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di Vittorio Frajese
Nacque a Firenze, nel quartiere di S. Pier Gattolini, il 21
luglio 1515, da ser Francesco di Filippo da Castelfranco e da
Lucrezia da Mosciano.
Il padre esercitava il mestiere di notaio, arte non lucrosa ed
intrapresa in tarda età, che tuttavia abilitava a tutte le
magistrature cittadine. La madre, Lucrezia da Mosciano, era figlia
di un falegname. F. la conobbe appena, perché ella
morì alla nascita del quarto figlio, l'8 sett. 1520, quando
F. aveva cinque anni. Nel complesso, la situazione familiare era
disagiata ed aveva conosciuto un processo di decadenza dalla
posizione cospicua occupata nel XIV secolo.
Tra il 1520 e il 1530 ser Francesco abitò nella parrocchia
di S. Giorgio e F. frequentò il convento domenicano di S.
Marco dove fu educato al culto di Girolamo Savonarola, per il
quale mantenne una intensa devozione anche in seguito, e dove
probabilmente fu aggregato alla fiorente Compagnia dei fanciulli
della Purificazione. Frequentò poi le scuole comuni dove
ebbe per maestro un certo Chimenti. Alla scuola, F. non apprese il
greco, che non conobbe mai, e imparò poco latino. La sua
adolescenza non presentò segni di una vocazione religiosa o
di particolare pietà; al contrario, essa fu del tutto
ordinaria, mentre il suo carattere manifestava quei tratti di
cordialità unita a maniere naturali, ad una spensieratezza
e ad un umore espansivo, che non lo abbandoneranno più.
F. lasciò Firenze forse verso la fine del 1532 e, partendo
senza un soldo, si recò presso un lontano parente, Romolo,
a San Germano (l'odierna Cassino), soggiornandovi poco tempo;
quindi andò a Roma. È in questo periodo - e nella
decisione di recarsi a Roma - che si colloca la sua conversione
religiosa.
Intorno alle date di partenza da Firenze e di arrivo a Roma,
esiste qualche discordanza tra le testimonianze. L'arrivo a Roma
è da collocare nel 1533, mentre la data della partenza da
Firenze è controversa. Secondo la deposizione della sorella
Elisabetta al primo processo di canonizzazione, sarebbe da
collocare tra il 1532 e il 1533, mentre, secondo la testimonianza
recata da G. M. Brocchi, F. sarebbe partito da Firenze nel 1530, a
quindici anni. Anche sulla durata del soggiorno a San Germano
esistono testimonianze discordanti: secondo la sorella, F. vi
sarebbe rimasto due anni; questa è pure l'opinione di G.
Bacci, mentre secondo A. Gallonio F. vi sarebbe rimasto solo
pochissimo tempo, addirittura qualche giorno.
La questione della data di partenza di F. da Firenze non è
di poco conto poiché concerne il grado del suo legame con
il fuoruscitismo repubblicano seguito al ritorno dei Medici a
Firenze nel 1530. Infatti la famiglia di F. era di parte
repubblicana e savonaroliana e uno spostamento della data di
partenza di F. da Firenze al 1530 farebbe di lui un vero e proprio
fuoruscito antimediceo. Connotazione che getterebbe una luce
particolare sia sul suo assegnamento, in seguito, alla chiesa
nazionale di S. Giovanni dei Fiorentini, cui faceva capo il
fuoruscitismo antimediceo romano, sia sul suo ruolo filofrancese
nella questione della assoluzione di Enrico IV.
A Roma, nel primo periodo F. abitò presso la dogana, sulla
piazza S. Eustachio, dove il direttore, il fiorentino G. Del
Caccia, gli concesse l'uso di una stanza, incaricandolo
dell'educazione dei suoi due figli, Michele e Ippolito: una fune,
tesa attraverso la stanza, serviva da armadio. In questo tempo F.
seguì corsi di filosofia alla Sapienza e di teologia a S.
Agostino avendo come maestri A. Ferri e C. Iacomelli. Ma non
studiò molto; egli stesso avrebbe confidato poi a F.
Zazzara "che haveva studiato poco et che non aveva potuto imparare
perché attendeva alle orationi et altri esercizi
spirituali" (Processo, I, p. 61): ai corsi del S. Agostino c'era
un crocifisso che lo faceva piangere e sospirare. E venne il
giorno in cui, per ragioni mistiche, si disfece dei libri.
La vocazione di F. insomma stava assumendo quel carattere insieme
mistico e pratico, ascetico e attivo che ne costituì il
tratto peculiare. Così, verso il 1536 F. scelse la vita che
tutte le testimonianze designano concordemente come eremitica,
termine con cui occorre intendere non tanto una vita solitaria
quanto piuttosto girovaga e priva di ufficio istituzionalmente
definito.
F. si mise a girare per Roma predicando i comandamenti di Dio e le
buone opere. Per più di dieci anni, perlomeno fino al 1548,
condusse una vita senza regole, fatta di peregrinazioni
straordinarie, esercitando una predicazione senza mandato e un
insegnamento senza ufficio. Non si trattava cioè di un
eremitaggio meditativo. F. viveva tra la folla di città,
errava gaiamente nelle strade, tra i lazzi e le battute. Quando si
stancava della città, andava in campagna, faceva il
"pellegrinaggio delle sette chiese", dormiva sotto il portico di
una chiesa o dentro una grotta, come i sotterranei di S.
Sebastiano, sulla via Appia, contigui alla basilica omonima; e
sembra che scegliesse intenzionalmente la notte per allontanarsi
dalla città. L'indirizzo caritativo e sociale della sua
pietà si manifestava già in questo periodo
inducendolo, tra l'altro, a passare per S. Giacomo degli
Incurabili dove si improvvisò infermiere.
Nella sua missione F. manifestava una particolare attenzione verso
i giovani. Due orafi, Sebastiano e Francesco, il secondo della
bottega dei Torreggiani, furono tra i primi discepoli di questa
generazione. Fu F. a convincere P. Crivelli a lasciare il banco
dei Cavalcanti, dove si praticava l'usura: era infatti
frequentatore dei peccatori più forti e pubblici
"…usurarii, sodomiti et gran peccatori" (Processo, II, p. 336).
