questo Stato non si improvvisa: i comunisti bolscevichi russi per otto mesi lavorarono a diffondere e far diventare concreta la parola d'ordine: tutto il potere ai Soviet, ed i Soviet erano noti agli operai russi fin dal 1905. I comunisti italiani devono far tesoro dell'esperienza russa ed economizzare tempo e lavoro: l'opera di ricostruzione domanderà per sé tanto tempo e tanto lavoro, che ogni giorno e ogni atto dovrebbe poterle essere destinato.

Lo Stato e il socialismo69

Pubblichiamo questo articolo di For Ever nonostante esso sia una farragine di spropositi marchiani e di amenità fraseologiche. Per For Ever, lo Stato di Weimar è uno Stato marxista; noi dell'Ordine Nuovo siamo statolatri, vogliamo lo Stato ab aeterno (For Ever voleva dire in aeternum, evidentemente); lo Stato socialista è una cosa medesima col socialismo di Stato; sono esistiti uno Stato cristiano e uno Stato plebeo di Caio Gracco; il Soviet di Saratov potrebbe vivere senza coordinare la sua produzione e la sua attività di difesa rivoluzionaria col sistema generale dei Soviet russi ecc. Tante affermazioni, tante corbellerie, che vengono presentate come una difesa dell'anarchia. Tuttavia pubblichiamo l'articolo di For Ever. For Ever non è solo un individuo: è un tipo sociale. Da questo punto di vista non deve essere trascurato: deve essere conosciuto, studiato, di-, scusso e superato. Lealmente, amichevolmente (l'amicizia non può essere disgiunta dalla verità, e da tutte le asprezze che la verità comporta). For Ever è un pseudo-rivoluzionario: chi basa la propria azione sulla mera fraseologia ampollosa, sulla frenesia parolaia, sull'entusiasmo romantico è solo un demagogo, non è un rivoluzionario. Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l'integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza strage internecina il popolo. L'entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto anche in un villaggio di cento abitanti.

Ma For Ever, pur essendo un tipo, non è tutti i libertari. Nella redazione dell'Ordine Nuovo contiamo un comunista libertario: Carlo Petri. Col Petri la discussione è su un piano superiore: coi comunisti libertari come il Petri il lavoro in comune è necessario e indispensabile: essi sono una forza della rivoluzione. Leggendo l'articolo del Petri pubblicato nel numero scorso e quello di For Ever che pubblichiamo in questo numero — per fissare i termini dialettici dell'idea libertaria: l'essere e il non essere — abbiamo steso queste osservazioni. Naturalmente i compagni Empedocle e Caesar, ai quali il Petri direttamente si riferisce, sono liberi di rispondere per conto loro.

I

Il comunismo si realizza nell'Internazionale proletaria. Il comunismo sarà solo quando e in quanto sarà internazionale. In tal senso il movimento socialista e proletario è contro lo Stato, perché è contro gli Stati nazionali capitalistici, perché è contro le economie nazionali, che hanno la loro sorgente di vita e traggono forma dallo Stato nazionale.

Ma se nell'Internazionale comunista verranno soppressi gli Stati nazionali, non verrà soppresso lo Stato, inteso come «forma» concreta della società umana. La società come tale è una pura astrazione. Nella storia, nella realtà viva e corporea della civiltà umana in isviluppo, la società è sempre un sistema e un equilibrio di Stati, un sistema e un equilibrio di istituzioni concrete, nelle quali la società acquista consapevolezza del suo esistere e del suo svilupparsi, e per le quali soltanto esiste e si sviluppa.

Ogni conquista della civiltà diventa permanente, è storia reale e non episodio superficiale e caduco, in quanto si incarna in una istituzione e trova una forma nello Stato. L'idea socialista è rimasta un mito, una evanescente chimera, un mero arbitrio della fantasia individuale fin quando non si è incarnata nel movimento socialista e proletario, nelle istituzioni di difesa e di offesa del proletariato organizzato: in esse e per esse ha preso forma storica e ha progredito; da esse ha generato lo Stato socialista nazionale, disposto e organizzato in modo da essere capace di ingranarsi con gli altri Stati socialisti: condizionato anzi in modo tale da essere capace di vivere e di svilupparsi solo in quanto aderisca agli altri Stati socialisti per realizzare l'Internazionale comunista nella quale ogni Stato, ogni istituzione, ogni individuo troverà la sua pienezza di vita e di libertà.

