Romanticismo
Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente
consapevoli dell'enorme importanza del pensiero critico, tanto da
accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione
copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla
rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il
criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto
continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto,
soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo
da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di
secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita
ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità
di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio
di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo:
cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l'inevitabile
conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente
accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili.
Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel
dibattito sul criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il
Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione
(1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come
pensatore originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli
sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo, inavvertitamente,
alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all'idealismo. Reinhold
sottolinea che il soggetto e l'oggetto non sono pensabili separatamente
: non potrei mai pensare il soggetto senza tener conto dell'oggetto, e,
viceversa, non potrei mai pensare l'oggetto senza tener conto del
soggetto. Ne consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da
Reinhold concepiti e pensati come due facce della stessa medaglia, come
se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza ,
intesa come facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la
forma della conoscenza, cioè l'attività tramite la quale il molteplice
viene unificato in un concetto, mentre l'oggetto ne costituisce la
materia, cioè il contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa
indissolubile relazione, all'interno della rappresentazione,
dell'elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale
giustifica la stretta connessione tra le diverse facoltà conoscitive:
nella sensibilità l'oggetto prevale sul soggetto, nell'intelletto vi è
equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del
soggetto. Secondo Kant, noi costruiamo l'oggetto fenomenico, ma a monte
di esso esiste comunque una cosa in sè (noumeno), indipendente dal
soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa
distinzione Kant prendeva le distanze dall'idealismo berkeleiano.
Ora,
Reinhold, concependo il soggetto e l'oggetto come facce di un'unica
azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione
kantiana tra soggetto e oggetto. Sebbene Reinhold si consideri
pienamente kantiano, egli apre la strada all'idealismo e alla sua tesi
fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce
l'oggetto partendo da zero.
A ben pensarci, una sorta di perdita della
cosa in sè c'era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si
convinceva che la cosa in sè fosse un concetto puramente negativo
(noumeno è ciò che non è fenomeno), con un'attenuazione dell'autonomia
dell'oggetto. E il passaggio all'idealismo consiste proprio in una
progressiva eliminazione della cosa in sè kantiana ; non a caso,
l'idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il
progressivo tentativo di identificare l'oggetto con il soggetto, con
una sfumatura tipicamente monistica : l'obiettivo ultimo, infatti, è
trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque
superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant
(primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il
resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono già in parte
avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sè
con questo ragionamento: l'aspetto formale della conoscenza, imputabile
esclusivamente al soggetto, rientra nell'ambito della rappresentazione,
al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sè intesa
come un qualcosa di assolutamente indeterminato e inconoscibile; in
quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè cade al di fuori
della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non
è alcunchè di reale, poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e
rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sè è dunque solo un
concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell'elemento
materiale della conoscenza, per la sua stessa impensabilità va al di là
della rappresentazione e, quindi, della realtà.
Autore di grande
rilievo per il passaggio dal kantismo all'idealismo è anche GOTTLOB
ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792
apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti della
filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold,
assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica
della ragione . Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del
pensiero di Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di
contraddizioni che giungono all'apice con l'affermazione della cosa in
sè. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un
difensore ortodosso del criticismo, senza tener conto delle modifiche
che ha apportato. Nel testo poc'anzi citato, Schulze muove una critica
esplicita alla cosa in sè , mettendo in evidenza le contraddizioni
scaturite dal criticismo. Kant ha mostrato razionalmente come la
categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito
empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla
cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto
dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della
cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè
come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa,
in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sè
modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale
dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su di
noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sè resta
inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo
conoscitivo.
Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si
unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che
dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli ammette la
conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto,
riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto
della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo,
un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha
spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono
inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare l'esistenza della
cosa in sè poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in
contraddizione. Ecco che con Schulze entriamo pienamente
nell'idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso)
hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non
fosse Kant stesso, quasi come se il pensatore di Königsberg fosse stato
ispirato dallo spirito giusto (l'idealismo), ma non avesse avuto il
coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è
presente in Kant, soprattutto quando egli afferma che la conoscenza
ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l'esistenza di una
cosa in sè, egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il
coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto.
Sulla strada
iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon
ben Joshua, un ebreo lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale
assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (1754-1800). Il suo pensiero
trova l'espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo
spirito umano (1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano
Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo humeano, Maimon è del
parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a
condizione di una completa eliminazione della cosa in sè , la quale
altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi come se Hume
non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno
dogmatico in cui era sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è
contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora la cosa in sè
, cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è
una non-cosa (in tedesco Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa
viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice quadrata di
un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma
l'eliminazione totale della cosa in sè significa riconoscere che
l'intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi
contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da
fuori, ma è ciò di cui, all'interno della coscienza, abbiamo ancora una
conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l'elemento
indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato
dalle forme a priori dell' Io. Al di fuori della coscienza non c'è
nulla: nel caso della conoscenza meramente intellegibile (matematica)
il soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso
della conoscenza sensibile, invece, è possibile solo un avvicinamento
indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se
penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l'oggetto
in questione; ma quando ho un approccio conoscitivo con l'oggetto
sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso
sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne
resterà esclusa e costituirà la famigerata cosa in sè . Questo residuo
di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l'oggetto come dato, e non
come prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo
dal suo ancoraggio empirico e lo avvia verso esiti idealistici. Maimon
porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sè sia un
concetto puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente
relativa: la cosa in sè altro non è se non quel residuo non
perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell'uomo; è ciò che
resta fuori dall'inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va
avanti all'infinito e, proprio per questo, non potrà inquadrare tutto
nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sè .