Viceversa, prestò scarso interesse al mondo femminile, al
"peccato" femminile, nei confronti del quale operò assai
poco.
Si andava profilando in tal modo una missione spontanea ed
ingenua, munita di segni carismatici ma priva di ufficio, laica e
priva di ordinazione ecclesiastica, che il concilio in corso si
adoperava appunto ad assorbire e disciplinare; così che
assume un significato altamente emblematico la forte pressione
esercitata su F. affinché prendesse gli ordini.
Nel 1548 F. fondò con P. Rosa la confraternita che prese il
nome di Trinità dei Pellegrini. Dapprima dodici laici si
riunivano attorno al Rosa per pregare in comune e ricevere
l'eucarestia; poi, il 16 agosto, nel fervore delle feste
dell'Assunta, il Rosa propose di erigere l'associazione privata in
associazione canonica. Dapprincipio il loro fine si limitava al
perfezionamento individuale, ma poi il cardinale F. Archinto li
indusse ad aggiungere la pratica della carità proponendo di
venire in aiuto dei poveri pellegrini. Questa attività era
mossa da una motivazione teologica: nel povero accolto rivive
Gesù. In questo periodo, precedente all'ordinazione
presbiteriale, F. entrò in relazione con diverse iniziative
caritative legate all'attività del Divino Amore. Divenne
membro della Compagnia di S. Giacomo in Augusta addetta alla
gestione dell'ospedale di S. Giacomo, detto degli Incurabili; ed
entrò in relazione con la confraternita di S. Maria della
Grazia incaricata del ricovero delle convertite.
Nei primi mesi del 1551 i contatti di F. con la Confraternita
della Trinità dei Pellegrini scemarono a causa della sua
preparazione al sacerdozio. F. si fece prete quasi per forza, per
comando del suo confessore, quale era nel frattempo diventato il
Rosa. Lo ordinò G. Lunel: nel marzo del 1551 gli
conferì la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato in
S. Tommaso in Parione; il 28 marzo, sabato santo, in S. Giovanni
in Laterano, il diaconato e il 29 maggio il presbiteriato, di
nuovo in S. Tommaso. Contemporaneamente F. prese alloggio presso
S. Girolamo, dove rimase fino al 1583, anche dopo che l'oratorio
fu spostato presso S. Giovanni dei Fiorentini, quando si
trasferì presso S. Maria in Vallicella per espresso ordine
del papa.
A S. Girolamo, ostello onorevole dovuto all'amicizia del Rosa e di
F. Marsuppini, aveva sede l'Arciconfraternita della Carità.
Questa era un centro di assistenza, una sorta di ufficio centrale
della carità fondato attorno al 1518 dal cardinale Giulio
de' Medici. Nel 1519 contava ottanta confratelli, tutti
appartenenti alla Curia. Provvedeva ai funerali dei poveri, ma era
volto soprattutto a soccorrere i poveri vergognosi e dotare le
ragazze povere per mezzo di elemosine segrete. In seguito avrebbe
provveduto alla visita delle prigioni, alla difesa degli accusati
senza mezzi, alla liberazione dei detenuti per debiti e
all'accelerazione del corso della giustizia. Cacciaguerra vi
entrò il 13 ott. 1550, G. Bacci il 19 luglio 1552: tra le
due date vi entrò Filippo.
I padri gerolamini portavano i capelli lunghi, vestivano una
zimarra con le maniche lunghe fino a terra, sopra lo zucchetto un
cappello a falde larghe simile a quello indossato dagli auditori
di rota durante la cavalcata. La comunità gerolamina non
imponeva alcun vincolo di soggezione: nessuna tavola comune e
nessun superiore; ciascuno poteva operarvi a suo modo. In essa F.
manifestò, nel primo periodo, un grande zelo nel
"confessare".
L'oratorio nacque nell'alveo di S. Girolamo della Carità,
muovendo da questo zelo verso i penitenti. F. faceva tornare i
devoti al pomeriggio e li teneva con sé nella sua stanza:
otto persone al massimo, più F. che di solito si poneva
"steso sul letto". F. li esortava nei suoi accessi di "tremito",
oppure dava loro la parola: si formò così il
"ragionamento", colloquio sopra un tema edificante. Dapprincipio i
discorsi dei fedeli erano liberi, privi di un argomento
predeterminato, quindi, per dar materia regolare alle
conversazioni venne introdotto l'uso della lettura, soprattutto
del quarto Vangelo e delle opere di J. de Gerson. Quando la stanza
di F. divenne insufficiente, il luogo degli incontri fu trasferito
al piano superiore, la soffitta della chiesa. Tra il 1554 e il
1555 il nuovo locale prese il nome di "Oratorio".
Le riunioni, allargandosi, ebbero necessità di ricevere
forma regolare; le conferenze divennero impossibili e comparvero i
discorsi: F. obbligava ora l'uno ora l'altro a raccontare un
episodio edificante. Nel frattempo, la riunione di preghiera
notturna divenne quotidiana come quella pomeridiana. Quindi, tre
volte alla settimana, il lunedì, il mercoledì e il
venerdì, F. ripristinò l'usanza delle antiche
confraternite italiane di disciplinarsi in comune. Infine, la
domenica e i giorni di festa cominciarono le riunioni mattutine.
Un'ora avanti il giorno F. faceva orazione con i discepoli,
confessava e si comunicava con loro. Eseguite queste devozioni, a
partire dal 1553 circa, F. prese l'abitudine di inviare i giovani
presso gli ospedali di S. Spirito della Consolazione e di S.
Giovanni in Laterano a portare agli ammalati dolci, arance,
ciambelle e marmellate; poi essi questuavano durante le funzioni
per i loro malati con la borsa aperta e il capo scoperto, cosa
considerata assai umiliante: ma F. voleva che le opere di
carità costituissero il risultato e la sanzione delle pie
pratiche.