In questo senso il comunismo non è contro lo «Stato», anzi si oppone implacabilmente ai nemici dello Stato, agli anarchici e ai sindacalisti anarchici, denunziando la loro propaganda come utopistica e pericolosa alla rivoluzione proletaria.

Si è costruito uno schema prestabilito secondo il quale il socialismo sarebbe una «passerella» all'anarchia; è questo un pregiudizio scemo, una arbitraria ipoteca del futuro. Nella dialettica delle idee, l'anarchia continua il liberalismo, non il socialismo; nella dialettica della storia, l'anarchia viene espulsa dal campo della realtà sociale insieme col liberalismo. Quanto piú la produzione dei beni materiali si industrializza e alla concentrazione del capitale corrisponde una concentrazione di masse lavoratrici, tanto meno aderenti ha l'idea libertaria. Il movimento libertario è ancora diffuso dove continua a prevalere l'artigianato e il feudalismo terriero; nelle città industriali e nelle campagne a cultura agraria meccanica, gli anarchici tendono a sparire come movimento politico, sopravvivendo come fermento ideale. In tal senso l'idea libertaria avrà un suo compito da svolgere ancora per un pezzo: essa continuerà la tradizione liberale in quanto ha imposto e ha realizzato conquiste umane che non devono morire col capitalismo.

Oggi, nel trambusto sociale determinato dalla guerra, pare che l'idea libertaria abbia moltiplicato il numero dei suoi aderenti. Non crediamo che sia una gloria dell'idea. Il fenomeno è di regressione: nelle città sono immigrati elementi nuovi, senza cultura politica, non allenati alla lotta di classe nella forma complessa che la lotta di classe ha assunto con la grande industria. La fraseologia virulenta degli agitatori anarchici ha facile presa su queste coscienze istintive e antelucane; ma niente di profondo e di permanente crea la fraseologia pseudo-rivoluzionaria. E chi domina, chi imprime alla storia il ritmo del progresso, chi determina l'avanzata sicura e incoercibile della civiltà comunista, non sono i «ragazzacci», non è il Lumpenproletariat, non sono i bohémiens, i dilettanti, i romantici capelluti e frenetici, ma sono le masse profonde degli operai di classe, i ferrei battaglioni del proletariato consapevole e disciplinato.

Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato.

La letteratura liberale è tutta una polemica contro lo Stato. La storia politica del capitalismo è caratterizzata da una continua e furiosa lotta tra il cittadino e lo Stato. Il Parlamento è l'organo di questa lotta; e il Parlamento tende appunto ad assorbire tutte le funzioni dello Stato, cioè a sopprimerlo, svuotandolo di ogni potere effettivo poiché la legislazione popolare è rivolta a liberare gli enti locali e gli individui da ogni servitù e controllo del potere centrale.

Questa azione liberale rientra nell'attività generale del capitalismo rivolto ad assicurarsi più solide e garantite condizioni di concorrenza: La concorrenza è la nemica piú acerrima dello Stato. La stessa idea dell'Internazionale è d'origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente. I liberali sono impotenti a realizzare la pace e l'Internazionale, perché la proprietà privata e nazionale genera scissioni, confini, guerre, Stati nazionali in conflitto permanente tra di loro.

Lo Stato nazionale è un organo di concorrenza : sparirà quando la concorrenza sarà soppressa e un nuovo costume economico sarà stato suscitato attraverso le esperienze concrete degli Stati socialisti.

La dittatura del proletariato è ancora uno Stato nazionale e uno Stato di classe. I termini della concorrenza e della lotta di classe sono spostati, ma la concorrenza e le classi sussistono. La dittatura del proletariato deve risolvere gli stessi problemi dello Stato borghese: di difesa esterna ed interna. Queste sono le condizioni reali obbiettive con le quali dobbiamo fare i conti: ragionare e operare come esistesse già l'Internazionale comunista, come fosse già superato il periodo della lotta tra Stati socialisti e Stati borghesi, della concorrenza spietata tra le economie nazionali comuniste e quelle capitalistiche, sarebbe un errore disastroso per la rivoluzione proletaria.