L'espunzione della cosa in sè dal quadro del criticismo viene ribadita
anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840) , autore di uno scritto dal
titolo L'unico punto di vista dal quale può essere giudicata la
filosofia kantiana (1796). Beck si propone di interpretare il pensiero
kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele ad
esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo
verso l'idealismo: a ragion veduta, dunque, egli viene sconfessato da
Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello
sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il
riconoscimento. Se la cosa in sè non esiste, ne deriva necessariamente
che il processo con cui il soggetto genera l'oggetto non è più una
costruzione (organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una
produzione: non lavoro su materiale che mi è dato (come credeva Kant),
ma lo costruisco io stesso, sto all'origine dello stesso materiale che
poi dovrò conoscere. Ne consegue che l'oggetto è una produzione del
soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della
conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero
che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come
credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione
originaria). Sembra un paradosso, poichè, se io come soggetto produco
il mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista
indipendentemente da me, ovvero come oggetto a sè stante? Perchè
abbiamo l'impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente?
Beck lo spiega con con il secondo passo dello sviluppo nel processo
conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto produce l'oggetto
(produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo
riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L'illusione che esista
una cosa in sè, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto
che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza
rendercene conto. Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione,
Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l'idea che vi sia
una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l'oggetto, e
poi lo riconosce, quasi come se lo recuperasse, in una sorta di
processo triadico: prima c'è il soggetto che sta in sè, poi c'è il
soggetto che pone l'oggetto e, infine, c'è il soggetto che recupera
l'oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto vicino alla Trinità
cristiana: c'è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine
l'amore tra i due (Spirito Santo). Ad esplicitare quest'idea, presente
embrionalmente in Beck, sarà Hegel.
Su queste basi finora esposte
nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte,
Schelling e Hegel. Essi si succedono in tempi molto ravvicinati,
cosicchè la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè
di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo
predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana
si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà
surclassato dall'appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si
estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco
Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è
declinato, l'esito del pensiero di Fichte prende una coloritura
teologico-religiosa: è interessante, perchè il periodo che segue alla
filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica
anti-intellettualistica, una polemica contro l'intelletto, ovvero
contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è
particolarmente sentita la ricerca dell'infinito, all'intelletto, che
era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la
ragione, ovvero la facoltà di cogliere l'infinito, l'assoluto.
In
questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi
rifiuterà sia l'intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo
alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel,
riconoscerà l'inferiorità dell'intelletto rispetto alla ragione e,
dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica
all'intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di
finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni
legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica
sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica
(Hegel in primis). Naturalmente, finchè all'intelletto contrappongo la
ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della
filosofia, dell'indagine razionale; se però, oltre a criticare
l'intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più
nell'ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella
razionalità.
Tornando ai tre idealisti, l'unico che resta coerentemente
fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica
sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece,
partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che
esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della
religione, Schelling dell'arte. In questi due pensatori è come se,
paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio,
appellandosi alla religione (Fichte) e all'arte (Schelling).
IL ROMANTICISMO
Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura
culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della
filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica
tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre
diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant)
2)l’idealismo (di cui abbiamo parlato poc’anzi), che muove dalla
riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla
negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni
precisa determinazione cronologica e contenutistica. Mancano infatti
date precise dello sviluppo di tale movimento ma, come se non bastasse,
mancano anche criteri oggettivi per decretare la romanticità degli
autori. Se nell’Illuminismo regnava l’idea di uscire dalla precedente
epoca buia grazie ai lumi della ragione, nel Romanticismo la questione
è invece più complessa. Si può tentare di stabilire un raffronto,
cogliendone il rapporto, tra Romanticismo e idealismo. L’idealismo è a
pieno titolo la filosofia dell’età romantica, eppure non tutto
l’idealismo è filosofia romantica: ovvero, l’idealismo nasce e vive in
età romantica, ma non per forza esso costituisce la filosofia
romantica. Hegel stesso, il più grande idealista, muove pesanti
critiche al Romanticismo, pur essendo per molti aspetti egli stesso
romantico.
Forse l’elemento che meglio contraddistingue il Romanticismo
è la vivace polemica anti-intellettualistica, combattuta contro
l’intellettualismo illuminista. L’intera filosofia kantiana, massima
espressione dell’età illuministica, rivendicava l’assoluto
privilegiamento dell’intelletto (facoltà del finito) a discapito della
ragione (facoltà dell’infinito), nella convinzione che la conoscenza
umana, per essere legittima, non poteva mai assumere carattere
infinito. I Romantici stravolgono l’insegnamento kantiano, convinti che
attingere l’infinito sia azione legittima: ne consegue inevitabilmente
che, essendo legittimo l’uso sia dell’intelletto sia della ragione, si
preferirà la ragione, in grado di mettere l’uomo in contatto con
l’infinito. Tuttavia, se buona parte dei Romantici (Hegel in primis) si
schiererà a favore della ragione intesa come facoltà dell’infinito e
contro l’intelletto inteso come facoltà del finito, un’altra grande
fetta di intellettuali dell’epoca si lascerà troppo prendere dalla foga
contro l’intelletto e finirà per polemizzare contro le facoltà
razionali in generale (compresa la ragione): ora, è evidente che se ci
si allontana dall’intelletto ma si resta fedeli alla ragione si può pur
sempre elaborare un sistema filosofico, e non a caso Hegel, acerrimo
nemico dell’intelletto, darà vita alla più grande elaborazione
filosofica razionale mai esistita. Se però, accanto all’intelletto, si
respinge anche la ragione, si esce dalla sfera filosofica e si sfocia
in ambiti mistici.