Si delineava così sempre più precisamente il legame
che univa l'impronta del suo carattere all'indirizzo della sua
pietà. F. era vivace, allegro, espansivo, socievole e nello
stesso tempo non era privo di una certa iracondia. Amava
passeggiare e cominciò ad introdurre quella che avrebbe
preso forma di una vera istituzione filippina: la passeggiata per
Roma, accompagnato dai suoi discepoli, nel corso della quale amava
visitare le botteghe, le più diverse, come quelle di
orologi e di arte sacra, sostando con i bottegai a fare scherzi,
dire frasi saporite, fare battute salaci. Aveva insomma un fare
eccentrico ed estemporaneo. Ad esempio, si vestiva in maniera
ridicola: le vesti alla rovescia, le scarpe bianche sotto la
tonaca, la pelliccia di martora, che un devoto gli aveva regalato,
ridicolmente posta sulle spalle. Ballava goffamente in pubblico,
declamava versi epici in presenza di cardinali e prelati che di
lì a poco avrebbero cominciato a frequentare la sua camera.
Allo stesso tempo menava rimbrotti e schiaffi ai discepoli, nei
momenti di irritazione.
Questo complesso di comportamenti, oltre che rispondere
naturalmente al suo temperamento e alla sua natura, non ordinaria
né sotto il profilo psicologico né sotto quello
fisico, obbediva ad uno scopo morale consistente nella ricerca
dell'umiltà. Si è parlato di "bassezza e
semplicità cristiana", definizione pertinente purché
si tenga presente che essa ubbidiva principalmente all'idea
filippina del cristianesimo e al suo programma di formazione
cristiana. Mediante le sue stravaganze F. cercava di farsi
"disprezzare", cioè di giungere ad uno stato di completa
indifferenza verso l'opinione del mondo. Egli esprimeva questa
idea quando diceva che l'umiltà consiste non soltanto nel
disprezzarsi, ma nell'accettare il disprezzo degli altri. In
questa sua concezione dell'umiltà si condensava la sua
sensibilità antintellettuale. In essa albergava un'idea
della santità e della perfetta vita cristiana che
racchiudeva un'intera teologia del cristianesimo. Per F. la radice
della santità "sta in mortificare la razionale" (Processo,
II, p. 26) ed egli soleva dire che tutto si riduce infine a due
dita, cioè a mortificare il cervello. Con ciò
occorre intendere una pratica volta a umiliare l'amor proprio e
così giustificarsi. Si trattava, in altre parole, di una
specifica risposta teologica, tra le più intense e le
più originali della cultura cattolica, al problema della
giustificazione posto a tema della Riforma.
Il gruppo dell'oratorio non godeva di una piena autonomia a S.
Girolamo. All'inizio gli affiliati dell'oratorio si confondevano
con quelli di B. Cacciaguerra, anzi, dapprincipio questi prevaleva
su F. finché il rapporto lentamente si rovesciò e,
attorno al 1558, l'oratorio divenne pienamente autonomo mentre il
Cacciaguerra prendeva la via di una mistica individuale,
limitandosi a governare alcune devote contemplative; di queste
invece F. diffidava, come in genere diffidava delle visionarie e
mostrava poco interesse per la confessione delle donne che di
solito scansò e respinse, ad eccezione di Fiora Ragni.
Le seguaci del Cacciaguerra in effetti erano soprattutto eccitate
al misticismo, mentre F. indirizzava le donne piuttosto ad un
portamento naturale ed ordinario, volgendole verso la
carità e le forme di pietà attiva. Nutriva inoltre
grande diffidenza per visionari ed estatici come esposti
soprattutto alle tentazioni del demonio. Di conseguenza, l'unione
di queste due diffidenze, verso gli estatici e verso le donne,
provocò la sua inesorabile e violentissima avversione per
Orsola Benincasa, alla quale, nel 1582, per sette mesi inflisse
prove rigorose volte a dimostrare che quanto si vedeva in lei di
straordinario era opera del demonio. Ma, accanto a questi moventi,
vi era pure, certamente, la diffidenza verso se stesso: egli
proiettava cioè nella diffidenza verso l'origine degli
stati estatici degli altri - caratteristici spesso del mondo
femminile - il dubbio intorno alla natura dei propri.La sera, al
suono dell'Ave Maria, F. prese a celebrare una riunione dove si
meditava in silenzio per mezz'ora mentre un'altra mezz'ora era
consacrata alla lettura e recita di preghiere.
Ma l'oratorio propriamente detto restò quello del
pomeriggio, a un'ora che variava secondo le stagioni, e aveva
preso forma di un'adunanza nella quale ciascuno parlava come
dettava l'ispirazione, secondo il dono dello Spirito, con sermoni
che presero forma di commenti a letture. I libri impiegati
più frequentemente erano ora: Dionigi il Certosino,
Climaco, Cassiano, Gerson, Riccardo di San Vittore, s. Caterina da
Siena, il De contemptu mundi, un trattatello attribuito ad
Innocenzo III, la Pharetia divini amoris di Serafino da Fermo, le
vite dei santi, specialmente quelle dei padri della Chiesa, la
Leggenda francescana, il Prato spirituale. Due erano
particolarmente importanti: la Vita del b. Colombini di F. Belcari
e i Cantici spirituali di Jacopone da Todi. L'idea delle letture
era che l'entusiasmo e il fervore si attivassero parlando, donde
l'uso sempre più frequente della "laude" dopo la lettura e
il discorso.
L'avvento di Pio IV non mutò la vita e le forme di
reclutamento dell'oratorio, protetto e favorito ora da Carlo
Borromeo. Tra il 1562 e il 1563 i domenicani si avvicinarono molto
all'oratorio, assumendo un modo di predicare simile a quello di
Filippo. Nel 1563, durante il tempo del carnevale, che quell'anno
non fu festeggiato, F. organizzò per la prima volta in
grande stile il "pellegrinaggio alle sette chiese", riprendendo la
pratica dei suoi anni di vagabondaggio.