La società umana subisce un processo rapidissimo di decomposizione coordinato al processo dissolutivo dello Stato borghese. Le condizioni reali obbiettive in cui si eserciterà la dittatura proletaria saranno condizioni di un tremendo disordine, di una spaventosa indisciplina. Si rende necessaria la organizzazione di uno Stato socialista saldissimo, che arresti quanto prima la dissoluzione e l'indisciplina, che ridía una forma concreta al corpo sociale, che difenda la rivoluzione dalle aggressioni esterne e dalle ribellioni interne.

La dittatura proletaria deve, per le sue necessità di vita e di sviluppo, assumere un carattere accentuato militare. Ecco perché il problema dell'esercito socialista diventa uno dei piú essenziali da risolvere; e diventa urgente, in questo periodo prerivoluzionario, cercare di distruggere le sedimentazioni di pregiudizio determinate dalla passata propaganda socialista contro tutte le forme della dominazione borghese.

Dobbiamo, oggi, rifare l'educazione del proletariato: abituato all'idea che per sopprimere lo Stato nell'Internazionale è necessario un tipo di Stato idoneo al conseguimento di questo fine, che per sopprimere il militarismo può essere necessario un tipo nuovo di esercito. Ciò significa addestrare il proletariato all'esercizio della dittatura, all'autogoverno. Le difficoltà da superare saranno moltissime e il periodo in cui queste difficoltà rimarranno vive e pericolose non si può prevedere come di breve durata. Ma se anche lo Stato proletario dovesse esistere per un giorno solo, dobbiamo lavorare affinché esso trovi condizioni di esistenza idonee allo svolgimento del suo compito, la soppressione della proprietà privata e delle classi.

Il proletariato è poco esperto dell'arte di governare e di dirigere; la borghesia opporrà una resistenza formidabile, aperta o subdola, violenta o passiva allo Stato socialista. Solo un proletariato educato politicamente, che non si abbandoni alla disperazione e alla sfiducia per i rovesci possibili e inevitabili, che rimanga fedele e leale al suo Stato nonostante gli errori che singoli individui possono commettere e i passi indietro che le condizioni reali della produzione possono imporre, solo un simile proletariato potrà esercitare la dittatura, liquidare l'eredità malefica del capitalismo e della guerra e realizzare l'Internazionale comunista. E per la sua natura, lo Stato socialista domanda una lealtà e una disciplina diverse ed opposte a quelle che domanda lo Stato borghese. A differenza dello Stato borghese che è tanto piú forte all'interno e all'esterno quanto meno i cittadini controllano e seguono l'attività dei poteri, lo Stato socialista domanda la partecipazione attiva e permanente dei compagni alla vita delle sue istituzioni. Bisogna inoltre ricordare che lo Stato socialista è il mezzo per mutamenti radicali, non si muta di Stato con la semplicità con cui si muta il governo. Un ritorno alle istituzioni passate vorrà dire la morte collettiva, lo sfrenarsi di un terrore bianco senza limiti di sangue: nelle condizioni create dalla guerra, la classe borghese avrebbe interesse a sopprimere con le armi i tre quarti dei lavoratori, per ridare elasticità al mercato dei viveri e rimettersi in condizioni privilegiate nella lotta per la vita agiata cui ha fatto l'abitudine. Non possono essere ammessi pentimenti di nessuna specie, per nessuna ragione.

Dobbiamo fin da oggi formarci e formare questo senso di responsabilità tagliente e implacabile come la spada di un giustiziere. La rivoluzione è una cosa grande e tremenda, non è un gioco da dilettanti o una avventura romantica.

Vinto nella lotta di classe, il capitalismo lascerà un residuo impuro di fermentazioni antistatali o che si diranno tali perché individui e gruppi vorranno esonerarsi dai servigi e dalla disciplina indispensabili al successo della rivoluzione.

Caro compagno Petri, lavoriamo a evitare ogni urto sanguinoso tra le frazioni sovversive, a evitare allo Stato socialista la necessità crudele di imporre con la forza armata la disciplina e la fedeltà, di sopprimere una parte per salvare il corpo sociale dallo sfacelo e dalla depravazione. Lavoriamo, svolgendo la nostra attività di cultura per dimostrare che la esistenza dello Stato socialista è un anello essenziale della catena di sforzi che il proletariato deve compiere per la sua emancipazione, per la sua libertà.