Se l’idealismo, nel complesso, tendeva a travolgere
l’intelletto nella sua polemica ma riconosceva la validità della
ragione, i Romantici, per lo più, si scaglieranno sia contro
l’intelletto sia contro la ragione , decretando, paradossalmente,
l’impossibilità di una filosofia romantica: ecco perché il più grande
filosofo dell’età romantica, Hegel, sarà nemico del Romanticismo. Della
triade idealista, i due più strettamente romantici sono proprio Fichte
e Schelling, il cui pensiero giunge a staccarsi completamente dalle
facoltà razionali, mentre il meno romantico (Hegel) è quello che resta
più razionale.
Forse l’elemento più comune ai pensatori romantici è
l’accesa polemica contro il razionalismo . Alla ragione, dichiarata
incapace di cogliere l’essenza più profonda della realtà e della natura
umana, vengono contrapposti il sentimento, l’istinto e la passione. Si
è spesso detto che la contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo
risiede proprio nella riscoperta romantica della passione e del
sentimento in antitesi alla fredda e rigorosa ragione illuministica: in
realtà, con i Romantici vengono approfonditi e portati alle estreme
conseguenze la passione e il sentimento, che però erano già stati
scoperti e valutati positivamente da Illuministi quali Rousseau ( La
nuova Eloisa ). Una differenza forse meno lampante ma senz’altro più
corretta sta nella tendenza romantica a rivendicare la spiritualità a
discapito del materialismo illuministico.
Già Kant aveva timidamente
aperto spiragli verso l’interiorità e la soggettività attuando la
rivoluzione copernicana del pensiero; ora, i Romantici approfondiscono
la questione e portano a compimento la progressiva attenzione alla
soggettività avviata da Petrarca. Va però precisato che per
soggettività bisogna intendere l’interiorità, il cuore delle passioni,
e che l’esaltazione di tale componente della natura umana porta ad una
rilevante rivalutazione dell’individualità . L’Illuminismo tendeva a
far prevalere (perfino in ambito politico) ciò che era uguale,
universale e valido ovunque, nella convinzione che vi fossero cose
buone o cattive, giuste o sbagliate, in assoluto, a prescindere dalla
specificità delle condizioni: secondo gli Illuministi si trattava di
scegliere sempre e ovunque il giusto seguendo i dettami della ragione,
senza tener conto della realtà o del periodo storico in cui si fosse.
Il Romanticismo, invece, esalta la dimensione dell’individualità,
facendo però delle distinzioni: ci sarà l’individualità singola, e da
essa nascerà l’idea, tipicamente romantica, del genio , ovvero la
convinzione che vi siano individui privilegiati e superiori agli altri
(da cui spesso non vengono compresi) poiché capaci di cogliere
l’essenza più intima della realtà. Non a caso sorge il desiderio di
originalità e sempre più frequente diventa l’accusa di plagio, fino ad
allora pressochè sconosciuta, in un clima in cui si vuole reagire
all’incipiente massificazione avviata dall’appiattimento borghese della
Rivoluzione Francese. Va poi ricordato che, dopo il 1815, siamo negli
anni della Restaurazione ed è forte la delusione per il fallimento del
progetto napoleonico, sicchè alcuni spiriti più sensibili sentono il
desiderio di ribellarsi al clima soffocante della Restaurazione e lo
fanno con opere d’arte fuori dal comune, degne di un genio.
Vi è poi
anche esaltazione dell’individualità collettiva : in reazione
all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità
collettive, le distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che
ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli, sostiene Vincenzo
Cuoco, a sottolineare che è assurda l’universalità astratta degli
Illuministi. Non è vero che ciò che la ragione addita come giusto sia
giusto ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali
effettive: ciò che è giusto a Parigi può esserlo anche a Napoli a patto
che lo si cali nella concretezza della situazione, tenendo conto delle
differenze effettive che intercorrono tra le due città.
Connesso alla
soggettività è anche il concetto di infinito, uno dei più Romantici:
venendo meno la cosa in sé kantiana, il soggetto può legittimamente
aspirare ad attingere l’infinito attraverso la ragione, la quale
assurge così in posizione dominante rispetto all’intelletto. Perchè
però si predilige proprio in età romantica la ragione, ovvero la
facoltà dell'infinito? Finchè ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano
due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza
(forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà
che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell'intelletto)
perchè vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del
tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così
dire, introdurre l'oggetto dentro di sè, inquadrarlo, per Kant possiamo
solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro
pensiero, nel mondo, con l'inevitabile conseguenza che di ciò che non
ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che
sarà possibile solo un conoscenza finita e l'intelletto sarà lo
strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto,
come fa l'idealismo, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce
(cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall'esterno),
allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in
quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente,
totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che
la ragione (non l'intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più
adatto. L’uomo può e deve tendere all’infinito: eppure vi saranno
pensatori che riterranno impossibile il raggiungimento dell’infinito,
con la conseguenza che la loro filosofia sarà venata di pessimismo.