Alla fine del 1563 o ai primi del 1564 gli fu proposta la carica
di rettore di S. Giovanni dei Fiorentini. F. accettò
soprattutto per collocarvi i suoi seguaci e tenerli così
legati anche istituzionalmente. Il primo nucleo di S. Giovanni dei
Fiorentini fu composto da C. Baronio, F. Bordini e A. Fedeli. La
vita del convitto di S. Giovanni fu prefigurazione di quella della
Congregazione dell'oratorio. I cappellani mettevano insieme gli
stipendi ed insieme prendevano i pasti. Ciascuno a turno faceva la
cucina e serviva a tavola. Nel 1565 entrarono in S. Giovanni B.
Tarugi e A. Valli, entrambi laici, e il primo sembra avere steso
le regole della comunità.
In questi anni l'oratorio assunse la sua forma definitiva: il
"ragionamento sopra il libro", l'esortazione morale, i racconti di
storia della Chiesa e di vite dei santi scandivano regolarmente
l'indifferenziata conversazione iniziale. Si dava ad un fratello
un libro da leggere, un libro, ad esempio, di vite di santi: da
questo un altro prendeva occasione per un sermone, un terzo teneva
un più "elaborato sermone", passando in rassegna esempi di
santi tolti da autori approvati, insistendo sui temi della
caducità della vita, della temibilità del giudizio
finale, dell'atrocità dei tormenti. Un ultimo infine
parafrasava la vita di un santo per l'utilità degli
uditori. F. interveniva di solito al termine della conferenza
dialogata. Il sermone morale era generalmente imparato a memoria e
recitato da G. Fedeli e da A. Paravicino. Gli oratori parlavano
seduti; il dialogo, che avveniva stando di fronte agli uditori, si
svolgeva da un semplice banco sul quale anche F. sedeva. Altri
occupavano a turno una sedia posta al centro su alcuni gradini:
l'essenziale era bandire tutto quanto ricordasse la cattedra e la
predicazione di chiesa. Solo alla fine si resero conto di aver
riesumato la forma dell'antico presbyterium. Infine, dai convegni
nella soffitta di F. emersero la lettura preliminare e la
conversazione sul libro; i ragionamenti; i dialoghi; le preghiere
e le laude.
Sotto Pio V l'oratorio non godette di favore, anzi fu decisamente
osteggiato. Già nel 1558, durante gli ultimi mesi del
pontificato di Paolo IV, mentre Michele Ghislieri era commissario
generale dell'Inquisizione, venne proibito il "pellegrinaggio alle
sette chiese". In quel caso, secondo quanto sappiamo dalla
deposizione di S. Grazzini al processo di canonizzazione,
l'ostilità proveniva dal cardinale di Spoleto, V. Rosario,
il quale proibì di andare a passeggio in comitiva per la
città. F. vietò allora ai suoi di accompagnarlo, ma
sembra che quelli lo seguissero di lontano. La morte del Rosario,
avvenuta il maggio successivo, allontanò per il momento il
pericolo.
Esso si ripresentò naturalmente quando il Ghislieri fu
elevato alla tiara.
L'oratorio fu sospettato allora come conciliabolo di eretici. I
sospetti e le accuse si concentravano questa volta soprattutto
sulle riunioni in privato, le prediche tenute da laici, i canti in
volgare. L'attacco proveniva principalmente dai più
ortodossi ambienti domenicani, come indica l'impostazione della
difesa dell'oratorio contenuta nell'Apologia, redatta in
quell'occasione, nella quale venivano invocati i precedenti di S.
Marco e di S. Maria Novella in Firenze. L'Apologia non convinse la
Curia la quale proibì la passeggiata di F. con i discepoli
per le vie di Roma - che veniva sentita come un modo di "far
setta" e attribuire a F. il ruolo di un capo cittadino - ed era
sul punto, nel 1567, di decretare la chiusura dell'oratorio quando
l'intervento risoluto di Carlo Borromeo scongiurò tale
provvedimento estremo. Non cessò tuttavia l'avversione di
Pio V e del suo ambiente, che si manifestò nell'iniziativa
di far sorvegliare da due domenicani le prediche tenute da laici,
tra i quali addirittura un ex rabbino, A. Dal Monte.
Il secondo attacco andò a segno tra il 1569 e il 1570. Le
accuse erano di "ignoranza e presunzione degli oratori",
concernevano cioè ancora il metodo di lasciar parlare
ognuno di religione senza speciale preparazione. Anche superato
questo episodio il contrasto non si sedò. Pio V sentiva una
continuità tra il proprio regno e quello di Paolo IV,
così che perseguitò gli accusatori dei Carafa e, tra
l'altro, mandò al carnefice il fiscale A. Pallantieri, il
quale era vicino a F. che se ne fece garante e pare lo abbia
assistito nel momento della morte. Ma l'episodio più
indicativo per cogliere la differenza di tono e di impostazione
religiosa - e perfino teologica - tra F. e il papa è quello
successivo: per equipaggiare le navi da inviare contro il Turco,
Pio V fece sequestrare un certo numero di zingari e li fece
rinchiudere in Tor di Nona per spedirli poi alla galera. Alcuni
teologi criticarono l'atto abusivo: tra loro, oltre a F., A.
Franceschi, P. Bernardini di Lucca, entrambi suoi intimi e
confidenti.
Il pontificato di Gregorio XIII, il primo papa con il quale F.
intrattenne contatti diretti, vide invece salire la stella di
Filippo. La piccola comunità di S. Giovanni dei Fiorentini
si ampliò e si depurò giungendo a comprendere solo
reclute di Filippo. In tal modo essa divenne naturalmente
Congregazione dell'oratorio senza che la bolla di istituzione
canonica della Congregazione cambiasse in nulla la sua
composizione e la sua regola di vita.
La comunità nel 1564 comprendeva sei preti; mentre nel 1567
comprendeva diciotto persone tra preti e laici. Al gruppo dei
convittori si aggiunse il numero di coloro, perlopiù i
penitenti di F., che chiedevano di essere ammessi, dietro
pagamento, alla ricerca di una vita edificante. La supplica del
1578 per l'aumento delle spese di vitto fornisce il numero esatto
dei membri della comunità per quell'anno: tredici
più Filippo. Nel gennaio 1578 i membri della Congregazione
erano trentatré.