Il lavoro di propaganda70

Alcuni compagni di Torino e della regione piemontese (dove specialmente la nostra rassegna è diffusa) ci informano che il lavoro di propaganda da loro svolto per la diffusione dell'Ordine Nuovo tra gli operai e contadini, non dà quei risultati permanenti che essi vorrebbero, perché molti compagni trovano che gli articoli da noi pubblicati sono «difficili». Dalle conversazioni avute con questi amici dell'Ordine Nuovo, abbiamo tratto queste conclusioni: — Psicologicamente, il periodo della propaganda elementare, cosiddetta «evangelica», è superato. Le idee fondamentali del comunismo sono state assimilate anche dai ceti piú arretrati della classe lavoratrice. È incredibile quanto abbia contribuito a ciò la guerra, la vita di caserma e la necessità in cui si è trovata la gerarchia militare di sviluppare una sistematica ed assillante propaganda anticomunista, che ha diffuso e inchiodato nei cervelli piú refrattari i termini elementari della polemica ideale tra capitalisti e proletari. I primi princípi debbono ormai ritenersi sottintesi: dall'«evangelo» bisogna passare alla critica e alla ricostruzione. Le esperienze comuniste di Russia e di Ungheria attraggono irresistibilmente l'attenzione. Si è avidi di notizie, di dimostrazioni logiche (siamo pronti in Italia? saremo all'altezza del nostro compito? quali errori è possibile evitare? ecc.), di critica, di critica, di critica, e di concetti pratici sperimentali. Ma qui si rivela la povertà di cultura politica — nel senso di esperienza «costituzionale» — del popolo italiano: il Parlamento italiano è stato sempre una cosa morta; mai in Italia si sono avute grandi battaglie tra le istituzioni popolari dello Stato (Camera dei deputati, enti locali) e le istituzioni rappresentanti la Corona o le classi piú conservatrici (Senato, Ordine giudiziario, potere esecutivo), che si sono invece verificate in Inghilterra e in Francia.

Questa crisi in cui si dibatte il proletariato italiano, preso tra l'ardente desiderio di sapere e l'incapacità di soddisfarlo individualmente, deve essere e può essere risolta. E può essere e deve essere risolta col metodo che è proprio della classe degli operai e contadini, col metodo comunista, col metodo dei Soviet. La conquista delle otto ore lascia un margine di tempo libero che dev'essere dedicato al lavoro di cultura in comune. Bisogna convincere gli operai e i contadini che è loro interesse sottoporsi a una disciplina permanente di cultura, e farsi una concezione del mondo, del complesso e intricato sistema di relazioni umane, economiche e spirituali, che dà una forma alla vita sociale del globo. Questi Soviet di cultura proletaria dovrebbero essere promossi, presso i circoli e i fasci giovanili, dagli amici dell'Ordine Nuovo e diventare focolari di propaganda comunista concreta e realizzatrice: vi si dovrebbero studiare i problemi locali e regionali, vi si dovrebbero raccogliere elementi per compilare statistiche sulla produzione agricola e industriale, per conoscere le necessità urgenti, per conoscere la psicologia dei piccoli proprietari ecc. ecc.

Riflettano i compagni su queste considerazioni: la rivoluzione ha bisogno, oltre che di eroismo generoso, anche e specialmente di tenace, minuto, perseverante lavoro.

La conquista dello Stato71

La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione, produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici. In questo fatto bisogna cercare l'origine di tutte le tesi rivoluzionarie del marxismo, bisogna cercare le condizioni del costume nuovo proletario, dell'ordine nuovo comunista destinato a sostituire il costume borghese, il disordine capitalistico generato dalla libera concorrenza e dalla lotta di classe.