Ci
sarà dunque un Romanticismo pessimista , nato dall’aspirazione non
realizzata all’infinito, e un Romanticismo ottimista poiché convinto
che l’uomo possa raggiungere l’infinito. Le ultime lettere di Jacopo
Ortis rappresentano un fulgido esempio di Romanticismo pessimista, in
cui il protagonista perviene al suicidio dopo essersi capacitato
dell’impossibilità di cogliere l’Infinito. Il pessimismo cosmico di
Leopardi poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito, eppure
non può mai spingersi oltre al finito, dunque la sua vita è tormentata
dal dolore e dalla sofferenza per non potersi spingere laddove
vorrebbe. Hegel rappresenta invece il caso più lampante di Romanticismo
ottimista: egli è convinto che l’uomo possa, avvalendosi della ragione,
raggiungere l’infinito ed è uno dei filosofi più ottimisti della
storia, tanto da arrivare a dire che ‘ogni negativo è anche positivo'.
Anche pensatori quali Fichte e Schelling sono fortemente ottimisti,
sebbene per essi l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con
strumenti extra-razionali (religione e arte). Ecco dunque che in alcuni
pensatori prevale la fede come rapporto immediato (non mediato dalla
ragione) con l’Assoluto; Schelling, per dirne uno, troverà un rapporto
immediato e diretto con l’Assoluto nell’arte, tramite il genio
creativo.
Altri due concetti tipicamente romantici su cui spesso si è
voluta costruire la contrapposizione con l’Illuminismo sono la storia e
la natura. In età illuministica era prevalso il meccanicismo
materialista e la sua visione del mondo come grande macchina costituita
da singoli ingranaggi, per cui a prevalere sul tutto erano appunto
questi ultimi (in fisica gli atomi, in politica i singoli individui);
questo modello appare sorpassato ai Romantici, i quali ad esso
preferiscono l’ organicismo , ossia la concezione secondo la quale a
contare non sono le singole parti (come era per gli Illuministi), ma il
tutto preso nel suo insieme. Era stato, ancora una volta, Kant ad
aprire spiragli verso questa prospettiva, quando, nella Critica del
Giudizio , aveva ammesso che un essere vivente, per quanto semplice
possa essere, non potrà mai essere spiegato fino in fondo dalle leggi
meccanicistiche. Se il meccanicismo, poi, tendeva a concepire come
macchina anche ciò che macchina non era (gli esseri viventi),
l’organicismo spinge nella direzione opposta, tendendo a concepire come
organismo anche ciò che organismo non è. La natura non è più, dunque,
una grande macchina che si muove secondo le leggi di Newton, bensì si
connota come enorme essere vivente, essa stessa riflesso di una qualche
spiritualità. E così, in campo letterario, viene esaltata la
corrispondenza dello stato interiore dell’uomo e della natura,
strettamente connessi tra loro. A questa interpretazione ha portato
l’idealismo: nel momento in cui la natura è filosoficamente dichiarata
prodotto del soggetto, Io capovolto, allora è evidente che anch’essa è
spirituale, basta saperlo coglierlo (e proprio qui sta la difficoltà):
a cogliere la verità riusciranno di più il poeta e l’artista che non lo
scienziato. La natura assume una coloritura spirituale e vitalistica:
in questo panorama, tornano in auge pensatori quali Giordano Bruno
(riscoperto da Schelling) e Spinoza, accomunati dalla concezione
panteista della natura.
Rispetto all’età razionalista e illuminista vi
è un radicale capovolgimento: la scienza stessa assume una nuova veste.
Se Cartesio, nella sua foga meccanicistica, era arrivato a interpretare
il cuore umano come un motore a scoppio, in età romantica la natura
diventa viva e divina, come l’avevano intesa Bruno e Spinoza. Gli
scienziati di quest’epoca (tra cui Volta), dunque, non si
interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli
scienziati del Seicento e del settecento) quanto di magnetismo e di
elettricismo, i campi meno facilmente riducibili alla meccanica,
aborrita in quanto emblema del meccanicismo. Il magnetismo e
l’elettricismo, poi, sono accomunati dal fatto che entrambi
suggeriscono una sorta di quella vitalità della natura ricercata dai
Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua capacità
di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e
animato. Si tende con insistenza a ricercare una polarità nella natura
che corrisponda a quella ravvisata da Fichte tra Io e non-Io, con la
pretesa di trovare una corrispondenza tra pluralità dell’attività
spirituale e pluralità della natura.
Gli interessi dei Romantici si
concentrano anche sulla storia , particolarmente cara anche agli
Illuministi: tuttavia, come nella concezione della natura, anche in
quella della storia vi sono differenze. Gli Illuministi guardavano alla
storia come storia degli errori umani del passato, nella convinzione
che vi fossero modi razionali e naturali per vivere e che nel passato
essi fossero stati compromessi da superstizioni e credenze: la storia
si configurava allora come la progressiva liberazione dell’uomo dalle
superstizioni e imperava la convinzione che nel passato stesse il male,
nel futuro il bene e che il presente altro non fosse se non una tappa
verso il bene. Sempre gli Illuministi vedevano come attore della storia
l’umanità, concepita però, sulla scia del modello meccanicistico, come
somma dei singoli individui e non come tutto organico. Per i Romantici
non è vero né che la storia sia una sfilza di errori a cui guardare per
non commetterli nuovamente né che l’umanità, l’attore della storia, sia
una pura e semplice somma di individui. Vige la convinzione che
l’attore della storia è uno solo e, in merito, Hegel parlerà di spirito
del mondo e dirà di averlo visto a cavallo quando scorgerà Napoleone.
L’attore della storia è qualcosa di più complesso rispetto alla
sommatoria degli individui, è lo spirito del mondo: la storia è dunque
governata non già dai singoli, bensì da un’entità superiore e su questi
presupposti fioriranno le interpretazioni provvidenzialistiche (ad
esempio, Manzoni ne I promessi sposi ).