A partire dall'insediamento di F. in S. Girolamo della
Carità cominciano le testimonianze che definiscono la forma
della sua vocazione e, uniti inscindibilmente ad essa, i sintomi
della sua malattia.
F. cominciò a manifestare un forte "tremito". Presso il
letto di morte di A. Corvino ebbe un tremito abbastanza intenso da
scuotere leggermente il pavimento della casa. Lo stesso accadde
con M. Fano, un peccatore che non si voleva emendare. Quando
raggiungeva tale stadio, F. cominciava spesso a "lacrimare" e
"singhiozzare". In questi stati di fervore, le testimonianze
agiografiche e meravigliose del processo gli attribuirono delle
"elevazioni".
Il fervore era causa di grandi "distrazioni". Mentre si vestiva,
perdeva la nozione di ciò che stava facendo; si fermava con
gli occhi fissi al cielo, il vestito in mano: senza un compagno
che lo dicesse insieme con lui, non sarebbe arrivato in fondo
all'uffizio. Durante la messa aveva delle amnesie complete. Dopo
di essa, passava davanti alle persone senza riconoscerle: perfino
l'udienza papale a stento lo induceva a ritornare in sé.
Riferì al Gallonio: "io ero fuori di me quando sono entrato
in camera di sua santità", così da giungere presso
il papa senza accorgersene. Aveva fenomeni di "irrigidimento del
corpo" con una diminuzione dell'attività sensoria che
poteva giungere fino alla sospensione totale. Nel 1557 A. Fedeli
rilevò in F., immerso nella preghiera, una
immobilità statuaria. Mentre recitava l'ufficio con un
compagno, F. rimaneva immobile come un cadavere: ci si poteva
avvicinare a lui senza che vedesse e sentisse.
Un'estasi ben caratterizzata avvenne nel 1559, durante la
controversia tra gesuiti e domenicani intorno alla censura di
Savonarola. Il sacramento era esposto in una stanza del convento
della Minerva. Un giorno F. fu colto da irrigidimento estatico
dinanzi ad esso e rimase a lungo fuori dai sensi: al risveglio
descrisse una visione del Cristo "come si vede nelle Pietà
dei primitivi, dal mezzo in sù", in atto di benedire i
fedeli.
Nel complesso dunque, F. mostrava i segni ben definiti di una
forte epilessia. Egli si sforzava di mimetizzare i suoi stati e
sembrava sentire vergogna dello spettacolo che offriva; opponeva
resistenza agli stati che stavano per impossessarsi di lui,
cercava di sfuggirli e li temeva. In questi casi cominciava a
grattarsi il capo e a tirarsi la barba. Dallo sforzo di camuffare
questi stati estatici nacque quello che suole chiamarsi
l'atteggiamento "umoristico" di Filippo. Alla fine però
l'"accesso divino" prevaleva sempre.
In questi stati F. si considerava posseduto dallo Spirito Santo,
del quale era, di conseguenza, molto devoto. Ma F. si definiva
anche un "infermo d'amore". Tale infermità era innanzitutto
fisica. Aveva violentissime palpitazioni. Nei momenti di crisi gli
appariva sul petto una tuberosità nella quale si propagava
e si amplificava il movimento del ritmo cardiaco: lo
constatò A. Cesalpino, che lo esaminò nel 1593,
trovandolo di "petto molto estenuato" e "con un tumore a presso
delle costole nel lato sinistro, vicino al cuore... e nel tempo
della palpitazione si alzava e si abbassava ad uso di mantice". F.
aveva in effetti una lesione organica: le due prime false costole
erano staccate dalla cartilagine che le univa allo sterno; nel
punto di rottura le estremità libere delle costole
sporgevano esternamente in direzione della pelle. Era questa la
tuberosità che partecipava ai moti del cuore. I tremori
erano probabilmente l'effetto delle palpitazioni cardiache e
queste a loro volta erano presumibilmente dovute ad un aneurisma.
Esse risalivano al 1544; la prominenza del petto dovette
presentarsi pressappoco nello stesso tempo.
Sembra che le palpitazioni si siano presentate contemporaneamente
alle estasi e che insieme ad esse si manifestasse un calore
insopportabile. Anche questi calori risalgono ad una data molto
precoce, che F. attribuì al principio della sua
conversione. Fu allora che vide un "globo di fuoco" entrargli
nella gola e dilaniargli il petto. Egli attribuì questo
calore alla presenza dello Spirito. Riteneva che questo spirito
che portava nel petto si potesse comunicare agli altri:
così ricorreva al contatto del suo petto per guarire malati
o dissipare angosce e tentazioni. In tal modo placò le
tentazioni di M. Vitelleschi e gli scrupoli di N. de' Neri. Aveva
anche l'abitudine di stringersi al petto i penitenti al momento di
assolverli ed era allora che l'abate P. P. Crescenzi sentiva il
petto battergli fortemente.
Con T. Ricciardelli, il quale si lamentava di tentazioni che non
riusciva a scacciare, F. si distese sopra di lui, petto contro
petto. Quanti ricevettero la stretta affermarono che dava una
dolcezza singolare.
Come la grande maggioranza dei suoi contemporanei F. non aveva
fiducia nei medici. Aveva maggior fiducia nell'efficacia delle
elemosine e delle reliquie: possedeva un reliquiario donatogli da
Federico Borromeo contenente frammenti del legno della S. Croce e
delle ossa dei martiri Pietro e Paolo. Per curare le proprie
infermità usava tuttavia degli accorgimenti: seguiva una
dieta, si asteneva dal vino e si sottoponeva a salassi, ritenendo
di avere troppa abbondanza di sangue.
Fu poco dopo la sua ordinazione al sacerdozio che i Romani
cominciarono ad attribuirgli il potere di guarire; e, più
tardi, capacità profetiche. A questo proposito, le
testimonianze raccolte nel corso del processo di canonizzazione
offrono una documentazione vastissima dell'attività di F.,
del suo rapporto con la società cittadina ed insieme della
vita, della sensibilità e delle credenze nella Roma
cinquecentesca.