Nella sfera dell'attività generale capitalistica, anche il lavoratore opera sul piano della libera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le condizioni di partenza della lotta non sono uguali per tutti, nello stesso tempo: l'esistenza della proprietà privata pone la minoranza sociale in condizioni di privilegio, rende impari la lotta. Il lavoratore è continuamente esposto ai rischi piú micidiali: la sua vita stessa elementare, la sua cultura, la vita e l'avvenire della sua famiglia sono esposti ai contraccolpi bruschi delle variazioni del mercato di lavoro. Il lavoratore tenta allora di uscire dalla sfera della concorrenza e dell'individualismo. Il principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia e i costumi degli operai e contadini. Sorgono istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al comunismo dei mezzi di produzione e di scambio.

L'associazionismo può e deve essere assunto come il fatto essenziale della rivoluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente all'attuale (che possiamo chiamare periodo della I e II Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti socialisti e i sindacati professionali.

Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. Le leggi della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello Stato. Lo Stato è sempre stato il protagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra la potenza della classe proprietaria, nello Stato la classe proprietaria si disciplina e si compone in unità, sopra i dissidi e i cozzi della concorrenza, per mantenere intatta la condizione di privilegio nella fase suprema della concorrenza stessa: la lotta di classe per il potere, per la preminenza nella direzione e nel disciplinamento della società.

In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capitalistica. Da ciò hanno tratto origine gli intimi conflitti, le deviazioni, i tentennamenti, i compromessi che caratterizzano tutto il periodo di vita del movimento proletario precedente all'attuale, e che hanno culminato nella bancarotta della II Internazionale.

Alcune correnti del movimento socialista e proletario avevano posto esplicitamente come fatto essenziale della rivoluzione l'organizzazione operaia di mestiere, e su questa base fondavano la loro propaganda e la loro azione. Il movimento sindacalista parve, per un momento, essere il vero interprete del marxismo, vero interprete della verità.

L'errore del sindacalismo consiste in ciò: nell'assumere come fatto permanente, come forma perenne dell'associazionismo, il sindacato professionale nella forma e con le funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e quindi non possono avere una linea costante e prevedibile di sviluppo. Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore di una tradizione liberista «spontaneista», è stato in verità uno dei tanti camuffamenti dello spirito giacobino e astratto.

Da ciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscí a sostituire il Partito socialista nel compito di educare alla rivoluzione la classe lavoratrice. Gli operai e i contadini sentivano che, per tutto il periodo in cui la classe proprietaria e lo Stato democratico-parlamentare dettano le leggi della storia, ogni tentativo di evasione dalla sfera di queste leggi è inane e ridicolo. È certo che nella configurazione generale assunta dalla società colla produzione industriale, ogni uomo può attivamente partecipare alla vita e modificare l'ambiente solo in quanto opera come individuo-cittadino, membro dello Stato democratico-parlamentare. L'esperienza liberale non è vana e non può essere superata se non dopo averla fatta. L'apoliticismo degli apolitici fu solo una degenerazione della politica: negare e combattere lo Stato è fatto politico tanto quanto inserirsi nella attività generale storica che si unifica nel Parlamento e nei comuni, istituzioni popolari dello Stato. Varia la qualità del fatto politico: i sindacalisti lavoravano fuori della realtà, e quindi la loro politica era fondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi lavoravano nell'intimo delle cose, potevano sbagliare (commisero anzi molti e pesanti sbagli), ma non errarono nel senso della loro azione e perciò trionfarono nella «concorrenza»; le grandi masse, quelle che con il loro intervento modificano obbiettivamente i rapporti sociali, si organizzarono intorno al Partito socialista. Nonostante tutti gli sbagli e le manchevolezze, il Partito riuscí, in ultima analisi, nella sua missione: far diventare qualcosa il proletario che prima era nulla, dargli una consapevolezza, dare al movimento di liberazione un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee generali, al processo di sviluppo storico della società umana.

Lo sbaglio piú grave del movimento socialista è stato di natura simile a quello dei sindacalisti. Partecipando all'attività generale della società umana nello Stato, i socialisti dimenticarono che la loro posizione doveva mantenersi essenzialmente di critica, di antitesi. Si lasciarono assorbire dalla realtà, non la dominarono.

I comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare «maieutica». La loro azione non è di abbandono al corso degli avvenimenti determinati dalle leggi della concorrenza borghese, ma di aspettazione critica. La storia è un continuo farsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non significa che «tutto» sia imprevedibile nel farsi della storia, che cioè la storia sia dominio dell'arbitrio e del capriccio irresponsabile. La storia è insieme libertà e necessità. Le istituzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si incarna, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito e una missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppate determinate condizioni obbiettive di produzione dei beni materiali e di consapevolezza spirituale degli uomini. Se queste condizioni obbiettive, che per la loro natura meccanica sono commensurabili quasi matematicamente, mutano, muta anche la somma di rapporti che regolano e informano la società umana, muta il grado di consapevolezza degli uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istituzioni tradizionali si immiseriscono, sono inadeguate al loro compito, diventano ingombranti e micidiali. Se nel farsi della storia l'intelligenza fosse incapace a cogliere un ritmo, a stabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibile: il genio politico si riconosce appunto da questa capacità di impadronirsi del maggior numero possibile di termini concreti necessari e sufficienti per fissare un processo di sviluppo e dalla capacità quindi di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostare l'attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di un popolo. In questo senso Carlo Marx è stato di gran lunga il piú grande dei geni politici contemporanei.

I socialisti hanno, supinamente spesso, accettato la realtà storica prodotto dell'iniziativa capitalistica; sono caduti nell'errore di psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata fondamentalmente. Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa è dato dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il Parlamento sta al Soviet come la città all'orda barbarica.

Da questa errata concezione del divenire storico, dalla pratica annosa del compromesso e da una tattica «cretinamente» parlamentarista, nasce la formula odierna sulla «conquista dello Stato».

Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell'Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l'instauramento di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La formula «conquista dello Stato» deve essere intesa in questa senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare.

E qui ritorniamo al punto di partenza. Abbiamo detto che le istituzioni del movimento socialista e proletario del periodo precedente all'attuale, non si sono sviluppate autonomamente, ma come risultato della configurazione generale della società umana dominata dalle leggi sovrane del capitalismo. La guerra ha capovolto la situazione strategica della lotta di classe. I capitalisti hanno perduto la preminenza; la loro libertà è limitata; il loro potere è annullato. La concentrazione capitalistica è arrivata al massimo sviluppo consentitole, realizzando il monopolio mondiale della produzione e degli scambi. La corrispondente concentrazione delle masse lavoratrici ha dato una potenza inaudita alla classe proletaria rivoluzionaria.

Le istituzioni tradizionali del movimento sono diventate incapaci a contenere tanto rigoglio di vita rivoluzionaria. La loro stessa forma è inadeguata al disciplinamento delle forze inseritesi nel processo storico consapevole. Esse non sono morte. Nate come funzione della libera concorrenza, devono continuare a sussistere fino alla soppressione di ogni residuo di concorrenza, fino alla completa soppressione delle classi e dei partiti, fino alla fusione delle dittature proletarie nazionali nell'Internazionale comunista. Ma accanto ad esse devono sorgere e svilupparsi istituzioni di tipo nuovo, di tipo statale, che appunto sostituiranno le istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare. Istituzioni che sostituiscano la persona del capitalista nelle funzioni amministrative e nel potere industriale, e realizzino l'autonomia del produttore nella fabbrica; istituzioni capaci di assumere il potere direttivo di tutte le funzioni inerenti al complesso sistema di rapporti di produzione e di scambio che legano i reparti di una fabbrica tra di loro, costituendo l'unità economica elementare, che legano le varie attività dell'industria agricola, che per piani orizzontali e verticali devono costituire l'armonioso edilizio della economia nazionale e internazionale, liberato dalla tirannia ingombrante e parassitaria dei privati proprietari.