Resta però da chiarire se tale
attore della storia sia trascendente o immanente: per i Cristiani sarà
trascendente, starà cioè al di là del mondo (e per Manzoni è così), per
molti altri sarà immanente, ovvero governerà la storia dell’umanità
dall’interno. Da questa concezione emerge la superiorità dello spirito
del mondo rispetto agli individui singoli (uomini) e collettivi
(stati), sebbene resti vero che gli Stati valgono più dei singoli (in
antitesi alla concezione meccanicistica). Per quel che riguarda la
religione e la politica, gli Illuministi erano convinti che vi fosse in
assoluto qualcosa di buono e di giusto (la religione naturale e lo
stato giusto) rispetto a cui le realtà storiche erano tentativi mal
riusciti: per lo più gli Illuministi erano deisti e consideravano le
religioni storiche come tentativo mal riuscito di riprodurre l’unica
vera religione, quella razionale, che dimostrava l’esistenza di Dio
ricorrendo esclusivamente alla ragione. Allo stesso modo vi era a loro
avviso un modello razionale di stato giusto che bisognava applicare
ugualmente in tutte le realtà. I Romantici, dal canto loro, sono del
parere che a contare sia solo l’unico attore della storia, che si
realizza sempre e soltanto attraverso gli individui: Hegel, ad esempio,
respingerà la distinzione tra religione applicata e religione ideale,
convinto che una religione è quella che è nella sua applicazione
concreta, non ve n’è una ideale. Sempre Hegel parla di spirito del
mondo ma anche di spirito del popolo , che sono poi la stessa cosa:
infatti lo spirito del mondo, di volta in volta, si realizza in un
determinato spirito del popolo. All’epoca di Pericle lo spirito del
popolo greco era l’incarnazione dello spirito del mondo, come
Napoleone, a suo tempo, era l’incarnazione dello spirito del mondo.
Tutto questo mette in evidenza che non può esservi uno spirito del
mondo ideale, staccato dalla realtà. Dunque la religione esiste sempre
e solo nelle singole realizzazioni storiche , sicchè non ha senso
alcuno parlare di Cristianesimo ideale a sottolineare la distinzione
tra la teoria del Cristianesimo e la sua concreta applicazione: il
Cristianesimo è quello che è e che è stato nella prassi, nella sua
applicazione. Lo stesso vale anche per gli individui: Napoleone ha
incarnato in quel preciso momento lo spirito del mondo; esso era tutto
lì, in Napoleone.
Se ogni popolo rappresenta in un dato momento lo
spirito del mondo, ciò significa che quel che la Grecia ha fatto l’ha
fatto per se stessa ma soprattutto per lo spirito del mondo intero.
Ecco perché in età romantica affiora l’idea che i popoli abbiano una
missione: Mazzini credeva di poter riconoscere una missione
dell’Italia, investita di valore universale. La tendenza di Mazzini era
democratica e tale sarà anche quella di Fichte e di Schelling, mentre
quella di Hegel sarà più aggressiva e poggerà sulla convinzione che il
popolo che incarna lo spirito del mondo ha anche il compito di
schiacciare gli altri popoli. Se gli Illuministi non nutrivano grande
simpatia verso il passato, l’atteggiamento dei Romantici oscilla tra
due diverse posizioni, aventi corollari politici differenti (il che
spiega, tra l’altro, perché potevano essere romantici sia i
progressisti sia i reazionari).
Vi furono pensatori che provarono
esplicita nostalgia verso il passato : in un’epoca in cui regna
l’organicismo, è normale che si guardi con simpatia a quelle epoche in
cui sono nate le collettività, i popoli, nella fatti specie al
medioevo, che torna così in auge dopo la svalutazione rinascimentale e
illuministica. Il medioevo gode delle simpatie di molti Romantici un
po’ perché è l’epoca in cui son nati i popoli e le nazioni, un po’
perché la società stessa era vissuta come un tutto organico e non come
un luogo in cui gli egoismi personali trovavano equilibri (come era la
società illuministica), e un po’ anche perché i più reazionari
guardavano con simpatia e rimpianto al feudalesimo medievale, ormai
definitivamente scalzato dalla Rivoluzione Francese.
Ci furono anche
Romantici che ebbero un atteggiamento progressista e talvolta
rivoluzionario nei confronti del passato : in un’epoca in cui è sempre
più sentita l’idea di nazione, si guarda al passato medievale in cui le
nazioni eran nate e c’è volontà di far parte di una nazione in chiave
progressista, spesso dandosi alle rivoluzioni (il Risorgimento). Una
dimensione rivoluzionaria è anche presente sul piano psicologico: non
potendo essere per molti soddisfatto il naturale desiderio di
raggiungere l’infinito, ci si sente spiazzati nella realtà circostante
e ci si ribella. In questa prospettiva, possiamo citare ancora Le
ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo: vi si trova il tema
dell’esilio politico ed esistenziale al tempo stesso. Il protagonista,
Jacopo Ortis, aspira all’Assoluto ma è relegato a realtà piuttosto
modeste, sicchè opta per la rivolta e si toglie la vita. Si può essere
progressisti anche per altra via, in modo connesso all’organicismo: se
ammettiamo, come fa Hegel, l’esistenza di uno spirito del mondo,
finiremo inevitabilmente per applicare un modello antropomorfo della
storia , ovvero concepiremo le fasi storiche compiute dallo spirito del
mondo come la vita di un individuo, caratterizzata da una nascita, da
una crescita e da una morte.