La prima guarigione di cui abbiamo notizia risale al 1554. Molto
spesso il mezzo della guarigione era il comando: F. ordinò
ad una donna di non ammalarsi senza il suo permesso, rinnovando
efficacemente il divieto ogni volta che la donna cominciava a
sentirsi male. In altri casi bastavano semplici parole di
esortazione. Oppure F. toccava con la mano il malato. A volte lo
abbracciava e a volte si sdraiava su di lui. In un caso di agonia
andò di qua e di là con grande agitazione in tutto
il corpo, poi soffiò in viso al morente. Ad una spiritata
impose le mani. Alcuni pazzi furiosi si calmarono sentendo la sua
voce. Eseguì un esorcismo su L. Cotta, stregata da otto
anni quando prese F. per confessore nel 1592. Un caso di
toccamento avvenne nella guarigione di Clemente VIII. Il papa
riceveva F. anche nei giorni di gotta: F. avanzò piano e
toccò la mano dolorante, che subito migliorò. Egli
usò assai spesso reliquie, soprattutto con le partorienti:
sacchetti di ossa di santi, oppure le pantofole di Pio V, che
operavano meraviglie.
Durante tutto il periodo di formazione del piccolo gruppo di
chierici regolari presso S. Giovanni dei Fiorentini, F. rimase
invece appartato presso S. Girolamo della Carità. Vi
soggiornò per più di un trentennio fino a che, nel
1583, ricevette da Gregorio XIII l'ordine di trasferirsi a S.
Maria in Vallicella. Dal 1572 cominciarono le discussioni per il
passaggio della comunità di preti riunita attorno a F. e
residente in S. Giovanni dei Fiorentini al sodalizio formale. E la
prima volta che appare il termine "oratorio" è in tre atti
di petizione e di relativo conferimento di tre uffici vacabili,
intestati a F. M. Tarugi, e un indulto, concessi l'uno e gli altri
per vantaggio dell'oratorio dal cardinal datario M. Contarelli,
con le date del marzo e del luglio 1574.
Si cominciava a cercare la sede da attribuire alla Congregazione.
Nel 1574 F. rifiutò un'offerta dei Colonna, con i quali era
a stretto contatto. Prese invece in considerazione prima S.
Cecilia in Monte Giordano, che fu poi effettivamente compresa in
Vallicella. Fu Gregorio XIII a designare la Vallicella. Vicina
alla corte, la chiesa Nuova era molto frequentata dai suoi membri
e costituiva elemento essenziale nel progetto della sua riforma
morale. Il fatto solo di comparire in Vallicella bastava per
essere classificati tra gli "spirituali". In tal modo i cortigiani
divennero i frequentatori più numerosi della chiesa.
Il 15 luglio 1575, con la bolla Copiosusin misericordia, Gregorio
XIII stabilì "una congregazione di preti e di chierici
secolari chiamata Oratorio" e le attribuì la chiesa di S.
Maria in Vallicella.
La Congregazione era atipica; normalmente le congregazioni
esigevano voti, costituendo ordini e gruppi regolari. Viceversa
quella di F. non mutò lo stato di prete del socio.
L'oratorio era cioè un seminario di preti senza regola
speciale: per essi la regola era costituita dal contatto diretto e
vivo con F. e dalla frequenza del convitto. L'ufficio
dell'oratorio consisteva essenzialmente nel trattare la parola di
Dio in modo facile, piano, diverso dallo stile ordinario delle
prediche cosicché, sebbene abbia poi introdotto i
sacramenti e altri esercizi spirituali, tuttavia il suo tratto
peculiare rimase annunciare il verbum Domini. Il ministero che F.
aveva soprattutto a cuore era la cura dei malati negli ospedali;
inoltre egli prese ad applicare i discepoli all'insegnamento del
Catechismo ai fanciulli. Il memoriale del 1578 pose l'insegnamento
della dottrina cristiana al centro delle opere della
congregazione.
Tre preti, il Baronio, il Tarugi e G. A. Lucci presero residenza
nella nuova chiesa della Vallicella nell'agosto 1576, prima che
essa fosse aperta al culto: l'inaugurazione ufficiale avvenne
nell'aprile del 1577 e la chiesa appena aperta al pubblico fu
illustrata dalla predicazione del cappuccino spagnolo A. Lobo.
Nel 1578 la Congregazione era al completo alla Vallicella. La
bolla di fondazione concedeva ampia facoltà di emettere
statuti. I padri riuniti decretarono le leggi che regolavano il
corpo comune. La prima assemblea si tenne il 15 marzo 1577; l'8
maggio F. fu eletto preposito della Congregazione da cinque padri
incaricati di prendere i provvedimenti utili al bene generale:
essi erano: B. Messia, A. Visconti, F. Bordini, il Tarugi e A.
Talpa.
L'oratorio fu trasferito alla Vallicella nell'aprile 1577.
Dapprincipio fu collocato in una sala di abitazione dei patres,
poiesso fu tenuto nella chiesa stessa. La chiesa Nuova soggiaceva
a S. Lorenzo in Damaso, cosa che imponeva alcuni servizi: si
supplicò dunque Alessandro Farnese che, come
vicecancelliere della Chiesa romana era abate di S. Lorenzo, di
rinunciare alla sua giurisdizione; alla fine, dopo tre anni, fu
redatto un motu proprio che sanciva l'affrancamento.
La prima manifestazione di una vita regolata della nuova
Congregazione può essere considerata l'adunanza del 2
luglio 1580, che si chiamò già "congregazione
generale", la quale nominò come rettore della casa F. M.
Tarugi, estraendolo a sorte de consensu del preposito, che era F.,
e aggiungendolo ai quattro deputati precedentemente nominati. Essa
inoltre registrò nel libro dei decreti le decisioni prese
in comune sulla vita della Congregazione.