Mai la spinta e l'entusiasmo rivoluzionario sono stati piú fervidi nel proletariato dell'Europa occidentale. Ma ci pare che alla coscienza lucida ed esatta del fine non si accompagni una coscienza altrettanto lucida ed esatta dei mezzi idonei, nel momento attuale, al raggiungimento del fine stesso. Si è ormai radicata la convinzione nelle masse che lo Stato proletario è incarnato in un sistema di Consigli di operai, contadini e soldati. Non si è ancora formata una concezione tattica che assicuri obbiettivamente la creazione di questo Stato. È necessario perciò creare fin d'ora una rete d'istituzioni proletarie, radicate nella coscienza delle grandi masse, sicure della disciplina e della fedeltà permanente delle grandi masse, nelle quali la classe degli operai e dei contadini, nella sua totalità, assuma una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo. È certo che se oggi, nelle condizioni attuali di organizzazione proletaria, un movimento di masse si verificasse con carattere rivoluzionario, i risultati si consoliderebbero in una pura correzione formale dello Stato democratico, si risolverebbe[ro] in un aumento di potere della Camera dei deputati (attraverso una assemblea costituente) e nella assunzione al potere dei socialisti pasticcioni anticomunisti. L'esperienza germanica e austriaca deve insegnare qualcosa. Le forze dello Stato democratico e della classe capitalistica sono ancora immense: non bisogna dissimularsi che il capitalismo si regge specialmente per l'opera dei suoi sicofanti e dei suoi lacchè, e la semenza di tale genía non è certo sparita.

La creazione dello Stato proletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch'essa un farsi, è un processo di sviluppo. Presuppone un lavoro preparatorio di sistemazione e di propaganda. Bisogna dare maggior sviluppo e maggiori poteri alle istituzioni proletarie di fabbrica già esistenti, farne sorgere di simili nei villaggi, ottenere che gli uomini che le compongono siano dei comunisti consapevoli della missione rivoluzionaria che l'istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il nostro entusiasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà a impedire che la rivoluzione si componga miseramente in un nuovo Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabili, e che nuovi e piú spaventosi sacrifizi siano resi necessari per l'avvento dello Stato dei proletari.

1 Saggio scolastico, manoscritto, probabilmente del novembre 1910, quando G. frequentava l'ultima classe del liceo Dettori di Cagliari.

2 Firmato A. GRAMSCI, Il Grido del Popolo, 31 ottobre 1914, sotto la rubrica «La guerra e le opinioni dei socialisti».

3 a. t. (Angelo Tasca)

4 Nel testo manca una riga.

5 Firmato Alfa Gamma, Il Grido del Popolo, 15 gennaio 1916, sotto la rubrica «Attualità libraria».

6 Il Papa in guerra, Bologna, 1915.

7 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 17 gennaio 1916, sotto la rubrica «Il mercato delle parole».

8 Firmato Alfa Gamma, Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916.

9 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 10 aprile 1916, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

10 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 13 luglio 1916, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

11 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 19 agosto 1916, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

12 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 29 agosto 1916, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

13 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 22 dicembre 1916, sotto la rubrica «Discorsi di stagione».

14 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 24 dicembre 1916, sotto la rubrica «La scuola e i socialisti».

15 Nel testo: avidamente.

16 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 29 dicembre 1916.

17 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 31 dicembre 1916, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

18 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 29 gennaio 1917, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

19 Non firmato, La Città futura, numero unico, interamente redatto da G., pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, Tarino. 11 febbraio 1917. p. 1.

20 Non firmato, La Città futura, cit., 11 febbraio 1917, p. 1.

21 Non firmato, La Città futura, cit., 11 febbraio 1917, p. 2.

22 Non firmato, La Città futura, cit., 11 febbraio 1917, p. 3.

23 Firmato Alfa Gamma, Il Grido del Popolo, 3 marzo 1917.

24 Siglato A.G. Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917. Lo scritto è il primo commento di G. agli avvenimenti della «rivoluzione di febbraio» che rovescia l'autocrazia zarista.

25 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 25 maggio 1917, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

26 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 28 luglio 1917.

27 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 18 agosto 1917.

28 Non firmato, Il Grido del Popolo, 8 settembre 1917.

29 Non firmato, Il Grido del Popolo, 15 settembre 1917.

30 Non firmato, Avanti!, ediz. Piemontese, 10 ottobre 1917, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

31 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 14 novembre 1917, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

32 Firmato Antonio Gramsci, Avanti!, ediz. milanese, 24 novembre 1917: fu ristampato dal Grido del Popolo del 5 gennaio 1918 con la seguente avvertenza: «La censura torinese ha una volta completamente imbiancato questo articolo nel Grido. Lo riproduciamo ora dall'Avanti! passato al crivello delle censure di Milano e di Roma».

33 Lacuna nel testo.

34 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 24 novembre 1917.

35 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 18 dicembre 1917.

36 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 12 gennaio 1918.