Non solo: la storia dell’individuo può
anche essere vista in chiave finalistica (come faceva Aristotele) e ciò
influirà sull’educazione che si impartirà ai bambini. Infatti, in
chiave finalistica il bambino viene concepito in vista dell’uomo,
cosicchè, propriamente, ad avere un valore è solo l’uomo compiuto. Ma
se la storia può essere vista come la vita di una persona e se la vita
di una persona è vista finalisticamente, allora anche la storia può
essere vista finalisticamente. E proprio per questo la maggior parte
dei Romantici non nega che vi sia finalismo nella storia : Hegel è
convinto che vi sia un fine ultimo immanente ed intrinseco dell’umanità
generale, presente embrionalmente fin dagli albori della storia e
destinato ad essere, prima o poi, realizzato. A contare, però, in
questa prospettiva, così come nella vita finalisticamente intesa non è
il bambino ma l’uomo, dovrebbe essere il futuro, recante la
realizzazione della finalità, e il passato dovrebbe avere minor valore,
come credevano gli Illuministi.
E invece i Romantici vivono nella
convinzione che tutte le tappe della storia siano importanti: Hegel,
non a caso, dirà che il vero è l’intero , a sottolineare che la verità
c’è solo alla fine e risiede nella storia presa nella sua interezza.
Certo, anche per Hegel e per altri Romantici come per gli Illuministi
la situazione storica attuale è migliore rispetto alle precedenti, che
però, seppur inferiori, non sono errori bensì sono tutte tappe
necessarie, gestite provvidenzialmente dallo spirito del mondo. Ecco
perché ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘ (Hegel): anche le
guerre, le rivoluzioni, le violenze e tutte le altre cose negative sono
positive perché estrinsecazione necessaria e provvidenziale dello
spirito del mondo; non ci sono errori nella storia perché tutto rientra
nella finalità. Proprio per questo motivo in età romantica pullulano i
romanzi storici, in cui gli smarrimenti del protagonista sono necessari
e giusti. Questa concezione hegeliana è per alcuni versi progressista
(perché legge la storia come processo che tende verso un fine), per
altri conservatrice (ciò che è successo e che succede è sempre giusto
perché tappa necessaria dell’umanità: non ha senso essere
rivoluzionari), ma non è mai reazionaria (non ha senso guardare con
nostalgia al passato). Ecco che affiora un’altra diversità: per gli
Illuministi il progresso non andava verso un fine retto da un attore
divino e a farlo erano i singoli e non l'umanità come tutto organico.
Ad aprire la strada al Romanticismo è lo Sturm Und Drang, una forma di
proto-romanticismo estremistico, che spesso sfiora il titanismo:
l’individuo si innalza da solo contro la realtà. Ed è nello Sturm Und
Drang che affiora per la prima volta il panteismo, l’identificazione
della natura con Dio. Il processo che porta al panteismo prende il via
con Fichte: spiritualizzata la natura, il passaggio all’identificazione
con Dio è dietro all’angolo. In età romantica fioriscono dunque
principalmente due atteggiamenti, il panteismo e il fideismo; resta
escluso il deismo, che troppo puzzava di Illuminismo. Il panteismo
troverà in Goethe uno dei suoi massimi esponenti e sarà caratterizzato
dall’idea che a reggere la storia sia uno spirito immanente,
all’interno del mondo. Il fideismo troverà invece in Jacobi e Hamann i
suoi baluardi e rivendicherà la priorità della fede su tutto, nella
convinzione che non vi sia altro strumento per entrare in contatto con
l’assoluto. E’ bene ricordare la vivace polemica sul panteismo che
nacque in età romantica: si rinvengono dei documenti in cui il filosofo
illuminista Lessing confessava di essersi convertito allo spinozismo.
Da qui scaturisce il dibattito, che segna, tra l’altro, il ricomparire
di Spinoza sulla scena filosofica, dopo circa un secolo di assenza per
via del suo presunto ateismo. Ci sarà chi si schiererà al fianco di
Spinoza e chi lo criticherà, ma, è interessante, tutti ne
riconosceranno la grandezza e l’importanza. Chi vedrà in lui un puro e
semplice meccanicista lo criticherà, ma chi scorgerà in lui un grande
panteista (Goethe) come fu Giordano Bruno lo apprezzerà.
Con il
filosofo HERDER e con HAMANN si stabilisce un’indisgiungibile
connessione tra ragione e linguaggio. Hamann, in Metacritica del
pluralismo della ragione (1784), critica la presunta purezza della
ragione e finisce, come Herder, per sostenere l’inesistenza della
ragion pura. Come lo spirito del mondo esiste sempre e solo incarnato,
allo stesso modo non esiste una ragione che si incarna in singole
manifestazioni linguistiche. Non è vero che c’è una ragione pura che
effettua il ragionamento e poi esso viene meccanicamente tradotto in
Italiano, in Francese e in Spagnolo. Parlare in una lingua significa,
al contrario, pensare in una maniera. La ragione è, cioè, sempre calata
nei suoi contenuti, proprio come la religione. E’ bene accennare a due
vocaboli tipicamente romantici ed hegeliani, con significati diversi
rispetto a quelli che siamo soliti attribuire noi : astratto (dal
latino abstrahere ) significa ‘tirato via’, concreto (dal latino
concresco ) significa ‘cresciuto insieme’. Saranno astratte cose
concepite separatamente le une dalle altre; concrete saranno invece
cose concepite le une in relazione alle altre. Ora, la ragione non
esista mai separatamente dal linguaggio ed è dunque concreta, ovvero è
concepita in relazione al linguaggio poiché è già operante in esso: '
senza il linguaggio l'uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il
linguaggio ' . La ragione kantiana era astratta, poiché concepita
scevra da legami con il resto. In questa prospettiva, il meccanicismo è
astratto (i singoli pezzi sono concepiti separatamente) mentre
l’organicismo è concreto (ogni pezzo non è concepibile se non in
riferimento a tutti gli altri e, soprattutto, al tutto). E'
interessante notare che, accanto ad una posizione romantica in senso
stretto, vi è anche, ad essa contrapposta, una posizione classicista
che muove critiche formali al Romanticismo. Ad aderire a tale corrente
di pensiero fu Goethe stesso, distaccatosi dallo Sturm Und drang e dal
Riomanticismo, come anche, sul versante italiano, Foscolo.