Nel 1581 i filippini posero mano alle loro costituzioni. F. chiese
espressamente che nulla si stabilisse, riguardo alla
Congregazione, senza che fosse chiesto il parere di tutti i suoi
membri. Il preposito dei filippini non ebbe quasi, in effetti,
poteri personali e gli si negò perfino qualunque segno
esteriore di dignità. La relazione al cardinal G. Savelli,
del principio del 1582, descrive le attività dell'oratorio:
undici preti attendono alla confessione, uno è addetto alle
oblate di Tor de' Specchi e uno scrive la storia ecclesiastica
(Cistellini, S. F. N., p. 273).
Il primo cenno ad un lavoro ordinato di codificazione statutaria
è del 10 maggio 1582. La prima redazione, condotta su un
abbozzo steso dal Talpa e volto in latino dal Bordini fu
completata nel 1583. Da allora fino alla definitiva approvazione
del 1612, per quasi un trentennio, la Congregazione
rielaborò questo testo originario. Ciò derivò
dal fatto che i padri esitarono a lungo prima di farsi confermare
le costituzioni e di porre termine, in tal modo,
all'attività legislativa concessa dalla bolla istitutiva,
mossi dal timore di legarsi le mani per sempre. Dopo la prima
redazione del 1582-83, nel 1588 fu redatto da T. Bozio un nuovo
testo che non ottenne l'approvazione pontificia, come era nei
desideri dello stesso F., ma rimase sostanzialmente la regola
ufficiale fino al 1612. Fu solo nel 1609, quattordici anni dopo la
morte di F., che la Congregazione pose risolutamente all'ordine
del giorno tale negozio, deputando a questo scopo, il 23 agosto,
F. Bozio, G. Severani, P. Consolino e G. Giustiniani.
Nel frattempo furono prese a modello dai padri le costituzioni
degli oblati, istituiti da Carlo Borromeo, a conferma dello
stretto legame personale che si era istituito tra quest'ultimo e
F. fin dal tempo di S. Girolamo della Carità. Su questo
modello i membri della Congregazione introdussero un "giuramento
di stabilità", ma non di obbedienza. Ancora adottarono la
comunanza del possesso e la povertà dei singoli: comuni
sarebbero stati vitto, abito, mobilia; si agì cioè
come se fosse pronunciato il voto di povertà, ma questo non
venne proferito espressamente. A fine febbraio 1583, infatti, si
deliberò che si facesse voto semplice e giuramento di
perseverare sempre nella Congregazione; e si deliberò che
tutti vivessero in comune in omnibus, non solo per il vitto.
A queste deliberazioni si opposero F. Ricci e F. Bordini - i quali
dichiararono di non volersi impegnare in nulla che non fosse
approvato da F. - facendo osservare come l'idea iniziale della
piccola comunità fosse di formare una congregazione di
preti secolari mentre ora si stavano adottando in sostanza tutte
le conseguenze dei tre voti monastici, erigendo così una
comunità claustrale. Dal canto loro essi volevano invece
mantenere la propria libertà "senza promissione veruna di
voto o di giuramento" (Bordet, p. 314). Accettavano il disposto
dei padri quanto all'abito e alla camera, non volevano invece
prestare il giuramento di stabilità e volevano conservare
la proprietà personale dei libri, di cui si serviranno
continuamente: erano perciò contrari alla messa in comune
di ogni cosa; richiedevano infine libertà di movimento per
i negozi concernenti la loro vocazione. Dalla discussione che si
svolse su questi problemi tra i padri risultò che F., dal
canto suo, accettava il voto di stabilità soprattutto
perché soffriva dello scarso numero dei membri e temeva che
senza tale voto il loro numero sarebbe diminuito ulteriormente;
invece il Bordini era contrario al voto di povertà e fu
soprattutto su sua insistenza che fu ritirato l'articolo sulla
comunione dei beni mobili. Infatti, fino a quel momento la maggior
parte viveva del suo. L'opposizione del Bordini ebbe dunque un
certo seguito: per comporre il dissenso, nella deliberazione del 7
marzo si introdusse l'inciso "lasciati liberi quelli che non
vogliano, i quali possono vivere come ora vivono".
Così i capitoli da dodici si ridussero a quattro, relativi
al preposito, ai quattro deputati, agli ufficiali inferiori ed
infine alle regole, tra le quali caratteristiche quelle che
vietavano di accettare benefici e prelature. Alla fine, nella
redazione provvisoria del 1583, gli obblighi si riducevano ad
assai poco ricalcando il modello di vita di un convitto di preti
liberi. Ad essi si aggiungeranno le Raccolte di usanze della
comunità. Nel 1588 si introdurrà la confessione
settimanale, mentre nella redazione definitiva del 1612 si parla
di tre confessioni alla settimana. Nel 1595 infine si accenna alla
riunione per la colpa, due volte al mese, dove ognuno si accusava
dei dispiaceri arrecati agli altri. Solo nel 1612 nella redazione
approvata dal papa, si parla della "refettione" come obbligo.
L'articolo della refezione stabiliva prima del pasto una lettura,
poi che uno dei padri proponesse due dubbi: uno di Sacra
Scrittura, l'altro di morale, intorno ai quali ognuno doveva
esprimere la propria opinione, spettando al proponente di trarre
le conclusioni. Dubbi, colpe, confessioni: gli obblighi di
confessione non erano molti: la Congregazione non aveva come fine
la santificazione di sé ma quella degli altri.
Mano a mano che si stabiliva e prendeva forma istituzionale presso
S. Maria alla Vallicella, anche l'oratorio subiva un processo di
codificazione e di inevitabile irrigidimento. Esso continuava a
tenersi tutti i giorni di lavoro meno il sabato, due ore e mezza
dopo la mensa. All'improvvisazione sul tema proposto dalla lettura
iniziale erano succeduti da tempo i quattro sermoni preparati.
Finché nel 1583 si registrò una certa decadenza e
ripetitività; F. convocò allora i padri per
"salvaguardare l'antica forma dell'oratorio". I sermoni si
omologavano, languivano i contraddittori e i commenti, non vi era
più chi parlasse mescolato agli uditori, ma tutti parlavano
ormai da una sedia che dominava il pubblico per il tempo
esattamente delimitato di mezz'ora ciascuno. Ora che il numero dei
preti lo permetteva, essi soli prendevano la parola; venivano
perfino esclusi i chierici di .altre congregazioni. Ampliandosi
l'uditorio si alzava il sedile, seppure continuando a non
pretendere di essere una cattedra. L'oratore infatti non si
alzava, né metteva la cotta sopra la tonaca.