37 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 19 gennaio 1918.

38 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 21 gennaio 1918, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

39 Non firmato, Il Grido dei Popolo, 26 gennaio 1918.

40 Postilla redazionale non firmata, Il Grido del Popolo, 9 febbraio 1918.

41 Non firmato, Il Grido del Popolo, 2 marzo 1918.

42 Non firmato, Il Grido del Popolo, 9 marzo 1918.

43 Non firmato, Il Grido del Popolo, 16 marzo 1918.

44 Firmato Antonio Gramsci, Avanti!, ediz. piemontese, 1° maggio 1918.

45 Non firmato, Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918.

46 Non firmato, Il Grido del Popolo, 11 maggio 1918.

47 Non firmato, Il Grido del Popolo, 18 maggio 1918.

48 In un quarto articolo di oggi (17 maggio) La Stampa esplicitamente tratta di una possibilità collaborazionistica per la pace. La Stampa è d'opinione che si debba rimandare la discussione a quando i tempi saranno maturi. Noi invece, data la costituzione democratica del partito, crediamo necessario che le sezioni e i circoli discutano subito esaurientemente e fissino al partito un indirizzo fermo e deciso di intransigente lotta di classe anche per il problema della pace. Non bisogna lasciarsi cogliere impreparati e disuniti, perché allora sarà possibile al gruppo parlamentare gettare lo scompiglio nel partito e issarsi a un pseudo-potere. Sarebbe il piú colossale «mercato di sciocchi», e il partito ne uscirebbe liquidato per qualche decina d'anni: trionferebbero però le «realistiche» energie parlamentari... [Nota di Gramsci].

49 Non firmato, Il Grido del Popolo, 25 maggio 1918.

50 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 30 maggio 1918, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

51 Non firmato, Il Grido del Popolo, 15 giugno 1918.

52 Non firmato, Il Grido del Popolo, 29 giugno 1918.

53 Siglato A.G., Avanti!, ediz. piemontese, 25 luglio 1918.

54 Non firmato, Il Grido del Popolo, 14 settembre 1918.

55 Non firmato, Il Grido del Popolo, 14 settembre 1918.

56 Non firmato, Il Grido del Popolo, 12 ottobre 1918.

57 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 25 novembre 1918.

58 Siglato A.G., Avanti!, ediz. piemontese, 22 dicembre 1918.

59 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 27 dicembre 1918, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

60 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 30 gennaio 1919.

61 Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 5 febbraio 1919, sotto la rubrica «Sotto la Mole».

62 Firmato Antonio Gramsci, Energie Nove. 1-28 febbraio 1919, serie I, nn. 7 8 rivista quindicinale diretta da Piero Gobetti. L'articolo è preceduto da questa nota redazionale: «A soddisfare la promessa fatta ai nostri lettori pubblichiamo questi appunti dell'amico Gramsci, avvertendo che, per le sue condizioni di salute, egli non ha potuto rielaborare ciò che aveva scritto frettolosamente dopo la lettura dell'articolo del Giuliano. Prossimamente avremo da tornare sull'argomento con un numero intero e diremo allora, la nostra posizione di fronte al socialismo».

63 Siglato A. G., L'Ordine Nuovo, I, n. 2, 15 maggio 1919, sotto la rubrica «La battaglia delle idee».

64 Siglato A.G., L'Ordine Nuovo, 24 maggio 1919, sotto la rubrica «Vita politica internazionale».

65 Siglato A. G., Avanti!, ediz. piemontese, 25 maggio 1919.

66 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 7 giugno 1919.

67 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 14 giugno 1919, sotto la rubrica «Cronache dell'Ordine Nuovo».

68 Non firmato, scritto in collaborazione con Palmiro Togliatti, L'Ordine Nuovo, 21 giugno 1919.

69 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 28 giugno-5 luglio 1919. È una postilla a un articolo di For Ever (l'anarchico torinese Corrado Quaglino) dal titolo In difesa dell'anarchia, riprodotto poi nell'antologia sull'ON della serie La cultura italiana..., cit., pp. 168-172.

70 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 12 luglio 1919, sotto la rubrica «Cronache dell'Ordine Nuovo».

71 Non firmato, L'Ordine Nuovo, 12 luglio 1919.