Tuttavia non
è del tutto corretto scorgere una netta contrapposizione tra
classicismo e Romanticismo, come se non avessero aspetti comuni.
Infatti, se il classicismo guarda con grande simpatia al mondo
classico, anche i Romantici, seppur in una maniera tutta loro,
apprezzeranno il mondo della classicità. La figura di GOETHE è
interessante perchè segna il passaggio dai movimenti culturali più
disparati, partendo dallo Sturm Und Drang, passando per il Romanticismo
e approdando al neoclassicismo. Molto interessante è la sua filosofia
della natura, poichè rivela la piena adesione ai modelli organicisti
allora in auge. Goethe spiega che tutte le espressioni della natura
sono variazioni di un unico prototipo originario, una pianta ( Urplanz
) da cui tutti i vegetali derivano. E' una concezione tipicamente
romantica poichè rappresenta uno dei tanti tentativi di eliminare ogni
dualismo, nella convinzione che tutto sia riconducibile ad un unico
principio: con Fichte e l'idealismo si è superata la contrapposizione
soggetto/oggetto, con il panteismo quella natura/Dio e Goethe,
panteista convinto, tenta addirittura di ricondurre ogni vegetale ad
una pianta originaria. Goethe, fra le altre cose, scrive anche un
opuscolo sulla teoria dei colori, in cui contesta l'interpretazione
newtoniana secondo la quale i colori sono tanti e, se mescolati, danno
la luce bianca: ad essa contrappone la teoria secondo la quale,
viceversa, all'origine vi è la luce bianca, vista non come il risultato
di una composizione; al contrario, sono i colori che derivano dalla
scomposizione di essa. Sembra una diatriba puramente scientifica, ma in
realtà riveste un ruolo importantissimo in ambito filosofico: si tratta
infatti del sistema meccanicistico (Newton), secondo cui a contare
effettivamente sono i singoli (i colori), contrapposto a quello
organicistico (Goethe), secondo cui il parziale, dotato di esistenza
depotenziata, è mera manifestazione particolare della totalità.
Nel
contesto classicista si inquadra perfettamente anche SCHILLER , che
elabora il concetto di anima bella , riprendendo un atteggiamento
grecizzante verso la morale. Noi siamo abituati all'idea che un'anima
possa essere buona o cattiva, ma Schiller asserisce che può anche
essere bella. Questa sua presa di posizione è riconducibile ad un una
netta contestazione della morale kantiana all'epoca imperante, secondo
la quale non poteva essere moralmente valutata la bontà naturale. Una
persona a cui venga spontaneo essere buono, secondo Kant, non è
moralmente valutabile, dal momento che non risponde alla legge morale
ma all'istinto. Nell'ottica kantiana è invece passibile di giudizio
morale chi, in contrasto alla propria natura di essere fisico che tende
alle passioni, si rivolge alla parte di sè razionale e in base a ciò
sceglie, magari contrapponendosi alla propria natura. Schiller non è
affatto d'accordo e, proprio per questo, introduce il concetto di anima
bella, alludendo a quelle anime che aderiscono spontaneamente al dovere
morale, senza doversi sforzare. E' un'anima 'bella' nel senso che,
nella terminologia kantiana, presenta un'armonia spontanea, priva di
costrizioni. Da qui scaturisce la convinzione schilleriana che per
creare un'anima bella sia indispensabile un'educazione di tipo
estetico: l'etica, cioè, viene vissuta secondo un'interpretazione
estetica e in un tale ambito trova un suo spazio anche il gioco,
peraltro già rivalutato da Rousseau nell' Emilio . La valenza educativa
del gioco, spiega Schiller, risiede nel fatto che in esso si manifesta
la spontaneità, caratteristica peculiare dell'anima bella, e si
abbattono i dualismi, secondo la migliore tradizione romantica, dal
momento che nel gioco la spontaneità naturale è completamente fusa con
la dimensione intellettuale: intelletto e sensibilità, proprio come
nell'arte, fanno nel gioco un tutt'uno. Schiller contrappone poi,
anticipando il Leopardi, la poesia ingenua alla poesia sentimentale :
sarà ingenua quella poesia che fa appello alla natura, sentimentale
quella che si richiama alla cultura. La poesia antica (Omero) era
ingenua, mentre quella moderna è sentimentale: è tipicamente romantica
l'idea che in ogni aspetto vi sia sempre una prima fase spontanea e
immediata e che essa ad un certo punto vada irrimidiabilmente e
necessariamente perduta. Per quanto ci si sforzi di recuperarla, il
recupero non sarà più immediato, bensì sarà mediato, non vi sarà cioè
più quella situazione originaria ma ve ne sarà una nuova. Ciononostante
il recupero è necessario perchè non potrebbe non avvenire ed è anche
positivo perchè, sebbene certo Romanticismo esalti la spontaneità e
l'intuizione, vi sono anche Romantici convinti che lo smmarrimento e la
mediazione siano fattori positivi, in quanto si instaura un processo di
arricchimento che porta ad avere di più di quanto si avesse all'inizio.