F. manteneva l'orientamento, che lo distingueva, di avversione
verso la religione intellettualizzata, le dispute su questioni
astratte, la sovrabbondante dottrina. Se l'oratore acquisiva
teoria doveva però stare ben attento a dissimularla: F.
dichiarava che se avesse discusso problemi astratti l'avrebbe
tirato giù dalla cattedra senz'altro. Occorreva invece
parlare in modo semplice e col cuore, cercando di commuovere; era
vietata l'oratoria e il suo ornato mentre si ricercava la forma
spoglia di Francesco d'Assisi. F. non parlava mai per via della
sua facilità nel commuoversi; nel 1589, dopo una
disgraziata esperienza, decise di imporsi il silenzio.
Alle sei del pomeriggio F., insieme ad altri padri, si recava in
una sala dell'oratorio dove si pregava, per metà
mentalmente e per metà ad alta voce. Il lunedì, il
mercoledi e il venerdì, alla preghiera ad alta voce si
sostituiva la disciplina; si spegnevano le luci, restava visibile
solo il crocifisso dipinto sul vetro di una piccola lanterna,
quindi qualcuno salmodiava in succinto la Passione.
Nel 1583, mentre i preti della Congregazione soggiornavano ormai
da sei anni presso la Vallicella, già quasi terminata, F.
viveva ancora presso S. Girolamo e anche dopo mantenne la
disponibilità delle sue stanze, dove tornava di tempo in
tempo: si ricongiunse con i suoi discepoli durante le feste di S.
Cecilia, il 22 nov. 1583. Ma cercava di isolarsi quanto più
poteva e anche riguardo al governo dell'Ordine, dopo la seduta del
28 novembre, nella quale partecipò al consiglio dei
deputati della Congregazione, li lasciò deliberare per
proprio conto.
Con l'uscita del primo tomo degli Annali, ilBaronio
acquistò grande fama e una pensione da Sisto V; F. allora
gli impose di pagare una retta dalla pensione alla Congregazione
che lo ospitava. Nella dedica del tomo VIII il Baronio
affermò che il vero autore degli Annali era F. e in effetti
grande fu il suo ruolo di sollecitazione degli studi storici del
Baronio. Tra i temi dei discorsi dell'oratorio, che dovevano avere
sempre argomenti concreti, stavano infatti al primo posto le vite
dei santi e gli eventi più significativi della storia della
Chiesa. Fu F. ad affidare precipuamente al Baronio la storia della
Chiesa come tema di predicazione; ma, avverso com'era
all'erudizione e alle codificazioni dottrinarie, non fu lui,
probabilmente, a spingerlo a scrivere: a questo lo indussero il
Tarugi, il Talpa e G. Sirleto.
Tra il 1586 e il 1587 F. cominciò a invecchiare fortemente,
rinsecchendo visibilmente. Era inappetente e debilitato, aveva
forti infreddature seguite da febbre. Si trovava, come dice G.
Fedeli, in uno stato di "continua indisposizione" (Bordet, p.
389). Non prendeva quasi cibo, al quale attribuiva le sue
palpitazioni e il fuoco che gli bruciava il petto e la gola.
Cosicché era risolutissimo a dimettersi dall'incarico di
preposito della Congregazione, ma poi la decisione rientrò.
Nel frattempo, la Congregazione cominciò ad acquistare
molto peso nella vita cittadina e molti incarichi vennero affidati
ai suoi membri. Finalmente, il 23 luglio 1593 venne eletto
preposito il Baronio, avendo F. respinto ogni insistenza in
proprio favore.
In questi ultimi anni di prestigio e di grande influenza della
Congregazione guidata da F. nella vita romana e sulla stessa corte
non sembra definito un orientamento politico dei suoi membri: se
F. e il Baronio manifestarono tendenze filofrancesi, T. Bozio si
fece rappresentante di un orientamento dottrinale nettamente
ierocratico e di una politica filospagnola. Nel complesso si
può dire, dunque, che la personale impronta di F. fu
politicamente filofrancese, vicina agli ambienti più
tolleranti e lontana dalle più radicali rivendicazioni di
poteri temporali al pontefice.
Durante la sua missione a Roma, cominciata il 21 nov. 1593,
l'ambasciatore di Enrico, L. Gonzaga, duca di Nevers, non potendo
visitare i cardinali che ne avevano ricevuto espresso divieto, per
guadagnarsi l'opinione romana si recò in primo luogo alla
Vallicella. L'8 dicembre mattina era alla chiesa Nuova, dove gli
avevano consigliato di visitare F., il Baronio e il Bozio. F. lo
ricevette a letto e fu subito convinto della causa francese:
pensò che Clemente VIII avrebbe potuto assolvere Enrico per
un anno, dandogli modo di compiere quegli atti che dimostrassero
con maggior certezza l'autenticità della sua conversione;
questa prima risoluzione però non ebbe seguito a causa
dell'arrivo, il 17 dicembre, dell'ambasciatore spagnolo duca di
Sessa, A. Folch y Cardona, che presentò una relazione molto
negativa sulla condotta di Enrico IV; quindi tre cardinali, F.
Borromeo, A. Cusani e L. de Torres dissuasero F., in un primo
momento, dal suo atteggiamento filofrancese; poi, però,
pare che il Baronio e il Bozio - che nel frattempo sembra avesse
cambiato posizione, passando dalla parte dei fautori
dell'assoluzione - lo abbiano persuaso ad esporre al papa le
ragioni favorevoli ad Enrico IV, cosa che effettivamente F. fece
nell'udienza concessagli il 12 dicembre 1594.
Il 12 maggio 1595 cominciò l'attacco decisivo che lo
portò alla morte. Si spense a Roma nella notte tra il 25 e
il 26 maggio 1595. Fu canonizzato nel 1622.