La storia stessa, come abbiamo visto, è per i Romantici di stampo
finalistico: tutte le epoche hanno la loro dignità, anche se il pieno
sviluppo del valore è nell'età adulta. Allo stesso modo, il recupero
del punto di partenza assume più valore rispetto al punto di partenza
stesso perchè arricchisce . Non a caso, in ambito musicale, le sinfonie
dell'età romantica cominciano spesso con un motivo appena accennato,
che viene poi perso per alcuni movimenti per poi ricomparire sul
finale, arricchito rispetto all'inizio: è una riproduzione della
filosofia romantico-hegeliana, secondo la quale vi è una dimensione
originaria che viene smarrita (il mondo classico) per poi venire
riacquisita a seguito di un processo di recupero che l'ha perfino
arricchita. Secondo la prospettiva di noi moderni, un vaso rotto e
reincollato è peggiore rispetto a prima che si rompesse; secondo molti
Romantici (Hegel compreso), invece, è migliore perchè arricchito. Vi
saranno Romantici ottimisti che diranno che il mondo classico è
perfetto e deve e può essere imitato; ci saranno Romantici pessimisti
che, pur riconoscendo la grandezza del mondo classico e la necessità di
imitarlo, sosterranno che sia impossibile farlo. Infine, vi sarà chi
dirà che il mondo classico è andato perduto e deve essere recuperato e
tale recupero lo arricchirà perfino.
Del resto secondo i Romantici vale
più la virtù dell'innocenza: quest'ultima, infatti, altro non è se non
l'ingenuità primordiale, il non aver ancora avuto l'opportunità di
sbagliare e, non a caso, il suo rappresentante è Adamo che, non appena
ne avrà l'occasione, sbaglierà. La virtù, invece, permette di
recuperare l'innocenza, ma è anche stata intaccata dall'esperienza
negativa: si tratta dunque di un recupero mediato del punto di partenza
partendo però non dall'ingenuità primordiale, ma da esperienze negative
che si trasformano in positive ( ogni negativo è anche positivo ). E lo
stesso vale per il recupero del mondo classico.
A cavallo tra
Romanticismo e classicismo, tra poesia e filosofia troviamo la
personalità di HÖLDERLIN . Tipicamente romantica è la sua concezione
del poeta come vate , nata dalla convinzione che più il poeta del
filosofo possa cogliere a fondo l'intima essenza della realtà, il
panteismo e, soprattutto, la tragicità della realtà, nella convinzione
che il positivo possa nascere solo dallo smarrimento totale: è nei
momenti più tragici, afferma Hölderlin, che può nascere una speranza di
redenzione. Un concetto romantico che si afferma sempre più è quello
dell' ironia , della dissimulazione, l'autodimnuirsi come faceva
Socrate di fronte ai suoi interlocutori (ironia socratica): l'ironia è
il tipico atteggiamento dell'uomo romantico che, presa coscienza del
carattere non infinito delle cose in cui vive e che lui stesso crea, si
accorge della propria limitatezza.
Più poeta che filosofo, come
Hölderlin, è anche NOVALIS , panteista ed estimatore del Medioevo. Uno
dei suoi contributi più rilevanti sul versante della filosofia
romantica è senz'altro il cosiddetto idealismo magico , secondo il
quale il soggetto produce l'oggetto ma non in modo inconscio (come
sosteneva Fichte), bensì in modo conscio. Novalis, e in questo si
capisce come sia più poeta che filosofo, non si fa alcuno scrupolo ad
affermare che il mondo è una produzione conscia del soggetto, in
particolare del poeta, inteso quindi come produttore di mondi.
Inquadrato nel contesto romantico è pure SCHLEIERMACHER , che vede la
religione come sentimento di dipendenza verso l'infinito da parte del
finito (l'uomo). La definisce anche sentimento trascendentale , a
sottolineare che si tratta di un sentimento costitutivo della natura
umana, un sentimento che si manifesta in tutti gli uomini. Egli
elabora, inoltre, il concetto di ermeneutica, ovvero la teoria generale
della comprensione: nel tradurre i testi di Platone, infatti, elaborò
una chiave interpretativa (che resse per 150 anni circa) secondo la
quale si doveva interpretare Platone basandosi esclusivamente sugli
scritti (secondo il motto luterano del sola scriptura ), sebbene il
filosofo greco avesse dato maggior peso alla parte orale. E fu proprio
dall'interpretazione di Platone che a Schleiermacher balenò l'idea
dell'ermeneutica, già peraltro attuata dai Padri della Chiesa
nell'interpretazione dei Testi Sacri: essi tenevano infatti conto del
fatto che la Bibbia, nel suo complesso, è data dalla sommatoria dei
significati dei singoli libri e che, al tempo stesso, si devono leggere
i singoli libri guardando al tutto, con la conseguenza che, se si
esamina la questione in termini meccanicistici, ci si trova di fronte
ad un apparente circolo vizioso. In realtà, quando esamino una parte
della Bibbia, un senso generale ce l'ho già e leggendo i singoli libri
non faccio altro che approfondire lo studio del tutto. L'ermeneutica è
applicabile, oltre che all'interpretazione dei testi, anche
all'interpretazione della realtà, poichè mi permette di comprendere
meglio le singole parti conoscendo in termini generali il tutto e, al
tempo stesso, mi consente di approfondire lo studio del tutto
esaminando le singole parti. E' un processo di forte sapore romantico,
che rientra a tutti gli effetti nell'organicismo in quanto, in fin dei
conti, a contare non sono le singole parti, ma il tutto.